La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di prevenzione ed armi 9788834847268

Il volume La legislazione penale in materia di criminalità  organizzata, misure di prevenzione ed armi", a cura di

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Italian Pages XXVI,737 [767] Year 2015

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COVER
Quartino
Presentazione per il Trattato teorico-pratico di diritto penale
Indice sommario
Autori
Opere di carattere generale
Parte Prima - Reati, circostanze aggravanti e sanzioni in materia di criminalità organizzata
Capitolo I - Il trasferimento fraudolento di valori
(art. 12-quinquies d.l. n. 306/1992)
Capitolo II - La disciplina sanzionatoria
della normativa antiriciclaggio
Capitolo III - L’aggravante della “ambientazione
mafiosa” (art. 7 d.l. 13.5.1991, n. 152)
Capitolo IV - L'aggravante della transnazionalità
Capitolo V - La confisca per sproporzione
Parte Seconda - Non punibilità e premi
in materia di criminalità organizzata
Capitolo I - Le operazioni sotto coipertura
Capitolo II - L’attenuante della dissociazione attuosa
(art. 8 d.l. n. 152/1991)
Parte Terza - Il trattamento penitenziario della criminalità organizzata
Capitolo I - I benefici penitenziari e la politica del c.d. doppio binario
Capitolo II - Il regime carcerario di rigore
per i detenuti di criminalità organizzata
Parte Quarta - Le misure di prevenzione. Profili di diritto sostanziale
Capitolo I - La prevenzione ante delictum: lineamenti generali
Capitolo II - Le singole misure di prevenzione
personali e patrimoniali
Sommario
Capitolo III - Circostanze aggravanti
Capitolo IV - Violazioni al Codice della strada
Capitolo V - Reati del pubblico ufficiale
Capitolo VI - Violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale
Capitolo VII - Altre sanzioni penali
Parte Quinta - Il procedimento
giurisdizionale
per l’applicazione
delle misure di prevenzione
Capitolo I - I soggetti del procedimento di prevenzione
Capitolo II - Il giudizio di primo grado
Capitolo III - Il sistema delle impugnazioni
Capitolo IV - La fase esecutiva
Parte Sesta - La tutela dei terzi ed i rapporti con le procedure concorsuali
Capitolo I - Misure di prevenzione, tutela dei terzi e procedure concorsuali
Parte Settima - La disciplina penale in materia di armi, esplosivi e munizioni
Capitolo I - Le armi e la loro classificazione
Capitolo II - Le condotte criminose e le sanzioni
Indice analitico
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La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di prevenzione ed armi
 9788834847268

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XII

LA LEGISLAZIONE PENALE IN MATERIA DI CRIMINALITà ORGANIZZATA, MISURE DI PREVENZIONE ED ARMI a cura di VINCENZO MAIELLO

G. Giappichelli Editore – Torino

© Copyright 2015 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-348-4726-8

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

Presentazione per il Trattato teorico-pratico di diritto penale

Il Trattato teorico-pratico di diritto penale che qui presentiamo, frutto dell’impegno di un gruppo di studiosi – universitari, magistrati, avvocati – tutti di riconosciuta valentia scientifica, ha l’ambizione di collocarsi in posizione autonoma nel vasto panorama delle opere di approfondimento sistematico della nostra disciplina. La cifra distintiva risiede nell’impostazione – appunto, teoricopratica – con la quale le diverse tematiche sono affrontate. L’obiettivo che ci ha ispirato, infatti, è stato di esplicitare la correlazione esistente tra i problemi applicativi (la prassi) del diritto penale e le ragioni (la teoria) alla base delle relative soluzioni; il tutto senza rinunciare al rigore scientifico nell’elaborazione ermeneutica dei problemi, sulla scorta del motto kantiano del «ciò che è vero in teoria non può che essere vero anche in pratica» (e viceversa). Nel rivolgersi ai professionisti quali propri destinatari naturali o quanto meno principali, il Trattato orienta volutamente tale dialettica verso il polo della prassi: nell’analisi dei singoli istituti o fattispecie incriminatrici, la bussola è costituita cioè dalle problematiche che emergono nell’applicazione della norma penale, con una conseguente selezione del novero delle riflessioni teoriche rilevanti da questo particolare punto di vista. L’elemento “speculativo” nel Trattato è occasionato e commisurato alle frizioni sollevate dalla law in action senza assumere cadenze puramente dogmatiche: la riflessione teoretica pertinente è infatti qui soltanto quella che si pone in aderenza al “diritto (penale) vivente”, perché indaga le aporie e i punti di torsione segnalati in via prioritaria dalla pratica giurisprudenziale chiarendone la genesi e le ipotesi di risoluzione. Senza trascurare, ovviamente, l’esigenza di fornire un quadro il più possibile chiaro dello “stato dell’arte” e degli esiti ermeneutici consolidati in ogni singolo comparto del territorio penalistico intra codicem nonché pertinente ad alcune normative complementari di particolare importanza. La prospettiva seguita nel Trattato trae dunque origine da una concezione dinamica dell’esperienza giuridico-penale: il diritto penale ha la propria trama nel disposto legislativo, ma diviene tessuto solo con l’apporto della prassi che

VI

Presentazione

attualizza quel dato normativo nel caso concreto e alla quale devono (dovrebbero) dare sostanza pariteticamente tutte le figure del processo (il giudice, il pubblico ministero, la difesa). Ed è proprio di tale esperienza giuridico-penale, intesa in senso dinamico, che il Trattato vuole fornire un vademecum, veicolando il significato che la norma penale (di parte generale o speciale) assume in sede giurisprudenziale. Uno dei possibili antidoti alla crisi della legalità penale tradizionale, determinata dalla crescente complessità sociale, è infatti rappresentato da una maggiore consapevolezza critica delle ragioni e delle regole operative che sovrintendono alla formazione degli orientamenti delle Corti: simile consapevolezza rappresenta una pre-condizione per attuare una maggiore partecipazione e un consapevole controllo rispetto ai sempre più articolati processi di produzione del diritto anche penale. Nella sua struttura, il Trattato contiene una disamina completa della parte generale del diritto penale e l’analisi dei settori della parte speciale (codicistica e complementare) maggiormente significativi nella prassi. Ed in attuazione dell’impostazione teorico-pratica, l’illustrazione degli istituti e delle diverse tematiche valorizza l’apporto della giurisprudenza e il dialogo tra questa e la dottrina, tralasciando i filoni teorici che si siano rivelati lontani dalla dimensione applicativa della norma penale. Francesco Palazzo

Carlo Enrico Paliero

Indice sommario

pag. Autori

XXIII

Opere di carattere generale

XXV

Parte Prima Reati, circostanze aggravanti e sanzioni in materia di criminalità organizzata Capitolo I Il trasferimento fraudolento di valori (art. 12-quinquies d.l. n. 306/1992) (M. Pellegrino) 1. Origine ed evoluzione della fattispecie 2. La ratio dell’incriminazione ed il bene giuridico tutelato 2.1. Il soggetto attivo 3. La struttura del fatto tipico 3.1. La fattispecie oggettiva della tipicità 3.2. Il dolo specifico della fattispecie tra dimensione soggettiva della tipicità e sua caratterizzazione offensiva 4. La natura giuridica 4.1. Il problema della natura istantanea o permanente del delitto 4.2. La soluzione delle Sezioni Unite in favore della natura istantanea con effetti permanenti 5. Il tentativo 6. Il concorso di reati

3 4 6 6 6 10 15 15 16 17 17

VIII

Indice sommario

pag. 7. La responsabilità del fittizio intestatario e la problematica del reato plurisoggettivo improprio Bibliografia

21 28

Capitolo II La disciplina sanzionatoria della normativa antiriciclaggio (G. Gentile) 1. Introduzione 2. Il d.lgs. n. 231/2007: profili generali 2.1. La definizione di riciclaggio 2.2. Tecniche di incriminazione e bene giuridico tutelato 2.3. Le clausole di riserva 3. Violazione degli obblighi di adeguata verifica 3.1. Omissioni o falsità attinenti al titolare effettivo o alla natura o scopo previsto dal rapporto continuativo 3.2. Banche di comodo e “black list” antiriciclaggio 4. Violazioni degli obblighi di registrazione 4.1. Violazione degli obblighi con mezzi fraudolenti 4.2. Gli illeciti amministrativi 4.3. La confisca 5. Violazioni degli obblighi di segnalazione 5.1. L’esenzione prevista per i professionisti 5.2. Il mancato rispetto del provvedimento di sospensione 5.3. La tutela penale della segretezza delle comunicazioni 6. Limitazioni all’uso del contante e dei titoli al portatore 7. La tutela penale delle carte di credito o di pagamento 7.1. L’oggetto materiale del reato 7.2. Le condotte vietate 7.3. L’elemento psicologico 8. Violazioni in materia di vigilanza e comunicazioni 8.1. Comunicazione delle infrazioni previste dall’art. 49 8.2. Obblighi informativi nei confronti della UIF 9. La responsabilità degli enti 9.1. La responsabilità solidale per gli illeciti amministrativi Bibliografia

31 32 33 35 37 38 40 42 43 45 45 46 47 50 51 51 52 54 55 56 59 59 61 61 62 63 65

IX

Indice sommario

pag. Capitolo III L’aggravante della “ambientazione mafiosa” (art. 7 d.l. 13.5.1991, n. 152) (L. Della Ragione) 1. L’aggravante del “metodo mafioso”: profili generali 2. L’ambito applicativo: la difficile ricerca di un confine con il delitto di associazione di stampo mafioso 3. La natura giuridica dell’aggravante 4. La ratio legis 5. La compatibilità dell’art. 7 con il reato associativo 6. La fattispecie soggettiva dell’agevolazione mafiosa e la necessità di un suo arricchimento sotto il profilo offensivo-contenutistico 7. I rapporti con il “concorso esterno” 8. La natura astratta o concreta del riferimento ai “delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo”, quale limite all’applicabilità della circostanza 9. Fattispecie problematiche 10. Profili processuali: cenni 11. L’illegittimità costituzionale dell’art. 275 comma 3 c.p.p. nella sentenza n. 57/2013 Bibliografia

69 71 77 78 79 80 82 83 83 87 88 90

Capitolo IV L’aggravante della transnazionalità (L. Della Ragione) 1. L’evoluzione in chiave transnazionale dei reati associativi 2. L’organizzazione del crimine transnazionale tra economia legale ed economia criminale: prassi giudiziaria ed interventi del legislatore 3. La struttura della Convenzione di Palermo e la nozione di gruppo criminale organizzato transnazionale 4. La legge n. 146/2006 nel contesto del diritto penale sovranazionale 5. La definizione normativa di reato transnazionale 6. Il coinvolgimento di un gruppo criminale organizzato e la sua compatibilità con la “partecipazione associativa” e con il “concorso esterno” in associazione mafiosa 7. I criteri topografici del reato transnazionale 8. L’aggravante della transnazionalità 8.1. La struttura dell’aggravante 8.2. La controversa compatibilità con il delitto di cui all’art. 416 c.p. 8.3. La soluzione del contrasto nella sentenza del 2013 delle Sezioni Unite 9. La confisca

93 94 95 97 99

100 102 105 105 106 106 108

X

Indice sommario

pag. 10. Cenni sulla responsabilità delle persone giuridiche Bibliografia

115 116

Capitolo V La confisca per sproporzione (R. Cantone) 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

L’introduzione dell’art. 12-sexies d.l. n. 306/1992 I persistenti dubbi sulla legittimità costituzionale I presupposti e l’oggetto La sentenza di condanna I reati matrice; la non sempre ragionevole tendenza estensiva del legislatore La disponibilità diretta e/o indiretta del bene Il rapporto fra beni da confiscare e reato; la non necessità di un “nesso pertinenziale” 8. L’intervento delle Sezioni Unite; il significato della “sproporzione” 9. La mancata giustificazione della lecita provenienza dei beni 10. Alcune questioni controverse su “proporzione” e “ingiustificata disponibilità” 11. La natura della misura ablatoria 12. Il procedimento per l’applicazione 13. La tutela del terzo estraneo 14. Il sequestro preventivo 15. I rapporti con le altre forme di confisca penale 16. I rapporti con il sequestro/confisca di prevenzione 17. La gestione dei beni sequestrati e confiscati 18. Osservazioni conclusive Bibliografia

119 121 122 123 125 128 130 132 134 135 137 140 142 144 146 149 151 156 157

Parte Seconda Non punibilità e premi in materia di criminalità organizzata Capitolo I Le operazioni sotto copertura (G. Amarelli) 1. Origine ed evoluzione della disciplina dell’agente provocatore 2. La legge n. 146/2006 ed il primo tentativo di riordino della normativa 3. La legge n. 136/2010 e la definitiva (?) unificazione della disciplina

163 166 166

Indice sommario

XI pag.

4. La legge n. 124/2007 e la prima, ragionevole, deroga alla normativa generale 4.1. Il d.l. n. 76/2012 e la nuova, discutibile, ipotesi speciale di operazioni sotto copertura in materia di giochi 5. L’influenza della giurisprudenza della Corte EDU sulla distinzione tra agente infiltrato ed agente provocatore 5.1. Il nuovo scenario concettuale: dall’agente provocatore all’agente infiltrato 6. La controversa natura giuridica 6.1. La fine di ogni dubbio: la esplicita qualificazione normativa come causa di giustificazione 6.2. I residui margini di applicazione delle altre cause di giustificazione 7. I requisiti di liceità della “procedura sotto copertura”: a) i reati per i quali può essere disposta 7.1. b) I soggetti legittimati 7.1.1. Gli agenti di polizia giudiziaria, le persone interposte e gli ausiliari 7.2. c) Le attività scriminate 7.2.1. Le altre attività autorizzate 7.2.2. In particolare: a) per i reati in materia di stupefacenti 7.2.3. (Segue) b) per il sequestro a scopo di estorsione 8. La non punibilità del provocato 8.1. La attenuazione della pena per il provocato 9. Profili processuali Bibliografia

168 170 171 174 175 176 177 179 181 183 184 185 186 186 187 190 191 194

Capitolo II L’attenuante della dissociazione attuosa (art. 8 d.l. n. 152/1991) (G. Amarelli) 1. Origini ed evoluzione della legislazione premiale in materia di criminalità organizzata 1.1. Le recenti fattispecie premiali introdotte per contrastare altre associazioni criminali qualificate 2. Rilievi critici generali nei confronti della collaborazione processuale 3. Le diverse forme di pentitismo: dissociazione; collaborazione processuale; collaborazione di giustizia 4. L’art. 8 d.l. n. 152/1991 e l’introduzione di forme di collaborazione processuale nella legislazione antimafia 5. La legge n. 45/2001: una riforma prevalentemente processuale 6. L’articolata struttura della attenuante in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso. I soggetti

197 200 203 205 207 209 211

XII

Indice sommario

pag. 7. Il presupposto oggettivo: la commissione di uno dei reati elencati 7.1. I controversi presupposti impliciti: a) la precedente contestazione dell’aggravante ex art. 7 d.l. n. 152/1991 7.2. (Segue) b) L’ammissione al programma di protezione 8. Gli elementi costitutivi: l’insufficienza della mera dissociazione e l’effettiva utilità oggettiva del contributo del collaboratore di giustizia 8.1. L’irrilevanza dei profili soggettivi 8.2. Il risultato della dissociazione collaborativa 8.3. La decisività del contributo 8.4. I limiti cronologici per l’efficace collaborazione 9. La natura giuridica 10. Il rapporto con l’aggravante ex art. 7 d.l. n. 152/1991 11. Il rapporto con le attenuanti generiche 11.1. Il rapporto con l’attenuante speciale del sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione di cui all’art. 630 comma 5 c.p. 12. La controversa assoggettabilità dell’art. 8 d.l. n. 152/1991 al giudizio di bilanciamento 12.1. La recente soluzione negativa delle Sezioni Unite 2010 12.2. I criteri di calcolo della diminuente 13. Il rapporto con altre attenuanti simili. In particolare: con l’art. 74 comma 7 d.p.r. n. 309/1990 14. Il rapporto con le misure cautelari 15. Profili processuali: la procedura per la valutazione della collaborazione Bibliografia

213 214 216 217 219 220 223 224 225 227 228 228 229 230 231 232 234 235 236

Parte Terza Il trattamento penitenziario della criminalità organizzata Capitolo I I benefici penitenziari e la politica del c.d. doppio binario (V. Maffeo) 1. L’evoluzione storica della normativa da “doppio binario” 1.1. I poteri valutativi della magistratura di sorveglianza sulle condizioni per l’accesso ai benefici premiali 2. Le pronunce della Corte costituzionale: dalla collaborazione irrilevante alla collaborazione impossibile 2.1. I successivi interventi legislativi sul “doppio binario” penitenziario e lo stato attuale 3. I benefici penitenziari sottratti ai limiti e quelli comunque preclusi

241 246 248 251 255

XIII

Indice sommario

pag. 4. I caratteri della collaborazione 5. I collaboratori di giustizia Bibliografia

258 263 268

Capitolo II Il regime carcerario di rigore per i detenuti di criminalità organizzata (V. Maffeo) 1. La sospensione delle ordinarie regole di trattamento penitenziario: genesi e funzione 2. L’efficacia conformativa della giurisprudenza costituzionale 3. I destinatari e i presupposti di pericolosità del provvedimento 4. I poteri istruttori del Ministro della giustizia e i contenuti del decreto 5. Le condizioni per la proroga del regime di restrizione 6. I rimedi impugnatori. Il reclamo 6.1. (Segue) Il procedimento e i poteri del tribunale di sorveglianza 6.2. (Segue) Il ricorso per cassazione Bibliografia

269 272 274 278 283 287 289 293 295

Parte Quarta Le misure di prevenzione. Profili di diritto sostanziale Capitolo I La prevenzione ante delictum: lineamenti generali (V. Maiello) 1. Le misure di prevenzione nella dialettica “autorità” vs. “libertà” 2.1. Lineamenti della politica repubblicana in tema di misure di prevenzione. Dalle fattispecie di pericolosità ad ambientazione “sintomatico-soggettiva” al “tipo preventivo” 2.1.1. (Segue) Le leggi nn. 152/1975 e 327/1988: la fondazione della pericolosità sul modello dell’attentato e la scomparsa delle fattispecie calibrate sulla tipologia d’autore 2.2. L’introduzione della prevenzione patrimoniale. La legge n. 646/1982 2.3. Le recenti riforme del 2008-2009 e l’entrata in vigore del Codice delle leggi antimafia 2.4. La topografia del Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione

299

302

304 305 305 306

XIV

Indice sommario

pag. 3. Il problema della legittimità costituzionale della prevenzione personale 3.1. Le opinioni della dottrina 3.2. La giurisprudenza costituzionale 4. Misure di prevenzione patrimoniali e Costituzione 5. Il problema della legittimità convenzionale della prevenzione ante delictum 5.1. Misure di prevenzione e CEDU nelle interpretazioni della Corte EDU 5.2. Il problema della retroattività delle misure di prevenzione, con particolare riferimento alla confisca di prevenzione, nello specchio della CEDU 5.3. (Segue) … ed in quello del diritto interno 6. La rilevanza delle misure di prevenzione in taluni recenti documenti dell’Unione Europea Bibliografia

307 308 310 313 314 314

316 318 319 321

Capitolo II Le singole misure di prevenzione personali e patrimoniali (V. Maiello) 1. I destinatari delle misure di prevenzione personali 1.1. I soggetti genericamente pericolosi 2. La pericolosità qualificata: l’“indiziato di appartenere ad associazioni di stampo mafioso” 2.1. (Segue) Lo standard indiziario della nozione di appartenente ad associazione mafiosa 3. I soggetti indiziati di uno dei reati ex art. 51 comma 3-bis c.p.p. 4. I soggetti previsti dall’art. 4, lett. d), e) ed h) del Codice Antimafia 5. Le figure emergenti di “pericolosità semplice” nella fascia dei colletti bianchi: l’applicazione delle misure di prevenzione all’evasore fiscale 6. La fattispecie di pericolosità e il requisito dell’“ancoraggio” della pericolosità sociale agli elementi di fatto 6.1. L’attualità della pericolosità sociale 7. La sospensione dell’esecuzione della misura di prevenzione personale a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena dell’interessato. In particolare la sentenza costituzionale del 2.12.2013, n. 291 8. Le singole misure di prevenzione personali 8.1. L’avviso orale 8.2. Il foglio di via obbligatorio 8.3. La sorveglianza speciale di pubblica sicurezza 8.4. Il sistema preventivo in materia di accesso alle manifestazioni sportive (c.d. “D.a.s.p.o.”) 8.4.1. La sentenza della Corte EDU nel caso Ostendorf c. Germania 9. I destinatari della prevenzione patrimoniale 10. Le misure di prevenzione patrimoniali

323 325 327 329 330 332 335 338 341

343 345 346 349 353 357 364 367 370

XV

Indice sommario

pag. 10.1. La cauzione 10.2. L’applicazione provvisoria delle misure interdittive 10.3. Le misure interdittive obbligatorie 10.4. L’amministrazione giudiziaria dei beni personali 11. Le misure ablatorie 12. La confisca di prevenzione 12.1. La controversa natura giuridica: misura di sicurezza o sanzione penale? 13. Il regime dell’applicazione disgiunta delle misure di prevenzione personali e di quelle patrimoniali nello specchio della Costituzione e della CEDU 13.1. L’interpretazione “correttiva” proposta in tema di applicazione disgiunta “pura” 14. L’ipotesi di morte del proposto ed il problema della sua legittimità costituzionale 14.1. La sentenza costituzionale n. 21/2012 15. Il requisito della disponibilità ed appartenenza del bene 16. La connessione con attività illecita o di reimpiego. Il requisito della sproporzione 17. Il requisito della connessione temporale tra pericolosità soggettiva ed acquisizione patrimoniale 18. La confisca per equivalente 19. La confisca della cauzione 20. La confisca ex art. 34 comma 7 Codice delle leggi antimafia 21. L’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche. Bibliografia

370 372 374 379 381 381 382 383 384 386 387 389 392 395 397 402 402 403 404

Capitolo III Circostanze aggravanti (M. Fattore) 1. Circostanze aggravanti (art. 71) 2. Reati concernenti le armi e gli esplosivi (art. 72)

407 407

Capitolo IV Violazioni al codice della strada (M. Fattore) 1. 2. 3. 4.

Cenni storici e struttura della fattispecie Il bene giuridico tutelato Il soggetto attivo I presupposti della condotta 4.1. La sottoposizione, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale in atto

409 411 411 411 411

XVI

Indice sommario

pag. 4.2. La mancanza della patente 4.3. La negazione, sospensione o revoca della patente di guida 5. La condotta 6. L’elemento psicologico 7. Il concorso di persone nel reato 8. Il concorso di reati 9. La successione di leggi penali nel tempo Bibliografia

412 413 413 414 414 414 415 415

Capitolo V Reati del pubblico ufficiale (M. Fattore) 1. 2. 3. 4.

Cenni storici Il bene giuridico tutelato Il soggetto attivo I presupposti della condotta 4.1. L’applicazione, con provvedimento definitivo, di una misura di prevenzione personale. – L’applicazione provvisoria in corso di procedimento 4.2. Gli effetti di decadenza o sospensione nei rapporti con la P.A. – La comunicazione al pubblico ufficiale 5. La condotta omissiva (comma 1) 6. La condotta attiva (comma 2) 7. L’illecita conclusione di contratti (comma 3) 8. L’elemento psicologico 9. La successione di leggi penali nel tempo Bibliografia

417 418 419 419

419 419 420 421 421 422 422 422

Capitolo VI Violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale (M. Fattore) 1. 2. 3. 4. 5.

Cenni storici Il bene giuridico tutelato Il soggetto attivo La struttura della norma I presupposti della condotta 5.1. L’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza 5.2. Gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale

423 424 424 424 426 426 426

XVII

Indice sommario

pag. 5.2.1. Le prescrizioni di “genere” 5.2.2. Le prescrizioni specifiche 6. La condotta 7. L’elemento psicologico 8. Questioni di legittimità costituzionale 9. La successione di leggi penali nel tempo Bibliografia

426 427 429 429 429 430 430

Capitolo VII Altre sanzioni penali (M. Fattore) 1. La violazione delle autorizzazioni ad allontanarsi dal comune di residenza (art. 76 comma 1) 2. La violazione al divieto di possesso di strumenti, apparati, mezzi e programmi imposto con avviso orale del questore (art. 76 comma 2) 3. Le contravvenzioni al foglio di via obbligatorio (art. 76 comma 3) 4. La mancata ottemperanza all’ordine di deposito della cauzione (art. 76 comma 4) 5. L’elusione del provvedimento di amministrazione giudiziaria (art. 76 comma 5) 6. L’omissione delle comunicazioni per l’amministrazione giudiziaria (art. 76 comma 6) 7. L’omissione delle comunicazioni di variazioni patrimoniali (art. 76 comma 7) 8. Il divieto di propaganda elettorale (art. 76 commi 8 e 9) Bibliografia

431 434 436 440 443 443 445 451 452

Parte Quinta Il procedimento giurisdizionale per l’applicazione delle misure di prevenzione (a cura di A. De Caro) Capitolo I I soggetti del procedimento di prevenzione (A. Cappa) 1. 2. 3. 4.

Premessa Le misure di sicurezza personali: i soggetti (artt. 1 e 4 del Codice antimafia) I soggetti “attivi” della prevenzione personale (art. 5) Il giudice

455 456 459 460

XVIII

Indice sommario

pag. 5. Il difensore 6. I soggetti delle misure di prevenzione patrimoniali (art. 16) 7. Titolarità della proposta (art. 17) Bibliografia

463 465 467 468

Capitolo II Il giudizio di primo grado (A. De Caro) 1. Premessa: la natura giurisdizionale del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione 2. (Segue) Le disposizioni applicabili. Le fonti normative del procedimento di prevenzione 3. Il giudizio per l’applicazione di una misura di prevenzione: le valutazioni preliminari sull’ammissibilità della richiesta 4. (Segue) La fissazione dell’udienza di trattazione e la spedizione dell’avviso 5. Lo svolgimento dell’udienza e le modalità di realizzazione del contraddittorio: la regolare costituzione delle parti e le problematiche connesse alla partecipazione degli interessati; le questioni preliminari 6. La formazione della prova. Il diritto alla prova, le regole di giudizio e gli standard probatori 7. La decisione: requisiti 8. (Segue) Definitività della decisione e divieto del bis in idem. La correlazione con la proposta 9. I provvedimenti cautelari ed urgenti Bibliografia

471 476 480 483

488 495 502 505 506 508

Capitolo III Il sistema delle impugnazioni (G. Cecanese) 1. Introduzione 2. La disciplina generale 3. Il ricorso in appello 4. Ricorso in cassazione 5. La revisione e la revoca Bibliografia

511 514 520 523 528 531

XIX

Indice sommario

pag. Capitolo IV La fase esecutiva (C. De Caro) 1. 2. 3. 4.

Premessa Decorrenza e cessazione della misura della sorveglianza speciale Esecuzione differita della sorveglianza speciale Il regime delle autorizzazioni: l’allontanamento dal comune di residenza o dimora abituale 5. L’esecuzione delle misure patrimoniali 6. L’esecuzione del sequestro nel procedimento di prevenzione: recenti profili problematici 7. I termini del sequestro 8. Modifica e revoca delle misure di prevenzione 9. Revoca della confisca 10. Revocazione della confisca ex art. 28 del codice delle leggi antimafia: regime intertemporale ed applicabilità alle confische disposte prima dell’entrata in vigore del testo unico Bibliografia

533 535 539 541 543 545 552 555 558

564 569

Parte Sesta La tutela dei terzi ed i rapporti con le procedure concorsuali Capitolo I Misure di prevenzione, tutela dei terzi e procedure concorsuali (V. Maiello – L. Della Ragione) 1. La tutela dei diritti dei terzi prima del Codice antimafia 2. La disciplina del Codice antimafia 2.1. La tutela dei diritti di proprietà dei terzi 2.2. L’originaria tutela degli altri diritti dei terzi 2.2.1. La nuova tutela prevista dal Codice antimafia 2.3. Le condizioni richieste ex lege 2.4. Il limite della garanzia patrimoniale, il pagamento dei crediti prededucibili, il divieto di azioni esecutive e le altre disposizioni generali 2.5. L’accertamento dei diritti dei terzi 3. L’accertamento della buona fede del terzo 4. La tutela dei terzi rispetto a misure di prevenzione patrimoniali disposte prima dell’entrata in vigore del Codice antimafia 5. Rapporti tra misure di prevenzione e fallimento

575 577 577 578 579 580 581 583 585 587 591

XX

Indice sommario

pag. 5.1. L’assetto precedente il d.lgs. n. 159/2011 5.2. Le innovazioni del d.lgs. n. 159/2011: profili generali 5.3. (Segue) e normativa vigente Bibliografia

591 593 595 600

Parte Settima La disciplina penale in materia di armi, esplosivi e munizioni Capitolo I Le armi e la loro classificazione (L. Della Ragione) 1. Cenni introduttivi 1.1. Le linee del sistema amministrativo e penale di tutela. Il bene protetto 1.2. L’evoluzione normativa 1.3. Profili strutturali e problemi politico criminali dei reati in materia di armi 1.4. Il problema dell’elemento soggettivo nei reati concernenti le armi 2. Le diverse tipologie di armi 2.1. Classificazioni generali: armi proprie ed armi improprie 2.2. Le armi da guerra o tipo guerra 2.2.1. Le armi comuni da sparo 2.2.2. Le armi comuni da sparo per definizione 2.2.3. Le armi antiche, artistiche e rare di importanza storica 2.2.4. Le armi da sparo assimilate 2.2.5. La qualificazione della pistola semiautomatica cal. 9 parabellum 2.3. Le armi chimiche 2.4. I c.d. beni a duplice uso 2.5. Le armi da caccia 2.6. Le armi utilizzate nello sport 2.7. Le parti d’arma 2.8. Le munizioni e la loro classificazione 2.8.1. La munizione da guerra 2.8.2. La munizione comune da sparo 2.8.3. La munizione per uso civile 3. Le armi improprie e le armi bianche (armi proprie non da sparo) 3.1. Gli strumenti di difesa personale 4. Le armi giocattolo 5. I materiali di armamento 6. Bombe, aggressivi chimici, biologici, radioattivi e altri congegni micidiali

603 604 605 607 611 613 613 616 621 621 624 625 627 629 631 632 634 636 638 639 640 640 641 644 646 648 650

XXI

Indice sommario

pag. 7. Esplosivi ed esplodenti 7.1. Le nozioni residue in materia di esplosivi Bibliografia

651 654 656

Capitolo II Le condotte criminose e le sanzioni (L. Della Ragione) 1. Le condotte incriminate 1.1. Le attività vietate in modo assoluto. Distrazione e sottrazione a fine eversivo ed esplosioni a fine di incutere timore. Omessa consegna di armi 1.2. Cancellazione, contraffazione e alterazione dei segni distintivi e alterazione di armi. Locazione e comodato di armi 1.3. L’addestramento alla preparazione ed all’uso di armi da guerra 2. Le norme incriminatrici delle attività esercitate senza autorizzazione: la fabbricazione, l’introduzione nello stato, la vendita e la cessione a qualsiasi titolo, l’esportazione, la detenzione illegale e il porto di armi 2.1. La fabbricazione 2.2. L’introduzione e l’importazione 2.3. La vendita e la cessione a qualsiasi titolo 2.4. L’esportazione 2.5. La detenzione 2.5.1. Il porto 2.5.2. Il porto di armi ex art. 4 legge 18.4.1975, n. 110 3. Le norme sanzionatorie residuali 3.1. I reati in materia di custodia di armi ed esplosivi 3.2. Il trasporto di armi 3.3. La categoria delle armi clandestine e i reati di clandestinità 3.4. Le esplosioni pericolose 3.5. L’uso venatorio di mezzi vietati 4. La circostanza attenuante della lieve entità 5. La confisca in materia di armi, munizioni ed esplosivi Bibliografia

657

670 670 675 679 684 687 693 700 708 709 714 718 722 723 724 726 732

Indice analitico

735

657 662 668

Autori

Giuseppe Amarelli

Ricercatore di diritto penale nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Professore associato abilitato di diritto penale

Raffaele Cantone

Magistrato di Cassazione f.r. Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione

Alessandra Cappa

Avvocato e Dottore di Ricerca in procedura penale nell’Università degli Studi del Molise

Gianfederico Cecanese

Avvocato e Ricercatore di procedura penale nell’Università degli Studi del Molise

Agostino De Caro

Professore ordinario di procedura penale nell’Università degli Studi del Molise

Corinna De Caro

Avvocato e Cultore della materia in procedura penale nell’Università degli Studi del Molise

Luca Della Ragione

Giudice del Tribunale di Torre Annunziata. Dottore di ricerca in diritto penale nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”

Marcello Fattore

Avvocato in Napoli

Gianluca Gentile

Ricercatore di diritto penale all’Università di Napoli Suor Orsola Benincasa. Professore associato abilitato di diritto penale

Vania Maffeo

Professore associato di diritto penale nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”

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Autori

Vincenzo Maiello

Professore straordinario di diritto penale nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”

Marzia Pellegrino

Cultore della materia in diritto penale nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”

Opere di carattere generale

Le opere incluse in questo elenco vengono richiamate, nella bibliografia annessa a ciascun capitolo, con carattere grassetto

ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, Bologna, 2010. ANGELINI, Il reato di riciclaggio (art. 648 bis c.p.). Aspetti dogmatici e problemi applicativi, Torino, 2008. BALSAMO, Codice antimafia, in Dig. disc. pen., VIII Agg., Torino, 2014, 89 ss. BARGI, CISTERNA (a cura di), La giustizia patrimoniale penale, Torino, 2011. (a) BELFIORE, Sub art. 12 quinquies, D.L. 8.6.1992, n. 306, in PALAZZO, PALIERO (a cura di), Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova, 2007. (b) BELFIORE, Criminalità organizzata. Mafia, in PALAZZO, PALIERO (a cura di), Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova, 2007. CAIRO, Le misure di prevenzione patrimoniali, Napoli, 2007. CASTALDO, NADDEO, Il denaro sporco. Prevenzione e repressione nella lotta al riciclaggio, Padova, 2010. CIVELLO, Armi, esplosivi e munizioni nel diritto penale, in Dig. disc. pen., VIII Agg., Torino, 2013, 1 ss. FIANDACA, Misure di prevenzione (profili sostanziali), in Dig. disc. pen., Torino, 1994, 109 ss. FILIPPI, CORTESI, Il codice delle misure di prevenzione, Torino, 2011. FILIPPI, SPANGHER, Manuale di diritto penitenziario, Milano, 2011. GUERRINI, MAZZA, RIONDATO, Le misure di prevenzione. Profili sostanziali e processuali, Padova, 2004. MANGIONE, La misura di prevenzione patrimoniale fra dogmatica e politica criminale, Padova, 2001. MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, La disciplina di armi, munizioni ed esplosivi, Padova, 2002. PALAZZO, Armi, esplosivi e munizioni nel diritto penale, in Dig. disc. pen., I, Torino, 1987, 252 ss. PATALANO (a cura di), Nuove strategie per la lotta al crimine organizzato transnazionale, Torino, 2003.

XXVI

Opere di carattere generale

PELISSERO, Associazione di tipo mafioso e scambio elettorale politico-mafioso, in PELISSERO (a cura di), Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, in F.C. PALAZZO, C.E. PALIERO (dir.), Trattato teorico/pratico di diritto penale, Torino, 2010, 279 ss. PETRINI, La prevenzione inutile. Illegittimità delle misure praeter delictum, Napoli, 1996. ROMANO B., TINEBRA (a cura di), Il diritto penale della criminalità organizzata, Milano, 2013. ROSI (a cura di), Criminalità organizzata transnazionale e sistema penale italiano. La Convenzione ONU di Palermo, Milano, 2007. RUGA RIVA, Il premio per la collaborazione processuale, Milano, 2002. RUSSO, Sistema penale di armi, esplodenti, munizioni, caccia e tiro, Roma, 2012. TARTAGLIA (a cura di), Codice delle confische e dei sequestri, Roma, 2012. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2008. VISCONTI, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, 2003.

Parte Prima

Reati, circostanze aggravanti e sanzioni in materia di criminalità organizzata

Capitolo I

Il trasferimento fraudolento di valori (art. 12-quinquies d.l. n. 306/1992)

Sommario

1. Origine ed evoluzione della fattispecie. – 2. La ratio dell’incriminazione ed il bene giuridico tutelato. – 2.1. Il soggetto attivo. – 3. La struttura del fatto tipico. – 3.1. La fattispecie oggettiva della tipicità. – 3.2. Il dolo specifico della fattispecie tra dimensione soggettiva della tipicità e sua caratterizzazione offensiva. – 4. La natura giuridica. – 4.1. Il problema della natura istantanea o permanente del delitto. – 4.2. La soluzione delle Sezioni Unite in favore della natura istantanea con effetti permanenti. – 5. Il tentativo. – 6. Il concorso di reati. – 7. La responsabilità del fittizio intestatario e la problematica del reato plurisoggettivo improprio. – Bibliografia.

1. Origine ed evoluzione della fattispecie. L’art. 12-quinquies del d.l. n. 306/1992, convertito nella legge n. 356/1992 (e modificato nella rubrica dalla legge n. 501/1994, di conversione del d.l. n. 399) contempla il delitto di trasferimento fraudolento di valori che punisce con la pena della reclusione da due a sei anni, «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque attribuisce fittiziamente ad altri la titolarità o disponibilità di denaro, beni o altra utilità al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali o di contrabbando, ovvero di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli artt. 648, 648 e 648 ter c.p. bis». La disposizione venne introdotta sull’onda emotiva conseguente ai tragici attentati di Capaci e di via D’Amelio, coi quali Cosa Nostra aveva inteso colpire il cuore della lotta istituzionale al crimine mafioso. L’origine “comunemente emergenziale” della norma [su questo carattere della legislazione antimafia cfr. MOCCIA], trova eco nella originaria stratificazione normativa dell’articolo che, inizialmente, si componeva anche di un secondo comma. A quest’ultimo era stato affidato il compito di incriminare il possesso non giustificato di mezzi patrimoniali che fossero di entità non proporzionata al reddito o all’attività economica esercitata da parte di soggetto indaga-

4

Reati, circostanze aggravanti e sanzioni in materia di criminalità organizzata

to per reati tradizionalmente rientranti nel raggio di azione della criminalità organizzata ovvero nei cui confronti si stesse procedendo per l’applicazione di una misura di prevenzione personale. Si trattava, in sostanza, di una ipotesi criminosa di cui correttamente la dottrina aveva sottolineato la declinazione strutturale tipica del modello dei reati di sospetto [(a) ZANOTTI, 877]. Fin da subito, la previsione criminosa fu investita da diffusi dubbi di legittimità costituzionale, la cui fondatezza sarebbe poi stata sancita dalla sentenza del 17.2.1994, n. 48, con cui la Consulta dichiarava l’illegittimità della disposizione per ritenuta violazione dell’art. 27 comma 2 Cost. In tale occasione, il giudice delle leggi osservò come lo sviluppo ermeneutico del principio di non colpevolezza posto dall’art. 27 comma 2 Cost. comporti che dalla condizione di persona sottoposta a procedimento penale non sia consentito – in ragione della intrinseca instabilità del dato, comune, peraltro, ad ogni altro status processuale – trarre sospetti o presunzioni di sorta costitutivi della illiceità penale di una determinata condotta. Di qui, l’assunto secondo cui il fatto di reato debba fondare il proprio disvalore su basi oggettive, non, invece, su condizioni soggettive transeunti quali quelle legate alla qualità di indagato o di imputato, vale a dire alle condizioni che, nella cornice descrittiva del secondo comma dell’art. 12-quinquies, rappresentavano un presupposto del reato a cui risultava correlata la ritenuta portata offensiva del fatto [FORNARI, 61; (a) ZANOTTI, 877; ZAZA, 202].

In seguito alla richiamata declaratoria di illegittimità costituzionale, l’unica fattispecie in vigore è, dunque, quella contemplata nel comma 1 dell’art. 12quinquies. 2. La ratio dell’incriminazione ed il bene giuridico tutelato. La disposizione incrimina la condotta di fittizia attribuzione ad altri della titolarità o disponibilità di denaro, beni o altre utilità, effettuata allo scopo di eludere le disposizioni in tema di misure di prevenzione patrimoniali o di contrabbando, ovvero di agevolare la commissione dei delitti di cui agli artt. 648, 648-bis, 648-ter c.p. La struttura descrittiva dell’enunciato normativo rende problematica la stessa individuazione del fatto tipico. Lo spazio applicativo della fattispecie, invero, non risulta ritagliato sulla base di parametri oggettivi di nitida configurazione, bensì sul fine perseguito dall’agente; scaturisce, cioè, dall’impiego di una tecnica di incriminazione che espone la previsione di reato ad incertezze di valutazione probatoria ed a censure di sintomaticità, finendo per enfatizzare un disvalore soltanto soggettivo della vicenda normativa. Nondimeno, la giurisprudenza di legittimità prima, e la Consulta, poi, hanno ribadito la corrispondenza della disposizione ai vincoli costituzionali che concorrono a “tracciare” la dimensione deontologica dell’illecito penale. In particolare, la Suprema Corte ha dichiarato manifestamente infondata una questione di costituzionalità, osservando che la figura di reato in

Il trasferimento fraudolento di valori

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esame, per un verso, non determina alcuna violazione del diritto di difesa, poiché gli oneri probatori relativi ai requisiti, oggettivi e soggettivi, della tipicità criminosa incombono tutti sulla pubblica accusa; per l’altro, non compromette il parametro della precisione/tassatività, dal momento che la disposizione sanziona una condotta ben definita, costituita dall’interposizione fittizia, id est trasferimento fraudolento di beni, qualificata dal dolo specifico della consapevolezza e volontà di eludere gli effetti della procedura per l’applicazione di misure di prevenzione patrimoniale [Cass., sez. V, 25.9.2007, n. 39992]. Anche la Corte costituzionale [11.6.2008, n. 253 (ord.)], dal canto suo, si è occupata di una quaestio legitimitatis della norma, dichiarandola manifestamente inammissibile. Al giudice a quo, che aveva censurato la previsione legislativa sul rilievo secondo cui essa concentrerebbe il disvalore del fatto sulla condizione processuale di indagato o di imputato dell’autore, la Consulta ha replicato sottolineando che, in tal modo, non si «tiene conto di quella giurisprudenza di legittimità che ha avuto modo di delineare il reato in oggetto in termini tali da soddisfare il petitum, posto che è stato evidenziato che la posizione di indagato o imputato non è elemento caratterizzante la rilevanza penale della condotta, venendo solo a definire l’ambito temporale di operatività del divieto», e che «anche la premessa interpretativa dell’inversione dell’onere della prova non trova riscontro nella giurisprudenza di legittimità secondo la quale spetta alla pubblica accusa provare, sia nei confronti di colui che si rende fittiziamente titolare di beni, sia nei confronti di chi opera la fittizia attribuzione, tutti gli elementi costitutivi del reato».

Sul piano di una più generale valutazione teleologica, è comune l’affermazione che il delitto partecipa della tendenza a circoscrivere gli spazi di autonomia privata entro cui restano leciti negozi indiretti, fiduciari, ecc. [(a) ZANOTTI, 875], con l’obiettivo di colpire il genere di transazioni opache che – pur stipulate in un contesto di manovre consentite di occultamento di beni o di disponibilità economiche – vengono qualificate criminose perché contrassegnate da dolo specifico. Quest’ultimo assume, così, una funzione costitutiva dell’offesa [(a) BELFIORE, 924]. In breve, la ratio dell’incriminazione va còlta nell’esigenza di prevenire e punire condotte che agevolino l’occultamento dei valori, in modo da poter efficacemente colpire, mediante un intervento repressivo “anticipato”, le forme più insidiose di compenetrazione nell’economia e di accumulazione patrimoniale realizzate soprattutto dalla criminalità organizzata. Si tratta di modalità di intervento particolarmente pericolose, in quanto – per il tramite di complessi intrecci tra attività delittuose ed attività economiche formalmente consentite – ostacolano l’identificazione della provenienza illecita di taluni beni, con conseguente pregiudizio per la libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost. [in tal senso, BALSAMO, DE AMICIS, 2075; INSOLERA, 162; GUERINI, 426; MUCCIARELLI, 158 ss.; (a) ZANOTTI, 875.]. In dottrina non è mancato chi, proprio muovendo da tali considerazioni, ha evidenziato che la fattispecie – pure se “genealogicamente” appartenente al genere di misure dirette a contrastare le attività di riciclaggio di danaro e valori ad opera della criminalità organizzata – parrebbe trovare una più pertinente collocazione all’interno di una più ampia tutela della trasparenza delle transazioni economiche tra privati, nonché di interessi tributari. D’altra parte, che l’oggetto di tutela della norma non debba essere confinato sul versante della reazione a fenomeni di nascondimento della ricchezza di origine mafioso/camorri-

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Reati, circostanze aggravanti e sanzioni in materia di criminalità organizzata

stica, parrebbe confermato anche dalla modifica additiva dell’art. 37 d.p.r. n. 600/1973 (art. 30 d.l. n. 69/1989), secondo cui «in sede di rettifica o di accertamento di ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona» [(a) ZANOTTI, 875]. 2.1. Il soggetto attivo. – Autore del reato è la persona titolare di denaro, beni o altre utilità che vengono fittiziamente trasferite ad un dominus apparente. Valorizzando in chiave soggettiva il dato della titolarità dei beni oggetto del negozio fiduciario/simulato, parte della dottrina inquadra l’illecito nella categoria del reato proprio [(a) BELFIORE, 925]. Preferibile appare, tuttavia, la qualificazione della fattispecie come reato comune, sul rilievo che la titolarità di denaro, beni o utilità non integra una qualità soggettiva dell’autore, bensì una mera situazione oggettiva che si puntualizza nella relazione (di effettiva titolarità) tra lo stesso ed i beni (fittiziamente negoziati). Il delitto si configura anche a carico dei soggetti che, pur non disponendo del bene o non essendone titolari, intervengano comunque nelle operazioni di trasferimento, agevolando, sul piano materiale, la condotta di fittizia attribuzione dei beni [(a) BELFIORE, 925; MUCCIARELLI, 160]. Per l’analisi relativa alla problematica della responsabilità del destinatario dell’intestazione fittizia si rinvia al § 7. 3. La struttura del fatto tipico. 3.1. La fattispecie oggettiva della tipicità. – Come accennato, il reato ricorre nei casi di attribuzione fittizia ad altri della titolarità ovvero della disponibilità di denaro, beni o altre utilità con finalità di elusione delle misure di prevenzione patrimoniali o della normativa di contrasto al contrabbando ovvero di agevolazione del compimento dei delitti di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter c.p., sempre che – in conformità alla clausola di sussidiarietà contenuta nella disposizione – non risulti integrata una più grave ipotesi delittuosa. In dottrina è stato opportunamente rilevato che l’utilizzo dei termini atecnici ed imprecisi di “titolarità” e “disponibilità” – inidonei a caratterizzare la sola condizione, rispettivamente, del proprietario e del possessore –, risponde all’esigenza di non ancorare la fattispecie incriminatrice a rigidi schemi civilistici, quanto piuttosto all’esistenza di un apprezzabile rapporto fattuale di signoria con il bene [MUCCIARELLI, 159; in giurisprudenza, da ultimo, Cass., sez. VI, 25.9.2012, n. 41514]. Con parole diverse, assume rilevanza penale ogni condotta che determini consapevolmente una situazione di difformità tra titolarità formale, meramente

Il trasferimento fraudolento di valori

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apparente, e titolarità di fatto di un determinato compendio patrimoniale, pur se non inquadrabile entro tipici modelli civilistici (si va dalle intestazioni fiduciarie, ai casi di mera disponibilità materiale della cosa, nonché a qualunque altra forma di attribuzione di un potere di fatto e di diritto sul bene); ciò che conta, in definitiva, è che l’effetto finale sia pur sempre rappresentato dalla scissione tra titolarità o disponibilità formali e rapporto reale del potere di fatto sul bene. In questa prospettiva, vanno letti gli arresti con cui la Suprema Corte ha chiarito come l’art. 12-quinquies «non intende formalizzare i meccanismi – che possono essere molteplici e non classificabili in astratto – attraverso i quali può realizzarsi l’attribuzione fittizia, né intende ricondurre la definizione di titolarità o disponibilità entro schemi tipizzati di carattere civilistico; intende bensì lasciare libero il giudice di merito di procedere a tutti gli accertamenti necessari a pervenire – senza vincoli formali – ad un giudizio in concreto degli elementi logici o fattuali, unicamente rispettoso dei parametri normativi di valutazione della prova» [Cass., sez. II, 9.7.2004, n. 38733]. Sul medesimo piano, è stato ancora affermato che la condotta delittuosa consiste in una attribuzione fittizia, implementabile tramite qualsiasi tipo di atto, proveniente dal reale dominus, purché idoneo a creare un apparente rapporto di signoria tra un soggetto e i beni o il denaro [Cass., sez. I, 26.4.2007, n. 21250]. In sostanza, secondo la lettura della giurisprudenza di legittimità, la norma incriminatrice in esame finisce per sanzionare, sotto il profilo oggettivo, tutte quelle condotte che realizzino di fatto, nelle modalità più disparate, una situazione di apparenza, separando la situazione di colui che abbia la titolarità effettiva del danaro o di altra utilità e di colui che, in base ad una fittizia attribuzione, ne risulti formalmente titolare o disponente [Cass., sez. VI, 12.04.2012, n. 15140]. La tendenza ad interpretare in modo assai ampio l’espressione attribuzione ha condotto la giurisprudenza di legittimità, di recente, a ritenere che il reato de quo possa perfezionarsi finanche attraverso il contratto di affitto di azienda, che risulta, così, apparentemente gestita da un prestanome al fine di occultare i proventi di delitti associativi [Cass., sez. II, 3.5.2013, n. 19123].

Il reato è a forma libera, posto che sia l’intestazione fittizia sia l’attribuzione in disponibilità possono essere realizzate con qualunque mezzo o attività anche apparentemente lecita. In tal senso, appare consolidata la posizione del Supremo Collegio quando afferma che «il delitto di trasferimento fraudolento di valori è una fattispecie a forma libera che si concretizza nell’attribuzione fittizia della titolarità o della disponibilità di denaro o altra utilità realizzata in qualsiasi forma al fine di eludere specifiche disposizioni di legge. Il fatto-reato consiste, quindi, in una situazione di apparenza giuridica e formale della titolarità o disponibilità del bene, difforme dalla realtà, e nel mantenere consapevolmente e volontariamente tale situazione al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniale o di contrabbando ovvero al fine di agevolare la commissione di reati relativi alla circolazione di mezzi economici di illecita provenienza» [Cass., sez. III, 15.7.1993, n. 1665; Cass. pen., sez. II, 9.7.2004, n. 38733]. L’assunto è stato ribadito anche di recente, con l’ulteriore precisazione che «se – da un lato – l’impiego dei termini “titolarità” e “disponibilità” impongono di comprendere nell’ambito della previsione normativa non solo le situazioni del possessore e del proprietario ma anche tutte quelle nelle quali, pur non essendo le stesse inquadrabili secondo precisi schemi civilistici, il soggetto viene a trovarsi in un rapporto di signoria con il bene, il termine “attribuzione” impone – dall’altro lato – di prescindere dalla realizzazione di trasferimenti in senso tecnico-giuridico, idoneo essendo qualsivoglia meccanismo che realizzi siffatta “attribuzione”, consentendo nel contempo al soggetto agente di mantenere il proprio effettivo potere sul bene “attribuito”. Inoltre, accanto alle descritta condotta materiale, occorre accertare che il soggetto che ha proceduto all’attribuzione, o nell’interesse del quale tale attribuzione è stata effettuata, sia ricorso consapevolmente ai citati meccani-

2.

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Reati, circostanze aggravanti e sanzioni in materia di criminalità organizzata

smi simulatori al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniale o di contrabbando ovvero al fine di agevolare la commissione di reati connessi con la circolazione di mezzi economici di illecita provenienza» [Cass., sez. I, 26.4.2007, n. 30165; Cass., sez. I, 26.3.2013, n. 14373]. È stato, così, ritenuto configurabile il reato nel fatto di «colui che, per eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale, acquisti la qualità di socio occulto in una società già esistente, partecipando alla gestione e agli utili derivanti dall’attività imprenditoriale» [Cass., sez. I, 11.11.2003, n. 43049]. Si tratta di una statuizione, ancora di recente, in due decisioni dei giudici di legittimità, ove viene precisato che «integra la fattispecie criminosa di trasferimento fraudolento di valori la condotta di partecipazione societaria, quale socio occulto, per l'esercizio di un'attività economica preesistente che faccia assumere la contitolarità della proprietà aziendale e degli utili prodotti, e che sia finalizzata all'elusione delle disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale, in quanto l'interposizione fittizia ricorre anche quando sia riferibile solo ad una quota del bene in oggetto» [Cass., sez. II, 9.6.2011, n. 23131; Cass., sez. II, 15.1.2014, n. 5647].

Con riferimento a quest’ultimo “caso tipologico”, è stato rammentato [MA274 ss. ] come – sul presupposto che la disposizione incrimina, per indirizzo giurisprudenziale ricevuto [Cass., sez. II, 9.7.2004, n. 38733], «una tipica condotta a struttura bilaterale, che (…) rinvia alla varietà di atti idonei a determinare un apparente rapporto di signoria tra simulato intestatario e beni del soggetto che intende sottrarli a possibili misure ablatorie» – la Suprema Corte abbia ritenuto «conforme alla previsione legale il fatto monosoggettivo di partecipazione gestoria ad una attività di impresa (…) nel quale, quindi, non si rispecchia né una specifica, e ben determinata, condotta di costituzione di un rapporto simulato di signoria su beni, né una bilateralità negoziale (sia pure in senso ampio)». Sennonché – viene osservato [MAIELLO, 277]-, «la partecipazione quale socio occulto ad una impresa se, da un lato, potrebbe effettivamente nascondere una fittizia attribuzione al dominus apparente dell’attività economica da parte di chi ne è effettivo titolare; dall’altro, potrebbe anche prescinderne e rappresentare l’esito di una ampia e variegata gamma di situazioni di tutt’altra natura e disvalore (si potrebbe pensare, per restringere le ipotesi al campo delle loro tradizionali alternative, ad imposizioni, coartazioni estorsive, elargizioni spontanee o condizionate da “suggestioni” ambientali)». Questa parte della dottrina ha, con logica consequenzialità, affermato che «una interpretazione/applicazione rispettosa del dettato legislativo avrebbe dovuto sottolineare la connotazione “fondante” che, ai fini del giudizio di tipicità, riveste il momento genetico della situazione di apparente signoria sul bene, creata in favore del suo formale titolare dal dante causa di questi ma ancora attuale e reale dominus» [MAIELLO, 277]. Si tratta, del resto, di un assunto implicitamente convalidato da un arresto della Corte di Cassazione, che ha nettamente distinto la situazione di gestione fittizia (penalmente irrilevante) dall’attribuzione apparente idonea ad integrare la fattispecie di reato. Secondo tale decisione: IELLO,

«ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 12 quinquies, comma 1, d.l. 8 giugno 1992 n. 306, conv. con modificazioni dalla l. 7 agosto 1992 n. 356, che punisce il trasferimento

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fraudolento e fittizio di valori, occorre distinguere la nozione di “attribuzione” da quella di “gestione di fatto”, nel senso che, affinché possa ritenersi che colui che gestisce di fatto un determinato compendio patrimoniale, formalmente intestato a terzi, abbia in realtà attribuito tale compendio solo fittiziamente al terzo, per sottrarsi a eventuali provvedimenti ablativi previsti dalla legislazione in tema di misure di prevenzione patrimoniali o per agevolare la commissione di reati connessi alla circolazione di mezzi economici di provenienza illecita, occorre previamente dimostrare la provenienza di tale compendio dal patrimonio del gestore, sì da poterne poi inferire la fittizietà dell’attribuzione al terzo» [Cass., sez. I, 26.4.2007, n. 21250]. Tale condivisibile posizione è stata ribadita, di recente, da altra pronuncia della Suprema Corte, la quale, pur reputando che la fattispecie in esame possa realizzarsi allorquando un soggetto acquisti la qualità di socio occulto in una società preesistente, partecipando alla gestione degli utili della relativa attività imprenditoriale, sottolinea che «occorre comunque, al fine di rispettare il paradigma normativo, che tale assunzione avvenga con modalità fittizie, o in altri termine, come indica significativamente la rubrica dell'art. 12 quinquies del d.l. n. 306 del 1992, fraudolente", perché è questo elemento che, normativamente, connota di illiceità la presenza di un socio di fatto in un contesto che implica una realtà economica o imprenditoriale apparentemente facente capo ad altri. Tale necessario componente della condotta del reato è coerente con la finalità della fattispecie incriminatrice, che è quella di reprimere fittizie intestazioni che siano di ostacolo ad accertare la reale disponibilità di danaro, beni o altre utilità ai fini dell'applicazione di misure di prevenzione o in materia di contrabbando ovvero agevolino la commissione dei reati di cui agli artt. 648, 648 bis o 648 ter. cod. pen.» [Cass., sez. VI, 22.11.2013, n. 10271].

Sempre con riferimento alla condotta tipica, infine, va evidenziato che dall’analisi delle più recenti decisioni della Corte di Cassazione, emerge la necessità di un’analisi specifica di ogni singola operazione in cui sia potenzialmente insita una delle finalità elusive previste dalla normativa di contrasto della criminalità organizzata, non risultando corretto il ricorso a schemi presuntivi collegati ad esigenze di esemplificazione probatoria. Si è, invero, avuto modo di rilevare che «in tema di delitto di trasferimento fraudolento di valori (art. 12 quinquies d.l. n. 306 del 1992, conv. nella l. n. 356 del 1992), non assumono rilevanza penale le condotte anteriori alla fittizia attribuzione dei beni e non finalizzate con certezza alla creazione della situazione giuridica simulata» [Cass., sez. I, 14.4.2010, n. 23206]. Quanto alla rilevanza delle condotte conseguenti alla fittizia attribuzione di beni, la Suprema Corte ha evidenziato che «può escludersi ogni rilievo giuridico, dal punto di vista penale, a quelle situazioni conseguenti alla fittizia attribuzione dei beni che consistono in condotte meramente passive, finalizzate cioè al semplice mantenimento dell’illecito status quo, inteso come passivo godimento degli effetti permanenti del delitto. Tuttavia, qualora ad una prima condotta di fittizia attribuzione di beni o di utilità seguano operazioni, anche di natura societaria, dirette a creare o trasformare nuove società ovvero ad attribuire, sempre fittiziamente, nuove utilità agli stessi o a diversi soggetti, deve escludersi che si tratti di un “postfatto” non punibile se tali operazioni sono dirette al medesimo scopo di eludere le disposizioni normative cui si riferisce l’art. 12 quinquies. Diversamente, proprio le condotte elusive più insidiose, collegate ad operazioni di ripetute fittizie intestazioni in ambito societario, resterebbero fuori dalla portata della norma incriminatrice, che risulterebbe sostanzialmente aggirata». [Cass., sez. VI, 11.12.2008, n. 10024]. Non a caso, è stato puntualizzato che «l’ampia nozione di attribuzione comprende, sia la costituzione di nuove società, sia l’intestazione di titoli a nuovi soggetti, qualora siano rivolti a creare nuove situazioni fittizie e nuove realtà giuridiche apparenti, funzionali ad eludere le disposizioni di legge richiamate dall’art. 12 quinquies, l. n. 306 del 1992, creando ulteriori schermi per coprire e mascherare la reale proprietà dei beni, integrando un autonomo reato di trasferimento fraudolento di valori, a prescindere dalle precedenti intestazioni fittizie» [Cass., sez. II, 15.4.2010, n. 18503]. È stato altresì precisato [Cass.,

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sez. I, 16.6.2010, n. 1616, con nota di Vanorio], che «realizza un autonomo reato, e non un “post-factum” non punibile, il compimento di distinte operazioni societarie (come la creazione di nuove società, le intestazioni di quote a nuovi soci fittizi o le distribuzioni di utili) al fine di coprire e mascherare la reale proprietà dei beni». Nel medesimo filone si iscrive anche l’orientamento secondo il quale integra il reato di trasferimento fraudolento di valori la fittizia costituzione di una nuova società commerciale volta ad eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale, attraverso l’intestazione delle quote a soggetti utilizzati come prestanome dei reali proprietari, risultati essere amministratori e soci occulti di altra società dichiarata fallita [Cass., sez. II, 26.1.2011, n. 6939].

3.2. Il dolo specifico della fattispecie tra dimensione soggettiva della tipicità e sua caratterizzazione offensiva. – Come si è visto, il reato è a dolo specifico, essendo necessario che la condotta incriminata sia accompagnata dalla finalità di eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniale o di contrabbando, ovvero di agevolare la commissione di uno dei reati previsti dagli artt. 648, 648-bis e 648-ter c.p. La previsione del dolo specifico contribuisce a connotare il rilievo penale di quelle condotte di occultamento di beni o di disponibilità economiche, apparentemente neutre, le quali entrano nel fuoco della tipicità criminosa proprio in ragione della finalità a loro impressa dalla volontà dell’agente [MUCCIARELLI, 160]. In prospettiva pratica, sembra ragionevole attribuire maggiori chances applicative all’ipotesi qualificata dallo scopo di eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniali o di contrabbando [(a) ZANOTTI, 876]. Per contro, il fine di agevolare la commissione di ricettazioni, riciclaggio, reimpieghi di denaro di provenienza illecita suscita non poche perplessità in ordine alla concreta possibilità di individuare condotte autonome, diverse ed intermedie, rispetto alla partecipazione ai reati presupposti o a quelli successivi, ricompresi nell’oggetto del dolo specifico; con la conseguenza di ritenere la fattispecie collocabile nel novero delle risposte di carattere prevalentemente simbolico [(a) ZANOTTI, 876]. Ed invero, atteso che l’attribuzione patrimoniale fittizia rappresenta una delle prime fasi della complessa procedura di ripulitura del profitto criminoso, accadrà, nella pressoché generalità dei casi, che l’attribuzione simulata/fiduciaria di un bene proveniente da reato integrerà la più grave fattispecie di cui all’art. 648-bis c.p. Per l’analisi relativa al concorso tra i reati di cui all’art. 12-quinquies e art. 648-bis c.p. si rinvia al § 6. Di particolare interesse è la questione se il dolo specifico sia rintracciabile nella condotta di chi non sia ancora sottoposto a misura di prevenzione, e addirittura prima che il relativo procedimento venga intrapreso. Sul punto, la Suprema Corte ha affermato che il dolo specifico del reato previsto dall’art. 12-quinquies consiste «nel fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di pre-

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venzione e ben può essere configurato non solo quando sia già in atto la procedura di prevenzione – che darebbe luogo automaticamente a indisponibilità dei beni attraverso le cautele previste dagli artt. 2 bis e 2 ter, L. 31.5.1965, n. 575, rendendo il più delle volte impossibile la condotta di fittizia intestazione in cui si sostanzia sotto il profilo oggettivo il reato – ma anche prima che la detta procedura sia intrapresa, quando l’interessato possa fondatamente presumerne l’inizio, tanto più in considerazione del fatto che, quando si procede per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., l’ufficio del P.M. competente per territorio deve esserne informato ed è tenuto ad avviare la procedura di prevenzione; sicché l’adozione di una misura cautelare personale consente al soggetto colpito di prevedere l’inizio prossimo del procedimento di prevenzione» (principio affermato con riferimento a fattispecie concernente il sequestro preventivo di quote di società cedute fittiziamente a terzi dal suo amministratore, indagato per il delitto di cui sopra aggravato dall’art. 7 d.l. 13.5.1991, n. 152, al fine di consentire alla società stessa di partecipare a gare per pubblici appalti) [Cass., sez. I, 25.5.1999, n. 3880; in tal senso v. anche, più di recente, Cass., sez. I, 2.3.2004, n. 19537]. Si ha, peraltro, cura di precisare che tale situazione è sempre ravvisabile, allorché l’operazione negoziale fittizia veda protagonista un indagato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, posto che a carico di costui va obbligatoriamente avviato il procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione, come si ricava dall’art. 23-bis della legge n. 646/82. L’assunto è stato confermato anche di recente [Cass., sez. VI, 4.7.2011, n. 27666], ove è stato osservato che «le finalità di politica criminale della norma rivelano che l’oggetto giuridico del delitto in questione consiste nell’evitare la sottrazione di patrimoni anche solo potenzialmente assoggettabili a misure di prevenzione, sicché la concreta emanazione di queste ultime (o la pendenza del relativo procedimento) non integra l’elemento materiale del reato né una condizione obiettiva di punibilità, ma può costituire mero indice sintomatico (possibile, ma non indispensabile) di eventuali finalità elusive sottese a trasferimenti fraudolenti o ad intestazioni fittizie di danaro, beni o altre utilità, che connotano il dolo specifico richiesto». In tale prospettiva, merita di essere segnalata una pronuncia secondo cui le misure di prevenzione indicate nell’ art. 10 legge 31.5.1965, n. 575, in quanto comportano l’inibizione del normale svolgimento dell’attività di impresa, implicano una deminutio patrimonii e, pertanto, sono di natura patrimoniale, con la conseguenza che l’intestazione fittizia a terzi della titolarità di beni o altre utilità, al fine di eludere tale disposizione, integra il reato di cui all’art. 12-quinquies [Cass., sez. II, 6.7.2001, n. 453]. Da ultimo, si è sancito che «integra il reato di trasferimento fraudolento di valori la cessione di beni disposta al fine di sottrarli all’effetto ablativo di una misura di prevenzione patrimoniale, anche se la stessa non sia stata ancora applicata» [Cass., sez. V, 15.1.2009, n. 5541].

Sennonché, è stato evidenziato [MAIELLO, 284] come tali arresti giurisprudenziali risentano di una “impropria considerazione degli elementi di struttura della fattispecie”. Segnatamente, il giudizio di prevedibilità dell’avvio del procedimento di prevenzione viene evidentemente collocato sull’esclusivo piano (interiore) del dolo, con conseguente indebita enfatizzazione del disvalore di volontà a tutto discapito degli aspetti oggettivi di offesa. In questo modo si confina nella tipicità soggettiva il rapporto tra fittizia intestazione e “presumibile” promuovimento del procedimento di prevenzione, finendo per destrutturare la scansione analitico-concettuale del reato, così come emerge nitidamente da una corretta ricostruzione del dolo specifico nella sua funzione costitutiva del tipo legale. Com’è noto, il dolo specifico è caratterizzato dalla presenza di uno scopo ulteriore verso cui deve tendere la volontà del soggetto e, dunque, dalla presenza di un elemento essenziale di natura meramente psichica. La dottrina [PICOTTI, 150 ss.] si è dunque interrogata sulla sua compatibilità con il principio di offensività e, ancor prima, di materialità. Al riguardo, infatti, è stato sottolineato come

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una componente meramente psichica non sia in grado di incidere sulla realtà e, pertanto, non possa arrecare alcun danno al bene giuridico protetto. Ciò emerge con maggiore evidenza rispetto a quelle ipotesi (cc.dd. reati a dolo specifico di offesa), in cui il dolo specifico ha funzione anticipatoria della tutela, ove l’offesa è prevista come risultato soltanto intenzionale: perseguito dalla volontà dell’agente, ma non raggiunto oggettivamente. Nell’intento di ricomporre la tensione tra questa categoria di illeciti ed il principio di offensività, alla c.d. concezione soggettivistica del dolo specifico come mera intenzione di offendere, è stata, com’è noto, contrapposta la c.d. concezione oggettivistica che ricostruisce il dolo specifico non come mera intenzione offensiva, bensì come obiettiva e concreta idoneità della condotta a realizzare l’intenzione. Un autorevole insegnamento qualifica quel tipo di fattispecie quali reati di pericolo con dolo di danno [sul punto, MARINUCCI, DOLCINI, 576 ss., i quali dimostrano così di aderire a quella impostazione dogmatica volta a ricondurre i reati a dolo specifico nello schema del delitto tentato, in passato sostenuta autorevolmente da DELITALA, 132 ss. Nella medesima direzione, tra gli altri, STORTONI, 85; ANGIONI, 106; da ultimo, proprio con riferimento al 12-quinquies, MAIELLO, 283]. Assimilando, quindi, la struttura del reato a quella del tentativo [in argomento, più diffusamente, cfr. SEMINARA], in una prospettiva di valorizzazione del principio di offensività, si propone di interpretare l’elemento del pericolo come sinonimo di pericolo concreto, con la conseguente emersione dei noti problemi collegati alla base del giudizio ed al grado del pericolo penalmente rilevante. Sul punto, la dottrina [MAIELLO, 286] ha affermato che «ragioni di coerenza con l’impianto oggettivistico del sistema penale liberale e, segnatamente, col principio di offensività che ne rappresenta la stella polare, impongono di preferire il modello prognostico a base totale e di esigere che il requisito del pericolo venga recepito nel suo grado estremo di elevata probabilità di verificazione del danno, con esclusione di ogni spazio a pronostici ancorati alla mera possibilità». Riguardo alla c.d. base del giudizio, poi, «l’adesione al paradigma prognostico a base totale accentua la concretezza dell’accertamento, facendovi rientrare tutte le circostanze effettivamente presenti al momento del fatto e non solo quelle conosciute o conoscibili dall’agente». Appare, pertanto, chiaro come la riferibilità del giudizio circa il presumibile avvio del procedimento di prevenzione all’ambito di operatività del solo dolo specifico – delineandolo, cioè, quale mera concreta modalità di integrazione del coefficiente psicologico dell’agente – omettendo di distinguere tra fattispecie oggettiva e fattispecie soggettiva della tipicità, finisce, da un lato, per oscurare la rilevanza della articolazione in chiave analitica della struttura dell’illecito, e, dall’altro lato, per aprire il varco ad applicazioni esasperate della fattispecie [MAIELLO, 287]. Esemplificando, si ipotizzi il caso di chi, preoccupato di poter essere coinvolto in una indagine giudiziaria antimafia, compia consapevolmente atti di cessione simulata dei propri beni e confessi la finalità fraudolenta di tale attività negoziale, in una situazione nella quale quel soggetto non è mai stato raggiunto da alcun genere di elementi investigativi di accusa; in ipotesi del gene-

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re, se dovesse scattare la punizione – come si dovrebbe desumere interpretando il pericolo di avvio del procedimento di prevenzione sul terreno esclusivo del dolo specifico – si finirebbe per incriminare meri atti espressivi della libertà negoziale dei privati, quali sono i contratti simulati e/o fiduciari. In definitiva, è evidente che l’irrobustimento della tipicità oggettiva – conseguita includendovi il requisito dell’elevato “pericolo di avvio del procedimento di prevenzione” – determina un indubbio potenziamento garantistico, operando in funzione di fattore che generalizza esiti selettivi della fattispecie [MAIELLO, 286]. In sintesi: la tesi che qualifica «la prevedibilità dell’avvio del procedimento di prevenzione, quale riflesso di un elemento (il pericolo) della tipicità oggettiva, non intende affatto prescindere dalla rappresentazione soggettiva di questa realtà; difatti, ai fini dell’integrazione del delitto, costituirà requisito necessario la conoscenza, da parte dell’autore, della esistenza di una situazione obiettivamente rischiosa di ablazione coattiva dei suoi beni. Di conseguenza, qualora – ad esempio – si accerti che egli si sia fittiziamente disfatto di cespiti, in pendenza di un procedimento penale per associazione di tipo mafioso di cui non abbia avuto conoscenza (vuoi in ragione della consapevolezza di aver tenuto una condotta di vita ragionevolmente giudicata irreprensibile, vuoi per l’assenza di elementi oggettivi di “allarme”), va esclusa la configurazione del reato per difetto di dolo, pur emergendone la caratterizzazione oggettivamente pericolosa» [così, MAIELLO, 286]. Ora, sottolineata la portata oggettiva del dolo specifico, va detto che non appaiono ammissibili eccessive semplificazioni circa la verifica della riferibilità di uno o più beni alla disponibilità sostanziale dell’imputato. Il problema è affiorato all’attenzione di chi ha puntualmente rilevato [PICCIRILLO, 380 ss.] che le motivazioni di talune pronunce di merito “assolutizzano” il rapporto parentale o di coniugio tra l’indiziato e l’intestatario del bene, mancando di considerare che si tratta di soggetti (coniuge, figli, conviventi nell’ultimo quinquennio, ecc.) che, in forza della normativa di prevenzione (ora art. 19 comma 3 d.lgs. 6.9.2011, n. 159 – c.d. Codice delle leggi antimafia –, secondo cui «le indagini sono effettuate anche nei confronti del coniuge, dei figli e di coloro che nell’ultimo quinquennio hanno convissuto con i soggetti indicati al comma 1 nonché nei confronti delle persone fisiche o giuridiche, società, consorzi od associazioni, del cui patrimonio i soggetti medesimi risultano poter disporre in tutto o in parte, direttamente o indirettamente»), sono interessati dalle indagini patrimoniali prodromiche all’emissione dei provvedimenti di cautela e di ablazione. Quel genere di impostazione non tiene, inoltre, conto del fatto che, sovente, i trasferimenti patrimoniali in questione sono funzionali al perseguimento di altri obiettivi, tra i quali, assumo preponderanza statistica quelli di evasione e/o elusione fiscale. Di conseguenza, la valutazione della natura fittizia, e quindi fraudolenta, dell’attribuzione patrimoniale in favore dei predetti soggetti, non può prescindere da un globale apprezzamento dell’operazione negoziale che ne illumini l’effettivo significato elusivo.

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Sul punto, la Suprema Corte [Cass., sez. I, 2.4.2012, n. 17064; Cass., sez. I, 09.11.2012, n. 4703] ha precisato che «il reato di trasferimento fraudolento di beni, che rinviene nella finalità di elusione delle misure normative di prevenzione patrimoniale un connotato dell’elemento soggettivo, è commesso, stando alla previsione incriminatrice, con l’attribuzione del bene ad altri, senza ulteriore specificazione selettiva di costoro; la legge non si fa carico di escludere, dal novero dei soggetti con i quali può intervenire l’illecito trasferimento, quanti, ai sensi della legislazione di prevenzione patrimoniale, sono comunque soggetti alle indagini patrimoniali prodromiche all’emissione dei provvedimenti di sequestro e confisca (coniuge, figli, conviventi del proposto nell’ultimo quinquennio, ecc.), secondo la previsione ora dell’art. 19 codice antimafia». Spetta pertanto all’interprete – prosegue la Suprema Corte – «il compito di individuare quegli ulteriori elementi di fatto che siano capaci di concretizzare, per l’ipotesi in cui la fittizia intestazione operi in favore di taluno dei menzionati soggetti, la capacità elusiva dell’operazione. Si può infatti asserire che la condotta, altrimenti lecita, miri a finalità elusiva, a condizione che la condotta medesima abbia i requisiti per sfuggire alle rigorose previsioni della normativa di prevenzione patrimoniale, e ciò secondo un giudizio di plausibilità, espresso ovviamente tenendo conto del contesto in cui è stata posta in essere, che, nel caso ora considerato, non può fare a meno di dati fattuali aggiuntivi, tali da far ritenere che il trasferimento possa sortire l’effetto sperato».

Si tratta di arresti condivisibili, atteso che, fuori dalle ipotesi in cui il reale dominus effettui un trasferimento in favore di quei soggetti, mediante una condotta che sia idonea a sfuggire all’applicazione delle rigorose previsioni in materia di prevenzione patrimoniale, non si può consentire alcuna presunzione in ordine alla finalità elusiva. Tuttavia, se si abbraccia la concezione del dolo specifico in chiave oggettivistica, sembra potersi affermare più correttamente che, nei casi in esame, prima ancora che l’elemento soggettivo, venga meno la carica offensiva del fatto, considerato che la condotta dell’agente – salvo che emergano dati concreti contrari – non risulta concretamente ed obiettivamente idonea a realizzare la finalità elusiva. La tendenza giurisprudenziale di interpretare – impropriamente, a nostro sommesso avviso– il dolo specifico in chiave prettamente soggettivistica, prescindendo, quindi, dalla concreta ed obiettiva idoneità della condotta a realizzare l’intenzione offensiva, emerge plasticamente in una recente pronuncia della Suprema Corte [Cass., sez. II, 3.5.2013, n. 19123], che ha confermato la condanna ad un soggetto che si era adoperato a gestire un suo bene precedentemente confiscato attraverso l’interposizione fittizia di un affittuario. Scrivono i giudici di legittimità che: non va dimenticato che «nell’articolato ordinamento della prevenzione patrimoniale, l’art. 2 ter, ai commi dodici e tredici della legge n. 575 del 1965, regolamenta anche la situazione dei beni confiscati che rientrino nella “disponibilità” o “sotto il controllo” del soggetto sottoposto al provvedimento di confisca, e che, pertanto, anche a tale situazione fa riferimento il 12 quinquies con il rinvio generale alle disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali». Ne consegue che «se l’imputato, al quale è stato espropriato formalmente il bene, si adopera per poterlo comunque gestire promuovendo, come nel caso in esame, attraverso l’interposizione fittizio di un affittuario, il trasferimento fittizio della gestione dell’azienda di una società confiscata in capo al soggetto compiacente, si realizza una nuova ipotesi di reato ex art. 12 quinquies che innova la situazione antigiuridica precedente».

Così opinando, la Suprema Corte finisce tuttavia per accogliere una concezione formalistica del delitto in esame. In effetti, va sottolineato che l’espropriazione formale del bene determina l’assoluta inidoneità dell’azione a realizzare

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l’intenzione offensiva, rendendo, di conseguenza, impossibile l’evento pericoloso. Si punisce, a ben vedere, un soggetto radicalmente privato, attraverso la confisca, di qualsiasi valido potere dispositivo della res e non si considera l’opponibilità del provvedimento ablatorio anche al terzo affittuario. Da ultimo, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che non è invocabile, ai fini dell’esclusione dell’elemento soggettivo, la circostanza che il trasferimento dei beni sia avvenuto mediante la stipula di un atto pubblico. Più specificamente, la Suprema Corte ha osservato che «l’atto di donazione, pur nella sua veste pubblica, non è comunque destinato a essere portato a conoscenza della polizia giudiziaria e della magistratura procedente e a nulla rileva che queste autorità possano di propria iniziativa accedere alla consultazione dei registri o delle istituzionali fonti conoscitive» [Cass., sez. V, 23.11.2011, n. 8556].

4. La natura giuridica. 4.1. Il problema della natura istantanea o permanente del delitto. – Al centro di un vivace dibattito è stata, in passato, la questione della natura istantanea o permanente del delitto. In origine, la rilevanza del problema definitorio si collegava, pressoché esclusivamente, all’applicabilità della fattispecie ai trasferimenti simulati effettuati prima della relativa entrata in vigore; oggi, riguarda i profili di interesse connessi, ad ampio spettro, all’accertamento del tempus commissi delicti. Un primo orientamento giurisprudenziale inquadrava l’ipotesi criminosa nella categoria del reato permanente, ritenendo, di conseguenza, applicabile la norma incriminatrice ai trasferimenti negoziati prima della sua entrata in vigore e restati in vita dopo di essa. In favore della tesi, veniva rilevato come sia la condotta materiale – consistente nella fittizia attribuzione ad altri della titolarità o disponibilità di un bene per eludere le disposizioni di legge – sia l’evento giuridico – coincidente con la lesione o la messa in pericolo dell’interesse dell’amministrazione finanziaria a individuare i responsabili effettivi del contrabbando – si protraessero nel tempo per effetto della volontà dei soggetti agenti [Cass., sez. III, 28.1.1993, n. 242]. Nella medesima ottica, è stato precisato che la natura permanente del reato trae fondamento dalla circostanza che quest’ultimo consiste in una situazione di apparenza giuridica e formale della titolarità o disponibilità del bene mantenuta nel tempo consapevolmente e volontariamente. La comunicazione “fittizia”, infatti, non si risolve in un momento ma dura per tutto il tempo in cui lo stato antigiuridico prosegue (fattispecie in materia di fittizia intestazione di un motoscafo al fine di eludere la normativa sul contrabbando) [Cass., sez. III, 15.7. 1993, n. 1665; in tal senso v. anche Cass., sez. I, 1.3.1993, n. 870]. Un secondo preferibile indirizzo giurisprudenziale ha affermato che la fattispecie criminosa non “copre” le attribuzioni fittizie di valori anteriori all’entrata in vigore della norma; nell’enunciare il principio, la Suprema Corte ha evi-

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denziato come l’intento di sanzionare penalmente le pregresse attribuzioni fittizie di beni trovi un limite inderogabile nel principio fissato nell’art. 25 comma 2 Cost. [Cass., sez. VI, 26.2.1993, n. 581; in tal senso v. anche Cass., sez. I, 14.10.1993, n. 4172 secondo cui il reato in esame ha natura istantanea e non permanente]. 4.2. La soluzione delle Sezioni Unite in favore della natura istantanea con effetti permanenti. – Il contrasto giurisprudenziale è stato, poi, risolto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che, con la sentenza del 28.2.2001, n. 8, hanno qualificato il reato istantaneo con effetti permanenti. Secondo la lettura dei supremi giudici, nel delitto previsto dall’art. 12-quinquies il disvalore della condotta si esaurisce con la creazione della situazione di apparenza giuridica, finalizzata allo scopo di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale, ovvero di agevolare la commissione dei delitti di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter c.p. Sicché, una volta realizzata l’attribuzione fittizia ad altri della titolarità o della disponibilità della cosa, il delitto perviene allo stadio della sua consumazione, senza che assuma rilevanza il permanere della situazione antigiuridica conseguente al trasferimento, inquadrabile nei limiti di un post factum non punibile [Cass., S.U., 28.2.2001, n. 8]. La soluzione a cui ha aderito il massimo organo della nomofilachia può dirsi oramai accreditata anche nella recentissima giurisprudenza di legittimità, ove si puntualizza che «il delitto di trasferimento fraudolento di valori, che ha natura di reato istantaneo con effetti permanenti, si consuma, qualora la condotta criminosa si articoli in una pluralità di attribuzioni fittizie, nel momento in cui viene realizzata l’ultima di esse» [Cass., sez. I, 28.5.2010, n. 23266]. Si afferma, ancora, che la consumazione del delitto coincide, nello schema astratto tipizzato dalla norma incriminatrice, con l’attribuzione fittizia del denaro, dei beni o di altre utilità, cioè con il conferimento di un’apprezzabile signoria sulla “res”, sicché il permanere della situazione antigiuridica, conseguente alla condotta criminosa posta in essere, rappresenta un dato «non eccedente l’ambito di un post-fatto non punibile ovvero, come nella fattispecie, di un pre-fatto di per sé penalmente neutro, che può diventare penalmente rilevante solo in costanza della prova certa e rigorosa di un collegamento di consequenzialità tra esso» [Cass., sez. I, 14.4.2010, n. 23206].

È appena il caso di rilevare che la figura del reato istantaneo con effetti permanenti non pare possa assurgere a categoria autonoma di reato; sul punto, parte della dottrina osserva, in maniera del tutto condivisibile, che essa si limiterebbe «a registrare un mero dato fenomenico, e cioè la circostanza che la lesione del bene protetto può durare per un certo periodo di tempo» [FIANDACA, MUSCO, 200]. La distinzione determinante è, piuttosto, solo quella che intercorre tra reato istantaneo e reato permanente, sicché la species della permanenza negli effetti va ricondotta al primo genus. In definitiva, ai fini dell’accertamento dei profili di rilevanza connessi alla individuazione del tempus commissi delicti, può dunque affermarsi che il delitto di trasferimento fraudolento di valori costituisce un reato istantaneo, sebbene i suoi effetti siano destinati a protrarsi nel tempo.

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5. Il tentativo. È astrattamente ipotizzabile il tentativo in tutti i casi in cui il risultato finale della fittizia intestazione o dell’attribuzione in disponibilità non si verifichi per circostanze o cause indipendenti dalla volontà dell’agente. In argomento, la Suprema Corte ha affermato che integra il tentativo di trasferimento fraudolento di valori previsto dall’art. 12 d.l. 8.6.1992, n. 306 la stipula di un preliminare di compravendita di un immobile che, alla luce di univoci elementi di riscontro, risulti finalizzato alla fittizia intestazione del cespite, essendo atto idoneo allo scopo dell’elusione delle misure di prevenzione patrimoniale, a nulla rilevando la mancata trascrizione del preliminare (oggi consentita dalla legge 28.2.1997, n. 30) che costituisce un mero onere attinente alla pubblicità e quindi all’opponibilità dell’atto ai terzi [orientamento costante, per tutte, Cass., sez. V, 13.2. 2001, n. 2224; Cass., sez. VI, 8.7.2005, n. 33951].

6. Il concorso di reati. La condotta tipizzata dall’art. 12-quinquies si colloca su un piano distinto dalla partecipazione concorsuale al reato presupposto [(a) ZANOTTI, 876]. La clausola di sussidiarietà che compare in apertura della disposizione esclude l’applicazione della fattispecie qualora concorra con un reato più grave. Dopo la novella legislativa che ha rimodulato la fattispecie di riciclaggio estendendone l’ambito, va rilevato che assai difficilmente risulterà applicabile la fattispecie di cui all’art. 12-quinquies in relazione ad una condotta di “agevolazione” di operazioni di riciclaggio [per una disamina dei rapporti intercorrenti con il delitto di riciclaggio, di recente, COSSEDDU, 3651 ss.]. Sulla premessa che l’attribuzione patrimoniale fittizia rappresenta una delle prime fasi della complessa procedura di ripulitura del profitto criminoso, accadrà, nella pressoché generalità dei casi, che l’attribuzione simulata/fiduciaria di un bene proveniente da reato integrerà la più grave fattispecie di cui all’art. 648-bis c.p. [sul delitto di riciclaggio, cfr. ACQUAROLI, 805 ss.]. Nondimeno, pare possibile, in questa materia, ritagliare all’art. 12-quinquies un proprio spazio applicativo. A ben vedere, la configurabilità del delitto de quo potrebbe essere sancita, da un lato, nei casi di carenze probatorie sulla provenienza delittuosa della cosa [INSOLERA, 162]; dall’altro, nelle ipotesi in cui il soggetto attivo del reato di cui all’art. 12-quinquies sia anche l’autore del reato presupposto, al quale, dunque, non sia possibile imputare l’atto di riciclaggio in virtù della clausola di esclusione contenuta nell’art. 648-bis c.p. In questa ipotesi, la punizione ai sensi dell’art. 12-quinquies del soggetto responsabile del reato “a monte” finirebbe per costituire una deroga di fatto al regime dell’irrilevanza penale dell’autoriclaggio [ANGELINI, 1440]. In particolare, anche la Suprema Corte ha di recente osservato che «nell’art. 648 bis c.p. è espressamente prevista la non configurabilità del reato nelle ipotesi di concorso nel reato da cui

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il danaro, beni o altre utilità derivano; non altrettanto dicasi nel delitto di trasferimento fraudolento di valori, non avendo previsto il legislatore alcuna clausola di esclusione della responsabilità per l’autore dei reati che hanno determinato la produzione di illeciti proventi. E pertanto, secondo l’insegnamento di questa Corte, il soggetto attivo del delitto di cui al D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12 quinquies, può essere anche colui nei cui confronti sia pendente il procedimento penale per il reato presupposto, che si attivi in qualunque forma al fine di agevolare la commissione del delitto di riciclaggio» [Cass., sez. VI, 21.4.2008, n. 25616; Cass., sez. II, 16.11.2012, n. 12999]. Ed ancora, è stato puntualmente osservato che il delitto in esame incrimina manovre di occultamento giuridico o di fatto di attività e beni, altrimenti lecite, in relazione al fine perseguito dall’agente, «secondo una prospettiva intesa a perseguire penalmente anche i fatti di “auto” ricettazione, riciclaggio e reimpiego, non punibili per la clausola di riserva con cui esordiscono tali fattispecie, e che ne esclude la applicabilità agli autori dei reati presupposti» [Cass., sez. II, 4.11.2011, n. 39756].

Merita tuttavia di essere sottolineato che, in un arresto [Cass., sez. VI, 9.11. 2011, n. 18496], la Suprema Corte ha ritenuto invece configurabile il concorso materiale tra la fattispecie in esame e il reato di riciclaggio, pervenendo, così, ad una sostanziale interpretatio abrogans della clausola di sussidiarietà prevista in apertura dell’art. 12-quinquies. Segnatamente, la giurisprudenza di legittimità è giunta a tale conclusione muovendo dall’assunto per cui il delitto non può fungere da reato presupposto del delitto di riciclaggio. Secondo tale pronuncia: -

«deve precisarsi che il reato di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies per come è strutturato, non è il reato presupposto del riciclaggio, ha una sua autonoma e distinta valenza strumentale e, in quanto tale, concorre materialmente con il riciclaggio di denaro provento delle attività illecite del sodalizio mafioso, queste sì integranti il reato presupposto del riciclaggio medesimo».

Tale impostazione risente tuttavia di una impropria considerazione del rapporto tra le due fattispecie, in quanto perviene alla configurabilità del concorso materiale sulla premessa che il delitto in discorso non può fungere da reato presupposto del delitto di riciclaggio. In verità, sulla base di una analisi attenta delle due disposizioni, pare più corretto sostenere che, indipendentemente dalla idoneità o meno dell’art. 12-quinquies a fungere da reato presupposto, tra il delitto in esame e il delitto di riciclaggio intercorre un autentico rapporto di sussidiarietà, giacché essi sanzionano gradi diversi di offesa di un medesimo bene giuridico; con la conseguenza che l’offesa maggiore assorbe quella minore [sul principio di sussidiarietà, per tutti, GRISPIGNI, 416 ss.] Ed invero, come è stato poc’anzi posto in rilievo, la recente novella dell’art. 648-bis c.p. ha attribuito rilievo penale anche alla condotta di trasferimento del denaro o di altre utilità, sicché sovente la fittizia attribuzione dei medesimi costituisce un prius della più complessa operazione di ripulitura del profitto criminoso [ACQUAROLI, 827]. Ne deriva che il reato di cui all’art. 12-quinquies dovesse trovare applicazione soltanto laddove la condotta criminosa si arresti all’agevolazione del delitto di riciclaggio; in caso contrario, esso risulterà assorbito dal più grave delitto di cui all’art. 648-bis c.p., costituendone presupposto e modalità esecutiva. Quest’ulti-

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ma visione del rapporto tra le due fattispecie coglie, a ben vedere, maggiormente l’essenza del principio del ne bis in idem sostanziale, posto che il riciclaggio è sufficiente ad esaurire il disvalore complessivo del fatto; ed evita, al tempo stesso, che la medesima condotta di trasferimento fittizio sia sottoposta indebitamente ad una duplicazione del trattamento sanzionatorio. Sennonché, altra parte della giurisprudenza [Cass., sez. II, 5.10.2011, n. 39756] ha invece chiaramente affermato che il delitto di trasferimento fraudolento di valori può fungere da reato presupposto dei delitti di cui agli artt. 648bis e 648-ter c.p. In particolare, in tale arresto la Suprema Corte ha ritenuto infondate le censure prospettate dal ricorrente, secondo cui per aversi riciclaggio o reimpiego occorre che il reato presupposto sia produttivo ex se di proventi illeciti da riciclare o reimpiegare, mentre nel delitto di trasferimento fraudolento di valori i beni trasferiti, pur “macchiati” dal fine di eludere le misure di prevenzione, ben potrebbero essere, in sé, di lecita origine. A tali obiezioni, i giudici di legittimità hanno tuttavia replicato che il bene fittiziamente attribuito con tale vincolo di scopo assume «non soltanto nel mondo economico, ma anche sotto il profilo squisitamente fenomenico, una “apparenza” ed una configurazione formale nuovi, rispetto a quelle che lo caratterizzavano in precedenza. Il bene “intestato” al mafioso è, per così dire, ontologicamente “altro” rispetto a quello formalmente “intestato” al quisque de populo, tanto agli effetti della sua facilità di circolazione, quanto sul piano dello stretto valore economico, proprio perché sottratto al pericolo di interventi ablatori di mano pubblica. Per questa via risulta dunque soddisfatta la tesi fatta propria dal ricorrente, secondo la quale il reato presupposto deve essere delitto produttivo di illecita utilità economica e tale da provocare un arricchimento evidente e tangibile nella disponibilità dell’autore».

Ciò significa, in sostanza, che il trasferimento fittizio di valori al fine di eludere l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali rende punibili condotte di riciclaggio di beni che, seppur potevano, in origine, non costituire ex se proventi di delitto, tuttavia lo diventino proprio in virtù della interposizione fraudolenta – ferma restando l’operatività della clausola di riserva laddove l’autore del riciclaggio abbia concorso nel delitto di cui all’art. 12-quinquies. Delicati problemi si pongono sul piano dei rapporti tra la fattispecie ed il delitto di favoreggiamento reale, soprattutto nell’ipotesi in cui il reato in esame sia commesso al fine di agevolare la commissione dei delitti di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter c.p. Il loro rispettivo ambito di applicazione è stato tuttavia definito dalla Suprema Corte, la quale ha, con chiarezza, affermato che: «il delitto previsto dall’art. 12 quinquies, comma 1, del d.l. n. 306 del 1992, conv., con modificazioni, nella l. n. 356 del 1992 si realizza con la commissione di atti finalizzati ad eludere le misure di prevenzione patrimoniali o anticontrabbando, ovvero ad agevolare la commissione di reati di ricettazione e di riciclaggio e si differenzia dal delitto di favoreggiamento reale perché quest’ultimo presuppone la commissione, ad opera di terzi, di un reato in ordine al quale l’agente si adoperi per assicurarne il prodotto, il profitto o il prezzo all’autore. (Fattispecie nella quale la Corte ha qualificato ex art. 12 quinquies la condotta accertata dell’imputato, che aveva attribuito fittiziamente a terzi la titolarità di un bene immobile in modo che questo non

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figurasse nella sua disponibilità, nel pericolo dell’applicazione di misure di prevenzione antimafia)» [Cass., sez. II, 9.7.2009, n. 39303].

La condivisibilità di questo arresto discende dalla circostanza che, nel delitto di favoreggiamento reale ex art. 379 c.p., il soggetto attivo risulta estraneo al reato-presupposto, prestando solo un’attività di ausilio a vantaggio del suo autore per consentirgli di assicurarsi i relativi proventi; diversamente, nel delitto di trasferimento fraudolento di valori, l’agente realizza la simulazione negoziale allo scopo di mantenere l’effettiva signoria dominicale sui proventi di attività criminose da egli stesso realizzate. In sintesi, nel delitto in esame l’agente agisce non per agevolare l’opera di terzi, bensì per garantire a sé stesso il consolidamento del profitto criminoso. Sempre riguardo ai rapporti col favoreggiamento reale, in dottrina [MUCCIARELLI, 160] è stato acutamente osservato che il delitto di cui all’art. 12-quinquies configura una speciale ipotesi di favoreggiamento, creata dal legislatore per estendere al massimo grado la tutela penale nel settore della circolazione dei mezzi economici e finanziari di provenienza illecita. Per il tramite della nuova fattispecie, infatti, sono state rese punibili condotte volte al favoreggiamento di reati di favoreggiamento, la cui rilevanza penale risultava prima esclusa in virtù della clausola di riserva prevista dall’art. 379 c.p. proprio in relazione ai delitti di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter c.p. [(a) BELFIORE, 926]. Per la diversa questione relativa al possibile riconoscimento di una responsabilità a titolo di favoreggiamento reale a carico del fittizio intestatario degli stessi, si rinvia al § 7. Per quanto concerne i rapporti con altre figure delittuose, occorre ancora rilevare che la condotta incriminata dall’art. 12-quinquies non assorbe l’aggravante dell’art. 7 d.l. n. 152/1991 [su cui, più diffusamente, DELLA RAGIONE], che può, dunque, trovare applicazione in rapporto ad essa. Pacifica è, in proposito, l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità, secondo cui «la l. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies è un delitto doloso e attiene al trasferimento fraudolento di valori con connotazioni squisitamente economiche punendo infatti il fraudolento occultamento della titolarità di beni o della disponibilità di valori finalizzati ad eludere i provvedimenti previsti in materia di prevenzione patrimoniale. L’ipotesi di cui all’art. 7 l. n. 203 del 1991 è per contro una circostanza aggravante e attiene alla agevolazione da parte dell’agente dell’associazione di stampo mafioso, ausilio che ben può estrinsecarsi in modo integrativo e complanare rispetto alla condotta tutelata dalla fattispecie di cui all’art. 12 quinquies citato, svolgendosi infatti, in favore, in generale, delle risorse personali o materiali della organizzazione stessa, consentendone l’attività, in tutto o anche solo in parte, o il suo mantenimento funzionale. I due istituti, tra loro, non sono pertanto né in rapporto di continenza né di sovrapponibilità, potendo contare su ambiti diversi di applicazione e differenti interessi giuridici di tutela» [Cass., sez. I, 8.1.2010, n. 3472].

È stato, poi, statuito che vi è «possibilità di concorso tra il reato di cui all’art. 31 l. 13 settembre 1982 n. 646 (inosservanza dell’obbligo, da parte di condannati per associazione di tipo mafioso o sottoposti a misura di prevenzione quali indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, dell’obbligo di

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comunicare alla polizia tributaria le variazioni patrimoniali di importo superiore a venti milioni di lire), ed il reato di cui all’art. 12 quinquies d.l. 8 giugno 1992 n. 306, conv. con modificazioni in l. 7 agosto 1992 n. 356, e successive modificazioni (occultamento della titolarità di beni o della disponibilità di valori al fine di eludere i provvedimenti in materia patrimoniale correlati all’applicazione di misure di prevenzione antimafia)» [Cass., sez. VI, 12.5.2000, n. 356705]. In una recente pronuncia la Suprema Corte ha anche sottolineato che l’applicazione dell’art. 2-ter legge n. 575/1965 non esclude la configurabilità del delitto in esame, poiché l’ambito di operatività del primo è esclusivamente processuale (regolamentando particolari aspetti del procedimento di prevenzione per le misure patrimoniali), mentre quello del secondo attiene al diritto penale sostanziale (poiché la disposizione punisce con la reclusione la fittizia intestazione – comunque connessa – di un bene ad un qualsiasi soggetto terzo, al fine di eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniali) [Cass., sez. II, 27.10. 2011, n. 5595]. Da ultimo, i giudici di legittimità hanno affermato la possibilità di concorso tra la circostanza aggravante prevista dal comma sesto dell’art. 416-bis c.p. ed il delitto di cui all’art. 12-quinquies, sul rilievo per cui si tratterebbe di fattispecie differenti, non sovrapponibili. Al riguardo, è stato acutamente osservato che, mentre la prima figura è integrata dal reinvestimento dei proventi illeciti dell’organizzazione criminale in attività economiche qualificate delle quali il sodalizio intende assumere o mantenere il controllo, e non implica la necessaria interposizione di soggetti terzi; ai fini della configurabilità della seconda, invece, occorre una condotta di interposizione fittizia soggettiva nella titolarità di un bene, e non è richiesto che il cespite sia di provenienza illecita e “mafiosa” [Cass., sez. II, 27.9.2012, n. 2833].

7.

La responsabilità del fittizio intestatario e la problematica del reato plurisoggettivo improprio.

Nell’analisi dell’incriminazione, particolare importanza riveste la questione relativa alla punibilità del terzo fittizio attributario del cespite, tenuto conto che la disposizione sanziona solo colui che trasferisce ad altri il bene, in sostanza il dominus reale del bene. A ben vedere, la soluzione del quesito passa attraverso l’inquadramento, o meno, della fattispecie nella categoria del reato plurisoggettivo improprio. Ove, invero, si dovesse accreditare quest’ultima qualificazione dommatica, la risposta positiva all’interrogativo andrebbe incontro alle note riserve e perplessità che la dottrina più attenta [nella manualistica, per tutti, MANTOVANI, 554] esprime circa l’applicabilità della disciplina (con funzione incriminatrice) in materia di concorso criminoso alla condotta contemplata dalla disposizione incriminatrice ma da essa non punita.

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Sul punto la giurisprudenza di legittimità non ha assunto posizioni univoche ed, anzi, enuncia massime non prive di ambiguità e confusione concettuale. Un primo orientamento esclude che il trasferimento fraudolento di valori sia un reato plurisoggettivo improprio. Esso viene, invece, definito una fattispecie a forma libera che si concretizza nell’attribuzione fittizia della titolarità o disponibilità di denaro o altro bene o utilità e consiste in una situazione di apparenza formale della titolarità del bene, difforme dalla realtà sostanziale. Di conseguenza, colui che si rende fittiziamente titolare di tali beni perseguendo uno degli scopi previsti dalla norma risponde a titolo di concorso nella stessa figura criminosa posta in essere da chi ha operato la fittizia attribuzione in quanto con la sua condotta cosciente e volontaria contribuisce alla lesione dell’interesse protetto dalla norma [Cass., sez. I, 10.2.2005, n. 14626; Cass., sez. V, 2.4.2007, n. 25568]. In senso contrario si è affermato che il delitto previsto dalla disposizione in commento, integra una fattispecie a concorso necessario, poiché il soggetto agente in tanto può realizzare l’attribuzione fittizia di beni, in quanto vi siano terzi che accettino di acquisirne la titolarità o la disponibilità (nell’affermare tale principio, la Corte ha peraltro precisato che l’inconsapevolezza da parte del terzo del fine illecito, in base al quale la persona sottoposta o sottoponibile a misure patrimoniale agisce, rileva al fine di escludere in capo allo stesso terzo la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato) [Cass., sez. VI, 26.2.2004, n. 15489]. L’esclusione dell’elemento soggettivo del reato in capo a terzi concorrenti necessari, non esclude però la configurabilità del reato in capo all’altro concorrente necessario, essendo ben possibile che il terzo difetti della consapevolezza necessaria ad integrare l’elemento soggettivo del delitto sotto il profilo della finalità di eludere l’applicazione delle disposizioni in materia di prevenzione patrimoniale, per le più svariate ragioni, anche per essere stato ingannato dal concorrente necessario [Cass., sez. II, 2.7.2009, n. 28942 ]. In particolare – argomenta la Suprema Corte – il reato “de quo”, per quanto concerne l’elemento soggettivo, non è a dolo incrociato, non richiedendo la norma penale accordo dell’erogatore e del percettore sulla provenienza del finanziamento e sulla mancanza delle condizioni che legittimerebbero lo stesso, una semplice consapevolezza, per la punibilità di ciascun dei correi, dei suddetti dati [Cass., sez. II, 2.7.2009 n. 28942 ]. È di tutta evidenza che, indipendentemente dalla soluzione adottata, la Suprema Corte è costante nell’affermare la punibilità ex art. 12-quinquies del terzo intestatario, salva l’accertata assenza dell’elemento psicologico che, naturalmente, ne esclude la responsabilità. Solo in una recente ma isolata pronuncia [Cass., sez. V, 26.10.2011, n. 6508] si afferma, incidentalmente, peraltro criticando la formulazione del capo di imputazione, che «se l’intestazione è fittizia, l’intestatario non può rispondere del reato di trasferimento fraudolento di valori, ma semmai di altro e diverso reato». L’equivocità della posizione dei giudici di legittimità emerge plasticamente

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da altra recente sentenza [Cass., sez. II, 24.11.2011, n. 45], laddove testualmente si legge: «è altrettanto vero, né altrimenti potrebbe essere, che si tratta di reato a concorso necessario, in quanto il soggetto agente in tanto può realizzare l’attribuzione fittizia di beni, in quanto vi siano terzi che accettino di acquisire la titolarità o la disponibilità di detti beni». Anche in tale pronuncia, peraltro, si ribadisce che «è di tutta evidenza che l’inconsapevolezza da parte del terzo del fine illecito, in base a cui il soggetto (la persona sottoposta o sottoponibile a misure di sicurezza patrimoniali) agisce, esclude in capo allo stesso terzo l’elemento soggettivo del reato». Ancora, una volta, dunque, si risolve il problema della punibilità del terzo ancorandola alla sola assenza dell’elemento psicologico, ribadendo la sua responsabilità «quando il terzo sia consapevole del fine illecito perseguito dal soggetto agente». Peraltro, quasi a non considerare quanto subito prima affermato, la Suprema Corte prosegue nella ricostruzione della fattispecie aggiungendo «che la L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies è una fattispecie a forma libera, finalisticamente orientata ad evitare l’attribuzione fittizia della titolarità o della disponibilità di denaro o altre utilità, protesa ad eludere talune disposizioni legislative, tra le quali le norme in materia di misure di prevenzione patrimoniali e che per questa sua caratteristica risulta irrilevante che il provvedimento di prevenzione non sia ancora disposto, poiché – alla luce dell’interesse giuridico sotteso al reato – conserva indubbiamente interesse penale la cessione dei beni disposta proprio al fine di sottrarli all’effetto ablativo della misura. L’ampiezza e l’indeterminatezza del momento oggettivo, trova un limite nell’indefettibile presenza del dolo specifico, momento selettivo che qualifica il comportamento antidoveroso: lo scopo elusivo». In breve, nel medesimo arresto si sostiene allo stesso tempo la qualifica del reato de quo quale “fattispecie a concorso necessario” e “fattispecie a forma libera”.

Anche volgendo lo sguardo al panorama dottrinario, affiora una sensazione di disorientamento. Parte della dottrina, sul presupposto della indefettibile presenza di un destinatario dell’intestazione fittizia, afferma la necessaria plurisoggettività della fattispecie e sottolinea che egli può comunque rispondere del reato a titolo di concorso ex art. 110 c.p. qualora agisca nella consapevolezza che l’autore del trasferimento operi con una delle finalità indicate dalla norma [ (a)ZANOTTI, 876]. Eppure, riesce difficile fare a meno di sottolineare che la fattispecie in esame riconosce la responsabilità penale della attribuzione fittizia al solo soggetto che la effettua, e non al destinatario, come si evince dal fatto che l’incriminazione concerne il mero trasferimento, e non la situazione di fatto ad esso conseguente: se così non fosse, la struttura della norma avrebbe dovuto essere diversa, ponendo in primo piano la figura del soggetto che riceve la titolarità o disponibilità del denaro, dei beni o di altre utilità. Sennonché, come rilevato in dottrina [MAIELLO, 288], la tesi accolta dalle sentenze suindicate, favorevole alla generalizzata rilevanza penale della condotta del simulato intestatario ed ancorata alla ritenuta applicabilità delle disposizioni in materia di concorso criminoso, va incontro ad obiezioni difficilmente superabili. Tali assunti, invero, non tengono conto della peculiarità strutturale del delitto e, in particolare, delle «conseguenze politico-criminali del fenomeno normativo di dissociazione tra plurisoggettività naturalistica del “tipo” e punibilità edittale soltanto monosoggettiva» [MAIELLO, 288]. Alla tesi secondo cui «il delitto di trasferimento fraudolento di valori non è

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un reato plurisoggettivo improprio, ma è una fattispecie a forma libera», è stato fondatamente opposto che «alla condivisione di un simile asserto si oppone, con ogni evidenza, il nitore morfologico/descrittivo della previsione normativa e il corrente modello di qualificazione che la dottrina prevalente applica al genere di fattispecie in essa contemplata» [MAIELLO, 288]. In effetti, non si può contestare che, nell’incriminare «chiunque attribuisce fittiziamente ad altri la titolarità o disponibilità di denaro, beni o altre utilità al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali o di contrabbando», l’art. 12-quinques scolpisca i caratteri costitutivi di uno schema di illecito penale riportabile, quanto a struttura, alla categoria del “reato plurisoggettivo improprio” (o a “punibilità circoscritta”) [(b) ZANOTTI, 328 ss.; (a) DI MARTINO, 101 ss.]. La disposizione definisce, difatti, un reato che si perfeziona attraverso la necessaria convergenza ovvero la bilateralità di plurime condotte (parallele o complementari), legate da reciproca e imprescindibile nesso di strumentalità [(b) DI MARTINO, 238 ss., secondo cui la ratio della tipizzazione plurisoggettiva è identificata dalla circostanza che tali fattispecie sarebbero caratterizzate, strutturalmente, per la tipizzazione di un rapporto di “strumentalità astratta” fra le condotte, non riconducibile alla logica del concorso eventuale], delle quali una soltanto viene espressamente assoggettata a pena, cristallizzando una tipicità soggettivamente complessa. La struttura plurisoggettiva impropria, naturalmente, lascia ferma la possibilità che la condotta vietata si estrinsechi a forma libera, non dovendosi sovrapporre i due piani. Nei reati plurisoggettivi impropri, dunque, le condotte descritte o implicitamente presupposte acquistano un significato tipico soltanto nel contesto d’una fattispecie plurisoggettiva, per via del legame di strumentalità che le avvince; il loro tratto caratterizzante è rappresentato dalla non punibilità, espressa o implicitamente prevista, del partecipe necessario, per effetto di una precisa opzione del legislatore. Conseguentemente, sembra corretto sostenere che il fondamento politico-criminale della categoria risieda nel suo esplicitare un limite alla operatività della funzione incriminatrice delle disposizioni sul concorso criminoso, dedotto dal principio-cardine del nullum crimen sine praevia lege scripta et stricta. Su queste basi, si può allora affermare che l’asserto giurisprudenziale secondo cui il reato non potrebbe inquadrarsi nello schema della “plurisoggettività impropria”, in quanto dà vita ad una fattispecie “a forma libera” pretende di inserirsi «nelle pieghe di una complessa controversia teorica alimentata da chi, per un verso, nega la validità della categoria della plurisoggettività impropria, sostenendo che parte delle ipotesi che ad essa vengono tradizionalmente aggregate vanno (ri)costruite come “fattispecie monosoggettive ‘soggettivamente complesse’” e, per l’altro, afferma che in queste ultime il soggetto non punito non possa essere qualificato partecipe (nella prospettiva di rilevanza delineata dall’art. 110 c.p.), “tutte le volte che viene adottata una tecnica descrittiva a modalità vincolata” che “comporta una definizione rigida dei ruoli astrattamente ipotizzati in relazione ai soggetti implicati dalla fattispecie” [MAIELLO, 289, il quale osserva, ancora, che “del tutto condivisibilmente viene criticata l’appartenenza alla pluri-

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soggettività impropria sia della bancarotta preferenziale (art. 216, 3° comma, della legge fallimentare), sia della rivelazione di segreti d’ufficio (art. 326 c.p.), poiché in entrambi i quadri normativi l’incriminazione non sarebbe centrata su una relazione di biunivocità necessaria tra due condotte, restando questa, di conseguenza, estranea allo specchio descrittivo della fattispecie ed alla costruzione/definizione del relativo significato di tipicità. Ed invero, da un lato, “con la locuzione esegue pagamenti l’art. 216 l. fall. non intende definire una condotta del soggetto tipico (l’imprenditore) in correlazione astrattamente necessaria con quella del creditore che accetta”, dall’altro, l’art. 326 c.p. “non tipicizza un indefettibile rapporto tra il soggetto qualificato ed il destinatario”]». Emerge così l’erroneità dell’applicazione dei principi in materia di concorso di persone nel reato di cui all’art. 12-quinques della legge n. 356/1992. Ed invero, l’affermazione secondo cui questa figura criminosa non è qualificabile come espressione di una vicenda di plurisoggettività impropria, in quanto descritta in forma libera, dovrebbe implicare che il legislatore non abbia considerato la dimensione plurisoggettiva quale modalità necessaria, e perciò tipica, della fattispecie, ma abbia strutturato un fatto che istituzionalizza una relazione asimmetrica (sul piano teleologico degli interessi protetti e della ratio della tutela) tra soggetto punito ed agente non punito. Sennonché, come ben evidenziato in dottrina [MAIELLO, 289], è di tutta evidenza come questa tecnica di incriminazione non si trovi riflessa nello schema legale ritagliato dalla disposizione: qui, invero, il fatto rilevante esige il concorso indefettibile di due soggetti, entrambi dovendo fornire un apporto per la cosciente creazione di una situazione di apparenza giuridica, destinata a “schermare” la realtà dei rapporti di signoria sui beni negoziati. A ben vedere, non sembra possa infatti ipotizzarsi una attribuzione fittizia “ad altri” senza che “un altro” vi sia e cooperi, attivamente e consapevolmente, alla immutatio veri. In definitiva, la disposizione in esame, nel tipicizzare una operazione negoziale di natura simulatoria, attrae nella dimensione astratta di un giudizio di strumentalità necessaria la condotta del terzo fittizio intestatario: così configurata, essa si pone come condizione indefettibile di ipotizzabilità del fatto espressamente punito [(b) DI MARTINO, 238 ss.]. Ora, nel trasferimento fraudolento di valori, la Suprema Corte presuppone che il terzo concorra consapevolmente a creare la situazione di apparenza negoziale. Conseguentemente, se l’apporto che il terzo fornisce è strutturalmente necessario al fittizio trasferimento, e se, dunque, esso non può che essere realizzato nella piena consapevolezza del significato simulatorio dell’operazione e delle connesse finalità, risulta del tutto evidente come il legislatore abbia costruito una fattispecie autenticamente plurisoggettiva, di cui ha circoscritto la punibilità al solo soggetto portatore dell’interesse ad eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniale. Una rigorosa applicazione del principio di legalità imporrebbe dunque di escludere in ogni caso una punibilità ricavata in via interpretativa ex art. 110. Tuttavia, questa conclusione non è accettata da quella parte della dottrina e

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della giurisprudenza che non ritiene decisivo il fatto che il legislatore non si sia “pronunciato” sulla punibilità di una delle condotte che compongono la fattispecie tipica [PAPA, 741, che cita la giurisprudenza, relativa essenzialmente ai reati di collusione con militari della Guardia di Finanza e di bancarotta preferenziale], dovendo piuttosto essere analizzati lo scopo della norma e le direttive generali dell’ordinamento giuridico, atteso che la categoria della plurisoggettività impropria ricomprende non soltanto ipotesi in cui la condotta non punibile è quella del soggetto passivo – e quindi vittima – del reato (ad esempio, il ricorso al credito usurario nell’art. 644 c.p.), ma altresì ipotesi in cui la condotta del correo necessario appare per molti aspetti speculare a quella del soggetto punibile (come, ad esempio, si verifica nel millantato credito); conseguentemente, se, in relazione alle prime, risulta abbastanza afferrabile la ratio su cui riposa l’impunità del soggetto passivo, totalmente insondabile risulta essere invece quella che giustifica l’impunità del correo necessario nelle seconde [CARNELUTTI, 329 ss.; R. DELL’ANDRO, 1956; (a) DI MARTINO, 101 ss.; GRISPIGNI, 223 ss.; RANIERI, 268 ss.; SANTORO, 50 ss.; SESSO, 19 ss.]. Questa opinione, tuttavia, non appare condivisibile. Ed invero, quando si afferma che una norma, anche se nella sua lettera non contempla la punibilità, tuttavia non la esclude espressamente, si finisce con il “riscrivere” arbitrariamente il principio di legalità, ingenerando la paradossale conseguenza per cui, affinché un fatto costituisca reato, non sarebbe necessaria la previsione espressa di legge, ma sarebbe piuttosto sufficiente la non espressa esclusione della punibilità. A ben vedere, una impostazione simile nasconde l’arbitraria sostituzione dei giudici alle scelte politico criminali del legislatore. In effetti, la funzione incriminatrice svolta dall’art. 110 c.p. finisce per dare copertura all’offesa realizzata attraverso condotte non tipiche (quando il loro complesso integra un’offesa tipica, o nella logica dell’accessorietà a condotte tipiche, od alla stregua di una fattispecie plurisoggettiva eventuale), ma non può conferirla a condotte già autonomamente tipiche e però non espressamente punite. Secondo un diverso orientamento, decisamente da condividere, la mancata espressa incriminazione costituisce uno sbarramento alla punizione delle condotte corrispondenti a quelle indicate nella fattispecie tipica e non dichiarate punibili: in altri termini, non è punibile la condotta che non supera la misura minima necessaria per l’integrazione della fattispecie tipica plurisoggettiva [nella manualistica FIANDACA, MUSCO, 533]. Ed è questa la conclusione del tutto compatibile con il principio di stretta legalità [ad es., sulla non punibilità della mera condotta di ricezione della notizia ex art. 326, v. di recente Cass., Sez. II, 23.4. 2008, Matacena e a., in CED, 2008/240687]. Sembra quindi corretto affermare che la (categoria dommatica) della plurisoggettività impropria disvela una peculiare destinazione politico-criminale, enucleando un preciso limite di operatività alla funzione incriminatrice delle disposizioni in tema di concorso criminoso, «indotto dalla preminenza accordata ai profili di garanzia della legge penale incriminatrice, rispetto ai quali, dunque, l’ufficio estensivo della punibilità, svolto dal fenomeno concorsuale, è

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destinato a segnare il passo» [MAIELLO, 289]. Ed invero, affermare la punibilità a titolo concorsuale di una condotta tipica (prevista, cioè, da una norma incriminatrice che, pur congegnandola quale modalità necessaria di integrazione del fatto, tuttavia non la punisce espressamente), vuol dire arrecare grave pregiudizio al principio di legalità e ai suoi corollari, atteso che la mancata espressa punizione, a livello della norma penale, della condotta pure considerata essenziale per la configurazione della tipicità criminosa, segnala l’inequivoca scelta del legislatore in favore della connessa non punibilità. Quanto esposto consente di conoscere ed apprezzare le ragioni di contestazione della tesi giurisprudenziale favorevole all’applicabilità della disciplina del concorso criminoso, rispetto alla condotta del terzo che si presta a ricevere la fittizia intestazione. Diverso problema è stabilire se l’art. 110 possa essere applicato a quei comportamenti ulteriori ed atipici che, non essendo logicamente compresi nell’azione non punibile, mantengono una loro individualità che ne consente l’incriminazione a titolo di concorso eventuale quando siano causali rispetto alla realizzazione del reato [cfr. (b) DI MARTINO, 238 ss., che ritiene necessario valutare se le condotte “ulteriori” incidano o meno sulla ragione della non punibilità accordata alla condotta-base]. In virtù di questo esito interpretativo, si osserva, viene evitata altresì l’incongruenza di attribuire rilevanza penale a condotte di agevolazione e di istigazione commesse da soggetti estranei e di negarla, invece, ad identiche condotte realizzate dai concorrenti necessari non espressamente punibili [M. GALLO]. La giurisprudenza non dubita che le condotte ulteriori siano punibili ex art. 110 c.p.: esse possono consistere nelle forme consuete della determinazione, dell’istigazione, dell’accordo, ma anche «nei modi più vari ed indifferenziati, al di fuori di qualsiasi catalogazione o tipicizzazione» [cfr. Cass., S.U., 28.11. 1981, Emiliani, in Foro it., 1982, II, 359; in Cass. pen., 1982, 432, relativa ad un caso di accordo preventivo sulle modalità della rivelazione; per la citazione cfr. Cass., Sez. VI, 14.10.2009, Pezzuto, in CED, 2009/245021: in un caso di rivelazione di segreto d’ufficio, sarebbero condotte ulteriori rispetto alla mera ricezione, ad es., la predisposizione di un supporto magnetico per i documenti acquisiti, il trasferimento su di esso del contenuto delle informazioni, la consegna ad un giornalista]. Anche questa conclusione, del resto, ripete il proprio fondamento dalla funzione politico-criminale della “plurisoggettività impropria”, la quale pone l’esigenza di stabilire il regime di punibilità delle condotte diverse ed ulteriori poste in essere dal soggetto non punibile. In questi casi, a ben vedere, in testa al fittizio attributario potrebbe ipotizzarsi, più che una responsabilità a titolo di concorso eventuale nel medesimo delitto commesso da colui che effettua il trasferimento fittizio, una responsabilità per favoreggiamento reale, ex art. 379 c.p., sempre che, naturalmente, si accerti nel caso concreto la sussistenza dei requisiti oggettivi e soggettivi richiesti dalla fat-

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tispecie incriminatrice. Una tale soluzione, infatti, consentirebbe di modellare la pena sul diverso (e più tenue) grado di disvalore che vale a connotare la condotta posta in essere dal terzo intestatario, coerentemente con quanto imposto dal principio di uguaglianza-ragionevolezza e di proporzionalità della risposta sanzionatoria. Non vi è, infatti, chi non auspichi come quest’ultima si atteggi in chiave di minore severità rispetto alla condotta del “signore dominicale” effettivo. Si tratta di una ipotesi che non è stata ancora adeguatamente sottoposta al vaglio attento di dottrina e giurisprudenza, ma che, verosimilmente, potrebbe in futuro rivelarsi foriera di interessanti sviluppi, in quanto più aderente al fondamentale principio di personalità della responsabilità penale.

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356/1992 in materia di trasferimento fraudolento e possesso ingiustificato di valori, in CORSO, INSOLERA, STORTONI (a cura di), Mafia e criminalità organizzata, II, in Giur. sist. Bricola, Zagrebelski, Torino, 1995; (b) ZANOTTI, Reato plurisoggettivo, in Dig. disc. pen., XI, Torino, 1996; ZAZA, Il messaggio della sentenza n. 48/1994 della Corte costituzionale della distinzione tra diritto penale e diritto di prevenzione, in Diritto penale, diritto di prevenzione e processo penale nella disciplina del mercato finanziario, Atti del IV Congresso Nazionale di diritto penale, Torino, 1996.

Capitolo II

La disciplina sanzionatoria della normativa antiriciclaggio

Sommario

1. Introduzione. – 2. Il d.lgs. n. 231/2007: profili generali. – 2.1. La definizione di riciclaggio. – 2.2. Tecniche di incriminazione e bene giuridico tutelato. – 2.3. Le clausole di riserva. – 3. Violazione degli obblighi di adeguata verifica. – 3.1. Omissioni o falsità attinenti al titolare effettivo o alla natura o scopo previsto dal rapporto continuativo. – 3.2. Banche di comodo e “black list” antiriciclaggio. – 4. Violazione degli obblighi di registrazione. – 4.1. Violazione degli obblighi con mezzi fraudolenti. – 4.2. Gli illeciti amministrativi. – 4.3. La confisca. – 5. Violazioni degli obblighi di segnalazione. – 5.1. L’esenzione prevista per i professionisti. – 5.2. Il mancato rispetto del provvedimento di sospensione. – 5.3. La tutela penale della segretezza delle comunicazioni. – 6. Limitazioni all’uso del contante e dei titoli al portatore. – 7. La tutela penale delle carte di credito o di pagamento. – 7.1. L’oggetto materiale del reato – 7.2. Le condotte vietate. – 7.3. L’elemento psicologico. – 8. Violazioni in materia di vigilanza e comunicazioni. – 8.1. Comunicazione delle infrazioni previste dall’art. 49. – 8.2. Obblighi informativi nei confronti della UIF. – 9. La responsabilità degli enti. – 9.1. La responsabilità solidale per gli illeciti amministrativi. – Bibliografia.

1. Introduzione. Il riciclaggio del denaro di provenienza delittuosa costituisce l’anello di congiunzione tra la criminalità organizzata e quella d’impresa, «una sorta di cinghia di trasmissione idonea a mettere in comunicazioni tali realtà criminologiche» [PALIERO, 148; cfr. anche DI NICOLA, 44]. Infatti, «se può esistere riciclaggio senza criminalità organizzata, non può esistere criminalità organizzata senza riciclaggio» [FAIELLA, 325]. Le attività di “lecito-vestizione” del reddito illegalmente prodotto appartengono alla fisiologia delle associazioni criminali [(a) MANGIONE, 1130], perché consentono non solo di ostacolare le indagini sui reati commessi, ma anche di immettere nell’economia legale imponenti flussi di liquidità (al netto delle somme necessarie per il sostentamento degli affiliati e per l’acquisto di beni illeciti), con tutto ciò che ne deriva in termini di controllo del territorio e di acquisizione del consenso [VIGNA, 9].

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Allo stesso tempo, le complesse tecniche d’ingegneria finanziaria necessarie per simulare l’origine lecita del bene presuppongono conoscenze specialistiche e modalità “imprenditoriali” di organizzazione. Da ciò la necessità di coinvolgere nel contrasto al riciclaggio gli operatori istituzionali del mercato economico e finanziario [CASTALDO, NADDEO, 61 ss., 253 ss.; (a) ZANCHETTI, 98 ss., 216 ss.; ZANOTTI, 315-316], i quali sono in possesso sia di informazioni privilegiate che lo Stato non può raccogliere autonomamente «per i noti vincoli, anche internazionali, legati ai valori e alle esigenze del liberismo» [(b) MANGIONE, 228], sia delle competenze necessarie per la loro decodifica [CENTONZE, 1758]. Le più recenti linee politico-criminali elaborate in sede internazionale hanno pertanto integrato l’approccio prettamente repressivo della Convenzione delle Nazioni Unite adottata a Vienna il 19 dicembre 1988 e della Convenzione del Consiglio d’Europa aperta alla firma a Strasburgo l’8 novembre 1990 [MANACORDA, 459 ss.] con una strategia preventiva che poggia sulla collaborazione attiva degli attori del mercato legale. Infatti, la Convenzione internazionale contro il crimine organizzato transnazionale (aperta alla firma a Palermo dal 12 al 15 dicembre 2000) e la Convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio (aperta alla firma a Varsavia il 16 maggio 2005) prevedono, accanto alle già sperimentate disposizioni in tema di obblighi di incriminazione e di cooperazione giudiziaria, misure per prevenire il riciclaggio attraverso l’identificazione dei clienti, la conservazione dei dati raccolti e la segnalazione delle operazioni sospette. Tale strada è stata imboccata dall’Unione europea già a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, e trova la sua attuale disciplina nella direttiva 2005/60/CE del 26 ottobre 2005 [FEROLA, 227 ss.], recepita dal d.lgs. 22.6.2007, n. 109, che si occupa essenzialmente del congelamento dei fondi e delle risorse economiche per il contrasto del finanziamento del terrorismo, e dal d.lgs. 21.11.2007, n. 231, che invece si propone l’ambizioso obiettivo di «prevenire l’utilizzo del sistema finanziario e di quello economico per finalità di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo» [art. 2 comma 5]. A quest’ultimo provvedimento rivolgeremo la nostra attenzione, e allo stesso si intenderanno riferiti, in mancanza di diversa specificazione, gli articoli citati. 2. Il d.lgs. n. 231/2007: profili generali. Il d.lgs. n. 231/2007 ha cercato di razionalizzare un quadro normativo che, a partire dai d.l. 15.12.1979, n. 625 e 3.5.1991, n. 143, era stato oggetto «di una attenzione legislativa, a dir poco, caotica» [MOCCIA, 92], e costituisce pertanto la nuova legge antiriciclaggio [art. 67 comma 1]. Sulla scia della direttiva 2005/60/CE, gli obblighi di collaborazione attiva imposti ai destinatari del decreto riguardano l’adeguata verifica del cliente [artt. 15-35], la conservazione e registrazione dei dati raccolti [artt. 36-40] e la segnalazione delle operazioni sospette [artt. 41-48]. Inoltre, sono previste limitazioni

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all’uso del contante e dei titoli al portatore [art. 49] e il divieto di conti e libretti di risparmio anonimi o con intestazione fittizia [art. 50]. Il contenuto degli obblighi si adegua alle peculiarità dei diversi destinatari, ripartiti in categorie omogenee a seconda che si tratti di: 1) intermediari finanziari (ad esempio, banche, società di intermediazione finanziaria, Poste italiane, ecc.) o altri soggetti esercenti attività finanziaria (promotori finanziari, intermediari assicurativi, ecc.) [art. 11]; 2) professionisti (dottori commercialisti, esperti contabili, consulenti del lavoro, in alcuni casi notai e avvocati, ecc.) [art. 12]; 3) revisori contabili (società di revisione e soggetti iscritti nel registro dei revisori contabili) [art. 13]; 4) altri soggetti (case da gioco, agenzie di mediazione immobiliare, ecc.) [art. 14]. La vigilanza sul rispetto della normativa è affidata, a seconda dei casi, alle Autorità di vigilanza (Banca d’Italia, Commissione nazionale per la società e la borsa – Consob, Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni – Ivass) [art. 7], agli ordini professionali, alla Direzione investigativa antimafia e al Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza [art. 8]. Tra le autorità che presiedono al funzionamento del regime antiriciclaggio spicca l’Unità di informazione finanziaria – UIF, un organismo tecnico che analizza i flussi finanziari al fine di individuare e prevenire fenomeni di riciclaggio di denaro o di finanziamento del terrorismo, collabora con le autorità competenti per l’emanazione della normativa secondaria e riceve le segnalazioni delle operazioni sospette [art. 6]. 2.1. La definizione di riciclaggio. – L’art. 2 detta, ai «soli fini» del d.lgs. n. 231/2007, una definizione di riciclaggio più ampia del paradigma offerto dall’art. 648-bis c.p. [CRISCUOLO, 504 ss.; GIAVAZZI, 772 ss.; TRAPASSO, 352 ss.]. La differenza più vistosa consiste nella rilevanza attribuita al c.d. autoriciclaggio. Infatti, ai sensi dell’art. 2 comma 1, costituiscono riciclaggio anche le condotte di conversione, trasferimento, ecc., poste in essere dall’autore del reato dal quale provengono i beni; al contrario, la clausola di esordio degli artt. 648bis ss. c.p. («fuori dai casi di concorso nel reato») non consente di punire a titolo di riciclaggio o impiego l’autore del reato-fonte [SEMINARA, 233 ss.]. Inoltre, mentre l’art. 648-bis c.p. presuppone la realizzazione di un delitto non colposo, l’art. 2 parla più genericamente di provenienza da «un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività» [GIAVAZZI, 773]: un’espressione ampia, idonea a ricomprendere anche le contravvenzioni e i delitti colposi (ma non gli illeciti amministrativi). Né è possibile ipotizzare una riduzione dell’area operativa della disposizione alla luce della definizione dettata dall’art. 3 (4) della direttiva 2005/60/CE, che identifica l’attività criminosa nel coinvolgimento in un reato grave, e cioè (almeno) punito con una pena privativa della libertà personale superiore a un anno nel massimo, o a sei mesi nel minimo: i limiti edittali stabiliti dalla direttiva indicano lo standard minimo al quale gli Stati membri devono adeguarsi, senza impedire loro di adottare «disposizioni più rigorose» [art. 5 direttiva 2005/60/CE].

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Ancora, l’elemento dell’ostacolo all’identificazione della provenienza delittuosa del bene, che esprime sia il «contenuto di offensività» dell’art. 648-bis c.p. [(a) ZANCHETTI, 366] sia il connotato essenziale della nozione economica di riciclaggio [MASCIANDARO, 16], non è sempre presente nella definizione dettata dall’art. 2. Infatti, solo l’art. 2 comma 1 lett. b) identifica la condotta di riciclaggio nell’occultamento o nella dissimulazione dell’origine illecita dei beni; nell’art. 2 comma 1 lett. a), invece, l’occultamento o la dissimulazione indicano una finalità delle condotte di conversione e trasferimento, tra l’altro alternativa a quella di favoreggiamento; addirittura, ai sensi dell’art. 2 comma 1 lett. c), si considera riciclaggio anche l’acquisto, la ricezione o l’utilizzazione di un bene accompagnato dalla consapevolezza della sua provenienza criminosa, cioè una fattispecie che nel nostro ordinamento si colloca a cavallo tra la ricettazione ex art. 648 c.p. (anche se manca il fine di profitto) e l’impiego ex art. 648-ter c.p. Infine, la nozione di riciclaggio si estende anche al tentativo, a condotte di tipo concorsuale (partecipazione, aiuto, istigazione, consiglio, agevolazione) e all’associazione, purché inerenti a una delle ipotesi precedentemente menzionate [art. 2 comma 1 lett d)]. Tale enunciato ricalca l’art. 1 (2) (d) della direttiva 2005/60/CE, a sua volta modellato sull’obbligo di incriminazione prescritto dalle convenzioni internazionali in materia di riciclaggio [supra, 1]. Sennonché, la trasposizione di un precetto internazionale di matrice penalistica in un contesto normativo volto a fini preventivi comporta un delicato problema ermeneutico, non essendo chiaro se le nozioni di tentativo, associazione, ecc. vadano interpretate alla luce dei princìpi penalistici (e quindi richiedendo l’idoneità e l’univocità degli atti nel tentativo, una congrua organizzazione della compagine associativa, ecc.), oppure in termini autonomi, ad esempio considerando rilevante ai fini degli obblighi antiriciclaggio anche un consiglio che non integrerebbe il paradigma della compartecipazione penalmente rilevante. In ogni caso, giova ribadire che la definizione esaminata è valida solo ai fini preventivi, ossia funge da presupposto degli obblighi di adeguata verifica, di registrazione, di astensione [art. 23 comma 2] e di segnalazione, ma non influisce in nessun modo sulla tipicità della fattispecie penale di riciclaggio [GIAVAZZI, 772-773]: lo esplicita l’art. 2 comma 6, affermando che l’azione di prevenzione disciplinata dal d.lgs. n. 231/2007 «è svolta in coordinamento con le attività di repressione dei reati di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo». Malgrado ciò, l’asimmetria tra le due diverse nozioni di riciclaggio ha sollevato molti dubbi in dottrina. Su un primo versante, si teme che un’applicazione letterale della definizione valida ai fini preventivi porti a travisare la reale dimensione offensiva del fenomeno del riciclaggio: si imporrebbe pertanto un’interpretazione «teleologicamente orientata», nel senso che tutte le condotte descritte dall’art. 2 dovrebbero implicare un potenziale ostacolo all’identificazione della provenienza illecita del bene [GIAVAZZI, 775-776]. Tale schema interpretativo rischia però di contrastare con la ratio della direttiva 2005/60/CE, non potendosi escludere che il legislatore europeo abbia consapevolmente esteso la

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sfera degli obblighi preventivi in materia di riciclaggio anche a condotte che prescindono dall’ostacolo all’identificazione della provenienza illecita del bene. Infatti, tale requisito non compare in tutte le legislazioni nazionali [(a) MANES, 54-56], tant’è che la definizione penalistica adottata in sede internazionale – e puntualmente ripresa dalla stessa direttiva 2005/60/CE – ha dovuto mettere d’accordo «tanto paesi che costruiscono la fattispecie sulla base della ricettazione quanto altri che prendono a modello il favoreggiamento» [(a) ZANCHETTI, 174 nota 112]. D’altro canto, una nozione ampia di riciclaggio pare rispondere alla logica preventiva del d.lgs. n. 231/2007, perché riduce «il rischio di reticenza da parte dei funzionari, celate dietro l’assenza di riscontri circa qualche specifico elemento dei reati previsti dal codice» [DELL’OSSO, 765]. Su un secondo versante, si è invece osservato che una norma definitoria di matrice sovranazionale «supera naturalmente gli “angusti” confini che pure un legislatore ordinario potrebbe decidere di assegnarle», sicché sarebbe «inevitabile che la sua esistenza condizioni l’operatività di altre norme ad essa collegate» [TRAPASSO, 356]. Tale timore può essere ridimensionato, perché in assenza di una norma nazionale di recepimento le direttive non possono fondare o aggravare la responsabilità penale del cittadino [SOTIS, 237 ss.]. Di conseguenza, l’art. 2 comma 1 non può in alcun modo neutralizzare il discusso “beneficio” di autoriciclaggio concesso dall’art. 648-bis c.p., né far rientrare nello schema codicistico del riciclaggio condotte attualmente punite a titolo di ricettazione o di favoreggiamento. 2.2. Tecniche di incriminazione e bene giuridico tutelato. – A chiusura del sistema, il d.lgs. n. 231/2007 prevede sei fattispecie delittuose, due contravvenzionali e quindici illeciti amministrativi [artt. 55-58]. Si tratta di un quadro normativo che, in continuità con il passato, mostra grande «approssimazione nella scelta tra sanzione penale e sanzione amministrativa» [BRICOLA, 554; cfr. anche MOCCIA, 93]. Ad esempio, chi controlla i destinatari degli obblighi di collaborazione risponde penalmente dell’omessa comunicazione di violazioni che integrano altrettanti illeciti amministrativi [infra, § 8]; non registrare i dati di un’operazione costituisce delitto, mentre la mancata costituzione dell’intero Archivio informatico è sanzionata in via amministrativa [infra, § 4.2]; chi colposamente omette di fornire informazioni relative agli obblighi di adeguata verifica è punito a titolo contravvenzionale [infra, § 3.1.], mentre integra un illecito amministrativo l’omessa segnalazione colposa delle operazioni sospette (che pure, «per una certa univocità obiettiva degli elementi sintomatici, può costituire un forte ostacolo alla repressione del riciclaggio» [BRICOLA, 554]). Le fattispecie penali previste dall’art. 55, con l’esclusione dei commi 8 e 9, hanno un contenuto «sostanzialmente trasgressivo-omissivo» [(b) DONINI, XXVI]. Più precisamente, si impiega lo schema dei reati di omessa comunicazione [commi 5 e 7], e più frequentemente quello del reato d’obbligo [commi da 1 a 4], nel quale la modalità commissiva o omissiva di realizzazione del fatto è indif-

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ferente perché «il fondamento della sanzione sta nel fatto che il soggetto non adempie alle prestazioni che il ruolo sociale da lui assunto gli impone» [ROXIN, 53]. La struttura dei reati e l’abuso della tecnica del rinvio denunciano la dimensione accessoria e meramente sanzionatoria dell’apparato repressivo in esame, tant’è che parte della dottrina parla di incriminazioni «incentrate sulla violazione di obblighi formali» e di «evidente» deficit di offensività [PISTORELLI, 2472; cfr. anche SCORDAMAGLIA, 110]; trattandosi di condotte «che esauriscono il loro disvalore nell’omissione di adempimenti la cui pregnanza lesiva, tale cioè da meritare la qualifica di illecito penale, è tutt’altro che evidente», sarebbe per alcuni preferibile ricorrere esclusivamente all’arsenale delle sanzioni amministrative [TRAPASSO, 364 ss.]. Altri, al contrario, hanno identificato il bene giuridico tutelato nella «efficacia del sistema preventivo» [AMODIO, 1056], oppure «nell’integrità dei sistemi finanziario ed economico», e solo indirettamente «nella stabilità degli stessi obblighi» di collaborazione [(b) ZANCHETTI, 1948]. Sullo sfondo del dibattito si staglia la complessa tematica – che non può essere affrontata in questa sede – della tutela delle funzioni, e cioè se il diritto penale possa legittimamente proteggere anche il corretto svolgimento di quelle attività giuridicamente regolate che governano e controllano contesti di vita rilevanti sul piano economico e sociale. Beninteso, la trasgressione di una qualunque disciplina ordinatoria non basta di per sé a legittimare l’intervento della sanzione penale: nel caso contrario, si spaccerebbe «come bene giuridico la mera osservanza di una norma» che, «postulando per l’appunto il rispetto delle prescrizioni da essa richiamate, finirebbe col tutelare se stessa» [PADOVANI, 639]. Allo stesso tempo, sembra opportuno adottare un approccio «relativistico e non generalizzante» [(b) MANES, 101], sottraendosi ad un’alternativa – se le funzioni siano o meno beni giuridici – che rischia di «equivalere a una questione retorica priva di rilievo sostanziale» [FIANDACA, DI CHIARA, 147]. Sulla scia di una proposta ricostruttiva formulata in relazione alla disciplina previgente, si potrebbe argomentare che gli obblighi di collaborazione costituiscono «il volano indispensabile per garantire l’effettività della disciplina “finale”», poiché funzionali ad «assicurare la concreta e tempestiva possibilità di accertamento» dei reati di riciclaggio e reimpiego [PADOVANI, 646]; in altri termini, l’oggetto di tutela sarebbe dato dall’integrità del patrimonio informativo concernente la relazione tra capitali e soggetti, e in via mediata dal bene “finale” dell’amministrazione della giustizia [FORTE, 328-329]. Se invece si parte dal presupposto che il d.lgs. n. 231/2007 persegua «un’azione di contrasto che va ben oltre il bene delle indagini e dell’accertamento dei reati presupposto, per investire le “regole economiche e finanziarie” del sistema» [(b) DONINI, XXIV], si potrebbe forse inquadrare la disciplina antiriciclaggio in quei beni-funzione che, nel garantire lo svolgimento di un’attività «secondo parametri di correttezza, sicurezza, pianificazione», mirano a un risultato – in questo caso, «prevenire e impedire la realizzazione di operazioni di riciclag-

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gio o di finanziamento del terrorismo» [art. 3] – il cui mancato raggiungimento darebbe luogo alla messa in pericolo o alla lesione di altri beni [in diverso contesto, (a) DONINI, 245-246]: restando impregiudicati, ovviamente, i profili relativi all’effettività e all’extrema ratio delle scelte punitive adottate [ALESSANDRI, 268]. 2.3. Le clausole di riserva. – Alcuni illeciti penali previsti dall’art. 55 sono subordinati alla clausola di riserva relativamente indeterminata «salvo che il fatto costituisca più grave reato». Si tratta, più precisamente, dei reati di violazione delle disposizioni concernenti l’obbligo di identificazione [art. 55 comma 1], di omessa o falsa indicazione delle generalità del soggetto per il quale si compie l’operazione [art. 55 comma 2]; di omesse o false informazioni sullo scopo e sulla natura del rapporto d’affari [art. 55 comma 3]; di omessa, tardiva o incompleta comunicazione da parte degli organi di controllo [art. 55 comma 4], di violazione dei divieti di comunicazioni [art. 55 comma 8]. Analogamente, sono subordinati alla clausola «salvo che il fatto costituisca reato» gli illeciti amministrativi di mancato rispetto del provvedimento di sospensione dell’operazione [art. 57 comma 1] e di omessa segnalazione delle operazioni sospette [art. 57 comma 4]. Secondo parte della dottrina, tali clausole si riferirebbero all’art. 648-bis c.p. [BEVILACQUA, 290; PISTORELLI, 2743-2744; F. ROMANO, 632 e 634]; anzi, sarebbe difficile pensare a una consapevole omissione degli obblighi di collaborazione sanciti dal d.lgs. n. 231/2007 che non ostacoli l’identificazione della provenienza delittuosa del bene, e che pertanto non integri il delitto di riciclaggio [LONGOBARDO, 880-881]. Tale orientamento sottintende la possibilità di sussumere nel paradigma dell’art. 648-bis c.p. condotte meramente omissive, o attraverso un’interpretazione ampia del concetto di «altre operazioni» [contra, CASTALDO, NADDEO, 131 ss.; più sfumato (a) ZANCHETTI, 373 ss.], oppure configurando in capo ai destinatari del d.lgs. n. 231/2007 l’obbligo di impedire il reato di riciclaggio ai sensi dell’art. 40 comma 2 c.p. [a favore, ANGELINI, 8485; LONGOBARDO, 852; (b) ZANCHETTI, 1943; contra, PALMA, 162 ss.; ZANOTTI, 325-326]. Altra parte della dottrina replica però che il riciclaggio sarebbe realizzabile con modalità esclusivamente commissive, non potendosi dar luogo a «un’indebita traslazione sulla struttura dell’art. 648-bis cod. pen. degli obblighi di collaborazione attiva previsti dal D. Lgs. 231/2007» [BERNASCONI, GIUNTA, 48; cfr. anche CASTALDO, NADDEO, 134]. In quest’ottica, solo il mancato rispetto (ovviamente doloso) del provvedimento di sospensione emesso dalla UIF [infra, § 5.2.] potrebbe sfociare in una condotta astrattamente compatibile con l’art. 648bis c.p. [RAPONI, 94]. In ogni caso, per configurarsi il reato di riciclaggio deve sussistere anche il relativo elemento psicologico. A tal proposito, merita di essere valorizzato l’orientamento restrittivo delle Sezioni unite, secondo il quale nel delitto di ricettazione – e lo stesso dovrebbe valere per la fattispecie, affine sul piano strutturale,

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di riciclaggio – il dolo eventuale sussisterebbe solo «quando l’agente, rappresentandosi l’eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuto la certezza» [Cass., S.U., 26 novembre 2009, Nocera, in Cass. pen., 2010, 2554]. Di conseguenza, il mero sospetto circa la provenienza delittuosa del bene o la previa commissione del reato non dovrebbe bastare a integrare la fattispecie prevista dall’art. 648-bis c.p. [CENTONZE, 1793; per una critica alla sentenza delle Sezioni Unite, cfr. invece RONCO, 16 ss.]. In argomento, merita di essere segnalata una recente condanna per riciclaggio inflitta a una funzionaria di banca che aveva autorizzato alcune società legate alla criminalità organizzata al compimento di numerose operazioni sospette. I giudici hanno ravvisato gli estremi del dolo eventuale evidenziando la «specifica preparazione professionale» della funzionaria, e considerando che le operazioni in questione «avrebbero dovute essere segnalate per la normativa antiriciclaggio e non lo erano state», e che comunque, «anche a prescindere dalle segnalazioni a chi di dovere, dovevano costituire un ulteriore motivo d’allarme». Inoltre, precisano i giudici, la funzionaria: a) non aveva indicato ai superiori che le società in questione erano riconducibili a un gruppo, «e non per mera dimenticanza o altra giustificabile ragione ma per il semplice fatto che se così le avesse censite ella avrebbe cessato di esserne il gestore»; b) non aveva rispettato le regole interne in tema di affidamenti, concedendo finanziamenti a società «prive di bilancio e/o con bilanci assolutamente inconsistenti»; c) aveva personalmente autorizzato il pagamento in contanti di assegni di sportello e di assegni bancari «(spesso a cadenza non regolare e non spiegabili per destinazione)»; d) aveva omesso di controllare i conti correnti delle società affidate, dai quali emergeva un anomalo utilizzo del contante; e) in questo modo, avrebbe occultato, attraverso la trasformazione in contanti, «il provento dei reati fiscali che chi operava, con il suo placet, andava consumando» [App. Milano, sez. II, 11 maggio 2012, n. 1031, in Giur. mer., 2012, 2394 ss.].

3. Violazione degli obblighi di adeguata verifica. L’art. 55 comma 1 punisce con la multa da 2.600 a 13.000 euro, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque «contravviene alle disposizioni contenute nel Titolo II, Capo I, concernenti l’obbligo di identificazione». La pena è raddoppiata se sussistono gli estremi dell’art. 55 comma 6 [infra, § 4.1.], ed è affiancata da una confisca speciale nel caso di violazioni gravi e reiterate [infra, § 4.3.]. Il rinvio indiscriminato agli artt. 15-35 del decreto – che è stato definito «un vero e proprio mostro giuridico» [DI AMATO, 287] – complica notevolmente l’individuazione dei confini della fattispecie. Infatti, non è chiaro se la soggettività attiva del reato si estenda anche al cliente, tenuto a fornire sotto la propria responsabilità tutte le informazioni necessarie e aggiornate per consentire l’adempimento degli obblighi di adeguata verifica, anche in relazione all’eventuale titolare effettivo dell’operazione [art. 21]. Al quesito si può dare una risposta negativa se si ammette che il cliente è il soggetto attivo dei reati previsti dai commi 2 e 3 dell’art. 55 [infra, § 3.1.].

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In giurisprudenza si è precisato che «in tanto sussiste l’obbligo per il cliente in quanto sussista quello per il destinatario» di procedere all’adeguata verifica [Trib. Milano, sez. XI, ord. 12 marzo 2009, in Foro ambr., 2009, 108 (s.m.)].

Ancora più incerto il significato da attribuire all’inciso «concernenti l’obbligo di identificazione». Secondo l’orientamento maggioritario [AMODIO, 1056; ARENA, 59-60; BEVILACQUA, 289-290; PISTORELLI, 2742; RAPONI, 71; contra, GAMBOGI, 944], si dovrebbero selezionare, all’interno del genus degli obblighi di adeguata verifica, le disposizioni relative all’identificazione e alla verifica dell’identità del cliente [art. 18 comma 1 lett. a)] e del titolare effettivo del rapporto [art. 18 comma 1 lett. b)], assieme alle connesse modalità di adempimento [art. 19 comma 1 lett. a) e b); art. 24]. Invece, non costituirebbe reato la trasgressione degli obblighi che completano l’adeguata verifica, e cioè la raccolta di informazioni sullo scopo e sulla natura prevista del rapporto continuativo o della prestazione professionale [art. 18 comma 1 lett. c)] e il controllo costante nel corso del rapporto continuativo o della prestazione professionale [art. 18 comma 1 lett. d)]. In questo modo, il quadro normativo italiano non rispetterebbe l’art. 39 della direttiva 2005/60/CE, che impone agli Stati membri di punire la violazione delle disposizioni da essa dettate con sanzioni (non necessariamente penali) effettive, proporzionate e dissuasive. Invece, il regime sanzionatorio allestito dal d.lgs. n. 231/2007 prevederebbe: a) sanzioni penali per le violazioni degli obblighi di identificazione [art. 55 comma 1]; b) sanzioni amministrative pecuniarie in caso di trasgressioni degli altri obblighi di adeguata verifica poste in essere dai destinatari del provvedimento della Banca d’Italia del 3.5.2013 e della delibera CONSOB n. 18802 del 18.2.2014 [cfr. l’art. 56 comma 1, che sanziona l’inosservanza dei provvedimenti emanati ai sensi dell’art. 7 comma 2]; c) nessuna risposta sanzionatoria per le violazioni commesse dagli altri soggetti obbligati all’adeguata verifica. Per scongiurare tale esito interpretativo si potrebbe sostenere che il legislatore italiano minus dixit quam voluit, e cioè che il riferimento all’obbligo di identificazione sia un’impropria formula riassuntiva dell’intero contenuto del Titolo II, Capo I. Che non si tratti di un’ipotesi peregrina è dimostrato dall’art. 10 comma 2, il quale individua alcuni soggetti che non soggiacciono agli «obblighi di identificazione e registrazione indicati nel Titolo II, capi I e II»: ebbene, in questo caso l’interpretazione letterale condurrebbe al risultato assurdo di obbligare il destinatario del precetto a ottenere informazioni sullo scopo e sulla natura prevista del rapporto [art. 18 comma 1 lett. c)] e a svolgere un controllo costante [art. 18 comma 1 lett. d)] … senza identificare previamente il cliente, e senza dover poi registrare i relativi dati. Ciò non toglie che l’idea di estendere le sanzioni previste dall’art. 55 comma 1 a tutti gli obblighi di adeguata verifica, risolvendosi pur sempre in una forzatura testuale, potrebbe porsi in tensione con il principio di tassatività, il quale prevale anche sulle esigenze di adeguamento ai vincoli europei [MAIELLO, 440 ss.; VIGANÒ, 649 ss., 667 ss.]. 3.

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Il contenuto degli obblighi di adeguata verifica varia a seconda che il destinatario appartenga alla classe degli intermediari finanziari [art. 15], dei professionisti e revisori contabili [art. 16], oppure degli altri soggetti [art. 17], ed è commisurato al rischio «associato al tipo di cliente, rapporto continuativo, prestazione professionale, operazione, prodotto o transazione di cui trattasi» [art. 20 comma 1]. La valutazione del rischio (risk assessment) e la successiva messa in atto delle opportune misure di gestione (risk management) sono demandate agli obbligati. Il destinatario è però esentato dagli obblighi di adeguata verifica quando il cliente è un soggetto istituzionale [art. 25 comma 1] oppure quando l’operazione riguarda determinati prodotti o transazioni finanziarie [art. 25 comma 6]. Viceversa, vi sono clienti e operazioni ad alto rischio che richiedono l’adozione di obblighi rafforzati [art. 28]. In dottrina si è osservato che le «oggettive difficoltà di individuazione del corretto grado di rischio-riciclaggio» potrebbero orientare il destinatario verso un livello insufficiente di risk management, portandolo così ad integrare gli estremi del reato in esame [CASTALDO, NADDEO, 291 nota 98]. Inoltre, un potenziale ampliamento della responsabilità penale [BEVILACQUA, 293] potrebbe anche derivare dalla clausola che esclude l’esenzione dagli obblighi «quando vi è sospetto di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo, indipendentemente da qualsiasi deroga, esenzione o soglia applicabile» [art. 25 comma 1, con riferimento agli artt. 15 comma 1 lett. c); 16 comma 1 lett. d); 17 comma 1 lett. c)]. Infine, potrebbe essere problematica l’identificazione del titolare effettivo [art. 18 comma 1 lett. b)], ossia della «persona fisica per conto della quale è realizzata un’operazione o un’attività, ovvero, nel caso di entità giuridica, la persona o le persone fisiche che, in ultima istanza, possiedono o controllano tale entità, ovvero ne risultano beneficiari» secondo i criteri dettati dall’art. 2 dell’allegato tecnico al d.lgs. n. 231/2007 [MARINO, 183 ss.]. Di fronte a questo panorama, è opportuno rimarcare che l’errata stima del rischio di riciclaggio, la colposa sottovalutazione degli indici di sospetto, l’ignoranza dell’esistenza del titolare effettivo non sono compatibili con il dolo richiesto dalla fattispecie in esame, il quale pertanto dovrà essere accertato sulla base di «indici inequivocabili» [(b) SOLDI, 525]. 3.1. Omissioni o falsità attinenti al titolare effettivo o alla natura o scopo previsto dal rapporto continuativo. – L’art. 55 comma 2 punisce con la reclusione da sei mesi a un anno e con la multa da 500 a 5.000 euro «l’esecutore dell’operazione che omette di indicare le generalità del soggetto per conto del quale eventualmente esegue l’operazione o le indica false». A sua volta, l’art. 55 comma 3 punisce con l’arresto da sei mesi a tre anni e con l’ammenda da 5.000 a 50.000 euro «l’esecutore dell’operazione che non fornisce informazioni sullo scopo e sulla natura prevista dal rapporto continuativo o dalla prestazione professionale o le fornisce false»: si tratta pertanto di una contravvenzione, punibile

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anche a titolo di colpa ai sensi dell’art. 42 comma 4 c.p. L’oscura figura dell’«esecutore dell’operazione», che non è definita dal d.lgs. n. 231/2007, dovrebbe essere individuata, secondo una prima opzione ricostruttiva, nel professionista [AMODIO, 1056; (b) SOLDI, 525]. Sennonché, uno sviluppo rigoroso di tale impostazione porterebbe inevitabilmente ad attribuire all’art. 55 comma 2 una sfera operativa più limitata rispetto a quella dell’art. 55 comma 3. Infatti, nel primo caso il soggetto attivo potrebbe essere esclusivamente l’avvocato o il notaio che compie un’operazione finanziaria o immobiliare in nome o per conto del cliente [art. 12 comma 1 lett. c)]: al di fuori di queste ipotesi, i destinatari degli obblighi di adeguata verifica non eseguono operazioni per conto di altri soggetti, dal momento che nel linguaggio del d.lgs. n. 231/ 2007 la formula «per conto» si riferisce al titolare effettivo [art. 2 comma 2 lett. u)], e non al cliente che si limita a richiedere l’esecuzione dell’operazione. Invece, una più ampia soggettività attiva andrebbe riconosciuta all’art. 55 comma 3, perché l’espressione «rapporto continuativo» si riferisce agli intermediari finanziari [art. 1 comma 2 lett. s)], mentre la «prestazione professionale» riguarda anche soggetti diversi dai professionisti in senso stretto [art. 1 comma 2 lett. q)]. In ogni caso, nel silenzio del legislatore, non è chiaro chi potrebbe esigere dai professionisti o dagli intermediari di comunicare le generalità del titolare effettivo dell’operazione o le informazioni sullo scopo o sulla natura prevista dal rapporto o dalla prestazione, tant’è che l’opinione in esame ritiene che tali richieste potrebbero indifferentemente provenire dall’autorità giudiziaria e investigativa, dagli ordini professionali, dalla UIF [AMODIO, 1057]. Un secondo orientamento ricollega invece i reati in esame all’art. 21 [obblighi del cliente], e di conseguenza identifica l’esecutore dell’operazione nel cliente [ARENA, 59 ss.; CASTALDO, NADDEO, 362 ss.; RAPONE, 74 nota 39; F. ROMANO, 632; STURZO, 355 ss.]. In effetti, nel linguaggio del d.lgs. n. 231/2007 il soggetto «che effettua l’operazione» si distingue da «colui per conto del quale eventualmente opera» [art. 36 comma 2 lett. b)], e pare corrispondere al cliente. D’altronde, già l’abrogato art. 13 comma 8 d.l. n. 625/1979, introdotto dall’art. 2 legge n. 197/1991, puniva con la stessa pena oggi prevista dall’art. 55 comma 2 «l’esecutore dell’operazione che omette di indicare le generalità del soggetto per conto del quale eventualmente esegue l’operazione o le indica false». Ebbene, in quel contesto normativo l’esecutore dell’operazione era indubbiamente il cliente [FORTE, 336-337], che ai sensi dell’art. 13 comma 1 d.l. n. 625/1979 era tenuto a «indicare per iscritto, sotto la propria personale responsabilità, le complete generalità del soggetto per conto del quale eventualmente» eseguiva l’operazione. -

La tesi sostenuta nel testo trova riscontro in un’ordinanza emessa dal Tribunale di Roma in sede di riesame, che ha confermato un sequestro preventivo disposto in relazione all’art. 55 commi 2 e 3 [Trib. Roma, 13.10.2010 (ord.), in www.invisible-dog.com/dog_leaks_english. html]. Tali reati sono stati contestati ai vertici dello IOR, i quali avevano richiesto di trasferire fondi da un conto detenuto dallo stesso IOR presso una banca italiana a conti intrattenuti con altri istituti di credito, senza comunicare «per chi (per sé o per eventuali terzi, di cui comunicare -

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le generalità)» intendessero «eseguire le due operazioni, né natura e scopo delle stesse». Si è pertanto implicitamente riconosciuto che il soggetto attivo degli illeciti in esame non è l’obbligato all’adeguata verifica (in questo caso, le banche), ma chi assume l’iniziativa dell’operazione (i vertici dello IOR). Tra l’altro, nel respingere un’eccezione difensiva che faceva leva sull’inoffensività delle transazioni richieste, il Tribunale ha precisato che i reati contestati consistono «in violazioni di obblighi formali imposti a garanzia della trasparenza e verificabilità delle operazioni bancarie […], per prevenire e permettere di scoprire il riciclaggio di capitali di illecita provenienza; come tali sono reati di pericolo presunto e non concreto». La Suprema Corte non ha avuto modo di pronunciarsi su queste problematiche, perché gli imputati hanno rinunciato al ricorso a seguito della revoca del sequestro [Cass., sez. II, 23.9.2011, n. 36240, in CED 2011/36240].

Ai sensi dell’art. 55 comma 6, le sanzioni previste dall’art. 55 comma 2 sono raddoppiate qualora «gli obblighi di identificazione e registrazione siano assolti avvalendosi di mezzi fraudolenti, idonei ad ostacolare l’individuazione del soggetto che ha effettuato l’operazione» [infra, § 4.1.]. A tal riguardo, deve rilevarsi che le omissioni o le falsità rilevanti ai sensi dell’art. 55 comma 2 devono riguardare il titolare effettivo («il soggetto per conto del quale» è eseguita l’operazione), mentre l’art. 55 comma 6 parla di «soggetto che ha effettuato l’operazione». Per armonizzare i due referenti normativi si dovrebbe pertanto inquadrare sotto quest’ultima formula anche il titolare effettivo (e non solo l’esecutore materiale), con una operazione interpretativa che, forzando il dato testuale, sarebbe di dubbia legittimità. 3.2. Banche di comodo e “black list” antiriciclaggio. – Come anticipato, l’art. 28 disciplina gli obblighi rafforzati di adeguata verifica, i quali scattano, oltre che nei casi espressamente previsti (cliente non fisicamente presente; conti di corrispondenza con enti corrispondenti di stati extracomunitari; persone politicamente esposte), in presenza «di un rischio più elevato di riciclaggio o finanziamento del terrorismo». Tuttavia, vi sono alcune situazioni in cui l’entità del rischio è ritenuta tale da imporre un obbligo di astensione. Viene innanzitutto in considerazione la figura della banca di comodo [IMBERGAMO, 137], ossia quella banca, o ente che svolge attività equivalenti, costituita in un paese in cui non ha alcuna presenza fisica che consenta di esercitare una direzione e una gestione reale, e che non sia collegata ad alcun gruppo finanziario regolamentato [art. 1 comma 2 lett. d)]. L’art. 28 comma 6 vieta agli intermediari finanziari di aprire o mantenere anche indirettamente con una banca di comodo conti di corrispondenza [e cioè «conti tenuti dalle banche, tradizionalmente su base bilaterale, per il regolamento dei servizi interbancari»: art, 1 comma 2 lett. e-bis)]; in caso di trasgressione, è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 200.000 euro [art. 57 comma 1-bis]. Trattandosi di un illecito amministrativo, valgono i requisiti di imputazione delineati dall’art. 3 comma 1 legge 24.11.1981, n. 689, sicché sarà sufficiente accertare in concreto la colpa. Qualora l’intermediario non percepisca che l’ente

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con il quale intrattiene conti di corrispondenza ha natura di «banca di comodo», la responsabilità verrà meno se l’errore è incolpevole [IMBERGAMO, 139]. I destinatari del d.lgs. n. 231/2007 devono inoltre astenersi dall’instaurare un rapporto continuativo, eseguire operazioni o prestazioni professionali (nonché porre fine ai rapporti e alle prestazioni in essere) di cui siano direttamente o indirettamente parte gli enti (società fiduciarie, trust, società anonime, società controllate attraverso azioni al portatore) aventi sede in un Paese considerato non affidabile in ragione del rischio di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo ovvero della mancanza di un adeguato scambio di informazioni anche in materia fiscale [art. 28 comma 7-ter]. Tali Paesi dovranno essere indicati in un decreto (c.d. black list) del Ministro dell’Economia, sulla base delle decisioni assunte in sede internazionale, nonché delle informazioni risultanti dai gruppi di valutazione dei sistemi nazionali di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo [art. 28 comma 7-bis]. La trasgressione dell’obbligo di astensione di cui all’art. 28 comma 7-ter è soggetta a una sanzione amministrativa pecuniaria, il cui importo è graduato in ragione dell’importo dell’operazione o della prestazione [art. 57 comma 1-ter]. Attualmente l’illecito risulta inapplicabile, non avendo il Ministro dell’Economia ancora stabilito né i Paesi che rientrano nella black list, né «le modalità operative ed il termine degli adempimenti di cui al comma 7-ter» [art. 28 comma 7-quater]. Già da ora è però possibile prevedere le «oggettive difficoltà» [(b) SOLDI, 517] con le quali i destinatari del d.lgs. n. 231/2007 dovranno confrontarsi, ad esempio nell’individuare la sede effettiva dell’ente oppure il suo coinvolgimento «indiretto»: con la possibilità che, per non rischiare sanzioni, il destinatario preferisca rinunciare ai potenziali vantaggi economici dell’operazione. 4. Violazione degli obblighi di registrazione. I destinatari del d.lgs. n. 231/2007 sono tenuti a conservare i documenti e a registrare le informazioni che hanno acquisito per assolvere gli obblighi di adeguata verifica, in modo da costituire un patrimonio informativo utilizzabile «per qualsiasi indagine su eventuali operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo o per corrispondenti analisi effettuate dalla UIF o da qualsiasi altra Autorità competente» [art. 36 comma 1]. Più precisamente, gli obblighi di conservazione riguardano la copia o i riferimenti dei documenti richiesti al cliente [art. 36 comma 1 lett. a)] e le scritture e le registrazioni relative al rapporto o alla prestazione [art. 36 comma 1 lett. b)]. Occorre invece registrare [art. 36 comma 2] i dati relativi al rapporto o alla prestazione (data di instaurazione, dati identificativi del cliente e dell’eventuale titolare effettivo, ecc.) o alle singole operazioni di importo pari o superiore a 15.000 euro (data, causale, importo, tipologia, ecc.). Le modalità di registrazione variano a seconda del destinatario dell’obbligo [CASTALDO, NADDEO, 296]. Gli intermediari finanziari di maggiore rilevanza

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[art. 11 comma 1 e comma 2 lett. a)], le società di revisione [art. 13 comma 1 lett. a)] e gli operatori del gioco on line [art. 14 comma 1 lett. e)] devono istituire l’Archivio unico informatico [art. 37], seguendo le disposizioni dettate dalla Banca d’Italia nel provvedimento del 3.4.2013; i professionisti e i revisori contabili devono istituire un archivio formato e gestito a mezzo di strumenti informatici, o in alternativa un registro cartaceo, numerato progressivamente e siglato in ogni pagina a cura del soggetto obbligato o di un suo delegato [art. 38]; gli altri soggetti di cui all’art. 14 possono scegliere tra l’Archivio unico informatico, il registro della clientela e i sistemi informatici di cui siano dotati per lo svolgimento della loro attività [art. 39]. L’art. 55 comma 4 prevede una fattispecie delittuosa, punita con la multa da 2.600 a 13.000 euro, a carico di chi, essendovi tenuto, omette di effettuare la registrazione di cui all’art. 36, ovvero la effettua in modo tardivo o incompleto. L’informazione incompleta è quella che non contiene gli elementi richiesti dall’art. 36 comma 2. Invece, è tardiva l’informazione registrata oltre il trentesimo giorno, a partire: a) dal compimento dell’operazione; b) dall’apertura, variazione o chiusura del rapporto continuativo; c) dall’accettazione dell’incarico professionale; d) dal termine della prestazione professionale; e) dall’eventuale acquisizione di ulteriori informazioni [art. 36 comma 3; art. 38, comma 1-bis]. Tale disposizione rende incerti i profili di tipicità del reato. A prima vista, il destinatario dell’obbligo sembra poter stabilire da quando far decorrere il termine di trenta giorni, nel senso che chi ritenesse di non essere ancora in possesso delle informazioni necessarie potrebbe spostare in avanti l’adempimento dell’obbligo di registrazione. Ma secondo il Ministero dell’Economia il termine deve ritenersi tassativo, «nel senso che il professionista deve provvedere entro trenta giorni dal verificarsi di una delle situazioni indicate dal comma» 1-bis dell’art. 38. Di conseguenza, si ritiene che negli incarichi a carattere continuativo (ad esempio, la tenuta della contabilità o la revisione legale dei conti) il termine di trenta giorni decorra dall’accettazione dell’incarico, e non dalla sua cessazione [DE VIVO, 50]. In precedenza, la violazione degli obblighi di registrazione era punita dall’art. 13 comma 7 d.l. n. 143/1991, in combinato disposto con l’art. 3 d.lgs. 20.2.2004, n. 56 e con l’art. 6 comma 1 d.m. 3.2.2006, n. 141, e il termine di trenta giorni decorreva dal momento dell’identificazione del cliente. Invece, l’art. 36 comma 3, nella versione precedente al d.lgs. 25.9.2009, n. 151, individuava (solo) nella fine del rapporto professionale il dies a quo del termine di trenta giorni. Di conseguenza, è stato assolto – perché il fatto non costituiva più reato – un ragioniere commercialista che aveva omesso di registrare i dati identificativi di un cliente con il quale era ancora in corso una prestazione professionale [Trib. Chieti, 16.7.2008, in www.reatisocietari.it].

I promotori finanziari, gli intermediari assicurativi, i mediatori creditizi, gli agenti in attività finanziaria e gli altri soggetti terzi che operano per conto degli intermediari finanziari hanno trenta giorni per inoltrare i dati acquisiti. In questo caso, i trenta giorni di tempo concessi per la registrazione da parte degli intermediari decorrono dal momento della ricezione delle informazioni [art. 36 comma 4].

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Anche tale flusso informativo è penalmente tutelato: gli agenti di cambio, i mediatori creditizi e gli agenti in attività finanziaria che omettono di eseguire la comunicazione prevista dall’art. 36 comma 4, o la eseguono tardivamente o in maniera incompleta sono puniti con la stessa sanzione prevista dall’art. 55 comma 4 [art. 55 comma 7]. 4.1. Violazione degli obblighi con mezzi fraudolenti. – Ai sensi dell’art. 55 comma 6, la sanzione di cui ai commi 1, 2 e 4 è raddoppiata qualora «gli obblighi di identificazione e registrazione siano assolti avvalendosi di mezzi fraudolenti, idonei ad ostacolare l’individuazione del soggetto che ha effettuato l’operazione». Secondo parte della dottrina, tale fattispecie darebbe vita a un’autonoma fattispecie delittuosa, inquadrabile nella categoria dei reati di pericolo concreto: deporrebbe in tal senso l’inciso «idonei a ostacolare l’individuazione del soggetto che ha effettuato l’operazione» [GAMBOGI, 945]. Sennonché, la tecnica di tipizzazione utilizzata, che invece di descrivere integralmente il fatto incriminato rinvia alle fattispecie precedenti, e l’individuazione della pena in termini proporzionali a quelle previste dai commi 1, 2 e 4, sono indici che suggeriscono la natura circostanziale dell’art. 55 comma 6; né l’elemento del pericolo concreto è sufficiente a ribaltare tale conclusione, dal momento che le considerazioni attinenti al bene giuridico non sono decisive ai fini della distinzione tra figure autonome di reato e fattispecie circostanziali [Cass., S.U., 10 luglio 2002, Fedi, in Dir. pen. proc., 2003, 299]. A questo punto, si comprende perché l’orientamento maggioritario consideri la figura in esame una circostanza aggravante a effetto speciale [CASTALDO, NADDEO, 362; PISTORELLI, 2472]. Tuttavia, non può negarsi che, in assenza di indici più solidi [sui quali, da ultimo, BASILE, 1575 ss.], la questione è destinata a rimanere aperta. La nozione di fraudolenza, che in altri contesti è suscettibile di letture differenziate [volendo, GENTILE, 96-99], è chiaramente declinata nella sua accezione “forte”, nel senso che i mezzi devono essere connotati da un’attitudine ingannatoria [parla di «frode di secondo grado», AMODIO, 1056]. Di conseguenza, il carattere occulto o clandestino dell’espediente utilizzato non basterà a integrare l’aggravante in esame. 4.2. Gli illeciti amministrativi. – L’art. 56 comma 1 prevede una sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 200.000 euro a carico di intermediari finanziari, società di revisione ed altre società coinvolte nel mercato finanziario «nei casi di inosservanza delle disposizioni richiamate o adottate ai sensi degli articoli 7, comma 2, 37, commi 7 e 8, 54 e 61, comma 1». Cercando di estrapolare dalla complicata selva di rinvii gli illeciti relativi agli obblighi di registrazione, la disposizione in esame si riferisce: a) alle «disposi-

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zioni circa […] la registrazione» emanate dalle Autorità di vigilanza ai sensi dell’art. 7 comma 2; b) alle più specifiche «disposizioni sulla tenuta dell’archivio unico informatico» e sulle «modalità semplificate di registrazione» emanate dalla Banca d’Italia ai sensi dell’art. 37 commi 7 e 8, e attualmente rappresentate dal provvedimento del 3.4.2013; c) al Regolamento CE n. 1781/2006 del 15 novembre 2006, che pure prevede la registrazione dei dati informativi relativi all’ordinante che accompagnano il trasferimento di fondi. È altresì sanzionata in via amministrativa l’omessa istituzione dell’Archivio unico informatico [art. 57 comma 2] e del registro della clientela, nonché la mancata adozione delle modalità di registrazione previste dall’art. 39 [art. 57 comma 3]. La depenalizzazione dell’omessa istituzione dell’archivio (precedentemente punita a titolo contravvenzionale dall’art. 5 comma 4 d.l. n. 143/1991) trae origine da una precisa direttiva della legge delega [art. 22 comma 1 lett. t) legge 25.1. 2006, n. 29]. In dottrina si sostiene che all’omessa istituzione del registro della clientela andrebbe equiparato anche il «caso in cui quest’ultimo sia strutturato o compilato in modo tale da non consentire un adeguato controllo da parte della UIF o delle autorità di polizia», e che di conseguenza i requisiti previsti dall’art. 38 comma 3 (numerazione progressiva, sigla in ogni pagina, ecc.) sarebbero richiesti ad substantiam [AMODIO, 1055]. Sennonché, in questo modo si estenderebbe in malam partem la sfera operativa dell’illecito amministrativo, violando l’art. 1 legge n. 689/1981; del resto, quando il legislatore ha voluto sanzionare anche le violazioni delle disposizioni operative in materia di registrazione, lo ha fatto espressamente [art. 57 comma 3]. Paradossalmente, l’omessa, tardiva o incompleta registrazione di una singola operazione integra il delitto previsto dall’art. 55 comma 4, mentre la (comparativamente più grave) omessa istituzione dell’Archivio unico o del registro della clientela dà vita, anche se dolosa, a un mero illecito amministrativo [CASTALDO, NADDEO, 361]: con la conseguenza che l’illegalità totale è più conveniente – sia dal punto di vista penalistico, sia da quello dei costi di gestione – della singola illegalità parziale [(b) DONINI, XXV]. 4.3. La confisca. – Ai sensi del comma 9-bis dell’art. 55, introdotto dal d.lgs. n. 169/2012, per «le violazioni delle disposizioni di cui all’articolo 131-ter del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, nonché per le gravi e reiterate violazioni delle disposizioni di cui ai commi 1 e 4 del presente articolo è ordinata, nei confronti degli agenti in attività finanziaria che prestano servizi di pagamento attraverso il servizio di rimessa di denaro di cui all’articolo 1, comma 1, lettera n), del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11, la confisca degli strumenti che sono serviti a commettere il reato». Rispetto all’archetipo codicistico [art. 240 c.p.], tale ipotesi di confisca speciale presenta numerosi profili differenziali, che riguardano: a) i soggetti destinatari, individuati negli «agenti in attività finanziaria che prestano servizi di pagamento attraverso il servizio di rimessa di

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denaro» [c.d. money transfer]; b) i presupposti sostanziali, rappresentati dal reato di abusiva attività di prestazione di servizi di pagamento [art. 131-ter d.lgs. n. 1.9.1993, n. 385] e dalle violazioni gravi e reiterate delle disposizioni di cui ai commi 1 e 4; c) i beni confiscabili, consistenti negli strumenti effettivamente utilizzati [«che sono serviti»] a commettere il reato; d) i presupposti processuali, non richiedendosi espressamente una sentenza di condanna; e) la destinazione dei beni, specificandosi che gli strumenti sequestrati ai fini della confisca «sono affidati dall’Autorità giudiziaria agli organi di polizia che ne facciano richiesta» [art. 55 comma 9-ter]. Tale confisca, obbligatoria in relazione all’art. 131-ter d.lgs. n. 385/1993 (come si desume dalla formula «è ordinata»), è invece sostanzialmente facoltativa per quanto attiene ai delitti previsti dalla legge antiriciclaggio. Infatti, il giudice gode di ampia discrezionalità nell’accertare se le violazioni delle disposizioni di cui ai commi 1 e 4 dell’art. 55 siano «gravi e reiterate», perché la nozione di gravità rinvia ad apprezzamenti valutativi quasi incontrollabili, mentre il concetto di reiterazione trova compiuta disciplina nel campo dell’illecito amministrativo [art. 8-bis legge n. 689/1981] ma non in ambito penale, e quindi non consente di individuare né il numero delle condotte né l’arco temporale in cui le stesse devono ripetersi. Facendosi riferimento alle «violazioni», e non alla condanna, pare che la confisca in esame possa essere disposta anche sulla base di una sentenza di proscioglimento. Sennonché, un’interpretazione conforme alla recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo dovrebbe portare a escludere dai presupposti processuali della misura ablativa le assoluzioni per difetto dell’elemento psicologico e i provvedimenti (archiviazione, sentenza di non luogo a procedere, proscioglimento ex art. 469 c.p.p.) emessi in una fase che non consente il pieno esercizio del diritto di difesa [in generale, PANZARASA, 1672 ss.]. La confisca non potrà essere disposta sulla base di una sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p., perché in mancanza di una deroga espressa vale la disciplina [da intendersi in termini tassativi: Cass., S.U., 15 dicembre 1992, Bissoli, in Foro it., 1993, II, 266] dell’art. 445 c.p.p., che esclude dagli effetti della sentenza che applica la pena su richiesta delle parti «l’applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza, fatta eccezione della confisca nei casi previsti dall’art. 240 del codice penale». 5. Violazioni degli obblighi di segnalazione. I destinatari degli obblighi antiriciclaggio hanno infine l’obbligo di inviare senza ritardo una segnalazione alla UIF «quando sanno, sospettano o hanno motivi ragionevoli per sospettare che siano in corso o che siano state compiute o tentate operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo» [art. 41 comma 1]. Salvo che il fatto costituisca reato [supra, § 2.3.], l’omessa segnalazione delle operazioni sospette è punita con una sanzione amministrativa pecu-

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niaria dall’1 per cento al 40 per cento dell’operazione non segnalata, e nei casi più gravi dalla sanzione accessoria della pubblicazione per estratto, a spese dell’interessato, del decreto sanzionatorio su almeno due quotidiani a diffusione nazionale, di cui uno economico [art. 57 comma 4]. Le segnalazioni di operazioni sospette non costituiscono violazione degli obblighi di segretezza, del segreto professionale o di eventuali restrizioni alla comunicazione di informazioni imposte in sede contrattuale o da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, e, se poste in essere per le finalità previste dal d.lgs. n. 231/2007, non comportano responsabilità di alcun tipo [art. 41 comma 6]. Con questa disciplina, sostanzialmente già prevista dall’art. 7 comma 3, d.l. n. 143/1991, si è inteso tutelare il soggetto segnalante da eventuali “ritorsioni” in via giudiziaria. Diversamente, la UIF e il personale addetto rispondono dei danni cagionati da atti o comportamenti posti in essere con dolo o colpa grave [art. 6 comma 7-bis]. In una vicenda sottoposta allo scrutinio della giurisprudenza alcuni clienti, dopo essere stati assolti dall’accusa di riciclaggio, avevano avanzato in sede civile una richiesta di risarcimento danni nei confronti della loro banca, la quale (correttamente) aveva segnalato come sospette le operazioni da loro compiute. Sulla scorta del quadro normativo previgente, la domanda è stata rigettata per carenza di legittimazione passiva, in quanto l’azione penale non viene proposta sulla base della segnalazione della banca, ma a seguito della valutazione operata dall’Autorità deputata a riceverla (all’epoca dei fatti, l’Ufficio italiano cambi) [Trib. Palmi, 24.3.2010, in Banca, borsa, tit. cred., 2012, II, 84].

Il carattere sospetto dell’operazione si desume da elementi relativi sia all’operazione (entità, caratteristiche, natura, nonché altre circostanze conosciute in ragione delle funzioni svolte), sia alla capacità economica e all’attività del cliente. A seguito del d.l. n. 31.5.2010, n. 78, è «un elemento di sospetto il ricorso frequente o ingiustificato a operazioni in contante», e in particolare «il prelievo o il versamento in contante con intermediari finanziari di importo pari o superiore a 15.000 euro». In questo modo, come ha chiarito il Ministero dell’Economia, si è introdotto un indice di anomalia «di particolare pregnanza», che tuttavia «non è motivo di per sé sufficiente per la segnalazione di operazioni sospette, per la quale rimane quindi indispensabile una valutazione complessiva» degli altri elementi [Circolare n. 297944 dell’11.10.2010]. Per agevolare l’individuazione delle operazioni sospette, sono stati emanati su proposta dell’UIF gli indicatori di anomalia per gli intermediari finanziari (delibera della Banca d’Italia n. 616 del 24.8.2010), per i professionisti e i revisori contabili (decreto del Ministro della Giustizia del 16.4.2010), per gli operatori non finanziari (decreto del Ministro dell’Interno del 17.2.2011) e per le società di revisione e i revisori legali con incarichi di revisione su enti di interesse pubblico (delibera della Banca d’Italia n. 61 del 30.1.2013). Inoltre, l’UIF elabora e diffonde, ai sensi dell’art. 6 comma 7 lett. b), schemi rappresentativi di comportamenti anomali concernenti i diversi ambiti dell’attività economica (factoring, leasing, finanziamenti pubblici, imprese in crisi, fatturazioni, ecc.). A

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scanso di equivoci, tutti questi documenti ribadiscono che la ricorrenza di un indicatore di anomalia o di un comportamento inquadrabile in uno schema rappresentativo non è motivo sufficiente per procedere alla segnalazione; né l’assenza di tali indicatori o schemi consente di escludere il carattere sospetto dell’operazione, spettando al singolo operatore il compito di valutare altri comportamenti non tipizzati, ma in concreto egualmente sintomatici del rischio di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. La natura discrezionale della valutazione richiesta al singolo operatore si riflette sul piano dell’elemento psicologico dell’illecito amministrativo previsto dall’art. 57 comma 4. Più precisamente, la regola generale dettata dall’art. 3 comma 1 legge n. 689/1981 – relativa all’indifferenza del dolo o della colpa ai fini dell’imputazione – deve combinarsi con la disciplina dei presupposti dell’obbligo di segnalazione [art. 41 comma 1], che sembra descrivere tre diversi coefficienti psicologici, disposti in ordine decrescente e rappresentativi di differenti livelli di giudizio in ordine alla fondatezza di un fatto [CRISCUOLO, 499 ss.]. Ebbene, mentre i predicati «sanno» e «sospettano» non suscitano particolari difficoltà interpretative, riferendosi ai casi in cui l’operatore percepisce l’esistenza dell’operazione di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo rispettivamente in termini di certezza o di dubbio, più controversa è l’ipotesi in cui si «hanno motivi ragionevoli per sospettare». Una prima impostazione, di matrice oggettiva, identifica «i motivi ragionevoli» nella trasgressione di obblighi antiriciclaggio, il corretto adempimento dei quali avrebbe consentito di sospettare l’esistenza di un’operazione di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo [CRISCUOLO, 501-502]. Deve ammettersi che tale prospettiva fatica ad adeguarsi al dato testuale: l’indicativo «hanno» esprime l’esigenza di una conoscenza effettiva dei motivi di sospetto da parte degli obbligati, laddove secondo la tesi esposta bisognerebbe verificare se, nell’ipotesi controfattuale di adempimento degli obblighi antiriciclaggio, il segnalante «avrebbe sospettato della sussistenza di una operazione di riciclaggio» [CRISCUOLO, 501 (grassetto mio)]. Un secondo orientamento, invece, attribuisce alla formula in esame una dimensione soggettiva, nel senso che il presupposto dell’obbligo di segnalazione sarebbe sempre costituito da uno stato di dubbio [CASTALDO, NADDEO, 311]: a questo punto, la differenza tra sospettare e avere motivo di farlo andrebbe plausibilmente rintracciata nel (più o meno intenso) livello del coefficiente rappresentativo. Non può escludersi, però, che i «motivi ragionevoli per sospettare» prescindano da un dubbio effettivamente sorto, richiesto invece dal predicato «sospettano». Ciò aprirebbe la strada a un’interpretazione oggettivo/soggettiva, nel senso di richiedere «una colpa cosciente in situazione di rischio non ragionevole» [(b) DONINI, XXV], e cioè la consapevolezza effettiva di circostanze fattuali che obiettivamente danno motivo di sospettare l’esistenza di un’operazione di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo [contra, DELL’OSSO, 764].

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5.1. L’esenzione prevista per i professionisti. – L’estensione dell’obbligo di segnalazione ai professionisti ha sollevato il problema del bilanciamento tra la necessità di contrastare il riciclaggio e il doveroso rispetto del segreto professionale funzionale all’esercizio del diritto di difesa [CARACCIOLI, 134-135]. Su questo delicato tema è intervenuta la Corte di Giustizia dell’Unione europea [C. Giust., Grande sezione, 26 giugno 2007, causa C-305/05, in Cass. pen., 2008, 800], sancendo la compatibilità tra gli obblighi di segnalazione e il diritto a un equo processo garantito dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (il quale rientra tra i princìpi fondamentali del diritto UE). In sintesi, la Corte ha ammesso che l’art. 6 della Convenzione europea sarebbe violato se il dovere di collaborare con i pubblici poteri non consentisse al professionista di svolgere adeguatamente il suo incarico di consulenza, di difesa o di rappresentanza del cliente [§ 32]. Tuttavia, nella direttiva 2005/60/CE il diritto all’equo processo sarebbe salvaguardato su di un duplice piano: per un verso, perché l’obbligo di segnalazione sarebbe previsto in contesti estranei al procedimento giudiziario, e cioè nell’ipotesi di assistenza «nella progettazione o nella realizzazione di talune operazioni essenzialmente di ordine finanziario o immobiliare», oppure qualora i professionisti «agiscano in nome o per conto del loro cliente in una qualsiasi operazione finanziaria o immobiliare» [§ 33]; per un altro, perché gli stessi professionisti sarebbero esentati dall’obbligo di segnalazione non appena la loro assistenza sia «richiesta per l’esercizio di un incarico di difesa o di rappresentanza in giudizio o per l’ottenimento di consulenza sull’opportunità di intentare o evitare un procedimento giudiziario» [§ 34]. Nel recepire la citata direttiva, il d.lgs. n. 231/2007 ha stabilito che i professionisti e i revisori contabili non hanno l’obbligo di segnalare le operazioni sospette in relazione alle informazioni ricevute da un loro cliente, o ottenute riguardo allo stesso, a condizione che ciò avvenga nel corso: a) dell’esame della posizione giuridica del cliente; b) dell’espletamento dei compiti di difesa o di rappresentanza in un procedimento giudiziario o in relazione a tale procedimento; c) di una consulenza sull’eventualità di intentare o evitare un procedimento [art. 12 comma 2; art. 13 comma 2]. Il nodo interpretativo più discusso riguarda l’«esame della posizione giuridica» del cliente, perché un’interpretazione ampia di tale nozione rischia di vanificare il dettato dell’art. 12 comma 1 lett. c), che prevede l’obbligo di segnalazione in capo a coloro che «assistono i loro clienti nella predisposizione e nella realizzazione» di alcune operazioni di carattere finanziario [COCUZZA, 210]. Al di là delle differenze terminologiche, la dottrina sembra concorde nel far valere l’esimente solo per le valutazioni “statiche” della posizione del cliente (che in quanto tali non costituiscono un’«operazione» da segnalare: RAPONI, 92 nota 83), e non per le attività di natura «para-giuridica» [CASTALDO, NADDEO, 325] che riguardano le modalità operative di compimento di un’operazione finanziaria o commerciale [CARACCIOLI, 139-140; COCUZZA, 212-213; ZANOTTI, 322-323].

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5.2. Il mancato rispetto del provvedimento di sospensione. – La segnalazione dell’operazione sospetta dev’essere effettuata senza ritardo, non appena l’obbligato sia venuto a conoscenza degli elementi di sospetto e, ove possibile, prima del compimento dell’operazione [art. 41 comma 4]. Sussiste infatti l’obbligo di astenersi dal compiere l’operazione prima della segnalazione, a meno che «non sia possibile tenuto conto della normale operatività, o possa ostacolare le indagini» [art. 41 comma 5]. La violazione di tale obbligo non è però sanzionata [AMODIO, 1055]. L’astensione è altresì funzionale a consentire alla UIF la facoltà di sospendere le operazioni sospette per un massimo di cinque giorni, sempre che ciò non pregiudichi il corso delle indagini [(a) SOLDI, 391]. La UIF può intervenire d’ufficio, oppure su richiesta della Guardia di finanza, della DIA e dell’autorità giudiziaria [art. 6 comma 7 lett c)]. Il mancato rispetto del provvedimento di sospensione costituisce, salvo che il fatto costituisca reato, un illecito amministrativo punito con una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 200.000 euro. Per il principio di specialità sancito dall’art. 9 l. 689/1981, tale illecito prevale sulla contravvenzione prevista dall’art. 650 c.p. [AMODIO, 1055]. 5.3. La tutela penale della segretezza delle comunicazioni. – Le segnalazioni delle operazioni sospette sono coperte da segreto. Salvi i casi espressamente previsti dal d.lgs. n. 231/2007 (comunicazioni effettuate ai fini di accertamento investigativo, oppure tra intermediari dello stesso gruppo, o tra i professionisti che svolgono la loro attività in forma associata, ecc.), è fatto divieto ai soggetti obbligati e a chiunque ne sia comunque a conoscenza di dare comunicazione dell’avvenuta segnalazione [art. 46 comma 1]. L’art. 46 comma 3 precisa che i soggetti obbligati non possono comunicare al soggetto interessato o a terzi l’avvenuta segnalazione o che è in corso o può essere svolta un’indagine in materia di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. Alla medesima disciplina è sottoposto il flusso di ritorno delle informazioni [art. 48 comma 4], e cioè la comunicazione che la UIF inoltra al segnalante (o agli ordini professionali) per dar conto dell’eventuale archiviazione della segnalazione. La violazione dei divieti di comunicazione previsti dall’art. 46 comma 1 e dall’art. 48 comma 4 è punito a titolo contravvenzionale con la pena alternativa dell’arresto da sei mesi a un anno o dell’ammenda da 5.000 a 50.000 euro [art. 55 comma 8]: è quindi possibile l’oblazione ai sensi dell’art. 162-bis c.p. A rigore, la violazione dell’art. 46 comma 3, che non è espressamente richiamato dall’art. 55 comma 8, dovrebbe esulare dalla sfera operativa della fattispecie: per quanto irragionevole, tale conclusione è imposta dal principio di tassatività. Né varrebbe ribattere che il riferimento all’art. 46 comma 3 sarebbe superfluo, trattandosi di una specificazione del divieto generale, posto dal comma 1,

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di dare comunicazione dell’avvenuta segnalazione. A ben vedere, l’art. 46 comma 3 vieta non solo le comunicazioni sull’avvenuta segnalazione, ma anche quelle relative alle indagini in materia di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo; del resto, la diversità delle due disposizioni è testimoniata dall’intervento correttivo apportato dall’art. 28 d.lgs. n. 25.9.2009, n. 151, che ha avuto lo scrupolo di estendere al flusso di ritorno delle informazioni non solo il divieto di cui all’art. 46 comma 1, ma anche quello sancito dal comma 3 [art. 48 comma 4]. Anche in questa materia è prevista una clausola di esenzione a favore dei professionisti. L’art. 46 comma 7, prevede che il «tentativo di uno dei soggetti di cui all’art. 12 comma 1, lett. a), b) e c), di dissuadere il cliente dal porre in atto un’attività illegale non concretizza la comunicazione vietata dal comma precedente». Il rinvio alla «comunicazione vietata dal comma precedente» non è di immediata comprensione, perché l’art. 46 comma 6 non pone divieti, ma autorizza a determinate condizioni lo scambio di informazioni tra intermediari finanziari o professionisti. Si potrebbe però osservare che l’art. 46 comma 6 menziona «il divieto di cui al comma 1», e che quest’ultimo potrebbe essere la «comunicazione vietata dal comma precedente» di cui parla l’art. 46 comma 7. Questo laborioso schema interpretativo lascerebbe comunque scoperto l’art. 46 comma 3, con l’irragionevole conclusione di non consentire al professionista di dissuadere il proprio cliente dal porre in essere un’attività illegale prospettandogli l’eventualità di un’indagine a suo carico. A questo punto, pare opportuna un’interpretazione correttiva dell’infelice contesto normativo, estendendo la portata della clausola di esenzione prevista dall’art. 46 comma 7 anche al comma 3: a differenza di quanto osservato a proposito dell’art. 55 comma 8, in questo caso non ci sarebbero problemi di tassatività, trattandosi di un’interpretazione in bonam partem. 6. Limitazioni all’uso del contante e dei titoli al portatore. Classificate dal d.lgs. n. 231/2007 quali «misure ulteriori», ma in realtà propedeutiche a tutti gli obblighi fin qui esaminati, le limitazioni all’uso del contante e dei titoli al portatore perseguono la funzione di «indirizzare le transazioni sui canali gestiti dagli intermediari finanziari (lato sensu intesi)» [CASTALDO, NADDEO, 259], e così consentire la tracciabilità delle movimentazioni di denaro [SCORDAMAGLIA, 108-109]. Per garantire l’identificazione del cliente, è innanzitutto vietata l’apertura in qualunque forma di conti o libretti di risparmio anonimi o con intestazione fittizia; se aperti presso Stati esteri, è comunque vietato il loro utilizzo [art. 50]. A presidio di tali precetti sono previste sanzioni amministrative pecuniarie proporzionali al saldo del conto o del libretto [art. 58 commi 5 e 6]. Poi, è vietato il trasferimento di denaro contante o di libretti di deposito bancari o postali al portatore o di titoli al portatore per un valore pari o superiore (a seguito dell’art. 12 comma 1 d.l. 6.12.2011 n. 201) a 1.000 euro, a meno

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che non sia eseguito per il tramite di intermediari abilitati [art. 49 comma 1]. Il divieto sussiste anche per i pagamenti inferiori alla soglia che appaiono artificiosamente frazionati ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. m). In caso di trasgressione, si applica una sanzione amministrativa pecuniaria dall’1 per cento al 40 per cento dell’importo trasferito [art. 58 comma 1]. Il limite sale a 2.500 euro per le negoziazioni “a pronti” di mezzi di pagamento in valuta [art. 49 comma 1-bis], e a 15.000 per l’acquisto di beni e prestazioni di servizi legate al turismo, nel rispetto dei requisiti di cui all’art. 3 d.l. 2.3.2012, n. 16. Di recente, l’art. 1 comma 50 legge 27.12.2013, n. 147 ha previsto che, in deroga al limite generale di 1.000 euro previsto per le transazioni in denaro contante, i «pagamenti riguardanti canoni di locazione di unità abitative, fatta eccezione per quelli di alloggi di edilizia residenziale pubblica, sono corrisposti obbligatoriamente, quale ne sia l’importo, in forme e modalità che escludano l’uso del contante e ne assicurino la tracciabilità». Con circolare prot. DT 10492 del 5.2.2014 il Ministero dell’Economia (competente ex art. 60 comma 2 ad accertare le violazioni in esame) ha però chiarito che il pagamento in contanti del canone di locazione di importo inferiore a 1.000 euro non è sanzionato. Il divieto non opera per i trasferimenti: a) di cui siano parte banche, Poste italiane S.p.A., istituti di moneta elettronica e di pagamento, o effettuati tra gli stessi soggetti in proprio o per il tramite di vettori specializzati [art. 49 comma 15]; b) di certificati rappresentativi di quote di cui siano parte banche, Poste italiane S.p.A., Società di intermediazione mobiliare, ecc. [art. 49 comma 16]. La nozione di trasferimento va intesa in senso non solo giuridico, ma anche in termini di «consegna, messa a disposizione, trasferimento del possesso o della mera disponibilità materiale» [BURATTI, 84]. Come chiarito da due circolari del Ministero dell’Economia (circolare del 4.11.2011; circolare n. 2 del 16.1.2012) «i prelievi/versamenti di contante sopra soglia sul proprio conto corrente, o libretto postale nominativo, o effettuati anche con carta di credito, non costituiscono automaticamente violazione dell’art. 49»: salvo che non sia provato, ovviamente, un successivo passaggio di denaro a favore di un altro soggetto. Un terzo gruppo di disposizioni riguarda i titoli di credito (assegni bancari, postali e circolari; vaglia postali e cambiari) di importo pari o superiore a 1.000 euro, i quali devono recare l’indicazione del nome o della ragione sociale del beneficiario e la clausola di non trasferibilità [art. 49 commi 5 e 7], a meno che non si tratti di trasferimenti di cui siano parte banche, Poste italiane S.p.A., istituti di moneta elettronica e di pagamento, oppure effettuati tra gli stessi soggetti in proprio o per il tramite di vettori specializzati [art. 49 comma 15]. In altri termini, tali titoli diventano di fatto nominativi [BURATTI, 101], perché possono essere incassati solo dal beneficiario. Gli assegni emessi all’ordine del traente (c.d. assegni a me medesimo) possono essere girati unicamente per l’incasso a una banca o a Poste italiane S.p.A [art. 49 comma 6]. La violazione di tali prescrizioni è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria dall’1 per cento al 40 per cento dell’importo [art. 58 comma 1]. Ai sensi dell’art. 18 comma 2 d.lgs. n. 169/2012, che si atteggia a norma di

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interpretazione autentica, i commi 5 e 7 dell’art. 49 vanno intesi nel senso che «costituiscono violazione l’emissione, il trasferimento e la presentazione all’incasso» dei titoli indicati «privi dell’indicazione del nome o della ragione sociale del beneficiario e della clausola di non trasferibilità»; allo stesso modo, il comma 6 si interpreta nel senso che costituiscono violazione «il trasferimento e la presentazione all’incasso di assegni bancari e postali emessi all’ordine del traente da parte di soggetto diverso». In questo modo, si è voluta esplicitare l’illiceità amministrativa non solo dell’emissione, ma anche della ricezione del titolo irregolare: ciò sull’assunto che il trasferimento – che in effetti è effettuato «tra soggetti diversi» [art. 49 comma 1] – si riferisca sia al tradens sia all’accipiens [Relazione illustrativa all’Atto del Governo 486, in www.camera.it, 11-12]. Infine, sono vietati i libretti di deposito bancari o postali al portatore di importo pari o superiore a 1.000 euro [art. 49 comma 12], mentre quelli esistenti alla data dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 231/2007 devono essere estinti dal portatore, oppure il loro saldo dev’essere ridotto a una somma inferiore alla soglia legale [art. 49 comma 13]. In caso di trasferimento di tali libretti, il cedente deve comunicare entro 30 giorni, alla banca o a Poste italiane S.p.A., i dati identificativi del cessionario, l’accettazione di questi e la data del trasferimento [art. 49 comma 14]. La violazione di tali disposizioni è punita con una sanzione amministrativa pecuniaria proporzionale al saldo del libretto al portatore [art. 58 commi 2 e 3]. 7. La tutela penale delle carte di credito o di pagamento. L’art. 55 comma 9, avente ad oggetto le carte di credito o di pagamento, riproduce fedelmente il reato previsto dall’abrogato art. 12 d.l. n. 143/1991. L’indiscutibile continuità normativa, riconosciuta anche dalla Suprema Corte [Cass., sez. II, 10.1.2012, Popescu, in CED 2012/11699; Cass., sez. II, 25.9.2009, Zanbor, in CED 2009/24527], consente all’interprete di giovarsi della cospicua riflessione dottrinale e giurisprudenziale relativa alla disciplina previgente. Il nesso tra la legislazione antiriciclaggio e la tutela penale delle carte di credito e dei documenti equiparati è stato individuato in dottrina prima [MILITELLO, 618], dalla Corte costituzionale poi [C. cost., 11.7.2000, n. 302, in Cass. pen., 2001, 17], nell’intento di incentivare «il ricorso a strumenti alternativi al denaro contante e che consentono l’identificazione dell’autore delle transazioni». Tale ratio avrebbe anche dei riflessi sull’identificazione del bene giuridico di riferimento: «Se, dunque, la norma incriminatrice mira, in positivo, a presidiare il regolare e sicuro svolgimento dell’attività finanziaria attraverso mezzi sostitutivi del contante, ormai largamente penetrati nel tessuto economico, è giocoforza ritenere che le condotte da essa represse assumano […] una dimensione lesiva che trascende il mero patrimonio individuale, per estendersi, in modo più o meno diretto, a valori riconducibili agli ambiti categoriali dell’ordine pubblico o eco-

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nomico, che dir si voglia e della fede pubblica» [C. cost., 11.7.2000, cit., 18]. In base a tali premesse, il reato in esame sarebbe incompatibile con l’attenuante prevista dall’art. 62 n. 4 c.p. [Cass., sez. II, 15.11.2012, Criscuolo, in CED 2012/45902] o con la causa di non punibilità dettata dall’art. 649 c.p. [Cass., sez. II, 8.11.2011, Bonassi, in CED 2011/15834]; inoltre, l’eventuale cointestazione di un conto corrente non escluderebbe la punibilità in caso di utilizzo indebito del correlato bancomat da parte di uno solo dei titolari [Cass., sez. VI, 24.4.2012, Battigaglia, in CED 2012/29821].

L’art. 55 comma 9 contempla una pluralità di condotte eterogenee. Nella prima parte dell’enunciato si punisce l’utilizzo indebito delle carte di credito e dei documenti equiparati da parte di chi non è titolare; nella seconda parte, invece, sono stigmatizzate le condotte di falsificazione e alterazione, nonché quelle di possesso, cessione o acquisizione di «carte o documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi». Nella prassi giurisprudenziale, tale modulo descrittivo è ricondotto allo schema delle c.d. disposizioni a più norme (o norme cumulative), sicché il possesso, la cessione o l’acquisizione di un documento falso, alterato o comunque di provenienza illecita ben potrebbe concorrere con la sua successiva illecita utilizzazione [Cass., sez. II, 20.10.2011, Dari, in CED 2011/41696; Cass., sez. I, 5.11. 2003, Kari, in Cass. pen., 2005, 927; Cass., S.U., 28.3.2001, Tiezzi, in Cass. pen., 2002, 115]. In effetti, i criteri per distinguere le norme cumulative da quelle alternative (o a più fattispecie) non riescono in questo caso a fornire una soluzione sicura [su tali criteri, volendo, GENTILE, 88-89]. A favore della tesi dell’alternatività, e quindi dell’unicità di reato, si potrebbe osservare che le condotte sono inserite nel medesimo comma, condividono il dolo specifico del fine di trarre profitto per sé o altri e sono assoggettate alla medesima pena. Tuttavia, le ipotesi di falsificazione, alterazione, ecc., sono separate dall’indebito utilizzo da un punto, e non sono alternative modali di quest’ultima condotta; né varrebbe osservare che l’esecuzione differita delle diverse condotte realizzerebbe una progressione criminosa ai danni del medesimo interesse [LAZZONI, 193; NUZZO, 1005], dal momento che possesso e indebito utilizzo potrebbero aggredire beni giuridici diversi [BORSARI, 551-552], e che in ogni caso «non è sufficiente rilevare che “è sempre lo stesso bene giuridico che viene aggredito”, ma si deve anche stabilire quante volte lo sia stato» [BRUNELLI, 41]. -

7.1. L’oggetto materiale del reato. – Nel caso di illecito utilizzo, falsificazione e alterazione, l’oggetto materiale del reato è rappresentato dalle «carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi». L’ampiezza di tale formula è vista con sospetto da parte della dottrina, perché non indicherebbe «il parametro alla cui stregua vanno individuati i “documenti analoghi” a quelli indicati dalla norma, per cui qualsiasi interpretazione

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del giudice» avrebbe carattere sostanzialmente analogico [BELFIORE, 914]. Pertanto, si è proposta un’interpretazione teleologica del dato normativo, volta a restringere l’operatività della fattispecie a quei casi di abuso che possono incidere sulla fiducia nella sicurezza delle transazioni finanziarie [LAZZONI, 197; F. ROMANO, 641]. Invece, la giurisprudenza si accontenta di verificare volta per volta se la carta o il documento in questione appartenga o meno al genus degli strumenti di pagamento, a prescindere dalla sua connessione con il sistema finanziario nazionale. In questa prospettiva, la fattispecie riguarderebbe non solo le carte di credito e di debito, ma anche le viacard [Cass., sez. I, 8.3.2006, Elies, in Cass. pen., 2007, 720], le schede telefoniche prepagate [Cass., sez. II, 10.7.2003, Larné, in Cass. pen., 2004, 3754; Cass., sez. V, 1.10.2001, Ferrieri, in Cass. pen., 2003, 600] e le tessere di credito carburanti [Cass., S.U., 28.3.2001, cit., 112]. Al contrario, non sono stati assoggettati alla disciplina in esame, in quanto assimilati ai titoli di credito e non agli strumenti di pagamento, gli assegni bancari e circolari [a meno che non siano utilizzati come «strumento indebito ed artificioso di pagamento, sostitutivo della moneta»: Cass., sez. II, 3.6.2010, Bettio, in Cass. pen., 2011, 3552], i traveller’s cheques [Cass., sez. II, 7.4.1999, Carrano, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, 821] e gli eurocheques [Cass., sez. II, 13.1.2009, Polacco, in Cass. pen., 2010, 636; Cass., sez. II, 19.3.2008, Tessier, in Cass. pen., 2009, 715; contra, Cass., sez. V, 27.1.1992, Bolonini, in Foro it., 1992, II, 617, con nota adesiva di Militello]. 7.2. Le condotte vietate. – La prima parte dell’art. 55 comma 9 punisce chi, non essendone titolare, indebitamente utilizza carte di credito e documenti analoghi. La mancanza della titolarità può essere anche sopravvenuta, perché dipende dalle vicende del rapporto contrattuale che legittima l’utilizzo del documento. Di conseguenza, non è (più) titolare chi continua a utilizzare una carta di credito che l’emittente ha provveduto a revocare [Cass., sez. I, 11.11.2003, Bonacci, in Cass. pen., 2004, 2970; contra, Cass., sez. V, 14.7.1994, Russo, in Cass. pen., 1994, 3087]. L’utilizzo che viene in rilievo è solo quello conforme alla funzione tipica della carta o del documento [BELFIORE, 915]: non integra la fattispecie in esame, ad esempio, la condotta di chi si limita a esibire una carta di credito altrui al fine di fingere un’inesistente affidabilità economica [LAZZONI, 199]. L’utilizzo non presuppone necessariamente il possesso materiale della carta o del documento, sicché basta servirsi dei dati identificativi fraudolentemente carpiti da una carta di credito [Cass., sez. I, 2.10.2003, Debernardi, in Cass. pen., 2003, 3512], oppure da una tessera di ricarica del telefono cellulare [Cass., sez. II, 10.7.2003, Larné, cit., 3756]. L’avverbio «indebitamente», che integra una clausola di antigiuridicità speciale, è stato interpretato dalla giurisprudenza nel senso che l’utilizzo da parte di chi non è titolare sarebbe quasi sempre indebito.

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È il caso dell’utilizzo della carta carburante aziendale per motivi personali [Trib. Milano, 8.11.2006, in Giur. mer., 2007, 1137], oppure della carta di credito altrui, «attesa l’esclusività della legittimazione all’impiego del documento contrattualmente conferita all’intestatario dall’istituto emittente e la conseguente irrilevanza dell’eventuale consenso del medesimo al suo impiego da parte di un terzo, se non altro in considerazione della necessità di sottoscrivere, all’atto dell’uso del documento, una dichiarazione di riconoscimento di debito e dell’ovvia illiceità di un’autorizzazione a sottoscriverla con la falsa firma del titolare»; invece, la punibilità andrebbe eccezionalmente esclusa quando il titolare si serva del terzo «come longa manus o mero strumento esecutivo di un’operazione di pagamento che non comporti la sottoscrizione di alcun atto (v., ad esempio, l’ipotesi di pagamento del pedaggio autostradale mediante carta di credito, per cui è sufficiente inserire il documento nell’apposito congegno automatico) od, in caso di necessità della sottoscrizione, vi provveda personalmente, con ciò restando identificato come unico ed effettivo fruitore del documento» [Cass., sez. I, 19.2.2004, Postacchini, in CED 2004/11203]. La Cassazione ha poi ulteriormente precisato che, nel caso di carte al portatore, il reato non sarebbe integrato se l’utilizzatore è in buona fede, ossia ignora di non essere il titolare [Cass., sez. II, 4.7.2012, J.A., in CED 2012/26613].

Un nodo interpretativo assai discusso riguarda il momento consumativo della fattispecie di indebito utilizzo. Mentre alcuni ne ravvisano gli estremi nel momento in cui «dall’uso della carta si trae quella utilità che essa, conformemente alla funzione che le è propria, è in grado di fornire» [C. PECORELLA, 262; BELFIORE, 915], altri osservano che la fattispecie non richiederebbe né il conseguimento del profitto, né l’effettiva conclusione della transazione [NUZZO, 1000; PALLADINO, 929]. La giurisprudenza più recente aderisce a questo secondo orientamento [Cass., sez. I, 26.10.2004, Forgiane, in Cass. pen., 2006, 2557]. Andrebbe pertanto punito a titolo di delitto consumato l’inserimento di una carta bancomat nello sportello senza digitare il PIN [Cass., sez. V, 20.4. 2006, Sabau, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2007, 362; nel senso del tentativo, invece, Cass., sez. V. 31.1.2001, Gabrielli, in Cass. pen., 2002, 2866], oppure la consegna di una viacard ‘rigenerata’ all’operatore [Cass., sez. I, 8.3.2006, Elies, cit., 720; Cass., sez. I, 28.4.1998, Troia, in Cass. pen., 1999, 980]. Il reato potrebbe avere ad oggetto anche una carta di credito o bancomat bloccata [Cass., sez. II, 15.11.2012, Tracogna, in CED 2012/45901; Cass., sez. II, 5.10.2011, Zolli, in CED 2011/37016]; non però una carta scaduta, perché in tal caso si tratterebbe di un documento «totalmente privo delle sue originarie caratteristiche di strumento finanziario», e quindi mancherebbe lo stesso presupposto fattuale dell’illecito [Cass., sez. II, 11.4.2005, Basile, in Cass. pen., 2007, 1235]. Secondo la giurisprudenza prevalente, l’ipotesi dell’indebito utilizzo assorbirebbe il delitto di truffa ex art. 640 c.p., perché «rappresentativa dell’onnicomprensivo disvalore del fatto e come tale caratterizzata da una sanzione più grave» [Cass., S.U., 28.3.2001, cit., 119, ripresa da Cass., sez. V, 12.12.2005, Copacchione, in Cass. pen., 2007, 2149, e da ultimo da Cass., sez. II, 4.6.2013, Devoto, in CED 2013/26865]. Non manca però un orientamento più rigoroso, volto a riconoscere gli estremi del concorso di reati quando l’utilizzo indebito della carta o del documento avviene per mezzo di un quid pluris concretizzatosi in artifizi o raggiri [Cass., sez. fer., 15.9.2011, Montalto, in CED 2011/45946; Cass., sez. I, 23.4.2004, Colesanti, in Cass. pen., 2005, 3369], oppure quando la -

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condotta truffaldina è stata finalizzata a ottenere la disponibilità della carta successivamente utilizzata [Cass., sez. II, 21.10.2009, Bombaci, in Riv. pen., 2010, 388]. In alcune peculiari situazioni, si sono ravvisati gli estremi della frode informatica (art. 640-ter c.p.), che prevarrebbe in quanto figura speciale sia sulla truffa, sia sul reato in esame [Cass., sez. II, 10.1.2012, Popescu, in CED 2012/11699; Cass., sez. II, 15.4.2011, Fica, in CED 2011/17748]. Quid iuris se, utilizzando indebitamente carte di credito di provenienza delittuosa, si compiono attività di riciclaggio? Ad avviso della Cassazione [Cass., sez. II, 24.10.2013, Tamburello, in CED 2013/47147], «nel caso di riciclaggio di carte di credito provenienti da delitto, perché rubate o clonate, l’indebita utilizzazione delle carte di credito medesime non costituisce reato presupposto dal riciclaggio, ma reato strumentale alla commissione del riciclaggio medesimo». Di conseguenza, è stata annullata l’ordinanza emessa in sede cautelare dal Tribunale di Trapani, secondo il quale in questi casi il reato presupposto di riciclaggio sarebbe «costituito in via immediata e diretta proprio da quell’indebito utilizzo con cui è stato monetizzato l’importo successivamente riciclato, con la conseguenza che le condotte di riciclaggio devono qualificarsi come operazioni di auto riciclaggio». Al contrario, nell’impostazione della Suprema Corte il reato di utilizzazione indebita assume «una valenza strumentale rispetto al risultato finale [l’ostacolo all’identificazione delittuosa del denaro] che il soggetto agente intende conseguire, pur acquistando una sua autonoma rilevanza quale fattispecie penale»: ergo, concorso di reati tra l’art. 648-bis c.p. e l’art. 55 comma 9.

Passando alla seconda parte dell’art. 55, si punisce innanzitutto la falsificazione o l’alterazione di carte o documenti analoghi posta in essere da chiunque (anche dal titolare). La prima condotta si riferisce alla creazione ex novo di una carta falsa, mentre la seconda indica la modificazione di uno o più elementi di una carta genuina, quali ad esempio la data di scadenza, il nome del titolare o la banda magnetica [F. ROMANO, 642]. Sarebbe ammissibile, secondo la giurisprudenza, il concorso con il reato di truffa, «posto che non ogni artificio o raggiro comporta un’attività di falsificazione» [Cass., sez. II, 10.1.2012, Popescu, in CED 2012/11699]. Rispetto al reato di falso in scrittura privata (art. 485 c.p.), la fattispecie in esame commina pene più severe, non richiede l’uso del documento ed è perseguibile d’ufficio [Cass., S.U., 28.3.2001, Tiezzi, cit., 115]. Le carte e i documenti di provenienza illecita, o comunque falsificati o alterati, nonché gli ordini di pagamento prodotti con essi, costituiscono l’oggetto materiale delle ulteriori condotte di possesso, cessione o acquisizione. Il possesso consiste nella diretta disponibilità della carta o del documento, mentre l’acquisizione e la cessione si riferiscono, rispettivamente, al conseguimento e alla trasmissione del possesso [BELFIORE, 916]. Per provenienza illecita deve intendersi la derivazione da un illecito civile o amministrativo [C. PECORELLA, 271; LAZZONI, 207; contra, BORSARI, 556], o anche da una contravvenzione: non però da un delitto, perché in tal caso sarebbe integrato lo schema dell’art. 648 c.p. [Cass., sez. VI, 16 luglio 2009, Iaria, in Cass. pen., 2010, 1963; Cass., S.U., 28.3.2001, cit., 116].

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7.3. L’elemento psicologico. – Sul piano dell’elemento psicologico, le condotte previste dall’art. 55 comma 9 sono punibili esclusivamente a titolo di dolo. L’agente dovrà pertanto essere consapevole del carattere indebito dell’utilizzo (art. 55 comma 9, prima parte), della falsificazione o alterazione della carta o del documento, oppure della sua provenienza illecita (art. 55 comma 9, seconda parte). È altresì richiesto, in tutti i casi [BELFIORE, 918], il fine di trarre profitto per sé o per altri. Tale requisito assolve un’importante funzione selettiva [F. ROMANO, 643], e dev’essere scrupolosamente accertato soprattutto in relazione a quelle condotte che danno vita a una più spiccata anticipazione della tutela: si pensi, ad esempio, a chi possieda una carta di credito di illegittima provenienza, ma non possa utilizzarla in alcun modo [Cass., sez. V, 15.6.2000, Ghalami, in Cass. pen., 2002, 317]. A rigore, il fine di profitto dovrebbe escludere la punibilità delle condotte poste in essere per dispetto o per vanteria, oppure realizzate a favore del titolare [intendendosi per «altri» i soggetti diversi da quest’ultimo: LAZZONI, 210]: salvo estendere la nozione di profitto ai vantaggi non economicamente valutabili. 8. Violazioni in materia di vigilanza e comunicazioni. La vigilanza sull’adempimento della normativa antiriciclaggio è affidata in prima battuta agli stessi soggetti obbligati, che devono adottare «idonei e appropriati sistemi e procedure» in materia di «controllo interno, di valutazione e gestione del rischio, di garanzia dell’osservanza delle disposizioni pertinenti e di comunicazione» [art. 3 comma 1]. A tal riguardo, gli intermediari finanziari e le società di revisione devono tener conto dei provvedimenti «circa le modalità di adempimento degli obblighi di adeguata verifica del cliente, l’organizzazione, le procedure e i controlli interni» emanati, ai sensi dell’art. 7 comma 2, dalla Banca d’Italia [provvedimento 10.3.2011 in tema di organizzazione ecc.], dalla Consob [delibera n. 17836 del 28.6.2011, confermata con delibera n. 18382 del 21.11. 2012] e dall’Ivass (già Isvap) [regolamento n. 41 del 15.5.2012]. Tali provvedimenti sono presidiati dall’art. 56 comma 1, che punisce con una sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 200.000 euro l’«inosservanza delle disposizioni richiamate o adottate ai sensi dell’art. 7, comma 2». Analogo trattamento sanzionatorio è previsto per le misure adottate in materia di adeguata formazione del personale [art. 54]. A sua volta, l’art. 52 impone agli organi di controllo [collegio sindacale, consiglio di sorveglianza, comitato del controllo di gestione, organismo di vigilanza ex art. 6 d.lgs. n. 8.6.2001, n. 231, nonché «tutti i soggetti incaricati del controllo di gestione comunque denominati»] istituiti presso i destinatari degli obblighi antiriciclaggio di vigilare, ciascuno nell’ambito delle proprie attribuzioni e competenze, sull’osservanza del d.lgs. n. 231/2007. Ai sensi dell’art. 52 comma 2, tali organi devono comunicare: a) alle Autorità -

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di vigilanza, senza ritardo, gli atti o i fatti che possono costituire una violazione delle disposizioni adottate ai sensi del citato art. 7 comma 2; b) al titolare dell’attività, al legale rappresentante o a un suo delegato le infrazioni alle disposizioni in materia di operazioni sospette di cui hanno notizia [supra, § 5]; c) al Ministero dell’Economia, entro trenta giorni, le infrazioni in materia di limitazioni all’uso del contante e dei titoli al portatore di cui hanno notizia [supra, § 6]; d) all’Autorità di vigilanza del settore, entro 30 giorni, le infrazioni in materia di obblighi di registrazione di cui hanno notizia [supra, § 4]. Chi, essendovi tenuto, omette di effettuare «la comunicazione di cui all’art. 52, comma 2», è punito con la reclusione fino a un anno e con la multa da 100 a 1.000 euro [art. 55 comma 5]. Sul piano della soggettività attiva, ha destato perplessità il riferimento ai «soggetti incaricati del controllo di gestione comunque denominati», perché si tratterebbe di un’«espressione difficilmente riconducibile a una categoria professionale presente nelle società italiane», e quindi contrastante con il principio di determinatezza [CENTONZE, 1800]. Da parte sua, la Banca d’Italia ha chiarito, con nota del 20.2.2009, che l’art. 52 si riferisce «agli organi societari istituzionalmente deputati alle funzioni di controllo previste dalla legge», e non a quelle funzioni – come l’Internal Auditing – svolte «in base ad un rapporto di dipendenza con gli organi amministrativi» responsabili della funzionalità dei controlli interni. Il sostantivo singolare «comunicazione» non appare appropriato [ROMOLOTTI, 89], perché l’art. 52 comma 2 prevede diversi tipi di comunicazioni. Per evitare l’anomalia di punire penalmente l’omessa comunicazione di fatti sanzionati in via amministrativa, potrebbe limitarsi l’ambito operativo dell’art. 55 comma 5, alla lettera d) dell’art. 52, dal momento che solo la violazione degli obblighi di registrazione ha rilevanza penale [art. 55 comma 4]; ma è evidente che la compatibilità di tale tesi con il dato testuale offerto dall’art. 55 comma 5, che richiama l’intero art. 52 comma 2, è molto problematica. Sono punite le omesse comunicazioni, e non le comunicazioni tardive, false o incomplete [BEVILACQUA, 300]. A tal riguardo, deve però osservarsi che l’elasticità della formula «senza ritardo» potrebbe determinare alcune incertezze. La tecnica dei rinvii a catena si pone in tensione con il principio di legalità nel momento in cui la descrizione di un presupposto del reato – la violazione delle disposizioni emanate ai sensi dell’art. 7 comma 2 – viene integralmente demandata a fonti sublegislative. Trattandosi di un delitto punito esclusivamente a titolo di dolo, il soggetto attivo dovrà essere consapevole dei presupposti fattuali dell’obbligo di comunicazione, e volontariamente omettere la comunicazione. Sennonché, appare problematico il riferimento agli «atti o i fatti che possono costituire una violazione», perché a quanto pare l’obbligo di comunicazione sussiste anche quando l’agente sospetta che un’infrazione sia stata commessa.

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8.1. Comunicazione delle infrazioni previste dall’art. 49. – L’osservanza delle limitazioni all’uso del contante e dei titoli al portatore [supra, § 6] trova un ulteriore presidio nell’art. 51 comma 1, ai sensi del quale i destinatari degli obblighi antiriciclaggio devono rendere note entro trenta giorni al Ministero dell’Economia [alle Ragionerie territoriali competenti, come chiarito dal medesimo Ministero nella circolare n. 77009 del 3.10.2012] le infrazioni alla disciplina in materia di trasferimento del denaro contante, assegni, libretti di deposito, ecc., di cui hanno notizia «in relazione ai loro compiti di servizio e nei limiti delle loro attribuzioni e attività». L’obbligo non sussiste quando l’infrazione riguarda un’operazione di trasferimento che l’agente ha già segnalato come sospetta [art. 51 comma 3]. In caso di trasgressioni riguardanti assegni bancari, assegni circolari, libretti al portatore o titoli similari, la comunicazione deve essere effettuata dalla banca o da Poste italiane S.p.A. che li accetta in versamento o ne effettua l’estinzione; l’obbligo non sussiste se il soggetto ha la certezza che la comunicazione è stata già effettuata da altro obbligato [art. 51 comma 2]. A quando pare, tale disposizione riguarda i casi in cui il titolo irregolare viene presentato allo sportello per l’estinzione o il versamento, ma non esime dall’obbligo di comunicazione chi (ad esempio il professionista) venga a conoscenza della violazione in un momento antecedente [CASTALDO, NADDEO, 272]. Stupisce che il legislatore non abbia previsto, analogamente all’art. 12 comma 3, una clausola di esenzione per il professionista che abbia notizia dell’irregolarità nel corso dell’esame della posizione giuridica del cliente, dell’espletamento dei compiti di difesa e rappresentanza, ecc. In mancanza di un’interpretazione correttiva, volta a estendere l’esenzione anche ai casi previsti dall’art. 51, il quadro normativo si esporrebbe a censure di illegittimità costituzionale [COCUZZA, 215-216] per violazione del principio di uguaglianza. 8.2. Obblighi informativi nei confronti della UIF. – L’art. 57 comma 5 punisce con una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 50.000 euro le «violazioni degli obblighi informativi nei confronti della UIF». Tale ampia formula costringe l’interprete a una faticosa ricostruzione di tutti gli obblighi informativi previsti dal d.lgs. n. 231/2007 a favore della UIF. Ebbene, la UIF può richiedere informazioni alle amministrazioni interessate e agli ordini professionali [art. 9 comma 5]; dev’essere informata dalle autorità di vigilanza di settore, dalle amministrazioni e dagli ordini professionali delle ipotesi di violazione delle disposizioni del d.lgs. n. 231/2007 che potrebbero essere correlate a riciclaggio o finanziamento del terrorismo rilevate nei confronti dei soggetti obbligati [art. 9 comma 6]; ogni mese deve ricevere dagli intermediari finanziari e dalle società di revisione i dati aggregati sulla loro operatività, al fine di effettuare analisi mirate su determinate zone territoriali [art. 6 comma 6 lett. d); art. 40]; può richiedere «ulteriori informazioni ai fini dell’analisi o dell’approfondimento investigativo della segnalazione» secondo le modalità pre-

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scritte dall’art. 45 comma 3; è informata dalla DIA e dalla Guardia di Finanza delle segnalazioni di operazioni sospette non aventi ulteriore corso investigativo [art. 48 comma 2]. Evidentemente, il diverso atteggiarsi dei presupposti dell’obbligo (richiesta da parte della UIF, termine di trenta giorni, ecc.) si riflette sulla struttura dell’illecito [IMBERGAMO, 169]. Tra gli obblighi presidiati dall’art. 57 comma 5, non rientra la segnalazione delle operazioni sospette, innanzitutto perché già oggetto dell’art. 57 comma 4, che è norma speciale rispetto all’art. 57 comma 5; poi, perché il d.lgs. n. 231/2007 distingue chiaramente tra le segnalazioni di operazioni sospette [art. 6 comma 6 lett. b)] e gli «ulteriori dati e informazioni, finalizzati allo svolgimento delle proprie funzioni istituzionali» [art. 6 comma 6 lett. c)]. Non rilevano neppure le informazioni che le autorità delle indagini possono fornire alla UIF [art. 9 comma 10], trattandosi di una facoltà e non di un obbligo.

9. La responsabilità degli enti. L’art. 63 ha introdotto nel corpo del d.lgs. 8.6.2001, n. 231 l’art. 25-octies, estendendo così la responsabilità da reato degli enti collettivi alle fattispecie previste dagli artt. 648, 648-bis e 648-ter c.p. Si pone pertanto un problema di coordinamento tra la legge antiriciclaggio e il d.lgs. n. 231/2001, che pure sollecita l’adozione di misure – i modelli di organizzazione e gestione di cui agli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231/2001 – volte a prevenire la commissione dei reati di ricettazione, riciclaggio e reimpiego. Secondo autorevole dottrina, i modelli organizzativi ex d.lgs. n. 231/2001 si atteggerebbero «a meri strumenti di esecuzione e di disciplina in dettaglio di comportamenti ben tipizzati» dalla legge antiriciclaggio, la quale obbligherebbe gli enti collettivi «a svolgere attività di prevenzione indipendentemente dalla prospettiva di essere coinvolti nella responsabilità per i fatti di riciclaggio che vengano effettivamente commessi» [DE VERO, 283]. A tale impostazione si è replicato che i due decreti n. 231, pur condividendo una generica finalità cautelare, andrebbero distinti sul piano dei presupposti applicativi: ciò in quanto i sistemi e le procedure in materia di obblighi antiriciclaggio [art. 3] andrebbero parametrati su una classe di condotte di portata più ampia [supra, § 2.1.] delle fattispecie codicistiche di ricettazione, riciclaggio e reimpiego che costituiscono il punto di riferimento dell’art. 25-octies d.lgs. n. 231/2001, e quindi dei modelli di organizzazione e gestione [TRAPASSO, 361]. Pur non essendo pienamente sovrapponibili, i due sistemi normativi presentano però diversi punti di contatto [MANCINI, 108 ss.] che rendono auspicabile un approccio integrato alla gestione del rischio-riciclaggio. In questa prospettiva, è opportuno che i modelli di organizzazione e gestione recepiscano i contenuti e le logiche dei sistemi e delle procedure antiriciclaggio, e che i flussi informativi tra e verso i soggetti istituzionali che governano i due ambiti (respon-

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sabile antiriciclaggio da un lato, organismo di vigilanza dall’altro) siano attentamente formalizzati [BILLO, 441]. Tra l’altro, il problema del coordinamento tra i due decreti n. 231 potrebbe essere ulteriormente ridimensionato se si accogliesse il punto di vista di chi afferma, per un verso, che la valutazione del rischio propedeutica alla compilazione dei modelli organizzativi «deve tenere conto non soltanto del catalogo “formale” dei reati presupposto, ma deve pure farsi carico degli illeciti penali strumentali alla consumazione di quelli previsti dal decreto» n. 231/2001 [PIERGALLINI, 2082]; per un altro, che la prevedibilità del rischio di riciclaggio sarebbe, «sia pure in parte, “eteronormata”» dalle indicazioni elaborate dagli organismi tecnici, nazionali e sovranazionali [PIERGALLINI, 2086], e che addirittura il decreto antiriciclaggio indicherebbe degli elementi che necessariamente dovrebbero essere recepiti nei modelli organizzativi [ROMOLOTTI, 88]. Un altro momento di intersezione tra le due discipline è dato dall’inserimento dell’organismo di vigilanza ex art. 6 d.lgs. n. 231/2001, tra i soggetti obbligati a vigilare sull’osservanza delle norme contenute nel d.lgs. n. 231/2007, e a comunicare eventuali infrazioni di cui abbia notizia alle autorità di volta in volta interessate. In questo modo, l’organismo di vigilanza sarebbe stato trasformato da organo connotato in chiave endosocietaria [art. 6 comma 2 lett. b) d.lgs. n. 231/2001], a soggetto gravato da obblighi di collaborazione a rilevanza esterna, tenuto a vigilare non solo sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di organizzazione e gestione, ma anche sull’osservanza delle norme contenute nel d.lgs. n. 231/2007 [CASTALDO, NADDEO, 415; CENTONZE, 1799; FONDAROLI, 319; ROMOLOTTI, 90 ss.]. In ogni caso, tali obblighi di comunicazione non sembrano configurare in capo all’organismo di vigilanza una posizione di garanzia volta a evitare i reati di riciclaggio [ACQUAROLI, 816; CASTALDO, NADDEO, 415 ss.; PIERGALLINI, 2079; contra, (b) ZANCHETTI, 1950], né consentono di affermare che l’adozione di modelli di organizzazione e gestione in campo di riciclaggio sarebbe doverosa, potendo l’art. 52 comma 1, essere interpretato nel senso che l’organismo di vigilanza è tenuto agli obblighi di collaborazione a condizione che sia istituito. Per concludere, merita un cenno la recente iniziativa governativa volta a estendere attraverso lo strumento della decretazione d’urgenza la responsabilità da reato dell’ente all’ipotesi descritta dall’art. 55 comma 9 [art. 9 comma 2 d.l. 14.8.2013, n. 93]. Tuttavia, tale proposta non ha incontrato il favore del Parlamento, che infatti si è opposto alla conversione in legge di tale disposizione. 9.1. La responsabilità solidale per gli illeciti amministrativi. – L’art. 39 della direttiva 2005/60/CE dispone che gli enti collettivi debbano rispondere delle violazioni commesse a loro vantaggio da persone fisiche qualificate. Il d.lgs. n. 231/2007 non ha però dato integrale attuazione all’imperativo europeo, perché – come si è visto supra, § 9. – la responsabilità da reato degli enti collettivi è stata estesa alle fattispecie codicistiche di ricettazione, riciclaggio e reimpiego, ma non ai reati previsti dall’art. 55.

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Invece, sul piano amministrativo sussiste una responsabilità diretta dell’ente ex art. 56 per quanto attiene agli illeciti relativi all’organizzazione amministrativa e alle procedure di controllo interno, e una responsabilità solidale per le fattispecie previste dagli artt. 57 e 58. Più precisamente, ai sensi del combinato disposto degli artt. 59 d.lgs. n. 231/2007 e 6 legge n. 689/1981, l’ente è obbligato al pagamento della somma di denaro dovuta a titolo di sanzione amministrativa in solido con l’autore della violazione (ossia un suo rappresentante o dipendente che abbia commesso il fatto nell’esercizio delle proprie funzioni o incombenze), salvo il diritto di regresso nei confronti di quest’ultimo [art. 6 legge n. 689/ 1981]; tale responsabilità solidale sussiste anche quando l’autore non è stato identificato ovvero quando lo stesso non è più perseguibile ai sensi della legge n. 689/1981 [art. 59]. A dispetto delle apparenze, il legislatore del 2007, che pure mirava a incrementare il modesto tasso di efficacia del meccanismo delineato dall’art. 6 legge n. 689/1981, non ha configurato una vera e propria responsabilità autonoma dell’ente. Innanzitutto, l’ipotesi della mancata identificazione dell’autore della violazione è meno innovativa di quanto sembri, perché la giurisprudenza già riconosce in tali casi la responsabilità sussidiaria ex art. 6 legge n. 689/1981 [Cass. civ., sez. VI, 25.5.2011, Kasch c. Regione Emilia Romagna, in CED 2011/11481; Cass. civ., sez. II, 13.5.2010, Filippini c. Regione Lombardia, in CED 2010/ 11643], salvo che sussista il dubbio sull’esistenza dell’illecito oppure sulla sua connessione con le funzioni o incombenze del trasgressore [Cass., sez. II, 28.11.2007, Soc. Zootecnica group c. Asl di Pavia, in Foro it., 2008, I, 2948]. Inoltre, in mancanza di dati testuali più pregnanti, sembra trovare conferma sia la disciplina generale in tema di prescrizione ricavabile dal combinato disposto degli artt. 28 legge n. 689/1981 e 1310 c.c., secondo la quale gli atti con i quali il creditore interrompe la prescrizione contro uno dei debitori in solido hanno effetto anche nei confronti degli altri debitori, sia l’effetto liberatorio per l’obbligato in solido del pagamento in misura ridotta eseguito dall’autore della violazione ai sensi dell’art. 16 legge n. 689/1981 [Cass., sez. I, 26.6.2001, Soc. lavoraz. Inerti c. Prov. Verona, in Giust. civ., 2002, I, 445; Corte cost., 28.12. 2005, 471, in Giur. cost., 2005, 5055]. A questo punto, il riferimento all’autore «non più» perseguibile sembra riferirsi esclusivamente all’ipotesi in cui la punibilità della persona fisica venga meno per cause sopravvenute, e non per l’assenza originaria di un elemento strutturale dell’illecito (imputabilità [art. 2 legge n. 689/1981], elemento psicologico [art. 3 legge n. 689/1981] e antigiuridicità [art. 4 legge n. 689/1981]). Ne consegue che la responsabilità dell’ente sussisterà nei casi: a) di morte dell’autore della violazione prima del pagamento della sanzione pecuniaria, in deroga al principio d’intrasmissibilità dell’obbligazione pecuniaria previsto dall’art. 7 legge n. 689/1981 [sugli effetti di tale principio, Cass., sez. lav., 21.1.2008, Dir. Prov. Lavoro Taranto c. Esposito, in CED 2008/1193]; b) di omessa notifica alla persona fisica della contestazione della violazione, in deroga all’art. 14 comma 6 -

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legge n. 689/1981 [nel senso che secondo la disciplina generale dell’illecito amministrativo l’omessa notifica all’obbligato principale estinguerebbe anche l’obbligazione solidale, Cass. civ, sez. II, 12.10.2011, Reg. Lombardia c. Latteria Agricola San Pietro Scarl ed altri, in CED 2011/23871; contra, PALIERO, TRAVI, 212 nota 185; ROSSI VANNINI, 72].

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La disciplina sanzionatoria della normativa antiriciclaggio

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Capitolo III

L’aggravante della “ambientazione mafiosa” (art. 7 d.l. 13.5.1991, n. 152)

Sommario

1. L’aggravante del “metodo mafioso”: profili generali. – 2. L’ambito applicativo: la difficile ricerca di un confine con il delitto di associazione di stampo mafioso. – 3. La natura giuridica dell’aggravante. – 4. La ratio legis. – 5. La compatibilità dell’art. 7 con il reato associativo. – 6. La fattispecie soggettiva dell’agevolazione mafiosa e la necessità di un suo arricchimento sotto il profilo offensivo-contenutistico. – 7. I rapporti con il “concorso esterno”. – 8. La natura astratta o concreta del riferimento ai “delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo”, quale limite all’applicabilità della circostanza – 9. Fattispecie problematiche. – 10. Profili processuali: cenni. – 11. L’illegittimità costituzionale dell’art. 275 comma 3 c.p.p. nella sentenza n. 57/2013. – Bibliografia.

1. L’aggravante del “metodo mafioso”: profili generali. Tra gli strumenti legislativi concepiti per fronteggiare l’emergenza della criminalità organizzata di stampo mafioso va annoverata la circostanza aggravante introdotta dall’art. 7 d.l. 13.5.1991, n. 152 convertito in legge 12.7.1991, n. 203. Applicabile ai delitti puniti con pena diversa dall’ergastolo, essa è strutturata su elementi costitutivi strettamente e problematicamente intrecciati a quelli del delitto associativo di stampo mafioso (art. 416-bis c.p) [PELISSERO, 279 ss.]. L’aggravante integra una figura circostanziale “a più fattispecie”, che si articola lungo una duplice variante: la prima consiste nel fatto che il delitto base sia commesso “avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p.” (c.d. del metodo mafioso), la seconda connota il “fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo” (c.d. della agevolazione mafiosa). Com’è stato rilevato, «nell’uno come nell’altro caso il supplemento di portata repressiva sembra esposto al rischio di una tendenziale disapplicazione dell’aggravante stessa in vista del superiore principio del ne bis in idem sostanziale perché, per un verso, sarebbe iniquo addebitare il ricorso al metodo mafioso come generale connotato del reato associativo ed anche quale concreta modalità attuativa ed

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Reati, circostanze aggravanti e sanzioni in materia di criminalità organizzata

aggravante dei delitti-scopo e, per altro aspetto, sembra altrettanto implausibile imputare la finalità associativa una prima volta come aggravante del delitto attraverso il quale si intende arrecare un contributo al sodalizio mafioso ed una seconda volta come elemento costitutivo della fattispecie associativa» [DE VERO, 42 ss.; VISCONTI, 1303 ss., che parla di «effetto metastatico-moltiplicatore delle imputazioni penali»], sottolineandosi peraltro la pericolosità del richiamo ad un «metodo mafioso» di difficile individuazione in grado, tuttavia, di integrare non solo i requisiti di due distinte fattispecie (artt. 416-bis e 628 o 629 c.p.), ma anche ulteriormente autonome circostanze aggravanti (artt. 7 d.l. n. 152/1991 e 628 comma 3 o 629 comma 2 c.p.). Il comma 2 dell’art. 7, poi – ricalcando sostanzialmente l’art. 1 d.l. n. 625/ 1979, convertito in legge n. 15/1980 (modificato dall’art. 5 comma 1 legge n. 34/2003) per i reati commessi «per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale» –, pone un limite al potere discrezionale di bilanciamento delle circostanze, disponendo che «le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli artt. 98 e 114 c.p., concorrenti con l’aggravante di cui al comma 1 non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alla predetta aggravante». L’aumento di pena previsto, di conseguenza, non può essere bilanciato dal concorso di circostanze attenuanti: una eventuale comparazione, pur non esclusa dalla norma, può dar luogo solo ad una valutazione di subvalenza delle attenuanti rispetto alle aggravanti, a meno che il giudice (secondo la lettura offerta da Corte cost. nn. 38 e 194 del 1985 della non dissimile disposizione del d.l. n. 625/1979, art. 1 comma 3) non ritenga di adottare il criterio meramente aritmetico, determinando, con distinte e successive operazioni, le diminuzioni proporzionali della pena per le eventuali attenuanti, operazione questa che può essere compiuta all’esito dell’aumento dipendente dalla speciale circostanza aggravante. A questa regola fa eccezione soltanto la circostanza aggravante della dissociazione, prevista dall’art. 8 del medesimo d.l. n. 152/1991, la cui applicazione comporta la “neutralizzazione” dell’aggravante in esame. Si tratta, come ha riconosciuto la giurisprudenza più recente, di un effetto di elisione automatica, che rende ininfluente la predetta circostanza aggravante anche ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato [Cass., sez. I, 5.5.2011 n. 26826, Greco, CED 2011/250795]. La ratio di tale seconda parte della disposizione è quella di evitare la concreta vanificazione, ad opera della discrezionalità del giudice, dell’intento legislativo di aggravare la pena per fatti ritenuti meritevoli di sanzioni più rigorose per le loro modalità o per le finalità che li hanno determinati [per delle più ampie e condivisibili osservazioni in ordine alla discrezionalità nel momento applicativo della sanzione penale, anche con particolare riferimento alle circostanze del reato, cfr. GARGANI, 39 ss.]. -

L’aggravante della “ambientazione mafiosa”

2.

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L’ambito applicativo: la difficile ricerca di un confine con il delitto di associazione di stampo mafioso.

Le due articolazioni dell’aggravante, cosiddette rispettivamente “del metodo mafioso” e “dell’agevolazione mafiosa”, sopravvenute a quasi dieci anni di distanza dall’introduzione nell’ordinamento penale della corrispondente fattispecie associativa, sono espressione di un disegno politico-criminale analogo a quello già perseguito, seppure all’interno di uno stesso contesto normativo, dalla legislazione in tema di criminalità terroristica, vale a dire assicurare una copertura repressiva totale del fenomeno criminoso considerato, senza eccessiva preoccupazione da parte del legislatore per i profili di possibile interferenza tra le distinte previsioni normative e quindi per i margini di effettiva reciproca autonomia delle stesse. Ed invero, le due varianti dell’aggravante, come ben rilevato in dottrina [DE VERO, 45-46], sembrano concernere «la prima, una sorta di postfatto della fattispecie di associazione mafiosa finalizzata alla commissione di delitti, in quanto l’avvalersi del metodo mafioso viene presentato come modalità effettiva di commissione di un certo delitto; la seconda, un’ipotesi di concorso eventuale nel reato associativo per così dire a consumazione anticipata, poiché assume rilievo criminoso la semplice finalità di agevolazione, senza il riscontro dell’effettivo vantaggio che l’attuazione del delitto base abbia rappresentato per il sodalizio mafioso. Nell’uno e nell’altro caso il supplemento di portata repressiva arrecato dall’art. 7 d.l. n. 152/1991 rispetto al (concorso nel) delitto di cui all’art. 416-bis c.p. appare molto modesto e addirittura esposto al rischio di una tendenziale disapplicazione nei casi concreti in vista del superiore principio del ne bis in idem sostanziale. Per un verso, sarebbe infatti iniquo addebitare il ricorso al metodo mafioso tanto come generale connotato di struttura del reato associativo quanto come concreta modalità di attuazione di taluno dei delitti scopo; per altro verso, non sarebbe altrettanto plausibile imputare la finalità agevolativa una prima volta come aggravante del delitto attraverso il quale si intende arrecare un contributo al sodalizio mafioso ed una seconda volta come elemento costitutivo della fattispecie plurisoggettiva eventuale riferita all’art. 416-bis c.p.». Si prospetta, dunque, un risvolto ermeneutico particolarmente rilevante: si tratta di stabilire se l’aggravante sia applicabile soltanto o in prevalenza agli autori delle condotte già riferibili all’art. 416-bis c.p. ovvero se, al contrario, la cerchia elettiva dei destinatari della circostanza aggravante sia data dai soggetti estranei al reato associativo. La prima posizione è sostenuta da chi afferma che l’aggravante si riferisce ai delitti commessi dagli associati al sodalizio mafioso, eventualmente in concorso tra di loro, nel quadro del programma di delinquenza caratterizzante l’associazione sia come finalità ultima tipica sia come progetto minimale comunque insito nell’apparato strutturale della stessa. Detto altrimenti, tale restrittivo orientamento riferisce il metodo mafioso prevalentemente, se non quasi in via esclu-

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Reati, circostanze aggravanti e sanzioni in materia di criminalità organizzata

siva, agli appartenenti al sodalizio mafioso, circoscrivendone la predicabilità ai soggetti estranei al reato associativo solo quando essi compiano un delitto rivendicando falsamente l’appartenenza al sodalizio criminoso in modo da sfruttarne abusivamente il patrimonio di carica intimidativa che non compete loro [TURONE, 171-172]. Un indirizzo più estensivo, invece, reputa che l’aggravante in esame prescinda in sé e per sé dallo sfruttamento dell’appartenenza all’associazione criminale. Si afferma così che i soggetti attivi dei delitti aggravati dal “metodo mafioso” possono essere tanto gli intranei quanto gli estranei al sodalizio mafioso. Sul punto, conviene piuttosto interrogarsi sul grado di complementarità rispettivamente assunto dalle due sottoipotesi nell’economia della fattispecie circostanziata. [DE VERO, 45-46]. Contro questo secondo orientamento sono state avanzate perplessità da parte di chi [TURONE, 173], considerando «non molto realistica l’ipotesi di una condotta improntata alla millanteria circa l’appartenenza alla mafia», ha osservato che l’applicazione della circostanza del metodo mafioso potrebbe sfumare in una sorta di contestualità geografica e ambientale: con ciò si ipotizza l’eventualità di una applicazione indiscriminata ai delitti commessi in regioni ad alto tasso di criminalità organizzata, sul presupposto che specialmente talune manifestazioni criminose, per solito connesse all’attività delle associazioni mafiose, possano sprigionare l’effetto intimidativo in questione indipendentemente da concrete modalità esecutive utilizzate in tale direzione dal soggetto attivo del reato. La necessità di non addebitare, in ossequio al ne bis in idem, una medesima condotta al soggetto agente al duplice titolo di fattispecie autonoma e di figura circostanziale può tuttavia essere soddisfatta tramite una rigorosa delimitazione dell’elemento costitutivo delineato nel comma 3 dell’art. 416-bis c.p. e, quindi, una sua differenziazione rispetto a quello della seconda: ad avviso di autorevole dottrina, invero, la parte della disposizione incriminatrice che descrive l’azione mafiosa individuerebbe un’attività continuativa e seriale, concretantesi in condotte di violenza o minaccia in qualsiasi puntuale manifestazione della vita del sodalizio, mentre il riferimento al metodo mafioso nella circostanza aggravante speciale rappresenterebbe per definizione la modalità concreta di realizzazione di uno specifico fatto delittuoso, corredata dalla necessaria conseguenza di ravvisare nella condotta del soggetto attivo concreti elementi di intimidazione evocatori del fenomeno mafioso [DE VERO, 47]. Questa potenziale sovrapposizione tra le due disposizioni, pone delicati problemi di coordinamento tra l’aggravante di cui all’art. 7 e la menzionata fattispecie associativa, dal momento che la prima, recando una evidente affinità contenutistica con il modello legale di cui all’art. 416-bis c.p., non fa che esaltare, secondo parte della dottrina [D’ASCOLA, 121 ss.], le note di imprecisione e indeterminatezza già proprie di quest’ultima. Invero, secondo tale orientamento la povertà definitoria dell’art. 416-bis c.p. è anche aggravata da una interpretazione incline a completare al ribasso il programma di semplificazione probatoria già implicito nel dato normativo. La dottrina ha così osservato che la scarsa

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consistenza contenutistica della fattispecie viene enfatizzata dalla mutilazione per mano interpretativa delle poche note strutturali in grado di delineare l’offesa, le quali vengono al contrario intese come intralci scomodi da sacrificare in nome della efficienza di un sistema “giustizia penale” sempre più di stampo pragmatico e aziendalista [SQUILLACI, 591]. Su queste basi, si afferma che ci si trova in presenza di «un impoverimento della fattispecie circostanziale, esempio emblematico di un diritto penale in puro stile minimalista nel quale l’azione del giudice, muovendosi in linea con gli intendimenti manifestati dal legislatore in sede di redazione della norma, porta a compimento il già dichiarato obiettivo di facilitazione della prova in chiave antigarantista» [SQUILLACI, 593]. In breve, l’art. 7 manifesterebbe l’abbandono del legislatore di principi minimi di garanzia del sistema penale, con conseguente cedimento a favore della suggestione dell’intervento multilivello – indice sintomatico, peraltro già collaudato, di una legislazione di tipo emergenziale – e quindi alla creazione, non solo di fattispecie sostanziali private delle necessarie note di disvalore, ma anche di regole procedurali differenziate in ragione del reato perseguito. Il denunciato vuoto di contenuti è poi decisamente aggravato dalla inconfessabile (ed inconfessata) prassi secondo la quale gli elementi circostanziali meriterebbero – a differenza di quelli costitutivi – una più ridotta e quasi implicita motivazione che, addirittura, potrebbe limitarsi a sfiorarli, ma che non necessariamente dovrebbe spingersi sino a darne integrale giustificazione. Sennonché, in dottrina, è stato autorevolmente sostenuto che proprio la figura di reato descritta dall’art. 416-bis c.p., i cui contenuti vengono ad integrare l’art. 7, appare, nell’ambito delle fattispecie associative, come una di quelle che meglio si conformano ai principi costituzionali di determinatezza e di offensività [FIANDACA, MUSCO, 34; PELISSERO, 283]; ciò è dipeso, secondo tale impostazione, anche dalla circostanza che la legge Rognoni-La Torre del 1982, “filtrando” e valorizzando l’elaborazione giurisprudenziale maturata sul terreno delle misure di prevenzione, ha dato vita a una previsione che rispecchia un tipo criminoso, espressivo di un omogeneo contenuto di disvalore penale, già ben profilato sul duplice piano della realtà sociale e della prassi giudiziaria. Si è così sostenuto che, diversamente da quanto è accaduto in relazione alla fattispecie dell’art. 416 c.p., di incerta decifrazione offensiva in ragione della genericità della previsione legale e della sua natura di fattispecie associativa pura, la descrizione normativa del 416-bis c.p., andando a delineare la diversa fattispecie associativa mista, consente di indicare in una ben afferrabile nozione di ordine pubblico materiale lo spettro della tutela, la cui offesa effettiva consegue ai metodi utilizzati dal sodalizio al di fuori di qualsiasi presunzione di pericolosità [FIANDACA, MUSCO, 34]. Conseguentemente, richiamando gli approdi ermeneutici cui è pervenuta la dottrina in materia di associazione mafiosa, giova ricordare che la forza di intimidazione viene tradizionalmente definita come capacità di una organizzazione o di un singolo di incutere timore in base all’opinione diffusa della sua forza e della sua predisposizione ad esercitare sanzioni o rappresaglie. Quanto maggiore essa è, tanto più ingenera insicurezza, inferiorità, soggezione e vera e propria

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condizione di assoggettamento [SPAGNOLO, 28]. Viene così in rilevo l’opinione che, valorizzando la struttura logico-sintattica della forma verbale impiegata (“si avvalgono”, che non consentirebbe di dare rilievo a meri programmi, come sarebbe stato possibile qualora si fosse usata la locuzione “intendono avvalersi”), considera necessario l’effettivo utilizzo della forza di intimidazione dell’associazione. Dunque, “forza di intimidazione” e “condizione di assoggettamento ed omertà” che ne deriva, sarebbero elementi oggettivi della fattispecie, con l’ulteriore conseguenza che l’art. 416-bis, cui si ispira la circostanza in esame, configurerebbe un reato associativo a struttura mista, per il quale la legge «richiede non solo l’esistenza di un’associazione, ma anche la realizzazione o un inizio di realizzazione del programma criminoso»; l’associazione di tipo mafioso integrerebbe, allora, una associazione “che delinque”, piuttosto che una mera associazione “per delinquere” [SPAGNOLO, 97]. Il requisito della forza di intimidazione costituisce poi un attributo dell’ente criminoso rilevante indipendentemente dalla sua utilizzazione effettiva [PELISSERO, 279]: l’esigenza dell’esercizio della carica intimidatrice del sodalizio risulta così disciplinata dal riferimento normativo al metodo mafioso, consistente nell’avvalersi della condizione di assoggettamento ed omertà promanante dal vincolo mafioso, e non già dall’elemento descrittivo costituito dal nesso consequenziale esplicitamente istituito tra forza intimidatrice ed effetti di assoggettamento ed omertà, il quale avrebbe, nell’impianto normativo della fattispecie, una funzione meramente chiarificatrice, nel senso che l’associazione può considerarsi mafiosa solo ove il timore da essa suscitato risulti idoneo di per sé a produrre uno stato di sottomissione, come conseguenza di una fama criminale da tempo consolidatasi. La forza di intimidazione, a tenore dell’art. 416-bis c.p., deve in definitiva derivare dal “vincolo associativo”. Come è stato efficacemente rilevato, si avvale della forza di intimidazione «chi chiede senza bisogno di minacciare esplicitamente, chi ottiene senza bisogno di chiedere, utilizzando la cattiva fama del sodalizio criminoso e la paura che incute il vincolo associativo» [SPAGNOLO, 29]. Detto altrimenti, dal ricorso alla forza intimidatrice deve derivare una condizione di assoggettamento e omertà: l’uno e l’altra rappresentano “le due facce di una stessa medaglia” e si differenziano per il riferimento dell’assoggettamento ad uno stato di sottomissione e di soccombenza che si manifesta nelle potenziali vittime dell’intimidazione; mentre l’omertà si concretizza in un comportamento caratterizzato dal favoreggiamento, dalla reticenza e dal rifiuto generalizzato a collaborare con la giustizia [FIANDACA, MUSCO, 479]. A tale elemento caratterizzante il metodo mafioso va riconosciuto un ruolo tutt’altro che secondario nell’architettura della fattispecie, esplicando una funzione tipizzante rispetto alla carica intimidatoria. È proprio la valorizzazione del rapporto di causa-effetto tra l’esercizio della forza di intimidazione e la condizione di assoggettamento e di omertà a consentire di ricostruire, con sufficiente determinatezza, lo stesso requisito della forza intimidatrice mafiosa: potrà essere considerata tale soltanto quella idonea a creare assoggettamento ed omertà [FIANDACA, MUSCO, 479].

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Su queste basi, risulta del tutto condivisibile l’orientamento che, valorizzando l’inserimento tra gli elementi costitutivi della fattispecie circostanziata richiamante l’art. 416-bis c.p. dell’espressione “avvalendosi” delle condizioni di assoggettamento e omertà, propone una interpretazione costituzionalmente orientata ai canoni di materialità ed offensività del fatto, riconoscendo come elemento fondante l’effettivo sfruttamento della fama delle organizzazioni criminali operanti nell’ambito di un determinato territorio [(b) BELFIORE, 817 ss.]. Non basta, dunque, che il delitto cui accede la circostanza sia commesso in un ambiente a forte connotazione mafiosa, dovendosi altresì verificare, in concreto, il collegamento eziologico con le condizioni di assoggettamento e di omertà, nonché che l’alone di diffusa intimidazione abbia reso oggettivamente più facile la perpetrazione del delitto, e/o significativamente incrementato il livello di offensività dello stesso. Si è anche precisato che, mentre l’aggravante della agevolazione mafiosa presuppone sempre la reale esistenza del gruppo criminale, invece quella del metodo mafioso non richiede che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di un’associazione per delinquere [Cass., sez. I, 4.11.2011, n. 5881, Giampà, CED 2011/251830]. Pertanto, non ha senso, in conformità alla ratio dell’aggravamento, accertare se esista una associazione mafiosa e se l’autore del reato aggravato dal metodo mafioso ne faccia o meno parte, una volta appunto che sia stata realizzata una condotta che sia inequivocabilmente riconoscibile in termini di sicura e precisa evocazione del potenziale intimidativo proprio di un sodalizio mafioso, e non è pertanto necessario che il delinquente faccia professione, autentica o millantata, di appartenenza mafiosa, ma è imprescindibile che tenga il comportamento minaccioso (anche implicito) idoneo a richiamare alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo tale attinenza. Secondo la giurisprudenza di legittimità ai fini della configurabilità, nella condotta criminosa, della circostanza aggravante prevista dall’art. 7 non è sufficiente il mero collegamento con contesti di criminalità organizzata o la “caratura mafiosa” degli autori del fatto occorrendo, invece, l’effettivo utilizzo del metodo mafioso [Cass., sez., VI, 4.7.2011, n. 27666, CED 2011/250357; Cass., sez. I, 5.7.2011, n. 2011/32980]; metodo che «si caratterizza in atti, fatti e circostanze riconducibili a concrete e specifiche manifestazioni tipiche dell’agire di tipo mafioso». Tali caratteristiche sono state rinvenute nel «danneggiamento e nella distruzione di beni di apprezzabile valore, nel modus operandi caratterizzato da attentati incendiari volti, per un verso, a provocare allarme sociale ed evidenza pubblica dell’azione delittuosa e, per altro verso, a rafforzare il messaggio omertoso a chi doveva intenderlo», messaggio pienamente trasmesso attraverso gli inviti e i consigli rivolti alle parti offese, forzando palesemente la loro volontà. Altro parametro di cui la Corte ha tenuto conto, per avvalorare il metodo mafioso, e spiegare l’iniziale omertà delle vittime, è stata la detenzione carceraria per associazione mafiosa di uno degli imputati (poi assolto) che ha enfatizzato maggiormente la violenza intimidatrice esercitata sui commercianti vittime dell’estorsione [Cass., sez. I, 5.7.2011, n. 32980]. Ed invero, si è osservato, anche quando un delitto di estorsione si consuma in territori dove notoria – per esperienza giudiziaria consolidata in reiterati provvedimenti giurisdizionali definitivi – è la presenza di associazioni criminali di tipo mafioso, la configurabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152/1991 conv. con legge n. 203/1991, nella forma del metodo mafioso, è subordinata alla sussistenza, nel caso concreto, di condotte specificamente evocative di forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo, e non dalle mere caratteristiche soggettive di chi agisce, anche

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in concorso, idonee a determinare una condizione di assoggettamento ed omertà [Cass., sez. VI, 23.9. 2010, n. 37030]. Volgendo ancora lo sguardo alla recente giurisprudenza della Suprema Corte, si ritrovano decisioni che hanno ritenuto configurabile il delitto di tentata estorsione, con l’aggravante del metodo mafioso, nel caso in cui si costringa la persona offesa a stipulare un contratto per essa non vantaggioso, quanto al prezzo e alle modalità, con l’attivo intervento nella trattativa di un pregiudicato ben noto per la sua caratura criminale [Cass., sez. I, 22.1.2010, n. 5783, Marino, CED 2010/246626]; in tema di usura, poi, è stata riconosciuta la sussistenza della circostanza aggravante del metodo mafioso nel caso in cui l’indagato utilizzi come tecnica di intimidazione il riferimento alla provenienza dei capitali da persone legate alla criminalità organizzata [Cass., sez. I, 30.3.2010, n. 14193, Rugiero, CED 2010/246841]. Seguendo questa linea di pensiero, con una recente pronuncia [Cass., sez. II, 22.3.2012, n. 16045], la Corte di cassazione ha applicato il principio secondo cui la minaccia estorsiva è «ravvisabile nei congrui casi anche se assuma toni apparentemente “morbidi” e concilianti, quando sia comunque in grado di incutere timore nella persona offesa in relazione a tutte le circostanze del caso concreto e alla personalità dell’agente», ritenendo conseguentemente configurabile il delitto di estorsione nella condotta del soggetto che – senza dichiarare la propria appartenenza all’associazione mafiosa ed invocando piuttosto le vicissitudini personali dell’interessata – aveva ottenuto l’assunzione della propria moglie come hostess presso un esercizio di ristorazione, il cui titolare aveva acconsentito a tale richiesta solo “per quieto vivere”, nella rappresentazione degli inquietanti legami personali dell’indagato in ambienti criminali, per quanto la donna non rispondesse affatto ai requisiti personali richiesti. Le oscillazioni interpretative della giurisprudenza sono poi ulteriormente evidenziate dalla tendenza, manifestatasi di recente, a ravvisare una incompatibilità tra la circostanza aggravante di cui all’art. 7 cit. e la contestazione del delitto di associazione mafiosa, sulla base del rilievo che la condotta tipizzata da quest’ultima fattispecie incriminatrice assorbirebbe la previsione dell’aggravante [Cass., sez. I, 8.6.2011, n. 26609, Marano e altri, CED 2011/250752]. Quest’ultima interpretazione, nell’assolutizzare l’autonomia tra fattispecie circostanziale e reato associativo, fino ad ipotizzare una reciproca esclusione, risulta nettamente minoritaria a fronte del prevalente indirizzo che ammette l’applicabilità della circostanza sia in rapporto alla condotta di colui che, facendo parte di un’organizzazione criminosa dotata degli elementi costitutivi delineati dall’art. 416-bis c.p., ricorra a metodi mafiosi per la commissione dei singoli reati-scopo o agisca al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, sia alla condotta di colui che, pur non essendo organicamente inserito nel sodalizio di stampo mafioso, evochi la forza di intimidazione promanante in un certo ambito territoriale dall’associazione di stampo mafioso e sfrutti le conseguenti condizioni di assoggettamento e di omertà del contesto sociale per la più agevole commissione degli illeciti [Cass., sez. I, 5.7.2011, n. 32980]. Da ultimo si è affermato che la «circostanza aggravante di cui all'art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152 è applicabile a tutti coloro che, in concreto, ne realizzano gli estremi, tanto se siano partecipi di un qualche sodalizio mafioso, quanto ne siano estranei. Pertanto, la possibilità di applicare l'aggravante anche nei confronti di chi, pur non organicamente inserito in associazioni mafiose, agisca con metodi mafiosi, è subordinata ad accertamento rigoroso da condurre in maniera oggettiva, tenendo conto del contesto in cui si svolge l'azione, ma soprattutto analizzando il tipo di comportamento posto in essere alla luce della definizione fornita dall'art. 416-bis c.p., espressamente richiamato dal citato art. 7 e le reazioni delle vittime» [Cass., sez. I, 16.4.2014, n. 16711].

In dottrina, si è altresì osservato che la forza di intimidazione e le conseguenti condizioni, «in relazione a specifici apparati organizzativi mafiosi ben radicati, possono essere fattori pervasivi strutturati, anche se non evidenti, di determinati tessuti sociali, azionabili in concreto da condotte estrinsecamente idonee, col conseguente sfruttamento di una dinamica mafiosa. In altre parole, si fa riferimento a quei fattori contaminanti che derivano dalle dinamiche operative delle

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associazioni mafiose e che velatamente confluiscono col tempo nei territori controllati dal circuito mafioso stesso, divenendone contrassegni operativi sfruttabili per rendere più facile la realizzazione di fatti criminosi o per aumentare le chances di impunità» [TUMMINELLO, 909]. La valutazione dell’elemento “territoriale” tuttavia non determina alcun pericolo di automatismo applicativo dell’aggravante in esame. Il rischio di attribuire all’aggravante i contorni di una circostanza di carattere ambientale o locale – che finirebbe per assegnare a qualunque reato commesso in territori ad alta densità mafiosa il connotato della mafiosità – viene scongiurato attraverso la necessità di accertare e portare in luce i concreti tratti esteriori del comportamento criminoso che ne abbiano connotato l’ascrizione alla metodologia mafiosa. In altri termini, occorre evidenziare gli aspetti reali del riferimento all’efficacia intimidatrice e alla forza di pressione riconducibili a specifici assetti organizzativi mafiosi di cui si sia ammantata la reale azione del soggetto agente, nonché precisare se e in quale misura l’azione così caratterizzata abbia dispiegato diretta incidenza causale sull’atteggiamento remissivo o arrendevole dei soggetti passivi e sulla loro concreta libera autodeterminazione. 3. La natura giuridica dell’aggravante. L’aggravante in esame è, per la dottrina, circostanza di natura soggettiva centrata su una particolare motivazione a delinquere e, pertanto, non estensibile ad eventuali concorrenti ai sensi di quanto disposto dall’art. 118 c.p. Tuttavia, al fine di dotarla di qualche substrato oggettivo, per non stemperarla in una generica solidarietà nei confronti del circostante milieu criminale, si esige l’accertamento d’un coefficiente di idoneità oggettiva del delitto commesso in ordine all’obiettivo di contribuire al rafforzamento del sodalizio mafioso [DE VERO, 49]. Di contrario avviso è la giurisprudenza, secondo cui essa ha natura oggettiva, riguardando una modalità dell’azione rivolta ad agevolare un’associazione di tipo mafioso, sicché si trasmette a tutti i concorrenti nel reato, ivi compreso il soggetto affiliato all’organizzazione criminale che risulti essere stato favorito dalla condotta agevolatrice [Cass., 22.1.2009, Napolitano, CED 2009/244261; Cass., sez. V, 8.3.2013, CED, Rv. 255206, secondo cui «la circostanza aggravante di cui all’art. 7 D.L. n. 152 del 1991, convertito nella legge n. 203 del 1991 – integrata dalla finalità di agevolare l’associazione di tipo mafioso – ha natura oggettiva e si trasmette, pertanto, a tutti i concorrenti nel reato, di guisa che è sufficiente che l’aspetto volitivo – espresso nella norma con il riferimento al “fine di agevolare” l’associazione mafiosa – sussista in capo ad alcuni, o anche ad uno soltanto, dei predetti concorrenti nel medesimo reato»]. L’aggravante ricorre, secondo la Suprema Corte, anche se la condotta in cui essa si concreta sia stata esercitata da un solo soggetto, non essendo necessario che essa sia tenuta da una pluralità di persone, ma bastando che il soggetto passivo percepisca che la minaccia e l’intimidazione provengano da più persone, in quanto tale circostanza

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esercita, di per se stessa, maggiore effetto intimidatorio [Cass., 22.1.2009, Napolitano, CED 2009/244261] e può qualificare anche la condotta di chi, senza essere organicamente inserito in un’associazione mafiosa, offra un contributo al perseguimento dei suoi fini, a condizione che tale comportamento risulti assistito, sulla base di idonei dati indiziari o sintomatici, da una cosciente e univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale. La circostanza aggravante si applica pertanto a tutti coloro, partecipi o non di qualche sodalizio criminoso, la cui condotta sia riconducibile a una delle due forme descritte nell’art. 7 in esame e, per i soggetti partecipi, opera anche con riferimento ai reati-fine dell’associazione [Cass., S.U., 28.3.2001, Cinalli, in Cass. pen., 2001, 2667; Cass., sez. II, 18.9.2007, n. 9167]. 4. La ratio legis. La ratio della disposizione in esame va individuata nella finalità di reprimere il metodo delinquenziale mafioso che sia utilizzato (anche) dall’autore singolo sul presupposto della scontata esistenza, in un determinato ambito territoriale, di associazioni mafiose; la tipicità dell’atto intimidatorio, pertanto, non va ricollegata alla natura ed alle caratteristiche dell’atto violento – ad es. telefonate minatorie alla vittima e colpi d’arma da fuoco contro la facciata del negozio e la vettura di quest’ultima – quanto, piuttosto, con riguardo al metodo utilizzato, al nesso con la forza intimidatrice del vincolo associativo [Cass., sez. I, 17.5.2002, Giampà, CED 2002/222427]. Essa risulta applicabile, pertanto, anche nei confronti di chi, pur non organicamente inserito in un’associazione mafiosa [Cass., sez. I, 26.11.2008, Cutolo, CED 2008/243346], agisca con metodi di tale natura o, comunque, dia un contributo al raggiungimento dei fini di un’associazione mafiosa [Cass., sez. II. 27.9.2004, Colicchia, CED 2004/231010]. Non si è poi mancato di osservare come la finalità dell’aggravante in esame sia quella di garantire un’ampia copertura repressiva del fenomeno criminoso e, quindi, di fronteggiare con particolare rigore qualsiasi concreta manifestazione di mafiosità [così Cass., S.U., 28.3.2001, Cinalli, in Cass. pen., 2001, 2667]. In tal senso, l’aggravante prescinde dalla formale contestazione del reato associativo al soggetto cui la circostanza aggravante ad effetto speciale è riferita, posto che fondamento della medesima non è solo quello di punire più severamente coloro che commettono reati con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quello di contrastare in maniera più decisa, data la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l’atteggiamento di coloro che, partecipi o non di reati associativi, utilizzino metodi mafiosi oppure ostentino, in maniera evidente e provocatoria, una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione e quella conseguente intimidazione che sono proprie delle organizzazioni della specie considerata [Cass., sez. I, 9.3.2004, Totaro, CED 2004/227932].

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5. La compatibilità dell’art. 7 con il reato associativo. Problema dalla soluzione controversa in dottrina ed in giurisprudenza è quello relativo alla compatibilità dell’art. 7 con lo status di associato (in relazione al quale si rinvia anche a quanto già detto nel § 2). Sul punto, si sono delineati nel recente passato due contrapposti filoni interpretativi. In particolare, un orientamento minoritario ha escluso la compatibilità tra status di associato ed aggravante del metodo mafioso pena la violazione del ne bis in idem sostanziale, in quanto si sarebbe finito per attribuire al soggetto, a titolo di aggravante, una condotta rientrante nella partecipazione al sodalizio mafioso [DE VERO, 47 ss.; Cass., sez. II, 26.6.1996, Morelli, CED 1996/208705]. In quest’ottica, l’area di operatività dell’aggravante assorbe solo la condotta di chi non partecipa all’associazione, fatta salva l’ipotesi in cui un associato realizzi, con le connotazioni previste dall’aggravante stessa, un delitto non rientrante nel programma associativo [Cass., 3.7.1997, Bellanova, CED 1997/208603]. La tesi maggioritaria, per contro, si è opposta ad una aprioristica esclusione della configurabilità della circostanza nella condotta degli associati, riservandola, tuttavia, ad una puntuale verifica caso per caso [Cass., 22.3.2000, Chiti, CED 2000/216309; Cass., 24.11.1998, Giampà, CED 1998/212808]. Nel comporre il contrasto, le Sezioni Unite hanno stabilito che l’aggravante, nella sua duplice articolazione, è compatibile con l’appartenenza ad un’associazione per delinquere di stampo mafioso. Decisiva, secondo le Sezioni Unite, la considerazione per cui sussiste piena autonomia tra reato associativo e delittifine eventualmente commessi in attuazione del programma del medesimo: il metodo mafioso – si argomenta – «per un verso connota il fenomeno associativo contribuendo a delinearne, insieme con altri elementi, il tipo indipendentemente dalla perpetrazione di reati e, per altro aspetto, aggrava l’eventuale perpetrazione di singoli illeciti così che, in definitiva, si tratterà di saggiare volta a volta, ma indipendentemente dalla qualifica di associato al sodalizio, se l’aggravamento ricorra in occasione della perpetrazione di reati ed analoghi rilievi valgono per la circostanza aggravante c.d. dell’agevolazione mafiosa una volta si sia escluso, nel caso di specie, il fenomeno del concorso apparente di norme. Del resto, si è osservato in relazione all’art. 275 co. 3 c.p.p., se l’aggravante ad effetto speciale in esame non potesse a priori essere contestata agli appartenenti al sodalizio mafioso, la presunzione di ricorrenza delle esigenze cautelari posta dalla norma del codice di rito a costoro non sarebbe riferibile, con l’inaccettabile effetto di un trattamento più mite rispetto agli estranei per delitti commessi con il metodo mafioso» [Cass., S.U., 28.3.2001, Cinalli, CED 2001/218377]. Tale orientamento è stato ribadito dalla recente giurisprudenza, la quale afferma ormai pacificamente l’applicabilità dell’aggravante in esame sia ai soggetti partecipi del sodalizio sia con riferimento ai reati-fine dell’associazione [Cass., sez. I, 26.2.2009, Marsala, CED 2009/243576; Cass., sez. I, 18.9.2007, Atterrato, CED

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2007/239802; da ultimo, Cass., sez. I, 2.4.2012, n. 17532, Dolce, in CED Cass. 2012/252649, secondo cui «l’aggravante in questione, in entrambe le forme in cui può atteggiarsi, è applicabile a tutti coloro che, in concreto, ne realizzano gli estremi, sia che essi siano essi partecipi di un sodalizio di stampo mafioso sia che risultino ad esso estranei»]. Questa presa di posizione delle Sezioni Unite non è andata tuttavia esente da critiche. La dottrina ha infatti rilevato la palese difficoltà di separare e distinguere il metodo mafioso quale “patrimonio sociale” da quello concretamente impiegato per commettere un delitto, evidenziando dunque il rischio di far consistere il valore discretivo in differenze di atteggiamenti psicologici troppo sfumate e di difficile apprezzamento processuale [ARDITA, 2669 ss.]. Senza considerare la chiara violazione del ne bis in idem sostanziale cui si è già fatto riferimento in precedenza, essendo iniquo addebitare il ricorso al metodo mafioso tanto come generale connotato di struttura del reato associativo quanto come concreta modalità di attuazione di taluno dei delitti scopo.

6.

La fattispecie soggettiva dell’agevolazione mafiosa e la necessità di un suo arricchimento sotto il profilo offensivo-contenutistico.

L’art. 7 legge n. 203/1991, nell’articolazione dell’agevolazione mafiosa, configura un’aggravante denotata in termini di dolo specifico e quindi incompatibile con la struttura dell’agevolazione colposa, così che «l’aspetto più immediato dell’offesa rimane quasi sovrastato dalla prospettiva del vero punto di riferimento dell’interesse di agevolazione dell’associazione mafiosa» essendo richiesto che l’azione superi il rapporto interpersonale tra agente e favorito per orientarsi ad un vantaggio a favore della consorteria [Cass., sez. I, 2.2.2001, Trimignano, in Dir. pen. proc., 2001, 724 ss.]. Al riguardo va osservato che il consolidamento e/o il rafforzamento del sodalizio criminoso non costituiscono l’obiettivo della finalità agevolatrice, che l’art. 7 individua invece nella sola attività dell’associazione, cioè in qualsiasi manifestazione esterna della vita della organizzazione criminale non necessariamente tale da esitare nella conservazione o nell’attuazione delle finalità descritte nell’art. 416-bis c.p. Innanzi ad una simile previsione normativa dal disvalore accorciato su di una mera condotta finalizzata all’agevolazione dell’attività – e non del potenziamento operativo – del retrostante sodalizio mafioso, è tutt’altro che infrequente in giurisprudenza l’osservazione secondo la quale: «l’aggravante andrebbe riconosciuta per il solo fatto che il contributo, secondo il collaudato schema della sua idoneità ex ante, sia stato posto in essere a vantaggio di un esponente di spicco di un’associazione mafiosa, rivestendo per ciò solo diretta influenza sull’esistenza stessa dell’organizzazione criminale» [Cass., sez. V, 24.9.2007, Sorce, in Cass. pen., 2008, 4182].

Tale interpretazione si colloca in contrasto con i principi costituzionali di

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materialità e di offensività, essendo valorizzati elementi spesso incapaci di sorreggere il significativo incremento sanzionatorio previsto dall’art. 7. Peraltro, è evidente che una simile condotta potrà rivelarsi del tutto priva di una (anche soltanto astratta) utilità rispetto all’attività dell’associazione mafiosa, così come ben potrà verificarsi il caso opposto in cui la medesima condotta, posta in essere a vantaggio di un mero partecipe, si rivelerà viceversa dotata di una effettiva idoneità agevolatrice rispetto all’attività della intera organizzazione [SQUILLACI, 561]. Emerge così l’uso di autentiche scorciatoie probatorie, per via della omessa valorizzazione dell’unico requisito – la concreta efficacia agevolatrice della condotta – realmente capace di allineare la norma all’offesa e di scongiurarne, così, il rischio di un’applicazione del tutto illiberale perché polarizzata verso vicende immeritevoli della relativa sanzione. Si assiste dunque ad uno svuotamento di significato del dolo specifico che, anziché ingenerare un arricchimento della fattispecie in termini oggettivi di disvalore e, pertanto, un effetto davvero selettivo della punibilità, qui contribuisce ad un impoverimento del modello legale, venendo di fatto piegato a consentire incriminazioni basate sulla mera intenzionalità. A ciò si aggiunga che l’applicazione di una simile circostanza aggravante, pur così significativa nell’inasprimento del trattamento sanzionatorio, si fonderebbe su autentiche presunzioni di idoneità causale, essendo la finalità di agevolazione facilmente postulabile come in re ipsa, dal momento che la prova di una simile direzionalità agevolatrice rispetto all’attività del sodalizio risulta frequentemente priva di un referente di natura empirica – proprio perché l’associazione è prevalentemente intesa quale mero accordo – rispetto al quale potere effettuare un giudizio razionalmente controllabile di idoneità in concreto, tale cioè da consentire di apprezzare l’impatto effettivo della condotta sulla intera struttura associativa. L’ovvia conseguenza di questa impostazione è un incontrollabile ampliamento del campo di applicazione della circostanza aggravante per via della rinuncia alla prova della sola componente di fattispecie realmente dimostrativa dell’offesa. A fronte di simili casi, onde scongiurare il rischio che la norma degeneri verso un’applicazione di marca soggettivizzante, è necessario restituire al dolo specifico una autentica funzione selettiva della punibilità. Su queste basi, è possibile affermare che il dolo specifico, per potere assolvere alla sua connaturata funzione di filtro selettivo della punibilità, deve necessariamente innestarsi su di un sostrato fattuale offensivo del bene giuridico. In tal senso, appare fondamentale la ricostruzione del reato a dolo specifico come illecito di pericolo concreto con dolo di danno [per la valorizzazione di tale lettura, (b) MAIELLO, 541 ss.; PELLEGRINO, 9 ss.]. Per questa via è possibile ritenere integrata l’aggravante solo allorquando, oltre alla prova della intenzione di conseguire quel dato scopo descritto nella norma, sia stata altresì raggiunta la prova della oggettiva idoneità della condotta al raggiungimento della finalità presa di mira dall’agente [D’ASCOLA, 136; pare orientata in questa direzione Cass., sez. I, 8.2.2011, n. 547, secondo cui «sussiste la circostanza aggravante della c.d. agevolazione mafiosa in relazione alla condotta di colui che, senza essere organicamente inserito in

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un’associazione mafiosa, offra un contributo al perseguimento dei suoi fini, ma solo a condizione che tale comportamento risulti assistito dalla consapevolezza di favorire l’intero sodalizio, e non un suo singolo componente del quale si ignorino le connessioni con la criminalità organizzata»]. Tanto più che il legislatore ha qui impiegato, quale oggetto del dolo specifico, proprio quell’elemento – per l’appunto, l’agevolazione – capace di conferire concretezza e significatività alla fattispecie e che, pertanto, avrebbe meritato il ben diverso e più pregnante ruolo di elemento costitutivo già a livello oggettivo [SQUILLACI, 563]. In tal modo l’aggravante dell’agevolazione mafiosa è ricondotta allo standard contenutistico costituzionalmente imposto alla materia penale. 7. I rapporti con il “concorso esterno”. Quanto ai confini con il c.d. concorso esterno nel reato associativo, la dottrina ha osservato come l’esistenza nel tessuto ordinamentale dell’aggravante di cui all’art. 7 corrisponde all’intento legislativo di dar veste normativa all’obiettivo politico-criminale di separare il più possibile la responsabilità per i reatiscopo da quello associativo. In quest’ottica, la stella polare che guida la qualificazione giuridica del fatto è rappresentata, nel caso di concorso esterno, dal contributo apportato all’organizzazione in una dimensione essenzialmente causale oggettiva, mentre nell’ipotesi dell’aggravante in esame dal fine specifico di agevolare l’ente criminale mediante la commissione di un reato a sé stante [VISCONTI, 175 ss.], pur considerata nella sua concreta idoneità agevolatrice. Così, si reputa che il contributo agevolativo ex art. 7 si esaurisce nella commissione di un singolo e puntuale fatto criminoso talmente poco caratterizzato, ex ante, in termini astratti di gravità da poter coincidere con qualunque ipotesi delittuosa per cui non sia prevista la pena dell’ergastolo, mentre la condotta rilevante in prospettiva concorsuale è individuata in un’attività di collaborazione sufficientemente stabile, adeguata cioè ai connotati strutturali del reato associativo, tale da risultare determinante ai fini del rafforzamento e/o della conservazione stessa del sodalizio mafioso [DE VERO, 53-54; per lo statuto di tipicità del concorso esterno si rinvia a Cass., S.U., 12.7.2005, n. 33748, in Cass. pen., 2005, 3732; su tale importante pronuncia, cfr. FIANDACA, VISCONTI, 80 ss.; (c) MAIELLO, 1352 ss.]. Qualora, poi, il singolo delitto connotato dal metodo mafioso sia tale da costituire, nell’economia complessiva della compagine associativa, una condizione necessaria per la sua conservazione o il rafforzamento delle sue capacità operative, configurandosi, in concreto, come contributo specifico e consapevole esplicativo di un’effettiva rilevanza causale [Cass., S.U., 12.7.2005, n. 33748, Mannino, rel. Canzio, in Cass. pen., 2005, 3732; da ultimo, cfr. Cass., sez. V, 9.3.2012, Dell’Utri, in Cass. pen., 2012, 4562 ss.], si configurerà una tipica ipotesi di concorso esterno. In ogni caso, quando il fatto commesso rivestisse la straordinaria portata “eziologicamente rilevante” nell’economia complessiva del sodalizio criminoso, così come sottolineata dalla giurisprudenza della Supre-

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ma Corte, e si verificasse quindi un concorso apparente tra le due previsioni, dovrebbe trovare applicazione il più severo trattamento sanzionatorio in base al principio di assorbimento [DE VERO, 55]. Ad ulteriore supporto di tale lettura autonoma delle due forme di qualificazione giuridica di condotte di contiguità mafiosa, si sottolinea, anche, che l’aggravante in esame è incentrata su un dato essenzialmente soggettivo, vale a dire sulla finalità di agevolare l’attività delle associazioni, non essendo in alcun modo richiesto che tale scopo si sia, poi, successivamente concretizzato in un esito causale di effettivo rafforzamento del sodalizio criminoso [DE FRANCESCO, 3487]. La natura astratta o concreta del riferimento ai “delitti punibili con 8. pena diversa dall’ergastolo”, quale limite all’applicabilità della circostanza. L’aggravante in esame limita l’effetto aggravante ai “delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo”. Secondo parte della giurisprudenza la circostanza aggravante non è applicabile ai delitti per i quali sia prevista in astratto la pena dell’ergastolo, a nulla rilevando l’entità della sanzione in concreto inflitta [Cass., sez. III, 14.5.2002, Erra, CED 2002/222119]; decisioni di segno contrario affermano che il limite di applicabilità rinvia alla pena inflitta in concreto e non a quella edittale [Cass., sez. I, 10.1.2002, Ferraioli, CED 2002/221443]. Per quest’ultimo orientamento, nel prevedere che la pena sia aumentata da un terzo alla metà per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo, la norma non intende escluderne l’applicabilità ai reati puniti con l’ergastolo, ma vuole semplicemente procedere alla quantificazione dell’aumento di pena applicabile in presenza della prevista aggravante. La conseguenza sta nel fatto che essa può ben essere contestata anche nel caso di omicidio premeditato, con la precisazione che la medesima produrrà i suoi effetti nel solo caso di esclusione della premeditazione [Cass., sez. I, 4.3.2008, n. 14623; Cass., sez. II, 13.3.2008, n. 13492; Cass., sez. I, 21.11.2007, n. 46598; Cass., sez. I, 17.1.2006, n. 5651]. Pertanto l’aggravante opera in concreto solo se, di fatto, viene inflitta una pena detentiva diversa dall’ergastolo, mentre, se non esclusa all’esito del giudizio di cognizione, esplica comunque la sua efficacia a fini diversi da quelli di determinazione della pena [Cass., S.U., 18.12.2008, n. 452]. 9. Fattispecie problematiche. L’aggravante in esame ha sollevato in giurisprudenza numerose questioni relative ai rapporti con altre fattispecie aggravate e con talune peculiari fattispecie incriminatrici.

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In tema di favoreggiamento personale aggravato dall’art. 7 d.l. 13.5.1991, n. 152, è stato stabilito che il fatto di favorire la latitanza di un personaggio di vertice di un’associazione mafiosa non determina, in ragione esclusivamente dell’importanza di questi all’interno dell’associazione e del predominio esercitato dal sodalizio sul territorio, la sussistenza dell’aggravante, dovendosi distinguere l’aiuto prestato alla persona da quello prestato all’associazione e potendosi ravvisare l’aggravante soltanto nel secondo caso, quando cioè si accerti la oggettiva funzionalità della condotta all’agevolazione dell’attività posta in essere dall’organizzazione criminale [Cass., sez. VI, 28.2.2008, n. 13457; Cass., sez. VI, 11.2.2008, n. 19300; Cass., sez. VI, 10.12.2007, n. 6571; Cass., sez. VI, 8.11. 2007, n. 294; Cass., sez. VI, 27.10.2005; Cass., sez. VI, 15.10.2003]; pertanto l’aggravante di cui all’art. 378 comma 2 c.p. è compatibile, e può quindi concorrere, con quella prevista dall’art. 7 quando il favoreggiamento sia stato compiuto in relazione a persona che abbia fatto parte di associazione di stampo mafioso e contemporaneamente l’azione sia diretta ad agevolare l’attività del sodalizio criminoso; altre decisioni affermano, invece, che qualora la condotta favoreggiatrice sia posta in essere a vantaggio di un esponente di spicco di un’associazione di tipo mafioso, essa ha per ciò solo una diretta influenza sull’esistenza dell’organismo criminale, per cui bene è ritenuta, in siffatta ipotesi, la sussistenza della circostanza aggravante [Cass., sez. V, 12.11.2007, n. 41587; Cass., sez. V, 6.10.2004, n. 231]. Di recente, in un contesto ordinamentale diretto ad ampliare l’ambito di operatività dell’art. 376 c.p., è stato precisato che «in seguito all’inserimento del delitto di favoreggiamento personale nell’elenco tassativo dei reati presupposto dell’art. 376 c.p., operato con la l. 94/2009, non è più punibile la ritrattazione del c.d. favoreggiamento-mendacio, anche aggravato ex art. 7, d.l. 152/1991. Nei giudizi ancora pendenti dinanzi alla Suprema Corte, in applicazione del principio di retroattività della legge penale più favorevole di cui all’art. 2, comma 4 c.p., l’eventuale ritrattazione tempestiva intervenuta in precedenza può ugualmente essere considerata effettiva e determinare la non punibilità del favoreggiamentomendacio. In tale caso, se risulti già provata nei precedenti gradi di giudizio la sussistenza delle condizioni di fatto della causa di non punibilità di cui all’art. 376 c.p., la Corte può disporre l’annullamento senza rinvio della sentenza d’appello di condanna ai sensi dell’art. 609, comma 2 c.p.p.» (Cass., sez. I, 28.5.2012, n. 692, in Diritto penale contemporaneo, I, 2013, con nota di AMARELLI, 218 ss.). La Suprema Corte ha anche stabilito che l’aggravante sussiste, in relazione ai reati di cui all’art. 326 c.p. e all’art. 615-ter c.p., qualora le condotte delittuose ivi previste siano tenute per apprendere notizie sulle sorti del procedimento penale in relazione al reato di associazione mafiosa addebitato all’imputato, in quanto la captazione di dette informazioni non può essere preordinata alla salvaguardia di un interesse esclusivamente personale, ma costituisce obiettivamente un vantaggio non solo per il soggetto che riceve l’informazione, ma per tutta l’associazione, posto che la lesione della segretezza crea un vulnus nelle indagini di cui possono avvantaggiarsi gli associati contrastando con comportamenti o -

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atti illegittimi i fatti destinati a restare segreti [Cass., sez. V, 16.4.2004, n. 45]. È stata, inoltre, affermata la piena compatibilità dell’aggravante con il delitto di usura in quanto la rappresentazione di potere del gruppo, quale strumento dell’azione associativa per l’acquisizione della gestione di attività economiche comportante una condizione di assoggettamento e di omertà nella quale si sostanzia il metodo mafioso, può esistere nella fase della stipula dell’accordo usurario come condizionante l’accordo stesso nella prospettiva del futuro adempimento, ponendo la vittima in condizione di soggezione ulteriore rispetto a quella nascente dalla sua condizione di precarietà economica [Cass., sez. II, 29.10.2003, n. 5643]; a tal fine, non è necessario che l’agente appartenga a una associazione mafiosa, ma occorre rendere espliciti e definiti i concreti tratti esteriori del comportamento criminoso che ne connotano l’ascrizione alla metodologia mafiosa [Cass., sez. VI, 16.5.2007, n. 23153]. La circostanza aggravante può concorrere con quella di cui agli artt. 628 comma 3 n. 3 e 629 comma 2 c.p. [Cass., sez. VI, 26.2.2009, n. 687; Cass., sez. II, 23.5.2006, n. 20228]; infatti, per l’applicazione di quest’ultima circostanza è sufficiente l’uso della violenza o minaccia e la provenienza di questa da soggetto appartenente ad associazione mafiosa, senza necessità di accertare in concreto le modalità di esercizio della suddetta violenza o minaccia, né, in particolare, che esse siano attuate utilizzando la forza intimidatrice derivante dall’appartenenza dell’agente al sodalizio mafioso [FORMICA, 419 ss.]. Nel caso della prima aggravante, invece, pur non essendo necessario che l’agente appartenga al predetto sodalizio, occorre tuttavia accertare in concreto che l’attività criminosa sia stata posta in essere con modalità di tipo “mafioso” [in tal senso, per l’applicazione di tale aggravante, è necessario che sia accertata l’appartenenza dell’agente a un’associazione di tipo mafioso, ma non che via sia stata una sentenza di condanna o una formale imputazione in ordine al reato di cui all’art. 416-bis: Cass., sez. I, 8.4.2009, Vatiero, in CED 2009/244096]; l’aggravante è stata pertanto ritenuta configurabile qualora si siano accertati una attività intimidativa caratterizzata da mafiosità e l’esplicamento di condotte che, al di là degli interessi personali dei soggetti che le attuano, siano altresì riconducibili agli interessi del clan mafioso che ha il controllo sul territorio ovvero siano rese possibili con l’ausilio degli appartenenti al sodalizio [Cass., sez. I, 17.12.2007, n. 12882]. Decisioni contrarie hanno affermato, invece, che sussiste incompatibilità tra la circostanza aggravante prevista dall’art. 628 comma 3 n. 3 c.p., relativa alla violenza o minaccia posta in essere da persona che fa parte dell’associazione di cui all’art. 416-bis c.p., e la circostanza aggravante prevista dall’art. 7 d.l. 13.5.1991, n. 152, nella parte concernente la commissione di delitti avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p., e ciò in quanto l’essere mafioso comporta di per sé stesso l’esercizio del metodo mafioso; l’art. 416-bis comma 3 c.p., si afferma, definisce un’associazione come di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti. La circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. 13.5.1991, n. 152, pertanto, va applicata quando un soggetto

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non facente parte dell’associazione di tipo mafioso commette un delitto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. o al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo; l’incompatibilità si ricaverebbe dal fatto che il concorso delle due aggravanti si risolverebbe in un’inammissibile duplicità dell’addebito perché le condizioni della condotta criminosa di cui alla legge speciale costituiscono connotazioni di appartenenza ad associazione del suddetto tipo [Cass., sez. I, 22.3.2000, Chiti, CED 2000/216309]. L’aggravante in esame può altresì concorrere con quella comune di aver agito per motivi abietti se quest’ultima, nei termini fattuali dell’imputazione e dell’accertamento giudiziale, risulta autonomamente caratterizzata da un quid pluris rispetto alla finalità di consolidamento del prestigio e del predominio sul territorio del gruppo malavitoso: nel caso di specie la circostanza del motivo abietto era consistita nell’intento punitivo dell’autore di un omicidio, dettato da spirito di mera sopraffazione, e quella dell’agevolazione mafiosa nella volontà di riaffermare, attraverso il delitto così connotato, la persistente supremazia del sodalizio criminale [Cass., S.U., 18.12.2008, n. 452]. Ed ancora, l’aggravante del metodo mafioso non è esclusa, nella commissione del delitto di estorsione, dal fatto che la vittima delle minacce riesca ad assumere un atteggiamento di contrapposizione “dialettica” alle ingiuste richieste [Cass., sez. I, 6.3.2009, n. 23456]. Quanto ai rapporti con altre figure delittuose, va detto che l’aggravante non è assorbita dalla condotta di trasferimento fraudolento di valori; essa può dunque trovare applicazione in relazione al delitto di cui all’art. 12-quinquies d.l. n. 306/1992 [PELLEGRINO, 20]. Sul punto, la Suprema Corte ha puntualmente osservato che «la l. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies è un delitto doloso e attiene al trasferimento fraudolento di valori con connotazioni squisitamente economiche punendo infatti il fraudolento occultamento della titolarità di beni o della disponibilità di valori finalizzati ad eludere i provvedimenti previsti in materia di prevenzione patrimoniale. L’ipotesi di cui alla l. n. 203 del 1991, art. 7 è per contro una circostanza aggravante e attiene alla agevolazione da parte dell’agente dell’associazione di stampo mafioso, ausilio che ben può estrinsecarsi in modo integrativo e complanare rispetto alla condotta tutelata dalla fattispecie di cui all’art. 12 quinquies citato, svolgendosi infatti, in favore, in generale, delle risorse personali o materiali della organizzazione stessa, consentendone l’attività, in tutto o anche solo in parte, o il suo mantenimento funzionale. I due istituti, tra loro, non sono pertanto né in rapporto di continenza né di sovrapponibilità, potendo contare su ambiti diversi di applicazione e differenti interessi giuridici di tutela» [Cass., sez. I, 8.1.2010, n. 3472]. Va infine affrontato il nodo posto dalla recentissima riforma dell’art. 416 terc.p. [in tema, (d) MAIELLO, 6 ss.], che nell’attuale formulazione recita testualmente: «chiunque accetta la promessa di procurare voti mediante le modalità di cui al terzo comma dell’articolo 416-bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità è punito con la reclusione da quattro a dieci anni. La stessa pena si applica a chi promette di procurare voti con le modalità di

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cui al primo comma». Il problema concerne il rapporto con le circostanze aggravanti in esame. Ora, «va escluso che la prima possa operare in rapporto alla nuova configurazione dello scambio elettorale politico-mafioso, dal momento che essa – dando vita ad un tipico caso di reato complesso ex art. 84 c.p. – assorbe nella propria struttura l’intero disvalore normativo e sociale che connota la circostanza aggravante c.d. del “metodo mafioso”» [(d) MAIELLO, 6 ss.]. A diverse conclusioni si potrebbe pervenire rispetto all’aggravante della “finalità di agevolazione mafiosa”, dal momento che essa non entra in rapporto di interferenza strutturale con il paradigma normativo dell’art. 416 ter c.p. [(d) MAIELLO, 6 ss.]. A tale prospettiva, «che è realistico pronosticare possa fare ingresso in giurisprudenza, si accompagna al rischio di aggiramenti dei principi di materialità e di offensività, con conseguente vanificazione dei significati razionali dell’incremento sanzionatorio previsto dall’art. 7, ove dovesse perpetuarsi l’adesione ad una interpretazione in chiave solo finalistico/soggettivo della previsione circostanziale» [(d) MAIELLO, 6 ss.]. Allo scopo di scongiurare questo pericolo, è tuttavia possibile inserire il dolo specifico su di un sostrato fattuale offensivo del bene giuridico, per giungere alla conclusione che si può configurare l’aggravante nei soli casi in cui – oltre all’intenzione di conseguire un risultato di agevolazione dell’associazione – sia ravvisabile l’oggettiva idoneità della condotta al raggiungimento dello scopo. 10. Profili processuali: cenni. La previsione della circostanza aggravante de qua si inserisce, come visto, in una strategia ampia e articolata di contrasto al fenomeno delle criminalità organizzata, e produce una molteplicità di effetti giuridici, i quali vanno ben oltre il momento di determinazione della pena nel giudizio di cognizione, comportando l’instaurazione di un regime processuale differenziato e di meccanismi di esecuzione della pena connotati da rigorosa effettività. Sul piano processuale, la circostanza aggravante in esame implica, nella fase delle indagini, l’attribuzione delle funzioni di pubblico ministero alla Direzione Distrettuale Antimafia e di quelle di giudice per le indagini preliminari al G.I.P. distrettuale (art. 51 comma 3-bis c.p.p. e art. 328 comma 1-bis c.p.p.); una disciplina differenziata con riguardo ai termini di durata delle indagini, alla loro proroga e al divieto di sospensione nel periodo feriale (artt. 407 comma 2 lett. a) n. 3 e 406 comma 5-bis c.p.p.), ai criteri di scelta e ai termini di durata massima della custodia cautelare (artt. 275 comma 3; art. 303 comma 1 lett. a) n. 3 e lett. b) n. 3-bis, e 304 comma 2 c.p.p.), alle intercettazioni (artt. 13 d.l. n. 152/1991, e 295 comma 3-bis c.p.p.). L’applicabilità ai delitti qualificati dalla circostanza in esame della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, di cui all’art. 275 com-

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ma 3 c.p.p., è stata ritenuta illegittima dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 57 del 29.3.2013. Riguardo al dibattimento, la stessa aggravante implica la applicazione di speciali regole di acquisizione della prova dichiarativa (artt. 190-bis c.p.p.; 146-bis e 147-bis disp. att. c.p.p.). Nella fase dell’esecuzione, la circostanza in oggetto comporta il divieto di sospensione della pena detentiva (art. 656 comma 9 lett. a) c.p.p.), un complesso trattamento penitenziario differenziato (artt. 4-bis comma 1; 21 comma 1; 30-ter comma 4; 41-bis; 47-ter; 50 comma 2; 58-ter; 58-quater della legge n. 354/1975; artt. 37 comma 8 e 39 comma 2 d.p.r. n. 230/2000), nonché l’esclusione dai benefici della sospensione condizionata dell’esecuzione (c.d. “indultino” di cui alla legge n. 207/2003: l’art. 1 comma 3 lett. a) e dell’indulto (legge n. 241/2006 art. 1 comma 2 lett. d). L’aggravante, inoltre, produce significative conseguenze sul piano delle misure patrimoniali, consentendo l’applicazione sia dell’ipotesi particolare di confisca estesa prevista dall’art. 12-sexies d.lgs. n. 306/1992, sia delle misure di prevenzione oggi disciplinate dal c.d. Codice antimafia (v. gli artt. 4 e 16 d.lgs. 6.9.2011, n. 159).

11.

L’illegittimità costituzionale dell’art. 275 comma 3 c.p.p. nella sentenza n. 57/2013.

Come accennato, con la sentenza n. 57/2013 la Corte costituzionale ha scardinato un caposaldo della disciplina della carcerazione obbligatoria, così come prevista dal comma 3 dell’art. 275 c.p.p., per violazione degli artt. 3, 13 comma 1, e 27 comma 2 Cost. [MANES, 457 ss.]. È il caso, tuttavia, di precisare che la trasformazione della presunzione da assoluta a relativa implica pur sempre che il giudice, nell’applicare nel caso concreto una misura diversa dalla custodia in carcere, valuti elementi di positiva e concreta attenuazione del valore sintomatico del fatto. E l’operazione sarà naturalmente condizionata – afferma in sostanza la Corte costituzionale – a seconda che si constati «l’appartenenza dell’agente ad associazioni di tipo mafioso ovvero la sua estraneità ad esse». Orbene, va premesso che attualmente l’area dei fenomeni di contesto mafioso (diversa da quella della criminalità organizzata, tenuto conto che il contesto mafioso non comprende solo il reato associativo ed i reati commessi dagli associati) è delimitata da varie norme, ed a vari fini. Nel corpo dell’art. 275 c.p.p. non v’è una previsione autonoma, e lo scopo di imporre la custodia in carcere è ottenuto rinviando, tra l’altro, ai delitti di cui al comma 3-bis dell’art. 51 c.p.p., che riproduce la perimetrazione operata a fini sostanziali dall’art. 7. Venendo ad analizzare più da vicino le motivazioni della sentenza n. 57, la Corte evidenzia che il parametro cui devono ancorarsi le presunzioni assolute dirette a limitare la discrezionalità giudiziale riguardo a provvedimenti che inci-

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dono su diritti fondamentali della persona e costituito dal principio di uguaglianza-ragionevolezza, affermando che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit (...) In particolare, è stato posto in rilievo che l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa». Così – si argomenta – «occorre che la correlazione tra la fattispecie delineata dalla norma presuntiva e la caratteristica che ne giustifica razionalmente il trattamento si presenti con frequenza elevatissima nei casi concreti, ché altrimenti la norma considerata pone le premesse per un sistematico trattamento indifferenziato di situazioni eterogenee». Quanto all’analisi della presunzione come applicata ai reati di contesto mafioso, la Consulta evidenzia come la disciplina censurata produca i suoi effetti anche con riferimento ai reati non commessi da appartenenti all’associazione mafiosa. E si nota come, in casi del genere, non sia integrata la congrua “base statistica” della presunzione, e dunque non sia assicurata «alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere un fondamento giustificativo costituzionalmente valido». In effetti, si ribadisce, i reati dell’extraneus, pur riferibili al contesto mafioso, «non sono necessariamente equiparabili, ai fini della presunzione in questione, alla partecipazione all’associazione, ed è a questa partecipazione che è collegato il dato empirico, ripetutamente constatato, della inidoneità del processo, e delle stesse misure cautelari, a recidere il vincolo associativo e a far venir meno la connessa attività collaborativa, sicché, una volta riconosciuta la perdurante pericolosità dell’indagato o dell’imputato del delitto previsto dall’art. 416-bis c.p., è legittimo presumere che solo la custodia in carcere sia idonea a contrastarla efficacemente». Su queste basi, la Corte conclude «che le norme censurate sono in contrasto sia con l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti in questione a quelli concernenti il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. e per l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi riconducibili alle due fattispecie in esame; sia con l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia, infine, con l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena». Ciò che vulnera i parametri costituzionali richiamati, dunque, a parere della Consulta, «non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilevanza al principio del minore sacrificio necessario (…) la previsione, invece, di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria – atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio, suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso, ma comunque superabile da elementi di segno contrario – non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non cen-

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surabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso (sentenze n. 110 del 2012, n. 331, n. 231 e n. 164 del 2011, e n. 265 del 2010)». La Corte ha altresì voluto precisare che «la posizione dell’autore dei delitti commessi avvalendosi del cosiddetto “metodo mafioso” o al fine di agevolare le attività delle associazioni di tipo mafioso, delle quali egli non faccia parte, si rivela non equiparabile a quella dell’associato o del concorrente nella fattispecie associativa, per la quale la presunzione delineata dall’art. 275, comma 3, c.p.p. risponde a dati di esperienza generalizzati». Orbene, con riferimento alla posizione del “concorrente esterno”, è possibile rilevare che proprio partendo dalle motivazioni della Consulta, si potrebbe pervenire ad opposte conclusioni. Invero, sostiene la Corte, «la possibile estraneità dell’autore di tali delitti a un’associazione di tipo mafioso fa escludere che si sia sempre in presenza di un reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosità – per radicamento nel territorio, intensità dei collegamenti personali e forza intimidatrice – vincolo che solo la misura più severa risulterebbe, nella generalità dei casi, in grado di interrompere». Proseguendo, si afferma «se, come si è visto, la congrua base statistica della presunzione in questione è collegata all’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, una fattispecie che, anche se collocata in un contesto mafioso, non presupponga necessariamente siffatta “appartenenza” non assicura alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere un fondamento giustificativo costituzionalmente valido».

Bibliografia. ALBERICO, L’ambito di operatività della presunzione relativa di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, ex art. 275, comma 3 c.p.p., al vaglio delle Sezioni Unite, in www.penalecontem poraneo.it; AMARELLI, Anche il favoreggiamento-mendacio aggravato ex art. 7 d.l. 152/1991 è ritrattabile ai sensi del novellato art. 376 c.p., in Diritto penale contemporaneo, I, 2013, 218 ss.; ARDITA, Partecipazione all’associazione mafiosa e aggravante speciale dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991. Concorso di aggravanti di mafia nel delitto di estorsione. Problemi di compatibilità tecnico-giuridica e intenzione del legislatore, in Cass. pen., 2001, 2669 ss.; BORRELLI, Il metodo mafioso tra parametri normativi e tendenze evolutive, in Cass. pen., 2007, 2781; D’ASCOLA, Impoverimento della fattispecie e responsabilità penale “senza prova”. Strutture in trasformazione del diritto e del processo penale, Reggio Calabria, 2008; DE FRANCESCO, Paradigmi generali e concrete scelte repressive nella risposta penale alle forme di cooperazione in attività mafiosa, in Cass. pen., 1996, 3487 ss.; DE VERO, La circostanza aggravante del metodo e del fine di agevolazione mafiosi: profili sostanziali e processuali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 42 ss.; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, Bologna, 2010, I; FIANDACA, VISCONTI, Il patto di scambio politico mafioso al vaglio delle sezioni unite, in Foro. it., III, 2006, 80 ss.; FORMICA, La rapina, in VIGANÒ, PIERGALLINI (a cura di), Reati contro la persona. Reati contro il patrimonio, in F.C. PALAZZO, C.E. PALIERO (dir.), Trattato teorico/pratico di diritto penale, Torino, 2011, 39 ss.; GARGANI, Commisurazione della pena, in DE FRANCESCO (a -

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cura di), Le conseguenze sanzionatorie del reato, in F.C. PALAZZO, C.E. PALIERO (dir.), Trattato teorico/pratico di diritto penale, Torino, 2011, 39 ss.; GARUFI, Spazio applicativo della circostanza aggravante di uso del potere intimidatorio e della finalità agevolativa delle associazioni di tipo mafioso, in Foro it., 2002, II, 297; (a) MAIELLO, Principio di legalità ed ermeneutica nella definizione (delle figure) della partecipazione associativa di tipo mafioso e del c.d. concorso esterno, in PICOTTI, FORNASARI, VIGANÒ, MELCHIONDA (a cura di), I reati associativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio. Un contributo all’analisi e alla critica del diritto vivente, Atti del Convegno tenuto a Brescia il 19-20 marzo 2004, Padova, 2005; (b) MAIELLO, Il delitto di trasferimento fraudolento di valori tra silenzi della dottrina e dis-orientamenti della giurisprudenza, in Ind. pen., 2008, 541 ss.; (c) MAIELLO, Concorso esterno in associazione mafiosa, in Cass. pen., 2009, 1352 ss.; (d) MAIELLO, La nuova formulazione dello scambio elettorale politico mafioso (416 ter c.p.), in Studium iuris, n. 1/2015, 1 ss.; MANES, Lo “sciame” di precedenti della Corte costituzionale sulle presunzioni in materia cautelare, in Dir. pen. proc., 2014, 457 ss.; PELLEGRINO, Il trasferimento fraudolento di valori, in questo volume, 3 ss.; SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1997; SQUILLACI, La circostanza aggravante della c.d. agevolazione mafiosa nel prisma del principio costituzionale di offensività, in Arch. pen., 2011, 591 ss.; TUMMINELLO, La mafia come metodo e come fine: la circostanza aggravante di cui all’art. 7 del D.L. n. 152/1991, convertito nella l. 203/1991, in Riv. trim. dir. pen., 2008, 909 ss.; VISCONTI, Il concorso esterno nell’associazione mafiosa: profili dogmatici ed esigenze politico criminali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 1303 ss.

Capitolo IV

L’aggravante della transnazionalità

Sommario

1. L’evoluzione in chiave transnazionale dei reati associativi. – 2. L’organizzazione del crimine transnazionale tra economia legale ed economia criminale: prassi giudiziaria ed interventi del legislatore. – 3. La struttura della Convenzione di Palermo e la nozione di gruppo criminale organizzato transnazionale. – 4. La legge n. 146/2006 nel contesto del diritto penale sovranazionale. – 5. La definizione normativa di reato transnazionale. – 6. Il coinvolgimento di un gruppo criminale organizzato e la sua compatibilità con la “partecipazione associativa” e con il “concorso esterno” in associazione mafiosa. – 7. I criteri topografici del reato transnazionale. – 8. L’aggravante della transnazionalità. – 8.1. La struttura dell’aggravante – 8.2. La controversa compatibilità con il delitto di cui all’art. 416 c.p. – 8.3. La soluzione del contrasto nella sentenza del 2013 delle Sezioni Unite. – 9. La confisca. – 10. Cenni sulla responsabilità delle persone giuridiche. – Bibliografia.

1. L’evoluzione in chiave transnazionale dei reati associativi. Il predicato della transnazionalità descrive un dato di realtà in cui determinati reati travalicano, per loro natura, i confini nazionali: l’effetto risiede sia nel parziale superamento del tradizionale concetto di locus commissi delicti, sia nel declino della sovranità nazionale e del principio di territorialità della legge penale statale. Da ciò derivano inevitabili problemi di coordinamento con i principi fondamentali degli ordinamenti democratici, la cui ratio esige delicati bilanciamenti tra effettivi interventi di contrasto al crimine (anche organizzato) e non obliterabili garanzie di legalità, per evitare che le politiche criminali non scivolino nelle paludi autoritarie del diritto penale del nemico. I singoli stati sono apparsi inizialmente impreparati ad affrontare dimensioni e caratteri delle forme di criminalità su base transnazionale. Due i principali fattori. L’uno è stato rappresentato dalle differenze tra le diverse legislazioni e dalle difficoltà sorte nella fase del loro coordinamento; difficoltà che (come si vedrà meglio più avanti) non sono state interamente superate sul piano applicativo ne-

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anche ora che una disciplina sovranazionale è stata prevista e ratificata e resa operativa da pressoché tutti gli Stati membri. L’altro è stato costituito dalle ritrosie e dagli ostacoli alla formazione di un diritto penale unitario sovranazionale realmente “agibile” e rispettoso del modello costituzionale di lotta al delitto. Si tratta, peraltro, di un genere di difficoltà che sta caratterizzando anche i termini di operatività delle Agenzie europee preposte alla cooperazione, che rappresentano lo strumento centrale di lotta e prevenzione della criminalità transnazionale. Il problema più impegnativo che nasce dalla prospettiva prefigurata da questa nuova modalità di dispiegamento della politica criminale è quello relativo alla “tipizzazione” dei reati commessi da associazioni criminali transnazionali.

2.

L’organizzazione del crimine transnazionale tra economia legale ed economia criminale: prassi giudiziaria ed interventi del legislatore.

Si è oggi testimoni di una profonda ristrutturazione della criminalità collettiva, la quale prende a prestito paradigmi che sembrano ricalcare l’attività economica legale. Si assiste, pertanto, ad una sorta di abituale contestazione, in ambito giudiziario, del reato associativo ed, in particolare, del delitto di associazione per delinquere finalizzato alla commissione di reati legati all’attività di impresa Questa prassi, che finisce per comprimere gli spazi operativi del concorso criminoso, sollecita una puntualizzazione del discrimen tra un’associazione illecita e un’impresa strutturalmente lecita che realizza specifici reati. Nella prima ipotesi, l’aggregazione è intrinsecamente criminosa in quanto costituita e strutturata per realizzare scopi illegali; nella seconda, l’organizzazione è di per sé lecita e persegue fini che sono ammessi dall’ordinamento giuridico, ma nello svolgimento dell’attività commette reati che meriterebbero contestazioni specifiche al di fuori della fattispecie associativa. Purtuttavia, l’imputazione dell’associazione criminosa risulta di frequente impiegata in guisa di “arnese” strumentale a strategie processuali di comodo. La contestazione di quel delitto permette, invero, di ricorrere ad una nutrita serie di disposizioni processuali che ampliano gli spazi investigativi, quali quelle che permettono di effettuare intercettazioni ambientali nei luoghi di cui all’art. 614 c.p.p. anche in assenza del fondato timore che si stia ivi svolgendo l’attività criminosa, ovvero quelle derogatrici del regime di sospensione feriale dei termini processuali [(a) ASTROLOGO, 1789]. È tuttavia indiscutibile la fortuna legislativa di cui continua a godere il reato associativo, nella prospettiva di lotta al fenomeno criminologico di crescente espansione delle aggregazioni criminali. In questa prospettiva, può essere letto il dato della responsabilizzazione delle persone giuridiche, che, senza dubbio, corrisponde all’esigenza di punire i soggetti collettivi titolari di interessi, di politiche economiche e, di conseguenza, anche di capacità criminale (per la trattazione dei profili connessi alla responsabilità delle persone giuridiche si rinvia al §10).

L’aggravante della transnazionalità

3.

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La struttura della Convenzione di Palermo e la nozione di gruppo criminale organizzato transnazionale.

Il primo determinante passo per l’articolazione di una risposta al problema del crimine organizzato transnazionale è stato compiuto dalla Convenzione ONU, elaborata tra il 12 e il 15 dicembre 2000 a Palermo durante la High-level Political Signing Conference, nonché dai tre Protocolli aggiuntivi del 2001 che ne formano parte integrante. La Convenzione è entrata in vigore il 29 marzo 2003 ed è stata ratificata dall’Italia con la legge n. 146/2006. Essa, lungi dall’essere prodotto episodico e contingente della reazione ad una specifica emergenza criminale, ha una portata affatto generale ed è conseguente ad un’elaborazione ultra-trentennale in seno alle Nazioni Unite: la nozione di crimine transnazionale è infatti rinvenibile nei lavori ONU sin da 1975 [NUNZI, 213] e si è consolidata, per via di successivi affinamenti, sino alla Convenzione attorno all’idea di marcata pericolosità di attività criminali, gestite da organizzazioni di malaffare variamente strutturate, capaci di interessare simultaneamente le giurisdizioni penali di una pluralità di Stati in ragione del coinvolgimento in attività illecite di gruppi delinquenziali di paesi diversi [VIGNA, 209; PAVONE, 2]. L’oggetto di disciplina della Convenzione è la materia dei reati gravi, puniti nel massimo con pena privativa della libertà di almeno quattro anni, che vedono coinvolto un gruppo criminale organizzato e che hanno natura transnazionale; per reato transnazionale si intende quello commesso in più di uno Stato, o, se commesso in un solo Stato, pianificato, controllato, diretto, programmato in altro Stato, ovvero che coinvolga un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più Stati, o ancora che produce effetti sostanziali in un altro Stato [DE AMICIS, VILLONI, 1630]. Quale corollario della penalizzazione dei suddetti reati, la Convenzione estende il proprio intervento ai delitti di riciclaggio, di corruzione e di intralcio alla giustizia e, per effetto dei citati Protocolli, ai delitti in materia di traffico di esseri umani, di traffico di migranti, di fabbricazione e commercio illegale di armi [CASTELLANETA, 17]. Anche la definizione di gruppo criminale organizzato è ampia, ed è resa dalla Convenzione stessa nei termini del gruppo strutturato, esistente per un periodo di tempo, composto da tre o più persone, che agiscono di concerto al fine di commettere uno o più dei reati già richiamati, ovvero al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o ancora altro vantaggio materiale [ciò che porta ad escludere dall’ambito di applicazione della Convenzione stessa i gruppi terroristici o insurrezionali, ma non anche quelli che si occupino di pornografia minorile; cfr. S. FIORE, 114-115]. Per gruppo strutturato si intende quel gruppo che non si è costituito fortuitamente per la commissione estemporanea di un reato; che preveda necessariamente la formale distribuzione di ruoli fra i suoi membri e che sia caratterizzato da continuità nella composizione o da una struttura articolata, situandosi, così, in una sorta di collocazione mediana tra l’accordo contingente per la commis-

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sione di un delitto e una struttura con un elevato indice di organizzazione interna [S. FIORE, 110; ROSI, 83]. Tale ultima annotazione, unitamente a quella già riferita circa il teleologismo finanziario dell’azione del gruppo, esclude la possibilità interpretativa della sovrapposizione acritica tra la nozione di “gruppo criminale organizzato” e quella del delitto di associazione per delinquere; alla tipicità classificatoria di quest’ultima, infatti, sfugge qualsivoglia riferimento alla persecuzione di obiettivi di natura economica [(a) ASTROLOGO, 1795]. È così possibile affermare che il gruppo criminale di cui alla Convenzione di Palermo si differenzia dall’associazione per delinquere per una particolare svalutazione dell’elemento materiale dell’organizzazione e dei suoi corollari costituiti, rispettivamente, dalla continuità temporale dell’accordo e dal coordinamento delle condotte dei singoli. In particolare, la definizione dell’art. 2 della Convenzione Onu non richiede un programma criminoso “generico” relativo, cioè, ad una pluralità di delitti, bensì un’organizzazione criminosa finalizzata alla realizzazione di uno o più reati specifici. Di conseguenza, l’accertamento della sussistenza di un gruppo criminale organizzato può desumersi dalla circostanza che esso sia diretto alla commissione anche di un solo reato. Inoltre, la definizione di gruppo criminale organizzato si riferisce ad un insieme strutturato di individui non necessariamente destinato a protrarsi nel tempo, con l’eccezione di aggregazioni occasionali sorte per la realizzazione criminosa estemporanea, vale a dire improvvisata e senza preparazione. Al contrario, il modello ordinario di consorteria criminosa esige un vincolo associativo tendenzialmente stabile o permanente, perciò destinato a durare nel tempo. D’altra parte, mentre la normativa sovranazionale pretende che il gruppo illecito persegua (direttamente o indirettamente) un vantaggio finanziario o altro vantaggio materiale, tale requisito è assente nella formulazione dell’art. 416 c.p. Di qui la correttezza dell’impostazione che, nella interpretazione della modalità transnazionale ex legge n. 146/2006, inferisce un’au-tonomia della nozione di gruppo criminale organizzato rispetto al sodalizio criminoso interno. Il risultato de lege lata è, comunque, l’aggiunta della fattispecie di gruppo criminale organizzato alla nutrita schiera di reati associativi già contemplati dal diritto nazionale. Questa proliferazione normativa accresce l’incertezza nella definizione dei confini del fatto tipico, atteso che «nelle valutazioni astratte di disvalore formalizzate in fattispecie incriminatrici diviene sempre più complesso distinguere l’ambito lecito da quello illecito» [(a) ASTROLOGO, 1791 ss.]. Il tasso di complessità problematica è poi accentuato dalla pluralità di fonti che impegna l’interprete alla preliminare operazione di individuazione dei vari livelli di intervento, in considerazione del fatto che il canone della legalità «da principio della normazione è destinato sempre più ad incarnare il ruolo e la vocazione di un programma e di una strategia di composizione delle diverse sfere di intervento implicate nella vicenda punitiva» [G. DE FRANCESCO, 9]. Come, peraltro, correttamente evidenziato [(a) ASTROLOGO, 1791 ss.], le

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differenze tra il gruppo criminale organizzato e l’associazione per delinquere interna rilevano «sotto un profilo pratico, se si considera che l’art. 10 della l. n. 146/2006 inserisce l’art. 416 c.p. nell’elenco dei reati presupposto della responsabilità dei soggetti collettivi (…) è ipotizzabile, infatti, che in presenza di un’incriminazione per associazione per delinquere, occorra valutare la dimensione transnazionale della condotta illecita al fine di accertare la sanzionabilità di una persona giuridica coinvolta. Nella verifica degli elementi indicati nell’art. 3 della l. n. 146/2006 si deve individuare, secondo le linee interpretative suindicate, l’esistenza e l’operatività di un gruppo criminale organizzato: si impone, evidentemente, la prova di tutti i profili strutturali che lo caratterizzano e lo distinguono dall’associazione per delinquere (si consideri, per esempio, il perseguimento di un vantaggio finanziario o materiale) » [(a) ASTROLOGO, 1791 ss.]. 4. La legge n. 146/2006 nel contesto del diritto penale sovranazionale. Con la legge n. 146/2006 è stata data attuazione, mediante il meccanismo d’introduzione automatica ad hoc nell’ordinamento nazionale (autorizzazione alla ratifica e contestuale ordine di esecuzione: artt. 1 e 2), sia alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, firmata a Palermo il 15 dicembre 2000, sia ai relativi Protocolli addizionali. L’ambito di operatività della Convenzione si riferisce: a) a talune condotte espressamente nominate in quanto oggetto di obbligo di penalizzazione in ambito nazionale: oltre a quella di partecipazione ad un organised criminal group, le condotte di riciclaggio, corruzione, intralcio alla giustizia (“obstruction of justice”); b) ad una serie di reati innominati, ma contraddistinti da una specifica soglia di gravità (punibilità in astratto con pena privativa della libertà personale pari o superiore, nel massimo, a 4 anni). In entrambe le ipotesi, in conformità all’art. 3 comma 1, ultimo periodo, la Convenzione trova applicazione se sussiste il carattere della transnazionalità del reato commesso e se si riscontra il coinvolgimento di un gruppo criminale organizzato (non importa se nazionale o transnazionale). All’interno della sua sfera di efficacia, la Convenzione prevede una serie di misure, di carattere sostanziale e processuale (in particolare misure di collaborazione internazionale), oltre a disposizioni operativo-amministrative di altro tipo. Quanto alle prime, ad esse è possibile ascrivere essenzialmente la posizione di obblighi di incriminazione – fatti salvi alcuni principi fondamentali dell’ordinamento internazionale [DI MARTINO, 15]: sovranità, uguaglianza giuridica, dovere di non ingerenza negli affari interni di altri Stati (art. 4) – anche con riferimento alla responsabilità degli enti collettivi, alla prescrizione di sanzioni proporzionate alla gravità del reato ed efficaci (in particolare valorizzando lo strumento della confisca), nonché alla previsione di adeguate regole di giurisdizione, obbligatorie o facoltative (art. 15).

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Riguardo alle seconde (misure processuali), vengono in rilievo le regole in tema di esercizio dell’azione penale (art. 11), di sequestro (art. 12), di indagini comuni (art. 19), di tecniche speciali di investigazione (art. 20), di casellario (art. 22), di protezione di testimoni ed assistenza alle vittime (artt. 24, 25), oltre – ovviamente – alle centrali, ampie disposizioni in materia di estradizione (art. 16), di trasferimento di persone condannate (art. 17) e di mutua assistenza giudiziaria (art. 18). Dal canto suo, il primo Protocollo si riferisce, come s’è accennato, alla tratta di persone, per tale intendendosi «il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato o prestazioni forzate, schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi»; reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere un bambino, cioè un minore di anni 18, sono sempre considerate condotte di “tratta”, anche se non sono qualificate dai mezzi poc’anzi indicati (Protocollo, art. 3 in rel. art. 5). Il secondo Protocollo impone, fra l’altro: a) la penalizzazione obbligatoria (art. 5 comma 1) delle condotte di fabbricazione illecita e traffico illecito di armi da fuoco, loro elementi e munizioni, nonché di contraffazione o illecita obliterazione, rimozione o alterazione illegale del marchio che deve essere apposto all’arma (nei modi stabiliti dall’art. 8, che fa riferimento, fra l’altro, all’indicazione del Paese o luogo di fabbricazione); b) la penalizzazione (facoltativa) del tentativo e del concorso di persone nei reati previsti in adempimento dell’obbligo di cui al punto a). Il terzo Protocollo, infine, in materia di traffico di migranti prevede la penalizzazione delle condotte consistenti nel «procurare, al fine di ricavare, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o materiale, l’ingresso illegale di una persona in uno Stato Parte di cui la persona non è cittadina o residente permanente» (art. 3), nonché d’una serie di condotte, dolose e anch’esse specificamente dirette a conseguire un profitto, variamente collegate al traffico (ad es., falsificazione di documenti di viaggio, ma anche – e la cosa lascia almeno perplessi ove le condotte siano realizzate dalla vittima – il fatto di procurarsi e possedere tali documenti: art. 6). Va, poi, evidenziato che la normativa introdotta con legge n. 146/2006 presenta una speciale resistenza rispetto alle norme interne di pari rango, in quanto attuativa di una convenzione internazionale e caratterizzata dalla copertura costituzionale fornita dall’art. 117 Cost. [DE VERO, 18 ss.].

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5. La definizione normativa di reato transnazionale. Prima della legge n. 146/2006 la categoria del reato transnazionale era assente nell’ordinamento italiano. Oggi l’art. 3 della legge statuisce che «ai fini della presente legge si considera reato transnazionale il reato punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni – dunque può trattarsi soltanto di un delitto –, qualora sia coinvolto un gruppo criminale organizzato (esigenze di determinatezza impongono di considerare tale concetto come elemento normativo giuridico “internazionale”, il cui contenuto è definibile cioè mediante rinvio alla nozione della Convenzione), nonché: a) sia commesso in più di uno Stato; b) ovvero sia commesso in uno Stato, ma una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo avvenga in un altro Stato; c) ovvero sia commesso in uno Stato, ma in esso sia implicato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato; d) ovvero sia commesso in uno Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro Stato». Come è stato rilevato [ARTUSI, 452 ss.; ROSSETTI, 868, così contestando la tesi dell’inutilità dell’art. 3 legge n. 146/2006] «l’art. 3 non è chiamato a svolgere una funzione incriminatrice in senso stretto, bensì una funzione di disciplina»: la sussistenza della transnazionalità non incide sulla punibilità della condotta presupposta, ma giustifica l’applicabilità di conseguenze giuridiche, di natura sostanziale e processuale. In altre parole, la legge in esame non introduce nuove e specifiche fattispecie di reato in aggiunta a quelle pre-vigenti (differenziandosi o sostituendosi ad esse), ma si limita ad individuare il predicato della “transnazionalità” riferibile a ciascun reato. Si configura, così, «una sorta di fattispecie complessa (formata, cioè dalla incriminazione statale così come dal requisito della transnazionalità) cui conseguono effetti ulteriori previsti dalla l. n. 146/ 2006 (quali le nuove ipotesi di responsabilità delle persone giuridiche, nuove ipotesi di confisca obbligatoria anche per equivalente e svolgimento di indagini a tal fine, l’estensione delle attribuzioni del Procuratore Distrettuale Antimafia, la possibilità di trasferire processi penali da uno ad altro Stato) secondo uno schema già conosciuto dal nostro ordinamento, per esempio, a proposito del combinarsi dell’art. 56 c.p. (ovvero degli artt. 40, co. 2 e 110 c.p.) con le singole fattispecie incriminatrici e, in tal senso, non può non rilevarsi la problematicità dell’impiego di termini atecnici che tendenzialmente confliggono con il principio di determinatezza della fattispecie» [ARTUSI, 457]. Dalla immediata lettura della disposizione appare evidente la sostanziale ripetizione dell’art. 3 par. 2 della TOC Convention. Al riguardo, è stato osservato [DI MARTINO, 16] come vi sia stato un fraintendimento dei rapporti tra diritto internazionale convenzionale e diritto penale nazionale: la Convenzione, infatti, non dispone obblighi di incriminazione per determinati reati in quanto transnazionali, bensì chiede a ciascuno Stato di sanzionare fenomeni criminosi che possano assumere anche carattere transnazionale, ma che vanno puniti indipendentemente da esso. Nella medesima linea argomentativa, è stato dunque rilevato che non esiste il “reato transnazionale”, posto che la normativa disciplina la na-

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tura transnazionale che può connotare determinati reati e che suscita un particolare allarme sociale nella comunità internazionale, richiedendo, conseguentemente, risposte preventive e sanzionatorie adeguate all’interno dei singoli Statiparte [ARTUSI, 460]. La disposizione in esame è stata poi criticata da parte della dottrina che ne sostiene l’inutilità e la dannosità [ROSI, 90]; altri ritiene, invece, apprezzabile la scelta legislativa, sia per la chiarezza esplicativa, sia per l’efficacia nel diritto interno di una definizione che, diversamente, avrebbe potuto dare adito a dubbi circa l’ambito del suo effetto precettivo nei confronti dello Stato italiano [EPIDENDIO, 877]. In giurisprudenza, si trovano sentenze che utilizzano l’attributo “transnazionale” a partire dall’anno 2000 [Cass., sez. II, 9.2.2005, in Riv. pen., 2006, 568; Cass., sez. V, 17.11.2000, in Studium iuris, 2001, 599); ma solo dopo la legge del 2006 il termine inizia ad assumere una valenza propriamente normativa, riferendosi all’attività di strutture associative o terroristiche [Cass., sez. VI, 15.6.2011, in www.dejure.it; Cass. pen., sez. I, 6.5.2010, CED 2010/247567]. Il “reato transnazionale” è caratterizzato da tre elementi: la gravità, il coinvolgimento di un gruppo criminale organizzato e la transnazionalità (definita sulla base dell’individuazione del locus commissi delicti, secondo quanto previsto dall’art. 3 lett. a), b), c), d).

Il coinvolgimento di un gruppo criminale organizzato e la sua com6. patibilità con la “partecipazione associativa” e con il “concorso esterno” in associazione mafiosa. L’art. 3 legge n. 146/2006 inserisce tra i requisiti necessari alla definizione del reato transnazionale il fatto che sia “coinvolto un gruppo criminale organizzato” (per tale nozione si rinvia supra al § 3). L’art. 5 del testo convenzionale, inoltre, obbliga gli Stati firmatari a prevedere, all’interno dei propri ordinamenti nazionali, il reato di “partecipazione ad un gruppo criminale organizzato”. Va comunque distinto l’autonomo reato di partecipazione ad un gruppo criminale organizzato di cui all’art. 5 citato – che è sempre considerato reato di “rilevanza transnazionale” –, dal coinvolgimento richiesto dall’art. 3 par. 2 lett. b), per qualificare i serious crimes [ARTUSI, 461]. L’organizzazione criminale non deve necessariamente rivestire carattere transnazionale (rectius, non deve necessariamente essere impegnata in attività criminali in più di uno Stato), tanto è vero che la ricorrenza di un tale requisito rappresenta uno dei criteri per stabilire la natura transnazionale del reato stesso (art. 3 lett. c) legge n. 146/2006; art. 3 par. 2 lett. c) Convenzione). Rispetto a quanto analizzato nel paragrafo 3, occorre evidenziare che un gruppo criminale può ritenersi coinvolto nella realizzazione di un delitto solo nel momento in cui il fatto commesso sia riferibile, in concreto, al gruppo stesso, in quanto realizzato – in esecuzione del programma concordato – da uno o più dei suoi membri tramite l’organizzazione ed i mezzi dell’associazione o, comunque, al fine di agevolare l’attività della societas sceleris. Esigenze di stretta

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legalità impongono di sancire l’irrilevanza delle ipotesi di “concorso esterno nell’associazione a delinquere” e/o di “favoreggiamento personale”; così come di tutti gli altri reati commessi da “associati” ma privi di un effettivo nesso di pertinenzialità con il gruppo criminale. L’entrata sulla scena del reato associativo, nelle sue articolazioni di gruppo criminale organizzato (art. 2 lett. a) della Convenzione) e di gruppo strutturato, (lett. c) Convenzione) pone il problema interpretativo della delimitazione semantica della fattispecie di partecipazione al gruppo criminale organizzato ex art. 5 Convenzione e dell’eventuale sua sovrapponibilità con quello di partecipazione o concorso in associazione di cui alle varie figure presenti nel nostro ordinamento, alcune delle quali richiamate espressamente dall’art. 10 legge n. 146/2006 (artt. 416, 416-bis c.p.), altre con rimando al concetto di reato grave punito con la reclusione superiore a quattro anni. La partecipazione o l’appartenenza all’associazione integra una relazione funzionale stabile con la struttura organizzativa e l’attività dell’associazione in generale. Il partecipe è garante delle prestazioni a favore dell’associazione ed i componenti della stessa fanno affidamento sul suo contributo sia in base ad accordi formali tra loro intercorsi, sia in base all’avvenuta reiterazione e stabilizzazione di determinati comportamenti. Nella dottrina italiana tradizionalmente si sono contrapposti due principali modelli ricostruttivi del significato della partecipazione associativa: uno di matrice causale, che identifica la soglia minima della condotta punibile nel contributo causale non insignificante alla vita dell’associazione; l’altro di natura organizzatoria, secondo cui la rilevanza penale della condotta dipende all’avvenuto inserimento dell’agente nella struttura associativa e prescinde dall’effettivo contributo da lui dato alla vita del sodalizio [in argomento si rinvia al volume PICOTTI, FORNASARI, VIGANÒ, MELCHIONDA (a cura di)]. Nell’ultimo stadio dell’evoluzione dottrinaria, è stato proposto [(a) MAIELLO, 159 ss.] di integrare l’orientamento c.d. causale con quello c.d. organizzatorio allo scopo di delineare un modello “misto” di partecipazione per il quale il partecipe è colui che, da “membro” dell’associazione – vale a dire da soggetto entrato nella consorteria e da quest’ultima accettato – abbia compiuto atti di militanza associativa, espressivi, cioè, del ruolo assunto e, così, fornendo un contributo causale al sodalizio. Si tratta di un’impostazione suggellata dalle Sezioni Unite [Cass., S.U., 12.7.2005, n. 33748, Mannino, in Cass. pen., 2005, 3732; per un’analisi della giurisprudenza post Mannino, cfr. (d) MAIELLO, 1352 ss.], che hanno accolto propriamente un modello c.d. misto di partecipazione associativa, stabilendo come il significato dell’espressione “fa parte” (che regge il riferimento alla partecipazione nell’associazione di tipo mafioso) debba intendersi in senso dinamico/funzionale, coincidendo col “prendere parte a”. Dall’incardinamento nell’associazione del partecipe, ad esito di un vero e proprio accordo in forza del quale il membro si vincola ad operare nell’interesse ed agli ordini dell’associazione e quest’ultima accoglie al suo interno organizzativo come strumento della propria capacità criminale, deriva uno statuto di tipicità del “concorrente eventuale” individuabile nella condotta del «soggetto, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione e privo di affectio societatis, che fornisce un concreto,

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specifico, consapevole contributo, sempre che questo esplichi un’effettiva rilevanza causale e quindi si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione» [Cass., S.U., 12.7.2005, n. 33748, Mannino, in Cass. pen., 2005, 3732; da ultimo, cfr. Cass., sez. V, 9.3.2012, Dell’Utri, in Cass. pen., 2012, 4562 ss.].

Ora, tali precisazioni relative agli “statuti di tipicità” interni non appaiono riferibili alle nozioni indicate nel testo della Convenzione ratificata, laddove il gruppo criminale organizzato transnazionale fa necessariamente riferimento al reato grave punito con la pena superiore nel massimo ai quattro anni di reclusione. Proprio tramite la commissione del delitto grave si definisce il gruppo criminale organizzato, ma manca, invero, qualsivoglia riferimento alla strumentalità del contributo, oltre che alla consapevolezza del soggetto, che caratterizzano le figure delittuose tipiche dell’associazione stabile. A tal riguardo, è sufficiente soffermarsi sull’esegesi delle nozioni di vincolo associativo, o dell’accordo per commettere un delitto, ovvero della struttura organizzativa stabile, per evidenziare lo scarto esistente tra la normativa internazionale e quella interna. Così, al fine di “omogeneizzare” i differenti sistemi normativi ed istituzionali, la dottrina ha affermato che «un’ipotesi sistematica possibile di “responsabilità” per partecipazione in associazione potrebbe essere costituita dal contributo personale dell’agente, persona fisica o giuridica che sia, alla generale dimensione organizzativa in relazione di funzionalità e colpevolezza con le figure delittuose che possono essere considerate tipiche della associazione criminale. Con le singole figure delittuose, infatti, si attribuirebbe una responsabilità di carattere generale per il contributo personale fornito alla struttura organizzativa stabile nel suo complesso» [PASCULLI, 109 ss.]. 7. I criteri topografici del reato transnazionale. L’art. 3 della legge n. 146/2006 individua il locus commissi delicti rilevante ai fini della transnazionalità tramite quattro criteri alternativi: a) quando il reato sia commesso in più di uno Stato; b) o sia commesso in uno Stato, ma una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo avvenga in un altro Stato; c) ovvero sia commesso in uno Stato, ma in esso sia implicato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato; d) o ancora sia commesso in uno Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro Stato. Sul punto, è stato osservato [ARTUSI, 462] che in questo modo la nozione di territorio penalmente rilevante si ampia notevolmente, tanto che si potrebbe «ipotizzare una soccombenza del principio di territorialità a fronte dell’introduzione di elementi tipici del principio di universalità, che tuttavia viene riconosciuta dal diritto internazionale solo nei confronti di quei fatti di reato che offendono gravemente diritti umani universalmente riconosciuti, la cui tutela rappresenta un interesse comune a tutti gli Stati».

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La Convenzione di Palermo, dunque, colloca il principio di universalità a fondamento della punibilità dei reati di rilievo transnazionale, consacrando l’idea secondo cui i reati transnazionali devono essere considerati offensivi dei diritti umani fondamentali. La ratifica della Convenzione, poi, crea problemi di coordinamento con la disciplina codicistica in materia di validità della legge penale nello spazio [MASTROJENI, 99 ss.]. È infatti noto che l’art. 6 comma 1 c.p. sancisce il principio di territorialità della legge penale, secondo cui chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana. Il comma 2 della norma amplia tale principio, stabilendo che «il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando l’azione o l’omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione». L’art. 7 comma 5 c.p. considera punibile secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero ogni reato «per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana». Non è, dunque, rinvenibile nel nostro ordinamento alcuna norma che attribuisca autonoma rilevanza penale alle associazioni il cui potenziale offensivo si estenda al di là del territorio italiano. L’art. 6 comma 2 c.p., consente tuttavia di estendere la giurisdizione italiana alle realtà associative il cui apparato organizzativo è situato nel territorio dello Stato indipendentemente dal luogo di realizzazione dei reati scopo. Accade tuttavia di essere al cospetto di reati commessi attraverso realtà criminali organizzate che non sono direttamente collegate allo spazio territoriale di uno o più Paesi e che si sono dotate di strumenti societari o tecnologici slegati dal concetto stesso di nazionalità. Ci si deve così chiedere quale sia il ruolo dell’art. 3 legge n. 146/2006 rispetto a quanto già previsto nell’art. 6 c.p. Una prima impostazione sostiene che, qualora siano applicabili gli artt. 6 e 7 c.p., non si dovrebbe parlare di reato transnazionale, dal momento che il nostro ordinamento considererebbe il fatto come commesso in Italia [riferimenti in ARTUSI, 480]. Altro orientamento propende per la specialità della norma di derivazione internazionale rispetto all’art. 6 c.p. Condivisibile appare, piuttosto, la linea interpretativa che vede nelle due norme un’ontologica diversità di prospettiva, sia sul piano della cultura giuridica che le esprime, sia analizzando le loro finalità [DI MARTINO, 19]. Così, si afferma che non vi è più spazio per la fictio iuris che, in ossequio al principio di territorialità, considera taluni reati come commessi nel territorio italiano, dal momento che lo Stato italiano viene costituito ab origine interessato ed obbligato alla prevenzione ed alla repressione dei reati transnazionali, ovunque essi vengano commessi [cfr. ARTUSI, 480]. La disciplina convenzionale, per come è stata tradotta nel diritto interno dalla legge n. 146/2006, lascia insoluti diversi problemi [ARTUSI, 459]. Ci si domanda, ad esempio, se nell’ottica del coordinamento interstatuale «sia possibile ipotizzare un principio di ne bis in idem internazionale; come sia possibile assi-

5.

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curare il rispetto e il corretto adempimento di tali regole di cooperazione; come evitare possibili convergenze tra le giurisdizioni nazionali; come garantire i diritti fondamentali stabiliti dalla nostra Costituzione» [ARTUSI, 470]. Venendo ad un esame ravvicinato dei singoli criteri di cui all’art. 3 legge n. 146/2006, viene osservato che al disposto «quando il reato sia commesso in più di uno Stato» sono riconducibili i casi in cui, entro contesti territoriali differenti, siano realizzati diversi segmenti della condotta punibile. L’utilizzo del termine commissione richiama, poi, non solo il criterio della condotta in senso ubiquitario, ma prende in considerazione il fatto nel suo complesso, comprensivo anche dell’evento. Il reato può ancora essere definito transnazionale quando «una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo» avvenga in uno Stato diverso da quello della relativa consumazione. La citata disposizione presuppone «un frazionamento dell’iter criminis e crea una sottocategoria di quei segmenti della condotta – preparazione, pianificazione, direzione e controllo – che già di per se stessi ponevano problemi interpretativi riguardo all’identificazione di una soglia minima – generalmente sotto forma di contributo causale – per la loro rilevanza penale» [ARTUSI, 470]. È il caso di sottolineare che l’attributo sostanziale può essere inteso sia nella sua portata quantitativa – come equivalente al numero di atti posti in essere in un luogo diverso dallo Stato in cui il reato è commesso – sia in un’ottica qualitativa, avendo riguardo alla commissione degli atti maggiormente rilevanti. Nel silenzio della legge, sarà quindi opportuno ricorrere alla valutazione del nesso causale tra il segmento di attività preparatoria o direttiva e l’evento del reato, così come generalmente avviene nella fattispecie concorsuale [ARTUSI, 468]. Il requisito di cui alla lett. b), in questa prospettiva, può essere identificato «con una transnazionalità di natura concorsuale, rilevante perciò in quei casi (reati previsti agli artt. 5, 6, 8 e 23 della Convenzione) in cui non è richiesto il necessario coinvolgimento di un gruppo criminale organizzato» [ARTUSI, 470]. Quanto alla lettera c), vale a dire in caso di reato commesso in uno Stato, ma in cui sia implicato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato, si potrebbe parlare di una “transnazionalità subiettiva” – diversificandola così dalle altre ipotesi che legano la natura transnazionale ai criteri geografici esclusivamente oggettivi –, collegando la qualificazione normativa al solo coinvolgimento di un gruppo criminale che agisca in più di uno Stato. Con riferimento alla portata precettiva di tale implicazione, essa pare in tutto sovrapponibile a quanto considerato relativamente al «coinvolgimento del gruppo criminale organizzato» [ARTUSI, 473]. L’ultimo criterio – reato commesso in uno Stato avente effetti sostanziali in un altro Stato – si fonda, secondo parte della dottrina, su un canone “sostanzialistico” [MEZZETTI, 196], essendo rilevante qualsiasi effetto collaterale che derivi dalla commissione dell’illecito, anche se non appartenente ai requisiti del reato in senso stretto. Per effetto sostanziale dovrebbe tuttavia meglio intendersi la conseguenza di

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un rapporto di causa-effetto, purché in grado di correlarsi strettamente alla lesione del bene protetto, interpretando quindi tale criterio in guisa di un requisito di transnazionalità collegata all’offesa [ARTUSI, 471]. Il riferimento potrebbe poi riguardare sia l’offesa criminale in senso stretto, sia tutti i danni patrimoniali e non cagionati dal reato; è, pertanto, auspicabile l’esclusione della rilevanza del mero allarme sociale, nel rispetto del principio (anche costituzionale) di offensività. 8. L’aggravante della transnazionalità. 8.1. La struttura dell’aggravante – La legge di ratifica collega al riconoscimento della natura transnazionale del reato l’applicazione di una circostanza aggravante. L’art. 4 prevede, infatti, al primo comma che «per i reati puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni nella commissione dei quali abbia dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato la pena è aumentata da un terzo alla metà». Il comma 2 opera, poi, un richiamo all’art. 7 comma 2 d.l. 13.5.1991, n. 152, secondo cui «le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall’art. 98 del codice penale, concorrenti con l’aggravante di cui al comma 1 non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alla predetta aggravante». Con tale disposizione è stata, dunque, tipizzata la tipologia di reati transnazionali relativa al collegamento con l’associazione criminale operante in più Paesi (di cui all’art. 3 lett. c), che assume così il ruolo di fattispecie circostanziale applicabile ad ogni tipo di reato. Si tratta di una circostanza speciale e ad effetto speciale (comportante un incremento sanzionatorio da un terzo alla metà della pena da irrogare), esclusa dal bilanciamento con circostanze attenuanti eventualmente concorrenti, applicabile soltanto in relazione ai fatti commessi in epoca successiva all’entrata in vigore della Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, avvenuta il 1° settembre 2006. La ratio consiste nella maggiore insidiosità e diffusione dei reati collegati a contesti di criminalità organizzata transnazionale rispetto ai medesimi realizzati da singoli soggetti o da compagini associative che operano sul solo territorio nazionale [ARTUSI, 468; Cass., sez. VI, 5.2.2010, CED 2010/246999]. L’art. 4 si riferisce ad un contributo del gruppo criminale organizzato, escludendo così la rilevanza del mero concorso di persone nel reato [Cass., sez. VI, 21.1.2009, CED 2009/243038]. La sussistenza del contributo dovrà essere conosciuta o conoscibile dall’autore: la costruzione della circostanza sembra, infatti, solo apparentemente oggettiva, dovendo, pertanto, ai fini della sua applicabilità essere verificata la conoscibilità in concreto. Risulta di tutta evidenza il deficit di precisione della disposizione [sul tale

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principio, cfr. DE VERO, 31 ss.], avvicinandosi il termine contributo ai concetti di coinvolgimento e di implicazione di cui all’art. 3. Con riferimento ai rapporti tra l’art. 4 legge n. 146/2006 e l’art. 7 d.l. n. 152/1991, la dottrina prevalente esclude un rapporto di specialità, dal momento che le fattispecie associative alle quali le due circostanze si riferiscono sono tra loro differenziate: l’art. 416-bis, c.p. richiede il requisito del metodo mafioso, mentre l’art. 4 richiede la transnazionalità. Seguendo questa linea interpretativa, se ad un’associazione mafiosa è riconducibile un reato rilevante ai sensi dell’art. 3 legge n. 146/2006, occorre fare applicazione di entrambe le aggravanti congiuntamente, salvo il limite previsto dall’art. 66 c.p. [CENTONZE, 299]. L’effetto pratico dell’art. 4 risulterebbe così essere quello di un’estensione della portata aggravante del citato art. 7; né vi sarebbe, in tal caso, una violazione del principio del ne bis in idem sostanziale. In senso contrario, si sostiene la sola applicabilità dell’art. 4, norma sovraordinata e specializzante rispetto alla preesistente disciplina nazionale [ARTUSI, 468]. La Suprema Corte afferma, in proposito, l’autonomia della circostanza prevista dalla legge del 2006, dal momento che per la sua sussistenza è richiesto solo che il reato cui essa accede rivesta carattere transnazionale, non anche che debba simultaneamente ricorrere quanto previsto dall’art. 7, cioè l’aver agito avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. o al fine di agevolare le attività di un’associazione mafiosa [Cass., sez. V, 13.7.2010, CED 2010/ 248165].

8.2. La controversa compatibilità con il delitto di cui all’art. 416 c.p. – La giurisprudenza si è dovuta occupare della compatibilità dell’aggravante in esame con la fattispecie associativa. Un primo orientamento ha ritenuto che «la circostanza aggravante prevista, per il reato transnazionale, dall’art. 4 della L. 16 marzo 2006, n. 146, non è compatibile con il reato associativo – nella specie “ex” art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 – ma può accedere ai reati costituenti la diretta manifestazione dell’attività del gruppo criminale organizzato, ossia ai cosiddetti reati fine dell’associazione ovvero ai reati alla cui realizzazione il gruppo abbia fornito un contributo causale» [Cass., sez. V, 21.1.2011, n. 1937, Rv. 249099]. Altro indirizzo ha, invece, affermato che «la circostanza aggravante ad effetto speciale prevista dall’art. 4 legge 16 marzo 2006, n. 146 per i reati transnazionali è configurabile in riferimento al delitto di associazione per delinquere anche qualora questo venga consumato interamente in Italia, giacché per l’operatività dell’aggravante in questione non è necessario che il reato venga commesso anche all’estero, essendo invece sufficiente che alla sua realizzazione concorra un gruppo dedito ad attività criminali a livello internazionale» [Cass., sez. V, 17.1.2012, n. 1843, Rv. 253481]. 8.3. La soluzione del contrasto nella sentenza del 2013 delle Sezioni Unite. – Il contrasto è stato di recente risolto dalle Sezioni Unite [Cass., S.U.,

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31.1.2013, n. 18374, in Dir. pen. proc., 2013, 793 ss., con commento di FASANI, 799 ss.], le quali hanno affermato che la circostanza della transnazionalità «è compatibile con il reato di associazione per delinquere, sempreché il gruppo criminale transnazionale non coincida con l’associazione stessa». Deve trattarsi, quindi, di un distinto sodalizio criminale, pena la violazione del ne bis in idem. In motivazione, la Suprema Corte, dopo aver richiamato il contenuto normativo di riferimento, ha ricavato che la transnazionalità è stata costruita in guisa di peculiare modalità di espressione riferibile a qualsiasi delitto, a condizione che quest’ultimo, vuoi per ragioni oggettive vuoi per la riferibilità alla sfera di azione di un gruppo organizzato, assuma una proiezione transfrontaliera. Nell’esaminare il tema della configurabilità dell’aggravante, la pronuncia evidenzia che se uno degli indici della transnazionalità soggettiva è il coinvolgimento di un gruppo organizzato transnazionale, è pur sempre necessario un elevato coefficiente di coinvolgimento, ovvero la prestazione di un contributo causale alla commissione del reato. Ma da ciò non si ricava alcuna ragione per la quale l’aggravante speciale in questione non possa applicarsi, oltre che ai reati fine, anche al reato associativo (e nessuno motivo di ordine testuale o logico sistematico si oppone a tale soluzione). Più in particolare, la decisione sottolinea come dei tre parametri per definire un reato come transazionale (di cui all’art. 3), l’aggravante viene modulata (dall’art. 4) solo con riferimento alla implicazione di un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato. La soluzione al contrasto viene operata nella direzione secondo cui, ai fini della configurabilità della aggravante, non è necessario che il reato venga commesso anche all’estero, né che la associazione operi anche in paesi esteri, così come non è necessario che del sodalizio criminoso facciano parte soggetti operanti in paesi diversi, in quanto ciò che è richiesto è che alla commissione del reato abbia dato il proprio contributo un gruppo dedito ad attività criminali a livello internazionale. Per individuare cosa si intende per “gruppo criminale organizzato”, prosegue la Suprema Corte, basta fare riferimento alla stessa Convenzione, che all’art. 2 lo definisce come «un gruppo strutturato, esistente per un periodo di tempo, composto da tre o più persone che agiscono di concerto al fine di commettere uno o più reati gravi o reati stabiliti dalla convenzione, al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o un altro vantaggio materiale». Da ciò si ricava che il gruppo organizzato si pone tra il semplice concorso di persone, rispetto al quale ha qualcosa in più, e l’associazione a delinquere, rispetto alla quale ha qualcosa in meno, così che deve essere esclusa la sovrapposizione tra gruppo organizzato ed associazione a delinquere. Ne consegue che la speciale aggravante dell’art. 4 della legge 16.3.2006, n. 146 è applicabile al reato associativo, sempreché il gruppo criminale organizzato transnazionale non coincida con l’associazione stessa.

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9. La confisca. Quando un fatto previsto come reato dalla legge nazionale presenta i caratteri descritti dall’art. 3 della legge n. 146/2006 – ed è dunque qualificabile alla stregua di crimine transnazionale – si apre la possibilità di ricorrere allo strumento della confisca per equivalente, disciplinata, con modalità che paiono particolarmente estese, dall’art. 11 della legge n. 146/2006 [in argomento, approfonditamente, TARTAGLIA, 515 ss.; più in generale, NOTARO, 524 ss.]. Già sul piano dei presupposti operativi della confisca, è ravvisabile un profilo di scollamento tra legge di ratifica e normativa pattizia internazionale, la quale richiede agli Stati contraenti di prevedere strumenti di ablazione dei proventi illeciti «nella più ampia misura possibile nell’ambito dei loro ordinamenti giuridici interni», e ciò in particolare anche se il provento sia stato trasformato o confuso con beni di fonte legittima: tale prescrizione concerne tutti i titoli di reato menzionati nella Convenzione, anche qualora in concreto essi non presentino i caratteri strutturali del crimine transnazionale, che invece sono stati richiesti dal legislatore italiano per accedere alla confisca per equivalente prevista all’art. 11. La lettura della disposizione richiamata, prime facie, evoca un generale presupposto applicativo: è indispensabile, affinché possa procedersi alla peculiare tipologia di ablazione, che non sia possibile procedere alla confisca (diretta) del prezzo, prodotto e profitto del reato. Trattasi di un presupposto operativo costantemente presente in materia di confisca per equivalente, concepita dal legislatore essenzialmente come sussidiaria rispetto a quella tradizionalmente prevista dall’art. 240 c.p. Quest’ultima si caratterizza per il rapporto di stretta pertinenzialità tra la res oggetto dell’ablazione e il reato cui è essa collegata: in altri termini, il bene confiscando è proprio quello che, sul piano naturalistico, è stato predisposto alla realizzazione del reato ovvero è derivato eziologicamente dalla commissione dello stesso (nei casi di prezzo, prodotto e profitto). La pertinenzialità è dunque la vera nota caratteristica della confisca-misura di sicurezza disciplinata in via generale nel nostro sistema penale ed è su tale connotato che può fondarsi la sussistenza della pericolosità criminale della cosa da confiscare. Proprio la pertinenzialità ha finito per costituire il più significativo limite operativo alla possibilità di ricorrere, in concreto, alla confisca, tenuto conto che la dispersione del bene pertinenziale integra un fattore ostativo alla sequestrabilità e alla successiva confiscabilità dei beni connessi all’illecito. Su queste basi, va individuata la ratio politico-criminale che fa da sfondo alla scelta sempre più frequente, anche e soprattutto sulla spinta delle istanze sovranazionali, di ampliare nei sistemi nazionali le fattispecie per le quali sia possibile fare impiego della confisca di «beni-utilità che, seppure privi di qualsiasi connessione naturalisticamente apprezzabile con il fatto-reato, sono considerati legittimi oggetti di ablazione in quanto, sotto il profilo quantitativo, presentano il connotato dell’equivalenza (id est, dell’identità di valore) rispetto al bene pertinenziale che non sia più possibile apprendere» [TARTAGLIA, 519]. Ai sensi dell’art. 11 legge n. 146/2006 si richiede che sia maturata l’impos-

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sibilità, anche non irreversibile, di procedere alla confisca diretta del bene pertinenziale. Le ragioni dell’impossibilità di tale apprensione possono essere le più diverse, mancando, sotto questo profilo, ogni specificazione legislativa. Nella peculiare ipotesi del profitto, può ancora accadere che il vantaggio economico originariamente conseguito per mezzo dell’agere illecito abbia costituito «l’oggetto di un elevato numero di operazioni di trasformazione o di rapporti di scambio, e pertanto non possa più essere appreso ai sensi della disciplina generale dell’art. 240 c.p.» [TARTAGLIA, 521]. La varietà casistica delle ragioni che possono in concreto impedire la confisca diretta, unitamente alla sufficienza di un’impossibilità che sia anche solo temporanea e reversibile, rende piuttosto agevole l’onere probatorio del P.M., anche se un riscontro puntuale di tale onere argomentativo, in ogni caso, va necessariamente ricercato nel contesto motivazionale del provvedimento giurisdizionale che disponga la confisca di valore. La confisca disegnata dall’art. 11 della legge n. 146/2006 è caratterizzata da una significativa ampiezza dell’oggetto su cui essa può legittimamente intervenire, oggetto che sostanzialmente coincide con l’intera gamma dei derivati dal reato contemplati dalla normativa tradizionale ex art. 240 c.p. [TARTAGLIA, 520]: vengono infatti in rilievo prezzo, prodotto e profitto del reato. Va al riguardo ricordato che per prodotto del reato deve intendersi tutto ciò che costituisce il risultato empirico derivante dal reato [Cass., S.U., 2.7.2008, n. 26654]. Quanto al profitto del reato, esso può essere definito, in via generale, come l’insieme della conseguenze vantaggiose suscettibili di valutazione economica derivanti, in capo al reo, in linea diretta dalla commissione del reato [NOTARO, 529 ss.]. Naturalmente, dal quantum economicamente ricavato dall’agere illecito andranno sottratte le somme e le altre utilità che siano state oggetto di restituzione o di risarcimento del danno da parte del reo, pervenendosi in caso contrario ad un’ingiusta ed immotivata duplicazione del carico afflittivo imposto al condannato. Come bene messo in evidenza, sul punto, va osservato che la transnazionalità del crimine può condurre a rilevanti difficoltà applicative quando si tratti, in concreto, di quantificare il profitto del gruppo criminale organizzato al fine di operare la confisca per equivalente. La questione si è ad esempio posta, di recente, in un caso relativo alle ipotesi (transazionali) di riciclaggio e associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale: in tale fattispecie la Suprema Corte [Cass., sez. III, 24.3.2011, n. 11970, CED 2011/249761] ha ritenuto di poter individuare il profitto del reato transnazionale (da sottoporre a confisca obbligatoria e di valore) nelle somme di denaro costituenti rispettivamente il provento dei reati-presupposto del riciclaggio e dei reati-fine dell’associazione. Per i Giudici di legittimità risulta «evidente che se il riciclaggio, secondo la ricostruzione dei fatti prospettata dall’accusa, aveva ad oggetto, tra l’altro, i proventi delle frodi fiscali, tali proventi costituiscono il profitto anche del reato di riciclaggio in relazione ai soggetti, peraltro tutti legati dal vincolo associativo, che sono autori solo di tale ultimo delitto transnazionale». Sicché, il valore di riferimento, ai fini della confisca per equivalente, deve essere quantificato sulla base del profitto delle frodi fiscali entrato a far parte poi delle operazioni di riciclaggio transnazionale [Cass., sez. II, 29.10.2012, n. 42120, Rv. 253831]. Sorretta dalla medesima ratio decidendi è Cass., sez. III, 24.3.2011, n. 11969, CED 2011/249760, secondo cui il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, previsto dall’art. 11 della

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legge 16 marzo 2006, n. 146 per i reati transnazionali, è applicabile anche al profitto dei reati di frode fiscale rientranti nel programma associativo di un’organizzazione criminale transnazionale; ciò vale in quanto il reato-fine di frode fiscale costituisce reato transnazionale in base all’art. 3 comma 1 lett. c) della citata legge n. 146/2006.

Con riferimento a tale orientamento, si potrebbe rilevare come non sia agevole sostenere che, in materia di associazione per delinquere, il profitto derivante dai reati fine sia qualificabile – senza soluzione di continuità – anche come profitto del delitto associativo e come più di un dubbio si profili in ordine all’affermazione secondo cui dai reati-fine tale profitto sia del tutto autonomo [TARTAGLIA, 520]. È infatti possibile osservare come tale principio sembri supporre, con riferimento al profitto, una relazione tra reato-mezzo (l’associazione) e reati-fine (nella specie, i delitti tributari) “capovolta” rispetto a quella che invece intercorre, tra gli stessi reati, dal punto di vista logico e criminologico. Infatti, mentre da un lato è pacifico come sia l’associazione il mezzo attraverso cui i partecipi della stessa commettono i reati-fine, dai quali ricavano i profitti, dall’altro allorquando si tratta di provvedere in ordine alla confisca dei medesimi la Suprema Corte sembra affermare che l’associazione sia invece il fine cui i profitti normalmente tendono ed i reati-fine soltanto il mezzo attraverso cui realizzare questi ultimi. Tale assunto, però, non è condiviso da autorevoli voci dottrinali, che hanno ritenuto, seppur con riguardo alla confisca prevista dall’art. 416-bis comma 7 c.p., che le cose suscettibili di confisca ai sensi di tale disposizione sembrano connesse più ai reati-fine che non all’associazione in quanto tale [(a) ALESSANDRI, 49; FIANDACA, 268]. Esso, inoltre, presta il fianco a più di una critica nella parte in cui oblitera un dato di fatto oggettivamente non contestabile, cioè che il profitto, quand’anche lo si volesse qualificare come riferito all’associazione criminale, deriverebbe comunque in via immediata e diretta dall’esecuzione dei delitti-scopo e non dal delitto associativo in sé considerato. Rimane un’ulteriore puntualizzazione diretta ad evitare che l’imputazione del profitto dei reati-fine direttamente al reato associativo sia in grado di violare le mura del principio di legalità-tassatività: i proventi che ope legis non sono sottoponibili a confisca potrebbero diventarlo, purché la societas sceleris abbia carattere transnazionale. Oltretutto, per aversi transnazionalità non occorre la presenza di una stabile organizzazione, bastando una struttura minimale e un progetto criminoso stabile duraturo e preciso. Dimostrato tale labile connotato, sarebbe sempre giustificata la confisca di valore ai sensi dell’art. 11 legge n. 146/ 2006, anche a fronte di profitto non confiscabile in quanto derivante da reati non transazionali per i quali la normativa interna non prevede alcuna misura coattiva (in via preventiva). A rendere ancora più difficile la situazione contribuisce il dato che, in materia di cautele in funzione preventiva, le garanzie difensive sono sminuite sia in ordine alla verifica dei presupposti sia all’esercizio del controllo sulla corretta applicazione della misura ablativa. Sotto l’apparenza di un’interpretazione estensiva motivata dalla necessità di aggredire patrimoni illecitamente accumulati, si cela, in realtà, un’opera di non consentita analogia iuris. Sul punto, non occorre dilungarsi nella descrizione delle conseguenze in -

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punto di travolgimento della certezza del diritto e della stessa sicurezza dei traffici commerciali, dei principi costituzionali di colpevolezza, uguaglianza, irretroattività, funzione retributiva e rieducativa della pena (specie tenendo conto dell’assimilazione della confisca di valore alla pena, in ragione del notevole grado di afflittività). Rispetto alla nozione di prezzo del reato, esso può agevolmente definirsi come il denaro (o la diversa utilità suscettibile di valutazione economica) che viene dato o anche solo promesso per indurre, determinare o istigare taluno alla commissione del reato (consumato o tentato). In altri termini, il prezzo del reato è tale se interviene nella dinamica criminosa, incidendo sulla motivazione del reo a commettere il reato [NOTARO, 529 ss.]. Tali entità (prezzo, prodotto e profitto), ai fini della confisca per equivalente, sono considerate dal legislatore per il valore economico che di volta in volta esse rappresentano: tale valore deve essere rigorosamente accertato e ricostruito prima di passare alla ablazione dell’equivalente. A tal fine, è fondamentale l’individuazione preliminare, nel patrimonio del reo, di beni o di altri utilità suscettibili di valutazione economica che, sotto il profilo del quantum, siano effettivamente corrispondenti al valore precedentemente accertato. I beni di cui si tratta dovranno essere individuati in maniera specifica e dettagliata nel provvedimento giudiziale che ne dispone la confisca. L’art. 11 legge n. 146/2006 delinea una fattispecie applicativa assai diversa e lontana dal modello standard di confisca disciplinata originariamente nel codice penale [TARTAGLIA, 523]. Segnatamente, il radicale ridimensionamento del requisito della pertinenzialità spiega l’impossibilità di continuare a ricondurre la fattispecie de qua agli schemi della misura di sicurezza (che, al contrario, contempla proprio la pertinenzialità tra res e reato come requisito strutturale ineliminabile). Ci si trova infatti di fronte ad una vera e propria forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti [Cass., sez. III, 1.4.2004, n. 15445, Napolitano, CED 2004/228750] e risulta dunque ampiamente condivisibile l’opinione, oramai diffusa in dottrina [per tutti, (b) ALESSANDRI, 2107 ss.; (b) MAIELLO, 440 ss. ] e giurisprudenza [Cass., sez. VI, 18 giugno 2007, n. 30543, in Foro it., 2008, III, c. 173; Cass., sez. II, 8 maggio 2008, n. 21566, in CED 2008/ 240910; Cass., sez. III, 24 settembre 2008, n. 39173, CED 2008/241034; Cass., sez. VI, 18.2. 2009, n. 13098, CED 2009/23451; Corte cost., n. 97/2009 (ord.)], secondo cui la confisca per equivalente verrebbe ad assumere nel nostro sistema la veste di una vera e propria sanzione penale, con la conseguente sua sottoposizione allo statuto garantistico della legalità/irretroattività (cosicché dovrà escludersi la praticabilità della confisca di valore del provento ricavato dai reati qualificabili in termini di crimini transnazionali che siano stati posti in essere in un momento temporale antecedente all’entrata in vigore alla legge n. 146/2006, che ha introdotto la nuova fattispecie ablatoria.): essa proietta infatti un fascio di effetti funzionali destinati a realizzare una funzione afflittiva e general-preventiva del tutto diversa dal perseguimento delle finalità special-preventive legate alla pericolosità oggettiva del bene confiscato che rappresentano, invece, l’obiettivo di tutela della confisca disciplinata dall’art. 240 c.p. -

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Nelle ipotesi di confisca di valore, i limiti di efficacia soggettiva dell’ablazione sono implicitamente definiti dal legislatore e consistono in beni o altre uti-

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lità, di valore corrispondente a quello del profitto conseguito dal reato, di cui il reo abbia la disponibilità. La nozione di disponibilità si riferisce a criteri di carattere fattuale ed empirico [TARTAGLIA, 525], che possano, nel caso concreto, portare a dire che un soggetto ha l’effettiva disponibilità della res, ovvero che la relazione tra lo stesso e la cosa sia connotata dalla sussistenza di fatto di un potere dispositivo che permetta di qualificare il soggetto uti dominus. L’art. 11 legge n. 146/2006 si riferisce poi alla disponibilità dei beni esercitata anche per interposta persona, fisica o giuridica: il legislatore ha inteso, come è evidente, riferirsi ai casi di scollamento tra potere effettivo e intestazione fittizia della res. Se ne trae una riconferma dell’accoglimento di una lata nozione di disponibilità, che è avulsa da ogni riferimento a rigidi schemi tecnico-giuridici, e che appare suscettibile di ricomprendere anche le ipotesi in cui, a fronte di un’intestazione fittizia del bene, la proprietà sostanziale dello stesso sia incardinata presso un differente soggetto, che appunto ne abbia la disponibilità. Nei suoi confronti potrà allora operarsi senza problemi con lo strumento della confisca di valore [secondo la recente pronuncia Cass., sez. III, 23.2.2011, n. 6894, CED 2011/ 249539, il sequestro funzionale alla confisca per equivalente (disposto ex artt. 321 c.p.p. e 11 legge 16 marzo 2006, n. 146), ove riguardi un bene in comproprietà tra l’indagato ed un terzo estraneo, può essere disposto per l’intero quando sia comunque nella disponibilità del reo o si tratti di bene indivisibile o ne sussistano comprovate esigenze di conservazione mentre, negli altri casi, deve essere contenuto entro la quota di proprietà dell’indagato sulla quale la successiva confisca è destinata ad operare]. Sempre l’art. 11 della legge n. 146 contiene una specifica disposizione relativa all’ipotesi di confisca disposta in relazione al reato di usura [in argomento, per tutti, TARTAGLIA, 527]: in tale circostanza «è comunque ordinata la confisca di un importo pari al valore degli interessi degli altri vantaggi o compensi usurari». Tali compensi costituiscono il prodotto del reato, o al più il relativo profitto; il legislatore ha utilizzato una differente formula normativa, per indicare l’oggetto della confisca, al presumibile fine di sottolineare come vada escluso dalla misura tutto ciò che l’usuraio ha lucrato in forza degli investimenti delle utilità conseguite con l’attività illecita. Si è al cospetto di norma dal tenore letterale quasi del tutto coincidente con quello del comma 6 dell’art. 644 c.p.: occorre, pertanto, interrogarsi circa il relativo ambito di applicabilità, domandandosi altresì quale possa essere l’effettiva utilità applicativa di tale disciplina [TARTAGLIA, 524]. -

Sul punto, non pare sostenibile l’abrogazione implicita della omologa disposizione codicistica, che verrebbe ad essere superata da una norma posteriore che disciplina la medesima materia. Ed infatti, a ben vedere, proprio l’elemento dell’identità di materia sembra essere carente nel caso de quo, dal momento che la disciplina del 2006, con evidente connotato di specialità, è destinata a trovare applicazione esclusivamente nei casi in cui il delitto di usura presenti i caratteri descritti dall’art. 3, sia cioè tale da integrare gli estremi del crimine transnazionale [DI MARTINO, 11 ss., secondo cui le due fattispecie sarebbero in rapporto di specialità bilaterale per aggiunta, dunque di eterogeneità, che non consente di addivenire alla soluzione dell’abrogazione implicita: ed infatti, «la precedente norma è speciale per aggiunta della menzione dei diritti dei terzi; la successiva è speciale per aggiunta del carattere transnazionale»].

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Segnalati i differenti ambiti di applicazione, ci si può allora soffermare sulle differenze linguistiche intercorrenti tra le due disposizioni, evidenziando come il solo art. 644 c.p., a differenza della disciplina in materia di criminalità transnazionale, provveda espressamente a far salvo il diritto della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento del danno civilisticamente rilevante, cosicché tali valori, secondo l’interpretazione preferibile, dovranno essere scomputati dal quantum confiscabile. Ulteriore tratto differenziale, cui è almeno astrattamente possibile attribuire un significato operativo, è costituito dal ricorso del legislatore del 2006 all’avverbio comunque («è comunque ordinata …»), il quale potrebbe far pensare alla volontà normativa di fissare un minimo quantitativo da fare oggetto, in concreto, di ablazione. Un’interpretazione combinata di questo duplice dato letterale potrebbe allora portare a ritenere che, quando l’usura assuma in concreto i connotati strutturali del crimine transnazionale, la confisca di valore ad essa consequenziale dovrà riguardare sempre e comunque un valore economico equivalente all’ammontare degli interessi e vantaggi usurari, valore dal quale non sarà possibile detrarre il quantum eventualmente versato alla persona offesa a titolo di restituzioni o di risarcimento [TARTAGLIA, 526]. In tal modo, l’istituto ablatorio vedrebbe significativamente amplificato il proprio spessore sanzionatorio e repressivo, finendo per ricordare ancor più da vicino la dinamica funzionale propria delle pene pecuniarie. Tale interpretazione ha il merito di presentarsi conforme al generale principio di conservazione degli effetti giuridici, in quanto salvaguarda la necessità di attribuire – laddove è possibile – un minimo significato operativo alle disposizioni introdotte dal legislatore [TARTAGLIA, 528]. Essa, tuttavia, determina un risultato pratico particolarmente rigoroso e significativamente sproporzionato (comportando una possibile duplicazione dell’incisione economica sul patrimonio del reo come conseguenza dell’unico reato commesso), specie perché derivante da una formula letterale che, presentandosi assai indeterminata e, comunque, inesorabilmente ambigua, suggerisce un’interpretazione restrittiva. Del resto, il rilevante aggravio del carico sanzionatorio cui si perverrebbe non pare neanche potersi pienamente giustificare, rispetto alla disciplina fatta propria dall’art. 644 c.p., per il solo fatto che venga in questione un’usura di tipo transnazionale, cosicché, a seguire l’interpretazione sopra prospettata, potrebbero anche originarsi consistenti perplessità di ordine costituzionale [sub specie di violazione del principio di ragionevolezza e di pari trattamento: cfr. DI MARTINO, 18]. Ne deriva che alla previsione in esame non pare potersi attribuire un’utilità applicativa realmente innovativa rispetto a quanto già sancito dall’art. 644 c.p., dovendosi spiegare la sua presenza nella legge del 2006 alla luce di un eccesso di zelo del legislatore che, nell’attuazione interna degli strumenti internazionali, ha inteso ribadire in materia di usura quanto già era stato fatto oggetto di attuazione normativa in sede codicistica [TARTAGLIA, 525]. Altra problema dibattuto in dottrina e giurisprudenza è quello relativo al reato commesso in concorso da più soggetti. In tali casi ci si chiede entro quali limiti la confisca per equivalente (e

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il relativo sequestro) possano operare nei confronti di ciascuno di questi. Partendo dalla premessa che la confisca per equivalente dà luogo ad una vera e propria sanzione penale, la soluzione più corretta dovrebbe essere quella che impone di graduare il quantum della sanzione sulla base di indici di commisurazione. Nei confronti di ciascuno dei correi, pertanto, dovrebbe pervenirsi alla confisca di valore in via strettamente proporzionale e limitata all’entità del provento tratto all’integrazione dell’illecito. Ciononostante, diverse pronunce giurisprudenziali della Suprema Corte affermano che, in ragione del carattere afflittivo della confisca per equivalente, essa può interessare ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del prezzo o profitto accertato, salvo l’eventuale riparto tra i medesimi concorrenti che costituisce fatto interno a questi ultimi e che non ha alcun rilievo penale, con conseguente riconoscimento della legittimità del provvedimento di confisca dei beni in sequestro per un valore equivalente all’intero importo dell’utile del reato in capo ad uno solo dei diversi indagati concorrenti nella contestata ipotesi criminosa [Cass., S.U., 2.7.2008, n. 26654, Fisia Italimpianti, CED 2008/239926]. Così, in virtù del principio solidaristico che informa la disciplina del concorso di persone nel reato, si ritiene che ciascun concorrente possa essere chiamato a rispondere dell’intera entità del profitto accertato, sul presupposto della corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito. Si osserva, infatti, che una volta perduta l’individualità storica del profitto illecito, la confisca per equivalente può interessare indifferentemente ciascuno dei correi, salvo l’eventuale riparto tra i medesimi – irrilevante ai fini penalistici – del relativo onere. Tale impostazione non appare condivisibile, tenuto conto che, per il legittimo ricorso alla confisca per equivalente, non è sufficiente che l’apprensione coattiva sia riferita solo a beni o denaro di valore corrispondente all’utilità economica del reato, ma occorre anche che la stessa sia maturata in capo al patrimonio del soggetto che viene attinto dalla misura ablativa, poiché tale sanzione patrimoniale non può interessare il patrimonio del responsabile in misura superiore rispetto a quanto ottenuto a mezzo della condotta delittuosa. Inoltre, sembra difficilmente compatibile con il concetto stesso di sanzione la scelta di svincolare del tutto la confisca dalla misura del profitto attribuibile a ciascun concorrente. Infine, così ragionando, si correrebbe il rischio di aggredire indiscriminatamente i beni di uno qualunque dei correi, sul mero presupposto della più semplice accessibilità del suo patrimonio rispetto a quello degli altri compartecipi, atteso che un simile approccio si tradurrebbe all’atto pratico nella semplice punizione del correo meno accorto che non si era preoccupato, contrariamente agli altri, di occultare adeguatamente il proprio patrimonio, conducendo a risultati difficilmente giustificabili e pericolosamente iniqui. Merita, dunque, piena adesione l’opposto orientamento giurisprudenziale, secondo il quale, in caso di reato commesso da una pluralità di soggetti, può disporsi la confisca per equivalente di beni per un importo che non può eccedere, per ciascuno dei concorrenti, la misura della quota di prezzo o profitto a lui attribuibile. Pertanto, «la confisca per equivalente, adottata all’esito del giudizio e dell’accertamento delle responsabilità, dovrà riguardare la quota di prezzo o di profitto effettivamente attribuibile al singolo concorrente o, nell’impossibilità di una esatta quantificazione, essere applicata per l’intero prezzo o profitto, ma nel rispetto dei canoni della solidarietà interna fra i concorrenti (e cioè senza moltiplicare l’importo per il numero dei concorrenti)» [Cass., 10.3.2009, n. 10690, Giallongo, CED 243189]. Questo orientamento appare coerente con il quadro dei principi espressi dagli artt. 3 e 27 Cost., i quali impongono che la responsabilità penale sia personale e che la pena sia proporzionata alla gravità del fatto commesso. A tali parametri, per contro, non sembra rispondere una confisca-sanzione che si presti a colpire indiscriminatamente ed in egual misura tutti i concorrenti nel reato, senza che abbia alcuna rilevanza il rapporto di proporzione tra le conseguenze patrimoniali ricadenti sul singolo soggetto e l’entità del contributo da questi effettivamente apportato alla realizzazione del disegno criminoso. Senza considerare che il legislatore, seppur nell’ambito di una considerazione unitaria del concorso di persone, non ha del tutto unificato il trattamento sanzionatorio dei singoli concorrenti, ma al contrario ha riconosciuto al giudice il potere-dovere di commisurare la pena proporzionalmente alla responsabilità di ciascuno. Così, ammettere che il giudice possa, automaticamente, confiscare beni per equivalente ai

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singoli concorrenti viola chiaramente il principio di personalità della responsabilità penale nonché quello di eguaglianza-ragionevolezza, indebolendo quelle prospettive di prevenzione integratrice di stampo struttural-funzionalista, di cui sono presupposti di efficacia i menzionati principi costituzionali [per questo paradigma della prevenzione/integrazione, cfr. (c) MAIELLO, 374 ss.]. In definitiva, appare più aderente ai richiamati canoni l’irrogazione di una “sanzione” che sia proporzionale al ruolo che ciascun coimputato ha avuto ed alle “ricadute patrimoniali” che l’azione criminosa ha determinato per ciascuno di essi. D’altra parte, non può sfuggire che la misura della partecipazione – dal punto di vista delle responsabilità penale – non è irrilevante, ove si considerino le diverse disposizioni che strutturano la funzione di disciplina del fenomeno del concorso eventuale di persone nel reato.

10. Cenni sulla responsabilità delle persone giuridiche. Come già accennato, l’art. 10 legge n. 146/2006 fonda la responsabilità degli enti con riferimento ai reati (rectius, ad alcuni reati) di natura transnazionale. La norma recepisce quanto previsto dall’art. 10 della Convenzione di Palermo, secondo cui «ogni Stato Parte adotta misure necessarie, conformemente ai suoi principi giuridici, per determinare la responsabilità delle persone giuridiche» per i reati contemplati nel testo convenzionale. La legge di ratifica estende la responsabilità degli enti – prevista e disciplinata dal d.lgs. n. 231/2001 – per i reati di associazione per delinquere, associazione mafiosa, associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti e psicotrope, riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, nonché a talune disposizioni contro le immigrazioni clandestine (art. 12 comma 3, 3-bis, 3ter, 5), induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria, favoreggiamento personale (art. 378 c.p.), purché questi reati rivestano una natura transnazionale ai sensi dell’art. 3 legge n. 146/2006. L’innesto normativo ha determinato, secondo la dottrina [(b) ASTROLOGO, 109 ss.], la sovrapposizione di due piani ontologicamente differenti: quello di un’associazione illecita e quello di un’impresa lecita che commette specifici reati, costringendo l’interprete ad un evidente sforzo esegetico diretto a ritenere integrati i delitti suindicati solamente qualora l’apparato associativo criminale non coincida tout court con l’organigramma dell’impresa ma si inserisca all’interno di quest’ultima quale sotto-aggregazione illecita. Va infatti rimarcato che la prima è una societas sceleris finalizzata a scopi illegali, mentre la seconda è una aggregazione ex selecita, la quale nell’esercizio della propria attività compie determinati reati. La dicotomia (associazione illecita-illecito nell’associazione) emerge anche nella recente giurisprudenza [Cass., S.U., 2.7.2008, n. 26654], che in materia di applicazione della confisca ai soggetti collettivi distingue tra l’impresa criminale e il crimine nell’impresa evidenziando che «è di agevole intuizione, infatti, la diversità strutturale tra l’impresa criminale – la cui attività economica si polarizza esclusivamente sul crimine (si pensi ad una società che opera nel solo traffico di droga) – e quella che opera lecitamente e soltanto in via episodica deborda dalla commissione di un delitto».

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Sul punto, è poi utile ricordare che l’associazione criminale tout court non rientra nell’ambito di operatività del codice della responsabilità degli enti e quindi l’inserimento dei reati associativi nell’elenco dei delitti presupposto del suindicato decreto legislativo va interpretato considerando integrati i reati in questione – con conseguente responsabilità del soggetto collettivo – solo qualora l’apparato associativo non coincida di per sé con l’organigramma dell’impresa ma si inserisca all’interno di quest’ultima quale sotto aggregazione illecita. In questa prospettiva, può ipotizzarsi che un’unità organizzativa dell’ente sia destinata allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei reati in relazione ai quali è prevista la sua responsabilità e, quindi, che l’ente incorra nell’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività; diversamente, non risulta verosimile ipotizzare l’esistenza di un soggetto collettivo stabilmente destinato alla realizzazione di illeciti nel quale sia ravvisabile la coincidenza dello stesso con una vera e propria organizzazione criminosa che, come tale, esula dal d.lgs. n. 231/2001. Una specifica problematica si osserva poi qualora venga contestato ad un ente una responsabilità ai sensi del d.lgs. n. 231 per un reato di associazione per delinquere di natura transnazionale realizzatosi all’interno del suo organigramma. In questa ipotesi «si dovrà provare il delitto di associazione per delinquere e la sua dimensione transnazionale ai sensi dell’art. 3, legge 146/2006 e, dunque, si combinano il concetto di associazione per delinquere e quello di gruppo criminale organizzato che compone la dimensione transnazionale» [(b) ASTROLOGO, 109 ss.].

Bibliografia. (a) ALESSANDRI, Confisca, in Dig. disc. pen., 1989, 49 ss.; (b) ALESSANDRI, Criminalità economica e confisca del profitto, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, Milano, 2006, 2103 ss.; ARTUSI, Reato transnazionale, in Dig. disc. pen., Agg., 2011, 452 ss.; (a) ASTROLOGO, Prime riflessioni sulla definizione di reato transnazionale nella l. n. 146/2006, in Cass. pen., 2007, 1789; (b) ASTROLOGO, I reati transnazionali come presupposto della responsabilità degli enti. Un’analisi dell’art. 10 della legge 146/2006, in La resp. amm. soc. enti, 2009, 109 ss.; BEUCCI, MASSARI, Globalizzazione e criminalità, Roma-Bari, 2003; CASTELLANETA, Norme applicabili direttamente nello Sato, in Guida dir., 2006, 17; CENTONZE, Criminalità organizzata e reati transnazionali, Milano, 2008; CHERIF BASSIOUNI (a cura di), La cooperazione internazionale per la prevenzione e la repressione della criminalità organizzata e del terrorismo, Milano, 2005; DE AMICIS, VILLONI, La ratifica della Convenzione ONU sulla criminalità organizzata transnazionale e dei suoi protocolli addizionali, in Giur. merito, 2006, 1630 ss.; G. DE FRANCESCO, Internazionalizzazione del diritto e della politica criminale: verso un equilibrio di molteplici sistemi penali, in Dir. pen. proc., 2003, 9 ss.; DE VERO, La riserva di legge penale. La tassatività della legge penale, in DE VERO (a cura di), La legge penale. Il reato. Il reo. La persona offesa, in F.C. PALAZZO, C.E. PALIERO (dir.), Trattato teorico/pratico di diritto penale, Torino, 2010, 3 ss.; DI MARTINO, Criminalità organizzata e reato transnazionale, diritto penale nazionale: l’attuazione in Italia della cd Convenzione di Palermo, in Dir. pen. proc., 2007, 11 ss.; EPIDENDIO, Le nuove norme sui reati transnazionali e sulla responsabilità degli enti, in Corr. meri-

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to, 2006, 877; FIANDACA, Sub art. 1. Commento alla l. 13 settembre 1982 n. 646 (norme “antimafia”), in Leg pen., 1983 268; S. FIORE, I reati inclusi nella Convenzione di Palermo. a) Partecipazione ad un gruppo criminale organizzato, in ROSI (a cura di); LAUDATI, I delitti transnazionali. Nuovi modelli di incriminazione e di procedimento all’interno dell’Unione Europea, in Dir. pen. proc., IV, 2006, 402; (a) MAIELLO, Principio di legalità ed ermeneutica nella definizione (delle figure) della partecipazione associativa di tipo mafioso e del c.d. concorso esterno, in PICOTTI, FORNASARI, VIGANÒ, MELCHIONDA (a cura di), I reati associativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio. Un contributo all’analisi e alla critica del diritto vivente, Atti del Convegno tenuto a Brescia il 19-20 marzo 2004, Padova, 2005, 159 ss.; (b) MAIELLO, La confisca per equivalente non si applica al profitto del peculato, in Dir. pen. proc., 2010, 440 ss.; (c) MAIELLO, Clemenza e sistema penale. Amnistia e indulto dall’indulgentia principis all’idea dello scopo, Napoli, 2007; (d) MAIELLO, Concorso esterno in associazione mafiosa, in Cass. pen., 2009, 1352 ss.; MASSARO, Criminalità transnazionale. Problemi e prospettive, Bari, 2003; MASTROJENI, I limiti spaziali di applicazione della legge penale e i rapporti con giurisdizioni straniere, in DE VERO (a cura di), La legge penale. Il reato. Il reo. La persona offesa, in F.C. PALAZZO, C.E. PALIERO (dir.), Trattato teorico/pratico di diritto penale, Torino, 2010, 99 ss.; MEZZETTI, L’internazionalizzazione della legge penale, in RONCO, AMBROSETTI, MEZZETTI (a cura di), La legge penale, Bologna, 2010; NOTARO, Le singole misure di sicurezza, in DE FRANCESCO (a cura di), Le conseguenze sanzionatorie del reato, in F.C. PALAZZO, C.E. PALIERO (dir.), Trattato teorico/pratico di diritto penale, Torino, 2011, 39 ss., 500 ss.; PADOVANI, Criminalità transnazionale e cooperazione internazionale in materia penale, in Criminalità transnazionale fra esperienze europee e risposte penali globali, Milano, 2005; PASCULLI, Sul rapporto esistente tra le fattispecie introdotte dalla legge 16 marzo 2006, n. 146, in tema di responsabilità da reato e le impostazioni dogmatiche relative al sistema penale italiano, in La resp. amm. soc. enti, 2007, 109 ss.; PAVONE, La definizione del crimine transnazionale, in www.altalex.com; PICOTTI, FORNASARI, VIGANÒ, MELCHIONDA (a cura di), I reati associativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio. Un contributo all’analisi e alla critica del diritto vivente, Atti del Convegno tenuto a Brescia il 19-20 marzo 2004, Padova, 2005; ROSI, Il reato transnazionale, in ROSI (a cura di), 83; ROSSETTI, Reato transnazionale, in PALAZZO, PALIERO (a cura di), Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova, 2007, 868 ss.; SAVONA, Processi di globalizzazione e criminalità organizzata transnazionale, transcrime, working paper, n. 29, in www.jus.unitn.it/transcrime/papers/wp29.html; TARTAGLIA, Crimine organizzato transnazionale, in TARTAGLIA (a cura di), 515 ss.

Capitolo V

La confisca per sproporzione

Sommario

1. L’introduzione dell’art. 12-sexies d.l. n. 306/1992. – 2. I persistenti dubbi sulla legittimità costituzionale. – 3. I presupposti e l’oggetto. – 4. La sentenza di condanna. – 5. I reati matrice; la non sempre ragionevole tendenza estensiva del legislatore. – 6. La disponibilità diretta e/o indiretta del bene. – 7. Il rapporto fra beni da confiscare e reato; la non necessità di un “nesso pertinenziale”. – 8. L’intervento delle Sezioni Unite; il significato della “sproporzione”. – 9. La mancata giustificazione della lecita provenienza dei beni. – 10. Alcune questioni controverse su “proporzione” e “ingiustificata disponibilità”. – 11. La natura della misura ablatoria. – 12. Il procedimento per l’applicazione. – 13. La tutela del terzo estraneo. – 14. Il sequestro preventivo. – 15. I rapporti con le altre forme di confisca penale. – 16. I rapporti con il sequestro/confisca di prevenzione. – 17. La gestione dei beni sequestrati e confiscati. – 18. Osservazioni conclusive. – Bibliografia.

1. L’introduzione dell’art. 12-sexies d.l. n. 306/1992. La confisca per sproporzione (definita anche “allargata”), prevista dall’art. 12-sexies del d.l. n. 306/1992, conv. in legge n. 356/1992 (nel prosieguo, solo art. 12-sexies), è stata introdotta dopo la bocciatura, ad opera della Corte costituzionale, del reato di cui all’art. 12-quinquies comma 2 del medesimo d.l. n. 306/1992 (di seguito, solo art. 12-quinquies). La fattispecie censurata incriminava la condotta dell’indiziato del delitto di associazione mafiosa e di altre specifiche tipologie delittuose – ritenute tipiche delle organizzazioni criminali; così (a) MAZZA, 24 – nonché del soggetto nei cui confronti era applicata o si procedeva per l’applicazione di una misura di prevenzione personale che avesse la disponibilità di beni, denaro o altra utilità di valore sproporzionato al proprio reddito o alla propria attività economica e non potesse giustificarne la legittima provenienza. Le numerose eccezioni di legittimità costituzionale, che avevano fatto proprie anche le serrate critiche piovute dalla dottrina [CERQUETTI, 214; TENCATI,

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305; SGUBBI, 27], spinsero la Consulta, dopo appena due anni di vita, a cancellare la norma, con una sentenza dai toni inusitatamente severi verso il legislatore [C. cost., 9-17.2.1994, n. 48, in Cass. pen., 1994, 1455]. Il giudice delle leggi rimarcava, soprattutto, il contrasto della fattispecie delittuosa con la presunzione di non colpevolezza, stigmatizzando sia l’individuazione del presupposto soggettivo del reato nella mera condizione di persona sottoposta alle indagini, sia l’imposizione di “una giustificazione qualificata” sulla legittima provenienza dei beni. Si finiva, di fatto, per invertire l’onere della prova a carico di un mero indagato, per una notitia criminis che fin dall’origine, poteva essere destinata all’archiviazione e si rischiava di anticipare effetti pregiudizievoli per l’imputato che la Costituzione riserva, invece, soltanto alla condanna irrevocabile. Criticava anche la scelta di assimilare in un confuso ordito normativo settori dell’ordinamento del tutto eterogenei; quello del diritto penale sostanziale e quello delle misure di prevenzione.

Nelle pieghe della motivazione, la Corte sembrava suggerire al legislatore una possibile alternativa e cioè ancorare una nuova fattispecie al ben diverso presupposto della sentenza definitiva di condanna [BERNASCONI, 1417]. L’autorevole indicazione non cadeva nel vuoto; il legislatore istituiva non un nuovo delitto, ma un’ipotesi di confisca che posizionava nell’articolo immediatamente successivo a quello caducato. La prevedeva con un decreto legge (d.l. 22.2.1994, n. 123), adottato il giorno prima della pubblicazione della decisione di incostituzionalità sulla Gazzetta Ufficiale, non convertito alla prima occasione ma reiterato, senza sostanziali modifiche, per due volte, prima di ottenere il definitivo placet parlamentare (d.l. 22.4.1994, n. 246 e poi d.l. 20.6.1994, n. 399, conv. in legge 8.8.1994, n. 501). L’obiettivo della nuova disposizione era manifestamente quello di sterilizzare, almeno in parte, gli effetti della pronuncia della Corte [CELENTANO, 306], come risultava evidente anche dalla previsione di una norma transitoria (l’art. 3) che permetteva di convertire sequestri e confische disposte nel vigore della norma caducata [(a) MAZZA, 34]. Un istituto nato tra mille difficoltà e solo per tappare una falla, con il tempo, però, si è trasformato in una sorta di perno del sistema di contrasto all’accumulazione di patrimoni non più soltanto di origine mafiosa; il legislatore, infatti, ne ha nel corso degli anni ampliato sempre più la portata, snaturandolo anche rispetto al suo ruolo originario e la giurisprudenza ne ha fatto largo uso, colmando pure, attraverso un’interpretazione al limite dell’intervento pretorio, le non poche carenze del testo. La norma ha ricevuto anche un indiretto riconoscimento sovranazionale con la Decisione quadro 2005/212/GAI del Consiglio dell’Unione Europea 24 febbraio 2005 che, trattando della confisca, ha individuato nell’art. 3 i c.d. poteri estesi che certamente si riferiscono anche alla misura ablatoria in esame. È prossima, fra l’altro, l’adozione da parte del medesimo Consiglio di una Direttiva, il cui testo già predisposto (proposta 2012/0036 COD) e sottoposto all’esame preventivo degli Stati membri, all’art. 4 regolamenta in modo ancora più ampio i citati “poteri estesi”, prevedendo che «ciascuno stato membro adotta le misure

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necessarie per poter procedere alla confisca totale o parziale dei beni che appartengono a una persona condannata per un reato laddove, sulla base di fatti specifici, l’autorità giudiziaria ritenga molto più probabile che i beni in questione siano stati ottenuti dal condannato mediante attività criminali analoghe, piuttosto che da attività di altra natura» [MANGIARACINA, 373]. 2. I persistenti dubbi sulla legittimità costituzionale. Malgrado la nuova norma apparisse se non proprio dettata, comunque aderente ai “suggerimenti” della Consulta, parte della dottrina, soprattutto a ridosso della sua entrata in vigore, ha avanzato dubbi sulla compatibilità con la Carta costituzionale. In particolare, ha contestato l’elusione dello spirito garantista della sentenza della Corte n. 48/1994 ed il persistente contrasto con vari principi costituzionali, in special modo, quelli di non colpevolezza (art. 27), di difesa (art. 24), della necessaria corrispondenza fra fatto e sanzione (art. 25), di proprietà (art. 42), di uguaglianza e di ragionevolezza (art. 3) [(a) MAZZA, 32; DI LENA, 1214; SGUBBI, 33; MAUGERI, 668; GIALANELLA, 73]. Alcune di queste doglianze sono confluite nell’ordinanza con la quale il tribunale di Santa Maria Capua Vetere, il 12 dicembre 1994, ha sollevato la questione di legittimità, per contrasto con gli artt. 3, 24 comma 2, 27 comma 2, 42 e 97 Cost. I giudici sammaritani hanno paventato, in premessa, l’elusione da parte della neo disposizione dei dicta della Consulta, nella parte in cui essa consente l’emissione del sequestro preventivo anche in assenza di sentenza di condanna; hanno denunciato, inoltre, come l’assenza di una correlazione fra beni e reato fa apparire ingiustificata l’aggressione alla proprietà, diritto costituzionalmente protetto; hanno lamentato, infine, una violazione del diritto di difesa, stante l’obbligo per l’interessato di giustificare la legittima provenienza del bene, per giunta, entro un termine molto esiguo – e di gran lunga inferiore a quello garantito nel caso di sequestro in materia di prevenzione – e cioè i dieci giorni entro i quali attivare il riesame.

Con un’ordinanza molto stringata e dai toni forse eccessivamente assertivi, la Consulta ha dichiarato manifestamente infondata la questione [C. cost., 2229.1.1996, n. 18, in Cass. pen., 1996, 1385]. Ha negato categoricamente l’elusione da parte del legislatore dei principi espressi dalla sua precedente statuizione: la condanna, infatti, è esplicito presupposto richiesto solo per la confisca, il sequestro, invece – tipica misura provvisoria, meramente anticipatrice degli effetti della successiva confisca – può prescinderne; il rapporto pertinenziale fra delitto e cose sequestrate non è da ritenersi insussistente ma legislativamente presunto, sulla scorta di una non irragionevole valutazione, proprio connessa alla sproporzione fra cose e redditi ed all’assenza di giustificazioni; l’imprescindibile diritto di difesa dell’indagato, a cui non è imposta preclusione temporale, infine, non appare intaccato poiché costui ben può allegare in qualsiasi momento – con istanza al giudice e/o con appello cautelare – gli elementi idonei a sostenere la legittima disponibilità economica.

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Reati, circostanze aggravanti e sanzioni in materia di criminalità organizzata

Dopo questa ordinanza, nessun’altra eccezione analoga è giunta al vaglio del Giudice delle leggi; nel 2000 la Consulta è sì intervenuta sull’articolo in esame, ma la questione proposta riguardava la razionalità dell’esclusione dal novero dei c.d. “reati matrice” dell’ipotesi delittuosa di cui al comma 5 dell’art. 73 d.p.r. n. 309/1990 ed è stata dichiarata inammissibile, trattandosi di una richiesta di un intervento additivo, precluso alla Corte [C. cost., 28.3.2000, n. 88, in Cass. pen., 2000, 1054]. In più occasioni, invece, la Cassazione ha ribadito, con declaratorie di manifesta infondatezza, la conformità della disposizione in esame a diversi diritti costituzionalmente garantiti: da quello di difesa (nessuna violazione vi è al diritto al silenzio dell’imputato perché nella norma non vi è alcuna inversione dell’onere della prova; l’obbligo di dimostrare l’esistenza dei presupposti della confisca grava sul p.m., fermo restando l’interesse della parte ad allegare elementi di confutazione della tesi contraria) a quello di uguaglianza e ragionevolezza (non vi è alcuna omogeneità tra la situazione di chi ha la mera disponibilità di denaro o beni sproporzionati alla capacità di reddito e di chi invece accompagni a questa condizione la condanna per determinati, gravi delitti) a quello della proprietà (l’art. 42 della Costituzione garantisce la sola proprietà legittimamente acquisita e non preclude la confisca di quella di origine illecita) [così, Cass., sez. VI, 15.4.1996, Berti, in Cass. pen., 1996, 3649; in termini analoghi, Cass., sez. VI, 26.3.1998, Borsetti, in Ind. pen., 1999, 1205; Cass., sez. I, 25.9.2000, Vergano, CED 2001/5263]. Ha anche escluso qualsivoglia profilo di illegittimità costituzionale nella parte in cui la norma, a differenza di quanto previsto dall’art. 2-ter legge n. 575/1965, consente la confisca anche oltre il biennio dalla data di esecuzione del sequestro dei medesimi beni, nonché nella parte in cui consente la misura a prescindere da qualsiasi nesso di pertinenzialità o cronologico con i delitti contestati [Cass., sez. I, 13.5.2008, Esposito, CED 2008/21357].

Dell’art. 12-sexies si è occupato anche la Corte EDU [sez. I, 10.4.2003, Yldrim c. Italia, Cass. pen., 2004, 1413] che ha escluso contrasti con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, evidenziando che rientra nel diritto di ogni ordinamento statale prevedere misure limitative del diritto di proprietà «al fine legittimo di combattere un fenomeno criminoso» ed aggiungendo, altresì, che «quanto al bilanciamento fra l’indicato fine ed il diritto di proprietà ogni ordinamento giuridico prevede presunzioni di diritto o/e di fatto la cui valutazione è preclusa alla Corte, quando non sia del tutto irragionevole o sproporzionata».

3. I presupposti e l’oggetto. L’art. 12-sexies consente la confisca di res che si trovano nella disponibilità, anche indiretta, di una persona condannata per uno dei delitti specificamente indicati, quando il valore dei beni posseduti risulti sproporzionato e di essi il condannato non riesca a giustificare la provenienza. Stando alla lettera della norma, dunque, l’applicabilità della misura ablativa è subordinata alla ricorrenza di quattro requisiti [così, (a) LAUDATI, 326; la dottrina dominante preferisce indicarne tre, non ritenendo tale quello della disponibilità diretta o indiretta della res; così, CERASE, 1115].

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Due, ovvero la condanna e la titolarità diretta o per interposta persona dei beni, attengono al soggetto; i rimanenti, vale a dire la sproporzione tra il valore del bene ablando e il reddito e l’incapacità di giustificarne la provenienza, concernono, invece, l’oggetto. Per quanto concerne, in particolare, l’oggetto del provvedimento ablatorio, il legislatore lo ha individuato in maniera estensiva, tramite un elenco tassativo, chiuso da una clausola ad analogia espressa. Nell’elencazione di ciò che può essere colpito dalla misura espropriativa, infatti, ha adottato una formulazione ampia (“denaro”, “beni”, o “altre utilità”), atta ad includere ogni possibile entità materiale o immateriale, suscettibile di valutazione in termini economici [analogamente, Cass., sez. II, 20.5.2009, Casabona, CED n. 2009/35969 che ritiene inclusi fra i beni confiscabili anche i titoli di credito, sia con riferimento alla materiale identità cartolare che ai diritti in essi incorporati o da essi derivanti].

4. La sentenza di condanna. La prima condizione richiesta per l’applicabilità della confisca è la pronuncia di una sentenza di condanna dell’imputato per uno dei delitti elencati nella norma, che, in assenza di esplicite indicazioni, potrà essere emessa a seguito di giudizio ordinario o conseguente al rito abbreviato. Per evitare querelle interpretative, il legislatore ha, invece, esplicitamente fatto menzione alla sentenza di applicazione di pena ex art. 444 c.p.p. [(b) NANULA, 92]. La scelta è stata, però, criticata da alcuni perché in tal modo si consentirebbe la confisca in presenza di una decisione che non contiene un accertamento di colpevolezza, in contrasto con le indicazioni garantiste della sentenza della Corte costituzionale n. 48/1994 [SQUILLACI, 1531; PICCIRILLO, 393]. La soluzione, invece, appare coerente con i più recenti approdi – legislativi e giurisprudenziali – che tendono ad equiparare la pena patteggiata ad una vera e propria condanna [si v. Cass., S.U., 29.11.2005, Diop, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2007, 353, secondo la quale la sentenza di patteggiamento può costituire titolo idoneo per revocare una precedente sospensione condizionale]. La giurisprudenza ha precisato che il patteggiamento può fungere da condizione per la confisca anche se sul punto non vi sia stato accordo fra le parti [così, Cass., sez. III, 19.4.2012, Toseroni, CED 2012/19945, sul presupposto che si tratta, infatti, di una statuizione che prescinde dalla disponibilità delle parti; in senso, però, parzialmente diverso Cass., sez. VI, 11.3.2010, Valente, CED 2010/ 12508] e che non è preclusa l’adozione della misura, in sede esecutiva, dalla sopravvenuta estinzione del reato, ai sensi dell’art. 445 c.p.p. [Cass., sez. V, 21.11. 2001, Aiello, in CED 2001/44900]. Il testuale riferimento alla condanna esclude l’applicabilità della confisca in tutti i casi in cui sia stata pronunciata sentenza di proscioglimento, anche se per -

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estinzione del reato a seguito di maturata prescrizione o di declaratoria di amnistia [posizione assolutamente maggioritaria in giurisprudenza con riferimento a tutti i casi di confisca c.d. obbligatoria; in termini, Cass., S.U., 23.3.1993, Carlea, in Cass. pen., 1993, 1670, con riferimento alla confisca obbligatoria prevista dall’art. 722 c.p. in tema di gioco d’azzardo; Cass., S.U., 10.7.2008, Di Maio, in Cass. pen., 2009, 1392, per il prezzo del reato in materia di corruzione; ex plurimis anche Cass., sez. VI, 9.2.2011, Ferone, in CED 2011/8382; in dottrina, ALESSANDRI, 46; TRAPANI, 4; e, da ultimo, IELO, 1402; nel senso che la confisca può essere adottata quando sia emessa sentenza di non doversi procedere per precedente giudicato, in quanto comunque essa trova fondamento in una sentenza di condanna, Cass., sez. VI, 11.10.2012, Alfiero, in CED 2013/10887]. L’orientamento riferito è stato, però, di recente messo in discussione da una serie di arresti della Suprema Corte che hanno ritenuto applicabile la misura ex art. 12-sexies in presenza di un reato per il quale, dopo la condanna in primo grado, era stata dichiarata in appello la prescrizione; la conclusione viene giustificata sia con la considerazione che il codice di rito riconosce al giudice ampi poteri di accertamento del fatto – ad esempio, quando sia necessario decidere sull’azione civile – anche quando il reato sia prescritto sia ritenendo di interpretare il riferimento alla “condanna” come sinonimo di “accertamento definitivo di responsabilità” [Cass., sez. II, 25.5.2010, Pastore, in Cass. pen., 2011, 989; Cass., sez. II, 5.10.2011, Ciancimino, in CED 2011/39756; in senso critico, MAZZOTTA, 1003 secondo cui l’affermazione sarebbe plausibile in una prospettiva de iure condendo, non avendo, invece, alcun aggancio nella normativa vigente]. Sembra, invece, pacifico che la declaratoria di proscioglimento per morte del reo, precludendo ogni accertamento sulla responsabilità dell’imputato, esclude l’applicabilità della confisca [Cass., sez. I, 17.2.2010, Mele, in CED 2010/17716; Cass., sez. II, 4.10.2013, Coppola, in CED 2013/43776; SCUDIERO, 1284]. Applicando analogicamente le disposizioni previste in materia di irrogazione di misure di prevenzione patrimoniale, una parte della giurisprudenza ha ritenuto legittima l’adozione, in sede esecutiva, della confisca per sproporzione quando il soggetto sia deceduto dopo la condanna, attivando il contraddittorio con gli eredi [Cass., sez. V, 25.1.2008, Doldo, in CED 2008/9576 che esplicitamente fa riferimento all’art. 2-ter legge n. 575/1965 a sostegno dell’affermazione; si veda anche, Cass., sez. VI, 20.5.2008, Ciancimino, in CED 2008/27343 secondo cui gli eredi a seguito della morte della persona condannata con sentenza irrevocabile, non rientrano nella categoria dei “terzi estranei” a cui è riservato il diritto a richiedere la restituzione; in dottrina in senso critico, ritenendo l’orientamento «effetto di una nomogenesi giurisprudenziale», CISTERNA, 2085; in senso problematico, invece, SCUDIERO, 1284].

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5.

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I reati matrice; la non sempre ragionevole tendenza estensiva del legislatore.

Malgrado l’obiettivo della norma fosse stato esplicitamente individuato nel contrasto all’accumulazione dei patrimoni mafiosi, la scelta dei reati matrice – la cui indicazione è da intendersi tassativa ed insuscettibile di estensione analogica [(c), VERGINE, 158; nel senso che la misura in esame non è applicabile nel caso di mero tentativo di uno dei delitti matrice, si v. Cass., sez. II, 23.9.2010, Fasano, in CED 2010/36001; Cass., sez. V, 16.1.2013, Musolino, in CED 2013/ 38988; contra, però, Cass., sez. I, 28.5.2013, Guarnieri, in CED 2013/27189, che ha considerato reato matrice della confisca in esame un tentativo di estorsione] – è apparsa fin dal principio non del tutto coerente con le intenzioni [CELENTANO, 309]. Se appare scontato che nell’elencazione rientrassero le ipotesi associative di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.), quella finalizzata al traffico degli stupefacenti (art. 74 d.p.r. n. 309/1990) e quella finalizzata al contrabbando di tabacchi (art. 295 comma 2 d.p.r. n. 43/1973), forti perplessità desta già l’originario riferimento ad altri reati – cioè, all’estorsione (art. 629 c.p.), al sequestro di persona (art. 630 c.p.), al riciclaggio (art. 648-bis), al reimpiego (art. 648-ter), all’intestazione fittizia di beni ex art. 12-quinquies d.l. n. 306/1992, all’associazione a fini di spaccio di droga e lo spaccio di droga (art. 73 d.p.r. n. 309/1990, ad esclusione del comma 5), ed all’usura (art. 644 c.p.) – che, pur essendo, secondo l’osservazione sociologica, manifestazioni delittuose tipiche delle consorterie mafiose, possono ben essere perpetrati in contesti che nulla hanno a che vedere con queste ultime; se si analizzassero, ad esempio, le statistiche giudiziarie risulterebbe di certo che gran parte delle condanne per riciclaggio si riferiscono al c.d. “taroccamento” di autovetture e non alla “ripulitura” del denaro illecito. Una maggiore coerenza con l’intentio legis avrebbe dovuto indurre a prevedere che queste fattispecie potessero fungere da presupposto della confisca solo se (e quando) commesse avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. o al fine di agevolare le associazioni indicate nel medesimo articolo e, quindi, ricorrendo l’aggravante di cui all’art. 7 della legge n. 203/1991. Ed, invece, la norma contiene si un esplicito riferimento alla finalità e metodi mafiosi (art. 12-sexies comma 2), ma non in un’ottica limitativa; qualunque delitto commesso con quegli scopi e/o modalità può divenire presupposto per la misura ablativa. Scelta quest’ultima che lascia perplessi, perché finisce per consentire la confisca anche per reati che non perseguono finalità né di arricchimento né di lucro (ad esempio, una violenza privata, un omicidio o un favoreggiamento) e rende, quindi, difficile giustificare la presunzione legale di pertinenza fra reati e illiceità del patrimonio, a cui ha fatto cenno la Corte costituzionale. Particolarmente controversa è anche l’inclusione nell’elenco originario della ricettazione (art. 648 c.p., con esclusione dell’ipotesi lieve di cui al capoverso), delitto dal vastissimo ambito applicativo che, raramente, ha attinenza con vi-

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cende di criminalità organizzata di stampo mafioso [SGUBBI, 31]. Negli anni successivi, palesemente in assenza di un fil rouge che armonizzasse i diversi interventi legislativi [secondo (c) VERGINE, 155 la norma in esame è periodicamente sottoposta «a manipolazioni legislative»], il catalogo si è via via arricchito di ulteriori tipologie di delitti che, solo in alcuni casi, possono essere considerati tipici delle organizzazioni mafiose [in termini analoghi, CONTRAFFATTO, 306]; in altri, invece, la scelta di accompagnare all’illecito penale la confisca è sembrata rispondere ad esigenze simboliche, alla volontà di aumentare il carico sanzionatorio nei confronti dell’autore del reato, con il rischio di trasformare la misura di cui ci si occupa in una vera pena patrimoniale. Il primo ampliamento risale al 2001, quando, con l’art. 24 della legge n. 45/2001, si è sancita la confiscabilità dei beni del condannato per i delitti commessi per finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine costituzionale; il legislatore pensava – in un contesto di esplosione mondiale del terrorismo di natura internazionale, spesso cospicuamente finanziato da organismi e stati stranieri – di esportare le stesse logiche di aggressione patrimoniale valide per le associazioni mafiose. Al di là di ogni valutazione di opportunità sulla scelta normativa – che non sembra avere prodotto grandi risultati concreti – resta discutibile la possibilità di adottare la misura ablatoria in presenza della sola aggravante e, quindi anche per reati che non sono funzionali ad accumulare ricchezza. Più corretta è apparsa, invece, l’aggiunta ad opera dell’art. 7 comma 3 della legge n. 228/2003 delle fattispecie di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.), tratta di persone (art. 601 c.p.) ed acquisto ed alienazione di schiavi (art. 602 c.p.) nonché di quella di associazione a delinquere finalizzata a commettere i delitti da ultimo ricordati (art. 416 comma 6 c.p.): tutti fatti di reato collegati al fenomeno della c.d. tratta di esseri umani, commessi di solito da organizzazioni criminali (non necessariamente mafiose), anche straniere, che da questi orrendi crimini traggono enormi profitti. Molte critiche sono venute all’indomani del varo della finanziaria del 2007 (art. 1 comma 220 legge n. 296/2006) che ha reso possibile la confisca in presenza di una serie di reati, riconducibili ad un genus che non ha attinenza diretta con la criminalità organizzata e, cioè, quello dei delitti contro la pubblica amministrazione, in particolare, peculato (art. 314 c.p.), peculato mediante profitto dell’errore altrui (art. 316 c.p.), malversazione a danno dello Stato (art. 316-bis c.p.), indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316-ter c.p.), concussione (art. 317 c.p.), corruzione per atto di ufficio (art. 318 c.p.), corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio (art. 319 c.p.), corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.), corruzione di persona incaricata di pubblico servizio (art. 320 c.p.), istigazione alla corruzione (art. 322 c.p.), reati dei pubblici ufficiali internazionali (art. 322-bis c.p.), utilizzazione di invenzione e scoperte conosciute per ragioni di ufficio (art. 325). Con la recente legge anticorruzione (legge n. 190/2012) e con la scissione dell’originaria fattispecie di concussione in due, è stato aggiunto al catalogo anche il delitto di induzione indebita di cui all’art. 319-bis c.p.

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Spiccano evidenti con riferimento a tale ultima categoria di reati alcune macroscopiche irrazionalità; se è certamente, ad esempio, applicabile la confisca nel caso di istigazione alla corruzione – essendo esplicitamente indicato l’art. 322 c.p. nel “catalogo” – sembrerebbe non esserlo, invece, nei confronti del corruttore nella fattispecie di corruzione consumata per non essere stato espressamente indicato l’art. 321 c.p. [per quest’ultima affermazione, Cass., sez. I, 31.5.2012, Acampora, in CED 2012/2011]; ed il paradosso diventa ancora più evidente se si opera il paragone con la nuova fattispecie di indebita induzione di cui all’art. 319-quater c.p.; in questo caso, infatti, essendo la norma stata prevista fra i reati matrice senza alcuna distinzione fra l’ipotesi del primo e del secondo comma, la confisca sarebbe applicabile sia nei confronti del pubblico agente che induce al pagamento o alla promessa dell’utilità sia nei confronti dell’indotto, soggetto quest’ultimo punito molto meno gravemente del corruttore. La normativa, inoltre, viene considerata da alcuni autori di difficile applicazione concreta; sempre restando alla corruzione, ad esempio, è assolutamente marginale, la possibilità che un funzionario pubblico corrotto ottenga una retribuzione tale da incidere in maniera rilevante sul suo tenore di vita e sulle sue disponibilità economiche [PICCIRILLO, 396]; né si comprenderebbe la sovrapposizione della nuova ipotesi di confisca a quelle già previste negli art. 322-ter e 335-bis c.p., in assenza di indicazione sui rispettivi ambiti di applicazione, soprattutto dopo l’inserimento ad opera della legge n. 190/2012 nella seconda parte dell’art. 322-ter c.p., nel novero dei beni confiscabili, dei beni che costituiscono non solo il prezzo del reato, ma anche il profitto [AQUAROLI, 261; sul punto v. infra]. Con l’art. 15 comma 3 della legge n. 99/2009, fra i reati presupposto sono entrati anche la contraffazione, l’alterazione o l’uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni (art. 473 c.p.), l’introduzione nello stato di prodotti con segni falsi (art. 474 c.p.), la fabbricazione ed il commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale (art. 517-ter c.p.), la contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari (517-quater c.p.), nonché l’associazione a delinquere finalizzata alla commissione dei predetti reati (art. 416 c.p.). Questa ulteriore estensione sembra rispondere più che a logiche di contrasto dell’accumulazione dei patrimoni della criminalità organizzata – che, pure, è spesso attiva nel settore dei falsi – ad una volontà di reprimere più duramente, anche sul piano economico, un settore illegale nel quale l’Italia è sempre apparsa, sul piano internazionale, molto timida. Con l’art. 8 della legge n. 172/2012 (di ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa di Lanzarote, per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale) si sono aggiunti ancora una serie di delitti connessi alle varie forme di sfruttamento sessuale dei minori, sul presupposto che dietro questi fenomeni si nascondono organizzazioni criminali anche transnazionali che possono lucrare enormi introiti; in particolare, la norma si riferisce ai reati di prostituzione minorile, (art. 600-bis c.p., limitatamente, però, al solo comma 1, riferito al reclutamento, all’induzione, al favoreggiamento, allo sfruttamento e gestione

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della prostituzione minorile), pornografia minorile (art. 600-ter c.p., limitatamente ai commi 1 e 2, relativi alla produzione di spettacoli o di materiale pornografico con l’utilizzo dei minori ed alla commercializzazione del medesimo materiale), pornografia virtuale (art. 600-quater comma 1 c.p., relativamente alla condotta di produzione e commercio di materiale pornografico) e iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile (art. 600-quinques c.p.). Non è difficile prevedere che il catalogo possa, in un prossimo futuro, ancora ampliarsi; la direttiva europea allo studio, alla quale sopra si è già fatto cenno, prevede un’ampia categoria di illeciti (in particolare, corruzione fra privati, falsificazione di monete nonché di mezzi di pagamento diversi dai contanti, frode, terrorismo, riciclaggio di denaro, traffico illecito di stupefacenti, attacchi contro i sistemi d’informazione, criminalità organizzata, tratta di esseri umani, abuso sessuale di minore e pornografia minorile) in presenza dei quali possono operare i c.d. poteri di confisca estesi; siccome alcuni di essi non sono annoverati nell’art. 12-sexies, è prevedibile un intervento adeguatore del legislatore.

6. La disponibilità diretta e/o indiretta del bene. I rapporti che devono intercorrere tra il condannato ed i beni astrattamente suscettibili di confisca vengono qualificati dalla norma in termini di “titolarità” o di “disponibilità a qualsiasi titolo”, anche “per interposta persona fisica o giuridica”. In funzione di semplificazione della prova e per evitare manovre elusive del condannato, si è evitato, da parte del legislatore, ogni riferimento ad uno specifico diritto, reale o personale che sia, così come si è evitata ogni ulteriore qualificazione della situazione possessoria, optando per una descrizione sufficientemente elastica nella quale riescono a confluire diverse ipotesi La “titolarita” è, infatti, un concetto onnicomprensivo che non consente a priori alcuna delimitazione, riferibile tanto al diritto di proprietà quanto ai diritti reali; ciò che conta è che il soggetto abbia una posizione che consenta di decidere sulla destinazione e/o sul godimento della cosa; per la portata da attribuire al termine “disponibilità”, invece, ci si può rifare all’elaborazione proposta con riferimento all’art. 2-ter della legge n. 575/1965 (attualmente art. 24 del Codice antimafia, approvato con d.lgs. n. 159/2011), e, quindi, intenderla come situazione di mero fatto, in virtù della quale la persona, pur non essendo giuridicamente titolare di alcun diritto sulla cosa, possa decidere circa il godimento o della destinazione della stessa [POTETTI, 1698; sulla possibilità di utilizzare il concetto di disponibilità valido in materia di prevenzione, si v. Cass., sez. I, 10.2.1993, Sepe, in Cass. pen., 1993, 1298]. La disposizione in esame, a differenza dell’art. 240 c.p., non contiene nessuna clausola che esplicitamente esclude l’applicabilità della confisca per sproporzione su beni appartenenti a terzi. L’omissione legislativa non consente, però, di

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ipotizzare una deroga a quello che appare come un principio generale, espressione diretta della tutela del diritto costituzionale di proprietà [analogamente, Cass., sez. I, 21.11.2007, Upgrade srl Brescia, in CED 2007/45572, che indica il terzo titolare del bene quale avente diritto a far valere la sua posizione con l’incidente di esecuzione]. Il legislatore, del resto, nel corpo dell’art. 12-sexies ammette la aggredibilità dei beni dei terzi (persone fisiche o enti) solo nei casi in cui essi risultino sostanzialmente riconducibili al condannato [nel senso che la confisca può applicarsi anche nei confronti delle persone giuridiche ma solo in quanto intestatarie fittizie e non in via diretta, Cass., sez. I, 05.11.2009, in CED 2010/1116]. Ciò avviene in presenza di una interposizione fittizia, concetto sul cui significato, in astratto, non vi sono particolari questioni ermeneutiche, rientrandovi, infatti, tutte quelle situazioni in cui vi sia una scissione fra apparenza e sostanza, fra cui certamente vi sono le ipotesi di simulazione relativa ed assoluta. Maggiormente problematica in concreto è l’individuazione delle modalità attraverso le quali l’interposizione va provata. Si tratta di una circostanza che necessita di una dimostrazione rigorosa [ex plurimis, SANTORIELLO, 201]; è in gioco la tutela anche delle formalità pubblicitarie, cui la legge ricollega importanti conseguenze giuridiche anche a garanzia di terzi; l’apparenza può lasciare spazio alla sostanza, solo se gli elementi raccolti siano davvero idonei a dimostrare la realtà sottostante. Non appaiono, in questo senso, automaticamente esportabili quelle presunzioni, sia pure relative, previste per la confisca in materia di misure di prevenzione dall’art. 26 del d.lgs n. 59/2011 (già art. 2-ter, commi 13 e 14 della legge n. 575/1965); non basta per giungere alla conclusione opposta, infatti, evidenziare la similitudine tra le due forme ablative; quella del Codice antimafia è una disposizione che si sposa con la peculiarità del procedimento di prevenzione e che stabilendo presunzioni legali in malam partem ha natura eccezionale ed è, di conseguenza, insuscettibile di estensione analogica [cfr. PICCIRILLO, 408, secondo cui gli elementi indicati nel menzionato art. 26 possono valere come meri criteri orientativi]. A conclusioni analoghe giunge anche la giurisprudenza, secondo cui l’accertamento dell’intestazione fittizia deve essere condotto sulla base di fatti concludenti, «senza ricorrere a presunzioni» [da ultimo, Cass., sez. VI, 5.11.2010, Noviello, in CED 2010/42717; Cass., sez. II, 23.3.2011, Tondi, in CED 2011/ 17287; Cass., sez. VI, 28.11.2012, Scognamiglio, in CED 2012/49876]. Alcune applicazioni concrete, però, appaiono improntate a minore rigore garantista; -

come quando si precisa che la prova dell’interposizione può essere data con ogni mezzo, anche utilizzando circostanze sintomatiche di valore indiziario, purché, nel rispetto dell’art. 192 c.p.p., gli indizi si connotino di gravità, precisione e concordanza [Cass., sez. II, 10.1.2008, Catania, in CED 2008/3990] o ancora quando si valorizzano come indizi la scarsa disponibilità economica del terzo, legato da rapporti di parentela con il condannato [Cass., sez. V, 26.5.2011, Papa, in CED 2011/26041, che, sia pure limitatamente al sequestro preventivo, ha ritenuto potesse esse-

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re presunta l’interposizione fittizia a carico del titolare apparente del bene, fratello dell’indagato, in quanto non svolgeva un’attività tale da giustificare la disponibilità della res, in termini analoghi, anche Cass., sez. VI, 4.7.2013, Purpo, in CED 2013/39259].

7.

Il rapporto fra beni da confiscare e reato; la non necessità di un “nesso pertinenziale”.

La confisca, come concepita dall’art. 240 c.p., è una misura di sicurezza patrimoniale irrogabile solo qualora la cosa si ponga rispetto al reato in una relazione qualificata (profitto, prodotto, mezzo attraverso il quale è stato commesso, etc.), che fa presumere – con valutazione effettuata in astratto dal legislatore o in concreto dal giudice, a seconda che la misura sia obbligatoria o facoltativa – una pericolosità intrinseca della res, rendendo la sottrazione al suo titolare funzionale ad evitare la commissione di ulteriori reati [sui caratteri della confisca, si v. MASSA, 981; TRAPANI, 2; FURFARO, 202]. Si tratta di un dato ontologico irrinunciabile per tutti i casi di confisca previsti da norme codicistiche di parte speciale o da leggi speciali [nel senso della necessità di provare il nesso di pertinenzialità anche nei casi di confisca obbligatoria, si v., ex plurimis, Cass., sez. II, 4.3.2005, De Gregorio, in CED 2005/9954]. L’art. 12-sexies tace, invece, sul rapporto che deve intercorrere tra il bene ed il reato. La lettera della disposizione, concentrando la sua attenzione non su una singola res ma su l’intero patrimonio del condannato, che va ad esso sottratto se sproporzionato rispetto al reddito. La confisca in questione, però, se sganciata del tutto dal reato presupposto, sia in termini di proporzione che di prossimità temporale, rischia di dar luogo a conseguenze in concreto difficilmente accettabili sul piano dell’equità. Non sono, del resto, solo casi di scuola quello del sequestro/confisca di un ingente patrimonio, in presenza di un rapporto usurario di limitato valore [Trib. Bari, 20.11.1995, in Cass. pen., 1996, 1629 che ha ritenuto legittimo il sequestro di un certificato di deposito del valore di 2 miliardi di lire a fronte di mutuo usurario dell’importo di 40 milioni di lire] o di beni, entrati nella disponibilità del condannato, anni dopo la commissione del reato presupposto [Trib. Roma, 17.4. 2008, in Giur. merito, 2009, 202 che ha confiscato, in fase esecutiva, una somma di denaro di poco più di ventimila euro, trovata in possesso di un cittadino straniero, condannato per spaccio di droga cinque anni prima]. In questa prospettiva, si spiegano i tentativi di una parte della dottrina e della giurisprudenza che, fin dall’entrata in vigore della norma, ha provato ad individuare un quid – da accertarsi prima della verifica della “sproporzione” dell’“ingiustificata disponibilità” – che ricollegasse l’intervento ablativo sulla res al reato commesso. Più sono state le tesi prospettate. Secondo una prima, la misura ex 12-sexies rientrando nel genus “confisca” non può ontologicamente prescindere da un rapporto di pertinenzialità con il -

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reato; ne deriverebbe che essa potrebbe essere irrogata solo se i beni, comunque, provengano dal delitto [Cass., sez. V, 23.4.2001, Capomasi, in Cass. pen., 2001, 2374 che così motiva: «dal momento che non è certamente consentito confiscare all’autore di qualsiasi reato beni lecitamente acquisiti prima che l’interessato desse inizio all’attività criminosa che gli viene addebitata»; alle stesse conclusioni, anche l’ordinanza con cui la Cassazione ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, e cioè Cass., sez. II, 10.7.2003, Montella, inedita; in termini analoghi, CHIARIELLO, 1633, per il quale è indispensabile un rapporto genetico, nel senso che il cespite colpito dalla misura ablativa deve essere il prodotto, il profitto del reato o quantomeno il mezzo per commettere quel reato o iniziative delittuose analoghe]. Altra tesi – pur ammettendo che il legislatore ha introdotto una sorta di presunzione di illecita accumulazione, senza distinguere se i beni derivino o meno dal reato, per il quale è intervenuta condanna – ritiene sufficiente un nesso di pertinenzialità non con la singola violazione della legge penale ma tra l’intero patrimonio e l’attività delittuosa, complessivamente ascrivibile al condannato [Cass., sez. V, 22.9.1998, Sibio, in Cass. pen., 1999, 3552; in termini analoghi, (b) NANULA, 87, secondo cui la confisca per sproporzione è possibile purché sia basata su ulteriori e più estesi elementi di prova «concernenti il complesso dell’attività delinquenziale del soggetto e la sua persistenza nel reato, in maniera da spiegare l’esistenza di un ragionevole rapporto di causalità con l’accumulo ingiustificato»]. Altra posizione, infine, tenta di circoscrivere la portata del provvedimento ablatorio, in un ambito di ragionevolezza temporale che consenta, anche in via presuntiva, di individuare un collegamento tra i beni ed il fatto criminoso, che non contrasti con la logica ed il buon senso e non comporti una lesione ingiustificata dei diritti individuali di proprietà e di libera iniziativa economica e che, contestualmente, consenta all’imputato l’esercizio del proprio diritto di difesa in ordine alla dimostrazione della legittima acquisizione dei beni [Cass., sez. V, 23.4.1998, Bocca, in Cass. pen., 1999, 3551; Cass., sez. I, 5.2.2001, Di Bella, in Foro it., 2002, II, 263; in dottrina, (a) IZZO, 3423; in termini problematici, (a) VERGINE, 626]. L’orientamento dominante della giurisprudenza, invece, ha sempre negato la necessità di un qualsiasi rapporto di pertinenzialità. Seppure non in termini espliciti, a queste conclusioni, del resto, era già arrivata la Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 18/1996 cit. quando aveva affermato che «il legislatore non irragionevolmente [aveva] ritenuto di presumere l’esistenza di un nesso pertinenziale tra alcune categorie di reati e i beni di cui il condannato non possa giustificare la provenienza»; il medesimo iter argomentativo è stato poi ripreso dalla Cassazione quando ha ritenuto non necessario che «i beni e le altre utilità di cui il condannato per determinati reati non possa giustificare la provenienza, [siano] … derivanti dal reato per cui è stata pronunciata condanna …; [ciò in quanto] il legislatore [ha] posto una presunzione di illecita accumulazione patrimoniale, superabile peraltro attraverso una giustificazione circa la legittimità

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della loro provenienza da parte dei soggetti che hanno la titolarità o la disponibilità dei beni» [Cass., sez. VI, 26.3.1998, Bosetti, in Cass. pen., 1999, 3551; Cass., sez. II, 23.9.1998, Simoni, in Cass. pen., 1999, 3550; Cass., sez. II, 22.2. 1999, Cessana, in Cass. pen., 2000, 1950, Cass., sez. II, 22.10.2001, Del Mistro, in CED 2001/33984; Cass., sez. II, 281.1.2003, Scuto, in Foro. it., 2003, II, 508]. -

8. L’intervento delle Sezioni Unite; il significato della “sproporzione”. Pur in assenza di un vero e proprio contrasto interprativo, sono intervenute sull’argomento le Sezioni Unite [Cass., S.U., 17.12.2003, Montella, in Cass. pen., 2004, 1182], con una decisione che ha provato a delimitare i confini della misura e, restando fedeli alla lettera della norma, ad introdurre alcuni elementi di maggiore garanzia e certezza [FIDELBO, 1197]. Nella lunga e diffusa motivazione, la Corte passa in rassegna tutte le possibili opzioni alternative di cui si è fatto sopra cenno e ritiene non vi siano appigli letterali per individuare un legame di qualsivoglia tipo tra misura e reato presupposto o, comunque, per definire un rapporto temporale tra l’acquisto dei beni ed il tempus commissi delicti. La conclusione è, infatti, tranchant: «l’art. 12 sexies non offre alcuna indicazione positiva in ordine al rapporto che dovrebbe sussistere fra i beni ed il reato specifico e tale circostanza rende vano ogni tentativo di cercare e definire il legame pertienziale» [l'affermazione dell'irrilevanza del nesso pertinenziale è stata più volte ribadita successivamente; in questo senso, ex plurimis, Cass., sez. III, 9.7.2008, Sforza, in CED 2008/38429 e Cass., sez. V, 21.2.2013, in CED 2013/19358].

Nella consapevolezza, però, che tale esito ermeneutico sarebbe apparso insoddisfacente, l’attenzione viene spostata dal nesso reato/confisca al requisito della “sproporzione”, del quale si propone un’esegesi che si discosta dall’opzione giurisprudenziale dominante. Secondo la Suprema Corte, il termine indica non “qualsiasi difformità” ma solo “incongrui squilibri” tra guadagni e capitalizzazioni, da valutarsi secondo le regole della comune esperienza. La sproporzione, cioè, non va riferita al patrimonio, inteso come complesso unitario di beni, ma alla somma di singoli beni. Quella che prima facie potrebbe sembrare una mera precisazione terminologica diventa l’apripista di un’importante affermazione: lo squilibrio va valutato raffrontando il reddito (o le attività) non con tutti i beni esistenti al momento dell’applicazione della misura ma al momento in cui ciascun bene viene acquisito al patrimonio dell’imputato. Il novum ermeneutico si apprezza tenendo presente la precedente prassi, che limitava il confronto fra le disponibilità complessivamente accumulate nel corso degli anni con il reddito/attività del tempo della misura, scaricando sull’interessato una prova contraria, che rischiava di essere una vera probatio diabolica; con il nuovo arresto – ribadito nella giurisprudenza successiva; in questo senso, infatti, ex plurimis, Cass., sez. VI, 26.9.2006, Nettuno, in CED 2007/721; Cass.,

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sez. III, 9.7.2008, Sforza, in CED 2008/38429; Cass., sez. VI, 22.11.2011, Notarangelo, in CED 2011/22020 – il p.m. è onerato di una radiografia patrimoniale approfondita, che leghi l’acquisizione del bene al reddito di quel preciso momento [sui criteri per effettuare il raffronto redditi/patrimonio, secondo PICCIRILLO, 398 bisogna rifarsi alle massime di esperienza, quale potrebbe essere, ad esempio, quella secondo cui bisogna tener conto dei redditi del soggetto non al lordo, ma al netto delle imposizioni fiscali e detratte le spese necessarie per il mantenimento della propria persona e della di lui famiglia; in termini non dissimili, MAUGERI, 327; (b) NANULA, 43]. Dal principio espresso dalle Sezioni Unite sembra potersi ricavare anche un importante corollario, sempre funzionale a delimitare l’area dei beni confiscabili; provata la sproporzione, la confisca non potrà estendersi all’intero patrimonio del reo – come invece sembrerebbe ritenere un orientamento giurisprudenziale; così, Cass., sez. VI, 12.1.2010, Mancin, in Guida dir., 2010, XIII, 88 – ma solo a quella parte che non appaia giustificata, in relazione ai redditi e alle attività del condannato [così, MAUGERI, 327; a conclusioni analoghe, Cass., sez. I, 13.5. 2010, Gentile, in CED 2012/21079, secondo cui è assoggettabile a sequestro e successiva confisca ex art. 12-sexies il bene legittimamente acquistato e migliorato con denaro di provenienza non giustificata, ma soltanto limitatamente alla quota ideale che corrisponde a tale incremento di valore]. L’arresto della Suprema Nomofilachia, in conclusione, rappresenta un importante passo in avanti nel definire meglio i caratteri ed i presupposti della misura, ma lascia insoddisfatti soprattutto nella parte in cui non fornisce alcuna coordinata per individuare un legame, quantomeno temporale, fra beni suscettibili di confisca e reato per il quale è intervenuta la condanna [PICCIRILLO, 400 che ritiene necessario individuare un criterio di ragionevolezza temporale che eviti che un’affermazione di responsabilità si trasformi nel viatico per espropriazioni illimitate; nella giurisprudenza più recente, nel senso che la presunzione di illegittima acquisizione deve essere circoscritta in un ambito di ragionevolezza temporale, si v. Cass., sez. IV, 7.5.2013, D’Ettorre, in CED 2013/35707 e Cass., sez, I, 11.12.2012, Capano, in CED 2013/2634]. La consapevolezza, però, che uno sforzo interpretativo in questa direzione può risultare proficuo alla sola condizione di trovare un aggancio normativo ha spinto, una recente ed autorevole dottrina, a ricercarlo nel sovraordinato diritto comunitario ed in particolare, nel canone di proporzionalità, previsto dall’art. 49, comma terzo, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, secondo cui «l’intensità delle pene non deve essere sproporzionata rispetto al reato». Da questo principio generale «potrebbe discendere una pretesa di rivisitazione ermeneutica dei presupposti/condizioni di applicabilità della confisca, idonea a farle recuperare un rapporto di compatibilità con una dimensione personalistica della sanzione, indirizzata a favorire la realizzazione di “compiti motivanti” ad orientamento preventivo, tarati su ragionevoli standard criminologici di effettività … e [potrebbe] schiudere prospettive di limitazione del campo di -

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estensione della norma, attraverso una consapevole attività di selezione dell’oggetto della verifica probatoria, coincidente con i beni in relazione cronologica col reato contestato» [(b) MAIELLO, 440]. È una prospettiva ermeneutica decisamente interessante e forse proficuamente percorribile già de iure condito ma che dall’emanazione della prossima direttiva comunitaria potrà ricevere ulteriori elementi a sostegno; l’art. 4 relativo ai poteri estesi di confisca – già citato al § 1 – indica, infatti, quale presupposto indispensabile per l’adozione da parte di ogni Stato di tale forma ablativa la necessità di individuare “fatti specifici” che consentano di ritenere «molto più probabile che i beni in questione siano stati ottenuti dal condannato mediante attività criminali analoghe, piuttosto che da attività di altra natura» [nel senso che già la decisione quadro del 24 febbraio 2005,(2005/212/GAI) potrebbe fornire argomenti ermeneutica al giudice per accertare l’esistenza di un qualche nesso di pertinenzialità, MANGIARACINA, 373]. 9. La mancata giustificazione della lecita provenienza dei beni. La sproporzione evidenzia un dato di squilibrio di tipo matematico tra il compendio patrimoniale ed i redditi, necessario, ma da solo non sufficiente a legittimare l’adozione della confisca de qua, richiedendosi, quale ulteriore imprescindibile requisito, che il condannato non sia in grado di giustificare la provenienza della res ablanda [GUALTIERI, 637]. A questo ultimo faceva già riferimento la fattispecie, poi dichiarata incostituzionale, dell’art. 12-quinquies sia pure con una formulazione lievemente diversa; si parlava, infatti, di giustificazione della “legittima provenienza” [POTETTI, 1690, (b) IZZO, 4354, (C) Vergine, 168]. L’abbandono nella nuova formulazione dell’aggettivo qualificativo non può certo intendersi nel senso che possa bastare al condannato, in presenza di una contestazione di sproporzione, spiegare la sola modalità di acquisto del bene, allegando, ad esempio, il contratto di compravendita; sarebbe, infatti, del tutto illogico che a bilanciare la prova della sproporzione possa essere sufficiente una dimostrazione puramente formale di legittimità. In questo senso si è orientata la giurisprudenza che afferma che «… non è sufficiente … sia fornita la prova di un rituale acquisto, essendo necessario che i mezzi impiegati per il relativo negozio derivino da legittime disponibilità finanziarie» [Cass., sez. VI, 26.3.98, Bosetti, in CED 1998/1087; Cass., sez. II, 2.6.1994, Malasisi, in CED 1994/2761; Cass., sez. V, 3.5.2001, Corso, in CED 2001/27656; Cass., S.U., 12.7.2003, Montella, cit.; secondo Cass., sez. II, 4.10.2013, Coppola, in CED 2013/43776 l’allegazione del dell’interessato potrà consistere anche nel dimostrare che il bene sia stato oggetto di donazione]. Maggiormente controversa è, invece, l’individuazione della natura della spiegazione richiesta al condannato. In alcune decisioni non recenti, la giurisprudenza sembrava averla considera-

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ta come un vero e proprio “onere della prova” [Cass., sez. II, 2.6.1994, Malasisi, cit.], così facendo sorgere dubbi sulla stessa legittimità costituzionale della norma, che, sul punto, sarebbe ricaduta nello stesso errore dell’art. 12-quinquies, già censurato dalla Consulta. Successivamente, però, ha meglio definito l’obbligo della parte privata; «la norma di cui si discute non pone un qualificato onere probatorio che, considerati i rapporti cui attiene, dovrebbe essere civilisticamente regolato. Essa si limita a postulare “giustificazioni” e cioè l’allegazione di elementi che, valutati secondo il principio del libero convincimento del giudice, dimostrino una situazione diversa da quella presunta: il che certamente non implica sufficienza di prospettazioni meramente plausibili, ma neppure coincide con un concetto di rigorosa prova» [Cass., sez. VI, 26.3.1998, Bosetti, cit.; Cass., sez. I, 5.2.2001, Di Bella, in Foro it., 2002, II, 263; Cass., sez. II, 2.4.2003, Del Mistro, in CED 2033/20131; Cass., sez. VI, 20.11.2012, Di Marzio, in CED 2012/45700]. Quello che spetta al condannato, in definitiva, è un mero “onere di allegazione”, per soddisfare il quale è sufficiente che la parte trasferisca al giudice un’informazione, laddove, invece, il vero e proprio “onere della prova” richiede oltre alla materiale indicazione anche la conseguente produzione del mezzo di prova. È una soluzione interpretativa che consente di arginare possibili nuove questioni di legittimità costituzionale [in senso favorevole, CONTRAFFATTO, 318] ma che lascia il dubbio che, nell’applicazione pratica, possa trasformarsi in una sorta di truffa delle etichette, soprattutto se le allegazioni difensive del condannato non siano, poi, effettivamente approfondite dal p.m. o dal giudice procedente [in termini non dissimili, SOLA, 11, che evidenzia come l’orientamento della giurisprudenza, al di là delle formule utilizzate, rischi comunque di richiedere al condannato la prova della lecita provenienza del bene; analogamente (c) VERGINE, 170, secondo cui quelli della giurisprudenza sono solo “espedienti interpretativi”]. Ed in questa prospettiva, va rimarcato positivamente un recente arresto giurisprudenziale, secondo cui una volta che la parte abbia fornito gli elementi di giustificazione, il giudice, soprattutto se si tratti di allegazioni precise e puntuali, ha il dovere di prenderle in considerazione e dimostrare l’eventuale inattendibilità dell’assunto difensivo [Cass., sez. V, 30.9.2009, Papa, in Dir. pen. e proc., 2010, 168, con riferimento all’allegazione, da parte del condannato, di una consulenza tecnica contabile].

10.

Alcune questioni controverse su “proporzione” e “ingiustificata disponibilità”.

Sui parametri della sproporzione e dell’assenza di legittima giustificazione, fra le questioni affrontate dalla giurisprudenza, due in particolare meritano di essere oggetto di uno specifico approfondimento.

6.

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La prima riguarda i criteri di ripartizione dell’onere probatorio o di allegazione in caso di intestazione fittizia del bene. Sull’accusa incomberà la necessità di dimostrare, da un lato, la sproporzione fra i beni ed il reddito (o le disponibilità economiche) riferita, però, soltanto a colui che si ritiene essere il titolare effettivo dei beni da espropriare e, dall’altro, l’interposizione fittizia e cioè gli elementi che consentono di ritenere scissa la titolarità formale da quella sostanziale. All’interposto, invece, spetterà l’onere di allegare gli elementi idonei a contestare l’assenza di sproporzione ed eventualmente la legittima e giustificata disponibilità di fatto della res; nessun interesse, invece, gli può essere riconosciuto per affermare l’assenza di un suo qualsivoglia legame con il bene formalmente del terzo [Cass., sez. VI, 26.9.2006, Nettuno, in CED 2007/721; Cass., sez. I, 26.5.2010, Stracuzzi, in CED 2012/24804]. Il titolare presunto apparente dovrà, invece, concentrare la sua difesa esclusivamente per contestare il suo ruolo di fittizio intestatario, senza poter interloquire su sproporzione e/o assenza di legittima giustificazione [Cass., sez. VI, 17.5.2011, Murru, in CED 2011/27172]. La seconda questione riguarda, invece, il parametro di raffronto del patrimonio al fine di accertare la sproporzione e, conseguentemente, quindi i limiti di allegazione difensiva del condannato. Basta per ritenere provata la sproporzione, l’esistenza di uno squilibrio con uno solo dei due termini di paragone, e cioè il “reddito dichiarato ai fini delle imposte dirette” e la “propria attività economica”? E soprattutto, qualora il p.m. sostenga l’esistenza del rapporto di squilibrio in relazione al reddito dichiarato, potrà l’interessato muoversi sulla diversa direttrice di dimostrare la legittima disponibilità, giustificando i proventi come derivanti dall’attività economica? La questione non è affatto solo teorica, in quanto involge la possibilità di giustificare lo squilibrio con i proventi di attività sottratta al fisco e, quindi, derivante da evasione fiscale [LOCATELLI, 8304]. In un primo momento, la giurisprudenza valorizzando la congiunzione “o” – che nel testo è presente fra i due termini di raffronto – aveva considerato le due indicazioni legislative come alternative e non concorrenti [Cass., sez. I, 10.4. 1996, Scarcella, in CED 1996/5202; e Cass., sez. I, 10.6.1994, Moriggi, in CED 1994/2860] e si era posta, di fatto, in continuità con gli arresti che, in materia di confisca di prevenzione, avevano ritenuto che la provenienza del reddito da evasione fiscale non potesse rappresentare una giustificazione idonea a dimostrare la lecita provenienza del bene [Cass., sez. VI, 27.5.2003, Lo Iacono, in CED 2003/36762 secondo cui l’obiettivo perseguito dalla normativa è sottrarre alla disponibilità dell’indiziato di appartenenza a sodalizi mafiosi tutti i beni che siano frutto di attività illecita o ne costituiscono il reimpiego, senza distinguere tra attività di tipo mafioso e non; a queste conclusione, da ultimo anche Cass., sez. I, 17.5.2013, Ferrara, in CED 2013/29204]. Di recente la posizione è mutata e l’argomento che ha consentito il revirement deriva da una diversa lettura del dato testuale e che interpreta la congiun-

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zione “o” in senso copulativo anziché disgiuntivo. Di conseguenza, per valutare la legittima provenienza dei beni è «irrilevante la circostanza che le fonti lecite di produzione del patrimonio siano identificabili, in termini non sproporzionati ad esse, nel reddito dichiarato a fini fiscali, ovvero nel valore delle attività economiche svolte, produttive di reddito imponibile pur nell’assenza o incompletezza di una dichiarazione dei redditi» [Cass., sez. VI, 26.7.2011, Tarabugi, in CED 2011/29926; in termini analoghi si era già espressa Cass., sez. V, 25.9. 2007, Casavola, in CED 2007/39048 secondo cui «… qualora l’imputato dimostri in modo serio la titolarità di un’attività economica che superi di fatto l’immagine reddituale rappresentata al fisco, il giudice deve tenere conto di tale realtà nel suo libero convincimento, anche considerato che la previsione in questione richiede che si tratti di beni di cui l’imputato non possa giustificare la provenienza, con la conseguenza che sulle giustificazioni fornite dall’interessato deve essere fornita puntuale e adeguata motivazione»]. I Supremi giudici sottolineano che la ratio dell’istituto mira a colpire i proventi di attività criminose, non a sanzionare la condotta di infedele dichiarazione dei redditi, che si colloca in un momento successivo rispetto a quello della produzione del reddito e per la quale soccorrono specifiche previsioni in materia tributaria. L’orientamento della giurisprudenza di legittimità, ribadito poi ulteriormente [Cass., sez. VI, 15.12.2011, Barba, in CED 2012/21265; Cass., sez. I, 21.2. 2013, Coniglione, in CED 2013/13245], e favorevolmente accolto in dottrina [secondo, SANTORIELLO, 2002, la decisione si ribella ad una logica eticizzante del diritto penale che utilizza uno strumento sanzionatorio diretto a reprimere fenomeni criminali ben determinati per colpire una condotta diversa; in senso adesivo, anche PERONI, 1209], sembra dare una chance alla necessità di individuare, comunque, un collegamento fra reato e proventi, quantomeno nel senso di permettere al condannato di dare la dimostrazione che il proprio reddito deriva da altra attività illecita, sia pure di natura fiscale [sulla necessità che il condannato dia una prova certa sia sull’an – e cioè sull’esistenza di un’attività illecita ignota – che sul quantum delle risorse derivate dall’evasione, si v. PICCIRILLO, 495]. È presto per capire se questa posizione farà da apripista per una lettura innovativa che possa consentire, ad esempio, di ritenere giustificato l’acquisto di un bene anche nel caso in cui il condannato dimostri che il proprio patrimonio è sì frutto di un reato, ma diverso da quelli matrice dell’art. 12-sexies. -

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11. La natura della misura ablatoria. L’individuazione dello statuto penale, anche costituzionale, da applicare alla misura in esame è questione strettamente connessa alla natura giuridica che le si attribuisce. Il tema – da sempre particolarmente dibattuto – ha rilievo non solo teorico perché a seconda che si ascriva la confisca de qua nell’alveo delle pene

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(fondate, com’è noto, sulla colpevolezza), delle misure di sicurezza (che presuppongono, invece, la pericolosità) o delle misure di prevenzione (provvedimento di polizia ante delictum) muta il referente costituzionale da applicare: l’art. 27 commi 1 e 2 Cost. nel primo caso, l’art. 25 comma 3 Cost. nel secondo e il “regime” di cui all’art. 97 Cost. nell’ultimo [CERASE, 1116]. Nella pletora delle diverse tesi, si può individuare comunque un punto di convergenza: la misura è strutturata dal legislatore come “obbligatoria”; lo dimostra inequivocabilmente l’utilizzo dell’avverbio “sempre”. Ne consegue che, in presenza delle condizioni che la legittimano, il giudice non deve fare alcuna valutazione discrezionale nel disporla (nel senso, però, che la natura obbligatoria non consente l’applicazione della confisca da parte del giudice di appello nel caso in cui la sentenza di primo grado sia stata impugnata solo dall’imputato, Cass., sez. VI, 5.3.2013, Spinelli, in CED 2013/13049). Una parte consistente della dottrina ritiene che la confisca in esame, al di là del nomen iuris utilizzato, ha evidenti connotati di afflittività che impongono di considerarla come una vera e propria pena; ne è riprova la netta cesura tra condotta criminosa ed i beni da sottrarre, l’assoluta irrilevanza della pericolosità del reo, – sia nella fase precedente sia in quella successiva all’applicazione della misura di sicurezza – ed infine la sua irrevocabilità. Ad avvalorare la tesi del carattere sanzionatorio militerebbero anche argomentazioni fondate sul regime processualistico che la correda. Poiché, infatti, la misura in esame può essere disposta anche laddove, sul presupposto della non pericolosità del reo, la condanna sia condizionalmente sospesa, è evidente che le condizioni necessarie alla sua applicazione sono del tutto diverse rispetto a quelle previste per le misure di sicurezza. Analoghe considerazioni possono svolgersi laddove la decisione che la presuppone consista in un patteggiamento della pena [BERNASCONI, 1418; in termini analoghi, MAUGERI, 522, per la quale la misura persegue un fine preventivo solo nei limiti in cui ciò si verifica per un qualunque altro mezzo repressivo; AULETTA, SERPICO, 217, ritengono, invece, che quella in esame debba considerarsi una pena anche alla luce dei parametri indicati dalla Corte Europea di Strasburgo; nel senso che si tratterebbe di una pena si v. anche FURFARO, 211]. Aderire a questa impostazione comporterebbe, però, anche il non facile compito di inquadramento di questa “sanzione” in una delle categorie di pena oggi riconosciute. Configurarla come pena accessoria (scaturente esclusivamente dalla condanna per uno dei delitti previsti dalla stessa norma e mirante ad aggravarne il relativo trattamento sanzionatorio) è strada difficilmente perseguibile; spetta, infatti, tale appellativo a quelle sanzioni finalizzate ad impedire lo svolgimento di attività o di prerogative legittime di cui il reo abbia abusato, laddove nell’ipotesi in discussione la misura consiste nella separazione del reo dalla titolarità di beni di cui si suppone l’origine e/o la destinazione illecita [(b) FORNARI, 66; (a) VERGINE, 392; SCUDIERO, 1278, CONTRAFFATTO, 303]. Di qui la classificazione ora in termini di pena pecuniaria [(b) FORNARI, 68] – difficile, però, da sostenere quando la confisca ricade su res diverse dal denaro – ora, persino, di pena sui generis, una sorta, cioè, di sanzione svincolata da un fatto di

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reato [SGUBBI, 30; per ABBAGNANO, TRIONE, 437, quella in esame è una sanzione penale di carattere patrimoniale]. Sono proprio le evidenziate difficoltà di incasellarla in un tipo che dimostrano quanto sia insoddisfacente il tentativo di considerare quella in discussione una pena. Altra parte della dottrina evidenzia, come per i suoi caratteri e per la sua funzione, la confisca allargata appaia molto simile a quella irrogata a seguito del procedimento di prevenzione e la accomuna sostanzialmente a quest’ultima [sia pure con diverse sfaccettature, FOSCHINI, 200; MOCCIA, 735; SFORZA, 1001; PICCIOTTO, 209 secondo il quale la misura, privando il condannato di un bene sul presupposto che esso sia di provenienza illecita o sia il frutto di reati non ancora accertati dall’autorità, è finalizzata a contrastare e a far desistere l’interessato dal commettere ulteriori reati: attività di prevenzione, dunque, fondata sul sospetto e non su fatti e circostanze concrete; in giurisprudenza, cfr. Trib. Lecce, 27.3.1997, inedita]. Gli indiscutibili aspetti di analogia tra le due fattispecie non possono poi far dimenticare un dato insuperabile; la condanna è indispensabile presupposto solo della confisca ex 12-sexies, potendosene del tutto prescindere nel caso di misure di prevenzione. I caratteri ambigui della fattispecie hanno portato qualcuno a riconoscerle una funzione polivalente; racchiuderebbe in sé sia i caratteri della misura di sicurezza che quelli della pena [CERASE, 1116]. La giurisprudenza – pur non mancando in alcuni casi di rimarcare le peculiarità della misura e, persino, le sue affinità con l’omologa figura prevista in tema di prevenzione [nella motivazione di Cass., S.U., 27.3.2008, Fisia impianti, in Cass. pen., 2008, 4544, distinguendola dalla figura della confisca per equivalente indica quella in esame come avente caratteri comuni con quella di prevenzione e parla di «natura ambigua sospesa fra funzione specialpreventiva e vero e proprio intento punitivo»] – in assoluta maggioranza propende per la natura di misura di sicurezza, sia pure precisando che essa è atipica e che persegue una funzione anche dissuasiva [Cass., S.U., 17.7.2001, Derouach, in Riv. pen., 2001, 718; Cass., S.U., 17.12.2003, Montella, cit.; più di recente, Cass., sez. VI, 11.10. 2012, Alfiero, in CED 2013/10887; (a) VERGINE, 392; ARDITURO, CIOFFI, 752; CONTRAFFATTO, 304]. È quest’ultima la tesi che, sia pure con non pochi dubbi, appare quella preferibile e non solo per il nomen scelto dal legislatore. La confisca in esame ha certamente caratteri innegabilmente peculiari, perché in essa emergono evidenti aspetti di natura punitiva; in questo senso, però, essa non appare molto dissimile rispetto a tante altre forme di confisca di cui è ormai costellato il codice penale e le leggi speciali; e non è un caso che anche sulla natura della confisca in generale e sull’assimilabilità di essa alle misure di sicurezza è ormai aperto un annoso (e, ad oggi, improduttivo) dibattito [sulle difficoltà di individuare una natura unitaria persino per la confisca di cui all’art. 240 c.p. si v. FURFARO, 211]. L’assenza, poi, di qualsivoglia legame pertinenziale tra cose e reato, così come richiesto dall’art. 240 c.p., nemmeno appare un elemento dirimente; nella -

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struttura della misura in esame la pericolosità della res viene sostituita da altri parametri che, da questo punto di vista, non sono meno significativi. Bisogna, forse, prendere atto che è la categoria delle misure di sicurezza patrimoniali in generale – di cui, è bene ricordarlo, fa parte oltre che la confisca, la ormai desueta cauzione – che richiederebbe di essere rivista e aggiornata; il legislatore dovrebbe avvertire come suo compito ineludibile una diversa sistemazione delle misure patrimoniali, che ponga attenzione al carattere di afflittività di queste, uguale e spesso maggiore delle pene tradizionali, prevedendo uno statuto di garanzie comuni. Dalla natura di misura di sicurezza patrimoniale, la giurisprudenza fa, ad esempio, conseguire come effetto la sua applicabilità anche a beni acquisiti in un momento in cui il reato non era ancora previsto fra quelli per i quali è divenuto successivamente applicabile l’art. 12-sexies; ciò proprio perché non opera il principio di irretroattività della legge penale di cui all’art. 2 c.p. proprio delle pene, ma quello della legge vigente al momento della decisione, fissato dall’art. 200 c.p. [così, Cass., sez. VI, 6.3.2009, Nobis, in CED 2009/25096 con riferimento alla confisca di beni immobili in conseguenza della condanna per corruzione; analogamente Cass., sez. I, 24.10.2012, Ascone, in CED 2012/44532, secondo cui la confisca in esame è applicabile anche nei confronti di chi sia stato condannato per reati commessi prima dell’entrata in vigore della norma che la disciplina, non essendo essa soggetta al principio di irretroattività della norma penale ma alla disposizione di cui all’art. 200 c.p. alla quale fa rinvio l’art. 236 c.p. e non integrando tale interpretazione una violazione dell’art. 7 CEDU.]. È una statuizione formalmente coerente con l’impostazione prescelta, ma che non può non lasciare perplessi non solo sul piano dell’equità ma anche della ragionevolezza complessiva del sistema; una pena pecuniaria di pochi euro non potrebbe mai essere applicata retroattivamente, una confisca, capace di incidere anche su di un intero patrimonio, può abbattersi su beni acquistati anni prima, rispetto alla commissione di un reato che rappresenta, comunque, il suo presupposto. 12. Il procedimento per l’applicazione. Sulle modalità attraverso le quali la confisca per sproporzione può essere irrogata, l’art. 12-sexies non spende neanche un rigo, rimettendo completamente all’interprete l’individuazione delle coordinate normative applicabili. Conseguendo ad una condanna, così come accade per tutte le ipotesi di confisca, la sedes principale per la irrogazione è da ritenersi lo stesso giudizio di merito – celebrato con rito ordinario o speciale – nel quale si tratta del reatomatrice. Alcuni commentatori, pur non contestando l’affermazione astratta, rilevano come mal si presti a valutare i presupposti della sproporzione e della mancanza

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di lecite giustificazioni un processo su cui già grava il peso di accertare la colpevolezza dell’imputato [(a) MAZZA, 31; FOSCHINI, 197; contra, invece, FURFARO, 213 per la quale solo il processo di merito può garantire un vero diritto al contraddittorio]. Qualora della confisca si discuta nel processo di merito, ci si chiede se e come l’imputato debba essere informato dei fatti che potrebbero, all’esito della condanna, giustificare l’ablazione dei suoi beni. Secondo la dottrina, sarebbe necessaria, per consentire un’adeguata difesa, la contestazione specifica degli elementi sui quali si fondano i presupposti legittimanti la confisca; un vero e proprio capo di imputazione, cioè, autonomo, da aggiungersi a quello indicante il fatto-reato per il quale si procede [FOSCHINI, 198; SGUBBI, 32]. In realtà, di un’imputazione ad hoc può certamente farsi a meno quando la confisca sia stata preceduta dal sequestro preventivo, provvedimento nella cui motivazione vengono indicate le ragioni per le quali il provvedimento viene adottato e le relative fonti di prova. Resta, invece, l’esigenza di tutela quando – come tutt’altro di infrequente accade, visto che nessuna norma impone un previo sequestro [Cass., sez. II, 29.1.2008, De Blasio, in CED 2008/6383; Cass., sez. III, 23.1.2013, Buzi, in CED 2013/7079] – la misura definitiva non sia preceduta da quella cautelare. La Cassazione, nell’unica occasione in cui ha affrontato la questione, in modo sbrigativo si è limitata ad evidenziare, da un lato, come l’omissione del previo provvedimento di sequestro non viola l’art. 111 della Costituzione – sotto il profilo dell’obbligo di informare l’accusato, nel più breve tempo possibile, della natura e dei motivi della accusa sollevata a suo carico – e, dall’altro, come l’obbligo di informazione possa ritenersi soddisfatto con la sola formulazione dell’imputazione [Cass., sez. V, 21.11.2001, Aiello, in CED 2001/44900]. Siccome la norma non richiede affatto la contestualità tra confisca e condanna, la misura potrà essere inflitta anche in fase esecutiva, a condizione, però, che su questo aspetto non si sia già pronunciato il giudice della cognizione. In passato, si era dubitato di tale possibilità, ritenendosi l’accertamento dei presupposti della misura ex art. 12-sexies potere esclusivo del giudice del dibattimento [Cass., sez. IV, 8.7.1997, Montenegro, in Arch. n. proc. pen., 1998, 631; Cass., sez. IV, 8.7.1997, Caracciolo, in Cass. pen., 1999, 640]. Da anni, però, si è consolidato, anche grazie all’intervento delle sezioni unite, l’opposto orientamento; non vi è alcun ostacolo normativo a tale possibilità; l’art. 676 c.p.p., infatti, nell’attribuire al giudice dell’esecuzione la competenza a decidere in materia di confisca non consente di operare alcuna distinzione fra la misura ablatoria prevista dal codice penale e quella delle leggi speciali. Questa opzione, inoltre, non sembra entrare in tensione né con la tutela del diritto di difesa – essendo riconosciuta al condannato la possibilità di esplicare tutte le sue ragioni in contraddittorio – né tantomeno con quella del doppio grado di giurisdizione, che è una regola non costituzionalmente obbligata [Cass., S.U., 30.5.2001, Derouach, cit.; successivamente Cass., sez. IV, 10.1.2002, Amelio, in Riv. pen., 2002, 472;

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Cass., sez. I, 9.3.2007, Billeci, in CED 2007/22752; in dottrina, adesivamente, INZERILLO, 1466; (b) DI LENA, 1215]. Il giudice dell’esecuzione potrà decidere de plano, sulla base della richiesta e degli elementi proposti dal p.m. [nel senso, però, che la confisca caratterizzandosi come obbligatoria potrebbe prescindere dalle richieste del p.m. ed essere disposta anche d’ufficio, Cass., sez. III, 14.2.2013, Onorato, in CED 2003/ 18070; secondo Cass., sez. I, 12.2.2013, Morabito, in CED 2013/19998 il giudice potrebbe disporla anche se il p.m. avesse richiesto solo il sequestro]; trattandosi di una procedura meno garantita, essa sarà preferibile soprattutto tendenzialmente quando i dati da valutare siano già emersi dagli accertamenti contenuti nei provvedimenti definitivi di merito [Cass., sez. VI, 20.5.2008, Ciancimino, in CED 2008/27343]. Contro la decisione, p.m. e condannato potranno poi proporre opposizione, all’esito della quale verrà fissata udienza camerale a contraddittorio pieno, ex art. 666 c.p.p., e il provvedimento adottato sarà ricorribile per Cassazione. Il giudice, però, potrà direttamente fissare udienza camerale, evenienza quest’ultima preferibile quando gli elementi addotti dal p.m. siano complessi e paia opportuno acquisire da subito le ragioni del condannato in ordine agli eventuali elementi in suo possesso che giustifichino la provenienza dei beni confiscandi [nel senso che la procedura camerale dovrebbe essere la regola, per evitare che la confisca venga adottata, sia pure provvisoriamente, in assenza del presupposto della “mancanza di giustificazioni”, si veda (b), MAZZA, 3289; a conclusioni analoghe, FOSCHINI, 199]. -

13. La tutela del terzo estraneo. La confisca può colpire oltre che i beni del condannato anche quelli altrui. Può capitare, in primo luogo, che in sede di irrogazione della misura ablativa non siano emersi i diritti ed i titoli che sulla res vantava un terzo. È una situazione analoga a quella che può verificarsi per ogni genere di confisca, tanto che nel codice Rocco è esplicitamente prevista l’inapplicabilità delle norme dell’art. 240 c.p. «se la cosa appartiene a persona estranea al reato» (riferimento contenuto nei commi 2 e 3). Sul concetto di “persona estranea” si è consolidata un’elaborazione giurisprudenziale che appare opportuno richiamare, sia pure solo per brevi cenni. Costui – che può essere anche una persona giuridica [Cass., sez. I, 9.7.2004, Ambrono, in CED 2005/1927] – per essere considerato estraneo deve essere in buona fede, vuoi perché non ha in alcun modo partecipato al reato, vuoi perché non ha da esso ricavato profitti, vuoi, infine, perché non ha tenuto comportamenti negligenti che hanno favorito l’uso indebito della cosa [Cass., sez. I, 14.10.1992, Tassinari, in CED 1992/11173; Cass., sez. III, 27.11.2007, Familio, in CED 2008/2024; sia pure con riferimento alla confisca in sede di misure di pre-

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venzione antimafia, in senso critico sulla tendenza della giurisprudenza a valorizzare elementi che possano far ritenere il terzo negligente, (b) CISTERNA, 85]. Graverà su di lui l’onere di provare tale sua condizione psicologica di buona fede [Cass., sez. VI, 8.7.2004, Sulika, in CED 2004/37888]. Processualmente, potrà agire attivando incidente di esecuzione per richiedere la restituzione, indicando in quella sede le ragioni della sua estraneità; il giudice provvederà de plano e contro la sua decisione sarà possibile opporsi, ottenendo la fissazione di udienza camerale a contraddittorio pieno [Cass., sez. I, 11.11.2011, Lazzoi, in CED 2011/47312]. Le regole indicate, che sicuramente apprestano al terzo una tutela comunque limitata sono certamente applicabili anche all’ipotesi di confisca allargata. In questo senso è orientata la Cassazione quando, ad esempio, ha ritenuto legittimata a richiedere la restituzione del bene confiscato ex art. 12-sexies la società concedente nel contratto di leasing, che aveva dimostrato la sua buona fede [Cass., sez. I, 7.7.2010, Fortis lease, in Giur. it., 2011, 917; NAPOLITANO, 918] o quando ha ritenuto che il titolare di un diritto di ipoteca non potesse far valere il suo titolo, se in malafede [Cass., sez. I, 29.4.2010, Agenzia del Demanio, in CED 2010/29378] o quando ha genericamente affermato che i terzi estranei al procedimento possono proporre incidente di esecuzione per far valere i propri diritti sul bene oggetto di ablazione a condizione che versino in buona fede e che abbiano trascritto il loro titolo anteriormente al sequestro [Cass., sez. I, 30.5.2013, Calì, in CED 2013/27201]. È terzo, però, rispetto alla confisca anche l’intestatario formale di quel bene che si ritiene nella disponibilità effettiva del condannato. Costui avrebbe tutto l’interesse ad interloquire già nel processo (sia quello di merito che quello in executivis), in cui si discute dei “suoi” beni, ma nel rito penale non è ammesso l’intervento di soggetti diversi dalle parti processuali, a differenza di quello di prevenzione, dove la partecipazione dell’extraneus è espressamente regolata (oggi dall’art. 23 d.lgs n. 159/2011 e precedentemente dall’art. 2-ter legge n. 575/1965). È stata la giurisprudenza che si è assunta l’onere, in assenza di indicazioni legislative, di individuare diritti e facoltà del terzo. Così, qualora sia stato preventivamente disposto il sequestro preventivo, gli riconosce il titolo a proporre riesame o appello cautelare [Cass., sez. VI, 17.5. 2011, Murru, cit.; Cass., sez. VI, 20.12.2011, Malgieri, in CED 2012/11804]; ma in quella fase – come si dirà infra – l’oggetto del contendere è solo il fumus boni iuris. Una volta intervenuta la confisca, vi sia stato o meno un precedente sequestro, gli concede di attivare il medesimo rimedio sopra delineato; richiedere, cioè, la restituzione al giudice dell’esecuzione, opporsi contro l’eventuale diniego, attivando la procedura camerale a contraddittorio pieno, e poi, eventualmente, ricorrere in Cassazione [Cass., sez. I, 20.2.2007, Torcasio, in CED 2077/ 26021; Cass., sez. I, 21.2.2008, Marchitelli, in CED 2008/14928 e da ultimo, Cass., sez. I, 19.7.2012, n. 34464, Bimbola, inedita].

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Le prerogative pretorie concesse al terzo appaiono, comunque, insufficienti ed inidonee a tutelare il suo diritto di difesa [(b) MAIELLO, 439]. La comminatoria della confisca presuppone, infatti, che il giudice abbia ritenuto provata l’interposizione fittizia, con una pronuncia definitiva, nei confronti della quale l’extraneus dovrà muovere le sue contestazioni e sarà costretto a farlo su un materiale probatorio, formatosi senza che vi sia stata una sua reale interlocuzione [sull’utilizzabilità nei confronti del terzo di queste prove, si v. Cass., sez. I, 5.5.2011, Puddu, in CED 2011/22860; Cass., sez. I, 5.6.2013, Agenzia Anad, in CED 2013/30319]; e bilancia solo in parte questo squilibrio la possibilità di chiedere l’acquisizione di elementi ritenuti utili per dimostrare il suo buon diritto [Cass., sez. I, 21.2.2008, Marchitelli, cit.].

14. Il sequestro preventivo. Il comma 4 dell’art. 12-sexies consente l’adozione del sequestro preventivo, rinviando genericamente, quanto ai presupposti, al capoverso dell’art. 321 c.p.p. (testualmente, «in applicazione dell’art. 321, comma 2, c.p.p.»). Nell’ipotesi da ultimo indicata, la cautela reale richiede, oltre che una prospettiva di condanna, l’esistenza di un nesso pertinenziale, capace di colorare in termini di pericolosità il bene su cui essa deve poi cadere. Nella fattispecie in esame, invece, l’elemento che caratterizza la pericolosità ruota tutto intorno alla condanna per uno dei reati matrice che fanno ritenere, per presunzione legislativa, illecita l’accumulazione di una ricchezza sproporzionata alle proprie possibilità. Questa specificità, evidenziata fin dall’entrata in vigore del 12-sexies da una parte della dottrina [(a) IZZO, 3423] era stata segnalata anche nell’eccezione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere sopra riferita. Veniva, infatti, paventato come la misura, comunque fortemente limitativa del diritto di proprietà, rischiava di essere emessa oltre che in assenza del presupposto più importante, e cioè la condanna, accontentandosi di un quoziente probatorio non rassicurante. Si è già accennato di come la Consulta abbia lapidariamente respinto l’eccezione, perdendo forse l’occasione, quantomeno, di un monito alla giurisprudenza futura, con cui tracciare la strada di ciò che avrebbe dovuto sostanziare il fumus boni iuris. Si sarebbe, infatti, potuto bilanciare l’irrilevanza del legame pertinenziale con una prospettiva molto più solida, e cioè in termini di probabilità di una futura condanna; una gravità indiziaria, quindi, simile a quella richiesta, ex art. 273 c.p.p., per le misure personali [FIDELBO, 1199]. La giurisprudenza, dal canto suo, non sembra essersi fatta particolarmente carico del problema. Ha, infatti, scartato la tesi più garantista, sostenuta in qualche sporadico arresto, secondo cui sarebbe stata «necessaria non solo una verifica puntuale e coerente delle risultanze processuali in base alle quali vengono in

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concreto ritenuti esistenti il reato configurato e la conseguente possibilità di ricondurre alla figura astratta la fattispecie concreta, ma anche la plausibilità di un giudizio prognostico alla luce del quale appaia probabile la condanna dell’imputato per uno dei delitti elencati nel citato articolo» [Cass., sez. I, 16.12. 2003, Marzocchella, in Cass pen., 2004, 1235; in termini non dissimili, però, di recente, Cass., sez. VI, 2.7.2012, Gabriele, in Cass. pen., 2013, 224 secondo cui ai fini dell’individuazione del fumus boni iuris è necessario che il giudice dimostri, nella motivazione del provvedimento, la congruenza dell’ipotesi di reato prospettata rispetto ai fatti cui si riferisce la misura cautelare], ma ha anche respinto quella speculare, più rigorosa, secondo cui sarebbe bastata la sola generica astratta configurabilità del reato [Cass., sez. I, 19.1.1999, Fedele, in CED 1999/469]. Ha fatto, invece, propria la posizione già elaborata con riferimento all’art. 321 comma 2 c.p.p., tanto da considerare sufficiente «l’astratta configurabilità, nel fatto attribuito all’indagato e in relazione alle concrete circostanze indicate dal P.M., di una delle ipotesi criminose previste dalle norme citate» [Cass., S.U., 17.12.2003, Montella, cit.; in termini, ex plurimis, Cass., sez. V, 24.3.2009, Salvatore, in CED 2009/20818; Cass., sez. V, 26.1.20120, De Stefani, in CED 2010/18078]. Con riferimento al periculum in mora, ha considerato indispensabile la «presenza di seri indizi di esistenza delle medesime condizioni che legittimano la confisca, sia per ciò che riguarda la sproporzione del valore dei beni rispetto al reddito o alle attività economiche del soggetto, sia per ciò che attiene alla mancata giustificazione della lecita provenienza dei beni stessi» [Cass., S.U., 17.12. 2003, Montella, cit.]. Una volta disposto il sequestro, non c’è un termine perentorio entro il quale deve intervenire la confisca; la norma dell’art. 2-ter della legge n. 575/1967 che prevede scansioni temporali perentorie per passare dal sequestro di prevenzione all’espropriazione definitiva non può essere applicata analogicamente nel procedimento in esame, strutturalmente e funzionalmente diverso [Cass., sez. I, 13.5.2008, Esposito, cit., che ha anche respinto la relativa eccezione di legittimità, per ingiustificata disparità di trattamento] con la conseguenza che la misura può avere una lunga durata specialmente quando il processo, nell’ambito del quale è disposto, riguarda fatti di criminalità organizzata. Essendo stato riconosciuto al giudice dell’esecuzione il potere di disporre la confisca, ci si è chiesti se questi potesse anche, nelle more della decisione, emettere la cautela reale, visto fra l’altro che una delle condizioni dell’art. 12-sexies si è già avverata con la sentenza di condanna. Una parte minoritaria della giurisprudenza aveva risposto negativamente alla domanda; l’art. 321 c.p.p. statuisce, infatti, che il sequestro può essere adottato dal «giudice competente a pronunciarsi nel merito», e cioè quello chiamato a decidere sull’imputazione [Cass., sez. VI, 7.7.1999, Aiello, in CED 1999/2667; Cass., sez. VI, 8.6.2005, Laera, in CED 2005/27613]. L’orientamento dominante successivamente impostosi, però, ha escluso che la lettera della norma sia un ostacolo; quel riferimento può ben essere letto co-

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me giudice chiamato a pronunciarsi nel merito della richiesta di confisca [Cass., sez. V, 18.9.1997, Cavallari, in Arch. n. proc. pen., 1998, 77; Cass., sez. IV, 18.3. 2003, Guzzanti, in CED 2003/23165; Cass., sez. II, 3.12.2003, Ballarin, in Arch. n. proc. pen., 2004, 204; Cass., sez. VI; 2.5.2005, Morabito, in CED 2005/22694; Cass., sez. I, 30.9.2005, Focà, in CED 2005/38589]. In questo caso, il provvedimento di sequestro va adottato de plano e contro di esso è possibile esperire opposizione, attivando incidente di esecuzione [Cass., sez. I, 4.2.2009, Carelli, in CED 2009/6932; Cass., sez. VI, 17.12.2011, Chafik, in CED 2012/5018]. Per quanto riguarda l’esecuzione del sequestro preventivo, in passato il dubbio interpretativo più significativo aveva riguardato la trascrivibilità della misura, laddove essa fosse ricaduta su immobili o mobili registrati, nei rispettivi registri di pubblicità legale; ciò in quanto tale regime di pubblicità non era ritenuto applicabile alle misure cautelari di cui all’art. 321 c.p.p. [(a) CANTONE, 3064]. Una parte della giurisprudenza aveva, comunque, ammesso la trascrivibilità del sequestro, ritenendo che il rinvio contenuto nell’art. 12-sexies alle regole applicabili in materia di amministrazione e gestione dei beni sottoposti a sequestro di prevenzione (v. infra) consentisse di esportare anche quella che impone la pubblicità nei registri immobiliari [Cass., sez. VI, 27.11.2000, Palini, in CED 2011/3028]; per altra, invece, quel rinvio, da intendersi limitato alle sole norme in materia di amministrazione e gestione dei beni, non riguardava il regime di pubblicità [Cass., sez. VI, 18.1.2001, Masolini, in D&G, 2001, V, 43]. Con l’intervento dell’art. 2 comma 9 lett. a) della legge n. 64/2009 il problema è stato risolto ex lege; è stato, infatti, modificato l’art. 104 disp att. c.p.p. e prevista la trascrivibilità dei sequestri preventivi di cui all’art. 321 c.p.p. aventi ad oggetto immobili e mobili registrati; con la stessa legge si è poi modificato la normativa relativa ai sequestri in materia di prevenzione; questi ultimi si eseguono con il rispetto delle regole previste dall’art. 104 disp. att. È, quindi, divenuto sovrapponibile il regime di esecuzione delle due forme di sequestro. -

15. I rapporti con le altre forme di confisca penale. Il tema dei rapporti tra le diverse ipotesi di confisca che potrebbero scaturire dalla commissione di uno dei reati indicati nel catalogo di cui all’art. 12-sexies è stato affrontato in dottrina e solo di recente sfiorato dalla giurisprudenza, con poco più che un obiter dictum [ci si riferisce a Cass., sez. VI, 12.7.2012, Gabriele, in Cass. pen., 2013, 224 su cui v. infra]. Una condanna per associazione mafiosa, ad esempio, potrebbe giustificare, oltre a quella in esame, anche la confisca obbligatoria prevista dall’art. 416-bis comma 7 c.p.? Identica domanda potrebbe porsi per le altre fattispecie per le quali la misura ablativa potrebbe derivare dall’applicazione dell’art. 240 c.p. Nella maggioranza dei casi, la confisca per sproporzione assorbirà di fatto l’altra possibile.

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Per restare al caso del delitto di cui all’art. 416-bis c.p., il profitto del reato, ad esempio, è qualcosa per la quale è esclusa in radice la possibilità di una giustificazione della provenienza lecita, risultando certa la sua illiceità; esso sarà, quindi, acquisibile al patrimonio statuale ex art. 12-sexies. E tendenzialmente analogo discorso potrà farsi per le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato o che ne costituiscono il prezzo etc. Non si può escludere, però, che, in casi sia pure marginali e teorici, possano non ricorrere i presupposti per applicare l’art. 12-sexies, mentre quest’ultima disposizione possa proficuamente irrogarsi per l’ablazione di altri beni del condannato. Si pensi al caso di una res utilizzata per commettere il delitto ma acquistata con dimostrati proventi leciti o, ad esempio, ricevuta in eredità. In questo caso sarà possibile applicare la confisca ex art. 240 c.p. per questo bene, ed, invece, quella ex art. 12-sexies per gli altri cespiti patrimoniali sproporzionati e non giustificati? In dottrina, si è dubitato della legittimità della possibilità di concorrenza delle due figure, ritenendosi violato il principio del ne bis in idem sostanziale [ACQUAROLI, 256, considerazione, però, proposta per la confisca per equivalente]. L’obiezione non appare, però, convincente; in primo luogo il principio del ne bis in idem non è normativamente previsto ma viene individuato dalla dottrina come criterio per temperare le conseguenze del concorso di reati (e, quindi, delle pene) in aggiunta alla regola della specialità. Ciò che rende legittima una pena e/o una misura di sicurezza è il rispetto del principio di legalità e se fra le misure e/o pene ricorrerà un rapporto di specialità, soccorrerà l’art. 15 c.p. Quanto, poi, al paventato rischio di un eccessivo sovraccarico di sanzioni sul condannato, non sarebbe quella di cui si discute un’eccezione; normalmente accade che dalla commissione di un delitto derivino conseguenze ulteriori oltre la pena e cioè misure di sicurezza, pene accessorie, limitazioni al diritto di voto, iscrizioni nel certificato penale, ecc. Non c’è, in definitiva, ragione alcuna per ritenere giuridicamente incompatibile il concorso materiale delle due confische, con riferimento a beni diversi ed in presenza di presupposti diversi. Né a conclusione diversa sembrerebbe doversi giungere nel caso in cui la confisca che concorra sia quella c.d. per equivalente, istituto di recente comparso nel sistema penale, su stimolo della legislazione sopranazionale. Con quella locuzione si intende riferirsi ad una misura che consente di espropriare somme di denaro, beni o altre utilità in misura proporzionale al prezzo o al profitto del reato, in assenza di qualsiasi rapporto di pertinenzialità tra beni appresi e fatto illecito cui si riferisce la sentenza di condanna, a condizione della mancata individuazione ed apprensione di quelle cose che fisicamente costituiscono il prezzo o il profitto del reato. Ad essa si tende a riconoscere funzione sanzionatoria, perché prescinde da qualsivoglia valutazione di pericolosità [proprio da tale considerazione deriva il suo carattere di irretroattività; così, ex plurimis, Cass., sez. III, 24.9.2008, Tiraboschi, in CED 2008/39178]. Il legislatore, nella prima ipotesi in cui ha previsto in astratto l’applicabilità

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di entrambe, ha, molto opportunamente, indicato come risolvere il problema. Nel delitto di usura, in cui quella per equivalente è stata introdotta nel comma 6 dell’art. 644 c.p. dalla legge n. 108/1996, questa stessa legge ha testualmente statuito anche che «sono fatte salve le disposizioni contenute nell’articolo 12sexies» (art. 6) e, quindi, ha sancito la possibilità di una doppia irrogazione [in dottrina, però, la sovrapposizione delle misure viene considerata nei fatti apparente; un diverso impianto criminologico sottostante le fattispecie giustificherebbe due ambiti di operatività; la norma sulla confisca per equivalente sarebbe applicabile nei casi in cui l’usura sia riconducibile ad un contesto di impresa lecita, lì dove la complessità dei rapporti economici finirebbe per rendere difficoltoso non solo l’emergere ma la stessa esistenza del requisito della sproporzione di cui all’art. 12-sexies; a questa ultima norma si ricorrerà, in tutti gli altri casi in cui il reato sia connesso a fenomeni di impresa illecita; così, ACQUAROLI, 256; PICCIRILLO, 394]. Negli altri casi, invece, di contestuale previsione delle due confische (reati contro la pubblica amministrazione in cui la confisca per equivalente è prevista dall’art. 322-ter c.p. e riciclaggio e reimpiego in cui essa è prevista dall’art. 648quater c.p.), non soccorrono indicazioni esplicite. La scelta, però, fatta in materia di usura dimostra che le due forme espropriative non sono incompatibili ontologicamente e possono, quindi, concorrere [BONO, 228]; esse inoltre sono diverse per natura e presupposti ed hanno ambiti di applicabilità che non necessariamente si sovrappongono [a conclusioni non dissimili, Cass., sez. VI, 12.7.2012, Gabriele, cit., che ha ammesso la possibile coesistenza del sequestro ex art. 12-sexies e quello dell’art. 322-ter c.p. in quanto trattasi di misure diverse per tipologia, presupposti e finalità]. Un legislatore accorto avrebbe evitato a monte, anche con riferimento a questi altri delitti matrice, ogni problema, fornendo direttamente la soluzione. Nella sua latitanza, l’unica conclusione possibile è la legittimità del concorso materiale delle misure [MONGILLO, 299; ARDITURO, 94]. La confisca per equivalente è stata prevista poi, anche nel caso di cui all’art. 12-sexies, introducendo un nuovo comma ad esso (il 2-ter), con l’art. 10-bis del d.l. n. 92/2008, conv. in legge n. 125/2008, poi integralmente sostituito dall’art. 3 comma 7 lett. a) legge n. 94/2009. In questo caso, però, risulta dalla lettera della norma che si tratta di un’ipotesi sussidiaria («quando non è possibile procedere alla confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui al comma 1»), applicabile fra l’altro nel solo caso previsto dal comma 2 e cioè con riferimento ad sentenza di condanna o di patteggiamento per un delitto commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose oppure di condanna per un delitto in materia di contrabbando aggravato ex art. 295 comma 2 d.p.r. n. 43/1973. Il nuovo capoverso sembra nato per coprire situazioni marginali [nel senso che si tratterebbe di misura destinata a restare del tutto ineffettiva, (c) VERGINE, 171; di singolarità dell’innesto normativo, (a) CISTERNA, 156 ]; risulterà applicabile nell’ipotesi, ad esempio, del condannato che si liberi frettolosamente

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dei beni di cui abbia la disponibilità sproporzionata ed ingiustificata, conservando, invece, quelli per i quali può giustificare la provenienza, perché provento di eredità [ARDITIURO, CIOFFI, 768 ].

16. I rapporti con il sequestro/confisca di prevenzione. In linea di principio, come si è sopra accennato, la confisca adottata nel procedimento di prevenzione è ontologicamente e strutturalmente diversa da quella che può essere emessa in un procedimento di cognizione, ai sensi dell’art. 12sexies. Non bisogna molto dilungarsi per evidenziare come la prima tipologia di procedimento prescinde dalla commissione del reato, la seconda la presuppone, invece, come necessaria ed indispensabile. Le indiscutibili affinità sotto il profilo soprattutto funzionale, ma anche la sostanziale analogia del presupposto relativo alla sproporzione reddito/disponibilità, hanno consentito alla giurisprudenza, in qualche occasione di cui pure si è fatto già cenno, di integrare la scarna disciplina prevista per la misura sostanziale attingendo alle norme previste per la fattispecie preventiva. Proprio la già indicata affinità è stata valorizzata dalla giurisprudenza per sancire anche una limitata preclusione ad attivare l’una forma di confisca in presenza di una decisione che riguarda l’altra; non un vero e proprio divieto del bis in idem, ma una situazione analoga a quella che la giurisprudenza ha da tempo individuato nella materia cautelare; cioè quella rebus sic stantibus, caratterizzata da una stabilità minore rispetto al giudicato vero e proprio, perché copre il dedotto e non il deducibile ed è, quindi, suscettibile di essere messa in discussione con la sopravvenienza di fatti nuovi. Questa pregiudizialità può operare solo se le decisioni siano intervenute sui presupposti comuni delle due ipotesi espropriative – e cioè la titolarità formale e/o fittizia, la sproporzione reddito/disponibilità – e non su altri aspetti caratterizzanti le singole misure patrimoniali [Cass., sez. I, 18.11.2008, Araniti, in CED 2008/44332; Cass., sez. V, 28.4.2010, P.m. in proc. D.F., in CED 2010/22626]. Tantomeno la preclusione avrà effetti nel caso in cui la decisione reiettiva sia fondata su ragioni meramente processuali [Cass., sez. I, 29.5.2012, La Rosa, in CED 2013/1204). Può, altresì, ipotizzarsi una situazione di interferenza anche quando il provvedimento di rigetto/revoca non abbia deciso il merito della richiesta di confisca ma sia intervenuto in materia cautelare e cioè sui sequestri (sia penali che di prevenzione), ovviamente sempre che la decisione abbia escluso la sussistenza dei presupposti della titolarità indiretta o della sproporzione/giustificazione (Cass., sez. VI, 27.11.2012, D’Alessandro, in CED 2012/47983; si v. pure Cass., sez. I, 4.5.2012, Franco, in CED 2012/25846 e Cass., sez VI, 21.1.2013, Barbaro, in CED 2013/8720 secondo cui nessuna preclusione, invece, può ipotizzarsi

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«se le diverse valutazioni fondanti i provvedimenti in asserito conflitto risultino ascritte al presupposto diverso delle due misure, id est la responsabilità penale nel caso dell’art. 12 sexies e la pericolosità sociale (oggi peraltro ex lege non più necessariamente dotata del requisito dell’attualità) nell’ottica dell’intervento in prevenzione di natura patrimoniale».

Si tratta di un orientamento da condividere quantomeno perché ha il pregio di evitare che sui beni di un soggetto possano alternarsi e succedersi misure limitative dei diritti di proprietà, senza che si possa beneficiare di alcuna garanzia di stabilità dei provvedimenti già emessi D’altro canto, però, nella ricostruzione pretoria restano irrisolti alcuni problemi; i criteri della valutazione della proporzionalità/giustificatezza utilizzati dalla giurisprudenza in sede di misure di prevenzione e di confisca penale non sempre sono coincidenti; si pensi, ad esempio, alla possibilità di giustificare le disponibilità economiche attraverso i proventi dell’evasione fiscale; si è già detto di come nella confisca ex art. 12-sexies, la Cassazione si è orientata a riconoscere come legittima una giustificazione in tal senso, sia pure rigorosamente provata; in quella di prevenzione, invece, si è rimasti ancorati alla soluzione opposta [a questo proposito va, però, ricordato come Cass., sez. I, 29.5.2014, Repaci, inedita, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione sulla possibilità di applicare la confisca quando la sproporzione sia giustificata da evasione fiscale]. Che cosa accadrebbe, quindi, se la sproporzione fosse stata esclusa in sede di 12-sexies, in quanto giustificata da un’evasione fiscale? Si potrebbe ipotizzare, coerentemente con le indicazioni giurisprudenziali riportate, che a questa decisione non debbano essere riconosciuti effetti preclusivi rispetto alla possibilità di attivare la misura di prevenzione, con conseguenze, però, sul piano dell’equità e soprattutto della disparità di trattamento del tutto evidenti [(b) CANTONE, 83]. È, invece, espressamente regolato dalla legge il caso in cui, contestualmente, vengano disposti sullo stesso bene misure cautelari o definitive di specie diversa. L’art. 2-ter della legge n. 575/1965 prevedeva fosse prevalente il sequestro/confisca emesso nel giudizio ordinario, stabilendo inoltre che, in caso di definitività della confisca penale, cessavano di diritto gli effetti del sequestro e o della confisca di prevenzione. Il sistema delineato aveva una sua razionalità perché dava priorità ad una misura adottata all’esito di un processo penale maggiormente garantito ma aveva comportato, soprattutto per la gestione dei beni, non poche criticità. Per i beni in sequestro ex art. 12-sexies, ad esempio, mancava ogni continuità gestionale per la trasmigrazione del sub-procedimento cautelare reale dal Gip al giudice di merito di primo grado e da questo a quello di appello. Si era, per queste ragioni, invocata una modifica complessiva che desse prevalenza al sistema delle misure di prevenzione, in un’ottica riformatrice complessiva che fosse accompagnata anche da altri interventi [PICCIRILLO, 416]. Il legislatore del Codice antimafia, invece, con l’art. 30 ha raccolto solo in parte le istanze ed ha ribaltato il precedente principio, giungendo a dare prevalenza al sequestro di prevenzione [(a) MENDITTO, 105]. Sullo stesso bene continuano a potersi applicare entrambe le misure; la cu-

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stodia giudiziale viene affidata all’amministratore giudiziario nominato in sede di prevenzione, il quale relaziona anche al giudice penale. Nel caso di revoca del sequestro di prevenzione, il giudice penale provvede alla nomina del nuovo amministratore. Se diviene definitiva prima la confisca di prevenzione, si procede in ogni caso alla gestione, alla vendita, all’assegnazione e alla destinazione dei beni secondo le disposizioni valide per i beni confiscati. Nel giudizio ordinario, se il giudice penale deve dichiarare la confisca, pronuncerà declaratoria di intervenuta esecuzione della misura ablativa in sede di prevenzione. Se invece interviene prima la sentenza di condanna, sarà il tribunale per le misure di prevenzione che dichiarerà che la misura è stata già eseguita in sede penale. Nel caso di sequestro penale successivo al sequestro di prevenzione si applicheranno le stesse regole. La confisca adottata successivamente viene comunque trascritta, iscritta o annotata nei registri pubblici, al fine di consentire un’adeguata forma di pubblicità. È presto per una valutazione complessiva di un sistema appena entrato in vigore; non si può, però, non concordare con chi rileva come troppo frettolosamente il legislatore si sia deciso a modificare la disciplina precedente, senza tener conto, ad esempio, che le misure adottate all’esito di un processo penale, oltre ad essere molto più garantite dalla presenza di una condanna e da un procedimento con maggiori garanzie, sono anche le uniche eseguibili sul piano internazionale [PICCIRILLO, 416]. 17. La gestione dei beni sequestrati e confiscati. La regolamentazione della gestione dei beni sequestrati e confiscati ex art. 12-sexies è, forse, quella più caotica e problematica in un istituto che, pure per tanti altri aspetti, certamente non brilla per chiarezza. Frutto di plurimi interventi accavallatisi nel tempo senza una precisa logica, utilizza, per individuare i principi applicabili, l’esecrabile tecnica del rinvio e distingue, in modo poco comprensibile, il regime normativo a seconda del reato per il quale è intervenuta la misura ablativa. Quel che emerge è un reticolato normativo irto di insidie, che lascia aperti troppi interrogativi. Anche per questa ragione da più parti si sperava che il Codice antimafia (d.lgs. n. 159/2011) portasse chiarezza, eventualmente individuando una disciplina comune con quella per confische e sequestri di prevenzione. Ed, invece, malgrado la legge n. 136/2010 avesse concesso al governo una delega ad una completa ricognizione della materia penale, ad una sua armonizzazione e ad un coordinamento con quella in materia di prevenzione (art. 2 lett. a), b), e c), il legislatore delegato non ha ritenuto di dar seguito a questa parte della delega [sulle ragioni della scelta, (a) MENDITTO, 10 ss.] ed il d.lgs n. 159/2011 ha di

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conseguenza omesso ogni riferimento alla questione in esame. Solo con la legge di stabilità del 2012 (legge 24.12.2012, n. 228, art. 1 comma 190), sia pure in parte, il problema è stato risolto [(b) MENDITTO, 8]. Per comprendere, però, quale sia la novità introdotta e quali i problemi interpretativi che residuano è indispensabile partire dall’analisi delle disposizioni precedenti l’ultima novella contenute in vari commi dell’articolo 12-sexies, non tutti, come si dirà, emendati. Il punto di partenza non può che essere il comma 3, a sua volta distinto in due parti; nella prima rinvia, per «la gestione e destinazione dei beni confiscati a norma dei commi 1 e 2» al d.l. n. 230/1989 conv. in legge n. 282/1989, normativa quest’ultima che aveva a sua volta modificato la n. 575/1965. Senonché questa parte della legge n. 575/1965 è stata poi ulteriormente emendata nel corso degli anni, creando una prima difficoltà ermeneutica; le norme del d.l. n. 230 restano ancora applicabili, atteso il rinvio che sembrerebbe di natura recettizia, anche nella parte in cui sono state successivamente modificate? Attese le lettere della norma alla domanda sembrerebbe doveroso dare risposte positive. In questa parte della norma, è poi contenuta anche la salvezza delle disposizioni («fermo quanto previsto») contenute negli artt. 100 e 101 del t.u. in materia di stupefacenti, il cui significato pare chiaro; per i beni confiscati ai sensi dell’art. 12-sexies, in conseguenza della condanna per stupefacenti si applicano regole diverse e, cioè, quelle contenute nel d.p.r. n. 309/1990. La seconda parte del comma stabilisce che il giudice, con la sentenza che dispone l’ablazione, nomina un amministratore con il compito di provvedere «alla custodia, alla conservazione e all’amministrazione dei beni confiscati»; nessuna specifica raccomandazione sui requisiti necessari per assumere l’ufficio; vengono enumerate, invece, le cause che impediscono di ottenere l’incarico e cioè essere imparentati con titolare dei beni oggetto della misura, essere stati condannati per reati che comportano l’interdizione dai pubblici uffici o sottoposti a misura di prevenzione. Il comma 4, per consentire al giudice di nominare il necessario custode in caso di sequestro preventivo, opera, attraverso un’intricata circumlocuzione, un mero rinvio al capoverso precedente («le disposizioni in materia di nomina dell’amministratore di cui al secondo periodo del comma 3 si applicano anche al custode delle cose predette») che la giurisprudenza ha letto nel senso che il nominato non deve limitarsi a meri compiti di custodia, ma può occuparsi di gestione dei beni, con poteri del tutto analoghi a quelli propri dell’amministratore giudiziario [Cass., sez. I, 21.2.2000, Orofino, in CED 2000/862]. Ai due commi citati, che rappresentavano gli unici (ed insufficienti) originariamente dedicati all’argomento, si è aggiunto, con l’obiettivo di completare la disciplina, il comma 4-bis, introdotto dall’art. 24 della legge n. 45/2001, successivamente modificato dall’art. 2 comma 7 lett. a) della legge n. 94/2009, integralmente riscritto prima dall’art. 5 comma 2 d.l. n. 4/2010, convertito in legge n. 50/2010 e da ultimo dalla n. 228/2012. È il comma su cui si concentrano i maggiori problemi ermeneutici.

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La norma nella formulazione vigente ante legge n. 228/2012, infatti, già, nell’indicazione del suo ambito applicativo, mostrava un’evidente défaillance; essa si riferiva, infatti, «ai casi di sequestro e confisca, previsti dai commi da 1 a 4 del presente articolo», lì dove, come si è visto, il comma 3 non riguarda ipotesi di confisca o sequestro ma detta norme in materia di amministrazione dei beni confiscati. Un mero lapsus calami? La stranezza, però, di questa indicazione stava nel fatto di essere presente in tutte e tre le versioni del comma 4-bis, come emendate nel corso degli anni, senza che si riesca a capire quale possa essere il suo significato. Quanto alle regole applicabili, il capoverso nel suo incipit rinviava alle «disposizioni in materia di amministrazione, destinazione dei beni sequestrati e confiscati previste dagli artt. 2 quater e da 2 sexies a 2 duodecies» della legge n. 575/1965. Siccome anche i commi 3 e 4 si occupano di “gestione e destinazione” dei beni, il capoverso ultimo nato aveva, forse, abrogato per incompatibilità i due precedenti? Sembrava la soluzione preferibile, in quanto il comma 4-bis conteneva un quadro di regole più ampio tale da inglobare quelle contenute nei commi già vigenti, anche se restava inspiegabile perché il legislatore non vi avesse provveduto direttamente, visto che continuavano i commi a coesistere tutti nell’unico art. 12-sexies. Adottando la tesi proposta, in particolare, il giudice nella nomina degli amministratori dovrebbe attenersi ai requisiti soggettivi richiesti nell’attuale art. 35 del Codice antimafia, che ha recepito gli art. 2-sexies e 2-septies della legge n. 575/1965, non essendo sufficiente rispettare i soli limiti negativi previsti dal comma 3 dell’art. 12-sexies. Le norme della legge n. 575/1965 erano espressamente applicabili oltre che per i casi di sequestro e confisca ex art. 12-sexies anche «agli altri casi di sequestro e confisca di beni, adottati nei procedimenti relativi ai delitti di cui all’art. 51 comma 3 bis c.p.p.». L’intenzione del legislatore era in astratto apprezzabile (un’unica disciplina per sequestri e confische disposti ad altro titolo ma tendenzialmente in conseguenza degli stessi reati), ma non sarebbe stato meglio scegliere per questi ultimi casi, la diversa sedes materiae del codice di procedura penale, piuttosto che una norma che riguardava una specifica ipotesi di sequestro/confisca? Aggiungeva, di seguito, ancora il comma 4-bis, «in questi casi l’Agenzia [ovviamente quella prevista per la gestione dei beni confiscati] coadiuva l’autorità giudiziaria nell’amministrazione e nella custodia dei beni fino al provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare e successivamente amministra i beni medesimi». Il materiale inserito nel nuovo comma già sarebbe stato più che sufficiente ma il legislatore non pago del dedalo già creato, aveva stabilito ancora: «le medesime disposizioni si applicano, in quanto compatibili, anche ai casi di sequestro e confisca di cui ai commi da 1 a 4 [ancora lapsus calami?] del presente arti-

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colo per delitti diversi da quelli dell’art. 51 comma 3 bis c.p.p.. In tali casi, il tribunale nomina un amministratore». L’intenzione era quella di non esportare tutto l’impianto valido per sequestri/confische di prevenzione anche ad ambiti che poco hanno a che vedere con i reati di mafia, ma la scelta fatta destava non poche perplessità, perché si scaricava sul giudice il compito di individuare, caso per caso, quali norme della legge n. 575/1965 fossero compatibili o meno. E per i casi di sequestri/confische ex art. 12-sexies riferiti a reati contro la pubblica amministrazione, bisognava ancora tener presente l’ulteriore specificazione, contenuta questa volta nel comma 2-bis (inserito dalla legge n. 296/2006), secondo cui si applicano gli artt. 2 novies (sulla devoluzione dei beni confiscati), 2-decies (sui criteri di destinazione dei beni confiscati) e 2-undecies (sui poteri dell’agenzia dei beni confiscati) della legge n. 575/1965. La disposizione si chiudeva, infine, con un’indicazione di salvezza dei diritti delle persone offese al risarcimento ed alle restituzioni («restano comunque salvi i diritti della persona offesa alle restituzioni ed al risarcimento») che voleva garantire, nel caso di concorrenza fra confisca e diritti risarcitori, la prevalenza di questi ultimi. Sui tantissimi problemi prospettati, la giurisprudenza era intervenuta su un’unica questione, relativa alla individuazione del giudice competente a decidere sulle controversie che nell’amministrazione possono sorgere in fase di sequestro. Risolvendo, infatti, un conflitto negativo di competenza fra un giudice per le indagini preliminari che aveva emesso il sequestro e la Corte di Appello dinanzi alla quale era in corso il giudizio di impugnazione avverso la sentenza che aveva, fra l’altro, disposto la confisca dei beni, ha ritenuto che «in analogia a ciò che accade nel procedimento di prevenzione patrimoniale, spetta sempre al giudice che ha disposto il sequestro preventivo ex art. 12 sexies … adottare i provvedimenti in tema di gestione e di amministrazione dei beni sequestrati e confiscati» [Cass., sez. I, 19.12.2001, confl. comp. in proc. Busso, in Dir. pen. e proc., 2012, 853; Cass., sez. I, 19.6.2012, n. 26925, Confl. comp. in proc. Morto, inedita; Cass., sez. I, 7.11.2012, n. 45611, Confl. comp. in proc. X, inedita; Cass., sez. I, 11.1.2013, Confl. comp. in proc. Bonalumi, inedita]. Si tratta una decisione che aveva una sua logica e tendeva ad evitare che gli amministratori dei compendi sequestrati dovessero continuamente cambiare il proprio referente giudiziario, allo stesso modo di quanto accade in materia di prevenzione dove è prevista la nomina di un giudice delegato chiamato ad occuparsi di questi incombenti fino alla conclusione della procedura; diversa, però, era stata la valutazione della dottrina secondo cui la trasposizione al giudizio ordinario di una regola valida per il processo in misure di prevenzione rischierebbe di creare più problemi di quanti ne risolva, perché crea una duplicazione di competenze fra giudice procedente e giudice competente [ROMANO, 856]. Vi era anche un’altra conseguenza particolarmente pregiudizievole che veniva dalla scelta pilastesca del legislatore del Codice antimafia; non sarebbero risultate applicabili le innovative norme sulla tutela dei terzi creditori, contenute

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nel Titolo IV del d.lgs n. 159/2011, con il rischio di creare una difficilmente giustificabile disparità di trattamento che sarebbe certamente finite all’esame della Consulta. Con modifica del 2012 è stato, come già detto, integralmente riscritto l’ennesima volta il solito comma 4-bis, il cui testo adesso è il seguente: «le disposizioni in materia di amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati previste dal decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 59, e successive modificazioni, si applicano ai casi di sequestro e confisca previsti dai commi da 1 a 4 del presente articolo, nonché agli altri casi di sequestro e confisca di beni adottati nei procedimenti relativi ai delitti di cui all’art. 51 comma 3 bis del codice di procedura penale. In tali casi l’Agenzia coadiuva l’autorità giudiziaria nell’amministrazione e nella custodia dei beni sequestrati, sino al provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare e, successivamente, a tale provvedimento, amministra i beni medesimi secondo le modalità previste dal citato decreto legislativo n. 159 del 2011. Restano comunque salvi i diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento del danno». L’intendimento perseguito è chiaro; deve applicarsi anche ai sequestri/confische ex art. 12-sexies la procedura prevista dal Codice antimafia per i beni sequestrati/confiscati a seguito di misure di prevenzione [(b) MENDITTO, 9]. Se la scelta è opportuna non si può, però, non rimarcare come non tutti i problemi interpretativi sono superati. Non sembra essere stato sciolto il nodo dei rapporti del comma 4-bis con i precedenti commi 3 e 4 che restano vigenti e continuano a dettare norme sull’amministrazione contraddittorie, rispetto a quelle del Codice antimafia. Per quanto riguarda poi la confisca/sequestro per i reati contro la pubblica amministrazione, l’amministrazione e gestione degli stessi sembrerebbe oggi equiparata a quelli oggetto delle misure ablatorie emesse per reati mafiosi, opzione certamente condivisibile anche, se restando in vigore il comma 2-bis dell’art. 12-sexies, parrebbe residuare comunque un regime parzialmente diverso. Ed infine, non sembra essere stato affrontato il tema che riguarda le norme dettate per la tutela dei terzi, contenute in un Titolo (il IV) del Codice antimafia diverso rispetto a quello (il III) dove è regolata l’amministrazione, la gestione e la destinazione dei beni confiscati [ a questa stessa conclusione Cass., S.U. civ., 26.2.2013, Ministero dell’Economia contro Aspra Finanze ed altri, in CED 2013/ 10532 che in motivazione rimarca come «la legge di stabilità … non ha colto l’occasione per regolamentare anche le conseguenze della confisca disciplinata dall’art. 12 sexies l. n. 356 del 1992 che per la sua natura e per le sue caratteristiche, è destinata ad incidere anche su terzi estranei al procedimento»]. Anche con l’ultima novella, quindi, resta valida l’affermazione sopra fatta secondo cui le norme a tutela dei terzi non si applicano per la confisca ex art. 12 sexies. -

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18. Osservazioni conclusive. Sono passati oltre diciotto anni dall’entrata in vigore dell’art. 12-sexies e, malgrado l’istituto abbia raggiunto la maggiore età, il dibattito su esso non ha perso intensità e sembra continuare a caratterizzarsi per un approccio che spazia dal sostegno entusiasta alla critica feroce. Solo per citarne alcuni, si passa dal considerare la disposizione «un momento di svolta nell’approccio – teorico e pratico – al contrasto alla formazione di patrimoni illeciti» e persino una vera e propria «punta avanzata del sistema» [ARDITURO, CIOFFI, 747], al qualificare la misura come un clamoroso ritorno alle pene straordinarie dell’ancient regime [FURFARO, 211], fino a dire che «il deficit di garanzie che affligge la confisca speciale non è compensato da risultati pratici positivi» [LOSAPPIO, 428; analogamente CONTRAFFATTO, 333, secondo cui la confisca in esame è inadeguata a fungere da efficace misura di sicurezza in un’ottica di sottrazione dei patrimoni illeciti alla criminalità organizzata]. In realtà, nei moderni sistemi penali è difficile poter fare a meno di strumenti efficaci per combattere dal punto di vista patrimoniale le forme attraverso cui si manifesta la criminalità organizzata. La confisca come tradizionalmente conosciuta è in questo senso insufficiente; è necessario perché essa possa penetrare più in profondità i patrimoni illeciti svincolarla, almeno in parte, dalla dimostrazione – nella pratica spesso difficile – di una derivazione criminale del bene [SCUDIERO, 1273]. Gli stessi organismi sopranazionali, del resto, sembrano schierarsi per questa opzione e con i loro atti di indirizzo stanno persino provando a favorire una normativa comune sul punto, perché evidentemente consci di questa nuove necessità. Il problema è ovviamente quello di riuscire a scegliere un sistema che non abbandoni l’impianto di garanzie dello stato liberale ma nello stesso tempo appaia efficace sul piano dei risultati. Ed in questo senso, non si può non essere d’accordo con quella parte della dottrina, che, rifuggendo posizioni estremistiche, tende a rimarcare positivamente alcuni aspetti significativamente garantistici della norma in esame, soprattutto se posta a confronto con le misure emesse a seguito del procedimento di prevenzione; «lo strumento scolpito dall’art. 12 sexies rappresenta, oggi, il veicolo che meglio coniuga l’efficacia di una opzione di attacco alle ricchezze di formazione illecita con la salvaguardia ragionevole delle garanzie di matrice liberal/personalistica» [(a) MAIELLO, 816]. È arrivato, però, forse, il momento di auspicare un tagliando della normativa, piuttosto che ulteriori interventi additivi o modificativi, alluvionali ed irrazionali. Si potrebbe, in questo senso, calibrarne meglio la portata, anche eventualmente riducendo il numero di reati matrice; precisare meglio i presupposti, specificando il concetto di proporzione, cristallizzando nella norma le indicazioni delle Sezioni Unite; individuare un limite di ragionevolezza temporale (con rife-

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rimento sia al passato che al futuro) entro il quale consentire alla confisca di spingersi; chiarire l’ubi consistam della giustificazione del condannato, anche raccogliendo gli spunti che vengono dai più recenti approdi giurisprudenziali; consentire la sua irrogazione in un processo in cui vi siano effettive garanzie del contraddittorio, anche per i terzi; regolare i rapporti fra le varie forme di confisca che possano scaturire dallo stesso reato; stabilire, infine, regole chiare per l’amministrazione e gestione dei beni confiscati, comuni a quella della confisca di prevenzione, eliminando le tante ambiguità che pure con la riforma del 2012 restano.

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Reati, circostanze aggravanti e sanzioni in materia di criminalità organizzata

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1525; TENCATI, Profili processuali della lotta al crimine organizzato, in Arch. n. proc. pen., 1994, 305; TRAPANI, voce Confisca (diritto penale), in Enc. giur., VIII, 1989, 1; TURONE, Strategie di contrasto dell’economia criminale, in Quest. giust., 1994, 42; (a) VERGINE, La componente temporale della sproporzione quale fattore riequilibratore del sequestro finalizzato alla confisca ex art. 12 sexies d.l. n. 306 del 1992, in Cass. pen., 2011, 619; (b) VERGINE, Le moderne sanzioni patrimoniali tra fonti di natura internazionale e legislazione interna, in BARGI, CISTERNA (a cura di); (c) VERGINE, Il “contrasto” all’illegalità economica”. Confisca e sequestro per equivalente, Padova, 2012.

Parte Seconda

Non punibilità e premi in materia di criminalità organizzata

Capitolo I

Le operazioni sotto copertura

Sommario

1. Origine ed evoluzione della disciplina dell’agente provocatore. – 2. La legge n. 146/2006 ed il primo tentativo di riordino della normativa. – 3. La legge n. 136/2010 e la definitiva (?) unificazione della disciplina. – 4. La legge n. 124/2007 e la prima, ragionevole, deroga alla normativa generale. – 4.1. Il d.l. n. 76/2012 e la nuova, discutibile, ipotesi speciale di operazioni sotto copertura in materia di giochi. – 5. L’influenza della giurisprudenza della Corte EDU sulla distinzione tra agente infiltrato ed agente provocatore. – 5.1. Il nuovo scenario concettuale: dall’agente provocatore all’agente infiltrato. – 6. La controversa natura giuridica. – 6.1. La fine di ogni dubbio: la esplicita qualificazione normativa come causa di giustificazione. – 6.2. I residui margini di applicazione delle altre cause di giustificazione. – 7. I requisiti di liceità della “procedura sotto copertura”: a) i reati per i quali può essere disposta. – 7.1. b) I soggetti legittimati. – 7.1.1. Gli agenti di polizia giudiziaria, le persone interposte e gli ausiliari. – 7.2. c) Le attività scriminate. – 7.2.1. Le altre attività autorizzate . – 7.2.2. In particolare: a) per i reati in materia di stupefacenti. – 7.2.3. (Segue) b) per il sequestro a scopo di estorsione. – 8. La non punibilità del provocato. – 8.1. La attenuazione della pena per il provocato. – 9. Profili processuali. – Bibliografia.

1. Origine ed evoluzione della disciplina dell’agente provocatore. La considerevole rilevanza assunta negli ultimi decenni dal crimine in forma associata nei principali settori della fenomenologia delittuosa ha dimostrato l’inefficacia degli strumenti classici della politica criminale nei suoi confronti. Ciò ha indotto il legislatore a sperimentare strade alternative, caratterizzate da una strategia di intervento opposta rispetto a quella, rivelatasi sterile, della creazione di nuove e superflue fattispecie incriminatrici: quella della modulazione di strumenti dalla natura ibrida, sostanziale e procedurale, capaci di aggredire le associazioni criminali dal loro interno, tramite comportamenti “ante” o “post” delitto. I due fiori all’occhiello di questa nouvelle vague della lotta alla criminalità organizzata sono costituiti dalla collaborazione processuale e dalle operazioni sotto copertura. In entrambi questi casi lo sconto o l’esonero di pena sul terreno

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Non punibilità e premi in materia di criminalità organizzata

del penale sostanziale dipende dal comportamento tenuto durante una o più fasi del procedimento penale da parte o dello stesso reo o di un “falso” concorrente. Nel caso del c.d. “pentito”, lo sconto di pena sancito dalla circostanza attenuante speciale è connesso alla dissociazione post patratum crimen del reo dal sodalizio criminale ed alla sua piena ed utile collaborazione con la giustizia; in quello dell’infiltrato, l’esonero dalla pena previsto nella speciale causa di giustificazione è, invece, connesso alla infiltrazione ante delictum di un agente delle forze dell’ordine, o un privato cittadino, nel sodalizio criminale ed alla sua partecipazione “passiva” alla scoperta dei reati ed alla cattura degli indagati. Rinviando al capitolo II per ulteriori approfondimenti sulla speciale diminuente della collaborazione processuale, in questa sede si soffermerà l’attenzione sulla controversa figura dell’agente provocatore (recte: agente infiltrato, come si chiarirà meglio infra, § 5) e sui due profili contrapposti di maggior rilievo problematico che da sempre la caratterizzano: quello della definizione dei presupposti per la non punibilità dello stesso e quello della ricerca di eventuali spazi di non punibilità per il provocato. Si deve, infatti, premettere sin d’ora che tattiche investigative di questo genere – introdotte per ragioni di efficienza della risposta alla criminalità organizzata – in uno Stato sociale di diritto devono essere sempre attentamente bilanciate con i suoi principi costitutivi, che riconoscono alle forze dell’ordine il compito di prevenire e reprimere i reati, ma mai quello di provocarne la commissione. Ammetterne una piena legittimazione, senza limitazioni di sorta, significherebbe travolgere questi ultimi e ledere i diritti fondamentali della personalità dei consociati [(a) DE MAGLIE, 312]. Com’è noto, in questo caso ci si trova al cospetto di un istituto dalle origini abbastanza recenti, dal momento che fino agli anni Novanta nell’ordinamento italiano «all’agente provocatore non era (…) riservato alcun locus normativo, né codicistico né extra codicem, [rappresentando] sempre e solo il prodotto di un inesauribile tormento dommatico da parte della dottrina» e «sotto il profilo sistematico (…) un istituto senza patria» [così DE MAGLIE, XIX, cui si rinvia anche per una più approfondita disamina storica degli archetipi di questo istituto, anche in ordinamenti giuridici stranieri]. In tale silenzio legislativo, la giurisprudenza – agendo come troppo spesso accade supplendi causa – aveva comunque ritagliato un’area di non punibilità a favore dell’agente provocatore per gli eventuali reati commessi nel corso di un’operazione di polizia giudiziaria, facendo leva sulla causa di giustificazione comune dell’adempimento del dovere di cui all’art. 51 c.p. e sull’obbligo di impedire la commissione dei reati per la p.g. di cui all’art. 55 c.p.p. [Cass., sez. II, 23.5.1972, n. 8266, Monne, rv. 122622; Cass., sez. I, 1.3.1969, n. 311, Faccini, riv. 112975]. L’unico requisito indispensabile richiesto era che l’agente provocatore con la sua condotta non si inserisse con rilevanza causale autonoma rispetto al fatto commesso dal provocato, ma si limitasse a svolgere una attività indiretta e marginale, consistente nel controllo, osservazione e contenimento dell’altrui azione illecita [Cass., sez. II, 22.9.2000, Alessandro, in Cass. pen., 2001, 2683; Cass., sez. VI, 6.7.1990, n. 1119, Carpentieri, riv. 186283; Cass., sez. VI, 29.9. 1987, n. 2890, Alan, riv. 177785; Cass., sez. II, 13.2.1985, n. 6693, Scattolin, riv. 170011]. -

Le operazioni sotto copertura

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Per la prima volta questa speciale tecnica di ricerca e scoperta delle prove dei reati ha trovato una disciplina normativa nella riformata legislazione in materia di stupefacenti, quando nel 1990, con l’art. 25 legge n. 162/1990, poi sostituito dall’art. 97 nel d.p.r. 309/1990, rubricato in principio “Acquisto simulato di droga”, è stata dettata – sulla falsariga delle vecchie leggi speciali emergenziali emanate in tempo di guerra per impedire un altro reato-contratto, quale il commercio di determinati oggetti preziosi o rari [VIGNALE, 62] – una ipotesi di non punibilità per il c.d. fictus emptor di sostanze stupefacenti [per approfondimenti sulle origini e sulla evoluzione della figura dell’agente provocatore, con particolare riferimento alla specifica disciplina relativa alle attività “antidroga”, si rinvia a G.C. AMATO, 501]. Successivamente – quasi sempre in ottemperanza ad accordi sovranazionali – sono state introdotte in maniera selettiva, secondo un casuale disegno a macchia di leopardo dettato dalle contingenti emergenze del momento [(b) DE MAGLIE, 1062], analoghe figure di agente provocatore o di infiltrato con riferimento al sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 7 d.l. 15.1.1991, n. 8, convertito in legge 15.3.1991, n. 82), al riciclaggio ed alla ricettazione di armi, munizioni ed esplosivi (art. 12-quater d.l. 8.6.1992, n. 306, convertito in legge 7.8.1992, n. 356), all’immigrazione clandestina (art. 12 comma 3-septies d.lgs. n. 286/1998, introdotto dal d.l. 14.9.2004, n. 241, convertito in legge 12.11.2004, n. 271), alla prostituzione e pornografia minorile ed al turismo sessuale in danno di minori (art. 14 legge 3.8.1998, n. 269), al terrorismo (art. 4 d.l. 18.10.2001, n. 374, convertito in legge 15.12.2001, n. 438), ai delitti contro la personalità individuale ed inerenti la prostituzione (art. 10 legge 11.8. 2003, n. 228). Da una lettura comparata di queste disposizioni normative si desume che, a partire dalla legge del 1992, accanto alla figura originaria dell’agente provocatore modellata sul tipo del fictus emptor delle sostanze stupefacenti e riconducibile al piano del concorso morale di persone nel reato nella precipua forma della istigazione a delinquere, si è iniziata a profilare una nuova e distinta figura, quella dell’agente infiltrato, vale a dire di un soggetto che si insinua per lungo tempo nella struttura criminale al fine di coglierne le dinamiche, che non provoca reati ma spesso è costretto a lasciarsi provocare proprio per inserirsi più stabilmente nelle maglie dell’organizzazione, accreditando il proprio ruolo di membro della stessa [DE MAGLIE, 1059]. Proprio una simile proliferazione di nuove, settoriali e talvolta diverse, figure di agente provocatore nella legislazione complementare, ha gradualmente svelato il principale problema che attanagliava questa materia: l’assenza di una normativa generale capace di regolamentarla in modo unitario, analitico e chiaro [DE MAGLIE, 388]. La struttura labirintica e stratificata che essa aveva assunto nel tempo aveva generato incomprensibili difformità operative e procedurali e notevoli incertezze nella soluzione di entrambi i quesiti dicotomici che essa poneva circa la responsabilità penale del provocatore e quella del provocato, nonché in merito alla questione dommatica relativa alla natura giuridica della non punibilità del provocatore [ZAPPULLA, 449].

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Non punibilità e premi in materia di criminalità organizzata

2.

La legge n. 146/2006 ed il primo tentativo di riordino della normativa.

Per far fronte a tali esigenze di chiarezza e di certezza applicativa, il legislatore nel 2006, in occasione della ratifica della Convenzione O.N.U. contro il crimine organizzato transnazionale, ha provveduto ad una prima, radicale rivisitazione della disciplina [per approfondimenti su tali aspetti specifici si veda cap. IV, parte I]. Con l’art. 9 della legge 16.3.2006, n. 146, di ratifica della predetta Convenzione, ottemperando alle indicazioni ivi contenute che invitavano gli Stati firmatari ad adottare tutte le tecniche speciali d’investigazione – comprese le operazioni sotto copertura – funzionali ad un efficiente contrasto al crimine transnazionale, ha sostituito la precedente, disgregata, legislazione ora richiamata con una nuova ed unitaria disciplina delle operazioni sotto copertura (c.d. under cover operations), abrogando espressamente con l’art. 11 la quasi totalità delle fattispecie preesistenti e, come si vedrà meglio più avanti, facendo chiarezza – in ossequio alle indicazioni promananti dalla giurisprudenza CEDU – sulla nozione di infiltrato e sulla sua differenza rispetto a quella di agente provocatore, nonché sulla natura giuridica della non punibilità di questa speciale “scriminante” [BERARDI, 3615; BARROCU, 48; PIATTOLI, 359; LOMBARDO, 20]. Tuttavia, tale riforma, sebbene abbia garantito una sensibile semplificazione del pregresso stato di confusione e disordine che caratterizzava la materia, non ha centrato pienamente l’obiettivo della sua reductio ad unitatem, dal momento che non aveva coinvolto alcune speciali fattispecie di agente provocatore, e precisamente quelle in materia di stupefacenti di cui all’art. 97 d.p.r. 9.10.1990, n. 309, così come sostituito dall’art. 4-terdecies d.l. 30.12.2005, n. 272, [AMATO, 114; MANNA, 827], di prostituzione, pornografia, turismo sessuale in danno dei minori di cui all’art. 14 legge 3.8.1998, n. 269 (di questo articolo è stato infatti abrogato solo il comma 4, relativo alla facoltà d’uso, per il personale operante nelle operazioni in esame, dei beni sequestrati, e sono rimaste inalterate le facoltà descritte ai commi precedenti) [MARINELLI, 2683] e di pagamento dei riscatti nei sequestri di persona di cui all’art. 7 d.l. 15.1.1991, n. 8 [GAMBERINI, 605]. 3. La legge n. 136/2010 e la definitiva (?) unificazione della disciplina. Il cammino verso l’ampliamento e la unificazione della disciplina si è concluso solo qualche anno dopo, quando, con l’art. 8 della legge 13.8.2010, n. 136, “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia”, il legislatore ha modificato sotto molteplici profili la formulazione dell’art. 9 della legge 16.3.2006, n. 146 e, soprattutto, ne ha rideterminato l’ambito di applicabilità, includendovi – insieme a nuovi delitti, come le attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti e le ipotesi non aggravate di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina – anche le fattispecie preceden-

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temente escluse perché sottoposte ad una regolamentazione speciale e procedendo alla parallela abrogazione di queste ultime, nonché alla trasformazione dell’art. 97 del d.p.r. 9.10.1990, n. 309, da norma di disciplina a norma di mero rinvio all’art. 9 della legge 16.3.2006, n. 146 [AURICCHIO, 60; ZAPPULLA, 449]. Le uniche disposizioni non oggetto di una esplicita abrogazione sono quelle – peraltro oggetto di penetranti osservazioni critiche dal momento che legittimano vere ipotesi di “provocazione” al reato invece che di mera “inifiltrazione” [MANNA, RESTA, 223] – di cui all’art. 14 commi 1-3 legge 3.8.1998, n. 269, in materia di attività di contrasto a reati a sfondo sessuale [ZAPPULLA, 451]. A seguito della riforma, l’art. 9 della legge 16.3.2006, n. 146 è divenuta così la disciplina generale ed unitaria delle operazioni sotto copertura. Come si legge, infatti, chiaramente nel suo comma 1, il suo ambito di incidenza è rappresentato oggi dal seguente elenco tassativo di reati: – delitti previsti dagli artt. 473, 474, 629, 630, 644, 648-bis e 648-ter, nonché nel libro II, titolo XII, capo III, sezione I (relativa ai delitti contro la personalità individuale) del codice penale; – delitti concernenti armi, munizioni, esplosivi; – delitti previsti dall’art. 12 commi 1, 3, 3-bis e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al d.lgs. 25.7.1998, n. 286; – delitti previsti dal testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al d.p.r. 9.10.1990, n. 309; – delitti previsti dall’art. 260 del d.lgs. 3.4.2006, n. 152 (attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti); – delitti previsti dall’art. 3 della legge 20.2.1958, n. 75 (c.d. “legge Merlin”, intitolata: “Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui”); – delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione. Ciò dovrebbe comportare l’impossibilità di utilizzare le operazioni under cover anche per altri reati non espressamente annoverati in questo elenco chiuso, come ad esempio quelli contro la pubblica amministrazione o quelli della criminalità organizzata. Questo ulteriore affinamento della disciplina delle operazioni sotto copertura dovrebbe portare anche ad una semplificazione del controllo delle stesse, tenendo conto che esse hanno attualmente nel sistema investigativo nazionale un ruolo di primo piano in molti dei settori ora elencati. Secondo i dati riportati nella Relazione annuale del 2010 della Direzione nazionale antimafia il numero di Comunicazioni di Operazioni sotto copertura pervenute alla stessa ai sensi della legge 6.3.2006, n. 146 è di quarantacinque (45) per il periodo compreso tra 1 luglio 2009 ed il 30 giugno 2010; cifra questa che, considerato il costo di tali tecniche investigative, i pericoli insiti in esse per i soggetti coinvolti e la rilevanza dei reati per i quali possono essere disposte, è decisamente elevata.

7.

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4.

La legge n. 124/2007 e la prima, ragionevole, deroga alla normativa generale.

Si deve, però, rilevare che già con la legge 3.8.2007, n. 124, “Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto”, il legislatore aveva introdotto una deroga alla normativa generale in materia di operazioni sotto copertura, prevedendo una speciale causa di giustificazione dal tenore apparentemente analogo, ma dai requisiti sensibilmente diversi, per il personale dei Servizi di informazione per la sicurezza che, nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali, ponga in essere condotte astrattamente integranti reato [MOSCA, 243; PISA, 1431; MARENGHI, 717; CACCAMO, 729; BARROCU, 96]. Ai sensi dell’art. 17 di questa legge è infatti stato disposto che «Fermo quanto disposto dall’articolo 51 del codice penale, non è punibile il personale dei servizi di informazione per la sicurezza che ponga in essere condotte previste dalla legge come reato, legittimamente autorizzate di volta in volta in quanto indispensabili alle finalità istituzionali di tali servizi, nel rispetto rigoroso dei limiti di cui ai commi 2, 3, 4 e 5 del presente articolo e delle procedure fissate dall’articolo 18. // 2. La speciale causa di giustificazione di cui al comma 1 non si applica se la condotta prevista dalla legge come reato configura delitti diretti a mettere in pericolo o a ledere la vita, l’integrità fisica, la personalità individuale, la libertà personale, la libertà morale, la salute o l’incolumità di una o più persone. // 3. La speciale causa di giustificazione non si applica, altresì, nei casi di delitti di cui agli articoli 289 e 294 del codice penale e di delitti contro l’amministrazione della giustizia, salvo che si tratti di condotte di favoreggiamento personale o reale indispensabili alle finalità istituzionali dei servizi di informazione per la sicurezza e poste in essere nel rispetto rigoroso delle procedure fissate dall’articolo 18, sempre che tali condotte di favoreggiamento non si realizzino attraverso false dichiarazioni all’autorità giudiziaria oppure attraverso occultamento della prova di un delitto ovvero non siano dirette a sviare le indagini disposte dall’autorità giudiziaria. La speciale causa di giustificazione non si applica altresì alle condotte previste come reato a norma dell’articolo 255 del codice penale e della legge 20 febbraio 1958, n. 75, e successive modificazioni. // 4. Non possono essere autorizzate, ai sensi dell’articolo 18, condotte previste dalla legge come reato per le quali non è opponibile il segreto di Stato a norma dell’articolo 39, comma 11, ad eccezione delle fattispecie di cui agli articoli 270-bis, secondo comma, e 416-bis, primo comma, del codice penale. // 5. Le condotte di cui al comma 1 non possono essere effettuate nelle sedi di partiti politici rappresentati in Parlamento o in un’assemblea o consiglio regionale, nelle sedi di organizzazioni sindacali ovvero nei confronti di giornalisti professionisti iscritti all’albo. // 6. La speciale causa di giustificazione si applica quando le condotte: a) sono poste in essere nell’esercizio o a causa di compiti istituzionali dei servizi di informazione per la sicurezza, in attuazione di un’operazione autorizzata e documentata ai sensi dell’articolo 18 e secondo le norme organizzative del Sistema di informazione per la sicurezza; b) sono indispensabili e proporzionate al

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conseguimento degli obiettivi dell’operazione non altrimenti perseguibili; c) sono frutto di una obiettiva e compiuta comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti; d) sono effettuate in modo tale da comportare il minor danno possibile per gli interessi lesi. // 7. Quando, per particolari condizioni di fatto e per eccezionali necessità, le attività indicate nel presente articolo sono state svolte da persone non addette ai servizi di informazione per la sicurezza, in concorso con uno o più dipendenti dei servizi di informazione per la sicurezza, e risulta che il ricorso alla loro opera da parte dei servizi di informazione per la sicurezza era indispensabile ed era stato autorizzato secondo le procedure fissate dall’articolo 18, tali persone sono equiparate, ai fini dell’applicazione della speciale causa di giustificazione, al personale dei servizi di informazione per la sicurezza». Pur senza soffermarsi analiticamente su questa speciale esimente prevista, si rammenti bene, non per le Forze di Polizia, ma per la ben diversa categoria soggettiva degli appartenenti ai servizi segreti, e senza approfondire i fondati dubbi di legittimità costituzionale espressi a tal proposito dalla dottrina [PALAZZO, 1057], è agevole rilevare la sostanziale difformità rispetto alla causa di giustificazione generale dettata in materia di operazioni sotto copertura. In primo luogo, rispetto all’art. 9 legge n. 146/2006, l’art. 17 legge n. 124/ 2007 ha una portata applicativa molto più ampia e generica. In questa disposizione normativa, infatti, non sono elencati tassativamente i reati per i quali può essere disposta l’operazione sotto copertura, bensì è prevista genericamente la non punibilità per il personale dei servizi di informazione per la sicurezza che ponga in essere condotte previste dalla legge come reato, legittimamente autorizzate di volta in volta in quanto indispensabili alle finalità istituzionali di tali servizi; l’unico limite oggettivo è tracciato a contrario nei commi successivi, dove sono elencati i pochi reati per i quali non opera la presente causa di giustificazione. Inoltre, in essa manca anche una indicazione positiva delle attività “tipiche” ed “atipiche” astrattamente integranti reato e rientranti nell’ambito di operatività della scriminante, essendo prevista indistintamente la possibilità di “commettere reati” [G. AMATO, 6]. Senza trascurare che in questo caso non è fissato legislativamente alcun limite al tipo di condotte che possono essere realizzate dagli agenti dei servizi segreti, dal momento che l’art. 17, proprio in forza della sua genericità, sembra legittimare anche comportamenti attivi autonomamente costituenti reati e non – come nel caso dell’agente infiltrato – semplici condotte di compartecipazione “passiva” alla commissione di reati altrui. Tali eclatanti differenze intercorrenti tra le due cause di giustificazione ora in considerazione, oltre a risultare pienamente ragionevoli in considerazione della netta diversità dei rispettivi destinatari, sono in grado anche di giustificare la scelta legislativa della collocazione di quella dettata nel 2007 per i soli appartenenti ai servizi di sicurezza statali al di fuori della lex generalis in materia di operazioni sotto copertura per gli appartenenti alle Forze di Polizia. Il principio di -

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uguaglianza e ragionevolezza impone, infatti, di trattare in maniera diversa situazioni soggettive diverse, sia attraverso regole peculiari, sia anche tramite collocazioni sistematiche separate. 4.1. Il d.l. n. 76/2012 e la nuova, discutibile, ipotesi speciale di operazioni sotto copertura in materia di giochi. – Se questa deroga alla disciplina generale sia sostanziale che formale-classificatoria trova una razionale legittimazione nella diversità dei soggetti cui si riferisce e nella peculiarità delle attività da questi svolte, non altrettanto può dirsi per la nuova e ancor più recente disposizione speciale introdotta nel 2012. Come sovente accade, il legislatore – probabilmente in modo inconsapevole – ha realizzato una incomprensibile inversione di marcia rispetto al progetto unificatore della normativa in materia di agenti provocatori, tornando ad inserire una nuova figura di agente infiltrato nella normativa speciale in materia di giochi, collocandola al di fuori dell’art. 9 della legge n. 146/2006. Nel d.l. 3.3.2012, n. 16, recante “Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento”, convertito in legge 26.4.2012, n. 44, è stata dettata all’art. 10 “Potenziamento dell’accertamento in materia di giochi” una speciale figura di agente provocatore nel personale delle Forze di Polizia. Ai sensi di tale norma è infatti disposto che: «l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato è autorizzata a costituire, avvalendosi di risorse proprie, un fondo destinato alle operazioni di gioco a fini di controllo, di importo non superiore a 100.000 euro annui. Con decreto del Direttore generale dell’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato è costituito il fondo e disciplinato il relativo utilizzo. Gli appartenenti all’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato sono autorizzati ad effettuare operazioni di gioco presso locali in cui si effettuano scommesse o sono installati apparecchi di cui all’articolo 110, comma 6, lettera a) o b), del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, e successive modificazioni, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine alle eventuali violazioni in materia di gioco pubblico, ivi comprese quelle relative al divieto di gioco dei minori. Per effettuare le medesime operazioni di gioco, la disposizione del precedente periodo si applica altresì al personale della Polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri, del Corpo della Guardia di finanza, il quale, ai fini dell’utilizzo del fondo previsto dal presente comma, agisce previo concerto con le competenti strutture dell’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato. Con regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, dal Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con i Ministri dell’interno, della giustizia e della difesa, sono disciplinate, nel rispetto di quanto disposto dagli articoli 51 del codice penale e 9 della legge 16 marzo 2006 n. 146, in quanto compatibili, le modalità dispositive sulla base delle quali il predetto personale impegnato nelle attività di cui al presente comma può effettuare le operazioni di gioco. Eventuali vincite conseguite dal predetto personale nell’esercizio delle at-

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tività di cui al presente comma sono riversate al fondo di cui al primo periodo». Ora, sebbene ci sia in questa complessa disposizione di legge un richiamo alla normativa generale, è evidente la crepa che essa apre nel progetto di unificazione legislativa della materia delle operazioni sotto copertura, dal momento che non si limita a prevedere un rinvio a quest’ultima, come ha fatto, dopo la riforma del 2010, l’art. 97 del d.p.r. n. 309/1990, bensì detta delle regole specifiche ed autonome, pur non trovandosi in presenza di una tipologia di destinatari diversa rispetto a quella individuata dalla norma generale, come nella legge del 2007 sul personale dei servizi segreti. Tale discutibile opzione politico-criminale non pone solo problemi meramente formali di ordine sistematico e di duplicazione e sovrapposizione delle fonti normative, ma sembra sollevarne anche di più rilevanti e concreti a causa della sua impropria formulazione. In particolare, essa sembra peccare di manifesta indeterminatezza, mancando al suo interno una tassativa elencazione dei reati che possono essere contrastati attraverso questa peculiare figura di agente sotto copertura e figurando semplicemente un generico richiamo alle “violazioni in materia di gioco pubblico”. Una simile locuzione, oltre a prestare il fianco alle facili censure appena espresse sotto il profilo della determinatezza tassatività ed a far sorgere dubbi circa la sua compatibilità con l’art. 25 comma 2 Cost., risulta anche dissonante rispetto alla disciplina generale contenuta nell’art. 9 legge n. 146/2006, dal momento che, non solo non circoscrive alla sua stregua l’operatività di questa scriminante ad una classe di reati di elevata gravità analiticamente elencati, ma addirittura, a causa di quel vago ed indistinto richiamo alle violazioni in materia di gioco, sembra potenzialmente riferirsi anche agli illeciti amministrativi (come ad esempio all’art. 110 TULPS), oltre che ai reati, introducendo così una potenziale (e non propriamente ragionevole) dilatazione dell’ambito di operatività delle operazioni under cover ben oltre quello circoscritto, immaginato dal legislatore nelle due riforme della disciplina generale degli anni Duemila.

5.

L’influenza della giurisprudenza della Corte EDU sulla distinzione tra agente infiltrato ed agente provocatore.

Passando ora all’analisi dell’art. 9 legge n. 146/2006, così come si presenta oggi dopo le modifiche apportate nel 2010, il primo dato che balza agli occhi è che il legislatore – coerentemente con le indicazioni promananti già da tempo dalla giurisprudenza di Strasburgo e sedimentate nella giurisprudenza di legittimità nazionale – ha inteso circoscrivere l’ambito di operatività soggettivo di questa speciale causa di giustificazione ai soli agenti sotto copertura (i c.d. under cover agents nel linguaggio della Corte sovranazionale), omettendo deliberatamente di ricomprendervi anche gli agenti provocatori in senso stretto (i c.d. agents provocateur).

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Com’è noto, infatti, le due figure, talvolta confuse concettualmente, sono state progressivamente separate e distinte grazie al contributo della dottrina ed a quello decisivo della Corte EDU. Si è così arrivati a considerare agente infiltrato quel soggetto che, appartenendo alle forze di polizia o collaborando formalmente con esse, agisce nell’ambito di un’indagine preliminare ufficiale di cui le autorità sono al corrente, in presenza di plausibili sospetti a carico di una o più persone circa la futura commissione di un reato. Nell’espletamento delle sue attività non si spinge a provocare attivamente (recte: a determinare effettivamente) condotte criminose altrui che, senza la sua azione, non avrebbero avuto luogo, ma si limita ad un’opera “passiva” di osservazione e contenimento [BALSAMO, 2642; Cass., sez. V, 3.6. 2008, n. 26763]. Per converso, si è approdati a qualificare agente provocatore colui che, anche al di fuori di una missione ufficialmente autorizzata e controllata da un giudice, al solo scopo di procedere all’arresto qualora l’istigazione sia accolta, pone in essere una condotta “attiva”, ossia di istigazione, induzione, ideazione o esecuzione di uno o più fatti penalmente illeciti, che senza il suo intervento determinante non si sarebbero mai verificati [LETTIERI, 20]. -

Tale distinzione è ben ribadita anche dalla giurisprudenza, come conferma la recente decisione della Suprema Corte in cui è affermato che «in tema di attività sotto copertura, onde apprezzarne la compatibilità con il principio del processo equo di cui all’art. 6 Cedu, come anche interpretato dalla Corte di Strasburgo, va distinta la figura dell’“agente infiltrato” da quella dell’“agente provocatore”. Il primo, la cui condotta è legittima, è un appartenente alle forze di polizia o un suo collaboratore che agisce in modo controllato nell’ambito di un’attività di indagine ufficiale e autorizzata con finalità di osservazione e contenimento di condotte criminose che, in base a sospetti, si suppone che altri soggetti siano in procinto di compiere. Il secondo, invece, è soggetto che, pur appartenente alle forze di polizia, al di fuori di un’indagine ufficialmente autorizzata, determina altri alla commissione di reati che, senza la sua azione, non sarebbero stati commessi: la sua attività non è consentita e, oltre a determinare la responsabilità penale dell’infiltrato, produce, quale ulteriore conseguenza, l’inutilizzabilità della prova acquisita (art. 191 c.p.p.) e rende l’intero procedimento suscettibile di un giudizio di non equità ai sensi dell’art. 6 Cedu» [Cass., sez. III, 7.4.2011, n. 17199, in Guida dir., 2011, XXIX, 77; in senso conforme cfr. da ultimo Cass., sez. III, 10.1.2013, n. 1258]. Tuttavia, possono anche esistere figure ibride, in cui l’attività di polizia pur non essendo riconducibili all’azione tipica dell’agente infiltrato, non può neanche essere ricondotta a quella non consentita dell’agente provocatore con gli effetti anche di inutilizzabilità di cui si è detto, come ad esempio nell’ipotesi in cui risulti «che l’operatore di polizia non aveva affatto provocato gli imputati per indurli a vendere della droga, essendosi limitato a partecipare a un appuntamento solo preliminare, diretto a riscontrare l’attendibilità della notizia del traffico illecito di droga; mentre all’arresto degli imputati si era poi proceduto in conseguenza degli imprevedibili accadimenti della vicenda, caratterizzati dall’accertato possesso della droga e dall’offerta in vendita di questa proprio all’operatore in incognito» [Cass., sez. III, 7.4.2011, n. 17199, cit.].

Orbene, la legge sembra fare una precisa e netta scelta di campo su tale controverso punto. In primo luogo, nella rubrica dell’art. 9 parla unicamente di “Operazioni sotto copertura”, sottolineando da subito la necessità che l’intervento di infiltrati non debba mai essere realizzato in forma estemporanea od auto-

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noma (come potrebbe avvenire nel caso di agente provocatore), ma solo all’interno di servizi operativi preventivamente pianificati e coordinati con ogni altra analoga attività in corso. In secondo luogo, nel momento in cui elenca tassativamente le attività scriminate dell’agente sotto copertura, stabilendo che non sono punibili coloro i quali «danno rifugio o comunque prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego o compiono attività prodromiche e strumentali», descrive un insieme di comportamenti che integrano quelli meramente passivi o agevolatori riconducibili alla prima figura di agente, quello infiltrato, lasciando fuori quelli attivi, diretti a stimolare o a determinare causalmente la commissione di un reato, riconducibili invece alla figura dell’agente provocatore in senso stretto. In realtà, come si accennava in precedenza, questa opzione del legislatore non ha un valore sostanzialmente innovativo, dal momento che si limita a recepire, positivizzandole, le indicazioni della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale, in più riprese, ha affrontato il problema dei limiti di liceità della condotta dell’infiltrato, finendo con lo scorgerli proprio nel confine con la condotta dell’agente provocatore. La Corte europea dei diritti dell’uomo, già a partire dalla fine degli anni Novanta, ha, difatti, ravvisato la violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sotto il peculiare profilo processuale del principio dell’equo processo di cui all’art. 6 comma 1 CEDU, nell’utilizzo di metodiche investigative che si concretizzano in una vera e propria pressione od incitazione al crimine del soggetto sottoposto ad indagini sotto copertura [DI MARTINO, 238; LOMBARDO, 29]. In particolare, con la nota sentenza Teixeira de Castro del 1998, la Corte Europea ha preliminarmente chiarito che nelle moderne società democratiche la funzione degli organi investigativi è quella di proteggere la collettività contro la criminalità esistente e pronta ad entrare in azione, non anche quella di creare criminalità, inducendo a delinquere soggetti che non avrebbero mai commesso alcunché di penalmente illecito se non fossero stati provocati. Una tattica realmente provocatoria, infatti, sarebbe tollerabile unicamente in un’ottica di positivismo criminologico da difesa sociale, non certo in un ordinamento dove vige il principio di colpevolezza per il quale ciascuno risponde solo in ragione della propria libera autodeterminazione a commettere un reato [cfr. Corte EDU, 9.6.1998, Texeira de Castro c. Portogallo, in www.echr.coe.int, sulla quale cfr. VALLINI, 197]. Muovendo da questi presupposti è così logicamente pervenuta alla conclusione che integri una violazione del principio del giusto processo statuito nell’art. 6 CEDU il comportamento di alcuni agenti di p.g. non consistente in una mera operazione di osservazione e contenimento, ma in una vera e propria pro-

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vocazione di una condotta criminosa che, senza la loro azione, non avrebbe avuto luogo [BORTOLIN, 403; LETTIERI, 29]. Parallelamente, in altre occasioni successive, la Corte EDU ha avuto modo di chiarire che quando le autorità si siano limitate ad osservare il comportamento di soggetti che si muovono in ambienti vicini alla criminalità e la commissione del reato è dipesa, in ultima analisi, dalla libera scelta del reo, non influenzata in maniera sostanziale dall’azione degli agenti di polizia, i loro comportamenti devono essere scriminati, poiché non integrano alcuna violazione del principio dell’equo processo [LETTIERI, 31] (Cfr. Corte EDU, 21.2.2008, Pyrgiotakis c. Grecia, in www.echr.coe.int; cfr., altresì, Corte EDU, 21.3.2002, Calabrò c. Italia/Germania, in Cass. pen., 2002, 2920, con nota di Tamietti; Corte EDU, 1.7.2008, Malininas c. Lituania, in www.echr. coe.int, con riferimento, soprattutto, allo specifico problema della violazione del diritto di confrontarsi con il proprio accusatore; da ultimo, cfr. Corte EDU, 1.6.2011, Lalas c. Lituania, in www.echr.coe.int; nonché Corte EDU, 4.11.2010, Bannikova c. Russia, in www.echr.coe.int, dove è stato ribadito che se l’attività dell’infiltrato rimane nei limiti «del comportamento essenzialmente passivo» non c’è alcuna violazione dell’art. 6 CEDU, diversamente, se li oltrepassa agendo illecitamente come agente provocatore, la violazione sussiste). -

In altre parole, per la Corte EDU nel caso in cui venga condotta un’operazione sotto copertura, la differenza tra un processo equo ed uno condotto in violazione dell’art. 6, § 1 della Convenzione risiede nella differenza tra agente infiltrato (undercover agent o agent infiltré) ed agente provocatore (agent provocateur). Nelle ipotesi in cui si oltrepassa la menzionata linea di confine, non limitandosi l’agente a tenere una condotta passiva, ma realizzando vere e proprie condotte attive di istigazione al reato, il processo non sarà equo, poiché l’interesse pubblico alla scoperta e repressione dei reati, che legittima il ricorso a tali peculiari tecniche investigative, non può mai arrivare a giustificare l’utilizzazione di prove ottenute provocando la condotta illecita tramite un agente di polizia [PUGLISI, 2963; BORTOLIN, 399]. Questo orientamento interpretativo si è radicato anche nella nostra giurisprudenza di legittimità, dal momento che la Corte di Cassazione in più occasioni – proprio rifacendosi alle menzionate sentenze di Strasburgo – è pervenuta alla conclusione che il requisito per la non punibilità dell’infiltrato sia rappresentato proprio dalla sua mera partecipazione “passiva” alla commissione di uno dei reati per i quali è stata disposta l’operazione sotto copertura, integrando invece un contributo rilevante ai sensi del concorso di persone eventuale la provocazione “in senso stretto”, cioè la induzione a commettere un reato che altrimenti il provocato non avrebbe realizzato [Cass., sez. IV, 24.1.2008, Casaula, in CED 2008/239640; Cass., sez.I, 14.1.2008, D’Amico e altri, in CED 2008/ 239704; Cass., sez. IV, 22.9.2000, Alessandro, in CED 2000/217253; Cass., sez. IV, 22.9.1999, Lenza, in CED, 1999/215007; da ultimo, incidentalmente, tale aspetto è stato ribadito da Cass., sez. III, 7.4.2011, n. 751, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di VALLINI]. -

5.1. Il nuovo scenario concettuale: dall’agente provocatore all’agente infiltrato. – Alla luce di questa ricognizione della giurisprudenza sovranazionale

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e nazionale, le scelte legislative compiute nell’art. 9 legge n. 146/2006 di parlare di operazioni sotto copertura, di non menzionare l’agente provocatore e di descrivere attività tipiche di natura eminentemente passiva orientata «al solo fine di acquisire elementi di prova», non solo appaiono pienamente condivisibili, ma gettano anche le basi per una ridefinizione della tematica dell’agente provocatore classicamente intesa. Come si vedrà meglio infra nel paragrafo successivo, dove ci si soffermerà sulla esplicita qualificazione ad opera del legislatore della nuova figura di agente infiltrato come causa di giustificazione in senso stretto, questa norma “cancella” dallo scenario giuridico nazionale la categoria dommatica dell’agente provocatore, confinandola, al più, negli angusti e residuali margini ricavabili dalla eventuale applicazione nei suoi confronti della sola causa di giustificazione comune dell’adempimento del dovere. In base ad essa, sembra che l’unico soggetto sulla cui possibile impunità si possa discorrere – in virtù non di ipotesi di non punibilità di difficile e contorta individuazione, bensì della nuova esplicita causa di giustificazione speciale di cui all’art. 9 legge n. 146/2006 – non sia più il “vecchio” modello dell’agente provocatore, bensì quello nuovo dell’agente infiltrato o “sotto copertura”. L’agente provocatore, anzi, finisce oggi inevitabilmente per incarnare una figura concettuale dai contorni diametralmente opposti a quelli che erano stati definiti in passato in assenza di precise puntualizzazioni terminologiche in subiecta materia da parte del legislatore e della giurisprudenza (vale a dire il modello sulle cui caratteristiche costruire una causa di non punibilità), rappresentando, al contrario, il prototipo del soggetto che deve essere punito a causa del superamento, nell’espletamento delle sue attività investigative, dei limiti fissati dalla legge per la non punibilità.

6. La controversa natura giuridica. La figura dell’agente provocatore ha storicamente sollevato notevoli incertezze quando si è trattato di individuarne la natura giuridica e di motivarne sul piano teorico la scelta della impunità. Si è infatti prospettato di classificarla in tanti diversi modi, anche in considerazione della qualifica soggettiva di privato o di appartenente alla p.g., ma le tesi che sostanzialmente si sono contese il campo sono state due: quella che la considerava una causa di esclusione della antigiuridicità e quella che la riteneva una causa di esclusione dell’elemento soggettivo del concorso di persone nel reato [per una completa panoramica di tutte le possibili ricostruzioni della natura giuridica di questa causa di non punibilità si rinvia al lavoro della (a) DE MAGLIE, 329 ss.]. Come si accennava già in apertura del presente lavoro, una parte della dottrina e della giurisprudenza, invero, riteneva che la non punibilità dell’agente

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provocatore scaturisse dalla causa di giustificazione comune di cui all’art. 51 c.p., letta in combinato disposto con l’art. 55 c.p.p. secondo cui la polizia giudiziaria ha l’obbligo di assicurare le prove dei reati e di ricercare i colpevoli. Tale tesi è andata incontro alla facile obiezione che gli appartenenti alle forze di Polizia hanno il dovere generale di impedire la perpetrazione di reati, ma non certo quello di provocarne la consumazione. Muovendo da questa critica, la dottrina maggioritaria ha ritenuto che l’impunità dell’agente dipendesse dalla mancanza del dolo di partecipazione [PALAZZO, 524; MARINUCCI, DOLCINI, 429]. Ad avviso dei sostenitori di questo diverso orientamento, l’agente provocatore, nella convinzione che il reato non venga consumato, agisce senza il dolo di consumazione dello stesso, ma con un semplice “dolo di tentativo” che, com’è noto, nel nostro sistema penale non è sufficiente perché sussista un tentativo punibile ai sensi dell’art. 56 c.p., sicché a fortiori non è sufficiente perché si possa configurare un concorso morale in un delitto. 6.1. La fine di ogni dubbio: la esplicita qualificazione normativa come causa di giustificazione. – Ogni incertezza dommatica sul punto sembra essere stata definitivamente fugata dalla esplicita presa di posizione del legislatore della riforma che, in maniera indiretta prima ed esplicita poi, ha ricondotto la speciale causa di non punibilità per le operazioni sotto copertura nel novero delle cause di giustificazione in senso stretto, senza distinzioni tra provocazione statale e provocazione privata [ZAPPULLA, 453]. Questa opzione politico-criminale è, infatti, immediatamente manifestata in modo implicito nella clausola di riserva espressa con cui si apre il comma 1 dell’art. 9 legge n. 146/2006 «fermo quanto disposto dall’art. 51 del codice penale». Tale locuzione, indicando l’esistenza di un rapporto di specialità tra le due norme, lascia trasparire la sostanziale coincidenza, salvo gli elementi specializzanti, dei loro rispettivi ambiti di operatività e, soprattutto, per quel che in questa sede interessa, della loro natura giuridica di cause di esclusione dell’antigiuridicità. Ma la definitiva e incontrovertibile prova della assimilazione della speciale causa di non punibilità in questione al genus delle cause di giustificazione in senso stretto è contenuta nel successivo comma 1-bis dell’art. 9, il quale si apre con la testuale enunciazione «la causa di giustificazione di cui al comma 1 si applica …». Com’è noto, il legislatore è restio a denominare espressamente le cause di non punibilità attraverso le etichette della dommatica, privilegiando quasi sempre formule semanticamente neutre, quali “non punibile” “non è punito”, “causa di esclusione della pena”, “circostanza di esclusione della punibilità” ecc., salvo il caso delle cause di estinzione del reato e della pena che rappresentano le uniche ipotesi di non punibilità con un preciso nomen iuris contenute nel nostro codice e nella legislazione penale complementare.

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Nel momento in cui utilizza per definire una scriminante quale quella dell’art. 9 la locuzione “causa di giustificazione” è certo allora che lo scopo che persegue è quello di qualificarla in maniera univoca come tale e di sollevare l’interprete dalla ricerca della sua natura giuridica. Peraltro, la esplicita previsione di una pluralità di requisiti procedurali per la liceità delle operazioni sotto copertura, incentrati su autorizzazioni e obblighi di informazione di cui tra breve si dirà, sembra avvicinare la speciale causa di giustificazione in questione al genere ibrido e criticato, di recente emersione, delle scriminanti procedurali. In realtà, com’è stato ben osservato, tali cause di giustificazione procedurali non dovrebbero trovare cittadinanza nel nostro sistema penale e non dovrebbero incarnare una nuova e diversa categoria rispetto alle cause di giustificazione, dal momento che la «procedura, per quanto significativo sia il ruolo assegnato dalla norma ai diversi effetti chiamati ad operare (…) resta soltanto servente rispetto al rilievo del bene che la legge ritiene nel conflitto prioritario: per sua natura, cioè, non pare in grado di giustificare come tale in via esclusiva» [M. ROMANO, 1285]. Le scriminanti incentrate su procedure, come è parzialmente anche quella di cui all’art. 9 legge n. 146/2006, altro non sono che cause di giustificazione ordinarie che trovano la loro ratio essendi in un giudizio di bilanciamento di interessi operato dal legislatore e rinvengono nella procedura descritta unicamente un tentativo di circoscriverne l’ambito di operatività nella maniera più chiara e selettiva possibile. Ciò significa che, nel caso di specie, la nuova causa di giustificazione rientra nel modello tipico della scriminante dell’adempimento del dovere di cui all’art. 51 c.p., e trova la sua ragione giustificatrice nella prevalenza accordata in sede di giudizio di bilanciamento tra gli interessi in conflitto a quello alla scoperta dei reati da parte dello Stato, non in maniera incondizionata, bensì subordinata al rispetto della peculiare procedura in esso descritta. 6.2. I residui margini di applicazione delle altre cause di giustificazione. – In forza della clausola di riserva espressa iniziale, si potrebbe ritenere che alcune condotte degli agenti sotto copertura non scriminabili ai sensi dell’art. 9 legge n. 146/2006 potrebbero ugualmente essere giustificate, ove ne sussistano tutti i requisiti richiesti dalla legge, ai sensi della lex generalis rappresentata dalla scriminante dell’adempimento del dovere di cui all’art. 51 c.p. Tuttavia, non si può non rilevare come risulti difficile da comprendere e da legittimare l’eventuale scelta di ritenere ugualmente non punibile l’agente che operi sotto copertura senza rispettare i limiti scanditi nella lex specialis. Forse anche per tale ragione la giurisprudenza tende a ritenere che, quando travalica i limiti fissati dalla legge, «l’attività del così detto agente provocatore che, d’accordo con la polizia giudiziaria, propone ad uno spacciatore e realizza la compravendita di droga al fine di farlo arrestare, è del tutto fuori dalla sfera di operatività dell’art. 51 c.p., ossia dell’adempimento di un

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dovere di polizia giudiziaria. Non può farsi discendere dall’obbligo di polizia giudiziaria di ricercare le prove dei reati e di assicurare i colpevoli alla giustizia l’esclusione, ai sensi dell’art. 51 c.p., della responsabilità del così detto agente provocatore, giacché è adempimento di un dovere perseguire i reati commessi, non già suscitare azioni criminose al fine di arrestarne gli autori» [Cass., sez. V, 2 marzo 2011, n. 14221; nonché, da ultimo, nello stesso senso Cass., sez. III, 18.10.2012, n. 45922].

Ciò non di meno, in taluni casi tale conclusione appare l’unica praticabile, come ha implicitamente confermato anche la giurisprudenza di legittimità in una recente pronuncia in cui ha sostenuto che l’agente infiltrato che non abbia rispettato tutte le indicazioni procedurali dettate dalla legge vigente al momento dei fatti (in quel caso l’art. 97 d.p.r. n. 309/1990), non debba essere considerato punibile quando abbia tenuto un comportamento di tipo meramente “passivo”, di osservazione e controllo dei reati, e si sia determinato ad agire in forza di elementi che non aveva preso originariamente in considerazione [Cass., sez. III, 7.4.2011, n. 17199]. In tale circostanza, il suo comportamento non sarà riconducibile né nella figura tipica di agente sotto copertura cristallizzata nella legge speciale, né tanto meno, in quella di agente provocatore ricostruita ex adverso dalla giurisprudenza della Corte EDU, dal momento che il suo contributo non ha avuto una efficacia causale rispetto alla effettiva consumazione di un reato che altrimenti gli imputati non avrebbero commesso (il caso di specie si riferiva ad un Ispettore di polizia, il quale, avuta casualmente notizia che una donna era in contatto con persone dedite al traffico di stupefacenti, aveva cercato di verificarne l’attendibilità organizzando senza le previe comunicazioni richieste dalla legge un incontro con i presunti spacciatori al fine di predisporre, una volta accertata la disponibilità da parte loro dello stupefacente, un’operazione organizzata con le modalità previste dalla legge. Tuttavia, in maniera del tutto imprevista, in occasione di tale primo incontro perlustrativo egli si era trovato al cospetto di un’offerta in vendita dello stupefacente ed alla constatazione della effettiva detenzione dello stesso, sicché aveva deciso all’istante di passare all’azione e procedere all’arresto degli spacciatori. Breve: la sua condotta si era limitata alla osservazione e controllo, ma era stata compiuta senza osservare i requisiti procedurali dettati dalla legge). Come ha avuto modo di precisare in una recentissima decisione la Suprema Corte, gli agenti di polizia giudiziaria non rispondono a titolo di concorso nel reato “provocato” nell’ipotesi in cui la loro operazione sia nata da un contatto confidenziale di un loro superiore gerarchico, sia nota ad un dirigente maggiore, sia stata predisposta per la stessa un foglio di servizio: in tale circostanza, infatti, la condotta degli agenti è giustificata «dall’adempimento del dovere istituzionale di impedire la commissione di reati in materia di stupefacenti, provvedendo innanzitutto, al sequestro di partite di droga e all’individuazione dei soggetti detentori delle stesse». La applicabilità dell’art. 51 c.p. è, dunque, resa possibile, per un verso, dal fatto che la condizione di subordinazione degli agenti non gli consentiva di sapere che si trattava «di operazione condotta senza rispettare il procedimento previsto dalla legge», per altro verso, dal fatto che non si era in presenza «di ordine che apparisse ictu oculi criminale, secondo la comune percezione» [Cass., sez. IV, 7.3.2013, n. 10616].

La clausola di riserva iniziale rischia solo di porre nel nulla lo sforzo di preci-

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sione fatto dal legislatore del 2006 con cui sono stati individuati in maniera tassativa i reati per i quali si possono giustificare le operazioni sotto copertura. Si potrebbe, infatti, ritenere che il ricorso ad agenti infiltrato per reati non contenuti nel catalogo, come ad esempio quelli contro la p.a. e in materia di criminalità organizzata, dell’art. 9 possa essere scriminato ugualmente ai sensi dell’art. 51 c.p. Per il resto, al di fuori di questi casi limite, si può sostenere che ove l’agente sotto copertura si trovi costretto a travalicare i confini tracciati dalla legge ed a tenere un comportamento non meramente passivo di osservazione e controllo, ma attivo di commissione o di partecipazione alla commissione di reati, egli possa essere scriminato ai sensi dell’art. 54 c.p. La condizione richiesta naturalmente è che ne sussistano i presupposti e si dimostri che egli abbia commesso il fatto «costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo». Questa è la situazione classica in cui si viene a trovare, ad esempio, l’infiltrato in una organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti a cui venga richiesto di partecipare all’acquisto di un grosso quantitativo di droga o allo spaccio della stessa per metterne alla prova e verificarne la piena disponibilità ed affidabilità. L’eventuale diniego da parte sua potrebbe far sorgere negli affiliati seri dubbi sulla sua identità ed esporlo ad un immediato, grave ed inevitabile pericolo per la sua incolumità [G.C. AMATO, 507]. Laddove, però, il soggetto infiltrato si adatti allo “stile di vita” dei membri del sodalizio criminale ed inizi a commettere fatti penalmente rilevanti senza che sussistano gli stringenti requisiti dello stato di necessità, non residueranno margini per sostenere la sua impunità e – nonostante i rischi cui egli si sia esposto per l’espletamento delle sue attività – dovrà essere necessariamente considerato penalmente responsabile degli stessi.

7.

I requisiti di liceità della “procedura sotto copertura”: a) i reati per i quali può essere disposta.

Come si è visto in precedenza, nel delicato sforzo di cercare di preservare l’agente infiltrato da eventuali rischi penali, che si cumulerebbero irragionevolmente con i già notevoli rischi per l’incolumità fisica a cui lo espongono le operazioni sotto copertura, il novellato testo dell’art. 9 legge n. 146/2006 contiene al comma 1 l’elencazione completa e tassativa delle sole fattispecie delittuose di particolare gravità per le quali può essere disposto l’utilizzo della speciale tecnica investigativa in esame, peraltro alle implicite, ma importanti condizioni che le stesse fattispecie siano già state precedentemente realizzate, ovvero – sulla base di un quadro indiziario di una certa gravità – sia possibile presumere la loro

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prossima commissione, e che gli ordinari strumenti investigativi non siano efficaci o sufficienti per il loro accertamento. Diversamente, ci sarebbe il rischio di trasformare queste tecniche di indagine concepite per la scoperta di specifiche forme di criminalità già in essere in fonti di commissione di ulteriori reati non ancora realizzati [BORTOLIN, 409]. A prima vista potrebbe lasciare perplessi la constatazione della mancata previsione nel numerus clausus dei reati per i quali si può disporre una operazione sotto copertura del delitto di associazione di stampo mafioso di cui all’art. 416bis c.p. [BALSAMO, 2643; AURICCHIO, 61]. In realtà, questa opzione politico-criminale la si può spiegare alla luce delle caratteristiche criminologiche di questo tipo di reato associativo: le associazioni mafiose, infatti, sono incentrate prevalentemente sulle relazioni di parentela, dal momento che proprio questo dato è quello che più facilmente garantisce la sicurezza e la clandestinità delle operazioni del gruppo. Sarebbe difficile, per non dire impensabile, che un agente di polizia dall’esterno contatti il clan mafioso, si inserisca nell’organizzazione, ne conosca i segreti, partecipi alle decisioni, esegua gli ordini mantenendosi nei limiti “passivi” fissati dalla legge, senza suscitare sospetti negli associati [DE MAGLIE, 1070]. La più probabile forma di contatto con tali sodalizi è quella occasionale e non certamente quella stabile, rappresentata proprio da quell’insieme di condotte tipiche e, soprattutto, atipiche (si pensi per tutte a quelle del dare rifugio o del prestare assistenza agli associati) che l’art. 9 descrive come strumentali alla scoperta dei reati-scopo caratteristici dei sodalizi criminali, anche di stampo mafioso. Non di meno, nella prassi applicativa le operazioni sotto copertura forniscono sovente notizie ed informazioni utili anche rispetto al reato di associazione di stampo mafioso, dal momento che possono essere disposte in materia di armi e, soprattutto, per il reato di associazione dedita al traffico di stupefacenti di cui all’art. 74 d.p.r. n. 309/1990, e che questa associazione spesso coincide in tutto o in parte (o quanto meno è strettamente collegata) con quella di tipo mafioso. Tuttavia, si deve rilevare che il comma 8 dello stesso art. 9 legge n. 146/2006 sembra contraddire questa scelta selettiva operata dal legislatore nel comma 1 di escludere l’art. 416-bis c.p. dal novero dei reati per i quali possono essere autorizzate le operazioni sotto copertura. Questa disposizione, nel prevedere degli obblighi di informazione circa le attività svolte dagli infiltrati, afferma che «per i delitti indicati all’art. 51, comma 3 bis, del codice di procedura penale, la comunicazione è trasmessa al procuratore nazionale antimafia». Com’è noto, l’articolo del codice di rito richiamato per relationem, il 51 comma 3-bis, si riferisce ai delitti, «consumati o tentati, di cui agli artt. 416 bis e 630 c.p., ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416 bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché ai delitti previsti dall’art. 74 del Testo Unico approvato con D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309». Se il legislatore avesse voluto circoscrivere l’obbligo di comunicazione al procuratore nazionale antimafia solo ai delitti in materia di stupefacenti o di se-

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questro estorsivo lo avrebbe fatto espressamente, dal momento che così ha fatto in più commi dello stesso art. 9; ma, evidentemente, l’intenzione era quella ben diversa di riferirsi anche ai reati associativi di stampo mafioso e a quelli commessi avvalendosi del condizionamento mafioso. Rinviando a tale norma dal contenuto così ampio ha finito con annettere anche questi ultimi nel novero dei reati per i quali possono essere svolte legittimamente operazioni sotto copertura. In conclusione, se è previsto un obbligo di comunicazione alla procura nazionale antimafia circa le notizie apprese relativamente a tali reati da parte degli infiltrati, si dovrebbe dare per scontato che queste attività possano essere autorizzate e che l’omessa menzione nell’art. 9 comma 1 legge n. 146/2006 sia il frutto di una svista legislativa. Alla luce di questa norma potrebbe, quindi, aprirsi uno spiraglio per invocare la diretta applicabilità della disciplina generale in materia di operazioni sotto copertura anche per gli infiltrati in associazioni di stampo mafioso, senza dover ricorrere (con tutte le riserve manifestate in precedenza) all’art. 51 c.p. indicato nella clausola di sussidiarietà espressa del comma 1 dell’art. 9 legge n. 146/2006. Non di meno, si potrebbe però obiettare che tale argomento non sia decisivo, e si potrebbe prospettare, al contrario, di intendere il rinvio ivi contenuto alla disposizione del codice di rito non incondizionato, bensì limitato alle sole fattispecie elencate sia all’interno di quest’ultima, che all’interno dell’art. 9. Infine, a tal proposito è opportuno rilevare che rispetto a questi reati può comunque operare, per il solo personale dei servizi segreti, l’altra figura speciale di infiltrato introdotta nella legge n. 124/2007 di cui si è parlato supra, § 4.1. 7.1. b) I soggetti legittimati. – Con la riforma dell’art. 9 legge n. 146/2006 si è proceduto anche alla unificazione della disciplina per quanto concerne l’ambito soggettivo di operatività di questa speciale causa di giustificazione, procedendo alla individuazione analitica e tassativa dei soggetti legittimati a svolgere operazioni sotto copertura. Ai sensi del comma 1 lett. a) di questo articolo sono, infatti, annoverati unicamente: «gli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia», che agiscano, peraltro, nel corso di specifiche operazioni di polizia, «al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine» a taluno dei delitti indicati dal medesimo articolo. Ai sensi della lett. b) sono poi individuati per i reati con finalità di eversione o di terrorismo «gli ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti agli organismi investigativi della Polizia di Stato e dell’Arma dei carabinieri specializzati nell’attività di contrasto al terrorismo e all’eversione e del Corpo della guardia di finanza competenti nelle attività di contrasto al finanziamento del terrorismo». Con la riforma del 2010 è stato inserito il comma 1-bis dell’art. 9 che ha esplicitato un requisito procedurale per la legittimazione dell’operazione sotto copertura da parte di uno dei soggetti tassativamente elencati nel comma prece-

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dente. Tale norma, infatti, dispone che «la causa di giustificazione di cui al comma 1 si applica agli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria e agli ausiliari che operano sotto copertura quando le attività sono condotte in attuazione di operazioni autorizzate e documentate ai sensi del presente articolo». Ciò significa che non è sufficiente appartenere ad una delle predette categorie di soggetti e compiere una delle attività tipiche o atipiche individuate dall’art. 9, ma è necessario anche che tali attività siano state previamente “autorizzate e documentate”. Il comma 3 del medesimo articolo precisa poi che «l’esecuzione delle operazioni di cui ai commi 1 e 2 è disposta dagli organi di vertice ovvero, per loro delega, dai rispettivi responsabili di livello almeno provinciale, secondo l’appartenenza del personale di polizia giudiziaria impiegato, d’intesa con la Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere per i delitti previsti dall’art. 12, commi 1, 3, 3-bis e 3-ter, del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni. L’esecuzione delle operazioni di cui ai commi 1 e 2 in relazione ai delitti previsti dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, di seguito denominate “attività antidroga”, è specificatamente disposta dalla Direzione centrale per i servizi antidroga o, sempre d’intesa con questa, dagli organi di vertice ovvero, per loro delega, dai rispettivi responsabili di livello almeno provinciale, secondo l’appartenenza del personale di polizia giudiziaria impiegato». Inoltre, in base a quanto disposto nel comma 4, dello stesso art. 9, «l’organo che dispone l’esecuzione delle operazioni di cui ai commi 1 e 2 deve dare preventiva comunicazione all’autorità giudiziaria competente per le indagini. Dell’esecuzione delle attività antidroga è data immediata e dettagliata comunicazione alla Direzione centrale per i servizi antidroga e al pubblico ministero competente per le indagini. Se necessario o se richiesto dal pubblico ministero e, per le attività antidroga, anche dalla Direzione centrale per i servizi antidroga, è indicato il nominativo dell’ufficiale di polizia giudiziaria responsabile dell’operazione, nonché quelli degli eventuali ausiliari e interposte persone impiegati. Il pubblico ministero deve comunque essere informato senza ritardo, a cura del medesimo organo, nel corso dell’operazione, delle modalità e dei soggetti che vi partecipano, nonché dei risultati della stessa». In questo modo il legislatore ha inteso assegnare ai rispettivi vertici delle singole unità delle Forze di Polizia il compito di autorizzare e controllare lo svolgimento delle operazioni sotto copertura compiute da parte degli infiltrati. La ratio di tale previsione, che tende a concentrare la responsabilità di queste speciali missioni investigative in capo a soggetti posti in posizioni apicali nelle gerarchie delle forze dell’ordine, deve essere ravvisata in due diversi profili: da un lato, nella notevole pericolosità di queste operazioni che mettono a repentaglio la vita e l’incolumità fisica degli agenti che vi partecipano; dall’altro nei costi elevatissimi che esse comportano [G.C. AMATO, 506]. Tuttavia, non si può non osservare come tale opzione legislativa rischi di risultare incompatibile con le diverse indicazioni dettate a livello sovranazionale

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dalla giurisprudenza di Strasburgo in materia di operazioni under cover. La previsione nell’art. 9 legge n. 146/2006 di un semplice obbligo di comunicazione al pubblico ministero dell’inizio dell’esecuzione delle attività investigative sotto copertura (peraltro, neanche necessariamente preventivo), sganciato da una successiva autorizzazione da parte dello stesso magistrato inquirente, sembra stridere con la richiesta proveniente dalla Corte EDU, come condizione necessaria ed inderogabile per potere considerare legittime ai sensi dell’art. 6 § I CEDU le operazioni under cover, di garantire sempre rispetto ad esse un controllo necessario dell’autorità giudiziaria [BORTOLIN, 408]. Per sanare un simile contrasto, una parte della dottrina ritiene opportuno procedere ad una interpretazione convenzionalmente conforme della normativa interna di cui all’art. 9, alla luce dell’art. 6 § I CEDU e della lettura che di questo ha fornito la giurisprudenza della Corte EDU, e richiedere (in contrasto con il dato letterale della norma) come condizione imprescindibile per la legittima gestione di una tecnica di indagine così invasiva, «una continua ed effettiva interazione tra le strutture specializzate delle forze di polizia ed il magistrato inquirente, nel rispetto delle prerogative che, nel nostro sistema processuale penale, sono assicurate a quest’ultimo nell’espletamento della sua funzione di direzione delle indagini preliminari» [BORTOLIN, 408]. Una soluzione ermeneutica di questo tipo, sebbene sembri ragionevole prima facie, potrebbe però sostanziarsi in un’inaccettabile lettura in malam partem delle disposizioni di legge contenute nella legge n. 146/2006, in aperto contrasto con il tenore letterale delle medesime; l’unica alternativa percorribile, non potendo il giudice interno disapplicare una norma nazionale perché in contrasto con il diritto convenzionale, dovrebbe essere allora quella di sollevare una questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 comma 1 legge n. 146/2006 per violazione dell’art. 117 comma 1 Cost. in relazione al parametro interposto dall’art 6 § I CEDU, nella parte in cui non prevede la comunicazione preventiva delle operazioni under cover al p.m. 7.1.1. Gli agenti di polizia giudiziaria, le persone interposte e gli ausiliari. – Secondo quanto disposto dal comma 1 dell’art. 9 legge n. 146/2006, gli unici soggetti coperti dalla scriminante speciale delle operazioni sotto copertura sembrerebbero essere gli ufficiali di polizia. Il comma 5, però, introducendo una significativa innovazione rispetto alle precedenti settoriali discipline dettate in materia di agente provocatore prima del 2006 ed eliminando i problematici tentativi di distinguo tra provocazione statale e provocazione privata, prevede la possibilità di estendere il novero dei soggetti attivi beneficiari della non punibilità, ammettendo che «per l’esecuzione delle operazioni di cui ai commi 1 e 2, gli ufficiali di polizia giudiziaria possono avvalersi di agenti di polizia giudiziaria, di ausiliari e di interposte persone, ai quali si estende la causa di non punibilità prevista per medesimi casi». Questa innovativa opzione del legislatore della riforma è funzionale ad implementare l’efficacia dell’azione investigativa in questi precipui settori della

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criminalità, consentendo di ricorrere all’apporto di intermediari appartenenti a livelli di grado inferiore delle forze dell’ordine (gli agenti di polizia giudiziaria) o del tutto estranei ad esse [MOROSINI, 761]. In precedenza l’ausilio dell’extraneus diverso dall’ufficiale di p.g. alle operazioni sotto copertura – sovente indispensabile, data la difficile permeabilità delle organizzazioni criminali da parte degli esterni, senza l’intermediazione di referenti ad esse vicini in grado di accreditarli ai loro occhi – era infatti considerato non scusabile ai sensi delle speciali disposizioni vigenti in materia di agente provocatore [Cass., sez. IV, 22.9. 2000, Alessandro, in CED 2000/11634], salvo particolari condizioni. La Suprema Corte aveva, difatti, ritenuto che «la condotta del privato che collabori ad un’operazione di polizia in veste di agente provocatore risulta scriminata se risulta che egli abbia effettivamente agito in forza di un ordine dell’autorità e se risulta che il suo contributo non abbia travalicato i limiti di un’attività di mero controllo, osservazione e contenimento della condotta criminosa altrui» [Cass., sez. IV, 17.12.2008, in Cass. pen., 2010, 1828; Cass., sez. IV, 22.9.2000, n. 11634; Cass., sez. I, 14.4.1999, n. 6302]. La nuova norma, invece, prevede oggi la esplicita possibilità per gli ufficiali di polizia giudiziaria di farsi coadiuvare nell’espletamento delle loro attività sotto copertura, oltre che dagli agenti di polizia giudiziaria, anche da due diverse tipologie di soggetti non appartenenti alle forze dell’ordine: 1) le persone interposte; 2) gli ausiliari. Le persone interposte sono quelle che, unitamente all’agente infiltrato, partecipano alle attività sotto copertura autorizzate dalla legge e possono essere sia esterne alle Forze di Polizia, come nel caso dei confidenti, dei partecipi dell’organizzazione infiltrata, degli interpreti che accompagno l’agente per consentirgli di dialogare con interlocutori stranieri, sia interne ad esse, come nel caso degli agenti di polizia giudiziaria chiamati a coadiuvare gli ufficiali di polizia giudiziaria. [G.C. AMATO, 509]. Gli ausiliari, invece, sono coloro i quali – interni o esterni alle Forze di Polizia – coadiuvano a vario titolo l’agente infiltrato nell’espletamento delle sue mansioni, senza prendere però materialmente parte al concreto svolgimento delle attività sotto copertura. In tale categoria di soggetti rientrano tutte le persone dotate di competenze specialistiche estranee agli agenti infiltrati e necessarie per garantire il buon esito delle attività investigative, come ad esempio il meccanico che smonti o rimonti i pezzi di un veicolo per consentire l’applicazione di una microspia, o l’interprete che in tempo reale traduca i dialoghi stranieri sottoposti ad intercettazioni telefonica o ambientale [G.C. AMATO, 509]. -

7.2. c) Le attività scriminate. – Allo scopo di sgomberare il campo dai possibili dubbi inerenti alla tipologia delle attività coperte dalla causa di giustificazione in esame, nell’art. 9 comma 1 legge n. 146/2006, il legislatore ha proceduto alla elencazione delle stesse, attraverso un duplice schema espositivo: nella prima parte del predetto articolo, elenca tassativamente le attività tipiche che

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possono compiere gli agenti infiltrati, sancendo che non sono punibili solo nel caso in cui «danno rifugio o comunque prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego»; nella seconda parte – innestata con la riforma del 2010 allo scopo di raccogliere le precise istanze provenienti dalle Forze di Polizia di poter godere di maggiore libertà e tranquillità di azione – rinuncia alla descrizione analitica e procede ad una descrizione per clausole generali ai limiti della indeterminatezza, prevedendo che non sono punibili altresì gli infiltrati anche quando «compiono attività prodromiche e strumentali» [ZAPPULLA, 452]. Se, dunque, la prima parte dell’elenco sembra agevolare l’interprete nella individuazione del perimetro delle attività scriminate, la seconda parte finisce per creare nuove incertezze esegetiche, riconoscendo la possibilità di ricondurre nel fuoco della speciale causa di non punibilità in questione qualunque tipo di condotta penalmente rilevante che sia considerata in sede giudiziaria “prodromica” o “strumentale”. Per quanto ci si possa sforzare in via interpretativa nel tentativo di oggettivizzare tale tipo di comportamenti, fissando dei parametri per considerare quando una attività dell’infiltrato possa essere qualificata correttamente prodromica o strumentale, è evidente come non si possa riuscire ad eliminare l’eccessiva discrezionalità che la loro mancata, precisa, definizione da parte del legislatore attribuisce agli operatori del diritto [ZAPPULLA, 452]. 7.2.1. Le altre attività autorizzate. – Oltre ai fatti espressamente indicati nel comma 1, l’art. 9 prevede un’altra serie di condotte che possono essere autorizzate, anche se non costituenti reato. In base a quanto previsto dal comma 2, «gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria possono utilizzare documenti, identità o indicazioni di copertura, rilasciati dagli organismi competenti secondo le modalità stabilite dal decreto di cui al comma 5, anche per attivare o entrare in contatto con soggetti e siti nelle reti di comunicazione, informandone il pubblico ministero al più presto e comunque entro le quarantotto ore dall’inizio delle attività». Inoltre, ai sensi dell’art. 9 comma 5, è previsto che «per l’esecuzione delle operazioni può essere autorizzata l’utilizzazione temporanea di beni mobili ed immobili, di documenti di copertura, l’attivazione di siti nelle reti, la realizzazione e la gestione di aree di comunicazione o scambio su reti o sistemi informatici, secondo le modalità stabilite con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della giustizia e con gli altri Ministri interessati. Con il medesimo decreto sono stabilite altresì le forme e le modalità per il coordinamento, anche in ambito internazionale, a fini informativi e operativi tra gli organismi investigativi». Infine, in forza di quanto disposto dal comma 8 sempre del medesimo art. 9,

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«l’autorità giudiziaria può affidare il materiale o i beni sequestrati in custodia giudiziale, con facoltà d’uso, agli organi di polizia giudiziaria che ne facciano richiesta per l’impiego nelle attività di contrasto di cui al presente articolo ovvero per lo svolgimento dei compiti d’istituto». 7.2.2. In particolare: a) per i reati in materia di stupefacenti. – Nel prosieguo della norma sono poi dettate delle specifiche regole per quanto concerne alcune categorie peculiari di reato. In particolare, per i reati in materia di sostanze stupefacenti è previsto nel comma 6 che «quando è necessario per acquisire rilevanti elementi probatori ovvero per l’individuazione o la cattura dei responsabili dei delitti previsti dal comma 1, per i delitti di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, limitatamente ai casi previsti agli articoli 73 e 74, gli ufficiali di polizia giudiziaria, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, e le autorità doganali, limitatamente ai citati articoli 73 e 74 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, e successive modificazioni, possono omettere o ritardare gli atti di propria competenza, dandone immediato avviso, anche oralmente, al pubblico ministero, che può disporre diversamente, e trasmettendo allo stesso pubblico ministero motivato rapporto entro le successive quarantotto ore. Per le attività antidroga, il medesimo immediato avviso deve pervenire alla Direzione centrale per i servizi antidroga per il necessario coordinamento anche in ambito internazionale». «Per gli stessi motivi di cui al comma 6, il pubblico ministero può, con decreto motivato, ritardare l’esecuzione dei provvedimenti che applicano una misura cautelare, del fermo dell’indiziato di delitto, dell’ordine di esecuzione di pene detentive o del sequestro. Nei casi di urgenza, il ritardo dell’esecuzione dei predetti provvedimenti può essere disposto anche oralmente, ma il relativo decreto deve essere emesso entro le successive quarantotto ore. Il pubblico ministero impartisce alla polizia giudiziaria le disposizioni necessarie al controllo degli sviluppi dell’attività criminosa, comunicando i provvedimenti adottati all’autorità giudiziaria competente per il luogo in cui l’operazione deve concludersi ovvero attraverso il quale si prevede sia effettuato il transito in uscita dal territorio dello Stato ovvero in entrata nel territorio dello Stato delle cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere i delitti nonché delle sostanze stupefacenti o psicotrope e di quelle di cui all’art. 70 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni» [su tali specifici aspetti si rinvia più ampiamente a G.C. AMATO, 520]. 7.2.3. (Segue) b) per il sequestro a scopo di estorsione. – Per quel che riguarda il sequestro a scopo di estorsione, il comma 6-bis, introdotto in occasione della riforma del 2010, prevede che «quando è necessario per acquisire rilevanti elementi probatori, ovvero per l’individuazione o la cattura dei responsabili dei delitti di cui all’art. 630 del codice penale, il pubblico ministero può richiedere che sia autorizzata la disposizione di beni, denaro o altra utilità per

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l’esecuzione di operazioni controllate per pagamento del riscatto, indicandone le modalità. Il giudice provvede con decreto motivato». 8. La non punibilità del provocato. Come si accennava in apertura, l’altro aspetto estremamente controverso posto dalle operazioni sotto copertura e che costituisce il lato opposto della medaglia della non punibilità dell’infiltrato, è rappresentato dalla eventuale esclusione della punibilità del provocato, vale a dire di quel soggetto determinato o istigato da un agente provocatore alla commissione di un reato che altrimenti non avrebbe commesso [per una completa analisi delle diverse soluzioni immaginate per garantire la non punibilità del provocato si rinvia per tutti a (a) DE MAGLIE, 395 ss.]. Tradizionalmente si è cercato di rinvenire dei margini per sostenere la sua impunità facendo leva su una causa di esclusione della tipicità quale il reato impossibile per inidoneità dell’azione di cui all’art. 49 comma 2 c.p., tuttavia non senza qualche difficoltà ed opinione contraria. Una parte della giurisprudenza aveva, difatti, osservato che l’inidoneità dell’azione che rende non punibile un fatto costituente reato è esclusivamente quella assoluta, originaria ed intrinseca e non anche quella scaturita da una causa esterna quale può essere quella rappresentata dallo svolgimento di un’operazione di polizia giudiziaria [Cass., sez. VI, Carvajal, in CED 2000/8722; Cass., sez. I, 17.12.1970, n. 3014, Arena, riv. 116746; Cass., sez. I, 15.2.1974, n. 8515, Hermann, riv. 128493; Cass., sez. I, 27.5.1986, n. 14251, Palumbo, riv. 174666; Cass., sez. VI, 16.10.1989, n. 2218, Battaggia, riv. 183376; sul punto cfr. G.C. AMATO, 519]. Ciò non di meno, la Suprema Corte in diverse pronunce degli ultimi anni ha riconosciuto in modo univoco la non punibilità del provocato proprio ai sensi dell’art. 49 comma 2 c.p., sebbene a precise e restrittive condizioni. In particolare, ad avviso della Cassazione «nell’ipotesi della presenza di un agente provocatore, l’esclusione della punibilità stabilita dall’art. 49, cpv., c.p., presuppone necessariamente la derivazione assoluta ed esclusiva dell’azione delittuosa dall’istigazione di tale soggetto e non può pertanto configurarsi quando la determinazione sia proveniente anche da attività di soggetti diversi dall’agente provocatore. Ne consegue che, in tal caso, l’attività dell’agente provocatore costituisce un fattore estrinseco che dà spunto all’azione delittuosa, ma non esclude affatto che questa sia stata voluta e realizzata dal reo secondo impulsi e modalità allo stesso autonomamente riconducibili. (Fattispecie relativa all’iniziativa di un ispettore di polizia, il quale appresa causalmente la notizia che vi erano persone dedite al traffico di stupefacenti, ha cercato di verificare l’attendibilità della notizia organizzando un incontro con i presunti spacciatori al fine di predisporre un’operazione organizzata con le modalità di legge)» [Cass., sez. III, 7 aprile 2011, n. 17199, in Riv. pen., 2011, 1017; nello stesso senso cfr. Cass., sez. III, 18 marzo 2011, n. 2811; Cass., sez. V, 26 gennaio 2010, n. 11915; Cass., sez. VI, 24 gennaio 2008, n. 16163]. Com’è stato precisato in un’altra decisione coeva: il provocato può andare esente da pena

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in applicazione dell’art. 49 comma 2 c.p. quando «l’attività sotto copertura di polizia giudiziaria per il contrasto dei reati, lungi dall’essere determinante per la commissione degli stessi (nel senso che, senza di essa, il reato non sarebbe stato commesso), si limita a disvelare un’intenzione criminale già esistente, ma allo stato latente, fornendo solo l’occasione per il suo concretizzarsi», come ad esempio nel caso in cui si accerti la preesistenza «della volontà e della predisposizione degli indagati a commettere il delitto; la presenza di pregressi rapporti di costoro con ambienti criminali; la disponibilità della rilevante quantità di droga poi consegnata agli agenti» (Cass., sez. IV, 3 marzo 2011, n. 26674). In queste circostanze, la condotta degli agenti infiltrati è una mera occasione della commissione del delitto, in quanto «gli indagati erano pronti a commettere la violazione anche in mancanza dell’intervento degli agenti di polizia, i quali si sono limitati a consentire di disvelare la loro intenzione criminale già esistente, ma allo stato latente, fornendo ai ricorrenti la mera occasione per concretizzarla» [Cass., sez. IV, 3.3.2011, n. 26674, cit.]. Da ciò discende, ex adverso, che «la condotta è punibile quando l’intervento dell’agente provocatore si ponga come concausa rispetto alla determinazione causale all’azione, costituendo solo un mero fattore estrinseco che da spunto ad un’attività delittuosa, causalmente riconducibile ad autonoma determinazione del reo» [Cass., sez. III, 29.5.2012, n. 40570].

Più di recente, una parte avveduta della dottrina ha spostato il fuoco dell’attenzione su altri profili, ricercando altrove le possibili condizioni per ritenere non punibile il provocato. In particolare, è stato osservato come la impossibilità di considerare anche questo soggetto non punibile, quando risulti che egli non avrebbe realizzato il reato commesso senza il decisivo contributo causale dell’agente provocatore, appaia difficilmente compatibile con la CEDU. Per la precisione, tale soluzione (ignorando il ruolo di determinante contributo causale della condotta dell’infiltrato nel fatto commesso dal provocato) contrasterebbe con il principio dell’equo processo enunciato dall’art. 6 comma 1 della predetta Convenzione e ribadito e precisato da quelle decisioni della Corte di Strasburgo citate in precedenza [DI MARTINO, 239]. Ad avviso dei sostenitori di tale orientamento, nonostante la veste procedurale dei principi di diritto affermati in quelle sentenze, in realtà dietro di essi si celerebbe anche un istituto di natura sostanziale rappresentato proprio dalla definizione indiretta di una ipotesi di non punibilità del provocato. In altre parole, si ritiene che all’accertamento della efficacia causale della condotta dell’agente infiltrato rispetto al reato commesso dal provocato ed alla conseguente e corretta affermazione – nell’ottica squisitamente processuale presa in considerazione dalla Corte sovranazionale – della inutilizzabilità del materiale probatorio eventualmente acquisito per dimostrare la sua punibilità, dovrebbe logicamente seguire sul terreno del diritto penale sostanziale l’affermazione della sua non punibilità [DI MARTINO, 239]. La regola processuale deducibile dall’art. 6 comma 1 CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU in precedenza richiamata, determinerebbe cioè come effetto riflesso indiretto in materia penale sostanziale quello della non punibilità del provocato, non potendo egli essere condannato sulla base di prove acquisite illegalmente. A tale conclusione si dovrebbe, peraltro, pervenire anche in forza di una piena valorizzazione di due principi fondamentali del nostro sistema penale, letti in

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chiave di complementarietà teleologica secondo l’insegnamento di Bricola, seguìto poi dalla Corte costituzionale nelle celebri sentenze del 1988 nn. 364 e 1085: il principio di colpevolezza e quello della funzione rieducativa della pena [BRICOLA, 53 ss.; ALESSANDRI, 20 ss.]. È evidente, infatti, come una sentenza di condanna pronunciata nei confronti di un “provocato” sulla base delle sole dichiarazioni di agenti provocatori strictu sensu intesi (e, quindi, di dichiarazioni illegittimamente acquisite, perché contrastanti con l’art. 6 CEDU) finisca per violare entrambi tali principi. In primo luogo, in tal modo si incrinerebbe il principio di colpevolezza statuito nell’art. 27 comma 1 Cost., poiché si condannerebbe un soggetto per un fatto che non gli è personalmente “rimproverabile”, dal momento che egli non l’avrebbe mai commesso senza l’apporto causale determinante dell’agente provocatore. Anzi, una simile scelta punitiva finirebbe con il far riapparire sullo scenario del diritto penale tralatizie (e per fortuna, oramai superate) forme di “colpevolezza per lo stile di vita”: ad essere punito sarebbe, invero, non il fatto concreto commesso, bensì la tendenza alla commissione di quel genere di reato dimostrata dal provocato che abbia accolto la provocazione. In secondo luogo, si determinerebbe anche una palese ed inaccettabile frustrazione della finalità rieducativa della pena enunciata nel correlato art. 27, comma 3 Cost., poiché non avrebbe alcun senso ed alcuna possibilità di rieducare (recte: tendere alla rieducazione) l’inflizione di una pena nei confronti di un soggetto per un fatto che egli non avrebbe commesso senza l’intervento decisivo di un terzo soggetto appartenente alle Forze di Polizia. Anzi, al contrario, una pena irrogata in presenza di tali condizioni, rischierebbe solo di essere controproducente e di non perseguire alcuna delle funzioni che le competono (esplicitamente o implicitamente) in uno Stato sociale di diritto. Non solo, non potrebbe assolvere alcuna funzione special-preventiva positiva nei confronti del singolo autore del fatto che, all’opposto, la percepirebbe come ingiusta ed incomprensibile, maturando sentimenti di ostilità verso l’ordinamento giuridico; quando anche non potrebbe assolvere alcuna funzione general-preventiva positiva nei confronti dei consociati, i quali sarebbero altresì disorientati dalla irrogazione di una pena nei confronti di un fatto che non sarebbe stato commesso senza l’istigazione delle Forze di Polizia e che, quindi, in ultima istanza risulta commesso proprio da quello Stato che dovrebbe impedirne la sua commissione. Senza trascurare che una pena di questo tipo sarebbe anche contraria al principio di proporzione e di adeguatezza delle pene, finendo per punire in maniera decisamente eccessiva rispetto alla gravità del comportamento tenuto il soggetto che, al più, poteva essere considerato socialmente pericoloso per la sua tendenza a delinquere, ma che senza l’ausilio dello Stato non avrebbe commesso quel fatto costituente reato. In un moderno sistema penale teleologicamente orientato alle funzioni della pena, quindi, in cui le finalità perseguite dalla sanzione criminale dovrebbero giocare un ruolo determinante nella interpretazione ed applicazione delle nor-

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me, nonché nella definizione dei significati delle categorie e dei principi penalistici [su tali specifici aspetti si rinvia per tutti a MOCCIA, 83 ss.], l’eventuale affermazione della punibilità del provocato sulla base delle sole dichiarazioni di un agente provocatore che lo abbia indotto a commettere un reato che altrimenti non avrebbe commesso risulta del tutto insostenibile. Si deve osservare, peraltro, che significativi passi in questa direzione sono già stati compiuti in altri ordinamenti giuridici, come ad esempio quello inglese. In origine, anche il sistema britannico non riteneva in alcun modo scriminabile il reato commesso a causa dell’entrapment, ovvero del c.d. “intrappolamento” del soggetto provocato, “incastrato” al momento della commissione del fatto. Successivamente, al fine di uniformarsi ai principi di diritto enunciati dalla Corte di Strasburgo a partire dalla menzionata sentenza Teixeira de Castro, anche i giudici britannici hanno iniziato a ritagliare degli spazi di non punibilità per il provocato, allo scopo di prevenire abusi del potere esecutivo e di proteggere l’integrità del sistema della giustizia penale. In due decisioni del 2000, relative rispettivamente ai casi Looseley e A-G’s Reference, la House of Lords – pur escludendo la configurabilità di una causa sostanziale di non punibilità per effetto dell’entrapment – ha potenziato sensibilmente la tutela del soggetto indotto alla commissione del reato dall’attività della polizia, affermando che tale situazione può determinare una paralisi della pretesa punitiva, in quanto integra una fattispecie di “abuso del processo”, se la condotta degli organi investigativi è andata oltre «ciò che è possibile attendersi da altri soggetti nelle circostanze concrete». Altresì, se la condotta è consistita nell’offerta all’accusato di una «opportunità non eccezionale» di commettere il reato, essa deve essere considerata legittima ed incapace di determinare alcuna impunità per il provocato. [BALSAMO, 2648]. 8.1. La attenuazione della pena per il provocato. – Il particolare rigore manifestato dalla dottrina e dalla giurisprudenza nei confronti dei reati commessi dal provocato si riscontra, oltre che nella impossibilità di mandarlo esente da pena anche quando sia stato determinato in via esclusiva dalla condotta dell’infiltrato alla loro realizzazione, anche nel diniego della concessione della attenuazione della pena in forza dell’art. 62 comma 5 c.p. negli altri casi. Ad avviso della Suprema Corte, infatti, nei confronti del provocato non può trovare applicazione neanche questa circostanza attenuante comune del concorso del fatto doloso della persona offesa, poiché in tal caso, non solo mancherebbe proprio la compartecipazione dolosa dell’agente infiltrato, il quale non vuole la realizzazione del reato, bensì l’arresto del colpevole, quando poi si violerebbe anche il principio di non contraddizione dell’ordinamento giuridico. Ammettendo l’applicabilità in simili ipotesi della suddetta diminuente si finirebbe per consentire, allo stesso tempo, di accentuare il rigore della disciplina in materia di stupefacenti, attraverso il potenziamento degli strumenti anche investigativi di contrasto al narcotraffico, e di attenuare la pena proprio nei confronti di quanti risultino responsabili di reati di questo tipo sulla base delle prove raccolte grazie alle operazioni sotto copertura [in tal senso Cass., sez. VI, 25.5.1993, Jonuzi, in CED 1995/169919, nonché in Cass. pen., 1995, 1376, che ha negato l’applicabilità

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della attenuante del fatto doloso della persona offesa nell’ipotesi di intervento nel reato da parte di alcuni carabinieri presentatisi nella finta veste di acquirenti delle sostanze stupefacenti poste in vendita dall’imputato].

9. Profili processuali. Sotto il profilo processuale le operazioni sotto copertura sono prese in considerazione dal diverso punto prospettico delle speciali tecniche investigative per la ricerca di fonti di prova. Viste da questa angolatura esse pongono essenzialmente quattro ordini di problemi. Il primo, e più rilevante, è quello della veste che assume l’agente infiltrato nel procedimento penale relativo ai fatti rispetto ai quali è chiamato a rendere dichiarazioni: testimone, coimputato o imputato in procedimento connesso o collegato? Il secondo è relativo alla possibilità di acquisire ed utilizzare come prova le dichiarazioni rese dagli imputati all’agente infiltrato, sia nel caso in cui quest’ultimo abbia agito in conformità alle previsioni di legge, sia, soprattutto, in quello in cui abbia esorbitato dai limiti da esse fissati e sia risultato punibile. Il terzo è inerente alla possibilità di utilizzare il risultato delle attività sotto copertura come prova, in quanto corpo del reato, anche rispetto a reati per i quali non sia consentito dalla legge il ricorso ad esse. Il quarto, infine, concerne la legittimità della testimonianza anonima dell’agente infiltrato nel processo penale a carico del provocato [da ultimo i profili problematici posti sul piano processuale dalle operazioni under cover sono stati specificamente trattati da BARROCU, 101 ss.; in argomento cfr. anche DI MARTINO, 240; ZAPPULLA, 453 ss.; nonché, in altro volume di questa collana, G.C. AMATO, 517 ss., cui si rinvia per ulteriori approfondimenti, al fine di evitare inutili ripetizioni]. Con riferimento al primo profilo problematico, si deve osservare che l’infiltrato può assumere tanto la qualifica di testimone, quanto quella di imputato o coimputato. L’elemento dirimente è rappresentato dal rispetto o meno da parte dell’agente sotto copertura delle procedure descritte dalla legge: nel primo caso egli, risultando non punibile ai sensi della speciale causa di giustificazione di cui all’art. 9 legge n. 146/2006, assume il ruolo di testimone nel processo a carico dell’imputato “incastrato” dalle operazioni sotto copertura; nel secondo caso, al contrario, ravvisandosi nel suo comportamento un fatto penalmente rilevante, assume la figura di coimputato o di imputato in procedimento connesso o collegato. Tale diversa qualifica giuridica dell’infiltrato nel processo penale a carico del “provocato” incide anche sulla risposta al secondo quesito. Ed infatti, se l’infiltrato è testimone non sussistono ostacoli alla utilizzazione delle dichiarazioni da lui rese, con la conseguenza della inapplicabilità del disposto degli artt. 210 e

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192 commi 3 e 4 c.p.p. sul divieto di testimonianza per gli agenti di p.g. sulle dichiarazioni acquisite durante le indagini [Cass., sez. II, 28.5.2008, n. 38488]. Al contrario, se l’infiltrato è coimputato o imputato, alle sue dichiarazioni devono applicarsi le regole di assunzione e di valutazione di cui agli artt. 210 e 192 c.p.p. [sul punto si veda più ampiamente G.C. AMATO, 517 ss.; nonché in giurisprudenza, da ultimo, Cass., sez. III, 1.8. 2013, n. 33322, che ha ribadito il precedente arresto del 2008 appena richiamato chiarendo che: «qualora l’agente infiltrato agisca fuori dei limiti legislativi posti alla sua azione, commettendo un reato, assume la posizione di coimputato in un procedimento connesso o collegato ed alle sue dichiarazioni dovrà essere applicata la disciplinai di cui all’art. 210 c.p.p. (esame di persona imputata in procedimento connesso) e art. 192 c.p.p. (necessità di riscontri estrinseci). Al contrario, qualora agisca nei limiti previsti, assume la posizione di testimone ed alle informazioni da questi apprese dall’imputato durante le investigazioni non si applica l’art. 62 c.p.p. (divieto di testimonianza sulle dichiarazioni rese dall’imputato)».

Vale a dire che «l’attività di mera “infiltrazione” è in grado di produrre conoscenze che saranno veicolate nell’istruzione dibattimentale sotto forma di testimonianza, con l’ovvia applicazione dei parametri ordinari in materia di valutazione nel caso in cui siano rispettati i limiti di legge. Viceversa, qualora venga ravvisata l’esistenza di un nesso causale tra la condotta dell’agente e la consumazione del reato e risultino travalicati tali limiti, le conoscenze del medesimo dovrebbero confluire nel processo mediante l’esame del coimputato, con conseguente riflesso sul loro valore probatorio» [PUGLISI, 2965]. Anzi, secondo il corretto avviso della Suprema Corte ribadito da una recente decisione del 2013 [Cass., sez. III, 10.1.2013, n. 1235, con commento di (b) PIATTOLI, in Dir. pen. proc., 2013, 561 ss.], eventuali abusi da parte delle forze di polizia durante le fasi di indagini under cover, consistenti nella induzione e nell’incitamento al reato, possono generare non solo sul piano del diritto penale sostanziale la responsabilità penale degli agenti, ma anche sul piano probatorio: «l’inutilizzabilità della prova acquisita, per contrarietà dei principi del giusto processo, rendendo l’intero procedimento suscettibile di un giudizio di non equità ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». Tuttavia, – prosegue la Corte, in un successivo passaggio della medesima decisione – «risulta pur sempre legittimo e utilizzabile come prova, il sequestro del corpo di reato o delle cose pertinenti al reato, anche se rinvenute a seguito di un’attività di polizia di cui venga riconosciuto il superamento dei limiti imposti dalla legge per le attività di contrasto al traffico di sostanze stupefacenti» [conforme anche Cass., S.U., 27 marzo 1996, Sala, in Cass. pen., 1996, XI, 3268, con nota di Vessichelli, Sui limiti alla utilizzabilità del sequestro conseguente a una perquisizione illegittima]. Com’è stato rilevato, questa sentenza è in linea con il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità «fondato sul principio “male captum bene retentum”: la censura dell’inutilizzabilità ex art. 191 c.p.p. degli atti raccolti mediante provocazione non avrebbe l’effetto di far propagare il vizio alla successiva apprensione, pur ottenuta attraverso un modus procedendi illegittimo e/o illecito; l’antigiuridicità della ricerca non inciderebbe, infatti, sulla liceità dell’eventuale sequestro» [(b) PIATTOLI, 567]. Si deve, però, rilevare che a tale riguardo esiste anche un orientamento interpretativo opposto emerso in un altro ambito in cui le attività sotto copertura sono spesso proficuamente utiliz-

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zate, quello del contrasto alla pedopornografia. Sebbene anche in questa materia una parte della giurisprudenza di legittimità pervenga a conclusioni analoghe a quelle appena riportate in materia di sostanze stupefacenti, sostenendo la legittimità del sequestro probatorio del corpo di reato, o delle cose pertinenti al reato, rinvenuti a seguito di attività di contrasto da parte di un agente provocatore in relazione a fattispecie che non consentano tale tipo di indagine [Cass., sez. III, 8.7.2010, n. 29616, in Dir. pen. proc., 2010, 1166 ss., con nota di F. Peroni; Cass., sez. III, 18.3.2009, Apicella, in CED 2009/243758; Cass. pen., sez. III, 25.9.2008, n. 40036, ivi, 2009, 712 ss. con nota di G. Leo; Cass., sez. III, 19.10.2005, Garruti, in CED 2005/232747; Cass., sez. III, 8.6.2004, Ganci, in CED 2004/229804] altra parte della giurisprudenza sostiene che «l’attività di contrasto attraverso un agente provocatore non può essere espletata per accertare elementi di prova in ordine al reato di cui all’art. 600 quater c.p. (detenzione di materiale pedopornografico), sì che gli elementi di prova così acquisiti sono inutilizzabili e tale inutilizzabilità è rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, anche durante la fase delle indagini preliminari. Di conseguenza, l’eventuale sequestro probatorio del materiale pedopornografico è illegittimo in quanto non si può affermare la sussistenza del fumus delicti in base ad un risultato investigativo inutilizzabile» [Cass., sez. III, 28.1.2005, in CED 2005/231605. Analogamente, Cass., sez. III, 29.4.2004, Bonaiuti, in CED 2004/228693; Cass., sez. III, 5.5.2004, Gullello, in Cass. pen., 2005, 2679].

Con riferimento invece alla terza questione poc’anzi elencata sussiste un contrasto interpretativo. Da un lato, una parte della giurisprudenza di legittimità esclude radicalmente l’utilizzabilità degli elementi probatori acquisiti in ordine a reati diversi rispetto a quelli per i quali è ammessa l’utilizzabilità di queste speciali tecniche investigative, pena la vanificazione del divieto sancito nell’art. 191 c.p.p. (Cass., sez. III, 28.1.2005, Spora, in CED 2005/231605); dall’altro, un’altra parte della stessa, precisa che, ferma restando la inutilizzabilità probatoria di questi elementi così acquisiti, questa non può però riflettersi anche sulla legittimità del sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, che costituirebbe valida notitia criminis, punto di partenza per le indagini successive (Cass., sez. III, 3.6.2008, Malentacca, in CED 2008/240269). In sostanza, la «liceità dell’attività di contrasto, anche sotto copertura, deve essere valuta ex ante, in relazione al momento in cui tale attività è disposta dall’A.G. e non riguardo all’esito dell’investigazione» [così DI MARTINO, 240]. Infine, per quel che riguarda l’ultimo problema, sembra essere stato risolto dal legislatore che ha espressamente ammesso la testimonianza anonima degli agenti undercovers. Ai sensi del comma 2-bis, dell’art. 9 legge n. 146/2006, introdotto con la legge n. 136/2010, è stato infatti disposto che «gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziari, anche appartenenti ad organismi di polizia esteri, gli ausiliari, nonché le interposte persone, chiamati a deporre, in ogni stato e grado del procedimento, in ordine alle attività svolte sotto copertura ai sensi dell’art. 9 della legge 16 marzo 2006, n. 146, e successive modificazioni, invitati a fornire le proprie generalità, indicano quelle di copertura utilizzate nel corso delle attività medesime». Tuttavia, la dottrina ha manifestato delle perplessità su tale disciplina della testimonianza anonima dell’infiltrato a causa della sua genericità e vaghezza, criticando, in particolare, la mancata esplicitazione della sua natura eccezionale. Si ritiene, invero, che essa possa essere disposta solo in casi strettamente necessari,

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valutati in concreto dal giudice procedente, e rifuggendo da ogni tipo di presunzione, allo scopo di assicurare una corretta amministrazione della giustizia [cfr. Corte EDU, Van Mechelen c. Paesi Bassi, 23.4.1997; sul punto si rinvia a BARROCU, 116 ss.; nonché, da ultimo, a MIRAGLIA, 10].

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Le operazioni sotto copertura

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principio di non dispersione della prova, in Cass. pen., 2009, 2963; TAMIETTI, Agenti provocatori e diritto all’equo processo nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, in Cass. pen., 2002, 2921; VALLINI, Il caso “Teixeira De Castro” davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo ed il ruolo sistematico delle ipotesi legali di infiltrazione poliziesca, in Leg. pen., 1999, 197 ss.; VENTURA, Le investigazioni under cover della polizia giudiziaria, Bari, 2008; VIGNALE, Agente provocatore, in Digesto disc. pen., I, Torino, 1987, 61; ZAPPULLA, Commento ad art. 8, l. 13 agosto 2010, n. 136 (piano antimafie), in Leg. pen., 2010, 447.

Capitolo II

L’attenuante della dissociazione attuosa (art. 8 d.l. n. 152/1991)

Sommario

1. Origini ed evoluzione della legislazione premiale in materia di criminalità organizzata. – 1.1. Le recenti fattispecie premiali introdotte per contrastare altre associazioni criminali qualificate. – 2. Rilievi critici generali nei confronti della collaborazione processuale. – 3. Le diverse forme di pentitismo: dissociazione; collaborazione processuale; collaborazione di giustizia. – 4. L’art. 8 d.l. n. 152/1991 e l’introduzione di forme di collaborazione processuale nella legislazione antimafia. – 5. La legge n. 45/2001: una riforma prevalentemente processuale. – 6. L’articolata struttura della attenuante in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso. I soggetti. – 7. Il presupposto oggettivo: la commissione di uno dei reati elencati. – 7.1. I controversi presupposti impliciti: a) la precedente contestazione dell’aggravante ex art. 7 d.l. n. 152/1991. – 7.2. (Segue) b) l’ammissione al programma di protezione. – 8. Gli elementi costitutivi: l’insufficienza della mera dissociazione e l’effettiva utilità oggettiva del contributo del collaboratore di giustizia. – 8.1. L’irrilevanza dei profili soggettivi. – 8.2. Il risultato della dissociazione collaborativa. – 8.3. La decisività del contributo. – 8.4. I limiti cronologici per l’efficace collaborazione. – 9. La natura giuridica. – 10. Il rapporto con l’aggravante ex art. 7 d.l. n. 152/1991. – 11. Il rapporto con le attenuanti generiche. – 11.1. Il rapporto con l’attenuante speciale del sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione di cui all’art. 630 comma 5 c.p. – 12. La controversa assoggettabilità dell’art. 8 d.l. n. 152/1991 al giudizio di bilanciamento. – 12.1. La recente soluzione negativa delle Sezioni Unite 2010. – 12.2. I criteri di calcolo della diminuente. – 13. Il rapporto con altre attenuanti simili. In particolare: con l’art. 74 comma 7 d.p.r. n. 309/1990. – 14. Il rapporto con le misure cautelari. – 15. Profili processuali: la procedura per la valutazione della collaborazione. – Bibliografia.

1.

Origini ed evoluzione della legislazione premiale in materia di criminalità organizzata.

Le fattispecie premiali legate alla dissociazione attiva ed alla collaborazione processuale post delictum rappresentano uno dei cardini attorno al quale hanno ruotato, e continuano a ruotare, da circa quarant’anni gli interventi del legislatore penale nel settore della criminalità organizzata. Nonostante non sia mai stata

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dettata una loro organica ed unitaria disciplina e ci si sia affidati, piuttosto, alla logica “pointillista” della emergenza contingente, la maggior parte delle leggi susseguitesi negli ultimi lustri nei diversi comparti del crimine associato qualificato (sequestri di persona, stupefacenti, mafia, contrabbando, tratta di persone ecc.) è stata caratterizzata dall’impiego di queste figure giuridiche con sfumature, però, sovente diverse [sul punto si rinvia diffusamente ai lavori di RUGA RIVA; BERNASCONI]. Com’è noto, il ricorso a circostanze attenuanti speciali ispirate ad una prospettiva premiale di questo tipo, che infrange la rigidità della sequenza reatopena valorizzando un comportamento postfatto del reo di tipo processuale, nasce alla fine degli anni Settanta nella prima legislazione emergenziale dell’Italia repubblicana, allo scopo di fronteggiare un fenomeno leggermente diverso rispetto a quello della criminalità organizzata stricto sensu intesa: quello dei sequestri di persona estorsivi, in continuo aumento in peculiari contesti locali di tipo isolano. Risale, infatti, alla legge n. 497/1974 l’introduzione nell’art. 630 c.p. – che incrimina per l’appunto il sequestro di persona a scopo di estorsione – di una riduzione di pena per l’agente adoperatosi in modo da far acquisire la libertà al sequestrato, senza che tale evento costituisca il risultato del pagamento del prezzo del riscatto richiesto dai sequestratori [BERARDI, 454]. Successivamente, questa medesima opzione politico-criminale è stata ricalibrata in modo ancor più incisivo, per provare a mettere a disposizione dello Stato uno strumento in grado di arginare il progressivo ed allarmante incremento di questi odiosi reati tanto nella criminalità comune, quanto, soprattutto, in quella di matrice politico-terroristica. In particolare, una nuova e più netta riforma delle norme incriminatrici in materia di sequestro di persona fu portata a termine dal legislatore nel tentativo (poi risultato vano) di fornire una risposta tangibile (quanto meno rispetto alla sciagurata “strategia della fermezza” seguita sul piano prettamente politico) alla drammatica vicenda del sequestro avvenuto il 16 marzo 1978 dell’allora Presidente del Consiglio Aldo Moro. Con il d.l. 21.3.1978, n. 58, poi convertito con sensibili modifiche nella legge 18.5.1978, n. 191 (prima tra tutte, lo scorporo del delitto di sequestro politico da quello di sequestro estorsivo e la sua autonoma regolamentazione nell’art. 289-bis c.p., invece che nell’art. 630 c.p.), furono introdotti sconti di pena ancor più significativi per il concorrente nel sequestro che, dissociandosi, si fosse adoperato per la liberazione dell’ostaggio, sia in relazione al sequestro estorsivo, che al sequestro a scopo di terrorismo o di eversione [CHELAZZI, passim]. Pochi mesi dopo, con gli artt. 4 e 5 del d.l. 15.12.1979, n. 625, poi convertito in legge 6.2.1980, n. 15 (unitamente alla introduzione nel codice penale del delitto di associazione con finalità di terrorismo nell’art. 270-bis c.p., che sancì l’effettiva transizione del c.d. pentitismo nel campo del crimine organizzato) vennero previste delle speciali diminuzioni di pena per tutti i reati connotati da finalità politiche. Ai sensi di tali articoli è stato, infatti, disposto che «per i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico,

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salvo quanto, disposto nell’articolo 289-bis del codice penale, nei confronti del concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia e l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti, la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da dodici a venti anni e le altre pene sono diminuite da un terzo alla metà»; nonché «fuori del caso previsto dall’ultimo comma dell’articolo 56 del codice penale, non è punibile il colpevole di un delitto commesso per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico che volontariamente impedisce l’evento e fornisce elementi di prova determinanti per la esatta ricostruzione del fatto e per la individuazione degli eventuali concorrenti» [BERARDI, 456]. Proseguendo lungo la medesima direttrice inaugurata per i reati con finalità politiche, il legislatore (suscitando qualche perplessità in dottrina, a causa della assenza proprio di tale peculiarissima caratteristica ideologica [(a) PADOVANI, 177]) ha modificato ulteriormente anche l’art. 630 c.p. in materia di sequestri comuni, introducendovi, con la legge n. 894/1980, una nuova ipotesi di ravvedimento operoso per il concorrente che si sia adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, ovvero che abbia aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria [GIUNTA, 273; LAUDI, 276]. Da ultimo, con il d.l. 15.1.1991, n. 8 convertito in legge 15.3.1991, n. 82, ha poi previsto una ulteriore diminuzione per quei contributi sostanziali di “eccezionale rilevanza” [su questo argomento si rinvia al lavoro contenuto in altro volume di questo trattato di PELISSERO, 161]. Sulle onde dei successi conseguiti attraverso tale linea di intervento, ed al fine di allettare ulteriormente il “pentitismo” negli affiliati ad associazioni terroristiche, venne emanata anche la legge temporanea 29.5.1982, n. 304 intitolata “Misure per la difesa dell’ordinamento costituzionale”, che previde delle speciali ipotesi di non punibilità per i reati associativi di cui agli artt. 270, 270-bis, 304, 305 e 306 c.p., e degli ulteriori sconti di pena in caso di dissociazione o di collaborazione per coloro i quali avessero tenuto, entro un termine perentorio, condotte antitetiche rispetto alla permanenza nel sodalizio criminale o al perseguimento del suo programma [PELISSERO, 162]. Per le stesse esigenze di “superamento del passato” e di “chiusura dei conti” con la stagione del terrorismo venne poi emanata un’altra legge di natura temporanea, la legge 18.2.1987, n. 34, che offrì significative riduzioni e commutazioni di pena per coloro i quali si fossero dissociati dal terrorismo attraverso il definitivo abbandono dell’organizzazione, l’ammissione delle attività svolte ed il ripudio della lotta politica violenta [(c) PADOVANI, 398]. Solo per inciso, è opportuno rilevare che la sovrapposizione in questo comparto normativo di leggi temporanee e leggi ordinarie dai contenuti leggermente diversi ha generato notevoli incertezze interpretative nella recente giurisprudenza che, in seguito al riaffiorare del problema del terrorismo politico di estrema sinistra, sfociato nei tragici omicidi di Biagi e D’Antona, è stata chiamata a verificare l’eventuale odierna vigenza della disciplina dell’art. 4 legge n. 15/ 1980. Nonostante il diverso e risalente avviso della Corte di Cassazione [sez. I, 10.5.1993, Al-

8.

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granati, in Cass. pen., 1995, 53], una recente pronuncia della Corte di Assise Appello Bologna, 5.7.2006, ha ritenuto che questa disposizione si sia “riespansa” dopo la parentesi derogatoria delle leggi temporanee e continui ancora oggi ad essere in vigore e a trovare applicazione, nonostante la sua non impeccabile formulazione letterale [RAFFAELLI, 3892].

Da allora la collaborazione di giustizia è diventata una sorta di “costante” delle riforme che hanno progressivamente riscritto la legislazione penale in materia di reati associativi, salvo qualche rara eccezione, come quella della normativa in materia di terrorismo internazionale [FALCINELLI, 1619]. La ratio di ciò può essere rinvenuta nella strategia politico-criminale che caratterizza ed accomuna tali tipologie di interventi riformistici di carattere schiettamente emergenziale, originate dalla presa d’atto della difficoltà per lo Stato di contrastare dall’esterno il crimine associato ed ispirate dallo scopo di scardinare l’associazione dall’interno, attraverso il concreto contributo dei suoi stessi membri [FIANDACA, MUSCO, 160]. Ed invero, la previsione di premi per la dissociazione da qualsivoglia societas sceleris qualificata risponde ad una precisa “strategia differenziata” del legislatore, orientata lungo due direttrici parallele ma complementari: quella dell’aumento del trattamento punitivo per il fatto commesso e quella della sensibile riduzione delle pene per la successiva collaborazione [anche solo per inciso, è opportuno rilevare come questa strategia differenziata sia stata, di recente, una delle basi argomentative su cui si sia fondata una importante decisione della Corte costituzionale in materia di diminuzione di pena per il delitto di sequestro di persona a scopo estorsivo: C. cost., 23.3.2012, n. 68]. In tutte queste fattispecie, difatti, all’inasprimento esasperato dei livelli sanzionatori edittali fa sempre da “contraltare” la predisposizione di ipotesi di non punibilità o, molto più spesso, di sconti di pena, per il “pentito” che collabori alla liberazione dell’ostaggio o alla elisione delle conseguenze del reato o alle attività investigative degli inquirenti [FONDAROLI, 686]. 1.1. Le recenti fattispecie premiali introdotte per contrastare altre associazioni criminali qualificate. – Come si diceva in precedenza, sulla base dei risultati positivi conseguiti nel campo del terrorismo e dei sequestri estorsivi da parte di tali fattispecie premiali, analoghe attenuanti sono state poi costantemente utilizzate dal legislatore negli ultimi anni in altri nevralgici settori del crimine organizzato. Con il d.p.r. n. 309/1990, in occasione del riordino di tutta la normativa in materia di stupefacenti, sono state previste due circostanze attenuanti speciali per le ipotesi di ravvedimento post delictum per coloro i quali abbiano prestato forme di collaborazione sostanziale o processuale. Più precisamente, negli artt. 73 comma 7 e 74 comma 7, sono state disposte delle riduzioni di pena dalla metà a due terzi, rispettivamente, per chi «si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l’autorità giudiziaria nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti» e per chi «si sia efficacemente adoperato per assicurare le prove del reato o

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per sottrarre all’associazione risorse decisive per la commissione dei delitti» [su tale fattispecie si rinvia al lavoro contenuto in altro volume di questo trattato di G.C. AMATO, 396; LEO, 740]. Quasi contestualmente, la stessa strategia politico-criminale è stata seguita anche nel campo della criminalità mafiosa con le riforme del 1991 su cui ci si soffermerà diffusamente nel prosieguo nel presente lavoro. Qualche anno dopo una medesima scelta è stata compiuta in materia di diritti d’autore; con la legge 18.8.2000, n. 248 è stata introdotta nella legge 22.4. 1941, n. 633, all’art. 171-nonies, una circostanza attenuante ad effetto speciale per colui che, prima dell’intervenuta contestazione specifica, con atto dell’autorità giudiziaria, della violazione commessa, la denunzi spontaneamente, ovvero, fornendo tutte le informazioni in suo possesso, consenta l’individuazione del promotore o dell’organizzatore delle attività illecite di duplicazione, riproduzione, diffusione e similari di materiale “protetto”, ovvero di altro duplicatore o distributore, ovvero consenta il sequestro di notevoli quantità di supporti audiovisivi e fonografici, o di strumenti o materiali che siano serviti o destinati alla commissione dei reati [BERARDI, 460]. Successivamente, una attenuante di questo tipo è stata introdotta anche nella normativa in materia di contrabbando dall’art. 1 legge 19.3.2001, n. 92 “Modifiche alla normativa concernente la repressione del contrabbando di tabacchi lavorati”, d.p.r. 23.1.1973, n. 43, che ha previsto nel comma 5 dell’art. 291-quater “Associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri” che «le pene previste dagli articoli 291-bis, 291-ter e dal presente articolo sono diminuite da un terzo alla metà nei confronti dell’imputato che, dissociandosi dagli altri, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata ad ulteriori conseguenze anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori del reato o per la individuazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti». Più di recente, lo stesso genere di riduzione di pena è stato previsto anche con riguardo allo sfruttamento della prostituzione e della pornografia minorile in una delle tante, disomogenee, disposizioni del pacchetto sicurezza del 2009. -

Ed infatti l’art. 3 comma 56 della legge 15.7.2009, n. 94, ha inserito nell’art. 600-sexies c.p. una riduzione di pena fino alla metà «nei casi previsti dagli articoli 600, 600 bis, 600 ter, 600 quater, 600 quinquies, 600 sexies, 600 septies, 600 octies, 601, 602 e 416, sesto comma, (…) nei confronti dell’imputato che si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi di prova decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione e la cattura di uno o più autori dei reati ovvero per la sottrazione di risorse rilevanti alla consumazione dei delitti».

Tuttavia, nel giro di un ristrettissimo lasso di tempo il legislatore ha fatto un passo indietro in questo specifico campo, riducendo il novero dei comportamenti di collaborazione postfatto del reo da “premiare”. Ed infatti con la legge 1.10.2012, n. 172, intitolata “Ratifica ed esecuzione del-

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la Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno”, in seguito alla abrogazione esplicita dell’art. 600-sexies c.p., l’attenuante ad effetto speciale per chi si adoperava per fa recuperare al minore la propria autonomia e libertà è stata definitivamente soppressa, mentre l’altra fattispecie di ravvedimento operoso contemplata dalla disposizione abrogata è stata riproposta in maniera “ridotta” nell’inedito art. 600-septies.1 c.p. Ai sensi di tale nuova disposizione, infatti, è disposto che il tradizionale sconto di pena da un terzo alla metà – esteso indistintamente a tutti i reati della Sezione prima – viene concesso al concorrente «che si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti». Ciò significa che non beneficiano più della suddetta riduzione di pena le condotte di collaborazione nella raccolta di prove decisive per la ricostruzione dei fatti, nonché quelle di collaborazione nella sottrazione di risorse rilevanti alla consumazione di delitti [ANDREAZZA, PISTORELLI, 13].

Va infine segnalato che il ricorso a forme di collaborazione processuale ha oltrepassato i confini del contrasto alla criminalità organizzata ed ha fatto il suo ingresso anche in un settore particolarmente rilevante della criminalità predatoria da strada: quello dei reati contro il patrimonio. Ai sensi dell’art. 625-bis c.p., rubricato “Circostanze attenuanti”, introdotto nel codice penale dall’art. 2 comma 4 legge 26.3.2001, n. 128, è stato previsto che «nei casi previsti dagli articoli 624, 624-bis e 625 la pena è diminuita da un terzo alla metà qualora il colpevole, prima del giudizio, abbia consentito l’individuazione dei correi o di coloro che hanno acquistato, ricevuto od occultato la cosa sottratta o si sono comunque intromessi per farla acquistare, ricevere od occultare». Analogamente, un’altra attenuante legata alla collaborazione processuale è stata inserita anche nella normativa in materia di immigrazione, prescindendo dal riferimento alle associazioni criminali che operano in questo specifico settore. Con una formulazione non proprio lineare, l’art. 11 della legge n. 189/2002, ha introdotto nell’art. 12 del Testo unico sull’immigrazione il comma 3-quinquies ai sensi del quale è disposto che «per i delitti previsti dai commi precedenti [e cioè i reati di favoreggiamento dell’immigrazione illegale e dell’emigrazione illegale] le pene sono diminuite fino alla metà nei confronti dell’imputato che si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi di prova decisivi per la ricostruzione dei fatti, per l’individuazione o la cattura di uno o più autori di reati e per la sottrazione di risorse rilevanti alla consumazione dei delitti» [CAPUTO, 74]. Da ultimo, poi, una identica opzione politico-criminale è stata adottata nel settore della contraffazione e della tutela penale dei marchi. Con la legge 23.7. 2009, n. 99, che – tra le altre cose – ha cercato di migliorare la normativa penale posta a presidio della piaga delle contraffazioni, è stato introdotto nel nostro codice penale l’art. 474-quater, ai sensi del quale è prevista una diminuzione del-

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le pene degli artt. 473 e 474 dalla metà a due terzi «nei confronti del colpevole che si adopera per aiutare concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nell’azione di contrasto dei delitti di cui ai predetti artt. 473 e 474, nonché nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura dei concorrenti negli stessi, ovvero per la individuazione degli strumenti occorrenti per la commissione dei delitti medesimi o dei profitti da essi derivanti» [MADEO, 11]. In sintesi, sembrerebbe che l’unico comparto della legislazione in materia di criminalità organizzata rimasto impermeabile alla collaborazione processuale ed alla c.d. “strategia differenziata” sia quello del terrorismo internazionale. Probabilmente la ratio di questa esclusione può essere rinvenuta, oltre che sul piano prettamente ideologico del (tanto giustamente criticato) diritto penale del nemico, anche su quello più strettamente concreto della sua effettiva utilità. Il premio legato alla collaborazione sembra, infatti, non avere alcun fattore di attrattiva per il terrorista islamico che, di norma, agisce in maniera isolata ed è pronto a sacrificare la vita per le proprie convinzioni religiose, essendo quella della Jihad una struttura non piramidale e gerarchizzata, ma orizzontale e per cellule, dove gli ordini non sempre provengono dall’alto, ma possono “auto-generarsi” in circoscritte realtà territoriali sulla base del travisamento delle scritture sacre [FALCINELLI, 1619]. Tuttavia, com’è stato rilevato, la misura premiale prevista dall’art. 4 della legge n. 15/1981, temporaneamente abrogata dalle leggi temporanee degli anni Ottanta ma ancora oggi vigente, sembrerebbe potenzialmente applicabile anche a queste peculiari fattispecie terroristiche, dal momento che essa è astrattamente configurabile rispetto a tutte le disposizioni incriminatrici connotate da finalità terroristiche, senza delimitazioni di sorta [RAFFAELLI, 3889]. 2. Rilievi critici generali nei confronti della collaborazione processuale. Nonostante i notevoli risultati conseguiti tramite la legislazione premiale di questo tipo, non si può far a meno di rilevare che essa sia stata sottoposta a penetranti osservazioni critiche, anche abbastanza severe, da parte della dottrina, finendo con l’essere additata come una delle (tante) forme del diritto premiale incompatibili con l’impianto di fondo del moderno diritto penale costituzionalmente orientato [ (b) AMARELLI, 253]. Salvo alcune attenuanti incentrate su ipotesi di ravvedimento operoso diretto a reintegrare il bene giuridico offeso dalla condotta incriminata che, essendo omogenee al piano dell’offesa penalmente rilevante, costituiscono certamente forme di premio razionali rispetto alle funzioni politico-criminali del sistema penale, tutte le altre imperniate su forme di collaborazione processuale appaiono, al contrario, distoniche rispetto ad esse. A differenza delle prime, che fondano la ratio della diminuzione di pena su di una condotta postfatto del reo ristorativa del danno causato, queste ultime

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sono caratterizzate da un completo capovolgimento delle prospettive e delle logiche che presidiano l’esercizio della potestà punitiva statale, legittimando l’esclusione (o la riduzione) della pena in ragione di comportamenti del reo in nessun modo (o solo parzialmente) correlati alla riparazione dell’offesa originaria all’interesse protetto. Esse risultano, quindi, eccentriche rispetto ai canoni di una politica premiale coerente e razionale rispetto agli scopi del sistema, dal momento che, pur producendo effetti positivi in termini di tutela dei beni giuridici, consentendo ad esempio lo scompaginamento delle associazioni criminali, scardinano in maniera irrimediabile i principi fondamentali del diritto penale, primo tra tutti quello di uguaglianza, introducendo indiscriminati privilegi per gli autori di certi tipi di reato [(a) MOCCIA, 214; MAIELLO, 124; FERRUA, 49; DI MARTINO, 243]. Ciò che desta perplessità è che in tali fattispecie (come, ad esempio, nei casi di dissociazione previsti in materia di criminalità organizzata di tipo terroristico cui prima si è fatto riferimento) la non punibilità (o la drastica riduzione della pena) non dipende unicamente da un dato oggettivo (quale, ad esempio, la liberazione del sequestrato nell’art. 630 comma 5 c.p. o lo scioglimento dell’associazione sovversiva nel 270 c.p.), ma anche (recte: prevalentemente) da aspetti sintomatico-soggettivi dell’autore che segnalino una sorta di autentico ripudio dell’impresa criminosa e rendano manifesta, grazie ad esplicite e non equivoche dichiarazioni, una sua nuova “scelta di campo” rispetto agli altri concorrenti dell’associazione criminosa. In simili circostanze non è sufficiente la realizzazione di una contro-azione volontaria, causalmente efficiente per la produzione di un risultato positivo, ma è necessario anche il verificarsi di un mutamento dell’atteggiamento interiore del reo che esprima «un distacco dai complici ed una collaborazione con l’autorità, sintomatici di una (…) rottura col passato, di una nuova dimensione della personalità: in breve, una sorta di pentimento civile. (…) L’asse si sposta dal piano oggettivo a quello soggettivo, dalla reintegrazione dell’offesa alla disponibilità a collaborare alla sua repressione, dalla logica del risultato positivo a quella della scelta di campo» [(b) PADOVANI, 537; PALIERO, 132], innestando in questo modo, all’interno delle norme penali premiali, elementi che, per essere espressivi della direzione soggettivamente qualificata del ravvedimento, risultano di incerto significato, in aperto contrasto con il principio di determinatezza [FLORA, 177]. Ad avviso di questa parte della dottrina si registrerebbe, poi, un allontanamento inaccettabile dalla concezione realistica dell’illecito penale ed un pericoloso ritorno verso un diritto penale dell’autore, grazie ad un sistema di graduazione della responsabilità incentrato, prevalentemente, sull’atteggiamento del reo durante le indagini o nel corso del procedimento penale, che non può assolutamente essere condiviso, se non nell’ottica deprecabile di ritenere utilizzabile qualsiasi mezzo per il perseguimento di finalità che stanno particolarmente a cuore allo Stato, sbilanciando completamente il delicato equilibrio tra le esigenze di rispetto dei principi fondamentali del diritto penale e delle garanzie indi-

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viduali e le pressanti e mutevoli ragioni della politica criminale [(b) MOCCIA, 207; S. FIORE, 127; MUSCO, 121]. Inoltre, si è osservato che istituti di questo calibro si pongono in aperto contrasto con le tipiche funzioni della pena. In particolare, si ritiene minato il principio di proporzionalità della pena in relazione alla gravità del reato ed al grado di responsabilità personale, poiché i capi delle organizzazioni criminali, in quanto capaci di rivelazioni maggiori e potenzialmente più “decisive”, a causa del loro ruolo preminente all’interno di queste, potrebbero fruire di sconti di pena più cospicui rispetto ai dei semplici “affiliati” [(c) PADOVANI, 406]. In secondo luogo, si reputa violata anche la funzione di prevenzione speciale positiva, poiché le diminuzioni di pena non discendono da una prognosi favorevole circa la minore pericolosità del reo, bensì dalla verifica della più o meno decisiva rilevanza probatoria delle rivelazioni del collaboratore [MUSCO, 121]. Infine, si ritiene frustrata anche la funzione general-preventiva positiva, sulla base della constatazione che «l’allarme sociale per il tipo di crimini perpetrati dal pentito, elevatissimo all’origine, non scema certo dopo le sue rivelazioni» [(c) PADOVANI, 406]. Senza trascurare che anche l’ineliminabile effetto deterrente, congenitamente connesso alla sanzione penale, risulta indebolito dal fatto che il potenziale autore di un reato sia consapevole di poter ottenere uno sconto di pena in caso di successivo “pentimento attivo” [PARRINI]. Tuttavia, sebbene tali critiche, abbiano contribuito a far sì che oggi la collaborazione processuale non costituisca più, come un tempo, il vero e proprio «nucleo forte della normativa premiale» [(c) PADOVANI, 417], come si è visto poc’anzi, essa però non è stata del tutto abbandonata. Il legislatore, infatti, negli ultimi venti anni, pur avendo saggiato le notevoli potenzialità dell’altra species del diritto penale premiale, quella incentrata sulle condotte postfatto del reo riparative dell’offesa (le ipotesi di non punibilità di questo tipo, affinate sul terreno delle contravvenzioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro, sono oramai molto numerose nella legislazione complementare; sul punto sia consentito rinviare amplius al nostro (a) AMARELLI, 21), ha continuato ad impiegarla per far fronte alle sempre nuove emergenze poste dalla criminalità organizzata qualificata.

3.

Le diverse forme di pentitismo: dissociazione; collaborazione processuale; collaborazione di giustizia.

Prima di procedere alla trattazione analitica della diminuente prevista in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso, è utile soffermarsi sulle diverse tipologie di condotte a cui il legislatore ha riconosciuto, con graduale intensità, efficacia diminuente del trattamento sanzionatorio edittale (nonché del trattamento penitenziario), allo scopo di poter così verificare le analogie e le differenze tra queste due discipline e di evidenziare i possibili accorgimenti da apportare in futuro.

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Una attenta rilettura delle tante norme premiali che hanno caratterizzato la lotta alla criminalità organizzata di matrice terroristica consente di astrarre ed individuare tre distinte sottocategorie del c.d. – in senso atecnico – “pentitismo”, sulla base del più o meno significativo contributo fornito dall’imputato con le proprie dichiarazioni alle attività investigative della polizia giudiziaria. Attraverso questa lente è possibile selezionare, in una progressione crescente per rilevanza di impatto, le seguenti forme di collaborazione: la dissociazione; la collaborazione processuale; la collaborazione di giustizia. In particolare, nella prima, la dissociazione, «il soggetto si limita ad ammettere le proprie responsabilità, attraverso una confessione sintomatica del distacco, non fornendo alcun elemento ultroneo» utile al prosieguo delle indagini, sia per i fatti oggetto del processo in corso, sia per altri fatti riconducibili all’associazione criminale di appartenenza o ad altra associazione [(a) RUGGIERO, 1028]; in questo caso è sufficiente l’abbandono definitivo dell’organizzazione, che si ricava dalla “congiunta” esecuzione delle seguenti azioni: a) ammissione delle attività effettivamente svolte; b) realizzazione di comportamenti oggettivamente ed univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo; c) ripudio della violenza come metodo di lotta politica. Nella seconda, la collaborazione processuale, l’interessato non si limita ad ammettere le proprie responsabilità, ma si adopera in concreto durante il processo per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato oggetto della vicenda processuale in corso, o per impedire la commissione di reati connessi. Infine, nella terza ipotesi, quella più pregnante, la collaborazione con la giustizia, l’imputato fornisce agli inquirenti tutto il proprio bagaglio conoscitivo circa la vita del proprio o di altri gruppi criminali, a prescindere dalla specifica vicenda oggetto del processo penale in corso. Questa tripartizione non ha solo un valore dommatico e sistematico-classificatorio, aiutando a mettere un po’ di ordine in un contesto normativo caotico di stampo tipicamente emergenziale, bensì riverbera (o come vedremo, dovrebbe riverberare) effetti in concreto anche sulla dosimetria sanzionatoria, inducendo il legislatore a calibrare in maniera proporzionata e ragionevole in base alla diversa “intensità” ed “utilità” dei contributi ora elencati, i rispettivi sconti di pena. Nella normativa antiterroristica, infatti, ad ognuna delle tre possibili forme di “pentimento” del dichiarante (si tolleri l’impiego in questa occasione ed in seguito di tale termine atecnico, per mere ragioni di semplificazione espositiva) corrisponde una distinta premialità, che influisce direttamente sull’abbattimento della pena irrogabile in concreto [(a) RUGGIERO, 1032]. Più precisamente, nelle ipotesi di collaborazione processuale la pena dell’ergastolo è sostituita da una pena temporanea che varia tra i quindici ed i ventuno anni di reclusione, mentre le pene temporanee, in generale, sono diminuite di un terzo, senza superare comunque i quindici anni. Diversamente, nel caso più complesso della collaborazione con la giustizia,

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che necessita dei contributi più pregnanti poc’anzi riepilogati, che non limitano i loro effetti all’interno della specifica vicenda oggetto del processo in corso nei confronti del dichiarante, la pena dell’ergastolo è sostituita con una pena temporanea ancor più ridotta che varia tra i dieci ed i dodici anni di reclusione, mentre le pene temporanee sono diminuite della metà, con un limite massimo fissato in dieci anni di reclusione [(a) RUGGIERO, 1032]. Per quanto concerne, invece, la mera dissociazione, va detto che normalmente essa viene ricondotta nell’alveo dell’attenuante comune del pentimento operoso di cui all’art. 62 n. 6 c.p., beneficiando così degli ordinari sconti di pena previsti per questo tipo di circostanza dalla parte generale del codice penale, e cioè fino ad un terzo. In questo specifico settore, però, il legislatore con la legge 18.2.1987, n. 34, allo scopo di superare il fenomeno del terrorismo, sfruttando, per l’appunto, lo smembramento delle associazioni “finalizzate” al perseguimento di obiettivi eversivi, ha premiato ulteriormente la condotta di dissociazione qualificata dell’«imputato o condannato per reati aventi finalità di terrorismo o di eversione» con degli sconti di pena inferiori rispetto a quelli previsti per le ipotesi di collaborazione attiva. Ed infatti, ad eccezione del delitto di strage, per il quale alla condotta di dissociazione qualificata non è riconosciuto alcun beneficio ai sensi dell’art. 2 comma 2 per tutti gli altri delitti commessi nell’ambito dell’attività terroristica «alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione per trenta anni», mentre per le pene temporanee la diminuzione della sanzione varia da «un quarto» alla «metà» a seconda dei reati imputati o commessi [(a) RUGGIERO, 1035]. Alla luce di queste indispensabili premesse di fondo è possibile ora concentrare l’attenzione sulla specifica disposizione che in questa sede interessa maggiormente, vale a dire la diminuente prevista per la dissociazione attiva in materia di mafia.

4.

L’art. 8 d.l. n. 152/1991 e l’introduzione di forme di collaborazione processuale nella legislazione antimafia.

Tra le molteplici fattispecie premiali varate tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta, sicuramente una delle più rilevanti per i proficui risultati (e talvolta, nei casi di dichiarazioni deliberatamente mendaci, per i deleteri effetti – il suo vero punctum dolens era e continua ad essere quello della incerta attendibilità e credibilità dei c.d. “pentiti”) che ha prodotto nella prassi applicativa e per il connesso fenomeno a cui ha dato luogo (la protezione dei collaboratori di giustizia), è rappresentata da quella dettata in materia di criminalità organizzata di tipo mafioso. Ed infatti, proseguendo nel solco tracciato in materia di lotta al terrorismo ed al traffico di stupefacenti, il legislatore, nell’art. 8 d.l. 13.5.1991, n. 152 “Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparen-

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za e buon andamento della attività amministrativa”, convertito in legge 12.7. 1991, n. 203, ha previsto (oltre ad una serie di benefici relativi al trattamento penitenziario del “pentito”, per la cui disamina si rinvia ai contributi di MAFFEO in questo volume) una ulteriore fattispecie premiale, stabilendo che: «per i delitti di cui all’articolo 416 bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, nei confronti dell’imputato che, dissociandosi dagli altri, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati, la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da dodici a venti anni e le altre pene sono diminuite da un terzo alla metà. // Nei casi previsti dal comma 1 non si applicano le disposizioni dell’articolo 7» [TONA, 1147; (b) CISTERNA, 39]. Già ad una prima lettura il dato che certamente colpisce ictu oculi è senz’altro rappresentato dalla scelta politico-criminale del legislatore (più o meno consapevole, questo non è dato sapere con certezza) di non replicare la medesima disciplina dettata in materia di reati con finalità di terrorismo, non mutuando la analitica tripartizione a cui in precedenza si è fatto riferimento ed optando, altresì, per una formulazione letterale e concettuale unitaria che solleva più d’una perplessità [(a) RUGGIERO, 1028]. Non c’è, difatti, alcuna traccia della differenziazione netta delle tre forme di pentitismo proposta dalla legislazione antiterrorismo, sia da un punto di vista della descrizione puntuale dei possibili comportamenti, sia da un punto di vista della rispettiva dosimetria sanzionatoria. Non solo in questo articolo è scomparsa del tutto la autonoma valorizzazione della dissociazione qualificata del reo, degradata al rango di mero presupposto di operatività della nuova attenuante, ma è stata anche sfumata e confusa la linea di confine tra le ipotesi di collaborazione processuale e quelle di collaborazione di giustizia, accomunandole sotto il profilo definitorio ed uniformandole sotto il profilo della quantificazione dello sconto di pena. Come si vedrà meglio tra breve, nella disposizione de qua il legislatore ha optato per la fusione in un’unica circostanza attenuante speciale della dissociazione e delle due ipotesi di collaborazione attiva dell’imputato che la legislazione antiterrorismo aveva, invece, forgiato in maniera differenziata e per la conseguente modulazione della riduzione sanzionatoria in maniera unitaria. L’effetto di questa scelta è che in tal caso lo sconto di pena per qualsiasi comportamento collaborativo si muove nella unica forbice edittale che va da un terzo alla metà, mentre nella normativa antiterrorismo esso può arrivare sino ai due terzi, in considerazione proprio delle peculiari caratteristiche del contributo attivo fornito dal reo. -

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5. La legge n. 45/2001: una riforma prevalentemente processuale. Pur restando ancora oggi il d.l. n. 152/1991, sotto molti punti di vista, il testo normativo di riferimento in materia di collaborazione processuale da cui desumere i requisiti costitutivi della speciale diminuente in questione, si deve rilevare che questo specifico settore della legislazione antimafia, all’inizio del nuovo secolo, ha subìto un significativo intervento di restyling con la legge 13.2.2001, n. 45, intitolata “Modifica della disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia nonché disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza”. Con tale novella, però, il legislatore ha inciso solo minimamente sulla disciplina della speciale diminuente prevista per la collaborazione processuale, concentrandosi prevalentemente sulla riscrittura delle regole procedurali da seguire per l’acquisizione delle dichiarazioni dei pentiti e dei criteri e delle modalità per l’ammissione dei collaboratori e dei testimoni di giustizia allo speciale programma di protezione [su tali aspetti si rinvia ai contributi di MAFFEO in questo volume, nonché a (b) CISTERNA, 1 ss.]. Solo indirettamente, infatti, l’attenuante dell’art. 8 d.l. n. 152/1991 è stata coinvolta dalla suddetta riforma, in particolare, è stata toccata dall’art. 14 della legge n. 45/2001, che ha inserito nel d.l. 15.1.1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.3.1991, n. 82, l’art. 16-quinquies rubricato “Attenuanti in caso di collaborazione”, nel quale è stato previsto che «le circostanze attenuanti che il codice penale e le disposizioni speciali prevedono in materia di collaborazione, relativa ai delitti di cui all’articolo 9, comma 2, possono essere concesse soltanto a coloro che, entro il termine di cui al comma 1 dell’articolo 16-quater, hanno sottoscritto il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione previsto dal medesimo articolo 16-quater. // 2. Il giudice, anche d’ufficio, accerta l’avvenuta redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione entro il termine prescritto. // 3. Se la collaborazione si manifesta nel corso del dibattimento, il giudice può concedere le circostanze attenuanti di cui al comma 1 anche in mancanza del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, ferma restando la necessità di procedere alla sua redazione entro il termine prescritto per gli effetti di cui agli articoli 16-quater e 16-nonies». Tramite questa disposizione è stato, in effetti, introdotto un nuovo ed ulteriore presupposto procedurale indispensabile per il riconoscimento da parte del giudice della attenuante di cui all’art. 8 d.l. n. 152/1991, rappresentato dalla trascrizione e sottoscrizione tempestiva delle dichiarazioni del pentito nel verbale illustrativo [(b) RUGGIERO R.A., 2512; FUMO, 2912; LAUDATI, 34]. Ciò significa che essa non può essere concessa se il reo “pentito” non ha raccontato tutto ciò che è in sua conoscenza attraverso la redazione del suddetto verbale entro i centottanta giorni dalla manifestazione della volontà di cooperare [M.I. ROMANO, 1403]. La ratio della previsione di tale “paletto” è quella di cercare di introdurre nella fase delle indagini preliminari un incentivo alla immediata colla-

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borazione, nonché un meccanismo di controllo della sempre incerta attendibilità delle dichiarazioni rese. Attraverso la previsione di un limite cronologico di questo tipo, si vincola il “pentito” ad esporre tutto ciò che sa in un arco temporale ristretto (soli sei mesi), arginando così il deleterio fenomeno delle “dichiarazioni a rate” o eccessivamente tardive ed, allo stesso tempo, agevolando la pronta verifica della affidabilità del sapere acquisito [(b) R.A. RUGGIERO, 2513]. Tuttavia, è opportuno precisare che tale termine non riguarda tutte le dichiarazioni rese dal dissociato, dal momento che il verbale illustrativo è solamente una “traccia orientativa” della futura attività di collaborazione che si esplicherà nelle altre fasi processuali, limitandosi ad attestare per sommi capi il bagaglio di conoscenze del pentito (sui problemi posti dalla previsione di questo termine con specifico riferimento alla utilizzabilità in altri procedimenti penali delle dichiarazioni tardive si è reso necessario l’intervento delle Sezioni Unite, 25.9.2008, Magistris, n. 1151, in Cass. pen., 2009, 2278, con nota di R.A. RUGGIERO, I discutibili confini dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni tardive dei collaboratori di giustizia, con cui è stato precisato che «le dichiarazioni rese da un collaboratore di giustizia dopo il termine di centottanta giorni dalla manifestazione della volontà di collaborare possono essere utilizzate ai fini dell’applicazione della misura cautelare personale, giacché la regola della loro inutilizzabilità riguarda esclusivamente il dibattimento e non anche la fase cautelare»). Anzi, ad avviso della giurisprudenza di legittimità formatasi negli ultimi anni sulle note vicende Bagarella e Contrada, questa regola fissata dall’art. 16-quater legge n. 82/1991, in forza della quale le dichiarazioni dei pentiti possono essere acquisite legittimamente solo se rese entro il termine di 180 giorni dal momento in cui questi hanno manifestato la loro volontà di collaborare, si applica unicamente alla fase delle indagini preliminari e non anche a quella del dibattimento nel contraddittorio delle parti per la formazione della prova (Cass., sez. V, 13.2. 2002, n. 18061, Bagarella; Cass., sez. VI, 10.5.2007, n. 46388, Contrada). «La sanzione di inutilizzabilità che, ai sensi dell’art. 16 quater, comma 9, l. 82/1991, colpisce le dichiarazioni del collaboratore di giustizia rese oltre il termine di centottanta giorni, previsto per la redazione del verbale informativo dei contenuti della collaborazione, trova applicazione solo con riferimento alle dichiarazioni rese fuori dal contraddittorio e non alle dichiarazioni rese nel corso del dibattimento, anche in considerazione del fatto che, se la collaborazione si manifesta proprio in tale fase processuale, all’interessato possono esser concesse, ai sensi dell’art. 16 quinquies, comma 3, l. 82/1991, le attenuanti conseguenti alla collaborazione, pur in mancanza del verbale illustrativo che dovrà essere redatto successivamente» [Cass., sez. V, 13.2.2002, n. 18061, Bagarella, cit.]. La Suprema Corte ha poi puntualizzato, in più di un’occasione, che questo limite non vale anche per «quelle dichiarazioni rese come precisazione ed integrazione, che siano state sollecitate dagli organi inquirenti a chiarimento ulteriore degli episodi già riferiti nei termini di legge, purché non conducano ad individuare episodi criminosi nuovi e diversi o ulteriori soggetti responsabili degli episodi già denunciati» [Cass., sez. I, 8.3.2007, Torni, n. 13697, in Cass. pen., 2008, 2544; Cass., sez. II, 21.1.2003, Mazza, in Cass. pen., n. 223480, Cass., sez. V, 25.9.2006, Genovese, in Cass. pen., n. 235806].

In realtà, da una completa lettura dell’art. 16-quinquies, emerge il valore rela-

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tivo di tale requisito. Il comma 3 di questa stessa disposizione, dopo aver fissato uno sbarramento cronologico apparentemente rigido per la concessione della attenuante di cui all’art. 8 d.l. n. 152/1991, lo rinnega apertamente, enunciando che «se la collaborazione si manifesta nel corso del dibattimento, il giudice può concedere le circostanze attenuanti di cui al comma 1 anche in mancanza del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, ferma restando la necessità di procedere alla sua redazione entro il termine prescritto per gli effetti di cui agli articoli 16-quater e 16-nonies» [Cass., sez. V, 13.2.2002, n. 18061, Bagarella, cit.]. Ciò significa che, ai sensi di questa ulteriore disposizione, nell’ipotesi in cui il collaboratore non abbia già precedentemente narrato nel verbale illustrativo le informazioni di sua conoscenza circa il reato commesso e l’attività dei sodalizi criminosi cui era legato, ma abbia deciso solo successivamente, decorsi i sei mesi, di procedere a questo racconto durante il dibattimento, il giudice potrà comunque concedere l’attenuante di cui all’art. 8 sulla base di una complessiva valutazione delle prove acquisite e dell’effettiva utilità del contributo fornito [(b) R.A. RUGGIERO, 2514]. La ratio di tale scelta derogatoria che consente il travalicamento del limite temporale concepito per garantire la affidabilità del collaboratore durante la fase investigativa è quella di evitare che non siano irragionevolmente coperte dalla attenuante anche le dichiarazioni rese dal collaboratore durante il dibattimento, rispetto alle quali la credibilità delle stesse (in questa ben diversa fase processuale, caratterizzata dal contraddittorio come metodo di formazione della prova) può essere altrimenti verificata da parte del giudice, grazie al fuoco incrociato dell’esame e del controesame, ed al riscontro con altre risultanze processuali, frutto anch’esse del contributo dialettico di tutte le parti [(b) RUGGIERO R.A., 2513].

6.

L’articolata struttura della attenuante in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso. I soggetti.

Una volta ricostruito il quadro normativo di riferimento è possibile ora procedere alla analitica disamina della complessa struttura normativa dell’art. 8 d.l. n. 152/1991 ed alla trattazione delle non poche controversie interpretative che essa ha generato. Questa speciale attenuante presenta, difatti, una pluralità di requisiti operativi che devono essere necessariamente accertati da parte del giudice per la sua concessione. Mentre su alcuni di questi aspetti sembra essersi raggiunta una uniformità di vedute (sebbene talvolta faticosamente), su altri continuano ad esistere forti contrasti esegetici, a causa anche di una formulazione letterale del testo normativo in alcuni punti non estremamente chiara ed univoca. È dunque opportuno, allo scopo di tracciare un quadro dettagliato dei tanti

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problemi sollevati in sede applicativa da tale figura premiale e di fornire una immagine reale della sua dimensione operativa nel diritto penale “vivente”, individuare partitamente gli aspetti che devono essere vagliati dal giudice per il suo riconoscimento, ricostruire i possibili significati che possono essere attribuiti alle parole in essa utilizzate dal legislatore e gli eventuali punti di frizione o di sovrapposizione con le altre attenuanti simili e con le disposizioni generali in materia di circostanze, in particolare con le regole dettate in materia di bilanciamento dall’art. 69 c.p. Ma procediamo con ordine e prendiamo le mosse dalla individuazione dei soggetti che possono beneficiare della riduzione di pena promessa dall’art. 8 d.l. n. 152/1991. L’adozione da parte del legislatore del termine “imputato” sembra non destare incertezze interpretative, circoscrivendo la cerchia dei potenziali destinatari a coloro i quali abbiano già assunto tale veste processuale ed escludendo ex adverso coloro i quali abbiano acquisito lo status di “condannati”, rispetto ai quali, invece, trova applicazione la speciale disciplina dettata dall’ordinamento penitenziario nell’art. 58-ter legge 26.7.1974, n. 354, nonché coloro i quali siano ancora meri “indagati” [BELFIORE, 823; FONDAROLI, 696]. Tuttavia, anche rispetto a questo specifico aspetto all’apparenza aproblematico è sorto qualche dubbio in sede applicativa, a causa della scelta legislativa di individuare come potenziale beneficiario della attenuante solo chi rivesta il ruolo di “imputato”, vale a dire di persona già rinviata a giudizio, rispetto alla ristretta categoria di delitti: quelli di cui all’art. 416-bis c.p. e quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso. È evidente che se si attribuisse a questa espressione il significato tecnico ricavabile dal codice di procedura penale di persona già rinviata a giudizio, si rischierebbe di approdare ad esisti applicativi del tutto irragionevoli, perché, ad esempio, rimarrebbe escluso dal beneficio chi presti il proprio contributo probatorio in qualità di imputato per reato connesso, oppure il mafioso indagato, che rilasci dichiarazioni utili per la cattura di determinati concorrenti, o ancora l’imputato del reato di associazione di tipo mafioso che fornisca un utile contributo probatorio in ordine all’accertamento di reati commessi da affiliati alla stessa cosca a cui egli non abbia partecipato e oggetto di procedimento distinti. Senza trascurare che per un imputato è oggettivamente difficile riuscire ad evitare le conseguenze ulteriori dell’attività delittuosa con le proprie dichiarazioni, mentre ciò può essere più semplice per il soggetto che rilascia delle dichiarazioni nell’immediatezza del fermo o dell’arresto e, quindi, nelle vesti formali di indagato. Peraltro, rileggendo la norma de qua in combinato disposto con la legge n. 45/ 2001 cui prima si è fatto già riferimento, sembra potersi concludere che in questo caso il termine “imputato” sia stato impiegato dal legislatore in una accezione atecnica, dal momento che quella legge incentiva e stimola la collaborazione processuale proprio nella fase iniziale delle indagini preliminari [PARRINI]. -

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7. Il presupposto oggettivo: la commissione di uno dei reati elencati. Il primo requisito di operatività della circostanza de qua è costituito dalla previa individuazione e delimitazione della tipologia dei reati a cui essa è connessa. Il legislatore, nel tentativo di fornire un incentivo realmente stimolante per il reo intenzionato a collaborare con l’autorità giudiziaria, non si è limitato ad agganciare la diminuzione di pena al delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p., ma, con una scelta politico-criminale di più ampio raggio, ha optato (analogamente a quanto fatto nella analoga aggravante di cui all’art. 7 della stessa legge) per la dilatazione del catalogo dei reati-presupposto. L’art. 8 d.l. n. 152/1991, infatti, include nel novero dei delitti contestati all’imputato per i quali una condotta collaborativa può determinare la concessione degli sconti di pena da esso previsti anche «quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso» [Cass., sez. III, 18.4.1997, n. 4824, in Cass. pen., 1998, 2610, nonché in Giur. it., 1998, 1916]. Si tratta evidentemente di una scelta volta ad ampliare il più possibile il numero di reati rispetto ai quali può scattare la diminuente, includendovi anche fattispecie dal substrato criminologico e dal disvalore sociale nettamente meno grave rispetto al 416-bis c.p. (il caso emblematico e più diffuso è quello del favoreggiamento personale aggravato), invogliando anche gli imputati di tali reati a dissociarsi attivamente e a collaborare con la giustizia. È appena il caso di rilevare che proprio l’evidente differenza di disvalore tra queste fattispecie presupposto è stata posta alla base di una ordinanza di rimessione alle S.U. della Sezione II della Cassazione, 18.04.2012, n. 18563, in www.penalecontemporaneo.it relativamente ad una controversia inerente alla questione se la presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia in carcere per i reati con finalità mafiosa, a norma dell’art. 275 comma 3 del codice di rito, «operi solo in occasione del provvedimento genetico, ovvero riguardi anche le vicende successive che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari» sul punto cfr. ROMEO; ALBERICO].

Questa locuzione così generica, difatti, consente di annoverare tra i delittipresupposto commessi sia nella forma consumata che in quella tentata [BELFIORE, 823] non solo quelli commessi avvalendosi del metodo mafioso, ma addirittura anche ogni altro delitto realizzato allo scopo di agevolare in qualsiasi modo l’attività di un sodalizio criminoso di tipo mafioso. Se si interpreta questa generica descrizione dei reati-presupposto contenuta nell’art. 8 d.l. n. 152/1991 utilizzando le precisazioni fornite dalla giurisprudenza relativamente alla analoga espressione impiegata nella circostanza aggravante prevista dall’attiguo art. 7, ci si rende conto che il suo ambito può essere dilatato in maniera significativa, ricomprendendo un vasto numero di delitti: non solo quello “oggettivo” di cui all’art. 416-bis c.p., ma anche ogni altro delitto “soggettivamente” coperto dalla c.d. “finalità mafiosa” [DE VERO, 46]. In quella sede, questa identica locuzione è stata interpretata in maniera estensiva, nel sen-

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so di consentire di prescindere, ai fini della configurazione della simmetrica circostanza aggravante, dalla formale contestazione di un reato associativo e, dunque, della appartenenza effettiva o meno dell’imputato ad una associazione mafiosa [Cass., sez. I, 9.3.2004, n. 16486, Rv. 227932; Cass., sez. VI, 19.2.1998, n. 582, Rv. 210405]. Tale estensione dei reati rispetto ai quali può trovare applicazione la circostanza attenuante in questione, però, produce anche un effetto distorsivo indiretto e sicuramente non preventivato dal legislatore. Per evitare irragionevoli dinieghi di concessione di questo beneficio, l’interprete è praticamente costretto a “svalutare”, ma forse sarebbe meglio dire “dissolvere” del tutto, uno dei suoi requisiti strutturali, quello della dissociazione. Ed invero, nel caso in cui manchi tra i delitti contestati all’imputato che abbia utilmente deciso di collaborare con la giustizia il reato associativo di cui all’art. 416-bis c.p., e figurino solo reati a finalità mafiosa, è evidente che non può mai sussistere una eventuale dissociazione, presupponendo questa la previa partecipazione alla associazione. In ogni caso, la mancanza di una chiara predeterminazione delle fattispeciepresupposto attraverso il ricorso ad un elenco chiuso e tassativo e la decisione di procedere ad una descrizione indeterminata e così aperta delle stesse, fa sì che questo elemento normativo di tipo giuridico possa essere considerato una sorta di vero e proprio “rinvio mobile” e, dunque, possa essere continuamente integrato nel tempo parallelamente alla eventuale, futura, creazione da parte del legislatore di altre fattispecie incriminatrici aventi medesime caratteristiche. L’unico dato certo in questa imprecisa elencazione, poco compatibile con le contrapposte esigenze di determinatezza del nostro sistema penale, è rappresentato dal termine “delitti”. L’utilizzo di questo termine porta ad escludere la applicazione dell’attenuante alle contravvenzioni, nonostante in taluni peculiari settori (come ad esempio quello tributario e della sicurezza e salute sul lavoro) queste possano assumere una rilevanza significativa, tale da auspicarne (per una parte della dottrina) l’operatività [BELFIORE, [(a) RUGGIERO, 1028]]. 7.1. I controversi presupposti impliciti: a) la precedente contestazione dell’aggravante ex art. 7 d.l. n. 152/1991. – Si discute se, oltre al presupposto oggettivo esplicito appena esaminato, sussistano altri presupposti impliciti di operatività di questa speciale diminuente, senza il cui previo scrutinio positivo essa non possa essere concessa. Un primo profilo controverso è rappresentato dalla possibilità di riconoscere la circostanza in parola a prescindere o meno dalla precedente formale contestazione della aggravante speciale del c.d. metodo mafioso prevista dall’art. 7 del medesimo d.l. n. 152/1991, conv. in legge 12.7.1991, n. 203 [DE VERO; sul punto si rinvia al contributo di DELLA RAGIONE in questo volume]. In assenza di un esplicito richiamo normativo a tale peculiare aspetto nella analitica disciplina dell’art. 8 d.l. n. 152/1991, si è difatti formato un contrasto interpretativo all’interno della Corte di Cassazione.

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Ad avviso di un primo orientamento della giurisprudenza di legittimità: «la mancanza di una formale contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, conv. dalla l. 12 luglio 1991 n. 203, configurabile rispetto a ogni delitto, punito con sanzione diversa dall’ergastolo, che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, non è ostativa all’applicabilità della speciale attenuante, di cui al successivo art. 8 della stessa legge, prevista per coloro che si dissocino dalle organizzazioni di tipo mafioso adoperandosi per evitare che l’attività delittuosa sia portata a ulteriori conseguenze» [Cass., Sez. IV, 20.6.2006, n. 30062; Cass., Sez. I, 11.3.1997, Santise, n. 5372, rv. 207818].

Alla base di questa tesi c’è la constatazione che, pur facendo la norma riferimento ai delitti di cui all’art. 416-bis c.p., ed a quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, ciò non significa che per la concessione dell’attenuante sia richiesta, alla stregua di una condicio sine qua non, la previa formale contestazione del reato come commesso avvalendosi delle condizioni anzidette o per agevolare le attività ricordate. Presupposto operativo non è la formale verifica da parte del giudice della mancata contestazione della aggravante dell’art. 7 d.l. n. 152/1991, bensì l’effettivo accertamento nel giudizio di merito che il reato sia stato di fatto commesso in presenza delle condizioni indicate, anche se non contestate. Diversamente, secondo un orientamento di più recente emersione, ma ancora isolato, della Sezione II del Supremo Collegio sarebbe da preferire la soluzione opposta [Cass., sez. II, 29.4.2009, n. 23121]. Ad avviso di questa parte della giurisprudenza, infatti: «la mancanza di una formale contestazione dell’aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152/1991 – contemplata per i delitti, punibili con pena diversa dall’ergastolo, commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare le attività mafiose – è ostativa all’applicabilità della speciale attenuante, di cui al successivo art. 8 della stessa legge, prevista a favore di chi, nei reati di tipo mafioso nonché nei delitti commessi al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori» [Cass., sez. II, 29.4.2009, cit.; sul punto cfr. ALMA, 36].

A nostro sommesso modo di vedere, tale ultima tesi appare poco convincente, risolvendosi in una affermazione apodittica, non adeguatamente motivata attraverso alcun argomento discorsivo. Sembra doversi, dunque, preferire la prima e più accreditata soluzione che porta a non considerare presupposto implicito indefettibile per la concessione della diminuente della dissociazione attiva la previa contestazione al reo dell’aggravante del metodo mafioso. A suo sostegno militano solide ragioni che affondano le radici nei princìpi fondanti l’intera materia penalistica. Com’è noto, infatti, nel diritto penale – vigendo il principio di legalità formale e quello di tassatività e dovendo essere utilizzato in sede interpretativa in via privilegiata il canone ermeneutico di tipo letterale – non può mai essere assunto dal giudice come aspetto rilevante per l’ap-

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plicazione di una disposizione normativa (soprattutto quando ciò produca effetti in malam partem per il reo) un elemento che non sia espressamente contenuto in essa. In ossequio alla antica regola compendiata nel brocardo latino ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit non sarebbe possibile escludere la concessione dell’attenuante in parola sulla base del mancato riscontro di un dato che essa non contempla tra i suoi elementi costitutivi né espressamente, né indirettamente. Inoltre, ad avvalorare questa tesi potrebbe contribuire anche un raffronto scrupoloso delle due simmetriche ed opposte disposizioni circostanziali previste per i reati di stampo mafioso. L’attenuante dell’art. 8 d.l. n. 152/1991, infatti, oltre a non prevedere una esplicita menzione del requisito della precedente contestazione della circostanza ex art. 7, non è espressamente collegata ad essa da alcun elemento normativo. Anzi, le due disposizioni, pur contenendo nozioni e concetti in parte coincidenti, presentano ciascuna una disciplina nettamente autonoma, sia da un punto di vista topografico (essendo collocate in due distinti articoli), sia da un punto di vista della struttura dei rispettivi precetti primari. La stessa parte oggetto del contrasto interpretativo, pur essendo identica in entrambi gli articoli, non è stata costruita per relationem nell’art. 8 con un rinvio fisso all’art. 7, ma è stata riscritta nuovamente, confermando l’indipendenza operativa dell’attenuante rispetto alla simmetrica aggravante. Ma soprattutto, contro questa tesi milita un altro decisivo argomento: sembrerebbe irragionevole vincolare la concessione della diminuente in parola al solo dato formale della contestazione della omologa aggravante, dal momento che questo aspetto dipende da valutazioni discrezionali del p.m., modificabili nel corso del medesimo processo. Così facendo, si finirebbe con il legittimare una palese violazione del principio di uguaglianza sostanziale e di ragionevolezza, facendo dipendere la concessione della attenuante – diversamente da quanto scritto nell’art. 8 d.l. n. 152/1991 – dal dato formale della previa contestazione da parte del p.m. della aggravante dell’art. 7 d.l. n. 152/1991, piuttosto che dal dato sostanziale della effettiva collaborazione attiva del dissociato. 7.2. (Segue) b) L’ammissione al programma di protezione. – Un aspetto che certamente non rileva come presupposto implicito per il riconoscimento del premio per la collaborazione resa dall’imputato alle attività investigative è costituito dalla sua eventuale ammissione al programma di protezione. Come ha avuto modo di chiarire senza tentennamenti la giurisprudenza di legittimità, infatti: «è illegittimo il diniego dell’attenuante ad effetto speciale della cosiddetta dissociazione attuosa, prevista, per i delitti di criminalità mafiosa, dall’art. 8 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, conv. in l. 12 luglio 1991 n. 203, allorché esso sia fondato sulla mancata definizione del programma di protezione del collaboratore di giustizia, parametro di valutazione al quale tale disposizione non fa cenno. Spetta invero unicamente al giudice valutare, anche informandosi sull’attualità del programma di protezione, la ricorrenza dei presupposti della collaborazione e soprattut-

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to la sua rilevanza in relazione al procedimento di competenza» [Cass., sez. I, 7.1.2010, n. 10715; Cass., sez. II, 23.1.1997, n. 1311].

Anche in questa circostanza la risposta negativa al dubbio si fonda sui medesimi argomenti espressi in precedenza per l’altro presupposto implicito di operatività della diminuente ex art. 8 d.l. n. 152/1991, vale a dire sulla impossibilità di valorizzare in un contesto a legalità formale come il nostro, profili non presi in considerazione in alcun modo, neanche attraverso un rinvio normativo, dal testo legislativo. Inoltre, se, al contrario, si ritenesse tale aspetto non scritto un requisito essenziale ai fini della concessione della attenuante, si finirebbe con il demandare la valutazione di merito su di essa, invece che al giudice competente, alla Direzione Distrettuale Antimafia che, com’è noto, è un organo nettamente diverso, cui spetta la decisione, distinta ed autonoma, circa la ammissione o meno del pentito al programma di protezione.

Gli elementi costitutivi: l’insufficienza della mera dissociazione e 8. l’effettiva utilità oggettiva del contributo del collaboratore di giustizia. Le maggiori incertezze esegetiche riguardano il contenuto ed i caratteri che deve presentare il contributo fornito dal reo ai fini della concessione della presente diminuente. In primo luogo, si deve rilevare che la generica definizione normativa, in forza della quale il reo deve adoperarsi «per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori», è priva di una puntuale portata selettiva, omettendo di specificare i connotati precipui del comportamento collaborativo dell’imputato (contrariamente a quanto avrebbe, invece, imposto il troppo spesso trascurato principio di determinatezza). In particolare, il profilo più controverso concerne la portata del contributo, discutendosi se sia sufficiente a configurare la suddetta attività collaborativa la mera dissociazione o se, al contrario, sia necessaria anche la prestazione di un contributo concreto, effettivo e determinante per le attività investigative. Correttamente, la giurisprudenza – valorizzando il tenore letterale della legge che ha collocato il requisito in un passaggio incidentale della descrizione della condotta, degradando così la dissociazione al rango di mero presupposto operativo della successiva collaborazione – si è orientata sul punto in modo univoco, aderendo alla seconda ipotesi interpretativa e ritenendo requisito indefettibile del contributo postfatto del reo quello della sua effettiva utilità. Ciò significa che il dato controverso della dissociazione non rappresenta il nucleo fondante di questa diminuente, bensì un presupposto soggettivo necessario, mentre la norma ruota attorno al contributo effettivo fornito dal reo che,

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per l’appunto, si sia dissociato dagli altri. Peraltro, come si è già accennato in precedenza, tale aspetto “soggettivo” risulta di difficile individuazione nel caso in cui la diminuente debba essere applicata ai delitti commessi “al fine” di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, giacché chi commette reati con tale finalità non è necessariamente membro dell’associazione, ma può essere anche extraneus ad essa e, quindi, privo del prerequisito soggettivo per la successiva dissociazione. Per evitare irragionevoli restrizioni del raggio di operatività di questa scriminante si deve ritenere allora che in questi casi esso consista nel recesso del collaborante dal sodalizio criminoso [PARRINI]. A tal proposito, la Suprema Corte, coerentemente con il dato letterale della legge, ha avuto modo di ribadire in più occasioni che: «l’applicabilità della circostanza attenuante della collaborazione, ex art. 8, non può essere legata semplicemente a un qualsiasi atteggiamento di resipiscenza, a una confessione delle proprie responsabilità o alla descrizione di circostanze di secondaria importanza, ma postula, da parte dell’imputato, una vera e propria attività di collaborazione, concreta e fattiva, con le autorità inquirenti, che si traduca non soltanto nella semplice dissociazione, ma anche nell’adoperarsi per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori e nel coadiuvare concretamente gli organi inquirenti nella raccolta degli elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per la cattura degli autori dei delitti» [Cass., sez. V, 25.6.2008, n. 33373; Cass., sez. I, 13.12.2006, n. 9276, in Cass. pen., 2008, 1406; conforme: Cass., sez. I, 4.7.1997, Cariolo, in CED 1997/208579; Cass., sez. II, 22.3.2004 n. 26891; Cass., sez. II, 23.1.1997, n. 1311; Cass., sez. I, 7.10.1996, n. 9245].

Anzi, come è stato precisato in un’altra recente pronuncia, è: «irrilevante per l’ordinamento giuridico un’abiura o un’altra forma di manifestazione di pentimento rilevante nel solo contesto culturale mafioso», l’unica cosa che conta ai fini della concessione della suddetta diminuente è l’effettiva utilità del contributo fornito dal reo [Cass., sez. VI, 26.6.2012, n. 36579; Cass., sez. V, 27.4.2001, n. 22897, in Dir. & formazione, 2001, 854]. Ed infatti, «non può fruire dell’attenuante di cui all’art. 8 comma 1 del d.l. 13 maggio 1991 n. 152 conv. con modifiche nella l. 12 luglio 1991 n. 203, il dissociato da organizzazioni malavitose di tipo mafioso il quale, pur avendone la possibilità, rifiuti di fornire indicazioni circa l’identità dei propri complici, limitandosi a lanciare un pubblico appello all’abbandono dell’attività delinquenziale» [Cass., sez. I, 19.1.1998, n. 2003, in Cass. pen. 1998, 3242].

Ulteriore luce sul carattere della effettiva utilità che il contributo deve presentare per poter essere validamente considerato ai sensi dell’art. 8 d.l. n. 152/1991 è fornita da quella giurisprudenza che ritiene che esso debba concernere i medesimi fatti oggetto del processo o fatti rispetto ai quali non sia già stato possibile individuare autonomamente i concorrenti, attraverso il compendio probatorio esistente. Ad avviso della Cassazione, infatti, la diminuente in parola va esclusa quando la: «dissociazione – ancorché ufficialmente riconosciuta con l’ammissione dell’interessato allo speciale programma di protezione per i collaboratori di giustizia – riguardi fatti diversi da quelli in relazione ai quali l’attenuante si invoca, ovvero quando il contributo intervenga in presenza di un quadro probatorio che aveva già consentito l’individuazione dei concorrenti nel

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reato» [Cass., sez. II, 14.3.2014, n. 13265; Cass., sez. III, 12.12.2012, n. 3078; Cass., sez. II, 23.1.1997, n. 1311, in Riv. pol., 1999, 27]. Nello stesso senso, peraltro, la S.C. si era già pronunciata in precedenza, affermando che «l’applicazione della diminuente resta esclusa quando il contributo intervenga in presenza di un quadro probatorio che aveva già consentito l’individuazione dei concorrenti nel reato» [Cass., sez. II, 14.10.1996, n. 9245, in Cass. pen., 1997, 2699].

Muovendo da questo angolo prospettico si è correttamente approdati alla conclusione di escludere la sussistenza della speciale diminuente della collaborazione processuale in un caso in cui il contributo fornito dall’imputato si era rivelato non decisivo al perseguimento degli scopi indicati dall’art. 8 d.l. n. 152/1991, dal momento che la maggior parte degli altri imputati per quei reati era già stata raggiunta da condanne severe, quasi tutte confermate in sede di legittimità [Cass., sez. I, 22.6.1998, n. 9331, in Cass. pen., 1999, 2137, nonché in Giust. pen., II, 1999, 350]. Peraltro, che ai fini della sussistenza di questa attenuante rilevi unicamente l’effettiva utilità del contributo prestato dal reo alla oggettiva realizzazione degli scopi espressamente indicati dalla stessa disposizione normativa (i.e.: l’aggravamento delle conseguenze del reato e/o il concreto aiuto alla autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati) è dimostrato indirettamente dal fatto che essa non sia preclusa dalla mancata ammissione delle proprie responsabilità da parte del medesimo [Cass., sez. 15.12.2000, De Vivo, in D&G, XII, 2001, 70]. Il legislatore, infatti, in questa occasione non ha legato il premio dello sconto di pena alla semplice dissociazione o alla confessione dei fatti commessi dall’imputato, ma – conformemente al principio del nemo tenetur se detegere – al concreto aiuto fornito in sede processuale al contrasto delle attività del sodalizio criminoso e degli altri suoi membri. D’altronde, ciò che interessa e sta alla base di questa diminuente, costituendone la vera e propria ratio, non è tanto il profilo “soggettivo” del pentimento del reo e della sua personale ammissione di responsabilità, quanto, piuttosto, quello “oggettivo” della possibilità di squarciare il velo che maschera e rende inafferrabili le associazioni di stampo mafioso e le loro attività. Tuttavia, l’utilizzo nella suddetta norma della locuzione “si adopera per evitare”, lascia intendere che, per quanto sia imprescindibile la effettiva utilità del contributo, non è però necessario che il risultato sia concretamente conseguito, essendo sufficiente la astratta idoneità della condotta di dissociazione attuosa al perseguimento di uno degli scopi descritti dall’art 8 d.l. n. 152/1991. Vale a dire che lo schema logico per il riconoscimento della sua sussistenza non deve essere volto all’accertamento, tramite un giudizio esplicativo ex post, di un nesso eziologico tra il comportamento del pentito e gli eventi descritti dalla norma, bensì deve essere orientato alla verifica, tramite un giudizio prognostico ex ante, della astratta e verosimile possibilità di produrre quegli eventi attraverso quel comportamento [SPAGNOLO, 128]. 8.1. L’irrilevanza dei profili soggettivi. – In secondo luogo, la descrizione

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poco puntuale del comportamento postfatto del reo genera dubbi anche circa la rilevanza o meno del profilo motivazionale da cui è scaturita l’attività collaborativa, non essendo precisamente stabilito nell’art. 8 d.l. n. 152/1991 alcunché in merito a questo aspetto. Anche a tal riguardo le incertezze possono essere fugate tramite una attenta interpretazione della disposizione in parola che ne valorizzi il tenore letterale, senza andare alla ricerca di requisiti essenziali in realtà inesistenti. Questa speciale attenuante per la dissociazione si fonda, infatti, unicamente sul dato dell’utilità obiettiva della collaborazione prestata dal partecipe all’associazione di tipo mafioso e «non può pertanto essere disconosciuta, o, se riconosciuta, la sua incidenza nel calcolo della pena non può essere ridimensionata, in ragione di valutazioni inerenti alla gravità del reato o alla capacità a delinquere dell’imputato o, ancora, alle ragioni che hanno determinato l’imputato alla collaborazione». Tali aspetti possono al più giustificare l’eventuale negazione delle attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis c.p., ma non possono (recte: non devono) condizionare in alcun modo il giudizio sull’attenuante in esame ed, in particolare, sulla quantificazione dello sconto di pena per essa edittalmente previsto [Cass., sez. VI, 16.12.2010, n. 10740, con nota di Corbetta, in Dir. pen. proc., 2011, 545; Cass., sez. I, 7.10.1996, n. 9245]. L’art. 8 d.l. n. 152/1991, infatti, è costruito in chiave puramente oggettiva, senza valorizzare in alcun modo il profilo soggettivo e motivazionale del reo dissociato, sicché anche in presenza di una scelta collaborativa dettata da ragioni e valutazioni prettamente “utilitaristiche” dell’imputato non può essere esclusa la sua configurazione. Diversamente, enfatizzando tale profilo ed optando per una sensibile riduzione dell’entità dello sconto di pena sulla base del calcolo interessato del reo, si finirebbe per introdurre nel giudizio di sussunzione del fatto concreto nella norma generale ed astratta una valutazione di carattere soggettivo che, secondo il dettato normativo, non dovrebbe proprio avere ingresso nel giudizio in ordine alla sua sussistenza. Una simile forzatura ermeneutica, infatti, avallerebbe, un’indebita e non sostenibile soggettivizzazione ed eticizzazione di questa fattispecie premiale, in palese contrasto con il suo tenore letterale e con un moderno diritto penale del fatto [tali rischi sono ben evidenziati da CAVALIERE, 473 e RUGA RIVA, 73]. 8.2. Il risultato della dissociazione collaborativa. – Ulteriori dubbi sono sorti circa i requisiti essenziali che deve presentare la condotta dissociativa per essere considerata di effettiva utilità oggettiva, a causa della opinabile scelta del legislatore di legare i due esiti che essa deve produrre (l’impedimento di conseguenze ulteriori del reato e la collaborazione processuale) tramite un termine semanticamente non univoco, come la congiunzione “anche”. L’utilizzo di un dato letterale di questo tipo lascia aperto il campo a due possibili interpretazioni contrapposte, l’una tesa a valorizzare il significato di detta congiunzione, l’altra a sminuirlo.

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Gli esiti di tale opzione ermeneutica sono tutt’altro che irrilevanti, incidendo sui requisiti di operatività della circostanza in parola e sul valore da attribuire alla collaborazione con la giustizia: se si privilegia la prima, si dovrà ritenere necessario per il riconoscimento della diminuente ex art. 8 d.l. n. 152/1991 la contemporanea sussistenza di entrambi i risultati e, dunque, conferire identico valore alla collaborazione ed al ravvedimento operoso; diversamente, se si privilegia la seconda sarà sufficiente accertare alternativamente il conseguimento di uno solo dei due e, dunque, sminuire il ruolo della collaborazione. Nonostante la rilevanza di tale questione essa è sempre stata affrontata solo incidentalmente da parte della Suprema Corte, peraltro in maniera non univoca. Secondo una parte della giurisprudenza più risalente, che abbraccia la prima soluzione interpretativa e si attiene in maniera probabilmente più fedele al dato letterale, la congiunzione «anche» avrebbe valore congiuntivo, sicché sarebbe indispensabile per il riconoscimento della attenuante speciale in parola la concreta manifestazione di entrambe le condotte di collaborazione. L’applicabilità della circostanza attenuante della dissociazione attiva, infatti, non potrebbe essere legata semplicemente a un qualsiasi atteggiamento di resipiscenza dell’imputato, a una confessione delle proprie responsabilità o alla descrizione di circostanze di secondaria importanza: «ma postula una vera e propria attività di collaborazione, concreta e fattiva, con le autorità inquirenti, che si traduca non soltanto nella semplice dissociazione, ma anche nell’adoperarsi per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori e nel coadiuvare concretamente gli organi inquirenti nella raccolta degli elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per la cattura degli autori dei delitti» [Cass., sez. I, 4.7.1997, Cariolo, in Giust. pen., II, 1998, 373. Cass., sez. I, 22.6.1998, n. 9331, in Cass. pen., 1999, 2137, nonché in Giust. pen., II, 1999, 350; in dottrina (a) RUGGIERO, 1039].

Diversamente, ad avviso dei più recenti arresti della Cassazione sul punto, la congiunzione “anche” avrebbe valore disgiuntivo ed andrebbe letta come sinonimo di “ovvero”. Per la concessione della attenuante di cui all’art. 8 d.l. n. 152/1991, quindi, non sarebbe necessaria la contemporanea produzione di entrambi i risultati da essa descritti, bensì quella alternativa di uno solo dei due: il proficuo contributo fornito alle indagini ovvero l’aver evitato conseguenze ulteriori all’attività delittuosa [Cass., sez. VI, 16 dicembre 2010, n. 10740; Cass., sez. I, 3 febbraio 2006, n. 14527, in Cass. pen., 2007, 1647]. Si deve, inoltre, rilevare che una parte della dottrina, partendo dal medesimo presupposto del significato non congiuntivo del termine “anche”, sostiene che seguendo questa alternativa esegetica si finisce con il far degradare la collaborazione processuale al rango di mera condizione eventualmente aggiuntiva, ma non necessaria per il riconoscimento del premio. «In questi termini, il comportamento di chi fornisce un aiuto concreto “nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati”, caratterizzante genericamente la condotta della “collaborazione con la giustizia”, non soltanto perderebbe la sua autonomia e la sua valenza, ma finirebbe

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per essere relegata a mero supporto: per l’appunto, non una condicio sine qua non» [(a) RUGGIERO, 1040]. Tra queste diverse ipotesi esegetiche, quella meno persuasiva a nostro avviso è l’ultima. Una simile soluzione non sembra in realtà praticabile per ragioni apagogiche, dal momento che finirebbe per far perdere di senso e di funzione alla descrizione legislativa del secondo risultato e per confondere i requisiti di operatività della speciale attenuante in parola con quelli della attenuante comune di cui all’art. 62 n. 6 c.p., sollevando, peraltro, dubbi sulla ragionevolezza della diversificazione dell’effetto premiale rispetto ad essa [(a) RUGGIERO, 1040 ss.]. Tra le altre due opzioni, invece, sembrerebbe doversi preferire la seconda, quella che interpreta il termine “anche” in chiave disgiuntiva. A sostegno di essa militano ragioni di coerenza intrasistematica, dal momento che la stessa identica formulazione letterale è contenuta nelle speciali ipotesi di dissociazione collaborativa in materia di spaccio di stupefacenti e che anche in quella sede, dopo un primo periodo in cui, più fedelmente al dato letterale, si tendeva a conferire valore congiuntivo alla parola “anche” [in questo senso si veda Cass., sez. II, 24.1.1995, Ponente, in Giust. pen., 1995, II, 648; Cass., sez. IV, 28.1.1993, Mangani, in Mass. Cass. pen., I, 1994, 74], è poi prevalso l’orientamento contrapposto che ha ricostruito l’espressione normativa in chiave disgiuntiva [in questo senso cfr. Cass., sez. IV, 15.3.2001, Porru, in Cass. pen., 2002, 2496; Cass., sez. IV, 1.12.2000, Berenato, in Cass. pen., 2002, 2495; nonché in dottrina G.C. AMATO, 399]. Inoltre, tale interpretazione, in linea con una concezione teleologica del reato ispirata alla funzioni della pena, legittima meglio la ampia forbice edittale che connota questa speciale diminuente (la pena detentiva da dodici a venti anni in luogo dell’ergastolo e lo sconto delle altre pene da un terzo alla metà), dal momento che il notevole potere discrezionale conferito al giudice si giustifica con la possibilità per questi di modulare in concreto il premio a seconda dell’effettivo contributo utile fornito: l’entità del premio subirà sensibili oscillazioni a seconda che l’imputato si limiti a garantire il raggiungimento di uno solo dei due risultati descritti dalla legge (alternativamente il ravvedimento operoso o la collaborazione processuale), ovvero di entrambi. Tuttavia, non si può fare a meno di rilevare che al di là delle preferenze momentaneamente espresse dalla dottrina e dalla giurisprudenza sul punto, il dato letterale continua a non essere univoco, prestando il fianco ad interpretazioni difformi. Com’è stato osservato, la soluzione migliore in una ipotetica prospettiva de iure condendo sarebbe quella di fugare ogni dubbio tramite una precisa modifica normativa che sostituisca l’anfibio termine “anche” (a seconda delle intenzioni del legislatore) con le congiunzioni dai significati più netti “e” ed “o” [(a) RUGGIERO, 1040]. Si deve infine rilevare a tale proposito che, diversamente da quanto fatto nella normativa in materia di terrorismo, tra gli eventi che dovrebbero essere prodotti dalla dissociazione dell’imputato è stato soppresso il riferimento alla col-

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laborazione di giustizia (quella forma di collaborazione avente ad oggetto le condotte di altri soggetti per reati estranei alla vicenda processuale riguardante l’imputato dissociato e dei quali egli non è stato partecipe di cui si è parlato supra, § 3) come figura autonoma di pentitismo meritevole di un trattamento sanzionatorio ulteriormente mitigato. In questo modo si è evitato di subordinare il riconoscimento della attenuante a valutazioni che interessano altri procedimenti penali, aventi ad oggetto fatti diversi, e di imporre al giudice l’onere difficilmente sostenibile di verificare, oltre alla portata del contributo nel procedimento che lo occupa, anche la collaborazione nel suo complesso [(a) RUGGIERO, 1043]. 8.3. La decisività del contributo. – In ogni caso, qualunque opzione ermeneutica si privilegi, residua un ennesimo dubbio interpretativo relativo alla concessione della diminuente, rappresentato dal significato da conferire al carattere “decisivo” che devono avere gli elementi forniti dalla collaborazione dell’imputato per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati [analoghi problemi interpretativi sono sorti anche in relazione alla pressoché identica ipotesi di collaborazione attuosa prevista dall’art. 74 comma 7 d.p.r. n. 309/1990; sul punto cfr. LEO, 743]. Anche in questa circostanza ci si trova al cospetto di un termine dal campo semantico estremamente ampio e dal significato non univoco, ascrivibile al genus problematico delle c.d. clausole generali [PALAZZO, 144; MARINUCCI, DOLCINI, 70; (b) RONCO, 87; CASTRONUOVO, 1 ss.]. Si potrebbe ritenere che il significato da conferire a tale attributo sia quello di non consentire il riconoscimento del premio per la dissociazione collaborativa in presenza di comportamenti del pentito che siano privi di effettiva utilità oggettiva nella ricostruzione dei fatti e nella individuazione o cattura dei concorrenti. Proprio questa sembra indirettamente la linea interpretativa seguita dalla giurisprudenza che (come si è visto supra, § 8.1) tende a non ritenere configurata l’attenuante in questione tutte le volte in cui il contributo sia stato sostanzialmente inutile, perché le dichiarazioni del pentito abbiano solo ribadito un quadro probatorio circa le posizioni processuali degli altri autori di reati, già previamente ben delineato. Meno fondato ci sembra il dubbio espresso circa la rilevanza o meno del requisito della decisività in base alla opzione interpretativa che si segua in merito alla congiunzione “anche”. Non ci pare che la scelta della tesi disgiuntiva privi di significato sostanziale tale carattere della condotta collaborativa, dal momento che esso comunque incide sulla commisurazione in concreto dello sconto di pena da concedere. È ovvio che se, ad esempio, l’imputato abbia impedito il protrarsi e l’aggravarsi delle conseguenze del reato commesso, ma non abbia fornito un contributo collaborativo decisivo, la pena dell’ergastolo non verrà commutata nella reclusione di anni dodici, bensì verrà sostituita con una pena detentiva più elevata. Vale a dire che, pur ammettendo che tale requisito si riferisca solo ad una so-

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la delle due condotte collaborative descritte dalla norma, non si può arrivare a sostenere che non abbia comunque un ruolo significativo ai fini della applicazione della stessa. Anzi. Anche muovendosi nel solco di questa prospettiva interpretativa, il carattere della “decisività” non evaporerebbe del tutto, ma muterebbe contenuto: esso, difatti, non inciderebbe sempre sull’an del riconoscimento della suddetta circostanza, bensì – direttamente o indirettamente – sul quantum dello sconto di pena per essa prevista. Se l’imputato, oltre ad adoperarsi per evitare che «l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori», aiuti pure «concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati», l’aspetto della decisività del suo secondo contributo sarà fondamentale per consentire al giudice di ridurre la sanzione in maniera proporzionata e ragionevole al suo “valore sociale”, naturalmente nell’ambito degli spazi delineati a livello edittale (da un terzo alla metà ecc.) [(a) RUGGIERO, 1045]. 8.4. I limiti cronologici per l’efficace collaborazione. – Ad una superficiale lettura del solo art. 8 d.l. n. 152/1991 non sembrano sussistere dei precisi e vincolanti limiti cronologici per la concessione di questa attenuante. A differenza di quanto il legislatore ha sovente fatto in altre ipotesi, più o meno recenti, di non punibilità sopravvenuta incentrate su condotte postfatto del reo (come, ad esempio, la ritrattazione di cui all’art. 376 c.p. ed il meccanismo estintivo delle contravvenzioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro di cui al d.lgs. n. 758/1994 ed al d.lgs. n. 81/2008), in questa occasione non ha fissato alcun termine perentorio per la validità della condotta collaborativa, sicché essa sembra potersi manifestare in ogni grado del giudizio di merito e, quindi, anche in sede di giudizio di rinvio (Cass., sez. I, 22.6.1998, n. 9331, cit.). Come aveva avuto modo di precisare anche la Suprema Corte nei primi anni di applicazione della fattispecie in questione, in assenza di un preciso limite temporale, un eventuale diniego della diminuente medesima non può dipendere dalla circostanza che la confessione del collaborante sia avvenuta a dibattimento ormai esaurito (Cass., sez. III, 18.4.1997, n, 4824, cit.). In realtà, una delimitazione temporale tendenziale, per la configurabilità della diminuente in parola è stata introdotta dalla riforma del 2001, che – modificando la legge n. 82/1992, tramite l’introduzione dell’art. 16-quinquies – ha dettato delle nuove regole per l’assunzione delle informazioni da parte di un indagato nei processi relativi a reati connotati dalla finalità mafiosa. Ed infatti in questa legge è stato fissato un limite di 180 giorni per la redazione del verbale illustrativo, limite che – come si è visto in precedenza – non è però perentorio ed assoluto, dal momento che, ai sensi del comma 3 dello stesso art. 16-quinquies, può essere derogato per le dichiarazioni rese dal pentito durante il dibattimento (sul punto si rinvia a quanto già detto supra, § 5).

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9. La natura giuridica. Come per tutte le circostanze che attenuano o aggravano la pena, anche in questo caso è fondamentale soffermarsi sulla natura giuridica, poiché dal chiarimento di questo profilo, all’apparenza puramente teorico, discendono in realtà una rilevante serie di conseguenze applicative concrete, prima tra tutte quella della estensibilità o meno ai concorrenti. Ebbene, la ricostruzione appena conclusa dei requisiti essenziali di operatività di questa circostanza attenuante speciale sembra incidere e condizionare tale indagine e, conseguentemente, anche la soluzione della connessa questione pratica della comunicabilità ai partecipi dello sconto di pena per essa previsto. In effetti, alla luce di quanto sinora detto, si potrebbe essere erroneamente indotti a pensare che la circostanza attenuante in esame abbia una natura giuridica di tipo oggettivo, essendo requisito indispensabile per la sua operatività la effettiva e concreta dimostrazione della utilità del contributo collaborativo alle attività investigative dell’autorità giudiziaria. In realtà, una più penetrante lettura dell’intero testo dell’art. 8 d.l. n. 152/ 1991 conduce a conclusioni opposte e ad attribuire a questa circostanza natura giuridica soggettiva. Più precisamente, la attenuante de qua dovrebbe essere pacificamente ricondotta nel genus delle circostanze soggettive tassativamente elencate nell’art. 70 c.p. e, precisamente, nella species delle circostanze concernenti «le condizioni o le qualità personali del colpevole». Pur essendo richiesto come elemento indefettibile per il suo riconoscimento la prestazione di un contributo attivo di concreta utilità da parte dell’imputato è, infatti, necessario che tale contributo provenga da un colpevole che si sia dissociato dagli altri ed abbia la qualifica formale di imputato in un reato con finalità mafiosa. Proprio tale profilo della dissociazione individua, a ben vedere, una condizione peculiare del colpevole dal valore inequivocabilmente personale, che rende impossibile la estensione ai concorrenti. Diversamente, se ci si dovesse attenere strettamente alla littera legis, seguendo un canone ermeneutico di matrice puramente letterale, si dovrebbe pervenire alla assurda conclusione di ritenere estensibile questa attenuante anche ai concorrenti, dal momento che dalla lettura in combinato disposto degli artt. 70 e 118 c.p. risulta che quest’ultimo articolo annovera tassativamente tra le circostanze soggettive non estensibili ai concorrenti solo alcune tra quelle elencate nell’art. 70 c.p. che procede alla summa divisio tra tutte le circostanze, tralasciando di menzionare quelle inerenti alle «condizioni o le qualità personali del colpevole» ed annoverando solo quelle relative alla «personalità del colpevole». La dissociazione attuosa, non potendo essere fatta rifluire in quest’ultima categoria delle circostanze inerenti alla personalità del colpevole, dal momento che in essa, ai sensi della esplicita statuizione normativa del comma 2 dell’art. 70 c.p., sono ascrivibili solo quelle relative alla imputabilità ed alla recidiva, dovrebbe essere inevitabilmente ricondotta sotto l’altra species delle circostanze soggetti-

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ve, quelle relative alle condizioni e qualità personalità del colpevole, non richiamata però dall’art. 118 c.p. Ciò determinerebbe come (il)logica conseguenza la non applicabilità ad essa della speciale disciplina dettata da questo articolo della non estensibilità delle circostanze ai concorrenti, e la conseguente applicazione della regola generale di contenuto opposto della loro comunicabilità. Per ovviare a tale irrazionale esito, una parte della dottrina sostiene che in questo caso si dovrebbe dilatare il portato dell’art. 118 c.p. e la sua insoddisfacente definizione letterale, fino a ricomprendervi tutti i fattori circostanziali che siano fondati su elementi strettamente connessi alla persona di un singolo concorrente e che, quindi, non possano e non debbano in alcun modo riflettersi sui concorrenti eventuali nel medesimo reato [MELCHIONDA, 1495], oppure tutte le circostanze soggettive che non siano servite ad agevolare la concreta esecuzione del reato plurisoggettivo [MANTOVANI, 542; BASILE, 1646]. Tuttavia, anche questa opzione ermeneutica è andata incontro a delle critiche, dal momento che finisce con il comportare una tacita abrogazione dell’art. 70 comma 2 c.p. che attribuisce la natura giuridica soggettiva unicamente alle circostanze relative alla imputabilità ed alla recidiva e con il far rivivere la disciplina previgente dell’art. 118 c.p. ante riforma del 1990. Non di meno, si è osservato che queste circostanze implicano un grado di riprovevolezza o pericolosità del singolo coautore differenziato rispetto agli altri compartecipi, sicché una loro estensione ai concorrenti finirebbe con il risultare priva di una plausibile giustificazione sul politico-criminale. Orbene, muovendo da questo diverso approccio alla lettura delle summenzionate norme che, valorizzando il differente canone ermeneutico di tipo teleologico, prova a ricercare il campo di significato della norma ed il suo “tipo criminoso” attraverso una attenta scansione della ratio, si può approdare a conclusioni opposte e maggiormente condivisibili [BASILE, 1647; MANTOVANI, 547; MARINUCCI, DOLCINI, 412; PULITANÒ, 485]. Sarebbe, infatti, del tutto antitetico rispetto alla ratio della diminuente in parola – costituita dal proficuo contributo fornito dal pentito alle attività della autorità giudiziaria – ammetterne la estensibilità ai concorrenti. In questo caso, invero, il comportamento del collaboratore che fonda lo sconto di pena si basa su una condotta – la dissociazione attiva dalla societas sceleris – squisitamente personale, nonché oggettivamente diretta contro gli stessi concorrenti. Sostenere, al contrario, la comunicabilità di questa circostanza attenuante speciale anche ai partecipi nei reati-presupposto da essa richiamati significherebbe introdurre una palese contraddizione nelle dinamiche di funzionamento dell’intera normativa in materia di dissociazione attiva, travolgendone la ratio e garantendo premi e sconti di pena a soggetti del tutto estranei (quando non apertamente contrari) a quel difficile percorso, prettamente individuale, che porta alla decisione di dissociarsi dagli altri e collaborare con la giustizia accusandoli. Una simile soluzione integrerebbe, quindi, una intollerabile violazione del principio di uguaglianza sostanziale dei cittadini dinanzi alla legge e di ragionevolezza, finendo per trattare allo stesso modo soggetti che hanno tenuto

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comportamenti sensibilmente differenti, quando non addirittura manifestamente contrapposti. Si rischierebbe di arrivare, infatti, al paradosso di applicare l’attenuante in via estensiva ai sensi dell’art. 118 c.p. oltre che al “pentito” dissociato, anche ai membri del clan da questi accusati che ne avevano osteggiato o dissuaso la collaborazione. In ogni caso, una ulteriore conferma può essere ricavata da una recente pronuncia delle Sezioni Unite relativa ad un’altra di quelle circostanze definibili sulla scorta dell’art. 70 comma 2 c.p. soggettive, ma non compresa nell’elenco dell’art. 118 c.p.: il c.d. “pentimento operoso” di cui all’art. 62 n. 6 c.p. Ad avviso di questa sentenza l’art. 62 comma 6 c.p. presuppone necessariamente che il reato a cui si riferisce sia stato già consumato e, dunque, concerne esclusivamente un comportamento individuale successivo all’esaurimento del reato, con la conseguenza che: «un tale comportamento, ove il reato sia stato commesso da una pluralità di soggetti, è fuori dal concorso di persone, dissoltosi con il perfezionamento della fattispecie criminosa», con conseguente inoperatività dell’art. 118 c.p. [Cass., S.U., 22.1.2009, Pagani, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 1483, con nota di CIVELLO; BASILE, 1648].

Se si esportasse questo schema logico anche sul terreno della collaborazione processuale per reati con metodo o finalità mafiosa, si potrebbe invero approdare alla analoga conclusione di escludere la comunicabilità ai concorrenti sulla base del solo disposto dell’art. 8 d.l. n. 152/1991, senza “scomodare” l’art. 118 c.p., poiché il comportamento del pentito si porrebbe al di fuori del concorso di persone. 10. Il rapporto con l’aggravante ex art. 7 d.l. n. 152/1991. Ogni eventuale dubbio circa il concorso tra questa speciale attenuante e la simmetrica aggravante di cui all’art. 7 del medesimo d.l. n. 152/1991 è espressamente fugato dal secondo comma dell’art. 8 d.l. n. 152/1991, nel quale è tassativamente disposto che non deve tenersi conto, ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato, della circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152/1991, una volta riconosciuta all’imputato l’attenuante dell’art. 8 comma 1 del medesimo d.l. Il riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 8, difatti, produce come effetto l’elisione automatica della circostanza aggravante di cui all’art. 7 del medesimo testo normativo (Cass., sez. I, 5.5.2011, n. 26826; conforme Cass., S.U., 25.2.2010, n. 10713). Questa scelta normativa, esplicitata nel secondo comma dell’art. 8, si basa su di un condivisibile giudizio di prevalenza accordato allo speciale meccanismo indulgenziale previsto nel comma precedente, che fa pendere la bilancia tra le due contrapposte valutazioni politico-criminali, della collaborazione e della finalità mafiosa dell’agire del reo, a favore della prima [BELFIORE, 824].

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11. Il rapporto con le attenuanti generiche. Un altro aspetto estremamente problematico concerne il rapporto tra la speciale attenuante della dissociazione collaborativa e le attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis c.p. Se, da un lato, non sembra possibile dedurre una incompatibilità ontologica tra queste due circostanze, dal momento che il loro ambito di operatività è solo potenzialmente coincidente, dall’altro, però non è neanche possibile ricavare una automatica concedibilità delle generiche in caso di riconoscimento della diminuente in questione, essendo i presupposti operativi parzialmente diversi [TONA, 1149]. Ed invero, le attenuanti generiche possono ugualmente essere concesse all’imputato che abbia deciso di collaborare proficuamente con la giustizia, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 8 d.l. n. 152/1991, purché tale giudizio non si fondi sulla valutazione dei medesimi elementi che hanno indotto in precedenza il giudice a riconoscere la speciale diminuente all’imputato. In ossequio al principio del ne bis in idem, gli stessi aspetti apprezzati per la concessione della circostanza ad effetto speciale in materia di criminalità organizzata, non possono essere utilizzati una seconda volta per fondare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, perché ciò condurrebbe a un’inammissibile ripetuta valorizzazione dei medesimi elementi [Cass., sez. V, 13.7.2010, n. 34574; Cass., sez. VI, 28.5.2009, n. 28894, in Guida dir., XXXVIII, 2009, 48; Cass., sez. I, 3.2.2006, n. 14527]. Ciò però non vuol dire che la diminuzione di pena prevista ai sensi dell’art. 62-bis c.p. debba essere automaticamente riconosciuta ogni qualvolta venga ritenuta sussistente la speciale attenuante della dissociazione attiva, dal momento che queste due circostanze: «si fondano su una globale valutazione della gravità del fatto e della capacità a delinquere del colpevole» [Cass., sez. V, 12.4.2010, n. 20145; Cass., sez. I, 3.2.2006, n. 14527; Cass., sez. I, 7.11.2001, n. 43241; Cass., sez. III, 19.1.1998, n. 2137].

11.1. Il rapporto con l’attenuante speciale del sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione di cui all’art. 630 comma 5 c.p. – Infine, sempre sotto tale peculiare profilo dei rapporti problematici tra questa circostanza speciale ed altre figure circostanziali preesistenti nel sistema penale, sono sorti dei dubbi anche per quel che concerne l’attenuante speciale della collaborazione processuale prevista per il delitto di sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione dall’art. 630 comma 5 c.p. Com’è noto, infatti, tale figura circostanziale dal contenuto premiale, introdotta con la legge n. 894/1980 nell’ambito della strategia emergenziale di contrasto al fenomeno dei sequestri di persona, statuisce che «nei confronti del concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera, al di fuori del caso previ-

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sto dal comma precedente, per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti, la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da dodici a venti anni e le altre pene sono diminuite da un terzo a due terzi» [FIANDACA, MUSCO, 158 ss.; GIUNTA, 229 ss.; (a) PADOVANI, 175; (a) RONCO, 134]. Una rapida lettura sinottica di questa disposizione e di quella contenuta nell’art. 8 d.l. n. 152/1991 rivela immediatamente la forte similitudine, per non dire la sostanziale sovrapponibilità, delle due fattispecie, lasciando intuire che ci si trovi al cospetto di un concorso apparente di norme, risolvibile mediante l’applicazione di una sola delle due. Una loro duplice applicazione risulterebbe, invero, ultronea ed in aperto contrasto con il principio del ne bis in idem sostanziale, dal momento che si sostanzierebbe nella doppia valutazione da parte del giudice dello stesso identico elemento, la collaborazione processuale di uno dei concorrenti. Nell’ipotesi in cui si profili, quindi, in ragione delle caratteristiche di fatto del comportamento del reo, la possibilità di poter applicare entrambe le figure circostanziali in questione, in forza del principio di specialità sancito nell’art. 15 c.p. dovrà trovare applicazione unicamente quella prevista dall’art. 630 comma 5 c.p. in quanto lex specialis rispetto all’altra. Di tale avviso è anche la giurisprudenza, come conferma la recentissima decisione della Suprema Corte che ha affrontato tale quesito affermando che: «in caso di dissociazione del concorrente nel reato di sequestro di persona a scopo di estorsione commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p., deve essere riconosciuta, in forza del principio di specialità, esclusivamente l’attenuante prevista dal quinto comma dell’art. 630 cod. pen. e non anche quella di cui all’art. 8 della l. n. 203 del 1991» [Cass., sez. V, 3.3.2013, n. 19250].

12.

La controversa assoggettabilità dell’art. 8 d.l. n. 152/1991 al giudizio di bilanciamento.

Uno degli aspetti maggiormente controversi della attenuante speciale della dissociazione qualificata è costituito senz’altro dalla possibilità o meno di assoggettarla al giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p. con le altre circostanze eventualmente ritenute sussistenti. A tal proposito si erano formati in giurisprudenza due contrapposti orientamenti interpretativi. Secondo un primo orientamento la circostanza attenuante in questione non era soggetta al giudizio di bilanciamento previsto dall’art. 69 c.p., trattandosi di una deroga che il legislatore aveva inteso introdurre al fine di limitare l’ordinaria discrezionalità del giudice in relazione alla commisurazione della pena, tenuto conto della particolare rilevanza del tema del trattamento sanzionatorio di tipo premiale dei collaboratori di giustizia [Cass., sez. I, 2.4.2008, n. 18378, Pecora-

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ro, Rv. 240373; Cass., sez. VI, 20.4.2005, n. 6221, Aglieri, Rv. 233088; Cass., sez. I, 7.11.2001, n. 43241, Alfieri, Rv. 220294, in Cass. pen., 2002, 2748]. Diversamente, ad avviso di un contrapposto indirizzo interpretativo, la circostanza attenuante della “dissociazione attuosa”, in assenza di un’espressa deroga di legge, doveva soggiacere alla regola generale del giudizio di comparazione con altre circostanze [Cass., sez. V, 8.10.2009, n. 4104, Doria; Cass., sez. II, 12.7.2006, n. 34193, Cotugno, Rv. 235419; Cass., sez. II, 29.11.2001, n. 13928, Barra, RV 221933; Cass., sez. I, 21.1.1998, n. 7427, Alfieri, Rv. 210884]. 12.1. La recente soluzione negativa delle Sezioni Unite 2010. – Per dirimere questo contrasto interpretativo si è reso necessario rimettere la questione alle Sezioni Unite della Suprema Corte. Queste ultime, con la sentenza 25.2.2010, n. 10713 (in D&G, I, 2010, 139, con nota di Ceccarelli; in Guida dir., XV, 201073 con nota di Cisterna; in Giur. it., 2011, 10, con nota di Aprea), valorizzando il canone ermeneutico di tipo teleologico, hanno aderito alla prima e più seguita soluzione esegetica poc’anzi prospettata. Punto di partenza di questa decisione è la individuazione da parte delle S.U. della ratio della norma nell’interesse «ad assicurare un premio particolarmente significativo per la dissociazione c.d. attuosa o collaborativa» e la parallela considerazione preliminare che la possibilità per le altre attenuanti di esser ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a quella speciale in esame vanificherebbe del tutto questo interesse. Muovendo da tali premesse si arriva allora coerentemente ad affermare che: «la circostanza attenuante della dissociazione attuosa, prevista dall’art. 8 d.l. n. 152 del 1991, è sottratta alla disciplina del bilanciamento delle circostanze di cui all’art. 69 c.p. e gli speciali criteri di diminuzione della pena, in forza dei quali si applica la reclusione da dodici a venti anni in luogo dell’ergastolo, si applicano senza che abbia rilievo se tale ultima pena sia prevista per la forma aggravata o per la fattispecie criminosa di base. La sequenza per il calcolo della pena, in caso di applicazione della diminuente a effetto speciale di cui all’art. 8, prevede che si proceda innanzitutto al computo delle variazioni sanzionatone derivanti dalle altre circostanze attenuanti e aggravanti e, quindi, all’applicazione dell’attenuante connessa alla dissociazione attuosa» [sul punto, per approfondimenti, cfr. SCARCELLA, 3761].

Peraltro, ad ulteriore sostegno di tale affermazione in punto di diritto, le S.U. hanno addotto anche un argomento di ordine sistematico, osservando che se il legislatore nel comma 2 dell’art. 8 ha escluso espressamente il giudizio di bilanciamento con la omologa circostanza aggravante ad effetto speciale di cui al precedente art. 7 della stessa legge: «sarebbe irrazionale o, in ogni caso, “asimmetrico”, ammettere detto giudizio per le altre aggravanti. Il fatto che il legislatore abbia escluso il concorso con l’aggravante di cui all’art. 7 significa – in altre parole e secondo un criterio ermeneutico di ragionevolezza – che non si potrebbe giammai ritenere un’altra aggravante (comune o speciale) prevalente o equivalente rispetto a detta attenuante».

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Da ultimo, la non bilanciabilità dell’attenuazione in esame è stata indirettamente ribadita da Cass., sez. IV, 21.2.2014, n. 12390, conforme a Cass., sez. IV, 12.6.2013, n. 38015. In questa pronuncia, infatti, la S.C. è pervenuta alla conclusione che un’altra circostanza attenuante ad effetto speciale di collaborazione post-delitto – quella prevista in materia di stupefacenti dal d.P.R. n. 309/1990, art. 73, comma 7 – debba essere assoggettata «all’ordinario giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee di cui all’art. 69 c.p., [… proprio facendo leva sul fatto che ad essa non può essere] applicato lo speciale regime previsto dall’art. 8, d.l. n. 152/1991, per i reati di stampo mafioso che esclude l’applicazione del giudizio di bilanciamento […], dal momento che […] è un regime derogatorio della disciplina ordinaria in tema di bilanciamento delle circostanze e come tale è da considerarsi di stretta interpretazione». 12.2. I criteri di calcolo della diminuente. – La necessità di risolvere tale questione ha condotto le Sezioni unite a confrontarsi anche con il problema della sequenza da seguire per il calcolo della pena nel caso in cui venga riconosciuta sussistente la speciale diminuente dell’art. 8 d.l. n. 152/1991. A tale specifico riguardo le S.U. hanno affermato che va dapprima determinata la pena effettuando il giudizio ex art. 69 c.p. e, successivamente, sul risultato che ne consegue, va applicata l’attenuante ad effetto speciale in parola. «Soltanto l’adozione del criterio anzidetto consente (...) di coniugare premialità, personalizzazione del trattamento sanzionatorio e proporzionalità del medesimo rispetto alla misura di lesività effettiva del fatto costitutivo del reato; consente, in altri termini, di impedire che dissociazione e contributo investigativo elidano la concreta offensività del fatto».

Tuttavia, com’è stato giustamente osservato, se l’opzione interpretativa seguita dalla Corte nel risolvere negativamente il problema dell’assoggettamento al giudizio di bilanciamento dell’attenuante in esame è senz’altro condivisibile, non altrettanto lo è quest’ultima [SCARCELLA, 3763; CISTERNA, 75]. In questo caso, difatti, la scelta del supremo Collegio appare confliggere logicamente con il precedente impianto motivazionale della sentenza, ispirato alla valorizzazione del criterio sistematico e della ratio legis complessivamente sottesa alla legislazione antimafia. «Proprio la “simmetria” tra le disposizioni in esame (art. 7, art. 8) che, nel percorso motivazionale, giustifica la scelta di sottrarre al giudizio di bilanciamento l’attenuante in esame al pari di quanto avviene per l’aggravante, avrebbe dovuto imporre alla Corte una soluzione omogenea quanto all’individuazione del criterio di calcolo conseguente all’applicazione dell’attenuante, posto che per l’aggravante di cui all’art. 7, comma 2, le variazioni di pena eventualmente spettanti all’imputato “si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alla predetta aggravante”, ovvero prima aumentando la pena in applicazione dell’aggravante de qua e, poi, riducendola per le eventuali attenuanti. Esigenze di coerenza logica interna alla decisione, quindi, avrebbero imposto un’omologa modalità di applicazione dell’attenuante, nel

9.

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senso di determinare il quantum della pena prima applicando la diminuente a effetto speciale e, quindi, operando i calcoli e gli eventuali bilanciamenti sulle circostanze residue. L’opposta scelta del supremo Collegio appare, dunque, scollegata dal criterio sistematico ed ispirata ad evitare la concretizzazione del rischio dell’insufficiente premialità per il dissociato che ne sarebbe conseguita in caso di adozione della prima opzione» [SCARCELLA, 3763; CISTERNA, 75].

13.

Il rapporto con altre attenuanti simili. In particolare: con l’art. 74 comma 7 d.p.r. n. 309/1990.

È controverso se la speciale diminuente di cui all’art. 8 possa concorrere o meno con altre attenuanti dalle caratteristiche analoghe, previste per altre tipologie di reati. In particolare, il problema si è posto prevalentemente con riferimento alla speciale forma di dissociazione attuosa prevista dall’art. 74 comma 7 d.P.R. n. 309/1990 per un’altra fattispecie associativa qualificata, il delitto di associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti [G.C. AMATO, 476; (b) LEO, 746]. Secondo un orientamento prevalente, consolidatosi nelle più recenti decisioni della Suprema Corte, le due attenuanti non potrebbero concorrere ed essere applicate contestualmente, poiché costituiscono previsioni premiali autonome, aventi diversi ambiti di operatività. Ciascuna di esse, infatti, è specificamente diretta ad evitare, attraverso una sorta di ravvedimento “post delictum” del reo imputato, che il reato associativo, cui rispettivamente si riferiscono, sia portato ad ulteriori conseguenze [Cass., Sez. VI, 11.3.2010, n. 29626, in Cass. pen., 2011, 2244; Cass., Sez. I, 21.1.2010, n. 17702, in Dir. pen. proc., 2010, con nota di Leo; Cass. pen., Sez. V, 28.4.2004 n. 26637, in Riv. pen., 2005, 1390]. Dal momento, quindi, che i reati-presupposto sono chiaramente diversi, la speciale attenuante prevista dall’art. 8 d.l. n. 152/1991 si può applicare solo nel caso in cui la condotta dissociativa dell’imputato abbia aiutato la ricerca degli autori di un reato con finalità mafiosa, e non anche quando abbia agevolato, altresì, le attività investigative inerenti a reati in materia di stupefacenti. Come ha avuto modo di precisare la S.C.: «la circostanza attenuante speciale prevista per i collaboratori di giustizia dal d.l. n. 152 del 1991, art. 8 convertito dalla l. n. 203 del 1991, si applica solo nelle ipotesi di delitti di cui all’art. 416 bis c.p. o di quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste da detta norma per agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso» [Cass., Sez. VI, 11.3.2010, n. 29626, cit.; in senso conforme Cass., Sez. I, 21.1.2010, n. 17702, cit.; Cass., Sez. V, 28.4.2004, n. 26637, cit.].

Nondimeno, secondo un diverso orientamento, entrambe le diminuenti possono eventualmente trovare applicazione:

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«atteso che, se è certamente vero che, tanto la l. n. 203 del 1991, art. 8, quanto del d.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, il comma 7, presuppongono che la condotta del dissociato debba essere diretta ad evitare che il reato sia portato a conseguenze ulteriori, nondimeno la seconda fattispecie prevede un’ipotesi specifica, applicabile solo in relazione alla azione di contrasto al traffico di stupefacenti, vale a dire quella consistente nell’aver aiutato la competente autorità a sottrarre rilevanti risorse, necessarie (ai complici) per la commissione del reato. Dunque, mentre non è dubbio che la attività consistente nella messa a disposizione degli inquirenti di informazioni utili a contrastare il protrarsi del reato (ricostruzione dei fatti, identificazione e/o cattura dei responsabili) si esplichi con una condotta collaborativa assolutamente “sovrapponibile”, altrettanto è indubbio che, in relazione al contrasto al traffico di stupefacenti, il legislatore ha individuato un’ipotesi di collaborazione a sé stante, quella, appunto, descritta sopra. Va da sé poi che, se una sola delle due attenuanti dovesse trovare applicazione, il favor rei imporrebbe di orientarsi verso quella prevista dall’art. 73 al comma 7 (riduzione dalla metà a due terzi), sempre che la condotta meritevole del trattamento premiale abbia, si intende, inerenza con reati in tema di stupefacenti» [Così testualmente, Cass., Sez. V, 29.1.2007, n. 9180; Cass., Sez. V, 23.4.2002, n. 24712].

In realtà, contrariamente a quanto possa ricavarsi da una lettura delle sole massime, le due tesi ora esposte non affermano principi di diritto apertamente contrastanti, bensì sostanzialmente coincidenti. Ed in effetti è vero che le due attenuanti non possono concorrere quando la dissociazione attuosa dell’imputato abbia riguardato alcuni dei reati tassativamente elencati nel catalogo delle fattispecie presupposto di una sola delle due circostanze (e quindi, o quelli con finalità mafiosa o quelli con finalità di spaccio). È però altrettanto vero che le due attenuanti possono concorrere quando l’imputato appartenga ad entrambi i sodalizi e con il suo contributo fornisca elementi utili sia per scompaginare l’organizzazione criminale di stampo mafioso, sia quella dedita al traffico di stupefacenti. Come è stato osservato, infatti, ben possono esistere associazioni “pure” di narcotrafficanti che agiscono allo scopo di favorire organizzazioni mafiose. Nel contempo, quindi, il partecipe di una associazione mafiosa può ben attuare un comportamento collaborativo che rechi contrasto allo sviluppo d’un traffico di stupefacenti, a prescindere dalla sua responsabilità per l’ulteriore reato associativo [(a) LEO, 1074]. Escluso che ci si trovi al cospetto di un concorso apparente di norme risolvibile in base al criterio di specialità, dal momento che le due fattispecie prevedono condotte destinate a produrre effetti diversi in contesti solo parzialmente simili (l’associazione mafiosa e l’associazione finalizzata allo spaccio), in questa specifica circostanza, peraltro, emerge la differenza che intercorre tra le due disposizioni premiali. A ben vedere, solo la prima parte di esse descrive due condotte perfettamente sovrapponibili, mentre la seconda parte dell’art. 74 comma 7 descrive una condotta di dissociazione attiva del reo specificamente calibrata sui reati in materia di stupefacenti (la sottrazione di rilevanti risorse necessarie per la commissione del reato). Potenzialmente, quindi, le due attenuanti potrebbero anche concorrere ed essere applicate congiuntamente [(b) LEO, 746]. In realtà, siccome tra i delitti di associazione di stampo mafioso e di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti viene di norma configurato il concorso di reati (in luogo del concorso

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Non punibilità e premi in materia di criminalità organizzata

apparente di norme) in ragione della eterogeneità dei beni giuridici tutelati, ordine pubblico e salute individuale e collettiva [in tal senso si veda ex multis Cass., sez. IV, 20.3.2008, n. 12349, De Angioletti, in Cass. pen., 2008, 4294, con nota di G. AMATO, Configurabilità del concorso tra associazione finalizzata al traffico di stupefacenti e associazione di tipo mafioso e altri; Cass., S.U., 13.1. 2009, n. 1149, Magistris, in Cass. pen., 2009, 2278; Cass., sez. VI, 3.2.2010, n. 4651; Cass., sez. I, 20.1.2004, Tomasi, in Giust. pen., II, 2005, 727; Cass., sez. VI, 14.3.1997, Calabrò, in Cass. pen., 1998, 2344; sul punto cfr. PELISSERO, 313] e si commisura la pena secondo il criterio del cumulo giuridico, aumentando sino al triplo la pena per la violazione più grave costituita di norma dal reato associativo in materia di stupefacenti, è comunque difficile che entrambe possano effettivamente spiegare i loro effetti premiali interamente [(a) LEO, 1074]. In queste ipotesi, infatti, il giudice applicherà (naturalmente, se ne riscontri tutti i requisiti operativi) l’attenuante della dissociazione collaborativa prevista per la violazione in concreto ritenuta più grave e, quindi, l’art. 74, comma 7, d.p.r. n. 309/1990 (essendo l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti punita più gravemente rispetto a quella di stampo mafioso) che, peraltro, prevede uno sconto di pena sensibilmente più favorevole per il reo, consentendo la riduzione delle pene detentive dalla metà ai due terzi, invece che da un terzo alla metà. Inoltre, com’è stato rilevato, la inapplicabilità congiunta di entrambe le circostanze, nel caso in cui sia riscontrato il concorso formale di reati tra le fattispecie associative ora richiamate, può essere logicamente desunta dal principio del ne bis in idem sostanziale [(b) LEO, 746]. -

14. Il rapporto con le misure cautelari. Questa speciale circostanza attenuante gioca un ruolo rilevante anche ai fini della revoca o della sostituzione delle misure cautelari. La sua concessione, fondandosi su di un pentimento attivo dell’imputato per i reati commessi con metodo o finalità mafiosa, sembra far venire meno quelle esigenze cautelari che presuntivamente il legislatore, nell’art. 275 comma 3 c.p.p., ravvisa nei suoi confronti. Ciò, si badi, non significa che il riconoscimento nel giudizio di merito dell’attenuante di cui all’art. 8 d.l. n. 152/1991 faccia venire meno automaticamente gli effetti processuali connessi alla peculiare pericolosità del soggetto autore di questa tipologia di delitti [Cass., sez. VI, 14.1.2000, n. 238, in Cass. pen., 2001, 940, con nota di Marinelli]. Nei confronti degli indagati o imputati che rivestono la qualità di collaboratori di giustizia, il giudizio sulla pericolosità ai fini della sostituzione o della revoca della misura della custodia cautelare, va sempre condotto verificando in concreto se il comportamento collaborativo che ha portato al riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 8 d.l. n. 152/1991 sia garanzia della stabile rescissione di qualsiasi legame con le attività dell’organizzazione criminale di appartenenza, in modo da comportare il superamento della presunzione di pericolosità posta dall’art. 275 comma 3 c.p.p. [Cass., sez. VI, 9.12.2009, n. 49557].

L’attenuante della dissociazione attuosa

15.

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Profili processuali: la procedura per la valutazione della collaborazione.

Com’è noto, la disciplina della collaborazione processuale in materia di reati associativi di stampo mafioso si caratterizza, sin dalla sua comparsa, per la previsione – accanto ad un sistema “premiale” composto dalla speciale diminuente in parola e da altri benefici penitenziari – di un parallelo sistema di “protezione” «nei confronti delle persone esposte a grave e attuale pericolo per effetto della loro collaborazione» (art. 9 comma 1). Tale scelta, effettuata inizialmente con legge 15.3.1991, n. 82, e ribadita con qualche modifica con gli artt. 16-quater e ss. della legge n. 45/2001, si spiega con la ineluttabile necessità (pena il sicuro fallimento degli incentivi alla collaborazione) di proteggere chi svela illeciti commessi prevalentemente nell’ambito territoriale in cui ha sempre vissuto e di consentire, dopo il “pentimento”, l’inizio di una nuova vita in un altro contesto [in argomento cfr. (a) RUGGIERO, 1046; (b) CISTERNA, 1 ss.]. Come già si è avuto modo di precisare in precedenza (v. supra, § 5), dopo la riforma delle norme in materia di collaborazione processuale realizzata con la legge n. 45/2001 (coerentemente con la decisione di fondo di differenziare il momento premiale ed il momento tutorio) la ammissione del collaboratore allo speciale programma di protezione non rappresenta una condicio si ne qua non, un elemento ostativo, per il riconoscimento della attenuante di cui all’art. 8 d.l. n. 152/1991. L’autonomia di questi due paralleli istituti la si evince anche dalla differenza dei soggetti preposti alla loro concessione: mentre, come si è visto, la diminuente è concessa dall’autorità giudiziaria, il programma di protezione (salvo casi di urgenza) viene deliberato, su proposta del procuratore della Repubblica presso la Direzione Distrettuale Antimafia, dalla Commissione centrale, secondo quanto previsto dall’art. 10 comma 2 legge n. 82/1991 e tenendo conto della intrinseca attendibilità, genuinità e tempestività delle notizie ottenute. Tralasciando l’analisi della disciplina dettata nel 2001 per la protezione dei collaboratori di giustizia, interessa in questa sede concentrare l’attenzione sull’unico aspetto di questa riforma che coinvolge direttamente l’attenuante dell’art. 8 d.l. n. 152/1991, vale a dire l’art. 14 (già richiamato supra, § 5) che fissa i limiti formali e cronologici per l’assunzione delle informazioni da parte del dissociato e, indirettamente, individua un ennesimo requisito per il riconoscimento della speciale diminuente in materia di criminalità organizzata. Ai sensi del nuovo art. 16-quater legge n. 82/1991 la concessione della circostanza attenuante è subordinata al rispetto di alcuni aspetti formali relativi alle modalità di acquisizione della dissociazione collaborativa dell’imputato. In particolare, è previsto che la persona che ha manifestato la volontà di collaborare debba rendere al procuratore della Repubblica, entro il termine di centottanta giorni dalla suddetta manifestazione di volontà, tutte le notizie in suo possesso utili alla ricostruzione dei fatti e delle circostanze sui quali è interrogato, nonché degli altri fatti di maggiore gravità ed allarme sociale di cui è a cono-

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scenza, oltre che alla individuazione e alla cattura dei loro autori ed altresì le informazioni necessarie perché possa procedersi alla individuazione, al sequestro e alla confisca del denaro, dei beni e di ogni altra utilità dei quali essa stessa o, con riferimento ai dati a sua conoscenza, altri appartenenti a gruppi criminali dispongono direttamente o indirettamente (sulla natura relativa e non perentoria di questo termine semestrale si rinvia a quanto già detto supra, § 5). Altro requisito formale introdotto da questa legge è che le dichiarazioni rese siano documentate in un verbale denominato “verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione”, redatto secondo le modalità previste dall’art. 141-bis c.p.p., che è inserito, per intero, in apposito fascicolo tenuto dal procuratore della Repubblica cui le dichiarazioni sono state rese e, per estratto, nel fascicolo previsto dall’art. 416 comma 2 c.p.p. relativo al procedimento cui le dichiarazioni rispettivamente e direttamente si riferiscono. L’ultimo requisito formale richiesto per la concessione dell’attenuante dal successivo art. 16-quinquies della medesima legge è che l’imputato dissociato abbia sottoscritto il suddetto verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione entro il termine perentorio previsto nel comma precedente di 180 giorni dalla sua apertura. Nell’ipotesi in cui, però, la collaborazione si manifesti nel corso del dibattimento, si ritiene che la speciale attenuante di cui all’art. 8 possa essere ugualmente concessa anche in mancanza del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, ferma restando la necessità di procedere alla sua redazione entro il termine prescritto per gli effetti di cui agli artt. 16-quater e 16-nonies.

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Parte Terza

Il trattamento penitenziario della criminalità organizzata

Capitolo I

I benefici penitenziari e la politica del c.d. doppio binario

Sommario

1. L’evoluzione storica della normativa da “doppio binario”. – 1.1. I poteri valutativi della magistratura di sorveglianza sulle condizioni per l’accesso ai benefici premiali. – 2. Le pronunce della Corte costituzionale: dalla collaborazione irrilevante alla collaborazione impossibile. – 2.1. I successivi interventi legislativi sul “doppio binario” penitenziario e lo stato attuale. – 3. I benefici penitenziari sottratti ai limiti e quelli comunque preclusi. – 4. I caratteri della collaborazione. – 5. I collaboratori di giustizia. – Bibliografia.

1. L’evoluzione storica della normativa da “doppio binario”. Le disposizioni fondamentali nella costruzione di un regime penitenziario differenziato per i condannati per gravi reati, specie di criminalità organizzata, sono contenute nell’art. 4-bis della legge 26.7.1975, n. 354 (ordinamento penitenziario). Come è reso evidente già dalla numerazione, l’articolo è stato introdotto per intervento di novella, che ha apportato elementi di significativa novità rispetto al precedente assetto regolativo, interamente incentrato sulla finalità rieducativa. L’obiettivo della rieducazione sociale informava l’intero sistema attraverso la previsione programmatica contenuta nell’art. 1 ultimo comma della stessa legge, ove si legge che «[…] deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda […] al reinserimento sociale» dei condannati e degli internati. L’idea di fondo era – e certo è ancora per la gran parte dei settori criminali trattati dall’intervento penitenziario – che il carcere non debba conservare la centralità di un tempo e che piuttosto esso debba segnare l’inizio di un percorso rieducativo che si componga di aperture all’esterno e di sempre più ampi spazi di libertà che favoriscano contatti sociali, strumentali al futuro pieno reinserimento [COMUCCI, 5].

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L’ambizioso programma di decarcerizzazione – già delineato dalla legge del 1975 – era stato arricchito dalla legge 10.10.1986, n. 663 (c.d. legge Gozzini), e articolato su una pluralità di strumenti, gli uni – quali il lavoro all’esterno, i permessi premio e la semilibertà – volti all’ampliamento delle ipotesi di uscita temporanea dal carcere – secondo la logica del “meno carcere” –, gli altri – affidamento in prova senza osservazione, semilibertà senza espiazione, detenzione domiciliare ab initio – diretti al potenziamento delle opportunità di evitare l’ingresso in istituto – secondo la logica, appunto del “non ingresso” o della “uscita anticipata” – [(a) GREVI, 25]. Il trattamento dei detenuti era divenuto l’idea-forza nell’intero settore dell’esecuzione delle pene detentive, stabilizzando le spinte contrarie alle ricorrenti tentazioni di imbarbarimento dei sistemi penitenziari, per mezzo della loro riduzione a meri sistemi di neutralizzazione, se non di annullamento, dei soggetti devianti [(c) GREVI, 4 ss.]. E però, a distanza di pochi anni, la prospettiva progressista della compressione del carattere segregante del carcere dovette cedere, almeno in parte, alla necessità di fare i conti con una criminalità spiccatamente eversiva, che nei primi anni ’90 pose in essere una strategia di aggressione alle istituzioni statali per certi versi senza precedenti, costringendo a piegare anche l’ordinamento penitenziario ai prioritari obiettivi di sicurezza sociale. Un primo intervento in controtendenza, rispetto all’originario modello segnato dalla preponderanza della finalità rieducativa, si ebbe con la legge 19.3. 1990, n. 55, che modificò l’art. 30-ter ord. pen., introducendo il comma 1-bis al fine di stabilire che per i condannati per reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, di criminalità organizzata, nonché per il reato di cui all’art. 630 c.p., occorresse acquisire, in vista della concessione dei permessi-premio, elementi tali da escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. Come è stato opportunamente osservato, la strategia legislativa non ripeteva le tecniche utilizzate con la disposizione dell’originario comma 2 dell’art. 47 ord. pen. – nella formulazione del 1975 –, che elencava alcuni reati la cui commissione, consacrata nella sentenza di condanna, era considerata ostativa alla concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale, ma diversificava le regole probatorie per l’ammissione alle varie misure [(b) GREVI, 4]. Successivamente, fatta eccezione per alcuni decreti-legge emessi sul finire del 1990 e nel primo semestre del 1991 e poi non convertiti – di cui il primo prevedeva il ripristino del criterio incentrato sulla previsione di un elenco di reati “ostativi” e gli altri subordinavano l’applicazione delle misure rieducative ai condannati per gravi reati appositamente elencati ad una specifica regola volta all’accertamento di collegamenti con la criminalità organizzata ed eversiva –, l’innovazione fu apportata dal d.l. 13.5.1991, n. 152, convertito dalla legge 12.7. 1991, n. 203, istitutivo del regime penitenziario differenziato. Con questo intervento si diede luogo alla combinazione di un reticolo di preclusioni e premi per incentivare la collaborazione con la giustizia, sì da model-

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lare il sistema trattamentale – articolato su benefici e misure alternative alla detenzione – in base al principio dell’individualizzazione in riguardo alle specifiche condizioni dei soggetti destinatari, secondo la pur preesistente previsione dello stesso art. 1 ultimo comma ord. pen., di cui così furono scoperte le potenzialità regolatrici. In senso fortemente critico si è sul punto osservato che, in forza di questa evoluzione normativa, si passò dal diritto al silenzio garantito nel processo penale di cognizione all’obbligo di collaborare nel processo di esecuzione della pena [FILIPPI, SPANGHER, 89].

In particolare, si operò la distinzione di due fasce di delitti all’interno di una comune area di riconducibilità alla criminalità organizzata, e si stabilì che i condannati per i reati della prima fascia, quelli cioè certamente riferibili alla criminalità organizzata, potessero beneficiare delle misure rieducative solo in caso di acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata ed eversiva; e che i condannati per i delitti della seconda fascia – non direttamente riferibili alla criminalità organizzata – potessero essere destinatari di quelle misure, salvo che fossero accertati elementi tali da far ritenere la sussistenza di quei collegamenti. Si dispose, ancora, che l’accertamento eventuale di questi elementi imponesse l’acquisizione di dettagliate informazioni tramite il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione del condannato, chiamato a riferire fatti e ad esprimere valutazioni – si dirà meglio infra, § 1.1. – non vincolanti. L’art. 4-bis assunse, quindi, una collocazione centrale nella costruzione di un regime normativo di «doppio binario» e fu eletto ad apparato normativo di riferimento per altre disposizioni, quelle relative all’assegnazione del lavoro all’esterno, ai permessi premio e alla semilibertà – anche per quella di previsione della liberazione condizionale –, al fine di inasprire la procedura applicativa in riferimento a quella determinata categoria di condannati, con l’innalzamento della frazione di pena da espiarsi per poter accedere alla concessione delle misure [(b) GREVI, 12]. Un assoluto divieto di concessione dei comuni benefici penitenziari (assegnazione del lavoro all’esterno, permessi premio, affidamento in prova ordinario, detenzione domiciliare, semilibertà) era poi fissato, per un periodo di tre anni, per il caso in cui i soggetti di cui all’art. 4-bis si fossero resi responsabili del reato di evasione o di altra condotta comunque punibile ai sensi dell’art. 385 c.p. E un regime ancor più rigoroso era dettato per i condannati per delitti particolarmente gravi – come i delitti di sequestro di persona ex artt. 289-bis e 630 c.p. nel caso in cui fosse cagionata la morte della vittima –, con il divieto di ammissione a tutti i benefici di cui all’art. 4-bis, sino all’espiazione di almeno due terzi della pena irrogata o, nel caso di ergastolo, di almeno ventisei anni di reclusione. Specularmente a questi inasprimenti, si stabilì che le più rigorose previsioni circa l’entità di pena da scontarsi quale presupposto per l’adozione delle misure

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dell’assegnazione al lavoro all’esterno, dei permessi premio e della semilibertà non dovessero applicarsi se i condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis avessero collaborato con la giustizia. Entrò così nel sistema penitenziario la strategia premiale, sganciata dalle valutazioni del comportamento tenuto dal condannato sotto il profilo del trattamento rieducativo e riferita alle condotte di collaborazione, tipiche normalmente della fase della cognizione [CESARI, GIOSTRA, 53]. La previsione della collaborazione con la giustizia, contenuta nell’art. 58-ter ord. pen., ampliò la sua portata innovatrice con l’intervento di decretazione d’urgenza dell’8 giugno 1992, recante il n. 306, poi convertito dalla legge 7.8.1992, n. 356. Dopo le stragi in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino il legislatore arricchì la strategia di diversificazione del trattamento penitenziario di un’altra finalità: oltre alla preclusione della fruizione delle misure rieducative per i condannati che non avessero interrotto i rapporti con la criminalità organizzata, si stabilì che i condannati per i delitti di cui alla prima fascia dell’art. 4bis non potessero essere ammessi alle misure rieducative se non avessero collaborato con la giustizia, a norma dell’art. 58-ter. Per costoro, in assenza di collaborazione, vigeva un assoluto divieto di concessione dei benefici, non essendo più sufficiente la prova dell’insussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, fatta salva l’eccezione per la liberazione anticipata. La legge n. 356/1992, di conversione del d.l. 8.6.1992, n. 306, aveva stabilito, modificando il provvedimento di urgenza, che la limitazione alla concessione dei benefici ai soli collaboratori di giustizia valesse per le misure alternative alla detenzione di cui al Capo VI della legge di ordinamento penitenziario, fatta eccezione per la liberazione anticipata. All’indomani di questa novella la giurisprudenza di legittimità precisò che «a seguito dell’entrata in vigore della legge 7 agosto 1992 n. 356 – il cui art. 15 ha escluso dal novero dei benefici condizionalmente impediti dall’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, la liberazione anticipata – la concessione di quest’ultimo beneficio ai condannati per qualsiasi delitto è subordinata soltanto alla sussistenza dei requisiti indicati nell’art. 54 di quest’ultima legge» [Cass., sez. I, 7.10.1992, Pizzardi, CED 1992/192186]. Ciò nonostante, nella giurisprudenza di merito si fece strada altra e opposta lettura, per la quale l’eccezione prevista per la liberazione anticipata era da intendersi nel senso che essa non potesse essere concessa neanche ai collaboratori di giustizia, e per questa ragione la disposizione fu rimessa allo scrutinio di costituzionalità. La Corte costituzionale, con sentenza 8.7.1993, n. 306, in cortecostituzionale.it, dichiarò l’infondatezza della questione chiarendo che l’inciso d’eccezione era volto ad escludere l’applicabilità della disposizione limitativa, come emergeva non solo dal dato letterale, quanto dai lavori preparatori, univocamente contrassegnati dall’intento di mitigare il rigore della norma originaria del decreto-legge. Aggiunse, poi, che «sarebbe stato ben strano, del resto, che in un testo legislativo in cui ad accentuate restrizioni nei confronti dei condannati per reati di criminalità organizzata si accompagnano misure di marcato favore […] nei confronti di quanti collaborano con la giustizia, venisse introdotta per costoro una limitazione incisiva quale l’esclusione della liberazione anticipata».

Si diede così vita a una sorta di presunzione legale [(b) GREVI, 10], per la quale la rottura dei legami con il crimine organizzato poteva essere attestata soltanto per mezzo di un’esplicita scelta di collaborazione con la giustizia.

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In dottrina si sottolineò opportunamente che la scelta collaborativa può costituire misura dell’affidabilità oggettiva del condannato ma nulla dice circa l’affidabilità soggettiva, essendo indicativa del distacco da uno specifico contesto criminoso e non anche del superamento tout court della scelta criminale [PRESUTTI, 95], seppure, secondo altri, possa fondare una ragionevole prognosi di non recidiva [DEGL’INNOCENTI, FALDI, 217].

Unica eccezione – introdotta dalla legge di conversione – fu posta per quanti, condannati per uno di quei delitti, potessero non essere nelle condizioni per collaborare con la giustizia, magari per l’assenza di informazioni significativamente utili alle investigazioni e all’accertamento. Si precisò così che, in presenza di determinate circostanze attenuanti, il divieto potesse essere superato pur in caso di collaborazione oggettivamente irrilevante, sempre che, ovviamente, in riguardo a quei condannati fossero acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. L’evoluzione normativa, il cui attuale assetto sarà da qui a breve esaminato, ha definito la complessa disciplina dell’art. 4-bis in termini di istituto cardine del sistema, espressione di una controriforma carceraria con una persistente tendenza espansiva capace di assemblare una ricca varietà di reati, e quindi di “tipi d’autore”, accomunati da un più rigido trattamento penitenziario [PAVARINI, GUAZZALOCA, 183], secondo un meccanismo di «doppio binario» [CASAROLI, 15] non sempre giustificato dalla necessità di contrasto del crimine organizzato. Nel tempo si è avuto, infatti, l’innesto nel corpo dell’articolo del riferimento a reati, pur gravi, estranei a quel fenomeno, secondo la tendenza a delimitare un’area sempre più estesa di devianza da sottrarre alla logica rieducativa a vantaggio del bisogno, avvertito soprattutto dalla pubblica opinione, di far prevalere la mera retribuzione [CESARI, GIOSTRA, 70]. Nell’ambito comunque molto ampio del crimine organizzato il legislatore ha definitivamente rinsaldato il collegamento tra il regime penitenziario e le esigenze di natura sostanziale, dando luogo ad una nuova forma di premialità per effetto della collaborazione [TRONCONE, 237], con la conseguente, e in tale disegno coerente, limitazione dei poteri discrezionali della magistratura di sorveglianza, nella prospettiva di conferire certezza all’attribuzione del premio per la collaborazione. Ciò è stato fatto con un’opzione di prevalenza, nel settore del crimine organizzato, delle esigenze repressive, nella consapevolezza che la nozione di collaborazione non è sovrapponibile a quella di rieducazione, nel senso che, come è stato osservato, non v’è una relazione di reciproca implicazione, per la «chiara caratterizzazione fenomenica della prima» a fronte della «dimensione squisitamente interiore» della seconda [(a) DELLA CASA, 124]. Accenti più critici sono utilizzati da quanti ritengono che l’evoluzione normativa racchiusa nella disciplina dell’art. 4-bis sia governata «dall’incivile brocardo carceratus tenetur alios detegere», nel senso che il detenuto che intenda fruire di uno dei benefici previsti dalla legge penitenziaria, ad eccezione della liberazione anticipata, deve adempiere l’onere della collaborazione processuale – si consideri che le disposizioni del regolamento penitenziario degli artt. 37 comma 8 e 39 comma 2 limitano i colloqui visivi e la corrispondenza epistolare e telegrafica nei confronti dei detenuti sottoposti al regime carcerario di cui all’art. 4-bis e che Cass., S.U.,

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26.2.2003, Gianni, in CED 2003/224604, ha sancito la piena legittimità di queste ulteriori restrizioni – [FILIPPI, SPANGHER, 237-238]. Secondo questa dottrina, l’attribuzione alla pena di una funzione di incentivo alla collaborazione processuale si pone al di fuori dell’orizzonte segnato dalla finalità rieducativa costituzionalmente imposta e determina un contrasto dell’art. 4-bis con l’art. 27 comma 3 Cost., oltre che con il principio generale del sistema processuale che fa divieto di metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione, pur con l’eventuale consenso dell’interessato (art. 188 c.p.p.). La radicale conclusione è che «il diritto al silenzio garantito nel processo penale di cognizione per questi delitti si tramuta nella fase di esecuzione della pena in un onere di collaborare». Di diverso, anzi opposto, avviso la più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’aver subordinato la concessione di benefici penitenziari ad una condotta di tipo collaborativo (od alla “inesigibilità” della stessa) non si risolve nella violazione del diritto di tacere e di non contribuire alla propria incriminazione garantito dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, posto che tale diritto attiene al processo di cognizione e non alla fase esecutiva della pena [Cass., sez. I, 7.11.2012, Musumeci, in CED 2012/254571]. L’idea è che non può essere evocato, per la fase esecutiva della pena, il diritto di non contribuire alla propria incriminazione, «atteso che le dichiarazioni rese dal condannato sono in ogni caso prive di qualsiasi ricaduta autoaccusatoria in ragione della intangibilità del giudicato già formatosi in ordine alla penale responsabilità del condannato».

1.1. I poteri valutativi della magistratura di sorveglianza sulle condizioni per l’accesso ai benefici premiali. – Si è detto poc’anzi che il d.l. n. 152/1991 individuò nelle informazioni provenienti dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica il canale obbligato per l’acquisizione di elementi tali da far escludere o, di contro, da far affermare la sussistenza attuale di collegamenti dei condannati qualificati con la criminalità organizzata. Quell’intervento normativo aveva così istituito un percorso informativo obbligato, e ci si era chiesti se le pressanti esigenze di contrasto del crimine organizzato avessero spinto sino al punto da limitare i poteri di apprezzamento autonomo della magistratura di sorveglianza, con l’affidamento ad un organismo tipicamente di prevenzione di compiti valutativi fisiologicamente ricadenti nelle attribuzioni giurisdizionali. La giurisprudenza di legittimità sin da subito ebbe cura di precisare che l’innovazione non incideva sui poteri di valutazione della magistratura di sorveglianza: fu detto che «le informazioni previste dall’art. 4-bis legge n. 354 del 1975 (c.d. ordinamento penitenziario) sono obbligatorie ma non vincolanti, potendo il tribunale di sorveglianza attingere aliunde elementi utili ai fini del giudizio che deve formulare, con il solo obbligo, qualora dissenta dalle conclusioni del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, di fornire al riguardo un’idonea, rigorosa e dettagliata spiegazione» [Cass., sez. I, 20.12.1992, Forte, in Cass. pen., 1993, 1550; ma vedi anche Cass., sez. I, 6.2.1992, Di Laura, in Giur. it., 1992, 698, per la quale «in tema di limitazioni alla concessione delle misure alternative alla detenzione, poste dall’art. 4-bis (introdotto con l’art. 1 d.l. n. 152/1991), le informazioni negative del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica non sono vincolanti per il giudice, ma devono essere sottoposte a controllo critico, mediante la specifica indicazione e la valutazione di fatti e circostanze poste a fondamento di esse»]. E, sulla base di questa interpretazione che si era in poco tempo consolidata, fu dichiarata la manifesta infondatezza della questione di legittimità dell’art. 4-bis, osservandosi ad opera del giudice delle leggi che la costante linea interpretativa seguita dalla Corte di cassazione aveva determinato la qualificazione dell’informativa del comitato come «atto obbligatorio ma non vincolante, potendo il giudice, per un verso, trarre da altre fonti gli elementi di valutazione, e

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per un altro verso, dissentire, purché con appropriate proposizioni interpretative»; aggiungendosi, infine, che «fra gli elementi che la magistratura di sorveglianza ha il potere di acquisire aliunde, è da ricomprendere […] anche la condotta del condannato nel corso dell’espiazione della pena», e ciò con riferimento specifico alla concessione della misura della liberazione anticipata [C. cost., 12.6.1992, n. 271 (ord.), in cortecostituzionale.it].

La questione dell’estensione dei poteri giurisdizionali tornò di lì a poco a porsi con rinnovata importanza per effetto della previsione contenuta nel successivo intervento di decretazione d’urgenza. Fu l’art. 15 comma 1 del d.l. 8.6. 1992, n. 306, a interpolare, con l’aggiunta del comma 3-bis, l’art. 4-bis, stabilendo che le misure penitenziarie ivi indicate non potessero essere applicate nei confronti dei detenuti «per delitti dolosi», ove il procuratore nazionale o il procuratore distrettuale antimafia avessero comunicato «l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata». La norma sembrò vincolare in modo stringente i poteri istruttori e valutativi della magistratura di sorveglianza, peraltro per una categoria di detenuti assai più ampia di quella presa in considerazione dall’art. 4-bis comma 1, fissando quasi un potere di veto in capo agli uffici del pubblico ministero antimafia. Questa lettura costituzionalmente assai dubbia della disposizione fu però scartata dalla giurisprudenza di legittimità che, con una pluralità di interventi, stabilì che le comunicazioni della Procura antimafia fossero soltanto la premessa di un più articolato accertamento, da imputarsi direttamente alla magistratura di sorveglianza. -

Sin da subito Cass., sez. I., 3.2.1993, Ferro, in CED 1993/193308, espresse il principio di diritto secondo cui «in tema di concessione della liberazione anticipata, la comunicazione del procuratore nazionale antimafia circa l’attualità di collegamenti del richiedente con la criminalità organizzata […] costituisce soltanto la premessa per l’accertamento di una situazione di preclusione alla concessione del beneficio: situazione che, quindi, dovrà essere accertata, in concreto, dal tribunale di sorveglianza, con la valutazione – autonoma – degli elementi sui quali risulta fondata l’asserzione oggetto della comunicazione». Precisò, sul punto, che era da escludersi l’introduzione di una pregiudiziale automatica alla concessione del beneficio, con diritto di veto in capo al procuratore distrettuale antimafia, perché ne sarebbe derivata una lettura della norma contraria ai principi di garantismo giurisdizionale fissati dalla Costituzione, venendosi a subordinare l’attività ed il potere giurisdizionale – in una materia destinata ad incidere sulla libertà personale – alla semplice comunicazione di una parte processuale. In questa direzione si è poi mossa la giurisprudenza sino ad oggi. Valga il riferimento, per l’attualità, a Cass., sez. I, 9.1.2009, Calcagnile, in CED 2009/242843, secondo cui «ai fini della concessione di benefici penitenziari, neanche la valutazione del procuratore nazionale o distrettuale antimafia – che pure deve fondarsi su dettagliati elementi – circa l’attualità di collegamenti del condannato con la criminalità organizzata vincola il giudice, che deve sottoporla a verifica sia per quanto concerne l’apprezzamento dei dati fattuali esposti, sia per quel che riguarda il giudizio di attualità dei predetti collegamenti». In senso favorevole al condannato si è invece valorizzato il dato della mancanza delle informative antimafia, stabilendosi che «in mancanza di tali comunicazioni o in presenza del positivo giudizio informativo espresso dall’equipe di trattamento della casa di reclusione, il tribunale di sorveglianza non può presumere un’attualità di collegamento del condannato con le organizzazioni criminali, da ciò traendo spunto per il diniego del beneficio penitenziario» [Cass., sez. I, 10.4.1995, Di Paolo, in CED 1995/201460].

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2.

Le pronunce della Corte costituzionale: dalla collaborazione irrilevante alla collaborazione impossibile.

Il rigore legislativo sul versante dell’accesso ai benefici penitenziari, già attenuato in sede di conversione del d.l. n. 203/1991 per i casi di collaborazione irrilevante – come prima si è ricordato –, fu oggetto di ripetuti interventi della Corte costituzionale che hanno ridimensionato l’eccessivo riferimento alle esigenze di prevenzione generale e di sicurezza della collettività a scapito della finalità rieducativa della pena, che è finita con il rimanere compressa oltre misura. Una prima decisione, dopo aver premesso che la legislazione del 1992 era ispirata nettamente a finalità di prevenzione generale e di tutela della sicurezza collettiva e, incentivando fortemente la collaborazione, era espressione di scelte di politica criminale e non penitenziaria, non mancò di osservare come la scelta collaborativa fosse «la sola ad esprimere con certezza la volontà di emenda», sì da assumere anche una valenza penitenziaria [C. cost., 8.7.1993, n. 306, in cortecostituzionale.it]. Precisò, però, condividendo la prospettazione dei giudici remittenti, che essa ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi assicurati dalla legge, «e non anche segno di effettiva risocializzazione». Aggiunse, poi, che non può stabilirsi una gerarchia statica ed assoluta tra le finalità che la Costituzione assegna alla pena, tra cui si annovera quella di prevenzione generale e difesa sociale, con i connessi caratteri di afflittività e retributività. E quindi riconobbe che l’esigenza del contrasto della criminalità organizzata potesse spingere il legislatore a privilegiare finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività, con l’attribuzione di determinati vantaggi ai detenuti che intraprendessero un percorso di collaborazione. In questo contesto di principi che esigono un oculato bilanciamento nei casi di potenziale contrasto, rilevò che ai casi di collaborazione irrilevante nei risultati potesse aggiungersi, in quanto partecipe di una medesima ratio, l’ipotesi in cui un’utile collaborazione sia impossibile perché fatti e responsabilità siano già stati completamente accertati o perché la posizione marginale nell’organizzazione non consenta di conoscere fatti e compartecipi funzionalmente collocati ai livelli superiori della struttura organizzativa. La mancanza di collaborazione, ove essa sia per dette ragioni impossibile, non può essere indice di pericolosità specifica. L’intervento manipolativo fu particolarmente importante perché stava maturando un orientamento giurisprudenziale che acuiva il rigore della legge. Cass., sez. I., 15.4.1993, Staltari, in CED 1993/194410, affermava, infatti, che «la disposizione della seconda parte, primo comma, dell’art. 4-bis, che consente l’ammissione ai benefici penitenziari anche ai condannati per uno dei gravi delitti in essa indicati che abbiano offerto una collaborazione irrilevante, purché sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dagli artt. 62 n. 6, 114 o 116 comma secondo c.p., ha carattere eccezionale e può trovare, pertanto, applicazione, solo nei limiti in cui la norma stessa lo consente, sicché da essa non può desumersi alcun criterio generale estensibile alle ipotesi considerate nella prima parte. Da qui consegue che la collaborazione con l’autorità di polizia o con l’autorità giudiziaria, ancorché impossibile, costituisce condizione inde-

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fettibile per la concessione dei benefici penitenziari (ad eccezione della liberazione anticipata) ai condannati per taluno dei delitti indicati nella prima parte primo comma dell’art. 4-bis».

Collaborazione irrilevante e collaborazione impossibile non furono più preclusive all’accesso ai benefici, alla condizione però che trovassero giustificazione nella posizione marginale occupata dal condannato all’interno dell’organizzazione, di cui erano indice il riconoscimento in sede di cognizione del contributo di minima importanza nell’ambito del fatto concorsuale o l’affermazione di responsabilità per reato diverso da quello più grave voluto da taluno dei concorrenti; o la ricorrenza del fatto attenuante del risarcimento del danno, anche successivamente alla condanna, assunto dal legislatore a dato presuntivamente incompatibile con la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. La restrizione rigorosa operata con il riferimento a queste fattispecie attenuative della risposta sanzionatoria, assunti ad indici di contributi associativi marginali e di interruzione dei legami associativi, fu oggetto di un successivo e ravvicinato scrutinio di costituzionalità. La considerazione critica – che portò alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis nella parte in cui non consentiva l’accesso ai benefici penitenziari nel caso in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, sì come accertata nella sentenza di condanna, renda impossibile un’utile collaborazione, sempre che siano acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata – fu che una collaborazione rilevante, ex art. 58-ter ord. pen., poteva essere impossibile per una partecipazione al fatto secondaria, o comunque limitata, ma non tale da corrispondere alla nozione di minima importanza del contributo concorsuale. Il richiamo all’art. 114 c.p., e non diversamente quello operato agli artt. 116 e 62 n. 6 c.p., introduce un termine di riferimento disomogeneo e inappagante, dal momento che una cosa è la valutazione, in sede di cognizione, se l’imputato sia meritevole di una diminuzione di pena, altro è stabilire, nel quadro delle finalità dell’esecuzione penale, se al condannato non sia possibile offrire, per fatti oggettivi, una collaborazione non irrilevante [C. cost., 27.7.1994, n. 357, in cortecostituzionale.it]. Dette valutazioni, secondo le precisazioni offerte sin da subito dalla giurisprudenza di legittimità, spettano al giudice investito della richiesta di benefici penitenziari. Si stabilì, infatti, che «a seguito dell’intervento operato dalla Corte costituzionale, con la sentenza 27 luglio 1994 n. 357, sull’art. 4-bis, il giudice di merito, a fronte della richiesta di benefici penitenziari da parte del condannato per taluno dei delitti previsti dal citato articolo, in favore del quale sia stata accertata, nella sentenza di condanna, la limitata partecipazione al fatto criminoso, deve verificare se, in concreto, detta limitata partecipazione abbia reso e renda impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, sì da risultarne consentita comunque la concessione del beneficio richiesto, sempre che siano acquisiti elementi tali da escludere in modo certo l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata» [Cass., sez. I, 15.5.1995, Enea, in CED 1995/201483]. Il compito giudiziale di accertamento dei caratteri della collaborazione deve, però, essere sostenuto dall’adempimento di un onere di allegazione dell’interessato. In tale direzione si precisò anni addietro che, «al fine del superamento delle condizioni ostative alla fruizione di determinati benefici (nella specie liberazione condizionale) stabilite dal combinato disposto degli

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artt. 4-bis e 58-ter, è necessario che nell’istanza il condannato prospetti, almeno nelle linee generali, elementi specifici circa l’impossibilità o l’irrilevanza della sua collaborazione tanto da consentire il superamento delle condizioni ostative all’esame del merito alla luce dei principi espressi nelle sentenze n. 306 del 1993, n. 357 del 1994 e n. 68 del 1995 della Corte costituzionale, non essendovi dubbio che solo in tal caso è possibile valutare se la collaborazione del condannato sia impossibile “perché fatti e responsabilità sono già stati completamente acclarati”, o irrilevante “perché la posizione marginale nell’organizzazione criminale non consente di conoscere fatti e compartecipi pertinenti a livello superiore”» [Cass., sez. I, 18.5.1995, Zito, in CED 1995/202082]. Così, da ultimo, si è espressa Cass., sez. I, 24.2.2010, C., in CED 2010/ 246397, secondo cui «al fine del superamento delle condizioni ostative alla fruizione di determinati benefici penitenziari (nel caso di specie, la liberazione condizionale) stabilite dal combinato disposto degli artt. 4-bis e 58-ter, è necessario che nell’istanza il condannato prospetti, almeno nelle linee generali, elementi specifici circa l’impossibilità o l’irrilevanza della sua collaborazione, così da consentire l’esame del merito dell’istanza stessa (v. C. cost., sentenze n. 306 del 1993, n. 357 del 1994 e n. 68 del 1995)». -

La rivisitazione critica condotta su questo piano del ragionamento ricostruttivo fu completata di lì a poco da altra pronuncia del giudice delle leggi, che ritenne di portare alle naturali conseguenze le statuizioni della sentenza n. 357/ 1994. Le conclusioni di tale ultima sentenza furono estese, così, al caso di collaborazione impossibile per essere stati integralmente accertati i fatti e le responsabilità con la sentenza irrevocabile. In particolare, si disse che «collaborazione irrilevante e collaborazione impossibile […] finiscono per saldarsi all’interno di un quadro unitario di collaborazione oggettivamente inesigibile, che permette di infrangere lo sbarramento preclusivo». Se così non fosse, si avrebbe l’arbitraria esclusione da una serie importante di opportunità trattamentali senza alcuna contropartita sul piano delle esigenze di prevenzione generale: di qui il contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., ferma però la necessità dell’acquisizione di elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata [C. cost., 1.3.1995, n. 68, in cortecostituzionale.it]. La progressiva opera di sgretolamento dell’incidenza dell’elemento collaborativo fu denunciata ed ampliata da C. cost., 14.12.1995, n. 504, in cortecostituzionale.it, che riprese la ratio decidendi della prima pronuncia di incostituzionalità dell’art. 4-bis – n. 306/1993 –, che già aveva stigmatizzato l’irragionevolezza della revoca dei benefici penitenziari anche quando non fosse stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Su questa scia, tale criterio valutativo fu applicato al caso del detenuto ammesso al permesso premio e in forza dell’art. 4-bis non più legittimato al beneficio. Precisato che il permesso premio, seppure non sia dalla legge di ordinamento penitenziario annoverato tra le misure alternative alla detenzione, è strumento cruciale ai fini del trattamento, potendo rivelarsi funzionale all’affidamento in prova, la Corte rilevò che negarlo, dopo averlo concesso, anche quando non sia accertata la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata e sia invece accertata l’assenza di pericolosità sociale in conseguenza della regolare condotta in istituto, equivale, proprio per il profilo di progressività del trattamento che qualifica il beneficio, alla revoca delle misure alternative alla detenzione. Dichiarò, così, l’illegittimità dell’art. 4-bis nella parte in cui prevede(va) che la concessione di -

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ulteriori permessi premio fosse negata ai condannati che non si trovino nelle condizioni per l’applicazione dell’art. 58-ter ord. pen. sulla collaborazione con la giustizia, anche quando essi ne avessero già fruito in precedenza e non fosse accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Il principio di progressività, per il quale ogni misura si connota per essere parte di un più ampio percorso secondo un ordito unitario e finalisticamente orientato, comporta una relazione biunivoca in forza della quale qualsiasi regresso comporta un riadeguamento del percorso rieducativo e, di contro, l’acquisizione di positive esperienze conduce ad ulteriori passaggi nella scala degli istituti di risocializzazione. Su questa premessa C. cost., 30.12.1997, n. 445, in cortecostituzionale.it, prese in considerazione il caso dell’interruzione dell’evoluzione trattamentale, dai permessi premio al lavoro all’esterno e, quindi, alla semilibertà, non già per comportamento colpevole del condannato, che anzi si era reso meritevole di proseguire il cammino rieducativo, quanto per effetto delle innovazioni normative che avevano introdotto sbarramenti preclusivi in riferimento ai titoli di reato. Ritenne che fosse incoerente l’inapplicabilità di istituti fondamentali, quali la semilibertà, ai condannati che già si trovassero, al momento dell’entrata in vigore delle novelle normative di restrizione, in fase di espiazione avanzata e con positive esperienze già maturate, sì da aver quasi ultimato il percorso rieducativo, a tal punto difficilmente regredibile. E allora – concluse – se la collaborazione impossibile consente la rimozione degli impedimenti di legge e se è proprio la condotta collaborativa ad essere presa in considerazione come elemento sintomatico dell’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, agli stessi risultati deve giungersi nel caso in cui la stessa condotta penitenziaria consenta di accertare il raggiungimento di una tappa del percorso rieducativo adeguata al beneficio da conseguire. Inevitabile con queste argomentazioni fu la dichiarazione di illegittimità dell’art. 4-bis nella parte in cui non prevede(va) che il beneficio della semilibertà potesse essere concesso nei confronti dei condannati che, prima dell’entrata in vigore della normativa di restrizione, avessero raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto, sempre che non sia accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Lo stesso discorso fu infine ripreso e portato avanti da C. cost., 22.4.1999, n. 137, in cortecostituzionale.it, che ne fece applicazione per dichiarare l’illegittimità dell’art. 4-bis nella parte in cui non prevede(va) che il beneficio del permesso premio potesse essere concesso nei confronti dei condannati che, prima dell’entrata in vigore della normazione del 1992, avessero raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto e per i quali non fosse accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata.

2.1. I successivi interventi legislativi sul “doppio binario” penitenziario e lo stato attuale. – L’art. 4-bis non fu oggetto soltanto delle manipolazioni della Corte costituzionale in direzione di una continua ricerca di compatibilità con i principi dettati dalla Carta fondamentale, perché il legislatore ha mantenuto

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attenzione per questo nucleo di regole elevato a elemento centrale nelle strategie di contrasto del crimine più pericoloso per la sicurezza collettiva. Un primo intervento normativo si ebbe appena un anno dopo l’inserimento del dato della collaborazione con la giustizia nel difficile equilibrio tra divieti di accesso ai benefici e misure premiali. Il d.l. 14.7.1993, n. 187, conv. dalla legge 12.8.1993, n. 296, aggiunse il comma 2-bis, stabilendo che le decisioni della magistratura di sorveglianza dovessero essere precedute dall’acquisizione di dettagliate informazioni richieste al questore e assunte nel termine di trenta giorni dalla richiesta. Ancora dopo, nei primi anni duemila, ben tre novelle ebbero ad oggetto il catalogo dei reati presi in considerazione dall’art. 4-bis. Il d.l. 24.11.2000, n. 341, convertito dalla legge 19.1.2001, n. 4; la legge 19.3.2001, n. 92; e la legge 30.7.2002, n. 189, ampliarono l’elenco dei reati ostativi alla concessione dei benefici. Sempre nel 2002, la legge n. 279 del 23 dicembre non solo intervenne sul catalogo dei reati, ma recepì le innovazioni che la Corte costituzionale aveva apportato in materia di collaborazione impossibile. Quattro anni più tardi la legge 6.2.2006, n. 38, ha nuovamente modificato il catalogo dei reati ostativi, e ulteriori novelle si sono avute – sempre sullo stesso tema – con il d.l. 23.3.2009, n. 11, convertito dalla legge 23.4.2009, n. 38, che ha ritoccato la struttura dell’articolo, inserendo tra i reati ostativi della prima fascia alcune fattispecie originariamente collocate nella seconda fascia. Di lì a breve la legge 15.7.2009, n. 94, e la legge 23.7.2009, n. 99, hanno apportato ulteriori modifiche ai cataloghi di reati; ed ancora, la legge 1.10.2012, n. 172, che ha ratificato e dato esecuzione alla convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale (c.d. convenzione di Lanzarote), ha arricchito il novero dei reati con l’inserimento delle fattispecie criminose di tipo sessuale in danno di minori. La stratificazione di continue modifiche del testo rende l’articolato di non facile lettura, seppure i continui rimaneggiamenti non abbiano fatto mutare la struttura regolativa [CORVI, 40 ss.]. Innanzitutto, il riferimento è ai detenuti e agli internati per condanne che abbiano avuto ad oggetto uno dei reati specificamente indicati. La giurisprudenza individua come requisito necessario per l’operatività del divieto di concessione dei benefici che sia stata pronunciata la sentenza di condanna, se pure il soggetto sia ancora in stato di libertà: in tal senso si è espressa Cass., sez. I, 1.10.1993, Cannamela, in CED 1993/196213. In dottrina si è affermato – seppure con qualche voce dissenziente che evidenzia come la formula di legge indichi la necessità che sia iniziata l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza [CORVI, 41; IOVINO, 213] – che il riferimento alla condanna non implica che essa sia irrevocabile; si è allora detto che tra i destinatari della norma sono ricompresi anche gli imputati [TRONCONE, 237] con limitato riferimento all’unico beneficio a loro concedibile, ossia il lavoro all’esterno [CESARI, GIOSTRA, 69], sebbene ciò sia in concreto scarsamente ottenibile in ragione della gravità dei reati per i quali si procede.

Quindi, l’elencazione dei reati è articolata in due categorie per la diversifica-

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zione della disciplina di accesso ai benefici, sempre però con il comune presupposto dell’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata. Se si guarda all’intera disciplina dell’art. 4-bis, che comprende anche settori estranei alla criminalità organizzata, la suddivisione dei diversi trattamenti può essere articolata in quattro categorie [così FILIPPI, SPANGHER, 235] diversificate a seconda dei requisiti richiesti per superare i divieti di concessione dei benefici: una prima categoria costituita dai detenuti condannati e dagli internati per i delitti di cui al comma 1, a condizione che collaborino con la giustizia; una seconda categoria costituita, ancora, dai detenuti condannati e dagli internati per i delitti di cui al comma 1, ma con la condizione che siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva; gli stessi, inoltre, nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile rendano comunque impossibile un’utile collaborazione; e infine, sempre la stessa categoria, nei casi in cui, anche se la collaborazione risulti oggettivamente irrilevante, sia stata applicata la circostanza attenuante dell’avvenuto risarcimento del danno, anche qualora il risarcimento sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, oppure quella della minima partecipazione al fatto ovvero se il reato commesso è più grave di quello voluto; la terza categoria costituita dai detenuti condannati e dagli internati per i delitti di cui al comma 1-ter, a condizione che non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva; la quarta categoria costituita dai condannati detenuti e dagli internati per i delitti di violenza sessuale, salvo che risulti applicata la circostanza attenuata del caso di minore gravità, di violenza sessuale aggravata, di atti sessuali con minorenni e violenza sessuale di gruppo, e per i delitti sessuali in danno di minori (dalla prostituzione minorile, alla pornografia minorile, alla corruzione di minorenne e all’adescamento di minorenni), a condizione che siano positivi i risultati dell’osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno. Deve poi aggiungersi che la concessione dei benefici ai detenuti e agli internati per i delitti di prostituzione minorile, pornografia minorile, iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile, atti sessuali con minorenne, corruzione di minorenne, adescamento di minorenni, oltre che per i delitti di violenza sessuale e violenza sessuale di gruppo commessi in danno di persona minorenne, è condizionata alla positiva partecipazione al programma di riabilitazione specifica, consistente in un trattamento psicologico con finalità di recupero e di sostegno (art. 13-bis ord. pen.).

La prima fascia è oggi composta da reati particolarmente gravi, la cui commissione è indice dell’appartenenza ad un’organizzazione criminale (tra questi, i reati di associazione di tipo mafioso, i reati commessi avvalendosi delle condizioni o per agevolare le attività dell’associazione di tipo mafioso, i delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, e per eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza ed altri ancora). Per alcune ipotesi – il riferimento è tra gli altri ai reati di riduzione in schiavitù, tratta e commercio di schiavi e alle violazioni in materia doganale o ai fatti di traffico di sostanze stupefacenti – il legame con il crimine organizzato è dato dall’essere di norma quei fatti attuazione dei programmi illeciti che lo caratterizzano; per altre, e specificamente per quelle di reati di terrorismo, non si può dire che esista una relazione qualificata con il crimine organizzato, perché il fenomeno terroristico si connota per l’assenza di un potere pervasivo nel tessuto sociale [v. CESARI, GIOSTRA, 70]. Il maggior tasso di eterogeneità rispetto ai fatti di criminalità organizzata ha però indotto la giurisprudenza di legittimità a valorizzare,

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in senso restrittivo dell’ambito di operatività della norma, il dato letterale della disposizione. Si è così di recente affermato che «l’esclusione dei benefici penitenziari per i delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza opera soltanto nei casi in cui il condannato abbia posto concretamente in essere atti di violenza». In quel caso il ricorrente era stato condannato per il delitto di cui all’art. 270-bis c.p., ma non gli era stata contestata la commissione di atti di violenza [Cass., sez. I, 15.11.2011, Frediani, in CED 2011/251586]. Solo con la prima delle novelle del 2009 la fascia è stata incrementata mediante l’inserimento di fattispecie criminose, la cui commissione non è di per sé indicativa dell’appartenenza associativa: il riferimento è alle ipotesi delittuose di cui agli artt. 600-bis comma 1, 600-ter comma 1 e 2 e 609-octies c.p.

Per i condannati in relazione a taluno dei reati di questa fascia l’accesso ai benefici penitenziari è di regola precluso e può aversi soltanto alla condizione che l’interessato collabori con la giustizia; ove la collaborazione sia irrilevante o impossibile, la condizione è che siano riscontrati elementi tali da far escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. Come si è prima detto, collaborazione irrilevante e collaborazione impossibile non sono dunque impeditive dei benefici, e l’evoluzione legislativa si è sul punto uniformata alle statuizioni della Corte costituzionale. La seconda fascia di reati elenca fattispecie che sono certo di particolare gravità ma che non sono necessariamente rivelatrici dell’appartenenza ad organizzazioni criminali. In essa sono compresi reati come l’omicidio; la rapina e l’estorsione aggravata; il contrabbando di t.l.e.; la produzione e il traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, limitatamente alle ipotesi aggravate per essere le sostanze di ingente quantità o adulterate o commiste ad altre che ne potenzino la pericolosità; l’associazione per delinquere finalizzata alla commissione del delitto di contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni e del delitto di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi; l’associazione a delinquere finalizzata alla commissione di delitti contro la personalità individuale, nonché contro la libertà personale quali violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, violenza sessuale di gruppo; l’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di delitti concernenti l’immigrazione, previsti dall’art. 12 commi 3, 3-bis e 3-ter t.u. n. 286/1998 e successive modifiche. I condannati per taluno di detti reati sono ammessi ai benefici penitenziari a meno che non sia provata la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata e senza che sia loro richiesta alcuna forma di collaborazione con la giustizia; l’unica condizione è, appunto, che non risultino legami con la criminalità organizzata. Il meccanismo di accesso ai benefici penitenziari è quindi invertito rispetto a quello che regola i casi di condanna per i reati della prima fascia. In questi casi di minore gravità l’ammissione ai benefici è la regola, che subi-

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sce l’eccezione costituita dalla prova positiva di collegamenti criminali. In assenza di prova, o in presenza di una prova insufficiente o contraddittoria, l’accesso non può essere negato. Non così, invece, per i casi di condanna per uno dei reati della prima fascia nei quali la regola è che l’accesso ai benefici resti precluso, perché la condanna fa presumere l’esistenza di collegamenti con la criminalità organizzata. La presunzione di legge è però superabile all’unica condizione che positivamente risulti, attraverso l’atteggiamento collaborativo, l’assenza di quella condizione di pericolosità presunta. La previsione della collaborazione, con l’ulteriore temperamento delle nozioni di collaborazione impossibile e irrilevante, costituisce comunque, pur nella diversa modulazione della disciplina, uno strumento essenziale di raccordo dei caratteri di premialità e di tutela di interessi di sicurezza pubblica con lo statuto costituzionale del trattamento penale. In tal senso è stata dichiarata la manifesta infondatezza, in relazione al principio del rispetto della persona discendente dall’art. 32 Cost., della questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, nella parte in cui preclude la fruizione delle misure alternative alla detenzione ai condannati per alcuni gravi reati, dovendosi escludere che l’interdizione per essi dell’accesso a detti benefici penitenziari comporti un’ingiustificata compressione del rispetto della persona, tenuto conto che, con la condizione della collaborazione, si è mantenuta aperta la possibilità, per tutti i detenuti, di avvalersi di uno degli istituti volti al perseguimento della rieducazione sociale del condannato [Cass., sez. I, 26.5.2000, Villani, in CED 2000/216335].

3. I benefici penitenziari sottratti ai limiti e quelli comunque preclusi. La normativa di restrizione dell’art. 4-bis non riguarda ogni possibile beneficio penitenziario. Resta fuori da quella disciplina, come prima si è avuto modo di accennare, la misura della liberazione anticipata, la quale determina in favore del condannato che abbia dato prova di partecipazione all’opera rieducativa una riduzione di pena, condizionata pertanto alla ricorrenza dei presupposti dettati dall’art. 54 ord. pen. [tra i più cfr. (b) DELLA CASA, 828]. Si è però precisato che neanche la liberazione anticipata, pur esclusa dalle limitazioni alla concessione di benefici penitenziari previste nell’art. 4-bis, si sottrae al divieto di concessione, stabilito dall’ultimo comma del citato articolo, nel caso di ritenuto collegamento dell’interessato con la criminalità organizzata [Cass., sez. I, 6.3.2008, Scardino, in CED 2008/239378]. Deve infine essere evidenziato che il d.l. 23.12.2013, n. 146, recante “Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria”, ha introdotto uno strumento a fini di deflazione carceraria costituito dalla c.d. liberazione anticipata speciale (art. 4), inizialmente concedibile anche ai condannati per uno dei reati di cui all’art. 4-bis, che consiste in uno sconto di pena di settantacinque giorni per semestre, con ovvio assorbimento in esso dello sconto di quarantacinque giorni, previsto dalla liberazione anticipata per così dire ordinaria. In particolare, con norma temporanea e retroattiva – operativa dal gennaio 2010, da quando cioè si è strutturato il grave fenomeno del sovraffollamento carcerario, e sino al dicembre 2015 – si stabilisce che l’applicazione dell’aumento – an-

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che per i semestri già trascorsi e che sono stati interessati già dalla concessione del beneficio – è subordinato al riscontro da parte del magistrato di sorveglianza che il condannato abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione nel corso dell’esecuzione ed anche successivamente al periodo di riferimento. La previsione, diretta ad escludere ogni automatismo nell’attribuzione dell’incremento dello sconto, si risolve in una deroga al principio della autonomia di valutazione per i singoli semestri, perché il magistrato deve apprezzare anche il comportamento successivo al semestre per il quale lo sconto è computato. Ai condannati per taluno dei reati di cui all’art. 4-bis l’incremento dello sconto di pena era concedibile, prima delle modifiche operate dalla legge di conversione – l. 21.2.2014, n. 10 – ad una più rigorosa condizione, e cioè che risultasse la prova di un concreto recupero sociale, desumibile da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della personalità. La formula appena richiamata riprendeva la disposizione di cui all’art. 47 comma 12-bis ord. pen., che pone le condizioni di concedibilità del beneficio della liberazione anticipata all’affidato in prova al servizio sociale. Come si è affermato in giurisprudenza [Cass., sez. I, 2.2.2005, Fiorentino, in CED 2005/230927], il riferimento alla prova di un concreto recupero sociale si sostanzia in un quid pluris rispetto alla prova della partecipazione all’opera rieducativa, il che comporta la necessità di una valutazione globale del comportamento tenuto dal condannato, non essendo ontologicamente configurabile un “concreto recupero” a semestri. La deroga alla autonomia di valutazione per singolo semestre era dunque, per i condannati di cui all’art. 4-bis, di maggiore portata, ma ciò nonostante, la scelta del legislatore in sede di conversione è stata di esclusione radicale del maggior beneficio di liberazione anticipata per questa categoria di condannati. Scelta, questa, che fa dubitare della legittimità costituzionale dell'intervento normativo, non potendosi giustificare, sul piano della parità di trattamento, una restrizione di accesso ad una misura comunque di favore, ordinariamente concessa nella minor misura di sconto di pena anche ai condannati di cui all'art. 4-bis.

Inoltre, per l’assenza di richiamo all’interno dell’appena menzionato articolo, i condannati per reati di criminalità organizzata non patiscono limitazioni per il differimento obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena – artt. 146 e 147 c.p. – e per i permessi di necessità di cui all’art. 30 ord. pen., concedibili in caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente o per eventi familiari di particolare gravità. Si è detto così che l’accesso alle misure alternative alla detenzione resta vietato ai condannati per i reati di cui alla prima parte dell’art. 4-bis anche dopo la modifica legislativa degli artt. 47-ter e 4-bis ord.pen., in quanto il legislatore ha voluto ribadire la volontà di vietare l’accesso alle misure alternative, ad eccezione di quelle della sospensione obbligatoria o facoltativa della pena giustificate dalle condizioni di salute, ai condannati per reati gravi [Cass., sez. I, 11.3. 2003, Marenda, in CED 2003/224939].

Del pari, non sussistono restrizioni per l’affidamento in prova nei confronti dei tossicodipendenti e degli alcoldipendenti – art. 94 d.p.r. n. 309/1990 –, per l’espressa previsione di concedibilità alla condizione che la pena detentiva da espiare, anche residua e congiunta a quella pecuniaria, non sia superiore a quattro anni, limite comunque più rigoroso di quello di sei anni previsto per tutti gli altri condannati. E, ancora, nessun particolare limite è posto per la misura della sospensione dell’esecuzione della pena detentiva nei confronti dei tossicodipendenti, di cui all’art. 90 d.p.r. n. 309/1990, applicabile per cinque anni qualora sia accertato che la persona si è sottoposta con esito positivo ad un programma terapeutico e

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socio-riabilitativo, sempre che debba essere espiata una pena detentiva, anche residua e congiunta a quella pecuniaria, non superiore a quattro anni. Se, poi, il condannato per taluno dei reati di cui all’art. 4-bis sia affetto da Aids conclamata, valgono comunque le ordinarie condizioni per la concessione delle misure dell’affidamento in prova al servizio sociale e della detenzione domiciliare. Di contro, nonostante la collaborazione con la giustizia, alcuni benefici restano comunque preclusi. Il riferimento è alla detenzione domiciliare. L’art. 47-ter comma 1 ord. pen. prevede la misura in favore delle persone che, al momento dell’inizio o nel corso dell’esecuzione della pena, abbiano compiuto settanta anni di età, sempre che non siano state dichiarate delinquenti abituali, professionali o per tendenza, qualunque sia il reato per il quale è intervenuta condanna, fatta eccezione, tra gli altri, dei reati di cui all’art. 4-bis. In ragione del fatto che il rinvio a tale ultimo articolo è operato esclusivamente in riferimento al catalogo dei reati ostativi, e non anche al contenuto dello stesso, è orientamento consolidato che la misura della detenzione domiciliare non possa in nessun caso essere concessa. Il condannato per uno dei delitti “ostativi” (nella specie omicidio), indicati nell’art. 4-bis della legge 26.7.1975, n. 354 (c.d. ordinamento penitenziario), non può fruire della detenzione domiciliare, neanche se ultrasettantenne, in quanto il catalogo dei divieti richiamato dal comma 1 dell’art. 47-ter della medesima legge opera nella sua mera formalità di elencazione ed esclude quindi la possibilità di ritenere operanti le relative deroghe [Cass., sez. I, 6.5.2010, Lombardo, in CED 2010/247214].

Una medesima conclusione deve trarsi in riguardo alla detenzione domiciliare – art. 47 comma 1-bis ord. pen. – concedibile di regola nei casi in cui la pena da espiare, anche se costituente pena residua di maggior pena, non superi i due anni, purché non ricorrano i presupposti per l’affidamento in prova e la detenzione domiciliare sia idonea ad evitare la commissione di altri reati. È previsto espressamente che essa non possa essere applicata in favore dei condannati per i reati di cui all’art. 4-bis, ed anche in tal caso il rinvio è al catalogo dei reati e non al contenuto dell’articolo. Non può allora rilevare che il condannato abbia prestato collaborazione con la giustizia, o che essa sia impossibile o irrilevante. In giurisprudenza si afferma infatti che è causa ostativa all’applicazione della detenzione domiciliare la condanna irrevocabile per uno dei delitti indicati nell’art. 4-bis, a nulla rilevando, a tal fine, la inesigibilità della collaborazione con la giustizia, posto che il rinvio operato dalla disposizione sulla detenzione domiciliare è al catalogo di reati di cui all’indicato articolo e non al suo contenuto [Cass., sez. I, 27.4.2011, Barbato, in CED 2011/250277].

Diversa, invece, è l’ipotesi di detenzione domiciliare prevista per particolari situazioni personali del condannato, quali ad esempio l’essere donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente; o padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti impossibilitata a dare assistenza alla prole.

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Il trattamento penitenziario della criminalità organizzata

Ove la pena detentiva da espiare non sia superiore a quattro anni, anche come pena residua, si può fare ricorso a questa misura e, in mancanza di un espresso divieto, vale il disposto di cui all’art. 4-bis, sicché, in assenza di collegamenti con la criminalità organizzata e in presenza di collaborazione con la giustizia, il condannato per taluno di quei reati, ove versi nelle condizioni previste dalla legge, può essere ammesso al beneficio. In giurisprudenza si è affermato che anche per la misura alternativa della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies ord. pen. opera il divieto di concessione previsto dalla disposizione dell’art. 4-bis comma 1 della stessa legge per i condannati per reati da essa contemplati [Cass., sez. I, 13.2.2004, Amalfi, in CED 2004/228131].

Del pari concedibile è la misura della detenzione domiciliare, pur se la pena da espiare superi i quattro anni, quando potrebbe essere disposto il rinvio della pena obbligatorio o facoltativo. In assenza di un collegamento con la previsione dell’art. 4-bis, questa misura dovrebbe essere preclusa ai condannati per taluno dei reati ivi menzionati in assenza delle condizioni lì previste, e però si ritiene che il divieto non operi, dal momento che in tali ipotesi la concessione della misura realizza il contemperamento tra esigenze di difesa sociale e il rispetto del principio di umanità [CORVI, 78]. Da ultimo, un problema interpretativo ha interessato il raccordo tra la disposizione dell’art. 4-bis e quella sui permessi premio – art. 30-bis ord. pen. –, specificamente nella parte in cui quest’ultima, dopo la novella del 2009, prevede che i condannati per taluno dei delitti indicati nei commi 1 (oltre che 1-ter e 1quater) dell’art. 4-bis possano beneficiare dei permessi premio dopo l’espiazione di almeno metà della pena e, comunque, di non oltre dieci anni. La giurisprudenza di legittimità [Cass., sez. I, 19.9.2012, Musumeci, in CED 2012/252983] ha sul punto ribadito che la norma dell’art. 4-bis comma 1 pone un limite assoluto alla fruizione dei benefici carcerari (tra cui i permessi premio) nei confronti dei condannati per reati c.d. di prima fascia, salvo il caso di collaborazione e di accertamento dell’inesistenza di collegamenti con la criminalità organizzata; e ha conseguentemente chiarito che solo in questo specifico e ristretto spazio di apertura opera l’art. 30-ter comma 4 lett. c), ove il condannato, per l’attività di collaborazione svolta e come tale riconosciuta ovvero per l’accertata impossibilità di fornire un’utile collaborazione con la giustizia, possa ritenersi affrancato dal divieto assoluto di fruizione. 4. I caratteri della collaborazione. Sul versante della giurisprudenza di legittimità, le decisioni manipolative della Corte costituzionale non hanno dovuto attendere le modifiche legislative per veder attuati i principi espressi. Si deve a Cass., S.U., 30.06.1999, Ronga, in Cass. pen., 2000, 570, l’affermazione per la quale «i benefici penitenziari possono

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essere concessi, anche con riferimento ai delitti ostativi previsti dall’art. 4-bis, qualora il condannato non abbia prestato collaborazione per l’impossibilità determinata dal non aver egli potuto acquisire, per il ruolo marginale svolto, conoscenze utili riversabili nell’investigazione ovvero dall’avvenuto totale accertamento dei fatti (ipotesi delle c.d. collaborazioni “irrilevanti”, “inesigibili” o “impossibili”)». E questo autorevole intervento delle Sezioni Unite ha avuto altresì cura di precisare quali siano i confini, eventualmente delineabili per i casi di collaborazione impossibile o irrilevante, dell’apporto collaborativo in caso di condanne le cui pene siano cumulate e solo alcune riferibili a reati ostativi. Si consideri che, secondo un più rigoroso orientamento, la collaborazione non poteva che riguardare esclusivamente il reato ostativo e non assumeva alcun rilievo in ordine agli altri reati facenti parte del cumulo, con l’evidente conseguenza di limitare le possibilità di superamento delle preclusioni di legge ai benefici. Le Sezioni Unite hanno però scartato questa lettura penalizzante e hanno affermato che «l’utile collaborazione non può intendersi limitata ai delitti ostativi a tale concessione, ma è estesa agli altri reati cumulati per i quali il soggetto risulti in esecuzione di pena». Occorre, comunque, che l’interessato si faccia carico di prospettare alla magistratura di sorveglianza l’impossibilità di un’utile collaborazione, non potendo gravare sull’organo giudiziario il compito di un accertamento officioso. In questi termini si esprime la giurisprudenza di legittimità, seppure con qualche episodica e minoritaria voce contraria. Valga per tutte il riferimento a Cass., sez. I, 12.02.2008, Sanfilippo, in CED 2008/240177, secondo cui «al fine del superamento delle condizioni ostative alla fruizione di determinati benefici penitenziari (nel caso di specie, la liberazione condizionale) stabilite dal combinato disposto degli artt. 4-bis e 58-ter della legge 26 luglio 1975 n. 354 e 2 della legge 12 luglio 1991 n. 203, è necessario che nell’istanza il condannato prospetti, almeno nelle linee generali, elementi specifici circa l’impossibilità o l’irrilevanza della sua collaborazione, così da consentire l’esame del merito dell’istanza stessa». In dottrina, sulla scia di qualche datata decisione di legittimità, si è detto che non si ricade in un onere della prova ma in un più limitato onere di allegazione, desumibile in via generale dall’art. 666 comma 5 c.p.p., che è applicabile al procedimento di sorveglianza ex art. 678 c.p.p. [FIORENTIN, 2570]. Si è poi precisato, vista la stratificazione di interventi normativi che hanno progressivamente ampliato il catalogo dei reati ostativi alla concessione dei benefici penitenziari, che essi sono fruibili anche dai soggetti nei confronti dei quali la condanna per reato ostativo sia stata pronunciata dopo l’entrata in vigore della legge che ne ha limitato la concessione, ove sia impossibile oggettivamente la collaborazione con l’Autorità giudiziaria (fattispecie riferita a reati sessuali, in cui il giudicato si era formato dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 11/2009) [Cass., sez. I, 14.10.2011, Apolloni, in CED 2011/251365]. Si è pure detto che la mancanza di collaborazione, per impossibilità, non impedisce la fruizione dei benefici anche da parte del soggetto nei confronti del quale la condanna per il reato ostativo sia stata pronunciata dopo l’entrata in vigore della norma di restrizione, ma occorre, perché possa utilmente provarsi l’impossibilità di collaborazione, che risultino in positivo elementi che facciano escludere l’attualità del suo collegamento con la criminalità organizzata [Cass., sez. I, 10.12.2009, Serio, in CED 2009/246127].

In cosa poi debba consistere la collaborazione è stabilito dall’art. 58-ter della legge di ordinamento penitenziario, ove si statuisce che si ha collaborazione quando ci si adoperi «per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conse-

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guenze ulteriori» o si dia concreto aiuto all’autorità di polizia o all’autorità giudiziaria «nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione del fatto e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati». La giurisprudenza ha ulteriormente specificato che la collaborazione con la giustizia, che sola giustifica la deroga al divieto di concessione di tali misure ai soggetti condannati per determinati reati, non può essere generica né limitata all’ammissione delle proprie responsabilità, ma deve essere specificamente riferita a fatti e reati oggetto della condanna in relazione alla quale si chiede il beneficio [Cass., sez. I, 18.10.2007, Miraglia, in CED 2007/238689].

In tale contesto, sufficientemente specificato dal legislatore, non possono essere collocate collaborazioni informali, quali ad esempio quelle meramente confidenziali. È stato opportunamente precisato da Cass., sez. I, 30.11.2010, D’Agata, in CED 2010/ 249174, che «il permesso premio non può essere concesso al soggetto condannato per reati ostativi […], il quale abbia collaborato con l’autorità di polizia in via confidenziale senza prestare alcuna collaborazione all’autorità giudiziaria in ambito processuale». E ciò perché questa forma di collaborazione, destinata com’è a restare segreta, non può formare materia per un accertamento in contraddittorio tra le parti per la rilevazione dei presupposti per l’accesso ai benefici penitenziari.

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La collaborazione deve essere efficace, come si desume dal riferimento alla concretezza dell’aiuto alle investigazioni e alla capacità impeditiva di ulteriore conseguenze delittuose, e deve essere calibrata sui delitti in relazione alle cui condanne è chiesto il beneficio. La collaborazione che giova a superare gli impedimenti di legge non può essere generica ma deve specificamente riferirsi ai reati in relazione ai quali si chiede la concessione dei benefici [Cass., sez. I, 23.9.1996, Grassi, in CED 1996/205749, e Cass., sez. I, 18.10.2007, Miraglia, in CED 2007/238689]. Ulteriore importante specificazione giurisprudenziale, secondo un orientamento consolidato, è che la condizione di collaboratore non si acquisisce in via generale, come fosse uno status soggettivo, e quindi potenzialmente oggetto di una mera e autonoma sentenza dichiarativa, perché è necessario che essa sia sottoposta a puntuale accertamento all’interno del procedimento attivato dalla richiesta di uno di detti benefici, con lo specifico scopo di stabilire se ricorra la particolare situazione derogatoria ex art. 58-ter citato, che consente al giudice di superare il divieto dettato, in linea generale, dall’art. 4-bis della stessa legge [così, Cass., sez. I, 13.2.1997, Guidali, in CED 1997/207183; Cass., sez. I, 31.1.2006, Mazzaferro, in CED 2006/234072]. Si è pure detto che «la collaborazione con la giustizia, quale condizione che consente l’applicabilità delle misure alternative alla detenzione in favore di condannati per specifici reati […] costituisce un semplice dato storico, estraneo perciò al procedimento di sorveglianza, per cui al fine di decidere sulla istanza diretta ad ottenere i benefici, il tribunale non deve saggiare la disponibilità del condannato a collaborare né deve acquisire comportamenti di collaborazione, dovendosi limitare ad accertare se il condannato ha collaborato o meno con la giustizia e, quindi, a constatare se sussista o meno il requisito che condiziona l’applicabilità del beneficio» [Cass., sez. I, 20.9.1993, Ruga, in CED 1993/195289].

È poi espressamente previsto che la collaborazione possa utilmente intervenire dopo la condanna. In forza di questa previsione, e per l’irragionevolezza di una opposta soluzione, si è precisato che può assumere rilevanza anche la collaborazione prestata prima della condanna.

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Cass., sez. I, 18.11.1994, Pelini, in CED 1994/200036, ha appunto precisato che «ai fini dell’operatività dell’art. 58-ter deve ritenersi valutabile anche la collaborazione prestata prima della condanna, come chiaramente si desume dall’espressione “anche dopo la condanna”, contenuta nel testo dell’anzidetta disposizione normativa; e ciò in considerazione anche della evidente irrazionalità cui darebbe luogo una diversa ed opposta interpretazione». La previsione espressa del momento successivo alla condanna non si risolve, inoltre, nell’imporre atteggiamenti confessori. Sul punto è intervenuto il chiarimento di Cass., sez. I, 11.1.1996, Lepanto, in CED 1996/203666, secondo cui «l’art. 58-ter, nella parte in cui attribuisce rilievo, ai fini della concedibilità di benefici penitenziari a soggetti che, altrimenti, ne sarebbero esclusi, alla attività di collaborazione con la giustizia effettuata “anche dopo la condanna”, non richiede che, da parte del “collaboratore”, vi sia anche stata ammissione di responsabilità».

La condizione casisticamente più frequente, perché maturi la collaborazione valevole per il superamento della preclusione ai benefici, è la compartecipazione in fatti associativi o quanto meno di tipo concorsuale. Nel silenzio di legge, però, sarebbe il risultato di un’inaccettabile interpretazione restrittiva farne il terreno esclusivo dell’insorgenza della collaborazione, con estromissione dai benefici sempre e comunque dei condannati per uno dei reati indicati ma commesso monosoggettivamente. E, infatti, si è precisato [Cass., sez. I, 29.5.2008, Chiatti, in CED 2008/240468] che «la concessione dei benefici penitenziari in favore di coloro che, condannati per uno dei reati ostativi ad essa, abbiano aiutato concretamente l’autorità giudiziaria o l’autorità di polizia nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per la cattura degli autori dei reati è consentita anche in relazione a reati monosoggettivi, in cui non vi siano altri correi da individuare, ma in tal caso il contributo deve essere più pregnante e non può consistere nella sola confessione, specie se il responsabile sia stato già individuato, ovvero nella ricostruzione di particolari secondari per l’accertamento della verità». Questo approdo non smentisce il consolidato orientamento per il quale non è sufficiente, ai fini che qui interessano, la mera confessione, e che, di contro, occorre un comportamento attivo che dia un concreto e significativo contributo, determinante per la ricostruzione dei fatti e per la cattura dei correi [Cass., sez. I, 13.12.2005, Cirillo, in CED 2005/236230]. D’altronde, già da tempo è stato precisato, su altro versante ma con definizioni concettuali anche qui utili, che «la diminuente speciale prevista in tema di sequestro di persona a scopo di estorsione dall’art. 630 comma 5 c.p. per il concorrente che, dissociandosi dagli altri, aiuti concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per la individuazione o la cattura dei correi, postula la prestazione di una collaborazione oggettivamente qualificata dal conseguimento delle specifiche prove suindicate. Deve, cioè, trattarsi non già di una qualsiasi forma di contributo che sia utile al raggiungimento della verità, bensì di un aiuto determinante e decisivo all’orientamento delle indagini verso i veri colpevoli, con la conseguenza che ne restano esclusi quei contributi successivi che in un quadro di già avvenuta individuazione dei concorrenti nel reato possono contribuire attraverso l’apporto di ulteriori elementi di prova all’accertamento delle singole responsabilità» [Cass., sez. VI, 2.7.1992, Castiglia ed altro, in CED 1992/192111]. Nei reati monosoggettivi la collaborazione deve però avere connotati di maggiore intensità, nel senso che il contributo offerto deve essere più pregnante, non potendo risolversi, appunto, nella sola confessione in relazione a fatti di cui il responsabile era già stato individuato ovvero nella ricostruzione di particolari secondari.

Un profilo problematico emerso soprattutto in giurisprudenza ha riguardato i casi di esecuzione per cumulo di pene concorrenti, alcune soltanto riferibili a condanne per reati ostativi, essendo dubbio se potesse scindersi il cumulo, specie nei casi di cumulo per continuazione criminosa, in modo da consentire l’ac-

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cesso ai benefici per la parte di pena espianda riferibile alle condanne per reati non ostativi, e sempre che quella imputabile al reato ostativo sia stata espiata. Per molto tempo si era ritenuto che il cumulo non potesse essere scisso, dal momento che esso dava vita ad un unitario rapporto esecutivo che faceva perdere alle singole pene ogni autonoma rilevanza, impedendo di poter diversificare il giudizio di maggiore pericolosità, sotteso alla scelta legislativa di rigore, valutando singole frazioni della pena cumulata. Una tale interpretazione, che innovava, proprio in forza del requisito della pericolosità sociale e della sua refrattarietà ad apprezzamenti frazionati, un pregresso costante orientamento favorevole alla scissione del cumulo ai fini della concessione di benefici come l’amnistia o l’indulto, non fu riconosciuto come diritto vivente dalla Corte costituzionale chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’art. 4-bis nella parte in cui, appunto, secondo il giudice remittente, impediva per i detenuti condannati anche per gravi reati, non collaboratori di giustizia, la concessione di misure alternative (fatta eccezione per la liberazione anticipata), pur avendo già espiato per intero la pena relativa ed essendo invece in espiazione contestuale di pena per reati di minore gravità, non menzionati dalla medesima disposizione [C. cost., 27.7. 1994, n. 361, in cortecostituzionale.it]. Conseguentemente la Corte dichiarò l’infondatezza della questione, non senza osservare che non rispondeva all’assetto normativo l’asserzione che l’art. 4-bis avesse formalizzato l’esistenza dello status di detenuto pericoloso, capace di permeare l’intero rapporto esecutivo a prescindere dallo specifico titolo di condanna. Aggiunse, poi, che l’opinione interpretativa, che collegava la permanenza della pericolosità soggettiva al dato contingente di un rapporto esecutivo in atto, determinava un’irragionevole discriminazione. Ciò nonostante, i contrasti giurisprudenziali non si dissiparono e fu necessario l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione per stabilire che «nel corso dell’esecuzione il cumulo giuridico delle pene irrogate per il reato continuato è scindibile, ai fini della fruizione dei benefici penitenziari, in ordine ai reati che di questi non impediscono la concessione e sempre che il condannato abbia espiato la pena relativa ai delitti ostativi» [Cass., S.U., 30.6. 1999, Ronga, cit., 570]. Si confermò, ancora una volta, la tesi c.d. pluralistica del reato continuato, sul presupposto che l’unificazione legislativa dei reati deve affermarsi in riferimento ad una espressa disposizione in tal senso o quando la soluzione unitaria esprime maggiori garanzie per il reo, non dovendosi trascurare che il trattamento di maggior favore compone la ratio dell’istituto. -

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Sulla falsariga del principio di diritto fissato dalle Sezioni Unite si è poi mossa la successiva giurisprudenza, apportando qualche utile precisazione su aspetti non interamente regolati dalla statuizione dell’autorevole consesso. In tema di concessione di permessi premio, ai fini del presupposto del periodo di pena da espiare per la fruizione del beneficio si è stabilito che «in caso di cumulo di pene inflitte per reati diversi, taluno dei quali ostativo alla concessione del beneficio, una volta scisso il cumulo per considerare espiata la parte di pena conseguente alla condanna per il delitto ostativo, il dies a quo del termine minimo di dieci anni di pena espiata decorre dal momento di scadenza di quest’ultima e non dall’inizio della detenzione, essendo illogico rendere inoperante il cumulo giuridico delle pene al fine di ritenere espiata la parte di pena imputabile al delitto ostativo e, a un tempo, farlo rivivere al fine di far decorrere fin dall’ini-

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zio il citato termine massimo di pena espiata» [Cass., sez. I, 7.10.2003, Rizzo, in CED 2003/ 226064]. Quanto poi ai casi di cumulo con pena perpetua, si è detto che «in tema di benefici penitenziari, richiesti dal condannato in espiazione dell’ergastolo e di pena detentiva temporanea inflitta per reato ostativo, allorché si debba procedere allo scioglimento del cumulo per la verifica della già intervenuta espiazione di quest’ultima, tradottasi, per la concorrenza con la pena perpetua, in applicazione dell’isolamento diurno che sia stato interamente eseguito, si deve avere riferimento alla pena temporanea originariamente inflitta, ridotta della metà» [Cass., sez. I, 2.3.2010, Cuccuru, in CED 2010/247068]. È stato a tal proposito precisato, dalla decisione da ultimo citata, che tra le due possibili soluzioni – quella della imputazione al reato ostativo della sola espiazione dell’isolamento diurno e la contrapposta, dell’aggiunta dell’intera durata della pena inflitta per il reato ostativo prima della commutazione in isolamento diurno – il sistema consente una terza via di maggiore ragionevolezza, utilizzabile per la riconversione, a seguito di scioglimento del cumulo, dell’isolamento diurno in pena detentiva ordinaria, ed enucleabile dal parametro di calcolo che il legislatore ha posto a base della sola ipotesi di scioglimento del cumulo ex art. 72 c.p. espressamente considerata: quella dell’art. 184 c.p., secondo cui, quando la pena dell’ergastolo è per qualsiasi causa estinta, la pena detentiva temporanea inflitta per il reato concorrente è eseguita per intero, salvo che il condannato abbia già subito l’isolamento diurno applicato a norma del comma 2 dell’art. 72 c.p., in tal caso la pena per il reato concorrente dovendo considerarsi ridotta alla metà. Più di recente si è ancora affermato che in tema di benefici penitenziari richiesti dal condannato in espiazione dell’ergastolo e di pena detentiva temporanea inflitta per reato ostativo, allorché si debba procedere allo scioglimento del cumulo per la verifica della già intervenuta espiazione di quest’ultima – tradottasi, per la concorrenza con la pena perpetua, in applicazione dell’isolamento diurno che sia stato interamente eseguito – si debba avere riferimento alla pena temporanea originariamente inflitta, ridotta della metà [Cass., sez. I, 19.9.2012, Mele, in CED 2012/253453]. In linea poi con la giurisprudenza più recente delle Sezioni Unite in punto di individuazione della pena imputabile al reato-satellite una volta che sia stato scisso, nei suoi componenti, il reato continuato, si è detto che «in presenza di una condanna per più reati in continuazione nell’ambito dei quali vi sia un reato ostativo alla concessione dei benefici penitenziari, il condannato ha diritto alla scissione del vincolo e a far considerare imputata la pena presofferta al reato ostativo, tenendo conto di quella che è la sanzione in concreto inflitta, anche se si tratta di un mero aumento in continuazione» [Cass., sez. I, 11.6.2013, Et Toumi, in CED 2013/256220]. Da ultimo, si è pure affermato, sempre in applicazione del principio di scindibilità del cumulo delle pene, che «ai fini della fruizione di benefici penitenziari, deve ritenersi che possa farsi luogo alla sospensione dell’ordine di esecuzione, ai sensi dell’art. 656, comma quinto, cod. proc. pen., qualora – pur comprendendo il medesimo anche una pena inflitta per delitto facente parte di quelli indicati nell’art. 4-bis – detta pena possa considerarsi già espiata in virtù dell’imputazione della custodia cautelare sofferta per altro reato commesso successivamente» [Cass., sez. I, 16.4.2013, El Janati, in CED 2013/256139]. -

5. I collaboratori di giustizia. L’attenzione legislativa al fenomeno collaborativo in sede esecutiva o, meglio: l’incentivazione della collaborazione nella fase dell’esecuzione, è accresciuta dalla previsione di misure premiali per i c.d. collaboratori di giustizia. L’art. 16nonies del d.l. 15.1.1991, n. 8 – recante “Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia” –, convertito con modificazioni dalla legge 15.3.1991, n. 82, e introdotto dall’art. 14 della legge 13.2.2001, n. 45, – di modifica della disciplina della

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protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia nonché disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza – e poi ulteriormente interpolato dall’art. 11 della legge 11.8.2003, n. 228 – “Misure contro la tratta di persone” – prescrive che la liberazione condizionale, la concessione dei permessi premio e l’ammissione alla misura della detenzione domiciliare sono disposte, in favore dei collaboratori di giustizia, su proposta ovvero previo parere dei procuratori generali presso le Corti di appello e del procuratore nazionale antimafia, avuto riguardo all’importanza della collaborazione e sempre che sussista il ravvedimento e non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva. Ma già con l’art. 13-ter del d.l. 15.1.1991, n. 8 – “Nuove misure in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia” –, convertito, con modificazioni, nella legge 15.3.1991, n. 82, aggiunto dal d.l. 8.6.1992, n. 306 – “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa” –, convertito, con modificazioni, dalla legge 7.8.1992, n. 356, era previsto che per le persone ammesse al programma di protezione l’assegnazione al lavoro all’esterno, la concessione dei permessi premio e l’ammissione alle misure alternative alla detenzione fossero disposte, sentita l’autorità che aveva deliberato il programma, anche in deroga alle vigenti disposizioni, ivi comprese quelle relative ai limiti di pena per l’ammissione al lavoro all’esterno, per la concessione dei permessi premi, per l’ammissione all’affidamento in prova al servizio sociale, e per l’ammissione alla semilibertà. Si era comunque affermato che il regime speciale di favore non involgeva anche la liberazione condizionale, per la natura tassativa della previsione di cui all’art. 13-ter, il quale escludeva tutte le limitazioni, ivi comprese quelle relative all’entità della pena, per l’ammissione al lavoro all’esterno, ai permessi premio ed alle misure dell’affidamento in prova al servizio sociale e della semilibertà ma non già per fruire della liberazione condizionale, per la quale restavano applicabili le condizioni dell’art. 176 c.p. oltre alle limitazioni previste dall’art. 2 d.l. 13.5.1991, n. 152, convertito nella legge 12.7.1991, n. 203 [Cass., sez. I, 10.6. 1993, Fiorentino, in CED 1993/195665]. La deroga ai limiti di legge presupponeva l’attualità del programma di protezione, e quindi si enfatizzava, sia pure indirettamente, il ruolo dell’autorità amministrativa nella gestione dei benefici penitenziari. -

La Corte di cassazione affermava coerentemente che la speciale normativa dettata per i collaboratori di giustizia in materia di concessione di benefici penitenziari dall’art. 13-ter non potesse trovare applicazione quando l’interessato non risultasse ancora titolare di un programma speciale di protezione [Cass., sez. I, 14.4.1994, Parrinello, in CED 1994/197664].

E, ancora una volta in modo coerente, la concessione dei benefici al di là delle previsioni non era consentita ove il programma fosse stato prima concesso e poi revocato. La giurisprudenza di legittimità chiariva che «la concessione dei benefici penitenziari, in deroga ai divieti e alle limitazioni di cui all’art. 4-bis, in favore dei collaboratori di giustizia ammes-

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si allo speciale programma di protezione, presuppone l’attualità del suddetto programma». Essa, quindi, non può più aver luogo quando il programma, pur ancora operativo all’atto della richiesta del beneficio, sia stato, per qualsiasi ragione, revocato prima che sulla medesima richiesta sia intervenuta la decisione del tribunale di sorveglianza competente [Cass., sez. I, 23.11.2000, Prudenzano, in CED 2000/227510].

L’incidenza delle determinazioni dell’autorità amministrativa, preposta ai programmi di protezione, era dunque elevata, se pure si negassero altri possibili automatismi di favore. Si era, infatti, affermato in giurisprudenza che la speciale disciplina derogatoria e premiale, prevista in materia di misure alternative alla detenzione dall’art. 13-ter d.l. 15.1.1991, n. 8, convertito in legge 15.3.1991, n. 82, per i collaboratori di giustizia, non comportasse l’automatico obbligo per il pubblico ministero di sospendere l’esecuzione della pena detentiva, a prescindere dai limiti e dai divieti fissati dall’art. 656 commi 5 e 9 c.p.p., per l’esercizio della relativa potestà sospensiva [Cass., sez. I, 24.3.2000, Di Dona, in CED 2000/216090].

Ma l’inconveniente della disciplina non era costituito soltanto dall’eccessivo ruolo che l’autorità amministrativa finiva col giocare nella concessione dei benefici penitenziari. Altri erano i difetti: innanzitutto l’eccessiva platea dei potenziali destinatari di quello statuto penitenziario in deroga. Il riferimento era, infatti, ai condannati per taluno dei delitti di cui all’art. 380 c.p.p., che contiene il catalogo – ampio – dei reati per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Ancora: il programma di protezione era concesso in caso di una non meglio definita collaborazione, che comportasse un grave ed attuale pericolo per l’incolumità del collaboratore stesso e che non consentisse la sua tutela in regime ordinario di detenzione. Non erano poi predeterminate le cause di possibili revoche del programma, pur se dalla revoca di esso discendeva automaticamente la revoca o l’esclusione dai benefici penitenziari, con possibile compromissione di programmi di reinserimento sociale; e non era fissato un termine entro il quale il potenziale collaboratore dovesse riferire quanto a sua conoscenza. Insomma, quella normativa era, per un verso, eccessivamente largheggiante e si prestava ad eccessi applicativi per la moltiplicazione, poco ragionata, dei casi di pentitismo; dall’altro, poneva attenzione in modo assolutamente prevalente sulle esigenze di tutela dell’incolumità del collaboratore, e non si curava dei contraccolpi sul trattamento penitenziario di scelte maturate esclusivamente nell’ambito delle ragioni di sicurezza personale del collaboratore. Nel 2001, come anticipato, la disciplina è stata cambiata e sono state introdotte restrizioni al trattamento premiale. È stato in primo luogo ridimensionato il numero potenziale di beneficiari, restringendo l’ambito di criminalità nel quale può aver rilievo la collaborazione. Deve, infatti, trattarsi di dichiarazioni utili per le indagini, provenienti da soggetti condannati per taluno dei reati di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p. e di quelli commessi per finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine costituzionale, anche se successivamente, con la legge n. 228/2003, la disposizione è stata interpolata con l’inclusione dei reati in materia di sfruttamento sessuale di minori.

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Non è più necessario che l’interessato sia stato previamente ammesso ad un programma di protezione, e dunque si è fortemente allentato il collegamento tra concessione dei benefici ed esigenze di protezione della persona del collaboratore. Ai fini della concessione dei benefici previsti dalla legge di ordinamento penitenziario in favore dei “collaboratori di giustizia” assumono rilievo esclusivo le condotte di collaborazione processualmente apprezzabili e suscettibili di valutazione da parte del giudice per il trattamento sanzionatorio e non misure di tipo amministrativo finalizzate a garantire l’incolumità del soggetto collaborante [Cass., sez. I, 21.9.2004, Fabiano, in CED 2004/229782]. Nello stesso senso, più di recente, Cass., sez. I, 13.1.2012, Casella, in CED 2012/253334, secondo cui il presupposto delle condotte di collaborazione, per la concessione dei benefici penitenziari alle persone condannate per un delitto commesso per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale o per uno dei delitti di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p., deve formare oggetto di accertamento ad opera del Tribunale di sorveglianza che sia richiesto dell’applicazione dei benefici, senza che a tal fine assuma rilievo l’eventuale provvedimento amministrativo di ammissione dell’interessato alle speciali misure di protezione.

Vale anche in questo settore, pertanto, la regola che la collaborazione non è identificabile in uno stato soggettivo, potenzialmente accertabile con una mera pronuncia dichiarativa che divenga presupposto per future ed eventuali ammissioni ai benefici, sì come è concordemente affermato in giurisprudenza con riguardo alla collaborazione di cui all’art. 58-ter ord. pen. La qualità di collaboratore, a norma dell’art. 58-ter della legge 26.7.1975, n. 354 (c.d. ordinamento penitenziario), non può formare oggetto di una pronuncia dichiarativa fine a se stessa, mirante al riconoscimento di una condizione assimilabile a uno status e indipendente dalla richiesta dei benefici per i quali opera la preclusione derivante dal titolo del reato, ma deve essere invece accertata all’interno del procedimento attivato dalla richiesta di uno di detti benefici, con lo specifico scopo di stabilire se ricorra la particolare situazione derogatoria ex art. 58ter citato, che consente al giudice di superare il divieto dettato, in linea generale, dall’art. 4-bis della stessa legge [Cass., sez. I, 13.2.1997, Guidali, in CED 1997/207183].

Occorre, poi, che la collaborazione prestata sia particolarmente qualificata, perché deve essere non soltanto tale da consentire la concessione delle circostanze attenuanti previste dal codice o da leggi speciali; ma anche importante, secondo una valutazione da compiersi ad opera della magistratura di sorveglianza. Inoltre, è necessario che il soggetto si sia ravveduto, e che non emergano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva. Si ha modo così di apprezzare come la condizione di collaborazione richiesta dall’art. 16-nonies sia di maggiore intensità rispetto a quella delineata dall’art. 58-ter ord. pen. Se, infatti, il riferimento alla concedibilità delle circostanze attenuanti sta a significare che deve trattarsi di un apporto fattivo, e quindi sostanzialmente valutabile anch’esso secondo la formula della legge di ordinamento penitenziario, i requisiti aggiuntivi dell’importanza della collaborazione, che dunque apre alla possibilità di diversificare le situazioni concrete pur all’interno di una comune aera di collaborazione fattiva, e del ravvedimento, arricchiscono il presupposto

I benefici penitenziari e la politica del c.d. doppio binario

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per l’accesso ai benefici in modo da differenziarlo, restrittivamente, rispetto alla più ampia area delle misure premiali per le collaborazioni. Non è poi di poco conto evidenziare che il profilo dell’importanza della collaborazione è di esclusiva valutazione della magistratura di sorveglianza, dato, questo, che segna un’accentuata distanza rispetto al regime previgente in cui, invece, vi era – come si è detto – una sorta di automatismo tra l’ammissione allo speciale programma di protezione e l’attribuzione dei benefici penitenziari. La competenza territoriale è del tribunale o del magistrato di sorveglianza del luogo in cui la persona ha eletto il domicilio a norma dell’art. 12 comma 3-bis della stessa legge, e quindi ove ha sede la commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione. La giurisprudenza pertanto afferma la competenza del tribunale di sorveglianza di Roma per i condannati che si trovino in stato di detenzione, mentre per quelli liberi a seguito di sospensione dell’esecuzione della pena ex art. 656 commi 5 e 6 c.p.p. attribuisce la competenza territoriale, proprio in base a tali ultime disposizioni, al tribunale di sorveglianza competente in relazione al luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che ha sospeso l’esecuzione [FILIPPI, SPANGHER, 281].

L’ambito di discrezionalità valutativa della magistratura di sorveglianza è poi ampliato dalla necessità di apprezzamento della condizione di ravvedimento, che non è automaticamente implicata dall’esistenza della collaborazione. Ai fini della concessione dei benefici penitenziari (nella specie, ammissione alla detenzione domiciliare) in favore dei collaboratori di giustizia, il requisito del “ravvedimento” previsto dall’art. 16-nonies comma 3 d.l. 15.1.1991, n. 8, convertito nella legge 15.3.1991, n. 82, non può essere oggetto di una sorta di presunzione, formulabile sulla sola base dell’avvenuta collaborazione e dell’assenza di persistenti collegamenti del condannato con la criminalità organizzata, ma richiede la presenza di ulteriori, specifici elementi, di qualsivoglia natura, che valgano a dimostrarne in positivo, sia pure in termini di mera, ragionevole probabilità, l’effettiva sussistenza [Cass., sez. I, 27.10.2009, Brusca, in CED 2009/245945. E ancor prima, sulla stessa linea, Cass., sez. I, 18.11.2004, Furioso, in CED 2004/230137].

Va inoltre messo in evidenza che la legge prescrive espressamente la necessità di un apprezzamento giudiziale sull’effettività e sulla rilevanza della collaborazione, ove questa sia prestata dal condannato per fatti diversi da quelli per i quali è intervenuta la condanna. Occorre, in tal caso, che sia emessa la sentenza di primo grado in merito ai fatti oggetto di collaborazione, in modo che si abbia un riscontro circa l’esistenza dei caratteri che possono giustificare l’ammissione in deroga ai benefici penitenziari. Il riferimento è, in tale ipotesi, ad una collaborazione per fatti diversi e, nel silenzio della legge, pare debba ritenersi che siano comunque qualificabili all’interno di quell’area di criminalità maggiormente pericolosa che delinea la categoria dei potenziali destinatari, ossia dei reati di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p. e di quelli commessi per finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine costituzionale, oltre che di quelli di sfruttamento sessuale dei minori. Un dubbio sarebbe potuto semmai sorgere in ordine al se l’ammissione ai benefici penitenziari in deroga presupponga che il titolo esecutivo in espiazione

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abbia riguardo ad uno di tali reati; o se, invece, sia condizione sufficiente che l’apporto collaborativo abbia avuto ad oggetto uno di questi specifici reati, se pur le misure da concedersi afferiscano ad una procedura esecutiva iniziata per condanna per reati di altra categoria. La giurisprudenza più recente ha però chiarito che i benefici penitenziari previsti dall’art. 16-nonies comma 1 legge 15.3.1991, n. 82, ivi compresa la detenzione domiciliare, possono essere concessi al condannato ammesso a speciale programma di protezione anche se i reati, la cui pena è in espiazione, non siano compresi nel novero di quelli indicati dall’art. 51 comma 3-bis c.p.p., qualora sia intervenuta sentenza di condanna, definitiva o non definitiva, per altri reati in relazione ai quali sia stata riconosciuta la diminuente prevista dall’art. 8 della legge 12.7.1991, n. 203. [Cass., sez. 1, 16.10.2012, Russo, in CED 2012/253833]. È apparso infatti irragionevole che il condannato, sia pure non in via definitiva, per un delitto rientrante nella competenza delle direzioni distrettuali antimafia e ammesso al programma di protezione, subisca un trattamento deteriore rispetto ad altri collaboratori di giustizia di criminalità organizzata, solo a ragione del dato che la condanna per uno dei delitti di cui all’art. 51 c.p.p. comma 3-bis non sia ancora definitiva.

Bibliografia. CASAROLI, Misure alternative alla detenzione, in Dig. disc. pen., Torino, 1994, 15; CESARI, GIOArt. 4-bis, in GREVI, GIOSTRA, DELLA CASA, Ordinamento penitenziario, Padova, 2011, Tomo I, 53; COMUCCI, Lo sviluppo delle politiche penitenziarie dall’ordinamento del 1975 ai provvedimenti per la lotta alla criminalità organizzata, in PRESUTTI (a cura di), Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Milano, 1994, 5; CORVI, Trattamento penitenziario e criminalità organizzata, Padova, 2010, 40 ss.; DEGL’INNOCENTI, FALDI, Misure alternative alla detenzione e procedimento di sorveglianza, Milano, 2010, 217; (a) DELLA CASA, Le recenti modificazioni dell’ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della “scommessa” anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del “doppio binario”, in GREVI (a cura di), L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, Padova, 1994, 124; (b) DELLA CASA, Misure alternative alla detenzione, in Enc. dir., Ann., III, 2010, 828; FIORENTIN, Collaborazione “impossibile”: grava sul condannato l’onere di allegazione delle situazioni di derogabilità alle preclusioni in materia di benefici penitenziari, in Cass. pen., 2008, 2570; (a) GREVI, Introduzione. Scelte di politica penitenziaria e ideologie del trattamento nella L. 10 ottobre 1986 n. 663, in GREVI (a cura di), L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, Padova, 1994, 25; (b) GREVI, Premessa. Verso un regime penitenziario progressivamente differenziato: tra esigenze di difesa sociale e incentivi alla collaborazione con la giustizia, in GREVI (a cura di), L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, Padova, 1994, 4; (c) GREVI, Art. 1, in GREVI, GIOSTRA, DELLA CASA, Ordinamento penitenziario, Padova, 2011, Tomo I, 4 ss.; IOVINO, Contributo allo studio del procedimento di sorveglianza, Torino, 1995, 213; PAVARINI, GUAZZALOCA, Corso di diritto penitenziario, Bologna, 2004, 183; PRESUTTI, “Alternative” al carcere, regime delle preclusioni e sistema della pena costituzionale, in PRESUTTI (a cura di), Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Milano, 1994, 95; TRONCONE, Manuale di diritto penitenziario, Torino, 2006, 237. STRA,

Capitolo II

Il regime carcerario di rigore per i detenuti di criminalità organizzata

Sommario

1. La sospensione delle ordinarie regole di trattamento penitenziario: genesi e funzione. – 2. L’efficacia conformativa della giurisprudenza costituzionale. – 3. I destinatari e i presupposti di pericolosità del provvedimento. – 4. I poteri istruttori del Ministro della giustizia e i contenuti del decreto. – 5. Le condizioni per la proroga del regime di restrizione. – 6. I rimedi impugnatori. Il reclamo. – 6.1. (Segue) Il procedimento e i poteri del tribunale di sorveglianza. – 6.2. (Segue) Il ricorso per cassazione. – Bibliografia.

1.

La sospensione delle ordinarie regole di trattamento penitenziario: genesi e funzione.

Il contrasto della criminalità organizzata sul terreno delle misure penitenziarie è affidato – oltre che alle misure premiali finalizzate ad incentivare le collaborazioni – alle disposizioni dell’art. 41-bis comma 2 ord. pen., introdotto nella nostra legislazione dal d.l. 8.6.1992, n. 306. Il nucleo centrale di questa disciplina è costituito dal potere attribuito al Ministro della giustizia di disporre, con decreto reclamabile, la sospensione delle regole di trattamento nei confronti di singoli detenuti, o internati, per uno dei delitti indicati nel primo periodo del comma 1 dell’art. 4-bis, o comunque per un delitto commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, e sempre che vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva. Per quanto le misure di sospensione riguardino i singoli detenuti, deve essere evidenziato che il regime speciale trova la ragion d’essere nell’organizzazione criminale, nella capacità della stessa di essere protagonista di scelte criminali e di governare uomini e mezzi, e di intessere e mantenere rapporti con la politica, l’economia e le istituzioni [(b) ARDITA, 259]. Dette misure, seppure destinate ad esplicarsi con la loro carica di afflittività all’interno dell’istituto carcerario, sono

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in buona sostanza giustificate da esigenze che nascono fuori dal carcere e allignano in situazioni di turbativa sociale ad esso estranee. Si è allora detto [PAVARINI, 265] che il regime di rigore si contrappone specularmente, e con opposto segno, al regime di premialità per il collaboratore mafioso di cui all’art. 4-bis, facendo sorgere il dubbio che premialità, anche estrema, e carcere duro siano i termini necessari all’implementazione di una sorta di “soave inquisizione” capace di “sciogliere le lingue”.

L’istituto è stato nel tempo oggetto di vari rimaneggiamenti normativi, dettati anche dalla necessità di tener conto delle plurime decisioni della Corte costituzionale che, come da qui a breve si dirà, ne hanno fatta salva la costituzionalità attraverso interpretazioni correttive non sempre di facile soluzione. Il regime di restrizione detentiva è stato oggetto anche della considerazione della Corte Edu che, in più decisioni [sez. II, 15.1.2008, Bagarella c/Italia, in Dir. pen. proc., 2008, 393; sez. II, 17.7.2008, De Pace c/Italia, in Dir. pen. proc., 2008, 1185], ha escluso che la disciplina si risolva in un trattamento inumano o degradante, tale da costituire una violazione dell’art. 3 della Convenzione europea. Ha però affermato che il controllo sulla corrispondenza, attuato ai sensi dell’art. 18 ord. pen. nella versione precedente alla riforma della legge n. 95/2004, comporta un’ingerenza illecita nel diritto al rispetto della vita privata [sez. II, 24.1.2008, Di Giacomo c/Italia, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 350; sez. II, 27.11.2007, Asciutto c/Italia, in Dir. pen. proc., 2008, 1189].

Nella originaria formulazione delle disposizioni qui di interesse, i presupposti per la limitazione del trattamento erano indicati con una certa sommarietà; la valutazione dei gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica era affidata al Ministro della giustizia che non era limitato da parametri normativi, e quindi poteva esprimere le valutazioni più ampie ed opinabili; i contenuti possibili del provvedimento di restrizione non erano predeterminati e non era individuato un nucleo di diritti del detenuto non comprimibili; la pericolosità che dava luogo all’adozione del provvedimento era sostanzialmente desunta dal titolo del reato; non erano descritti i presupposti per la reiterazione del regime restrittivo e non era fissato alcun termine di durata; non era infine prevista alcuna forma di tutela giurisdizionale. Si era inizialmente previsto che l’istituto avesse un’efficacia temporanea, di tre anni; poi intervennero modifiche legislative che ne prorogarono l’efficacia: una prima volta sino al 31 dicembre 1999, poi sino al 31 dicembre 2000 e, ancora dopo, sino al 31 dicembre 2002. Quindi si introdusse la possibilità di proroga dei provvedimenti ministeriali all’unica condizione che non risultasse la sopravvenuta carenza della capacità del detenuto, o dell’internato, di mantenere contatti con associazioni criminali, terroristiche o eversive, e ciò con la modifica del comma 2-bis ad opera dell’art. 2 legge n. 279/2002, che dell’istituto sancì la piena giurisdizionalità, mettendo a frutto le indicazioni della copiosa giurisprudenza costituzionale [cfr. (a) FIORIO, 20 ss.] e specificamente individuando nel procedimento tipico di sorveglianza, e non più in quella a minor tasso di garanzie di cui all’art. 14-ter ord. pen, il modello rituale in materia [CAPRIOLI, VICOLI, 388].

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Nella versione attuale, conseguente all’ultima novella apportata dalla legge n. 94/2009, l’istituto ha definitivamente perso i connotati di provvisorietà: si è stabilito che il provvedimento ministeriale abbia una durata prefissata di quattro anni e si è, quindi, sottratto al Ministro il potere di determinare discrezionalmente il tempo di vigenza del regime particolare, che prima era esercitabile entro i limiti indicati dalla legge n. 279/2002 e fissati in un minimo di un anno e un massimo di due anni. La predeterminazione della durata si è inserita in un contesto di sostanziale inasprimento della disciplina e si è così stabilito che, sempre ricorrendone i presupposti, il provvedimento è prorogabile senza limiti temporali massimi, per periodi consecutivi di due anni. Alla stabilizzazione ha fatto seguito una scelta di rafforzamento dei presìdi di effettività delle misure di restrizione. I detenuti sottoposti a tale regime sono custoditi all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all’interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto, e ciò in deroga agli ordinari criteri che vogliono l’assegnazione ad un istituto adeguato al tipo di trattamento rieducativo nel rispetto del principio di territorialità dell’esecuzione penale. La necessità sottesa a queste disposizioni è di poter disporre di strutture detentive che per la loro conformazione architettonica non consentano contatti tra detenuti inseriti in gruppi diversi di socialità. La loro custodia è affidata a reparti specializzati della polizia penitenziaria e, quindi, a personale particolarmente qualificato ed esperto, in grado di garantire il rispetto delle prescrizioni contenute nel provvedimento ministeriale. Ancora: il legislatore del 2009 ha introdotto nel codice penale una nuova fattispecie criminosa – art. 391-bis –, di agevolazione ai detenuti e internati sottoposti a particolari restrizioni delle regole di trattamento penitenziario. Si prevede la punizione con la reclusione da uno a quattro anni di chiunque consenta a un detenuto, sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis, di comunicare con altri in elusione delle prescrizioni a tal fine imposte. La condotta punibile comprende tutte le possibili modalità di elusione delle restrizioni volte ad impedire le comunicazioni non autorizzate, sia all’esterno che all’interno dell’istituto. Una speciale circostanza aggravante, con pena da due a cinque anni, è prevista se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio o da un soggetto esercente la professione forense.

L’antecedente normativo dell’istituto era individuabile nelle regole di cui all’art. 90 ord. pen., abrogato dalla legge 10.10.1986, n. 663; in quell’articolo, che era stato pensato per il contrasto della criminalità terroristica ed eversiva e della sua capacità di proselitismo all’interno delle strutture carcerarie, si prevedeva, in modo abbastanza generico, che in presenza di «gravi ed eccezionali motivi di ordine e di sicurezza» il Ministro della giustizia potesse sospendere, per il periodo strettamente necessario, l’applicazione, in tutto o in parte, delle regole di trattamento in uno o più stabilimenti penitenziari. In questo modo l’ordinamento compensava l’assenza di strumenti per differenziare il trattamento in riguardo a soggetti particolarmente pericolosi e facenti parte di gruppi che praticavano la lotta politica violenta. Si era comunque di fronte ad un meccanismo che presentava il forte svantaggio di non potersi modulare su singoli soggetti, essendo per necessità rivolto a tutti gli individui ristretti all’interno di un istituto o di una sezione dello stesso. Di qui la sua abrogazione e la sostituzione, per effetto della stessa legge del

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1986, con la previsione di cui all’art. 14-bis e con quella contenuta nell’art. 41bis comma 1, l’una relativa ad un regime di sorveglianza particolare individualizzato nei confronti dei condannati, degli internati e degli imputati con caratteristiche di pericolosità per aver tenuto condotte volte a far venir meno l’ordine e la sicurezza all’interno del carcere – regime attuabile per atto motivato dell’amministrazione penitenziaria e previo parere del consiglio di disciplina e, per gli imputati, dell’autorità procedente –; e l’altra sostanzialmente sovrapponibile alla disposizione dell’abrogato art. 90, nella misura in cui ancor oggi si prescrive che, in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro della giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato, o in parte di esso, l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti o degli internati, per la durata strettamente necessaria al ripristino dell’ordine e della sicurezza interni. La differenza dalla precedente disposizione di cui all’art. 90 ord. pen. era abbastanza evidente: le misure di sospensione potevano infatti essere adottate soltanto in riferimento all’istituto penitenziario interessato dai disordini, e non più, come prima, in modo indiscriminato in riferimento ad uno o più istituti penitenziari. In questo contesto normativo si inserì la significativa innovazione rappresentata dall’introduzione, con legge del 1992, del comma 2 all’art. 41-bis, la cui ragione giustificatrice non era più quella di ristabilimento dell’ordine interno di un istituto penitenziario e si sostanziava, invece, nelle esigenze di contrasto della pericolosità di soggetti che, anche in stato di restrizione carceraria, continuavano a mantenere i contatti con la criminalità organizzata. Si ampliò dunque la prospettiva dell’intervento di restrizione: dalla sicurezza interna agli istituti, che era stata presa in considerazione sin dall’art. 90 ord. pen., alle necessità del contrasto del crimine mafioso, che riusciva a stabilire e mantenere contatti anche in ambiente carcerario. Nella sua primigenia fisionomia l’istituto dell’art. 41-bis comma 2 fu visto come la riproposizione quasi fedele dell’abrogato art. 90, e quindi come strumento che di tale ultimo famigerato apparato regolativo vivificava lo spirito anti-garantistico, seppure indirizzandolo verso il fine di contrasto alla criminalità organizzata. Fu pertanto qualificato come un momento di arretramento della normativa penitenziaria verso posizione superate, riproposizione di un modello antistorico e carente sotto il profilo garantistico [DE RIENZO, 119-120]. 2. L’efficacia conformativa della giurisprudenza costituzionale. Appena introdotto nel sistema penitenziario, l’istituto fu subito esposto a rilievi di costituzionalità, innanzitutto per la genericità dei contenuti che il provvedimento ministeriale poteva di volta in volta strutturare. Una prima considerazione critica prese le mosse dall’indiscutibile premessa che la libertà personale, pur in caso di costanza di restrizione carceraria, è bene

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primario, esposto ad eventuali ulteriori compressioni di quella parte residua che non è intaccata dallo stato detentivo e che è perciò particolarmente preziosa. La duplice riserva, di legge e di giurisdizione, deve allora essere rispettata pur quando si tratti di irrogare anche a chi è già in stato di detenzione ulteriori limitazioni di libertà. Tale esigenza, di contro, non è avvertita quando vengano in rilievo misure che non si risolvano in un aggravio del sacrificio della libertà e che invece attengano alle modalità di esecuzione della pena che sono rimesse, sia pure sotto il controllo della magistratura di sorveglianza, all’amministrazione penitenziaria. Sulla base di queste preliminari osservazioni, già nel 1993, e quindi a circa un anno dal varo della riforma che introdusse l’art. 41-bis comma 2, la Corte costituzionale ne fece salva la legittimità chiarendo come il potere ministeriale rientrasse nella medesima area di quelle «regole ed istituti che già nell’ordinamento penitenziario appartengono alla competenza di ciascuna amministrazione penitenziaria e che si riferiscono al regime di detenzione in senso stretto». Attraverso un’interpretazione correttiva si escluse che l’art. 41-bis potesse autorizzare il Ministro della giustizia, pur a fronte della obiettiva genericità della previsione dei contenuti del provvedimento limitativo, ad incidere «su tutte le regole di trattamento e gli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario, ivi comprese quindi le misure alternative alla detenzione e l’assegnazione al lavoro esterno o i permessi e le licenze» [C. cost., 28.7.1993, n. 349, in cortecostituzionale.it]. Un altro profilo non affrontato dal legislatore, e che comportò un intervento correttivo del giudice delle leggi, fu quello del se ed in che modo potesse essere impugnato il provvedimento ministeriale. Quel che nell’appena citata sentenza fu solo un passaggio argomentativo, nella successiva [C. cost., 23.11.1993, n. 410, in cortecostituzionale.it] divenne oggetto di espressa e compiuta trattazione. Il ragionamento che condusse al giudizio di compatibilità costituzionale si sviluppò dalla precisazione che i detenuti restano titolari di posizioni giuridiche, che per la loro stretta inerenza alla persona sono qualificabili come diritti soggettivi costituzionalmente garantiti; conseguentemente si giunse all’ovvia conclusione della necessità di una tutela giurisdizionale per tali diritti, e si precisò che la tutela non potesse che spettare al giudice ordinario in quanto giudice dei diritti soggettivi, similmente a quanto espressamente previsto dall’art. 14-ter ord. pen. per il controllo sull’applicazione, da parte dell’amministrazione penitenziaria, del regime di sorveglianza particolare. Da lì a poco si pose il connesso problema dei limiti e dell’ambito del controllo giurisdizionale sui provvedimenti ministeriali, e la Corte costituzionale intervenne, ancora una volta, salvando l’istituto, potenzialmente in contrasto con le linee portanti dell’impalcatura rieducativa e trattamentale della detenzione intramuraria. Precisò, così, che il sindacato doveva estendersi «non solo alla sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento, ma anche al rispetto dei limiti posti dalla legge e dalla Costituzione in ordine al contenuto di questo, vuoi sotto il profilo della eventuale lesione di situazioni non comprimibili, vuoi sotto quel-

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lo della congruità delle misure in concreto disposte rispetto ai fini per i quali la legge consente all’amministrazione di disporre un regime derogatorio rispetto a quello ordinario» [C. cost., 18.10.1996, n. 351, in cortecostituzionale.it]. La conseguenza fu che la sottoposizione a controllo deve tendere ad una triplice verifica, di osservanza sia dei limiti esterni, perché sia impedita l’adozione di misure incidenti sulla qualità e quantità della pena o sul grado di libertà personale del detenuto; sia di quelli per così dire interni, perché sia mantenuto uno stretto collegamento con il soddisfacimento delle esigenze di ordine e di sicurezza, e quindi sia scongiurato il pericolo di adozione di «misure che per il loro contenuto non siano riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza, o siano palesemente inidonee o incongrue rispetto alle esigenze di ordine e di sicurezza che motivano il provvedimento»; sia, ancora, dei limiti connessi al «divieto di disporre trattamenti contrari al senso di umanità» e afferenti all’obbligo di dare conto delle ragioni della deroga del trattamento rispetto alle finalità rieducative della pena. Con la fissazione di questi ampi confini al controllo giurisdizionale si evitò di avallare una retriva lettura della disciplina ordinamentale, che autorizzasse l’applicazione del deteriore regime soltanto sul presupposto dell’intervenuta condanna per determinati tipi di reato. E ciò fu ribadito con una successiva pronuncia che affrontò anche la questione dell’assenza di indicazione di limiti temporali nell’art. 41-bis comma 2 [C. cost., 5.12.1997, n. 376, in cortecostituzionale.it]. In quest’occasione la Corte precisò che la mancanza di previsioni normative non valeva a giustificare provvedimenti di proroga privi di adeguata motivazione in ordine alla permanenza attuale dei pericoli per l’ordine e la sicurezza; e quindi a consentire proroghe immotivate del regime differenziato e proroghe con motivazioni apparenti o stereotipe, inidonee a giustificare in termini di attualità le misure disposte. In questo modo la Corte costituzionale diede un decisivo contributo alla definizione di un istituto che il legislatore aveva soltanto tratteggiato nelle linee essenziali e pose le fondamenta per la progressiva opera legislativa di una più compiuta articolazione della sua disciplina.

3. I destinatari e i presupposti di pericolosità del provvedimento. I destinatari sono individuati, nell’attuale assetto normativo, nei detenuti, anche per provvedimento cautelare, e internati per uno dei reati indicati nel primo periodo del comma 1 dell’art. 4-bis, o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso. In dottrina ha suscitato qualche perplessità l’estensione della disciplina anche agli internati, già apportata dalla novella del 2002, per la difficoltà di mettere in relazione la pericolosità posta a fondamento dell’applicazione della misura

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di sicurezza personale detentiva con quella che giustifica l’adozione del rigoroso regime di restrizione [CORVI, 127]. In giurisprudenza, invece, la previsione ha trovato attuazione senza particolari difficoltà, e si è conseguentemente detto che lo speciale regime previsto dall’art. 41-bis è applicabile non solo ai detenuti ma altresì agli internati cui sia stata irrogata una misura di sicurezza detentiva (fattispecie relativa ad internato in casa di lavoro) [Cass., sez. I, 9.3.2011, Di Martino, in CED 2011/250436].

Per quel che concerne il riferimento agli imputati, ossia ai detenuti per titolo cautelare, la Corte costituzionale ebbe a precisare che esso non contrasta con la presunzione di non colpevolezza, perché l’importante principio non è invocabile per impedire «l’applicazione di misure che non hanno e non possono avere natura e contenuto di anticipazione della sanzione penale, bensì solo di cautela in relazione a pericoli attuali per l’ordine e la sicurezza, collegati in concreto alla detenzione di determinati condannati o imputati per delitti di criminalità organizzata» [C. cost., 5.12.1997, n. 376, in cortecostituzionale.it]. Sul versante, poi, del riferimento ai detenuti in espiazione di condanne irrevocabili si era discusso se, in caso di cumulo di pene, potesse provvedersi allo scioglimento onde evitare l’applicazione del regime di rigore, similmente a quanto stabilito, anche con l’intervento delle Sezioni Unite, in riguardo alla rimozione degli ostacoli all’accesso ai benefici penitenziari [il riferimento è a Cass., S.U., 30.6.1999, Ronga, cit.]. La soluzione che prevalse in giurisprudenza fu nel senso opposto a quella radicatasi sul terreno della rimozione degli ostacoli all’ammissione ai benefici, e in questa direzione si evocò il principio dell’unicità dell’esecuzione della pena come cardine della disciplina relativa alla sospensione delle regole del trattamento. Il condannato, in caso di cumulo di pene alcune delle quali irrogate per reati che giustificano il regime di restrizione, deve in ogni caso considerarsi detenuto anche per tali reati; si aggiunse che non si poteva dar luogo allo scioglimento del cumulo dal momento che non si trattava di verificare l’esistenza di un ostacolo formale alla concessione di benefici penitenziari, quanto l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. Si affermò in particolare che non potesse essere sciolto il cumulo di pene concorrenti al fine di considerare espiate quelle riferite a reati commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare le associazioni di tipo mafioso che impongono la sospensione delle regole di trattamento di cui all’art. 41-bis, dovendosi il condannato considerare detenuto anche per tali reati in virtù del principio di unicità dell’esecuzione della pena [Cass., sez. I, 18.9.2009, Gionta, in CED 2009/ 245047]. Ancora, si disse, in tema di applicazione del regime detentivo speciale di cui all’art. 41bis, è irrilevante la circostanza che il condannato, detenuto in virtù di un cumulo comprensivo di pene per reati legittimanti l’applicazione del predetto regime e per altri reati, abbia già espiato la parte di pena relativa ai primi reati, tenuto conto non solo del principio di unicità della pena di cui all’art. 76 comma 1 c.p., ma anche delle specifiche finalità di ordine e sicurezza del regime differenziato [Cass., sez. I, 11.7.2008, Della Ventura, in CED 2008/240938]. -

Parte della dottrina di contro osservò che una soluzione di tal tipo introduceva nel sistema una significativa contraddizione, dal momento che l’avvenuta

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esecuzione della pena relativamente al reato ostativo, da un lato, non precludeva l’accesso ai benefici, ma, dall’altro, non comportava la cessazione del regime detentivo speciale, con disparità di trattamento tra detenuti in conseguenza di fatti meramente casuali, a seconda, cioè, che le pene per i diversi reati fossero scontate in un’unica soluzione o separatamente [CESARIS, 459 ss.]. Ora, la legge n. 94/2009 ha precisato, superando i contrasti appena tratteggiati, che, in caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, il regime ex art. 41-bis può essere disposto pur quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nell’art. 4-bis. Un quesito particolare si è poi posto in riferimento al fatto che la platea dei potenziali destinatari finisce con l’essere ampliata in conseguenza della previsione, come presupposto del provvedimento di restrizione, di qualunque reato, pur estraneo al catalogo di cui all’art. 4-bis comma 1, primo periodo, ma che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o per agevolare un’associazione di tipo mafioso. Si è sul punto chiarito il senso dell’innovazione normativa del 2009 rispetto alla pregressa previsione desumibile dal rinvio all’art. 4-bis indipendentemente, quindi, dai delitti menzionati nell’art. 4-bis comma 1. Il legislatore ha così recepito nel 2009 l’approdo interpretativo ampiamente prevalente nella giurisprudenza in materia di delitti commessi con metodo mafioso e per finalità mafiosa, ed ha esteso la possibilità di applicare il trattamento anche in relazione a titoli esecutivi o cautelari che non menzionino espressamente la cosiddetta aggravante di mafia. Si è poi osservato che l’applicabilità del regime di detenzione differenziata per qualsiasi delitto commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare le associazioni di tipo mafioso, indipendentemente dal riferimento ai delitti menzionati nell’art. 4-bis comma 1 – come prevista dall’art. 2 comma 25 legge 15.7.2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) – è consentita con effetto immediato anche con riferimento a fatti commessi prima della sua entrata in vigore, in forza del principio tempus regit actum [Cass., sez. I, 18.9.2009, Gionta, in CED 2009/245045].

In quest’ambito si è posta l’ulteriore e connessa questione se, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare le associazioni di tipo mafioso, occorra che vi sia stata, nel procedimento di cognizione, formale contestazione della relativa circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152/1991. In giurisprudenza è prevalsa la soluzione che si possa fare a meno del riconoscimento in fase di cognizione della menzionata aggravante, specie in ragione del fatto che la relativa contestazione non poteva avere un senso con imputazione per reati che comportassero la condanna alla pena perpetua: si era detto, infatti, che la sospensione delle regole del trattamento, ai sensi dell’art. 41-bis comma 2, può essere disposta anche nei confronti di condannati alla pena dell’ergastolo per delitto che, alla stregua di quanto risulta dalla sentenza di condanna, possa dirsi commesso avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività di una delle associazioni in esso indicate, a nulla rilevando la non applicabilità della relativa aggravante, prevista dall’art. 7 d.l. 13.5.1991, n. 152, conv. con modif. in legge 12.7. 1991, n. 203, ai delitti punibili con l’ergastolo e, quindi, la mancanza o l’erroneità della sua contestazione [Cass., sez. VII, 28.4.2005, Zavettieri, in CED 2005/232055]. Si consideri, però, -

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che successivamente le Sezioni Unite hanno condivisibilmente ammesso la legittimità della contestazione dell’aggravante pur per reati punibili con l’ergastolo, e ciò appunto per consentire di trarre le conseguenze applicative ulteriori rispetto agli incrementi di pena. La circostanza aggravante prevista dall’art. 7 d.l. 13.5.1991, n. 152, convertito in legge 12.7.1991, n. 203 (aver agito avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. o al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso), è applicabile anche ai delitti astrattamente punibili con la pena edittale dell’ergastolo e pertanto può essere validamente contestata anche con riferimento ad essi, ma opera in concreto solo se, di fatto, viene inflitta una pena detentiva diversa dall’ergastolo, mentre, se non esclusa all’esito del giudizio di cognizione, esplica comunque la sua efficacia a fini diversi da quelli di determinazione della pena [Cass., S.U., 18.12.2008, Antonucci e altri, in CED 2008/241578].

Fatto questo chiarimento, deve convenirsi con quanto è stato efficacemente osservato in dottrina, e cioè che l’ultima riforma del 2009 ha reso applicabile il regime di rigore in riguardo ai detenuti per fatti di reato comuni, purché risultino caratterizzati dalla finalità di agevolazione o dal metodo mafioso, indipendentemente dalla formale contestazione e dall’espresso riferimento all’aggravante nei titoli esecutivi [CORVI, 133]. Va comunque evidenziato che il riferimento al titolo di reato è condizione necessaria ma non sufficiente per legittimare un intervento di restrizione trattamentale. La Corte costituzionale fu molto esplicita sul punto, quando impose l’obbligo di un’indagine, ben più penetrante di un mero riscontro circa la corrispondenza di un’imputazione consacrata in sentenza ad un catalogo criminoso. Affermò, infatti, che l’istituto ha come fine precipuo l’interruzione dei collegamenti fra detenuti appartenenti ad organizzazioni criminali e fra costoro e gli appartenenti a tali organizzazioni ancora in libertà. Collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso le opportunità di contatti che l’ordinario regime carcerario consente e in certa misura favorisce. Di qui la necessità di una concreta giustificazione dei provvedimenti in relazione alle esigenze di ordine e sicurezza, all’effettivo pericolo della permanenza di collegamenti, di cui i fatti di reato contestati non sono che una logica premessa [C. cost., 5.12.1997, n. 376, in cortecostituzionale.it]. Queste affermazioni di garanzia sono state riprese e rafforzate dalla riforma del 2002, che ha reso ancora più stringente l’obbligo di una verifica in concreto dei presupposti di pericolosità mediante l’inciso relativo alla sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’attualità del collegamento con l’organizzazione criminale esterna non va confusa con l’attualità dei contatti malavitosi, poiché la specifica, mirata funzione preventiva dell’art. 41-bis vuole impedire proprio il realizzarsi del collegamento. Ne consegue che dal mancato stabilirsi di contatti con l’esterno si desume l’efficacia del regime differenziato e non già la dimostrazione della sua incongruenza rispetto alla situazione di fatto [Cass., sez. I, 20.10.2005, Pariante, in CED 2005/232466]. Ha poi aggiunto che ai fini della sospensione delle regole di trattamento nei confronti dei soggetti condannati per taluno dei delitti menzionati nell’art. 41-bis, allorché risultino elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, non occorre la sua positiva dimostrazione, essendo sufficiente che essa possa essere ragionevolmente ritenuta probabile sulla base degli elementi di volta in volta disponibili [Cass., sez. I, 29.10.2004, Foriglio, in CED 2004/230136].

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Ci si è chiesti allora quali possano essere gli elementi da cui dedurre la sussistenza di questi legami, e in questa prospettiva è stata valorizzata la condotta dell’interessato. Se è indubbio che la collaborazione con la giustizia sia segno di rottura con l’organizzazione criminale, l’assenza di un atteggiamento collaborativo non può essere elevato ad indice certo dell’attualità dei legami, occorrendo comunque un quid pluris che ne attesti la sussistenza, e di esso occorre che vi sia accertamento giudiziale.

4.

I poteri istruttori del Ministro della giustizia e i contenuti del decreto.

Il potere provvedimentale spetta, come già più volte ricordato, al Ministro della giustizia che ha anche il potere di iniziativa e di istruttoria, se pure si preveda che possa essere sollecitato dal Ministro dell’interno. Le ragioni che sono state spese allorché è stata dichiarata l’infondatezza della questione di costituzionalità per una denunciata violazione delle norme sulla libertà personale spiegano anche l’attribuzione dei poteri ad un’autorità di Governo. Non si tratta, infatti, di un aggravamento del sacrificio imposto al bene della libertà personale, già compresso dallo stato detentivo, quanto dell’applicazione di particolari modalità di esecuzione della pena che, come tali, sfuggono alle garanzie della doppia riserva, di legge e soprattutto di giurisdizione, e ricadono naturalmente nell’area di intervento dell’autorità amministrativa. La scelta del Ministro della giustizia, vertice politico dell’amministrazione penitenziaria, trova poi valida giustificazione nella necessità che la gestione delle sospensioni trattamentali sia nelle mani dell’unico organo di vertice capace di regolare i quantitativi di soggetti sottoposti al regime, in modo da mantenerlo nei limiti di ricettività delle strutture detentive [(a) ARDITA, 147]. Nella fase di raccolta degli elementi informativi che possano dare concretezza e specificità al giudizio di pericolosità, il Ministro deve avvalersi del contributo informativo delle direzioni distrettuali antimafia e della direzione nazionale antimafia circa l’operatività delle organizzazioni criminali e le caratteristiche individuali del detenuto. Espressamente la legge, dopo la riforma del 2002, prescrive che il Ministro debba sentire l’ufficio del pubblico ministero che procede alle indagini preliminari ovvero quello presso il giudice che procede, e debba acquisire ogni altra necessaria informazione presso la direzione nazionale antimafia e gli organi di polizia centrali e quelli specializzati nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, terroristica o eversiva, nell’ambito delle rispettive competenze. La diversa descrizione dei ruoli tra direzioni distrettuali e direzione nazionale antimafia potrebbe far pensare che alle une siano riservati poteri consultivi e all’altra solo compiti informativi; ma condivisibilmente è stato osservato che in ragione della funzione di coordinamento investigativo della direzione nazionale

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non sarebbe opportuno creare delle distinzioni funzionali in quest’ambito istruttorio [CORVI, 144]. Nessun dubbio può invece residuare sul fatto che l’espressa previsione dell’adempimento consultivo faccia del parere del pubblico ministero un momento necessario del percorso istruttorio. In tal senso si è espressa la giurisprudenza di legittimità, stabilendo che, ai fini dell’emissione del provvedimento di cui all’art. 41-bis, la sola condizione indefettibile è l’acquisizione del parere del pubblico ministero procedente, mentre resta insindacabile la scelta di procedere o meno ad ulteriori integrazioni istruttorie [Cass., sez. I, 21.10.2008, Belforte, in CED 2008/241939]. In precedenza, però, si era affermato, in senso soltanto parzialmente contrario, che non è configurabile alcuna nullità del provvedimento ministeriale per la mancata acquisizione del parere del pubblico ministero procedente, allorché siano state recepite nel provvedimento medesimo le informative della direzione nazionale antimafia e della direzione distrettuale antimafia, le quali, essendo organismi di coordinamento investigativo tra le diverse procure territoriali, sono edotte sulle vicende concernenti il sodalizio criminoso di appartenenza dell’interessato, ovvero quando quest’ultimo sia detenuto per espiazione di pena a seguito di condanna irrevocabile [Cass., sez. I, 10.1.2005, Lombardo, in CED 2005/230552].

Qualche problema interpretativo di maggiore consistenza sorge per l’individuazione dell’ufficio del pubblico ministero da sentire, perché, se non v’è incertezza nel caso in cui il detenuto sia in stato di restrizione cautelare dovendosi interpellare il pubblico ministero che conduce le indagini o, in fase processuale, quello istituito presso il giudice che procede, di maggiore difficoltà è la scelta per l’ipotesi in cui il detenuto sia in espiazione di pena e a procedere sia pertanto il tribunale di sorveglianza. La soluzione maggiormente accreditata in giurisprudenza è che, ove il soggetto sia ristretto in espiazione di pena, non sia necessario interpellare il pubblico ministero. In tema di regime carcerario previsto dall’art. 41-bis il parere del pubblico ministero non è dovuto con riferimento alla posizione dei condannati in via definitiva, in quanto il testuale tenore del comma 2-bis del citato articolo, come introdotto dall’art. 2 della legge n. 279/2002, prevede che sia sentito l’ufficio del pubblico ministero che procede alle indagini preliminari ovvero quello presso il giudice che procede, sicché la disposizione è riferibile esclusivamente ai detenuti in custodia cautelare e non anche a quelli che si trovano in espiazione di pena in esecuzione di condanna irrevocabile [Cass., sez. I, 14.11.2003, Ganci, in CED 2003/226629].

Una perplessità è invece manifestata da quella parte della dottrina che valorizza il dato testuale della disposizione e da esso desume che l’acquisizione del parere del pubblico ministero non è rimessa alla discrezionalità del Ministro e che parimenti obbligatori sono le richieste di informazioni a direzioni distrettuali e direzione nazionale antimafia, informazioni che sono indispensabili premesse di una corretta decisione [CESARIS, 473]. Si è pure detto [(c) FIORIO, 745] come, successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, la titolarità spetti ad un magistrato della procura generale presso la corte di appello e quella del procuratore nazionale antimafia sia concorrente con quella dei

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magistrati delle procure territoriali, ferma restando la prevalenza della titolarità del primo ove il procedimento abbia ad oggetto delitti compresi nell’art. 51 comma 3-bis c.p.p. L’istruttoria deve mirare all’acquisizione di elementi circa il grado di operatività del gruppo criminale di appartenenza del detenuto, la presenza sul territorio e la potenzialità organizzativa, oltre che in merito alla posizione del detenuto all’interno dell’organigramma associativo, in modo da valutare quale possa essere la capacità di comunicare con l’esterno, di ricevere informazioni ed emanare ordini pur in costanza di restrizione carceraria. In questa fase l’interessato non ha diritto di partecipazione e l’attivazione del pur necessario contraddittorio è rinviata alla fase dell’eventuale reclamo nei confronti del provvedimento ministeriale. Il procedimento amministrativo all’esito del quale è emanato il decreto di applicazione o di proroga del regime di detenzione differenziato ai sensi dell’art. 41-bis non prevede la comunicazione all’interessato dell’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 legge n. 241/1990, sia perché, essendo il provvedimento diretto alla repressione della criminalità, la comunicazione dell’avvio del procedimento – che presuppone la facoltà dell’interessato di accesso agli atti – è esclusa dal divieto posto dal regolamento per la disciplina delle categorie di documenti sottratti al relativo diritto, sia perché l’attività interna svolta dall’Amministrazione ha natura prodromica e si concretizza direttamente con il provvedimento ministeriale che è soggetto a reclamo, a seguito del quale si instaura un procedimento giurisdizionale nell’ambito del quale l’interessato può svolgere tutta l’attività necessaria alla propria difesa [Cass., sez. I, 12.10.2011, Basco, in CED 2011/252061].

Una volta acquisiti i dati e le informazioni necessarie, il Ministro emette il decreto che – lo si è detto – ha oggi un contenuto quasi interamente predeterminato dalla legge. Residua infatti la possibilità di misure atipiche, di elevata sicurezza interna ed esterna, funzionali ad assicurare l’obiettivo individuato specificamente nella «necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate». Nell’indicazione di questo tipo di misure, infatti, si coglie non già il riferimento ad accorgimenti di ordine meramente logistico e organizzativo, come possono essere ad esempio la separazione di ambienti di detenzione o il rafforzamento dei turni di vigilanza, quanto il richiamo a prescrizioni capaci di sospendere istituti dell’ordinamento penitenziario, diverse da quelle specificamente indicate, con la conseguente restituzione al Ministro di un potere discrezionale sul quomodo di una certa consistenza [CORVI, 153]. L’emissione del decreto ministeriale comporta una pluralità di prescrizione limitative, tutte particolarmente gravose. A voler operare una classificazione di importanza, può dirsi che tra le meno incisive si possono annoverare: l’esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati che, a norma del regolamento penitenziario, concorrono alla gestione di alcuni aspetti della vita intramuraria, controllando ad esempio la quali-

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tà e quantità dei generi alimentari e la preparazione del vitto; la limitazione del diritto di permanenza all’aperto, che viene compresso nella misura di una permanenza all’aria aperta non superiore a due ore al giorno, comunque inderogabile il limite minimo di un’ora al giorno, e che non può essere esercitato in gruppi superiori a quattro persone, la cui composizione deve rispondere a criteri di particolare cautela per evitare il rischio che siano comunicati all’esterno ordini, informazioni o notizie; la limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno, interamente affidata alla discrezionalità dell’amministrazione penitenziaria, dato che la disciplina di legge non indica i criteri in forza dei quali questa misura di restrizione debba essere attuata, fermo restando che ogni prescrizione di dettaglio deve essere funzionale allo scopo di assicurare l’ordine e la sicurezza. Circa le restrizioni del diritto di permanenza all’aperto, la Corte costituzionale ha avuto modo di precisare che «la riduzione del limite massimo di due ore (…) può essere sempre oggetto di reclamo al tribunale di sorveglianza, da parte di singoli detenuti, per violazione di un diritto soggettivo (quale, ad esempio, il diritto alla salute), nell’ambito del perdurante controllo di legalità orientato alla tutela dei diritti, di cui s’è detto nei paragrafi che precedono. Non si tratterebbe, in tali ipotesi, di un controllo sulla “congruità” del provvedimento rispetto ai fini di sicurezza, ma dell’accertamento della eventuale lesione di un diritto fondamentale – mai giustificabile, neppure per esigenze di sicurezza – da verificare caso per caso» [C. cost., 28.5.2010, n. 190, in cortecostituzionale.it].

Tra le misure tipizzate di maggiore afflittività, invece, v’è anzitutto quella diretta a limitare i contatti con l’esterno, con l’esclusione della possibilità di colloqui che non siano con familiari o conviventi, salvo casi eccezionali da determinarsi di volta in volta. I colloqui con familiari o conviventi sono poi drasticamente ridotti nella misura di uno al mese e senza possibilità di concessione, nemmeno in via eccezionale, di un secondo colloquio. Si prevede che essi si svolgano in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti, con sottoposizione al controllo visivo ad opera della polizia penitenziaria e ad un controllo auditivo con registrazione, previa motivata autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente per la necessità di rispettare la riserva di giurisdizione nelle limitazioni delle comunicazioni. I rilievi dottrinali critici, che già erano stati espressi circa la possibilità di ascolto e registrazione dei colloqui in assenza di una predeterminazione legislativa dei presupposti e della fissazione della durata e della finalità di queste operazioni di intercettazione [FILIPPI, SPANGHER, 180], sono ora maggiormente giustificati dalla previsione dell’ultima novella, secondo cui i colloqui devono in ogni caso essere sottoposti a controllo auditivo e a registrazione con obbligo di videoregistrazione, senza che alla generalizzata imposizione di queste misure così invadenti nella sfera dei diritti costituzionali si sia accompagnata la specificazione dei presupposti, dei tempi e dei modi delle relative operazioni [CORVI, 156]. Oggetto di restrizione è anche la facoltà di comunicazione telefonica con i familiari: nel regime di detenzione di cui all’art. 41-bis non sono previsti contatti telefonici nei primi sei mesi di applicazione del relativo provvedimento e solo

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successivamente può essere autorizzato – da parte del direttore dell’istituto o dell’autorità giudiziaria procedente ove si tatti di detenuto per misura cautelare – un colloquio al mese della durata massima di dieci minuti, e soltanto in sostituzione del colloquio diretto con i familiari. Anche il colloquio telefonico è oggetto di ascolto e registrazione e si è opportunamente evidenziato che, pur nel silenzio legislativo sul punto, occorre comunque l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria per procedere all’ascolto e alla registrazione, in applicazione della disposizione di cui all’art. 39 comma 7 reg. pen., secondo cui, in conformità al precetto costituzionale di cui all’art. 15, spetta all’autorità giudiziaria competente il potere di disporre l’ascolto e la registrazione delle conversazioni dei detenuti [CORVI, 157]. Una disciplina particolare è dettata per le comunicazioni con i difensori, prevedendosi che si possano avere contatti fino al massimo di tre volte per settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari. In questa ulteriore limitazione, rispetto al precedente regime normativo che non poneva limiti ai colloqui con i difensori, si è individuato un potenziale contrasto con la tutela costituzionale del diritto di difesa nella misura in cui le modalità di esercizio del diritto sono subordinate a scelte discrezionali dell’amministrazione [(b) FIORIO, 414]. I rilievi critici della dottrina hanno trovato riscontro nella decisione con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della norma sulle limitazioni ai colloqui con il difensore per contrasto con il principio dell’inviolabilità del diritto di difesa, in particolare eliminando dalla disposizione di cui all’art. 41-bis comma 2-quater lettera b), ultimo periodo, le parole «con i quali potrà effettuarsi, fino a un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari» [C. cost., 20.6.2013, n. 143]. La Corte ha osservato che le limitazioni introdotte dalla novella del 2009 consistono in «restrizioni rigide, indefettibili e di lunga durata», e sono quindi ben diverse da quelle che possono essere discrezionalmente apposte dal giudice della cautela, a norma dell’art. 104 c.p.p., nei confronti dell’imputato in custodia cautelare che voglia conferire con il difensore. Ancora – ha aggiunto la Corte –, le restrizioni in esame operano invariabilmente, quale che sia la natura e la complessità dei procedimenti nei quali il detenuto in regime speciale sia coinvolto, e indipendentemente dal grado di urgenza degli interventi difensivi richiesti e dal loro numero. Ha quindi evidenziato che il diritto di difesa può essere posto in bilanciamento con altre esigenze di rango costituzionale – quali possono essere quelle legate alla protezione dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini nei confronti della criminalità organizzata –, a condizione che non ne risulti compromessa l’effettività. Ed ha così concluso che «il contingentamento, rigido e prolungato nel tempo, dei momenti di contatto tra il detenuto e i suoi difensori intacca» il nucleo essenziale del diritto di difesa, «non essendo possibile presumere, in termini assoluti, che tre colloqui visivi settimanali di un’ora, o telefonici di dieci minuti, consentano in qualunque circostanza un’adeguata ed efficace predisposizione delle attività difensive».

Ulteriori limitazioni sono stabilite per la corrispondenza epistolare e telegrafica, che è sottoposta al visto di controllo salvo che non si tratti di corrispondenza con membri del Parlamento o con Autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia. La mancata espressa previsione di un intervento autorizzatorio dell’autorità giudiziaria, peraltro costituzionalmente imposto dalla natura dell’oggetto del controllo limitativo [in questo senso (b) FILIPPI,

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SPANGHER, 215, individuano un’illegittimità costituzionale del visto di censura della corrispondenza], trova rimedio nella lettura correttiva della complessiva disciplina, dovendosi ritenere che le disposizioni dell’art. 41-bis siano speciali ma non derogatorie rispetto alle regole generali sul controllo della corrispondenza dei detenuti, di cui agli artt. 18 e 18-ter ord. pen., ove si prescrive che la libertà di corrispondenza può essere limitata, su richiesta del pubblico ministero o su proposta del direttore dell’istituto penitenziario, con decreto motivato del magistrato di sorveglianza. La conseguenza è che, pur in caso di emissione del decreto ministeriale ex art. 41-bis, il direttore dell’istituto penitenziario deve comunque richiedere al giudice l’autorizzazione per la sottoposizione a visto della corrispondenza del detenuto [BERNASCONI, 305]. 5. Le condizioni per la proroga del regime di restrizione. Si è già detto che, per effetto dell’ultima riforma del 2009, la disciplina in esame ha subito un aggravamento con la previsione di una durata predeterminata di quattro anni, e con la possibilità di proroghe, ciascuna di due anni, per un numero indefinito di volte. Il particolare rigore normativo si apprezza anche sul piano dei presupposti delle eventuali proroghe, che non coincidono con quelli necessari all’emissione del provvedimento. È la legge a stabilire che ai fini del provvedimento di proroga occorre soltanto la condizione – negativa – che non risulti la sopravvenuta mancanza della capacità del detenuto o dell’internato di mantenere i contatti con associazioni criminali, terroristiche o eversive. Non è allora necessario che vi sia prova della sussistenza di collegamenti attuali con l’organizzazione criminale operante all’esterno, dal momento che proprio l’applicazione del regime di restrizione è la causa della recisione dei legami in ragione dei quali è stato disposto. Quel che invece viene in rilievo in occasione della proroga è la capacità del detenuto di intessere nuovamente i rapporti con l’organizzazione di appartenenza, ove fosse revocato il regime speciale di detenzione carceraria [CORVI, 180]. È stato però osservato [GROSSO, 742] che la legge del 2009, mutando la formula letterale – «quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti (…) non è venuta meno» –, ha reso chiaro come la detta capacità sia elemento che debba risultare in positivo in vista del prolungamento del regime di rigore. In questa prospettiva è stato affermato che la proroga del regime di detenzione differenziata non può trovare giustificazione soltanto nella permanenza in vita dell’associazione mafiosa e nell’assenza di atteggiamento collaborativo da parte del detenuto che con detta associazione abbia tenuto contatti [Cass., sez. I, 14.1.2009, Riedo, in CED 2009/242797]. Devono piuttosto emergere dati di fatto che facciano fondatamente presumere la sopravvenuta perdita della capacità di intrattenere relazioni criminali. In questo senso si è detto che l’accoglimento del ricorso avverso il provvedimento di proroga del regime detentivo differenziato implica l’individuazione di elementi specifici e concreti indicativi della sopravvenuta carenza di pericolosità sociale, che non possono identificarsi con il mero trascorrere del tempo dalla prima applicazione del

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regime differenziato, né essere rappresentati da un apodittico e generico riferimento a non meglio precisati risultati dell’attività di trattamento penitenziario [Cass., sez. I, 3.2.2009, Calabrò, in CED 2009/243736]. Si è pure precisato che ai fini della proroga non è necessario l’accertamento della permanenza dell’attività della cosca di appartenenza e la mancanza di sintomi rilevanti, effettivi e concreti, di una dissociazione del condannato dalla stessa, essendo sufficiente la potenzialità, attuale e concreta, di collegamenti con l’ambiente malavitoso che non potrebbe essere adeguatamente fronteggiata con il regime carcerario ordinario [Cass., sez. I, 2.12.2008, Rogoli, in CED 2008/242071]. In ogni caso devono essere evitate motivazioni meramente apparenti, che non diano il senso di un approfondimento serio ed effettivo circa le ragioni che sorreggono la proroga del regime di rigore. Per il decreto di proroga è richiesta un’autonoma e congrua motivazione in ordine all’attuale persistenza del pericolo per l’ordine e per la sicurezza, non potendosi consentire, per una sorta d’inammissibile automatismo, semplici e immotivate proroghe del regime differenziato, ovvero motivazioni apparenti o stereotipe, inidonee a giustificare in termini di concretezza e attualità le misure disposte [Cass., sez. I, 7.3.2008, Belforte, in CED 2008/240141].

La formula di collegamento della proroga all’assenza di prova della sopravvenuta incapacità di intrattenere rapporti con l’organizzazione criminale, introdotta dal legislatore del 2002, è stata oggetto di scrutinio di costituzionalità, superato attraverso un’interpretazione correttiva nel solco di quelle che avevano già consentito il mantenimento dell’eccezionale istituto all’interno dell’ordinamento penitenziario. Il giudice delle leggi ha richiamato la giurisprudenza di legittimità che, recepiti i principi fissati nelle precedenti decisioni di infondatezza di questioni di costituzionalità, affermava la necessità di un’autonoma e congrua motivazione in ordine all’attuale esistenza del pericolo per l’ordine e la sicurezza derivante dalla persistenza dei vincoli con la criminalità organizzata e della capacità del detenuto di mantenere contatti con essa; ha quindi osservato come la giurisprudenza di legittimità evidenziasse che l’inciso normativo «purché non risulti che la capacità del detenuto o dell’internato di mantenere contatti con associazioni criminali, terroristiche o eversive sia venuta meno» non si risolve in un’inversione dell’onere della prova, perché è comunque obbligo del Ministro di dare congrua motivazione in ordine agli elementi da cui “risulti” la persistenza del pericolo che il condannato abbia contatti con associazioni criminali o eversive. Ha quindi concluso che il provvedimento di proroga deve contenere un’adeguata motivazione sulla permanenza dei presupposti che legittimano l’applicazione del regime differenziato, vale a dire sugli specifici ed autonomi elementi da cui risulti la persistente capacità del condannato di tenere contatti con le organizzazioni criminali [C. cost., 23.12.2004, n. 417 (ord.), in cortecostituzionale.it]. Si è così data risposta ai rilievi dottrinali [FILIPPI, 31], secondo cui si poneva a carico del detenuto una «prova diabolica, non essendo evidentemente possibile offrire la prova di ciò che non sussiste, cioè l’inesistenza di legami con organizzazioni criminali …»; e non può quindi condividersi la tesi dottrinale secondo cui la disciplina ripartisce l’onere di prova tra Ministro e interessato, facendo carico al primo, in sede di emissione del provvedimento, di provare la pericolosità del detenuto, il vincolo con l’associazione criminale e la capacità di mantenere i collegamenti con l’esterno; e al secondo di evidenziare il venir meno di

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tali collegamenti, sempre che il Ministro non abbia di ciò avuto conoscenza per altra via [(c) ARDITA, 115]. Vero è, specie in esito alla riforma chiarificatrice del 2009, che spetta al Ministro, se intenda prorogare il regime speciale, «fornire in prima battuta la prova della permanenza» con la criminalità associata [GROSSO, 743]. Il Ministro ha il compito di verificare se la presunzione di permanenza della pericolosità del detenuto sia da confermare o, invece, trovi in specifici elementi di fatto le ragioni del suo superamento. È necessario quindi, affinché la proroga sia preclusa, che emergano fatti nuovi di segno contrario a quelli indicati dal provvedimento dispositivo, i cui presupposti non possono essere messi in discussione se non per effetto di nuove emergenze probatorie una volta che si sia consolidato con l’esperimento infruttuoso dei rimedi impugnatori. In tal senso si è espressa la giurisprudenza: alla stregua delle modifiche introdotte dall’art. 2 della legge 23.12.2002, n. 279, al testo dell’art. 41-bis, in base alle quali il provvedimento ministeriale di sospensione delle regole del trattamento è prorogabile alla sola condizione che non risulti venuta meno la già riconosciuta capacità del condannato di mantenere contatti con associazioni criminali, terroristiche o eversive, il tribunale di sorveglianza, investito di reclamo avverso il provvedimento di proroga, in tanto può censurare l’eventuale difetto di motivazione in ordine all’attuale pericolosità del soggetto, in quanto l’originario provvedimento impositivo del trattamento differenziato non sia stato a suo tempo oggetto di reclamo e la relativa decisione di merito non sia passata in giudicato, così dando luogo ad una preclusione sul punto [Cass., sez. I, 14.11.2003, Mazzitelli, in CED 2003/226471].

Per quanto concerne, infine, le situazioni sintomatiche della persistenza della capacità di riprendere i contatti con l’organizzazione criminale, la legge n. 94/ 2009 ha dettato alcuni criteri per orientare la discrezionalità ministeriale, mutuati dalla pregressa elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. Si è così stabilito, senza alcuna pretesa di esaustività, che la persistente pericolosità possa essere desunta dal profilo criminale del detenuto; dai risultati del trattamento penitenziario; dalla pregressa posizione del detenuto all’interno del gruppo criminale di appartenenza, ed in particolare dal ruolo di peculiare rilievo eventualmente assunto; dal tenore di vita dei familiari e dai rapporti che questi possano detenere con l’organizzazione, anche in vista dell’ottenimento di aiuti economici; dalla sopravvenienza di nuove incriminazioni prima non valutate; dalla persistente operatività del gruppo associativo o dell’articolazione organizzativa di immeditato riferimento. Si è invece escluso che il mero decorso del tempo possa essere, di per sé, dato sufficiente all’esclusione della capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione, e questa espressa precisazione di legge è stata intesa nel senso della volontà di limitare gli annullamenti di alcuni tribunali di sorveglianza soprattutto in riferimento a soggetti che occupavano posizioni apicali [DELLA BELLA, 454] e di far sì che i tribunali di sorveglianza valutino il decorso del tempo quale elemento imprescindibile ai fini della valutazione sulla proroga [LAURICELLA, 2075]. In dottrina si è anche opportunamente segnalato che l’indice soggettivo della posizione rivestita all’interno dell’associazione criminale deve essere verificato

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con riferimento sia al periodo precedente la detenzione che al periodo di detenzione, perché occorre monitorare sia la posizione che il detenuto riesce a procurarsi all’interno del carcere che, all’opposto, detta posizione con riguardo alla possibilità che abbia subito variazioni in relazione al tempo trascorso in regime speciale, facendo riferimento ai nuovi ed eventuali assetti interni del sodalizio di appartenenza. È ragionevole, infatti, ipotizzare che, dopo un periodo di tempo trascorso in regime di isolamento, la posizione originaria possa essersi modificata [GROSSO, 745]. Si è ritenuto invece del tutto improprio il riferimento ad altro indice, quello della valutazione degli esiti del trattamento penitenziario, dato che il trattamento riservato ai detenuti in regime speciale non sembra nei fatti offrire alcuna prospettiva rieducativa, risocializzante e individualizzata; e che, per altro verso, non è seriamente comprensibile come possa assumere rilievo la buona condotta, dal momento che la sospensione delle normali regole di trattamento è diretta a prevenire il collegamento con l’associazione di provenienza [GROSSO, 747]. La giurisprudenza già aveva affermato che in tema di proroga della sospensione dell’applicazione delle regole di trattamento penitenziario, ex art. 41-bis, la sussistenza dei collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale deve consistere nella concreta possibilità per il condannato di riprendere i vincoli associativi e di continuare ad essere utile alla organizzazione anche all’interno del circuito carcerario ordinario, qualora il regime detentivo differenziato dovesse venire meno. Per valutare tali requisiti occorre tenere conto di vari parametri, quali, ad esempio, il profilo criminale del soggetto, i risultati del trattamento penitenziario, la pregressa posizione dello stesso all’interno della “cosca” di appartenenza, l’operatività del sodalizio criminale alla luce delle informazioni fornite dalle autorità, il tenore di vita dei familiari; non è peraltro necessaria l’analisi e l’utilizzazione di tutti i parametri, essendo sufficiente anche la presenza di alcuni di essi, purché le risultanze non siano in contraddizione con elementi di elevato spessore, quali, ad esempio, la dissociazione o la prova dell’avvenuta estromissione del detenuto dal circuito criminale [Cass., sez. I, 3.3.2006, Di Giacomo, in CED 2006/233944]. Si consideri, ancora, che il provvedimento di proroga deve contenere un’adeguata valutazione sulla permanenza dei dati indicativi del collegamento del detenuto con la criminalità organizzata ed eversiva (la Corte nella specie ha ritenuto adeguatamente motivato il decreto di proroga con il richiamo al ruolo di vertice ricoperto dalla persona detenuta nell’organizzazione eversiva, alla possibilità di una ripresa della lotta armata ad opera di tale sodalizio, ai dati di recente acquisizione indicativi del mantenimento di siffatto ruolo e dell’esistenza di contatti tra militanti dell’organizzazione eversiva detenuti e militanti in libertà) [Cass., sez. I, 22.1.2008, Lioce, in CED 2008/242784]. La motivazione sulla base della quale il tribunale di sorveglianza respinga il reclamo proposto dal detenuto avverso il decreto di proroga del regime differenziato non può basarsi sul presupposto che gravi sull’interessato l’onere di dimostrare la cessazione dei collegamenti con la criminalità organizzata, dovendo essa invece contenere la valutazione critica degli elementi sui quali si basa il decreto di proroga; elementi che non possono consistere nella semplice riproduzione della “biografia delinquenziale” del condannato, non accompagnata da riferimenti ad altre e concrete circostanze idonee a provare l’attuale pericolosità del soggetto [Cass., sez. I, 30.3.2006, Orefice, in CED 2006/234844]. Da ultimo si è precisato che il provvedimento di proroga può essere adottato qualora risulti che la pericolosità specifica dell’internato non sia venuta meno e dunque lo stesso deve risultare motivato esclusivamente in relazione a tale presupposto [Cass., sez. V, 25.1.2012, Russo, in CED 2012/253759].

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6. I rimedi impugnatori. Il reclamo. Si è già detto come inizialmente la legge non prevedesse forme di controllo sul provvedimento ministeriale e che fu la Corte costituzionale a individuare nel sindacato del giudice ordinario, e specificamente della magistratura di sorveglianza, la via obbligata per far salva la costituzionalità della normativa. Le indicazioni del giudice delle leggi furono recepite dal legislatore che, con la legge n. 11/1998, interpolò il comma 2-bis dell’art. 41-bis, affidando al tribunale di sorveglianza, ovvero a quello con giurisdizione sull’istituto di detenzione, la decisione sui reclami, con competenza territoriale immutabile pur in occasione di successivi trasferimenti in altri istituti di restrizione. Ma la piena attuazione delle prescrizioni costituzionali è stata opera di una successiva riforma, affidata alla legge n. 279/2002, che ha delineato un autonomo sistema di impugnazione sia del decreto applicativo del regime speciale sia del decreto di proroga, con un disciplina dettagliata delle modalità di attuazione del controllo. Al detenuto o all’internato raggiunto da un provvedimento ex art. 41-bis o da un relativo provvedimento di proroga, o anche al loro difensore, è data la facoltà di proporre reclamo, nel termine perentorio di dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento, dinanzi al tribunale di sorveglianza avente giurisdizione sull’istituto nel quale l’interessato è detenuto. Il tribunale, a sua volta, nel termine di dieci giorni dal ricevimento del reclamo, deve decidere in camera di consiglio, nelle forme dettate per il procedimento di sorveglianza. L’ambito del controllo è esteso ai presupposti per l’adozione del provvedimento e alla congruità del contenuto dello stesso in riferimento alle esigenze di ordine e di sicurezza. Avverso la decisione del tribunale di sorveglianza è ammesso ricorso per cassazione ma solo per violazione di legge. Questo sistema è stato ulteriormente modificato dalla legge n. 94/2009. È stato ampliato il termine a disposizione dell’interessato e del suo difensore per la proposizione del reclamo – ora pari a venti giorni dalla comunicazione – e ciò per consentire un più ampio periodo per la predisposizione delle doglianze in riguardo ad un atto la cui durata è ora prefissata dalla legge in termini di particolare rigore – quattro anni per il provvedimento applicativo e due anni per le proroghe. È stata attribuita la competenza al tribunale di sorveglianza di Roma ed è stata inoltre prevista la possibilità che le funzioni di pubblico ministero all’udienza camerale possano essere svolte dal procuratore nazionale antimafia; quest’ultimo ha anche il potere di ricorso per cassazione, al pari del pubblico ministero che procede alle indagini preliminari o di quello istituito presso il giudice che procede, e del procuratore generale presso la corte di appello. Le linee essenziali della disciplina danno pienamente conto della natura giurisdizionale del reclamo, sia in ragione dell’autorità chiamata a decidere, sia per le forme che questa deve osservare per la definizione del procedimento, sia, infine, per la proponibilità del ricorso per cassazione avverso la decisione assunta.

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Il reclamo rientra a buon diritto tra i mezzi di gravame, e soggiace quindi, in assenza di contrarie previsioni, alle disposizioni generali sulle impugnazioni contenute nel codice di rito quanto, ad esempio, a modalità di proposizione, forma scritta e motivata, interesse concreto ed attuale come requisito di ammissibilità. Su questa premessa si è affermato – in riferimento ad un ricorso per cassazione avverso ordinanza del tribunale di sorveglianza, che aveva rigettato il reclamo del detenuto sottoposto a regime di sorveglianza ai sensi dell’art. 41-bis, cessato nelle more del giudizio di cassazione – che il requisito dell’interesse richiesto per l’ammissibilità delle impugnazioni deve sussistere, oltre che nel momento della proposizione del gravame, anche in quello della sua decisione, e deve configurarsi in maniera concreta e attuale, e non già come pretesa all’esattezza giuridica della decisione sotto un profilo unicamente teorico [Cass., sez. I, 29.9.1994, Bruzzise, in CED 1994/199607]. Si è pure fatto richiamo alla regola della riqualificazione officiosa dell’impugnazione, ai fini della valutazione di ammissibilità, prevedendo che contro il provvedimento di cui all’art. 41-bis non è immediatamente proponibile ricorso per cassazione, ma reclamo al tribunale di sorveglianza e che, solo dopo l’esaurimento di tale grado di giudizio, può essere proposto ricorso per cassazione, con la conseguenza che il ricorso per cassazione direttamente proposto va qualificato come reclamo ai sensi dell’art. 14-ter della legge n. 354/1975 e gli atti vanno trasmessi, in applicazione estensiva dell’art. 568 comma 5 c.p.p., al competente tribunale di sorveglianza [Cass., sez. I, 6.7.1995, Ganci, in CED 1995/202433]. L’assimilazione al genus degli strumenti di impugnazione è la premessa per concludere nel senso della necessità che sia corredato, a pena di inammissibilità, dei prescritti motivi, secondo la disciplina dettata dagli artt. 581 lett. c) e 591 comma 1 lett. c) c.p.p., senza che all’eventuale mancanza di motivi possa sopperirsi mediante produzione di memorie, ai sensi dell’art. 666 comma 3 c.p.p. [Cass., sez. I, 6.5.2003, Cammarata, in CED 2003/225748; v. anche, in tale ultimo senso, Cass., sez. I, 10.11.2009, Chindamo, in CED 2009/245683].

La legittimazione spetta, come prima accennato, anche al difensore del detenuto o dell’internato, ma per quest’aspetto si registra qualche difficoltà interpretativa in ordine alla determinazione del dies a quo del termine per la proposizione del suo reclamo. La legge, infatti, non prescrive che il Ministro, al momento dell’emissione del provvedimento, nomini un difensore per poi notificargli il provvedimento medesimo, e ciò in ragione della natura meramente amministrativa dell’attività svolta. Si è allora detto che il termine per il reclamo decorre in ogni caso dal giorno della comunicazione del provvedimento all’interessato, il quale ben può nominare un difensore per la proposizione del reclamo. Tale orientamento interpretativo – che in giurisprudenza è stato espresso da Cass., sez. I, 13.1.2010, Smorta, in CED 2010/246066 – è, più di recente, mutato, in accoglimento di una lettura di maggiore garanzia dell’intero complesso della normazione, anche non legislativa. Si è infatti osservato che a seguito della previsione espressa del diritto di reclamo in capo al difensore – legge n. 279/2002 – il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha emanato la circolare n. 100844 del 9 ottobre 2003 (cosiddetta “Circolare 41-bis”), a norma della quale i direttori degli istituti penitenziari hanno il dovere: di provvedere alla formale notifica ed esecuzione del provvedimento, previa consegna di copia integrale al detenuto; di chiedere a quest’ultimo quale sia il difensore nominato per l’esercizio dell’eventuale facoltà di impugnazione, dando atto nel verbale di notifica dell’eventuale

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nomina; di dare comunicazione ai difensori dell’emissione e avvenuta notifica del provvedimento al proprio assistito. Si è quindi argomentato che la previsione di una comunicazione al difensore, sia pure in forza di norme sottordinate, vincolanti per l’amministrazione e con rilevanza esterna, conduce a ritenere che la disposizione legislativa implicitamente prescriva un obbligo di comunicazione del decreto al difensore. A siffatta conclusione si giunge considerando che l’immediata efficacia del decreto, e delle conseguenti limitazioni, anche per quanto attiene ai colloqui, riducono fortemente le possibilità di comunicazione dell’interessato con il difensore e incidono perciò «sulla esplicazione del diritto ad articolare una difesa tecnica godendo interamente del termine assegnato per la proposizione del reclamo». Di qui la conclusione secondo cui, qualora il decreto di applicazione o di proroga sia stato notificato anche al difensore, in ossequio alla menzionata circolare, il termine per il difensore decorre dal momento della notifica a lui effettuata [Cass., sez. I, 19.12.2011, Coluccio, in CED 2011/ 251851]. -

6.1. (Segue) Il procedimento e i poteri del tribunale di sorveglianza. – In base all’ultima riforma, del 2009, il tribunale di sorveglianza competente a conoscere dei reclami è quello di Roma, quale che sia il luogo di detenzione dell’interessato. In precedenza, invece, la competenza territoriale era segnata dal luogo di detenzione, perché era previsto che la competenza fosse del tribunale avente giurisdizione sull’istituto penitenziario al quale il detenuto era assegnato. Tale regola – per quanto derogatoria rispetto a quella generalmente prevista dall’art. 677 c.p.p. che utilizza come criterio il luogo di custodia al momento della richiesta – era rispettosa del principio del giudice naturale, appunto perché radicava la competenza in base al luogo di detenzione e, quindi, individuava il giudice della questione in quello maggiormente capace di conoscere e valutare la personalità del detenuto, il suo comportamento carcerario, gli esiti del trattamento rieducativo e la pericolosità individuale. Era inoltre ispirata all’esigenza di evitare che l’amministrazione penitenziaria potesse incidere, trasferendo temporaneamente il detenuto, sull’individuazione del giudice competente a decidere sulla legittimità del suo operato. La recente riforma ha inteso invece rispondere ad altro tipo di bisogno: assicurare uniformità nelle decisioni ed evitare la pluralità di orientamenti interpretativi e di soluzioni applicative in una materia così delicata; ha però trascurato, oltre che il principio di naturalità, l’opportunità che la valutazione della personalità del detenuto, implicata dal controllo sul provvedimento, sia affidata all’organo più vicino alla realtà penitenziaria dell’interessato. Qualche voce dottrinale ha invece escluso che la nuova normativa violi il principio del giudice naturale, apprezzandone al contempo l’opportunità, nella misura in cui la vicinanza tra giudice e detenuto è essenziale quando occorra valutare il comportamento del condannato in chiave rieducativa-trattamentale, ma non rileva quando il giudice sia chiamato a decidere sui presupposti di applicazione o mantenimento del regime differenziato [DELLA BELLA, 461]. Di

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maggiore pregnanza sembra, piuttosto, il rilievo dottrinale sulla dubbia opportunità dell’individuazione del giudice nel tribunale di sorveglianza pur in riferimento ai reclami sui provvedimenti ex art. 41-bis adottati nei confronti dei detenuti in fase cautelare, che sarebbero stati meglio trattati dal tribunale del riesame [(c) ARDITA, 136].

Il procedimento si svolge, secondo quanto previsto dagli artt. 678 e 666 c.p.p., nelle forme camerali e, quindi, senza la pubblicità dell’udienza pubblica e con la partecipazione necessaria del difensore del detenuto e del pubblico ministero. Circa l’assenza di pubblicità si è detto in giurisprudenza che l’orientamento accolto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. 13.11.2007, Bocellari e Rizza c/Italia) in tema di pubblicità del procedimento di prevenzione non può essere esteso in via analogica alla procedura relativa al reclamo avverso il decreto di proroga del regime di sospensione delle regole del trattamento penitenziario ai sensi dell’art. 41-bis comma 2 [Cass., sez. I, 26.2.2008, Cucurachi, in CED 2008/240137].

Seppure non sia prevista la partecipazione di un rappresentante del Ministro della giustizia, che potrebbe invero meglio illustrare le ragioni del provvedimento, la possibilità che intervenga il pubblico ministero che ha condotto le indagini o quello che è istituito presso il giudice che procede, o, ancora, il procuratore nazionale antimafia – tutti soggetti necessariamente coinvolti nella fase istruttoria – rimedia al pericolo che non siano travasate nel procedimento le informazioni necessarie a ben valutare la sussistenza o meno dei presupposti del provvedimento. Di contro, la previsione dell’intervento dell’interessato compensa il divieto che facoltà e diritti di partecipazione in contraddittorio siano esercitabili nella fase che precede l’emissione del provvedimento, in forza di una costante e conforme lettura del sistema normativo, come in precedenza si è ricordato. Essi trovano naturale collocazione nel giudizio di reclamo, nel corso del quale devono essere messi a disposizione dell’interessato e del suo difensore gli atti e i documenti a cui non hanno potuto avere accesso in precedenza. Nel procedimento amministrativo volto all’applicazione o alla conferma del regime di detenzione differenziato non sono violati i diritti di difesa, tenuto conto delle garanzie di conoscibilità degli atti contenuti nel fascicolo, della facoltà di estrarne copia, nonché della possibilità, concessa sia nel corso dell’istruttoria che durante l’udienza innanzi al tribunale di sorveglianza, di dedurre ed espletare tutte le prove richieste dall’interessato [Cass., sez. I, 20.9.2005, Santaiti, in CED 2005/232946]. E ciò anche se, in altra occasione, è stato affermato che l’omesso deposito degli atti richiamati dal decreto ministeriale non ne determina l’illegittimità, perché nessuna norma impone il deposito delle informative rituali e, d’altro canto, il loro contenuto è ampiamente riportato nel decreto stesso, in modo da consentire lo svolgimento di un’idonea strategia difensiva senza pregiudizio per le esigenze di necessaria cautela e di riservatezza connesse con il divieto di esame degli atti suddetti nel corso del procedimento amministrativo [Cass., sez. I, 13.10.2005, Cillari, in CED 2005/232687].

In dottrina [CAPRIOLI, VICOLI, 389] si è opportunamente osservato che il richiamo alle disposizioni del procedimento ordinario di sorveglianza comporta

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che l’interessato non possa far valere un diritto incondizionato alla partecipazione personale all’udienza camerale, essendo tale diritto riconosciuto soltanto a chi si trovi detenuto nella circoscrizione del giudice procedente; e che, però, la previsione, per effetto della novella della legge n. 94/2009, dell’applicabilità delle disposizioni di cui all’art. 146-bis disp. att. c.p.p., ossia di quelle in materia di collegamento audiovisivo, comporta che il giudice, ove il detenuto o l’internato ne faccia richiesta, abbia il dovere di attivare il collegamento a distanza, ovunque il richiedente si trovi ristretto, dato che, già in forza del combinato disposto degli artt. 45-bis e 146-bis, comma 1-bis, disp. att. c.p.p., si riteneva doverosa, ricorrendone i presupposti, l’attivazione del collegamento audiovisivo. Quanto ai poteri di cognizione e di decisione del tribunale di sorveglianza si è già detto come la giurisprudenza costituzionale abbia evidenziato la necessità della pienezza del sindacato giurisdizionale: dai presupposti applicativi del provvedimento al suo contenuto, anche in relazione al profilo di congruità delle misure disposte in vista dei fini di legge [C. cost., 18.10.1996, n. 351, in cortecostituzionale.it]. La giurisprudenza di legittimità, dal canto suo, interpretò le indicazioni del giudice delle leggi nel senso che si dovessero superare i confini della mera impugnazione sull’atto per una piena conoscenza e valutazione delle situazioni soggettive da esso implicate. Atteso l’orientamento espresso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 351/1996, secondo cui, in caso di reclamo, il tribunale di sorveglianza non eserciterebbe nei confronti del detto provvedimento una giurisdizione di impugnazione dell’atto, ma si limiterebbe a pronunciarsi sui diritti e sul trattamento del detenuto sulla base delle norme legislative e regolamentari applicabili, con conseguente pienezza del sindacato giudiziale anche sulle singole misure restrittive, onde verificarne la compatibilità con i principi di individualizzazione e di proporzionalità di cui agli artt. 3 e 27 commi 1 e 3 Cost., deve ritenersi che legittimamente il suddetto tribunale dichiari l’inefficacia di limitazioni dell’ordinario regime penitenziario in materia di colloqui con i familiari, di ricezione di pacchi dall’esterno e di permanenza all’aria aperta, in quanto reputate irrilevanti ai fini della tutela dell’ordine e della sicurezza ed al tempo stesso in manifesto contrasto con i diritti fondamentali dell’uomo carcerato [Cass., sez. I, 19.12.1997, Di Giacomo, in CED 1997/209469].

L’orientamento prevalente affermò, poi, che il controllo dovesse essere esercitato muovendo dalla premessa che oggetto d’esame era un atto amministrativo e che quindi fosse necessario far riferimento alla legge abolitrice del contenzioso amministrativo – legge 20.3.1865, n. 2248, all. E – in ordine al sindacato del giudice ordinario sull’atto amministrativo. In questa direzione si disse che rientrava nell’ambito dei poteri di controllo del tribunale di sorveglianza la disapplicazione, per illegittimità, delle disposizioni in essi contenute che prevedono la sospensione delle regole di trattamento, allorché determinino una maggiore afflittività della pena non giustificata da esigenze di ordine e di sicurezza (nella specie, è stata ritenuta corretta la decisione del tribunale di sorveglianza che aveva dichiarato illegittimo il decreto ministeriale nella parte in cui riduceva ad uno al mese il numero dei colloqui del detenuto con i familiari e imponeva limitazioni alla ricezione di pacchi) [Cass., sez. I, 4.11.2004, Fisicaro, in CED

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2004/230165]. Si aggiunse che il tribunale di sorveglianza poteva sindacare la legittimità del provvedimento amministrativo con il quale un detenuto venisse sottoposto al regime speciale, ma non ne poteva valutare il merito disapplicando singole prescrizioni ritenute ingiustificate. Oggetto del giudizio non è, infatti, il provvedimento adottato dal Ministro, bensì il diritto soggettivo del detenuto che si pretende leso dal provvedimento amministrativo nel suo complesso o attraverso una delle disposizioni in esso contenute, e tale lesione può ritenersi sussistente quando l’atto sia affetto da vizi di legittimità, generalmente indicati con la formula «incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge». In tal caso la disapplicazione discende dal principio generale contenuto nell’art. 5 della legge 20.3.1865, n. 2248, all. E, ma resta escluso il sindacato nel merito del provvedimento che non può essere revocato o modificato se non dall’autorità amministrativa che lo ha emesso [Cass., sez. I, 1.2.1996, Gambino, in CED 1996/204349].

Si aggiunse che nell’ambito di un controllo di tal tipo potevano essere oggetto di censura anche soltanto singole disposizioni del provvedimento. Il sindacato di legittimità può riguardare non soltanto il provvedimento nel suo complesso, ma anche le singole disposizioni di esso, così da verificare, pur senza sconfinare nel merito, se le stesse non ledano i diritti soggettivi del detenuto. In caso di riscontrata esistenza di vizi di legittimità dell’atto, l’autorità giudiziaria non può peraltro annullarlo, ma solo disapplicarlo, in conformità a quanto previsto in via generale dall’art. 4 comma 2 della legge 20.3.1865, n. 2248, all. E [Cass., sez. I, 4.10.1996, Vallanzasca, in CED 1996/207716].

Le appena indicate soluzioni interpretative oggi non sono più in linea con la disciplina positiva, dal momento che la legge n. 94/2009 ha ridimensionato i poteri giurisdizionali di controllo, limitandoli espressamente alla verifica di sussistenza dei presupposti dell’adozione del provvedimento con esclusione dell’apprezzamento di congruità del contenuto. Ciò con ogni probabilità è la logica conseguenza del fatto che la stessa legge ha predeterminato il contenuto del provvedimento sospensivo, specificando sin nel dettaglio quali possano essere le singole restrizioni, il che ha reso superflua una valutazione circa l’idoneità delle singole misure rispetto al fine. La Corte costituzionale ha però osservato che «la forte riduzione della discrezionalità ministeriale nella individuazione delle misure conseguenti alla sospensione del trattamento ordinario del detenuto, con l’introduzione di un elenco di restrizioni tassativamente indicate dalla legge, ha determinato la scomparsa del riferimento testuale al controllo sulla congruità dei mezzi rispetto ai fini, ma non ha certamente eliminato il controllo di legittimità sul contenuto dell’atto, in ordine all’eventuale violazione di diritti soggettivi del detenuto. Si è ritenuto, in altre parole, che non vi fosse più necessità di una norma specifica. Resta impregiudicato, peraltro, il rimedio generale previsto dall’ordinamento penitenziario, mai abrogato e ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte applicabile (…) anche al regime di cui all’art. 41-bis» [C. cost., 28.5.2010, n. 190, cit.].

Si è inoltre giustamente osservato che non tutte le possibili restrizioni sono predeterminate, dal momento che la lett. a) del comma 2-quater prevede l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna, il contenuto delle quali è lasciato alla discrezionalità del Ministro. Analogamente, la lett. f ) del comma 2quater autorizza all’adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata l’impossibilità di comunicazione tra detenuti appartenenti a

Il regime carcerario di rigore per i detenuti di criminalità organizzata

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diversi gruppi di socialità, di scambiare oggetti o cuocere cibi. In tutti questi casi sarebbe opportuno che si potesse verificare in concreto la legittimità dell’esercizio dei poteri di restrizione, consentendo il sindacato sulle misure disposte con il decreto ministeriale [CORVI, 213]. Tanto premesso sui contenuti dei poteri di controllo, si evidenzia che la decisione del tribunale di sorveglianza, che assume le vesti dell’ordinanza motivata, deve essere emessa in un termine di dieci giorni che, però, è ritenuto meramente ordinatorio, sì che la sua inosservanza non comporta alcuna conseguenza, meno che mai l’inefficacia del provvedimento reclamato. E ciò nonostante in più occasioni la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia sancito che l’eccessiva durata del procedimento di reclamo comporti la violazione del diritto al giusto processo e che non è tollerabile che la decisione intervenga oltre il periodo di validità del decreto reclamato. In giurisprudenza è orientamento conforme che il termine di dieci giorni per la decisione sul reclamo avverso il decreto di applicazione o proroga ha carattere ordinatorio e non perentorio e che, di conseguenza, la sua inosservanza non è causa di nullità, né di inefficacia [Cass., sez. I, 10.1.2005, Sciara, in CED 2005/230547; Cass., sez. I, 11.12.2012, Guzzo, in CED 2012/ 253859]. Ancora, si è detto che non è perentorio il termine di dieci giorni assegnato al tribunale di sorveglianza per la decisione del reclamo avverso il provvedimento di proroga del controllo della corrispondenza [Cass., sez. I, 9.3.2011, Campanella, in CED 2011/250435].

L’epilogo decisorio si esprime ora in una secca alternativa, dovendo il tribunale di sorveglianza verificare se sussistano o meno i presupposti di applicabilità del decreto. Può dunque confermare il decreto o, accogliendo il reclamo, annullarlo. È appena il caso di osservare che non è più prevista la possibilità di un accoglimento parziale, appunto perché il sindacato è limitato all’esistenza dei presupposti che, ove mancanti, comportano l’invalidità dell’intero decreto. 6.2. (Segue) Il ricorso per cassazione. – L’ordinanza è ricorribile per cassazione, entro dieci giorni dalla sua comunicazione, ad opera del detenuto o internato, del suo difensore, del procuratore generale presso la corte di appello e, ora, del procuratore nazionale antimafia. Il ricorso è ammesso soltanto per violazione di legge e non v’è quindi possibilità di censurare eventuali difetti di motivazione, tranne i casi di assoluta mancanza della stessa che integrano, appunto, una violazione di legge. In tema di regime carcerario differenziato è legittima la proposizione del ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del tribunale di sorveglianza (art. 41-bis comma 2-sexies) per violazione di legge, in tale vizio ricomprendendosi, come mancanza della motivazione, tutti i casi nei quali essa appaia priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e logicità al punto da risultare soltanto apparente o comunque non idonea – per evidenti carenze di coordinazione e per oscurità del discorso – a rendere comprensibile il percorso argomentativo seguito dal giudice di merito [Cass., sez. I, 9.11.2004, Santapaola, in CED 2004/230303]. In precedenza si era detto in conformità che nella nozione di violazione di legge deve farsi rientrare anche la man-

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Il trattamento penitenziario della criminalità organizzata

canza di motivazione, alla quale vanno ricondotti tutti i casi nei quali la motivazione stessa risulti priva dei requisiti minimi di coerenza, di completezza e di logicità, al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidonea a rendere comprensibile il filo logico seguito dal giudice di merito, ovvero quando le linee argomentative del provvedimento siano così scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da far rimanere oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione [Cass., sez. I, 14.11.2003, Ganci, Rv. 226628].

Nonostante non sia ammesso il sindacato sui difetti di motivazione, non si ritiene esperibile il ricorso diretto, facendosi onere all’interessato di proporre prima il reclamo. L’eventuale proposizione del ricorso per saltum non è comunque causa di inammissibilità, valendo la regola generale della convertibilità nell’impugnazione ammissibile. Contro il provvedimento di applicazione del regime di detenzione differenziato di cui all’art. 41-bis non è immediatamente proponibile ricorso per cassazione, ma reclamo al tribunale di sorveglianza e, solo dopo l’esaurimento di tale grado di giudizio, può essere proposto ricorso per cassazione. Ne consegue che il ricorso per cassazione direttamente proposto va qualificato come reclamo ai sensi dell’art. 14-ter ord. pen., e gli atti vanno trasmessi, in applicazione estensiva dell’art. 568 comma 5 c.p.p., al competente tribunale di sorveglianza [Cass., sez. I, 6.7.1995, Ganci, in CED 1995/202433].

La Corte di cassazione decide nella forma della procedura camerale non partecipata di cui all’art. 611 c.p.p. Il ricorso non ha effetto sospensivo, come da espressa previsione di cui all’art. 2-secties dell’art. 41-bis, ritenuta peraltro superflua da chi ha osservato che neppure il reclamo e l’inosservanza del termine per la decisione del tribunale di sorveglianza producono effetti sull’efficacia del provvedimento [BERNASCONI, 313]. Benché il Ministro della giustizia non sia e non possa essere parte del procedimento di reclamo e di quello successivo dinanzi alla Corte di cassazione, la decisione che definisce il giudizio di impugnazione produce effetti preclusivi e vincolanti sul potere di rinnovazione del decreto ex art. 41-bis, nel senso che impedisce la riproposizione dell’identico provvedimento annullato e obbliga alla valutazione di fatti e circostanze aggiuntivi rispetto a quelli considerati in precedenza. Stabilisce la legge, sin dalla riforma del 2002, che in caso di accoglimento del reclamo, il Ministro, ove intenda disporre un nuovo provvedimento, deve tener conto della decisione del tribunale di sorveglianza e conseguentemente deve giustificare il ripristino delle misure di rigore con elementi nuovi o non valutati in sede di reclamo. La violazione di queste prescrizioni esporrebbe l’eventuale decreto ministeriale ad una rapida valutazione in termini di difetto di potere in concreto, con l’effetto di determinarne, come affermato in dottrina, la revoca o la disapplicazione [CESARIS, 444].

Proprio in ragione degli effetti che il giudizio di impugnazione esplica sul piano della rinnovazione del regime detentivo speciale, è stata superata quella giurisprudenza, autorevolmente espressa dalle Sezioni Unite, che individuava

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una sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione nella scadenza del termine di efficacia del decreto. Le Sezioni Unite avevano statuito che, qualora il termine finale di applicazione del trattamento carcerario differenziato, disposto ai sensi dell’art. 41-bis comma 2, fosse interamente decorso al momento della decisione sull’impugnazione del relativo decreto, si dovesse ritenere venuto meno l’interesse del ricorrente al gravame del quale, pertanto, andava dichiarata la sopravvenuta inammissibilità [Cass, S.U., 24.3.1995, Meli, in CED 1995/200819]. Successivamente, però, l’orientamento interpretativo è stato opportunamente cambiato e si è affermato che sussiste l’interesse del condannato alla decisione del ricorso per Cassazione proposto contro il provvedimento del tribunale di sorveglianza reiettivo del suo reclamo avverso il decreto ministeriale dispositivo del regime di detenzione differenziato previsto dall’art. 41-bis, anche se sia decorso il termine finale di efficacia del decreto medesimo, in quanto il Ministro, nel disporre un eventuale nuovo decreto, è tenuto ad adeguarsi alla decisione adottata dall’autorità giudiziaria [Cass., Sez. I, 10.1.2005, Lombardo, in CED 2005/230550; più di recente, Cass., sez. I, 19.3.2013, La Torre, in CED 2013/256187].

Corollario di questa disciplina, che obbliga il Ministro a tener conto delle decisioni assunte in sede di impugnazione, è che il potere di rinnovazione del decreto non possa essere esercitato in pendenza del procedimento di reclamo, perché un tal modo di procedere vanificherebbe l’effettività del meccanismo di controllo. Si può invece discutere se il potere possa essere nuovamente esercitato durante la pendenza del giudizio di cassazione, atteso che la legge menziona, per l’effetto conformativo, soltanto la decisione del tribunale di sorveglianza, ovviamente perché è questa la decisione che esprime apprezzamenti sul merito del provvedimento. Ma il fatto che la disposizione sul potere di rinnovazione sia collocata dopo la previsione del giudizio di cassazione fa ritenere che la preclusione all’emissione di un nuovo provvedimento sospensivo valga anche in pendenza del giudizio di legittimità [CORVI, 225].

Bibliografia. (a) ARDITA, La funzione di prevenzione antimafia quale presupposto e limite costituzionale del regime detentivo speciale, in BARILLARO (a cura di), Terrorismo e crimini contro lo Stato, Milano, 2005; (b) ARDITA, Il “carcere duro” tra efficacia e legittimità, in Criminalia, 2007, 249; (c) ARDITA, Il regime detentivo speciale 41-bis, Milano, 2007; BERNASCONI, L’emergenza diviene norma: un ambìto e discutibile traguardo per il regime ex art. 41-bis comma 2 ord. pen., in DI CHIARA (a cura di), Il processo penale tra politiche della sicurezza e nuovi garantismi, Torino, 2003; CAPRIOLI, VICOLI, Procedura penale dell’esecuzione, Torino, 2011; CESARI, GIOSTRA, Art. 4-bis, in GREVI, GIOSTRA, DELLA CASA, Ordinamento penitenziario, Padova, 2011; CESARIS, Commento all’art. 41-bis, in GREVI, GIOSTRA, DELLA CASA, Ordinamento penitenziario, Padova, 2011; COMUCCI, Lo sviluppo delle politiche penitenziarie dall’ordinamento del 1975 ai provvedimenti per la lotta alla criminalità organizzata, in PRESUTTI (a cura di), Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Milano, 1994; CORVI, Trattamento penitenziario e criminalità organizzata, Padova, 2010; DEGL’INNOCENTI, FALDI, Misure alternative alla detenzione e procedimento di sorveglianza, Milano, 2010; DELLA BELLA, Il regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis ord. penit., in CORBETTA, DELLA BELLA,

11.

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GATTA (a cura di), Sistema penale e “sicurezza pubblica”: le riforme del 2009, Milano, 2009; DELLA CASA, Le recenti modificazioni dell’ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della “scommessa” anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del “doppio binario”, in GREVI (a cura di), L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, Padova, 1994; DE RIENZO, Il regime sospensivo previsto dal secondo comma dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario: una rilettura del sistema della sicurezza, in PRESUTTI (a cura di), Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Milano, 1994; (a) FIORIO, Libertà personale e diritto alla salute, Padova, 2002; (b) FIORIO, La stabilizzazione delle “carceri-fortezza”: modifiche in tema di ordinamento penitenziario, in AA.VV., Il “pacchetto sicurezza” 2009 (Commento al d.l. 23 febbraio 2009, n. 11 conv. in legge 23 aprile 2009, n. 38 e alla legge 15 luglio 2009, n. 94), Torino, 2009; (C) FIORIO, Procedimenti e provvedimenti penitenziari, in GARUTI (a cura di), Modelli differenziati di accertamento, Tomo I, in SPANGHER (a cura di), Trattato di procedura penale, Torino, 2011; FILIPPI, La novella penitenziaria del 2002: la proposta dell’unione delle camere penali e una “controriforma” che urta con la Costituzione e con la Convenzione europea, in Cass. pen., 2003, 24; FILIPPI, SPANGHER, Diritto penitenziario, Milano, 2000; FIORENTIN, Collaborazione “impossibile”: grava sul condannato l’onere di allegazione delle situazioni di derogabilità alle preclusioni in materia di benefici penitenziari, in Cass. pen., 2008, 2566; (a) GREVI, Introduzione. Scelte di politica penitenziaria e ideologie del trattamento nella L. 10 ottobre 1986 n. 663, in GREVI (a cura di), L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, Padova, 1994; (b) GREVI, Premessa. Verso un regime penitenziario progressivamente differenziato: tra esigenze di difesa sociale e incentivi alla collaborazione con la giustizia, in GREVI (a cura di), L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, Padova, 1994; (c) GREVI, Art. 1, in GREVI, GIOSTRA, DELLA CASA, Ordinamento penitenziario, Padova, 2011; GROSSO, Novità in materia di proroga: ragionevole prolungamento o sospensione ad libitum?, in Cass. pen., 2012, 742; IOVINO, Contributo allo studio del procedimento di sorveglianza, Torino, 1995; LAURICELLA, Il controllo giurisdizionale sulla proroga del regime di “carcere duro” tra incertezze giurisprudenziali e novità normative, in Giur. mer., 2009, 2070; PAVARINI, Il “carcere duro” tra efficacia e legittimità, in Criminalia, 2007, 262; PAVARINI, GUAZZALOCA, Corso di diritto penitenziario, Bologna, 2004, 183; PRESUTTI, “Alternative” al carcere, regime delle preclusioni e sistema della pena costituzionale, in PRESUTTI (a cura di), Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Milano, 1994; TRONCONE, Manuale di diritto penitenziario, Torino, 2006.

Parte Quarta

Le misure di prevenzione. Profili di diritto sostanziale

Capitolo I

La prevenzione ante delictum: lineamenti generali

Sommario

1. Le misure di prevenzione nella dialettica “autorità” vs. “libertà”. – 2.1. Lineamenti della politica repubblicana in tema di misure di prevenzione. Dalle fattispecie di pericolosità ad ambientazione “sintomatico-soggettiva” al “tipo preventivo”. – 2.1.1. (Segue) Le leggi nn. 152/1975 e 327/1988: la fondazione della pericolosità sul modello dell’attentato e la scomparsa delle fattispecie calibrate sulla tipologia d’autore. – 2.2. L’introduzione della prevenzione patrimoniale. La legge n. 646/1982. – 2.3. Le recenti riforme del 2008-2009 e l’entrata in vigore del Codice delle leggi antimafia. – 2.4. La topografia del Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione. – 3. Il problema della legittimità costituzionale della prevenzione personale. – 3.1. Le opinioni della dottrina. – 3.2. La giurisprudenza costituzionale. – 4. Misure di prevenzione patrimoniali e Costituzione. – 5. Il problema della legittimità convenzionale della prevenzione ante delictum. – 5.1. Misure di prevenzione e CEDU nelle interpretazioni della Corte EDU. – 5.2. Il problema della retroattività delle misure di prevenzione, con particolare riferimento alla confisca di prevenzione, nello specchio della CEDU. – 5.3. (Segue) … ed in quello del diritto interno. – 6. La rilevanza delle misure di prevenzione in taluni recenti documenti dell’Unione Europea. – Bibliografia.

1. Le misure di prevenzione nella dialettica “autorità” vs. “libertà”. Le misure di prevenzione definiscono un’area del controllo sociale formale, di natura coattiva, che presenta un rapporto di problematica compatibilità con il sistema delle garanzie individuali entro cui lo Stato costituzionale di diritto struttura il rapporto tra autorità e diritti fondamentali [FIANDACA, 109 ss.]. La ragione è di agevole riconoscimento: quelle misure operano secondo una logica che incorpora il superamento del c.d. principio di retributività – “pietra angolare” di ogni sistema penale di marca liberale – in virtù del quale la pena costituisce re-azione ad un peculiare tipo di fatto illecito. La loro applicazione trova, infatti, causa nella mera pericolosità sociale dei destinatari e risponde al paradigma della prevenzione del crimine attuata con interventi ante, sine et praeter delictum.

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Le misure di prevenzione. Profili di diritto sostanziale

Sin dal loro apparire nell’ordinamento del neonato Stato unitario, le misure di prevenzione veicolano l’idea che – in contesti afflitti da forme diffuse e radicate di criminalità, favorite dalla debolezza del sistema sociale – la difesa della collettività va (può essere) condotta attraverso strumenti di coercizione espressivi di un «duplice livello di legalità» [SBRICCOLI, 490]. Al primo di essi, compete un programma di azione che – definito dalle figure e dai dispositivi del diritto penale classico, corrispondenti alle regole garantistiche della legalità e dell’imputazione personale – si fonda su una concezione che vede nella “pena” la conseguenza della commissione di un illecito, inflitta ed eseguita post et propter delictum allo scopo di punirne l’autore, “convalidare” la vigenza delle norme infrante ed impedirne future violazioni. Agli esordi della politica criminale dello Stato nazionale, quel primo livello delinea il modello di una “giustizia dei galantuomini” che il progetto di razionalità secolarizzata dell’era moderna aveva costruito per consentire ad esso di adempiere con equilibrio la funzione di difesa della società dal reo e di protezione di questi dagli arbitri punitivi dell’autorità. Il secondo viene occupato, invece, da un apparato coercitivo informato alla logica del sospetto; è intessuto, quindi, di istituti e di congegni che istituzionalizzano pratiche di controllo eversive dei presidi della legalità e della giurisdizionalità, ritenuti irrinunciabili per i “galantuomini” ma di ostacolo alla macchina repressiva a cui si affida la “giustizia dei birbanti”. In questo specifico ambito, l’ingresso delle misure di prevenzione obbedisce ad un progetto di governo delle “classi pericolose” che – attraverso il «disciplinamento dei ceti più poveri e la repressione del dissenso politico radicale» [SBRICCOLI, 591] – è finalizzato a “liberare” la “società borghese” dalla presenza di individui considerati fonte di permanente minaccia all’ordine socio-economico e politico costituito. Questa duplice articolazione del controllo legale della criminalità è sopravvissuta alla temperie emergenziale degli inizi dello Stato nazionale e, percorrendone la parabola evolutiva fino ai nostri giorni, si è trasformata da carattere originario a tratto permanente del relativo sistema penale. In tale quadro, la vigenza delle misure di prevenzione e la loro capacità di resistenza finanche alla disciplina costituzionale della libertà personale hanno contribuito a ridefinire i termini del conflitto autorità/individuo, all’interno di un discorso sempre più impegnato a costruire il relativo “giusto bilanciamento” sulle virtualità argomentative della ragionevolezza. Si è, così, assistito ad una sorta di “rimodulazione contemporanea” della dimensione topico-dialettica che da sempre connota il rapporto tra misure di prevenzione e diritti di libertà, così come tra esse e le categorie del diritto pubblico a cui sono state aggregate – a seconda delle contingenti convenienze ermeneutiche. La materia ha, in effetti, occupato tradizionalmente territori di “confine”: sul piano politico criminale, partecipando al progredire fluido dei rapporti tra “repressione” e “prevenzione”; a livello dogmatico e teorico-generale, collocandosi

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in bilico tra diritto penale e diritto amministrativo. Della distinzione tra “repressione” e “prevenzione” si può ben dire che le misure rappresentino la più diretta trasposizione normativa. Prima ancora che, sotto l’incalzare del pensiero penalistico di matrice liberale, emergesse nitida quella distinzione, era accaduto che, ai primordi dello Stato Nazionale, il catalogo degli illeciti penali aveva compreso anche condotte meramente sintomatiche di una supposta condizione soggettiva di pericolosità (emblematiche le fattispecie di vagabondaggio e di oziosità). Da allora, le situazioni di pericolosità sociale ritagliate sulle sole caratteristiche soggettive della persona vengono investite da un processo di tendenziale trasmigrazione dai codici penali verso un autonomo «diritto della prevenzione di polizia» [(a) G. CORSO, 45]. Nasce un sotto-sistema di misure formalmente extrapenali, affidate alla prevalente competenza dell’autorità amministrativa quale titolare della potestà di polizia. Senonché, a dispetto della qualificazione giuridico-formale, le misure di prevenzione esibiscono sin da subito un costante carattere afflittivo-punitivo, prestandosi anche a fungere da “pene del sospetto” (vale a dire da equivalenti funzionali delle pene) a cui ricorrere in assenza delle necessarie prove di reità. Su queste basi, il sistema di prevenzione ha tentato di giocare il ruolo di “stampella” di una giustizia penale inefficace, strutturalmente inadatta a contrastare le forme di devianza originate da condizioni di profondo disagio individuale e/o sociale. È questa la logica che ha ispirato la legge di pubblica sicurezza del 1865, destinata a rappresentare la matrice della legislazione successiva per avere introdotto le tipiche misure preventive personali dell’«ammonizione» (poi diventata sorveglianza speciale), del «domicilio coatto» o confino di polizia e del «rimpatrio» con foglio di via obbligatorio [PETRINI, 73 ss.; (a) G. CORSO, 46] Concepito, quindi, in funzione vicaria del sistema penale in senso stretto, per assicurarne l’effettività dei compiti di difesa sociale senza osservarne i limiti garantistici della funzione di Magna Charta, il settore della prevenzione è apparso costantemente proteso – anche sul piano della sistemazione teorico-generale – alla ricerca di una precisa identità, conteso, com’è, tra chi ne ha rivendicato la natura di appendice penalistica del controllo sociale e quanti l’hanno spinta nei cantieri del diritto amministrativo. Questo stato di cose ha spianato la strada ad un uso strumentale delle operazioni definitorie, funzionale ad esiti di iper-legittimazione autoreferenziale delle scelte legislative e delle interpretazioni giurisprudenziali – in dispregio dell’aureo ammonimento di un grande Maestro che, saggiamente, invitava a valutare la natura degli istituti incidenti sui diritti costituzionali dell’individuo alla luce dei principi fondamentali e dello scopo da essi “in concreto” perseguiti, nonché delle conseguenze prodotte [VASSALLI, 1599]. Così, la tesi della natura amministrativa è (stata) sostenuta quante volte si è avuto interesse a proteggere disposizioni censurate per un asserito contrasto con principi e regole del diritto penale liberale; all’opposto, la qualificazione “pena-

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listica” (è) risulta(ta) percorso obbligato allorché un determinato assunto ermeneutico abbia come presupposto il riconoscimento del carattere punitivo delle misure. Anche grazie agli spazi di manovra aperti da questo impasse – a sua volta favorito dal silenzio serbato in argomento dalla Carta costituzionale – si è potuta esercitare la politica repubblicana della prevenzione ante et sine delictum. Come si vedrà in seguito, il suo sviluppo ha determinato una sequenza di progressiva espansione del settore. Dopo la riproposizione, nell’ordinamento repubblicano, delle tradizionali misure di prevenzione personale, avvenuta con la legge n. 1423/1956, si è assistito ad un irrobustimento della strategia – ante et praeter delictum – di neutralizzazione della pericolosità sociale, disteso lungo due direttrici. L’una è consistita nell’ampliamento della base soggettiva dei destinatari e dei presupposti del relativo giudizio di pericolosità, l’altra ha portato all’introduzione, ed al successivo consolidamento, della categoria della prevenzione patrimoniale. Con la prima il legislatore ha incluso nell’area della pericolosità sociale, accanto alle tipologie soggettive storicamente considerate insidiose per gli assetti costituiti dell’ordine borghese, le figure della criminalità mafiosa, di quella politico-eversiva e, da ultimo, le fattispecie sintomatiche delle forme di violenza connessa a manifestazioni sportive. Con la seconda, la prevenzione ante sine et praeter delictum è stata attratta nell’orizzonte di lotta alle accumulazioni patrimoniali illecite. 2.1. Lineamenti della politica repubblicana in tema di misure di prevenzione. Dalle fattispecie di pericolosità ad ambientazione “sintomaticosoggettiva” al “tipo preventivo”. – Quando la Costituzione entra in vigore, la materia della prevenzione è regolata dalle disposizioni del T.U.L.P.S. del 1931; in particolare, dagli artt. 157 ss. che contemplano le misure della tradizione legislativa unitaria (foglio di via, ammonizione e confino), di cui viene sancita l’applicazione a carico delle persone che destano sospetti o, comunque, ritenute pericolose per l’ordine e la sicurezza pubblica o per la pubblica moralità. La disciplina sarà, poi, sostituita dalla legge 27.12.1956, n. 1423. Nel riformare il sistema, il nuovo testo distingue tra misure di natura amministrativa di competenza del questore – in quanto considerate non direttamente incidenti sulla libertà personale (diffida e rimpatrio con foglio di via) e misure di natura giurisdizionale per la cui applicazione è competente l’A.G. (sorveglianza speciale, collegata anche all’eventuale divieto od obbligo di soggiorno). Cinque le categorie di soggetti destinatari: a) oziosi e vagabondi; b) soggetti dediti a traffici illeciti; c) proclivi a delinquere; d) soggetti sospettati, per la condotta di vita, di favorire lo sfruttamento della prostituzione o di esercitare il contrabbando o il traffico illecito di stupefacenti o scommesse abusive ovvero di gestire bische clandestine; e) soggetti dediti ad altre attività contrarie alla morale pubblica e al buon costume.

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L’oggettivo deficit di precisione di tali figure rappresenta la conseguenza inevitabile di una tecnica di costruzione delle fattispecie, per un verso, ispirata alla logica del “tipo normativo dell’autore socialmente pericoloso” (implementata, ad esempio, nella classe degli “oziosi e vagabondi”), per l’altro, proiettata a realizzare scorciatoie probatorie di reati “a cifra nera crescente” (come nel riferimento ai “soggetti notoriamente dediti a traffici illeciti”) [TAGLIARINI, 382]. Anche in ragioni di tali caratteri strutturali, non può sorprendere che questo “micro-sistema” legislativo sia stato considerato una delle più gravose eredità del precedente ordinamento e che abbia più volte alimentato dubbi di legittimità costituzionale. Ciò nondimeno, a partire dagli anni sessanta si mette in moto un processo di dilatazione del campo di operatività delle misure di prevenzione personali. L’incipit avviene con la legge n. 575/1965 che, all’art. 1, estende le tradizionali misure preventive agli indiziati di appartenenza ad associazioni mafiose. Sin dal suo apparire, la disposizione suscita diffuse perplessità per il relativo problematico raccordo coi requisiti minimi di un paradigma di “legalità penale” che – anche sul terreno dei provvedimenti di natura preventiva – non rinunci all’ufficio di circoscrivere entro ambiti prevedibili, e controllabili, il potere coattivo delle istituzioni di autorità [(a) MANGIONE, 13 ss.]. In rapporto alla nozione di «indiziato di appartenenza ad associazioni mafiose», le preoccupazioni connesse all’arretramento, ed alla rarefazione, delle virtualità garantistiche della fattispecie traggono origine, da un canto, dalla mancata definizione legislativa dell’associazione mafiosa, dall’altro, dalla circostanza che essa non costituiva, all’epoca, centro di imputazione di titoli di reità. Il varo dell’art. 416-bis c.p., che si compie con la legge n. 646/1982, finisce, dunque, per fornire un contributo al processo sia di chiarificazione normativa del nebuloso concetto di indiziato di appartenenza ad associazione mafiosa, sia di recupero di una (ancorché esigua) dimensione oggettiva di offesa alla fattispecie di pericolosità [(b) BRICOLA, 240; PALAZZO, 275 ss.]. A quest’ultimo riguardo, non si può disconoscere come, da allora, la misura di prevenzione antimafia – colpendo un soggetto in quanto indiziato di delitto, segnatamente della condotta criminosa del “far parte” di un’associazione di cui la legge tipicizza i caratteri costitutivi – abbandona la logica, interamente sintomatico-soggettiva, del “tipo normativo dell’autore pericoloso”, che pervade l’impianto della legge n. 1423/1956, e sposa quella del “presunto autore di reato”. La tipologia soggettiva che funge da presupposto della prevenzione antimafia è, infatti, modulata sull’“indizio di reità”, assurgendo ad archetipo su cui si sarebbero forgiate le nuove figure di destinatari di misure di prevenzione personali introdotte negli anni successivi. Valga, qui, il richiamo all’art. 14 della legge 19.3.1990, n. 55 (modificato dall’art. 11 del d.l. 31.12.1991, n. 419, convertito con la legge n. 172/1992) ed alle disposizioni della legge n. 108/1996 in materia di usura, ove l’estensione della prevenzione personale si fonda sull’impiego della tecnica di definizione della fattispecie di pericolosità inaugurata, per l’appunto, con l’art. 1 della legge n. 575/1965.

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Si delinea, così, un modello di “costruzione del tipo preventivo” che non è più irriducibilmente prognostico ed esclusivamente sintomatico-soggettivo, edificato, cioè, sulle sole caratteristiche personali e di vita dell’autore pericoloso, ma incorpora un elemento normativo corrispondente ad una fattispecie criminosa e che, dunque, si presta ad una valutazione anche in chiave diagnostica [PADOVANI, 334 ss.]. Si tratta di un paradigma dalla portata chiaroscurale. Di primo acchito, si può osservare – entro un’ottica di “giustificazione interna” della prevenzione ante delictum, che non ne voglia, cioè, contestare in radice la legittimità – che quella tendenza rappresenta, sia pure soltanto in termini insufficienti ed ambigui, un primo passo per smussare l’appariscente orientazione sintomatico-soggettiva della fattispecie di pericolosità, recuperando – anche se sul languido piano degli indizi generici – un rapporto di corrispondenza con una fattispecie criminosa. Su questo versante, appare difficile non riconoscere la riduzione di distanze dal modello costituzionale del diritto penale del fatto e dalle stesse misure di sicurezza, rispetto alle quali l’intervento ante delictum resterebbe diviso per il solo profilo probatorio del reato presupposto: mentre le une (tranne quelle inerenti le ipotesi di “quasi reato”) implicano l’accertamento processuale del reato commesso, il secondo si fonda sulla verifica soltanto indiziaria dei reati presupposti. Sennonché, proprio da tale dato si diparte la critica al nuovo paradigma. In primo luogo, esso scopre il fianco ai rilievi di chi vi ha, acutamente, intravisto la sostituzione del diritto penale della certezza col diritto penale del tipo di autore, ancorato al mero sospetto di attività illecite [PALAZZO, 271 ss.]. Sotto altro e correlato aspetto, lo schema strutturale del “tipo preventivo” accredita l’idea che le misure di prevenzione non abbiano in realtà una funzione puramente preventiva, bensì punitiva delle fattispecie penali “indiziate”, in relazione alle quali l’applicazione delle misure si sostituirebbe alla “condanna impossibile” per difetto della relativa prova di responsabilità. In quest’ottica, esse muterebbero fisionomia, evolvendosi da strumenti sine o praeter delictum in misure sine o praeter probationem delicti. 2.1.1. (Segue) Le leggi nn. 152/1975 e 327/1988: la fondazione della pericolosità sul modello dell’attentato e la scomparsa delle fattispecie calibrate sulla tipologia d’autore. – Un recupero di garanzie legato ad un certo ancoraggio alla dimensione oggettiva della fattispecie di pericolosità ha luogo anche riguardo alle misure di prevenzione che l’art. 18 della legge n. 152/1975 estende ai soggetti “pericolosi per l’ordine pubblico”. Qui, il legislatore repubblicano, inserendo un elemento normativo che compare, fra l’altro, nei delitti contro la personalità dello Stato, ha finito per replicare lo schema delittuoso dell’attentato. E tale modello, anche sulla scorta delle reiterate indicazioni fornite dalla Corte costituzionale [23.3.1964, n. 23; 22.12. 1980, n. 177], viene riproposto con la rivisitazione delle categorie di cui all’art. -

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1 della legge n. 1423/1956, operata dall’art. 2 della legge n. 327/1988, questa volta ricorrendo alle formule dell’essere «abitualmente dediti a traffici delittuosi», del vivere «abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose», dell’essere «dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo […]»: ciascuna delle quali valutabile indiziariamente «sulla base di elementi di fatto». Nella medesima ottica, si colloca l’abrogazione della categoria degli “oziosi” e dei “vagabondi”, con cui la legge n. 327/88 porta a definitivo compimento il processo di smantellamento dell’esperienza delle fattispecie di pericolosità ad ambientazione sintomatico-soggettiva. Infine, le legge n. 327/88 cancella il riferimento, contenuto nell’art. 1 legge n. 1423/56, a «coloro che svolgono abitualmente altre attività contrarie alla morale pubblica ed al buon costume», vale a dire un elemento che – pur non riflettendo una valutazione meramente prognostica come nelle altre ipotesi abrogate ed, anzi, richiamandosi al modello della fattispecie indiziaria – rinviava ad un bene giuridico che, oltre ad essere difficilmente afferrabile, finiva per esporre la valutazione giudiziale ad improprie incursioni sul versante morale. 2.2. L’introduzione della prevenzione patrimoniale. La legge n. 646/ 1982. – La necessità di contrastare in maniera progressivamente più incisiva la criminalità organizzata di tipo mafioso ha indotto il legislatore a rafforzare, attraverso la legge n. 646/1982 (c.d. legge Rognoni-La Torre), il sistema della prevenzione antimafia, introducendovi la confisca (e il sequestro, quale suo speculare prodromo cautelare-anticipatorio), con funzione di intervento ante delictum di carattere patrimoniale [ALESSANDRI, 2103 ss.; FIANDACA, VISCONTI, passim; BALSAMO, 1 ss.]. Calibrate sulla dimensione imprenditoriale del fenomeno mafioso, quelle misure segnano un netto mutamento di paradigma: nel “fuoco” della politica criminale entra per la prima volta l’“impresa mafiosa” e, dunque, si istituzionalizza l’esigenza di colpire l’accumulazione delle ricchezze illecite prodotte dall’azione economica delle consorterie mafiose, recidendo, nel contempo, i canali delle cointeressenze e delle compartecipazioni attraverso il cui regime quelle risorse sono immesse nei mercati legali.

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2.3. Le recenti riforme del 2008-2009 e l’entrata in vigore del Codice delle leggi antimafia. – Negli ultimi anni, l’ambito delle misure di prevenzione deputato a contrastare le forme classiche di criminalità comune e mafiosa è stato interessato da interventi normativi che hanno ridisegnato il quadro dei presupposti di applicazione ed il novero dei destinatari delle misure di natura patrimoniale. Ci si riferisce alle innovazioni introdotte, rispettivamente, dall’art. 10 comma 1 lett. c) n. 2 d.l. n. 92/2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n.

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125/2008 e dall’art. 2 comma 22 legge n. 94/2009. Con l’uno, il legislatore – assecondando una istanza vivamente avvertita e già accolta in proposte di riforma formalizzate in sedi istituzionali (Commissioni Fiandaca e Gialanella) – ha modificato il congegno di operatività delle misure di prevenzione patrimoniali, sostituendo al regime dell’applicazione c.d. congiunta un diverso assetto in virtù del quale le medesime possono essere richieste e disposte disgiuntamente alle misure personali, anche in caso di morte del soggetto destinatario della proposta. In tale quadro riformatore, il legislatore ha, altresì, previsto l’ipotesi in cui la morte del proposto sopraggiunga nel corso del procedimento, stabilendo che, in tal caso, quest’ultimo prosegua nei confronti degli eredi o comunque degli aventi causa. Successivamente, l’art. 2 comma 22 legge n. 94/2009 ha ritessuto l’art. 2-bis comma 6-bis legge n. 575/1965, aggiungendo che le misure di prevenzione patrimoniale possono essere richieste e applicate indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto al momento della richiesta della misura di prevenzione. La disintegrazione, così asseverata, del nesso di presupposizione necessaria tra l’accertamento della pericolosità sociale e la confisca trasforma, nei fatti, quest’ultima in una ipotesi di responsabilità patrimoniale oggettiva: essa investe beni che si presumono di provenienza illecita perché nella disponibilità – anche indiretta – di soggetti indiziati di peculiari delitti (non tutti di natura associativa o aventi connotazioni di stampo mafioso) e che siano di valore sproporzionato alle risorse economiche dei loro titolari. Il mutamento di rotta è netto. Nel passato sistema, il congegno della “pericolosità reale” si innestava, infatti, sul tronco vitale della pericolosità sociale attuale del proposto, vale a dire del requisito che ne legittimava la sottoposizione alla misura di prevenzione personale. La ragionevolezza di tale “osmosi”, cioè dell’«ancoraggio pieno della prevenzione patrimoniale alla prevenzione personale» per dirla con le parole della sentenza costituzionale che ne aveva testato la validità [C. cost., 8.10.1996, n. 335, in Cass. pen., 1997, 334 ss.], aveva guidato le scansioni rilevanti dell’esperienza giurisprudenziale [Cass., S.U., 7.2.2001, Madonia, in Cass. pen., 2001, 2047; Cass. S.U., 14.7.1993, Tumminelli, in Cass. pen., 1993, 2491 ss.], consapevole della scelta legislativa di colpire non già i beni in quanto ritenuti di sospetta provenienza illecita, bensì perché posseduti da persone ritenute pericolose. 2.4. La topografia del Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione. – Il legislatore del d.lgs. 6.9.2011, n. 159, nel dare volto e struttura al Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, ha confermato l’impianto delle misure di prevenzione vigente al momento della sua entrata in vigore [(b) MANGIONE, 212 ss.]. Sul piano funzionale, il c.d. Codice antimafia (pur non mancando di intro-

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durre qualche novità sul piano dei contenuti) interpreta l’esigenza di accorpare le disposizioni che concorrevano a comporre il “campo di materia” della prevenzione, nella duplice articolazione tipologica “personale” e “patrimoniale”, mettendo ordine in un settore caratterizzato da una stratificazione normativa frammentata ed a tratti labirintica che, talvolta, aveva reso non agevole finanche lo stesso reperimento delle fonti, oltre che l’attività di coordinamento interpretativo e di classificazione sistematica [CISTERNA, 213 ss.; per una completa disamina del nuovo testo normativo, (a) MENDITTO, passim; FIORENTIN, passim]. Quanto all’architettura topografica, va osservato che il Libro I contiene le disposizioni che riguardano le misure di prevenzione personali e patrimoniali; l’amministrazione, la gestione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati; la tutela dei terzi e i rapporti con le procedure concorsuali; effetti, sanzioni e disposizioni finali. Il Libro II disciplina la documentazione antimafia. Il Libro III racchiude le norme relative alla istituzione ed al funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Il Libro IV è dedicato alle disposizioni transitorie, specificando che il Libro I non si applica ai procedimenti nei quali, alla data di entrata in vigore del Codice (13 ottobre 2011), sia stata già formalizzata la proposta di irrogazione di una misura di prevenzione. L’entrata in vigore del Codice è prevista secondo scansioni così differenziate: il Libro I nel termine di entrata in vigore del d.lgs.; il Libro II, Capi I, II, III e IV – fatta eccezione, quindi, del Capo V riguardante l’istituzione della Banca dati nazionale unica della documentazione antimafia – decorsi ventiquattro mesi «dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del regolamento ovvero, quando più di uno, dell’ultimo dei regolamenti di cui all’art. 99, comma 1», disciplinante le modalità di funzionamento della Banca dati (art. 119, Codice delle leggi antimafia).

3.

Il problema della legittimità costituzionale della prevenzione personale.

La previsione delle misure di prevenzione manca nella Costituzione. Con ogni probabilità l’omessa menzione delle misure nella Carta si collega alla volontà del Costituente di non riconoscerle, sulla spinta di un condivisibile sentimento di ripulsa che «la pesante ipoteca fascista» [AMATO, 340] aveva fatto maturare rispetto alla inaccettabile disciplina racchiusa nel T.U.L.P.S. del 1931, che, accentuando l’amministrativizzazione delle misure, ne aveva favorito l’uso a fini politici per combattere gli avversari del regime [(b)CORSO, 142 ss.]. Dal silenzio costituzionale, è discesa la difficoltà di reperire parametri in grado di conferire legittimazione al potere di prevenzione, che sia sottratta all’area delle decisioni legislative delle maggioranze di governo.

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Si comprende, perciò, come la quaestio della compatibilità di tale potere col sistema dei principi e dei valori costituzionali abbia appassionato la dottrina giuridica e sia stata scrutinata dal giudice delle leggi. 3.1. Le opinioni della dottrina. – La riflessione teorica ha dato vita ad una ricca elaborazione sfociata in posizioni assai articolate, ai cui estremi si situano, rispettivamente, la tesi della irriducibile incostituzionalità delle misure ante delictum e quella che ne ammette la piena legittimazione. È il caso, peraltro, di sottolineare come quest’ultima impostazione non si riferisca ad un astratto potere di prevenzione, tanto che – anche all’interno del relativo orizzonte speculativo – prevale la critica alla normativa vigente, centrata sulla distanza che la separerebbe dai modelli di intervento, estranei alla connessione corrispettiva tra reato e sanzione, reputati in linea con il disegno costituzionale. Nell’ambito dell’orientamento favorevole all’ammissibilità del potere di prevenzione, un posto particolare spetta a chi – dopo aver autorevolmente sostenuto che «appartiene alla essenza logica dello Stato, alla sua giustificazione razionale, impedire la commissione dei reati, salvaguardare la vita, l’incolumità, i beni dei cittadini» – ha ricavato dalla formula di esordio dell’art. 2 Cost. il compito della Repubblica di proteggere i diritti inviolabili dell’uomo «prima che siano offesi, escludendo che sia sufficiente la repressione post factum» [NUVOLONE, 634]. Per contro, è stato acutamente rilevato come questo modo di argomentare appaia fondato su di una petitio principii, in quanto dà per dimostrato ciò che dovrebbe formarne l’explanandum [FIANDACA, 130]. Sulla premessa, invero, che la prevenzione dei fatti offensivi di beni giuridici definisce – nel milieu culturale della Modernità – la base di legittimazione del sistema penale strettamente inteso, viene fatto rilevare che il vero problema consiste nel verificare se si concilia con la trama costituzionale di “lotta al delitto” una strategia di prevenzione della criminalità perseguita con strumenti limitativi della libertà personale ulteriori rispetto a quelli tipici del diritto penale, gli unici a trovare esplicito riconoscimento nella Carta. Come è stato ben osservato, l’ammissibilità delle misure preventive «va commisurata non ad un potere generale di tipo istituzionale, ma alle singole e specifiche libertà su cui incidono […]. È una logica analitica, che caratterizza la nostra come le altre costituzioni contemporanee, che vieta l’attribuzione alle pubbliche autorità di blocchi di potere indifferenziato e consente solo il conferimento di specifici poteri disegnati sulle contrapposte situazioni di libertà e di diritti dei cittadini» [(b) CORSO, 138]. Vari sono stati i parametri costituzionali allegati a giustificazione del potere di prevenzione: v’è chi, riflettendo sui rapporti tra gli artt. 13 e 16, riconduce il potere di prevenzione alla disposizione in tema di libertà personale ed altri che ne estraggono le radici dall’art. 25 comma 3 Cost. [per i necessari riferimenti alle due citate posizioni, cfr. FIANDACA, 130 ss.].

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La prima posizione – che matura nell’ambito di una critica alla prima giurisprudenza costituzionale in materia, approdata ad assunti ambigui circa portata e limiti del concetto di libertà personale [per una disamina puntuale, cfr. (a) CORSO, 305 ss.] – sviluppa un discorso scandito da asserti interpretativi corrispondenti all’analisi delle due citate disposizioni. Dall’inciso presente nell’art. 16, secondo cui le limitazioni alla libertà di circolazione vanno stabilite «in via generale per motivi di sanità o di sicurezza», un insigne Autore ha sostenuto che la norma autorizzerebbe misure limitative della predetta libertà non per esigenze di neutralizzazione di condizioni di pericolosità soggettiva, bensì per prevenire i rischi che la presenza di chicchessia su parti definite del territorio potrebbe far correre ad interessi pubblici costituzionalmente protetti, quali sono, per l’appunto, la sanità e la sicurezza. Andrebbero, pertanto, ricondotte nell’alveo dell’art. 13, con conseguente attrazione nel regime della riserva di giurisdizione, tutte le misure che – ancorate alla pericolosità soggettiva dei destinatari – importano non solo limitazioni di ordine fisico, ma anche giudizi di disvalore personale che producono un effetto degradante sul piano sociale o morale [BARBERA, passim]. Nel ricondurre (tutte) le misure di prevenzione all’art. 13 Cost., è stato obiettato che l’orientamento finisce con il dare luogo «a una dilatazione della libertà personale che è del tutto al di fuori della storia di questa e nettamente contraria alla logica “analitica” da cui discende la frantumazione, operata dal testo costituzionale, di garanzie prima accorpate; tant’è che le misure, proprio per il loro effetto degradante, coinvolgono anche libertà ulteriori, previste dalla Costituzione al fianco di quella personale» [AMATO, 345]. La seconda impostazione muove da tale critica e nel proporre di attribuire alle misure un fondamento costituzionale proprio, non sovrapponibile ai limiti costituzionali dei singoli diritti di libertà, riporta il potere di prevenzione al paradigma delle “misure di sicurezza” esplicitamente menzionate dall’art. 25 comma 3 Cost. [AMATO, 345]. In particolare, premettendo che l’orientazione rieducativa delle stesse pene in senso stretto scolpita dall’art. 27 comma 3 Cost. ha eroso il confine tra pene e misure di sicurezza fin quasi a determinarne una sovrapposizione funzionale, il chiaro Autore al quale si deve la tesi suggerisce di assegnare ai provvedimenti ante delictum la funzione un tempo svolta dalle misure di sicurezza, auspicando, peraltro, un ammodernamento delle situazioni di pericolosità soggettiva e la riconduzione del relativo potere di accertamento alla competenza dell’A.G. [AMATO, 345]. Neppure questo tentativo è andato e va, tuttavia, esente da riserve critiche. Se è indiscutibile che il conferimento alle pene di una finalità rieducativa solleva il problema della ridefinizione dei rapporti tra pene e misure di sicurezza, è altrettanto ragionevole sostenere che questo resta un profilo di discussione “interno” all’ambito penalistico in senso stretto, la cui soluzione non ha implicazioni dirette sulla diversa questione dell’ammissibilità di misure preventive che (a differenza delle misure di sicurezza) prescindono – è questo il punto decisivo – dal presupposto della previa commissione di un fatto di reato.

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All’estremo opposto si colloca l’indirizzo che nega ogni spazio di legittimità costituzionale alle misure limitative della libertà personale che siano sganciate dalla realizzazione di un fatto di reato. Affacciata negli anni Sessanta [(a) ELIA, 23 ss.; (b) ELIA, 938 ss.] e mai divenuta maggioritaria, questa posizione è stata riproposta da chi ritiene [CORSO, 139; nella sostanza anche BARILE, 144 ss.] che la principale norma costituzionale assunta a fonte di giustificazione delle misure preventive – vale a dire l’art. 13 – abbia, in realtà, una funzione strumentale di mera disciplina del procedimento di limitazione della libertà personale per i casi in cui quest’ultima sia correlata all’esercizio del potere di punire conforme all’art. 25 commi 2 e 3 Cost., consistente, quindi, nell’applicazione di sanzioni connesse alla commissione di reati. In tale quadro argomentativo, si è voluto altresì vedere nella presunzione costituzionale di non colpevolezza, sancita dall’art. 27 comma 2 Cost., un ulteriore forte ostacolo alla legittimazione della categoria delle misure, affermando che «la presunzione di non colpevolezza […] bandisce dal nostro ordinamento ogni fattispecie di sospetto, e attribuisce al giudice il monopolio dei giudizi di colpevolezza, e, più in generale, di demerito sociale» [per tutti, (b) CORSO, 147; (b) BRICOLA, 266]. Ancora, svolgendo una critica profonda al sistema preventivo pervenutoci dalla tradizione, è stato prefigurato un modello di prevenzione ante delictum conforme ai principi di uno Stato sociale di diritto. Secondo tale visione, dovrebbe trattarsi di un potere legittimato dagli artt. 30, 32 e 38 Cost. ed imperniato su misure che, ispirate ad una logica prevalentemente assistenziale-curativa, bandirebbero ogni forma di restrizione della libertà personale [(a) BRICOLA, 454 ss.]. Anche questa proposta non è sfuggita alla critica di chi ha sottolineato la problematica ammissibilità di misure amministrative che, seppur non incidenti sulla libertà personale, comportino un giudizio potenzialmente degradante sulla persona del destinatario [FIANDACA, 120]. Il quadro tracciato rende sufficientemente chiaro come la legittimazione teorico-costituzionale delle misure di prevenzione, in particolar modo personali, continui ad apparire problematica, entro un contesto di ormai consolidato funzionamento del relativo sistema che, peraltro, non si segnala per una riconoscibile proficuità dei risultati politico-criminali. 3.2. La giurisprudenza costituzionale. – Non meno frastagliato è il panorama delle pronunce della Corte costituzionale, come si può ben comprendere considerando, da un lato, la forte ambiguità politico-ideologica della materia; dall’altro, una certa resistenza della Consulta a rimuovere strutture normative radicate nella tradizione dell’ordinamento e sostenute dalla comune esigenza di difesa della collettività. In quest’ottica, la Corte ha orientato le proprie scelte nel senso di affermare

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e di ribadire la legittimità delle misure preventive personali, pur se alla condizione che la relativa applicazione avvenga nell’osservanza di una determinata griglia di principi e di garanzie. Su queste basi, si collocano i primi interventi di censura del testo unico del 1931, segnatamente della disciplina dell’ammonizione e del rimpatrio obbligatorio per contrasto con la riserva di giurisdizione (sentenze n. 10 e n. 11/1956). Si tratta di decisioni che dissodano un terreno sui cui solchi si sarebbe innestata la scelta della legge n. 1423/1956 di affidare alla sola A.G. la competenza ad applicare le misure preventive (con la duplice eccezione della diffida e del rimpatrio obbligatorio). Al fondo della legittimazione delle misure sta l’assunto secondo cui «l’ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti sociali deve essere garantito, oltre che dal sistema di norme repressive di fatti illeciti, anche da un sistema di misure preventive contro il pericolo del loro verificarsi in avvenire: sistema che corrisponde a una esigenza fondamentale di ogni ordinamento, accolta e riconosciuta negli artt. 13, 16 e 17 della Costituzione» (sent. n. 27/1959). Al tema, la medesima pronuncia dedica l’ulteriore affermazione che «l’art. 25, secondo comma, […] accoglie […] nell’ordinamento il sistema delle misure di sicurezza a carico degli individui socialmente pericolosi. È ben vero che le misure di sicurezza in senso stretto si applicano dopo che un fatto preveduto dalla legge come reato sia stato commesso (art. 202 c.p.), e quindi per una pericolosità più concretamente manifestatasi; ma poiché le misure di sicurezza intervengono o successivamente all’espiazione della pena, e cioè quando il reo ha già per il reato commesso soddisfatto il suo debito verso la società […] bisogna dedurne che oggetto di tali misure rimane sempre quello comune a tutte le misure di prevenzione, cioè la pericolosità sociale del soggetto» (n. 27/1959). Nelle sentenze degli anni successivi (le nn. 45/1960, e 32/1969 e 76/1970), la legittimità di un «sistema di prevenzione dei fatti illeciti, a garanzia dell’ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti tra i cittadini, con riferimento agli artt. 13, 16, 17 e 25, 3° co., Cost.» continua ad essere ribadita in un’ottica di confronto con le misure di sicurezza, talvolta rimarcandone il parallelismo tramite la sottolineata convergenza teleologica verso la prevenzione dei reati, talaltra evidenziandone le differenze di disciplina. La scivolosità della materia trova eco in una certa ambigua oscillazione degli asserti contenuti nelle decisioni della Consulta; nella decisione n. 68/1994, si legge, invero, che «è vero che il fondamento comune e la comune finalità delle misure di sicurezza e di quelle di polizia […] si trovano nella esigenza di prevenzione di fronte alla pericolosità sociale del soggetto, ma è anche certo che […] nella diversa disciplina prevista dagli artt. 13 e 16 della Costituzione, resta sempre una netta differenziazione fra i due ordini di misure, per diversità di struttura, settore di competenza, campo e modalità di applicazione, specialmente per quanto si riferisce agli organi preposti a tale applicazione». L’accentuazione del carattere peculiare delle misure di prevenzione emerge nella sentenza n. 23/1964, ove prevale l’esigenza di escludere il contrasto tra la

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poco tassativa configurazione legislativa delle (originarie) tipologie soggettive di pericolosità e l’art. 25 comma 3, sia pure attraverso un’operazione di recupero ermeneutico della determinatezza in concreto (v. infra). Affermano i giudici costituzionali che nella costruzione delle relative fattispecie il legislatore deve impiegare «criteri diversi da quelli con cui procede nella determinazione degli elementi costitutivi di una figura criminosa», e può, quindi, «far riferimento anche a elementi presuntivi, corrispondenti però sempre a comportamenti obiettivamente identificabili. Il che non vuol dire minor rigore, ma diverso rigore nella previsione e nell’adozione delle misure di prevenzione, rispetto alla previsione dei reati e alla irrogazione delle pene». Una inaspettata virata avviene con la sentenza n. 177/1980, quando la Corte per la prima volta fonda un dispositivo di accoglimento sul parametro della determinatezza e lo fa proprio in relazione ad una fattispecie di prevenzione. Ad essere colpita dalla scure della declaratoria di illegittimità costituzionale è una delle tipologie di pericolosità generica scolpite dall’art. 1 legge n. 1423/1956, in particolare la categoria dei “proclivi a delinquere”. L’attrazione delle misure di prevenzione nell’orbita delle garanzie penalistiche, che questa sentenza certifica, trova significativa conferma nei passaggi che ne scandiscono la motivazione. Vi si legge che: a) la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione – in quanto limitative, a diversi gradi di intensità, della libertà personale – è necessariamente subordinata all’osservanza del principio di legalità ed all’attuazione della garanzia giurisdizionale. Si tratta di due requisiti essenziali ed intimamente connessi, perché la mancanza dell’uno vanifica l’altro, rendendolo meramente illusorio; b) il principio di legalità in materia di prevenzione […], lo si ancori all’art. 13 ovvero all’art. 25 comma 3 Cost., implica che l’applicazione della misura, ancorché legata, nella maggioranza dei casi, ad un giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario in “fattispecie di pericolosità”, previste – descritte – dalla legge; c) l’intervento del giudice (e la presenza della difesa, la cui necessità è stata affermata senza riserve) nel procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione non avrebbe significato sostanziale […] se non fosse preordinato a garantire, nel contraddittorio tra le parti, l’accertamento di fattispecie legali predeterminate. Il distacco delle misure di prevenzione dalla materia penale strettamente intesa era, invece, emersa nella citata sentenza n. 76/1970, in cui la Corte aveva escluso che la presunzione di non colpevolezza operasse nel settore in esame «perché tale articolo […] riguarda la responsabilità penale e importa la presunzione di non colpevolezza dell’imputato fino alla condanna, mentre le misure di prevenzione, pur implicando restrizioni della libertà personale, non sono connesse a responsabilità penali del soggetto, né si fondano su la colpevolezza, che è elemento proprio del reato» [cfr., da ultimo, anche l’ord. n. 124/2004, con la quale la Corte sottolinea che «la misura di prevenzione assolve ad una funzione chiaramente distinta e non assimilabile a quella della pena»]. Se si eccettua la sentenza n. 177/1980, occorre osservare che l’attenzione della Consulta è stata rivolta soprattutto alle garanzie giurisdizionali ed ai con-

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creti presupposti applicativi delle misure, anche se in un contesto di forte selfrestraint e di conservazione delle norme censurate. Ciò è avvenuto sia sottolineando la necessità di una specifica motivazione del provvedimento (sent. n. 2/1956), sia rileggendo le categorie dei soggetti individuate dal legislatore nell’ambito delle misure di prevenzione in termini da sottrarne la configurabilità all’area dei giudizi meramente potestativi. Nella citata sentenza n. 23/1964, infatti, la Corte afferma che le misure di prevenzione non possono essere adottate sul fondamento di semplici sospetti; «l’applicazione di quelle norme, invece, richiede una oggettiva valutazione di fatti, da cui risulti la condotta abituale e il tenore di vita della persona, o che siano manifestazioni concrete della sua proclività al delitto, e siano state accertate in modo da escludere valutazioni puramente soggettive e incontrollabili da parte di chi promuove o applica le misure di prevenzione». La porosità e le oscillazioni che caratterizzano la giurisprudenza costituzionale emerge, ancora una volta, nella decisione sul “rimpatrio con foglio di via obbligatorio” n. 210/1995, in cui la Corte afferma che «poiché il provvedimento dell’autorità di pubblica sicurezza ha carattere amministrativo, non comporta violazione dell’art. 24, secondo comma, della Costituzione, una disposizione di legge ordinaria che non preveda il diritto di difesa, garantito dalla norma costituzionale solo nei riguardi dei provvedimenti giurisdizionali […]. La disciplina del procedimento amministrativo, infatti, è rimessa alla discrezionalità del legislatore nei limiti della ragionevolezza e del rispetto degli altri principi costituzionali, fra i quali non è da ricomprendere quello del giusto procedimento amministrativo, dato che la tutela delle situazioni soggettive è comunque assicurata in sede giurisdizionale dagli artt. 24, primo comma, e 113 della Costituzione».

4. Misure di prevenzione patrimoniali e Costituzione. Declinato su basi in parte differenti è il discorso relativo alla legittimità costituzionale della prevenzione patrimoniale, alla cui progressiva dilatazione nella recente legislazione fa da pendant la crescente e giustificata esigenza di innalzare il livello delle garanzie, sia riguardo ai presupposti sostanziali, sia rispetto al procedimento di applicazione. Ai profili problematici comuni alla prevenzione personale, collegati alle tesi di chi nega cittadinanza costituzionale agli interventi ante delictum incidenti su diritti fondamentali, la discussione concernente la quaestio legitimitatis della prevenzione patrimoniale si è venuta arricchendo di ulteriori argomenti, elaborati in collegamento ad altri principi della Carta non tutti interni all’area dei rapporti civili. L’orizzonte di discussione attrae il tema della compatibilità delle misure patrimoniali con la c.d. Costituzione economica e, quindi con la libertà di iniziativa economica, con la garanzia della proprietà privata e con la tutela del rispar-

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mio [critico è il pensiero di FILIPPI, CORTESI, 72 ss.; il tema è affrontato da: ALESSANDRI, 2103 ss.; (a) MANGIONE, 175; MANGIONE, 21 ss.; (a) MAUGERI, 1786 ss.; (b) MAUGERI, 79 ss.; GIALANELLA, 133 ss.; MOCCIA, 149 ss.; con riferimento alla temporanea sospensione dall’amministrazione dei beni, lucidamente GAROFOLI, 3889 ss., che, tra i primi, rintraccia il fondamento costituzionale dell’intervento patrimoniale nei parametri della c.d. “Costituzione economica”]. Un accreditato indirizzo reputa che le misure patrimoniali trovino copertura costituzionale ampia negli artt. 41 e 42 Cost. [BALSAMO, 12 ss.; FIANDACA, 109 ss.]; l’una, laddove vieta all’iniziativa economica privata di svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana, consentendone l’assoggettamento ai controlli legislativi, in funzione di indirizzo e di coordinamento a scopi sociali; l’altra nella parte in cui raccorda la tutela della proprietà privata allo scopo di assicurarne la funzione sociale. Più di recente, la giurisprudenza tende ad argomentare la non incompatibilità con la Costituzione della confisca di prevenzione non sulla base della sua asserita natura di misura di prevenzione ma su argomenti di ragionevolezza garantistica misurata in un’ottica processuale: le deroghe alla normale ripartizione dell’onere probatorio sarebbero in realtà meno vistose e radicali di quanto non appaia a prima vista, e dunque non in contrasto con le garanzie processuali previste dalla Costituzione [v. da ultimo in tal senso Cass., sez. I, 16.10.2009, n. 6684, Santomauro, in CED Cass., rv. 246142, e Foro it., Rep., 2010, voce Misure di prevenzione, n. 23, così massimata: «È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., dell’art. 2 ter, l. 575/65, nella parte in cui, prevedendo la confisca dei beni di cui non sia dimostrata la legittima provenienza, pregiudicherebbe il diritto di difesa per l’impossibilità di provare la liceità di proventi risalenti nel tempo – in quanto ai fini dell’operatività della disposizione censurata non è sufficiente la mancata allegazione dell’interessato in ordine alla legittima provenienza dei beni, in virtù di illegittima inversione probatoria, ma è necessario che l’affermazione della illegittima provenienza dei beni, costituisca l’epilogo di una decisione assunta in esito alla delibazione di elementi indiziari di inequivoca sintomaticità»].

5.

Il problema della legittimità convenzionale della prevenzione ante delictum.

5.1. Misure di prevenzione e CEDU nelle interpretazioni della Corte EDU. – Nella oramai consolidata conformazione multilivello, “a rete” e “labirintica”, del costituzionalismo contemporaneo, le misure di prevenzione sono chiamate a misurare la legittimità del proprio fondamento anche nella prospettiva dei parametri di rilevanza definiti dalla CEDU, segnatamente dalle interpretazioni che la Corte EDU ha fornito delle disposizioni degli artt. 5 e 6 della Convenzione, vale a dire di quelle rispetto alle quali la materia degli interventi ante et praeter delictum presenta, all’evidenza, una potenziale tensione conflittuale [BALSAMO, 269 ss.).

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Tra le prime decisioni figura quella adottata nel caso Guzzardi (6.11.1980, in Foro it., IV, 1981, c. 1. s., con nota di Pizzorusso) ove la Corte EDU ha accertato la violazione dell’art. 5 par. 1 della Convenzione, accogliendo un’accezione ampia del concetto di libertà personale e ritenendo che la sottoposizione a soggiorno obbligato su un’isola di un soggetto, assolto nel giudizio di merito, avesse, nella specie, comportato una limitazione della libertà personale in termini non ammissibili ai sensi della Convenzione. La violazione della quale sarà sancita anche nel caso Ciulla (sentenza 22.2.1986, in Foro it., IV, 1990, c. 25), mentre nell’arresto del 22 febbraio 1994, emesso nel caso Raimondo (sintesi rinvenibile in Cass. pen., 1994, 2252, n. 1455), i giudici di Strasburgo si sono cimentati per la prima volta col tema delle misure patrimoniali. Affermando nella circostanza che, in linea generale, non ricorre violazione della Convenzione nell’esecuzione del sequestro antimafia, sia riguardo al profilo del «rispetto dei beni», sia con riferimento al parametro della «ragionevole durata del procedimento», sancito dall’art. 6 par. 1 della Convenzione ma ritenuto applicabile ai procedimenti penali, non, invece, a quelli di prevenzione. Nel caso concreto, tuttavia, la Corte ha adottato un dispositivo di accoglimento, sul presupposto che, revocato il sequestro, ne era stata disposta con ritardo la comunicazione alla Conservatoria dei registri immobiliari. Ancora nel caso Labita (sentenza 6.4. 2000, in Dir. pen. proc., 2000, 888), la Corte ha preso in esame la questione della legittimità convenzionale della applicazione di una misura di prevenzione, dopo una sentenza di assoluzione. Nella decisione si legge sia che sono legittime le misure di prevenzione antimafia prima della condanna, in quanto orientate ad impedire il compimento di atti criminali, sia che la sopravvenuta assoluzione non le priva di ogni ragion d’essere, poiché anche innanzi ad una piattaforma probatoria di incertezza – preclusiva di una pronunzia penale di condanna – resta praticabile una prognosi di pericolosità sociale. Epperò, nel caso scrutinato, è stato ritenuto che gli argomenti posti a giustificazione della misura di prevenzione disposta dopo l’assoluzione non fossero in grado di fondare la ragionevole probabilità che il soggetto potesse commettere in futuro reati. In Perre ed altri (decisione 8.7.2008) la Corte EDU ha vagliato il problema della mancanza di pubblicità del procedimento di cui all’art. 4 legge n. 1423/1956, come integrato dalla legge n. 575/1965, censurato per violazione della clausola dell’equo processo, riferita ad una vicenda che si era conclusa con l’applicazione di misure patrimoniali. La Corte ha statuito che il controllo pubblico costituisce garanzia del rispetto dei diritti dell’interessato, con la conseguenza che in materia di prevenzione deve quantomeno essere assicurata la facoltà di chiedere che la trattazione avvenga in una pubblica udienza; poiché nella specie il ricorrente non aveva beneficiato di questo spazio deliberativo, la Corte ha dichiarato la violazione dell’art. 6 par. 1 CEDU. Per vero, il tema della mancanza di pubblicità aveva già formato oggetto di precedenti decisioni (cfr. caso Bocellari e Rizza, 13 novembre 2007) nelle quali, però, la Corte era stata chiamata a scrutinarlo in rapporto al parametro del “rispetto dei beni” garantito dall’articolo 1 del Protocollo n. 1. Ancora prima (sentenza Miller c. Suède dell’8.2.2005, n. 55853/00, § 29), Strasburgo aveva affermato che situazioni particolari avrebbero potuto giustificare la mancanza di una pubblica udienza (cfr. pure sentenza Göç c. Turchia [GC], n. 36590/97, CEDH 2002-V, § 47), precisando, tuttavia, che esse non sono configurabili nel procedimento di prevenzione. La Corte non ha, dunque, esitato a ribadire che il principio di pubblicità riveste anche funzione strumentale rispetto all’attuazione del processo equo e giusto, scopo che si prefigge l’art. 6 della Convezione (caso Riepan c. Austria, 14.2.2002 e, da ultimo, Buongiorno c. Italia 5.1.2010). In tema di pubblicità dell’udienza, è il caso, peraltro, di evidenziare come sia intervenuta la Corte costituzionale che, con la sentenza 8-12.3.2010, n. 93 (in Guida dir., XIII, 2010, 76) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 legge 27.12.1956, n. 1423 e dell’art. 2-ter legge 31.5.1965, n. 575, nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento davanti al tribunale ed alla Corte d’Appello si svolga nelle forme dell’udienza pubblica. Resta sul tappeto la questione della pubblicità del giudizio innanzi alla Corte di Cassazione. Sul punto, si ritiene che una volta assicurata la pubblicità nel procedimento di primo e secondo grado, là dove l’interessato ne abbia fatto richiesta, non sia necessaria la pubblicità nel giudizio di legittimità [BALSAMO, 289; G. DI CHIARA, 306; Cass., sez I, 13.2.2008, -

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n. 8990, Ambrogio, Rv. 239515; Cass., sez. I, 26.2.2008, n. 11279, Magnesi; Cass., sez. I, 26.2.2008, n. 14010, Cucurachi, Rv. 240137; Cass., sez I, 4.2.2009, n. 13569, Falsone e altro, Rv. 243552; Cass., sez. VI, 22.1.2009, n. 17229, Scimenti e altro, Rv. 243665; Cass., sez. VI, 15.12.2009, n. 2269, Del Vento e altri, Rv. 245706]. Circa la natura e le funzioni della prevenzione patrimoniale ante delictum, la Corte EDU, nella sentenza Riella ed altri (4.9.2001), ha concluso che la privazione della proprietà che essa comporta rientra nello spazio di regolazione dell’uso dei beni ammessa dal secondo comma dell’art. 1 del Protocollo n. 1, che lascia agli Stati il diritto di adottare «le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale» (già sentenze Agosi c. Regno Unito, 24.10.1986, serie A, n. 108, p. 17, § 51 ss.; Handyside c. Regno Unito, 7.12.1976, serie A, n. 24, 29 e 30, §§ 62-63). Quanto all’impiego delle presunzioni, quali criteri di inferenza rilevanti ai fini delle prognosi di pericolosità, la giurisprudenza di Strasburgo non pone ostacoli “di principio”, ma si preoccupa di legittimarne l’uso alla condizione dell’effettività di un regime di garanzia giurisdizionale. Con specifico riguardo al sistema italiano, la Corte esprime una valutazione positiva sulla procedura di prevenzione, in quanto istituzionalizza il contraddittorio e si articola in tre gradi di giudizio; garantendo al soggetto la possibilità di difendersi attraverso gli strumenti della difesa tecnica e del diritto alla prova, nell’ambito di uno scrutinio che non conferisce rilevanza ai meri sospetti.

5.2. Il problema della retroattività delle misure di prevenzione, con particolare riferimento alla confisca di prevenzione, nello specchio della CEDU. – Questione di grande rilievo è quella che attiene alla qualificazione giuridica della confisca di prevenzione per le assai rilevanti implicazioni che ne discendono sul piano delle regole di diritto temporale [NICOSIA, 75 ss.]: se intesa come misura amministrativa patrimoniale, infatti, essa soggiacerebbe ad un regime conforme al disposto dell’art. 200 c.p., laddove una ricostruzione aperta al riconoscimento di prevalenti componenti sanzionatorie la farebbe scivolare sotto il presidio dell’irretroattività penale. Sul punto, la Corte EDU propende per il conferimento di una natura extrapenale, scilicet per l’attribuzione alla confisca di prevenzione di una predominante finalità preventiva, in quanto orientata alla sottrazione a contesti di criminalità organizzata di beni riutilizzabili per fini illeciti da parte di soggetti pericolosi, non, invece, alla punizione di reati prima commessi. In sostanza, il suo fondamento non risiederebbe nella responsabilità per un fatto compiuto, bensì nella pericolosità dei beni accumulati. Di qui, l’esclusione della confisca di prevenzione dalla nozione di penalty di cui all’art. 7 CEDU e la conseguente ritenuta inoperatività al relativo procedimento di applicazione delle garanzie individuali (presunzione di innocenza e principi dell’equo processo penale) previste per l’anzidetta “materia penale” dagli artt. 6.2. e 6.3 CEDU [Commission Eur., 15.4.1991, Marandino, n. 12386/86, in Decisions et Rapports (DR), 70, 78]. In effetti, questa posizione si inscrive in un più generale indirizzo in base al quale la Corte EDU è apparsa, sul tema della prevenzione ante et praeter delictum, soverchiamente rispettosa della sovranità delle scelte del legislatore nazionale, preoccupandosi di non infrangere gli equilibri interni ai bilanciamenti fissati dalla normativa statale [MAUGERI]. Per contro, è possibile osservare che le misure di prevenzione, e conseguen-

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temente anche la confisca di prevenzione, meriterebbero di essere considerate sanzioni penali alla stregua dei noti Engel criteria (Corte EDU, Engel e altri c. Paesi Bassi, 8.6.1976, in Pubblications de la Cour Européenne des Droits de l’Homme, Série A, n. 22, 1977, 36). In questa decisione, i criteria stabiliti per verificare la natura penale di un illecito e della connessa sanzione, con conseguente applicazione degli artt. 6 e 7 CEDU, sono stati individuati nei seguenti profili: a) qualificazione giuridico-formale sancita dal diritto nazionale; b) natura dell’illecito; c) natura e gravità della sanzione. Si tratta di criteri fungibili e non cumulativi, sicché è sufficiente che ne ricorra uno soltanto per qualificare l’illecito o la sanzione, rispettivamente, criminal offence e penalty. Quanto ai presupposti – a fortiori alla luce della recente legislazione – vengono in rilievo la pericolosità attuale del soggetto, ovvero l’origine illecita del patrimonio, indiziata dall’appartenenza del suo titolare effettivo a sodalizi mafiosi, ovvero dalla ritenuta (su base indiziaria) commissione da parte sua di determinati reati (natura dell’infrazione) ed il carattere definitivo dell’applicazione della misura (natura della sanzione) che può colpire la persona ovvero l’intero patrimonio dell’indiziato (severità della sanzione).

Riprendendo considerazioni svolte altrove [MAIELLO, 20], è possibile affermare che l’appartenenza delle misure di prevenzione al novero delle pene discende da un argomento che si ricava dall’importante e già citata sentenza della nostra Corte costituzionale, spesso trascurata e che, invece, merita l’appellativo di pronunzia “storica”, con cui fu dichiarata l’illegittimità costituzionale, al metro della legalità/determinatezza, di una disposizione in materia di prevenzione personale (specificamente, l’art. 1 n. 3 legge n. 1423/1956, relativa alla categoria soggettiva dei “proclivi a delinquere”, sentenza n. 177/1980, supra). La ratio decidendi ed il dispositivo di quell’arresto suggeriscono di sostenere come il criterio della “qualificazione giuridica interna”, che da Engel in avanti rappresenta un indice rivelatore della inquadrabilità di un istituto nella nozione convenzionale di pena, debba inglobare “argomenti” desunti dalla complessiva esperienza dei valori costituzionali dell’ordinamento nazionale [in senso critico, verso la mancanza di “coraggio” della Corte europea, che non sarebbe riuscita a fare coerente applicazione della sua stessa giurisprudenza sulla nozione “autonoma” di materia penale a fini garantistici, v. MAUGERI532, 841. Nel senso che la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia sostanzialmente voluto attribuire fiducia agli ordinamenti nazionali ed una patente di legittimità, sotto il profilo della compatibilità con i diritti fondamentali, alle misure da essi adottate in materia di contrasto alla criminalità organizzata sul piano patrimoniale, cfr. FONDAROLI, 193 ss. Sulla giurisprudenza europea in materia v. anche BALSAMO, 269 ss., spec. 273 ss., il quale invita tuttavia a considerare come la Corte abbia in ogni caso riconosciuto l’applicabilità alle misure di prevenzione patrimoniali dei principi dell’equo processo – trattandosi di misure che incidono su diritti patrimoniali – e ne abbia sancito la non incompatibilità con questi ultimi, tenuto conto del fatto che esse vengono in ogni caso applicate nell’ambito di un procedimento giurisdizionale articolato in tre gradi di giudizio, con un contraddittorio pieno tra le parti, nonché ala stregua non di meri sospetti ma di una valutazione obiettiva dei fatti e di una presunzione solo relativa di provenienza illecita; sul punto, tra le altre Corte EDU, sent. 5.1.2010, Bongiorno c. Italia, cit.].

In questa prospettiva, la natura sanzionatoria della confisca di prevenzione dovrebbe fare ritenere interdetta l’applicazione retroattiva della confisca di prevenzione [MAIELLO, 21]. Si tratta di conclusione fondata sulla convergenza dei

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principi costituzionali e delle regole pattizie sovranazionali che sottopongono la confisca di prevenzione ai principi della legalità penale. 5.3. (Segue) … ed in quello del diritto interno. – Nella giurisprudenza italiana di legittimità, il problema è “esploso” in seguito all’entrata in vigore del comma 6-bis dell’art. 2-bis legge n. 575/1965, (introdotto dal d.l. 23.3.2008, n. 92 e modificato dalla legge 15.7.2009, n. 94), secondo cui le misure di prevenzione personali e quelle patrimoniali possono essere richieste ed applicate disgiuntamente e queste ultime indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto destinatario al momento della relativa richiesta [in dottrina, da ultimo (c) MAUGERI, 5 ss.; (b) MENDITTO, 3 ss.]. Secondo l’orientamento prevalente della Corte di cassazione – avallato dalla pronuncia delle Sezioni Unite del 26 giugno 2014 – «il suddetto comma 6-bis è applicabile anche ai fatti commessi anteriormente alla sua introduzione e fissa il principio di reciproca autonomia tra le misure di prevenzione personali e quelle patrimoniali, con la conseguenza che il procedimento di prevenzione patrimoniale può essere avviato a prescindere da qualsiasi proposta relativa all’adozione di misure di prevenzione personali, rimettendo al giudice il compito di accertare in via incidentale la riconducibilità del proposto nella categoria dei soggetti che possono essere destinatari dell’azione di prevenzione» [Cass. pen., 5.12.2013, n. 48882; Cass. pen., 5.4.2013, n. 2656; Cass. pen., 13.1.2011, n. 5361]. Si è venuta, così, consolidando l’affermazione secondo cui «la l. 15 luglio 2009, n. 94, che ha innovato sotto diversi profili la precedente disciplina, attesa la sua natura di misura di sicurezza patrimoniale, opera retroattivamente, potendosi applicare anche a fatti reato commessi prima della sua introduzione legislativa, in forza del disposto dell’art. 200 c.p., secondo cui “le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione”» [Cass. pen., 5.4.2013, n. 2656; Cass., sez. I, 5.6.2014, n. 23641; Cass. pen., 17.5.1984, n. 1193; Cass. pen., 11.3.2005, n. 13039. Un indirizzo minoritario [Cass., sez. V, 25.3.2013 n. 14044, Occhipinti; Cass. pen., sez. V, 29.3.2012 n. 11768], sensibile ai corollari della legalità penale ed attento alla ponderazione delle finalità “in concreto” perseguite dal legislatore attraverso lo strumento ablativo, aveva affermato che è «senz’altro possibile disporre una misura di prevenzione patrimoniale pure in difetto del presupposto di una attuale pericolosità sociale del soggetto destinatario della misura tuttavia, laddove quel presupposto manchi, con la precisazione che la norma non potrà che regolare fattispecie realizzatesi dopo l’entrata in vigore della stessa, non trovando applicazione il disposto dell’art. 200 cod. pen. (la cui operatività si fonda invece su un accertamento di pericolosità in atto) ma la generale previsione di cui all’art. 11 delle preleggi». Sul presupposto che anche la confisca di prevenzione sembra poter riguardare beni privi di concreto collegamento con i fatti giustificativi della misura ed ispirarsi alla generale finalità di escludere che un soggetto possa ricavare qualsivoglia beneficio economico da attività illecite, «appare dunque arduo – sostiene la Corte di Cassazione – almeno con riferimento ad ipotesi in cui la misura di prevenzione patrimoniale possa addirittura svincolarsi da un necessario accertamento di attuale pericolosità sociale del proposto, continuare ad escluderne una natura oggettivamente sanzionatoria» e sottrarla al divieto di applicazione retroattiva [Cass. pen., 25.3.2013, n. 14044 e Cass. pen., 29.3.2012, n. 11768]. In breve, «eliso ogni nesso di pertinenzialità con il reato e messa, di conseguenza, in secondo piano la logica della pericolosità dei beni oggetto di ablazione, la confisca per equivalente ha proiettato una preminente funzione afflittiva e generalpreventiva del tutto diversa dal perseguimento delle finalità special-preventive legate alla pericolosità oggettiva del bene confiscato che rappresentano, invece, l’obiettivo di tutela della confisca disciplinata dall’articolo 240 c.p. » [Cass. pen., 25.3.2013, n. 14044; Cass. pen., 29.3.2012, n. 11768]. Come accennato, il contrasto interpretativo è stato composto dalle Sezioni Unite della Corte

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di Cassazione, con la sentenza del 26 giugno 2014. Investito dall’ordinanza n. 11752/14 emessa l’11 marzo 2014 dalla sesta sezione, il supremo organo della nomofilachia ha – sul presupposto della equiparabilità delle misure di sicurezza e delle misure di prevenzione patrimoniali – statuito che, anche dopo le novelle del 2008 e del 2009, queste ultime continuano a soggiacere al regime delineato dall’art. 200 c.p., trovando, di conseguenza, applicazione retroattiva, riferita a beni acquistati prima delle cennate modifiche normative. È ragionevole prevedere che la questione – lungi dall’essere definitivamente archiviata – continuerà a riproporsi all’attenzione di dottrina e giurisprudenza, specie nell’ottica di rilevanza definita dal diritto convenzionale emergente dalle interpretazioni che ne fornirà la Corte EDU. Sull’assunto della natura ‘non penale’ della confisca di prevenzione sempre di recente la Suprema Corte [Cass. pen., 23.7.2014, n. 32715] ha escluso che le misure di prevenzione patrimoniali si pongano in rotta di collisione con i principi affermati nella sentenza Grande Stevens c. Italia, in quanto il presupposto della misura di prevenzione non sarebbe un “illecito” di qualsivoglia natura, bensì una sua ‘condizione’.

6.

La rilevanza delle misure di prevenzione in taluni recenti documenti dell’Unione Europea.

La tematica delle misure di prevenzione è stata al centro di taluni recenti documenti della “piccola Europa” ove si prefigura uno scenario di futuro incremento degli strumenti di confisca [F. MAZZACUVA]. Di particolare importanza è la risoluzione del Parlamento europeo del 25. 10.2011, avente ad oggetto, per l’appunto, la valorizzazione delle misure patrimoniali. Tale documento propone la presentazione, da parte della Commissione europea, di una direttiva quadro sulla procedura di sequestro e di confisca dei proventi di reato, con l’elaborazione di norme che consentano l’utilizzo efficace di strumenti quali la confisca in assenza di condanna, con attenuazione dell’onere della prova sull’origine dei beni in possesso delle persone condannate o imputate per reati connessi alla criminalità organizzata e la confisca nel caso di intestazione di beni a terzi (punto 8), che sembra evocare l’esperienza italiana delle misure di prevenzione patrimoniali. Nella proposta di direttiva del 17.5. 2013 redatta dalla Commissione speciale su Criminalità organizzata, corruzione e riciclaggio di denaro del Parlamento europeo si invitano gli Stati membri, «sulla base delle legislazioni nazionali più avanzate, a prendere in considerazione l’applicazione di modelli di confisca dei beni nel quadro del diritto civile, nei casi in cui, in base a sufficienti margini di probabilità e previa autorizzazione di un giudice, può essere stabilito che i beni derivano da attività criminali o sono utilizzati per attività criminali» (punto 21). Con riferimento alle misure di prevenzione, il testo è stato rielaborato ed integrato con la predetta risoluzione del Parlamento europeo del 23.10.2013, il quale, all’art. 27, contiene l’invito agli «Stati membri, sulla base delle legislazioni nazionali più avanzate, a introdurre modelli di confisca non basata sulla condanna, nei casi in cui, sulla base degli elementi di prova disponibili e subordinatamente alla decisione dell’autorità giudiziaria, possa essere stabilito che i beni in questione derivano da attività criminali o sono impiegati per svolgere attività criminali». L’art. 28 dispone che, -

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«nel rispetto delle garanzie costituzionali nazionali e fatti salvi il diritto di proprietà e il diritto di difesa, possono essere previsti strumenti di confisca preventiva applicabili solo a seguito di decisione dell’autorità giudiziaria», mentre l’art. 29 chiede alla Commissione di presentare «una proposta legislativa atta a garantire in maniera efficace il reciproco riconoscimento degli ordini di sequestro e confisca connessi alle misure di prevenzione patrimoniale adottate dalle autorità giudiziarie italiane e ai provvedimenti in materia civile adottati in diversi Stati membri; chiede agli Stati membri di disporre fin d’ora le misure operative necessarie a rendere efficaci tali provvedimenti». È evidente ed esplicito il riferimento alle misure di prevenzione patrimoniali italiane assimilata ai procedimenti civili previsti da altri ordinamenti. Altro documento rilevante dell’Unione Europea è la proposta della Commissione europea del 12.3.2012 «relativa al congelamento e alla confisca dei proventi di reato nell’Unione europea», volta a contrastare le attività della criminalità organizzata, privandola dei suoi proventi a livello trasnazionale. Tale atto impone l’introduzione di una «confisca non basata sulla condanna», riconosciuta legittima dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con adeguate garanzie procedurali, nel rispetto del principio di proporzionalità. Per la Commissione «l’impatto di questa opzione sui comportamenti criminali sarebbe significativo, in quanto la confisca non basata sulla condanna (perfino in circostanze limitate) e la confisca nei confronti di terzi obbligherebbero i criminali a modificare le loro pratiche e renderebbero più difficile l’occultamento dei beni». Nella relazione della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo avanzate il 20 maggio 2013 sono poi stati inseriti degli emendamenti in cui si propone di riformulare: l’art. 1, così come segue: «Al fine di lottare più efficacemente contro le organizzazioni criminali e le forme gravi di crimine, il motore principale della criminalità organizzata transfrontaliera, comprese le organizzazioni criminali di tipologia mafiosa, è il profitto economico. Di conseguenza, le autorità competenti dovrebbero disporre dei mezzi per rintracciare, congelare, gestire e confiscare i proventi di reato. Tuttavia, una prevenzione e lotta efficaci in materia di criminalità non dovrebbero limitarsi a neutralizzare i proventi di reato, ma piuttosto essere estese, in altri casi, a qualsiasi proprietà che risulti dalle attività di natura criminale. Il riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca dei proventi di reato non è sufficientemente efficace. Una lotta efficace contro la criminalità economica, la criminalità organizzata e il terrorismo richiederebbe il riconoscimento reciproco delle misure adottate in un settore diverso da quello del diritto penale o altrimenti adottate in assenza di una condanna penale nelle circostanze definite all’articolo 5 aventi per oggetto, più in generale, ogni possibile bene o reddito attribuibile ad una organizzazione criminale o ad una persona sospettata o accusata di appartenere ad un’organizzazione criminale». Al riguardo, l’art. 7-ter, secondo cui «Gli Stati membri sono liberi di adottare le procedure di confisca collegate a una causa penale dinanzi a qualsiasi giudice penale, civile o amministrativo. L’emissione di provvedimenti di confisca richiede in via generale una condanna penale. In taluni casi deve comunque essere

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possibile, anche laddove non possa ottenersi una condanna penale, confiscare beni al fine di contrastare le attività criminali quali la criminalità organizzata o il terrorismo e fare in modo che i profitti derivanti da tali attività non vengano reinvestiti nell’economia lecita. Alcuni Stati membri autorizzano la confisca laddove non vi siano prove sufficienti per l’azione penale, qualora l’autorità giudiziaria ritenga, secondo quanto è probabile, che i beni siano di origine illecita, nonché in situazioni in cui l’indagato o imputato si dia alla fuga per evitare l’azione penale o la condanna, sia incapace di essere processato per altri motivi o deceda prima del termine del procedimento penale. In altri casi alcuni Stati membri permettono la confisca per esempio laddove non si possa dar seguito a una condanna penale o non la si possa ottenere, qualora l’autorità giudiziaria sia convinta, dopo aver utilizzato tutti i mezzi di prova disponibili, inclusa la disproporzionalità dei beni rispetto al reddito dichiarato, che i beni derivano da attività di natura criminale. Questa tipologia è definita confisca non basata sulla condanna. È necessario che siano adottate disposizioni per consentire la confisca non basata sulla condanna in tutti gli Stati membri».

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Capitolo II

Le singole misure di prevenzione personali e patrimoniali

Sommario

1. I destinatari delle misure di prevenzione personali. – 1.1. I soggetti genericamente pericolosi. – 2. La pericolosità qualificata: l’“indiziato di appartenere ad associazioni di stampo mafioso”. – 2.1. (Segue) Lo standard indiziario della nozione di appartenente ad associazione mafiosa. – 3. I soggetti indiziati di uno dei reati ex art. 51, comma 3-bis c.p.p. – 4. I soggetti previsti dall’art. 4 lett. d), e) ed h) del Codice antimafia. – 5. Le figure emergenti di “pericolosità semplice” nella fascia dei colletti bianchi: l’applicazione delle misure di prevenzione all’evasore fiscale. – 6. La fattispecie di pericolosità e il requisito dell’“ancoraggio” della pericolosità sociale agli elementi di fatto. – 6.1. L’attualità della pericolosità sociale. – 7. La sospensione dell’esecuzione della misura di prevenzione personale a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena dell’interessato. In particolare la sentenza costituzionale del 2.12.2013, n. 291. – 8. Le singole misure di prevenzione personali. – 8.1. L’avviso orale. – 8.2. Il foglio di via obbligatorio. – 8.3. La sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. – 8.4. Il sistema preventivo in materia di accesso alle manifestazioni sportive (c.d. “D.a.s.p.o.”). – 8.4.1. La sentenza della Corte EDU nel caso Ostendorf c. Germania. – 9. I destinatari della prevenzione patrimoniale. – 10. Le misure di prevenzione patrimoniali. – 10.1. La cauzione – 10.2. L’applicazione provvisoria delle misure interdittive. – 10.3. Le misure interdittive obbligatorie. – 10.4. L’amministrazione giudiziaria dei beni personali. – 11. Le misure ablatorie. – 12. La confisca di prevenzione. – 12.1. La controversa natura giuridica: misura di sicurezza o sanzione penale? – 13. Il regime dell’applicazione disgiunta delle misure di prevenzione personali e di quelle patrimoniali nello specchio della Costituzione e della CEDU. – 13.1. L’interpretazione “correttiva” proposta in tema di applicazione disgiunta “pura”. – 14. L’ipotesi di morte del proposto ed il problema della sua legittimità costituzionale. – 14.1. La sentenza costituzionale n. 21/2012 – 15. Il requisito della disponibilità ed appartenenza del bene. – 16. La connessione con attività illecita o di reimpiego. Il requisito della sproporzione. – 17. Il requisito della connessione temporale tra pericolosità soggettiva ed acquisizione patrimoniale. – 18. La confisca per equivalente. – 19. La confisca della cauzione. – 20. La confisca ex art. 34 comma 7 Codice delle leggi antimafia. – 21. L’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche. – Bibliografia.

1. I destinatari delle misure di prevenzione personali. L’art. 4 del d.lgs. n. 159/2011 (Codice antimafia) elenca le categorie dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione personali.

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Le misure di prevenzione. Profili di diritto sostanziale

La disposizione tende a ricomporre, sia pure in parte, il quadro estremamente frammentario determinatosi in conseguenza della progressiva implementazione del sistema configurato dalla legge n. 1423/1956, così assecondando quelle esigenze di stabilizzazione e di armonizzazione della materia che hanno definito il quadro teleologico della riforma. La perimetrazione applicativa della prevenzione personale, in tal modo realizzata, non ha mancato di suscitare le perplessità di quanti hanno giudicato inopportuni sia l’assimilazione – nella cornice della medesima disposizione – di tipologie soggettive connotate da eterogenei coefficienti di pericolosità; sia il superamento del doppio binario della prevenzione ante delictum che differenziava la disciplina in rapporto, rispettivamente, agli indiziati di appartenenza ad associazioni di stampo mafiose ed agli individui genericamente pericolosi [FIORENTIN, 71; F. MAZZACUVA, 93]. A tenore del predetto art. 4 le misure di prevenzione personale sono applicabili: a) agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’art. 416-bis c.p.; b) ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’art. 51 comma 3-bis c.p.p. ovvero del delitto di cui all’art. 12-quinquies, comma 1 del d.l. 8.6.1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7.8.1992, n. 356; c) ai soggetti di cui all’art. 1 (ossia a: coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi; coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica); d) a coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal Capo I, Titolo VI, del Libro II del Codice penale o dagli artt. 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale; e) a coloro che abbiano fatto parte di associazioni politiche disciolte ai sensi della legge 20.6.1952, n. 645, e nei confronti dei quali debba ritenersi, per il comportamento successivo, che continuino a svolgere una attività analoga a quella precedente; f ) a coloro che compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista ai sensi dell’art. 1 della legge n. 645/1952, in particolare con l’esaltazione o la pratica della violenza; g) fuori dei casi indicati nelle lett. d), e) ed f ), a coloro che siano stati condannati per uno dei delitti previsti nella legge 2.10.1967, n. 895, e negli artt. 8 ss. della legge 14.10.1974, n. 497, e successive modificazioni, quando debba rite-

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nersi, per il loro comportamento successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine indicato alla lett. d); h) agli istigatori, ai mandanti e ai finanziatori dei reati indicati nelle lettere precedenti. È finanziatore colui il quale fornisce somme di denaro o altri beni, conoscendo lo scopo cui sono destinati; i) alle persone indiziate di avere agevolato gruppi o persone che hanno preso parte attiva, in più occasioni, alle manifestazioni di violenza di cui all’art. 6 della legge 13.12.1989, n. 401. 1.1. I soggetti genericamente pericolosi. – La categoria dei soggetti genericamente pericolosi – prevista dall’art. 1 del Codice delle leggi antimafia ed alla quale rinvia la lett. c) del successivo art. 4 – è, com’è noto, la più risalente. Prima di confluire nell’art. 1 della legge n. 1423/56, le tipologie a “pericolosità generica” comparivano nel Titolo VI del T.U.L.P.S. (r.d. n. 773/1931), ove, perpetuando un carattere originario della disciplina, venivano in considerazione come oggetto di applicazione – oltre che delle misure di prevenzione adottate dall’A.G. – anche dei provvedimenti cc.dd. “questorili”. Sin dall’articolazione in cinque sotto-categorie, riportata nella prima formulazione dell’art. 1 della legge n. 1423/1956, sono emerse le principali criticità che avrebbero, storicamente, caratterizzato le definizioni legislative dei destinatari della prevenzione personale (in un’ottica che comprende anche i soggetti a pericolosità qualificata), vale a dire, da un canto, l’intrinseca indeterminatezza delle fattispecie prognostiche; dall’altro, la problematica individuazione dei reali presupposti delle cc.dd. fattispecie indiziarie (quelle, cioè, che rilevano per il riferimento a fatti-reato non compiutamente accertati), oltre alla loro incoerenza con finalità preventive [BALSAMO, 132 ss.; MANGIONE, 212 ss.; F. MAZZACUVA, 94]. Tutte le categorie dei soggetti genericamente pericolosi sono state connotate mediante il ricorso alternativo a ciascuno dei due menzionati modelli, esponendosi ad un duplice ordine di critiche. Le fattispecie fondate su giudizi meramente prognostici o tipologici d’autore (i vagabondi, gli oziosi ed i proclivi a delinquere) sono state ritenute tanto scarsamente tassative quanto incompatibili con i valori costituzionali [FIANDACA, 115]. Le ipotesi centrate sugli indizi di reato – in via di principio più determinate e distanti dalla logica del tipo d’autore – hanno, per un verso, scoperto il fianco alle tradizionali difficoltà di ricostruzione ermeneutica della nozione di indizio; per l’altro, occultato una “truffa delle etichette” dal momento che hanno finito per configurare una sorta di reazione punitiva ad illeciti – commessi e non provati – piuttosto che delineare una forma di profilassi connessa a manifestazioni di pericolosità soggettiva. Come detto supra, Parte IV, cap. I, 2.1.1., l’evoluzione legislativa dei soggetti a pericolosità generica ha registrato una progressiva adesione al modello della fattispecie indiziaria.

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Dopo, infatti, la declaratoria di illegittimità costituzionale del riferimento normativo alla categoria dei “proclivi a delinquere” (sentenza n. 177/80) e l’abrogazione della previsione concernente i “vagabondi” e gli “oziosi” (legge n. 327/ 1988), delle originarie ipotesi contemplate dall’art. 1 della legge n. 1423/1956 erano sopravvissute soltanto le tipologie di soggetti “genericamente pericolosi” (oggi recepite nell’art. 1 del Codice delle leggi antimafia), ridescritte (nell’ottica di adeguarne i caratteri alle indicazioni della cennata sentenza costituzionale) attraverso il requisito degli “elementi di fatto” quale prova della “dedizione alla commissione di delitti”, ovvero del “vivere coi relativi proventi”. In questa direzione può, peraltro, essere letta la sostituzione – avvenuta nel testo dell’art. 3 del Codice antimafia, che disciplina l’avviso orale del questore – del riferimento ai sospetti con quello relativo agli indizi: si tratta di scelta legislativa che appare orientata a soddisfare istanze di garanzia delle valutazioni rilevanti, anche sul terreno di una misura non di competenza dell’A.G. Giova segnalare che, nell’ipotesi di chiusura prevista dalla lett. c) dell’art. 1 del Codice delle leggi antimafia, compare il richiamo all’integrità morale dei minori che, in ragione della sua evidente indeterminatezza [FIANDACA, 115], ripropone i medesimi inconvenienti dell’espressione abrogata dalla legge n. 327/88, relativa alle “attività contrarie alla morale pubblica e al buon costume”(cfr. supra, Parte IV, cap. I, 2.1.1.). Ora, se l’attuale formulazione delle fattispecie di pericolosità generica palesa un indubbio incremento del tasso di precisione e rende più forte il legame con valutazioni di tipo fattuale, permangono, nondimeno, due profili di perplessità. Un primo interrogativo riguarda la stessa possibilità di configurare un concetto di indizio (suffragato da elementi di fatto) che si collochi tra il mero sospetto e l’elemento idoneo a fondare una pronuncia di responsabilità penale; dipendendo, peraltro, il rapporto di reciproca autonomia tra procedimento di prevenzione e procedimento penale proprio dalla perimetrazione di quell’ambito nozionale a colorazione grigia. In proposito, se non mancano settori della letteratura che ritengono senz’altro individuabili, nella teoria e nella prassi, coefficienti probatori collocabili tra il sospetto e l’indizio grave, preciso e concordante – e che, quindi, hanno salutato con favore la soluzione legislativa che, presupponendoli, li promuove a standard identificativi della fattispecie di pericolosità –, viene fatto osservare, dalla dottrina meno disincantata, come gli unici presupposti di fatto a cui un giudice possa riferirsi siano quelli idonei a legittimare una pronuncia di responsabilità emessa in un procedimento di cognizione e come, all’infuori di essi, non sia possibile enucleare elementi di diversa attitudine probatoria, concretamente descrivibili nelle loro coordinate spaziali e temporali; la prescrizione legislativa si presterebbe, pertanto, ad essere utilizzata strumentalmente per riproporre, di fatto, una forma di repressione del sospetto [PALAZZO, 76 ss.; PETRINI, 222]. In secondo luogo, anche ammettendo la possibilità di individuare un autonomo ambito di operatività della fattispecie indiziaria, resta la critica di quanti hanno osservato come il presupposto definitorio delle categorie dei soggetti pericolosi non sarebbe altro che la previa commissione di un reato che non -

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si è riusciti a provare, piuttosto che un’autentica prognosi di pericolosità. Non appaiono proponibili per l’applicazione delle misure di prevenzione personale coloro che siano residenti o dimoranti all’estero. Tuttavia, la presenza sul territorio italiano degli stranieri li rende destinatari delle misure. Sebbene l’asserto non trovi esplicito fondamento nel Codice antimafia, si ritiene che le misure di prevenzione personali non siano applicabili ai minori, per i quali l’ordinamento ha predisposto uno specifico sistema di trattamento delle forme di antisocialità che non si manifestino nella commissione di reati. Controversa è la questione dell’applicabilità delle misure di prevenzione agli alienati mentali – per i quali la legge prevede il ricorso ad un trattamento sanitario obbligatorio – in quanto legata all’estensione analogica degli artt. 88 ss. [F. MAZZACUVA, 95].

2.

La pericolosità qualificata: l’“indiziato di appartenere ad associazioni di stampo mafioso”.

Quella degli indiziati di appartenere ad un’associazione di stampo mafioso è la categoria di soggetti a pericolosità qualificata più significativa dal punto di vista politico-criminale [BALSAMO, 89 ss.]. A partire dalla legge n. 575/1965 – quando cioè la nozione assurge al rango di presupposto della misura di prevenzione della sorveglianza speciale –, e, poi, attraverso la legge n. 646/82 che la costruisce quale condizione generale di applicabilità della c.d. confisca antimafia, l’ordinamento penale lato sensu assegna alle misure di prevenzione un ruolo importante nella strategia di contrasto alla criminalità organizzata. Si comprende, pertanto, come proprio quella categoria finisca per assumere rilievo centrale nella valutazione della natura e della legittimità costituzionale dell’intero comparto della prevenzione ante delictum. Su questo piano, non può sottacersi come, sin dalla sua apparizione nell’art. 1, legge n. 575/65, essa abbia sollevato le perplessità della dottrina in ordine a due profili che con maggiore pregnanza profilavano dubbi di compatibilità con la Legge fondamentale: l’uno concernente l’asserito deficit di tassatività e determinatezza della nozione, originato dalla mancata definizione legislativa del fenomeno mafioso [TAGLIARINI, 372]; l’altro relativo alla già segnalata difficoltà di ritagliare un concetto di “indizio” (rilevante nell’ottica della fattispecie di prevenzione) capace di situarsi in uno spazio mediano tra il “sospetto” e la “prova” di reità. Ora, se il primo rilievo può dirsi oggi in parte superato, in seguito alla costruzione del “tipo criminoso” dell’associazione di stampo mafioso avvenuta con l’art. 416-bis c.p., la seconda obiezione si intreccia con gli sforzi ermeneutici di quanti sono chiamati a conferire agibilità interpretativo/applicativa alla nozione. A quest’ultimo riguardo, giova rimarcare come la giurisprudenza abbia ormai superato un primo indirizzo il quale – sul presupposto secondo cui «la no-

12.

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zione di appartenenza di cui all’art. 1 della legge n. 575/1965 è ben più ampia di quella cui ha riguardo la norma del codice penale» [Cass., sez. VI, 15.12.2009, n. 42324] – riteneva applicabile le misure anche a soggetti non appartenenti al sodalizio mafioso, ma ad essi omologati in quanto considerati espressione di “analoga” sub-cultura criminale [Cass., sez. I, 3.2.2010, Russo, n. 7937]. A risultare oggi dominante è, invero, la tesi secondo cui anche la fattispecie di pericolosità qualificata – al pari della figura criminosa della partecipazione – si puntualizza sulla condizione di associato del proposto, divergendo le medesime esclusivamente in ragione dei distinti livelli probatori richiesti per la relativa integrazione [Cass., sez. I, 7.4.2010, n. 246943]. Costituendo, dunque, la fattispecie penale della partecipazione associativa di tipo mafioso la struttura di tipicità in rapporto alla quale va modellata la dimensione indiziaria del concetto di appartenente ad associazione di stampo mafioso, consegue che anche nella prospettiva di definizione del presupposto della misura di prevenzione occorra fare rinvio alla complessa elaborazione interpretativa che ha investito la disposizione del primo comma dell’art. 416-bis c.p. In argomento, dottrina e giurisprudenza hanno, com’è noto, fornito plurimi schemi ricostruttivi, oscillanti tra: a) l’assunto che ha ritenuto sufficiente un apporto causale alla vita dell’associazione (c.d. modello causale), b) la tesi che ha sottolineato la necessità di accertare lo stabile inserimento del soggetto nel circuito delle relazione di tipo organizzativo del sodalizio (c.d. modello organizzatorio) e c) l’indirizzo che – originato dall’integrazione di entrambi i menzionati orientamenti – delinea un modello ‘misto’ di partecipazione, in virtù del quale viene considerato partecipe colui che, nella qualità di membro dell’associazione, abbia compiuto atti di militanza associativa, espressivi, cioè, del ruolo assunto [riferimenti in (a) MAIELLO, 87 ss.]. A quest'ultima impostazione hanno aderito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione [12.7.2005, n. 33748, Mannino, in Cass. pen., 2005, 3732], che hanno disegnato un paradigma c.d. misto (o integrato/dialettico) di partecipazione associativa, stabilendo come il significato dell’espressione “fa parte” (che regge l’enunciato normativo della partecipazione nell’associazione di tipo mafioso) debba intendersi in senso dinamico/funzionale. In pratica, esso coincide con il “prendere parte a”, alludendo all’effettiva immissione nel ruolo associativo con adempimento dei compiti correlativi e messa a disposizione del sodalizio affinché quest’ultimo possa raggiungere gli scopi oggetto del programma [di recente, Cass., sez. V, 9.3.2012, Dell’Utri, in Cass. pen., 2012, 4562 ss.]. Occorrendo, allora, utilizzare proprio questa nozione di intraneità per nutrire di contenuto il concetto di appartenente ad associazioni di tipo mafioso, rilevante ai sensi dell’art. 4, lett. a) del Codice delle leggi antimafia, dovrebbe discendere che questa categoria non sia inclusiva della figura del c.d. concorrente esterno, i cui caratteri costitutivi divergono significativamente dalla fattispecie della partecipazione associativa. L’extraneus, infatti, si identifica nel soggetto che, non facendo parte dell’associazione e non volendo esserlo, fornisce ad essa – per l’appunto da esterno – un contributo che produce un effettivo risultato di mantenimento in vita o di rafforzamento della relativa struttura organizzativa [Cass., S.U., 12.7.2005, cit.]. La giurisprudenza di legittimità patrocina, tuttavia, un’opposta soluzione; secondo Cass., sez. I, 7 aprile 2010, n. 16783 «questa Corte intende dar continuità al principio di diritto secondo cui, sulla base della premessa circa l’identità tra la fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p. e quella di cui alla l. n. 575 del 1965, art. 1, alla luce del principio generale del diritto penale relativo al concorso di persone, nessuna distinzione può essere adottata fra intraneo, partecipe non intraneo e concorrente esterno neppure in materia di prevenzione; infatti anche il concorrente esterno concorre nella partecipazione e quindi rientra fra gli appartenenti alle associazioni indicate nella l. n. 575 del 1965, art. 1». Ora, in questa scansione argomentativa affiora una certa confusione di piani tra il modello unita-

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rio a cui è informata la disciplina codicistica del concorso criminoso ed il tema della definizione delle figure di appartenente all’associazione e di concorrente esterno che, dopo gli asserti della sentenza Mannino, non sono equiparabili, integrando due condotte antitetiche sul piano dei rapporti con l’organismo associativo e non omologabili sul versante della pregnanza criminologica. Sotto il profilo strettamente normativo, importa rilevare che il legislatore ha utilizzato il concetto di appartenenza, anziché impiegare locuzioni quali condotte rilevanti ai sensi dell’art. 416-bis c.p. D’altra parte, l’estensione delle misure di prevenzione ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. potrebbe sdrammatizzare il problema di tutela, favorendo l’abbandono dell’interpretazione qui censurata, senza sacrificare esigenze di intervento (lato sensu) punitivo. In pratica, rendendo destinatario della misura l’indiziato di un delitto commesso al fine di agevolare un’associazione di stampo mafioso, indirettamente, il legislatore ha dotato il sistema di prevenzione del potere di attrarre, nella sfera di applicazione dei propri strumenti, parte dei soggetti che potrebbero andare incontro a responsabilità penale a titolo di concorso esterno. Pur non essendo, invero, sovrapponibile l’area di rilevanza del delitto aggravato dalla finalità di agevolare un’associazione di stampo mafioso con quella sussumibile nel titolo criminoso del concorso esterno, è, tuttavia, indubbio che – nella logica probatoria, a maglie più larghe, del giudizio di prevenzione – si possa giungere ad esiti di parziale assimilazione dei due ambiti [sul tema FILIPPI, CORTESI, 65].

2.1. (Segue) Lo standard indiziario della nozione di appartenente ad associazione mafiosa. – Sul già sottolineato presupposto che la nozione di appartenente ad associazione di stampo mafioso e quella criminosa di partecipazione associativa si differenziano sul solo piano dei rispettivi standard probatori, viene affermato che mentre l’accertamento di pericolosità può legarsi ad una piattaforma di “indizi sufficienti”, la verifica della responsabilità penale resta ancorata alla ricorrenza di indizi “gravi, precisi e concordanti” [BALSAMO, 89 ss.]. Quanto alle condizioni probatorie richieste per l’integrazione della fattispecie di pericolosità qualificata, si sostiene, nell’ambito di un indirizzo costante, che «data l’autonomia dal processo penale, la prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri prescritti dall'art. 192 c.p.p.», principio dal quale scaturiscono diverse e rilevanti ricadute applicative. Anzitutto, nella frequente ipotesi di propalazioni da parte di collaboratori di giustizia, la Corte di cassazione afferma che tali chiamate in correità non devono essere sorrette da quei riscontri esterni individualizzanti richiesti, di norma, nel processo di cognizione [Cass., sez. I, 23.9.2013, n. 39204; Cass., sez. I, 29.4.2011, Rv. 250278]. Viene fatto osservare, poi, come l’assoluzione di un soggetto dal reato di cui all’art. 416-bis c.p. non sia di ostacolo alla successiva irrogazione di una misura di prevenzione per appartenenza ad associazione di stampo mafioso poiché è sempre consentita l’utilizzazione delle circostanze di fatto desumibili dallo stesso procedimento di cognizione conclusosi con l’assoluzione, purché risultino significative ai fini del riconoscimento della qualità di indiziato [Cass., 15.12.2009, n. 5647]. Così, è stato più volte affermato, anche di recente [Cass., sez. II, 22.10.2013, n. 43145; Cass., sez. VI, 8.1.2013 n.4668; Cass., sez. V, 17.1.2006 n.9505; Cass., S.U., 10.12.1997 n. 18], che nel procedimento di prevenzione il giudice può utilizzare elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali e procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei fatti ivi accertati, purché dia atto in motivazione, specie quando essi abbiano dato luogo ad una pronuncia assolutoria, delle ragioni per cui siano da ritenere sintomatici dell’attuale pericolosità del proposto. Nel giudizio di prevenzione vige, infatti, la regola della piena utilizzazione di qualsiasi elemento indiziario desumibile anche da procedimenti penali in corso e finanche da quelli definiti con sentenza irrevocabile di assoluzione, purché certo ed idoneo per il suo valore sintomatico a giustificare il convincimento del giudice che è ampiamente discrezionale in ordine alla pericolosità sociale del proposto [Cass.,

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sez. II, 28.5.2008 n. 25919]. Nell’ambito di tale valutazione, il giudice della prevenzione non è vincolato all’osservanza dell’art. 192 c.p.p., norma che è funzionale all’accertamento della responsabilità penale, potendo egli fondare il proprio convincimento su elementi di minore efficacia probatoria, i quali siano idonei a dimostrare, sul piano indiziario, che il prevenuto sia persona socialmente pericolosa [Cass., sez. VI, 8.1.2013, n. 4668]. È inevitabile, peraltro, come – nell’ambito di una giurisprudenza che si affatica a gestire con difficile equilibrio l’elaborazione dei coefficienti probatori – non siano mancate pronunce nelle quali si è assistito ad una vera e propria dequotazione della nozione di indizio, in un’ottica che inclina pericolosamente alla logica del sospetto [Cass., sez. V, 31.3.2000 n. 1968].

Occorre considerare che la problematica individuazione degli indizi di appartenenza (e, in generale, di ogni fattispecie indiziaria richiamata nel sistema di prevenzione) risulta accentuata anche da ragioni attinenti alle peculiari acquisizioni conoscitive del giudizio di prevenzione, in particolare, dalla natura essenzialmente documentale del relativo procedimento probatorio. Spesso, quest’ultimo si fonda sugli atti del parallelo processo penale per i medesimi fatti, ovvero sulle informative di p.g., con la conseguenza che la garanzia del contraddittorio degrada a tecnica di argomentazione difensiva su atti preformati. Sul rilievo che taluni fatti-presupposto della fattispecie di pericolosità qualificata – quali l’esistenza del sodalizio di tipo mafioso – debbano formare oggetto di prova piena, quanti ammettono che la pronuncia di insussistenza del fatto per insufficienza di prove possa comunque fondare l’applicazione della misura di prevenzione in ragione dell’autonomia dei procedimenti e della diversità dei coefficienti probatori richiesti, precisano che – in tale ipotesi –l’accertamento della pericolosità individuale deve essere particolarmente rigoroso e deve alimentarsi di elementi che siano ulteriori ed autonomi [F. MAZZACUVA, 96].

3. I soggetti indiziati di uno dei reati ex art. 51 comma 3-bis c.p.p. La lett. b) dell’art. 4 del Codice delle leggi antimafia individua quali destinatari delle misure di prevenzione personali i soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’art. 51 comma 3-bis c.p.p. ovvero del delitto di cui all’art. 12-quinquies comma 1 del d.l. n. 306/1992, convertito con modifiche dalla legge n. 356/1992. Anche qui, il legislatore ha costruito una fattispecie indiziaria di pericolosità qualificata, imperniata intorno a delitti particolarmente gravi di norma connessi all’agire del crimine organizzato [F. MAZZACUVA, 97]. La prima parte dell’enunciato normativo rinvia ad alcuni reati (consumati o tentati) in ordine ai quali, ai sensi dell’art. 51 c.p.p., la competenza investigativa è istituita presso il P.M. distrettuale, segnatamente: a) l’associazione criminosa finalizzata alla commissione dei reati di cui agli artt. 600, 601 e 602 c.p., di taluni reati previsti in materia di immigrazione e di quelli puniti dagli artt. 473 e 474 c.p. in tema di contraffazione e commercio di marchi registrati; b) i delitti di cui agli artt. 600, 601, 602 (qui considerati a prescindere dal fatto di essere reati-scopo di un’associazione

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criminale) e 630 c.p.; c) il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso o i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare tali associazioni; d) i delitti previsti dall’art. 74 d.p.r. n. 309/1990 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), dall’art. 291-quater d.p.r. n. 43/1973 (associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri) e dall’art. 260 d.lgs. n. 152/2006 (attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti). La scelta di estendere l’ambito soggettivo delle misure di prevenzione agli indiziati di tali reati conferma l’omologa opzione effettuata dall’art. 10 legge n. 125/2008, che, in sede di conversione del d.l. n. 92/2008 (c.d. pacchetto di sicurezza del 2008), aggiunse, per l’appunto, le predette fattispecie all’ambito dell’art. 1 legge n. 575/1965. La previsione dell’applicabilità delle misure di prevenzione agli indiziati del reato di trasferimento fraudolento di valori previsto dall’art. 12-quinquies d.l. n. 306/1992, recepisce la più recente modifica legislativa in tema di destinatari delle misure di prevenzione introdotta dall’art. 2 comma 4 legge n. 94/2009 (c.d. pacchetto sicurezza del 2009). In argomento, la Suprema Corte [Cass., sez. I, 10.7.2013, n. 29562] ha di recente affermato che, avuto riguardo all’art. 12 quinquies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, la principale misura di prevenzione patrimoniale è la confisca, prevista dalla legge 31.5.1965, n. 575, art. 2-ter comma 3. Essa «può colpire anche i beni che risultano essere stati fittiziamente intestati o trasferiti a terzi. Il fatto che l'elusione delle disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale sia menzionata per descrivere l'elemento soggettivo del reato (“... al fine di eludere ...”) non autorizza affatto la conclusione che la oggettiva elusione sia irrilevante. In altre parole, occorre verificare se sia sufficiente la presenza nell’agente del “timore di possibili aggressioni al patrimonio” in conseguenza delle misure di prevenzione patrimoniali o se occorra anche verificare se le misure possano effettivamente essere adottate. Il legame tra la fattispecie incriminatrice e la l. n. 575 del 1965, art. 2-ter, deve, quindi, essere approfondito. Come è pacifico, nei confronti degli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso non può essere disposta la confisca indiscriminata di tutti i beni di cui essi sono titolari, anche per interposta persona o hanno la titolarità. Al contrario, non possono essere confiscati i beni di cui il soggetto può giustificare la legittima provenienza; così come non possono essere confiscati beni di cui l’indiziato ha la disponibilità in valore proporzionato al proprio reddito o alla propria attività economica; si, perché anche un indagato di appartenere ad associazione mafiosa può avere un’attività economica lecita. La norma dell’art. 2 ter cit. prevede, inoltre, la confisca dei beni “che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”: la forma verbale utilizzata dal legislatore indica la necessità che venga raggiunta la prova delle attività illecite e dell'acquisto del bene da confiscare con i conseguenti proventi». La Suprema Corte, non a caso, ha affermato che, in virtù della legge n. 575/1965, art. 2-ter, il sequestro e la successiva confisca non possono indiscriminatamente colpire tutti i beni di coloro che sono sottoposti a misure di prevenzione personali, bensì solo quelli che si ha motivo di ritenere frutto di attività illecite o che ne costituiscano il reimpiego. Ne consegue che «nelle ipotesi in cui il reimpiego del denaro, proveniente da fonte sospetta di illiceità penale, avvenga mediante addizioni, accrescimenti, trasformazioni o miglioramenti di beni già nella disponibilità del soggetto medesimo, in virtù di pregresso acquisto del tutto giustificato da dimostrato titolo lecito, il provvedimento ablativo deve essere rispettoso del generale principio di equità e, per non contrastare il principio costituzionale di cui all'art. 42 Cost., non può coinvolgere il bene nel suo complesso, ma, nell'indispensabile contemperamento delle generali esigenze di prevenzione e difesa sociale con quelle

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private della garanzia della proprietà tutelabile, deve essere limitato soltanto al valore del bene medesimo, proporzionato all'incremento patrimoniale per il reimpiego in esso effettuato di profitti illeciti» [Cass., sez. I, 4.7.2007, n. 33479].

4. I soggetti previsti dall’art. 4, lett. d), e) ed h) del Codice antimafia. Le lett. d), e) ed h) della disposizione in rubrica prendono in considerazione, nell’ordine: coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l'ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal Capo I, Titolo VI, del Libro II del Codice penale o dagli artt. 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale; coloro che abbiano fatto parte di associazioni politiche disciolte ai sensi della legge n. 645/1952 (c.d. legge Scelba), e nei confronti dei quali debba ritenersi, per il comportamento successivo, che continuino a svolgere una attività analoga a quella precedente; coloro che compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista ai sensi dell’art. 1 della legge n. 645/1952, in particolare con l’esaltazione o la pratica della violenza [F. MAZZACUVA, 98]. Le tre categorie citate furono introdotte nel sistema delle misure di prevenzione con l’art. 18 della legge n. 152/1975 (c.d. legge Reale) e, com’è evidente, hanno come comune denominatore la matrice sovversiva delle condotte considerate; proprio l’esigenza di prevenire fatti volti al capovolgimento dell’ordine politico ha, in particolare, suggerito al legislatore di accordare rilievo – nelle ipotesi sub d) ed e) – anche ad atti meramente preparatori, purché “obiettivamente rilevanti”, rispetto alla commissione dei reati in parola. Come veniva osservato già nei primi commenti alla novella legislativa, tuttavia, gran parte delle fattispecie penali richiamate appartiene alla tipologia dei cc.dd. delitti di attentato e, pertanto, vengono decisamente accentuati i profili di sovrapposizione tra la fattispecie preventiva e quella penale [(b) BRICOLA, 268]; di conseguenza, è evidente che la concreta operatività della prima dipende essenzialmente dall’ampiezza del significato che si intenda attribuire alla nozione di attentato. In particolare, qualora si estendano interpretativamente a tale tipologia di norma incriminatrice i requisiti di adeguatezza, idoneità ed univocità degli atti (accanto a quello della direzione solitamente richiesto), appare conseguentemente possibile distinguere gli atti preparatori “obiettivamente rilevanti” da quelli di attentato; in caso contrario, risulterebbe velleitaria ogni distinzione tra la fattispecie preventiva e quella repressiva. Peraltro, anche volendo così ricostruire un ambito autonomo di operatività della norma, emerge evidentemente un problema di determinatezza della nozione di atto “preparatorio” ed “obiettivamente rilevante” [(b) BRICOLA, 269]. In particolare, è stato osservato come atti meramente preparatori non possano essere oggettivamente rilevanti in senso stretto (ossia univoci), potendo tale aspet-

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to essere apprezzato solo in riferimento a condotte che siano prossime alla fase esecutiva tipica mentre, allo stesso tempo, non sarebbe accettabile una concezione soggettivistica della nozione di direzione – pur accolta da alcuni autori [PETRINI, 209] – proprio perché in contrasto con il requisito dell’obiettiva rilevanza. Chiamata a confrontarsi con tale problematica, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 177/1980, si limitava ad affermare che: «è difficile negare che le fattispecie descritte dall’art. 18, n. 1, della legge n. 152 del 1975 abbiano i necessari requisiti di determinatezza. Gli atti preparatori, infatti sono riferiti ad una pluralità di figure di reato tassativamente indicate, sottolineandosi in tal modo l’accennato carattere strumentale dell’atto preparatorio medesimo, sottolineatura ulteriormente ribadita con l’inciso obiettivamente rilevanti, che richiama non solo e non tanto il dato, ovvio, della rilevanza esterna dell’atto quanto la sua significatività rispetto al fine delittuoso perseguito dall’agente. Infine, gli atti preparatori devono essere finalizzati al sovvertimento dell'ordinamento dello Stato e della sussistenza di questo requisito dovrà darsi la prova nel caso concreto». Sulla scorta di tale autorevole presa di posizione, pertanto, la giurisprudenza di legittimità [Cass., sez. V, 25.9.2009, n. 40490] ha affermato che, ai fini dell’applicazione della misura di prevenzione, la condotta deve effettivamente manifestarsi all’esterno pur rimanendo nell’ambito della mera preparazione e, quindi, restando fuori sia dall’ambito del tentativo punibile, sia dalla tipicità criminosa dell’attentato, poiché in questi ultimi casi si applicherebbero le sanzioni penali previste dalle cornici edittali. Sembra, quindi, che ai fini della misura di prevenzione rilevino atti preparatori che non siano idonei né prossimi, da un punto di vista logico-cronologico, all’inizio di esecuzione del fatto tipico, posto che questa tipologia di attività propedeutiche alla commissione del reato viene ritenuta dalla giurisprudenza e dalla dottrina maggioritaria punibile ai sensi dell’art. 56 c.p. [riferimenti in F. MAZZACUVA, 98]. Considerazione specifica merita, infine, l’ipotesi contemplata dalla lett. e), la quale non fa riferimento ad atti preparatori bensì allo svolgimento di attività “analoghe” a quelle delle associazioni disciolte ai sensi della legge n. 645/1952 in attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione in materia di fascismo. Oltre al problema del carattere indeterminato del riferimento all’analogia per la definizione delle condotte rilevanti, affiora un’evidente sovrapposizione tra l’attività punibile ai sensi della legge citata e quella analoga che è presupposto dell’applicazione di una misura di prevenzione [PETRINI, 210]. Tale sovrapposizione è stata risolta in dottrina [F. MAZZACUVA, 98] facendo riferimento, ancora una volta, allo scarto tra elementi probatori ed indiziari ovvero, secondo diversa ricostruzione, osservando che la fattispecie preventiva sarebbe integrata in presenza di circostanze di fatto precise (non già di meri indizi) relative ad attività effettivamente volte alla riorganizzazione del partito fascista ma non aventi ancora i requisiti di punibilità indicati dalla legge (quali, ad esempio, il numero di cinque persone, la presenza in pubbliche riunioni, l’attività di propaganda) [F. MAZZACUVA, 98].

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La lett. h) dell’art. 4 del Codice antimafia estende l’applicabilità delle misure di prevenzione agli istigatori, ai mandanti ed ai finanziatori dei reati di matrice sovversiva sopra descritti. Sebbene il tenore testuale della disposizione sia alquanto impreciso, alla luce dell’interpretazione ‘storica’ si deve intendere il rinvio alle lettere precedenti come concernente esclusivamente le ipotesi sub d), e) ed f ), in quanto la norma traspone la previsione dell’art. 18 comma 2 legge n. 152/1975 la quale si riferiva, per l’appunto, ai soggetti considerati dal primo comma del medesimo articolo. Tale disposizione, peraltro, già si prendeva cura di precisare (comma 3), come, per finanziatore, dovesse intendersi colui il quale fornisce somme di denaro o altri beni, conoscendo lo scopo cui sono destinati, secondo una definizione attualmente recepita dall’art. 4 del Codice. Ora, come autorevole dottrina ha da tempo evidenziato, la previsione legislativa in esame risulta anomala laddove prende in autonoma considerazione condotte comunque qualificabili quali ipotesi di concorso criminoso [NUVOLONE, 647]. L’unica conclusione che appare coerente con il dato normativo è, allora, ritenere che le fattispecie preventive indiziarie contemplino esclusivamente, in caso di realizzazioni plurisoggettive, le ipotesi nelle quali il soggetto è indiziato di aver posto in essere atti in tutto (autoria) o in parte (coautoria o esecuzione frazionata) tipici, potendo rilevare i contributi atipici solo per espressa previsione legislativa. Come, peraltro, osservato in relazione agli indiziati di appartenere ad un’associazione mafiosa, il reato-base dovrebbe essere pienamente provato, potendo la valutazione di natura indiziaria investire il solo contributo atipico [GUERRINI, MAZZA, RIONDATO, 140 ss.; F. MAZZACUVA, 99]. Ai sensi della lett. i) dell’art. 4 del Codice delle leggi antimafia, le misure di prevenzione sono applicabili altresì ai soggetti indiziati di avere agevolato gruppi o persone che hanno preso parte attiva, in più occasioni, alle manifestazioni di violenza di cui all’art. 6 della legge n. 401/1989. In proposito, occorre ricordare che quest’ultima disposizione ha attribuito all'autorità di pubblica sicurezza il potere di ordinare il divieto di accesso ai luoghi ove si svolgono competizioni agonistiche alle persone che vi si rechino con armi improprie, ovvero che siano state condannate o denunciate per aver preso parte attiva ad episodi di violenza con grida e scritte. Si tratta di una prescrizione specifica rispetto alla quale, dopo un iniziale “disimpegno” giurisprudenziale, è stata pacificamente accolta la qualificazione come autentica misura di prevenzione personale, anche perché sostanzialmente volta a recepire uno degli obblighi inerenti la sorveglianza speciale. La disciplina della prevenzione della violenza sportiva è stata successivamente implementata mediante una cospicua serie di interventi legislativi che ne hanno comportato un’estensione dello spettro applicativo sia riguardo ai destinatari soggettivi, sia rispetto all’ambito spaziale (esteso ai luoghi di sosta, transito o trasporto di coloro che partecipano o assistono alle competizioni agonistiche) e, soprattutto, al contenuto delle prescrizioni (con la previsione di un obbligo di presentazione personale in un ufficio o comando di polizia nel periodo di svolgimento della competizione per la quale opera il divieto). Si tratta, peraltro, solo di alcuni dei plurimi interventi di riforma subiti dalla normati-

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va, in relazione alla quale occorre osservare come il Codice delle leggi antimafia non ha assorbito tutta la complessa e stratificata disciplina, avendo recepito il solo art. 7-ter della legge n. 401/1989 che, introdotto con il d.l. n. 8/2007, aveva esteso l’operatività delle misure di prevenzione previste dalla legge n. 1423/1956 agli indiziati di aver agevolato tali manifestazioni di violenza. La previsione di tale specifica categoria di potenziali destinatari definisce uno spazio di indubbia eccentricità rispetto alle tradizionali connotazioni della prevenzione personale, meno, invece, riguardo alla prevenzione patrimoniale, richiamata dalla particolare ipotesi di confisca atipica attualmente prevista dall’art. 16 comma 2 del Codice delle leggi antimafia. La lett. g) dell’art. 4 del Codice delle leggi antimafia dispone che, fuori dei casi indicati nelle lett. d), e) ed l), possono essere destinatari dell'applicazione di misure di prevenzione i soggetti che siano stati condannati per uno dei delitti previsti nella legge n. 895/1967 e negli artt. 8 ss. della legge n. 497/1974 (e successive modificazioni) quando debba ritenersi, per il loro comportamento successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine indicato alla lett. d). Così disponendo, la norma non fa che trasporre la disposizione introdotta per la prima volta con il già menzionato art. 18 comma 1 della legge n. 152/1975 il cui n. 4 completava la considerazione dei potenziali sovvertitori dello Stato. Si tratta di un’ipotesi i cui presupposti appaiono, a ben vedere, sovrapporsi a quelli della misura di sicurezza laddove viene richiesta la sussistenza di un requisito “oggettivo” quale la condanna per un reato (nello specifico, per determinati delitti in tema di armi da guerra) ed uno “soggettivo” concernente la tendenza alla recidiva del preposto (il quale, anziché aggiungersi, appare sostituirsi a quello generale della pericolosità per la sicurezza pubblica). Peraltro, nonostante che il primo dei due elementi contribuisca a conferire determinatezza alla norma rendendone più saldo il collegamento con una fattispecie criminale (come detto, addirittura richiedendo il pieno accertamento della responsabilità penale del soggetto), già nei primi commenti alla riforma del 1975 si osservava come sfuggisse ad ogni garanzia di certezza la valutazione relativa ai comportamenti successivi in grado di dimostrare la proclività alla recidiva specifica [PETRINI, 209], critiche che risultano avvalorate alla luce della segnalata sentenza costituzionale n. 177/1980 dichiarativa della illegittimità costituzionale della categoria dei proclivi a delinquere [F. MAZZACUVA, 101]. Le figure emergenti di “pericolosità semplice” nella fascia dei collet5. ti bianchi: l’applicazione delle misure di prevenzione all’evasore fiscale. Introdotte per contrastare la devianza marginale degli outsiders di ottocentesca memoria, prima, e gli indiziati di appartenenza ad associazioni mafiose, poi, – in un’ottica politico-criminale ipotecata dall’esigenza di rafforzare gli strumen-

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ti di intervento a difesa dell’ordine pubblico – le misure di prevenzione si sono evolute in strumento diretto a colpire i beni e le ricchezze utilizzate e/o ottenute mediante l’attività delittuosa, privando in tal modo il soggetto qualificato pericoloso di mezzi rilevanti per la reiterazione criminosa. Se, in origine, questa destinazione funzionale era circoscritta alle accumulazioni illecite degli indiziati di mafia (o alle ulteriori condotte in seguito previste dall’art. 14 legge n. 55/1990), successivamente essa è stata estesa ai beni posseduti dai soggetti rientranti nelle categorie della c.d. pericolosità comune; in particolare: 1) coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi. Si tratta delle persone che, con continuità, sono aduse a condotte riferibili a delitti (e non a mere contravvenzioni), seppur non tali da integrare estremi di reato (artt. 4 lett. c) e 1 lett. a) d.lgs. n. 159/2011; art. 1 n. 1) legge n. 1423/1956 previgente); 2) coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose. Si tratta di persone che si sostengono, per condotta abitudinaria ed esistenziale, anche solo in parte, con il ricavato di attività provenienti da delitto, pur se non vi siano elementi per ritenere che abbiano commesso tali reati (artt. 4 lett. c) e 1 lett. b) d.lgs. n. 159/2011; art. 1 n. 2 legge n. 1423/1956 previgente). Il dato normativo è, dunque, univoco nel richiedere un’abitualità nella dedizione a traffici delittuosi ovvero nel vivere, anche in parte, con i proventi di attività delittuose, senza specificazioni di categorie di delitti, a differenza di quanto prevedeva l’art. 14 legge n. 55/1990 (abrogato con la riforma del 2008). Questa “mutazione” teleologica delle misure di prevenzione trova origine, sul piano criminologico, nella ritenuta maggiore pericolosità del patrimonio illecitamente accumulato piuttosto che del suo autore e, quindi, nell’esigenza di affinare uno strumento di contenimento preventivo delle manifestazioni di pericolosità capaci di colpire, per l’appunto, quel genere di ricchezze illecite. In questa ottica, appare plausibile la scelta legislativa di svincolare il giudizio di pericolosità da un sistema di fattispecie criminose precostituite e di fondarlo, invece, sul dato di una pericolosità generica, espressione di capacità criminale riferita a qualsiasi genere di attività delittuosa. Deve essere, tuttavia, chiaro come tale prospettiva non possa legittimare scorciatoie che consentano di pseudo criminalizzare condotte sfuggite alle sanzioni penali di competenza dell’agenzia maestra del (diritto e del) processo penale [MENDITTO, 342]. Ciò significa che, anche nel settore dei white collars crimes, ciò che (può) giustifica(re) l’inflizione di una misura di prevenzione resta la sussistenza dei requisiti che strutturano la “fattispecie di pericolosità”, vale a dire una condotta di vita che, nella sua dimensione di consuetudinarietà, si alimenta dei profitti criminosi. Ne consegue che, nel mentre si è al di fuori dell’area di rilevanza di una pericolosità sociale assoggettabile al regime (sanzionatorio) della prevenzione in ipotesi di realizzazione di isolati fatti di corruzione, ricorrono gli estremi per un

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“intervento” affidato alle misure in questione ove gli episodi siano reiterati e, perciò, espressivi di una condotta di vita abitudinaria da cui la persona trae giovamento (Dec. Trib. Roma, 28.5.13, pres. Casa, est. Di Zenzo, inedito). Le modifiche normative degli ultimi anni hanno, così, delineato una trasfigurazione dello sfondo criminologico delle misure di prevenzione, deputate, sic stantibus rebus, ad attrarre nella loro sfera di azione comportamenti sociali tradizionalmente immuni da un genere di intervento coattivo la cui agibilità è stata pensata, e storicamente garantita, per protagonisti di diversa collocazione sul piano economico-sociale. Il riferimento corre a soggetti che, anche sfruttando le proprie competenze professionali, sviano l’attività di impresa, contaminandola con una logica di produzione illecita del profitto. In tale quadro, si collocano le decisioni giurisprudenziali che hanno riconosciuto il tipo dell’“evasore fiscale socialmente pericoloso”. Sulla medesima scia, potrebbero aprirsi spazi per conferire rilievo alla figura del “corruttore socialmente pericoloso”, così come di quella del “truffatore socialmente pericoloso”, vale a dire a categorie di soggetti pericolosi che – pur in assenza di puntuali previsioni normative – assumerebbero rilevanza nell’ottica dell’art. 1 lett. a) e b) d.lgs. n. 159/2011. In tale direzione si sono orientati due decreti, rispettivamente, del Tribunale di Cremona e del Tribunale di Chieti (Trib. Cremona, 23.1.2013, Pres. Massa, est. Beluzzi e Trib. Chieti, 12.7.2012, Pres. Spiniello, est. Allieri) i quali hanno affrontato il tema dell’applicabilità delle misure all’evasore fiscale, per la prima volta considerato soggetto rientrante a pieno titolo, per le caratteristiche specifiche che si evidenzieranno, nelle generiche categorie di pericolosità comune previste dalla legislazione di prevenzione attualmente recepite dal Codice antimafia. Più precisamente, la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Cremona ha applicato la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di P.S. per anni 3 e quella patrimoniale della confisca di una lunga serie di beni (disponibilità finanziarie, patrimoniali, immobili, mobili registrati, mobili) intestati anche a terzi e già oggetto del provvedimento di sequestro, nei confronti di un soggetto ritenuto dedito a condotte di evasione fiscale. Dal canto suo, il Tribunale di Chieti ha accolto la proposta della Procura di Lanciano nella parte in cui aveva inserito tra i destinatari delle misure di prevenzione la figura dell’“evasore fiscale socialmente pericoloso”. Anche in questo caso, è stato lo stile di vita criminale del prevenuto a decretarne la pericolosità sociale: condotte delittuose orbitanti nell’area presidiata dalle fattispecie penali di evasione fiscale, attuate su base sistemica e con carattere di abitualità, costituenti la principale attività del proposto: in sostanza, la “professione” dalla quale trarre sostentamento. A fronte di una proposta di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. per la durata di anni 5, con l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza, con imposizione di una cauzione di euro centomila e richiesta di sequestro, con successiva confisca, di una serie di beni nella disponibilità indiretta del proposto, il Tribunale di Chieti ha riconosciuto la sussistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi necessari per l’applicazione delle richieste misure, ritenendo «ampia e corposa la serie di illeciti» ascritti al proposto «che sarebbero stati commessi, a partire dal 1993, sia direttamente, sia mediante lo schermo di una serie di società allo stesso riconducibili». Al riguardo, si è fatto richiamo al «grande volume delle false fatturazioni, secondo un modus operandi consolidato» emerso dalle indagini svolte nei confronti del proposto per reati tributari: «il soggetto utilizzatore provvedeva ad annotare le fatture false in contabilità, utilizzandole poi nelle dichiarazioni reddituali per far apparire elementi passivi fittizi, pagandole alla società emittente (che, in tal modo, acquisiva ingente disponibilità finanziaria e

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bancaria sui propri conti correnti). Il flusso finanziario, poi, generato dalle false fatturazioni, veniva così reimpiegato: la società emittente riceva assegni bancari e/o circolari emessi dalla utilizzatrice e ne accreditava gli importi sui propri conti correnti; poi la emittente prelevava il relativo importo attraverso l’emissione di assegni intestati “a me stesso” o ad altre società del sodalizio che, poi, venivano negoziati per cassa (così monetizzando in breve tempo centinaia di milioni di euro), salvo poi restituire parte dell’importo alla utilizzatrice». Questa impostazione è stata avallata dalla Suprema Corte, con la sentenza 23.7.2013, n. 32032, che ha ritenuto applicabili le misure di prevenzione, anche patrimoniali, all’evasore fiscale abituale. La vicenda esaminata presentava talune particolarità perché relativa a soggetto di spicco di un’associazione a delinquere finalizzata alla commissione delle c.d. “frodi carosello”; nondimeno, la Corte ha colto l’occasione per affermare «che il soggetto dedito – in modo massiccio e continuativo – a condotte elusive degli obblighi contributivi realizza, in tal modo, una provvista finanziaria che è indubbia te da considerarsi quale provento di delitto».

È stata sottolineata la necessità che, ai fini della configurazione del tipo dell’evasore fiscale abituale, il compendio probatorio acquisito offra la rappresentazione di uno stile di vita del proposto caratterizzato dalla sistematicità delle condotte delittuose di evasione fiscale, quali fatturazioni false, truffe, bancarotte, utilizzo di prestanome ed intestazioni fittizie, fino alla costruzione di una rete di imprese tutte riconducibili al proposto: in sintesi, deve trattarsi di persona altamente specializzata nel delinquere in ambito tributario, con notevoli capacità di predisposizione dei mezzi e dei sistemi organizzativi per realizzare quel genere di condotte [in dottrina, (f) MAUGERI, 37 ss.].

6.

La fattispecie di pericolosità e il requisito dell’“ancoraggio” della pericolosità sociale agli elementi di fatto.

L’accertamento della pericolosità sociale – “pietra angolare” su cui fonda il sistema della prevenzione personale – non è agevole, sia per la intrinseca problematicità della nozione, sia per l’angustia cognitiva del procedimento ad esso deputato [CAIRO, 1054]. La fonte normativa della “pericolosità sociale”, intesa quale presupposto della misura di prevenzione, si rinviene all’interno dell’art. 203 c.p., rubricato “Pericolosità sociale”, ai sensi del quale «agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati. La qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell’articolo 133». La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha fatto costante riferimento alla pericolosità sociale in senso lato e, da diversi anni, utilizza il termine pericolosità sociale senz’altra aggettivazione per indicare la pericolosità richiesta ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione; talune volte, si afferma la sussistenza della situazione di pericolosità senza neppure espressamente connotarla in senso sociale, in quanto tale predicato viene ritenuto implicito nella nozione (Cass., sez. VI, 20.01.2010, Libri; sez. I, 15.6.2005; sez. V, 23.6.2004, n. 2709, Amoruso). Più specificamente, i supremi giudici hanno chiarito che la pericolosità già considerata

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dalla legge 27.12.1956, n. 1423 è quella sociale in senso lato; comprende, cioè, da una parte la semplice immoralità non costituente reato e, dall’altra, l’accertata predisposizione al delitto o la presunta vita delittuosa di una persona, nei confronti della quale non si raggiunga una prova sicura di reità per un delitto.

Su questa scia, il giudice di legittimità ha precisato che tale pericolosità non si congiunge necessariamente ad una affermazione di colpevolezza processuale, ma può ricavarsi dall’esame della intera personalità del soggetto e da situazioni che giustifichino sospetti e presunzioni, purché gli uni e le altre appaiano fondati su elementi obiettivi e su fatti specifici ed accertati [Cass., sez. II, 17.11. 1993, Spada, in Cass. pen., 1995, 162] quali la compagnia con pregiudicati, l’omertà, la mancanza di stabile lavoro, il tenore di vita e le denunce per delitti anche colposi.

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In altre decisioni, la Corte regolatrice ha statuito che la certezza della pericolosità del soggetto deve basarsi su parametri di valutazione direttamente collegati a fatti e circostanze determinati ed apprezzati nella loro valenza indiziaria circa la pericolosità [Cass., 2.5.1989; Cass., 26.4.1989; Cass., 27.2.1989]. Consapevole dei limiti della nozione – ad un tempo ontologici ed epistemologici – e del connesso rischio di soggettivizzare la valutazione richiesta, il diritto vivente ha puntualizzato che il giudizio di pericolosità sociale, pur avendo carattere indiziario, postula una valutazione globale dell’intera personalità del soggetto, della sua associazione o relazione con altri soggetti socialmente pericolosi e, infine, dell’accertata predisposizione al delitto desumibile dalle condanne o dalle denunzie a suo carico (Cons. Stato VI, 17.6.2009, n. 3963, H.G. c. Min. Int. e altro, in Foro amm., VI, 2009, 1551]. Nella medesima direzione, è stato chiarito che «l’accertamento sulla personalità del soggetto deve essere compiuto dal giudice in modo completo e deve tener conto: della persistenza o meno di un comportamento illecito e antisociale, che renda necessaria una particolare vigilanza da parte degli organi di p.s.» ( T.A.R. Piemonte II, 19.2.2007, n. 742, H.D. c. Min. Int. ed altro, inedita); del carattere oggettivo degli elementi che giustificano sospetti e presunzioni dell’attualità della pericolosità ( T.A.R. Liguria II, 31.1.2007, n. 134, E.K.O. c. Min. Int., inedita; C I 7.12.2005, Ayoubi c. Pref. Milano, in CED 2005/586564). La giurisprudenza amministrativa è dell’opinione che il giudizio sulla pericolosità sociale – ai sensi e per gli effetti della legge 27.12.1956, n. 1423, modificata dalla legge 3.8.1988, n. 327 – non richieda prove della commissione di reati, reputando sufficienti meri sospetti su elementi di fatto idonei ad indurre l’Autorità di polizia a configurare le condizioni di pericolosità sociale che possano dar luogo, da parte del giudice, all’applicazione delle misure di prevenzione [Cons. Stato VI, 23.3.2009, n. 1709, V.N. c. Min. Int. e altro, in Foro amm., III, 2009, 825; Cons. Stato VI, 18.10.2005, n. 7581, D.P. c. Min. Int., in Foro amm., XII, 2005, 3714]. Si tratta di una valutazione discrezionale, sicché, nella sede del giudizio di legittimità, il giudice deve limitarsi a verificare se il singolo provvedimento sia sufficientemente motivato con riferimento a fatti concreti astrattamente idonei a giustificare l’irrogazione della misura (T.A.R. Friuli Venezia Giulia I, 24. 4.2009, n. 289, R.T. e altro c. Quest. Udine e altro, inedita). Il giudizio sulla pericolosità del soggetto sussiste in assenza di qualunque elemento dal quale poter dedurre che il prevenuto in futuro non delinqua [Cass., sez. I, 4.2.2009, A.A., in Foro amm., I, 2009, 90] e postula, dunque, una valutazione concreta della sua personalità, con riguardo alla intera sua condotta, nonché un accertamento in relazione alla persistenza nel tempo di un comportamento illecito e antisociale, tale da rendere necessaria una particolare vigilanza da parte degli organi di p.s. [Cass., sez. I, 5.5.1999, Di Carlo, in Cass. pen., 2000, 1051]. -

Le categorie di soggetti destinatari delle misure di prevenzione personali

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hanno come denominatore comune il fatto di lasciarsi identificare tramite il rinvio ad attività penalisticamente qualificate. Mentre nei numeri 1 e 2 dell’art. 1 legge n. 1423/1956, il riferimento al termine delitto esclude che possano trarsi elementi di valutazione da condotte costituenti reati contravvenzionali, a diverso epilogo ermeneutico deve pervenirsi nella lettura della fattispecie di pericolosità scolpita dal n. 3 della medesima disposizione, ruotando essa intorno al lemma “reati”. Taluni hanno sostenuto la legittimità di tale approdo interpretativo anche con argomenti ulteriori a quello di natura lessicale, da un lato, facendo rilevare che le fattispecie contravvenzionali non sempre corrispondono a condotte espressive di un “irriducibile disvalore artificiale”, come testimoniano le figure criminose poste a presidio di beni di rilevanza sociale “corposa” quali la sanità e la sicurezza pubblica; dall’altro, rassicurando quanti paventano una dilatazione applicativa pregiudizievole per le esigenze di tutela dell’agire individuale con la sottolineatura che il giudizio di pericolosità – dovendo radicarsi su una ben strutturata base empirica, costituita da elementi di fatto – non potrebbe risolversi nella enfatizzazione di soli sospetti. Più in generale, la previsione che aggancia la formulazione del giudizio di pericolosità ad una piattaforma di “elementi di fatto” ha formato oggetto di valutazioni contrapposte. Secondo taluni, se il giudice prendesse troppo sul serio la necessità di verificare le fattispecie di pericolosità alla luce di uno stringente collegamento con condotte ricostruite in chiave di rigorosa verifica probatoria, si rischierebbe uno svuotamento funzionale del sistema di prevenzione; verrebbe meno, in sostanza, l’esigenza di avviare un procedimento sulla base di elementi cognitivi che non attingono la forza dimostrativa di quelli che legittimano la promozione del procedimento penale ordinario [FIANDACA, passim]. Altri sostengono che – pur assumendo il riferimento agli elementi di fatto quale requisito che impone la valorizzazione di una adeguata dimensione probatoria dei requisiti epistemici del giudizio di pericolosità, evitando che esso scada in previsione meramente “esornativa” e retorica – ricorrono buone ragioni, interne alla realtà delle prove ed alle sue ricche modulazioni, per escludere il rischio che il procedimento di prevenzione sia fagocitato da quello penale ordinario. A loro avviso, infatti, tra il “sospetto” e gli indizi – funzionali all’accertamento di reità – [GUERRINI, MAZZA, RIONDATO, passim], è possibile intravedere una «zona grigia intermedia di circostanze di fatto, oggettive e incontrollabili» dalle quali non è possibile provare la commissione di un delitto, ma che, tuttavia, appaiono sufficienti a fondare ragionevoli opinioni circa le situazioni rilevanti. Del resto, in una situazione caratterizzata anch’essa dalla fluidità dei confini tra due categorie concettuali assai limitrofe, la giurisprudenza non ha avuto difficoltà a chiarire la differenza tra le figure soggettive disegnate dall’art. 1 della legge 27.12.1956, n. 1423 e quelle del delinquente (e contravventore) abituale, per tendenza e professionale, impedendo che, dalla pur ipotizzabile coincidenza

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semantica e criminologica dei due tipi normativi d’autore, potesse «discendere l’applicazione delle sole misure di sicurezza previste per le figure delineate dal codice» (T.A.R. Campania V, 25.2.2009, n. 1073, A.G. c. Min. Int., in Foro amm., II, 2009, 492). Riguardo all’appartenenza dello straniero ad una delle tipologie di autori pericolosi, la giurisprudenza amministrativa ha precisato che il relativo giudizio richiede quantomeno la presenza di “elementi di fatto” che siano indici di un “tenore di vita” o di una “condotta” il cui significato, sul piano della pericolosità, sia connesso alla commissione di una “pluralità” di reati [Cons. Stato VI, 21.9.2006, n. 5544, Min. Univ. c. Z.R.G., inedita]. Sulla base di questa impostazione, è stato considerato insufficiente il richiamo alla sola pendenza di procedimenti penali per inferire l’appartenenza del soggetto ad una delle categorie di cui all’art. 1 legge 27.12.1956, n. 1423 [T.A.R. Liguria II, 14 marzo 2008, n. 406, S.E. c. Min. Int., in Foro amm., III, 2008, 699], essendo necessario un autonomo giudizio in ordine alla sua personalità, con riferimento ad addebiti specifici che nel loro complesso possano rivelare un’inclinazione verso comportamenti asociali e antisociali [T.A.R. Marche I, 22.6.2005, n. 3, A.D. c. Min. Int., in Foro amm., I, 2006, 110]. Doverosi sono, dunque, un accertamento «oggettivo e non meramente soggettivo degli elementi che giustificano sospetti e presunzioni, nonché l’attualità della pericolosità, e un esame globale della personalità del soggetto, quale risulta da tutte le manifestazioni sociali della sua vita» [T.A.R. Liguria II, 24.4.2008, n. 762, M.V.J.M. c. Min. Int., inedita].

6.1. L’attualità della pericolosità sociale. – La pericolosità deve essere attuale: segnatamente, occorre che si tratti di una pericolosità non potenziale ma concreta, attuale e specifica, desunta da fatti e comportamenti accertati al momento in cui la misura va applicata [cfr. Corte cost., 17.3.1969, n. 32, in Giur. it., 1969, I, 1, c. 1014; ord. 12.11.1987, n. 384; Cass., S.U., 25.3.1993, Tumminelli, in Cass. pen., 1993, 2491, n. 1490]. Si sottolinea come l’attualità della pericolosità possa essere desunta anche da fatti remoti, purché gli stessi siano indice univoco della persistenza del comportamento antisociale [cfr. Cass., sez. I, 31.1.1992, Triboli, in Cass. pen., 1993, 928, n. 598; sez. I, 28.2.1991, Garofano, ivi, 1991, 1830, n. 1390]. Ispirato ad una ratio decidendi omologa appare l’indirizzo che esige una indagine rigorosa sul persistere del requisito della attualità della pericolosità, anche nell’ipotesi in cui nei confronti dello stesso soggetto venga emessa una successiva misura di prevenzione; in proposito, si fa rilevare che «la preclusione del giudicato opera sempre rebus sic stantibus, sicché una pregressa valutazione non impedisce il riesame della pericolosità ai fini dell’applicazione di una nuova o più grave misura» [Cass., S.U., 29.10.2009, G, in CED 2009/245176]. Riguardo all’applicazione di una misura di prevenzione antimafia, è assurto a topos l’assunto che – considerando sufficiente la mera appartenenza del proposto ad una consorteria mafiosa – “presume” (la prova del)l’attualità della pericolosità sociale, così degradandola ad elemento in re ipsa [Cass., sez. VI, 16.4.2009, n. 16030; Cass., sez. VI, 14.7.1993; Cass. pen., 17.11.1989]. In pratica, l’“attualità della pericolosità” viene considerata implicita ogni qualvolta si ritenga perdurante l’appartenenza del proposto ad una consorteria di quel tipo. Pertanto, quando il giudice della prevenzione abbia adeguatamente argomentato la ricorrenza di quella condizione, escludendo elementi dai quali possa ragionevolmente desumersi che l’appartenenza sia venuta meno, non occorre che egli fornisca alcuna specifica motivazione sulle ragioni per le quali il soggetto sia da considerare anche attualmente pericoloso [Cass. pen., 1.4.2009, n. 14385]. Non si manca di avvertire, che la presunzione di pericolosità correlata alla natura del-

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l’attività delittuosa assunta a presupposto dell’applicazione della misura non comporta la riduzione del livello di verifica circa l’esistenza di un complesso di elementi fattuali idonei in concreto a legittimare la considerazione del proposto come indiziato di appartenenza all’associazione mafiosa [Cass., sez. I, 3.2.2010, n. 45329; Cass., sez. I, 26.2.2010, R.A., in CED Cass. 2010/246308]. Il regime di presunzione dell’attualità della pericolosità sociale qualificata viene fatto operare «anche quando quest’ultima assuma la forma del “concorso esterno”, caratterizzato, in quanto tale, dalla non estemporaneità del contributo prestato al sodalizio e, quindi, della presunzione di attualità del pericolo, in assenza di elementi dai quali possa fondamentalmente desumersi l’avvenuta interruzione del rapporto» [Cass., sez. VI, 15.9.2008, D.L., in CED Cass. 2008/241251]. Non sono mancate, però, decisioni che si sono orientate nella direzione di temperare il rigore dell’orientamento consolidato. È stato, così, statuito [Cass., sez. I, 11.5.2010, D.C.D., in CED Cass. 2010/247053], che la presunzione di attualità della pericolosità sociale dell’appartenente ad una associazione mafiosa è legittima solo a condizione che essa «si fondi sulla verifica del ruolo concretamente svolto in seno al sodalizio, in modo da consentire di escludere l’impossibilità che venga ricoperto anche in futuro, nonché, alla luce delle eventuali allegazioni difensive, dei comportamenti tenuti dalla stesso prevenuto nel periodo intercorso tra l’accertamento del reato e il momento di applicazione della misura». Si è, inoltre, affermato che, ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione agli appartenenti a sodalizi mafiosi, l’accertamento della pericolosità non può essere condotto sulla base della presunzione delineata dal comma 3 dell’art. 275 c.p.p., ma postula la ricerca e l’indicazione di elementi idonei a documentare positivamente la condizione di attuale pericolosità dell’interessato. In proposito, il giudice di legittimità ha evidenziato la natura eccezionale del meccanismo presuntivo sul terreno della prova penale, tale da escluderne ogni estensione analogica, e ha posto in luce le differenze tra presupposti e meccanismi applicativi, rispettivamente, del trattamento cautelare e delle misure di prevenzione per i casi di ritenuta appartenenza ad associazioni mafiose [Cass., sez. V, 5.2.2002, Ofria, in Arch. nuova proc. pen., 2003, 5049]. È stato, poi, specificato che la presunzione di perdurante pericolosità, ammissibile per gli appartenenti alle associazioni criminali di tipo mafioso ovvero di quelle dedite allo spaccio di sostanze stupefacenti, non è assoluta ed è destinata ad attenuarsi, facendo risorgere la necessità di una puntuale motivazione sull’attualità della pericolosità [Cass., sez. I 7.5.2008 , L.G., in CED 2008/240422], quanto più gli elementi rivelatori dell’inserimento nei sodalizi siano lontani nel tempo rispetto al momento del giudizio [Cass., sez. V, 22.9.2006, C.F., in Riv. pen., IX, 2007, 936]. Sulla scia di questa impostazione, si è anche affermato che la presunzione di pericolosità non può ragionevolmente essere sostenuta nell’ipotesi in cui sia stata emessa una sentenza di condanna o di applicazione della pena ex art. 416-bis c.p., atteso che nel bilanciamento tra tale presunzione e la sospensione condizionale della pena questa ultima assume un valore preminente, in quanto implica il giudizio positivo sull’astensione dal commettere ulteriori reati per il futuro ed è, pertanto, incompatibile con il presupposto della misura di prevenzione. Ne consegue che, in tale ipotesi, devono essere adeguatamente valutati i dati favorevoli al proposto quali l’assenza, nella specie, di nuove manifestazioni criminose ed il decorso del tempo che, altrimenti neutro, diventa in tal caso rilevante [Cass., Sez. V, 11.7.2006, D.L.M.C., in Riv. pen., IX, 2007, 935]. In termini più generali va osservato che l’orientamento ha cominciato a registrare primi segnali di revisione critica. In Cass., Sez. I, 15.5.2014, n. 20348, i giudici di legittimità hanno, infatti, affermato che per ogni forma di pericolosità, generica o qualificata, e quindi anche per gli indiziati di appartenenza ad associazioni mafiose, occorre accertare l’attualità della pericolosità sociale senza rinvio a presunzioni di sorta, rimarcando che l’attualità “va ovviamente rapportata al momento della decisione di primo grado, sia per la natura di impugnazione dell’appello che per la immediata esecutività del provvedimento applicativo della misura personale”. La posizione è stata ribadita da Cass., sez. I, 5.6.2014, n. 23641, secondo cui “la valutazione

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di attualità della pericolosità sociale va operata in riferimento a tutte le categorie criminologiche tipizzate nelle disposizioni di cui agli articoli 1 e 4 d.lgs. n. 159 del 2011, anche in virtù dei principi espressi nella legge-delega n. 136 del 2010. In tale ambito non risultano ammissibili mere presunzioni correlate al titolo di reato oggetto di precedente e separato giudizio, dovendosi accertare in concreto la persistenza del pericolo di reiterazione di condotte antisociali, con particolare riferimento ai casi in cui sia maturato un apprezzabile intervallo temporale tra l’emissione del decreto di sottoposizione alla misura di prevenzione e i fatti oggetto del correlato procedimento penale”, con l’ulteriore precisazione che “in tema di misure di prevenzione patrimoniali, per poter disporre la confisca non è sufficiente la sussistenza di indizi di carattere personale sulla pericolosità di un soggetto, ma occorre, quale ulteriore condizione legittimante l’applicazione dell’istituto a vicende antecedenti la novellazione legislativa degli anni 2008 e 2009, che vi sia anche correlazione temporale tra tale pericolosità e l’acquisto dei beni da confiscare”. Quanto all’attualità della pericolosità sociale dei latitanti da lungo tempo, un orientamento giurisprudenziale si esprime nel senso di ritenerla deducibile sul piano logico. Si sostiene, in proposito, che se lo stato di latitanza non può essere considerato circostanza oggettiva rivelatrice della pericolosità del soggetto, esso può, nondimeno, rappresentare una spia della sua attualità, in quanto la latitanza è ritenuta possibile in conseguenza di una rete di appoggi riferibili a gruppi criminali organizzati ed efficienti, con i quali è ragionevole presumere che i latitanti siano in contatto [Cass., sez. I, 23.5.1995, Rodà, in Cass. pen., 1996, 1968; Corte App. Potenza, 4.4.2001, Polimeni, in Arch. nuova proc. pen., 2001, 437].

La sospensione dell’esecuzione della misura di prevenzione perso7. nale a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena dell’interessato. In particolare la sentenza costituzionale del 2.12.2013, n. 291. Meritevole di segnalazione è la sentenza (n. 291/2013) con cui la Corte costituzionale si è pronunciata sul tema riguardante l’applicazione di una misura di prevenzione personale a soggetto detenuto per reati precedentemente commessi: ipotesi non regolata dalla legge n. 1423/1956, che – all’art. 11 comma 2 (attuale art. 14 comma 2 del d.lgs. n. 159/2011) – si limitava a prevedere il diverso caso della commissione di un reato nel periodo di durata della sorveglianza speciale. La quaestio aveva dato luogo ad un contrasto giurisprudenziale che le Sezioni Unite della Cassazione avevano risolto con la sentenza 25.3.1993-14.7.1993, n. 6, ove fu affermata la necessità di «distinguere il momento deliberativo, nel quale la misura di prevenzione viene applicata, da quello esecutivo, nel quale la misura produce concretamente effetto». Su queste basi, il supremo organo nomofilattico ritenne lo stato di detenzione in forza di titolo definitivo compatibile con l’applicazione della misura, ma non con la sua esecuzione, dovendo quest’ultima essere differita all’atto della cessazione dello stato detentivo, salva la possibilità per l’interessato di chiedere la revoca della misura, ai sensi dell’art. 7 comma 2 della legge n. 1423/1956 (ora dell’art. 11 comma 2 del d.lgs. n. 159/2011), ove la sua pericolosità sociale sia, nelle more, venuta meno. Si trattava di una soluzione interpretativa che – implicando una scissione tra il momento di verifica dei presupposti di applicazione della misura e quello di

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effettiva esecuzione del suo contenuto afflittivo – finiva per legittimare esiti paradossali, esemplificati dai non infrequenti casi di detenuti ai quali gli effetti delle misure venivano imposti a notevole distanza di tempo dal vaglio della loro pericolosità sociale. Emblematica fu proprio la vicenda da cui trasse origine l’ordinanza (12.5. 2012 del Tribunale di S.M.C. Vetere) che sollevò – al metro degli artt. 3 e 24 Cost. – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 legge n. 1423/1956 (trasfuso nell’art. 15 del Codice antimafia) «nella parte in cui non prevede che, nel caso di sospensione dell’esecuzione di una misura di prevenzione personale a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena del sottoposto, il giudice dell’esecuzione debba valutare la persistenza della sua pericolosità sociale nel momento dell’esecuzione della misura». Nel procedimento a quo, il giudice della prevenzione era stato chiamato a decidere su una proposta nei confronti di persona indiziata di appartenere al sodalizio camorrista dei “casalesi”, la cui liberazione era prevista per il 21 maggio 2027! Con la citata sentenza costituzionale, la Consulta ha dichiarato parzialmente illegittimi l’art. 12 della legge 27.12.1956, n. 1423 e, in via consequenziale, l’art. 15 del d.lgs. 6.9.2011, n. 159, sostitutiva della prima disposizione, «nella parte in cui non prevedono che, nel caso in cui l’esecuzione di una misura di prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta, l’organo che ha adottato il provvedimento di applicazione debba valutare, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato nel momento dell’esecuzione della misura». Dopo aver richiamato la propria giurisprudenza in tema di legittimità costituzionale delle norme basate su presunzioni di persistenza nel tempo della pericolosità sociale (sentenze n. 1/1971, n. 139/1982, n. 249/1983, n. 1102/1988), la Corte ha rilevato che, in relazione alle misure di sicurezza, il problema della verifica della persistenza della pericolosità sociale è stato definitivamente risolto dal legislatore con l’art. 679 c.p.p. del 1988, secondo cui «quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca è stata (…) ordinata con sentenza, o deve essere ordinata successivamente, il magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta se l’interessato è persona socialmente pericolosa e adotta i provvedimenti conseguenti». Pertanto, nella materia parallela delle misure di sicurezza la valutazione della pericolosità sociale va effettuata due volte: in un primo momento dal giudice della cognizione, che deve verificarne la ricorrenza al tempo della pronuncia della sentenza; in una seconda fase dal magistrato di sorveglianza, che deve stabilirne l’attualità al momento in cui la misura, già disposta, deve avere concretamente inizio. Il giudice delle leggi ha osservato che, al contrario, il regime vigente in materia di misure di prevenzione personali risulta congegnato su scansioni irragionevolmente differenti e deteriori per le garanzie di libertà del prevenuto. In quell’ambito, infatti, l’accertamento della pericolosità sociale ha luogo una sola volta, sulla base di determinazioni considerate vincolanti anche nelle ipotesi in cui l’esecuzione della misura – differita a causa della detenzione per espiazione -

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di pena dell’interessato, nelle more sottoposto al trattamento penitenziario finalizzato al reinserimento sociale – avvenga ad assai notevole distanza temporale dalla deliberazione. Al riguardo, la Corte afferma che se è vero che «la comune finalità delle misure di sicurezza e delle misure di prevenzione (volte entrambe a prevenire la commissione di reati da parte di soggetti socialmente pericolosi e a favorirne il recupero all’ordinato vivere civile, al punto da poter essere considerate come “due species di un unico genus”) non implica, di per sé sola, un’indiscriminata esigenza costituzionale di omologazione delle rispettive discipline»; è altrettanto vero che tra i due modelli posti a raffronto (quello delle misure di sicurezza, che esige la reiterazione della verifica della pericolosità sociale anche al momento dell’esecuzione, e quello delle misure di prevenzione, che considera sufficiente la verifica operata in fase applicativa) «l’unico rispondente ai canoni dell’eguaglianza e della ragionevolezza è il primo».

8. Le singole misure di prevenzione personali. Le misure di prevenzione “tipiche”, disciplinate un tempo dalla legge n. 1423/1956 ed oggi dal Codice delle leggi antimafia, sono la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza (art. 6 Codice delle leggi antimafia, già art. 3 legge n. 1423/1956), il foglio di via obbligatorio (art. 2 Codice delle leggi antimafia, già art. 2 legge n. 1423/1956) e l’avviso orale (art. 3 Codice delle leggi antimafia, già art. 4 comma 1, legge n. 1423/1956). La normativa vigente distingue tra misure di prevenzione applicate dal questore (foglio di via obbligatorio ed avviso orale) e misure di prevenzione devolute alla competenza dell’A.G. (sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con o senza obbligo o divieto di soggiorno) [MENDITTO, 36 ss.; FIORENTIN, 60 ss.]. Alle misure sopra elencate, vanno affiancate tipologie “atipiche”, vale a dire misure previste in leggi speciali e collegate a peculiari presupposti e modalità applicative. A questo riguardo, viene in evidenza, innanzi tutto, la disciplina relativa alle misure applicabili per prevenire le forme di violenza che si scatenano in occasione o a causa di manifestazioni sportive (legge 13.12.1989, n. 401, “Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento delle manifestazioni sportive”). L’art. 6 di quest’ultima legge attribuisce al questore il potere di prescrivere il divieto di accesso ai luoghi dove si svolgono manifestazioni sportive (c.d. D.a.s.p.o.), a cui può essere aggiunta la misura accessoria dell’obbligo di presentazione presso l’ufficio o il comando di polizia del luogo di residenza o di quell’altro ove si tengono le manifestazioni per le quali opera il divieto. Altra misura di prevenzione c.d. atipica è prevista all’art. 15-bis d.p.r. 9.10. 1990 (t.u. in materia di stupefacenti). Con tale disposizione si attribuisce al que-

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store il potere di applicare una serie, variamente articolata, di obblighi e di divieti a coloro che risultano già condannati, anche con sentenza non definitiva, per reati contro la persona, contro il patrimonio o per quelli previsti dallo stesso d.p.r. n. 309/1990 ovvero dalle norme in materia di circolazione stradale o ancora a coloro che sono sanzionati per la violazione delle norme del citato testo unico o ai destinatari di una misura di prevenzione o di sicurezza. Di recente introduzione è anche l’ammonimento che il questore può rivolgere, prima che sia proposta la querela da parte della persona offesa, al soggetto sospettato della condotta di atti persecutori punita dall’art. 612-bis c.p. (art. 8 d.l. 23.2.2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.4.2009, n. 38). Collocabile tra le misure ante delictum è, inoltre, l’espulsione dell’extracomunitario sancita dall’art. 13 comma 2 lett. c) d.lgs 25.7.1998, n. 286, nonché l’allontanamento del cittadino dell’Unione Europea. 8.1. L’avviso orale. – Nel sistema di prevenzione disciplinato dal Codice antimafia la previsione dell’avviso orale compare, unitamente al foglio di via obbligatorio, quale misura ante delictum applicata dal questore. L’avviso orale ha lo scopo di informare la persona interessata che esistono sospetti a suo carico, indicando i motivi che li giustificano ed invitandola a «tenere una condotta conforme alla legge». Dell’avviso viene redatto processo verbale al solo fine di conferire al medesimo data certa (art. 3 commi 1 e 2 Codice delle leggi antimafia, già art. 4 comma 1, legge n. 1423/1956) ( T.A.R. Lazio, 31.8.2005, l. c. Prefettura di Roma, inedita, rammenta che «in materia di misure di prevenzione, l’avviso orale a tenere una condotta conforme alla legge che, quindi, come detto, rappresenta la misura più tenue tra quelle previste dalla 1. n. 1423/1956 ed anzi costituisce una conditio sine qua non per l’eventuale applicazione delle misure di cui alla stessa legge, deve essere motivato con riferimento a sospetti a carico del suo destinatario, fondati su elementi di fatto che ne facciano ritenere l’appartenenza ad una delle categorie previste dall’art. 1, 1. n. 1423/1956 [art. 1, Codice delle leggi antimafia], poiché presupposto per la sua emanazione non è l’esistenza di prove sulla commissione di reati, essendo sufficienti anche meri sospetti sugli elementi di fatto che, secondo la regola della logica e della ragionevolezza, inducano l’autorità di polizia a ritenere la sussistenza di quelle condizioni di pericolosità sociale che possano dar luogo all’applicazione di misure di prevenzione»; T.A.R. Calabria, 1.4.2005, G. c. Ministero dell’Interno, inedita, sottolinea che «Ai sensi dell’art. 4, 1. 27 dicembre 1056, n. 1423 [art. 3, Codice delle leggi antimafia], come modificato dall’art. 5, L 3 agosto 1988, n. 327, l’avviso orale consiste nell’avvertimento della sussistenza di sospetti a carico di una persona, per la quale si profilino elementi di fatto che ne facciano ritenere l’appartenenza ad una delle categorie previste dall’art. 1 della legge stessa [art. 1 Codice delle leggi antimafia], e non ha altro effetto che consentire la proposta all’Autorità giudiziaria, entro tre anni, di applicazione della misura di prevenzione; pertanto, il presupposto per l’avviso orale non esige la sussistenza di prove sulla commissione di reati, essendo sufficiente anche meri sospetti sugli elementi di fatto che, secondo le regole della logica e della ragionevolezza, inducano l’Autorità di polizia a ritenere la sussistenza di quelle condizioni di pericolosità sociale che possono dar luogo, da parte del giudice, all’applicazione delle misure dì prevenzione. Ne consegue che il giudizio sulla pericolosità sociale del soggetto ai finì dell’avviso orale può scaturire anche da addebiti non specifici, essendo sufficiente una situazione che denoti una personalità incline a comportamenti asociali e antisociali»; T.A.R. Emilia Romagna, 14.2.2005, F. c. Prefettura di Piacenza ed altro, inedita).

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Secondo la più recente giurisprudenza amministrativa [T.A.R. Calabria I, 27.3.2008, n. 303] «ai fini della legittima emanazione dell’avviso orale ai sensi dell’art. 4 l. n. 1423/1956, vanno considerati sufficienti anche semplici sospetti purché basati su elementi di fatto che inducano a ritenere che il destinatario del precetto rientri tra le categorie dei soggetti indicati dall’art. 4 l. n. 1423/1956. In altri termini non sono necessarie specifiche prove sulla commissione di reati, essendo sufficiente la sussistenza di elementi di fatto che inducano l’amministrazione a ritenere presenti le condizioni di pericolosità sociale che possono dare luogo all’applicazione della misura di prevenzione in esame». Ancora, [T.A.R. Piemonte, 19.2.2007, n. 742] «il giudizio sulla pericolosità sociale del soggetto avvisato non richiede la sussistenza di prove compiute sulla commissione di reati, essendo sufficienti anche meri sospetti su elementi di fatto tali da indurre l’autorità di polizia a ritenere sussistenti le condizioni di pericolosità sociale che possono dar luogo, da parte del giudice, all’applicazione delle misure di prevenzione. Tale giudizio può scaturire anche da addebiti non specifici, essendo sufficiente una situazione che denoti una personalità incline a comportamenti asociali o antisociali».

Gli argomenti appena esposti sembrano ripetere gli stilemi del ragionamento tautologico, favorito dalla peculiarità del sindacato della giurisdizione amministrativa e dai limiti di coerenza formale dei provvedimenti impugnati. La persona avvisata può “in qualsiasi momento” chiedere la revoca dell’avviso al questore, che vi provvede nei successivi sessanta giorni; in mancanza la richiesta si intende accolta. Contro il provvedimento di rigetto, nei sessanta giorni dalla sua comunicazione, è ammesso ricorso gerarchico al prefetto (art. 3 comma 3 Codice delle leggi antimafia, già art. 4 comma 3 legge n. 1423/1956). La persistenza della condotta da parte del destinatario dell’avviso può determinare l’avvio del procedimento di applicazione di una misura di prevenzione, benché nell’attuale disciplina non sia stato trasfuso il testo dell’art. 4 comma 2 legge n. 1423/1956. Qui si stabiliva che il questore – trascorsi almeno sessanta giorni ma non più di tre anni – poteva avanzare al Presidente del Tribunale del capoluogo di provincia proposta motivata per l’applicazione di una misura di prevenzione nei confronti della persona che – dopo la notifica dell’avviso – non avesse cambiato condotta e fosse pericolosa per la sicurezza pubblica. La mancata riproduzione nella vigente disciplina della citata disposizione permette di sostenere che l’avviso orale si configura quale autonoma misura, non rappresentando più una condizione o presupposto del potere di richiedere l’applicazione di una ulteriore misura ante delictum personale. Peraltro, prima dell’entrata in vigore del Codice delle leggi antimafia, la previa necessità dell’avviso orale permaneva solo in riferimento alla categoria soggettiva delineata dall’art. 1 n. 3 legge n. 1423/1956 (oggi art. 1 comma 1 lett. c) Codice delle leggi antimafia), comprensiva di quanti erano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica. La giurisprudenza riteneva, infatti, che l’applicazione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza a persona rientrante in una delle categorie prima descritte nei nn. 1 e 2 dell’art. 1 legge n. 1423/1956 (oggi art. 1 comma 1 lett. a) e b) Codice delle leggi antimafia) non dovesse essere preceduta dall’avviso orale, in quanto nei confronti di quei soggetti era applicabile,

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in virtù del rinvio operato dall’art. 19, legge n. 15/1975, l’allora vigente art. 2 legge n. 575/1965 [ex plurimis sul punto: Cass., sez. I, 7.1.2008, G.G., in CED Cass. 2008/238770; Cass., sez. VI, 20.1.2000, Battaglino, in CED Cass. 2000/215647; Cass., sez. I, 15.11.1999, Scali, in CED Cass. 1999/215218; Cass., sez. V, 12,.1.1999, Clienti, in CED Cass. 1999/213080, in particolare, osserva che «In tema di applicazione delle misure di prevenzione, l’avviso orale del questore ed il conseguente termine di sessanta giorni per la formulazione della proposta di applicazione della misura di prevenzione di cui all’art. 4, commi 1 e 2, 1. 27 dicembre 1956, n. 1423 [art. 3 Codice delle leggi antimafia], sono ancora previsti solo per i soggetti annoverabili nella categoria indicata al n. 3 dell’art. 1 della stessa legge [art. 1 comma 1 lett. c) Codice delle leggi antimafia], mentre per quelli compresi nelle restanti categorie è applicabile l’art. 2, 1. 31 maggio 1965, n. 575 in virtù del rinvio operato dall’art. 19,1. 22 maggio 1975, n. 152 e, pertanto, le misure di prevenzione possono essere applicate senza che vi sia stato il preventivo avviso.

Ora, sul rilievo che l’art. 2 comma 1 legge n. 575/1965 stabiliva espressamente che il Tribunale applica la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e l’obbligo di soggiorno pur se non preceduto dall’avviso, si ritiene che anche la proposta di una qualsiasi altra misura possa essere avanzata senza il predetto previo avviso orale. Questo problema deve considerarsi definitivamente risolto alla stregua della normativa vigente; la misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e dell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale è, infatti, applicabile – senza ulteriori presupposti – nei confronti di tutti i soggetti indicati all’art. 4 Codice delle leggi antimafia, che alla lett. c) recepisce il contenuto del precedente art. 1 legge n. 1423/1956, ove si menziona anche la predetta categoria soggettiva prima esclusa. Si è osservato che la mancanza dell’obbligo del previo avviso orale per l’applicazione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e dell’obbligo di soggiorno nei confronti degli indiziati di appartenenza ad associazioni mafiose o similari, ovvero di altro delitto, fa venire meno un filtro del potere di proposta, accrescendo il rischio di un suo esercizio non sempre sufficientemente ponderato. Per altro verso, la rinunzia a costruire l’avviso orale quale condizione del potere di proposta determina un indubbio alleggerimento dell’attività d’indagine, in quanto la libera dall’onere di mettere a raffronto la condotta tenuta dal soggetto prima e dopo l’avviso, in conformità di quanto prescriveva l’art. 3 comma 1 legge n. 1423/1956 relativamente ai soggetti annoverabili nel n. 3 dell’art. 1 della stessa legge. Con l’avviso orale il questore, quando ricorrono le condizioni di cui all’art. 3 comma 3 Codice delle leggi antimafia, può imporre alle persone che risultino definitivamente condannate per delitti non colposi una serie di divieti, ai sensi dell’art. 3 comma 4 del Codice medesimo (in precedenza art. 4 comma 4 legge n. 1423/1956). Si tratta, in particolare, del divieto «di possedere o utilizzare, in tutto o in parte, qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente, radar e visori notturni, indumenti ed accessori per la protezione balistica individuale, mezzi di trasporto blindati o modificati al fine di aumentarne la potenza o la capacità offensiva, ovvero comunque predisposti al fine di sottrarsi ai controlli di polizia, armi a modesta capacità offensiva, riproduzioni di armi di qualsiasi tipo, compresi i gio-

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cattoli riproducenti armi, altre armi o strumenti in libera vendita, in grado di nebulizzare liquidi o miscele irritanti non idonei ad arrecare offesa alle persone, prodotti pirotecnici di qualsiasi tipo, nonché sostanze infiammabili e altri mezzi comunque idonei a provocare lo sprigionare delle fiamme, nonché programmi informatici o altri strumenti di cifratura o crittazione di conversazioni o messaggi» [Cass., sez. F., 1.10.2009, F.V., in CED Cass. 2009/245301, sostiene che «in tema di misure di prevenzione nei confronti di persone socialmente pericolose, deve ritenersi che il telefono cellulare rientri nella nozione di apparato di comunicazione radiotrasmittente, il cui possesso o utilizzo può essere inibito dal questore alle persone condannate con sentenza definitiva per delitti non colposi, a norma dell’art. 4, comma 4, della 1. 27 dicembre 1956, n. 1423, così come modificato dall’art. 15, comma 1, lett. a), della 1. 26 marzo 2001, n. 128 [art. 3 comma 4 Codice delle leggi antimafia]»].

I medesimi divieti possono, altresì, essere imposti, anche senza l’emissione dell’avviso orale, dall’autorità di pubblica sicurezza ai soggetti sottoposti alla misura della sorveglianza speciale, quando risultino definitivamente condannati per un delitto non colposo (art. 3 comma 5 Codice delle leggi antimafia). La predetta misura interdittiva di competenza del questore diventa, così, un istituto autonomo di prevenzione, avulso dalle dinamiche procedimentali tipiche che scaturiscono dalla formulazione della proposta, applicabile in modo generalizzato e senza alcuna esclusione soggettiva nei confronti di tutte le persone elencate all’art. 4 del Codice. Contro l’imposizione dei divieti ai sensi dell’art. 3 commi 4 e 5 Codice delle leggi antimafia è ammessa opposizione davanti al giudice monocratico (art. 3 comma 6 Codice delle leggi antimafia, già art. 4 comma 4 legge n. 1423/1956). Quest’ultima disposizione appare, anche nell’attuale collocazione sistematica piuttosto lacunosa, tacendo circa modalità, tempi e soggetti legittimati a proporre l’opposizione. Tuttavia, nel silenzio della legge, si ritiene applicabile, in via analogica, la disciplina dell’incidente di esecuzione ex art. 666 c.p.p., così come si riconosce legittimazione esclusiva ad impugnare il provvedimento interdittivo in capo al relativo destinatario [Cass., sez. I, 28.2.2008, n. 08967, in CED Cass. 2008/239177, osserva che «in tema di misure di prevenzione nei confronti di persone socialmente pericolose, la disposizione di cui all’art. 4, comma 4, 1. n. 1423/1956 [art. 3 comma 6 Codice delle leggi antimafia] (come modificata dall’art. 15, comma 1, lett. a), l. n. 128/2001) per la quale il divieto del questore – di cui al medesimo comma – è opponibile davanti al giudice monocratico, va interpretata nel senso che la competenza a provvedere sull’opposizione spetta al giudice della sezione incaricata della trattazione delle misure di prevenzione, assegnatario degli affari da trattare in composizione monocratica»].

8.2. Il foglio di via obbligatorio. – L’art. 2 del Codice delle leggi antimafia che ripropone il testo prima contenuto nell’art. 2 comma 1 legge n. 1423/1956 stabilisce che il questore, con provvedimento motivato e con foglio di via obbligatorio, può rimandare nel comune dal quale si sono allontanate le persone indicate nell’art. 1 Codice delle leggi antimafia (categorie soggettive enucleate in precedenza nell’art. 1 legge n. 1423/1956) quando siano «pericolose per la sicurezza pubblica» e si trovino fuori dei luoghi di residenza, inibendo loro di ritornare, senza preventiva autorizzazione ovvero per un periodo non superiore a tre anni.

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La previsione normativa individua, dunque, quali presupposti applicativi della misura di prevenzione la pericolosità per la sicurezza pubblica dei soggetti individuati nell’art. 1 Codice delle leggi antimafia. Ai fini della legittimità del provvedimento non è, quindi, sufficiente l’appartenenza del destinatario ad una delle tipologie di autore previste dalla legge, essendo imposto l’ulteriore requisito del pericolo per la sicurezza pubblica [T.A.R. Lombardia, sez. III, 9.2.2010, B.S. c. Ministero interno, in Foro amm., II, 2010, 361; T.A.R. Lombardia Milano, sez. III, 13.5.2009, P.M. c. Ministero interno, inedita, precisa che «la lettura delle norme di cui alla 1. 27 dicembre 1956, n. 1423, così come modificata dalla 1. 3 agosto 1988, n. 327, consente di evidenziare come l’avviso orale costituisca presupposto necessario per l’applicazione delle misure di prevenzione di cui all’art. 3 di tale legge [art. 6 Codice delle leggi antimafia] (sorveglianza speciale, divieto di soggiorno, obbligo di soggiorno), ma non per il provvedimento di rimpatrio con foglio di via obbligatorio che è contemplato dall’art. 2 1. citata [art. 2 Codice delle leggi antimafia]». Cass., sez. I, 4.3.2009, n. 13002, inedita, osserva come l’obbligo di comunicazione all’interessato, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241/1990, dell’avvio del procedimento per l’emanazione del provvedimento del questore del rimpatrio con foglio di via obbligatorio non sussiste qualora, per esigenze di sicurezza e di ordine pubblico, ricorra la necessità di provvedere all’immediato allontanamento del soggetto giudicato pericoloso, coincidendo in tal caso l’avvio del procedimento amministrativo con l’emanazione del provvedimento di rimpatrio. Cass., sez. I, 17.1.2002, Spadafora, in CED Cass. 2002/222084]. La funzione di prevenzione che ispira e struttura la misura in esame determina la giurisprudenza a non esigere la sussistenza di prove della commissione di reati ed a valutare legittimo il provvedimento che sia fondato su elementi di mero sospetto ovvero su semplici indizi [T.A.R. Lombardia, sez. III, 9.2.2010, B.S. c. Ministero interno, in Foro amm., II, 2010, 361, puntualizza che «Ai fini dell’ordine di rimpatrio ex art. 2, comma 1,1. n. 1423/1956 [art. 2 Codice delle leggi antimafia] nei confronti di chi si trovi fuori dai luoghi di residenza, il questore deve accertare la sussistenza dei due presupposti necessariamente concorrenti ossia che si tratti di un soggetto inquadrabile – sulla base di elementi di fatto – in una delle categorie previste dall’art. 1 della legge [art. 1 Codice delle leggi antimafia] (individui da ritenersi abitualmente dediti a traffici delittuosi; individui la cui condotta e tenore di vita inducano a ritenere che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; individui da ritenersi per il loro comportamento dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica) e che lo stesso soggetto risulti pericoloso per la sicurezza pubblica. Pertanto, il provvedimento di rimpatrio deve sia fare riferimento alle circostanze di fatto sulle quali si basa il giudizio di riconducibilità dell’interessato ad una delle categorie indicate dall’art. 1 della 1. n. 1423/1956 [art, 1 Codice delle leggi antimafia] sia indicare le ragioni che inducono a ritenerlo socialmente pericoloso, non essendovi coincidenza tra l’appartenenza ad una delle predette categorie e la pericolosità per la sicurezza pubblica, ex art. 2 della medesima legge [art. 2 Codice delle leggi antimafia]»; T.A.R. Lazio Latina, sez. I, 19.1.2010, N. c. Ministero interno, inedita, osserva, ancora, che «Il provvedimento con cui il questore ordina, ai sensi degli artt. 1 e 2,1. 2.7 dicembre 1956, n. 1423 [artt. 1 e 2 Codice delle leggi antimafia], l’allontanamento da un comune per un certo periodo, con divieto di farvi ritorno, deve dare puntuale conto e dimostrazione: a) dell’appartenenza dell’interessato ad una delle tre categorie di soggetti indicate nell’art. 1 della legge [art. 1 Codice delle leggi antimafia]; b) della sua pericolosità per la sicurezza pubblica; in base a tali principi deve ritenersi illegittimo per carenza di motivazione e di istruttoria il provvedimento di allontanamento che non indichi a quale categoria di soggetti il ricorrente appartenga e che non fornisca elementi di valutazione in ordine alla sua pericolosità sociale (nella fattispecie, il provvedimento è stato emesso sul presupposto che il ricorrente era stato sorpreso mentre, in compagnia di altro soggetto, percorreva il centro del comune a bassa velocità e ponendo “particolare attenzione agli esercizi commerciali”, senza essere in grado di giustificare la propria presenza in loco; inoltre, a seguito di controlli, era risultata l’esistenza a suo carico di “pregiudizi penali

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per furto aggravato, estorsione, rapina e altro”, senza che ne fosse data concreta motivazione)»; T.A.R. Lombardia, sez. III, 9.2.2010, T.T. c. Ministero interno, in Foro amm., II, 2010, 362; T.A.R. Toscana, sez. I, 26.5.2008, S.E. c. Questura Prato, inedita; TA.R. Campania, sez. V, 6.9.2007, S.T. c. Questura Caserta, in Foro amm., IX, 2007, 2846; T.A.R. Lombardia, sez. III, 15.3.2007, D.P. c. Ministero interno, in Foro amm., IV, 2007, 1244; TA.R. Campania, sez. V, 8.2.2007, A.E. c. Questura Napoli, in Foro amm., II, 2007, 650; T.A.R. Umbria, sez. I, 29.6. 2006, A.A. c. Questura Perugia, inedita; T.A.R. Campania, sez. I, 18.4.2006, S.G. c. Ministero interno, inedita. Si segnalano, peraltro, indirizzi interpretativi che richiedono, ai fini della formulazione del giudizio di pericolosità, concreti comportamenti attuali dell’interessato, i quali rivelino oggettivamente una apprezzabile probabilità che lo stesso, rientrante nelle categorie soggettive di cui all’art. 1, legge n. 1423/1956 [art. 1 Codice delle leggi antimafia], possa commettere reati: T.A.R. Lombardia, sez. III, 13.5.2009, M.P. c. Ministero Interno, in Foro amm., V, 2009, 1349; T.A.R. Campania, sez. V, 12.5.2008, I.A. c. Questura Caserta, inedita; T.A.R. Campania, sez. V, 24.5.2007, A.A. c. Questura Napoli, in Foro amm., VI, 2007, 2151; T.A.R. Valle d’Aosta, sez. I, 17.5.2007, M.S. c. Ministero interno, in Foro amm., VI, 2007, 1883; T.A.R. Campania, sez. V, 8.2.2007, L.L c. Ministero interno, in Foro amm., II, 2007, 653; T.A.R. Emilia Romagna, sez. I, 28.9.2006, D.S.P.E. c. Questura Ravenna, inedita; T.A.R. Campania, sez. V, 17.5.2006, Q. c. Ministero interno, in Merito, VII-VIII, 2006, 96.]. In ragione di ciò, il giudizio di pericolosità sociale del prevenuto si considera attratto nella sfera della discrezionalità, con la conseguenza che su di esso il sindacato di legittimità del giudice amministrativo può esercitarsi esclusivamente sotto i profili dell’abnormità dell’iter logico, della macroscopica illogicità, dell’incongruenza della motivazione e del travisamento della realtà fattuale [T.A.R. Campania, sez. VI, 26.7.2007, A.A. c. Ministero interno, in Foro amm., IX, 2007, 2854]. -

A tal riguardo, non è mancato, in dottrina, chi ha espresso un giudizio di inadeguatezza funzionale della misura in quanto inidonea a determinare un controllo efficace sul soggetto ad essa sottoposto, neutralizzandone la pericolosità [VIGANÒ, 648]. Ai fini della prognosi di pericolosità richiesta dalla legge, è stato affermato che l’accertamento dell’esercizio della prostituzione in luoghi pubblici con offerta incondizionata a chiunque e senza alcuna cautela, faccia dedurre, in via logica e senza bisogno di alcuno specifico accertamento, la commissione di reati contro la moralità pubblica e il buon costume (art. 527 c.p.) – in relazione all’uso delle prostitute di appartarsi con clienti occasionali nei fondi contigui al luogo di esercizio – ed anche l’eventuale coinvolgimento di minorenni [T.A.R. Campania VI, 26.7.2007, n. 8094, A.A. c. Min. Int., in Foro amm., IX, 2007, 2854; T.A.R. Puglia II, 22.3. 2007, n. 949, M. R. c. pref. Bari e altri, in Foro amm., IV, 2007, 1441]. È sufficiente che dalla motivazione sia possibile risalire alla individuazione dei comportamenti attribuibili direttamente all’interessata e qualificabili come pericolosi per la sicurezza pubblica. Sulla scorta di questo principio è stato dichiarato illegittimo il provvedimento del prefetto di rigetto di un ricorso gerarchico avverso il provvedimento di rimpatrio nel comune di residenza con foglio di via obbligatorio, adottato dal questore nei confronti di persona che esercitava la prostituzione in zona di intenso traffico veicolare, motivato esclusivamente con riguardo al disturbo per la quiete pubblica, al disagio arrecato agli abitanti della zona – sfociato in numerosi esposti – ed ai rischi per la sicurezza della circolazione stradale e senza alcun riferimento a comportamenti attribuibili direttamente all’interessata e qualificabili come pericolosi per la sicurezza pubblica, come imposto dagli artt. 1 e 2 legge 27.12.1956, n. 1423 (T.A.R. Piemonte II, 18.10.2006, n. 14, O. c. Min. Int., in Foro amm., I, 2007, 3]. Per l’irrogazione della misura di cui all’art. 2 legge 27.12.1956, n. 1423 non è richiesta, dunque, la presenza o la preesistenza di addebiti specifici purché emerga una situazione rivelatrice di personalità incline a comportamenti asociali o antisociali (T.A.R. Piemonte II, 19.2.2007, H.D. c. Min. Int., inedita; Cons. Sta-

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to VI, 18.10.2005, n. 7581, D.P. c. Min. Int., in Foro amm., XII, 2005, 3174) indipendentemente dalla esistenza di pendenze penali a carico dell’interessato (Cons. Stato VI, 12.12.2007, n. 909, Min. Int. c. A., in Foro amm., II, 2007, 614; T.A.R. Campania V, 28.4.2008, n. 2622, Reginaldo Ribecchi c. Quest. Napoli ed altro, inedita). In applicazione di questo principio è stata ritenuta «la legittimità del provvedimento di rimpatrio con divieto di ritorno emesso nei confronti di soggetto che, per quanto non condannato, risulta al centro di decine di segnalazioni di polizia come persona coinvolta in traffici ed episodi delittuosi e non risulta avere legami di alcun tipo con il comune da cui è allontanato, se non lo svolgimento nello stesso di attività illegittima, quale addetto senza autorizzazione alla sicurezza di una discoteca» [T.A.R. Lombardia III, 15.3.2007, n. 1812, D.P. c. Min. Int., in Foro amm., IV, 2007, 1244], mentre è stata esclusa «la legittimità del medesimo provvedimento, qualora lo stesso sia stato adottato sulla base di un solo episodio nel quale al soggetto interessato non sia stata contestata alcuna condotta penalmente rilevante, ma solo delle irregolarità amministrative, in ragione della sproporzione fra quanto accertato a carico del soggetto stesso ed il provvedimento adottato nei suoi confronti» [Cons. Stato VI, 20.2.2007, n. 1459, Min. Int. e altro c. P.G., in Foro amm., III, 2007, 1011]. Affinché quest’ultimo possa essere considerato valido, nella motivazione dello stesso devono essere definiti con chiarezza i riscontri di fatto da cui emergerebbe la pericolosità sociale del soggetto, legittimante l’adozione della misura di prevenzione speciale. La valutazione di pericolosità sociale, in particolare, deve essere fondata sull’attualità della stessa in virtù di episodi ravvicinati nel tempo in grado di dare luogo ad un allarme sociale idoneo a configurare la legittimità del potere restrittivo, di cui al richiamato art. 2, tenendo in considerazione il carattere preventivo e non punitivo del provvedimento questorile che ne legittima l’adozione [T.A.R. Toscana II, 16.11.2009, n. 1676, Ma.Bi. c. Min. Int., inedita].

Altro requisito su cui si è esercitata la discussione interpretativa è stato la determinazione del concetto di “luoghi di residenza”. La giurisprudenza prevalente lo individua nel luogo reale ed effettivo in cui la persona dimora abitualmente, ai sensi dell’art 43 c.c. [Cass., sez. I, 10.2.2009, A.T., in Cass. pen., 2010, 1139, ribadisce che il provvedimento con cui il questore in materia di misure di prevenzione personali, ordina ai soggetti pericolosi per la sicurezza pubblica di fare rientro nei luoghi di residenza offerta dal Codice civile, e quindi al luogo di dimora abituale, della cui effettività l’iscrizione anagrafica è solo un indice, salva la prova contraria; Cass., sez. I, 5.12.2007, Cavani, in CED Cass. 2007/238491), ma non mancano decisioni in cui, invece, si utilizza quale riferimento la residenza anagrafica risultante dal certificato dell’ufficio dell’anagrafe [Cass., sez. II, 3.2. 1986, Guarnotta, in Riv. pen., 1987, 370]. -

Va infine rilevato che, da un punto di vista sostanziale, la misura di cui all’art. 2 Codice delle leggi antimafia (già art. 2 legge n. 1423/1956) consta di due distinti atti: a) l’ordine di rimpatrio con ingiunzione di non fare rientro nel comune dal quale si è stati allontanati, senza previa autorizzazione ovvero per un periodo non superiore a tre anni, il quale deve essere motivato e contenere le ragioni specifiche su cui si fonda il giudizio di pericolosità del soggetto; b) il foglio di via obbligatorio che, invece, non necessita di motivazione, essendo atto accessorio all’ordine di rimpatrio e, quindi, con funzione meramente esecutiva. Il provvedimento del questore è soggetto al sindacato di legittimità da parte del giudice penale alla luce dei parametri della “incompetenza”, della “violazione di legge” e dell’“eccesso di potere”.

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8.3. La sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. – L’art. 6 Codice delle leggi antimafia (già art. 3 comma 1 legge n. 1423/1956), prevede che alle persone indicate nell’art. 4 Codice delle leggi antimafia, quando siano «pericolose per la sicurezza pubblica», può essere applicata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. Alla sorveglianza speciale può essere aggiunto, «ove le circostanze del caso lo richiedano», il divieto di soggiorno in uno o più comuni, diversi da quelli di residenza o di dimora abituali, o in una o più province, salvi i casi di cui all’art. 4 comma 1 lett. a) e b) del medesimo Codice (art. 6 comma 2 Codice delle leggi antimafia, già art. 3 comma 2 legge n. 1423/1956 ed art. 2 comma 1 legge n. 575/1965). L’esclusione soggettiva riguarda, pertanto, gli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’art. 416-bis c.p. ovvero gli indiziati di uno dei reati previsti dall’art. 51 comma 3-bis c.p.p. o, ancora, del delitto di cui all’art. 12-quinquies, comma 1 d.l. 8.6.1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7.8. 1992, n. 356. Nei casi in cui le altre misure di prevenzione non siano ritenute «idonee alla tutela della sicurezza pubblica, può essere, poi, imposto l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale» (art. 6 comma 3 Codice delle leggi antimafia, già art. 3 comma 3 legge n. 1423/1956). Si tratta, pertanto, della più grave tra le misure di prevenzione personale contenute nel Codice antimafia, a cui si ricollegano una serie di prescrizioni destinate ad incidere su diritti costituzionalmente garantiti [FIORENTIN, 78 ss.]. La sorveglianza speciale consiste, infatti, nella particolare vigilanza che è chiamata a svolgere l’autorità di pubblica sicurezza nei confronti di un soggetto ritenuto pericoloso per la sicurezza pubblica circa l’osservanza da parte sua delle prescrizioni impostegli dal Tribunale della prevenzione. Le prescrizioni, contenute nel decreto applicativo della misura, sono elencate all’art. 8 comma 4 Codice delle leggi antimafia (in precedenza art. 5 comma 3 legge n. 1423/1956) ove si dispone di vivere onestamente, di rispettare le leggi, e di non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso all’autorità locale di pubblica sicurezza, di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza [Cass., sez. I, 23.4.2008, P.M. in proc. c. D.M., in CED Cass. 2008/240121, rammenta che «in tema di contravvenzione agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, la prescrizione di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne o sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza non va intesa nel senso letterale che l’espressione ha nella legislazione penale, con il richiamo ai profili di comunanza di vita e di interessi, ma deve essere riferita esclusivamente alla nozione di pericolosità sociale che qualifica la materia delle misure di prevenzione. Ne consegue che, ai fini della configurabilità, della citata contravvenzione, non è richiesta la costante ed assidua relazione interpersonale, ben potendo la reiterata frequentazione essere assunta a sintomo univoco dell’abitualità di tale comportamento, né che si tratti di frequentazione -

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di persone che sono contemporaneamente pregiudicate e sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza, essendo invece sufficiente che le persone frequentate appartengano ad una delle predette categorie di soggetti pericolosi»], di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una data ora senza comprovata necessità e, comunque, senza averne data tempestiva notizia all’autorità locale di pubblica sicurezza, di non detenere e non portare anni, di non partecipare a pubbliche riunioni. Rispetto al testo previgente sono state espunte alcune prescrizioni quali il «non dare ragione di sospetti» e il «non trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole o in case di prostituzione», ritenute, per un verso, incompatibili coi livelli di garanzie minime che connotano il volto attuale delle relazioni tra autorità e libertà e, per l’altro, obsolete in quanto rappresentative di abitudini di vita anacronistiche. Le indicazioni di contenuto previste nel comma 4 non presentano, in ogni caso, carattere di tassatività, come si ricava dal primo periodo del successivo comma 5 dell’art. 8 del Codice (già art. 5 comma 4 legge n. 1423/1956), ove è sancito che possono essere imposte tutte quelle altre prescrizioni che si ravvisino necessarie «avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale». Si tratta, pertanto, di una clausola che permette al Tribunale della prevenzione di indicare prescrizioni calibrate sulle peculiarità del caso di specie e ritenute maggiormente funzionali ad implementare istanze di difesa sociale. Qualora destinatario della misura sia una persona che si sospetta di vivere con i proventi di reato [scompare, invece, il richiamo ai soggetti oziosi o vagabondi, cfr. GUERRINI, MAZZA, RIONDATO, 105, i quali osservano che «… a seguito della riforma del 1988, gli “oziosi e i vagabondi” non compaiano più nell’elenco di cui all’art. 1 legge n. 1423/1956: ciò non autorizza, però, a ritenere che le suddette prescrizioni non risultino più a loro riferibili, in seguito ad una svista del legislatore, e che, quindi, siano inapplicabili, mentre il riferimento ai semplici sospetti oggi non è più ammissibile: peraltro, sotto quest’ultimo profilo, il comma 2 dell’art. 5, l. n. 1423/1956 può avere senso solo se la sua portata viene circoscritta alla nuova categoria contenuta nell’art. 1, n. 2, l. n. 1423/1956 e cioè a coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose»] vanno dettate ulteriori e peculiari disposizioni. I giudici devono, infatti, prescrivere al soggetto di darsi alla ricerca di un lavoro, entro congruo termine; di fissare la propria dimora; di farla conoscere nel medesimo termine all’autorità di pubblica sicurezza e di non allontanarsene senza preventivo avviso alla medesima autorità (art. 8 comma 3 del Codice, già art. 5 comma 2 l. n. 1423/1956). Al regime ordinario del sorvegliato speciale può essere aggiunto, ove le circostanze del caso lo richiedano, anche il divieto di soggiorno in uno o più comuni, diversi da quelli di residenza o di dimora abituale, o in una o più province (art. 6 comma 2 Codice delle leggi antimafia, in precedenza art. 3 comma 2 legge n. 1423/1956). La ratio è quella di evitare che il prevenuto continui a frequentare i luoghi che hanno generato o, comunque, favorito lo svilupparsi della sua perico-

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losità, oltre quello di limitare la sua attività entro luoghi definiti e ristretti. L’obbligo di soggiornare nel comune di residenza o di dimora abituale costituisce, invece, l’extrema ratio allorché le altre misure di prevenzione non siano giudicate idonee alla tutela della sicurezza pubblica (art. 6 comma 3 del Codice, già art. 3 comma 3 legge n. 1423/1956) [Cass., sez. I, 18.12.2007, C.A., in CED Cass. 2007/238491, osserva che «ai fini dell’individuazione del luogo di esecuzione della misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, la legge, nel fare riferimento alla residenza o alla dimora abituale, non intende riferirsi alla residenza anagrafica – la quale costituisce soltanto un indizio della residenza effettiva (art. 43, c.c.) – bensì al luogo in cui si trovano le consuetudini di vita e le normali relazioni sociali della persona»]. Nelle more della decisione relativa ad una proposta riguardante la misura della sorveglianza speciale con l’obbligo o con il divieto di soggiorno, il Presidente del Tribunale può, in via cautelare, disporre il temporaneo ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai fini dell’espatrio di ogni documento equipollente (art. 9 comma 1 del Codice, già art. 6 comma 1 legge n. 1423/ 1956). Qualora ricorrano motivi di particolare gravità, può altresì disporre che venga imposto all’interessato, in via provvisoria, l’obbligo o il divieto di soggiorno fino a quando non diventi esecutiva la misura di prevenzione (art. 9 comma 2 del Codice, già art. 6 comma 2 legge n. 1423/1956). Quando viene applicata la misura dell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale ovvero il divieto di soggiorno, il Tribunale può, inoltre, prescrivere all’interessato di non andare lontano dall’abitazione scelta senza preventivo avviso all’autorità preposta alla sorveglianza; di presentarsi all’autorità di pubblica sicurezza preposta alla sorveglianza nei giorni indicati ed ad ogni chiamata di essa (art. 8 comma 6 nn. 1 e 2 Codice delle leggi antimafia, già art. 5 comma 5 nn. 1 e 2 legge n. 1423/1956). Nei confronti dei soggetti destinatari del suddetto precetto è consegnata una carta di permanenza da esibire ad ogni richiesta degli ufficiali ed agenti di p.s. (art. 8 comma 7 del Codice, già art. 5 comma 6 legge n. 1423/1956) [Cass., sez. I, 27.3.2009, S.S., in CED Cass. 2009/243499, ritiene che «il soggetto sottoposto alla misura della sorveglianza speciale di p.s. con obbligo di soggiorno è tenuto, pur se si sia volontariamente sottratto alla consegna della “carta precettiva”, ad osservare gli obblighi connessi a detta misura, la cui efficacia decorre dal giorno di comunicazione del decreto»; Cass., sez. I, 18.3.2009, D.S., in CED Cass. 2009/243489, precisa che «il periodo di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza decorre dalla notificazione del relativo decreto all’interessato, dovendo escludersi che abbia inizio alla consegna della carta precettiva da parte degli organi di polizia»]. Il provvedimento impositivo della misura di prevenzione non può avere una durata inferiore ad un anno né superiore a cinque anni (art. 8 comma 1 del Codice, già art. 4 comma 8 legge n. 1423/1956) e la sua decorrenza si computa dal giorno in cui il decreto è comunicato all’interessato e cessa di diritto allo scadere del termine indicato nel medesimo decreto, se il sorvegliato speciale non ha, nel -

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frattempo, commesso un reato (art. 14 comma 1 del Codice, già art. 11 comma 1 legge n. 1423/1956). Quando ricorrono gravi e comprovati motivi di salute, il soggetto sottoposto alla misura dell’obbligo di soggiorno può essere autorizzato a recarsi in un luogo determinato fuori dal Comune di residenza o di dimora abituale, ai fini degli accertamenti sanitari necessari e delle cure indispensabili, allontanandosi per un periodo non superiore a dieci giorni, oltre al tempo necessario per il viaggio (art. 12 commi 1 e 2 del Codice). Alla stregua dell’attuale formulazione normativa, due sono i presupposti che legittimano l’applicazione della misura: l’appartenenza ad una delle categorie soggettive previste dalle legge e la configurabilità della pericolosità per la sicurezza pubblica. Tra i due menzionati requisiti quel che solleva perplessità per la sua indubbia scivolosità semantica, come si rileva dalla giurisprudenza, è quello che si riporta alla locuzione pericolosità per la sicurezza pubblica. Il giudizio di pericolosità sociale può, altresì, basarsi su dati desunti da procedimenti penali anche pendenti e da precedenti penali e giudiziari. Al riguardo, la dottrina ha precisato che la pericolosità del soggetto può trarsi anche da elementi di prova acquisiti nel corso del procedimento penale che, tuttavia, devono essere valutati dal giudice della prevenzione in maniera autonoma ai fini del relativo giudizio [FILIPPI, CORTESI, 110]. La dottrina ha duramente criticato l’intollerabile genericità dell’espressione «pericolosità per la sicurezza pubblica» [GUERRINI, MAZZA, RIONDATO, 98; BRICOLA, 47]. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito entro quali limiti può ritenersi compatibile lo stato di detenzione con l’applicazione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza. Al riguardo, è stato affermato che, in costanza di espiazione di pena conseguente a condanna definitiva, la misura di prevenzione non può essere disposta se non sia acquisita la prova certa che la formazione di risocializzazione propria del trattamento penitenziario non abbia esercitato alcun effetto sul condannato, né eliminato la sua pericolosità sociale; è compito del giudice di merito procedere ai necessari accertamenti, in quanto non si può far luogo a misura di prevenzione se la pericolosità sociale non sia sussistente al momento della formulazione del giudizio [Cass., sez. I, 5.11.2003, n. 142]. Sulla applicabilità delle misure di detenzione al detenuto, si rinvia alla giurisprudenza, ordinaria e costituzionale analizzata sub § 7. Sulla applicabilità della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza a persona detenuta in espiazione dell’ergastolo, cfr. Cass., sez. I, 1.12.2000, che motiva sul rilievo che questa pena – quantunque, in linea di principio, perpetua e, quindi, di fatto ostativa all’esecuzione della misura di prevenzione – è, a ben vedere, suscettibile di estinzione per il tramite di molteplici istituti previsti dall’ordinamento penale. La giurisprudenza è oscillante circa la compatibilità della sorveglianza speciale con l’affidamento in prova al servizio sociale. Un primo e più risalente orientamento la ammette sul rilievo che l’affidamento in prova si fonda sul mero apprezzamento dei risultati dell’osservazione, da cui trarrebbe fondamento la prognosi di idoneità rieducativa delle prescrizioni correlate all’affidamento medesimo. Questo tipo di valutazione non confliggerebbe col giudizio di pericolosità che, al contrario, si basa sull’esame globale dell’intera personalità del soggetto quale risulta da plurime manifestazioni di vita. L’ulteriore conseguenza sta nel fatto che l’esecuzione

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della misura di prevenzione, ove concorrente con l’affidamento in prova, venga differita al momento in cui il condannato riacquista la libertà, fatta salva la possibilità di revoca o modificazione del provvedimento in ipotesi di cessazione della pericolosità al tempo in cui l’affidamento dovrebbe avere inizio [Cass., sez. I, 15.12.1984, n. 2844]. Più di recente, è stato però osservato che ricorre un’incompatibilità logico-giuridica tra le misure di prevenzione personali di cui alla legge n. 1423/1956 e l’affidamento in prova al servizio sociale, profilandosi una contraddizione in termini fra la dichiarazione di pericolosità sociale, concreta e attuale, del soggetto e l’attitudine risocializzatrice della misura alternativa. Da ciò discenderebbe che, in pendenza dell’affidamento in prova, le valutazioni circa l’an della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza nei confronti dello stesso soggetto incombano sul giudice dopo la fine del trattamento [Cass., sez. I, 12.11.1999]. In tale prospettiva, la S.C. ha precisato che la compatibilità astratta tra il regime di affidamento in prova al servizio sociale e l’applicabilità di una misura di prevenzione non esime il giudice del procedimento di prevenzione dal dovere di valutare la possibilità in concreto della contemporanea esecuzione nei confronti dello stesso soggetto di misure coercitive diverse; invero, pur restando ferma la plausibilità di un giudizio di pericolosità compiuto sui medesimi presupposti fattuali, ma per fini diversi, è necessario che il giudice della prevenzione, adito in sede di impugnazione, supporti con elementi concreti il giudizio sulla attuale pericolosità del preposto, adeguando la motivazione del provvedimento alla situazione concreta ed attuale [Cass., sez. I, 18.1.2007, n. 3681]. In ragione dell’autonomia del procedimento di prevenzione e della diversità di funzione e scopo delle misure di prevenzione rispetto a quelle cautelari, è stato affermato – in analogia a quanto ritenuto riguardo allo stato di detenzione in espiazione della pena – che non esiste assoluta incompatibilità tra misure di prevenzione e misure cautelari, dovendo la medesima essere verificare in concreto e potendo essa configurarsi solo in rapporto alle rispettive modalità di esecuzione [Cass., sez. I, 29.11.1999, n. 6582, in tema di compatibilità tra la misura coercitiva dell’obbligo di soggiorno e la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza].

Da ultimo, va precisato che l’art. 6 comma 1 legge n. 172/2012, che ha ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, stipulata a Lanzarote il 25 ottobre 2007, introduce al comma 5 dell’art. 8 d.lgs. n. 159/2011, tra le prescrizioni che possono essere imposte con la sorveglianza speciale, «il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi, frequentati abitualmente da minori». Pur se la disposizione fa riferimento ai soggetti di cui all’articolo 1, lettera c) – vale a dire alle persone dedite alla commissione di reati contro i minori, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica – si deve ritenere che, in ragione del relativo contenuto, la prescrizione trovi applicazione nei confronti dei soli soggetti qualificati pericolosi in quanto dediti alla commissione di reati in danno di minori. 8.4. Il sistema preventivo in materia di accesso alle manifestazioni sportive (c.d. “D.a.s.p.o.”). – L’ambito della prevenzione personale ante delictum si è arricchito, nel tempo, di nuovi strumenti ai quali settori della legislazione penale complementare affidano il presidio di specifiche declinazioni dell’ordine pubblico. Al riguardo, un peculiare rilievo riveste la normativa finalizzata alla prevenzione ed alla repressione dei fenomeni di violenza originati in occasione o a causa di manifestazioni sportive. Ab origine, la disciplina di prevenzione occupava uno spazio marginale nel

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contesto della legge 13.12.1989, n. 401 (recante “Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento delle competizioni agonistiche”), ove il relativo art. 6 prevedeva una embrionale forma dell’attuale misura del divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono le manifestazioni sportive. L’evoluzione normativa è avvenuta sia attraverso innesti sul tronco della legge n. 401/1989, sia tramite altre disposizioni disseminate in diverse leggi speciali (peraltro, è il caso di sottolineare come tutti gli interventi che hanno inciso sulla legge 13.12.1989, n. 401 siano stati realizzati mediante lo strumento del decreto legge: d.l. 22.12.1994, n. 717, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.2.1995, n. 45 (“Misure urgenti per prevenire fenomeni di violenza in occasione di competizioni agonistiche”); il d.l. 20.8.2001, n. 336, convertito, con modificazioni, dalla legge 19.10.2001, n. 377 (“Disposizioni urgenti per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive”); il d.l. 24.2.2003, n. 28, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.4.2003, n. 88 (“Disposizioni urgenti per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive”); il d.l. 17.8.2005, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 17.10.2005, n. 210 (“Ulteriori misure per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive”); il d.l. 8.2.2007, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 4.4.2007, n. 41 (“Misure urgenti per la prevenzione e la repressione di fenomeni di violenza connessi a competizioni calcistiche, nonché norme a sostegno della diffusione dello sport e della partecipazione gratuita dei minori alle manifestazioni sportive”) e, da ultimo, il d.l. 12.11.2010, n. 187, convertito, con modificazioni, dalla legge 17.12.2010, n. 217 (“Misure urgenti in materia di sicurezza”). Gli istituti destinati a prevenire il realizzarsi di episodi violenti sono rappresentati, in primo luogo, dal divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive, a cui può accompagnarsi la prescrizione di comparizione personale presso l’ufficio o il comando di polizia, una o più volte, nel corso della giornata in cui si svolgono le manifestazioni per le quali opera il predetto divieto (art. 6 commi 1 e 2 legge n. 401/1989) [Cass., sez. III, 15.4.2010, P., precisa che «l’obbligo di ripetuta presentazione ad un comando od ufficio di polizia in coincidenza con una stessa manifestazione sportiva (c.d. doppia presentazione), ove imposto con riguardo a competizioni che si svolgono in trasferta, può essere ridotto d’ufficio in sede di legittimità, annullando senza rinvio l’ordinanza di convalida, ad una sola volta nel corso della medesima manifestazione, quando lo stesso appaia, in ragione della situazione di fatto, irragionevole»]. Il questore può, quindi, inibire a determinate categorie di soggetti, individuate sulla base di una pericolosità sociale legata a peculiari pregresse condotte, l’accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive specificamente indicate, nonché a quelli – pure analiticamente specificati – interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano alle manifestazioni medesime. Gli effetti della prescrizione decorrono dalla prima manifestazione successiva alla notifica all’interessato (art. 6 comma 3 legge n. 401/1989). L’art. 6 comma 8 attribuisce al questore il compito di autorizzare il prevenu-

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to, per gravi e comprovate esigenze, a comunicare per iscritto, all’ufficio presso cui deve presentarsi al fine di adempiere le prescrizioni di cui al comma 2 del medesimo articolo, il luogo di privata dimora o altro diverso luogo ove lo stesso sia reperibile durante lo svolgimento di specifiche manifestazioni agonistiche. Pertanto, in situazioni assolutamente particolari, riconducibili al concetto di gravi e comprovate esigenze, l’autorità di p.s. permette all’interessato di sostituire l’obbligo di comparizione personale con la semplice reperibilità, realizzando così un bilanciamento fra l’interesse pubblico e la tutela di esigenze fondamentali dell’individuo, quali, ad esempio, la salute ed i rapporti familiari. Con la novella del 2005, è stata introdotta un’ipotesi di applicazione obbligatoria della prescrizione in esame, quando risulta, anche sulla base di documentazione videofotografica o di altri elementi oggettivi, che il destinatario ha violato la misura interdittiva del divieto di accesso ai luoghi (art. 6 comma 5 legge n. 401/1989). L’unico legittimato attivo all’adozione delle misure in esame, è il questore (art. 6 comma 1 legge n. 401/1989). La competenza territoriale è attribuita all’autorità di p.s. del luogo ove si sono verificati i fatti da cui trae origine il provvedimento interdittivo; si tratta di un criterio che, in assenza di indicazione legislativa, è stato elaborato dalla giurisprudenza di legittimità [Cass., sez. III, 5.9.2007, Percolla, in Dir. pen. proc., 2008, 52]. Il luogo di residenza o di dimora abituale costituisce, invece, un criterio sussidiario per l’individuazione della competenza per territorio, allorquando il soggetto sia destinatario delle misure interdittive di cui alla legge n. 401/1989 per fatti commessi all’estero. Il decreto adottato dall’autorità questorile deve avere la forma scritta ed indicare la durata del divieto di accesso, l’elenco delle singole manifestazioni sportive, nonché i luoghi interessati alla sosta, al transito ed al trasporto preclusi al destinatario della misura, oltre le ragioni che comprovano la sussistenza, in concreto, dei presupposti di legge, prima fra tutti la pericolosità sociale. Il termine di durata degli istituti in esame, ai sensi dell’art. 6 comma 5 legge n. 401/1989, deve essere non inferiore ad un anno e non superiore a cinque. La dottrina prevalente [PETRINI, 227; MOLINARI, 559] riconduce la natura dei predetti congegni al genus delle misure di prevenzione. Più precisamente, è stato posto in rilievo come il sistema delle misure di prevenzione in ambito sportivo, nato quale “costola” delle misure di prevenzione ordinarie, delle quali condivide la natura e le peculiari limitazioni della libertà di circolazione, abbia finito per dare vita ad un microsistema a sé stante con marcati profili di autonomia. Si tratta di una posizione che, dopo anni di incertezze, ha trovato affermazione anche in giurisprudenza [Cass., sez. I, 13.2.2002, Raia, in Cass. pen., 2002, 3867]. La progressiva complessità che ha assunto il fenomeno della violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive si è tradotta in un incremento esponenziale del numero dei destinatari delle misure previste all’art. 6 commi 1 e 2 legge n. 401/1989.

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Alcune categorie soggettive sono indicate nell’art. 6 comma 1, ove si precisa che il divieto di accesso ai luoghi è applicabile alle persone denunciate o condannate anche con sentenza non definitiva ngli ultimi cinque anni per uno dei reati di cui all’art. 4 commi 1 e 2 legge 18.4.1975, n. 110, per aver portato fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa armi o strumenti atti ad offendere ovvero per avere violato il divieto, sancito dall’art. 5 legge 22.5.1975, n. 152, di usare in luogo pubblico o aperto al pubblico caschi protettivi o altri mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona [Cass., sez. I, 18.12.2007, Potestà, in Guida dir., VII, 2008, 53] o ancora per essere entrati in taluno dei luoghi ove si svolgono competizioni agonistiche con simboli ed emblemi di carattere discriminatorio, ai sensi dell’art. 2 comma 2 d.l. 26.4.1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25.6.1993, n. 205 ovvero, infine, per aver commesso una delle ipotesi criminose contemplate all’art. 6-bis (“Lancio di materiale pericoloso, scavalcamento e invasione di campo in occasione di manifestazioni sportive”) e all’art. 6-ter (“Possesso di artifizi pirotecnici in occasione di manifestazioni sportive”) legge n. 401/1989. Il divieto e le prescrizioni in parola possono, inoltre, essere applicate a coloro che abbiano preso parte attiva ad episodi di violenza su persone o su cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive o che, nelle medesime circostanze, abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza (art. 6 comma 1 primo periodo legge n. 401/1989). La Cassazione ha ritenuto applicabile il divieto di accesso ai luoghi di cui all’art. 6 comma 1, nei confronti di alcuni ultras autori di «reiterati episodi di intolleranza razzista, forieri di uno sperimentato allarme sociale con serio pericolo per l’ordine pubblico quando in tempi utili non si apprestino le necessarie cautele». Più in generale, i giudici di legittimità hanno rammentato come con «razzismo si debba intendere tutto quel complesso di manifestazioni o atteggiamenti originati da profondi e radicati pregiudizi sociali ed espressi attraverso forme di disprezzo e di emarginazione nei confronti di individui o di gruppi appartenenti a comunità etniche e culturali diverse, assai spesso, ritenute inferiori» [Cass., sez. III, 30.1.2007, D.C., inedita]. Con una sorta di duplicazione rispetto alla prima parte dell’ipotesi sopra menzionata, il secondo periodo del comma 1 dell’art. 6 estende l’applicabilità della misura del divieto di accesso ai luoghi anche nei confronti di «chi sulla base di elementi oggettivi risulta aver tenuto una condotta finalizzata alla partecipazione attiva ad episodi di violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive o tale da porre in pericolo la sicurezza pubblica in occasione o a causa delle manifestazioni stesse». La differenza tra le due categorie soggettive sembrerebbe cogliersi nel fatto che, relativamente all’ipotesi del secondo periodo dell’art. 6 comma 1, il questore non è vincolato dall’esistenza a carico dell’interessato di una denuncia o di una condanna, benché portata da sentenza non definitiva, nel corso degli ultimi cinque anni per quegli specifici fatti. All’evidente scopo di bilanciare la mancanza di questo requisito, il legislatore precisa che le condotte debbano risultare “sulla base di elementi oggettivi”.

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L’utilizzo del plurale induce a ritenere che, per fondare il giudizio di pericolosità di competenza del questore, sia necessaria la presenza di elementi molteplici. Quanto, invece, al predicato della loro “oggettività”, occorre dire che esso può desumersi da documentazione videofotografica, ma anche da dichiarazioni testimoniali e da atti quali la relazione o l’annotazione di servizio redatte dalle forze dell’ordine. In virtù del richiamo contenuto all’art. 2 comma 3 d.l. n. 122/1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 205/1993, le misure in esame hanno come destinatari, con efficacia di cinque anni, anche coloro che siano stati denunciati o condannati per uno dei reati previsti dall’art. 3 legge 13.10.1975, n. 654 (“Ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale”, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966), per uno dei reati previsti dalla legge 9.12.1967, n. 962 (“Prevenzione e repressione del delitto di genocidio”) o, ancora, per atti finalizzati a commettere genocidio; atti finalizzati a commettere genocidio mediante limitazione delle nascite o mediante sottrazione di minori; imposizione di marchi o segni distintivi; accordo al fine di commettere genocidio; pubblica istigazione a commettere tali delitti o apologia degli stessi o ancora a persone denunciate o condannate per un reato aggravato a norma dell’art. 3 comma 2 d.l. n. 122/1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 205/1993 o, infine, a persone sottoposte a misure di prevenzione in quanto dedite a commettere reati che offendono o mettono in pericolo la sicurezza o la tranquillità pubblica (art. 1 comma 1 lett. e) Codice delle leggi antimafia) ovvero per i motivi di cui all’art. 18 comma 1 n. 2-bis legge n. 152/1975, disposizione, peraltro, abrogata dall’art. 120 comma 1 lett. d) del Codice predetto. Si annoverano, infine, altre due categorie soggettive. La prima è costituita da coloro che, non appartenendo alle società appositamente incaricate, vendono titoli di accesso alle competizioni nei luoghi in cui si svolge la manifestazione sportiva ovvero in quelli interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono all’evento medesimo. Ad essi può essere applicata, oltre ad una sanzione amministrativa, il divieto e le prescrizioni di cui all’art. 6 commi 1 e 2 legge n. 401/1989. La seconda è individuata dall’art. 1-septies legge n. 88/2003 ed è costituita dagli autori della contravvenzione ivi prevista, che siano già stati sanzionati per la medesima violazione. Ad essi, in aggiunta alla sanzione pecuniaria, possono essere applicati il divieto e le prescrizioni di cui all’art. 6 legge n. 401/1989 per un periodo non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni. La geografia dei destinatari degli strumenti di prevenzione disegnata dalla legge n. 401/1989 parrebbe destinata ad ampliarsi alla luce di un orientamento interpretativo che emerge da talune decisioni della Suprema Corte [da ultimo, Cass., sez. III, 1.7.2009, S.P., in CED Cass. 2009/ 244238]. Si tratta di arresti coi quali i giudici di legittimità – sul presupposto che i provvedimenti preventivi previsti dall’art. 6 commi 1 e 2, sono destinati «alla tutela dell’ordine pubblico, posto in pericolo dalle condotte degli intimati, la cui materialità è del tutto avulsa dall’esplicazione del-

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l’attività agonistica e trae dal contesto sportivo mera occasione all’origine del comportamento illecito» – hanno statuito che «il questore ha l’obbligo di valutare, ai fini dell’adozione delle misure in esame, anche il comportamento di coloro che sono in campo, quali giocatori e dirigenti sportivi (soggetti da sempre ritenuti immuni dai predetti provvedimenti), escludendo solo quello finalisticamente inserito nell’ambito di una attività sportiva ed intimamente connesso alla pratica dello sport».

Questo indirizzo giurisprudenziale considera, dunque, le società sportive ed i giocatori possibili destinatari delle misure, a conferma di un trend di superamento dell’idea che vedeva questi soggetti passivi spettatori delle condotte realizzate dai supporters violenti [LO MONTE, 1517 ss.]. L’art. 6, comma 3, racchiude le regole dettate per la convalida del provvedimento del questore che affianca al divieto di accesso ai luoghi l’obbligo di comparizione personale presso l’ufficio o il comando di polizia, una o più volte, nel corso della medesima giornata per cui opera il predetto decreto interdittivo. L’autorità di p.s. deve, infatti, notificare il decreto all’interessato dandogli avviso che ha facoltà di presentare, personalmente o a mezzo di difensore, memorie e deduzioni al giudice competente per la convalida (art. 6 comma 2-bis legge n. 401/1989) e comunicare immediatamente il provvedimento medesimo al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ovvero al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni, se il soggetto è minore, entrambi competenti con riferimento al luogo in cui ha sede l’ufficio della questura (art. 6 comma 3 legge n. 401/1989). Ove il P.M. ritenga che che sussistano i presupposti indicati dal comma 1 dell’art. 6, richiede, entro quarantotto ore dalla notifica del decreto, la convalida al giudice per le indagini preliminari. Le prescrizioni cessano di aver efficacia se il P.M., entro il termine predetto, con decreto motivato, non ne richiede la convalida ovvero se il giudice non la dispone nelle quarantotto ore successive (art. 6, comma 3). La pubblica accusa è, pertanto, chiamata a compiere una prima e provvisoria delibazione circa la ricorrenza dei presupposti che giustificano l’adozione della misura, verificando, in primo luogo, la correttezza dell’atto amministrativo e, poi, accertando la concreta pericolosità del prevenuto. Se la verifica dà esito positivo, inoltra la richiesta di convalida al giudice per le indagini preliminari; in caso contrario, deve dare atto delle sue scelte con provvedimento motivato. Ai fini della convalida, è competente ratione loci il giudice per le indagini preliminari del luogo in cui ha sede l’ufficio dell’autorità di pubblica sicurezza, che ha imposto le prescrizioni, anche se i fatti sono stati commessi altrove (art. 6 comma 3 legge n. 401/1989). Se l’ordinanza viene emessa da un giudice incompetente, il vizio genera una violazione di legge, censurabile in cassazione [Cass., sez. III, 2.12.2005, Sacco, in Cass. pen., 2007, 261]. Sui limiti del potere di controllo del giudice in sede di convalida si concentrano, invero, le maggiori perplessità. Dopo alcune oscillazioni interpretative, la giurisprudenza propende per la tesi del “sindacato giurisdizionale forte”, sostenendo che al giudice è imposto un controllo pieno della legalità

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del provvedimento preventivo, esteso alla verifica di tutti i relativi presupposti. Prevale, quindi, la tesi secondo cui il giudizio di convalida non possa in alcun modo tradursi in una verifica meramente formale, dovendo, di contro, coinvolgere «la personalità del destinatario e le modalità di applicazione della misura» in conformità a quanto argomentato dalla Consulta nella sentenza 20.11.2002, n. 512 ed avallato dalle Sezioni Unite [Cass., S.U., 27.10.2004, Labbia. Successivamente, Cass., sez. III, 15.4.2010, B., ha precisato che i presupposti della convalida del provvedimento del questore, impositivo dell’obbligo di presentazione ad un ufficio o comando di polizia in occasione dello svolgimento di manifestazioni sportive sono: a) le ragioni di necessità ed urgenza che hanno indotto il questore ad adottare il provvedimento; b) la pericolosità concreta ed attuale del soggetto; c) l’attribuibilità al medesimo delle condotte addebitate e la loro riconducibilità alle ipotesi previste dall’art. 6 legge n. 401/1989; d) congruità della misura]. Il S.C. ha sottolineato come il giudice della convalida debba accertare, in primis, che ricorra in concreto la necessità e l’urgenza dell’intervento; riscontrando, poi, se i fatti indicati dall’autorità di pubblica sicurezza siano indici sicuri della pericolosità, intesa nella peculiare accezione contenuta nell’art. 6 legge n. 401/1989 e valutando, infine, con particolare attenzione gli elementi indiziari raccolti, soprattutto allorquando il provvedimento non sia stato adottato a seguito della pronuncia di una sentenza di condanna, ma in ragione della semplice acquisizione di una denuncia ovvero tramite constatazione che l’interessato abbia preso parte attiva ad una delle manifestazioni di “tifo violento” descritte dallo stesso art. 6.

Il procedimento si sostanzia, dunque, in un giudizio allo stato degli atti, in cui il giudice non può compiere alcuna autonoma attività istruttoria e non sia vincolato ai criteri di valutazione dell’art. 192 c.p.p. Le ragioni della difesa saranno, pertanto, affidate ad eventuali memorie o deduzioni che possono essere depositate prima che il giudice decida; la circostanza determina un indubbio affievolimento del diritto di difesa dell’interessato, che fa dubitare della legittimità costituzionale del meccanismo. Il legislatore non ha, peraltro, coordinato i termini del concreto esercizio delle prerogative difensive con le cadenze temporali entro cui l’A.G. deve vagliare la legittimità del provvedimento assunto dall’autorità di p.s. Per rimediare a queste disfunzioni, la Corte di Cassazione ha offerto una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 6 comma 2-bis legge n. 401/1989. In talune decisioni, infatti, è stato sottolineato che il giudice per le indagini preliminari deve, in primo luogo, verificare se sia stato rispettato il diritto di difesa e non possa adottare il provvedimento di convalida prima che sia decorso il termine di quarantotto ore dalla notifica del provvedimento questorile (Cass., sez. I, 13.2.2009) nonché l’ulteriore termine di ventiquattro ore dal deposito in cancelleria della richiesta di convalida e dell’annessa documentazione amministrativa. In mancanza si verificherebbe, infatti, una lesione del diritto all’intervento ed all’assistenza difensiva dell’interessato, con la conseguenza che l’ordinanza sarebbe viziata da nullità generale a regime intermedio ex artt. 178 lett. e) e 180 c.p.p.

Va infine ricordato che l’art. 7-ter legge n. 401/1989, inserito dalla novella del 2007 ed abrogato dall’art. 120 comma 1 del Codice delle leggi antimafia, stabiliva che le misure di prevenzione personali e patrimoniali (oggi tutte inserite nel Codice predetto), avrebbero potuto essere applicate anche nei confronti di persone indiziate di aver agevolato gruppi o persone che hanno preso parte attiva, in più occasioni, alle manifestazioni di violenza di cui all’art. 6 della presente legge.

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L’art. 4 comma 1 lett. i) del Codice indica, infatti, tali soggetti quali destinatari delle misure ante delictum personali ed il successivo art. 16 comma 2 specifica che nei confronti dei medesimi può essere disposta la confisca, relativamente ai beni, nella loro disponibilità, che possono agevolare, in qualsiasi modo, le attività di chi prende parte attiva a fatti di violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive. Il sequestro effettuato nel corso di operazioni di polizia dirette alla prevenzione delle predette manifestazioni di violenza deve essere convalidato a norma dell’art. 22 comma 2 del Codice (in precedenza art. 2-ter comma 2 secondo periodo legge n. 575/1965). Siamo di fronte, pertanto, ad un precetto che incide sulla operatività delle misure ante delictum ordinarie, sia personali sia patrimoniali, prevedendo una ulteriore categoria di soggetti possibili destinatari delle misure anzidette nonché una nuova ipotesi di confisca, avulsa dal normale circuito applicativo, in quanto connessa, anche da un punto di vista probatorio, a fatti e condotte rilevanti ai sensi dell’art. 6 legge n. 401/1989 e per tali ragioni connotata da aspetti di evidente atipicità. L’art. 16 comma 2 del Codice (già art. 1-ter comma 2 legge n. 401/1989) consente, invero, di adottare la misura di prevenzione patrimoniale della confisca nei confronti dei soggetti che siano indiziati di aver agevolato i gruppi o le persone individuate a norma del comma 1. I beni sottoposti al provvedimento ablatorio devono essere nella disponibilità degli stessi e sono individuati con quelli che possono agevolare, in qualsiasi modo, le attività di chi prende parte attiva a fatti di violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive. Come in riferimento alla confisca, ai sensi dell’art. 24 comma 1 Codice delle leggi antimafia (in precedenza art. 2-ter comma 3 legge n. 575/1965) anche in detta ipotesi, prodromico alla applicazione della misura ante delictum reale è il sequestro dei medesimi beni. In particolare, si precisa che il provvedimento di cautela, eseguito nel corso di operazioni di polizia dirette alla prevenzione proprio delle summenzionate manifestazioni di violenza, deve essere convalidato seguendo il meccanismo predisposto dall’art. 22 comma 2 Codice delle leggi antimafia che, in precedenza era contenuto all’art. 2-ter comma 2 secondo periodo legge n. 575/1965. Il rinvio, pur se limitato agli effetti della convalida, all’art. 22 comma 2 Codice delle leggi antimafia determina l’applicabilità della disciplina dettata per il c.d. “sequestro urgente”. Da ciò discende che il decreto motivato di sequestro è adottato dal Presidente del Tribunale e perde efficacia se non convalidato dal Tribunale nei dieci giorni successivi. 8.4.1. La sentenza della Corte EDU nel caso Ostendorf c. Germania. – Meritevole di segnalazione è l’arresto con il quale la Corte EDU si è pronunciata sulla compatibilità con l’art. 5 comma 1 CEDU di una misura di prevenzione applicata per scongiurare episodi di violenza in occasione di manifestazioni

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sportive (sez. V, 7.3.2013, Ostendorf c. Germania). Protagonista del caso un soggetto schedato tra gli hooligans di “categoria C”, cioè tra gli individui pronti a usare la violenza in occasione di incontri sportivi. Egli e il suo gruppo erano stati trovati in possesso di paradenti e guantoni imbottiti di ghiaia, tipici strumenti con cui vengono perpetrati atti di violenza a latere di manifestazioni sportive. La polizia aveva, allora, scortato il gruppo in giro per la città in attesa del match, intimando a tutti i relativi componenti di non allontanarsi. Il ricorrente era stato arrestato quando, all’ordine di uscire dal pub dove i tifosi attendevano l’inizio della partita, la polizia aveva constatato che egli non si era unito al gruppo, ma si era nascosto nel bagno delle donne. Era stato, di conseguenza, posto in camera di sicurezza per circa quattro ore, cioè fino a un’ora dopo la fine del match. Contestualmente, gli era stato sequestrato il cellulare, che gli sarebbe stato restituito qualche giorno più tardi. Il ricorso alla Corte EDU lamentava la violazione dell’art. 5 comma 1 CEDU, che tutela il diritto alla libertà ed alla sicurezza. In primo luogo, la Corte ha, con il proprio arresto, affermato che nella specie vi è stata una privazione della libertà personale rilevante nella prospettiva dell’invocato parametro convenzionale, uniformandosi alla sua consolidata giurisprudenza secondo cui la pur brevissima durata della detenzione non rende irrilevante la privazione subita. Nondimeno, giudica la detenzione patita dal ricorrente conforme alla legge interna, essendo la misura di prevenzione prevista dall’art. 32 comma 1 n. 2 dell’Hessian Public Security and Order Act tedesco ed essendo stata la medesima attuata in conformità alla procedura nazionale. I giudici di Strasburgo si sono, poi, interrogati sulla configurabilità di una delle cause legittime di privazione della libertà elencate alle lettere da a) a f ) dell’art. 5 comma 1 CEDU. Viene esaminata per prima la lettera c), secondo la quale la privazione della libertà è possibile «[…] when it is reasonably considered necessary to prevent his committing an offence […]». La Corte riconosce come la polizia fosse in possesso di informazioni dimostrative che il ricorrente stesse pianificando di prendere parte ad episodi di violenza da stadio, durante i quali sarebbero stati commessi reati, con la conseguenza che la detenzione ben si sarebbe potuta qualificare come finalizzata alla prevenzione della commissione di un reato. La Corte ha, altresì, riconosciuto che la misura potesse essere «reasonably considered necessary», rispettando quindi il criterio della necessità posto dall’art. 5, comma 1, lett. c), CEDU: non sarebbe stato sufficiente, a loro avviso, separare il ricorrente dal gruppo e sequestrargli il cellulare per impedirgli di commettere i reati considerati. Tuttavia, i giudici hanno rammentato come la lettera c) dell’art. 5, comma 1, CEDU preveda un requisito ulteriore, richiedendo che la privazione della libertà sia «effected for the purpose of bringing him before the competent legal authority» e che la persona sia «entitled to trial within a reasonable time»: secondo la giurisprudenza della Corte, l’art. 5 comma 1 lett. c) CEDU si riferisce esclusi-

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vamente alla custodia cautelare e non anche alla custodia preventiva. La privazione della libertà ex lett. c) sarebbe, dunque, lecita solo qualora sia legata ad un procedimento penale, qualora, cioè, il soggetto sia sospettato di aver già commesso un reato, con esclusione dunque delle ipotesi di custodia preventiva pura: ambito nel quale la Corte inserisce il caso, posto che, non essendo il ricorrente sospettato della commissione di reati, la ragioni della temporanea privazione della libertà non erano di tipo processuale. I giudici, infine, non hanno ritenuto che i doveri convenzionali imposti allo Stato ex artt. 2 e 3 CEDU, con riferimento alla protezione della generalità dei cittadini da reati che violino il diritto alla vita e all’integrità fisica, permettano allo Stato stesso di ottemperarvi attraverso misure che costituiscano in sé una violazione dei diritti convenzionali dell’autore di tali reati. Pur riconoscendo l’importanza che nella legislazione tedesca riveste l’istituto della custodia preventiva e, quindi, statuendo che l’art. 5 CEDU non può essere interpretato in modo da rendere impossibile alla polizia il mantenimento dell’ordine e la protezione dei cittadini, la Corte ha, nondimeno, ribadito che le prescrizioni in esso contenute devono essere rispettate dalle agenzie di law enforcement, al fine di proteggere i singoli da ogni forma di arbitrio in materia di privazione della libertà personale. La Corte ha, dunque, qualificato la misura di prevenzione adottata nei confronti del ricorrente non giustificabile ex lett. c) art. 5 comma 1 CEDU. I giudici convenzionali hanno, poi, esaminato l’ipotesi disciplinata dalla lettera b), a mente della quale la privazione della libertà personale è ammessa «[...] in order to secure the fulfilment of an obligation prescribed by law». Secondo la giurisprudenza della Corte, affinchè resti integrata tale ipotesi, è in primo luogo necessario che la legge nazionale permetta la detenzione del soggetto al fine di obbligarlo a rispettare un dovere specifico e concreto a lui imposto, al quale egli si sia rifiutato di ottemperare. In proposito, i giudici hanno ribadito che, nel caso in oggetto, la detenzione è stata eseguita dalla polizia ex art. 32 par. 1 n. 2 del Hessian Public Security and Order Act, per il quale la polizia può ricorrere al potere di custodia di un soggetto ove indispensabile a prevenire l’imminente commissione di un reato lesivo di importanti interessi della collettività. Nel determinare se l’obbligo del ricorrente di mantenere l’ordine, non organizzando né partecipando a risse tra hooligans si fosse potuto considerare sufficientemente specifico e concreto, come richiesto dalla sua giurisprudenza [cfr., inter alia, Engel e altri c. Paesi Bassi, 8.6.1976; Guzzardi c. Italia, 6.11.1980, Lolova-Karadzhova c. Bulgaria, 27.3.2012, n. 17835), il giudice convenzionale ha affermato che i suoi confini debbano essere «very closely circumscribed»: l’obbligo imposto al sig. Ostendorf è stato ritenuto idoneo poiché indicava con precisione il luogo, il tempo e le vittime potenziali dei reati che il suo mancato rispetto avrebbe potuto causare. Infine, secondo la sentenza, l’applicazione della misura avrebbe richiesto in primo luogo la prova che il suo destinatario avesse manifestato, con fatti concludenti, la volontà di non ottemperare all’obbligo cui era tenuto.

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In secondo luogo, la Corte ha positivamente verificato che la detenzione era finalizzata o comunque aveva contribuito direttamente ad assicurare il rispetto dell’obbligo, non avendo dunque carattere punitivo. In terzo luogo, essa ha ritenuto la natura dell’obbligo imposto al ricorrente compatibile con la Convenzione, essendo finalizzato a mantenere l’ordine e a impedire la commissione di reati con uso di violenza in contesti che pongono a rischio l’incolumità della collettività. In quarto luogo, i giudici hanno affermato il principio in virtù del quale le basi della detenzione vengono meno quando l’obbligo viene ottemperato; nel caso portato all’attenzione della Corte, trattandosi di un obbligo di non fare, tale momento è stato correttamente individuato dalle autorità, che hanno rilasciato il soggetto una volta decorso il tempo durante il quale il reato poteva essere commesso. Di particolare interesse è, inoltre, il bilanciamento che, in tema di applicazione di una misura di prevenzione, ogni società democratica deve compiere – ad avviso della Corte – tra l’esigenza di un immediato rispetto dell’obbligo e l’importanza del diritto alla libertà personale; i giudici hanno valutato prevalente, sul diritto del ricorrente, il primo bisogno, essendo l’obbligo posto a tutela di diritti fondamentali e di interesse generale, insidiati dalla frequenza e dall’intensità degli episodi di violenza negli stadi. La Corte ha, infine, giudicato la privazione della libertà proporzionata al rispetto dell’obbligo, considerando che il ricorrente era a) un uomo adulto, b) noto per essere il leader del gruppo, c) aveva manifestato chiaramente la sua volontà di non conformarsi all’obbligo e che, in ogni caso, la misura non era durata più dello stretto necessario. I giudici di Strasburgo hanno, dunque, all’unanimità escluso la violazione dell’art. 5 comma 1 CEDU, ritenendo la privazione della libertà personale subita del ricorrente conforme alla ragione di cui alla lettera b) art. 5 comma 1 CEDU. 9. I destinatari della prevenzione patrimoniale. L’art. 16 del Codice delle leggi antimafia individua i destinatari delle misure di prevenzione patrimoniali. Per effetto del rinvio che il primo comma della disposizione opera all’art. 4, essi sono, innanzitutto, tutti i soggetti nei cui confronti possono essere applicate le misure di prevenzione personali. Ad essi vanno aggiunte le persone fisiche e giuridiche segnalate al Comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite, o ad altro organismo internazionale competente per disporre il congelamento di fondi o di risorse economiche, quando vi sono fondati elementi per ritenere che i fondi o le risorse possano essere dispersi, occultati o utilizzati per il finanziamento di organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali [BALSAMO, MALTESE, 32; CAIRO, 1054]. Il comma 2 dell’art. 16 precisa che a carico dei soggetti di cui all’art. 4 com-

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ma 1 lett. i), la misura di prevenzione patrimoniale della confisca può essere disposta in relazione ai beni nella loro disponibilità che possono, in qualsiasi modo, agevolare le attività di chi prende parte attiva a fatti di violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive [BALSAMO, MALTESE, 32]. Sono, invece, esclusi dalla sfera di applicazione delle misure gli indiziati di partecipazione ad associazioni con finalità di terrorismo, anche internazionale, salvo che costituiscano un’associazione i gruppi terroristici che pongono in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla commissione dei reati con finalità di terrorismo internazionale, di cui all’art. 4 comma 1 lett. d) del Codice, in precedenza enucleati all’art. 18 comma 1 n. 2 legge n. 152/75. Due le deroghe in materia. La prima riguarda il minore degli anni diciotto; la seconda l’infermo di mente non in grado di partecipare coscientemente al processo. Le misure preventive trovano applicazione, “senza sconti”, anche nei confronti dei collaboratori di giustizia, secondo il dettato del d.l. 15.1.1991, n. 8 (convertito, con modificazioni, dalla legge 15.3.1991, n. 82) e del d.l. 13.5.1991, n. 152 (convertito, con modificazioni, dalla legge 12.7.1991, n. 203, art. 8), così come modificati dalla legge 13.3.2001, n. 45, che, per l’appunto, non includono le misure di prevenzione tra i benefici concessi in cambio della collaborazione. In passato, la giurisprudenza si era orientata a configurare una presunzione di non pericolosità dei collaboratori di giustizia ammessi allo speciale programma di protezione. Di conseguenza, riteneva legittima l’applicazione delle misure preventive nei confronti di quei soggetti solo se il requisito della pericolosità fosse stato accertato rigorosamente, sulla base, cioè, di elementi di fatto idonei a superare la predetta presunzione [Cass., sez. I, 22.9.2000, Archetti, in CED 2000/217354]. Si è trattato, nondimeno, di una posizione rimasta isolata. Dominante, in dottrina come in giurisprudenza, è, infatti, sempre stato l’indirizzo secondo cui la prognosi circa l’an ed il quantum di pericolosità del collaboratore di giustizia debba essere rapportata ai caratteri della sua personalità, comprensiva di tutte le relative estrinsecazioni e debba, perciò, fondarsi su attendibili elementi di giudizio di natura necessariamente individualizzante. Di qui l’irrilevanza, ai fini della formulazione di una favorevole previsione di non pericolosità, della mera (allegazione della) qualità di collaboratore, non integrata da riscontri capaci di convincere della sussistenza di una concreta e proficua rielaborazione delle pregresse esperienze e dei progetti di vita [Cass., sez. II, 16.4.2004, in Riv. pen., 2005, 1258]. La giurisprudenza mostra, infatti, consapevolezza che la “collaborazione” non implica un automatico abbandono del precedente stile di vita, tenuto conto che l’ammissione al programma di protezione non esige alcuna indagine su moventi ed intenzioni del richiedente. Sicché, mentre l’applicazione dei benefici astrae dalle motivazioni della scelta collaborativa, in sede di prevenzione – si afferma – non si può prescindere da tale tipo di valutazione, dovendosi escludere la pericolosità solo sulla scorta di elementi sintomatici indicativi di un mutamento di rotta nel costume di vita [Cass., sez. VI, 6.4.1999, Cirillo, in CED 1999/21475]. In coerenza con tale impostazione, è stato allora affermato che il giudice della prevenzione resta libero di operare apprezzamenti divergenti sulla pericolosità del “collaboratore”, purché fondati su specifiche e significative emergenze; quel che non gli è consentito fare è trascurare che l’assunzione di quello status presuppone un accertamento di qualità personali e di elementi di fatto – quali l’importanza del contributo collaborativo e l’attendibilità intrinseca – che non esigono l’adempimento, da parte dell’interessato, di alcuno onere dimostrativo ai fini della prognosi di pericolosità sociale [Cass., sez. II. 16.4.2004, Viscardi, in CED 2004/229525].

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L’art. 16 costituisce una disposizione di natura essenzialmente ricognitiva del sistema previgente [FIANDACA, VISCONTI, 192]. La legge n. 575/1965 (e successive modificazioni) indicava i soggetti destinatari delle misure di prevenzione “antimafia”, nei cui confronti si sarebbe potuto disporre il sequestro e la confisca dei beni ed in particolare: gli «indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni comunque localmente denominate che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso» e, dunque, i soggetti indiziati di partecipazione ad associazione dedita alla riduzione ed al mantenimento in schiavitù o servitù, alla tratta di persone ed all’acquisto ed alienazione di schiavi; i soggetti indiziati della consumazione di tali delitti in materia di schiavitù, del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, dei delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività di tali associazioni; i soggetti indiziati dei delitti di cui all’art. 74 d.p.r. n. 309/1990, dei delitti in materia di associazione finalizzata al contrabbando dei tabacchi lavorati esteri (in particolare, si trattava delle fattispecie di cui all’art. 51 comma 3bis c.p.p.) [FIANDACA, VISCONTI, 193]. L’espansione dei destinatari delle misure di prevenzione antimafia anche agli indiziati del delitto di cui all’art. 12-quinquies comma 1 legge n. 356/ 1992, ha esposto la normativa ad incongruenze collegate alle asimmetrie derivanti da una certa approssimazione con cui è proceduto il riordino delle numerose fonti che, negli anni, hanno “stratificato” la materia. È stato, infatti, rilevato che, in seguito all’abrogazione dell’art. 14 legge n. 55/1990, mentre non sono passibili dell’azione in rem gli indiziati della consumazione dei delitti di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter c.p., lo sono quelli indagati dell’art. 12-quinquies, che nella seconda parte incrimina l’attività di fittizia intestazione di beni finalizzata ad agevolare la commissione proprio di quei delitti [CAIRO, 1056]. Per ovviare a questa criticità si è proposto – con soluzione ermeneutica “additiva” rispetto all’enunciato letterale della norma – che la misura di prevenzione patrimoniale possa applicarsi agli indiziati del delitto di fittizia intestazione finalizzata ad agevolare i reati sopra citati, solo laddove concorra il requisito della “abitualità” nella dedizione ai traffici delittuosi ovvero là dove i medesimi soggetti siano soliti vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi di quelle attività [CONTRAFFATTO, 62]. Prima che fosse varato il Codice antimafia, l’inclusione delle tipologie soggettive di pericolosità, contemplate dall’art. 1 legge n. 1423/56, tra i destinatari delle misure di prevenzione antimafia (in modo particolare sequestro e confisca) era stata sancita, con un primo arresto, dalla Corte di Cassazione [Cass. sez. I, 4.2.2009, n. 472]. Secondo il S.C., la legge n. 125/2008 – attraverso una contorta sequenza di rinvii normativi – avrebbe fatto “rivivere” l’art. 19 legge n. 152/ 1975, che, a sua volta, aveva esteso l’applicabilità delle disposizioni in materia di prevenzione patrimoniale ai soggetti abitualmente dediti ai traffici delittuosi ed a coloro che, per la condotta ed il tenore di vita, debbano ritenersi che vivano -

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abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose. I casi più frequenti e rilevanti sono apparsi quelli riferibili ai delitti di usura, di estorsione e di riciclaggio non collegati ad attività di carattere mafioso, purché connotati dal requisito della abitualità prevista dalla norma di riferimento (e cioè i numeri 1 e 2 dell’art. 1 della legge n. 1423/1956) [in questo senso, Cass., sez. I, 4.2.2009, n. 472, cit.; PIGNATONE, 15]. L’interpretazione aveva, poi, trovato l’avallo delle Sezioni Unite [Cass., S.U., 25.3.2010, 13426, Rv. 246272]. Affermando la natura formale, e non recettizia o materiale, del rinvio effettuato dall’art. 19 comma 1 della legge n. 152/1975, l’organo della nomofilachia aveva concluso nel senso che quel rinvio – nel difetto di una espressa esclusione o limitazione – avrebbe dovuto ritenersi esteso a tutte le norme successivamente interpolate nell’atto-fonte, in sostituzione, modificazione o integrazione di quelle originarie. Di qui – prima che la questione fosse risolta dagli artt. 1, 4 e 16 del Codice delle leggi antimafia – l’assunto secondo cui anche le misure di prevenzione patrimoniale del sequestro e della confisca potevano essere disposte a carico dei soggetti ritenuti socialmente pericolosi perché abitualmente dediti a traffici delittuosi, o perché vivono abitualmente – pur se solo in parte – con i proventi di attività delittuose, a nulla rilevando la tipologia dei reati di riferimento [Cass., S.U., 25.3.2010, 13426, Rv. 246272]. In conformità a tale regola, era già stato ritenuto applicabile ai soggetti compresi nelle categorie di persone pericolose contemplate ai nn. 1 e 2 dell’art. 1 legge n. 1423/1956, lo ius superveniens rappresentato dal disposto di cui all’artt. 11-ter legge 24.7.2008, n. 125)[Cass., sez VI, 20.1.2010, n. 11006, Rv. 246682]. Ora, senza esaminare funditus la questione connessa alla struttura del rinvio effettuato dall’art. 19 comma 1 legge 22.5.1975, ci pare di poter dire che la soluzione fatta propria dalla Corte di Cassazione si poneva in chiave di aperta problematicità col principio di stretta legalità, sub specie irretroattività in malam partem; segnatamente, col suo significato di accessibilità/prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie collegate alla condotta incriminata che corrisponde, peraltro, all’art. 7 CEDU nell’interpretazione della Corte di Strasburgo [per tutti v. Corte EDU, 20.1.2009, n. 75909/01, Sud Fondi s.r.l. c. Italia, in Cass. pen., 2009, 3180].

10. Le misure di prevenzione patrimoniali. Sul piano dei contenuti, le misure di prevenzione patrimoniali si caratterizzano per la loro incidenza sul patrimonio del destinatario; dal punto di vista funzionale, esse sono finalizzate a prevenire la commissione di gravi reati da parte dei soggetti indiziati dei delitti tassativamente indicati nell’art. 16 del Codice antimafia [CAIRO, 1123]. La disciplina delle singole misure, nonché il relativo procedimento, sono oggi contenuti nel Libro I, Titolo II del Codice medesimo. Di seguito verranno esaminate le singole misure di prevenzione patrimoniali. 10.1. La cauzione. – Il Codice delle leggi antimafia disciplina diverse ipotesi di cauzione: una obbligatoria ed un’altra discrezionale, analogamente a quanto in precedenza previsto all’art. 3-bis legge n. 575/1965. La prima viene imposta dal Tribunale con l’applicazione di una misura di

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prevenzione (art. 31 comma 1 Codice delle leggi antimafia) [secondo Cass., sez. I, 18.3.2009, M.D., in CED Cass. 2009/243738, «La cauzione imposta nel procedimento di prevenzione, quale strumento di garanzia del rispetto delle prescrizioni sia delle misure personali che di quelle patrimoniali, va mantenuta quando nel giudizio di appello sia revocata la confisca disposta in primo grado, sempre che sia confermata la misura personale»; Cass., sez. I, 23.9.1998, Sinigaglia, in CED Cass. 1998/211609, ha ritenuto «manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 bis, comma 1, 1. n. 575/1965 [art. 31 comma 1 Codice delle leggi antimafia], da un lato perché non solo l’entità della cauzione in esso prevista viene determinata sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell’interessato, ma sono anche previste sia la sostituzione, sia la revoca della cauzione, con l’esclusione di ogni automatismo nella concreta configurazione dell’ipotesi contravvenzionale prevista dal successivo comma 4 dello stesso articolo [art. 76 comma 4 Codice delle leggi antimafia] e, in caso di non tempestiva ottemperanza al versamento della cauzione o all’offerta della garanzia sostitutiva, il giudice è sempre tenuto ad accertare almeno la colpa dell’interessato, onde la norma non opera alcuna discriminazione ingiustificata tra abbienti e non abbienti; dall’altro, perché la responsabilità per la contravvenzione di cui sopra non viola, per le dette ragioni, né il principio di responsabilità penale, né il divieto di sanzioni contrarie al senso di umanità»]. In sede di applicazione della misura di prevenzione, il Tribunale dispone il versamento da parte dell’interessato, a titolo di cauzione ed in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro «di entità che, tenuto conto anche delle sue condizioni economiche e dei provvedimenti adottati a norma dell’art. 22, costituisca una efficace remora alla violazione delle prescrizioni imposte» (art. 31 comma 1 del Codice, già art. 3-bis comma 1 legge n. 575/1965). Trattandosi di provvedimento accessorio all’applicazione della misura di prevenzione, è consentito alle parti, nel corso del procedimento, di interloquire sull’an e sul quantum della cauzione. La seconda tipologia di cauzione, prevista dall’art. 31 comma 2 del Codice, originariamente introdotta dall’art. 3-bis comma 2 legge n. 575/1965, viene disposta dal Tribunale, fuori dei casi previsti dall’art. 9 del Codice medesimo unitamente alle prescrizioni di cui al precedente art. 8 commi 3 e 4, nei confronti di persona denunciata in via provvisoria e qualora se ne ravvisi l’opportunità. Quest’ultima condizione rende l’applicazione una scelta intrisa di elementi di sostanziale potestatività, che lascia perplessi sul piano della legalità della fattispecie, esponendola a censure non peregrine rispetto a molteplici metri di giudizio. La cauzione può essere sostituita su istanza dell’interessato dietro presentazione di idonee garanzie reali (pegno sui beni mobili o ipoteca sui beni immobili). In questo caso, il Tribunale determina le modalità di custodia dei beni dati in pegno e – relativamente ai beni immobili – dispone che il decreto con cui, accogliendo l’istanza dell’interessato, è autorizzata l’ipoteca legale, venga trascritto

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presso l’ufficio delle conservatorie dei registri immobiliari del luogo ove si trovano i beni. Le spese relative alle garanzie reali sono anticipate dall’interessato ai sensi dell’art. 39 disp. att. c.p.c. (art. 31 comma 3 Codice, già art. 3-bis, comma 3 legge n. 575/1965). Non è, invece, prevista fideiussione o malleveria. 10.2. L’applicazione provvisoria delle misure interdittive. – L’art. 67 comma 3 Codice delle leggi antimafia, analogamente a quanto prevedeva l’art. 10 comma 3 legge n. 575/1965, consente al Tribunale, in presenza di «motivi di particolare gravità», di disporre «in via provvisoria» i divieti di cui all’art. 67 commi 1 e 2 del medesimo Codice (precedentemente indicati nell’art. 10 commi 1 e 2 legge n. 575/1965) e di sospendere l’efficacia delle iscrizioni, delle erogazioni e degli altri atti e provvedimenti di cui ai medesimi commi. Si tratta di licenze o autorizzazioni di polizia e di commercio; concessioni di acque pubbliche e diritti ad esse inerenti nonché concessioni di beni demaniali allorché siano richieste per l’esercizio di attività imprenditoriali; concessioni di costruzione e gestione di opere riguardanti la pubblica amministrazione e concessioni di servizi pubblici; iscrizioni negli elenchi di appaltatori e fornitori di opere, beni e servizi riguardanti la pubblica amministrazione, nei registri della camera di commercio per l’esercizio del commercio all’ingrosso e nei registri dei commissionari astatori presso i mercati annonari all’ingrosso; attestazioni di qualificazione per eseguire lavori pubblici; altre iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati; contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali; licenze per detenzione e porto d’armi, fabbricazione, deposito, vendita e trasporto di materie esplodenti (art. 67 comma 1 lett. a), b), c), d), e), f), g) e h) Codice delle leggi antimafia, il cui contenuto ricalca pressoché integralmente l’art. 10 comma 1 legge n. 575/1965); decadenza di diritto dalle licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni, abilitazioni, erogazioni di cui al citato art. 67 comma 1 Codice delle leggi antimafia, nonché il divieto di concludere contratti di pubblici lavori, servizi e forniture, di cottimo fiduciario e relativi subappalti e subcontratti, compresi i cottimi di qualsiasi tipo, i noli a caldo e le forniture con posa in opera (art. 67 comma 2 Codice delle leggi antimafia, il quale con qualche differenza ripete il pregresso art. 10 comma 2 legge n. 575/1965). Competente ad applicare in via provvisoria le misure in questione è il Tribunale nel corso del procedimento di prevenzione. La ricorrenza di «motivi di particolare gravità» potrebbe rinviare ad esigenze strettamente cautelari di natura probatoria, legittimando l’applicazione provvisoria in tutti quei casi in cui quest’ultima appaia – alla stregua di una prognosi testata sul parametro della ragionevolezza – necessaria ad assicurare la raccolta di elementi indiziari utili al procedimento di prevenzione [FILIPPI, CORTESI, 121].

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Le misure interdittive ed i relativi divieti e decadenze operano de plano in ragione della mera titolarità dei provvedimenti in capo al soggetto indiziato. Ai fini dell’applicazione provvisoria non rileva l’esistenza di una relazione pertinenziale fra gli addebiti indiziari relativi agli artt. 16 e 24 Codice delle leggi antimafia (in precedenza enucleati negli artt. 1 e 2-ter legge n. 575/1965) ed i provvedimenti di vantaggio che si intendono vietare o sospendere, avendo la misura una funzione punitiva [FILIPPI, CORTESI, 122]. Il provvedimento con cui il Tribunale anticipa l’applicazione delle misure interdittive può essere revocato in ogni momento dal giudice che procede e perde efficacia se non viene confermato col decreto che applica la misura di prevenzione (art. 67 comma 3 Codice delle leggi antimafia, già art. 10 comma 3 legge n. 575/1965). In virtù del principio di tassatività delle impugnazioni, è unanime l’opinione che il provvedimento non sia soggetto a gravame [secondo Cass., sez. I, 16.12. 1987, Stillitano, in Cass. pen., 1989, 346, l’art. 10 comma 3 legge n. 575/1965 (art. 67 comma 3 Codice delle leggi antimafia), nel consentire la sospensione della licenza durante il procedimento di prevenzione, non attribuisce all’interessato alcun mezzo di impugnazione del relativo decreto applicativo]. L’applicazione provvisoria della misura interdittiva resta, dunque, insindacabile fino alla conclusione del procedimento di prevenzione. Il richiamo alle sole disposizioni contenute nell’art. 67 commi 1 e 2 del Codice antimafia (in precedenza racchiuse nell’art. 10 commi 1 e 2 legge n. 575/ 1965) lascia ritenere che sia esclusa l’applicabilità delle misure interdittive a carattere provvisorio nei confronti dei soggetti individuati dall’art. 67 comma 4 (già art. 10 com-ma 4 legge n. 575/1965), ossia di chiunque conviva con la persona sottoposta alla misura di prevenzione, nonché nei confronti di imprese, associazioni, società e consorzi di cui il prevenuto sia amministratore o determini in qualsiasi modo scelte ed indirizzi [FILIPPI, CORTESI, 122]. L’art. 67 comma 6 del Codice (corrispondente all’art. 10 comma 5-bis legge n. 575/1965) rammenta, inoltre, che – salvo il caso di provvedimenti di rinnovo, attuativi di altri precedenti, ovvero di contratti derivati da medesimi già stipulati dalla p.a. o ad essi conseguenti – le licenze, le autorizzazioni, le concessioni, le erogazioni, le abilitazioni e le iscrizioni indicate nell’art. 67 comma 1 (già art. 10 comma 1 legge n. 575/1965) non possono essere rilasciate o consentite. Parimenti, la conclusione dei contratti o dei subcontratti menzionati nell’art. 67 comma 2 (art. 10 comma 2 legge n. 575/1965) non può essere permessa in favore di persone sottoposte ad un procedimento di prevenzione senza darne previa comunicazione al giudice competente, il quale – ricorrendone i presupposti – può disporre i divieti e le sospensioni di cui all’art. 67 comma 3 (già art. 10 comma 3 legge n. 575/1965). Allo scopo di porre il giudice in condizione di assumere tali provvedimenti, i procedimenti amministrativi sono sospesi per un periodo, comunque, non superiore a venti giorni dalla data in cui la pubblica amministrazione ha proceduto alla comunicazione, termine entro cui dovrà pervenire la decisione del giudice -

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della prevenzione, in assenza della quale riprenderà nuovamente corso il relativo iter (art. 67 comma 6 Codice delle leggi antimafia, già art. 10 comma 5-bis legge n. 575/1965). 10.3. Le misure interdittive obbligatorie. – L’art. 67 Codice delle leggi antimafia, che riprende quasi integralmente il contenuto dell’art. 10 comma 1 legge n. 575/1965, prevede una serie di divieti, stabilendo che l’applicazione, con provvedimento definitivo, di una delle misure di prevenzione previste dal Libro II, Titolo I, Capo II, ossia la sorveglianza di pubblica sicurezza con o senza obbligo o divieto di soggiorno, comporta ope legis il divieto di ottenere licenze o autorizzazioni di polizia e di commercio (art. 67 comma 1 lett. a); concessioni di acque pubbliche e diritti ad esse inerenti nonché concessioni di beni demaniali allorché siano richieste per l’esercizio di attività imprenditoriali (art. 67 comma 1 lett. b); concessioni di costruzione, nonché di costruzione e gestione di opere riguardanti la P.A. e concessioni di servizi pubblici (art. 67 comma 1 lett. c); iscrizioni negli elenchi di appaltatori o di fornitori di opere, beni e servizi riguardanti la P.A., nei registri della camera di commercio per l’esercizio del commercio all’ingrosso e nei registri dei commissionari astatori presso i mercati annonari all’ingrosso (art. 67 comma 1 lett. d); attestazioni di qualificazione per eseguire lavori pubblici (art. 67 comma 1 lett. e); altre iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati (art. 67 comma 1 lett. f); contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o della Comunità Europea, per lo svolgimento di attività imprenditoriali (art. 67 comma 1 lett. g); licenze per detenzione e porto d’armi, fabbricazione, deposito, vendita e trasporto di materie esplodenti (art. 67 comma 1 lett. h) [FILIPPI, CORTESI, 205]. Il comma 2 dell’art. 67 stabilisce che il provvedimento definitivo di applicazione della misura di prevenzione determina la decadenza di diritto dalle licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni, attestazioni, abilitazioni e erogazioni di cui al citato comma 1, nonché l’ulteriore divieto di concludere contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di cottimo fiduciario e relativi subappalti e subcontratti, compresi i cottimi di qualsiasi tipo, i noli a caldo e le forniture con posa in opera. Le licenze, le autorizzazioni e le concessioni sono ritirate e le iscrizioni sono cancellate ed è disposta la decadenza delle attestazioni a cura degli organi competenti. Presupposto di fondo per l’operatività della disciplina di cui all’art. 67 (già art. 10 legge n. 575/1965) è, dunque, che sia stata applicata con provvedimento definitivo dell’A.G. una misura di prevenzione personale (è il caso di rilevare che, sul punto, il testo del citato art. 10 legge n. 575/1965 era alquanto generico, a fronte della precisione della vigente disposizione che richiama le misure di cui al Libro 1, Titolo I, Capo II) [FILIPPI, CORTESI, 205]. Il Tribunale – salvo il disposto dell’art. 68 che legittima l’intervento delle

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parti interessate prima dell’adozione del provvedimento – dispone che i divieti e le decadenze previsti dai menzionati commi 1 e 2 operino anche nei confronti di chiunque conviva con la persona sottoposta alla misura, nonché nei riguardi di imprese, associazioni, società e consorzi di cui la persona sottoposta a misura di prevenzione sia «amministratore o determini in qualsiasi modo scelte e indirizzi». In questo caso, i divieti sono efficaci per un periodo di cinque anni (art. 67 comma 4, già art. 10 comma 4 legge n. 575/1965). Tale previsione – censurata per il profilo relativo alla presunzione assoluta di contiguità, o di intestazione simulata o fittizia, che avrebbe creato – ha passato indenne il vaglio della Consulta che, in rapporto alla formulazione contenuta nella precedente disposizione del 1965, ha dichiarato non fondata la relativa questione di legittimità, sollevata con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 27, 41 Cost. In motivazione, la Corte ha chiarito che deve trattarsi di una convivenza fornita di caratteri congruenti alla ratio dei provvedimenti che su di essa si basano, cioè «una convivenza segnata in concreto da coinvolgimento negli interessi economici del soggetto sottoposto alla misura di prevenzione; coinvolgimento di cui le “parti interessate”, nel procedimento previsto dalla legge, sono abilitate a dimostrare l’inesistenza, senza di che le norme ora citate risulterebbero prive di senso. Il che è quanto dire che, se tra la convivenza assunta dalla legge come condizione delle misure previste dal comma 4 dell’art. 10 [oggi art. 67 comma 4 Codice delle leggi antimafia, n.d.r.] e queste ultime v’è automatismo, non qualunque tipo di convivenza può essere a base di tale automatismo e che il soggetto interessato è abilitato a difendersi fornendo la prova dell’inesistenza in essa di quei caratteri che, soli, giustificano le misure stesse» [C. cost., 20.11.2000, n. 510, in Cass. pen, 2001, 807 ss.]. Il comma 5 del menzionato art. 67 (art. 10 comma 5 legge n. 575/1965) consente al giudice di escludere i provvedimenti interdittivi, fatta eccezione delle licenze ed autorizzazioni di polizia e quelle relative alle armi, munizioni ed esplosivi, quando per effetto degli stessi «verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla famiglia» [FILIPPI, CORTESI, 206]. L’art. 67 comma 6 Codice delle leggi antimafia (art. 10 comma 5-bis legge n. 575/1965) stabilisce che, salvo che si tratti di provvedimenti di rinnovo, attuativi o comunque conseguenti a provvedimenti già disposti, ovvero di contratti derivati da altri già stipulati dalla P.A., le licenze, le autorizzazioni, le concessioni, le erogazioni, le abilitazioni e le iscrizioni indicate nel citato comma 1 non possono essere rilasciate o consentite e la conclusione dei contratti o subcontratti indicati nel comma 2 non può essere consentita a favore di persone nei cui confronti è in corso il procedimento di prevenzione senza che sia data preventiva comunicazione al giudice competente, il quale può disporre, ricorrendone i presupposti, i divieti e le sospensioni previsti a norma del comma 3. A tal fine i relativi procedimenti amministrativi restano sospesi fino a quando il giudice non provvede e, comunque, per un periodo non superiore a venti giorni dalla data in cui la P.A, ha proceduto alla comunicazione. Come si è già osservato, tale meccanismo di divieto automatico legato alla semplice pendenza del procedimento di preven-

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zione stride con la presunzione di non colpevolezza. L’art. 1 legge 13.10.2010, n. 175 ha inserito nel corpo dell’art. 10 legge n. 575/1965 i commi 5-bis.1 e 5-bis.2 (precetti oggi riprodotti nell’art. 67 comma 7 e nell’art. 76 comma 8 Codice delle leggi antimafia), i quali prevedevano, rispettivamente, che – dal termine stabilito per la presentazione delle liste e dei candidati e fino alla chiusura delle operazioni di voto – è fatto divieto alle persone sottoposte, in forza di provvedimenti definitivi, alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi della legge n. 575/1965 (oggi art. 6 Codice delle leggi antimafia) di svolgere le attività di propaganda elettorale di cui alla legge 4.4.1956, n. 212, in favore o in pregiudizio di candidati partecipanti a qualsiasi tipo di competizione elettorale (comma 5-bis.1). L’art. 67 comma 8 Codice delle leggi antimafia (in precedenza art. 10 comma 5-ter legge n. 575/1965) rende doverosa l’applicazione dei divieti e delle decadenze di cui ai precedenti commi 1, 2 e 4 anche nelle ipotesi in cui l’interessato sia stato condannato con sentenza definitiva o solo confermata in grado di appello, per uno dei reati di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p. [FILIPPI, CORTESI, 206]. A questo riguardo si apre uno spazio di discussione sulla legittimità della disposizione per i profili di problematica compatibilità col principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, considerato che misure di carattere afflittivo vengono inderogabilmente disposte a carico di un soggetto non ancora condannato in via definitiva. Come si è detto, l’art. 67 comma 1 Codice delle leggi antimafia (già art. 10 comma 1 legge n. 575/1965), sancendo che l’applicazione, con provvedimento definitivo, di una misura di prevenzione personale comporta una serie di divieti e decadenze, implicitamente costruisce questi ultimi quali effetti legali del provvedimento medesimo, con la conseguenza che essi non necessitano di una apposita pronunzia Tribunale. L’unica eccezione è prevista dal menzionato art. 67 comma 5 (che ricalca il testo dell’art. 10 comma 5 legge n. 575/1965), secondo cui il giudice può disporre che non si faccia luogo all’applicazione della misura allorché la revoca delle decadenze e la imposizione dei divieti possano pregiudicare i mezzi essenziali per il sostentamento dell’interessato o della sua famiglia. L’art. 68, Codice delle leggi antimafia (già art. 10-quater comma 1 legge n. 575/1965) garantisce un livello minimo di contraddittorio, disponendo che il Tribunale – prima dì adottare un provvedimento estensivo di decadenza o di divieto nei confronti dei conviventi con la persona sottoposta alla misura di prevenzione, nonché nei confronti di imprese, associazioni, società e consorzi di cui la persona sottoposta a misura di prevenzione sia amministratore o determini in qualsiasi modo scelte e indirizzi – inviti, con decreto motivato, ad intervenire nel procedimento le “parti interessate”, le quali, anche con l’assistenza di un difensore, sono abilitate a svolgere in camera di consiglio le loro deduzioni ed a chiedere l’acquisizione di ogni elemento utile ai fini della decisione. Gli eventuali accertamenti sono svolti osservando le forme del procedimento dettate dall’art. 19 Codice delle leggi antimafia (prima previsti dagli artt. 2-bis e 2-ter legge n.

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575/1965), relativamente alle indagini preliminari alla proposta ed alle «ulteriori indagini» disposte dal Tribunale nel corso del giudizio. I provvedimenti impositivi di divieti e di decadenze nei confronti dei terzi, previsti dall’art. 67 comma 4 Codice delle leggi antimafia (in precedenza, art. 10 comma 4 legge n. 575/1965), possono essere adottati – su richiesta del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale del capoluogo del distretto ove dimora la persona ovvero dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale nel cui circondario dimora la persona se si procede nei confronti dei soggetti di cui all’art. 4 comma 1 lett. c) Codice delle leggi antimafia – dal direttore della Direzione investigativa antimafia o del questore, quando ne ricorrano le condizioni, anche dopo l’applicazione della misura di prevenzione. Sulla richiesta provvede lo stesso Tribunale che ha disposto la misura di prevenzione, con le forme previste per il relativo procedimento e rispettando la disposizione di cui al precedente comma 1 (art. 68 comma 2 Codice delle leggi antimafia, in precedenza art. 10-quater, comma 2 legge n. 575/1965) [FILIPPI, CORTESI, 207]. Si rammenta, poi, che gli artt. 10 e 10-ter, legge n. 575/1965 (quest’ultimo abrogato dall’art. 36 legge n. 55/1990), sono stati più volte scrutinati dalla Corte costituzionale. Le ordinanze 3.12.1987, n. 450; 16.6.1988, n. 675; 6.12.1988, n. 1076 e 9.3. 1989, n. 105, tutte dichiarative di inammissibilità per manifesta infondatezza, hanno ritenuto ragionevoli le presunzioni di intestazione fittizia. Con la citata sentenza n. 510/2000, poi, pur dichiarando non fondata, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 27, 41 Cost., la questione di legittimità dell’art. 10 comma 4 legge n. 575/1965, la Consulta ha precisato che il giudice deve tenere conto di una serie di elementi utili a ricostruire la posizione economica della persona sospettata e di quella convivente. Pur nei limiti di una pronuncia interpretativa di rigetto, la Corte ha rimarcato come anche in capo al terzo debba sussistere, in concreto, un «coinvolgimento negli interessi economici del soggetto sottoposto alla misura di prevenzione», una sorta, in altri termini, di «concorso nella pericolosità sociale» col soggetto socialmente pericoloso, quantomeno sotto il profilo dei comuni interessi economici; e come, pertanto, alle parti interessate vada riconosciuto il diritto di difendersi per dimostrare l’assenza della situazione che giustificherebbe la presunzione di fittizietà dell’intestazione. Controversa è, in dottrina, la natura delle misure interdittive [per i necessari riferimenti, FILIPPI, CORTESI, 207 ss.]. Vi è, infatti, chi riconosce ad esse un contenuto sostanzialmente afflittivo e repressivo [CURI, 225; TAORMINA, 299] assimilandone la funzione a quella delle pene accessorie [FIANDACA, 142 ss.]; altri le reputano sanzioni amministrative [C. MACRÌ-V. MACRÌ, 156] e taluno le riconduce al potere di “autotutela” della P.A., ricostruendole quali ipotesi di revoca obbligatoria dei provvedimenti di vantaggio, fondata sulla presunta inopportunità della permanenza dei medesimi in ragione dell’accertata pericolosità sociale. Un’adeguata considerazione degli effetti lesivi prodotti dalle misure interdittive – incidenti, a ben vedere, su quella vasta gamma di interessi e valori che si -

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rispecchiano negli artt. 2, 3, 27, 21 e 41 Cost. – fa apparire senz’altro superficiale la tesi che ne sostiene la mera incidenza su provvedimenti amministrativi. Resta, allora, problematico affermare che l’aggressione a quelle posizioni di libertà di rango primario possa essere affidata ad una semplice sanzione amministrativa. Sotto altro profilo, l’assunto della natura amministrativa delle misure interdittive non sfuggirebbe ad un paradosso che ne decreterebbe l’inaccettabilità sul piano della ragionevolezza; il riferimento corre alla circostanza che le medesime conseguenze sanzionatorie acquisiscono la natura di pene accessorie se inflitte dal giudice penale, ma si trasformerebbero in sanzioni amministrative, ovvero in provvedimenti di revoca per fini di “autotutela” della P.A., ove disposte nel procedimento di prevenzione [MANGIONE, 439]. Plausibile, perciò, si profila la posizione di chi riconosce alle misure interdittive una natura afflittiva e repressiva, simile a quella delle pene accessorie, considerato che i divieti di cui al menzionato art. 67 del Codice (già art. 10 legge n. 575/1965) si riflettono immediatamente sulla libertà di iniziativa economica privata, sulla tutela del lavoro e della famiglia e, in definitiva, paralizzano l’attività economica attuale e futura, impedendo il mantenimento degli impegni assunti, lo sfruttamento delle opportunità attuali e future e, quindi, mettendo a repentaglio le condizioni minime di sussistenza [FILIPPI, CORTESI, 207]. Controversa è anche la durata di queste misure. La giurisprudenza ha, in talune occasioni, affermato che esse avrebbero una durata temporanea, che non potrebbe comunque eccedere i cinque anni ai sensi dell’art. 8 comma 1 Codice delle leggi antimafia [già art. 4 comma 8 legge n. 1423/1956 (T.A.R. Sicilia, 19.9.1988, in T.A.R., I, 1989, 1266; T.A.R. Sicilia, 22.1.1988, in T.A.R., I, 1988, 984; T.A.R. Sicilia, 21.11.1991, n. 625, soc. Odierna Spurghi c. Com. Palma di Montechiaro, in Giur. amm. siciliana, 1991, 726)]; altre volte se ne è sostenuta la durata permanente, pur prospettando l’incostituzionalità dell’art. 10 legge n. 575/1965 (odierno art. 67 Codice delle leggi antimafia), per violazione degli artt. 3, 4, 27 comma 3, 41, 97 Cost. [T.A.R. Lazio, 18.3.1987, in Giur. cost., II, 1987, p. 1283; T.A.R. Lombardia, 9.12.1985, n. 356, Del Latte c. Com. Milano, in Giur. cost., II, 1986, 884; T.A.R. Lombardia, 7.11.1985, in Foro it., III, 1987, 519]. Di fronte al mancato intervento della Corte costituzionale, la giurisprudenza ha anche interpretato il menzionato art. 10 legge n. 575/1965, (oggi art. 67 Codice delle leggi antimafia), nella sola prospettiva costituzionalmente orientata, vale a dire ancorando la durata delle misure interdittive all’applicazione delle misure di prevenzione, in ogni caso nel rispetto del limite massimo dei cinque anni [C. giust. amm. Sic., 26,4,1988, in Foro it., III, 1988, c. 453]. La discussione è stata riaperta in seguito alla introduzione dell’istituto della riabilitazione. Parte della giurisprudenza [T.A.R. Sicilia, 10.12.1992, in Giust. amm. siciliana, 1993, 149; T.A.R. Sicilia, 20.5.1993, in T.A.R., 1993, 2850] ne ha inferito la regola della ultrattività delle misure interdittive, argomentando che la riabilita-

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zione, facendo venir meno gli effetti pregiudizievoli delle misure preventive, implicitamente ne presuppone il carattere durevole che riguarderebbe anche quelli previsti dall’art. 67 Codice delle leggi antimafia (in precedenza, art. 10 legge n. 575/1965). Il risultato interpretativo proposto sta, quindi, nell’asserto che gli effetti di una misura di prevenzione – per definizione temporanea in quanto legata alla pericolosità sociale del sottoposto – si protraggono indefinitamente nel tempo fino all’eventuale riabilitazione [FILIPPI, CORTESI, 208]. La correttezza della lettura trae conferma dal tenore letterale dell’art. 15 comma 3-bis legge n. 327/1988, (disposizione oggi abrogata e trasfusa nell’art. 70 Codice delle leggi antimafia), per il quale la riabilitazione comporta anche la cessazione dei divieti di cui all’art. 10 legge n. 575/1965 (oggi art. 67 Codice), con conseguente conferma di una durata che si protrae fino al maturare dei termini di cui al precedente art. 15. 10.4. L’amministrazione giudiziaria dei beni personali. – L’art. 33 Codice delle leggi antimafia disciplina l’amministrazione giudiziaria dei beni personali. L’articolo riproduce, in termini pressoché pedissequi, il contenuto dell’art. 22 legge n. 152/1975, che prevedeva la sospensione dall’amministrazione dei beni personali. Si stabilisce che il Tribunale può affiancare alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con o senza il divieto o l’obbligo di soggiorno (art. 6 Codice, già art. 3 legge n. 1423/1956), l’amministrazione giudiziaria dei beni personali, esclusi quelli destinati all’attività professionale o produttiva [FILIPPI, CORTESI, 89]. Condizione per l’irrogazione della misura in esame è la ricorrenza di sufficienti indizi che la libera disponibilità dei beni da parte dei soggetti indicati nell’art. 4 comma 1 lett. c), d), e), f), g) ed h) Codice (in precedenza, il riferimento normativo era alle persone indicate negli artt. 18 e 19 legge n. 152/1975) agevoli la condotta, il comportamento o l’attività socialmente pericolosa (art. 33 comma 1 Codice, già art. 22 comma 1 legge n. 152/1975). Originariamente prevista all’interno della legge n. 152/1975, la misura ha rappresentato il primo strumento di prevenzione ad efficacia reale, a cui si sono aggiunti, in seguito, quelli, di certo più efficaci, previsti nella legge n. 575/1965, oggi trasfusi, con qualche modifica, nel Codice delle leggi antimafia. Tra gli originari destinatari, circoscritti alle categorie soggettive individuate dagli arti 18 e 19 legge n. 152/1975, non figuravano le tipologie incluse nell’art. 1 n. 3 legge n. 1423/1956 ossia coloro che per il loro comportamento debbano ritenersi dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica, nei confronti dei quali la misura della sospensione provvisoria non poteva essere adottata (art. 22 comma 1 legge n. 152/1975) [FILIPPI, CORTESI, 91]. Grazie all’incipit dell’art. 2-ter, comma 2 legge n. 575/1965, la misura dell’amministrazione giudiziaria dei beni è stata estesa ai soggetti di cui all’art. 1 della medesima legge [FILIPPI, CORTESI, 91].

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Vale la pena rilevare come nei confronti di tali categorie soggettive l’operatività dell’istituto è stata nulla, dal momento che la stessa efficacia della sospensione, destinata ad agire solo sui beni personali del proposto, non consentiva di realizzare l’esigenza di sottrarre i patrimoni illeciti alla libera disponibilità dei soggetti indiziati di appartenere ai sodalizi criminali indicati nella citata disposizione. Il quadro dei soggetti passivi è, oggi, mutato [FILIPPI, CORTESI, 91]. Esso è definito dal rinvio all’art. 4 comma 1 lett. c), d), e), f), g) e h) Codice. Sono, invece, esclusi dal novero dei destinatari dell’amministrazione i soggetti di cui all’art. 4 comma 1 lett. a), b) e h) del Codice. Si tratta, in particolare: dei soggetti indiziati di appartenere alle associazioni di tipo mafioso anche straniere, ai sensi dell’art. 416-bis c.p. (art. 4 comma 1 lett. a) Codice); dei soggetti indiziati di uno dei reati di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p. ovvero del delitto di cui all’art. 12quinquies comma 1 d.l. n. 306/1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 356/1992 (art. 4 comma 1 lett. b) Codice) ed, infine, delle persone indiziate di aver agevolato gruppi o persone che hanno preso parte attiva, in più occasioni, alle manifestazioni di violenza di cui all’art. 6 legge n. 401/1989 (art. 4 comma 1 lett. i) Codice). La scelta legislativa trova verosimile giustificazione, per quel che riguarda le categorie di cui alle lett. a) e b), dalla constatazione che tale strumento non pare utile allo scopo di inibire a quelle consorterie criminose la gestione di patrimoni frutto di attività illecite e per quel riguarda, invece, i soggetti di cui alla lett. i) in ragione dell’assoluta peculiarità che li contraddistingue, legata alle manifestazioni di violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive, situazione che di certo non pare essere conferente con la struttura della misura. Il Tribunale può, altresì, ricorrere allo strumento in esame anche senza la necessaria compresenza di altra misura di prevenzione, allorquando esso venga ritenuto sufficiente ai fini della tutela della collettività (art. 33 comma 2 Codice, in precedenza art. 22 comma 2 legge n. 152/1975). Mentre nel passato ciò costituiva una importante eccezione al c.d. nesso di pertinenzialità che informava il sistema delle misure di prevenzione, nel vigente quadro normativo l’art. 33 del Codice rappresenta, invece, una conferma delle sue linee ispiratrici, puntualizzate nell’art. 18 comma 1 Codice (in precedenza, art. 2-bis comma 6-bis legge n. 575/1965). La durata della sospensione, infine, non può essere superiore a cinque anni, alla scadenza dei quali, però, può essere rinnovata se permangono le condizioni in base alle quali è stata applicata (art. 33 comma 3 Codice, già art. 22 comma 3 legge n. 152/1975). Ai sensi dell’art. 33 comma 4 del Codice, con il provvedimento applicativo dell’amministrazione giudiziaria dei beni, il Tribunale nomina l’amministratore giudiziario di cui all’art. 35, analogamente a quel che accade in seguito all’adozione del provvedimento di sequestro. In tal modo il legislatore del 2011 ha superato una discrasia esistente nella precedente disciplina, secondo cui (art. 23 legge n. 152/1975) il giudice nominava un curatore speciale scelto tra gli iscritti

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negli albi degli avvocati, dei dottori commercialisti o dei ragionieri. Alla figura del curatore venivano applicate diverse disposizioni contenute nella legge fallimentare, con i necessari adeguamenti determinati dalla circostanza che si verteva nell’ambito del giudizio di prevenzione, per cui il Tribunale fallimentare era sostituito dal «Tribunale che ha pronunciato il provvedimento» ed il giudice delegato da «un giudice di detto Tribunale delegato dal presidente» (art. 23 comma 2 legge n. 152/1975). Non potevano, infine, essere oggetto della misura, in ragione del richiamo all’art. 46 legge fall., i beni ed i diritti di natura strettamente personale, gli assegni aventi carattere alimentare, gli stipendi, pensioni e salari e ciò che il fallito (rectius proposto) guadagnava con la sua attività entro i limiti di quanto occorreva per il mantenimento suo e della sua famiglia, i frutti derivanti dall’usufrutto legale sui beni dei figli ed i redditi dei beni costituiti dal patrimonio familiare, salvo quanto disposto dall’art. 170 c.c. e le cose che non potevano essere pignorate per disposizione di legge. Il curatore, entro un mese dalla nomina, doveva presentare una relazione particolareggiata sui beni della persona socialmente pericolosa, indicandone il preciso ammontare e la provenienza, nonché sul tenore di vita suo e della sua famiglia e su quanto altro poteva eventualmente interessare anche ai fini di carattere penale (art. 23 comma 3 legge n. 152/1975) [FILIPPI, CORTESI, 92]. 11. Le misure ablatorie. Nell’attuale sistema di prevenzione la misura ablatoria per eccellenza è costituita dalla confisca. Ne sono previste diverse ipotesi: talune si diversificano a seconda che accedano ad un procedimento finalizzato all’applicazione anche di una misura ante delictum personale ovvero da quest’ultima prescindano; altre si differenziano in rapporto al momento in cui esse vengano disposte. Un posto a sé stante occupa, infine, la confisca della cauzione. 12. La confisca di prevenzione. A norma dell’art. 24 comma 1 del Codice delle leggi antimafia, è disposta la confisca dei beni sequestrati di cui la persona, nei cui confronti è instaurato il procedimento, «non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fìsica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego» [MANGIONE, 212 ss.]. La disposizione recepisce gli esiti dell’interpretazione giurisprudenziale della disciplina previgente che legittimava la confisca dei beni sequestrati di cui non

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fosse dimostrata la legittima provenienza [CAIRO, 1178]. La giurisprudenza aveva, infatti, arricchito la piattaforma dei presupposti della confisca, includendovi la prova della disponibilità, diretta o indiretta, del bene, il valore sproporzionato dello stesso bene ovvero i sufficienti indizi della sua illecita provenienza o reimpiego [da ultimo, Cass., sez. I, 23.12.2009, in Guida dir., VIII, 2010, 91]. Una rilevante novità rispetto al pregresso e tradizionale quadro normativo consiste nella possibilità che la misura di prevenzione patrimoniale possa essere richiesta e disposta anche disgiuntamente da quella personale [in argomento, cfr. le considerazioni critiche di FIANDACA, VISCONTI, 197]. L’art. 18 del Codice delle leggi antimafia, riproducendo l’art. 2-bis comma 6bis legge n. 575/1965, come modificato dall’art. 2 comma 22 della legge 15 luglio 2009, n. 94, stabilisce che «le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente e, per le misure di prevenzione patrimoniali, indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione. Le misure di prevenzione patrimoniali possono essere disposte anche in caso di morte del soggetto proposto per la loro applicazione. In tal caso il procedimento prosegue nei confronti degli eredi o comunque degli aventi causa. Il procedimento di prevenzione patrimoniale può essere iniziato anche in caso di morte del soggetto nei confronti del quale potrebbe essere disposta la confisca; in tal caso la richiesta di applicazione della misura di prevenzione può essere proposta nei riguardi dei successori a titolo universale o particolare entro il termine di cinque anni dal decesso». I problemi interpretativi sollevati dalla disposizione concernono, in prevalenza, il regime di distribuzione dell’onere probatorio (recte degli oneri probatori) e la precisazione del concetto di “sproporzione”, a cui si correla la questione degli standard indiziari richiesti per l’adozione della confisca [BALSAMO, 89 ss.]. 12.1. La controversa natura giuridica: misura di sicurezza o sanzione penale? – Questione di grande rilievo è quella che attiene la qualificazione giuridica della confisca di prevenzione [in dottrina, ALESSANDRI, 42 ss.; MANGIONE, 212 ss.; NICOSIA, 75 ss.]. La tesi prevalente afferma che la confisca ex art. 2-ter legge n. 575/1965, introdotta nell’ordinamento italiano dalla legge Rognoni-La Torre n. 646/1982, dovrebbe perseguire una mera finalità preventiva, come suggerisce l’inserimento legislativo nell’ambito delle “misure di prevenzione”. In tale direzione, si afferma in dottrina che il legislatore, lungi dal limitarsi a punire il mafioso privandolo dei frutti delle attività illecite, ha inteso «esaltare il momento preventivo, neutralizzando la situazione di pericolosità insita nel permanere della ricchezza nelle mani di chi può continuare a utilizzarla per produrre altra ricchezza attraverso la perpetuazione dell’attività delinquenziale …» [così, sia pure problematicamente, FIANDACA, 123]. La Suprema Corte ha riconosciuto natura proteiforme alla confisca. In particolare, è stato negato «il carattere sanzionatorio di natura penale» della confisca ex art. 2-ter legge n. 575/ 1965, «o quello di un provvedimento di prevenzione», ma si ritiene piuttosto che la confisca an-

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timafia «va ricondotta nell’ambito di quel tertium genus costituito da una sanzione amministrativa equiparabile, quanto al contenuto e agli effetti, alla misura di sicurezza prevista dall’art. 240, co. 2 c.p.» [Cass., S.U., 3.7.1996, Simonelli ed altri, in Cass. pen., 1996, 3609; conforme Cass. pen., sez. III, 11.6.2008, n. 25676; Cass., S.U., 8.6.2007, n. 57]. Non sono mancate pronunce ove viene rimarcata una componente sanzionatoria della confisca antimafia, definita come un istituto nuovo ed atipico, con funzione preventiva; altre in cui si afferma che la confisca, quale generica misura di prevenzione, ha natura formalmente e sostanzialmente afflittiva: «anche dissuasiva, con la preminente funzione di togliere dalla circolazione perversa il bene che, al di là del dato temporale, è pervenuto nel patrimonio in modo perverso» [Cass. pen., sez. III, 29.5.2008, n. 21717; Cass., S.U., n. 920/2004, cit.]. Per contro, parte della dottrina ha enfatizzato la natura sanzionatoria della confisca ex art. 2-ter legge n. 575/1965, considerando che il suo presupposto è la consumazione di precedenti attività criminose dalle quali derivano i beni da confiscare. In quest’ottica si sostiene che la fattispecie consente di confiscare tali beni senza dover provare il nesso causale con un determinato reato nell’ambito di un processo penale. Se ne deduce che il suo scopo non è prevenire la commissione di futuri reati, bensì sottrarre beni di provenienza illecita alla stregua di elementi meramente indiziari, sanzionando, quindi, reati senza provarli, nemmeno nella forma minima della sottrazione del profitto, così affidando alla prevenzione una funzione (afflittiva) che non le spetta [CELENTANO, 109, che parla di finalità sanzionatoria di un arricchimento illecito; (c) MAUGERI, 27 ss.]. Sugli sviluppi di questa discussione si rinvia alla Parte IV, capitolo I, 5.2 e 5.3.

Il regime dell’applicazione disgiunta delle misure di prevenzione 13. personali e di quelle patrimoniali nello specchio della Costituzione e della CEDU. Il regime dell’applicazione disgiunta della confisca – nei termini oggi vigenti – genera forti dubbi e perplessità sul piano delle garanzie individuali: a preoccupare, ben vero, è un sistema che – in assenza di un accertamento di pericolosità individuale – legittima l’applicazione di misure patrimoniali ablative anche dell’intero patrimonio di un soggetto, finendo per conferire ad esse contenuti di afflittività addirittura maggiori di quelli che connotano sanzioni di analoga portata, tra cui la (solo apparentemente omonima) confisca che, a norma dell’art. 240 commi 1 e 2 c.p., colpisce solo le «cose» in nesso di pertinenzialità col reato accertato [MANGIONE, 212 ss.]. Si è, altrove, già rilevato come questo assetto appaia di difficile raccordo coi principi penalistici di rango costituzionale e con quelli previsti in ambito convenzionale, segnatamente col diritto di difesa e con la presunzione di non colpevolezza [(c) MAIELLO, 805 ss.]. In effetti, l’introduzione della nuova regola – nell’accentuare la tendenza verso la costruzione di una vera e propria procedura in rem, simile a modelli conosciuti dall’esperienza di altri ordinamenti quali il civil forfeiture statunitense (introdotto a livello federale dal congresso statunitense nel 1970 con il Comprehensive Drug Abuse Prevention and Control Act (CDAPCA), 21 U.S., § 881) – ha “estremizzato” una pur viva e, per molti versi, condivisibile aspirazione della dottrina [GALLO, 15; CORSO, 99; (a) GIALANELLA, 40] che, tuttavia, auspicava

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un paradigma di prevenzione patrimoniale il quale – continuando a ruotare intorno al dato della pericolosità sociale individuale – prescindesse soltanto dal requisito della sua attualità. Per vero, il passato sistema già contemplava un procedimento, per così dire atipico, che legittimava l’applicazione della confisca senza esigere l’accertamento della pericolosità sociale del detentore. Si trattava di un’eccezione tassativamente limitata a due fattispecie: l’ipotesi della persona assente, residente o dimorante all’estero ovvero sottoposta ad una misura di sicurezza detentiva o alla libertà vigilata (art. 18 commi 4 e 5 Codice, in precedenza art. 2-ter commi 7 e 8 legge n. 175/1965) e quella della persona che svolge un’attività economica ritenuta “agevolatrice” degli interessi sospettati di mafia (art. 34 Codice, in precedenza, artt. 3-quater e 3-quinquies legge n. 575/1965). Orbene, il vigente assetto normativo ha trasformato le predette situazioni di atipicità in un regime ordinario di applicazione della confisca, sostituendo l’elemento della pericolosità sociale con quello – indiscutibilmente meno pregnante – degli indizi di colpevolezza. 13.1. L’interpretazione “correttiva” proposta in tema di applicazione disgiunta “pura”. – Contro l’introduzione di un meccanismo di applicazione disgiunta “pura” delle misure, ispirato alla esigenza politico-criminale di colpire il dato della intrinseca pericolosità dei beni, è stato osservato che un congegno siffatto finisce per legittimare la confisca in virtù del mero rapporto di (s)proporzione tra valore dei beni e capacità reddituale del titolare, che non ne abbia giustificato la legittima provenienza [MANGIONE, 212 ss.]. Di qui, il suggerimento [(c) MAIELLO, 805 ss.] un’interpretazione per così dire mediana secondo cui – non vietandolo l’allora vigente art. 2-bis comma 6bis legge n. 575/65, ma precludendolo, invece, l’art. 18 del Codice antimafia – sarebbe stato, in ogni caso, necessario l’accertamento incidentale di pericolosità sociale del soggetto titolare del bene o di chi ne avesse la disponibilità, nel caso di morte del proposto o di sua cessata e quindi non più attuale pericolosità sociale [negli stessi termini, PIGNATONE, 2 ss., il quale, prima dell’introduzione del Codice antimafia, ha sottolineato che anche in caso di proposizione di una misura patrimoniale “disgiunta” da una personale, il giudice deve accertare, in via incidentale, la pericolosità sociale del soggetto – e, cioè, la conducibilità del proposto alle categorie dei soggetti che possono essere destinatari dell’azione di prevenzione –, chiarendo anche che ciò che non è più richiesto è il solo requisito dell’attualità della pericolosità al momento della richiesta]. Si è trattato di una interpretazione che aveva seguito anche una parte della giurisprudenza di merito, la quale aveva sottolineato come la rimozione dei rapporti di condizionamento tra le due specie di prevenzione (personale e patrimoniale) dovesse essere intesa nel senso che la volontà del legislatore fosse quella di inserire il principio di autonomia dell’actio in rem, con conseguente

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applicabilità di sequestro e confisca in ogni ipotesi in cui la misura personale non sarebbe applicabile esclusivamente per la mancanza di una pericolosità sociale in atto [così, Trib. Napoli, sez. mis. Prev., 14.4.2009, Pres. ed est. Menditto, inedita, che riprende la posizione espressa da ABBATISTA, 329 ss.; Trib. Santa Maria Capua Vetere, decreto 7.1.2010, n. 113/95, n. 41/1996 RG. M.P. e n. 117/2010 R.D. Pres. Casella, Giud est. Forte, inedito; in dottrina, (c) MAIELLO, 808]. Veniva, così, delineandosi una soluzione di equilibrio (e di ragionevolezza), diretta ad evitare una espansione del sequestro e della confisca secondo prospettive di trasformazione della misura reale in sanzione svincolata da ogni riferimento alla condotta del titolare del bene. Si trattava di una lettura indiscutibilmente orientata nel senso della Costituzione e della CEDU. Essa appariva, infatti, conforme, per un verso, ai principi di uguaglianza e di ragionevolezza; per l’altro, ai diritti contemplati dagli artt. 41 e 42 della Carta repubblicana. È indubbio, invero, che l’uguaglianza/ragionevolezza finirebbe per restare esposta ad un’oggettiva ed intollerabile torsione, ove il potere di disporre – in via generale – la misura patrimoniale sia slegata dal previo accertamento della pericolosità sociale del ritenuto dominus del bene, laddove una disposizione della medesima legge – nell’ammettere la confisca nei casi di morte del proposto – la sottopone alla prova della pericolosità (naturalmente pregressa) del de cuius. D’altra parte, la prospettiva interpretativa censurata (oggi diritto vivente) risultava in contrasto, per un verso, anche coi limiti entro cui le disposizioni degli artt. 41 e 42 Cost. ammettono sacrifici del diritto di proprietà e di iniziativa economica privata, non potendosi individuare il fondamento dei relativi pregiudizi in ragioni intrinseche alla consistenza dei beni; per l’altro, con le indicazioni della CEDU, il cui protocollo addizionale prevede, all’art. 1, che «ogni persona (…) ha diritto al rispetto dei suoi beni», con i limiti derivanti dalla possibilità di privare le persone della proprietà «per causa di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale». Di qui, l’affermazione della Corte di Strasburgo (caso Raimondo, cit.) secondo cui «l’ingerenza nel diritto (…) al rispetto dei beni non deve essere sproporzionata rispetto allo scopo legittimamente perseguito (…) nel quadro di una politica anticrimine finalizzata a combattere il fenomeno della grande criminalità». Infine, la disgiunzione secca tra misure di prevenzione personali e patrimoniali può determinare una violazione dell’art. 27 commi 1 e 2 Cost.: essa, invero, valorizza un concetto di pericolosità reale che è l’equivalente della responsabilità oggettiva, in quanto il carico afflittivo che si produce viene riversato nei confronti di una persona della quale non si accerta la pericolosità. Residua in ogni caso un auspicio de iure condendo, che lasci prefigurare una disciplina delle misure di prevenzione patrimoniali in chiave autenticamente residuale rispetto alle forme di confisca applicabili dal “giudice del reato”. Al riguardo, è stato proposto di articolare la strategia di aggressione ai patrimoni de-

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rivanti da illecita accumulazione calibrandola sull’archetipo della confisca delineata dall’art. 12-sexies d.l. n. 306/1992, ma di cui, però, occorrerebbe “personalizzare” il risultato sanzionatorio valorizzando il nesso temporale tra acquisizione del bene e momento del commesso reato [(c) MAIELLO, 808]. La prospettiva che ne deriverebbe sarebbe quella di dare ingresso ad un regime di “applicabilità sussidiaria” delle misure di prevenzione a carattere ablativo, destinato ad operare in ogni ipotesi in cui non sia instaurabile un giudizio penale (per prescrizione del reato, ovvero per altra causa estintiva), oppure non sia possibile definirlo con sentenza di condanna per la mancanza di prova al di là di ogni ragionevole dubbio, ma, tuttavia, in una situazione di configurabilità di un quadro indiziario di colpevolezza connotato da gravità. Su queste basi, la recisione del nesso eziologico tra res, oggetto di confisca, e delitto presupposto segnerebbe il surplus di efficacia di quella figura rispetto allo schema della confisca ex art. 240 c.p., fondata sul rapporto immediato e diretto tra provento del reato – nelle sue manifestazioni di prodotto, profitto o prezzo – e specifico episodio delittuoso. Sotto tale profilo, occorre riconoscere che la misura contemplata dall’art. 12-sexies – pur presentando una struttura con spiccata funzionalità punitiva, orientata, quindi, verso un orizzonte generalpreventivo – delinea un meccanismo che l’avvicina alla confisca antimafia, in quanto si fonda su una ratio legata ad una prognosi di pericolosità oggettivo/soggettiva, consistente nel rischio di reimpiego dei proventi illeciti. È da questa constatazione che matura l’auspicio riformatore a concepire i due tipi di confisca quali strumenti, qualitativamente omogenei, di una comune, e coordinata, strategia, che ne articoli i rapporti interni sul piano del differente spessore dei compendi probatori e non su quello della diversità dei presupposti sostanziali di applicabilità. Di qui la necessità, per un verso, di razionalizzare le relazioni tra procedimento penale ed actio in rem, per l’altro, di formalizzare adeguati standards indiziari per l’applicabilità delle misure di prevenzione patrimoniali. Avvertendo, in ogni caso, che il raggiungimento di garantiti criteri di inferenza della natura illecita di molte accumulazioni di ricchezza esige elevatissime competenze investigative, nutrite di saperi multiagenziali. Solo questi ultimi, difatti, consentono di ricostruire reti sofisticate di associazioni criminali in cui, alla solidità economico-finanziaria, fanno sempre più spesso da pendant modelli organizzativi liquidi [(b) MAIELLO, 15 ss.].

14.

L’ipotesi di morte del proposto ed il problema della sua legittimità costituzionale.

In caso di decesso del proposto, le misure patrimoniali – non essendo più correlate alla pericolosità soggettiva dell’indiziato – possono essere disposte nei confronti dei di lui successori a titolo universale o particolare, ben vero entro cinque anni dalla morte. Se il decesso sopraggiunge nel corso del procedimento,

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quest’ultimo prosegue nei confronti degli eredi ovvero degli eventuali, altri aventi causa (art. 18 commi 2 e 3 Codice delle leggi antimafia, in precedenza, art. 2-bis comma 6-bis legge n. 575/1965) [in argomento, SPANGHER, 1329 ss.; CAIRO, 1198]. È, quindi, possibile procedere all’ablazione di un patrimonio all’indomani del decesso dimostrando, comunque, la fattispecie soggettiva in cui si innesta la misura di prevenzione patrimoniale e, dunque, quel modello personale da cui essa trae legittimazione [(b) MAUGERI, 1786]. Nel sistema delineato dalla riforma, pertanto, il decesso non impedisce l’applicazione delle misure patrimoniali, anche nelle ipotesi in cui sia sopraggiunto prima dell’adozione del sequestro e della confisca [(b) GIALANELLA, 170 ss]. L’innovazione ha tuttavia sollevato forti perplessità. Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva dubitato della legittimità costituzionale, al metro degli artt. 24 commi 1 e 2, e 111 Cost. dell’art. 2-ter comma 11 della legge n. 575/ 1965 (ord. n. 96/09 del 3.3.2011, pres. G. Casella). A sostegno della ritenuta non manifesta infondatezza della questione, era stato rilevato come la possibilità di assicurare la partecipazione personale dell’interessato avesse rilevanza sia in termini di salvaguardia del diritto di difesa del giudicabile, sia quale precondizione di legalità della procedura rispetto alle posizioni delle parti. Si tratterebbe, peraltro, di un profilo che incrocerebbe anche i principi del giusto processo, segnatamente del contraddittorio. In questa prospettiva, la presenza fisica dell’interessato (o almeno la sua facoltà di partecipare), avrebbe dovuto rappresentare – secondo il giudice a quo – un momento di attuazione del rapporto processuale, conforme ad una visione di correttezza globale del giudizio elaborata dalla Corte EDU per la quale «il principio dell’eguaglianza delle armi postula la possibilità per ciascuna parte di presentare la sua causa in condizioni tali da non trovarsi in una posizione di svantaggio in rapporto con l’altra parte». Su queste basi, si si deduceva la incongruità di un contraddittorio formale instaurato nei confronti dei soli successori a titolo universale o particolare del de cuius [Corte EDU, sentenze 10.11.2004, Sejdovic c. Italia; 23.3.1998, Belziuk c. Polonia; 12.10.1992, T. c. Italia; 12.2.1985, Colozza c. Italia]. Ad avviso dell’ordinanza di remissione, il contrasto coi parametri costituzionali evocati sarebbe risultato acuito nelle ipotesi in cui faccia difetto un accertamento di merito della pericolosità del soggetto. Il dubbio è parso, inoltre, non superabile dalla possibilità di utilizzare esiti probatori di un diverso procedimento, svoltosi in costanza di vita del soggetto, e ciò sulla considerazione che il giudizio di prevenzione instaurato post mortem è modulato su scansioni probatorie che lo rendono irriducibile agli esiti conoscitivi di quelli acquisiti in precedenza. -

14.1. La sentenza costituzionale n. 21/2012. – La questione innanzi ricostruita è stata rigettata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 21/2012. Rispetto alla eccepita violazione del diritto di difesa e del principio del con-

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traddittorio nei confronti del soggetto deceduto, la Corte ha avuto buon gioco nel dichiarare la questione infondata sul presupposto che quel soggetto è estraneo al procedimento. Quanto alla lesione delle medesime garanzie in titolarità dei successori, la sentenza ha osservato che: a) al successore sono assicurati i mezzi probatori ed i rimedi impugnatori previsti per il de cuius, rilevando che il diverso rapporto di conoscenza che lega il successore ai fatti oggetto del giudizio (relativi tutti al defunto) «potrebbe, in linea astratta, incidere sugli specifici profili del procedimento relativi (…), ma non sulla possibilità di procedere nei confronti dei successori»; b) è impropria la sovrapposizione dei connotati del procedimento penale a quelli del procedimento per l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, almeno sotto i seguenti duplici profili: b.1) l’accertamento del fatto-reato ben può formare oggetto di verifica in una sede diversa da quella penale, nell’ambito di un rito in cui è assente il suo autore (ad esempio nell’accertamento incidentale del reato da parte del giudice civile qualora la natura penale del fatto illecito venga in rilievo nel giudizio risarcitorio ad esso conseguente); b.2) la peculiarità del procedimento per l’applicazione della confisca di prevenzione «va al di là dell’esigenza di prevenzione nei confronti di soggetti pericolosi determinati e sorregge dunque la misura anche oltre la permanenza in vita del soggetto pericoloso». La sentenza sottolinea come resti non aggirabile l’obbligo per il giudice della confisca di prevenzione di accertare (benché incidentalmente) la pericolosità del proposto (deceduto); diversamente, la misura non riuscirebbe a sottrarsi alla scure della dichiarazione di incostituzionalità per la sua trasformazione in uno strumento di espropriazione patrimoniale. Ferma la condivisione di quest’ultimo asserto, va osservato che del tutto insoddisfacente appare la risposta che la Corte fornisce alla eccepita lesione del diritto di difesa dei successori, che resterebbe menomato dalla possibile scarsa conoscenza che questi ultimi abbiano dei fatti che definiscono il retroterra di giustificazione economico-finanziaria dei beni confiscabili. Gli argomenti impiegati dalla sentenza, e sopra richiamati, mascherano una chiara elusione del problema: si afferma, in definitiva, che la differente conoscenza dei successori rispetto a quella ben più ampia del proposto deceduto, che poteva interloquire direttamente sui fatti posti a fondamento della pericolosità e sull’origine dei beni acquistati, non comporta la violazione del diritto della difesa (e del contraddittorio), riguardando un piano astratto e non concreto (!). In effetti, avuto riguardo al contesto complessivo della motivazione, si ricava l’impressione che la Corte abbia inteso giustificare un minore livello di tutela nei confronti di soggetti divenuti proprietari di beni per diritto successorio, sul presupposto del rango inferiore del valore in gioco rispetto a quello della libertà personale.

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15. Il requisito della disponibilità ed appartenenza del bene. Affinché il Tribunale possa disporre la confisca (e, prima ancora, il sequestro ad essa finalizzato) è richiesta la ricorrenza di due requisiti: a) la disponibilità dei beni; b) la relativa connessione con attività illecite o di reimpiego. La disponibilità rappresenta il presupposto oggettivo che lega il soggetto (un tempo pericoloso, oggi indiziato di uno dei delitti espressamente elencati) al bene. Essa è requisito necessario là dove non consti la formale titolarità del bene [CAIRO, 1189]. Deve trattarsi di una disponibilità allargata connessa ad un rapporto che può manifestarsi in forma di rilevanza diretta o indiretta, implementabile anche in termini di mera relazione di fatto con la res [CAIRO, 1165; CONTE, 262]. Deriva che il requisito in questione non deve risolversi in un rapporto collegabile ad istituti giuridici tipici, essendo sufficiente che l’indiziato possa utilizzare i beni uti dominus [(b) BERTONI, 1027]. Ininfluenti, dunque, sarebbero simulazioni, negozi fiduciari et similia, che restano figure non opponibili all’intervento patrimoniale [CAIRO, 1165; TAORMINA, 255]. Gli elementi di fatto, da cui inferire l’esistenza del requisito di disponibilità, devono essere certi [COMUCCI, 84]. In giurisprudenza si è, inizialmente, ritenuto che la nozione di disponibilità si sovrapponesse a quella di manifestazione dell’appartenenza uti dominus del bene; ne sarebbero restate escluse forme di detenzione temporanea, in virtù di titoli obbligatori, sempre che attraverso questi ultimi non si fosse inteso eludere l’applicazione della normativa antimafia [Cass., sez I, 30.1.1989, Vernengo, in Cass. pen., CCCXXII, 1990, 315]. Tra i primi arresti giurisprudenziali in cui è comparso il riferimento ad un potere di fatto idoneo a determinare e condizionare la destinazione e l’impiego del bene, quale presupposto legittimante l’intervento patrimoniale, si segnalano: Tribunale di Napoli, decreto 14.3.1986, Sibilia, in Foro it., II, 1987, c. 365; Cass., sez I, 21.1.1991, Piromalli, in Cass. pen., 1992, n. 733, 1326; Cass., sez I, 2.12.1991 Carpinteri, in Cass. pen., 1993, 419, n. 255; ha ribadito, di recente, tale ricostruzione, Tribunale Napoli, Pres. est. Menditto, decreto 4.12.2009, n. 208, fl. 39 (che collega il requisito alla nozione civile del possesso, intesa come categoria associata al bene e, in generale, quale sfera degli interessi economici del soggetto, pur là dove il potere sia esercitato tramite terzi). Anche la giurisprudenza di legittimità ha, talvolta, collegato il requisito della disponibilità a quello civile del possesso, per modo da comprendere tutte le situazioni in cui il bene ricada nell’ambito degli interessi economici del proposto [Cass., sez. VI, 23.1.1996, Brusca, in Cass. pen., n. 940, 1997, 1492]. Su questa impostazione ha insistito anche più recente interpretazione della Corte di Cassazione [Cass., sez I, 17.1.2008, n. 6613, in CED 2008/239359, consultabile anche in www.dejure.it, la quale ha riaffermato che la disponibilità non può ritenersi limitata alla mera relazione naturalistica o di fatto col bene, ma va estesa, al pari della nozione civilistica del possesso, a tutte le situazioni nelle quali il bene stesso ricada nella sfera degli interessi economici del prevenuto, ancorché il me-

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desimo eserciti il proprio potere su di esso per il tramite di altri). Per questa via si attribuisce rilievo alle fattispecie che già altri ordinamenti, quale quello svizzero, hanno inserito, configurando la categoria del c.d. avente diritto economico [CONTRAFFATTO, 92]. Quanto ai beni intestati al coniuge, se ne presume la disponibilità in capo al proposto, senza che possa rilevare la separazione e/o l’assegnazione nell’ambito del regolamento dei rapporti patrimoniali [Cass., sez II, 14.2.1997, Nobile, in Cass. pen., n. 1794, 1997, 3170]. Il requisito della disponibilità è stato ritenuto presunto anche relativamente ai beni intestati ai figli ed ai conviventi, trattandosi di soggetti espressamente presi in considerazione dall’art. 2-bis legge cit. [Cass., sez. II, 5.12.1996, Liso, in Cass. pen., n. 1610, 1997, 2847; in dottrina, da ultimo, [CAIRO, 1042 ss.]. Parte della giurisprudenza ha distinto tra il coniuge, i figli, i conviventi dell’ultimo quinquennio e gli altri terzi considerati dall’abrogato comma 3 dell’art. 2-bis, per ritenere che il meccanismo della presunzione operi solo nei confronti della prima categoria di soggetti [Cass, sez I, 16.4.1996, Biron, in Cass. pen., n. 544, 1997, 849]; in senso adesivo è l’opinione di chi ha reclamato, per il terzo estraneo, rigore nella verifica dei presupposti della disponibilità [LOMONTE, 362]. Di recente, la giurisprudenza ha riaffermato il principio secondo cui in tema di sequestro e confisca di beni intestati a terzi, incombe sull’accusa l’onere di dimostrare rigorosamente, sulla base di elementi fattuali, connotati dai requisiti della gravità, precisione e concordanza, l’esistenza di situazioni che avallino concretamente l’ipotesi del carattere puramente formale di detta intestazione, e, corrispondentemente, del permanere della disponibilità dei beni nella effettiva ed autonoma disponibilità di fatto del proposto [Cass., sez. II, 9.2.2011, n. 6977]. Ne deriva che, in presenza di stretti vincoli familiari o di convivenza nell’ultimo quinquennio, può presumersi che l’indiziato eserciti una signoria di fatto sui beni, con conseguente operatività della presunzione iuris tantum di disponibilità indiretta del patrimonio relativo. Si tratta, del resto, di un’interpretazione coerente con le indicazioni desumibili dal paragrafo 3 art. 3 della decisone quadro GAI 2005/212 del 24.2.2005 che, nel disciplinare la “confisca estesa”, ha espressamente considerato la possibilità che oggetto d’ablazione siano i beni attribuiti a soggetti con cui l’indiziato ha legami e relazioni di maggiore vicinanza; rispetto, invece, agli ulteriori intestatari non opera alcuna presunzione relativa di disponibilità indiretta. La complessa problematicità (del tema) della disponibilità indiretta si acuisce riguardo alle confische concernenti imprese individuali e/o societarie [CAIRO, 1174]. Per quanto attiene alle società di persone, di capitali, di cooperative o consortili la questione concerne l’estensione della misura all’intero capitale sociale ed al patrimonio aziendale, in ipotesi di formale estraneità del proposto alla compagine sociale ovvero in casi in cui egli sia formale titolare di quote o azioni rappresentative di una frazione minoritaria del capitale. In questi casi, si ritiene possibile la confisca c.d. totalitaria soltanto nel concorso della prova che l’indiziato sia stato gestore occulto dell’impresa o che ne abbia, almeno, influenzato le scelte e gli indirizzi, fungendo da centro decisionale e finanziario ester-

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no. Si tratta, peraltro, di meccanismi elusivi della prevenzione patrimoniale largamente diffusi nella prassi, ove è invalsa la tecnica di controllare dall’esterno le imprese, a buona ragione definite “a partecipazione mafiosa” (anziché “di proprietà del mafioso”) proprio per sottolineare che – pur essendo gestite anche con significativi spazi di autonomia dai soci amministratori – risultano irrimediabilmente contaminate dal capitale mafioso. Quel che assevera l’indiretta disponibilità totalitaria sulla res, non è, pertanto, la tirannia che priva di ogni autonomia i formali gestori, bensì il potere del proposto di poter compiere liberamente atti che incidono sulla vita dell’impresa e che si concretizzano in rilevanti apporti finanziari ed in decisioni che rendono possibile l’inizio, la prosecuzione o la cessazione dell’impresa, secondo gli scopi del sodalizio mafioso [così, in definitiva, Trib. di Santa Maria Capua Vetere, decreto 1.6.2011, n. 57/2008, RG. M.P. n.16/09-/11 Reg D., inedito, Pres. M.G. Casella, Giud. est. C. Forte]. L’altro requisito richiesto, vale a dire quello dell’appartenenza, rileva allorquando un bene o il patrimonio in cui esso è inserito sia nella titolarità di un terzo [CAIRO, 1189]. Nel concetto di appartenenza si fa solitamente rientrare la titolarità del diritto di proprietà o di altri diritti reali o quella di diritti relativi che implichino disponibilità del bene. Già in passato la Suprema Corte aveva evidenziato la differenza intercorrente tra il concetto di appartenenza ex art. 2ter legge cit. e quello rilevante nell’ottica delineata dall’art. 240 c.p. [Cass., sez. I, 9.11.1987, Nicoletti, in Cass. pen., n. 467, 1989, 463]. Mentre in quest’ultimo, l’appartenenza comprende la proprietà, la comproprietà o i diritti reali sulla cosa, venendo in evidenza quale situazione giuridica di diritto sostanziale; in sede preventiva, il concetto importa sul piano processuale ed implica la mera titolarità formale. Il dato formale dell’appartenenza a terzi, dunque, non preclude (il sequestro e) la confisca alla luce della circostanza che la disponibilità di cui all’art. 2-ter è rilevante anche nella forma indiretta. Proprio questa fattispecie include le forme di intestazione fittizia dei beni a terzi, che hanno legittimazione a far valere in giudizio specifiche ragioni. Nel concetto di appartenenza si reputano inclusi i diritti reali di garanzia [Cass., sez. II, 16.2.2000, Ienna, in Cass. pen., n. 1573, 2000, 2770]. In presenza di diritti spettanti a terzi, che siano, cioè, formalmente titolari della relativa posizione giuridica soggettiva, il tribunale è tenuto ad estendere il contraddittorio nei loro confronti, citandoli a comparire, al fine di consentire loro di svolgere le relative difese [CAIRO, 1189]. Un orientamento giurisprudenziale oramai consolidato ritiene, tuttavia, che il terzo non abbia la medesima posizione del proposto e che la decisione, in assenza del primo, non sia affetta da nullità [Cass., sez I, 29.10.1986, Nava, in Cass. pen., n. 139, 1988, 134; Cass., sez VI, 18.9.2002, Diana, in Cass pen., 2003, 2439; Cass., sez II, 17.10.2002, n. 40880, in CED Cass. 2002/223021]. La mancata citazione del terzo radicherebbe una fattispecie di inopponibilità della decisione legittimandolo all’incidente di esecuzione [Cass., sez. I, 22.6.2007 (dep. 13.7.2007), n. 28032] e rilevando quale semplice irregolarità, che non inficia il procedimento medesimo e, quindi, l’applicazione della misura. L’assunto viene ribadito anche

14.

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nei casi in cui l’omessa vocatio riguardi il curatore dei beni coinvolti in una procedura fallimentare, al quale pure si riconosce la legittimazione a far valere diritti di propria spettanza attraverso l’incidente di esecuzione [Cass., sez. VI, 4.3. 2008, n. 31890, in CED Cass. 2008/241012]. -

16.

La connessione con attività illecita o di reimpiego. Il requisito della sproporzione.

L’ulteriore condizione che legittima l’intervento patrimoniale è la ricorrenza di indizi sufficienti in base ai quali i beni si possano ritenere frutto di reimpiego o altrimenti connessi con attività illecita del proposto. Si tratta di un elemento ben esplicitato dal legislatore, allorché individua tra i presupposti del sequestro e della confisca la sproporzione esistente tra il valore del bene ed i redditi dichiarati o l’attività economica svolta. Definito in senso lato anche come “rapporto di connessione” con l’attività illecita, esso esprime un concetto di ampia latitudine, idoneo a comprendere non solo il denaro ricavato dallo svolgimento di attività illecite, ma anche i beni acquisiti con tali ricavi nonché il relativo ed eventuale successivo reimpiego [CONTE, 263]. La connessione con attività illecita si considera realizzata – secondo il tenore letterale della disposizione – quando i beni risultino di valore sproporzionato ai redditi dichiarati, all’attività economica svolta ovvero ricorrano indizi sufficienti per ritenere che siano frutto di attività illecite o oggetto di reimpiego. La sproporzione tra il valore dei beni ed il reddito dichiarato ai fini delle imposte integra un presupposto tipico (del sequestro e) della confisca ed è idoneo a fondare, in difetto di spiegazioni alternative, l’indiziarietà della provenienza illecita dei beni [Cass., sez. VI, 23.1.1996, n. 398, Brusca ed altri, Rv 205029, in Cass. pen., 1997, 1492; in Giust. pen., III, 1997, 382]. La valutazione di proporzione va operata con riferimento ad ogni singolo bene e si attua comparando l’incremento patrimoniale determinato dall’acquisto del bene con il reddito ufficialmente disponibile al momento dell’acquisizione [Cass., sez. VI, 13.3.1997, n. 1105, Mannolo, Rv 208636, in Cass. pen., 1998, 1774]. I valori reddituali devono essere considerati al netto, effettuando valutazioni concrete sul costo effettivo dei beni acquisiti e detraendo le spese necessarie al sostentamento familiare [CAIRO, 1189]. L’ulteriore referente di commisurazione del giudizio di proporzione (vale a dire, l’attività economica svolta), pur collegandosi ad una situazione oggettiva, evoca, tuttavia, una realtà meno determinata che si presta ad essere variamente interpretata e concretizzata nelle applicazioni processuali. Nel prevederlo, deve ritenersi che il legislatore lo abbia concepito come elemento di riscontro aggiuntivo del giudizio di proporzione, particolarmente utile allorquando constino attività che, quanto ad imposizione fiscale, risultino oggetto di regimi differenziati ed agevolati (si pensi all’attività agricola). In dottrina si osserva [ASTARITA, 394; D’ASCOLA, 76 ss.; SQUILLACI, 12 ss.]

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che l’indagine relativa al requisito della sproporzione non può risolversi in una valutazione globale ed omnicomprensiva del patrimonio dell’interessato, ma deve tendere a dimostrare con riferimento ad un certo periodo temporale di riferimento che gli esborsi economici – sotto forma di investimenti mobiliari ed immobiliari – sono stati consentiti da una corrispondente liquidità, per poi concludere che il patrimonio, accumulato nel corso degli anni, è in realtà “sproporzionato” al reddito dichiarato o alla attività svolta. Ciò vale a sostenere che non vi è “sproporzione” se, e nella misura in cui, le componenti negative (spese) sono giustificate da quelle attive (entrate) [CAIRO, 1189]. Sul punto, un’importante indicazione pare essere quella offerta dalla Corte di Cassazione in ordine all’analogo requisito che caratterizza il tema della sproporzione nella confisca ex art. 12-sexies legge n. 356/1992. A questo riguardo, è stato evidenziato come esso consti non di qualsiasi difformità tra guadagni e capitalizzazione, ma di un incongruo squilibrio tra questi, da valutarsi secondo le comuni regole di esperienza, con l’espressa affermazione che «la sproporzione così intesa viene riferita non al patrimonio come complesso unitario, ma alla somma dei singoli beni, con la conseguenza che i termini di raffronto, dello squilibrio, oggetto di rigoroso accertamento nella stima dei valori economici in gioco, non vanno fissati nel reddito dichiarato o nelle attività al momento della misura rispetto a tutti i beni presenti, ma nel reddito e nelle attività nei momenti dei singoli acquisti, rispetto al valore dei beni di volta in volta acquistati » [Cass., S.U., 19.1.2004, n. 920]. Il secondo presupposto della confisca è quello della provenienza, anche mediata, dei beni da attività illecita generica, priva dell’indice di mafiosità [CAIRO, 1197]. Su questo piano, si sono opportunamente sottolineate le differenze tra l’intervento patrimoniale di prevenzione e quello che trae origine dall’art. 416bis c.p., chiarendo che il primo può attingere beni di varia natura, non circoscritti ai patrimoni che derivino dal delitto di cui alla citata norma [FIANDACA, 273]. Non è richiesta la dimostrazione del collegamento causale tra le acquisizioni patrimoniali e la ritenuta appartenenza all’associazione criminale qualificata, essendo sufficiente la sola accumulazione illecita, che non trovi giustificazione. Sviluppando questo concetto, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che non rileva nel provvedimento ablativo l’assenza di motivazione circa il nesso causale fra presunta condotta mafiosa e profitto illecito, essendo, per contro, sufficiente la dimostrazione dell’illecita provenienza dei beni confiscati, qualunque essa sia. È stato, perciò, ritenuto legittimo il provvedimento di confisca dei beni appartenenti al prevenuto che ne aveva giustificato il possesso, dichiarando di averli acquistati con i proventi dell’evasione delle imposte sui redditi [Cass., sez. VI, 27.5.2003, n. 36762, in CED Cass. 2003/226655; Cass., 6.7.2004, in Il Fisco, 2005, 1320, in cui si affronta il caso di un arricchimento determinato da un vorticoso giro di false fatturazioni; Cass., sez. II, sentenza 27.3. 2012, n. 27037; Cass., sez. I, 23.9.2013; in argomento, CAIRO, 1189; SIRACUSANO, 29 ]. L’automatica applicazione della confisca di prevenzione ai beni frutto di evasione fiscale genera perplessità in quanti paventano che essa possa generare pe-

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ricolose derive in contrasto con le finalità dell’istituto, congegnato per colpire il patrimonio illecitamente acquisito nell’ambito della specifica attività svolta dall’indiziato di appartenenza ad un’associazione mafiosa [ASTARITA, 398; FURFARO, 878]. L’indirizzo giurisprudenziale innanzi richiamato è stato avallato dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza del 29 maggio 2014. Investita della seguente questione: «se, ai fini della confisca di cui all’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 (attualmente art. 24 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159), per individuare il presupposto della sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del soggetto, titolare diretto o indiretto dei beni, debba tenersi conto o meno dei proventi dell’evasione fiscale», il supremo organo della nomofilachia ha affermato che i proventi dell’evasione fiscale non rilevano per giustificare il dato della sproporzione. Ai fini dell’applicabilità (del sequestro e) della confisca di beni patrimoniali nella disponibilità di persone indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, è sufficiente che sussista una sproporzione tra le disponibilità ed i redditi denunciati dal proposto ovvero indizi idonei a lasciar desumere in modo fondato che i beni dei quali si chiede la confisca costituiscano il reimpiego dei proventi di attività illecite e che il proposto non sia riuscito a dimostrare la legittima provenienza del denaro utilizzato per l’acquisto [CAIRO, 1145]. Si è, al riguardo, escluso che si sia in presenza di un’inversione dell’onere della prova, sul rilievo che la legge ricollega la presunzione di illecita provenienza dei beni a fatti sintomatici, ma non alla mancata allegazione della loro lecita provenienza, la cui dimostrazione è, quindi, idonea a superare la presunzione [Cass., sez. IV, 12.12.2007, n. 228, in CED Cass. 2007/238871]. D’altro canto la confisca (ma, prima ancora, il sequestro) non colpisce indiscriminatamente tutti i beni di coloro che sono sottoposti a misure di prevenzione personali, bensì solo quelli che «si ha motivo di ritenere frutto di attività illecite o che ne costituiscano il reimpiego». Da ciò si è inferito che – nelle ipotesi in cui il reimpiego del denaro, proveniente da fonte sospetta, avvenga mediante addizioni, accrescimenti, trasformazioni o miglioramenti di beni già nella disponibilità del soggetto medesimo, in virtù di pregresso acquisto del tutto giustificato da dimostrato titolo lecito – il provvedimento ablativo debba essere in ogni caso rispettoso del generale principio di equità. Per non violare, pertanto, il principio costituzionale di cui all’art. 42 Cost., l’ablazione patrimoniale non può coinvolgere il bene nel suo complesso, ma, nell’indispensabile contemperamento delle generali esigenze di prevenzione e difesa sociale con quelle private della garanzia della proprietà tutelabile, deve essere limitata al valore del bene medesimo, proporzionato all’incremento patrimoniale per l’investimento in esso effettuato di profitti illeciti. Tale scopo si consegue mediante la confisca della quota ideale del bene, rapportata al maggior valore assunto per effetto del reimpiego e valutata al momento della confisca stessa [nell’affermare tale principio, la Corte di Cassazione ha censurato l’operato del giudice di appello che, nel retrodatare la ritenuta collusione mafiosa del proposto sulla base di una piat-

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taforma indiziaria di scarsa consistenza, non aveva preso in esame le specifiche critiche di ordine economico-finanziario mosse dalla difesa, Cass., sez. I, 4.7. 2007, n. 33479; Cass., sez. I, 28.9.2007, Rv. 237448]. Si tratta di principio che affonda le radici in un consolidato orientamento della Suprema Corte che, con riguardo all’accertamento di illecita provenienza, aveva in passato affermato che l’indagine dovesse essere compiuta con riferimento ad ogni singolo bene oggetto di sequestro [Cass., sez VI, 13.3.1997, Cannolo, in Cass. pen., n. 1070, 1998, 1774; Cass., 16.1.2007, n. 5234, in Guida dir., 2007, 1067; Cass., 13.6.2006, in CED 2006/234733; Cass., 23.6.2004, Palumbo, in Cass. pen., 2005, 2704; Cass., 28.3.2002, Ferrara, in Cass. pen., 2003, 605]. Allorquando, al contrario, il bene in sé, complessivamente valutato, diventi elemento e strumento servente rispetto all’interesse illecito qualificato non v’è dubbio che nell’entità reale medesima non siano più distinguibili parti di genesi lecita e singoli profili illeciti, da colpire con la misura di prevenzione. La res rileva, cioè, nella sua totalità come elemento funzionale alla realizzazione dello scopo illecito, con la conseguenza che tale connotato contamina la struttura complessiva del bene [CAIRO, 1173]. Applica il principio quella parte della giurisprudenza che ha affermato come in tema di misure di prevenzione sia legittima la confisca dei dividendi e del ricavato della vendita di quote azionarie di una società, appartenenti ad un indiziato mafioso, quando l’intera azienda sia stata utilizzata come strumento funzionale a procacciarsi variamente il favore dello schieramento mafioso, nonché per finanziarne le attività, così da attuare un’attività imprenditoriale prevalentemente illecita [Cass., sez. VI, 22.1.2009, n. 17229, in CED 2009/243664; nella specie, la Corte ha ritenuto legittima la confisca di tutti i dividendi che il proposto aveva percepito, quale azionista di un istituto di credito, e l’intero prezzo di vendita del suo pacchetto azionario, in quanto frutto di attività illecita posta in essere attraverso l’esercizio dell’attività bancaria]. Di recente, tuttavia, la S.C. nell’esaminare un’ipotesi di confisca di prevenzione nascente da un’iniziativa ex art. 14 comma 1 legge n. 55/1990, ha affermato che là dove sia dimostrato che il proposto ricavi proventi da una o più delle attività delittuose indicate in quella norma, l’ablazione ha ad oggetto tutti i beni di cui non sia allegata la provenienza lecita, pur se provento di attività delittuose estranee alle fattispecie indicate dalla disposizione [Cass., sez II, 24.5. 2011 (dep. 8.6.2011), n. 22782, in CED Cass. 2001/250565]. -

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17.

Il requisito della connessione temporale tra pericolosità soggettiva ed acquisizione patrimoniale.

Legato al requisito della c.d. connessione illecita è quello relativo alla necessità di individuare l’epoca dell’illecita accumulazione [CAIRO, 1187; MANGIONE, 212 ss.]. In giurisprudenza si ritiene legittima la confisca, disposta ai sensi dell’art. 2-

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ter legge 31.5.1965, n. 575, di beni acquistati dal sottoposto alla sorveglianza speciale di P.S. anche in epoca anteriore o successiva alla situazione di accertata pericolosità soggettiva, trattandosi di misura ablatoria atipica, avente la preminente funzione di togliere dalla circolazione quei beni che, al di là del dato temporale, sono stati acquisiti al patrimonio del prevenuto in modo illecito [Cass., sez. II, 16.4.2009, n. 25558, in CED Cass. 2009/244150; Cass., sez I, 29.5.2009, n. 35466, in CED Cass. 2009/244827]. Ribadendo l’irrilevanza dell’epoca di accumulazione, il S.C. ha confermato che unico presupposto di legge per l’adozione dei provvedimenti di sequestro e confisca è l’inizio di un procedimento di applicazione di misura di prevenzione personale nei confronti di persona pericolosa, che disponga di beni in misura sproporzionata rispetto al reddito e di cui non sia provata la legittima provenienza [Cass., sez. I, 16.5.2012, n. 25464; Cass., sez. II, 21.4.2011, n. 27228; Cass., sez. I, 9.2.2011, n. 6977; Cass., sez II, 22.4.2009, n. 20906, in CED Cass. 2009/244878; Cass, sez. II, 8.4. 2008, n. 21717, in www.dejure.it]. In senso contrario si è espresso un diverso orientamento della Suprema Corte, che richiede la dimostrazione, logica e cronologica, della provenienza di ogni bene sequestrato dall’illecita attività o dal suo reimpiego, attraverso l’individuazione del nesso di causalità tra condotta mafiosa ed illecito profitto [Cass., 23.6.2004, Palumbo, in Cass. pen., 2005, 2704; Cass., 28.3.2002, Ferrara, in Cass. pen., 2003, 605]. Altre decisioni, per converso, postulano la correlazione temporale tra pericolosità ed acquisizione dei beni confiscati, richiedendo che i beni siano entrati nel patrimonio del suspectus successivamente o, almeno, contestualmente all’inserimento nel gruppo criminale [Cass., sez. I, 11.12.2012, n. 2634; Cass., sez. VI, 18.10.2012, n. 10153; Cass., 22.1.2008, c.c. 12.12.2007, n. 3413, Giammanco N. e Mineo V.; Cass., 13.5.2008, n. 21357; Cass., 23.3.2007, n. 18822; contra Cass., 29.5.2008, c.c. 8.4.2008, n. 21717, Failla, Rv. 240501; in ancora altre decisioni si fa ricorso al concetto della ragionevolezza temporale, Cass., 16.1.2007, n. 5234, in Guida dir., 2007, 1067, per affermare che è illegittima la confisca di beni acquisiti in epoca non riconducibile a quella dell’accertata pericolosità; Cass., 16.4.2007, n. 21048, in Juris data online, 3]. Quest’ultimo indirizzo viene ritenuto in dottrina conforme ai principi di proporzione e di presunzione di non colpevolezza, in quanto realizza un equilibrato bilanciamento degli interessi in gioco [(c) MAUGERI, 77 ss.]. È il caso, però, di osservare che la lettera della norma non evoca delimitazioni temporali di sorta, ragione per la quale negli orientamenti giurisprudenziali maggioritari [C. cost. n. 335/1996; Cass., S.U., n. 18/1996] affiora la tesi che pone l’accento sulla pericolosità in sé dei beni utilizzati dalla criminalità mafiosa. Sul punto, è stato affermato che, pur là dove i beni fossero acquisiti in epoca precedente alla ritenuta pericolosità del soggetto, essi diventano “pericolosi” per effetto della intraneità del titolare o di colui che ne abbia la disponibilità, in quanto fonte di inquinamento del tessuto economico e strumento di sopraffazione, nonché di potenziamento delle strutture criminali. In sostanza, la riconosciuta pericolosità del soggetto finisce per determinare un inscindibile rapporto

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di biunivocità tra essa ed i beni di illegittima provenienza [sul punto, CAIRO, 1187]. Senonché, viene fatto rilevare che l’accertamento di pericolosità non può fungere da presupposto di applicabilità della confisca, giacché lo status di soggetto pericoloso non si genera ex abrupto, discendendo, piuttosto, dalla verifica del modo di vivere e dal compimento di una serie di azioni che hanno uno scenario necessariamente diacronico. Artificiosa sarebbe, pertanto, la pretesa di fissare un dies a quo che dovrebbe segnare il profilo di pericolosità soggettiva e fissare l’epoca anteriormente alla quale i beni non sarebbero suscettibili di confisca [Cass., sez II, 22.4.2009, n. 20906, Buscema ed altri]. Non è mancata l’opinione di chi ha inteso impostare diversamente la questione spostando il problema dal nesso di correlazione cronologica tra epoca di acquisto ed indizi di appartenenza, a quello relativo al contenuto dell’onere di dimostrazione della legittima provenienza del bene. In questa prospettiva, non sarebbe confiscabile, ai sensi dell’art. 2-ter comma 3 legge n. 57519/65, un bene acquistato dal soggetto in epoca decisamente anteriore alla sua intraneità, là dove venga documentato che l’acquisto sia stato effettuato – pur in assenza di redditi propri o da attività lavorativa – con risorse ascrivibili ai familiari ovvero provenienti da redditi leciti [CAIRO, 1168 ss.; C. FORTE, 10 SS.]. Da ultimo, va segnalato che il tema del legame logico e temporale tra l’emersione della pericolosità individuale e l’acquisizione delle utilità da ablare ha formato oggetto della decisione emessa dalle Sezioni Unite all’esito dell’udienza camerale del 26 giugno 2014. Il profilo è stato affrontato quale corollario, unitamente a quello della retroattività della nuova disciplina della prevenzione patrimoniale, della questione loro rimessa dalla sesta sezione [ordinanza dell’11 marzo 2014, n. 11752], relativa alla equiparabilità di misure di sicurezza e di misure di prevenzione patrimoniale, nell’assetto normativo conseguente alle novelle di cui ai d.l. n. 92/2008 e n. 94/2009. In mancanza del deposito della motivazione, è ragionevole ipotizzare che la soluzione affermativa fornita al quesito della retroattività della vigente disciplina della confisca di prevenzione – fondata sulla assimilazione dell’istituto alle misure di sicurezza e, quindi, sull’operatività anche in rapporto ad esso dell’art. 200 c.p. – spiani la strada all’affermazione di una accentuata correlazione cronologica tra la pericolosità del proposto ed il momento di acquisizione dell’utilità da confiscare. 18. La confisca per equivalente. L’art. 25, Codice delle leggi antimafia (in precedenza art. 2-ter comma 10 legge n. 575/1965) dispone che nell’ipotesi in cui il soggetto proposto per l’applicazione di una misura di prevenzione disperde, distrae, occulta o svaluta i beni al fine di eludere l’esecuzione su di essi dei provvedimenti di sequestro o di confisca, il sequestro e la confisca hanno ad oggetto denaro o altri beni di valore

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equivalente. Si procede, in modo analogo, quando i beni non possono essere confiscati in quanto trasferiti legittimamente a terzi in buona fede, prima dell’esecuzione del sequestro. Si tratta di una disciplina che trae origine dalla prassi applicativa e determina effetti fortemente pregiudizievoli, posto che scinde il vincolo tra la misura di prevenzione reale ed il bene di illegittima provenienza, consentendo di aggredire patrimoni di origine lecita. Sebbene non esista alcun appiglio normativo, si ritiene di dover aderire, proprio in ragione degli effetti prodotti dalla disposizione in esame, ad una sua interpretazione “stretta”, affermando che il denaro e gli altri beni di valore equivalente sottoposti al sequestro ed alla confisca in esame devono essere nella diretta disponibilità della persona sottoposta al procedimento di prevenzione. La condotta rilevante, che legittima l’applicazione della confisca, deve essere indirizzata a sottrarre i beni alla misura di prevenzione e l’intervento per equivalente deve avere ad oggetto beni di genesi lecita non potendo trovare attuazione in tutte le situazioni in cui il possibile deprezzamento, o la frustrazione delle ragioni del sequestro e della confisca, trovino “altra” origine, non collegata alla specifica volontà del proposto di eludere l’intervento cautelare o ablativo in proprio danno. Lo strumento per equivalente è ammesso anche là dove la condotta sia antecedente rispetto al sequestro. La norma non indica, infatti, sbarramenti temporali, determinando il rischio di estendere in termini abnormi l’ambito dell’iniziativa patrimoniale. Si tratta, tuttavia, di eventualità remota, considerando, soprattutto, che, ai fini della misura per equivalente, occorre pur sempre dimostrare lo scopo specifico della condotta di distruzione in senso lato ed allegare gli elementi di fatto da cui dedurre la finalità elusiva o di frustrazione delle ragioni del sequestro o della confisca [di una forma subiettiva assimilabile al dolo specifico parla C. FORTE]. Su queste basi, sembra debba escludersi l’intervento per equivalente al cospetto di condotte colpose. È dubbio se la misura possa essere assunta anche nei confronti degli eredi [pare negarlo una parte della giurisprudenza di merito: Trib. Napoli, Sez. Misure di prevenzione, decreto 15.7.2011]. Critico verso l’istituto è chi teme che esso possa condurre all’ablazione di interi patrimoni, per garantire l’effettività della confisca [(e) MAUGERI, 91 ss.]. Senonché, proprio dall’inserimento di tale strumento nel sistema della prevenzione patrimoniale, altra dottrina ha ricavato argomento per ribadire che sequestro e confisca possono colpire solo singoli beni, nel concorso dei presupposti di legge, non essendo ammissibile un intervento indistinto ed indiscriminato su tutto il patrimonio, che prescinda dai requisiti di sproporzione o di connessione posti dalla norma [(b) GIALANELLA, 190 ss.]. Altra ipotesi di confisca per equivalente concerne il caso in cui l’intervento patrimoniale non possa avere attuazione a causa del trasferimento dei beni a terzi di buona fede, prima del sequestro. L’incidenza sul tantundem fa, qui, riferimento alla situazione in cui il bene da colpire con la misura di prevenzione sia

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stato alienato al terzo di buona fede, prima della esecuzione del sequestro, ovvero all’ipotesi in cui la cautela reale sia rimasta infruttuosa, a causa dell’alienazione del bene avvenuta tra la deliberazione del sequestro e la sua esecuzione. In entrambe le fattispecie non è richiesta la finalità di eludere l’applicazione della misura di prevenzione. La confisca del tantundem è, pertanto, qui legittima anche là dove non emerga quell’intento elusivo richiesto in rapporto alla prima tipologia. Le forme di confisca di prevenzione per equivalente attestano come la loro finalità non sia quella di recidere il collegamento tra il bene ed il soggetto pericoloso, bensì consista nel fare terra bruciata intorno l’organizzazione criminale, impedendone con ogni strumento l’accumulazione illecita, anche a costo di piegare principi fondamentali della materia lato sensu penale [(d) MAUGERI, 39; (a) MONTARULI, 260]. Quando, poi, risulti che i beni confiscati con provvedimento definitivo dopo l’assegnazione o la destinazione siano rientrati, anche per interposta persona, nella disponibilità o sotto il controllo del soggetto sottoposto al provvedimento di confisca, l’organo che ha adottato il provvedimento può revocare l’assegnazione o la destinazione (art. 48 comma 15 Codice delle leggi antimafia, già art. 2-ter comma 12 legge n. 575/1965). Ancora, quando si accerta che taluni beni siano stati fittiziamente intestati o trasferiti a terzi, il giudice dichiara, con il decreto di confisca, la nullità dei relativi atti di disposizione (art. 26 Codice delle leggi antimafia, già art, 2-ter comma 13 legge n. 575/1965). È il caso di segnalare come l’attuale dizione normativa abbia corretto l’evidente lapsus calami contenuto nell’art. 2-ter comma 13 legge n. 575/1965, che indicava nella sentenza e non nel decreto il genere di provvedimento attraverso cui il Tribunale dispone la confisca dei beni. Nella nuova norma il legislatore ha inteso chiarire che, con la decisione in tema di confisca, vanno regolati anche i profili di diritto ad essa correlati, riguardo, in particolare, alle posizioni giuridiche soggettive degli aventi causa del trasferimento stesso, per modo che la prescritta declaratoria invalidante dovrebbe annullare o ridurre le possibilità di doglianza postuma, rispetto alla pretesa statale [CAIRO, 1169]. In tal modo il giudice della prevenzione è abilitato ad emettere un provvedimento che inerisce la sfera propriamente civilistica, creando un ibrido che può essere giustificato solo dalla necessità di un tempestivo intervento giudiziale al fine di non porre nel nulla l’attività di prevenzione, che esige un intervento sempre più rapido e celere [CAIRO, 1169]. Il disposto in esame deve, inoltre, essere interpretato quale logica prosecuzione di quello contenuto nel precedente art. 25 Codice delle leggi antimafia (già art. 2-ter comma 10 legge n. 575/1965). Se, infatti, i beni risultano intestati legittimamente a terzi in buona fede, il provvedimento cautelare e, poi, quello ablativo hanno ad oggetto il denaro o gli altri beni del proposto di valore equivalente. Ove, invece, si accerti, nel corso del procedimento di prevenzione, che l’intestazione o il trasferimento a terzi sia fittizio, il giudice dichiara la nullità dei

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relativi atti di disposizione, con un provvedimento che è pregiudiziale a quello di confisca dei medesimi beni. In dottrina è consolidata l’idea dell’indifferenza della titolarità formale del bene in capo al terzo [CAIRO, 1056] occorrendo, ai fini del sequestro e della confisca, la prova del potere di fatto di determinare la destinazione del bene. Si tratta di un potere e di un accertamento assolutamente concreto e che prescinde dall’esistenza di titoli formali o reali che legittimino quel potere [BUONGIORNO, 445; Cass., sez V, 17.3.2000, n. 1520, Cannella, in Cass. pen., 2001, 1327; Cass., sez I, 2.12.1991, Carpinteri, in Cass. pen., n. 255, 1993, 419]. Affinché la disposizione abbia un significato utile allo scopo è necessario che si integri, pertanto, il contraddittorio verso i terzi titolari. Quella introdotta, invero, è ipotesi in cui la sistemazione dell’assetto sostanziale, che deriva dalla declaratoria di nullità, non può operare in difetto di un litisconsorzio necessario nella fase processuale. La declaratoria d’invalidità scritta nella disposizione sarebbe, del resto, inutiliter data ed, ovviamente, inopponibile al terzo, là dove costui non avesse preso parte al giudizio da cui trae genesi la statuizione. Né sembra efficace l’idea espressa da chi ribadisce la legittimità della confisca, assunta in difetto della partecipazione del terzo al procedimento, difetto di presenza che neppure impedirebbe la pronunzia sulla nullità dell’atto di trasferimento e che determinerebbe come unica conseguenza la inopponibilità della statuizione al terzo pretermesso [(d) MAUGERI, 46]. Gli effetti della declaratoria di nullità del trasferimento che, se reso con decreto, ha gli effetti di sentenza, operano tra terzo, proposto ed aventi causa, fissando lo statuto simulatorio dell’operazione di trasferimento. L’effetto concorrente ed ulteriore che deriva dalla declaratoria di nullità è la sottrazione del bene dal patrimonio del simulato acquirente con efficacia ex tunc e con irrimediabile pregiudizio delle ragioni dei rispettivi creditori. La norma, inoltre, introduce ipotesi di presunzioni iuris tantum, di fittizietà dei trasferimenti [con riferimento alla disciplina antecedente il Codice antimafia, cfr. MONTARULI, 260; dopo il Codice, cfr. CAIRO, 1202 ss.]. In particolare, ai fini della prova della fittizia intestazione o trasferimento a terzi, si presumono, fino a prova contraria, fittizi: a) i trasferimenti e le intestazioni, a titolo gratuito o fiduciario, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione; b) i trasferimenti e le intestazioni, anche a titolo oneroso, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione nei confronti dell’ascendente, del discendente, del coniuge o della persona stabilmente convivente nonché in parenti entro il sesto grado e gli affini entro il quarto (art. 26 comma 2 Codice delle leggi antimafia, già art. 2-ter comma 14 legge n. 575/1965). Quanto ai profili di diritto intertemporale, è possibile affermare che – ove fossero riconosciuti pregnanti profili punitivi alla confisca di prevenzione – quest’ultima dovrebbe poter essere qualificata “sanzione” nei termini di rilevanza prefigurati dalla CEDU, con la conseguenza che dovrebbe predicarsene l’irretroattività della sua efficacia, segnatamente riguardo alle situazioni cristallizzatesi in epoca anteriore all’entrata in vigore del d.l. n. 92/2008, convertito nella citata legge n. 125/2008, le cui disposizioni sono state integralmente recepite dal Codice antimafia.

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Si è al cospetto di presunzioni superabili con prova contraria. La declinazione della prova stessa è decisamente rigorosa [CAIRO, 1206]. A fronte di atti a titolo gratuito, l’oggetto della prova deve riguardare necessariamente l’animus donandi e, dunque, la volontà di attribuire il bene nella consapevolezza di non essere affatto tenuti a quella disposizione. Al pari, rientrano nell’oggetto della prova finalizzata a vincere la presunzione anche i motivi a sostegno dell’atto di liberalità, referenti ordinariamente irrilevanti in punto civilistico. L’avente causa a titolo gratuito, che intenda, pertanto, superare la presunzione normativa, è tenuto a provare anche i motivi interni e psicologici che abbiano indotto all’atto di liberalità, impegnandosi in ricostruzioni di ordine psicologico molto varie, come quelli di gratitudine, beneficenza, liberalità che, in ordinario, non costituiscono materia di prova innanzi al giudice [per approfondimenti: LAGANÀ]. Là dove l’intestazione sia, di converso, fiduciaria la presunzione sembra superabile solo con la prova dello scopo che, in concreto, ha determinato l’operazione negoziale, rivelando il contenuto in sostanza della causa concreta del pactum fiduciae e dei motivi che hanno determinato all’accordo negoziale. Si è sottolineato come ciò non basti e che il soggetto debba fornire anche la prova della buona fede, da intendere come mancanza di collegamento del proprio diritto con l’altrui condotta delittuosa ovvero offrire prova del proprio affidamento incolpevole [CASSANO, 347; Cass., S.U., 28.4.1999, n. 9, Bacherotti, in Riv. pen., 1999, 633]. L’altra fattispecie presuntiva (quella relativa ai trasferimenti ed alle intestazioni a titolo oneroso, effettuate nei due anni antecedenti la proposta, in favore di ascendenti, discendenti, coniuge e conviventi stabili, nonché dei parenti entro il sesto grado e gli affini entro il quarto), al pari della precedente, è superabile con l’allegazione dei fatti e degli elementi concreti che permettano di ritenere provato che il trasferimento sia stato reale e non solo formale. In epoca anteriore alla riforma, i giudici di legittimità avevano già interpretato il sistema ritenendo che il requisito di disponibilità si dovesse presumere, là dove i beni fossero risultati intestati ai soggetti di ci all’art. 2-bis legge n. 575/1965, categoria di soggetti separatamente considerata dalla norma rispetto agli altri terzi [per tutte da ultimo, Cass., 28.4.2005 (c.c. 2.3.2005), n. 15813, Terrasi ed altri; Cass., 25.1.2006 (c.c. 7.12.2005), n. 2960 (ord.), Rv. 233429, Nagano ed altro]. Il Codice antimafia positivizza, in sostanza, una parte degli orientamenti consolidatisi in via pretoria. I casi enucleabili nella prassi sono molteplici ed il problema probatorio si pone in termini differenziati a seconda della concreta modulazione della fattispecie. Rileva vieppiù a fronte di collegamenti negoziali, non infrequenti nella pratica. Si tratta di fattispecie in cui al trasferimento del bene faccia seguito il rilascio di mandati in rem propriam, in favore dell’alienante, con oggetto assolutamente ampio, relativo alla gestione del bene e, addirittura, alla vendita dello stesso, senza obbligo di rendiconto. In questi casi è chiaro che l’intestazione del bene sia solo formale e che il mandato coevo, rilasciato ex art. 1723 c.c., integri un collegamento negoziale che ha finalità di tenere appuntate in capo al mandatario (originario alienante) le facoltà ed i poteri che pertengono al

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diritto di proprietà. Si intende come in questi casi il tema probatorio si sposti addirittura sul piano oggettivo, integrando materia connessa al requisito strutturale di disponibilità in capo al proposto, requisito su cui il terzo titolare ha evidenti difficoltà nel soddisfare l’onere d’allegazione a discarico. 19. La confisca della cauzione. Alla violazione da parte del sottoposto degli obblighi o dei divieti derivanti dall’applicazione della misura di prevenzione, consegue la confisca della cauzione o l’esecuzione sui beni costituiti in garanzia sino alla concorrenza dell’ammontare della cauzione (art. 32 comma 1 Codice delle leggi antimafia, che riproduce art. 3-bis comma 6 legge n. 575/1965). Il provvedimento è di competenza del Tribunale che ha imposto la cauzione, che si pronunzia osservando le regole dell’udienza di prevenzione ed accertando la violazione incidenter tantum, non ritenendosi compatibile con la natura della misura, diretta all’immediata repressione della condotta del soggetto, l’attesa di una pronuncia definitiva del giudice penale in ordine all’eventuale esistenza del reato. Qualora, emesso il provvedimento di confisca della cauzione o l’esecuzione sui beni costituiti in garanzia, permangano le condizioni che giustificarono la cauzione, il Tribunale, su richiesta del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale del capoluogo di distretto ove dimora la persona, del direttore della Direzione investigativa antimafia o del questore ovvero del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale nel cui circondario dimora la persona di cui all’art. 4 comma 1 lett. c) Codice delle leggi antimafia e «con le forme previste per il procedimento di prevenzione», dispone che la cauzione sia rinnovata, anche per somma superiore a quella originaria (art. 32 comma 2 Codice delle leggi antimafia, già art. 3-bis comma 7 legge n. 575/1965). 20. La confisca ex art. 34 comma 7 Codice delle leggi antimafia. Nel termine di quindici giorni antecedenti la scadenza della amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche o del sequestro di cui all’art. 34 Codice delle leggi antimafia, il Tribunale – ove non disponga il rinnovo del provvedimento – delibera in camera di consiglio la revoca della misura ovvero la confisca dei beni che si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego (art. 34 comma 7 Codice delle leggi antimafia). Alla deliberazione può partecipare il giudice delegato. Vigente il regime del rapporto di necessaria interdipendenza tra misure di prevenzione personali e misure patrimoniali, questa ipotesi di confisca veniva definita «atipica» non tanto perché può essere disposta anche senza un previo

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sequestro, ma soprattutto perché colpisce persone nei cui confronti non ricorrono i presupposti per l’applicazione di una misura di prevenzione personale (già art. 3-quinquies comma 2 legge n. 575/1965).

21.

L’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche.

L’art. 34 Codice delle leggi antimafia contiene le regole prima previste dall’art. 3-quater legge n. 575/1965. In particolare, prevede che quando ricorrono «sufficienti indizi» per ritenere che l’esercizio di determinate attività economiche, anche imprenditoriali, sia direttamente o indirettamente sottoposto alle condizioni di intimidazione e di assoggettamento previste dall’art. 416-bis c.p. o che possa, comunque, agevolare l’attività delle persone nei cui confronti è stata proposta o applicata una misura di prevenzione ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti di cui all’art. 4 comma 1 lett. a) e b) Codice delle leggi antimafia e non ricorrono i presupposti per l’applicazione di una misura ante delictum, i soggetti attivi della proposta di prevenzione possono richiedere al Tribunale competente per l’applicazione della misura di prevenzione di disporre «ulteriori indagini e verifiche» nonché l’obbligo nei confronti di chi ha la proprietà o la disponibilità, a qualsiasi titolo, di beni o altre utilità di valore non proporzionato al proprio reddito o alla propria capacità economica, di giustificarne la provenienza (art. 34 comma 1 Codice delle leggi antimafia, in precedenza art. 3-quater comma 1 legge n. 575/1965). Le ulteriori indagini possono essere compiute anche a mezzo della guardia di finanza o della polizia giudiziaria. Le situazioni a cui si riferisce la disposizione sono rappresentate da uno stato di soggezione dell’impresa, che appare sottoposta alle condizioni di intimidazione e di assoggettamento tipiche del metodo mafioso ovvero da ogni altra ipotesi in cui l’esercizio dell’attività economica possa agevolare l’attività di coloro che sono sottoposti ad una misura di prevenzione o per i quali è stata avviata la proposta o ancora l’attività di persone sottoposte a procedimento penale per uno dei delitti indicati nell’art. 34 comma 1 Codice delle leggi antimafia. Gli atti di investigazione, che possono essere disposti dal Tribunale, consistono in accertamenti sull’attività economica, anche imprenditoriale, svolta. Potranno essere compiute, pertanto, perizie contabili e non si esclude la possibilità di acquisire sommarie informazioni dal titolare dell’attività economica o dell’impresa. Sulla base delle risultanze emerse da tali ulteriori indagini potranno, poi, essere assunti i provvedimenti di cui all’art. 34 comma 2 Codice delle leggi antimafia (in precedenza art. 3-quater comma 2 legge n. 575/1965). Tale norma prevede che quando ricorrono sufficienti elementi per ritenere che il libero esercizio delle attività economiche agevoli l’attività delle persone nei cui confronti è stata applicata o proposta una misura di prevenzione ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti di cui agli artt. 416-bis, 629, 630, 644, 648-ter e 648-ter c.p., il Tribunale

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dispone l’amministrazione giudiziaria dei beni utilizzabili, direttamente o indirettamente, per lo svolgimento delle predette attività. In effetti, va segnalato che non v’è coincidenza tra coloro che possono essere destinatari delle ulteriori indagini ai sensi del comma 1 e coloro che possono subire l’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche ai sensi del comma 2 art. 34 Codice delle leggi antimafia. L’amministrazione giudiziaria è adottata per un periodo non superiore a sei mesi e può essere rinnovata per un periodo non superiore complessivamente a dodici mesi, a richiesta dell’autorità proponente, del P.M. o del giudice delegato, allorquando permangano le condizioni in base alle quali è stata adottata (art. 34 comma 3 Codice delle leggi antimafia, già art. 3-quater comma 3 legge n. 575/1965). Quando vi è concreto pericolo che i beni sottoposti all’amministrazione giudiziaria vengano dispersi, sottratti o alienati, il Procuratore della Repubblica, il direttore della Direzione investigativa antimafia o il questore possono richiedere al Tribunale di disporne il sequestro. Questo ha una durata pari a quella indicata all’art. 34 comma 3 Codice delle leggi antimafia per l’amministrazione giudiziaria (art. 34 comma 9 Codice delle leggi antimafia, in precedenza art. 3-quater comma 5 legge n. 575/1965) [Cass., sez. V, 29.9.2007, P.F., inedita, in cui si rammenta che il sequestro, come la sospensione temporanea dell’amministrazione (oggi denominata amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche), è quindi destinato a svolgere una funzione meramente cautelare, che si radica sullo specifico presupposto del carattere per così dire ausiliario che una certa attività economica si ritiene presenti rispetto alla realizzazione degli interessi mafiosi]. Con il provvedimento con cui è disposta la revoca della misura, il Tribunale può prescrivere il controllo giudiziario, con cui stabilisce l’obbligo nei confronti di chi ha la proprietà, l’uso o l’amministrazione dei beni, o parte di essi, di comunicare, per un periodo non inferiore a tre anni, al questore ed al nucleo di polizia tributaria del luogo in cui si trovano i beni se si tratta di soggetti residenti all’estero, gli atti di disposizione, di acquisto o di pagamento effettuati, gli atti di pagamento ricevuti, gli incarichi professionali, di amministrazione o di gestione fiduciaria ricevuti e gli altri atti o contratti indicati dal Tribunale, di valore non inferiore a euro 25.822,84 o del valore superiore stabilito dal Tribunale in relazione al patrimonio o al reddito della persona. Tale obbligo deve essere assolto entro dieci giorni dal compimento dell’atto e comunque entro il 31 gennaio di ogni anno per gli atti posti in essere nell’anno precedente (art. 34 comma 8 Codice delle leggi antimafia, già art. 3-quinquies comma 3 legge n. 575/1965).

Bibliografia. ABBATTISTA, Misure di prevenzione patrimoniali antimafia e “pacchetto sicurezza” del 2008: un equilibrio instabile tra efficienza del sistema e recupero delle garanzie, in CASSANO (a cura di), Le

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Capitolo III

Circostanze aggravanti

Sommario

1. Circostanze aggravanti (art. 71). – 2. Reati concernenti le armi e gli esplosivi

1. Circostanze aggravanti (art. 71). Il Capo III del Titolo V del Codice antimafia, inerente alle sanzioni, si apre con due articoli sulle circostanze aggravanti, riproduttivi delle norme previgenti. L’art. 71 prevede un’aggravante ad effetto speciale applicabile a una serie di reati laddove siano posti in essere da persona sottoposta a misura di prevenzione con provvedimento definitivo. Il catalogo degli illeciti si è progressivamente ampliato nel tempo ed ha assunto stabilità con l’introduzione dei delitti previsti dagli artt. 600, 601 e 602 c.p., ad opera della legge n. 228/2003. Al comma 2 è prevista per tutti i delitti la procedibilità d’ufficio e la facoltà di arresto anche fuori dei casi di flagranza. 2. Reati concernenti le armi e gli esplosivi (art. 72). Anche in questo caso, così come nel precedente articolo, la norma ripropone senza variazioni le disposizioni dell’art. 9 legge n. 575/1996, che prevede l’applicazione di una circostanza aggravante a effetto speciale qualora a commettere i reati concernenti armi da guerra, armi comuni o alterate sia persona a misura di prevenzione con provvedimento definitivo.

Capitolo IV

Violazioni al Codice della strada

Sommario

1. Cenni storici e struttura della fattispecie. – 2. Il bene giuridico tutelato. – 3. Il soggetto attivo. – 4. I presupposti della condotta. – 4.1. La sottoposizione, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale in atto. – 4.2. La mancanza della patente. – 4.3. La negazione, sospensione o revoca della patente di guida. – 5. La condotta. – 6. L’elemento psicologico. – 7. Il concorso di persone nel reato. – 8. Il concorso di reati. – 9. La successione di leggi penali nel tempo. – Bibliografia.

1. Cenni storici e struttura della fattispecie. La fattispecie fu introdotta con la norma fondamentale in materia di misure di prevenzione, n. 575 del 31 maggio 1965. La legge, segnatamente agli artt. 5 e 6, prevedeva due nuove incriminazioni: l’allontanamento abusivo dal Comune di soggiorno obbligato e, per l’appunto, le ipotesi di guida senza patente – ovvero negata, sospesa, revocata – attuate dal sottoposto, con provvedimento definitivo, a misura di prevenzione. Rispetto alla versione attuale, quella previgente – oltre ad essere priva della rubrica – se ne differenziava per l’esplicito richiamo, in struttura, agli articoli del vecchio Codice della strada, introdotto con il d.p.r. n. 393/1959, che prevedevano, tra l’altro, quale requisito morale per l’ottenimento della patente di guida la condizione personale di non sottoposizione a misura di prevenzione. Tali richiami non sono stati modificati quando il vecchio Codice della strada è stato sostituito dal nuovo, approvato con il d.lgs. n. 285/1992. Attraverso l’eliminazione posta con il Codice antimafia, il legislatore è intervenuto sulla fattispecie per statuirne, in via definitiva, l’affrancamento dall’omologa contravvenzione prevista dal Codice della strada – soggetta quest’ultima a depenalizzazione (ex art. 119 d.lgs. n. 507/1999) e successiva, nuova incriminazione con il d.l. 3.8.2007, n. 117 – che nel passato aveva dato luogo a contrastanti pronunce della Suprema Corte [CAPOCCIA, 208].

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La questione interpretativa era sorta in occasione della successione tra vecchio e nuovo Codice della strada, con conseguente eliminazione degli artt. 82 e 91 comma 2 d.p.r. n. 393/1959, all’epoca richiamati dall’art. 6 legge n. 575/1965. Alcune sentenze della Suprema Corte ritennero inizialmente come l’integrale abrogazione del Codice della strada previgente avesse trascinato con sé anche la fattispecie posta a carico del sottoposto a misura di prevenzione, individuando nell’art. 116 del nuovo Codice della strada la norma più favorevole da applicare [Cass., sez. V, 13.6.1995, n. 7601]. In modo maggiormente consapevole, successiva giurisprudenza ha ritenuto l’autonomia tra le ipotesi di guida senza patente – o dopo che la medesima sia stata negata, sospesa, revocata – previste dal Codice della strada e il corrispondente fatto posto in essere da persona sottoposta a misura di prevenzione speciale [Cass., sez. V, 21.9.2006, n. 2655; per ulteriori indicazioni giurisprudenziali, BONILINI, 1223]. In realtà, l’indipendenza tra la fattispecie di guida senza patente prevista dal Codice della strada del 1959 e la simmetrica contravvenzione inserita nella legge del 1965 sulle disposizioni contro la mafia, era anzitutto ricavabile dalla scelta politico-criminale compiuta dall’originario legislatore, di non considerare il fatto commesso dal sottoposto a misura definitiva di prevenzione quale circostanza aggravante del reato di guida senza patente ma come modello avente vita normativa propria. In tal senso, altri indici significativi erano e sono costituiti dalla sensibile differenza tra la misura della pena prevista rispettivamente dalle due fattispecie che, già ampia all’origine – l’ordinaria guida senza patente era punita con l’arresto da tre a sei mesi e l’ammenda da 10 a 40 mila lire – risulta oggi ulteriormente divaricata in ragione della sola pena pecuniaria prevista nel caso di violazione dell’art. 116 Codice della strada, e dal fatto che in un caso si tratta di reato proprio e nell’altro di un reato comune.

È dunque sulla qualità della condizione personale dell’agente che poggia l’attitudine offensiva della condotta tipica, nella misura in cui il fine di tutela preventiva che caratterizza l’impianto del sistema in esame si concretizza in distinte forme repressive della potenziale pericolosità dell’agente [«La Corte ha, infatti, già avuto occasione di sottolineare la disomogeneità di siffatte situazioni: e questo è sufficiente a giustificare il diverso trattamento che il legislatore ha ritenuto di dettare per condotte materiali (nel caso, guida senza patente) indubbiamente uguali, ma giudicate di differente gravità in ragione di una circostanza inerente alla persona del colpevole», C. cost., 8.3.1984, n. 66]. Per tali ragioni si ritiene di non concordare con quella parte della più risalente giurisprudenza che tendeva ad assimilare la fattispecie prevista dall’allora vigente art. 6 legge n. 575/65 ad una circostanza aggravante dell’omologa contravvenzione prevista dal Codice della strada [Cass., sez. I, 8.5.1987, Grilli, in Cass. pen., 1988, 1943]. Con maggiore sensibilità, la Suprema Corte ha – in tempi più recenti – evidenziato la specificità del fatto commesso dal soggetto sottoposto a misura di prevenzione rispetto alla violazione prevista dall’art. 116 Codice della strada [Cass., sez. II, 4.11.2004, n. 9926].

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La fattispecie è di pura condotta e di pericolo astratto [sulle classificazioni del pericolo, PALAZZO, 71]. 2. Il bene giuridico tutelato. L’atipicità dell’impianto auto-conclusivo posto dal Codice antimafia – e il relativo ruolo servente svolto dal sottosistema dei reati in materia di misure di prevenzione – non può esonerare dal tentativo di fornire una risposta alla domanda inerente alla situazione di valore che le singole fattispecie tutelano, sfuggendo alla tentazione – pur qui magnetica – di ritenere le relative pene poste per la disobbedienza come tale. L’inosservanza a provvedimenti di tipo giurisdizionale ovvero emessi dall’amministrazione assume qui un ruolo strumentale e intermedio, anche considerato che – nel caso specifico – l’oggetto giuridico “sicurezza della circolazione” è già garantito dalla corrispondente fattispecie prevista dal Codice della strada [sul rapporto tra riserva di legge e atti del potere esecutivo, MARINUCCI, 100]. La norma tutela dunque la funzione di prevenzione dei reati assegnata all’Autorità, in ragione della pericolosità sociale delle classi di soggetti cui le fattispecie contenute nel Codice antimafia prevalentemente s’indirizzano [sulla tutela giuridica degli apparati funzionali, PALAZZO, 61; in giurisprudenza: Cass., sez. I, 30.5.2006, n. 20388]. 3. Il soggetto attivo. La contravvenzione può essere consumata solo da colui che, al momento della condotta, sia sottoposto, con provvedimento definitivo, a misura di prevenzione [Cass., sez. VI, 6.12.2007, n. 8910]. Tale condizione personale va intesa in modo tipico, tanto è vero che la fattispecie in esame risulta inapplicabile a soggetti che abbiano posto in essere la relativa condotta gravati però da altra tipologia di provvedimento, pur teso a prevenire la commissione di reati [Cass., sez. I, 8.5.1987, Grilli, in Cass. pen., 1988, 1943]. Si è, dunque, in presenza di un reato proprio, poiché la condizione giuridica dell’agente determina l’applicazione dell’art. 73 d.lgs. n. 159/2011 e non dell’art. 116 Codice della strada, in ragione dell’elemento specializzante inerente alla citata qualità personale [sulla differenza tra reati comuni, propri e “di mano propria”, C. FIORE, S. FIORE, 157]. 4. I presupposti della condotta. 4.1. La sottoposizione, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale in atto. – La possibilità di contestare la condotta previ-

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Le misure di prevenzione. Profili di diritto sostanziale

sta dall’art. 73 Codice antimafia è anzitutto subordinata alla condizione che sia stata applicata al soggetto agente, con provvedimento definitivo, una misura di prevenzione personale. Ciò comporta che la misura non sia più soggetta a impugnazione, ex art. 10 d.lgs. n. 159/2011, e l’interessato abbia avuto conoscenza della definitività del provvedimento. A tal proposito, è stato riconosciuto dalla Suprema Corte il carattere giurisdizionale del procedimento di prevenzione, dal quale deriva la natura sostanziale di sentenza del decreto con cui l’iter medesimo termina [Cass., S.U., 29.10.2009, n. 600; Cass., sez. VI, 2.2.2006, n. 11662, Castelluccia]. Inoltre, sempre secondo l’interpretazione costante della Cassazione, il decreto di sorveglianza speciale ancora soggetto a impugnazione ha efficacia esecutiva solo provvisoria e l’eventuale gravame proposto con ricorso introduce un vero e proprio giudizio di appello [Cass., sez. VI, 12.4.2005, n. 33925; Cass., sez. I, 14.7.2005, n. 35655]. Dunque, la prima condizione essenziale per la consumazione della contravvenzione in esame, è la definitività del provvedimento applicativo della misura di prevenzione personale, determinata dalla mancata promozione dell’impugnazione da parte del soggetto sottoposto a misura dal Tribunale ovvero dall’esperimento infruttuoso di tutti i rimedi previsti dall’art. 10, inerente alle impugnazioni. Non avendo i ricorsi alla Corte di Appello e alla Corte di Cassazione effetto sospensivo sulla vigenza della misura applicata dal Tribunale, l’agente potrà incorrere – in pendenza dei gradi successivi al primo – nella più lieve ipotesi di cui all’art. 116 Codice della strada, qualora ponga in essere la condotta corrispondente e quivi in esame. La condizione di sottoposto a misura di prevenzione personale non più impugnabile deve essere, nella sua interezza, recepita in forma tipica, con esclusione di tutti gli altri provvedimenti che possono, in via facoltativa, essere applicati dal questore, ex artt. 2 e 3 del decreto in commento [con riferimento al vecchio istituto della diffida, soppresso dall’art. 1 della legge n. 327/88, e all’avviso orale del questore, MOLINARI, 678]. Ovvero dei provvedimenti provvisori d’urgenza disposti dal Presidente del Tribunale in pendenza del procedimento applicativo di una misura di prevenzione personale, ex art. 9. Per essere configurabile il reato ex art. 73 Codice antimafia, la misura di prevenzione deve essere ancora vigente al momento della condotta [Cass., sez. VI, 6.12.2007, n. 8910, che richiama C. cost., 5.7.2001, n. 251, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 120 d.lgs. n. 285/1992.] 4.2. La mancanza della patente. – Le condizioni per l’ottenimento della patente di guida sono indicate nel Titolo IV del Codice della strada (d.lgs. n. 285/1992), nominato “Guida dei veicoli e conduzione degli animali”. Segnatamente, gli artt. 115 (“Requisiti per la guida dei veicoli e la conduzione

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degli animali”), 116 (“Patente e abilitazioni professionali per la guida di veicoli a motore”), 119 e 120 (“Requisiti fisici, psichici e morali per il conseguimento della patente di guida”), 121 (“Esame di idoneità”) e 126 (“Durata e conferma di validità della patente di guida”), identificano i requisiti personali, il procedimento amministrativo e le condizioni di validità del titolo abilitativo in oggetto. È da segnalare come tra i requisiti morali previsti dal vigente Codice della strada per il rilascio della patente di guida sia sempre presente – all’art. 120 – quello riguardante la mancata sottoposizione dell’istante, attuale o passata, a misura di prevenzione personale, in parziale linea di continuità con quanto prevedeva l’art. 82 del vecchio Codice. 4.3. La negazione, sospensione o revoca della patente di guida. – Le ipotesi di sospensione o revoca della patente di guida sono anch’esse previste nel titolo quarto del Codice della strada, agli artt. 129 e 130. Al capoverso dell’art. 120 è contemplata l’ipotesi specifica di revoca della patente di guida a colui che si trovi nelle condizioni soggettive di cui al primo comma – riguardanti, tra l’altro, l’applicazione passata o attuale di misure di prevenzione – successivamente al rilascio del titolo abilitativo. Nel precedente Codice della strada era contenuta, all’art. 91, una specifica ipotesi di sospensione della patente di guida per i soggetti diffidati dal questore, non più prevista nel d.lgs. n. 285/1992, anche a cagione della soppressione dell’istituto della diffida. 5. La condotta. Circoscritti i concetti normativi riguardanti i presupposti della condotta, il fatto naturalistico descritto nel tipo è di semplice identificazione e corrispondente all’omologa contravvenzione prevista dal Codice della strada, dalla cui elaborazione giurisprudenziale si può prender spunto per una ricognizione degli approdi della Suprema Corte sui non molti aspetti controversi di tipo interpretativo. In via preliminare, è d’uopo osservare come la condotta di guida senza patente riguardi veicoli per la conduzione dei quali è obbligatorio il possesso proprio di quel titolo autorizzativo, ma non di quelli per cui è previsto altro strumento di tipo abilitativo [Cass., sez. I, 16.5.2012, n. 113, in cui l’imputato era stato sorpreso alla guida di un veicolo mod. Ape 50; si veda anche Trib. Napoli, sez. IV, 2.10.2010, n. 11278, in cui l’agente era stato sorpreso alla guida di un motociclo in possesso di foglio rosa]. Sul punto specifico, in parte diversa è la disciplina riguardante il soggetto gravato da misura definitiva di prevenzione. Questi – cui sia stata sospesa la patente di guida proprio in ragione della sottoposizione alla sorveglianza speciale – non mantiene il diritto a guidare ciclo-

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motori, riconosciuto esclusivamente a coloro i quali il titolo sia stato sospeso per violazione dei limiti di velocità [Cass., sez. I, 10.2.2010, n. 9090]. È da ritenersi esaustivo e insuscettibile d’ampliamento, il catalogo delle cause per le quali l’agente non risulti essere in possesso di patente di guida [Cass., sez. IV, 5.6.2012, n. 32436, in cui l’imputato è stato assolto dal reato di guida senza patente perché ritirata]. Per guida di un veicolo s’intende la conduzione dello stesso sul territorio e non la mera accensione del motore ovvero l’essersi assiso al posto di guida a veicolo fermo [Trib. Lucera, 15.7.2011, in cui è stato precisato che il mezzo è stato effettivamente guidato dall’imputato, che aveva al contrario dichiarato di averne solo acceso il motore]. 6. L’elemento psicologico. Trattandosi nel caso di esame di contravvenzione, è indifferente la specie dell’elemento soggettivo di sostegno alla condotta materiale. L’originaria scelta è stata verosimilmente dettata da ragioni di semplificazione nell’accertamento del reato e di conseguente maggiore potenzialità repressiva, tanto è vero che dall’analisi della – invero non cospicua – giurisprudenza non si registrano pronunce incentrate sull’oggetto specifico. 7. Il concorso di persone nel reato. Pur essendo stato l’incauto affidamento di veicoli depenalizzato a seguito dell’entrata in vigore del nuovo Codice della strada, è possibile l’ipotesi di partecipazione materiale ovvero psichica da parte dell’extraneus, nelle forme dell’istigazione o determinazione, sussistendone tutti i presupposti di ordine rappresentativo e volitivo [Cass., sez. IV, 16.12.1994, Toro]. È interessante evidenziare che la norma in commento costituisce una delle non molte fattispecie per le quali la condizione personale di soggetto sottoposto a misura definitiva di prevenzione determina il mutamento del titolo di reato – anche per il concorrente non qualificato – ai sensi dell’art. 117 c.p. L’extraneus dovrà dunque essere a conoscenza dei presupposti della condotta tipica, ossia che l’agente sia sprovvisto di patente di guida nonché sia sottoposto a misura definitiva di prevenzione [sui rapporti tra l’art. 117 c.p. e i principi generali in tema di imputazione soggettiva, C. FIORE, S. FIORE, 536] 8. Il concorso di reati. La giurisprudenza di legittimità ritiene in modo conforme e costante il concorso tra il reato in esame e quello di cui al successivo art. 75 [Cass., sez. I,

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9.6.2010, n. 25122; anche, Cass., sez. I, 27.1.1987, Bellocco, in Cass. pen., 1988, 1944, e Cass., sez. I, 26.6.1972, La Torre]. 9. La successione di leggi penali nel tempo. L’art. 120 comma 1 lett. b) ha interamente abrogato la legge n. 575/1965. Essendovi evidente continuità del tipo d’illecito tra la disposizione prevista dall’art. 6 legge n. 575/65 e quella in commento non sussistono problemi di successioni di leggi penali nel tempo [in tal senso, CAPOCCIA, 208].

Bibliografia. BONILINI, CONFORTINI, Leggi penali complementari, a cura di GAITO, RONCO, Torino, 2009, 1223; CAPOCCIA, Il codice antimafia – Commento al d. Lgs. 6 settembre 2011, a cura di MALAGNINO, Torino, 2011; C. FIORE, S. FIORE, Diritto penale – Parte generale, Torino, 2008, 157; MARINUCCI, DOLCINI, Corso di diritto penale 1, Milano, 20013, 109 ss.; MOLINARI, PAPADIA, Le misure di prevenzione, Milano, 2002, 678; PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 2006, 69.

Capitolo V

Reati del pubblico ufficiale

Sommario

1. Cenni storici. – 2. Il bene giuridico tutelato. – 3. Il soggetto attivo. – 4. I presupposti della condotta. – 4.1. L’applicazione, con provvedimento definitivo, di una misura di prevenzione personale. – L’applicazione provvisoria in corso di procedimento. – 4.2. Gli effetti di decadenza o sospensione nei rapporti con la P.A. – La comunicazione al pubblico ufficiale. – 5. La condotta omissiva (comma 1). – 6. La condotta attiva (comma 2). – 7. L’illecita conclusione di contratti (comma 3). – 8. L’elemento psicologico. – 9. La successione di leggi penali nel tempo. – Bibliografia.

1. Cenni storici. Le fattispecie furono introdotte con l’art. 20 della legge 13.9.1982, n. 646 (c.d. “Rognoni-La Torre”), istitutiva – tra l’altro – del reato di associazione di tipo mafioso. La struttura dei delitti, ora radunati nell’art. 74 Codice antimafia sotto la rubrica “Reati del pubblico ufficiale”, era all’epoca già del tutto delineata per come oggi gli stessi si presentano, salve le modifiche che – una via l’altra – sono state successivamente poste, al fine di adattare il testo alle novità intervenute negli ambiti extrapenali di interferenza, come, ad esempio, in materia di appalto di lavori pubblici [in tal senso, MALAGNINO, 196]. Invero, con il d.l. 6.9.1982, n. 629, fu istituita, ai fini della prevenzione dei reati e della lotta contro la delinquenza mafiosa, la figura dell’Alto Commissario, con poteri di coordinamento tra gli organi amministrativi e di polizia, nonché di acquisizione dalle imprese costituite in forma di società, aggiudicatarie o partecipanti a gare pubbliche di appalto, di ogni indicazione utile per l’individuazione degli effettivi titolari delle azioni o quote sociali. Con il d.l. 8.8.1994, n. 490, agli allegati 1 e 3 sono state analiticamente individuate le cause di divieto, sospensione e decadenza, nonché gli atti, provvedimenti e contratti di cui all’art. 10 legge n. 575/1965, poi rieditati nell’art. 67 Co-

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dice antimafia, quali presupposti delle condotte delittuose in commento. Ulteriori adattamenti sono stati infine posti con la legge 19.3.1990, n. 55, tra i quali mette conto evidenziare, all’interno dell’attuale comma 3 dell’art. 74, la sostituzione della formula «consente la concessione» con la nuova «consente alla conclusione», che, pur maggiormente conforme al canone della precisione, non ha diradato le perplessità manifestate dalla dottrina sui profili di tipicità della fattispecie [GUERRINI, 109, valuta la modifica come non risolutiva in relazione al deficit di determinatezza della struttura delittuosa, che entra in rapporto di conflitto con l’art. 25 Cost. laddove si intenda estendere l’incriminazione «al di là della condotta afferente alla prestazione del consenso necessario per la stipulazione del contratto»; sul punto specifico, anche TAORMINA, 449]. Riguardo all’applicazione dei modelli in commento, nei circa trent’anni di vigenza non è dato riscontrare alcun precedente giurisprudenziale, di merito o di legittimità, segno che le incriminazioni – pur significative per l’articolazione delle rispettive strutture, il peculiare profilo di offensività e la punibilità a titolo di dolo e colpa – sono state partorite più che dalla ponderata riflessione su un fenomeno criminologico da dover reprimere, dai riverberi di una stagione legislativa che quasi imponeva l’edificazione di una trincea, quanto più alta possibile, attorno ai reati associativi di stampo mafioso e alle valutazioni sulla pericolosità sociale di determinate classi di persone. Le fattispecie in esame hanno, dunque, verosimilmente sofferto della loro artificiosità, restando tutt’oggi in vigore a dispetto della loro concreta disapplicazione nonché della emarginazione dal piano dell’elaborazione di tipo scientifico, quali reperti posti a monito delle manifestazioni simboliche del potere punitivo. 2. Il bene giuridico tutelato. Al fine di identificare e circoscrivere la situazione di valore tutelata dalla norma, è d’uopo segnalare alcuni indici ritenuti in tal senso significativi. Il primo riguarda la qualifica pubblicistica di tutti i soggetti attivi, compresa la nuova figura del contraente generale, con riferimento ad attività tipiche della pubblica amministrazione. Indi, la vasta latitudine repressiva della norma, che addirittura estende la punibilità anche ai fatti commessi con violazione colposa dei doveri d’ufficio, caso quasi unico nell’ambito dei delitti commessi dai pubblici ufficiali contro la p.a. Inoltre, la misura della pena che – sin anche con riguardo ai fatti colposi – risulta più intensa dell’ipotesi codicistica di omissione dolosa di atti d’ufficio, per certi riguardi paradigmatica rispetto alla fattispecie di cui al comma 1 dell’art. 74. Da ultimo, il richiamo integrale, contenuto nella struttura della norma in commento, all’art. 67 Codice antimafia, che prevede gli effetti tipici di decadenza o sospensione nei rapporti tra il sottoposto definitivo a misura di prevenzione – o anche al mero procedimento – e la pubblica amministrazione. La norma appare dunque tutelare la funzione di prevenzione dei reati asse-

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gnata all’Autorità – in ragione della riconosciuta (o ritenuta) pericolosità sociale dei soggetti sottoposti a misura di prevenzione – sotto l’angolo visuale della realizzazione dei compiti istituzionali della p.a. [sulla tutela dei beni istituzionali, PALAZZO, 59] 3. Il soggetto attivo. Come opportunamente precisato dalla rubrica della norma in esame, i delitti possono essere consumati solo da colui che, al momento della condotta, esercita una pubblica funzione amministrativa – qualifica che riguarda anche la figura del contraente generale, istituita dal d.lgs. n. 163/2006, art. 176, in relazione alle attività previste dal comma 3 dell’art. 74 Codice antimafia. Si è, dunque, in presenza di un reato proprio [sulla distinzione tra reati comuni e propri, C. FIORE, S. FIORE, 157]. 4. I presupposti della condotta.

4.1. L’applicazione, con provvedimento definitivo, di una misura di prevenzione personale. – L’applicazione provvisoria in corso di procedimento. – I modelli previsti dall’art. 74 Codice antimafia ricavano la loro piattaforma applicativa dal precedente art. 67, che disciplina, in estrema sintesi, gli effetti di decadenza, sospensione o inibizione nei rapporti tra il sottoposto definitivo a misura di prevenzione – o anche al mero procedimento – e la pubblica amministrazione. Presupposto principale delle condotte illecite è che la misura non sia più soggetta a impugnazione, ex art. 10 d.lgs. n. 159/2011, che soffre di un’unica eccezione, prevista dal comma 3 dell’art. 67, riguardante la facoltà del Tribunale – durante il corso del procedimento e per motivi particolarmente gravi – di sospensione, in via provvisoria, dei rapporti tra il proposto e la p.a. individuati nel comma 2. 4.2. Gli effetti di decadenza o sospensione nei rapporti con la P.A. – La comunicazione al pubblico ufficiale. – Ai sensi del capoverso dell’art. 67 Codice antimafia, il provvedimento definitivo di applicazione della misura di prevenzione determina gli effetti di decadenza nei rapporti con la p.a. nonché i divieti a concludere contratti con la medesima, richiamati dalla norma in modo casistico. Al comma successivo, è prevista – come già scritto – l’ipotesi di sospensione degli stessi rapporti in via meramente provvisoria.

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Lungo tutta la durata del procedimento di prevenzione solo il Tribunale può disporre il rilascio di autorizzazioni o concessioni al proposto ovvero consentire la conclusione di contratti tra il medesimo e la p.a., ex comma 6 dell’art. 67. I divieti e le decadenze già ampiamente citati sono disposti dal Tribunale – in questo caso, però, solo a seguito di provvedimento applicativo definitivo – anche nei confronti del convivente del sottoposto a misura di prevenzione e nei riguardi delle imprese, associazioni, società e consorzi delle quali il sottoposto stesso risulti amministratore legale o di fatto. Tutti i provvedimenti che incidono nei rapporti tra il soggetto gravato da misura definitiva di prevenzione – o il sottoposto a procedimento – e la p.a. sono comunicati al funzionario, dipendente, concessionario di opere o servizi e contraente generale, che – per proprie funzioni – debbono attivarsi per l’esecuzione dei relativi effetti ovvero debbono astenersi dal riconoscerli. 5. La condotta omissiva (comma 1). Reato di pura omissione, l’ipotesi in esame può essere analizzata avendo come punto di leva la condotta tenuta dal soggetto attivo nel delitto di omissione di atti d’ufficio, con la scontata differenza che, nel modello previsto dal Codice antimafia, la situazione tipica non contempla la figura del privato istante. Il comma 1 dell’art. 74 impone al pubblico ufficiale un obbligo di attivazione, che sorge con la comunicazione disposta al medesimo a seguito dell’emissione di un provvedimento definitivo – o anche provvisorio, in corso di procedimento – di applicazione della misura di prevenzione. Il termine di trenta giorni, indicato in fattispecie per il completamento del procedimento amministrativo, andrà riferito alla persona fisica competente, per sua specifica funzione, all’esecuzione dell’atto e inizierà a decorrere dal momento in cui il pubblico ufficiale ne ha preso effettiva cognizione e non da quello, eventualmente diverso, in cui l’atto – in ragione di una verosimile, complessa organizzazione dell’ufficio – è stato acquisito al protocollo. Il termine di trenta giorni coincide con quello generale previsto dalla legge 7.8.1990, n. 241, di conclusione, da parte del pubblico ufficiale competente, del procedimento amministrativo. Essendo analiticamente indicati gli atti amministrativi che il pubblico ufficiale deve compiere, alcun problema interpretativo si pone in relazione all’identificazione – nell’ipotesi di procedimenti complessi – dell’atto, tra i diversi, penalmente rilevante [DI MARTINO, 295]. Il reato è istantaneo e si consuma allo scadere infruttuoso del termine di trenta giorni, decorrente dall’effettiva conoscenza della comunicazione inoltrata al funzionario pubblico (in relazione all’art. 328 cpv. c.p. si veda Cass., 3.12. 1996, Palenzona). In caso di adesione a quella parte della giurisprudenza di legittimità che considera il “rifiuto” come espresso anche dalla «silente inerzia del pubblico ufficia-

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le» (Cass., 23.2.1998, Genco, in CED 1998/209979), la fattispecie in commento risulterà speciale rispetto all’art. 328 comma 1 c.p. In virtù delle ipotizzabili difficoltà di prova del dolo di omissione nelle contestazioni di tipo monosoggettivo, il modello in esame – come gli altri due previsti dall’art. 74 – risulta punibile anche a titolo di omissione colposa dei doveri d’ufficio [FIANDACA, 227, in cui l’Autore evidenzia che si rischia comunque di gravare il pubblico ufficiale di una sorta di responsabilità obiettiva «se si considera che l’esigibilità di una condotta diligente potrebbe essere messa in forse da un’obiettiva carenza di funzionamento dell’ufficio interessato»]. 6. La condotta attiva (comma 2). L’ipotesi di cui al capoverso penalizza – in modo speculare rispetto alla fattispecie omissiva – le condotte attive del pubblico ufficiale che, pur a conoscenza della comunicazione proveniente dal Tribunale, compie le attività inibitegli, in tema di rilascio di licenze, concessioni, autorizzazioni ovvero d’iscrizioni, attestazioni di qualificazione e concessione di erogazioni. In linea teorica, la costruzione in forma attiva della condotta semplifica i disagi di tipo ricostruttivo-probatorio che affliggono il modello analizzato al punto precedente, anche se, sul piano della fenomenologia di tipo empirico, il fatto naturalistico in esame si presta – nella forma monosoggettiva – a essere giustificato sul piano delle scelte di politica criminale più come violazione colposa dei doveri d’ufficio che come delitto doloso. Le eventuali ipotesi di partecipazione tra il pubblico ufficiale e l’extraneus potrebbero, comunque, rilevare quali fatti di corruzione o abuso d’ufficio. Il momento consumativo del delitto va identificato con l’emissione dell’atto inibito. 7. L’illecita conclusione di contratti (comma 3). Si sono già anticipati i consistenti dubbi della dottrina sulla genericità descrittiva della condotta, non temperata dalla modifica normativa che ha sostituito la formula «consenta la concessione in appalto o in subappalto di opere riguardanti la pubblica amministrazione» in «consente alla conclusione di contratti o subcontratti in violazione dei divieti previsti dall’art. 67» [MOLINARI, 722]. Taluni autori evidenziano il contrasto con l’art. 25 Cost., sotto il profilo della carenza di precisione, rilevando inoltre, dal punto di vista politico-criminale, l’arbitrarietà di una scelta che estenderebbe l’incriminazione «ad ogni altra forma di cointeressenza alla formazione della fattispecie contrattuale, persino in termini di agevolazione» [Guerrini, 109]. Soprattutto con riferimento a questo modello, si avverte pregnante l’effetto

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simbolico che s’intendeva verosimilmente trasferire attraverso la penalizzazione di condotte che – in assenza della fattispecie in esame – sarebbe comunque rifluite nell’alveo dei delitti di corruzione o abuso d’ufficio. 8. L’elemento psicologico. Anche nella scelta dell’elemento psicologico, il legislatore del 1982, mostrando uniforme volontà repressiva, ha ritenuto di non dover operare selezione alcuna tra i distinti modelli, punendo ogni condotta a titolo di dolo e di colpa. 9. La successione di leggi penali nel tempo. L’art. 120 comma 1 lett. b) ha interamente abrogato la legge n. 575/1965. Essendovi evidente continuità del tipo d’illecito tra le disposizioni previste dagli artt. 10-bis commi 7, 8 e 9, 10-quinquies legge n. 575/1965 e quella in commento, non sussistono problemi di successioni di leggi penali nel tempo [CAPOCCIA, 209].

Bibliografia. BONDI, DI MARTINO, FORNASARI, Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 2004, 295; CAPOCCIA, in MALAGNINO (a cura di), Il codice antimafia – Commento al d. Lgs. 6 settembre 2011, Torino, 2011, 209; FIANDACA, in Foro it., 1984, 227; C. FIORE, S. FIORE, Diritto penale – Parte generale, Torino, 20083, 157; GUERRINI, MAZZA, Le misure di prevenzione: profili sostanziali e processuali, Padova, 1996, 109; MALAGNINO (a cura di), Il codice antimafia – Commento al d. Lgs. 6 settembre 2011, Torino, 2011, 196; MOLINARI, PAPADIA, Le misure di prevenzione, Milano, 2002, 722; PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 20062, 57; TAORMINA, in Giust. pen., II, 1990, 449.

Capitolo VI

Violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale

Sommario

1. Cenni storici. – 2. Il bene giuridico tutelato. – 3. Il soggetto attivo. – 4. La struttura della norma. – 5. I presupposti della condotta. – 5.1. L’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. – 5.2. Gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale. – 5.2.1. Le prescrizioni di “genere”. – 5.2.2. Le prescrizioni specifiche. – 6. La condotta. – 7. L’elemento psicologico. – 8. Questioni di legittimità costituzionale. – 9. La successione di leggi penali nel tempo. – Bibliografia.

1. Cenni storici. Le due fattispecie previste nell’art. 75 comma 1 e capoverso del Codice antimafia costituiscono l’esito di un’articolata sedimentazione legislativa, iniziata con la legge fondamentale in tema di misure di prevenzione n. 1423/1956, nella quale, all’art. 9 si prevedeva solo l’ipotesi contravvenzionale, limitata alle prescrizioni e non agli obblighi. La legge n. 497/1974, all’art. 8, modificò la contravvenzione sostituendo al sostantivo “prescrizioni” il termine “obblighi”, e introdusse altresì l’ipotesi d’inosservanza della sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, anch’essa sotto forma di contravvenzione punita con l’arresto da 6 mesi a 2 anni. La legge “Rognoni-La Torre” del 1982 convertì in delitto quest’ultimo modello, portando la sanzione da un minimo di due a un massimo di cinque anni di reclusione. Con la legge n. 356/1992, è stato abbassato il minimo edittale per l’ipotesi delittuosa ed è stato introdotto l’attuale terzo comma riguardante la possibilità di arresto da parte degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria – in relazione al delitto – anche fuori dai casi di flagranza. Da ultimo, il d.l. n. 144/2005 ha specificato che – sempre con riferimento al delitto – l’inosservanza deve riguardare gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno. 15.

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2. Il bene giuridico tutelato. Le fattispecie tutelano la funzione di prevenzione dei reati assegnata all’Autorità, in ragione della pericolosità sociale dei soggetti destinatari degli obblighi e prescrizioni conseguenti all’applicazione della misura della sorveglianza speciale [sulla differenza tra tutela delle funzioni e interessi strumentali, PALAZZO, 57]. La Suprema Corte scrive, in maniera tranciante, d’interesse all’ordine e alla sicurezza pubblica [Cass., sez. I, 4.7.2012, n. 30995]. 3. Il soggetto attivo. Il fatto di cui alla contravvenzione può essere consumato solo da colui che, al momento della condotta, sia sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale. Nell’ipotesi delittuosa, all’agente deve essere anche stato applicato l’obbligo o il divieto di soggiorno. Si è, dunque, in presenza di reati propri. 4. La struttura della norma. Al comma 1 è prevista l’ipotesi contravvenzionale, riguardante l’inosservanza agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale cosiddetta semplice, mentre al capoverso è contemplato il delitto, per il caso in cui la violazione degli obblighi e prescrizioni riguardi l’ulteriore, peculiare contenuto precettivo del decreto emesso dal Tribunale, inerente al divieto di soggiorno del sottoposto in uno o più comuni, diversi da quelli di residenza o di dimora abituale o in una o più province, ovvero all’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale, ex art. 6 Codice antimafia. Prima della riforma del 2005 – che ha specificato come, con riguardo al delitto, l’inosservanza debba riguardare gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno – la giurisprudenza tendeva a operare una distinzione tra una parte di prescrizioni comune alle due ipotesi, che in caso di violazione determinavano l’applicazione dell’ipotesi contravvenzionale, e una parte relativa solo al modello delittuoso, inerente alla violazione specifica dell’obbligo o del divieto di soggiorno [Cass. pen., sez. I, 20.10.1985, De Silvia; favorevoli a tale interpretazione, prima della modifica normativa: TAORMINA, 393, MOLINARI, 569; contra, già prima della modifica normativa, SIGNORINO, 40]. Dopo la modifica normativa, la giurisprudenza della Suprema Corte ha precisato che – nel caso in cui la misura della sorveglianza speciale sia qualificata dall’ulteriore contenuto precettivo costituito dal divieto o dall’obbligo di sog-

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giorno – l’inosservanza di qualsiasi prescrizione determina l’applicazione della fattispecie delittuosa [Cass., sez. I, 17.12.2012, n. 474; con riferimento specifico alla riforma, si veda anche Cass., sez. I, 6.11.2008, n. 47766]. Rispetto a tale, consolidata interpretazione della Suprema Corte, è dato ancora riscontrare qualche isolata pronuncia di merito che mantiene la partizione oggetto del sorpassato orientamento [App. Torino, sez. I, 5.10.2009, n. 3074]. Pur senza indicazione espressa, l’art. 9 rinvia al precedente con riferimento al catalogo delle prescrizioni – che deve intendersi dunque aperto – specificamente prevedendosi al comma quinto la facoltà del Tribunale di imporre al sottoposto le ulteriori prescrizioni stimate necessarie con riferimento alle esigenze di difesa sociale. Tale tecnica normativa la dottrina ritiene conforme al principio della riserva di legge – dagli angoli visuali dell’integrazione della disposizione da parte del potere giudiziario e del principio di precisione – a condizione che sia chiaramente identificabile la classi dei provvedimenti giurisdizionali all’interno della quale si iscrive quello materialmente emesso dall’autorità e violato dall’agente [MARINUCCI, 209; C. FIORE, S. FIORE, 157; PULITANÒ, 318; critico, con specifico riferimento all’ambito in esame: BRICOLA, 50]. Anche la giurisprudenza di merito e di legittimità – pur evidenziando che «il sistema non è però totalmente ispirato a criteri di tassatività» [Cass., sez. I, 17.2.1999, n. 8764] – ritiene la norma non in attrito con i dettami costituzionali, nella misura in cui, dal punto di vista dell’integrazione proveniente dal potere giudiziario, scrive di un «certo margine di discrezionalità lasciato al giudice», per la necessità di «meglio adeguare gli obblighi stessi» rispetto alla personalità e pericolosità del soggetto, in vista delle finalità da raggiungere [Cass., sez. I, c.c. 28.10.1999, n. 5370]. Per quel che concerne il principio della riserva di legge, sub specie canone della precisione, la giurisprudenza di merito ritiene che il Giudice chiamato a decidere dell’eventuale violazione della prescrizione facoltativa applicata al sottoposto, debba farsi carico della verifica di «conformità alla legge del provvedimento medesimo, che costituisce un presupposto della norma incriminatrice» [Trib. Bari, 19.1.2001, Di Bari, in Giur. merito, 2001, 1075]. Ciò che sarebbe, invece, inibito al Tribunale è l’applicazione delle prescrizioni tipiche contenute nella norma con modalità differenti tali da renderle sostanzialmente riconducibili ad altra tipologia di misura afflittiva [Cass., sez. I, 22.6.2010, Motisi, Lo Presti, in Cass. pen., I, 1991, 2042]. Con riferimento agli effetti di revoca del decreto applicativo di una misura di prevenzione, questi operano ex tunc – travolgendo altresì il giudicato già intervenuto, con il limite dell’eventuale sua irrevocabilità – qualora sia accertata l’originaria mancanza delle condizioni che legittimavano l’adozione della misura [Cass., sez. I, 9.11.1995, Palumbo, in Cass. pen., 1996, 3465]. Opereranno ex nunc nel caso in cui la revoca o la modifica sia pronunciata per una causa sopravvenuta rispetto a quella che aveva determinato l’applicazione della misura.

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5. I presupposti della condotta. 5.1. L’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. – A differenza di quanto prevedono le fattispecie ex artt. 73 e 74 Codice antimafia, i due reati contenuti nella norma in commento possono essere consumati in presenza dell’applicazione della sorveglianza speciale ancora soggetta a impugnazione, mancando ogni riferimento alla definitività del provvedimento emesso dal Tribunale. 5.2. Gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale. 5.2.1. Le prescrizioni di “genere”. – Sono previste al comma 4 dell’art. 8 Codice antimafia e sono costituite dal fatto di vivere onestamente e di rispettare le leggi. Nell’attuale versione di tale norma, non è stata più riproposta la terza prescrizione di genere, originariamente contenuta nell’art. 5 legge n. 1423/1956, di non dare ragioni di sospetti, ritenuta dalla Corte Costituzionale, nel recente passato, la «proiezione esterna del comportamento di chi osservi, appunto, il più generale precetto, costituzionalmente imposto a chiunque, di “vivere onestamente”» [C. cost., 27.12.2003, n. 354 (ord.)]. A causa del generalissimo contenuto delle due prescrizioni sopravvissute, la norma è stata sottoposta all’esame della Consulta per contrasto con il principio di precisione, e dalla Corte ritenuta non in conflitto con l’art. 25 Cost., sia per il contesto entro il quale sono iscritte – che ne rende il contenuto medesimo concreto e cogente – sia per la particolare condizione della categoria di soggetti alla quale esse si indirizzano [C. cost., 23.7.2010, n. 282]. In precedenza, la Corte aveva però ritenuto tali contenuti generali come non suscettibili di poter essere considerati «alla stregua di specifici “obblighi” penalmente sanzionati» [C. cost., 27.12.2003, n. 354 (ord.), in Cass. pen., 2004, 1239, con nota di Molinari e commento di Romeo]. A dispetto di orientamenti giurisprudenziali oramai lontani nel tempo – tendenti a escludere la possibilità d’integrazione del reato in esame per la violazione delle prescrizioni di genere [Cass., sez. II, 5.2.1969, Suigo, in Cass. pen., 1970, 744] – la Suprema Corte ritiene oramai stabilmente sia le ipotesi di concorso formale tra il reato proprio in commento e reati comuni, sia la consumazione del primo a seguito della commissione di un illecito amministrativo, con l’unico limite della «lesione o messa in pericolo dell’interesse all’ordine e alla sicurezza pubblica tutelato dalla norma incriminatrice» [Cass., sez. I, 4.7.2012, n. 30995; Cass., sez. I, 20.6.2012, n. 26161]. Di segno contrario, alcune pronunce di merito [in particolare: App. Bari, sez. III pen., 23.6.2011, nella quale si osserva come la soluzione opposta, per quanto accreditata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 282/2010, implicherebbe la lesione dei principi di uguaglianza, proporzionalità e finalizzazione riedu-

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cativa della pena, illegittimamente costruendo una fattispecie fondata solo sulle qualità personali dell’autore]. 5.2.2. Le prescrizioni specifiche. Divieto di detenere armi. Al capoverso dell’art. 67 Codice antimafia è prevista la decadenza di diritto, quale effetto del provvedimento definitivo applicativo di una misura di prevenzione, della licenza per detenzione e porto d’armi. In ogni caso, l’esecuzione della misura della sorveglianza speciale, pur provvisoria, costituisce il presupposto la cui violazione determina la consumazione del reato. La giurisprudenza ha con costanza affermato che la prescrizione deve intendersi riferita solo alle armi proprie e va interpretata in senso restrittivo [Cass., sez. I, 13.1.2010, Gallifuoco]. Dottrina e giurisprudenza ritengono normalmente praticabile il concorso tra la violazione del divieto specifico commessa dal sorvegliato speciale e le disposizioni di legge che puniscono il porto e la detenzione abusivi di armi [per la configurabilità del concorso, in dottrina: C. MACRÌ, V. MACRÌ, 77; SICLARI, 167; contra, SIGNORINO, 41; in giurisprudenza: Cass., sez. II, 24.1.1962, Caputo, in Cass. pen., 1962, 952]. Divieto di allontanamento dalla propria dimora. Si registra un orientamento contrastante della Corte di Cassazione con riferimento alla necessità di ottenere l’assenso da parte dell’autorità di p.s. ovvero alla sufficienza della mera comunicazione di spostamento [In favore della tesi per la quale la norma richieda solo il preavviso: C. MACRÌ, V. MACRÌ, 76; SICLARI, 167; GUERRINI, MAZZA, 94; in giurisprudenza, la tesi più restrittiva è sostenuta da Cass., sez. I, 30.1.1978, Tripodi, in Cass. pen., 1979, 98; contra, la datata Cass., sez. I, 15.1.1965, Piscopia, in Giust. pen., II, 1966, c. 696]. La giurisprudenza ritiene che il preavviso non possa esser dato a mezzo telegramma ma debba essere comunicato al capo dell’ufficio di p.s. ovvero al comando dei carabinieri con competenza sul comune di residenza del vigilato. La giurisprudenza – oramai consolidata – ritiene il reato permanente [Cass. Sez. I, 27.1.1986, Albanesi, in Cass. pen., 1987, 816]. Divieto di associazione abituale con determinate persone. Il reato è a condotta plurima e per ritenersi consumato necessita di una frequenza, abitualità e serialità di incontri, contatti o rapporti con persone che hanno subito condanne e sono state sottoposte a misure di prevenzione [Cass., sez. I, 14.11.1997, Barelli, in Cass. pen., 1998, 3099]. Da segnalare che la Consulta, con una datata ma significativa pronuncia della quale fu Relatore il Prof. Biagio Petrocelli, richiamò il Giudice penale sulla necessità di contemperare il contenuto dei divieti previsti dalla norma con i diritti fondamentali della persona [«D’altra parte al giudice penale, cui la indagine spetta, non dovrà sfuggire né il carattere eccezionale delle limitazioni di libertà in que-

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stione, che non può riflettersi sul significato da attribuire ai termini adoperati dalla legge, né la distinzione, che certo merita di essere considerata, fra i contatti sociali che la legge specificamente indica come pericolosi e quelli che costituiscono il normale e quotidiano svolgimento dei rapporti della vita, inibito di regola soltanto a chi è sottoposto a misure detentive» C. cost., 5.5.1959, n. 27] Divieto di partecipare a pubbliche riunioni. Il contenuto precettivo appare confliggere con diritti fondamentali della persona. La Consulta, cui è stato reiteratamente rimesso il vaglio di legittimità della norma, ha affermato che l’interpretazione del contenuto precettivo della medesima non può comunque incidere sul diritto alla libera manifestazione del pensiero e alla partecipazione alla vita democratica, alle funzioni di culto e alle riunioni sportive [C. cost., 5.5.1959, n. 27, già citata; si veda anche Cass., sez. I, 24.10.2007, Pesce, che ha ritenuto l’integrazione del reato nella condotta tenuta dal soggetto recatosi ad assistere ad un incontro di calcio]. Obbligo di permanenza in casa e divieto di uscita dall’abitazione in determinate ore senza comprovata necessità e senza autorizzazione. Per l’applicazione concreta della norma è indispensabile il rinvio al decreto che istituisce la sorveglianza speciale, specificativo della fascia oraria nella quale il sottoposto alla misura può uscire dall’abitazione. Le due condizioni della comprovata necessità e del previo avviso all’autorità locale di p.s. debbono sussistere in modo congiunto per escludere il contenuto di tipicità dell’illecito [Cass., sez. I, 4.3.1986, Russo, in Cass. pen., 1987, 2025]. Il primo dei due requisiti è stato precisato dalla giurisprudenza di legittimità nei termini della esigenza improvvisa, rilevante, impellente e non procrastinabile senza un concreto pregiudizio della sfera personale o patrimoniale del sottoposto. La pur minima violazione dei tempi statuiti nel decreto, nel senso dell’anticipazione o del ritardo, determina l’integrazione del reato, potendo essere valutata dal Giudice solo ai fini della misura della pena [Cass., sez. I, 11.1.1989, Barbieri, in Cass. pen., 1990, 677]. Controversa nella giurisprudenza di legittimità la possibilità di ritenere giustificato il fatto tipico determinato da esigenze di tipo lavorativo del sottoposto [più severa la recente giurisprudenza: Cass., sez. I, 9.7.1986, Federici; contra Cass., sez. I, 18.5.1973, Kuppelwiesere]. L’obbligo di esibizione della carta di permanenza. Larga parte della giurisprudenza di legittimità sulla fattispecie in commento riguarda l’esibizione della carta di permanenza – consegnata all’interessato al momento dell’applicazione della sorveglianza speciale – a ogni richiesta dell’autorità di p.s., contenuta in un comma diverso da quelli che riguardano strettamente le prescrizioni. Il contrasto inerisce all’applicabilità del modello in esame ovvero dell’art. 650 c.p., evidentemente ritenuta norma generale rispetto a tutte le violazioni in commento.

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V’è da evidenziare solo come – a parte la collocazione eccentrica del comma in questione – sul piano lessicale non è utilizzato, a differenza che nelle altre ipotesi, il termine prescrive [Pretore Brindisi, sezione distaccata di Oria, 10.3. 1999, Epifani, in Foro it., II, 2000, c. 319, in cui si è esclusa la configurabilità del reato con riferimento alla occasionale dimenticanza della carta di permanenza, mancando nel caso di specie la necessaria offensività, ossia la messa in pericolo, sia pure potenziale, del bene giuridico della sicurezza pubblica]. -

6. La condotta. I due reati sono di pura condotta e di pericolo astratto [per la differenza tra reati di offesa e reati di mero scopo nonché per le classificazioni del pericolo: PALAZZO, 69]. Seppur non concorrano le prescrizioni ad individuare il fatto illecito, dal punto di vista dell’accertamento giudiziale integrano la norma al fine di acclarare la responsabilità dell’agente. 7. L’elemento psicologico. La contravvenzione di cui al primo comma è, in quanto tale, punita indifferentemente a titolo di dolo generico o colpa [Cass., sez. I, 23.10.1987, Di Lauro, in Cass. pen., 1989, 285]. La violazione o meno di una regola di diligenza potrebbe rilevare con riferimento ad alcuni contenuti precettivi concreti, come quello, ad esempio, relativo all’ambito orario di rientro nell’abitazione [in tal senso: Cass., sez. I, 5.2.1989, Cirinna, in Cass. pen., 1987, 1456]. Con riferimento alle ipotesi di cd. “buona fede” non è dato riscontrare pronunce successive alla dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p. ad opera della celebre C. Cost. n. 364/88. Nella giurisprudenza di legittimità precedente alla Sentenza della Consulta, i casi d’ignoranza o di errore sono stati normalmente ritenuti inescusabili [per un’esaustiva ricognizione del panorama giurisprudenziale in argomento: MOLINARI, PAPADIA, 342]. 8. Questioni di legittimità costituzionale. Di alcune, relative al contrasto delle prescrizioni di “genere” con il principio della riserva di legge e del canone di precisione, si è già scritto. Così come anche dell’attrito, in particolare, tra la prescrizione inerente al divieto di partecipare a pubbliche riunioni e l’art. 2 Cost.

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V’è, inoltre, da segnalare la remissione alla Consulta di questione di legittimità della norma per contrasto con l’art. 3 Cost. «sotto il diverso profilo dell’irrazionale e discriminatoria duplicazione della pena, per il fatto che colui che sia sottoposto alla sorveglianza speciale debba rispondere, insieme, di violazione degli obblighi particolari impostigli e di violazione della norma di diritto comune», risolta dalla Corte, così come in altre occasioni, attraverso il riferimento alla condizione personale del sottoposto a misura di prevenzione [C. cost., 25.5.1976, n. 76; si veda anche C. cost., 22.5.2009, n. 161 sulla denunciata irragionevolezza del trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 75 Codice antimafia in relazione all’art. 388 c.p., risolta dalla Corte con riferimento alla diversità dei rispettivi contesti di riferimento]. 9. La successione di leggi penali nel tempo. L’art. 120 comma 1 lett. a) ha interamente abrogato la legge n. 1423/1956. In sede di primo commento all’introduzione del Codice antimafia, è stata con puntualità evidenziata la mancata riedizione, nel decreto legislativo medesimo, dell’ipotesi speciale di abusivo allontanamento dal comune di residenza del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale, in violazione dell’obbligo di soggiorno, prevista dall’art. 5 legge n. 575/1965 e punita con la reclusione da due a cinque anni. Essendo stata integralmente abrogata la legge n. 575/1965 dall’art. 120 comma 1 lett. b) del Codice antimafia, per il delitto commesso prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo, si applicherà la norma più favorevole – il capoverso dell’art. 75 – ex art. 2 comma 4 c.p., con l’ovvio limite del giudicato irrevocabile [CAPOCCIA, 210].

Bibliografia. BRICOLA, Forme di tutela “ante delictum” e profili costituzionali della prevenzione, in AA.VV., Le misure di prevenzione, Milano, 1975, 50; CAPOCCIA, Le norme penali, processuali e gli strumenti investigativi, in MALAGNINO (a cura di), Il codice antimafia – Commento al d. Lgs. 6 settembre 2011, Torino, 2011, 210; C. FIORE, S. FIORE, Diritto penale – Parte generale, Torino, 20083, 157; GUERRINI, MAZZA, Le misure di prevenzione: profili sostanziali e processuali, Padova, 1996, 109; C. MACRÌ, V. MACRÌ, La legge antimafia, Napoli, 1983, 77; MALAGNINO (a cura di), Il codice antimafia – Commento al d. Lgs. 6 settembre 2011, Torino, 2011, 196. MARINUCCI, DOLCINI, Corso di diritto penale 1, Milano, 20013, 209; MOLINARI, Misure di prevenzione, in Enciclopedia del diritto, II aggiornamento, Milano, 1998, 569; MOLINARI, PAPADIA, Le misure di prevenzione, Milano, 2002, 722; PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 20062, 57. PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, 318; SICLARI, Le misure di prevenzione, Milano, 1974, 167; SIGNORINO, Le nuove norme in materia di soggiorno obbligato e di intercettazioni telefoniche, Milano, 1984, 41; TAORMINA, Il procedimento di prevenzione nella legislazione antimafia, Milano, 1988, 393.

Capitolo VII

Altre sanzioni penali

Sommario

1. La violazione delle autorizzazioni ad allontanarsi dal comune di residenza (art. 76 comma 1). – 2. La violazione al divieto di possesso di strumenti, apparati, mezzi e programmi imposto con avviso orale del questore (art. 76 comma 2). – 3. Le contravvenzioni al foglio di via obbligatorio (art. 76 comma 3). – 4. La mancata ottemperanza all’ordine di deposito della cauzione (art. 76 comma 4). – 5. L’elusione del provvedimento di amministrazione giudiziaria (art. 76 comma 5). – 6. L’omissione delle comunicazioni per l’amministrazione giudiziaria (art. 76 comma 6). – 7. L’omissione delle comunicazioni di variazioni patrimoniali (art. 76 comma 7). – 8. Il divieto di propaganda elettorale (art. 76 commi 8 e 9). – Bibliografia.

1.

La violazione delle autorizzazioni ad allontanarsi dal comune di residenza (art. 76 comma 1).

Il comma 1 dell’art. 76 riprende in modo fedele la fattispecie prevista dall’art. 7-ter della legge n. 1423/1956 – introdotta con la “Rognoni-La Torre” – risultando, per questo, connotata dalle caratteristiche repressive che hanno improntato il momento storico di varo della legge. Innanzitutto, la severa misura della sanzione, poi quello che dalle riforme del 1982 a venire costituirà sorta di refrain per le ipotesi di inosservanza agli obblighi e alle prescrizioni imposte ai sorvegliati speciali “qualificati”: l’arresto facoltativo anche fuori dei casi di flagranza, con la legge n. 306/1992 esteso anche alle ipotesi di cui all’art. 9 della legge n. 1423/1956, confluite nell’art. 75 Codice antimafia. In sede di primi commenti alla introduzione della fattispecie, autorevole dottrina evidenziò sia l’estremo rigore della pena, sia la mancata opera selettiva del legislatore rispetto a fatti che – tutti sanzionati in modo omogeneo – potevano celare caratteristiche affatto diverse per disvalore di azione ed offesa [RUSSO, 17; BRICOLA, 237].

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Per quel che concerne la collocazione sistematica del modello in esame, corrisponde al vero come il medesimo potesse essere inserito nell’attuale art. 75 Codice antimafia, che sanziona – in coordinamento con il precedente art. 8 – la violazione delle prescrizioni e degli obblighi inerenti alla misura della sorveglianza speciale, piuttosto che essere previsto all’interno di una norma di tipo residuale, ricetto per fattispecie in rapporto di reciproca eterogeneità [CAPOCCIA, 213]. La fattispecie è a condotte alternative, che si esplicano in forma di violazioni al contenuto di disciplina del decreto autorizzativo del Tribunale – riguardante il periodo di allontanamento, comunque non superiore a 10 giorni – e alle disposizioni impartite al sorvegliato speciale dall’autorità di pubblica sicurezza deputata alla sua vigilanza, relative alle modalità e all’itinerario del viaggio. Per la compiuta interpretazione della norma, occorre operare riferimento all’art. 12 Codice antimafia – cui esplicitamente la prima rinvia – che disciplina le condizioni per la presentazione dell’istanza di autorizzazione; la relativa fase procedimentale; il contenuto del decreto e la vigilanza dell’autorità di p.s. sul rispetto delle prescrizioni; il regime di impugnazione del decreto, previsto nella forma del solo ricorso per Cassazione, non sospensivo dell’efficacia del provvedimento. Il d.lgs. n. 159/2011 ha affiancato a quella che nel precedente art. 7-bis della legge n. 1423/1956 era l’unica causa idonea a poter essere esibita dal sottoposto al Tribunale (i gravi e comprovati motivi di salute), altra ragione finalizzata ad ottenere il provvedimento di allontanamento. Difatti, nell’art. 12 Codice antimafia è stato inserito all’interno del comma 1 un secondo periodo, che introduce un ulteriore motivo spendibile per l’inoltro della richiesta: la ricorrenza di «gravi e comprovati motivi di famiglia che rendano assolutamente necessario ed urgente l’allontanamento dal luogo di soggiorno coatto». È evidente come il legislatore non abbia ritenuto le due ipotesi egualmente pregnanti, considerate le più vincolanti condizioni – di assoluta necessità ed urgenza – che debbono corredare la causa inerente alla famiglia. Invero, la giurisprudenza di legittimità – ma soprattutto di merito, considerate le diverse pronunce d’inammissibilità della Cassazione per carenza d’interesse all’impugnazione della parte pubblica, in ragione dell’esaurimento della vicenda – aveva già di fatto ritenuta estendibile l’allora unica causa a quella relativa ai motivi di famiglia, inizialmente anche senza connotazione di particolare gravità [Cass., sez. I, 17.10.2003, n. 47496, nella quale la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal P.M. avverso il provvedimento, già eseguito, con il quale il Tribunale, aveva concesso ad un soggetto sottoposto a misura di prevenzione con obbligo di soggiorno di allontanarsi per un giorno da detto luogo, onde far visita al coniuge detenuto altrove]. Più di recente, la Corte di Cassazione ha – sul punto in esame – meglio definito le condizioni attraverso le quali si ritengono assimilabili le gravi ragioni di salute a quelle familiari, specificando comunque come non esista attrito con le

Altre sanzioni penali

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disposizioni costituzionali che tutelano i diritti fondamentali della persona, in ragione della «possibilità per l’interessato di avanzare richiesta (…) affinché l’obbligo di soggiorno sia fissato in un comune dove le sue esigenze fondamentali di vita siano assicurate al meglio» [Cass., sez. VI, 14.12.2001, n. 3264, nella quale, tra l’altro, si precisa che l’autorizzazione «può essere concessa in presenza di gravi e contingenti ragioni familiari, che rendano però assolutamente “necessario” e indifferibile il contatto personale con il congiunto; non anche, dunque, per soddisfare soltanto esigenze generiche correlate al mero desiderio di mantenere rapporti visivi e personali con i propri parenti»]. Il legislatore del Codice antimafia ha, dunque, condiviso il consolidato percorso argomentativo sviluppato dalla Cassazione traducendo nel dettato legislativo le condizioni che rendono equiparabili le ragioni familiari a quelle di salute. Controversa resta invece la questione relativa alla sostanziale equiparazione delle ragioni inerenti al lavoro accanto a quella sui motivi di salute, sovente riconosciuta dai Tribunali [Cass., sez. I, 25.1.2000, n. 503, nella quale si dà atto che in data 21.6.99, la Corte di Appello di Reggio Calabria, aveva autorizzato R.D. ad allontanarsi dal comune di soggiorno per ragioni di lavoro, tra l’altro per tempo illimitato. Anche, Cass., sez. I, 22.5.2009, n. 31212]. Sul punto specifico, è intervenuta la Corte costituzionale, dichiarando non fondata la questione di legittimità posta tra l’art. 7-bis legge n. 1423/1956 e gli artt. 3 e 4 della Carta [la Consulta ha affermato che «le ragioni di sanità non sono assimilabili alle ragioni lavorative», poiché «non è violata, rispetto al diritto al lavoro, la soglia minima di sacrificio resa necessaria dalle esigenze per le quali è prevista e disposta la misura dell’obbligo di soggiorno»; inoltre, «l’eventuale reperimento di un’attività lavorativa fuori del territorio del comune di soggiorno, può costituire di per se ragione sufficiente per la modifica del provvedimento applicativo a norma dell’art. 7 comma 2 l. n. 1423 del 1956», C. cost., 24.6.1997, n. 193]. Il mancato inserimento della causa in esame nel nuovo art. 76 comma 1 Codice antimafia, potrebbe essere interpretata come una chiara voluntas legis, di limitazione del catalogo dei motivi legittimanti la richiesta di autorizzazione a quelli espressamente indicati. Restando in tema di diritti fondamentali della persona, ulteriore questione è stata rimessa al giudizio della Consulta, riguardante l’esercizio in forma associata del diritto di professare la fede religiosa, compromesso dalla esclusiva indicazione nell’art. 7-bis delle ragioni attinenti alla salute. La Corte ha dichiarato la non fondatezza della questione adducendo motivazioni inerenti sia all’impossibilità concreta di contemperare le finalità della misura con l’esercizio – che si vuole continuo e costante – del diritto di culto, sia alle possibilità alternative a disposizione del sottoposto, di fissazione dell’obbligo di soggiorno in luogo ove la professione di fede possa essere esercitata nel rispetto dei limiti derivanti dall’applicazione della misura [C. cost., 7.2.2003, n. 309: «… la previsione, in vista della tutela della salute del prevenuto, di una deroga all’originario, rigido regime di esecuzione della misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno non può essere estesa al caso del diritto di libertà di

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culto in forma associata, in quanto, in tal caso, la sospensione degli obblighi per consentire la partecipazione periodica e continuativa a cerimonie religiose sarebbe in insuperabile contraddizione con le esigenze in vista delle quali la misura di prevenzione è adottata, sia perché l’autorizzazione dovrebbe valere in generale per tutta la durata della misura, sia perché sarebbe impossibile assicurare idonee misure di pubblica scurezza nei luoghi di culto e durante la celebrazione di cerimonie religiose (…)»]. Per quel che riguarda l’esigenza del sottoposto a misura di partecipare a processi, al fine di rendere dichiarazioni o deposizioni, è dovuta intervenire la Corte di Cassazione per statuire che la facoltà di chiedere l’autorizzazione al competente Tribunale spetta «anche all’autorità cui la legge riconosca un interesse a quella partecipazione» [Cass., sez. I, C.c., 4.6.2002, n. 24218 in Cass. pen., 2003, 1634 con nota di Molinari, fattispecie relativa a richiesta del P.M. di audizione in pubblico dibattimento, ai sensi dell’art. 210 c.p.p., di persona al soggiorno obbligato, che la Corte ha ritenuto legittimamente avanzata e impropriamente respinta dal Tribunale competente]. La condotta è sostenuta dal dolo generico, quale consapevolezza delle prescrizioni stabilite e «cosciente volontà di inadempimento di detti obblighi, a nulla rilevando le finalità che abbiano specificamente ispirato la condotta del sorvegliato speciale» [Cass., sez. I, 22.4.2009, n. 31212]. Il reato si può consumare dal momento in cui il sottoposto si trovi nel comune di soggiorno obbligato ma non è applicabile ai soggetti che non hanno ancora raggiunto la località loro assegnata [Cass., sez. I, 28.1.1987, Mazza, in Riv. pen., 1987, 1088].

2.

La violazione al divieto di possesso di strumenti, apparati, mezzi e programmi imposto con avviso orale del questore (art. 76 comma 2).

La fattispecie è stata introdotta con l’art. 15 della legge n. 128/2001, di modifica dell’art. 4 legge n. 1423/1956. Attraverso l’art. 3 comma 33 della legge n. 94/2009 l’oggetto del divieto imposto dal questore in via facoltativa è stato esteso anche alle «armi a modesta capacità offensiva, riproduzioni di armi di qualsiasi tipo, compresi i giocattoli riproducenti armi, altre armi o strumenti, in libera vendita, in grado di nebulizzare liquidi o miscele irritanti non idonei ad arrecare offesa alle persone, prodotti pirotecnici di qualsiasi tipo, nonché sostanze infiammabili e altri mezzi comunque idonei a provocare lo sprigionarsi di fiamme». Il Codice antimafia ha separato la fattispecie posta a presidio del divieto imposto dal questore – prevista dall’articolo in esame – e il contenuto del divieto medesimo, situato all’art. 3 comma 4 del Codice antimafia, avente come rubrica “Avviso orale”. Con la modifica introdotta dalla legge n. 128/2001 è stato rivisitato l’istituto

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dell’avviso orale del questore, che – oltre a mantenere l’originario assetto di precondizione per l’adozione di misure di prevenzione personali – ha consentito all’organo in questione di assumere anche un ruolo decidente, attraverso l’applicazione facoltativa ai soggetti di cui all’art. 1 Codice antimafia, altresì condannati con sentenza irrevocabile per un delitto non colposo, dei divieti analiticamente descritti [MONTAGNA, 143]. Normalmente, l’avviso orale del questore ha come oggetto ordinario l’invito alla persona «a tenere una condotta conforme alla legge», indicazione generalissima, la cui inosservanza non è sanzionata. Nell’ipotesi in cui ricorra il presupposto della condanna passata in cosa giudicata per delitto non colposo, il questore può altresì applicare il divieto di possedere o utilizzare, in tutto o in parte, i beni descritti, la cui violazione integra la fattispecie in commento [CAPOCCIA, 214]. La legge n. 128/2001 ha, dunque, ampliato il catalogo delle misure di prevenzione introducendone altra, consistente nel divieto di possesso o utilizzo di una serie di apparati, che possono essere, sul piano sistematico, raggruppati in tre macro-categorie: – strumenti di comunicazione intesi in senso lato, comprendenti anche programmi di tipo informatico; – mezzi di trasporto, in qualunque maniera modificati, al fine di aggirare i controlli di polizia; – strumenti reali – ovvero loro riproduzioni – atti a incutere timore sulla loro propensione a determinare offesa, comprendenti anche prodotti pirotecnici e sostanze infiammabili. Con riferimento alla prima categoria, appare evidente come il divieto di possesso o utilizzo di beni la cui detenzione è del tutto lecita e, in determinati casi, particolarmente diffusa – si pensi al caso del telefono cellulare ovvero ai programmi di c.d. “messaggistica” – sia finalizzato a prevenire le ipotesi di organizzazione, allestimento e esecuzione di attività criminose in forma plurisoggettiva. Soltanto con riguardo al secondo raggruppamento il legislatore ha, invece, identificato un criterio limite all’ampiezza del catalogo generale dei beni, in relazione ai mezzi di trasporto, predisposti «al fine di sottrarsi ai controlli di polizia». Per quel che concerne la terza classe, si tratta, nella maggior parte dei casi, di strumenti il cui possesso è normalmente lecito, così come specifica anche il dettato legislativo laddove – in relazione alle armi o strumenti in grado di nebulizzare liquidi o miscele irritanti – precisa che debbano essere «in libera vendita». Essendo, altresì, specificato che le altre «armi o strumenti» devono comunque risultare «non idonei ad arrecare offesa alle persone», si comprende come la finalità preventiva del divieto tenda ad scongiurare il possesso di tutti quei beni capaci di ingenerare nelle forze dell’ordine la suggestione che possano essere utilizzati in forma di offesa, con conseguente frustrazione degli eventuali atteggiamenti di tipo reattivo da parte dei tutori dell’ordine.

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I lavori preparatori della legge n. 128/2001 evidenziano che la nuova attribuzione di competenze affidata al questore aveva come obiettivo quello di prevenire la commissione di reati in materia di traffico di stupefacenti e di contrabbando di tabacchi lavorati esteri, attraverso il divieto di tutte quei beni e mezzi che sono strumentali all’esecuzione dei programmi criminosi in dette materie. Identificati i gruppi di fattispecie oggetto del programma preventivo che il legislatore intendeva attuare, non si comprende poi perché la condizione relativa alla condanna irrevocabile per delitto non colposo non sia stata limitata proprio a quelle classi di reati, anche in considerazione della difficoltà – per l’ampiezza del catalogo dei beni vietati – di altrimenti circoscrivere la portata repressiva della fattispecie. Come si è scritto, con la legge n. 94/2009 il divieto è stato esteso anche in tema di possesso o utilizzo di “armi”, nella più lata estensione di significato, comprendente con ogni evidenza anche i giocattoli, i fuochi d’artificio e qualunque sostanza di tipo infiammabile. Il frequente utilizzo – in assenza di un criterio di similitudine univoco – di clausole categoriali aperte, come «di qualsiasi tipo», «altri mezzi», «altri strumenti»; il divieto esteso anche alla detenzione di “parti” dei beni; la sostanziale mancanza d’indicatori di significato che consentano di operare un’affidabile selezione tra gli indefiniti beni che possono rientrare, in via concreta, nelle categorie; fanno sì che alcuna ragionevole limitazione possa porsi all’immaginazione dell’interprete con riferimento ad ipotesi di concreta applicazione della fattispecie. Significativa conferma è data da una sentenza di merito che qualifica l’accendino quale «mezzo in grado di sprigionare fiamme» [Trib. Terni, 24.1.2012, n. 49]. A parte l’esempio appena citato, estremamente esigua è la giurisprudenza, di merito e di legittimità, sul modello in esame, riguardante, soprattutto, il possesso di telefono cellulare, pacificamente ritenuto come appartenente al genus dello “apparecchio radiotrasmittente”, quale sua evoluzione più attuale [Cass., sez. feriale, 1.9.2009, n. 38514]. Un’ipotesi di concorso di reati potrebbe riguardare il possesso di «mezzi di trasporto modificati al fine di aumentarne la potenza o la capacità offensiva», di cui all’art. 3 Codice antimafia, e la detenzione di «mezzi di trasporto che presentano alterazioni o modifiche o predisposizioni tecniche tali da costituire pericolo per l’incolumità fisica degli operatori di polizia», ex art. 337-bis c.p.

3. Le contravvenzioni al foglio di via obbligatorio (art. 76 comma 3). La fattispecie era originariamente prevista all’art. 2 capoverso della legge n. 1423/1956 e l’unica modifica intervenuta è stata posta con la legge n. 327/1988, che ha eliminato il riferimento alle «persone pericolose per la pubblica moralità». Il modello in esame s’indirizza ai soggetti destinatari delle misure di prevenzione personali applicate dal questore, che devono altresì essere oggetto di una

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valutazione di pericolosità per la sicurezza pubblica nonché trovarsi fuori del luogo di residenza. In presenza di queste condizioni, il questore avvia un procedimento d’ufficio, disciplinato dalla legge n. 241/1990, a conclusione del quale può emettere un provvedimento motivato, rimandando con foglio di via obbligatorio l’intimato nel luogo di residenza e inibendogli il ritorno – senza preventiva autorizzazione ovvero per un periodo che non può valicare i tre anni – nel comune dal quale è stato allontanato, ai sensi dell’art. 2 Codice antimafia. La fattispecie prevista al successivo art. 76 comma 3 punisce con l’arresto da uno a sei mesi «il contravventore alle disposizioni di cui all’art. 2». Ad onta della forma plurale utilizzata («disposizioni»), si ritiene in realtà che il perimetro applicativo della fattispecie circoscriva un unico fatto, quello del mancato rispetto del divieto di far ritorno nel luogo dal quale l’intimato è stato allontanato e non anche – come sostiene invece parte della dottrina [A. GIUNTI, 1535] e recentissima giurisprudenza [Cass. pen., sez. I, 8.11.2012, n. 46257] – l’inosservanza dell’obbligo di presentarsi nel comune di rimpatrio entro il termine assegnato dall’autorità amministrativa. Ciò perché quest’ultima condotta è specificamente sanzionata dal comma 4 del 163 TULPS, che punisce con l’arresto da uno a sei mesi le «persone che non si presentano, nel termine prescritto, all’autorità di pubblica sicurezza indicata nel foglio di via». Il medesimo articolo prevede, al comma 1, ulteriore violazione – costituente reato – alle disposizioni contenute nel foglio di via obbligatorio, riguardante specificamente «l’allontanamento dall’itinerario ad esse tracciato» nel percorso di rimpatrio. Maggiormente in linea con il rapporto di reciprocità alternativa tra le due norme, è quella giurisprudenza di legittimità che stabilisce una più esatta corrispondenza tra fatto e norma assegnando alla fattispecie in commento il solo compito di dissuadere l’intimato dal far ritorno nel luogo dal quale è stato allontanato. Risulterà, invece, integrato l’art. 163 TULPS laddove vengano violate dall’intimato le modalità di attuazione del foglio di via obbligatorio, inerenti alla presentazione presso l’autorità di p.s. indicata nel foglio di via e al rispetto del percorso da seguire per raggiungere detta località [Cass., sez. I, 22.3.2000, n. 7359; anche Cass. pen., sez. I, 18.5.1993, Ciravagna]. Per quel che concerne i presupposti del reato contravvenzionale in commento – riguardanti in primis il procedimento amministrativo che il questore avvia nei confronti della persona ritenuta pericolosa – ci si è chiesti se l’omissione dell’avviso di avvio del procedimento d’ufficio, ex art. 7 legge n. 241/1990, costituisse vizio in grado di determinarne l’illegittimità, con conseguente possibilità di sua disapplicazione incidentale da parte del giudice, ex art. 5 legge n. 2248/ 1865, all. E. Inizialmente, la giurisprudenza di legittimità aveva escluso la necessità della comunicazione all’interessato solo nel caso in cui non si fosse ravvisata l’esigen-

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za di espletare un reale “procedimento” amministrativo, coincidendo l’inizio della procedura con l’automatica ed immediata emissione dell’ordine di rimpatrio [Cass., sez. I, 29.10.1997, Gargano, in Cass. pen., 1998, 1776]. Successivamente, vi è stato un revirement della Corte, la quale ha precisato che un iter amministrativo deve sempre sussistere e che la comunicazione di avvio del procedimento non è dovuta esclusivamente in presenza di particolari ragioni d’urgenza [Cass., sez. I, 20.9.1999, Pacella, in Cass. pen., 2000, 1419]. Con Cass., sez. I, 19.5.2004, n. 27053 [in Cass. pen., 2005, 2710], si è definitivamente statuito come entrambe le ragioni giustifichino – anche in forma di presunzione – l’omesso avviso all’interessato, «in relazione sia all’estrema semplicità del procedimento», sia «alle particolari esigenze di celerità che fisiologicamente connotano il provvedimento medesimo». Competente ad avviare il procedimento d’ufficio è il questore della provincia in cui insiste il comune nel quale la persona viene trovata fuori dai luoghi di residenza. Con riguardo al concetto normativo di «residenza», gli orientamenti della Suprema Corte lo identificano con la corrispondente nozione data dal codice civile «e quindi al luogo della dimora abituale, della cui effettività l’iscrizione anagrafica è solo un indice salva la prova contraria» [Cass., sez. I, C.c., 10.2.2009, n. 23022, in Cass. pen., 2010, 1139; anche, Cass., 17.3.1986, in Cass. pen., 1988, 367]. Un più risalente e minoritario indirizzo lo interpretava, invece, come il luogo di residenza anagrafica [Cass., 13.2.1986, in Cass. pen., 1987, 1453]. Sempre riguardo ai presupposti del reato in commento – segnatamente sulla valutazione di pericolosità sociale per la sicurezza pubblica compiuta dal questore – la Corte di Cassazione ha affermato che tale giudizio può basarsi anche su «elementi che giustifichino soltanto sospetti o presunzioni, purché obiettivamente accertati, come i precedenti penali, recenti denunce per gravi reati, il tenore di vita del proposto, l’abituale compagnia di pregiudicati o di soggetti sottoposti a misure di prevenzione o altre manifestazioni incompatibili con la tutela della sicurezza pubblica che forniscono un quadro complessivo della pericolosità dell’interessato tale da legittimare una prognosi negativa nel suo futuro comportamento e la conseguente adozione di misure preventive» [Cass., sez. I, 18.3.1993, Scalera, in Cass. pen., 1994, 1647; si veda anche Cons. Stato, 21.11.1992, n. 966, in cui è stato ritenuto legittimo il giudizio di pericolosità sociale di un soggetto che frequentava l’ippodromo al fine di praticare il gioco clandestino insieme a pregiudicati e avendo la disponibilità di somme ingenti di denaro; inoltre, Cass., sez. I, 22.3.96, n. 121, ha ritenuto che l’indicazione di elementi di fatto che riconducano il soggetto ad una delle categorie di cui all’art. 1 legge n. 1423/1956 consente di presumere il giudizio di pericolosità sociale per la sicurezza pubblica; contra, Cass., sez. I, 12.1.1996, n. 121, per cui si tratta di una duplice valutazione, che deve rimanere distinta]. I motivi posti a base del giudizio di pericolosità sociale rientrano nel fuoco della verifica che deve compiere il giudice penale sulla conformità dell’atto alle

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prescrizioni di legge [Cass., sez. I, 9.10.2012, n. 43031], mentre è inibita al medesimo una valutazione sui criteri di convenienza e opportunità del provvedimento emesso, che si risolverebbe in un sindacato giurisdizionale sull’atto amministrativo. In particolare, la conformità a legge del provvedimento deve essere sottoposta a scrutinio dal giudice con riferimento ai vizi tipici dell’atto amministrativo, riconducibili alle forme dell’incompetenza, della violazione di legge e dell’eccesso di potere [Cass., sez. I, 11.2.1997, n. 916]. Si ritiene comunemente che la revoca del provvedimento operi ex nunc, mentre l’annullamento retroagisca travolgendo tutti gli effetti scaturiti dall’eventuale condanna già intervenuta, con il limite del giudicato irrevocabile. Il modello in esame è un reato proprio – poiché può essere consumato esclusivamente dal soggetto intimato dal questore con foglio di via – è a condotta attiva, di pericolo astratto ed ha natura permanente [sulle classificazioni del pericolo, PALAZZO, 71; in giurisprudenza Cass., sez. I, 11.2.1997, Fernandez, in Cass. pen., 1998, 239, che ha chiarito come la norma non richieda la positiva verifica dell’esistenza di un concreto pericolo per la sicurezza pubblica riferibile alla violazione del divieto, perché tale pericolo è apprezzato a priori all’adozione dell’ordine di rimpatrio; anche Cass., sez. I, 2.10.1997, n. 1366, in Cass. pen., 1999, 645, in cui, si afferma che l’altra fattispecie prevista dalla norma, di inottemperanza all’ordine di rimpatrio, ha natura di reato omissivo istantaneo, che si consuma con la scadenza del termine entro il quale il soggetto avrebbe dovuto raggiungere il luogo di destinazione indicato]. Con riferimento alla condotta, si è precisato che l’inottemperanza al divieto di far ritorno nel luogo dal quale l’intimato è stato allontanato, si realizza non solo con lo stazionamento ma anche con il mero transito [Trib. Napoli, sez. IV, 10. 12.2010, n. 16039; contra, Cass., sez. I, 7.6.1972, Fabbri, in Cass. pen., 1973, 1437 e Pretore Viareggio, 6.10.1984, entrambe con riferimento al transito in auto]. La partecipazione dell’intimato a udienza penale non costituisce ipotesi giustificativa del fatto tipico per esercizio di un diritto [Cass., sez. I, 7.10.1982, Ceraso, in Cass. pen., 1984, 180, in cui si precisa che il divieto di far ritorno nel luogo ove si celebra il processo configura un’ipotesi di legittimo impedimento a comparire]. È configurabile l’ipotesi di errore scusabile per precedente assoluzione dell’agente da ipotesi analoga [Cass., sez. I, 14.7.1988, Poli; contra, Cass., sez. I, 13.8.1985, Barone, precedente però a C. cost. n. 364/1988]. È territorialmente competente a giudicare il reato in esame il Giudice del luogo ove all’intimato è stato inibito il ritorno. Da ultimo, per quel che concerne il concorso di norme – a parte il caso già segnalato dell’art. 163 TULPS – la giurisprudenza di legittimità ha statuito che la fattispecie ex art. 76 comma 3 non concorre con l’art. 650 c.p [Cass., sez. I, 18.5.1993, Ciravagna]. -

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4.

La mancata ottemperanza all’ordine di deposito della cauzione (art. 76 comma 4).

La disposizione contenuta nel comma 4 riproduce il dettato normativo dell’art. 3-bis comma 4 legge n. 575/1965. Trattandosi di norme di identico tenore, nessun problema si pone sotto il profilo della successione delle leggi penali nel tempo, alla luce della espressa abrogazione dell’intera legge n. 575/1965 sancita dall’art. 120 comma 1 lett. b) del vigente Codice delle leggi antimafia. All’evidente scopo di assicurare l’assolvimento degli obblighi di deposito della cauzione o di prestazione delle garanzie sostitutive, il legislatore ha previsto una fattispecie contravvenzionale che sanziona le relative inottemperanze con la pena dell’arresto da sei mesi a due anni. Il reato de quo si consuma allorché il soggetto non adempia alle obbligazioni entro il termine stabilito, non attribuendosi alcuna rilevanza all’adempimento tardivo, che pur tuttavia – come è stato osservato in dottrina – avrebbe evitato di «scaricare sul giudice penale difficili indagini sulla stessa ricorrenza della colpa» [GALATI, 313]. Il momento consumativo coincide dunque con lo spirare del termine fissato per il deposito senza che il soggetto vi abbia adempiuto, posto che il provvedimento impositivo della cauzione è immediatamente esecutivo [Cass., sez. I, 3. 10.2005]. Se ne desume che il reato di mancato versamento della cauzione non è configurabile laddove nel decreto impositivo della misura non risulti indicato il termine per il suo versamento [Cass., sez. I, 25.10.2001, n. 43239]. Si tratta di un reato istantaneo, con la naturale conseguenza che, ai fini del calcolo del termine di prescrizione, il dies a quo coincide con «la data ultima entro cui il deposito cauzionale deve essere eseguito» [Cass., sez. VI, 16.02.2005, n. 9219; nello stesso senso, già Cass., sez. I, 30.11.1995, n. 576]. Da tempo la giurisprudenza ha inoltre sostenuto come la contravvenzione in esame si debba intendere consumata – in caso di inottemperanza all’ordine del Tribunale nel termine fissato – anche nell’ipotesi in cui la proposta di applicazione della misura di prevenzione venga poi revocata dalla Corte d’Appello. E ciò in considerazione del fatto che «l’ottemperanza a tale ordine prescinde dall’esito finale del provvedimento impositivo della misura a seguito delle impugnazioni contro questo ed è correlata all’immediata efficacia della misura stessa, una volta comunicato all’interessato il relativo decreto, che non rimane sospesa dal ricorso proposto alla Corte d’Appello» [Cass., sez. I, 22.12.1993, n. 34]. Tale interpretazione si basa dunque, da un lato, sulla provvisoria esecutività del decreto di prevenzione (già prevista dall’art. 4 comma 10 legge n. 1423/1956 ed ora fedelmente riprodotta nell’art. 10 comma 2 d.lgs. n. 159/2011) e, dall’altro, sul dettato normativo dell’art. 3-bis comma 5 legge n. 575/1965 (ora art. 31 comma 4 d.lgs. n. 159/2011, secondo cui «quando sia cessata l’esecuzione della misura di prevenzione o sia rigettata la proposta, il tribunale dispone con decre-

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to la restituzione del deposito o la liberazione della garanzia»), giungendo così ad affermare l’efficacia ex nunc dei provvedimenti di revoca della misura di prevenzione o di rigetto della relativa proposta. La revoca del decreto per motivi attinenti alla legittimità della misura opera in modo retroattivo, mentre ha efficaca ex nunc qualora consegua a situazioni sopraggiunte di carenza di pericolosità del proposto: «Soltanto nella seconda ipotesi, restano fermi gli effetti dell’originario decreto sino alla sua rimozione e, conseguentemente, la violazione dell’obbligo di versare – nel termine previsto – la cauzione, se risale a periodo antecedente la revoca, integra il reato previsto dall’art. 3 bis della legge n. 575/1965 [ora art. 76 comma 4 d.lgs. n. 159/2011]. Nella prima ipotesi, invece, venendo meno, per effetto della decisione riformatrice del giudice dell’impugnazione, la legittimità originaria della misura di prevenzione, la violazione del detto obbligo, ormai privato della fonte legittimante, non può integrare la corrispondente previsione del reato» [Cass., 12.04.2005, n. 33925]. La Sentenza prosegue argomentando, attraverso una attenta esegesi di stampo logico-sistematico, che la lettera della norma di cui all’art. 3-bis comma 5 legge n. 575/1965 (ora art. 31 comma 4 d.lgs. n. 159/2011), ed in particolare l’espressione «quando (…) sia rigettata la proposta», vada «letta in relazione alla previsione dell’impostazione provvisoria da parte del Tribunale, in pendenza del procedimento di prevenzione, della cauzione e delle prescrizioni di cui al secondo e terzo comma dell’art. 5 della legge n. 1423/1956 (comma 2 del richiamato art. 3 bis)» [dette disposizioni sono ora riprodotte in maniera quasi pedissequa dall’art. 8 commi 3 e 4 d.lgs. n. 159/2011, a cui rinvia espressamente l’art. 31 comma 2 d.lgs. n. 159/2011, nel ricalcare il citato comma 2 dell’art. 3-bis]. «Rimangono, quindi, impregiudicati» conclude la Suprema Corte in aperta rottura con la criticata impostazione uniformante «gli effetti conseguenti all’accertata illegittimità originaria, per difetto dei relativi presupposti, del decreto di prevenzione, ancorché esecutivo per legge». Ulteriore problema si è posto con riferimento alle possibili doglianze in merito alla eccessività della cauzione, che secondo un primo, consolidato orientamento giurisprudenziale non potrebbero essere dibattute nel processo penale instaurato in seguito al mancato versamento, dovendo essere semmai avanzate con apposita istanza di revoca della misura patrimoniale, proposta ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 3-bis Legge n. 575/1965 (ora art. 31 comma 5 d.lgs. n. 159/2011). Ritiene infatti tale giurisprudenza che la contravvenzione di inottemperanza all’ordine di versare la cauzione si perfezioni «al momento della scadenza del termine fissato dal Tribunale competente per l’applicazione della misura di prevenzione, senza che il sottoposto, una volta spirato tale termine, possa far valere la esistenza di sopravvenute gravi necessità personali o familiari. La sopravvenienza di tali necessità, o la eventuale impossibilità di adempiere alla obbligazione imposta con il provvedimento applicativo della misura, possono essere fatte valere esclusivamente nell’ambito del procedimento di prevenzione. Una volta divenuto esecutivo il provvedimento di sottoposizione alla misura di prevenzione, ai sensi del comma 8 del citato art. 3 bis [ora art. 31 comma 5 d.lgs. n. 159/2011], è possibile

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chiedere la revoca, anche parziale, delle misure patrimoniali cautelari imposte. Ma tale revoca, che per altro è pur sempre di competenza del Tribunale per le misure di prevenzione, non ha alcuna influenza sulla sussistenza del reato contravvenzionale, ormai perfezionatosi in tutti i suoi aspetti con la omissione del versamento nel termine prefissato» [Cass., sez. VI, 16.02.2005, n. 9219; nello stesso senso, già Cass., sez. I, 7.3.1996, n. 3445]. Una simile interpretazione – suffragando di fatto l’applicazione automatica della contravvenzione – finisce però per escludere la possibilità di accertare l’eventuale comportamento del tutto incolpevole dell’imputato. D’altra parte, la Consulta, in una storica sentenza interpretativa di rigetto, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale della norma in esame (all’epoca enunciata dall’art. 3-bis comma 4 della legge n. 575/1965), in riferimento agli artt. 3 e 27 commi 1 e 3 Cost., ha espressamente escluso qualsiasi automatismo nella configurazione della fattispecie contravvenzionale in commento, richiedendosi quantomeno la colpa dell’inottemperante. E ciò chiaramente per non incorrere in forme di responsabilità oggettiva, vietate dalla Costituzione nei limiti della storica decisione n. 364/1988 della Consulta. In definitiva, per i giudici delle leggi «la materiale impossibilità di provvedere al versamento della cauzione, causata da mancanza di disponibilità economiche evidentemente non preordinata o colposamente determinata, comporta non una forma di responsabilità oggettiva ma l’esenzione da responsabilità» [C. cost., 1.6. 98, n. 218]. Sulla scia di tale percorso ermeneutico costituzionalmente orientato, la Suprema Corte è giunta ad ammettere la possibilità di dedurre, nel procedimento penale conseguente all’omesso versamento, proprio la «materiale impossibilità di adempiere dovuta ad indisponibilità economica che non sia stata preordinata o colposamente determinata» [Cass., 17.09.2004; in senso conforme, già Cass., sez. I, 13.1.2000, n. 1803, per la quale «la materiale impossibilità di adempimento, causata dalla mancanza di disponibilità economiche può essere fatta valere sia nel procedimento di prevenzione, con l’impugnazione del decreto impositivo della misura o con la richiesta di revoca, sia in quello penale per l’accertamento del reato»]. E neppure è mancata qualche interessante pronuncia della giurisprudenza di merito, che ha sottolineato come il confinare l’esimente della indisponibilità economica nell’ambito del procedimento di prevenzione «non solo si traduce nel riconoscimento di una forma di responsabilità oggettiva, ma, contrasta con l’art. 2 c.p.p., a norma del quale il giudice penale risolve ogni questione da cui dipende la decisione con la sola eccezione delle questioni relative allo stato di famiglia o di cittadinanza (art. 3 c.p.p.)» [Trib. Bari, 11.07.2005]. Una volta che risulti accertato il mancato pagamento della somma imposta a titolo di cauzione, spetterà poi «all’imputato della relativa contravvenzione provare, quantomeno mediante richiesta di opportune indagini, l’esistenza dell’impossibilità di provvedere al versamento dovuta ad indisponibilità di mezzi economici non preordinata, né colposamente determinata» [Cass., sez. VI, 25.3.2003, n. 24183]. -

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5.

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L’elusione del provvedimento di amministrazione giudiziaria (art. 76 comma 5).

La disposizione contenuta nel comma 5 riproduce sostanzialmente il dettato normativo dell’art. 24 legge n. 152/1975, limitandosi di fatto ad eliminare, in merito alla prevista obbligatorietà del giudizio direttissimo, richiami ormai anacronistici. Il riferimento alla «amministrazione giudiziaria dei beni personali» (disciplinata dall’art. 33 d.lgs. n. 159/2011) in luogo della «sospensione provvisoria dall’amministrazione dei beni» (prevista dall’ormai abrogato art. 22 legge n. 152/ 1975) appare, infatti, come una mera variazione del nomen senza alcun mutamento di ordine sostanziale. D’altra parte, dal raffronto tra il vigente art. 33 e l’abrogato art. 22 (il cui dato testuale è ricalcato dal primo in modo puntuale), si evince come identici siano i presupposti, la limitazione alla disponibilità dei propri beni imposta al soggetto, e – soprattutto – la natura di misura di prevenzione patrimoniale, applicabile, ora come allora, sia congiuntamente ad una misura di prevenzione personale, sia in via autonoma laddove il Tribunale ritenga «che essa sia sufficiente ai fini della tutela della collettività». Ne consegue che non si pongono problemi sotto il profilo della successione delle leggi penali nel tempo, pur alla luce della abrogazione degli artt. da 18 a 24 della legge n. 152/1975 disposta dall’art. 120 comma 1 lett. d) del vigente Codice antimafia. La norma in commento sanziona l’elusione e il tentativo di elusione del provvedimento di amministrazione giudiziaria dei beni personali con la pena della reclusione da tre a cinque anni. Ed analoga sanzione commina a chiunque, in ogni modo (il dato testuale recita: «anche fuori dei casi di concorso nel reato»), aiuti la persona destinataria della misura a sottrarsi all’esecuzione del provvedimento. È interessante rilevare come il tentativo sia del tutto equiparato al reato consumato. Per di più l’attività di elusione (tentata o consumata) punita dal legislatore può essere di qualsiasi tipo. Non a caso la lettera della norma fa espresso riferimento a «qualsiasi mezzo, anche simulato». -

6.

L’omissione delle comunicazioni per l’amministrazione giudiziaria (art. 76 comma 6).

La disposizione del comma 6 riproduce puntualmente il dettato dell’art. 3quinquies comma 4 della legge n. 575/1965. Trattandosi di norme di identico tenore, nessun problema si pone sotto il profilo della successione delle leggi penali nel tempo, pur alla luce della espressa

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abrogazione dell’intera legge n. 575/1965 sancita dall’art. 120 comma 1 lett. b) del vigente Codice delle leggi antimafia. La fattispecie in esame sanziona l’omissione di un obbligo di comunicazione che il Tribunale può imporre al soggetto cui sia revocata la misura dell’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche. Ai sensi dell’art. 34 comma 8 d.lgs. n. 159/2011 (che ricalca fedelmente il previgente art. 3-quinquies comma 3 della legge n. 575/1965), con il provvedimento di revoca della misura, il Tribunale può difatti imporre a chi abbia la proprietà, l’uso o l’amministrazione dei beni, o di parte di essi, un obbligo di informazione, per un periodo non inferiore a tre anni, al questore e al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale, ovvero del luogo in cui si trovano i beni se si tratta di residenti all’estero, avente ad oggetto una serie dettagliata di operazioni economiche, considerate rivelatrici di cospicui movimenti finanziari e, comunque, di variazioni della consistenza del patrimonio. In tal modo, il legislatore ha evidentemente voluto consentire un costante controllo dei flussi economici così da garantire interventi tempestivi qualora dovessero riemergere ulteriori attività inquinate o sospette. Nel caso di inosservanza del citato obbligo di comunicazione, nei termini prescritti («dieci giorni dal compimento dell’atto e comunque entro il 31 gennaio di ogni anno per gli atti posti in essere nell’anno precedente»), sono previste severe sanzioni, segnatamente la reclusione da uno a quattro anni, nonché la confisca dei beni acquistati e dei pagamenti ricevuti per i quali è stata omessa la comunicazione. Come è stato osservato da più parti in dottrina, la norma appare particolarmente vessatoria, specie se si pensa che detto obbligo, intervenendo contestualmente alla revoca di una misura di prevenzione, viene di fatto imposto ad un soggetto che dovrebbe essere ormai libero da vincoli [FILIPPI, 281]. Per di più, proprio la gravità delle conseguenze previste in caso di inottemperanza rende ancor più inquietante l’oggettiva mancanza di chiarezza che connota l’indicazione del termine entro il quale occorre adempiere all’obbligo di informazione. In dottrina ci si interroga, ad esempio, se ricorra una sorta di causa di non punibilità nel caso in cui l’obbligato adempia oltre i dieci giorni prescritti ma non oltre il 31 gennaio di ogni anno, ovvero se l’unico termine idoneo ad integrare gli estremi della fattispecie incriminatrice risulti fissato nel 31 gennaio di ogni anno in relazione a tutti gli atti compiuti nell’anno precedente [DI CHIARA, 244]. Ci si chiede inoltre se un trattamento sanzionatorio così severo sia giustificabile laddove si tratti di operazioni del tutto lecite, volutamente non comunicate per una qualche ragione [D’ARGENTO, 280]. Evidentemente la fattispecie in commento si configura come un reato di pericolo presunto, che non lascia alcuno spazio all’operatore del diritto, e più in generale all’interprete, in ordine alla valutazione del pericolo. Il legislatore ha dunque ritenuto di dover presumere che l’omessa comunica-

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zione imposta con il provvedimento di controllo giudiziario celi finalità illecite. E ciò al fine di garantire la collettività, ed in particolare il mercato, dal futuro compimento di fatti criminosi e dalla infiltrazione di capitali di origine illecita nel mondo economico ed in specie imprenditoriale. Volendo riflettere in senso più ampio sulla compatibilità delle ipotesi di pericolo presunto con i principi di un ordinamento fondato sull’idea del principio di necessaria offensività, può osservarsi come, secondo autorevole dottrina, essa resti affidata «alla ragionevolezza della presunzione normativa di pericolosità della condotta ed alla puntualità della sua definizione normativa» [C. FIORE, S. FIORE, 173]. Ed è interessante, in conclusione, evidenziare come parte della dottrina, pur condividendo i dubbi circa l’ammissibilità della fattispecie in esame, abbia ritenuto comunque preferibile tale modello di intervento basato sull’imposizione in via preventiva di obblighi di comunicazione [MAUGERI, 428]. D’altra parte, si tratta dello stesso meccanismo previsto nei confronti delle persone condannate in via definitiva per il reato di associazione mafiosa o già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione rispettivamente dagli artt. 30 e 31 legge n. 646/1982, come modificati dalla legge n. 136/2010, e dagli artt. 80 e 76 comma 7 d.lgs. n. 159/2011 (per una più attenta disamina del reato di omessa comunicazione di variazione del patrimonio disciplinato dal vigente codice delle leggi antimafia, si veda infra). 7. L’omissione delle comunicazioni di variazioni patrimoniali (art. 76 comma 7). La disposizione contenuta nel comma 7 dell’art. 76 Codice antimafia, è modulata sul dettato normativo dell’art. 31 legge n. 646/1982 nel testo modificato dall’art. 7 comma 1 lett. c) legge n. 136/2010 (legge delega alla base del vigente Codice antimafia), che ne ha arricchito il contenuto prevedendo la facoltà per il giudice di ordinare la confisca per equivalente «nei casi in cui non sia possibile procedere alla confisca dei beni acquistati ovvero del corrispettivo dei beni alienati» per cui sia stata omessa la comunicazione. Occorre però precisare come il richiamato art. 80, che disciplina l’obbligo di comunicazione la cui inottemperanza è sanzionata dalla norma in esame, pur riproducendo in modo del tutto speculare l’art. 30 della legge n. 646/1982, come modificato dall’art. 7 comma 1 lett. b) della legge n. 136/2010, fa riferimento ad una sola delle categorie di soggetti nei cui confronti trova applicazione la norma presa a modello. Tale selezione compilativa non ha comunque comportato alcuna abolitio criminis, posto che le previsioni preesistenti sono rimaste in vigore. Il legislatore ha così inteso abbandonare la scelta (senza dubbio più aderente allo spirito di semplificazione che connota il nuovo testo unico) adottata dall’esecutivo nella originaria stesura, consistente nel completo assorbimento delle

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due norme più risalenti nelle corrispondenti disposizioni del nuovo codice, con conseguente totale abrogazione delle prime. E ciò a vantaggio di una non condivisibile tecnica sistematica, che, lungi dall’agevolare il compito dell’operatore del diritto, ha di fatto prodotto una duplicazione di fattispecie identiche che tradisce proprio quell’aspirazione alla semplificazione e concentrazione della legislazione speciale (resa particolarmente complessa dalla stratificazione nel tempo degli interventi normativi), che costituisce uno degli obiettivi perseguiti dalla recente codificazione delle leggi antimafia. Ovviamente, avendo la norma incriminatrice in commento un contenuto sostanzialmente identico al citato art. 31, non si pongono problemi sotto il profilo della successione delle leggi penali nel tempo. Come può agevolmente trarsi dal dato testuale (ove l’incipit di ampio respiro – «chiunque» – è subito mitigato dall’inciso «essendovi tenuto»), la fattispecie di cui all’art. 76 comma 7 del vigente Codice antimafia si configura come un delitto omissivo proprio, giacché può essere commesso solo dai soggetti su cui incombe l’obbligo di comunicazione di cui all’art. 80 dello stesso testo unico. La condizione di sottoposto non è infatti un mero presupposto del fatto, come pure ha sostenuto una certa giurisprudenza di merito [Trib. Crotone, 2.3. 2000, Scalise, in Giur. merito, 2003, 507, con nota di Romani], ma è la condizione alla quale è direttamente collegato l’obbligo di comunicazione [MOLINARI, 1632]. Il reato de quo sanziona con particolare severità l’omessa comunicazione – cui si tende ad equiparare la comunicazione effettuata in ritardo ovvero attraverso dati inesistenti o inesatti – di variazioni patrimoniali, prevedendo in particolare la reclusione da due a sei anni e la multa da euro 10.329 ad euro 20.658, oltre alla confisca, anche per un valore equivalente, dei beni acquistati o del corrispettivo di quelli alienati. Proprio con riferimento all’asprezza del trattamento sanzionatorio, è stata di recente sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 31 legge 646/ 1982 – parzialmente trasfuso nell’art. 76 comma 7 Codice antimafia – in relazione agli artt. 3, 27 comma 3 e 42 Cost., laddove punisce una violazione che può rivelarsi solo “formale” con la stessa pena detentiva minima del delitto di trasferimento fraudolento di valori, alla quale, peraltro, rispetto a quest’ultimo reato si aggiunge la pena pecuniaria (C. cost., 8.4.2014, n. 81). Pur riconoscendo le problematiche di tipo applicativo della fattispecie in esame – particolarmente in punto di offesa al bene giuridico ed elemento psicologico – la Consulta ha dichiarato inammissibile la questione, evidenziando come sarebbe impraticabile l’intervento richiesto dal giudice a quo di rimodulazione dei minimi edittali, che costituirebbe uno sconfinamento in un’area riservata in via esclusiva alle scelte politiche del legislatore. In relazione poi alla misura ablativa è interessante osservare che, sebbene una certa dottrina – quasi a voler suffragare il carattere preventivo della confisca in questione – abbia parlato di una presunzione assoluta di illiceità dei beni per i -

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quali è stata omessa la comunicazione [C. MACRÌ, V. MACRÌ, 210], da più parti è stato sostenuto che si tratta piuttosto di una vera e propria sanzione, i cui evidenti connotati punitivi possono desumersi proprio dal fatto che essa è prescritta indipendentemente dall’accertamento di un qualche coinvolgimento dei beni in operazioni illecite [MAUGERI, 428]. Si può inoltre rilevare – ad avviso di chi scrive – come la previsione della confisca per equivalente, ormai disposta, come si è detto, anche per l’ipotesi disciplinata dall’art. 31 legge n. 646/1982, contribuisca sul piano ermeneutico a dirimere i dubbi che pur erano stati sollevati in dottrina (complice il dato testuale, oggettivamente poco chiaro a riguardo, del citato art. 31), in merito ai beni che fosse possibile confiscare. Si può infatti affermare, come aveva invero già intuito autorevole dottrina commentando l’originario dettato normativo dell’art. 31, che «la misura ablativa è circoscritta ai singoli elementi di variazione per cui è omessa la comunicazione» [GUERRINI, MAZZA, 203]. In altri termini, oggetto di confisca non sono tutti i beni oggetto di compravendita nell’intero periodo investito dall’obbligo di comunicazione, ma esclusivamente i beni acquistati ovvero il corrispettivo dei beni alienati per cui è stata omessa la comunicazione prescritta; e, solo nei casi in cui non sia possibile procedere in tal senso, il giudice potrà ordinare la confisca, per un valore equivalente, di somme di denaro, beni o altra utilità di cui l’inadempiente abbia comunque la disponibilità. Anche con riferimento al tema della confisca obbligatoria si è pronunciata la Consulta nella sentenza n. 81/2014, sopra citata, laddove ha ritenuto “creativo” – e dunque impraticabile – l’intervento richiesto dal giudice rimettente, di graduazione della risposta sanzionatoria rispetto all’effettivo disvalore del fatto. La Corte costituzionale ha ribadito come qualsiasi alternativa tra le possibili – eliminazione tout court della confisca, trasformazione della confisca obbligatoria in facoltativa ovvero previsione di una misura ablativa solo parziale – costituirebbe un’ingerenza nelle scelte discrezionali di politica criminale, inibite alla Consulta medesima. Per quanto concerne poi il bene giuridico tutelato dalla disposizione in esame, esso è stato individuato dalla Suprema Corte non già «nella tutela, sia pure indiretta, degli interessi fiscali dello Stato, bensì nella tutela dell’ordine pubblico, trattandosi di norma diretta a consentire l’esercizio di un controllo patrimoniale più penetrante della Guardia di Finanza nei confronti di soggetti ritenuti particolarmente pericolosi, al fine di accertare tempestivamente se le variazioni patrimoniali dipendano dallo svolgimento di attività illecite» [Cass., sez. I, C.c. 22.11. 2001, n. 45798, che, nella specie, applicando tale principio e negando di conseguenza carattere finanziario alla fattispecie in questione, ha escluso che essa rientrasse nelle previsioni di cui all’art. 29 legge n. 646/1982 e fosse quindi da considerare, per il richiamo a tale norma contenuto nell’art. 33-bis comma 1 lett. n) c.p.p., di competenza del Tribunale in composizione collegiale; sul punto, anche Cass., 5.4.2006, n. 14332; contra, Trib. Crotone, 2.3.2000, per il quale -

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«l’obbligo è imposto dalla legge a tutela del bene primario dell’erario»]. Quanto all’elemento psicologico, la giurisprudenza è apparsa oscillante. Da un lato, infatti, si è sostenuto che il dolo richiesto ai fini della configurabilità del reato de quo sussista anche qualora l’omissione abbia ad oggetto una compravendita immobiliare effettuata per atto pubblico e, come tale, soggetta a trascrizione nei registri immobiliari, «in quanto la pubblicità correlata alla trascrizione non garantisce l’effettiva conoscenza da parte dell’amministrazione finanziaria dei mutamenti dello stato patrimoniale dell’interessato», assicurata invece dalla eseguita segnalazione [Trib. Bari, sez. riesame, 26.10.2006; in senso conforme, già Cass., 18.02.2003]; e dall’altro, viceversa, che l’omessa comunicazione alla polizia tributaria dell’acquisto di un immobile con destinazione a civile abitazione, non integri, proprio «per mancanza di prova del dolo», la fattispecie criminosa in esame «nel caso in cui l’omittente nulla ha fatto per occultare l’incremento del proprio patrimonio o per renderne difficoltoso l’accertamento» (Trib. Caltanissetta, 19.10.2000). Orbene, in tale contesto, la Suprema Corte ha affermato, nel solco tracciato dall’ordinanza della Corte costituzionale n. 442/2001, che – in considerazione della ratio di tutela dell’incriminazione e di una lettura costituzionalmente orientata del dettato normativo – il dolo del reato di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali vada radicalmente escluso quando «la pubblicità sia comunque assicurata e sia di per sé impossibile l’occultamento degli atti soggetti a comunicazione». Pertanto, proseguono i giudici di legittimità, «se l’indagine processuale non ha consentito di rinvenire, oltre la materiale realizzazione dell’omissione tipica, alcun elemento sintomatico della deliberata volontà di occultare l’incremento patrimoniale, che risulta anzi smentita dalle forme di pubblicità che l’autore ha prescelto per la formazione del relativo negozio, non appare lecito configurare la fattispecie criminosa mediante un’operazione ricostruttiva dell’elemento psicologico che presuma il dolo “in re ipsa”: palese violazione, quindi, dei precetti costituzionali in tema di colpevolezza e di responsabilità penale dell’imputato» (Cass., 30.1.2002, n. 10024). Ed ancora, confermando la necessità di una indagine specifica sulla effettiva e consapevole volontà di omettere la comunicazione da parte di coloro che ne sono obbligati, «posto che la prova del dolo si trae dagli aspetti obiettivi del fatto, anche in ipotesi di reato con evento (giuridico) di pericolo presunto», si ammette in altra, più recente pronuncia della Suprema Corte, «che la pubblicità altrimenti assicurata dall’atto (e si badi, nella specie non si tratta di acquisto a titolo oneroso, bensì di successione ereditaria, ovvero di mutamento patrimoniale che non richiede alcuna iniziativa dell’agente), ferma la sua diversità di funzione, può in concreto essere ragione di un errore, che non concerne la previsione di legge per se stessa (…), ma l’elemento di fatto della comunicazione, vieppiù se si è in presenza di una mutazione patrimoniale attestata da un notaio e se del caso ancorata ad una valutazione». E ciò evidentemente perché – chiariscono in modo esplicito i giudici di legit-

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timità – «ancorché la pubblicità dell’atto da cui è scaturito il mutamento patrimoniale non valga a sostituire la predetta comunicazione prevista dalla legge, è necessario accertare – trattandosi di delitto e non di contravvenzione o di mera violazione amministrativa – la rappresentazione e la volizione del fatto antigiuridico» [Cass., sez. V, 17.01.2005, n. 3079]. La stessa Suprema Corte rileva che il segnalato conflitto giurisprudenziale è invero solo apparente, giacché anche laddove si sostiene che la pubblicità dell’atto non esclude la rilevanza dell’obbligo di informazione, «questo rilievo, ineccepibile, non autorizza tuttavia a ritenere superato il dovere di prova del dolo in concreto rammentato» dalla giurisprudenza di merito e dal primo orientamento esaminato della giurisprudenza di legittimità. Insomma, il delitto in esame «richiede una indagine specifica sulla effettiva e consapevole volontà di omettere la prescritta comunicazione», non potendosi presumere la sussistenza di un dolo in re ipsa desunto dalla mera condotta omissiva finanche nel caso in cui la variazione patrimoniale sia realizzata con una compravendita immobiliare stipulata a mezzo di atto pubblico notarile, certificativo di quella forma di pubblicità legale che avrebbe consentito all’autorità competente di conoscere i dati ai quali si riferisce l’obbligo di comunicazione [Cass., sez. V, 25.2.2005, n. 14996]. E ciò «del resto, in consonanza con le statuizioni dell’ordinanza costituzionale n. 442 del 2001 (…). Sennonché non può fondatamente dubitarsi dell’esistenza di un onere di allegazione da parte dell’imputato (…) circa la sua buona fede rispetto ad una vicenda contrassegnata da un atto di acquisto di un bene, cui ha fatto seguito un atto di alienazione del bene stesso. Tanto più considerando che, vertendosi in tema di errore di diritto, l’ignoranza della legge penale diviene rilevante solo nei limiti dell’inevitabilità (cfr. la sentenza costituzionale n. 364 del 1988; nonché Cass. Sez. Unite 10.06.1994, Calzetta)» [Cass., sez. VI, 23.9.2005, n. 38657; in senso conforme, Cass., sez. V, 25.2.2005, n. 14996]. Resta, infatti, presupposto imprescindibile della responsabilità penale l’azione cosciente e volontaria del soggetto. Il che implica «o l’effettiva conoscenza dell’obbligo ovvero una conoscenza da considerare presunta “ex lege” sulla base dell’art. 5 c.p., in assenza delle condizioni nelle quali, secondo i principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 364/1988, può ravvisarsi l’ignoranza inevitabile, e quindi scusabile, della legge penale. Mancando la prova della effettiva conoscenza, occorre quindi verificare la sussistenza o meno di tali condizioni» [Cass., sez. V, 25.02.2005, n. 14996]. In proposito, appare interessante evidenziare che secondo la Suprema Corte tali condizioni non sarebbero ravvisabili nella mancata indicazione dell’obbligo di comunicazione nella carta precettiva da consegnare al sorvegliato speciale, né nel fatto che l’imputato, all’epoca detenuto, avesse dovuto chiedere alla competente autorità giudiziaria l’autorizzazione alla stipula dell’atto di compravendita, né ancora nel contrasto giurisprudenziale sussistente in materia [Cass., sez. V, 25.02.2005, n. 14996; sul punto v. anche G.I.P. Trapani, 22.10.2002, che ha invece ammesso l’ignoranza inevitabile del precetto osservando che detto obbligo,

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oltre ad essere previsto da una disposizione rimasta inapplicata per quasi un ventennio, anche a causa dei mancati controlli da parte degli organi competenti, nella specie non era stato portato in alcun modo a conoscenza dell’imputato, neppure con il decreto di applicazione della misura di prevenzione, ove pure era contenuta l’elencazione di tutti gli altri obblighi ai quali il sorvegliato speciale doveva attenersi]. Volendo infine soffermarsi sul concorso tra il delitto in commento ed altre fattispecie criminose, si ritiene possibile anche in questo caso richiamare le osservazioni fatte in relazione al reato omissivo di cui all’art. 31 legge n. 646/1982, sul quale – come si è detto – è modulata la disposizione in commento. Sotto tale profilo, la giurisprudenza di legittimità ha ammesso il concorso tra il reato di omessa comunicazione disciplinato dal citato art. 31 (cui può assimilarsi la previsione dell’art. 76 comma 7) e quello contemplato dall’art. 12quinquies d.l. n. 306/1992, convertito con modificazioni nella legge n. 356/1992, ritenendo che tra le due fattispecie non vi sia comunanza di elementi (precisa in particolare la Suprema Corte: «Quest’ultima norma incrimina il fraudolento occultamento della titolarità di beni o della disponibilità di valori finalizzati ad eludere i provvedimenti previsti in materia di prevenzione patrimoniale. La prima norma, invece, incrimina l’omissione di comunicazione, entro il prescritto termine, delle variazioni patrimoniali operate da soggetti condannati per associazioni mafiose o da soggetti sottoposti a misure di prevenzione: condotte del tutto autonome e successive a quelle con cui si realizzano gli acquisti medesimi. Egualmente diversi sono i presupposti e la ratio della confisca. In forza dell’art. 31 si confiscano gli acquisti o i corrispettivi derivanti dalle variazioni patrimoniali non comunicate: si punisce e si confisca in ragione dell’omissione di comunicazione, ossia della mera sottrazione al controllo. Nell’ipotesi dell’art. 12 sexies la confisca obbligatoria è condizionata agli ulteriori presupposti dell’impossibilità da parte del soggetto di giustificare la provenienza dei beni e della sproporzione tra il valore dei beni e i redditi del soggetto, presupposti che costituiscono indici sintomatici della provenienza illecita delle risorse finanziarie impiegate negli acquisti»; Cass., sez. VI, 12.5.2005, n. 35670]. Tale impostazione è stata invero criticata in dottrina a cagione della innegabile stretta correlazione tra le due fattispecie incriminatrici. In primo luogo, deve rilevarsi infatti che l’art. 12-quinquies sanziona l’occultamento della titolarità di beni o della disponibilità di valori finalizzato, appunto, alla elusione dei provvedimenti in materia patrimoniale correlati all’applicazione di misure di prevenzione antimafia. E poi non può negarsi che lo scopo ultimo di entrambe le disposizioni è quello di colpire condotte volte a sottrarre i beni al controllo patrimoniale – perché probabilmente di origine illecita – e di assicurare così la tutela del mondo economico da infiltrazioni criminali e, più in generale, l’ordine pubblico. Una volta appurato che le due fattispecie abbiano a oggetto la tutela del medesimo bene, ed escluso che il riferimento alla clausola di riserva contemplata dall’art. 12-quinquies consenta comunque di superare la questione – operando la

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stessa esclusivamente nei confronti di fattispecie criminose più gravi – si ritiene che debba trovare applicazione il principio di assorbimento, vertendosi in tema di ne bis in idem sostanziale. In tal senso, si considera prevalente (ovvero assorbente) il reato di cui all’art. 12-quinquies, posto che l’incriminazione dell’omessa comunicazione delle variazioni di patrimonio può essere letta come una forma anticipata di tutela rispetto alle condotte di occultamento della titolarità, sorta di fattispecie propedeutica assorbita nell’ipotesi più grave del trasferimento fraudolento di valori. E ciò nonostante debba riconoscersi alla fattispecie in esame una maggiore efficacia in concreto sotto il profilo della confisca, potendosi sottoporre alla misura ablativa i beni acquistati ovvero il corrispettivo di quelli alienati per cui sia stata omessa la comunicazione (eventualmente anche per equivalente), senza la necessità di accertarne la sproporzione rispetto al reddito o all’attività economica.

8. Il divieto di propaganda elettorale (art. 76 commi 8 e 9). Il dettato normativo dei commi 8 e 9 riproduce in modo puntuale le recenti prescrizioni statuite dalla legge n. 175/2010. Con la novella del 2010, composta di due soli articoli, il legislatore – intervenendo sul nodo cruciale dei rapporti tra politica e organizzazioni criminali – ha introdotto nel nostro ordinamento specifiche disposizioni concernenti il divieto di svolgimento di propaganda elettorale per le persone sottoposte a misure di prevenzione. In particolare, l’art. 1 prevedeva la nuova fattispecie criminosa, disponendo l’inserimento nell’art. 10 legge n. 575/1965 dei commi 5-bis.1 e 5-bis.2, mentre l’art. 2 disciplinava gli effetti della condanna sul candidato. Nel Codice delle leggi antimafia, operandosi una scelta sistematica condivisibile, il divieto di propaganda elettorale di cui all’art. 10 comma 5-bis.1 legge n. 575/1965 è stato fedelmente riprodotto dall’art. 67 comma 7, mentre il reato di violazione di tale divieto, nonché gli effetti della condanna sono stati inseriti ai commi 8 e 9 dell’art. 76, che ricalcano in modo altrettanto puntuale, rispettivamente, l’art. 10 comma 5-bis.2 legge n. 575/1965 e l’art. 2 legge n. 175/2010. Trattandosi di norme di identico tenore, nessun problema si pone ovviamente in tema di successione di leggi penali nel tempo, pur alla luce della espressa abrogazione dell’intera legge n. 575/1965 sancita dall’art. 120 comma 1 lett. b) d.lgs. n. 159/2011. Sotto tale profilo è comunque da segnalare la svista compilativa consistente nella mancata abrogazione dell’intera legge n. 175/2010, il cui contenuto, solo in parte inserito direttamente nel corpo della legge n. 575/1965, è oggi completamente riversato – come si è detto – nel vigente Codice antimafia. La norma in commento, ferma restando una clausola di riserva nei confronti

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Le misure di prevenzione. Profili di diritto sostanziale

di più gravi reati, punisce con la pena della reclusione da uno a cinque anni la violazione del divieto di svolgere attività di propaganda elettorale imposto alle persone sottoposte in via definitiva alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. Ed applica la medesima sanzione anche al candidato che, «avendo diretta conoscenza della condizione di sottoposto in via definitiva alla misura», si rivolga al sorvegliato speciale per le attività di propaganda e se ne avvalga concretamente, a condizione che la prova dell’esistenza del fatto – precisa il legislatore, evidentemente preoccupato di limitare la discrezionalità dell’operatore del diritto nella valutazione della prova – risulti non solo dalle dichiarazioni rese dal soggetto sottoposto alla misura di prevenzione, ma anche da elementi ulteriori che eventualmente quelle dichiarazioni riscontrino. La condanna alla pena della reclusione – anche se sospesa e pur a seguito di applicazione di pena su richiesta – comporta l’interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena detentiva, con conseguente ineleggibilità del condannato per l’intero periodo.

Bibliografia. BRICOLA, Commento articolo per articolo alla l. 13/9/182 n. 646. Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, in Leg. pen., 1983, 237; D’ARGENTO, Minus quam delicti, Bari, 1997, 111; MALAGNINO (a cura di), Il codice antimafia – Commento al d. Lgs. 6 settembre 2011, Torino, 2011, 213; DI CHIARA, Commento articolo per articolo alla l. 13/9/182 n. 646. Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, in Leg. pen., 1983, 244; FILIPPI, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, Padova, 2002, 281; C. FIORE, S. FIORE, Diritto penale – Parte generale, Torino, 20083, 157. FURFARO (a cura di), Misure di prevenzione, Torino, 2013, 143. PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 20062, 71; GALATI, Commento articolo per articolo alla l. 13/9/182 n. 646. Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, in Leg. pen., 1983, 313; GIUNTI, Contravvenzione al foglio di via obbligatorio e permanenza nel reato, in Cass. pen., 1978, 1535; GUERRINI, MAZZA, Le misure di prevenzione: profili sostanziali e processuali, Padova, 1996, 109; C. MACRÌ, V. MACRÌ, La legge antimafia, Napoli, 1983, 77; MALAGNINO (a cura di), Il codice antimafia – Commento al d. Lgs. 6 settembre 2011, Torino, 2011, 196; MAUGERI, Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e garantismo, 2001, 428; MOLINARI, Nota alla sentenza Trib. Crotone 02.03.2000, Scalise, in Cass. pen., 2001, 1632; RUSSO, voce Processo di prevenzione, in Enc. giur. Treccani, XXIV, Roma, 1991, 17.

Parte Quinta

Il procedimento giurisdizionale per l’applicazione delle misure di prevenzione

Capitolo I

I soggetti del procedimento di prevenzione

Sommario

1. Premessa. – 2. Le misure di sicurezza personali: i soggetti (artt. 1 e 4 del Codice antimafia). – 3. I soggetti “attivi” della prevenzione personale (art. 5). – 4. Il giudice. – 5. Il difensore. – 6. I soggetti delle misure di prevenzione patrimoniali (art. 16). – 7. Titolarità della proposta (art. 17). – Bibliografia.

1. Premessa. La disciplina delle misure di prevenzione non è stata inserita dal legislatore all’interno del codice di procedura penale che, in argomento, si limita ad operare un mero rinvio «agli istituti o alle disposizioni del codice che disciplinano la corrispondente materia» (art. 208 disp. att. c.p.p.). Le disposizioni che regolamentano i soggetti del procedimento di prevenzione propongono un complesso di regole dal quale emerge comunque la triade giurisdizionale tipica che caratterizza anche il rito penale: giudice, proposto e difensore, pubblico ministero. L’iniziale copiosità e disorganicità della legislazione aveva, prima dell’ultima modifica normativa, reso diffusa la richiesta di interventi sulle criticità della legislazione speciale antimafia attraverso la redazione di un testo unico diretto a coordinare l’intera normativa, sia penale – fondata sulla responsabilità al di là di ogni ragionevole dubbio [per una ricostruzione storica v. (b) CAIRO, 1047] –, sia delle misure di prevenzione – fondata sull’indizio e sulla pericolosità della persona [Cass. pen., sez. II, 23.3.2012, n. 16348, in D&G., 0, 2012, 370] –. A tali considerazioni si aggiungevano, poi, le istanze dirette ad invocare il rispetto delle garanzie costituzionali [C. cost., n. 2/1956, n. 177/1980 e n. 93/ 2010] e della Convenzione europea [CORDA, 407] per la salvaguardia dei diritti dell’uomo [CEDU, 5.1.2010, Bongiorno e altri; C. cost., 12.3.2010, n. 93], pur nella consapevolezza della diversità tra il “grado” di garanzie da ricondurre alle -

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Il procedimento giurisdizionale per l’applicazione delle misure di prevenzione

limitazioni della libertà personale e quello relativo alle limitazioni del patrimonio (ampie limitazioni del diritto di proprietà e di impresa, per utilità o funzione sociale, sono previste sia dalla Costituzione italiana – artt. 41 comma 2 e 42 comma 2 – che dall’art. 1 comma 2 del protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo). In questo contesto è stato coniato l’attuale t.u., conosciuto come «Codice antimafia», composto da quattro libri, nell’ambito del quale le misure di prevenzione personali e patrimoniali sono disciplinate nei titoli I e II del libro I.

2.

Le misure di sicurezza personali: i soggetti (artt. 1 e 4 del Codice antimafia).

I principi previsti dall’art. 1 comma 3 lett. a) nn. 3, 5, 6 e 7 della legge n. 136/2010 hanno trovato attuazione, per quanto di nostro interesse, nei capi I e II del libro I del Codice antimafia attraverso innovative previsioni che hanno il merito di aver posto fine ad annose incertezze interpretative ed applicative della precedente legislazione (in verità l’opera di ricognizione della normativa sulle misure di prevenzione, pur imponente, non è completa: mancano le disposizioni sulle misure di prevenzione personali previste da leggi speciali nei confronti dei tossicodipendenti, contro la violenza in ambito familiare e nell’ambito sportivo). In particolare, la norma in questione ha espressamente previsto la possibilità che le misure di prevenzione personali e patrimoniali possano essere chieste ed applicate disgiuntamente; ha disciplinato in modo organico la categoria dei soggetti destinatari delle misure, raccogliendo le disposizioni sulle categorie di pericolosità (c.d. “tipologie”) in precedenza contenute in più leggi ed oggi uniformate sia nei presupposti che negli organi proponenti (artt. 4 e 5 Codice); ha introdotto il diritto del proposto di chiedere che il procedimento si svolga in pubblica udienza; ed, infine, ha introdotto la possibilità di procedere all’audizione dei testimoni mediante videoconferenza ai sensi degli artt. 146-bis e 147-bis comma 2 disp. att. c.p.p. e dell’interessato mediante “rogatoria” del magistrato di sorveglianza territorialmente competente. Quanto alle disposizioni sul procedimento (art. 7), in dottrina [MENDITTO, 792] si sottolinea come esse costituiscano – laddove non meramente ricognitive – un arretramento rispetto alle interpretazioni giurisprudenziali che davano compiuta applicazione ai principi costituzionali. Il titolo I del codice è ripartito in due capi: il primo dedicato alla disciplina delle misure di prevenzione personali applicate dal questore, il secondo relativo alle misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria. Attualmente, dunque, i destinatari delle misure di prevenzione personali applicate dal questore sono individuati nell’art. 1 del Codice antimafia, il quale, in realtà, raccoglie le categorie di soggetti già indicati nell’art. 1 della precedente legge n. 1423/1956; si tratta, dunque, di a) coloro che debbano ritenersi, sulla ba-

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se di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi; b) coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; c) coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica (art. 1 comma 1 nn. 1, 2 e 3 della legge n. 1423/1956). Tali soggetti sono i destinatari del foglio di via obbligatorio, dell’avviso orale – che rappresenta la vera innovazione, in quanto prevista come misura autonoma non propedeutica all’applicazione di misure da parte dell’A.G. – e dei divieti di cui all’art. 3 comma 4 del codice (divieto di possedere determinati apparati che possono agevolare la condotta pericolosa). Nei confronti delle prime due categorie indicate nell’art. 1 non si registrano innovazioni della disciplina attuale rispetto alla normativa previgente; quanto, invece, alla terza categoria di soggetti, v’è da segnalare un’autentica novità: l’applicazione nei loro confronti delle misure di prevenzione personali da parte dell’autorità giudiziaria anche senza preventivo avviso, nonché delle misure di prevenzione patrimoniali già previste dalla legge n. 575/1965. In base alla previgente disciplina, infatti, nei confronti dei soggetti di cui al n. 3 dell’art. 1 della legge n. 1423/1956 era necessario, al fine dell’applicazione della misura della sorveglianza speciale di p.s., il previo avviso da parte del questore; nessuna misura di prevenzione patrimoniale, poi, poteva essere applicata a tale categoria. Sul punto, peraltro, la giurisprudenza riteneva che l’avviso orale riguardasse solo le categorie di soggetti indicate nel n. 3 dell’art. 1 della legge n. 1423/1956 [Cass. pen., sez. I, 6.4.1993, n. 819; Cass. pen., sez. V, 25.1.1999, n. 38). La modifica in tal senso operata dal codice ha avuto il pregio di rendere uniforme la disciplina a tutte le categorie di soggetti indicati dall’art. 1, sia per quanto concerne le misure personali che per quel che riguarda le misure patrimoniali. Quanto ai soggetti destinatari delle misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria, la normativa previgente prevedeva l’applicazione ai soggetti indicati nelle leggi fondamentali della materia (legge n. 1423/1956 e legge n. 575/1965), nonché ad altri soggetti contemplati dalla vasta normativa speciale succedutasi nel tempo. Nello specifico la legge del ’56 contemplava tra i soggetti destinatari «coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi»; «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» e «coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica».

A tali soggetti, poi, la giurisprudenza della Cassazione riteneva applicabili le misure di prevenzione patrimoniali, a prescindere dalla tipologia dei reati di ri-

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ferimento, in virtù della natura “formale” del rinvio enunciato dall’art. 19 comma 1 della legge n. 22/1975 [Cass., S.U., 25.3.2010, in Giust. pen., II, 2010, 434; in precedenza, Cass. pen., 26.5.2009, in CED Cass. 2009/244789; Cass. pen., sez. II, 14.5.2009, in CED Cass. 2009/245251; Cass. pen., 5.2.2009, in CED Cass. 2009/244399; Cass. pen., sez. I, 17.9.2008, in CED Cass. 2008/241138; Cass. pen., sez. I, 2.5.2006, in CED Cass. 2006/234016]. La legge n. 575/1965, ancora, estendeva l’ambito applicativo delle misure personali ai soggetti «indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’art. 416bis c.p.» e, in seguito alla legge n. 125/2008 e alla legge n. 94/2009, ai soggetti «indiziati di uno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale ovvero del delitto di cui all’articolo 12-quinquies, comma 1 del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356». Infine, il d.l. 8.2.2007, n. 8, modificando la disciplina prevista dalla legge 13. 12.1989, n. 401, aveva esteso la possibilità dell’applicazione di misure di prevenzione personale anche alle «persone indiziate di avere agevolato gruppi o persone che hanno preso parte attiva, in più occasioni, alle manifestazioni di violenza di cui all’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401». Attualmente, l’art. 4 del Codice antimafia stabilisce quali sono i soggetti destinatari delle misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria, limitandosi a ricondurre ad unità le diverse disposizioni disseminate nella legislazione speciale, senza introdurre modifiche alla previgente legislazione. È utile però ricordare che è stata eliminata la necessità di previa emissione dell’avviso orale per l’applicazione della misura di prevenzione nei confronti dei soggetti indicati nel precedente art. 1 comma 1 lett. c) del Codice antimafia. Il nuovo Codice antimafia, poi, ricalca pedissequamente la previgente normativa, allorquando richiede la necessaria sussistenza di due requisiti soggettivi per l’applicazione di una misura di prevenzione personale: gli indizi di appartenenza ad una associazione di stampo mafioso e la attuale pericolosità del proposto [Cass. pen., sez. I, 12.4.2012, n. 16145, in D&G, 0, 2012, 431, con nota di Fontana]. Nello specifico, la norma prevede, alla lett. a) e b), l’applicazione delle misure personali da parte dell’autorità giudiziaria a coloro che sono indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’art. 1; agli indiziati di uno dei reati previsti dall’art. 51 comma 3-bis c.p.p. ovvero del delitto di cui all’art. 12-quinquies comma 1 del d.l. 8.6.1992, n. 306, convertito con modificazioni, dalla legge 7.8.1992, n. 356. La successiva lett. c) del comma 4 prevede l’applicazione delle misure di prevenzione personali ai soggetti indicati dall’art. 1 (destinatari cioè delle misure di prevenzione applicate dal questore) – e dunque di tutti i soggetti originariamente indicati dalla legge n. 1423/1956 – senza la necessità del previo avviso orale. Le successive lett. d), e), f), g) e h) dell’art. 4 in commento ricomprendono, poi, i soggetti indicati dall’art. 18 comma 1 nn. da 1 a 4 della legge 22.5.1975, n. 152, ad eccezione delle «persone fisiche e giuridiche segnalate al Comitato per le -

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sanzioni delle Nazioni Unite, o ad altro organismo internazionale competente per disporre il congelamento di fondi o di risorse economiche, quando vi sono fondati elementi per ritenere che i fondi o le risorse possano essere dispersi, occultati o utilizzati per il finanziamento di organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali». Tale esclusione dal novero dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione personali è giustificata dai peculiari presupposti di applicabilità previsti nei loro confronti, pertanto, nei loro riguardi, sono applicabili le sole misure di prevenzione patrimoniali previste nel successivo art. 16 comma 1 lett. b) del Codice antimafia. La lett. i) del comma 4, infine, contempla l’applicazione delle misure personali anche nei confronti delle «persone indiziate di avere agevolato gruppi o persone che hanno preso parte attiva, in più occasioni, alle manifestazioni di violenza di cui all’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401». Si deve segnalare, poi, che anche nel procedimento di prevenzione, così come in quello ordinario, si registrano due deroghe all’applicazione delle misure di prevenzione: la prima è quella riguardante i minorenni (si veda a tal proposito l’art. 6 della legge n. 401/1989 che prevede misure di prevenzione applicabili ai minori degli anni diciotto che abbiano compiuto quattordici anni; in tal caso il provvedimento è notificato a coloro che esercitano la potestà genitoriale sul minorenne); la seconda riguarda, invece, l’infermo di mente che non sia in grado di partecipare coscientemente al processo.

3. I soggetti “attivi” della prevenzione personale (art. 5). Per quanto concerne la titolarità del potere di proposta delle misure di prevenzione personali, il legislatore, attraverso le norme introdotte con il d.lgs. n. 159/2011, ha individuato i soggetti legittimati ad avviare il procedimento di prevenzione attraverso una proposta indirizzata al giudice competente; con ciò distinguendo tra il caso in cui le misure siano indirizzate nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 del Codice antimafia ovvero riguardino i soggetti indicati nel comma 4 lett. i) – cioè le persone indiziate di avere agevolato gruppi o persone che hanno preso parte attiva, in più occasioni, alle manifestazioni di violenza di cui all’art. 6 della legge n. 401/1989 –, e il caso in cui le misure siano indirizzate ai soggetti previsti nel comma 4 della stessa legge, distinguendosi, dunque, le autorità che hanno il potere di proposta in ragione dei destinatari della misura stessa. Il retaggio dovuto alla passata natura amministrativa [v. L. FILIPPI, M.F. CORTESI, 120] delle misure di prevenzione, nate come strumenti di controllo del disagio sociale [per un’analisi sulla natura giuridica delle misure di prevenzione si v. CORDERO, 1107], ha indotto il legislatore a mantenere ferma la titolarità del potere di proposta sia in capo ad organi amministrativi di polizia che

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all’autorità giudiziaria [v. MENDITTO, 792]: per i soggetti previsti dall’art. 4 del codice, il successivo art. 5 attribuisce la titolarità della proposta delle misure della sorveglianza speciale di p.s. e dell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale al questore, al procuratore nazionale antimafia, al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo di distretto ove dimora la persona e al direttore della direzione investigativa antimafia. Ove le misure siano invece indirizzate nei confronti dei soggetti di cui all’art. 1 o nei confronti dei soggetti indicati nell’art. 4 lett. i), di competenza funzionale questorile, le relative funzioni e competenze sono attribuite al procuratore della Repubblica presso il tribunale nel cui circondario dimora la persona. In tali casi, inoltre, il comma 2 dell’art. 5 prevede che le funzioni di pubblico ministero in udienza possano essere esercitate dal procuratore della Repubblica presso il tribunale competente. Secondo parte della dottrina [(b) FIORENTIN, 139], però, la stesura della disposizione dell’art. 5 comma 2 (e 17 comma 2), con riguardo al pubblico ministero di udienza, appare difettosa, laddove, nei casi indicati, il pubblico ministero non può che essere quello presso il tribunale nel cui circondario dimora il prevenuto e solo nei casi di udienza di prevenzione antimafia può essere consentita anche la partecipazione di quest’ultimo al posto del p.m. distrettuale. Al di fuori di tali ipotesi, le funzioni di pubblico ministero, nelle udienze relative ai procedimenti per l’applicazione delle misure di prevenzione, sono esercitate dalla procura distrettuale, ex art. 5 comma 3 del decreto legislativo. Il novero dei soggetti legittimati alla proposta di applicazione di una misura di prevenzione ha natura tassativa; pertanto, nel caso in cui la proposta provenga da soggetti diversi da quelli indicati dalle norme, la relativa richiesta andrà considerata inammissibile [MOLINARI, PAPADIA]. 4. Il giudice. L’art. 5 comma 4 del Codice antimafia, che attribuisce la competenza per l’applicazione delle misure di prevenzione al tribunale in composizione collegiale, ha disegnato la competenza territoriale del giudice sulla base di due presupposti: da un lato, la previsione dell’ubicazione del soggetto (dimora); dall’altro, il momento cronologico nel quale è stata formulata la proposta, ovvero nel quale il procedimento di applicazione ha preso avvio ex officio (nell’ipotesi di misure patrimoniali). L’applicazione dei due criteri determina il giudice competente. A tale riguardo la giurisprudenza consolidatasi sotto la precedente disciplina riteneva che, nel procedimento di prevenzione, la dimore utile a radicare la competenza fosse quella individuata con riferimento allo spazio geografico-ambientale in cui il soggetto manifesta i suoi comportamenti socialmente pericolosi, anche se tale luogo è diverso da quello di dimora abituale [Cass. pen., sez. I, 18.1.2007, n. 1281; Cass. pen., sez. II, 15.4.2004]. L’orientamento nasceva da una risalente pronuncia delle Sezioni Unite [Cass., S.U., 17.7. -

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1996, n. 18] secondo la quale la competenza per territorio a decidere in materia di applicazione di misure di prevenzione spetta al tribunale del capoluogo di provincia nella quale il proposto ha la sua dimora la quale, anche se non coincidente con la residenza anagrafica, va individuata nel luogo in cui il proposto ha tenuto comportamenti sintomatici idonei a lasciar desumere la sua pericolosità, a nulla rilevando eventuali modificazioni intervenute successivamente alla proposta di applicazione della misura. Di conseguenza, nell’ipotesi in cui dagli atti emerga il coinvolgimento del soggetto in attività criminali in una specifica zona del territorio nazionale, la circostanza che egli abbia trasferito la residenza all’estero, non può assumere alcun rilievo, in mancanza della prova dell’interruzione del collegamento con il territorio nazionale [Cass. pen., sez. VI, 15.4.2004, n. 23090].

Tale criterio di individuazione è considerato, in dottrina, piuttosto aleatorio e incerto, essendo fondato su una valutazione soggettiva [(b) FIORENTIN, 147]. È stato esattamente osservato, infatti, che il criterio di individuazione della competenza territoriale del tribunale stabilita in relazione al luogo in cui il proposto si trova al momento della proposta o dell’attivazione d’ufficio del procedimento, dovrebbe avere, in ossequio al principio dell’art. 25 Cost., un carattere oggettivo, e riferirsi, dunque, a situazioni di “permanenza”, sia pure di breve durata, del proposto in un determinato luogo [Cass. pen., sez. I, 18.2.1999, n. 91]. Le perplessità sull’argomento, poi, risultano accentuate nelle ipotesi in cui la misura debba essere applicata ad un soggetto responsabile di comportamenti pericolosi posti in essere mediante una pluralità di condotte perpetrate in luoghi diversi. In tali casi, la Cassazione ha individuato la competenza ad applicare le misure di prevenzione nel giudice del luogo in cui si sarebbero verificate le condotte di maggiore spessore e rilevanza [Cass. pen., sez. V, 19.4.2010, n. 19067; Cass. pen., sez. VI, 15.5.2003, n. 21710].

L’individuazione del giudice competente risulta problematica anche nei casi in cui il proposto si trovi all’estero: a tale riguardo, però, in relazione alle misure di carattere patrimoniale, nelle ipotesi previste dall’art. 18 del d.lgs. n. 159/ 2011, il criterio di individuazione della competenza, per i casi di persona assente, irreperibile o residente all’estero, viene fatto coincidere con quello dell’ultima dimora in Italia; si ritiene che l’indicazione normativa, con tutta probabilità, verrà utilizzata, nella pratica, anche con riferimento alle misure personali. -

Per quanto attiene poi alla individuazione del luogo di dimora, la Cassazione, seguendo un orientamento consolidato anche in materia di individuazione della competenza nel processo penale, si richiama al principio della c.d. perpetuatio jurisdictionis, secondo il quale la competenza si radica al momento della proposta o dell’instaurazione del procedimento d’ufficio, rimanendo ferma anche nel caso di successive variazioni [Cass. pen., sez. I, 26.5.2000; Cass. pen., sez. I, 17.1.1994]. Nel caso di plurime iscrizioni, di conseguenza, la competenza è determinata in capo all’organo giudiziario adito per primo, sicché essa non è suscettibile di mutare in seguito al successivo trasferimento del proposto in altro luogo o dimora. La questione relativa all’incompetenza territoriale del giudice è segnata da un certo contrasto giurisprudenziale: la Suprema Corte ha talora affermato che, nel procedimento di prevenzione, la competenza del giudice, essendo correlata al “genus” dell’incompetenza funzionale dell’organo proponente, ed essendo di conseguenza essa stessa di natura funzionale ed inderogabile, è rilevabile in ogni stato del procedimento [Cass. pen., sez. V, 31.3.2010, n. 19067, in Cass. pen., II, 2011, 713]; tal’altra, invece, la giurisprudenza ha stabilito che nel procedimento di prevenzione non è consentito rilevare o eccepire l’incompetenza per territorio oltre il termine di decadenza individuato, in tale materia, nella conclusione della discussione di primo grado

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[Cass. pen., sez. VI, 3.12.1999, n. 4041, in Cass. pen., 2001, 1916]. Anche nel procedimento di prevenzione il giudice non si sottrae alla necessaria posizione di terzietà rispetto alle parti, che si desume principalmente dall’assenza di iniziativa d’ufficio, diversi ovviamente da quelli probatori che sono, invece, preponderanti [sull’abnormità del provvedimento assunto per iniziativa giudiziale con riferimento al procedimento disciplinato dagli artt. 666 e ss. c.p.p. v. Cass. pen., sez. III, 25.9.1992, in Cass. pen., 1994, 1282], dalla previsione di un potere di proposta assegnato a determinati organi e, infine, dal “principio della domanda”, che limita la conoscenza ed i poteri d’intervento del giudice competente al contenuto dell’atto di impulso senza la possibilità di decisioni o iniziative esorbitanti rispetto al petitum.

Quanto al c.d. principio di immutabilità, previsto dall’art. 525 comma 2 c.p.p., che tutela l’esigenza fondamentale dell’identità tra il giudice che ha provveduto alla trattazione e quello che ha provveduto alla decisione, esso è ritenuto applicabile per analogia anche al procedimento di prevenzione sia pure in ragione della più semplificata procedura caratterizzata dal rito camerale. Il punto nodale, in argomento, è rappresentato dalla possibilità – o meno – di applicare al giudizio di prevenzione, tal quali, le norme e la ricostruzione giurisprudenziale relative al rito penale ordinario. La giurisprudenza di legittimità più risalente aveva affermato la necessità che la decisione giurisdizionale, nel procedimento di sorveglianza, fosse emanata dal medesimo giudice della procedura, argomentando in favore di una applicazione analogica tout court dell’art. 525 comma 2 c.p.p. [Cass. pen., sez. I, 18.3.1994, in Cass. pen., n. 1154, 1995, 1986]. Altre opzioni giurisprudenziali più recenti, al contrario, escludono la necessità dell’identità dei giudici nell’udienza camerale finalizzata all’accertamento della pericolosità. Ne consegue che la violazione del principio de quo è esclusa nel caso in cui il giudice dinanzi al quale si è svolta la trattazione e la discussione sia persona fisica diversa da quello che aveva in precedenza disposto l’ammissione, il deposito e l’acquisizione di atti e documenti conosciuti dalle parti [Cass. pen., sez. I, 8.5.2001, n. 22729]. Allo stesso modo, si ritiene che il principio di immutabilità non sia violato nel caso di mutamento del giudice qualora la sostituzione si verifichi in seguito ad udienza di mero rinvio della trattazione; ovvero nel caso in cui la trattazione e discussione si svolgano dinanzi al medesimo collegio che utilizzi per la decisione atti – conosciuti dalle parti – in precedenza ammessi davanti a collegio diversamente composto [Cass. pen., sez. VI, 11.2.2009, n. 5912]. Secondo tale restrittiva interpretazione del principio, in definitiva, solo nel caso in cui le conclusioni delle parti siano ricevute da un collegio diverso da quello decidente, il mutamento dell’organo giudicante determinerebbe la nullità assoluta prevista dall’art. 525 c.p.p.; nelle diverse ipotesi in cui le parti siano ammesse a dedurre di nuovo le conclusioni dinanzi ad un collegio diversamente composto prima della decisione, la suddetta nullità non si ritiene verificata [Cass. pen., sez. V, 15.1.2004, n. 5737, in Giust. pen., III, 2005, p. 191]. In verità la giurisprudenza di legittimità è contrastante riguardo all’applicazione del principio di immutabilità nel procedimento di prevenzione: per altro orientamento, infatti, la natura cautelare del procedimento di prevenzione consentirebbe la diversa composizione del collegio tra un’udienza ed un’altra, dovendosi ritenere applicabili, in definitiva, le disposizioni dell’art. 525 c.p.p. al solo procedimento ordinario [Cass. pen., sez. I, 18.1.2000, in Cass. pen., 2001, 635]. In altre pronunce, la giurisprudenza di legittimità ha escluso l’applicazione del principio di immediatezza della deliberazione al procedimento di prevenzione, in quanto il collegio non solo può riservarsi la decisione e deliberare in un momento successivo, ma può, anche successivamente alla riserva della decisione, acquisire, su richiesta del pubblico ministero, elementi di giudizio sopravvenuti, con la sola prescrizione del rispetto del contraddittorio, che è valore di garanzia ineludibile anche in tale procedimento [Cass. pen., sez. V, 25.1.2008, n. 18176; Cass. pen., sez. IV, 23.2.2005, n. 27370].

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Al procedimento di prevenzione si ritiene applicabile, infine, l’istituto dell’incompatibilità previsto dall’art. 34 c.p.p., anche se l’applicazione pratica da parte della giurisprudenza è stata sinora piuttosto restrittiva. La Suprema Corte, infatti, ha affermato che l’applicazione di una misura di prevenzione motivata anche con il richiamo incidentale e occasionale all’appartenenza del prevenuto a un’associazione per delinquere di stampo mafioso non rende il giudice che abbia concorso a disporla incompatibile nel successivo procedimento, nei confronti di altra persona appartenente al medesimo sodalizio criminoso [Cass. pen., sez. I, 7.2.2003, n. 6280]; sotto altro profilo la Cassazione ha stabilito il principio in base al quale l’aver fatto parte del collegio che ha applicato una misura di prevenzione non comporta l’incompatibilità del giudice nella procedura esecutiva avente ad oggetto il riconoscimento di un periodo di fungibilità [Cass. pen., sez. VI, 12.2.2003, n. 3278]. È stata dichiarata, a tale ultimo riguardo, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 c.p.p. sollevata con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede quale causa di incompatibilità del giudice a decidere sull’applicazione di una misura di prevenzione il fatto che lo stesso abbia preso parte all’adozione del provvedimento di sequestro dei beni, destinati ad essere in ipotesi confiscati, in ragione del carattere provvisorio ed interinale del provvedimento, destinato ad essere sostituito da altra pronuncia finale. In materia di misure di prevenzione patrimoniale è stato inoltre affermato che la disciplina dei casi di incompatibilità che possono dare luogo a legittime dichiarazioni di ricusazione, considerato il carattere eccezionale e tassativo delle disposizioni, non è applicabile nell’ambito del relativo procedimento [Cass. pen., sez. VI, 30.1.2008, n. 22960; Cass. pen., sez. II, 2.12.2008, n. 2821, in CED Cass. 2008/242720]. Altra parte della giurisprudenza, ammette, invece, la ricusazione anche nel procedimento di prevenzione in ragione della sua natura giurisdizionale e dell’applicazione, in quanto compatibili, ex art. 4 ultimo comma legge n. 1423/1956, delle norme sul processo penale e dunque anche di quelle tese a garantire la terzietà e l’imparzialità del giudice [Cass. pen., sez. V, 16.10. 2008, n. 3278]. -

5. Il difensore. La tutela delle garanzie difensive nell’ambito del procedimento di prevenzione è prevista nell’art. 7 comma 7 del d.lgs. n. 159/2011 che richiama, per quanto non espressamente previsto dal decreto, le disposizioni dell’art. 666 c.p.p. Il comma 4 della norma in esame prevede espressamente «la necessaria presenza del difensore e del pubblico ministero» all’udienza fissata in seguito alla proposta di applicazione della misura. La previsione conferma la connotazione dialettica del procedimento di prevenzione nel quale l’attenuata possibilità di interlocuzione diretta del proposto viene “bilanciata” da una serie di cautele defensionali. In questa ottica, infatti, oltre alla richiamata necessità del difensore – di fiducia o nominato d’ufficio – in udienza, si ascrivono le previsioni relative ai termini di comparizione, alla notifica dell’avviso, al termine di deposito delle memorie nonché la previsione dell’impugnabilità della decisione (ex artt. 9 d.lgs. n. 159/2011 e 666 comma 6 c.p.p.). Si noti, al riguardo, che secondo un consolidato orientamento giurispruden-

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ziale nel procedimento di prevenzione è prevista la nomina di un difensore di ufficio al proposto che ne risulti privo ma non il preventivo invito a nominare un difensore di fiducia; pertanto è onere dell’interessato, che abbia avuto regolare notificazione della data fissata per l’udienza, avvertire il difensore di fiducia eventualmente nominato perché possa parteciparvi [Cass. pen., sez. I, 3.8.1995, n. 3237; Cass. pen., sez. VI, 28.8.1992, n. 3042]. Le garanzie relative alla necessaria partecipazione del difensore all’udienza, alla necessità della notificazione della data di udienza e della possibilità di rappresentare l’impedimento dell’interessato che abbia chiesto di essere sentito, sono peraltro tutelate dalla espressa previsione di nullità [art. 7 comma 7 d.lgs. n. 159/2011]. L’assenza del difensore di fiducia dell’interessato dovuta all’omessa o irregolare notificazione dell’avviso di udienza concreta un’ipotesi di violazione dell’integrità del contraddittorio, ex art. 179 comma 1 c.p.p., anche nell’ipotesi in cui sia presente il difensore di ufficio [Cass. pen., sez. I, 2.7.1993, n. 1632]; allo stesso modo, la giurisprudenza ha ritenuto nulla l’udienza camerale per l’applicazione di una misura di prevenzione tenuta senza la nomina di un difensore di ufficio e senza valutare la richiesta di rinvio per legittimo impedimento del difensore di fiducia [Cass. pen., sez. VI, 29.7.1997, n. 1288]. Per ciò che concerne, poi, la partecipazione del proposto, la giurisprudenza è incline a ritenere che l’udienza possa essere rinviata nel caso di legittimo impedimento solo qualora l’interessato abbia manifestato espressamente la volontà di essere presente, non potendosi ricavare tale manifestazione nell’istanza di rinvio formulata dal difensore [Cass. pen., sez. I, 12.3.2003, n. 19535; Cass. pen., sez. I, 4.12.2007, n. 46614; Cass. pen., sez. VI, 2.3.1999, n. 803]. Sotto altro profilo, deve tuttavia essere evidenziato che, a garanzia dell’effettività del diritto di difesa, la Corte di Cassazione ha affermato che nei procedimenti camerali partecipati, quale quello di prevenzione, deve ritenersi che quando l’interessato, detenuto o internato in luogo posto fuori dalla circoscrizione del giudice, faccia richiesta di essere sentito personalmente, il giudice è vincolato, a pena di nullità, a disporne la traduzione [Cass. pen., sez. VI, 22.1.2008, n. 10319; si veda in argomento C. cost., 31.1.1991, n. 45]. La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto poi che la nomina del difensore di fiducia deve essere compiuta con puntuale riferimento al procedimento di prevenzione, non potendosi considerare valide precedenti nomine effettuate per altri procedimenti di prevenzione o nell’ambito del giudizio di merito [Cass. pen., sez. I, 11.10.2010, n. 36224]. Tema ancor più discusso è quello relativo all’impedimento addotto dal difensore di fiducia nominato dall’interessato: secondo consolidata giurisprudenza, le disposizioni contenute nell’art. 420-ter comma 5 c.p.p. – che prevedono il rinvio dell’udienza nel caso di legittimo impedimento del difensore – non possono trovare applicazione nei procedimenti camerali diversi dall’udienza preliminare, anche quando trattasi di procedimenti per i quali – come nel caso in esame – la presenza del difensore sia prescritta come necessaria [Cass. pen., S.U., 27.6.2006, n. 31461; Cass. pen., sez. I, 6.4.2000, n. 2634; in dottrina, in senso critico, CORBI, NUZZO, 199].

Allo stesso modo si ritiene che, proprio in ragione della peculiarità del rito camerale, non si verifichi lesione del diritto di difesa nel caso di mancata comparizione del difensore per impedimento qualora il giudice provveda alla nomina di un sostituto, ex art. 97 comma 4 c.p.p. Secondo la giurisprudenza, infatti, la necessità della partecipazione del difensore può essere soddisfatta anche dall’intervento di altro difensore immediatamente reperibile e designato come sostituto ai sensi del comma 4 dell’art. 97 c.p.p., al quale però deve essere assegnato un

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congruo termine per la preparazione della difesa [si veda, sempre con riferimento al rito camerali in genere, Cass. pen., sez. I, 13.3.2002, in Cass. pen., 2003, 1971; Cass. pen., sez. I, 23. 11.2001, in Guida dir., XIII, 2002, 90; Cass. pen., sez. I, 12.5.2000, in Cass. pen., 2002, 1439; Cass. pen., sez. I, 31.3.2000, in Cass. pen., 2001, 2432; sulla giurisprudenza costante formatasi sotto la vigenza dell’art. 486 comma 5 c.p.p. si veda per tutte Cass. pen., S.U., 8.4.1998. Contra, Cass. pen., sez. II, 17.4.1997, n. 187; Cass. pen., sez. I, 26.6.1997, n. 1735, secondo cui, nell’ambito del procedimento previsto dall’art. 666 c.p.p., deve farsi luogo a rinvio quando il difensore dell’interessato abbia prontamente comunicato il proprio legittimo impedimento a comparire].

L’orientamento è ritenuto non condivisibile in dottrina [(b) CAIRO, 1112], in ragione della complessità dei procedimenti di prevenzione patrimoniali che non permettono di assicurare il diritto di difesa attraverso l’assistenza di un avvocato nominato in udienza dal giudice; ciò anche in considerazione che il difensore d’ufficio nominato in udienza, in mancanza dei presupposti previsti dall’art. 108 c.p.p., non è legittimato a richiedere un termine a difesa. 6. I soggetti delle misure di prevenzione patrimoniali (art. 16). Il sistema vigente contempla misure personali, che hanno genesi nella legislazione fondamentale rappresentata dalla legge n. 1423/1956, e modelli di intervento patrimoniale, frutto della normativa antimafia contenuta nella legge n. 575/1965 e di numerosi testi normativi che, succedutisi nel tempo, hanno ampiamente modificato il corpus originario. L’art. 16 del d.lgs. n. 159/2011, rubricato “Soggetti destinatari” (delle misure di prevenzione patrimoniali), ha natura ricognitiva e modificativa del sistema in precedenza vigente. Tale intervento normativo, infatti, ha proceduto a riorganizzare i destinatari delle misure patrimoniali (art. 16), prima individuati in diversi testi di legge, con estensione anche ai soggetti previsti dall’art. 1 n. 3 della legge n. 1423/1956 (persone dedite alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica). Ciò posto, dunque, i soggetti destinatari della normativa in materia di prevenzione patrimoniale sono quelli catalogati nelle categorie previste dall’art. 4 del decreto, nonché «le persone fisiche e giuridiche segnalate al Comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite, o ad altro organismo internazionale competente per disporre il congelamento di fondi o di risorse economiche, quando vi sono fondati elementi per ritenere che i fondi o le risorse possano essere dispersi, occultati o utilizzati per il finanziamento di organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali». Quanto alla prima categoria, il rinvio operato nella lett. a) dell’articolo in commento ai soggetti di cui all’art. 4, estende dunque la possibilità di applicare le misure patrimoniali a tutti i pericoli c.d. generici, ampliando indistintamente

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le misure patrimoniali a tutti i soggetti portatori di pericolosità c.d. non qualificata e, pertanto, anche ai soggetti di cui alla lett. c) dell’art. 1 del decreto (si tratta di coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica). In realtà, già la legge n. 125/2008 aveva allargato il novero dei soggetti, prevedendo, al di fuori della criminalità mafiosa, la possibilità di applicare le disposizioni in materia di prevenzione personale anche ai soggetti abitualmente dediti a traffici delittuosi ed a coloro che, per la condotta ed il tenore di vita dovevano ritenersi vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi delle attività delittuose. L’operazione era stata effettuata attraverso un contorto sistema di rinvii normativi che avevano fatto rivivere l’art. 19 della legge n. 152/1975; la questione è stata esaminata dalle Sezioni Unite della Cassazione che hanno affermato la natura formale del rinvio enunciato dal comma 1 dell’art. 19 della citata legge, e dunque, la possibilità di ritenerlo esteso a tutte le norme successivamente interpolate [Cass. pen., S.U., 25.3.2010, n. 13426]. Ciò aveva portato all’affermazione, prima ancora dell’entrata in vigore del decreto legislativo in commento, del principio secondo cui anche le misure patrimoniali potessero essere applicate nei confronti di soggetti ritenuti socialmente pericolosi perché abitualmente dediti a traffici delittuosi, a prescindere dal carattere “mafioso” dei reati di riferimento [Cass. pen., sez. VI, 20.1.2010, n. 11006]. Per ciò che concerne i soggetti indicati nella lett. b) dell’art. 16, si tratta delle persone fisiche o giuridiche segnalate al Comitato per le sanzioni dell’Onu o altro organismo internazionale, allorquando vi è pericolo di dispersione o utilizzazione per il finanziamento del terrorismo, interno o internazionale. L’art. 16 comma 2 precisa inoltre che nei confronti dei soggetti di cui all’art. 4 comma 1 lett. i) la misura di prevenzione patrimoniale della confisca può essere applicata relativamente ai beni, nella disponibilità dei medesimi soggetti, che possono agevolare, in qualsiasi modo, le attività di chi prende parte attiva a fatti di violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive. Quanto, poi, ai beni sequestrabili e confiscabili al prevenuto, la giurisprudenza di legittimità ritiene che possano essere sottoposti alle misure anche i beni acquisiti dal proposto in epoca antecedente a quella cui si riferisce l’accertamento della pericolosità: l’unico presupposto per l’adozione dei provvedimenti di sequestro e confisca, infatti, è l’inizio di un procedimento di applicazione di misura di prevenzione personale nei confronti di persona pericolosa che disponga di beni in misura sproporzionata rispetto al reddito, e di cui non sia provata la provenienza [Cass. pen., sez. II, 8.4.2008, n. 21717, in Cass. pen., V, 2009, 2158; Cass. pen., sez. I, 5.1.2006, in CED Cass. 2006/234902].

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7. Titolarità della proposta (art. 17). Nel solco dell’ampio intervento ricognitivo effettuato attraverso il d.lgs. n. 159/2011, il legislatore ha raggruppato nell’art. 17 gli organi titolari del potere di proposta patrimoniale in modo da farli coincidere con i titolari del potere di proposta delle misure personali, ad eccezione del procuratore nazionale antimafia (la cui iniziativa rimane limitata alle sole misure personali) e del procuratore circondariale, che ha competenza per le proposte personali relative alle persone indiziate di avere agevolato gruppi o persone che hanno preso parte attiva, in più occasioni, alle manifestazioni di violenza di cui all’art. 6 della legge n. 401/ 1989, per le quali le proposte patrimoniali sono avanzate dal procuratore distrettuale. La titolarità della proposta di una misura di prevenzione patrimoniale, dunque, ex art. 17 comma 1 del Codice antimafia, spetta al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo di distretto ove dimora la persona, al questore o al direttore della direzione investigativa antimafia. Il procuratore distrettuale, in virtù del c.d. doppio binario (pena e misura di prevenzione), è investito in via esclusiva di una doppia titolarità esclusiva, quella riguardante le indagini relative ai delitti di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p., nell’ambito del procedimento penale, e quella, in materia di prevenzione, relativa alla proposta di misure di prevenzione patrimoniali. Il sistema delineato prevede però un’eccezione: gli articoli 5 comma 2 e 17 comma 2 del decreto stabiliscono che, nel caso in cui l’azione di prevenzione vada esercitata nei confronti dei soggetti di cui all’art. 4 comma 1 lett. c), le funzioni e le competenze attribuite a procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto sono attribuite al procuratore della Repubblica presso il tribunale nel cui circondario dimora il proposto. Le ragioni della peculiare previsione sono da ricondurre al fatto che i soggetti indicati nella lett. c) dell’art. 4 sono del tutto estranei al contesto della criminalità organizzata, per cui si è ritenuto che gli elementi di prova potessero essere ricercati con maggiore facilità nel luogo di dimora dell’interessato. È utile ricordare, infine, che gli artt. 5 comma 2 e 17 comma 2 del Codice antimafia prevedono come nell’udienza di primo grado le funzioni di accusa possono, alternativamente, essere esercitate dal procuratore della Repubblica presso il circondario in cui dimora il proposto ovvero dal procuratore distrettuale. Si deve infine osservare che per effetto dell’art. 2 comma 6 della legge n. 94/2009, nn. 2 e 3 lett. c), si estendono al direttore della direzione investigativa antimafia le competenze in materia di procedimenti di prevenzione, già attribuite al procuratore della Repubblica ed al questore. Si tratta, in sostanza, del potere di chiedere al presidente del tribunale competente per l’applicazione della misura di prevenzione di disporre anticipatamente il sequestro dei beni prima della fissazione dell’udienza, quando vi sia il concreto pericolo che i beni da confiscare possano essere dispersi, sottratti o -

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alienati e di quello di richiedere ad ogni ufficio della pubblica amministrazione, e ad ogni ente creditizio nonché alle imprese, società ed enti di ogni tipo, informazioni e copia della documentazione ritenuta utile ai fini delle indagini nei confronti dei destinatari delle misure di prevenzione antimafia. V’è da segnalare, poi, che il decreto n. 159/2012 non introduce, in capo al procuratore distrettuale, la funzione di coordinamento delle diverse autorità titolari del potere di proposta. Una simile previsione sarebbe risultata, invece, quanto mai opportuna alla luce del fatto che permanendo nel sistema attuale la titolarità concorrente del potere di proposta anche in capo ad organi amministrativi (questore e direzione investigativa antimafia) si potrebbe verificare il rischio della duplicazione del potere d’impulso o l’anticipazione di iniziative che sarebbe opportuno non rendere note [(b) CAIRO, 1062]. In tal caso, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, nel caso in cui la domanda di prevenzione sia contemporaneamente esercitata dal procuratore della Repubblica e dal questore, il giudice, investito di entrambe le iniziative, riunisce i procedimenti pervenendo ad un’unica decisione [Cass. pen., sez. VI, 17.9.2009, n. 46429].

Nell’ambito dell’argomento relativo alle misure patrimoniali, deve essere ricordato il tema della tutela dei terzi titolari di diritti di credito nei confronti del proposto o del titolare formale del bene sequestrato, nelle ipotesi in cui tali crediti siano sorti prima dell’esecuzione del sequestro. La materia, infatti, prima dell’ultima riforma, era priva di espressa disciplina. La regolamentazione, invero, è risultata piuttosto “impervia” a causa della difficoltà di conciliare la tutela dei diritti dei terzi – e la loro buona fede – con la prevenzione dei rischi di precostituzione di posizioni creditorie “fittizie”. In ragione di tali contrapposte esigenze, il decreto delegato riconosce da un lato, la possibilità per i creditori di ottenere il riconoscimento del credito, dall’altro, introduce la previsione della preventiva escussione del restante patrimonio del debitore (esclusi i crediti assistiti da cause di prelazione) e la contestuale dimostrazione che il credito non sia strumentale all’attività illecita, o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, salvo, in ogni caso che il creditore dimostri di avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità (art. 52).

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Il procedimento giurisdizionale per l’applicazione delle misure di prevenzione

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Capitolo II

Il giudizio di primo grado

Sommario

1. Premessa: la natura giurisdizionale del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione. – 2. (Segue) Le disposizioni applicabili. Le fonti normative del procedimento di prevenzione. – 3. Il giudizio per l’applicazione di una misura di prevenzione: le valutazioni preliminari sull’ammissibilità della richiesta. – 4. (Segue) La fissazione dell’udienza di trattazione e la spedizione dell’avviso. – 5. Lo svolgimento dell’udienza e le modalità di realizzazione del contraddittorio: la regolare costituzione delle parti e le problematiche connesse alla partecipazione degli interessati; le questioni preliminari. – 6. La formazione della prova. Il diritto alla prova, le regole di giudizio e gli standard probatori. – 7. La decisione: requisiti. – 8. (Segue) Definitività della decisione e divieto del bis in idem. La correlazione con la proposta. – 9. I provvedimenti cautelari ed urgenti. – Bibliografia.

1.

Premessa: la natura giurisdizionale del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione.

Il procedimento di prevenzione, all’esito di una cospicua progressione legislativa, sembra oggi aver trovato una stabilizzazione all’interno del c.d. codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, introdotto nell’ordinamento giuridico dal d.lgs. 6.9.2011, n. 159, il cui testo rappresenta il riferimento normativo principale – ma non esclusivo – per la disciplina ed il funzionamento del procedimento giurisdizionale attraverso il quale si applica una misura di prevenzione personale e/o patrimoniale [ADORNO, CALÒ, 325]. Va subito premesso che è normativamente oramai acclarata la possibilità di applicare in modo disgiunto le misure patrimoniali e personali. Il procedimento applicativo è sostanzialmente analogo, con poche differenze indotte dalla peculiarità delle misure patrimoniali. L’ordito normativo che disciplina il procedimento applicativo, necessariamente subordinato alle norme costituzionali e convenzionali, va integrato, come

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vedremo, con alcune norme del codice di rito penale ed in particolare quelle che regolano il procedimento di esecuzione e segnatamente l’art. 666 c.p.p., direttamente richiamato in quanto applicabile. È stato così disegnato uno strumento normativo generale, indubbiamente efficace, ma per certi versi insidioso, caratterizzato, sotto il profilo politico, da una poliedricità di elementi che vanno dalla prevalenza riconosciuta alle misure patrimoniale rispetto a quelle personali, al singolare allontanamento, per quanto riguarda le prime, dal concetto di pericolosità sociale attuale (cioè esistente almeno nel momento in cui viene presentata la richiesta), fino alla difficile definizione dello standard probatorio necessario per disporre di beni anche solo di dubbia provenienza (in verità, lo stesso concetto di pericolosità sociale è sfuggente, mancando una definizione normativa adeguata). Sono caratteri con una doppia proiezione: se, da un lato, fanno propria la (corretta) convinzione secondo la quale le misure di prevenzione di gran lunga più efficaci sono quelle patrimoniali; dall’altro, disgiungendole completamente dalla c.d. pericolosità sociale, finiscono per rimuoverne la necessaria vocazione preventiva e riconoscerne una prevalentemente sanzionatoria (soprattutto per la confisca) senza, però, una fattispecie di riferimento e con una approssimazione incompatibile con la dimensione costituzionale del relativo procedimento [FURGIUELE, 411; GIUNCHEDI, 141 ss.]. L’appartenenza della procedura di prevenzione al genus giusto processo mal si concilia, però, con alcuni ambiti procedurali fondati sul sospetto piuttosto che su dati oggettivi e fatti dimostrati e disancorati da fattispecie concrete e tipiche. Ed anche se l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale hanno cercato e cercano di ampliare gli spazi di garanzia, permangono segmenti ove la soglia di accertamento è decisamente bassa col rischio che la decisione costituisca una sorta di mera «ratifica di quanto riferito e valutato dagli inquirenti» [AMODIO, c. 498 ss.; (a) FILIPPI, 352]. Va subito chiarito che la previsione di alcuni moduli tipicamente giurisdizionali, quali, ad esempio, l’attribuzione al pubblico ministero del ruolo di rappresentante dell’accusa, la fissazione di regole per individuare il giudice competente, la necessaria presenza del difensore tecnico, il rinvio al meccanismo procedurale descritto dall’art. 666 c.p.p. in quanto compatibile, la previsione del catalogo classico delle impugnazioni, costituisce, tra l’altro, una piattaforma che orienta l’interprete verso l’attribuzione di natura giurisdizionale al procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione. Anche se parte della dottrina [CORDERO, 1241 ss.], ritenendo che la peculiarità del procedimento di prevenzione fosse costituita dall’esercizio di poteri amministrativi con forme processuali a (sola o prevalente) tutela degli interessati, ha negato la sua natura giurisdizionale (ritenuta paragiurisdizionale), altri la ritengono pacificamente [cfr., per tutti, FILIPPI, CORTESI; orientamento già, in verità, espresso sotto la vigenza della normativa precedente, (a) FIPILLI, 286 ss.; (e) FIORENTIN, 135; VALENTINI, 19 ss.], ricavandola in modo chiaro dalle disposizioni richiamate e dal precedente regime normativo, sul punto non modifi-

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cato dalle successive novelle. L’ultima interpretazione è sicuramente da preferire in quanto la matrice giurisdizionale risalta effettivamente ictu oculi dal contesto procedurale nel quale il meccanismo è inserito; una diversa lettura finirebbe per confinare il procedimento applicativo specifico in un alveo isolato, eccentrico rispetto alla generale disciplina del giusto processo, notoriamente applicabile a tutti i meccanismi procedurali, nessuno escluso, senza una razionale giustificazione. Peraltro, anche nel procedimento in esame risalta, quale caratteristica tipica, l’esistenza di un conflitto tra potere pubblico e diritto soggettivo, regolato dalla legge e risolto all’esito di un procedimento partecipato dall’attore pubblico, dall’interessato e dal suo difensore tecnico che interloquiscono col soggetto dotato del potere di ius dicere, il giudice. D’altronde, se la matrice procedurale di riferimento è rappresentata dal procedimento di esecuzione, sul cui schema è costruito l’attuale procedimento di prevenzione, non possono che valere, anche qui, le riflessioni che hanno condotto dottrina e giurisprudenza a ritenere sicuramente giurisdizionale il meccanismo che disciplina la fase dell’esecuzione e il procedimento di sorveglianza [cfr., per tutti, CAPRIOLI, VICOLI, 7 ss.]. I principi costituzionali in materia di libertà dell’individuo, disegnando un’autentica riserva costituzionale di giurisdizione in materia di libertà personale, «individuano i requisiti fondamentali che, in ossequio a tale riserva, devono caratterizzare le procedure aventi ad oggetto la libertà della persona» [CAPRIOLI, VICOLI, 8]. Da questo concetto deriva la condivisibile opinione secondo la quale l’esecuzione penale deve essere disciplinata in modo da rispettare almeno alcune garanzie giurisdizionali minime, individuate dalla Corte costituzionale [C. cost., n. 53/1993] nella vocatio in ius, nell’appagamento integrale del contraddittorio e nella possibilità di impugnare il provvedimento conclusivo. Nella stessa prospettiva, il giudice delle leggi ha sottolineato la natura pienamente giurisdizione anche di alcuni segmenti non principali connessi alle dinamiche esecutive, come la procedura relativa ai permessi ai detenuti [C. cost., n. 349/1993]. Ciò ha consentito di ritenere, ad esempio, esperibile il ricorso in cassazione avverso le ordinanze rese dal tribunale di sorveglianza concernenti i permessi [Cass., sez. I, 21.2.1996, Resica, in CED 1996/204187]. La conclamata natura giurisdizionale della procedura prevista per la fase esecutiva incide, per le ragioni teoriche sinteticamente esaminate e per l’identità parziale di norme applicabili (l’art. 666 c.p.p.), anche sul convincimento circa la natura parimenti giurisdizionale del procedimento di prevenzione, ove, tra l’altro, sono in gioco i valori costituzionali della libertà personale e di quella patrimoniale. Anche per il settore delle misure di prevenzione, quindi, devono ritenersi necessarie le garanzie minime richieste dalla Corte costituzionale; anzi, in questo ambito, la particolarità della materia e la peculiarità del procedimento e delle sue dinamiche cognitive, induce a ritenere insufficienti solo quelle garanzie e ne reclama un ventaglio ben più ampio. L’impostazione è confermata dalla giurisprudenza di legittimità [cfr. Cass., sez. V, 16.10.2008, n. 3278, Papini, in CED 2008/242942; cfr. anche Cass., sez.

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I, 9.1. 1998, in Cass. pen., 1999, 795] che, partendo dalla natura giurisdizionale del procedimento di prevenzione e dalla naturale applicazione ad esso delle disposizioni procedurali penali dirette a garantire la terzietà e l’imparzialità del giudice, ha ritenuto ammissibile la ricusazione del giudice [Cass., sez. V, 23.1. 2009, in CED 2009/242942] o la rimessione del procedimento [Cass., sez. I, 19.2.2000, Taiani, in Giust. pen., III, 2001, 191; Cass., sez. I, 9.2.1998, Bardellino, in Cass. pen., 1999, 1604]. La medesima prospettiva è stata ribadita dai numerosi interventi della Corte europea di giustizia in materia di pubblicità dell’udienza di trattazione del procedimento di prevenzione [cfr. sentenza Bocellari e Rizza c. Italia, 13.11. 2007, n. 399/02; sentenza Perre ed altri c. Italia, 8.7.2008, n. 1905/05; sentenza Capitani e Campanella c. Italia, 17.5.2011, n. 24920/07; sentenza Pozzi c. Italia, 26.7.2011, n. 55743/08]. In particolare, la giurisprudenza europea ha avallato l’idea di trovarsi al cospetto di una forma di giudizio del tutto analoga a quella penale, da cui deriva, quale conseguenza diretta, l’applicabilità dell’art. 6 par. 1 della Convenzione europea ed in particolare della garanzia dell’equo processo. Nello specifico, la Corte europea, sottolineando come la pubblicità dell’udienza deve intendersi quale presidio «contro una giustizia segreta che sfugge al controllo del pubblico» e come «un mezzo per preservare la fiducia nelle Corti e nei Tribunali» e che la procedura di prevenzione italiana violava il principio dell’equo processo proprio perché negava la pubblicità nella trattazione, ha sostanzialmente rivendicato la natura indiscutibilmente giurisdizionale del relativo procedimento, suggerendo anche, nella prospettiva di tutela dei diritti individuali (tipica della Convenzione europea), una soluzione de minimis: le persone «soggette alla giurisdizione coinvolte in un procedimento di applicazione delle misure di prevenzione si vedano per lo mento offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza dinanzi alle camere specializzate dei Tribunali o delle Corti di Appello» (CEDU, sentenza 13.11.2007, Bocellari e Rizza c. Italia, cit.]. Se, da un lato, l’orientamento cristallizza l’idea di giurisdizione nel procedimento per applicazione delle misure di prevenzione, dall’altro esso affronta solo (e non poteva essere diversamente) il profilo di tutela dei diritti individuali, lasciando sullo sfondo la dimensione oggettiva del processo equo (o giusto) che non consente di limitare alla richiesta individuale l’attuazione di un valore tipico della giurisdizione e, per ciò, di natura oggettiva quale la pubblicità. In questo senso, l’interpretazione della Corte europea, fatta propria dalla Corte costituzionale e, successivamente, dal legislatore nella stesura del codice delle misure di prevenzione, è limitata ad una dimensione soggettiva che non libera le potenzialità garantiste del processo equo. Il richiamo alla natura giurisdizionale non riguarda, peraltro, solo il profilo convenzionale, ma involge anche il versante costituzionale ed in particolare la piena applicabilità delle regole del giusto processo sancite dall’art. 111 Cost. Nella valutazione del procedimento di prevenzione si devono, allora, considerare i perimetri (simmetrici) del processo equo e del giusto processo [cfr. (a) CAIRO, 118 ss.] entro i quali esso vive e si sviluppa seguendo le scansioni di garanzie tipiche di quei paradigmi. -

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La (richiamata) giurisprudenza della Corte europea e della Corte costituzionale [C. cost., 8.3.2010, n. 93] consentono di ben delineare il profilo e di comprenderne gli sviluppi possibili anche in chiave critica rispetto all’attuale disciplina. Le garanzie minime richiamate sono, infatti, insufficienti per il procedimento di prevenzione, la cui natura sicuramente cognitiva pone una serie di perplessità rispetto ad un modulo procedurale – quello previsto per l’esecuzione penale – poco coerente con la dimensione ideologica accusatoria del processo penale. Tra le due Corti vi è, spesso, una simmetria di valutazioni, anche se è la prima a fungere (in una prospettiva prevalente di tutela dei diritti individuali) da apripista e non sempre la seconda completa la prospettiva allargando la proiezione garantista alla dimensione più oggettiva del giusto processo. L’orientamento costante della Corte europea [sentenza Boccellari e Rizza c. Italia, 13.11. 2007, n. 399/02; sentenza Perre ed altri c. Italia, 8.7.2008, n. 1905/05; sentenza Capitani e Campanella c. Italia, 17.5.2011, n. 24920/07; sentenza Pozzi c. Italia, 26.7.2011, n. 55743/08], secondo il quale lo svolgimento del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione a porte chiuse contrasta col principio della pubblicità, individuato quale carattere peculiare del processo equo dall’art. 6 par. 1 Conv. Eur., è stato ripreso dalla Corte costituzionale che ha definitivamente avallato l’idea della natura giurisdizionale del procedimento di prevenzione e della pubblicità su richiesta. La pubblicità è, però, un valore che non può essere lasciato alle sole determinazioni di una parte, ma dovrebbe costituire una componente inderogabile (tranne eccezioni) del giusto processo di prevenzione. Questa necessaria puntualizzazione consentirà, nella successiva ricostruzione del procedimento, qualche critica fondata, appunto, dal raffronto con le regole del giusto processo. Una prima considerazione va però fatta subito riprendendo quanto già inizialmente sottolineato. Il codice delle misure di prevenzione ha recepito la politica criminale espressa dalle ultime riforme legislative distinguendo in modo abbastanza netto la prevenzione personale da quella patrimoniale ed elaborando un doppio sistema, il quale, pur nell’unicità del procedimento, sviluppa due distinte situazioni ancorate a presupposti affatto differenti [Cass., sez. I, 13.1. 2011, n. 5361, sviluppa il concetto dell’autonomia della prevenzione patrimoniale da quella personale, in relazione alle modifiche introdotte dalla legge 15.7. 2009, n. 94, anche per i fatti anteriori all’entrata in vigore della legge]. La prevenzione personale legata al concetto di pericolosità del proposto e quella patrimoniale del tutto sganciata dalla prima, disancorata dalla pericolosità sociale, ma fondata su concetti solo in qualche caso capaci di individuare beni illeciti (la c.d. provenienza illecita del bene), ma in altri casi del tutto avulsi da tale categoria (la c.d. sproporzione con i redditi o con l’attività economica) è di fatto spiegabile anche con meccanismi assai diversi da quelli idonei a giustificare una misura ablativa preventiva. La regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, peraltro, sembra disintegrarsi -

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una volta entrata nell’orbita della prevenzione, nonostante costituisca il caposaldo di ogni decisione, penale o ad essa assimilabile, diretta a tutelare ed essa stessa espressione di diritti costituzionalmente garantiti. Una ulteriore caratteristica deve essere sottolineata in premessa. L’art. 111 comma 1 Cost. stabilisce che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Dal significato dell’ultima parte della disposizione costituzionale – affermare anche in ambito processuale penale la riserva di legge [DE CARO, 137 ss.] per la elaborazione di fattispecie processuali – si ricava l’avversione della legge fondamentale nei confronti del c.d. diritto giurisprudenziale, prassi attraverso la quale si affida alla giurisprudenza la creazione delle fattispecie processuali. Tale prassi è, purtroppo, molto invalsa nel procedimento di prevenzione ove la mancanza di regole procedurali chiare e condivise ha spesso generato confusioni e spazi interpretativi ondivaghi riempiti, in modo spesso oscillante, dalla giurisprudenza. Situazione, questa, solo parzialmente avversata dal codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, che, pur nell’apprezzabile sforzo di razionalizzare la materia, non ha impresso alla stessa una svolta accusatoria in linea con l’ideologia del codice di procedura penale. Ed anche se può sostenersi in modo convincente che, ove non espressamente e specificamente prevista, la disciplina da applicare al caso di specie deve ricavarsi dal codice di rito, l’idea opposta occupa (purtroppo) uno spazio interpretativo ancora considerevole e, per questa strada, legittima prassi che di fatto negano la piena operatività del modello accusatorio di riferimento. La semplificazione delle forme, tipica della procedura camerale richiamata, non esclude, infatti, la piena valenza delle fondamentali regole processuali dirette a garantire il giusto processo di prevenzione. Lo sforzo interpretativo che si richiede, auspicando una modifica legislativa nel senso invocato, è quello di dare alle norme e, soprattutto, alle regole di giudizio, una sistemazione coerente con la matrice Costituzionale e Convenzionale, attuando, anche in questo settore, l’ideologia accusatoria. Bisogna, in qualche modo, costruire un assetto interpretativo che riduca gli spazi di discrezionalità assoluta, nonostante la predilezione del legislatore moderno per una procedura sommaria e estremamente celere [VALENTINI, 73].

2.

(Segue) Le disposizioni applicabili. Le fonti normative del procedimento di prevenzione.

Il primo ambito utile a comprendere la ragion d’essere dell’auspicio, riguarda la ricerca dei segmenti normativi deputati alla disciplina del procedimento di prevenzione personale e patrimoniale. La natura sicuramente giurisdizionale del meccanismo procedurale in esame pone al primo posto nella individuazione delle fonti normative la Costituzione con tutti le disposizioni sulla tutela delle libertà dell’individuo e sul giusto pro-

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cesso: artt. 2, 3, 13, 14, 15, 16, 24, 25, 27, 101, 102, 111, 117 [sui principi costituzionali posti a fondamento del giusto processo cfr. per tutti RICCIO, DE CARO, MAROTTA; sul giusto processo v. FERRUA] e, immediatamente dopo, le Carte internazionali dei diritti e segnatamente la Convenzione europea ed il Patto internazionale. Le disposizioni costituzionali e quelle convenzionali hanno (o dovrebbero avere) una diretta applicazione nel procedimento, condizionando non solo il legislatore nella predisposizione delle norme specifiche ma anche il giudice nella selezione dei moduli procedurali utilizzabili e nella individuazione delle modalità interpretative da applicare al caso di specie. La disciplina normativa specifica applicabile al procedimento applicativo delle misure di prevenzione ed in particolar modo alla fase del giudizio è ricavabile, poi, dagli artt. 7 (per quanto riguarda le misure personali e, in quanto espressamente richiamato dall’art. 23 comma 1, anche per le misure patrimoniali, solo, però, in quanto compatibile e salvo che non sia diversamente disposto), 23 e 19 comma 5 (per quelle patrimoniali) del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (d.lgs. n 159/2011). La normativa di settore sostanzialmente ricalca, con qualche differenza significativa, quella precedentemente in vigore e segnatamente la disciplina prevista, per quanto riguarda il giudizio, dagli artt. 2ter comma 1 legge n. 575/1965 e 4 comma 6 legge n. 1423/1956. Da ultima, poi, è intervenuta la legge n. 228/2012 che ha riscritto qualche articolo del c.d. Codice antimafia. I limiti del d.lgs. n. 159/2011 hanno, infatti, sollecitato interpretazioni dirette a contenere gli effetti negativi delle nuove disposizioni con l’obiettivo di «riportare in officina un codice appena uscito dalla fabbrica legislativa!» [(a) MENDITTO, 792 e ss.]. Sono state approvate, però, solo alcune modifiche nel d.lgs. 15.11.2012, n. 218, entrato in vigore il 13 dicembre 2012, emanato col procedimento correttivo previsto dalla legge n. 136/2010 e dalla l. 24.12. 2012, n. 228 (c.d. legge di stabilità 2013), che ha interessato anche la c.d. confisca allargata. In particolare, per i segmenti procedurali non espressamente regolati, scompare il riferimento/rinvio contenuto nell’art. 4 comma 6 della legge n. 1423/ 1956, inizialmente alle norme del codice Rocco (artt. 636 e 637 c.p.p. 1930) che disciplinavano il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza e, successivamente, ai sensi di quanto disposto dall’art. 208 disp. att. c.p.p., alle disposizioni del codice del 1988 che concernevano istituti e materie corrispondenti e cioè gli artt. 678 (per la disciplina delle misure di sicurezza affidate al magistrato di sorveglianza), 127 e 666 (per il procedimento da seguire in materia di misure di sicurezza) e 680 (per le impugnazioni) c.p.p. Questo complesso meccanismo di rinvii poneva, infatti, qualche problema interpretativo e soprattutto, sottolineando che le disposizioni del procedimento di sorveglianza non operavano «automaticamente per le misure di prevenzione, ma solo in quanto applicabili» [FILIPPI, CORTESI, 135], creava difficoltà di coordinamento con le altre disposizioni legislative genericamente richiamate dall’art. 208 disp. att. c.p.p. e di compatibilità tra il procedimento di sorveglianza (ispirato dalla finalità rieducativa della pena) e quello di prevenzione (diversa-

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mente ispirato alle peculiari necessità della prevenzione criminale). L’art. 7 del Codice antimafia, relativo alle misure di prevenzione personali, invece, oltre a disciplinare in modo espresso parte del procedimento di prevenzione personale, richiama la disciplina dettata dall’art. 666 c.p.p. per il procedimento di esecuzione facendo ad essa rinvio, ove compatibile, per la disciplina «di quanto non espressamente previsto nel presente decreto». Il rinvio diretto alla disciplina del procedimento di esecuzione consente di superare una parte dei problemi interpretativi, pur riproponendo le questioni relative all’ampiezza del rinvio ed al necessario (e non sempre agevole) adeguamento tra strutture e necessità accertative sideralmente distanti. Se il rinvio diretto consente, cioè, di fare chiarezza circa l’ambito generale di riferimento, qualche difficoltà può sorgere su un versante più specifico. Il richiamo alla disciplina del procedimento di esecuzione deve essere, infatti, inteso nella sua globalità ed esplorato con il limite della compatibilità. Ciò significa ritenere applicabili – in linea generale – tutte le disposizioni procedurali contenute nel codice di rito direttamente afferenti alla (in verità, assai snella) procedura di esecuzione: le norme a tutela dell’imparzialità e della terzietà del giudice, il sistema delle nullità, delle notifiche, il meccanismo semplificato del contraddittorio, il diritto di difesa e la partecipazione diretta dell’interessato, solo per citare alcuni moduli procedurali necessariamente inseriti nel generico rinvio all’art. 666 c.p.p. [cfr., in tema di possibile ricusazione del giudice della prevenzione, Cass., sez. V, 23.1.2009, cit.; stessa cosa in tema di rimessione del procedimento di prevenzione: Cass., sez. I, 19.2.2000, Taiani, in Giust. pen., III, 2001, 191; Cass., sez. I, 9.2.1998, Bardellino, in Cass. pen., 1999, 1604]. Questo più ampio rinvio suggerisce, però, una riflessione in ordine alla valutazione di compatibilità, spesso sottratta a dati oggettivi rinvenibili nel sistema normativo e ancorata a valutazioni giurisprudenziali, fin troppo generose nei confronti delle esigenze del caso specifico o determinate da prassi non sempre legittime. La prevalenza del diritto giurisprudenziale e delle prassi sul dato normativo, però, genera meccanismi procedurali non sempre virtuosi e spesso esposti al vento della sommarietà. Sul secondo versante, invece, va sottolineato con forza che le necessità accertative tipiche del procedimento di esecuzione (in genere, limitate all’acquisizione di atti) non possono essere affatto paragonate a quelle del procedimento di prevenzione ove i presupposti per l’applicazione di una misure di prevenzione personale o patrimoniale vanno accertati nel rispetto del contraddittorio, attraverso un’attività probatoria anche complessa, fatta di acquisizioni e valutazioni di prove specifiche. La simmetria tra i due procedimenti non trova, dunque, una solida giustificazione e lascia supporre una vocazione alla sommarietà del procedimento di prevenzione, sicuramente utile in chiave di lotta al crimine, ma insoddisfacente dal punto di vista delle garanzie del giusto processo. Il punto centrale del ragionamento è quello di stabilire quale sia il perimetro del giusto (ed equo) processo di prevenzione e, di conseguenza, quali debbano

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essere i presidi garantisti non sacrificabili sull’altare della politica criminale e quali, invece, le semplificazioni “sopportabili” nella prospettiva di un accertamento comunque complesso. La diretta applicazione dei principi costituzionali e convenzionali, invero, impone di ampliare il perimetro del giusto processo di prevenzione onde riavvicinarlo il più possibile a quello penale di cognizione, accettando la semplificazione procedurale solo quando essa non scalfisce la reali garanzie. Ma in punto di terzietà ed imparzialità del giudice, di contraddittorio, di diritto di difesa materiale, di standard probatori minimi e di regole di valutazione degli elementi utili alla decisione, la sommarietà normativa sfida il sistema di garanzie rendendo la distanza dal giusto ed equo processo poco compatibile con le esigenze di giustizia. La confusione tra giudice della cautela e giudice della cognizione, la difficoltà di partecipazione diretta al procedimento dell’interessato detenuto fuori distretto con i cospicui coinvolgimenti in materia di difesa materiale, la pubblicità solo a richiesta di parte, i limitati poteri probatori dell’interessato, la mancanza di chiarezza sui limiti di utilizzabilità di dati probatori spuri o viziati, i limiti alla formazione dialogica del materiale utile alla decisione, la ambiguità delle regole di giudizio richiamate e la consequenziale criticità degli standard probatori, sono alcuni degli ambiti problematici che si oppongono alla piena compatibilità del procedimento di prevenzione con i principi del giusto processo. Tornando alla normativa applicabile, l’art. 7 del d.lgs. n. 159/2011 disciplina il procedimento di applicazione delle misure di prevenzione personali, rinviando, in quanto compatibile e per quanto non espressamente previsto, all’art. 666 c.p.p. Per quanto riguarda, invece, le misure di prevenzione patrimoniali, l’art. 23 comma 1 del codice delle leggi antimafia stabilisce che, salvo che non sia diversamente disposto, al procedimento per l’applicazione delle misure patrimoniali si applicano le disposizioni dettate dal Titolo I, Capo II, Sezione I del decreto, nel cui ambito rientra, per quanto concerne il giudizio, l’art. 7 richiamato. L’art. 19 comma 5, per lo stesso segmento patrimoniale, prevede un particolare potere accertativo, riconosciuto al tribunale, il quale può disporre ulteriori indagini per verificare la ricorrenza dei presupposti in base ai quali applicare una misura di prevenzione patrimoniale. Sulla scorta di questi dati è possibile affermare che i procedimenti applicativi delle misure di prevenzione personali e patrimoniali hanno una sostanziale autonomia, con un nucleo procedurale comune e qualche differenza dovuta soprattutto alle peculiarità del sistema patrimoniale ove è prevista, ad esempio, la non impugnabilità diretta del provvedimento di sequestro, l’effetto sospensivo dell’impugnazione dei provvedimenti ablativi, l’applicazione anche di ufficio del sequestro e della confisca [FILIPPI, CORTESI, 136], la tutela per i terzi interessati, ai quali è consentita la partecipazione al giudizio e l’impugnazione del provvedimento conclusivo, e il peculiare potere di iniziativa probatoria del giudice. Alla luce di questi rilievi, è possibile, quindi, individuare, in sintesi, le fonti

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del procedimento di prevenzione. Esse sono rintracciabili, innanzitutto, nella Costituzione e nelle Carte internazionali dei diritti (Convenzione europea e nel Patto internazionale), poi nel d.lgs. n. 159/2011, corpus normativo che lo disciplina specificamente, e nelle disposizioni del codice di rito penale in materia di esecuzione (segnatamente nell’art. 666 c.p.p.) in quanto applicabili; infine, in tutte le altre disposizioni procedurali penali generali collegate al funzionamento del meccanismo procedurale e indispensabili al concreto funzionamento del procedimento col solo limite della compatibilità con la struttura semplificata prescelta.

3.

Il giudizio per l’applicazione di una misura di prevenzione: le valutazioni preliminari sull’ammissibilità della richiesta.

Il paradigma normativo del procedimento di prevenzione è assolutamente simile sia per le misure personali sia per quelle patrimoniali. Le differenze o, per meglio dire, alcune particolarità sono essenzialmente riscontrabili nella prevenzione patrimoniale, dove le specificazioni corrispondono a peculiarità della misura applicata. La congiunta trattazione dei due moduli si giustifica proprio per questa caratteristica. È opinione condivisa quella secondo cui, in virtù del rinvio operato alla disciplina del procedimento di esecuzione, anche nel procedimento di prevenzione è contemplata la previa verifica di ammissibilità della richiesta di applicazione della misura, come della richiesta di revoca o modifica, affidata al presidente del collegio, il quale, ai sensi dell’art. 666 comma 2 c.p.p., sentito il pubblico ministero, può dichiarare inammissibile la richiesta (anche in materia di prevenzione) se essa appare manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge ovvero costituisce la mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi [(a) FILIPPI, 285 ss.; (e) FIORENTIN, 164 ss.; GUERRINI, MAZZA, RIONDATO, 219; ritiene, invece, che esista una incompatibilità con il procedimento di prevenzione (c) MOLINARI, 566]. La declaratoria di inammissibilità è notificata all’interessato che può, insieme al difensore ed al pubblico ministero, proporre ricorso in cassazione entro quindi giorni dalla notifica. La norma, coniata per le esigenze tipiche dell’esecuzione penale ma ritenuta espressione di un principio generale valido anche in altri settori dell’ordinamento [Cass., sez. III, 21.2.2008, Vinciullo, in CED 2008/239661], ha la dichiarata funzione di prevenire le richieste meramente dilatorie o chiaramente ripetitive. In questo senso ed in questa limitata prospettiva, essa ha una condivisibile ratio ed indubbia validità soprattutto perché costituisce uno sbarramento per la riproposizione seriale di identiche istanze o richieste. Una volta assunta una decisione, la reiterazione continua della medesima richiesta produce solo confusione oltre a determinare un dispendio ingiustificato di energie e risorse, soprattutto per quelle richieste aventi ad oggetto fatti passati ed insuscettibili di modifica-

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zione. Per le vicende in continua evoluzione – come possono essere le misure cautelari (continuamente rivedibili) o quelle connesse alla vita della misura di prevenzione (analogamente fluide) – e per le questioni mutabili in ragione anche del solo decorso del tempo (come possono essere, nonostante la decisa diversa opinione della giurisprudenza, la pericolosità sociale o le esigenze cautelari), la reiterazione non può generare una automatica declaratoria di inammissibilità, ma deve essere valutata con estremo rigore. L’ampliamento del meccanismo desta, dunque, significative perplessità soprattutto in tema di misure di prevenzione. La prima parte dell’art. 666 comma 2 c.p.p., richiama, quale ipotesi di inammissibilità, la manifesta infondatezza per difetto delle condizioni di legge, locuzione particolarmente generica che sovrappone «l’inammissibilità e l’infondatezza della domanda di parte, con il rischio di indebite anticipazioni del giudizio di merito» [CAPRIOLI, VICOLI, 297] o valutazioni frettolose di questioni delicate, sottratte naturalmente ad ogni deduzione anticipata rispetto al momento della decisione piena del merito. La giurisprudenza ha interpretato, soprattutto in relazione al procedimento di esecuzione e sorveglianza, la disposizione in modo molto rigoroso, restringendo il perimetro della manifesta infondatezza. In questa direzione, la valutazione deve avere ad oggetto vicende di palmare evidenza, non implicare soluzioni di questioni controverse [Cass., sez. III, 27.4.1995, Reale, in Cass. pen., 1996, 1479], né comportare valutazioni discrezionali [Cass., sez. I, 29.11.2007, Santoro, in CED 2007/238317; Cass., sez. V, 14.6.2007, Stara, in CED 2007/237712; Cass., sez. I, 19.5.2005, Savarino, in Cass. pen. 2006, 3720; Cass., sez. I, 27.5. 2003, Cimetti, in Riv. pen., 2004, 249]. In questa prospettiva, è stato ritenuto che se è controversa la competenza ovvero si deducono questioni di diritto di dubbia interpretazione debba essere il collegio e all’esito della procedura camerale a decidere senza alcuno spazio per una declaratoria di inammissibilità [Cass., sez. I, 27.4.2004, Castellano, in Cass. pen., 2005, 3406]. Non si dissolve, però, completamente il rischio di confondere la sussistenza e/o la mancanza dei «presupposti minimi indefettibili» per accogliere la domanda [Cass., sez. I, 30.10. 1996, Villa, in Cass. pen., 1998, 862] con una sostanziale prevalutazione sommaria della medesima. La verifica di ammissibilità si estende – in modo maggiormente compatibile con la funzione ad essa riconosciuta – anche alla valutazione sulla sussistenza dei requisiti di ammissibilità tipici di ogni domanda di parte (legittimazione, interesse, modalità formali ecc.), senza che ciò possa integrare una violazione della tassatività delle cause di inammissibilità indicate nell’art. 666 comma 2 c.p.p. posto che detta norma non contiene un «catalogo chiuso» [CAPRIOLI, VICOLI, 298] e ricomprende anche le naturali cause di inammissibilità derivanti dal mancato rispetto dei requisiti formali dell’atto. La inammissibilità coinvolge anche la mera riproposizione di una questione già rigettata, basata sui medesimi elementi. La fattispecie è integrata solo allorché le questioni dedotte non hanno il carattere della assoluta novità [Cass., sez. -

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III, 5.12.2003, Prestaianni, in Cass. pen., 2005, 110], mancanza che deve risultare «ictu oculi evidente» [Cass., sez. V, 24.2.2004, Aragno, in CED 2004/228764] anche se il precedente rigetto sia ancora suscettibile di impugnazione [Cass., 18.11.2998, Marra, in Cass. pen., 2000, 1311]. Nonostante un orientamento giurisprudenziale in base al quale il solo mutamento giurisprudenziale non è capace di giustificare una nuova istanza [Cass., sez. V, 27.4.2004, Giovannini, in CED 2004/229868], deve ritenersi, invece, che il mutamento di interpretazione legittimi la riproposizione di una istanza precedentemente rigettata in funzione proprio della interpretazione superata in quanto il rispetto dei diritti fondamentali impone di adeguarsi al diritto di produzione legislativa ma anche di derivazione giurisprudenziale [Cass., S.U. 21.1.2010, P.G. in proc. Beschi, in CED 2010/ 246651]. L’estensione del meccanismo della previa verifica dell’ammissibilità della richiesta al procedimento di prevenzione dipende, da un lato, dalla diretta applicazione del disposto di cui all’art. 666 comma 2 c.p.p. e, da altro lato, dalla mancanza di una chiara incompatibilità. La peculiarità della materia, però, pone qualche delicato problema e suggerisce di limitare il perimetro di applicazione della disposizione. La competenza del presidente (posto che la prevenzione è affidata al tribunale collegiale) se indebitamente estesa pone un delicato problema di sottrazione al giudice naturale di una valutazione che può riguardare il merito. Non avendo, infatti, natura meramente organizzativa, la decisione dovrebbe sempre essere affidata al collegio. Nel nostro caso, invece, la lettera della norma non lascia spazio ad interpretazioni diverse al punto che si discute se la decisione de plano del collegio possa essere ritenuta legittima e la prevalente giurisprudenza l’ammette [Cass., sez. I, 27.10.2005, Troccoli, in Cass. pen., 2006, 3722; Cass., sez. I, 2.4. 2003, Limandri, in CED 2003/224234) sottolineando che l’irregolarità non crea alcun pregiudizio all’interessato. Il presidente decide sentito il pubblico ministero. La violazione dei principi del contraddittorio e della parità delle armi (art. 111 comma 2 Cost.) è evidentissima [CAPRIOLI, VICOLI, 299]. Il mancato coinvolgimento dell’interessato e del difensore suona come una indebita lesione del meccanismo che deve ispirare tutti i segmenti procedurali. La necessaria partecipazione dialettica delle parti in posizione di parità avanti ad un giudice terzo e imparziale non può essere obliterata e soprattutto non può esserlo a favore di una di esse. La mancata acquisizione del parere del pubblico ministero integra una nullità generale a regime intermedio ex art. 178 lett. b) c.p.p. non deducibile dalla parte privata per mancanza di interesse [Cass., sez. I, 3.4.2000, Pischedda, in Cass. pen., 2001, 927; contra Cass., sez. III, 22.3.2007, in Cass. pen., 2008, 2527, secondo cui la violazione integra una nullità relativa da eccepirsi a cura della parte]. Può essere dichiarata inammissibile sia la richiesta di applicazione della misura di prevenzione sia quella di revoca o modifica della misura già applicata. Nonostante qualche diversa opinione in dottrina, riferita in particolare al procedimento di sorveglianza [PRESUTTI, 160], non vi sono ragioni per limitare alla -

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sola richiesta difensiva di revoca o sostituzione della misura di prevenzione la previa verifica di ammissibilità. Anche se il meccanismo in sé propone qualche oggettiva perplessità ove riferito alla richiesta di applicazione della misura di prevenzione la cui valutazione preliminare necessariamente richiede un giudizio sulla fondatezza della domanda, effettuata senza contraddittorio e, soprattutto, affidata al presidente. L’infondatezza della domanda di applicazione della misura di prevenzione presuppone, cioè, la sua attenta valutazione che non può essere relegata in un segmento diverso dal giudizio vero e proprio e non può essere mai preventiva rispetto all’instaurazione del contraddittorio. Insomma, più in generale, la specialità della materia disvela in modo marcato le incongruenze del meccanismo derivanti dalla sovrapposizione tra la valutazione di inammissibilità (che riguarda solo i requisiti formali) e l’infondatezza (che invece coinvolge anche il merito).

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(Segue) La fissazione dell’udienza di trattazione e la spedizione dell’avviso.

La fase centrale del procedimento di applicazione delle misure di prevenzione, il giudizio, si svolge, di regola, in camera di consiglio senza la presenza del pubblico, anche se l’interessato può chiedere che, ai sensi dell’art. 7 comma 1 d.lgs. n. 159/2011, il giudizio si svolga in pubblica udienza. In questo caso, il presidente dispone in conformità. Si tratta di una significativa novità introdotta sulla scorta delle richiamate sentenze (cfr. par. 1) della Corte europea e della Corte costituzionale che hanno individuato nella pubblicità dell’udienza un valore indefettibile anche del procedimento di prevenzione, indicando, però, come percorribile anche la strada della trattazione pubblica su richiesta dell’interessato. Il (comodo) suggerimento è stato colto immediatamente dal nostro legislatore, il quale, lasciando sostanzialmente immutata la procedura, ha inserito il richiamo alla possibile pubblicità su richiesta dal proposto: ma l’udienza di svolgimento resta di regola camerale e l’intero procedimento è impostato, sotto il profilo strutturale e delle garanzie applicabili, alla stregua di questa opzione. La soluzione non è, in verità, del tutto convincente dal momento che la pubblicità non rappresenta un valore che può essere rimesso alla scelta di una delle parti, afferendo, nella sostanza, al regolare svolgimento dell’udienza, qualificando e condizionando la procedura stessa. Peraltro, nel giudizio avanti alla Corte di Cassazione permangono, illogicamente, sia il richiamo esclusivo alla udienza camerale [senza alcuna possibilità di pubblicità: cfr. C. cost., 7.3.201, n. 80, che ha giudicato legittima la scelta legislativa] sia la mancata partecipazione delle parti (l’art. 611 c.p.p. prevede, infatti, l’udienza camerale non partecipata quale schema per la trattazione del giudizio di legittimità relativo alle misure di prevenzione).

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Eppure, nella motivazioni della Corte europea, l’esigenza di pubblicità era richiamata anche per la sua capacità di contribuire alla trasparenza del giudizio ed alla realizzazione dell’equo processo, cardine di ogni società democratica [CEDU, Boccellari e Rizza c. Italia, 13.11.2007, n. 399/02, cit.; in dottrina cfr. FILIPPI, CORTESI, 136). In questa ottica, permane il contrasto tra la normativa sulla pubblicità e l’art. 6 par. 1 della Convenzione Europea. Tra la richiesta di applicazione della misura di prevenzione e la decisione non devono intercorrere più di trenta giorni. La previsione di un termine entro il quale deve intervenire la decisione costituisce una peculiarità del procedimento di prevenzione, non essendo contemplato, in via generale, dall’art. 666 c.p.p. nella disciplina del procedimento di esecuzione. Trattasi, però, di termine dilatorio, la cui violazione (quasi costante) non comporta alcuna sanzione e non è, proprio per la sua natura meramente indicativa, neppure qualificabile come una irregolarità [Cass., sez. V, 23.11.1993, Ascone, in CED 1993/196299; in dottrina cfr. BALSAMO, MALTESE, 49; (e) FIORENTIN, 195]. La disciplina della sospensione dei termini procedurali durante il periodo feriale, prevista dalla legge 7.10.1969, n. 742 (cfr. sul punto anche l’art. 240-bis disp. att. c.p.p.), si applica anche al procedimento di prevenzione, i cui termini sono da ritenersi, quindi, sospesi dal 1 agosto al 15 settembre, tranne che la parte interessata non vi rinunzi espressamente o il procedimento venga dichiarato urgente con specifico provvedimento e, soprattutto, nei casi previsti [in giurisprudenza cfr., per la generale valenza della sospensione dei termini procedurali nel periodo feriale, Cass., sez. I, 15.5.2008, Niccolini, in CED 2008/240027; Cass., sez. I, 15.4.2003, Scrocca, in CED 2003/224694; Cass., sez. I, 26.1.1995, Bovacchi, in CED 1995/201096; in dottrina, con particolare riferimento alla prevenzione, cfr. FILIPPI, CORTESI, 139; (e) FIORENTIN, 179]. Bisogna anche evidenziare come, pur riguardando molti procedimenti di prevenzione vicende latu senso afferenti al genus criminalità organizzata, non opera la deroga alla sospensione prevista dall’art. 2 comma 2 legge n. 742 1969 (come novellato dalla legge n. 306/1992) per la criminalità organizzata in quanto non è riscontrabile la stessa ratio di urgenza e, soprattutto, perché, trattandosi di una eccezione alla regola procedurale, non può estendersi oltre la tassativa e specifica indicazione normativa. Una volta depositata la richiesta di applicazione della misura di prevenzione, il presidente del collegio fissa l’udienza provvedendo a farne dare avviso, ex art. 7 comma 2 d.lgs. n. 159/2011, alle parti, alle altre persone interessate e ai difensori. L’udienza camerale è, dunque, introdotta dall’avviso di fissazione che deve essere comunicato o notificato, ex art. 7 comma 2 ultima parte, almeno 10 giorni prima della data indicata nello stesso. La lettera normativa è chiara laddove stabilisce che l’avviso deve essere comunicato al pubblico ministero e notificato al proposto, alle altre persone interessate (ad esempio, i c.d. terzi) ed ai difensori. Se l’interessato non ha provveduto a nominare un difensore di fiducia, l’avviso è notificato al difensore di ufficio appositamente individuato, scelto nell’elenco predisposto dal locale Consiglio dell’ordine degli Avvocati.

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L’avviso va dunque dato alle parti essenziali del procedimento di prevenzione – pubblico ministero, proposto e difensori di quest’ultimo – ma anche ai terzi ed eventuali altri interessati alla vicenda soprattutto patrimoniale, ove individuati giuridicamente nel provvedimento genetico. Il termine a comparire di 10 giorni deve intendersi, come per tutti i termini procedurali aventi la stessa ratio, libero: non si computa, quindi, il dies a quo né il dies ad quem anche alla stregua di quanto previsto per il procedimento di esecuzione dall’art. 666 comma 3 c.p.p. [cfr. Cass., sez. I, 1.10.2009, in CED 2009/245055; in dottrina cfr. (a) MILETTO, 127]. L’inosservanza del termine libero e integro di 10 giorni da luogo al vizio definibile come “intempestività dell’avviso” che, secondo la prevalente giurisprudenza, formatasi soprattutto in relazione all’art. 666 c.p.p. ma sicuramente valida anche nel procedimento di prevenzione per l’espresso richiamo e per sicura compatibilità tra le situazioni, comporta una nullità a regime intermedio sia nel caso di intempestiva notifica al pubblico ministero ex art. 178 lett. b) c.p.p., sia nell’ipotesi in cui l’inosservanza coinvolga l’avviso all’interessato o al difensore ex art. 178 lett. c) c.p.p. [Cass., sez. I, 15.11.2007, Canale, in CED 2007/238643; Cass., sez. I, 6.4.2000, De Nardi, in CED 2000/216198]. Vizio che determina la rinnovazione dell’avviso, non essendo sufficiente la concessione di un termine integrativo rispetto a quello ordinario non completamente rispettato [Cass., sez. I, 1.10.2009, Licciardello, in CED 2009/245055; Cass., sez. I, 15.4.1998, Romeo, in Cass. pen., 1999, 1306; Cass., sez. I, 18.11.1998, Sculli, in CED 1998/215329]. La nullità può essere anche sanata, ai sensi dell’art. 184 c.p.p., se la parte compare ma, in questo caso, è necessaria la concessione di un termine a difesa che, secondo una parte della giurisprudenza, non deve essere inferiore a quello che l’avente diritto avrebbe usufruito se la citazione fosse stata regolare [Cass., sez. I, 27.4.2005, Oriunto, in CED 2005/231582]. Vale la pena di richiamare sul punto la regola generale dell’art. 184 c.p.p. secondo la quale se la parte compare, dichiarando, però, di farlo al solo fine di far rilevare l’irregolarità ha diritto ad un termine a difesa che non può essere inferiore a cinque giorni. Diverso è il profilo che riguarda la mancanza fisica dell’avviso o la mancata notifica dello stesso. Vicenda che provoca la mancata conoscenza dell’esistenza del procedimento con tutto ciò che ne deriva sotto il profilo dell’attivazione delle garanzie, ma che genera sanzioni diverse a seconda della parte processuale coinvolta. L’omessa notifica dell’avviso al pubblico ministero comporta una nullità a regime intermedio che concerne la partecipazione di quest’ultimo al procedimento (art. 178 lett. b) c.p.p.) [CAPRIOLI, VICOLI, 307], mentre il mancato avviso al proposto e al difensore nominato o a quello di ufficio designato dà luogo alla nullità assoluta ex art. 178 comma 1 lett. c) e 179 comma 1 ult. parte c.p.p. che si estende anche al provvedimento conclusivo del giudizio [cfr. Cass., sez. I, 2.12.2009, Mangiruca, in CED 2009/245952; Cass., sez. I, 18.6.2009, Gallieri, in CED 2009/244657; Cass., sez. I, 17.10.2002, Camporotondo, in CED 2002/ 222718; in dottrina cfr. (e) FIORENTIN, 172]. L’avviso di udienza è, infatti, da -

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valutarsi alla stregua del decreto di citazione a giudizio poiché svolge la medesima funzione ed avendo, dunque, la stessa ragion d’essere non può che beneficiare degli stessi presidi di garanzia previsti per l’atto introduttivo del giudizio, utile, tra l’altro, alla previa conoscenza della pendenza del procedimento, indispensabile per l’attivazione di tutti i presidi difensivi contemplati dalla Carta fondamentale (art. 111 comma 3 Cost.). Anche al procedimento di prevenzione si applica, in quanto compatibile e direttamente richiamato, il disposto di cui all’art. 666 comma 8 c.p.p., in base al quale se l’interessato è infermo di mente la notifica dell’avviso deve essere fatta anche al tutore o al curatore ai quali competono gli stessi diritti spettanti all’interessato. Se non risulta nominato uno dei soggetti richiamati, il presidente del collegio provvede a nominare un curatore provvisorio. Secondo la giurisprudenza, invece, non produce gli stessi effetti negativi sul procedimento di prevenzione l’omesso avviso ai terzi interessati (per i quali pur è prevista la notifica dell’avviso di fissazione), né l’omessa individuazione del terzo nell’ambito del procedimento, in quanto quest’ultimo avrebbe comunque la facoltà di promuovere l’incidente di esecuzione, chiedendo la revoca della confisca, e la sua mancata comparizione non comporta la nullità né altra invalidità [Cass., sez. I, 3.5.2010, M.V., in CED 2010/247072; Cass., sez. II, 4.12. 2002, Federico, in CED 2002/223021; Cass., sez. V, 27.6.2000, Spierto, in CED 2000/216542; Cass., sez. I, 19.5.1998, Cassani, in Cass. pen., 1999, 2349]. La tesi non è del tutto convincente, soprattutto in relazione ai casi di omesso avviso al terzo individuato nell’atto. In questa ipotesi, infatti, non è corretta l’esclusione di tutti i presidi di garanzia. La possibilità che il terzo si difenda nella fase esecutiva proponendo incidente di esecuzione non esclude che la irregolarità dovuta alla sua mancata citazione richieda un meccanismo di correzione del vizio capace di dare tutela effettiva al diritto di partecipazione e di difesa del terzo interessato alla vicenda patrimoniale in quanto titolare di un diritto coinvolto dalla richiesta di confisca. L’omesso avviso comporta, peraltro, la integrazione di un contraddittorio limitato e irregolare. Sussiste, quindi, la nullità nel caso di mancata notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale al terzo interessato, valutabile come una nullità a regime intermedio. Il terzo profilo riguarda la regolarità, sotto il profilo formale e dei contenuti necessari, dell’avviso di fissazione dell’udienza di trattazione del procedimento di prevenzione. L’avviso, sul piano formale, deve contenere, a pena di nullità a regime intermedio [Cass., sez. I, 22.2.2001, Tavernaro, in CED 2001/218921], le generalità della persona nei cui confronti è richiesta la misura di prevenzione personale o patrimoniale, l’indicazione del procedimento, del giorno e dell’ora fissati per la comparizione e dell’autorità avanti alla quale si terrà l’udienza [Cass., sez. I, 15.4.1991, Sandari, in Cass. pen., 1992, 982], l’indicazione del difensore di fiducia o, qualora l’interessato ne sia privo di quello di ufficio nominato, la data e la sottoscrizione del presidente; deve contenere anche l’avviso che, su istanza dell’interessato, l’udienza può svolgersi in forma pubblica e che l’interessato dete-

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nuto o internato fuori dalla circoscrizione del giudice può essere sentito, su richiesta, dal magistrato di sorveglianza del luogo ove è ristretto [cfr. FILIPPI, CORTESI, 143]. La giurisprudenza ritiene, invece, che l’avviso non debba contenere alcuna informazione sulle possibilità di audizione consentite all’interessato e che, pertanto, la mancanza non produce irregolarità [Cass., sez. I, 12.3.1993, Manzari, in CED 1993/193721]. L’interpretazione, giustamente ritenuta inopportuna anche in relazione al procedimento di sorveglianza [CAPRIOLI, VICOLI, 313], non può essere condivisa proprio per la peculiare e limitativa disciplina che riguarda la partecipazione dell’interessato e che, proprio per gli angusti ambiti entro i quali si muove, deve essere necessariamente comunicata allo stesso onde consentire la sua attivazione nei termini previsti dalla norma, e ciò a maggior ragione nel procedimento di prevenzione ove i limiti alla presenza dell’interessato sono particolarmente “incomprensibili”. L’avviso ha anche la funzione di attivare la conoscenza del procedimento onde consentire all’interessato di predisporre la difesa. In questa prospettiva, deve contenere, sempre a pena di nullità a regime intermedio, anche l’indicazione dell’oggetto del procedimento, inteso quale specificazione della misura richiesta e delle ragioni che la sostengono [in giurisprudenza cfr. Cass., sez. I, 30.11.2004, Scutti, in CED 2004/230769; in dottrina cfr., per tutti, (e) FIORENTIN, 177; GUERRINI, MAZZA, RIONDATO, 286]. La necessaria indicazione dei fatti oggetto del procedimento di prevenzione corrisponde, sotto il profilo della ratio, alla contestazione dell’accusa che deve essere precisa e contenere, a pena di nullità, non solo l’indicazione della misura richiesta ma anche, nell’ipotesi di prevenzione personale, del tipo di pericolosità contestata [Cass., sez. I, 30.11.2004, Scutti, in CED 2004/230769]. Si ritiene, in relazione al procedimento di esecuzione, che l’esigenza possa essere soddisfatta anche da una (molto) sintetica indicazione dell’oggetto del procedimento, restando il diritto di difesa salvaguardato dalla possibilità comunque di accedere agli atti del fascicolo [Cass., sez. I, 28.3. 2001, Sarcone, n. 23239, in Cass. pen., 2003, 1590]. L’interpretazione non sembra, però, accoglibile dal momento che l’oggetto del procedimento deve essere comunque sufficientemente esplicitato onde consentire l’attivazione effettiva del contraddittorio [Cass., sez. III, 14.2.2003, Bellagamba, in CED 2003/224752]. Ciò soprattutto nel procedimento di prevenzione ove la richiesta può essere anche molto complessa e riguardare plurime vicende, personali e patrimoniali. La fissazione dell’udienza deve comportare il deposito in cancelleria del fascicolo processuale contente gli accertamenti compiuti. Tanto si ricava dal sistema e dai principi generali. La mancanza di una espressa previsione in tal senso non può autorizzare interpretazione alternativa a quella coerente con le garanzie indispensabili all’effettivo esercizio del diritto di difesa e del contraddittorio, necessariamente informato e congruamente preparato. Senza la previa conoscenza degli atti l’attivazione dei presidi difensivi è, infatti, assolutamente impossibile, così come la necessaria partecipazione dialettica finirebbe per rappresentare un mero orpello privo di contenuti concreti. L’art. 7 comma 3 d.lgs. n. 159/2011 prevede che fino a cinque giorni prima -

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dell’udienza possono essere presentate in cancelleria memorie. Questa puntuale indicazione, mutuata dalla disciplina generale dell’udienza camerale (art. 127 comma 2 c.p.p.; art. 666 comma 3 ult. parte c.p.p.), sarebbe completamente inapplicabile senza il deposito degli atti in base ai quali possono essere predisposte le memorie. La specificazione deve essere letta solo come l’esplicazione della più generale facoltà di presentare memorie (art. 121 c.p.p.) e certamente non come la principale modalità per interloquire all’interno del procedimento, essendo riservata a ciò, nel rispetto del contraddittorio, l’udienza di svolgimento del procedimento. Lo svolgimento dell’udienza e le modalità di realizzazione del contraddittorio: la regolare costituzione delle parti e le problematiche 5. connesse alla partecipazione degli interessati; le questioni preliminari. L’art. 7 comma 4 del d.lgs. n. 159/2011 dispone che l’udienza di trattazione del procedimento di prevenzione, camerale o pubblica se espressamente richiesta, deve svolgersi con la partecipazione necessaria del difensore e del pubblico ministero, mentre gli altri destinatari dell’avviso sono sentiti se compaiono. La prima parte della disposizione, relativa alla partecipazione necessaria di difensore e pubblico ministero, ricalca la previsione dell’art. 666 comma 4 c.p.p. per il procedimento di esecuzione, mentre la seconda parte della norma sembra (sostanzialmente) ripetere, sia pure solo per gli “altri destinatari dell’avviso”, quanto stabilito dall’art. 127 c.p.p., norma generale in materia di rito camerale. Le parti diverse da quelle necessarie sono, cioè, sentite “se compaiono” [sulle varie modalità di sviluppo del contradditorio nei riti camerali cfr., per tutti, (a) DI CHIARA]. L’obbligatoria presenza del difensore nel procedimento di prevenzione era stata, in verità, già sancita nel previgente sistema procedurale – in un contesto procedurale generale e particolare ovviamente diverso da quello odierno – a seguito di un intervento della dalla Corte costituzionale [C. cost., 25.5.1970, n. 76] che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 comma 2 legge n. 1423/1956 nella parte in cui non prevedeva (appunto) «l’assistenza obbligatoria del difensore». La attuale disciplina, in fondo, ricalca quella precedente adeguandosi, però, al differente contesto procedurale disegnato dal procedimento di esecuzione. La presenza necessaria dei soli difensore e pubblico ministero si confronta, in verità, con una disciplina assai diversa prevista per la partecipazione del soggetto nei cui confronti viene chiesta l’applicazione della misura di prevenzione (vale a dire: la persona più direttamente interessata al procedimento, l’unico che oggettivamente ci rimette nella prevenzione personale e, insieme ai terzi interessati direttamente coinvolti, anche nella patrimoniale). Per questa importante figura, infatti, l’art. 7 comma 4 d.lgs. n. 159/2011 non prevede, se risulta detenuto o internato

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fuori dalla circoscrizione del giudice, un vero e proprio diritto alla partecipazione personale; solo se ne fa tempestiva richiesta deve essere sentito, prima del giorno dell’udienza, dal magistrato di sorveglianza del luogo ove è ristretto. In una analoga direzione, il successivo comma 5 riconosce il legittimo impedimento dell’interessato solo se ha chiesto di essere sentito personalmente e non risulta detenuto o internato in un luogo diverso. Insomma, il diritto alla partecipazione sembra sostituito da un diritto a farsi sentire su richiesta: come se le prerogative della difesa fossero limitate solo a questo aspetto, sicuramente importante ma certamente non esaustivo di tutto il paradigma contenuto nelle locuzioni “difesa” e “contraddittorio”. Invece, come è noto, il perimetro del diritto di difesa ricomprende anche la partecipazione al procedimento, la possibilità di intervenire nella formazione e/o acquisizione degli elementi probatori utili alla decisione e la costante presenza a tutte le fasi procedurali. La disciplina prevista per il procedimento di prevenzione, pur distinguendosi formalmente da quella prevista per l’esecuzione dall’art. 666 c.p.p. che espressamente individua la necessità di una richiesta per essere sentito personalmente dal giudice, al fondo la ricalca proprio per il limitato riconoscimento del legittimo impedimento dell’interessato ai soli casi di espressa e previa richiesta di essere sentito. La peculiarità è evidente, cosi come è marcata la differenza con la regola generale prevista per il rito camerale, dove l’art. 127 c.p.p. dispone che le parti sono sentite solo se compaiono. Tra i due meccanismi vi è una significativa differenza, eppure in quello disciplinato dall’art. 127 c.p.p. (ritenuto meno garantista proprio in virtù della regola generale ivi enunciata «sentite le parti se compaiono») e richiamato, per quanto riguarda le misure cautelari personali, dall’art. 309 c.p.p., la giurisprudenza costituzionale prima e quella di legittimità successivamente, hanno sempre ritenuto che la richiesta di partecipare personalmente per essere sentita legittimasse, a pena di nullità assoluta ex artt. 178 lett. c) e 179 c.p.p., la traduzione della persona anche se detenuta fuori distretto [C. cost., 31.1.1991, n. 45; Cass., S.U., 25.3.1998, Abramo, in Cass. pen., 1998, 2874; Cass., S.U., 22.11.1995, Carlutti, in CED 1995/203771; nella stessa direzione Cass., sez. VI, 22.1.2008, Di Benedetto, in CED 2008/239084; Cass., sez. II, 4.12.2006, Di Girolamo, in CED 2006/235621; Cass., sez. V, 27.9.2006, Sciascia, in CED 2006/235284; Cass., sez. I, 30.8.2005, Gentile, in CED 2005/ 232224]. Sembra paradossale ritenere che nel contesto di un procedimento camerale maggiormente garantito, debba preferirsi una diversa interpretazione, attestandosi ad una lettura formale del dato normativo. Deve, quindi, essere preferito l’orientamento, espresso dalla dottrina, secondo cui la richiesta di essere sentito impone la traduzione anche del soggetto detenuto o internato fuori dalla circoscrizione del giudice competente [(d) CAIRO, 1113]. L’orientamento correttamente valorizza la natura giurisdizionale di cognizione del procedimento di prevenzione, che andrebbe, proprio per la sua peculiare natura, valutata alla stregua degli omologhi segmenti procedurali (come l’udienza preliminare). -

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Anche nel procedimento di esecuzione si pone lo stesso problema essendo prevista la medesima regola. Qui, però, la giustificazione che di solito viene data attiene alla natura «particolarmente tecnico-giuridica delle questioni trattate in sede esecutiva» [LOZZI, 815] che non richiedono, se non eccezionalmente, contributi diversi da quelli eminentemente tecnici dei contradditori necessari, individuati dalla disposizione nelle persone del difensore e del pubblico ministero. Il rilievo, in parte giustificabile se riferito al procedimento di esecuzione, non può essere condiviso in relazione al procedimento di prevenzione, dove la difesa materiale ha un ruolo assolutamente omologo e coessenziale a quella tecnica, del tutto paragonabile alla latitudine che occupa nel procedimento penale di cognizione. Nel giudizio di prevenzione, infatti, se la presenza necessaria del difensore e del pubblico ministero va accolta favorevolmente per la funzione di garantire la correttezza del contraddittorio, i limiti vistosi al diritto di partecipare e difendersi provando dell’interessato non possono trovare alcuna giustificazione, in quanto mortificano il diritto di difesa ed il contraddittorio e si contrappongono ai principi espressi dagli artt. 24 comma 2 e 111 Cost. La difesa materiale, correttamente intesa, assicura, come succede nel giudizio ordinario, la realizzazione di un segmento senza il quale difficilmente potrà dirsi compiuto il percorso virtuoso che conduce alla “giusta decisione”, assunta cioè in contraddittorio con le parti in posizione di parità, da un giudice terzo e imparziale, e con la essenziale partecipazione dell’interessato. Il diritto a partecipare all’udienza di prevenzione non può essere obliterato, in ossequio ai principi del giusto processo e dalla natura stessa del giudizio di prevenzione, assolutamente analoga al giudizio di cognizione. Il legittimo impedimento dell’interessato che ha chiesto di essere sentito e non risulta detenuto o internato in un luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice comporta il necessario rinvio dell’udienza. La violazione di questa regola integra una nullità assoluta ex art. 178 lett. c) c.p.p. rilevabile in ogni stato e grado del giudizio [FILIPPI, CORTESI, 152]. Si ritiene che la richiesta debba provenire direttamente dall’interessato [Cass., sez. I, 12.3.2003, Abitudine, in CED 2003/224778] il quale ha l’onere di esprimere personalmente la volontà di essere sentito, senza possibilità che detta volontà venga desunta implicitamente dalla richiesta di rinvio avanzata dal difensore [Cass., sez. I, 4.12.2007, Bova, in CED 2007/238712]. L’interpretazione non appare convincente dal momento che anche nel procedimento di prevenzione vale la regola che estende al difensore i diritti e le facoltà riservate al proposto (art. 99 comma 1 c.p.p.) e che il diritto esercitato costituisce l’esplicazione di una regola procedurale tipicamente difensiva (e per ciò solo estendibile al difensore tecnico). Ugualmente, la richiesta di rinvio motivata con il legittimo impedimento e la richiesta di essere sentito proveniente dal difensore ha la funzione di rendere chiara e manifesta una volontà riconducibile al proposto. Dottrina e giurisprudenza sono divisi circa la possibilità di applicare l’istituto della contumacia al giudizio di prevenzione [in giurisprudenza prevale in modo assoluto la tesi negativa: cfr. Cass., sez. VI, 30.4.1996, Pisano, in CED 1996/ -

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209330; ugualmente Cass., sez. I, 27.1.1995, Cacciatore, in CED 1995/200435; in dottrina, invece, risulta qualche voce favorevole: cfr. RUSSO, 4]. La tesi negativa era originariamente fondata sulla natura esclusivamente camerale del giudizio di prevenzione, che escludeva l’operatività dell’istituto della contumacia. Oggi, invece, dopo la previsione della possibile pubblicità su richiesta dell’interessato del giudizio di prevenzione, l’argomento non ha più solide giustificazioni. È necessaria, per la legittima instaurazione del procedimento, la presenza fisica del rappresentante dell’ufficio del pubblico ministero, giudicata una parte necessaria. In particolare, nelle udienze di prevenzione le funzioni di accusa sono esercitate dal procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il giudice compente e ove dimora la persona. Nel caso in cui destinatario della richiesta di applicazione della misura sia una delle persone indicate nell’art. 4 comma 1 lett. c) del d.lgs n. 159/2011 le funzioni possono essere esercitate anche dal procuratore della Repubblica presso il tribunale competente a decidere e ove la persona dimora. La manca presenza fisica del pubblico ministero all’udienza comporta una nullità ex art. 178 lett. b) c.p.p., giudicata dalla giurisprudenza come una nullità a regime intermedio [Cass., sez. I, 17.2.1997, Salja, in CED 1997/207426], rilevabile anche di ufficio dal giudice. Altra presenza necessaria è rappresentata dal difensore. Sul punto, nonostante la chiara previsione normativa che richiede l’obbligatoria presenza del difensore tecnico, la giurisprudenza ha sostanzialmente ridimensionato il profilo, escludendo che possa essere fatto valere, nei procedimenti camerali di esecuzione e sorveglianza, il legittimo impedimento [Cass., S.U., 9.4.1998, Serroni, in Cass. pen., 1998, 3219; Cass., S.U., 22.9.2006, Passamani, in Dir. pen. e proc., 2006, 1333]. La linea interpretativa fonda sulla constatazione secondo la quale la disciplina prevista per il legittimo impedimento del difensore riguarda solo la fase dibattimentale e non può estendersi a quella di esecuzione e di sorveglianza. Nel giudizio di prevenzione, applicandosi l’art. 666 c.p.p., dovrebbero valere le stesse conclusioni. Ne deriva che la mancata comparizione del difensore dovuta ad un suo legittimo impedimento non comporta il rinvio dell’udienza, né integra una nullità la celebrazione dell’udienza nonostante il legittimo impedimento, documentato e tempestivamente comunicato, del difensore tecnico. L’interpretazione non convince. Anche al procedimento di prevenzione – come a quello di sorveglianza e di esecuzione – si applicano le disposizioni generali del codice di procedura penale in quanto compatibili e soprattutto quelle essenziali regole che consentono al giusto processo di funzionare e assolvere alla sua funzione di garanzia dei diritti fondamentali. Mutuare la irrilevanza del legittimo impedimento del difensore dalla disciplina generale dell’udienza camerale (art. 127 c.p.p.: sentite le parti se compaiono) rappresenta un errore in quanto si pongono a confronto – per verificarne la compatibilità – due situazioni assai differenti: la prima – quella generale descritta dall’art. 127 c.p.p. – non ritiene essenziale la presenza delle parti e dei difensori; la seconda, all’opposto, impone la presenza fisica del pubblico ministero e del difensore. Succede così anche nell’udienza preliminare ove, non a caso, è espressamente previsto il legit-

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timo impedimento del difensore (e dell’imputato). Questa dovrebbe essere la disciplina di riferimento applicabile anche al caso specifico, vista la medesima ratio di garanzia e non opponendosi ragioni sistematiche o particolari. A ciò si aggiunga che nel procedimento di prevenzione si discute (in via cognitiva) l’applicazione di una misura restrittiva della libertà personale, morale e/o patrimoniale. Dovrebbe essere chiara la stessa ratio del processo di cognizione e la mutuabilità delle sue regole essenziali pur nel contesto procedurale individuato. In questo senso, a nostro giudizio, il legittimo impedimento del difensore determina, purché documentato e tempestivamente comunicato, il rinvio del procedimento e la celebrazione in violazione della regola una nullità a regime intermedio [FILIPPI, CORTESI, 152]. Se il difensore di fiducia o di ufficio indicato nell’avviso di fissazione non compare, si provvede alla nomina, quale sostituto ex art. 97 comma 4 c.p.p., di un difensore di ufficio scelto nell’elenco all’uopo predisposto, che non potrà, alla stregua di quanto è generalmente previsto, chiedere un termine per preparare la difesa a differenza di ciò che succede se vi è stata una revoca o una rinuncia del mandato difensivo: in questo caso, infatti, il nuovo difensore può chiedere un temine a difesa. L’art. 7 comma 4 ult. parte, nel disciplinare la partecipazione dell’interessato al procedimento, dopo aver stabilito che la persona detenuta o internata in un luogo ubicato fuori dalla sede del tribunale può essere sentito, se ne fa tempestiva richiesta, dal magistrato di sorveglianza del luogo, prevede che ove siano disponibili strumenti tecnici idonei, il presidente del collegio può disporre che l’interessato sia sentito mediante collegamento audiovisivo ai sensi dell’art. 146bis commi 3, 4, 5, 6 e 7 disp. att. c.p.p. La norma, utilizzando letteralmente il temine “può disporre”, sembra affidare al presidente del collegio una potere discrezionale, inammissibile se proiettato sul versante del diritto alla partecipazione dell’interessato. Innanzitutto, perché il diritto a partecipare ha una valenza oggettiva, riguarda il proposto e non può essere discrezionalmente apprezzato dal giudice. La possibile utilizzazione di impianti tecnici idonei è funzionale, invero, proprio a consentire alla persona detenuta o internata fuori distretto che ne ha fatto richiesta la partecipazione al procedimento di prevenzione. Sicché, una volta constatata la possibilità di utilizzare lo strumento tecnico della video conferenza, dovrebbe sempre essere disposta l’audizione personale dell’interessato che lo richiede, secondo questa modalità, indipendentemente dalla valutazione discrezionale del presidente. In questo senso deve essere letta la norma che, diversamente, non avrebbe alcun valore. Il vero limite della disposizione è rappresentato dal fatto che essa sembra fare riferimento all’audizione dell’interessato e non alla sua complessiva partecipazione al procedimento, laddove, invece, la presenza personale consente l’attivazione del diritto di difesa e del contraddittorio, garanzie che ricoprono una latitudine molto più ampia di quella contenuta nella locuzione “essere sentito”.

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Una ulteriore peculiarità, afferente al tema generale della partecipazione dell’interessato al procedimento, è contemplata dall’art. 7 comma 6 d.lgs. n. 159/ 2011 che riconosce al presidente del tribunale il potere di disporre l’accompagnamento coattivo dell’interessato, il quale invitato a comparire non abbia ottemperato all’invito, qualora occorre la sua presenza per essere interrogato. La disposizione propone varie perplessità, ma quella principale riguarda la sostanziale negazione del diritto al silenzio, non riconosciuta all’interessato a differenza di quanto avviene, in via generale, nel processo penale. La ragion d’essere di tale peculiarità non è facilmente decifrabile se non attribuendo al procedimento di prevenzione una collocazione inquisitoria completamente eccentrica rispetto alle coordinate del processo penale. Premesso che l’interessato non può essere obbligato con la forza a rendere dichiarazioni, l’accompagnamento coatto ha la sola funzione di ricavare arbitrariamente dal suo silenzio dati valutativi non altrimenti deducibili [in tal senso Cass., sez. VI, 24.8.1995, Annunziata, in Riv. pen., 1996, 526; molto critica su questo profilo è la dottrina: cfr. per tutti FILIPPI, CORTESI, 1547 ss.]. Sembra esattamente la valorizzazione di un profilo opposto alle dinamiche del giusto processo. Nel procedimento di prevenzione patrimoniale è prevista anche la possibile comparizione del terzo interessato alla vicenda, persona legata al bene sequestrato oggetto della valutazione sulla confiscabilità perché proprietaria o comproprietaria, ovvero titolare comunque di un diritto reale o di godimento sullo stesso bene. In particolare, l’art. 23 commi 2 e 3 del Codice antimafia prevede che, se i beni sequestrati appartengono a terzi, questi, nei trenta giorni successivi al sequestro, sono chiamati dal tribunale, con decreto motivato, ad intervenire nel procedimento di prevenzione, ed hanno il diritto di nominare un difensore e di difendersi attivamente chiedendo l’acquisizione di ogni elementi utile alla decisione. La stessa possibilità è riconosciuta dal successivo comma 4 ai terzi che vantano un diritto reale o di godimento sui beni in sequestro. Per queste persone vale la regola che sono sentite se compaiono e possono comparire, se individuate, dal momento che hanno, come abbiamo visto, diritto a ricevere l’avviso di fissazione dell’udienza camerale. Il primo segmento dell’udienza di trattazione è dedicato alla verifica della regolare costituzione delle parti. Si controlla, cioè, innanzitutto la regolarità degli avvisi e delle relative notifiche, disponendo il rinvio dell’udienza se l’avviso non risulta spedito o se non è corretta la sua notifica alle parti che hanno il diritto di riceverlo; si controlla, successivamente, la presenza dei contraddittori necessari e di quelli eventuali. L’attività si realizza ovviamente in contraddittorio, mutuando il modo dialettico di svolgimento dalle regole procedurali generali ed in particolare dal principio espresso dall’art. 111 comma 2 Cost. («ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale»). Il secondo segmento dell’udienza è destinato a risolvere le questioni prelimi-

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nari. Anche se manca la espressa previsione di una fase deputata alla trattazione delle questioni preliminari, si ritiene che logicamente, anche nel procedimento di prevenzione, alcune questioni debbano essere trattate preliminarmente al merito proprio per la loro connessione con la corretta instaurazione del giudizio. Sono, ad esempio, le questioni che attengono alla competenza, alla deduzione delle nullità relative concernenti le attività pregresse, le questioni che riguardano la terzietà e l’imparzialità del giudice quali l’incompatibilità, l’astensione o la ricusazione [cfr. FILIPPI, CORTESI, 143; in giurisprudenza cfr. Cass., sez. V., 23.1.2009, N.S., in CED 2009/242942]. Va, infine, ancora precisato che il verbale di udienza viene redatto, ai sensi dell’art. 666 comma 9 c.p.p., in forma “di regola” riassuntiva. L’attuale formulazione della norma è il prodotto di una decisione della Corte costituzionale (sentenza 3.12.1990, n. 529) con la quale la disposizione è stata ritenuta illegittima, per contrasto con la direttiva n. 8 della legge delega per il nuovo c.p.p. del 1987, nella parte in cui prevedeva che il verbale dovesse essere “sempre redatto” e non “di regola redatto” in forma riassuntiva. L’obbligo della verbalizzazione in forma riassuntiva, infatti, oltre che illegittimo per contrasto con la delega e con il principio in essa richiamato era anche oggettivamente irrazionale, potendo risultare necessaria o anche solo opportuna, in casi particolari ma possibili, la verbalizzazione in forma integrale. Sottrarre al giudice la facoltà di scegliere la migliore modalità era un fatto che non trovava giustificazioni. Sicché, per effetto della richiamata declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 666 comma 9 c.p.p., il verbale di udienza (anche) del procedimento di prevenzione, di regola riassuntivo ai sensi dell’art. 140 c.p.p., può essere redatto in forma integrale. Dopo la verifica della regolare costituzione delle parti, della regolarità degli avvisi e dopo la trattazione e la decisione di eventuali questioni preliminari, il giudice designato dal presidente, ex art. 45 disp. att. c.p.p., svolge la relazione orale ed illustra il tema della decisione [FILIPPI, CORTESI, 146]. L’art. 45 disp. att., infatti, contempla, per i procedimenti in camera di consiglio avanti al Tribunale o alle Corti, questa modalità generale di introduzione dell’udienza, la cui mancanza, però, non integra alcuna nullità [Cass., sez. VI, 20.8.1992, Agostino, in CED 1992/192228]. Qualche perplessità può sorgere nell’ipotesi in cui l’interessato richiede l’udienza pubblica, perché, in questo caso, si esce dal modulo camerale previsto in via generale. Non sembra, però, sussistere una incompatibilità tra udienza pubblica e relazione introduttiva, posto che la seconda è contemplata in tutti i giudizi di appello e di legittimità per i quali è prevista comunque l’udienza pubblica. Si passa, quindi, alla fase deputata all’acquisizione ed alla formazione del materiale probatorio delle prove sul quale dovrà essere fondata la successiva decisione.

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La formazione della prova. Il diritto alla prova, le regole di giudizio e gli standard probatori.

La procedura di applicazione della misura di prevenzione, personale o patrimoniale, comporta, ovviamente, l’acquisizione degli elementi sulla scorta dei quali il tribunale competente deve decidere. In questo scenario, alcuni elementi saranno già allegati alla proposta e quindi conosciuti dal tribunale fin dal momento in cui il procedimento prende avvio; altri, invece, dovranno essere acquisiti nel corso dell’udienza. Per i primi, si pone, innanzitutto, il problema della coerenza del meccanismo rispetto all’impianto accusatorio previsto dal modello di riferimento (quello processuale penale), per il quale, come è noto, la cognizione deve essere affidata ad un giudice ignaro dei risultati investigativi, il quale deve acquisire in progressione e in modo dialogico i dati probatori solo all’interno del segmento processuale a ciò deputato (il dibattimento, con la eccezione dell’incidente probatorio e degli atti investigativi introdotti sull’accordo delle parti); per i secondi, invece, il problema centrale è quello verificare il modo col quale essi vengono acquisiti (cioè, come ed in quale perimetro si sviluppa il contraddittorio). La incoerenza riscontrata nel primo ambito è, purtroppo, oggettiva, ma non sembra risolvibile dal momento che alla proposta di applicazione della misura, di prevenzione sono allegati gli elementi in base ai quali la stessa è formulata e tali dati vengono automaticamente conosciuti dal giudice e dallo stesso valutati al momento della decisione [FILIPPI, CORTESI, 153]. Si tratta di dati probatori acquisiti unilateralmente dall’autorità proponente l’applicazione della misura, ed in particolare dal pubblico ministero, che assumono la qualità di elementi utili alla decisione anche se non acquisiti e/o formati nel contraddittorio delle parti. Il dato risente del fatto che nella prassi le fonti probatorie «sono essenzialmente cartolari e sono costituite da elementi desunti da procedimenti penali esauriti o ancora in corso, da precedenti penali e giudiziari e, soprattutto, dalle informazioni degli organi di polizia» [(a) FILIPPI, 352]. Il procedimento è, invero, caratterizzato da una spiccata inquisitorietà dove il contraddittorio appare limitato ad una mera critica della prova «precostituita dagli inquirenti durante le indagini» [VALENTINI, 72]. Ugualmente, però, la difesa può proporre elementi probatori preformati. Si tratta, invero, di una modalità spuria, eccentrica rispetto al principio del contraddittorio, che divarica irragionevolmente l’ontologia del procedimento di prevenzione (ma anche di quello esecutivo e di sorveglianza) dal processo penale. Il rinvio previsto dall’art. 7 comma 9 d.lgs. n. 159/2011 alle disposizioni contenute nell’art. 666 c.p.p. consente di individuare i possibili contenuti dell’attività di formazione della prova all’interno del procedimento di prevenzione. L’art. 666 comma 5 c.p.p. stabilisce che il giudice può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno e, se occorre assumere prove, procede in udienza nel rispetto del contraddittorio. A questa dispo-

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sizione si affianca l’art. 185 disp. att. c.p.p. che indica le modalità essenziali – «senza particolari formalità» – di assunzione di alcune prove ed in particolare per quanto concerne «la citazione e l’esame dei testimoni e l’espletamento della perizia». A questo complesso normativo va aggiunto l’art. 7 comma 8 d.lgs. n. 159/2011 secondo cui l’esame a distanza dei testimoni può esser disposto dal presidente del collegio nei casi e nei modi indicati dall’art. 147-bis comma 2 disp. att. c.p.p. Una prima sintesi delle varie norme applicabili consente di affermare che all’interno dell’udienza di trattazione del procedimento di prevenzione è prevista una istruzione probatoria, condotta senza particolari formalità, ma sempre nel rispetto del contraddittorio ove prevale l’acquisizione di documenti ed informazioni e l’assunzione delle prove è solo eventuale. Questa impostazione risente, in verità, molto del modello di riferimento – il procedimento di esecuzione – dove oggettivamente, per la natura stessa della materia trattata, prevalgono dati documentali ed informazioni assunte presso autorità di vario tipo. Nel procedimento di prevenzione, invece, la necessità di acquisire prove è molto più frequente per la tipologia dell’accertamento e per le caratteristiche del giudizio e della cognizione che lo precede. Quest’ultima disposizione va letta, in generale ed in particolare per quanto riguarda la prevenzione, in modo costituzionalmente orientato alla luce di quanto stabilisce l’art. 111 Cost., anche se non è da tutti condivisa la modalità di formazione della prova dichiarativa secondo lo stile dialogico richiamato dal comma 4. Insomma, il giudizio di prevenzione ha esigenze probatorie proprie, del tutto analoghe a quello di merito e sicuramente più pregnanti del procedimento di esecuzione. La lettera della norma è stata, infatti, esplorata soprattutto in relazione ai procedimenti di esecuzione e sorveglianza ed è stata ritenuta, da una parte della dottrina, sufficiente una modalità informale di acquisizione della prova [CORBI, 447 ss.]. L’art. 19 comma 5 del d.lgs. n. 159/2011 riconosce al tribunale, nel procedimento di prevenzione patrimoniale, il potere di procedere ad ulteriori indagini oltre quelle già compiute da parte degli organi deputati alla proposta. Si tratta di un potere investigativo assolutamente eccentrico che stravolge le regole del processo perché affida al giudice un ruolo inquirente, sicuramente lesivo del principio di imparzialità. Trattasi, peraltro, di potere che si differenzia anche da quello istruttorio ex officio attivabile ex art. 507 c.p.p. dal momento che non coinvolge poteri di iniziativa probatoria ma poteri di indagine, esercitabili, a differenza dei primi, anche al di fuori del contraddittorio. La fase istruttoria deve essere esplorata partendo dalla tipologia delle prove acquisibili. La natura cognitiva del procedimento in esame e la diretta applicazione delle regole del giusto processo consiglia di utilizzare un ambito probatorio quanto più ampio è possibile, senza limitazioni arbitrarie. In questa prospettiva, tutte le prove sono acquisibili nell’udienza di trattazione del procedimento di prevenzione, senza alcuna esclusione, purché l’assun-

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zione risulti compatibile con le «caratteristiche strutturali e funzionali del procedimento» [in riferimento al procedimento di esecuzione e sorveglianza cfr., per tutti, CAPRIOLI, VICOLI, 319; DEAN, 112]. L’elencazione contenuta nell’art. 185 disp. att. c.p.p. deve essere intesa solo quale esemplificazione e non quale specifica indicazione. Sicché, non solo la testimonianza e la perizia possono essere assunte nel procedimento di prevenzione, ma anche, sempre a titolo esemplificativo, l’esame della persona imputata o coimputata in procedimento connesso, la ricognizione, l’ispezione, il confronto ed ogni altra topologia probatoria [FILIPPI, CORTESI, 155 ss.] tipica e atipica (art. 189 c.p.p.). Infatti, l’art. 666 comma 5 c.p.p., applicabile alla prevenzione, non introduce alcun limite probatorio ma si limita solo a indicare il metodo – il rispetto del contraddittorio – necessario per l’acquisizione. L’unico limite individuato dalla dottrina consiste nella compatibilità con le forme semplificate tipiche del modello procedurale previsto. Anche se, nella realtà, non sembrano esserci problemi concreti di “compatibilità” capaci di opporsi all’acquisizione di specifiche tipologie probatorie. Un punto critico riguarda le regole probatorie applicabili al procedimento di prevenzione ed in particolare quelle di valutazione e quelle di esclusione (compresi i vari profili di utilizzabilità). La mancanza di una espressa previsione normativa riporta alla possibile applicazione, in quanto compatibile, delle regole previste per il processo penale. Ed in questa direzione sembrano andare alcune decisioni. La giurisprudenza ha, infatti, chiarito che la prognosi di pericolosità non può fondarsi su dichiarazioni indirette in violazione dell’art. 195 comma 7 c.p.p., non essendo la fonte identificata né identificabile [Cass., sez. V, 27.2.2010, Cassano, in CED 2010/249691]. Ugualmente, più in generale, le intercettazioni telefoniche dichiarate non utilizzabili ex art. 271 c.p.p., come le altre prove ritenute inutilizzabili ex art. 191 c.p.p., non sono suscettibili di utilizzazione in altri giudizi ivi compreso quello di prevenzione [Cass., S.U., 25.3.2010, Cagnazzo ed altri, n. 13426, in Cass. pen., 2010, 3049]. Nello specifico settore della intercettazioni, la giurisprudenza ha sempre dimostrato un certo rigore, anche se i suoi orientamenti hanno avuto un andamento oscillante al punto da creare un contrasto risolto dalle Sezioni Unite. Per un verso, si è affermato la piena utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni a prescindere dai limiti di utilizzabilità evocati nel processo penale dal quale provengono, posta l’autonomia del procedimento di prevenzione e la piena utilizzazione di tutti i dati indizianti [Cass., sez. V. 28.5.2008, B., n. 37659, in Cass. pen., 2009, 3977]; altro orientamento, invece, ha ritenuto estendibile l’inutilizzabilità delle intercettazioni al procedimento di prevenzione, ma solo nel caso di dedotta inutilizzabilità patologica [cfr. Cass., sez. II, 28.5.2008, Simonetta, in CED 2008/240629; Cass., sez. VI, 25.10.2007, Cicino, in Cass. pen., 2008, 4788]. Il contrasto interpretativo è stato risolto a favore della tesi più rigorosa secondo la quale le intercettazioni dichiarate inutilizzabili nel processo penale non possono essere utilizzate in quello di prevenzione trattandosi di prove illegali assunte in violazione dei diritti garantiti dai principi costituzionali [Cass., sez. V. 5.2.2009, C ed altro, n. 8538] dalle Sezioni Unite

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[Cass., S.U., 25.3.2010, Cagnazzo ed altri, n. 13426, cit.] che hanno chiarito il profilo in relazione ad una fattispecie in cui il vizio riguardava l’assenza di motivazione relativa all’inidoneità ed insufficienza degli impianti di captazione esistenti presso la Procura della Repubblica. In una direzione opposta va, invece, la giurisprudenza che ritiene, in modo assolutamente pacifico, che nel procedimento di prevenzione non trovano applicazione le regole di valutazione descritte dagli artt. 192 commi 2 e 3 c.p.p., onde la mancanza di riscontro non neutralizza, come accade nel processo penale, il valore probatorio della dichiarazione accusatoria [Cass., sez. I, 29.4.2011, Bagalà, in Cass. pen., 2012, 2, 669; Cass., sez. V, 5.6.2000, Gioie, in CED 2000/216693; Cass., sez. I, 21.10.1999, P.G. in proc. Castelluccia, in CED 1999/215117; Cass., sez. II, 19.3.1998, Bonventre, in Giust. pen., III, 1999, 608]. Sembra oggettivamente difficile riconoscere a dati probatoriamente monchi un valore dimostrativo in segmenti differenti da quello penale di cognizione. L’ondivaga oscillazione degli orientamenti risente, invero, di un vizio di fondo. Si sostiene che nel giudizio di prevenzione possano essere valutati direttamente tutti gli elementi acquisiti in altri procedimenti e che non sussista alcun nesso col processo penale relativo alla fattispecie di riferimento e che la valutazione sulla pericolosità è nettamente distinta da quella sulla colpevolezza [Cass., sez. V., 28.5.2008, Simonetta, cit.]. In questa prospettiva, è stato ritenuto che nel procedimento di prevenzione è possibile utilizzare tutti i dati probatori, anche indiziari, tratti da procedimenti penali non ancora conclusi o conclusi anche con sentenze di assoluzione, pur se gli indizi non hanno il carattere di gravità e precisione voluto dall’art. 192 c.p.p., purché rappresentino elementi certi [Cass., sez. I, 17.1.2008, Carvelli, in CED 2008/239358; cfr., su questo tema, in dottrina, MOLINARI, PAPADIA, 125 ss.]. L’orientamento cela, in realtà, l’idea che il giudizio di prevenzione possa fondare anche su elementi di minore efficacia probatoria e che qualunque dato capace di rivelare un sospetto di pericolosità debba essere valutato come indice probatorio. Dimostra questo assunto l’uso disinvolto di elementi probatori (prove ed indizi) ricavati da processi penali conclusi con sentenza di assoluzione [VALENTINI, 84 ss.]. Il ragionamento non convince anche se è indiscutibile che una cosa è il giudizio di colpevolezza per un fatto specifico, altra cosa è il giudizio di pericolosità di un soggetto. Ciò non toglie che la regola di giudizio applicabile debba consentire di affermare la pericolosità, la provenienza illecita del bene o la sproporzione reddituale rispetto all’attività economica svolta dimostrate oltre ogni ragionevole dubbio. Si devono ritenere, invece, pacificamente utilizzabili nel procedimento di prevenzione le indagini difensive svolte in altri procedimenti ovvero appositamente effettuate [sul punto cfr. (a) FILIPPI, 150 ss.]. L’istruzione probatoria inizia con l’ammissione delle prove. Anche se manca una chiara indicazione normativa si deve ritenere che le parti, nella fase iniziale dell’udienza, debbano in ogni caso prospettare al giudice le necessità probatorie che ritengono utili e indicare le prove delle quali chiedono l’ammissione. L’esistenza del diritto alla prova nel procedimento di prevenzione si deve

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confrontare, per comprenderne la latitudine, con la particolare – e, per certi versi, innaturale – ampiezza dei poteri istruttori riconosciuti al tribunale. L’esame delle disposizioni normative propone, infatti, un notevole incremento dei poteri di iniziativa probatoria ex officio [CAPRIOLI, VICOLI, 319], che evidenzia una «sorta di inversione del rapporto regola-eccezione delineato dall’art. 190 c.p.p. in favore del diritto alla prova delle parti» [MAZZA, 360]. In questa ottica, il giudice ha il potere di chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni necessarie con l’unico limite del rispetto del contraddittorio [Cass., sez. I, 15.10.2009, C.G., in CED 2009/245374]. Nel giudizio di prevenzione patrimoniale, in particolare, il potere di effettuare ulteriori indagini previsto dall’art. 19 comma 5 suggerisce una severa critica al sistema delineato in quanto, affidando al giudice un ruolo inquirente, insito nel potere investigativo (sostanzialmente diverso da quello probatorio), lo allontana sideralmente dai requisiti costituzionali di terzietà ed imparzialità (art. 111 comma 2 Cost.). Il dato, acuito dal potere attribuito in via ordinaria allo stesso tribunale, di decidere sulle richieste di sequestro dei beni e sui provvedimenti urgenti, propone severe critiche alla tenuta costituzionale del procedimento di prevenzione [FILIPPI, CORTESI, 154 ss.]. Si delinea uno straordinario ambito probatorio e investigativo che coinvolge il giudice della prevenzione attribuendo allo stesso poteri molto maggiori di quelli tipici riconosciuti al giudice nel processo penale. Questa peculiarità non giustifica, però, un ridimensionamento del diritto alla prova, la cui esistenza e la cui ampiezza vanno rivendicati non esistendo alcuna ragione di compatibilità per disapplicare o limitare l’applicazione dell’art. 190 comma 1 c.p.p. [CAPRIOLI, VICOLI, 321]. La giurisprudenza, invece, in relazione al procedimento di esecuzione, ha cercato di differenziare il modello applicabile, sostenendo che i parametri di ammissibilità della prova debbano essere meno rigidi di quelli previsti dall’art. 190 comma 1 c.p.p. [Cass., sez. I, 27.4. 1995, Esposito, in CED 1995/202141] ed in particolare ritenendo che non trovino applicazioni le disposizioni che riconoscono il diritto alla prova contraria [Cass., sez. I, 24.9.1993, Pezzoni, in CED 1993/195342 e Cass., 12.8.1993, Cova, in CED 1993/195877]. Nella stessa sostanziale direzione è stato affermato che nel procedimento di prevenzione non è configurabile il vizio della mancata assunzione di una prova decisiva [Cass., sez. I, 10.2.2009, Giuliana, in Cass. pen., 2012, 1594, con nota di Molinari]. L’orientamento non può essere condiviso non sussistendo alcuna ragione logica e giuridica per negare ai principi in materia di ammissione della prova la diretta applicazione nella giurisdizione in executivis ed a maggior ragione in quella di prevenzione. Sul punto la dottrina è largamente orientata a ritenere pienamente applicabili al modello descritto dall’art. 666 c.p.p. le coordinate normative del diritto alla prova e del diritto alla prova contraria [FILIPPI, SPANGHER, 381; LORUSSO, 237; MAZZA, 361]. L’inciso «se occorre assumere la prova» contenuto nel comma 5 dell’art. 666 c.p.p., infatti, lungi dall’imporre al giudice un vaglio preliminare sulla necessità di procedere ad istruzione probatoria, deve essere inteso semplicemente come -

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una locuzione che richiama «l’eventualità che giudice e parti intendano procedere all’acquisizione di materiali ulteriori rispetto a documenti e informazioni, senza incidere né sull’estensione dei poteri di iniziativa probatoria officiosa del giudice, né sull’estensione del diritto alla prova delle parti» [CAPRIOLI, VICOLI, 322]. Terminata la fase delle richieste di prova, si passa alla fase dell’assunzione vera e propria della prova. È oggetto di orientamenti differenti l’individuazione delle modalità per acquisire la prova dichiarativa. Per andare al cuore del problema la questione dibattuta riguarda l’uso della tecnica dell’esame incrociato. Parte della dottrina esclude l’utilizzazione della tecnica dell’esame incrociato e affida al giudice il compito di acquisire la prova [in tal senso, anche se con posizioni differenziate, CORBI, 447 ss.; DELLA CASA, 137]. Altra parte della dottrina, invece, ritiene, in modo condivisibile, direttamente applicabile il principio del contraddittorio nella formazione della prova anche al procedimento di esecuzione e, quindi, di prevenzione [CAPRIOLI, VICOLI, 322]. Nella stessa prospettiva, in maniera ancora più decisa, è stato ritenuto, anche per il modello procedurale descritto dall’art. 666 c.p.p., il diritto delle parti all’esame incrociato dei testimoni e degli altri dichiaranti [LORUSSO, 253] o comunque la mancanza di un divieto espresso o di una incompatibilità [FILIPPI, SPANGHER, 392]. La mancanza di rigidità formale nell’acquisizione delle prove non spinge fino al punto di vietare l’uso della modalità di elezione per formare la prova dichiarativa, scelta dal legislatore per la sua indubbia capacità di formare il migliore materiale epistemologico possibile, il più ricco di informazioni e quello completo dal punto di vista dell’attendibilità della fonte. Il metodo non è, infatti, incompatibile con le caratteristiche del procedimento nel quale si inserisce, è indispensabile rispetto alle esigenze dell’accertamento, non trova controindicazioni normative espresse o sistematiche. L’art. 665 comma 5 c.p.p. opera letteralmente una distinzione tra documenti e altre prove ma tale distinguo non ha una ragion d’essere comprensibile, né autorizza una differente valutazione nell’ambito delle categorie probatorie specifiche. Sicché, per i documenti valgono le regole ammissive e acquisitive previste in generale. In questa ottica, le parti possono chiedere di esaminare i documenti per poter interloquire sulla loro ammissibilità. Per la corretta acquisizione del documento, invece, basta la semplice allegazione al fascicolo dopo il provvedimento di ammissione. Si discute se, per questi ultimi, debba essere anche data lettura per la piena utilizzabilità del dato probatorio. La dottrina è, sul punto, divisa tra chi ritiene che debba essere sempre data lettura del documento [CORBI, 443; DELLA CASA, 134; (g) DI CHIARA, 249; KOSTORIS, 569] e chi, invece, ritiene sufficiente la sola allegazione dello stesso [CAPRIOLI, VICOLI, 324]. Anche se la prima soluzione è coerente con le regole di corretta acquisizione probatoria, bisogna sottolineare che il meccanismo della lettura è sostanzialmente una mera formalità, privo di reale concretezza. La mancanza di una regola di giudizio particolare non esclude il riconoscimento, anche nel giudizio di prevenzione, del canone interpretativo dell’oltre

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ogni ragionevole dubbio. Questa elementare considerazione è, però, messa in crisi da alcune peculiarità che la sconvolgono. La prima riguarda l’inversione dell’onere della prova riscontrabile nella confisca: il tribunale, infatti, dispone la confisca dei ben di cui la persona nei cui confronti si procede «non possa giustificare la legittima provenienza» (art. 24 comma 1, prima parte, d.lgs. n. 159/ 2011). La locuzione non lascia, purtroppo, spazi interpretativi diversi da quello sottolineato e disvela una inversione dell’onere della prova che urta con i «principi fondamentali del diritto» [FILIPPI, CORTESI, 156]. È il proposto che deve dimostrare la provenienza lecita dei beni, laddove dovrebbe essere l’accusa a dimostrare il fatto dal quale dipende l’applicazione della misura patrimoniale. Diversamente, invece, nelle altre due diverse ipotesi di confisca, l’onere della prova ricade su chi richiede l’applicazione della misura. Dall’art. 24 comma 1, infatti, si ricava che spetta al pubblico ministero fornire la prova della titolarità o della disponibilità, anche per interposta persona fisica o giuridica, di beni in valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato ai fini delle imposte dirette o all’attività economica effettuata nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. In questi due ultimi casi, infatti, la norma usa la locuzione “risulta essere” e “risultino essere” dal significato univoco: deve, cioè, risultare dimostrato. In termini di onere della prova, è chiaro che spetta al soggetto pubblico dimostrare e provare l’esistenza dei requisiti per giungere alla confisca. Nella prevenzione personale, invece, l’onere della prova ricade sull’accusa che deve dimostrare la pericolosità sociale e l’appartenenza del proposto ad una delle categorie richieste dalla legge. La singolare ripartizione dei carichi probatori non conclude la disamina delle stranezze probatorie in tema di misure di prevenzione. Quella più eclatante resta la possibilità che meri indizi siano sufficienti a dimostrare la sussistenza della situazione fattuale posta (essa stessa sfuggente e troppo discrezionale) quale premessa per l’applicazione della misura di prevenzione personale o patrimoniale o che addirittura rilevino attività meramente preparatorie o in sé non penalmente illecite [tra le tante Cass., sez. I, 5.10.2006, Gashi, n. 35481; Cass., sez. VI, 25.9.2003, Loiacono, n. 36762; Cass., sez. V, 28.11.1995, Brodella, in Cass. pen., 1998, 628; cfr. anche le indicazioni di VALENTINI, 69 ss.] o che regole di giudizio spurie siano poste a fondamento delle decisioni di applicazione della misura. La fattispecie di prevenzione acquista, dunque, una oggettiva discrezionalità che si ripercuote sull’accertamento e sul giudizio, quanto mai sfuggenti e difficili da collocare in ambiti definiti. Più volte, infatti, le norme richiamano la sufficienza di una dimostrazione meramente indiziaria: ciò succede, ad esempio, per individuare i soggetti ai quali è applicabile la prevenzione personale (art. 4 comma 1 lett. a), b) ed i) d.lgs. n. 159/2011). Ugualmente, alcune volte la norma richiede mere attività preparatorie (art. 4 comma 1 lett. f ) difficili da catalogare dal punto di vista oggettivo e ancor più difficili da individuare quali presupposti per un giudizio di pericolosità sociale. -

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In ambito patrimoniale, invece, l’art. 20 comma 1 d.lgs. n. 159/2011, autorizza il sequestro dei beni (premessa per la confisca) quando sulla base di sufficienti indizi si ha motivo di ritenere che i beni siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. L’attuale assetto è costituzionalmente censurabile dal momento che propone una eccessiva discrezionalità del giudice (che, nella specie, appare legibus solutus), una sostanziale irrazionalità ed irragionevolezza anche, ma non solo, per la ridotta estensione dei controlli sulla motivazione [VALENTINI, 123 ss.]. Una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni impone di mettere al centro del sistema probatorio il contraddittorio nella formazione della prova, recuperare il valore della presunzione di innocenza valida anche nel sistema di prevenzione, rivalutare la regole di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, costruire la motivazione secondo lo schema logico e giuridico della sentenza e, infine, attuare decisamente forme di controllo effettive. 7. La decisione: requisiti. Il tribunale decide sulla scorta degli elementi legittimamente acquisiti e contenuti nel fascicolo del giudizio. Il principio, desumibile dall’art. 526 comma 1 c.p.p. è applicabile, in quanto compatibile, anche al procedimento di prevenzione e comporta che il giudice non possa utilizzare per la decisione conoscenze personali o informazioni assunte aliunde e dati probatori non acquisiti secondo le forme stabilite. La norma richiama una regola procedurale essenziale, tipica del giusto processo, che consente, peraltro, il collegamento tra la formazione del dato probatorio, la valutazione e la decisione, veicolando i tre profili all’interno del contraddittorio, unico metodo previsto per l’esercizio corretto della giurisdizione. Decide il giudice che ha acquisito gli elementi probatori utili alla decisione in applicazione del principio di immediatezza [su cui cfr., per tutti, CHINNICI]. Vale anche nel giudizio di prevenzione il principio dell’immutabilità del giudice in quanto pienamente compatibile con la struttura e con la ratio del procedimento in esame. In giurisprudenza si sono registrati, però, orientamenti differenti [per una sintesi degli orientamenti cfr. (d) CAIRO, 1124 ss.]. Il principio di immutabilità del giudice costituisce, invero, uno dei cardini del sistema processuale dal momento che tutela una situazione essenziale della giusta decisione: deve assumere la decisione il giudice che ha presieduto la fase di formazione della prova. Deve, quindi, essere accolto l’orientamento che estende al giudizio di prevenzione il principio, considerando, naturalmente, che in questo giudizio particolare la maggior parte degli elementi probatori hanno il carattere di prove precostituite che non vengono formate avanti al giudice della decisione. Proprio per questa peculiarità, la giurisprudenza che ha accolto il principio lo ha fatto soprattutto tenendo presente la fase delle conclusioni delle parti affermando che

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è configurabile una nullità assoluta, per violazione del principio espresso dall’art. 525 c.p.p., solo nel caso in cui le conclusioni siano ricevute da un collegio diverso da quello decidente [Cass., sez. I, 21.10.2005, Franzè, in CED 2005/ 232891]. La giurisprudenza, invece, non ritiene applicabile il principio dell’immediatezza della deliberazione previsto dall’art. 525 c.p.p., sicché il collegio può riservarsi la decisione anche dopo la conclusione della fase di acquisizione della prova e di discussione, acquisendo anche elementi sopravvenuti rispetto a tale momento con l’indispensabile rispetto, però, del contraddittorio [Cass., sez. V, 25.1.2008, Matrone, in CED 2008/239817]. L’interpretazione fonda sulla convinzione che il procedimento di prevenzione sarebbe per sua natura sganciato dal rigore formale e dalla precisa scansione del giudizio ordinario. La sua natura semplificata non autorizza, però, cadute rispetto ai principi essenziali del giusto processo. Se la tipicità di questo procedimento consente al tribunale di riservarsi la decisione all’esito dell’udienza, non sembra possibile l’acquisizione, senza limiti, di elementi sopravvenuti, dovendo ritenersi applicabili, anche in questo caso, i limiti descritti dall’art. 507 c.p.p. La richiesta comporta la fissazione di una nuova udienza per l’acquisizione degli elementi nel contraddittorio e la formulazione di nuove conclusioni [Cass. 5.12.2003, Porchia, in CED 2003/227871; Cass., 9.11.1994, Bozzi, in CED 1994/200868]. Dopo aver completato l’acquisizione degli elementi probatori ritenuti necessari alla decisione, le parti sono chiamate ad esporre le richieste secondo la scansione tipicamente processuale: parla prima il pubblico ministero, poi i difensori degli eventuali terzi interessati e, infine, il difensore del proposto. In mancanza di una espressa e diversa previsione si applicano, anche in questo ambito, le regole previste per il dibattimento. Questa attività rappresenta l’ultimo (essenziale) contributo dialettico offerto al giudice, particolarmente utile perché rappresenta la prospettazione di ognuna delle parti e consente all’organo della giurisdizione di effettuare con serenità la valutazione, facendo soprattutto sintesi delle opposte pretese. Il provvedimento che conclude il giudizio di prevenzione, pur se nominalmente definito “decreto motivato”, è una decisione (nella sostanza) del tutto analoga alla sentenza, alla quale, per tale similitudine, si rinvia per l’applicazione delle disposizioni, previste dall’art. 546 c.p.p., che enunciano i requisiti di validità dell’atto, tra cui la sottoscrizione del giudice, la cui mancanza determina, peraltro, la nullità [Cass., S.U., 29.10.2009, Galdieri, in Cass. pen., 2010, 2167; in senso conforme Cass., sez. VI, 2.2.2006, Castellucci, in CED 2006/1233828; in dottrina cfr. per tutti (e) FIORENTIN, 195 e 207]. La natura di sentenza, al di là del dato formale, si ricava dalla tipicità della decisione, che conclude il giudizio di cognizione diretto all’applicazione della misura di prevenzione (che, su richiesta dell’interessato, potrebbe anche essere pubblico), configurandosi come «un provvedimento conclusivo di un’autonoma fase processuale» [l’argomento, proposto in relazione al procedimento di esecuzione, è valido anche per il pro-

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cedimento di prevenzione: cfr. CORBI, NUZZO, 207, ed è suscettibile di controllo di merito (ricorso in appello) e di legittimità (ricorso in cassazione)]. Il provvedimento che conclude il giudizio di prevenzione può essere di rigetto o di accoglimento, totale o parziale, della proposta. La natura di sentenza consente di ritenere indispensabile la sussistenza dei requisiti essenziali previsti per quest’ultima, ad eccezione di quei tratti formali non compatibili con la snellezza del procedimento de qua. Sono, dunque, requisiti indispensabili l’individuazione del giudice che ha emesso il provvedimento, l’indicazione delle generalità della persona nei cui confronti viene chiesta l’applicazione della misura e quanto altro utile alla sua identificazione, la motivazione e il dispositivo (cioè, la statuizione conclusiva), la sottoscrizione del Presidente, del giudice estensore e del cancelliere. Avendo la struttura formale del decreto motivato, il provvedimento è unico e nell’unico contesto è contenuta la motivazione e il dispositivo, viene depositato in cancelleria e comunicato al procuratore della Repubblica, al procuratore generale e all’interessato (si tratta di un errore della norma, perché all’interessato viene notificato, non comunicato, il provvedimento). Ai soggetti richiamati, deve essere “comunicato” (notificato) il provvedimento per esteso e non per estratto: la lettera della norma è, sul punto, molto chiara e ciò si spiega anche con i ristretti termini previsti per proporre ricorso in appello. Il comma 8 dell’art. 8 non inserisce il difensore nel novero dei soggetti ai quali comunicare il provvedimento conclusivo, ma deve ritenersi che, sulla scorta di quanto previsto dall’art. 666 comma 6 c.p.p. direttamente applicabile in quanto compatibile, la decisione debba essere notificata anche ai difensori nominati [Cass., sez. II, 10.6.2005, Nigro, in CED 2005/231880; Cass., 13.2.1997, Guidali, in CED 1997/207182]. Non essendo previsti specifici termini per il deposito, si ritiene valga la regola dei cinque giorni prevista, in via generale, dell’art. 128 c.p.p. [CORBI, NUZZO, 208]. Con la decisione conclusiva, il tribunale può applicare la misura di prevenzione personale non inferiore ad un anno di durata e non superiore a cinque. Se applica la misura personale di cui all’art. 6 del d.lgs. n. 159/2011 individua, ex art. 8 comma 2, anche le prescrizioni che il proposto deve rispettare, intimando, se la misura applicata è la sorveglianza speciale e la persona è indiziata di vivere col provento dei reati, al medesimo di darsi, entro congruo termine, alla ricerca di un lavoro, di fissare la propria dimora, comunicarla senza indugio all’autorità di pubblica sicurezza e non allontanarsene senza preventivo avviso alla stessa autorità. Prescrive, inoltre, di vivere onestamente, rispettare le leggi, non associarsi abitualmente a persone che hanno subito condanne e tenere il comportamento previsto dal comma 4 dell’art. 8 d.lgs. n. 159 /2011 che, nei commi successivi, indica ulteriori possibili prescrizione che il tribunale può imporre al proposto, utili a dare un senso e un contenuto concreto alla misura applicata. Nel procedimento per l’applicazione della misura patrimoniale, il tribunale,

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se accoglie la richiesta, dispone la confisca dei beni sequestrati (art. 24 d.lgs. n. 159/2011) o applica le misure patrimoniali diverse dalla confisca previste dagli artt. 31 e ss. d.lgs. n. 159/2011. Di particolare importanza il comma 2 dell’art. 24 che fissa il termine massimo di un anno e sei mesi entro il quale il decreto di confisca può essere emesso, termine che decorre dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell’amministratore giudiziario. Il termine può essere prorogato con decreto motivato del tribunale per due periodi di sei mesi nel caso di indagini complesse o compendi patrimoniali rilevanti. La fissazione di un termine entro il quale è possibile disporre la confisca – prescindendo dalla sua ampiezza, che sembra eccessiva – costituisce un dato da salutare positivamente, coerente col principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111 comma 2 Cost.), che consente, peraltro, di evitare sequestri di beni a durata illimitata.

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(Segue) Definitività della decisione e divieto del bis in idem. La correlazione con la proposta.

La decisione che conclude il giudizio di prevenzione è suscettibile di divenire definitiva, di acquisire autorità di cosa giudicata sia pur in un’ottica particolare e non assoluta, compatibile con la ratio e la struttura del procedimento nel quale si inserisce. Il decreto motivato conclusivo diviene definitivo nel momento in cui vengono esauriti i vari gradi di giudizio ovvero le parti interessate non propongono impugnazione e decorrono i termini previsti le la proposizione dei gravami. Al di là della qualificazione della situazione procedurale, si verifica, in ogni caso, una preclusione processuale che impedisce ex art. 666 comma 2 c.p.p. la riproposizione di una analoga proposta o richiesta fondata sui medesimi elementi già valutati dal giudice. Il carattere di definitività della decisione conclusiva pone alcuni problemi derivanti dalla possibile modifica in melius o in peius. Si discute, cioè, se ed in che limiti trova applicazione il principio del “ne bis in idem”. Secondo l’impostazione prevalente, la regola risulta applicabile anche al procedimento di prevenzione ove, però, si ritiene che la preclusione del giudicato operi “rebus sic stantibus” e non impedisca la successiva rivisitazione in peius della misura qualora vengano acquisiti nuovi elementi, precedenti o successivi al giudizio, non valutati che mutano la valutazione e consentono un diverso e più grave apprezzamento della pericolosità [Cass., S.U., 29.10.2009, cit.; in dottrina (e) FIORENTIN, 206 ss.). L’interpretazione va condivisa se si riferisce all’insorgenza di nuovi elementi, ignoti al primo giudice, attraverso i quali emerge una diversa gravità o natura della pericolosità sociale. Va, invece, precisato che non è possibile una mera rivisitazione della medesima situazione attraverso la quale giungere ad un aggravamento della misura, perché, in questo caso, si forzerebbe la lettera della norma privando di valore il principio della preclusione processuale che accompagna la decisione. Sono, dunque, sempre necessari nuovi ele-

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menti fattuali capaci di modificare il precedente giudizio. Allo stesso modo, è legittimo l’apprezzamento di nuovi dati probatori per una rivisitazione in melius della misura ed una sua revoca anticipata, sempre qualora vengano acquisiti elementi dai quali risulta cessata o ridimensionata la pericolosità o mutata la situazione della persona sottoposta alla misura. In questa prospettiva favorevole al proposto, anche la mera detenzione, il decorso del tempo, la concessione di benefici penitenziari, di misura alternative alla detenzione, possono influenzare la valutazione e determinare la revoca anticipata della misura o la modifica in melius. In giurisprudenza si ritiene, inoltre, che nel giudizio di prevenzione non trovi applicazione in modo rigido il principio della correlazione tra decisione e proposta [(d) CAIRO, 1126]. In questa prospettiva, l’acquisizione in contraddittorio degli elementi posti a fondamento della decisione legittima l’utilizzazione di tutti i dati fattuali relativi alla pericolosità anche se non enunciati nella proposta [Cass., sez. I, 25.2.2009, Corica, in CED 2009/243494]. Nella stessa direzione si ammette, ad esempio, il provvedimento che dispone la confisca di ufficio [Cass., sez. I, 10.3.2009, Cammarota, in CED 2009/243496]. Ugualmente, è stato ritenuto che il procedimento iniziato ai sensi della legge n. 1423/1956 possa proseguire per l’applicazione di una delle misure previste dalla legge n. 575/1965 per la riconosciuta pericolosità qualificata del proposto senza determinare una modifica della contestazione [Cass., sez. VI, 11.1.2011, Chianese, in Cass. pen., 2011, 4012]. Indubbiamente la natura del giudizio di prevenzione propone, in genere, fattispecie e proposte di applicazione della misura non sempre legate ad un fatto specifico, ma più fluide, meno rigide. In questo senso il principio di correlazione ha riferimenti meno chiari, ma resta, però, pur sempre un principio di riferimento che deve essere interpretato, de minimis, almeno nel senso che impedisce la modifica in corsa della proposta. Anche se, in ossequio al principio del contraddittorio, dovrebbe valere un riconoscimento assoluto alla regola secondo i canoni dell’art. 521 c.p.p. In questo senso il tribunale «non può applicare una misura più grave e basata su fatti non indicati nella proposta» [cfr. FILIPPI, CORTESI, 161 e 162]. 9. I provvedimenti cautelari ed urgenti. Il d.lgs. n. 159/2011 contempla una serie di poteri cautelari ed urgenti attribuiti allo stesso tribunale competente ad applicare la misura di prevenzione o al suo presidente che potrebbero, in alcune ipotesi, costituire un limite alla piena attuazione dei principi di terzietà e imparzialità del giudice. L’art. 9 comma 1, in relazione alla prevenzione personale, prevede la possibilità che il presidente del tribunale, in via di urgenza e nella pendenza del procedimento diretto all’applicazione della misura personale, se essa riguarda l’applicazione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, possa di-

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sporre il temporaneo ritiro del passaporto e la sospensione di validità ai fini dell’espatrio di ogni altro documento equipollente. La disposizione, pur non individuando in modo espresso i presupposti per applicare la misura provvisoria, deve intendersi riferita a situazione nelle quali appare probabile una fuga all’estero per sottrarsi alla futura misura. Il comma 6 dello stesso art. 9, invece, prevede l’applicazione provvisoria dell’obbligo o del divieto di soggiorno, fino a quando non è divenuta esecutiva la misura di prevenzione, in casi nei quali sussistano motivi di “particolare gravità”. Si tratta dell’applicazione provvisoria della misura attribuita alla competenza funzionale del presidente del collegio, in casi definiti di particolare gravità senza specificare, però, il perimetro entro il quale è esercitabile il potere cautelare. Singolare è pure la predefinita durata della provvisoria imposizione della misura, sganciata da verifiche concrete circa la sussistenza di una effettiva situazione di pericolo. Non si richiede, infatti, un pericolo, ma solo motivi di particolare gravità che potrebbero anche riguardare la vicenda in sé. Insomma, in casi gravi, il presidente può applicare in via provvisoria il divieto o l’obbligo di soggiorno pur in assenza di comportamenti che denotino situazioni di incombente pericolo. La disposizione è fuori dalla logica cautelare e sembra una sorta di anticipazione provvisoria della misura di prevenzione, poco coerente con l’impianto costituzionale applicabile anche al settore in esame. Per quanto riguarda la prevenzione patrimoniale, invece, l’art. 20 stabilisce che il tribunale, anche di ufficio, ordina con decreto motivato il sequestro dei beni di cui la persona nei cui confronti è iniziato il procedimento risulta disporre, direttamente o indirettamente, in valore sproporzionato rispetto al reddito o all’attività svolta, ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi beni siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Il successivo art. 22 prevede un provvedimento di sequestro di urgenza attribuito alla competenza del presidente del collegio, il quale decide entro cinque giorni dalla richiesta avanzata, unitamente alla proposta di applicazione della misura, da parte dei soggetti proponenti, quando sussiste il concreto pericolo che i beni dei quali si prevede la confisca vengano dispersi, sottratti o alienati. In questo caso il sequestro urgente perde efficacia se non è convalidato dal tribunale entro 30 giorni dalla sua applicazione. Nel corso del procedimento, nei casi di particolare urgenza, ugualmente il presidente può applicare con decreto motivato il sequestro dei beni su richiesta dei proponenti (o degli organi delegati a svolgere le indagini patrimoniali ex art. 19 comma 5), ma in questo caso la convalida da parte del tribunale deve intervenire entro 10 giorni, pena la perdita di efficacia del provvedimento cautelare (sui provvedimenti di urgenza cfr., per tutti, FILIPPI, CORTESI, 75 ss.). Le due ipotesi si differenziano in base al momento procedurale nel quale è esercitabile il potere cautelare. Tra il sequestro e la confisca vi è una particolare relazione di connessione che deriva dalla lettera della norma: l’art. 24 prevede, infatti, che il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati. L’art. 1 comma 189 della legge n. 228/2012

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ha riscritto il secondo comma dell’art. 24 prevedendo che il provvedimento di sequestro perde efficacia se il tribunale non deposita il decreto che pronuncia la confisca entro un anno e sei mesi dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell’amministratore giudiziario. Questa peculiare locuzione ripropone la dizione del previgente sistema normativo, interpretata dalla giurisprudenza di legittimità in termini di «inscindibile collegamento tra cautela e provvedimenti ablatorio» [Cass., S.U., 13.12.2000, Madonia, in Cass. pen., 2001, 2047; in senso conforme, Cass., sez. VI, 16.5.2005, Mione e altro, in Cass. pen., 2006, 4175]. L’approdo interpretativo è giunto all’esito di un contrasto giurisprudenziale che vedeva contrapposto chi sosteneva l’autonomia del provvedimento cautelare da quello definitivo [Cass., sez. V, 19.9.1997, Cantiello, in Cass. pen., 1999, 644] con chi, invece, sosteneva che la confisca dovesse essere necessariamente preceduta dal sequestro [Cass., sez. I, 11.6.1999, Vernengo, in Cass. pen., 2000, 504].

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Sulla revoca della confisca decide la Corte d’appello, in Guida dir., XLII, 2011, 10 ss.; (d) FIORENTIN, Le misure di prevenzione personali, nel Codice antimafia, in materia di stupefacenti e nell’ambito di manifestazioni sportive, Milano, 2012; (a) FURFARO, voce Misure di prevenzione patrimoniali, in Dig. disc. pen., III, 2005, 879; (b) FURFARO, Due questioni in tema di misure di prevenzione patrimoniali: la pubblicità dell’udienza e i rimedi contro la confisca definitiva, in Giur. it., 2006, 2379; FURGIUELE, La disciplina della prova nel procedimento applicativo delle misure di prevenzione, in BARGI, CISTERNA (a cura di), La giustizia patrimoniale penale, Torino, 2011; GIUNCHEDI, La prova nella giurisdizione esecutiva, Torino, 2012, 141 ss.; GRILLI, I vizi di una misura cautelare o la sua sopravvenuta inefficacia possono pregiudicare il merito della decisione?, in Arch. nuova proc. pen., 1998, 583; KOSTORIS, Linee di continuità e prospettive di razionalità nella nuova disciplina del procedimento di sorveglianza, in GREVI (a cura di), L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, Padova, 1994; LATTANZI, LUPO, Codice Penale. 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Il procedimento giurisdizionale per l’applicazione delle misure di prevenzione

prevenzione: criticità e prospettive di riforma, in Atti del Consiglio Superiore della Magistratura, Incontro di studio sul tema: L’uso delle misure patrimoniali contro le organizzazioni criminali: strumenti investigativi e processuali. Il coordinamento tra il processo penale di prevenzione e la prospettiva di un giusto processo al patrimonio, Roma, 27-29 gennaio 2010; POLIGNANO, Amministrazione giudiziaria e confisca ex lege 575/65: aspetti gestionali, societari ed adempimenti tributari, in AA.VV., Diritto e professione, i reati associativi e gli strumenti di contrasto patrimoniale alla criminalità organizzata, Torino, 2010; PRESUTTI, La disciplina del procedimento di sorveglianza dalla normativa penitenziaria al nuovo codice di procedura penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1993, 160; RICCIO, DE CARO, MAROTTA, Principi costituzionali e riforma della procedura penale, Napoli, 2001; RUGGIERO, Amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, 1988, 49; RUSSO, voce Processo di prevenzione, in Enc. giur., XXIV, Roma, 1991, 1 ss.; SICLARI, Le misure di prevenzione, Milano, 1974; VALENTINI, Motivazione della pronuncia e controlli sul giudizio per le misure di prevenzione, Padova, 2008.

Capitolo III

Il sistema delle impugnazioni

Sommario

1. Introduzione. – 2. La disciplina generale. – 3. Il ricorso in appello. – 4. Il ricorso in cassazione. – 5. La revisione e la revoca. – Bibliografia.

1. Introduzione. Le misure di prevenzione sono state disciplinate da numerose leggi che, anche se non completamente ben coordinate tra loro, hanno, di fatto, costituito un sistema rudimentale e sommario, le cui lacune vengono colmate con rinvii alle norme del codice di rito ovvero con l’applicazione analogica di istituti e regole del processo penale giustificate dalla, ormai, pacifica natura giurisdizionale del procedimento di prevenzione [Cass., sez. I, 21/01/1999, Piromalli, in Giur. it., II, 1992, 299]. Infatti, in difetto di norme derogatorie espresse ovvero ricavabili dalla specialità della materia, si applicano, come già sottolineato nei precedenti paragrafi, le regole generali del processo penale [Cass., sez. I, 24/05/1984, Santoro, in Giust. pen., III, 1995, 94].

La legge fondamentale in subiecta materia, anche per quanto riguarda il sistema delle le impugnazioni, è stata varata il 27.12.1956, n. 1423, proprio al fine di porre rimedio in quel segmento particolare del diritto penale avente ad oggetto la prevenzione ante delictum. Le misure di prevenzione, disciplinate dalla suddetta legge, si sostanziano in limitazioni variamente condizionate della libertà, individuale e patrimoniale, per cui esse hanno carattere tipicamente penale in quanto tutelano i medesimi beni giuridici protetti dalle norme incriminatrici attraverso l’adozione di mezzi di coercizione individuale [GUERRINI, MAZZA, RIONDATO, 15]. Per questo motivo esse devono essere comminate ed applicate nel rigoroso

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Il procedimento giurisdizionale per l’applicazione delle misure di prevenzione

rispetto dei principi sottesi agli artt. 13 e 27 Cost., e cioè nell’ambito del principio di giurisdizione e del canone di legalità [NUVOLONE, 638]: si tratta di due principi essenziali ed intimamente connessi poiché la mancanza dell’uno vanifica l’altro, rendendolo meramente illusorio [SICLARI, 112 ss.]. Da un punto di vista contenutistico il provvedimento con cui si applicano non può prescindere da una puntuale indagine sui fatti, concreti e specifici, ai quali ancorare sospetti e presunzioni [D’ARGENTO, 38 ss.]. Queste peculiarità del provvedimento delimitano il perimetro entro cui è possibile esercitare il controllo tipico sotteso all’impugnazione. Infatti, l’art. 4 comma 8 della legge n. 1423/1956 contemplava (prima della modifica del 2011) la possibilità di impugnare il decreto con cui veniva applicata una misura di prevenzione ovvero veniva rigettata la proposta attraverso il ricorso alla corte di appello «anche per il merito» [in tema MARUCCI, 1474]: avverso il provvedimento della corte di appello era, invece, prevista la possibilità di ricorrere in Cassazione «per motivi di legge» (art. 3 comma 10 legge n. 1423/1956). Infine, il comma 11 della medesima disposizione di legge si occupava di regolare le modalità di presentazione e di decisione dell’impugnazione previo un semplice rinvio alle norme relative ai gravami riguardanti i provvedimenti inerenti le misure di sicurezza «in quanto applicabili»: ci si riferisce all’art. 680 comma 3 c.p.p. che rinvia, a sua volta, alle disposizioni generali in materia di impugnazioni (artt. 568 ss. c.p.p.). Sotto la vigenza del codice abrogato il riferimento alle norme riguardanti le impugnazioni contro i provvedimenti in tema di misure di prevenzione (artt. 640 e 641 c.p.p. 1930), comportava possibili contrasti con l’art. 4 legge n. 1423/ 1956 in quanto le disposizioni di legge ivi contenute disciplinavano i gravami in maniera differente dalle regole generali sulle impugnazioni [(a) MILETTO, 126]. Con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale la diversificazione di disciplina è stata superata per cui, rispetto al passato, appare più semplice la problematica relativa alle norme applicabili in tema di impugnazione contro i provvedimenti concernenti le misure di prevenzione [(b) Miletto, 241]. L’art. 4 legge n. 1423/1956 rappresentava, inoltre, la norma di riferimento per le impugnazioni – definite ricorsi – relative ai provvedimenti emessi dal tribunale ai sensi degli artt. 2-ter e 3-bis della legge n. 575/1956 (art. 27 d.lgs. n. 159/2011) con cui ordina, rispettivamente, la confisca dei beni sequestrati, la revoca del sequestro ovvero la restituzione della cauzione o la liberazione delle garanzie o la confisca della cauzione o, ancora, l’esecuzione sui beni costituiti in garanzia. I relativi provvedimenti diventano esecutivi a seguito della definitività delle relative pronunce. Ad ogni modo, il provvedimento con cui il tribunale dispone la revoca del sequestro diviene esecutivo 10 giorni dopo la sua comunicazione alle parti, salvo che il pubblico ministero, entro tale termine, ne chiede la sospensione alla corte di appello che dovrà decidere entro 10 giorni dalla presentazione della richiesta. Se respinge l’istanza, il provvedimento diviene esecutivo: in caso contrario, l’e-

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secutività resta sospesa sino alla definizione del giudizio (art. 3-ter legge n. 575/ 1965). In ogni momento il giudice che procede può revocare il provvedimento di sospensione dell’esecutività [COMUCCI, 85]. A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 6.11.2011, n. 159, si è istituito il codice delle leggi antimafia e si è riorganizzata la materia in un unico corpus normativo (ADORNO, CALÒ, 325]. La delega, contenuta nella legge 13.8.2010, n. 136, ha attribuito al Governo il compito di emanare un decreto legislativo volto a varare il codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, attraverso una «completa ricognizione delle norme antimafia di natura penale, processuale e amministrativa, nonché la loro armonizzazione e coordinamento anche con la nuova disciplina dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata recentemente istituita con il decreto legge 4/02/2010 n. 4» [BALSAMO, MALTESE, 2011]. -

Infatti, l’esigenza di un’attenta opera di razionalizzazione, semplificazione e coordinamento della normativa vigente in materia, si è resa necessaria a seguito delle numerose leggi speciali, frutto di una legislazione di emergenza emanata in momenti di particolare asprezza nella lotta al fenomeno mafioso [(a) FIORENTIN, 10].

Il regime delle impugnazioni contenuto nel d.lgs. n. 159/2011 non innova ma, si limita, in linea di massima, a riprodurre la disciplina dell’abrogata legge n. 1423/1956 [TAORMINA, 1988]. In dottrina [(a) FILIPPI, 551] è stato messo in rilievo che in materia di impugnazioni vige il principio di tassatività in virtù del quale è esclusa la possibilità di impugnare provvedimenti diversi da quelli specificamente ritenuti impugnabili [in argomento si veda anche, CAIRO, 1184]. Anche la giurisprudenza si è espressa in tal senso statuendo che in tema di sequestro di beni nella disponibilità di indiziati dell’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, così come in tema di proroga del termine di efficacia del sequestro in caso di indagini complesse, ai sensi dell’art. 2-ter comma 3 della legge n. 575/1965, non è consentita l’autonoma e immediata impugnazione del relativo decreto, in considerazione del principio generale di tassatività delle impugnazioni, della natura meramente strumentale del provvedimento e delle caratteristiche sommarie della fase procedimentale, connotata da incisive decadenze [Cass., sez. VI, 14.1.2008, De Rito, in CED 2008/211479; Cass., sez. V, 23.7. 2003, Cirillo, in CED 2003/226499]. Contro il provvedimento inoppugnabile di sequestro di beni che venga disposto nel corso di un procedimento di prevenzione nei confronti di indiziati di appartenenza ad associazione mafiosa è ammessa solo l’opposizione innanzi allo stesso giudice nelle forme dell’incidente di esecuzione [Cass., sez. I, 5.5.2008, Di Vincenzo, in CED 2008/ 239855]. Anche il provvedimento con cui il giudice della prevenzione dispone una cauzione non è impugnabile, dal momento che la legge non prevede rispetto ad esso alcun mezzo di impugnazione [Cass., sez. II, 12.7.2007, Chiovaro, in CED -

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Il procedimento giurisdizionale per l’applicazione delle misure di prevenzione

2007/238917; Cass., sez. II, 17.12.2008, Sabatelli, in CED 2008/242803; Cass., sez. V, 23.10.2006, Chimienti, in CED 2006/235202]. L’art. 10 comma 4 d.lgs. n. 159/2011, riprendendo quanto già prescritto dall’art. 4 comma 12 legge n. 1423/1956, prevede che, salvo quanto è stabilito nella presente legge, per la proposizione e la decisione dei ricorsi si osservano, «in quanto applicabili», le norme del codice di procedura penale «riguardanti la proposizione e la decisione dei ricorsi relativi all’applicazione delle misure di sicurezza». Vero è che, con il varo di tale norma, l’operatività delle regole generali del codice di procedura penale in tema di impugnazioni contro i provvedimenti in tema di misure di sicurezza, è destinata ad operare soltanto in ipotesi residuale allorché ricorra l’esigenza di colmare eventuali lacune della disciplina speciale: se non ricorre la possibilità di applicare l’art. 680 c.p.p. ed il rinvio in esso contenuto, si applicheranno i principi generali in tema di impugnazioni [FILIPPI, CORTESI, 162]. 2. La disciplina generale. Alla luce di tale “gioco di richiami” sono, pertanto, disciplinate dalle generali regole sulle impugnazioni [APRILE; GAITO; MARANDOLA; SPANGHER, 217 ss.] le vicende relative: a) all’ammissibilità del ricorso ed ai profili ontologicamente ad esso connessi [Marucci, 1474]. L’art. 591 c.p.p., concernente le singole ipotesi di inammissibilità, trova applicazione anche nel procedimento di prevenzione in quanto persegue esigenze di snellezza e, per questo, è compatibile con tale procedura. Sarà, pertanto, inammissibile quell’impugnazione che ha ad oggetto un provvedimento non impugnabile ovvero che difetta di uno dei requisiti contemplati dagli artt. 581-586 c.p.p. ovvero che è proposta da chi non ha interesse o non è legittimato. La causa di inammissibilità può essere rilevata dal giudice dell’impugnazione (art. 591 commi 2 e 3 c.p.p.) che decide con ordinanza ricorribile in Cassazione o può essere rilevata in ogni stato e grado del procedimento (art. 591 comma 4 c.p.p.). b) alla forma, ai termini e agli effetti dell’impugnazione. L’art. 10 commi 2 e 3 d.lgs. n. 159/2011, riproducendo la disciplina contenuta nell’art. 4 commi 10 e 11 legge n. 1423/1956, stabilisce che la presentazione del ricorso dinanzi la corte di appello e in cassazione deve avvenire, a pena di inammissibilità (art. 591 comma 1 lett. c) c.p.p.), entro 10 giorni decorrenti dalla comunicazione o notificazione del provvedimento (art. 10 comma 4 d.lgs n. 159/2011). Se la giurisprudenza ritiene che il ricorso in appello va presentato e spedito, a pena di inammissibilità, non alla cancelleria della corte di appello ma a quella del giudice che emesso il provvedimento impugnato [Cass., sez. I, 12.4.1994,

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Tagliamento, in CED 1994/197407] la dottrina [(b) FILIPPI, 37] ha, invece, sottolineato che le regole generali in materia di impugnazione impongono di osservare le modalità descritte nell’art. 582 commi 1 e 2 c.p.p. (presentazione dell’impugnazione alla cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo ove si trovano le parti private o i difensori ovvero davanti ad un agente consolare all’estero o, ex art. 123 comma 1 c.p.p., con dichiarazione al direttore dell’istituto di pena ove l’interessato è detenuto o internato: spedizione dell’atto di impugnazione con telegramma o con raccomandata alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento). L’atto di impugnazione, poi, deve essere comunicato al pubblico ministero e notificato alle parti private senza ritardo (art. 584 c.p.p.) al fine di consentire la conoscibilità del gravame alle altre parti alle quali è, però, preclusa la possibilità di esperire l’appello incidentale [(b) FILIPPI 37]. Circa la decorrenza del termine per proporre l’impugnazione va evidenziato che questa opera autonomamente per la parte che ha ricevuto la notifica e per il pubblico ministero o il procuratore generale, cui è stato comunicato il deposito [MOLINARI, PAPADIA, 568]. Qualora la notifica del provvedimento all’interessato o al suo difensore avvenga in tempi diversi troverà applicazione l’art. 585 comma 3 c.p.p., secondo cui la decorrenza è determinata dall’ultima notifica [Cass., sez. I, 1.10.2009, Hamiti, in CED 2009/244836]. È sufficiente notificare all’interessato il solo avviso di deposito contenente i dati formali del provvedimento senza la motivazione [Cass., sez. I, 22.1.1971, Vintaloro, in Cass. pen., 1972, 162]: ovviamente, l’avviso dovrà essere notificato anche al difensore [Cass., sez. I, 23.4.1986, Miele, in Cass. pen., 1987, 1010] in quanto quest’ultimo è legittimato a proporre l’eventuale impugnazione (art. 571 comma 3 c.p.p.). In giurisprudenza si è affermato che, non essendo imposto un termine per la notifica o della comunicazione dell’impugnazione, la sua eventuale omissione non determina l’inammissibilità del gravame ma soltanto la necessità di trasmettere gli atti alla cancelleria competente affinché vi provveda [Cass., sez. IV, 5.4.1990, P.M. in proc. Ghezzo, in CED 1990/183953]: inoltre, la notifica deve essere effettuata sia al difensore che risultava tale al momento in cui il provvedimento è stato emesso, sia al difensore nominato ai fini dell’impugnazione nel caso di nomina avvenuta ante notifica [Cass., sez. I, 18.6.1991, in Cass. pen., 1992, 3062].

L’inammissibilità colpisce anche l’impugnazione non motivata o non sorretta da specifici motivi: in particolare, questi ultimi, ai fini della validità dell’impugnazione, devono contenere le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono le richieste. Infatti, l’art. 581 comma 1 lett. c) c.p.p. sanziona con l’inammissibilità l’impugnazione proposta in difetto dei suddetti requisiti [MARGARITELLI, 1181]. Nonostante il silenzio dell’art. 10 d.lgs. n. 159/2011, il richiamo alle regole sulle impugnazioni previste per le misure di sicurezza (art. 10 comma 4) e, quindi, alla disciplina generale in materia, impone di osservare i principi generali tra cui

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quello previsto dall’art. 175 c.p.p. e quello relativo proprio alle impugnazioni che devono, necessariamente, essere supportate dai motivi che le sorreggono. In argomento è stata messa in rilievo l’unicità dell’atto di impugnazione per cui la presentazione dei motivi non può essere procrastinata ad un momento successivo a quello della dichiarazione [FILIPPI, CORTESI, 177; PRESUTTI, 462]: ciononostante, la giurisprudenza ritiene irrilevante che dichiarazione e motivi siano atti distinti, purché presentati nei termini [Cass., sez. I, 9.5.1992, Contrino, in CED 1992/190310]. Ad ogni modo, la specificazione dei motivi delimita il perimetro e la latitudine entro cui la corte di appello è chiamata a decidere. Si tratta del principio tantum devolutum quantum appellatum (art. 597 c.p.p.) in virtù del quale l’impugnazione attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento «limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti» [Cass., sez. IV, 24.4.2008, Megna, in CED 2008/240885]: inoltre, tale principio attribuisce all’organo di secondo grado gli stessi poteri del giudice di prime cure [CHINNICI, 134], per cui non è vincolato da quanto prospettato dall’appellante, ma può affrontare tutte le questioni enucleabili all’interno dei punti della decisione cui i motivi si riferiscono [Cass., sez. IV, 14.1.2003 Williams, in CED 2003/227783]. Invece, con riferimento all’effetto estensivo (art. 588 c.p.p.), va rilevato che esso non è contemplato dal d.lgs n. 159/2011 e, quindi, non trova collocazione nemmeno facendo ricorso ai principi generali del processo penale in materia di impugnazioni. La norma contenuta nell’art. 588 c.p.p. è estranea alle misure di prevenzione che attengono alla pericolosità del soggetto senza alcuna implicazione [(b) MILATTO, 127]. In ogni caso, esso non può trovare ingresso in subiecta materia per difetto dei presupposti essenziali dell’istituto che è dettato in tema di concorso di persone nel reato ovvero di riunione di procedimenti penali o di rapporti tra più impugnazioni dell’imputato, del responsabile civile o del civilmente obbligato per la pena pecuniaria. In virtù di uno specifico divieto contemplato dall’art. 10 comma 2 d.lgs. n. 159/2011, è bandito anche il principio sospensivo dell’impugnazione. La ratio sottesa alla norma che lo regola – che ha recepito integralmente quanto contenuto nell’art. 4 commi 10 e 11 legge n. 1423/1956 – di natura eccezionale rispetto a quanto disciplinato dall’art. 588 comma 1 c.p.p., fonda sulle esigenze di difesa sociale che deve perseguire la legislazione di prevenzione: in questo modo il giudice può mettere in esecuzione la misura anche in pendenza del ricorso dell’interessato e senza dover attendere la formazione del giudicato proprio in modo da incidere in maniera efficace sul soggetto socialmente pericoloso. Tuttavia, l’art. 27 comma 2 d.lgs n. 159/2011, riproducendo il testo dell’art. 3-ter comma 2 legge n. 575/1965, deroga alla regola generale per cui l’impugnazione in materia di misure di sicurezza non ha effetto sospensivo, «salvo che il tribunale disponga altrimenti» ex art. 680 comma 3 c.p.p.

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In dottrina si è posto il problema in ordine all’applicabilità delle norme contenute negli artt. 680 comma 3 e 666 comma 7 c.p.p. nei confronti del decreto emesso dal tribunale senza giungere ad individuare una soluzione univoca [(b) FIORENTIN, 217]. Pur tuttavia, sembra isolata la tesi di chi ritiene applicabile al procedimento di prevenzione la disciplina processuale contemplata dalle suddette norme in analogia a quanto già prevedeva l’abrogato art. 3-ter legge n. 575/1965 [GUERRINI, MAZZA, RIONDATO, 235]: diversamente, si opina in relazione all’inequivocabile lettura della legge che supera, stante la specialità della materia, il rinvio alle norme del codice di procedura penale richiamate dall’art. 10 comma 4 d.lgs. n. 159/2011 [(b) MILETTO, 133].

Va, all’uopo, considerato che tale norma di legge fa salva la disciplina speciale delle misure di prevenzione e rinvia alle norme sulle misure di sicurezza solo relativamente alle fasi di presentazione e decisione per cui è evidente l’esclusione di una possibile sospensione del decreto emesso in primo grado. Tra l’altro, la norma che disciplina la sospensione (art. 680 comma 3 c.p.p.) è di natura eccezionale e, in quanto tale, non è applicabile in via analogica. La giurisprudenza, dal canto suo, nega che al giudice di appello sia riconosciuto il potere di sospensione dell’esecuzione del decreto emesso in primo grado [Cass., sez. I, 2.7.2008, Buono, in CED 2008/240871]. La tesi che ammette una possibile sospensione si pone, inevitabilmente, in contrasto con la disciplina che, da un lato nega tale possibilità (art. 10 comma 2 d.lgs n. 159/2011) e, dall’altro, la rende possibile in virtù del richiamo alle disposizioni codicistiche (art. 10 comma 4 d.lgs n. 159/2011]. Ciononostante, per le esigenze connesse all’eventuale sospensiva, trovano applicazione le garanzie inerenti la fissazione di un termine stretto per la presentazione del ricorso e per la sua decisione e quella relativa alla possibilità di modifica o revoca delle statuizioni (art. 11 comma 2 d.lgs. n. 159/2011). c) al divieto di reformatio in peius e al principio della conversione dell’impugnazione. Il principio in base al quale al giudice di appello è preclusa la possibilità di aggravare il trattamento sanzionatorio rispetto a quanto disposto dal primo giudice (art. 597 comma 3 c.p.p.) trova applicazione anche nel processo di prevenzione [CAVALLARI, 104]. Viceversa, in giurisprudenza vi è un contrasto di opinioni tra chi nega l’operatività del principio [Cass., sez. I, 12.9.1998, Arcuri, in Cass. pen., 1999, 1601] e chi, considerandolo un principio generale del processo, ne consente l’operatività sia in tema di misure di prevenzione personale [Cass., sez. I, 7.10.1970 Umberto, in Giust. pen., 1971, 78] che patrimoniali [Cass., sez. VI, 6.3.2008, Della Ventura, in CED 2008/239087; Cass., sez. VI, 27.6.2006, Gagliardi, in CED 2006/235080]. Autorevole dottrina ritiene che il principio in oggetto sia una logica conseguenza del principio del tantum devolutum quantum appellatum la cui ratio fonda sulla necessità di non dissuadere l’imputato dalla possibilità di proporre l’impugnazione temendo un aggravamento del trattamento sanzionatorio. Di conseguenza, ritenuto operante l’effetto devolutivo del ricorso, se l’appel-

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lante è il solo preposto, è preclusa alla corte di appello la possibilità di aggravare la misura già applicata ovvero applicarne una diversa e più grave per specie e quantità [(b) FILIPPI, 33]. Nella logica di non disincentivare l’impugnazione si colloca anche il principio relativo alla conversione dell’impugnazione disciplinato dall’art. 568 comma 5 c.p.p. secondo cui «se l’impugnazione è proposta ad un giudice incompetente questi trasmette gli atti al giudice competente» [MARANDOLA, 122]. Applicando tale regola si è ritenuto che l’istanza di riesame proposta avverso il sequestro si converte in richiesta di revoca della misura allo stesso giudice che ha emesso il provvedimento [Cass., sez. VI, 9.10.1986, Gaeta, in Giust. pen., 1987, 37]: inoltre, si è convertita l’impugnazione proposta avverso il provvedimento di sequestro disposto ai sensi dell’art. 2-bis legge n. 575/1975 in incidente di esecuzione [Cass., sez. I, 19.7.1993, La Ruffa, in CED 1993/195509]. Invece, tale principio non trova applicazione per quei rimedi c.d. eterogenei come, appunto, l’incidente di esecuzione. In questo senso la giurisprudenza ha specificato che l’appello contro la decisione di rigetto della richiesta di revoca della cauzione, va dichiarato inammissibile e, pertanto, non si converte in incidente di esecuzione [Cass., sez. I, 5.3. 2001, Sangallo, in Cass. pen., 2002, 1149; si veda anche Cass., sez. I, 2.5.2006, Cosmai, in CED 2006/233945, secondo cui avverso i provvedimenti del giudice dell’esecuzione in materia di confisca disposta nell’ambito delle misure di prevenzione, ai terzi non intervenuti in tale procedimento è data solo la facoltà di proporre opposizione innanzi al medesimo giudice che ha emesso il provvedimento, ai sensi degli artt. 676 comma 1 e 677 comma 4 c.p.p., anche se la decisione sia stata assunta in contraddittorio; di conseguenza l’atto di impugnazione va riqualificato, anche in sede di giudizio di cassazione, come atto di opposizione]. Ovviamente, spetterà al giudice investito dell’impugnazione qualificare la stessa e trasmettere gli atti a quello ritenuto competente [Cass., sez. I, 21.3.1991, Fortino, in Cass. pen., 1992, 1543]. -

d) all’applicazione del principio del ne bis in idem. Il suddetto principio è applicabile anche nel procedimento di prevenzione ma la preclusione del giudicato opera rebus sic stantibus e, pertanto, non impedisce la rivalutazione della pericolosità ai fini dell’applicazione di una nuova o più grave misura ove si acquisiscano ulteriori elementi, precedenti o successivi al giudicato, ma non valutati, che comportino un giudizio di maggiore gravità della pericolosità stessa e di inadeguatezza delle misure precedentemente adottate [Cass., sez. II, 24.1.2012, n. 6075]. e) ai soggetti legittimati all’impugnazione e all’interesse. Ai sensi dell’art. 10 comma 1 d.lgs. n. 159/2011 sono legittimati a proporre l’impugnazione il procuratore della Repubblica, il procuratore generale presso la corte di appello e l’interessato. Invece, secondo il disposto dall’art. 10 comma 3 d.lgs. n. 159/2011, la titolarità del ricorso in cassazione spetta al pubblico ministero e all’interessato: nonostante la formula generica riferita al pubblico ministero, la legittimazione non

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può che competere al procuratore generale, trattandosi di gravame avverso un provvedimento della corte di appello. D’altronde, anche la norma contenuta nell’art. 10 comma 1 d.lgs. n. 159/ 2011 desta qualche perplessità se si vuol considerare che non prevede, nel novero dei soggetti legittimati a proporre ricorso, il difensore a cui, però, deve essere notificato il provvedimento del tribunale (art. 8 comma 8 d.lgs. n. 159/2011): si potrebbe ritenere che nella stesura del codice delle leggi antimafia il legislatore abbia dimenticato di coordinare entrambe le norme. La lacuna si risolve facendo ricorso alla funzione di nomofilachia della Suprema Corte la quale non ha mancato di specificare che è legittimato al ricorso il difensore che ha assistito il preposto nel corso del procedimento di primo grado in virtù dell’applicazione delle norme sulle impugnazioni in generale (artt. 562-592 c.p.p.) ed, in particolare, l’art. 571 comma 3 c.p.p. [Cass., sez. I, 11.6. 1992, Arena, in Cass. pen., 1993, 2875]. Viceversa, una parte della dottrina [GUERIN, MAZZA, RIONDATO, 301] rileva che l’art. 571 comma 3 c.p.p., che esige il mandato specifico per l’impugnazione del difensore dell’imputato contumace, non è estensibile in via analogica poiché, per tale giudizio, si utilizza il modello del procedimento in camera di consiglio (art. 666 c.p.p.) che disciplina le modalità del procedimento di esecuzione e che, prevedendo la presenza dell’interessato solo su sua richiesta, è incompatibile con il giudizio contumaciale. Pertanto, nel processo di prevenzione non potrà esigersi lo specifico mandato per la dichiarazione di impugnazione presentata dal difensore del contumace [Cass., sez. VI, 11.7.1997, Pisano, in CED 1997/209330]. Una considerazione a parte deve essere fatta per i terzi proprietari dei beni sequestrati i quali sono chiamati ad intervenire, in ordine al procedimento applicativo della misura di prevenzione, con l’assistenza di un difensore al fine di svolgere le proprie deduzioni [art. 23 d.lgs. n. 159/2011]. La regola implica che anche a questi soggetti sia riconosciuto il potere di impugnare il provvedimento con cui viene applicata la misura di prevenzione [Cass., sez. V, 1.2.2011, Cassano, in CED 2011/249691]. Per poter impugnare è necessario avere un interesse, concreto ed attuale (art. 568 comma 4 c.p.p.). In materia si è discusso in ordine alla portata della regola in oggetto, specie nell’ipotesi in cui la misura avesse colpito beni intestati a terzi e si è affermato che una mera condizione o situazione di fatto in relazione al bene, non supportata dall’esistenza di un formale titolo giuridico, non possa, comunque, costituire fonte di legittimazione all’impugnazione [Cass., sez. V, 6.4.2000, Cannella, in Cass. pen., 2001, 1327]. In questo modo si evita che l’interesse possa trovare impiego in quelle situazioni ambigue perché, se il bene è del terzo, solo a questi spetta l’interesse a dimostrarlo [(c) MOLINARI, 1327]. Nello stesso senso è stato dichiarato inammissibile, per difetto di interesse [Cass., sez. II, 10.7.2012, n. 27037], il ricorso per cassazione proposto dal sor-

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vegliato speciale, avverso il decreto di confisca di un bene immobile ritenuto fittiziamente intestato a terzi poiché, in tal caso, la legittimazione ad impugnare spetta al solo terzo intestatario [Cass., sez. V, 18.2.2011, Bifulco, in CED 2011/249499; Cass., sez. I, 11.11.2010, Fiorisi, in CED 2010/248845]. Hanno, infine, interesse a proporre impugnazione il procuratore della Repubblica e il procuratore generale in relazione ai provvedimenti di accoglimento e di rigetto della proposta: viceversa, l’interessato è legittimato ad impugnare solo quelli di accoglimento [FILIPPI, CORTESI, 164]. 3. Il ricorso in appello. Le norme contenute nell’art. 10 d.lgs. n. 159/2011 disciplinano il “ricorso” in appello considerandolo unico rimedio esperibile avverso le decisioni emesse in primo grado in materia di misure di prevenzione. Secondo quanto disposto dall’art. 10 d.lgs. n. 159/2011 il ricorso alla corte di appello, “anche per il merito”, può essere proposto dal procuratore della Repubblica, dal procuratore generale, dall’interessato o dal suo difensore entro 10 giorni dalla comunicazione. Il ricorso non ha effetto sospensivo in relazione alle misure personali, mentre le misure interdittive e la confisca diventano esecutive solo a seguito dell’esecutività del decreto (art. 27 comma 2 d.lgs. n. 159/2011). Secondo quanto rilevato da autorevole dottrina [(b) FIORENTIN, 219] il decreto con cui si applica la misura di prevenzione non è ricorribile immediatamente in cassazione se prima non viene appellato [cfr. Cass., sez. I, 10.2.2009, Geraci, in CED 2009/242448; Cass., sez. VI, 2.8.2004, Ganci, in CED 2004/ 226795]. La giurisprudenza ritiene, invece, che il ricorso per saltum è previsto soltanto avverso le sentenze, e non anche avverso i decreti e le ordinanze. A tale regola generale non si sottraggono neppure i provvedimenti in materia di libertà personale, avverso i quali può essere direttamente proposto ricorso per cassazione solo qualora non sia esperibile altra forma di impugnazione o qualora si tratti di provvedimenti impositivi di una misura cautelare personale. In base a questi principi generali il decreto applicativo della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. non è suscettibile di ricorso per cassazione se prima non sia stato proposto appello [Cass., sez. I, 19.5.1995, Lorrai, in CED 1995/203194; Cass., sez. V, 31.10.1996, Pecora, in CED 1996/206566]. L’errore in procedendo non comporta, inoltre, l’inammissibilità del ricorso ma questo si converte in appello in virtù del principio disciplinato dagli artt. 568 comma 5 e 569 comma 3 c.p.p. [Cass., sez. I, 18.2.2010 Esposito, in CED 2010/ 246574; Cass., sez. I, 22.1.2007, Alabrese, in CED 2007/236025]. Dinanzi la corte di appello si osservano, in quanto applicabili (art. 10 comma 4 d.lgs. n. 159/2011), le norme contenute nell’art. 666 c.p.p. in materia di procedimento di esecuzione che contempla, a sua volta, un rinvio alle regole gene-

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rali sull’impugnazione applicabili con riguardo alla fase prodromica concernente la presentazione dell’impugnazione [Cass., sez. I, 22.2.1994, Strazzieri, in CED 1994/196566]. Il presidente del collegio fissa la data dell’udienza che si svolge in camera di consiglio e ne fa dare avviso alle parti [Cass., sez. III, n. 12117/2008, Geoglovan, in CED 2008/243617 secondo cui parte è chiunque abbia un interesse giuridicamente tutelato] almeno 10 giorni prima (art. 666 comma 3 c.p.p.). Si tratta di un termine dilatorio alla cui inosservanza consegue la nullità, assoluta ed insanabile, per violazione del diritto di difesa, dell’udienza e degli atti ad essa successivi compresa l’ordinanza conclusiva [Cass., sez. I, 18.10.1999 Esposito, in CED 1999/214426]. Di diverso avviso è altra parte della giurisprudenza che evidenzia che, in tal caso, si verifica una nullità di ordine generale ex art. 178 comma 1 lett. b) c.p.p. [Cass., sez. I, 27.4.2005, Oriunto, in CED 2005/231582]. L’avviso in oggetto deve contenere, oltre la data, il luogo e l’ora dell’udienza, anche l’indicazione dell’oggetto del procedimento, sia pure in forma succinta [Cass., sez. III, n. 14/0272003, Bellagamba, in CED 2003/224752]. In relazione all’incompletezza dell’avviso vi è un contrasto giurisprudenziale tra l’orientamento che statuisce che si è in presenza di una nullità a regime intermedio, sanabile ex artt. 180, 182 e 184 c.p.p. [Cass., sez. V, 2.9.1996, Zinco, in CED 1996/206463], e l’altro che, viceversa, ritiene che la nullità rientrerebbe in quelle previste dall’art. 178 comma 1 lett. c) c.p.p. [Cass., sez. I, 4.12.1996, Ruggiero, in Cass. pen., 1998, 860]. Alla luce di quanto disposto dall’art. 10 comma 2 d.lgs. n. 159/2011 l’avviso dovrà contenere anche l’avvertimento che, su istanza dell’interessato, l’udienza potrà svolgersi anche pubblicamente [Cass., sez. VI, 9.2.2012, Burcheri, in CED 2012/251869]. Il legislatore del 2011 ha coniato tale previsione normativa recependo quanto statuito dalla Corte costituzionale [C. cost., 8.3.2010, n. 93, in Guida dir., XIII, 2010, 76] la quale ha dichiarato l’illegittimità degli artt. 4 legge n. 1423/1956 e 2-ter legge n. 575/1965 nella parte in cui non consentivano, su istanza degli interessati, che il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolgesse nelle forme dell’udienza pubblica. Ad ogni modo, è prevista la partecipazione necessaria del pubblico ministero e del difensore: il preposto è, invece, sentito soltanto se fa richiesta. In virtù di quanto previsto dall’art. 597 commi 1 e 2 lett. a) e b) c.p.p, la corte di appello ha cognizione del decreto impugnato, limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti e può disporre l’acquisizione di ulteriori prove in caso di presenza dei presupposti contemplati nell’art. 603 c.p.p. poiché gli artt. 666 comma 5 c.p.p. e 185 disp. att., consentirebbero una libertà di forme di acquisizione probatoria [(b) MILETTO, 133]. Tuttavia, la tesi è stata messa in dubbio dal momento che l’art. 111 comma 2 Cost., impone, “in ogni processo”, la presenza del contraddittorio tra le parti, le quali devono essere messe nelle condizioni di poter operare in maniera paritaria

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davanti ad un giudice terzo ed imparziale: di conseguenza, l’assunzione della prova dovrà avvenire in conformità a tali parametri normativi [FILIPPI, CORTESI, 179]. In ogni caso va sottolineato che, nel procedimento di prevenzione, non sussiste un divieto di applicare in via analogica – soprattutto se in bonam partem – l’istituto disciplinato dall’art. 603 c.p.p. Rebus sic stantibus, alla Corte è preclusa la possibilità di opporsi alla produzione di documenti, specie se sopravvenuti alla decisione di primo grado, idonei ad escludere la pericolosità attuale del preposto alla luce del principio che impone al giudice della prevenzione di adeguare, in ogni fase del procedimento, la motivazione del provvedimento alla situazione concreta ed attuale [Cass., sez. V, 25.2.2004, Tusa, in CED 2004/228771]. Entro 30 giorni dalla proposizione del ricorso, la corte di appello deve depositare in cancelleria il decreto motivato con cui decide il ricorso (art. 10 comma 2 d.lgs. n. 159/2011). La tesi interpretativa secondo cui il termine in oggetto è meramente ordinatorio e, quindi, il mancato rispetto non ha alcun effetto sulla validità della decisione, [Cass., sez. I, 16.3.1992, Ubaldini, in Cass. pen., 1993, 1219], si pone in antitesi con il dato normativo sotteso all’art. 27 comma 6 d.lgs. n. 159/2011, secondo il quale il provvedimento di confisca perde efficacia se la corte di appello non si pronuncia entro un 1 anno e 6 mesi dal deposito del ricorso. La decisione ha carattere rescindente se la corte revoca la misura applicata dal primo giudice in quanto il decreto impugnato ha efficacia provvisoria: ciò è possibile allorché la corte rilevi la mancanza originaria delle condizioni che hanno legittimato l’adozione. Di conseguenza, gli obblighi imposti sono caducati ex tunc e vengono meno i presupposti del reato contemplato dall’art. 75 d.lgs. n. 159/2011. L’organo di legittimità ha precisato che la revoca o l’annullamento del decreto di sottoposizione a una misura di prevenzione operano “ex tunc”, e cioè dal momento dell’emanazione della misura, soltanto allorché sono pronunciati per motivi di legittimità, mentre hanno efficacia “ex nunc”, e cioè dal momento della rispettiva emanazione, allorché conseguono a sopraggiunte situazioni che fanno venir meno la pericolosità sociale del prevenuto. Ne consegue che, nella seconda ipotesi, restando fermi gli effetti dell’originario decreto sino alla sua rimozione, la violazione degli obblighi con esso imposti, commessa antecedentemente alla revoca, integra il reato previsto dall’art. 9 della legge n. 1423/1956 [Cass., sez. F, 6.9.2004, Alvaro, in CED 2004/227797; Cass, sez. I, 22.5.2000, Sgobba, in CED 2000/216016]. Una parte della dottrina ritiene che la revoca o la modifica del provvedimento avvenute per cessazione ovvero per mutamento delle cause legittimanti, trovando la ratio nella sopravvenienza di fatti nuovi idonei a determinare una variazione nel giudizio di pericolosità del provvedimento, non fa venir meno la causa ostativa all’applicazione dell’indulto [FILIPPI, CESARI, 179]. Viceversa, la giurisprudenza mette in rilievo che non è sufficiente a dimostra-

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re un’attenuazione della pericolosità con obbligo di riduzione, qualitativa e quantitativa, della misura adottata, la caducazione di uno degli elementi utilizzati in primo grado [Cass., sez. VI, 19.6.1997, Felline, in Cass. pen., 1998, 249]. 4. Il ricorso in cassazione Avverso il decreto emesso dalla corte di appello è esperibile il ricorso in cassazione soltanto «per violazione di legge» da parte del pubblico ministero, dell’interessato e dal suo difensore entro il termine di 10 giorni dalla comunicazione o notificazione dell’avviso di deposito del provvedimento (art. 10 comma 3 d.lgs. n. 159/2011). Le problematiche emerse sotto l’abrogato codice che consentiva, in materia di misure di sicurezza, il ricorso per cassazione anche nel merito (art. 641 comma 3 c.p.p. 1930) sono state risolte in virtù dell’applicazione delle regole generali sulle impugnazioni. Stando al tenore letterale della norma contenuta nell’art. 10 comma 3 d.lgs. n. 159/2011, nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge. Nell’ambito della funzione nomofilattica la corte ha chiarito che nel concetto di “violazione di legge” non sono riconducibili i vizi di motivazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p. [Cass., sez. II, 26.4.2012, n. 15945, Cass., sez. V, 8.4.2010, Palermo, in CED 2010/247514]. Secondo il dictum della Corte, invero, in sede di legittimità non è deducibile il vizio di motivazione a meno che questa non sia del tutto carente ovvero presenti difetti tali da renderla meramente apparente e, in realtà, inesistente traducendosi in violazione di legge per mancata osservanza, da parte del giudice, dell’obbligo di provvedere con decreto motivato [Cass., sez. VI, 30.4.2004, Griaco, in CED 2004/229305]. L’argomento è stato scandagliato sia dalle Sezioni Unite penali, le quali hanno rilavato che nei casi in cui il ricorso sia ammesso esclusivamente per violazione di legge è, comunque, deducibile la mancanza o la mera apparenza della motivazione atteso che, in tal caso, si prospetta la violazione della norma costituzionale che impone l’obbligo della motivazione nei provvedimenti giurisdizionali [Cass., S.U., 28.5.2003, Pellegrino, in CED 2003/224611]: sia, infine, dalla Corte Costituzionale, la quale, ritenendo che l’art. 4 comma 11 legge n. 1423/ 1956 limita[va] alla sola violazione di legge il ricorso contro il decreto della corte di appello che abbia applicato la misura di sicurezza della sorveglianza speciale, e che esclude[va] la sua ricorribilità in cassazione per vizio di manifesta illogicità della motivazione (art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p.), ha osservato che tale presupposto interpretativo non si traduce, tuttavia, nella violazione dei parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 24 Cost. posto che le forme di esercizio del diritto di difesa possono essere diversamente modulate in relazione alle caratteristiche di ciascun procedimento, allorché di tale diritto siano comunque assicu-

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rati lo scopo e la funzione, con la conseguenza che i vizi della motivazione possono essere variamente considerati a seconda del tipo di decisione a cui ineriscono, non potendosi, al contrario, ritenere che il risultato perseguito dal rimettente costituisca una soluzione costituzionalmente obbligata. Di conseguenza, è stata ritenuta non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 comma 11 legge n. 1423/1956, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. (C. cost., 5.11.2004 n. 321, in Cass. pen., 2005, 411]. Sino al 1989 alla Corte era consentito un controllo solo in relazione alla motivazione inerente vitium in procedendo della sentenza nulla, il che limitava il controllo alla fedeltà della motivazione rispetto agli atti processuali [IACOVIELLO, 305]. Solo a seguito del conio della legge n. 46/2006 [SANTORIELLO, 62] la Corte si è riappropriata del suo ruolo di “Giudice dei giudici” con poteri tali da penetrare nella divergenze relativa alla frattura tra sentenza e processo [VALENTINI, 13]. In argomento la dottrina ha evidenziato che, nel passaggio tra vecchio e nuovo codice, la riforma del ricorso per cassazione ha prodotto un eclatante arretramento di tutele nel processo di prevenzione [GUERRINI, MAZZA, RIONDATO, 273] rendendo censurabili solo gli errores in procedendo e quelli in judicando: in questo modo, si è escluso completamente qualunque tipo di controllo sulla motivazione dei decreti applicativi delle misure di prevenzione. Eppure l’obbligo di motivazione rappresenta una garanzia finalizzata a contenere la discrezionalità del giudice, per cui è irragionevole che il decreto di prevenzione deve essere motivato [BIN, 42] se poi la motivazione è incontrollabile nella parte in cui è chiamata a rivelare la corrispondenza tra decisione e processo e nella parte in cui applica e concretizza la fattispecie penale [Valentini, 124]. Essendo consentiti solo motivi di legittimità sono, invece, inammissibili le questioni attinenti alla critica sulla scelta degli elementi indizianti di pericolosità sociale ed il relativo tentativo di fornire spiegazioni alternative a quelle fatte proprie dal giudice di merito [Cass., sez. I, 30.7.1986, Enea, in Cass. pen., 1987, 1814]. La dottrina ha sottolineato che non ha senso limitare il ricorso in cassazione dal momento che la disciplina processuale di questo mezzo di impugnazione contempla le singole ipotesi in cui è possibile esperire il controllo del provvedimento [FILIPPI, CORTESI, 183]. Di conseguenza, sarebbe illogico precludere la possibilità di ricorrere nel caso di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione quando il vizio risulta del testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame [Cass., sez. VI, 22.1.2009, Scimeni, in CED 2009/24365 con nota a cura di LA ROCCA, 938], ovvero in caso di mancata assunzione di una prova ritenuta decisiva (art. 495 comma 2 c.p.p.): in quest’ultimo caso la doglianza ammessa è esclusivamente quella riferita alla mancata ammissione della prova a discarico decisiva dedotta nel procedimento [Cass., sez. I, 26.1.2009, Giuliana, in CED 2009/242887]. Resta impregiudicata la rilevanza delle censure per l’omessa ammissione, o

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disposizione, di una prova sotto il diverso profilo della violazione di legge per inosservanza di norma processuale in ipotesi di omessa motivazione del provvedimento di rigetto della mozione difensiva di acquisizione della prova [Cass., sez. I, 28.3.2008, Locci, in CED 2008/240148]. In questa prospettiva si colloca anche quell’indirizzo secondo cui l’omessa valutazione delle prove documentali che dimostravano l’innocenza del prevenuto si traduce, certamente, nel vizio di violazione di legge processuale (art. 606 comma 1 lett. c) c.p.p.) perché si era mancato di considerare delle prove decisive esistenti agli atti processuali che avrebbero avuto un peso decisivo sul dictum del giudice di merito [Cass., sez. II, 8.9.2008, Fusillo, in CED 2008/241812]. La prova sarà ritenuta decisiva, quando la parte ne ha fatto richiesta, allorché sia suscettibile di determinare una decisione differente rispetto a quella assunta dal primo giudice: viceversa, essa non sarà tale quando il ricorrente si prefigga solo lo scopo di proporre una diversa valutazione degli elementi legittimamente acquisiti nel dibattimento e posti a base della decisione [Cass., sez. I, 26.11. 2009, Giovinazzo, in CED 2009/245500]. In ordine al vizio di travisamento della prova occorre mettere in rilievo che esso troverà accoglimento nel vaglio di legittimità soltanto qualora sia desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo purché specificamente indicati nei motivi di ricorso dal ricorrente ed è ravvisabile soltanto qualora l’errore sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione, per la essenziale forza dimostrativa del dato probatorio, fermo restando il limite del devolutum. Pertanto, tale vizio si realizza soltanto quando il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste ovvero abbia utilizzato un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale [Cass., sez. VI, 11.2.2009, Scarpato, in CED 2009/243060]. La dottrina [(b) Fiorentin, 231] condivide quell’orientamento interpretativo, che esclude, nel giudizio di legittimità, la possibilità di ricorrere alla prova di resistenza volta a verificare se il giudizio di pericolosità del prevenuto possa ricavarsi da altri elementi riscontrabili nella decisione impugnata [Cass., sez. V, 1.2.2011, Cassano, in CED 2011/249691]. Il ricorso per Cassazione con cui si denuncia il vizio di motivazione deve contenere, a pena di inammissibilità, e in forza del principio di autosufficienza, le argomentazioni logiche e giuridiche sottese alle censure rivolte alla valutazione degli elementi probatori, e non può limitarsi a invitare la Corte alla lettura degli atti indicati, il cui esame diretto è alla stessa precluso [Cass., sez. VI, 8.7. 2010, Cavanna ed altro, in CED 2010/248192]; successivamente è stato ribadito anche che il ricorso per Cassazione con cui si lamenta la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per l’omessa valutazione di circostanze acquisite agli atti non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, ma deve, invece: a) identificare l’atto pro-

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cessuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato [Cass., sez. VI, 2.12.2010, Damiano, in CED 2010/249035]. Quanto alla posizione del terzo la giurisprudenza di legittimità ha preteso che, ai fini della validità del ricorso, è necessario che il suo difensore sia munito di procura speciale [Cass., sez. VI, 7.4.2011, Bonura, in CED 2011/249873; Cass., sez. VI, 2.12.2009, Pace, in CED 2009/245440]. Infine, è stata esclusa la possibilità di applicare la procedura inerente la correzione dell’errore di fatto (art. 625-bis c.p.p.) ed il ricorso per salutm [Cass., sez. VI, 2.8.2004, Ganci, in CED 2004/229765] poiché il ricorso può essere esperito soltanto dopo la proposizione dell’appello. Il ricorso, coadiuvato dai motivi, è deciso in camera di consiglio entro il termine ordinatorio di 30 giorni dalla sua presentazione (art. 10 comma 3 d.lgs. n. 159/2011): esso non ha effetto sospensivo dell’efficacia della decisione impugnata per espressa previsione normativa (art. 10 comma 3 d.lgs. n. 159/2011) che prevale sulla disciplina generale richiamata dal successivo comma 4 che prevede, invece, la possibilità di sospensiva disposta dal giudice a quo su istanza del ricorrente (art. 666 comma 7 c.p.p.). La norma ben si concilia con l’art. 611 c.p.p. che contempla il procedimento in camera di consiglio marcando la deroga all’art. 127 c.p.p. in tema di partecipazione necessaria del difensore. In argomento la Corte costituzionale [C. cost., 11.3.2011, n. 80, in Giust. pen., I, 2011, 97] ha rigettato la questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117 comma 1 Cost., dell’art. 4 legge n. 1423/1956, e dell’art. 2-ter legge n. 575/1965, nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il procedimento si svolga in udienza pubblica: il tutto discostandosi da quanto sottolineato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima, invero, ha affermato che il principio di pubblicità delle procedure giudiziarie, sancito dall’art. 6 par. 1 della CEDU, «riguarda tutte le persone coinvolte nei procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione le quali debbono vedersi almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello» [13.11. 2007, Bocellari e Rizza contro Italia]. Eppure, nel caso di specie non è stato possibile interpretare le norme censurate in senso conforme alla Convenzione, stante l’univocità del dato testuale, a fronte del quale il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolge, in tutti i suoi gradi, in camera di consiglio e, dunque, senza la presenza del pubblico [Cass., sez. I, 3.4.2008, Cucurachi, in CED 2008/240137]; né sus-

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sisterebbero i presupposti per l’estensione analogica alla fattispecie considerata dell’art. 441 comma 3 c.p.p. in tema di giudizio abbreviato. Sarebbe, dunque, evidente la violazione dell’art. 117 comma 1 Cost., nella parte in cui non si prevede per l’interessato la garanzia “minimale” richiesta dalla Corte europea, ossia la facoltà di chiedere che il procedimento si svolga in udienza pubblica. Tra l’altro, detta facoltà andrebbe riconosciuta non soltanto in relazione ai giudizi di merito, ma anche con riguardo al giudizio di Cassazione, senza che rilevi, in senso contrario, la circostanza che di quest’ultimo non venga fatta menzione nella citata sentenza della Corte europea. Se pure è vero, infatti, che la Corte di Strasburgo ha affermato in più occasioni che il diritto a un’udienza pubblica può essere escluso quando debbano trattarsi esclusivamente questioni di diritto, essa ha, tuttavia, anche precisato che l’assenza dell’udienza pubblica, nei gradi successivi al primo, può giustificarsi solo se in primo grado la pubblicità sia stata garantita. D’altro canto, una volta che la scelta del rito venga affidata alla parte, non si vedrebbe perché la relativa opzione possa essere effettuata solo “in limine”, e non anche in successivi gradi di giudizio. Ad ogni modo, il sindacato che espleta la Corte ha ad oggetto la correttezza della motivazione e, laddove non dichiari l’inammissibilità del ricorso, pronuncia una sentenza di rigetto ovvero di annullamento senza o con rinvio. In quest’ultimo caso gli atti devono essere trasmessi alla stessa sezione che ha emesso il provvedimento e non ad altra sezione della medesima Corte di Appello (art. 623 lett. a) c.p.p.), ma la decisione deve essere adottata da un collegio diversamente composto [Cass., sez. V, 29.10.2004, Lamanna, in CED 2004/231015] stante l’incompatibilità, ex art. 34 c.p.p., dei magistrati che si sono già pronunciati sul merito della questione. In senso contrario si è pronunciata la giurisprudenza [Cass., sez. V, 5.12.2002, Ferrara ed altri, in CED 2002/223218] secondo cui in caso di annullamento con rinvio trova applicazione l’art. 623 comma 1 lett. c) c.p.p. e gli atti andranno trasmessi ad altra sezione della medesima corte.

Vero è che la questione inerente l’individuazione del giudice di rinvio, implica, quale presupposto necessario, l’accertamento della natura sostanziale del provvedimento, denominato formalmente dalla legge decreto, che decide sulla proposta di applicazione di una misura di prevenzione. Su tale natura sia la dottrina [NOCERINO, 273; RUSSO, 8] che la giurisprudenza [Cass., sez. I, 14.10.1988, Olivieri, in Cass. pen., 1989, 2079], hanno valorizzato l’aspetto sostanziale e l’efficacia di sentenza spiegando che si tratta di provvedimento decisorio con cui si conclude una fase del giudizio e che è, pertanto, soggetto a mezzi d’impugnazione (appello e ricorso per cassazione) corrispondenti a quelli proponibili contro le sentenze. Ad ogni modo, nel caso di annullamento di un’ordinanza, sia nel codice abrogato che in quello vigente, il rinvio deve essere disposto allo stesso giudice

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che ha pronunciato il provvedimento (art. 543 n. 1 cod. abr. e art. 623 lett. a) c.p.p.); viceversa, nel caso di annullamento di una sentenza, il rinvio deve essere disposto ad altra sezione della stessa corte o dello stesso tribunale o, in mancanza alla corte o al tribunale più vicini (art. 543 n. 2 cod. abr. e art. 623 lett. c) c.p.p.). Pertanto, l’applicazione dell’una o dell’altra norma, al fine dell’individuazione del giudice del rinvio, è una logica conseguenza della scelta della natura da attribuire al provvedimento [(a) MOLINARI, 1874]. A seguito dell’annullamento del decreto applicativo di una misura di prevenzione da parte della Suprema Corte, va ordinata l’immediata comunicazione al procuratore generale presso il giudice competente (art. 626 c.p.p.). 5. La revisione e la revoca. L’istituto della revisione, quale rimedio straordinario, ha assunto, in subiecta materia, una connotazione particolare legata all’oscillazione delle pronunce giurisprudenziali in tema di ammissibilità. Stando ad una prima impostazione [Cass., sez. I, 14.10.1988, Olivieri, cit.] il procedimento relativo alla applicazione delle misure di prevenzione, che ha natura giurisdizionale e si conclude con un provvedimento che ha natura sostanziale di sentenza, è suscettibile di acquistare autorità di giudicato e, pertanto, può formare oggetto di revisione. Tale mezzo straordinario di impugnazione non è, tuttavia, esperibile avverso i decreti pronunciati dalla corte di cassazione in sede di ricorso, i quali, non contenendo statuizioni assimilabili alla sentenza di condanna, non possono formare oggetto di revisione. Secondo altro indirizzo interpretativo in tema di misure di prevenzione il sistema offre una soluzione alternativa all’applicazione analogica dell’istituto della revisione: alternativa rappresentata dall’istituto della revoca o della modifica della misura di prevenzione disciplinata dall’abrogato art. 7 comma 2 legge n. 1423/1956 – riprodotto nell’art. 28 d.lgs. n. 159/2011 – il quale è idoneo ad estendere la sua area di operatività anche a quelle situazioni sopravvenute, per la conoscenza del giudice, al giudicato. La cessazione o la mutazione della causa che ha determinato il provvedimento può ben riferirsi, invero, ad un elemento non considerato nei passaggi argomentativi e nei presupposti fattuali della decisione, elemento che, come tale, sfugge alla preclusione del giudicato, ponendosi rispetto agli elementi fattuali e concettuali di quest’ultimo in una relazione di novità e, quindi, di non previsione [Cass., sez. I, 6.3.1992, Santapaola, in CED 1992/189739]. L’indirizzo è stato, poi, ribadito [Cass., sez. I, 10.6.1997, Greco, in CED 1997/208332] con il rilievo che nel nostro rito penale il sistema delle impugnazioni è tassativamente fissato, talché un atto è suscettibile di essere impugnato solo con lo strumento eventualmente previsto, sicché parlare di trasposizione

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per analogia di una impugnazione, per di più di carattere straordinario e riflettente solo le sentenze di condanna, da un procedimento ad un altro appare giuridicamente errato, anche per il principio in base al quale le regole fondamentali del procedimento penale ordinario trovano applicazione soltanto se non esistono disposizioni derogatorie espresse, ricavabili dal sistema e dalla specialità della materia. La vexata questio è stata risolta dall’intervento delle Sezioni Unite penali le quali, aderendo a quest’ultimo indirizzo, hanno chiarito che, in tema di misure di prevenzione, l’istituto della revisione non è invocabile soprattutto perché il sistema offre una soluzione alternativa all’applicazione analogica di quell’istituto rappresentata dall’istituto della revoca o della modifica della misura di prevenzione ex art. 7 comma 2 legge n. 1423/1956: la revoca, ivi disciplinata, non è soltanto quella ex nunc, ma anche quella ex tunc. La dottrina [(b) MOLINARI, 1931] sostiene che quando il provvedimento che ha applicato la misura è divenuto definitivo, per mancata impugnazione o per esaurimento dei mezzi ordinari d’impugnazione, se la misura di prevenzione personale definitivamente applicata è ancora in corso di esecuzione oppure se l’esecuzione è stata differita per detenzione del soggetto, può essere disposta la revoca a richiesta dell’interessato: in tale ipotesi la revoca può avere effetto ex tunc oppure ex nunc. A ben vedere, del resto, è proprio il legislatore che, usando, nell’art. 7 comma 2 legge n. 1423/1956, determinate espressioni, conduce a concludere che il giudicato in tema di misure di prevenzione è giudicato rebus sic stantibus in entrambi i casi, sia in quello che può dar luogo alla revoca ex nunc del provvedimento, sia in quello che può provocarne la revoca ex tunc, il che vuol dire che è lo stesso legislatore che, con le espressioni usate, esige che l’istituto della revoca si utilizzi anche nel caso di successivo accertamento della insussistenza ab origine delle condizioni che legittimano l’adozione del provvedimento. Come è noto l’art. 7 comma 2 legge n. 1423/1956 (art. 28 d.lgs. n. 159/2011) prevede che il provvedimento, su istanza dell’interessato e sentita l’autorità di pubblica sicurezza che lo propose, può essere revocato o modificato dall’organo dal quale fu emanato, quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato. Ebbene, l’espressione «quando sia cessata la causa che lo ha determinato» sta a significare soltanto che la causa che ha dato luogo al provvedimento è, ad un certo punto, venuta meno [Cass., S.U., 10.12.1997, Silvestro, in Giur. pen., III, 1998, 623]. La dottrina, che vuole che la revoca, di cui all’art. 7 legge n. 1423/1956 sia anche revoca ex tunc, ritiene, però, che sia possibile avvalersi dell’istituto della revoca solo se la misura di prevenzione personale, definitivamente applicata, sia ancora in corso di esecuzione oppure se l’esecuzione sia stata differita per detenzione del soggetto: mentre, se l’esecuzione della misura è cessata per decorso del termine stabilito nel provvedimento che l’ha applicata l’unico rimedio esperibile è l’impugnazione straordinaria della revisione. Non sono di questo avviso le Sezioni Unite penali [Cass., S.U. 10.12.1997,

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Silvestro, cit.] le quali sottolineano come il sistema, se impone all’interessato, allorché sia cessata la causa che ha determinato il provvedimento, di avvalersi dell’istituto della revoca se la misura di prevenzione è ancora in corso di esecuzione, non autorizza a ritenere che a quell’istituto non possa farsi ricorso quando la misura della prevenzione sia cessata per decorso del termine stabilito nel provvedimento. L’art. 7 comma 1 legge n. 1423/1956 invero, prevede che il provvedimento di applicazione delle misure di prevenzione di cui all’art. 3 è comunicato al questore per l’esecuzione: ed in questo primo comma il provvedimento è collegato alla esecuzione. Viceversa, il comma 2, nel disporre che il provvedimento, su istanza dell’interessato e sentita l’autorità di pubblica sicurezza che lo propose, può essere revocato o modificato dall’organo dal quale fu emanato, quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato, non ripete, ovvero non ribadisce, il collegamento tra il provvedimento e l’esecuzione dello stesso e ciò, evidentemente, proprio perché le ragioni per la revoca ex tunc possono emergere – e, per loro natura, rilevare – anche in un momento successivo al decorso del termine stabilito nel provvedimento che ha applicato la misura. La norma, in altre parole, se collega, necessariamente, la modifica o la revoca ex nunc alla esecuzione in corso, non collega altrettanto necessariamente alla esecuzione – sarebbe giuridicamente illogico se lo facesse – la revoca ex tunc: indice di questo non necessario collegamento è anche la mancata ripetizione, nel secondo comma, del nesso tra provvedimento ed esecuzione. Inoltre, deve reputarsi come soluzione costituzionalmente imposta quella di configurare, attraverso la revoca in funzione di revisione, un rimedio straordinario teso a riparare un errore giudiziario. In vista di questo fine hanno sottolineato le Sezioni Unite [Cass., S.U., 8.1.2007, Auddino, in CED 2007/234955], tenuto conto delle diversità che caratterizzano le misure di prevenzione personali da quelle reali, come sarebbe inconferente parlare di eterogeneità degli interessi tutelati, posto che anche la lesione del diritto di proprietà appare quale violazione di bene costituzionalmente protetto, al pari dell’ingiustificata limitazione della libertà. Con la conseguenza che nulla impedisce di ritenere accomunati il regime di revoca delle misure di prevenzione personali a quello reale della confisca, nell’identità dell’interesse a predisporre un mezzo per la riparazione dell’ingiustizia. E ciò facendo leva sull’altra premessa, parimenti coniata dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la revoca di cui all’art. 7 comma 2 legge n. 1423/ 1956, poteva svolgere una funzione “vicaria” rispetto alla non prevista possibilità di revisione, proprio nel campo delle misure di prevenzione personali [Cass., sez. I, 22.9.2010, Fama, in CED 2010/248296]. Dunque, un istituto chiaramente dettato per adeguare la misura di prevenzione personale ai mutamenti di “pericolosità” del prevenuto (alla possibilità di revoca è, infatti, affiancata quella di modifica della misura) è stato “plasmato” dalla giurisprudenza per annettervi la eccezionale portata di rimedio volto a de-

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terminare la rimozione ex tunc della misura, sulla falsariga di una “revisione” del relativo “giudicato”. E da ciò si è tratto spunto per giustificarne l’ulteriore, sensibile “passaggio” della identica estensione interpretativa anche nel campo delle misure di prevenzione patrimoniali, sempre nella prospettiva di colmare un vuoto normativo derivante dalla inesistenza, nel settore qui preso in esame, di una impugnazione straordinaria corrispondente a quella della revisione del giudicato, posto che, altrimenti, sarebbe perdurata nel sistema una inaccettabile carenza di strumenti normativi che dessero attuazione al disposto costituzionale sotteso all’art. 24 comma 2 Cost., il quale impone che la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari [Cass., sez. II, 1.2.2012, Macchia, in CED 2012/251811]. L’alveo all’interno del quale è, pertanto, consentita la eccezionale “revoca” della misura patrimoniale, ragguagliato alla straordinarietà del rimedio ed ai fini che esso deve soddisfare, restando, di conseguenza, ontologicamente incompatibile con tale istituto, qualsiasi possibilità di “riesame” dello stesso quadro fattuale già delibato in sede di applicazione della misura, posto che, ove così non fosse, pur restando immutati i fatti oggetto del giudizio di prevenzione, le relative statuizioni giurisdizionali sarebbero rivedibili sine die e ad nutum. D’altra parte ciò è tanto vero che il nuovo codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (d.lgs. 6.9.2011, n. 159) ha espressamente previsto (art. 28) l’istituto della “revocazione della confisca”, stabilendo che tale rimedio avverso le decisioni definitive sulla confisca di prevenzione, può essere richiesto, nelle forme previste dall’art. 630 c.p.p.: a) in caso di scoperta di prove nuove decisive, sopravvenute alla conclusione del procedimento; b) quando i fatti accertati con sentenze penali definitive, sopravvenute o conosciute in epoca successiva alla conclusione del procedimento di prevenzione, escludono in modo assoluto l’esistenza dei presupposti di applicazione della confisca: c) quando la decisione sulla confisca sia stata motivata, unicamente o in modo determinante, sulla base di atti riconosciuti falsi, di falsità nel giudizio ovvero di un fatto previsto dalla legge come reato.

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sure “antimafia” tra sicurezza pubblica e garanzie individuali, Padova, 2002; (b) FILIPPI, Il processo di prevenzione, in Corr. merito, 2010; (a) FIORENTIN, Codice antimafia non contiene la scelta della “pericolosità” unica, in Guida dir., 2011, 42; (b) FIORENTIN, Le misure di prevenzione personali, Milano, 2012; GAITO, Impugnazioni e altri controlli: verso una decisione giusta, in GAITO (a cura di), Le impugnazioni penali, I, Torino, 1998; IACOVIELLO, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, Milano, 1997, 305; LA ROCCA, Questioni vecchie e nuove in tema di misure di prevenzione: i limiti “pregiudizievoli” del sindacato di legittimità, in Giur. it., 2010, 937; MARANDOLA, I motivi di impugnazione. Disposizioni generali e giudizio d’appello, Padova, 2008; MARGARITELLI, Le impugnazioni nel processo di prevenzione, in AA.VV., Le impugnazioni penali, diretto da Gaito, Torino, 1998; MARUCCI, L’impugnazione dei decreti concernenti le misure di prevenzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1966, 1474; (a) MILETTO, Le misure di prevenzione, in BRICOLA, ZAGREBELSKI, Giurisprudenza sistematica di diritto penale, Torino, 1989; (b) MILETTO, Misure di prevenzione (profili processuali), in Dig. disc. pen., Torino, 1994, 128; (a) MOLINARI, Individuazione del giudice del rinvio nel procedimento di prevenzione, in Cass. pen., 1997, 1874; (b) MOLINARI, La revisione ed i provvedimenti in tema di misure di prevenzione, in Cass. pen., 1998, 1941; (c) MOLINARI, Il troppo ed il vano nelle sentenze, in Cass. pen., 2001, 1327; MOLINARI, PAPADIA, Le misure di prevenzione nella legge fondamentale e nelle leggi antimafia, Milano, 1994; NOCERINO, I profili processuali delle misure di prevenzione, in AA.VV., Mafia e criminalità organizzata, Torino, 1995; NUVOLONE, Misure di prevenzione e misure di sicurezza, in Enc. dir., XXVI, Milano, 1976, p. 1; PRESUTTI, Nuovi profili di impugnazione nel procedimento di prevenzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1975, 462; RUSSO, Processo di prevenzione, in Enc. giur., XXIV, Roma, 1991, p. 3; SANTORIELLO, Le nuove regole di giudizio in Cassazione, in GAITO (a cura di), La disciplina delle impugnazioni tra riforma e controriforma, Torino, 2007, 62; SICLARI, Le misure di prevenzione, Milano, 1974; SPANGHER, Impugnazioni penali, in Dig. disc. pen., VI, Torino, 1992, 217; TAORMINA, Il procedimento di prevenzione nella legislazione antimafia, Milano, 1988; VALENTINI, Motivazione della pronuncia e controlli sul giudizio per le misure di prevenzione, Padova, 2008, 13.

Capitolo IV

La fase esecutiva

Sommario

1. Premessa. – 2. Decorrenza e cessazione della misura della sorveglianza speciale. – 3. Esecuzione differita della sorveglianza speciale. – 4. Il regime delle autorizzazioni: l’allontanamento dal comune di residenza o dimora abituale. – 5. L’esecuzione delle misure patrimoniali. – 6. L’esecuzione del sequestro nel procedimento di prevenzione: recenti profili problematici. – 7. I termini del sequestro. – 8. Modifica e revoca delle misure di prevenzione. – 9. Revoca della confisca. – 10. Revocazione della confisca ex art. 28 del codice delle leggi antimafia: regime intertemporale ed applicabilità alle confische disposte prima dell’entrata in vigore del testo unico. – Bibliografia.

1. Premessa. Come per tutte le misure aventi natura cautelare e sanzionatoria, anche le misure di prevenzione si caratterizzano per l’esistenza di due momenti distinti (struttura bifasica): 1) il momento dell’applicazione che è coevo all’affermazione della pericolosità sociale del proposto ovvero alla natura illecita o sproporzionata del bene; 2) il momento dell’esecuzione che coincide con l’effettiva sottoposizione del proposto agli obblighi nascenti dalla misura personale applicata. Quest’ultimo momento, per le misure di prevenzione, atteso il dettato legislativo, coincide con la riacquistata libertà, e, dunque, con la cessazione dello stato di detenzione [GUERRINI, MAZZA, RIONDATO, 15 ss.]. Ciò vale anche per le misure patrimoniali. Le regole dettate in materia nel codice delle leggi antimafia non rivestono il carattere della novità: riflettono, infatti, in modo pressoché pedissequo la struttura che era stata elaborata sul punto in precedenza [ADORNO, CALÒ, 325; BALSAMO, MALTESE; (b) CISTERNA, 84-89].

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In particolare, la legge n. 94/2009 prima, e, subito dopo, il d.l. n. 4/2010, convertito in legge n. 50/2010 (oggi abrogata ai sensi dell’art. 120 del codice delle leggi antimafia), hanno ridefinito la disciplina dell’esecuzione della confisca, creando un meccanismo che meglio possa rispondere alle esigenze concrete. Il più rilevante intervento del Governo nella materia in questione è costituito dal d.l 4.2.2010, n. 4, convertito nella legge 31.3.2010, n. 50, il quale prevede l’istituzione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, sotto la vigilanza del Ministero dell’Interno e con sede principale a Reggio Calabria e la cui articolazione è oggi contenuta nel Libro II, Titolo II del codice delle leggi antimafia. Il decreto disciplina gli organi ed i compiti dell’Agenzia, rinviando ad uno o più regolamenti la disciplina dell’organizzazione e dotazione delle risorse umane, la contabilità e le comunicazioni con l’autorità giudiziaria. L’Agenzia sostituisce l’amministratore giudiziario nelle procedure di prevenzione patrimoniali e nei procedimenti penali in relazione ai quali è possibile applicare la confisca ai sensi dell’art. 12-sexies del d.l. 8.6.1992, n. 306, anche se solo dopo l’emanazione del provvedimento di primo grado. Nella fase precedente, l’Agenzia avrà il compito di coadiuvare l’autorità giudiziaria e l’amministratore giudiziario nella gestione dei predetti beni. La logica dell’istituzione dell’Agenzia è sottesa alla volontà di accentrare in un unico organismo aspetti assai rilevanti per il sistema di prevenzione penale, ossia l’amministrazione dei beni sottoposti a sequestro prima e a confisca poi. L’Agenzia deve, pertanto, amministrare e custodire tutti i predetti beni, incluse le aziende, dalla pronuncia di primo grado fino alla confisca definitiva. Successivamente, l’agenzia dovrà occuparsi anche della destinazione dei beni confiscati, procedura precedentemente gestita dai prefetti. L’Agenzia svolge, altresì, funzioni di acquisizione ed analisi dei dati relativi ai beni sopra indicati, nonché di individuazione delle criticità relative alla fase di assegnazione e destinazione. Al fine di evitare, poi, eccessivi ritardi nell’assegnazione dei beni già confiscati ed i conseguenti oneri che normalmente ne derivano a carico del bilancio dello Stato, la legge 23.11.2009, n. 191 (legge finanziaria 2010), ha introdotto la possibilità che i beni immobili «di cui non sia possibile effettuare la destinazione o il trasferimento per le finalità di pubblico interesse» siano «destinati con provvedimento dell’Agenzia alla vendita». Le risorse derivanti da tali operazioni saranno devolute al fondo unico giustizia «per essere riassegnate, nella misura del 50 per cento, al Ministero dell’interno per la tutela della sicurezza pubblica e del soccorso pubblico e, nella restante misura del 50 per cento, al Ministero della giustizia, per assicurare il funzionamento e il potenziamento degli uffici giudiziari e degli altri servizi istituzionali». La legge non distingue procedure esecutive differenti a seconda che si tratti di applicare una misura di prevenzione personale o patrimoniale: divenuto definitivo il decreto che ha applicato la misura di prevenzione, sia essa personale che patrimoniale, è esecutivo ed in caso di confisca il bene viene devoluto allo

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Stato, restando irrilevante la sopravvenuta cessazione della pericolosità del soggetto per morte o risocializzazione. Il provvedimento che ha applicato le misure di prevenzione – ex art. 6 del codice delle leggi antimafia (ed art. 3 legge n. 1423/1956) – è comunicato al questore per l’esecuzione (art. 11 comma 1 del codice delle leggi antimafia, già art. 7 comma 1 legge n. 1423/1956). Nonostante la lettera “codicistica” sia chiara, la giurisprudenza è stata più volte interrogata e chiamata a risolvere problemi applicativi; in particolare, una maggiore complessità riveste il sistema destinato a regolare la fase esecutiva relativa all’applicazione delle misure reali ante delictum. 2. Decorrenza e cessazione della misura della sorveglianza speciale. L’art. 6 del codice delle leggi antimafia (già art. 3 comma 1 legge n. 1423/ 1956), prevede che alle persone indicate nell’art. 4 del codice delle leggi antimafia, quando siano «pericolose per la sicurezza pubblica», può essere applicata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. L’art. 14 del d.lgs. n. 159/2011 disciplina, invece, il profilo della decorrenza e della cessazione della sorveglianza speciale. La Corte costituzionale è stata chiamata più volte a pronunciarsi sui profili di costituzionalità delle disposizioni che regolano l’esecuzione delle misure di prevenzione: una questione particolarmente delicata si è posta proprio con riferimento al momento di decorrenza della misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno. La problematica, precisamente, ha riguardato il caso di differimento dell’esecuzione della misura per sopravvenuta espiazione di pena detentiva, e si dubitava da quale momento potesse quindi integrarsi l’eventuale violazione degli obblighi da parte del sottoposto (se, in altri termini, a rendere attuale l’obbligo di soggiorno e dunque possibile la configurazione della violazione in questione fosse necessaria una nuova notificazione del provvedimento da parte del questore). Tale incertezza, secondo il giudice rimettente, avrebbe aggravato i già evidenti caratteri di genericità e indeterminatezza della fattispecie penale che punisce la violazione degli obblighi connessi all’applicazione del divieto di soggiorni, con conseguente lesione del principio stabilito dall’art. 25 comma 2 Cost. La Corte costituzionale, tuttavia, non ha affrontato la specifica questione, affermando che il dubbio sulla reale portata delle disposizioni citate si risolve in una questione interpretativa delle norme de quo, rientrante nei compiti istituzionali del giudice [C. cost., 15.11.1989, n. 507 (ord.), in Cass. pen., 1990, 21]. Per quanto concerne la decorrenza della misura, l’art. 14 del codice delle leggi antimafia fissa il dies a quo «dal giorno in cui il decreto è comunicato all’interessato» (comma 1). La previsione legislativa accoglie, dunque, l’orientamento maggioritario che individua il momento di decorrenza dell’obbligo di ottemperare alle prescrizio-

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ni della sorveglianza speciale appunto nella notificazione del provvedimento [RUSSO, 9]. Secondo una risalente giurisprudenza, formatasi con riferimento alla precedente disciplina, la decorrenza della misura si sarebbe avuta dal momento in cui veniva consegnata una “carta precettiva” (copia del verbale di consegna redatto dall’autorità di P.S. nel quale sono trascritte le prescrizioni dettate dal tribunale), con la conseguenza che, da quella data, il soggetto prevenuto sarebbe stato sottoposto anche alle conseguenze di eventuali trasgressioni degli obblighi imposti [Cass., sez. I, 25.5.2000, n. 3794, in Cass. pen., 2001, 1015: «La misura della sorveglianza speciale non si esaurisce con il semplice decorso del tempo, indipendentemente cioè dalla circostanza della sua concreta attuazione, ma solo con la sua esecuzione, il cui inizio coincide non già con la semplice notificazione del decreto applicativo della misura – che ha il solo scopo di consentire al soggetto interessato l’esperimento delle varie impugnative – bensì con la consegna della cosiddetta carta precettiva, la quale contiene in concreto le prescrizioni che alla misura stessa si accompagnano e alla cui osservanza tale soggetto è tenuto»]. La successiva elaborazione ha mutato indirizzo, affermando il principio, poi recepito dal legislatore e attualmente codificato nell’art. 14 del d.lgs. n. 159/2011, secondo cui il periodo di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. decorre dalla notifica del decreto all’interessato, dovendo escludersi che abbia inizio al momento della consegna della “carta precettiva” da parte degli organi di polizia [Cass., sez. I, 18.3.2009, n. 11813, in Cass. pen., 2010, 6, 2417: «quanto all’inizio dell’operatività della sorveglianza speciale di P.S. che costituisce il presupposto del reato, rileva questa Corte come debba ritenersi del tutto pacifico che la stessa si è avuta … allorché i Carabinieri notificarono al D. il provvedimento, redigendo il relativo verbale contenente gli obblighi cui era sottoposto, come da decreto del Tribunale. Ciò, nel quadro generale della specifica disciplina, risulta confermato dal disposto della l. n. 1423 del 1956, art. 4, comma 10, che non attribuisce efficacia sospensiva all’eventuale ricorso, così disponendo l’immediata operatività del decreto impositivo a far tempo dalla sua comunicazione all’interessato. Non ha senso, dunque, invocare la mancata consegna della carta precettiva (in realtà “carta di permanenza”, cfr. art. 5, u.c.), posto che i precetti erano già tutti contenuti nel decreto notificato con l’anzidetto verbale di sottoposizione». In senso conforme, cfr., Cass., n. 2719/2009; Cass., n. 47685/2004]. A sostegno di tale argomentare, vi è il riferimento della legge alla mancata efficacia sospensiva dell’eventuale impugnazione avverso il decreto applicativo della misura (art. 10 comma 2 d.lgs. n. 159/2011); nonché la ricordata precisa dizione normativa in ordine al momento in cui decorre la misura [Cass., sez. VI, 21.1.2009, n. 2719, in Cass. pen., VI, 2009, 2598: «La l. n. 1423 del 1956, art. 11, comma 1, recita testualmente che “la sorveglianza speciale comincia a decorrere dal giorno in cui il decreto è comunicato all’interessato e cessa di diritto allo scadere del termine nel decreto stesso stabilito, se il sorvegliato speciale non abbia, nel frattempo, commesso un reato”. Non è fondato, pertanto, sostenere che l’esecuzione della misura ha inizio con la consegna della c.d. “carta precettiva”, in quanto

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tale adempimento non è previsto dalla legge, che si limita a far riferimento alla comunicazione del decreto del tribunale all’interessato, e, peraltro, è, formalmente, prescritto soltanto per i sorvegliati speciali soggetti anche all’obbligo di soggiorno nel comune di residenza (citata legge, art. 5, u.c.; “carta di permanenza”). Va aggiunto, inoltre, che le prescrizioni alle quali il sorvegliato speciale è sottoposto non sono determinate dagli organi di polizia, ma debbono essere indicate dallo stesso tribunale nel provvedimento con il quale applica la misura (citata legge, art. 5, comma 1), per cui il sorvegliato speciale fin dalla notifica del provvedimento è in grado di conoscere le limitazioni a lui imposte e di ottemperarvi»]. Alla luce della citata giurisprudenza, sembra possibile ritenere che, ai fini della decorrenza della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, debba aversi riguardo alla concreta esecuzione della misura (da individuare nella sottoposizione del soggetto destinatario delle prescrizioni fissate a norma dell’art. 5 legge n. 1423/1956). Posto che le prescrizioni sono contenute nel decreto applicativo della misura, nessun problema si pone per il soggetto che si trovi in stato di libertà, il quale evidentemente sarà sottoposto alle prescrizioni a far data dalla notificazione del decreto; viceversa, per il soggetto, cui il decreto viene notificato durante la detenzione, la misura comincia a decorrere dalla scarcerazione. La questione è, quindi, da porre sotto altro profilo, e, cioè, se la misura decorre automaticamente dalla scarcerazione ovvero se, a tal fine, sia necessario – come avviene talvolta nella prassi – un processo verbale ad opera dell’autorità di pubblica sicurezza di sottoposizione agli obblighi fissati nel decreto già notificato durante la detenzione. Quest’ultima soluzione appare preferibile per la certezza che ne deriva nella concreta regolamentazione degli obblighi imposti al soggetto destinatario. Diversa è la situazione della sopravvenienza del titolo detentivo quando sia già in corso di applicazione la sorveglianza speciale. A tal riguardo, viene innanzitutto in considerazione l’ipotesi regolata dall’art. 11 comma 2 legge n. 1423/1956: se il titolo detentivo attiene a fatto di reato commesso durante l’esecuzione della misura di prevenzione e per il quale il sorvegliato riporti condanna, la sorveglianza speciale che non debba cessare, previa nuova valutazione della pericolosità sociale, comincia a decorrere dalla notificazione del nuovo provvedimento del giudice che accerti la pericolosità e disponga la prosecuzione della misura precedentemente applicata. In argomento, la giurisprudenza ha precisato che il tempo trascorso in vinculis per sopravvenuto tiolo detentivo non può mai computarsi ai fini della durata della sorveglianza speciale [Cass., sez. I, 21.10.2004, n. 49226]. In particolare, la custodia cautelare, se disposta per fatto commesso durante la misura di prevenzione e seguita da condanna, può dar luogo a nuova decorrenza del termine, sempre che persista la pericolosità dell’agente; altrimenti, la decorrenza della sorveglianza speciale resta sospesa durante la misura cautelare, sempre che non sia cessata, a seguito della detenzione subita, la pericolosità e non sia intervenuta la revoca ai sensi dell’art. 7 legge n. 1423/1956 [Cass., sez. I, 22.1.1997, n. 3758, in Cass. pen., 1998, 634].

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Non vi è, invece, alcuna regola espressa per il caso in cui il titolo detentivo sopravvenga per fatto pregresso. In argomento, la giurisprudenza ha affermato che, qualora sia concessa la detenzione domiciliare a persona sottoposta alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, l’esecuzione della misura di prevenzione resta sospesa per tutto il periodo di durata di quella alternativa alla detenzione [ex plurimis, Cass. pen., sez. I, 28.4.2010, n. 20265; Cass., n. 7783/2008; Cass., n. 49226/2004; Cass., n. 5220/ 2000) e riprende legittimamente a decorrere – senza che, al termine di questo, occorra una nuova valutazione della pericolosità sociale – in forza del provvedimento del questore che, essendo meramente ricognitivo del fatto sopravvenuto, non determina alcuna invasione di attribuzioni dell’autorità giudiziaria a norma dell’art. 13 Cost., né una situazione deteriore rispetto a quella prevista dall’art. 11 legge n. 1423/1956 che affida al giudice il potere di disporre la sospensione di efficacia della misura di prevenzione [Cass., sez. I, 23.9.2003, n. 37797]. L’orientamento è stato nel tempo confermato: «la dilazione della scadenza della sorveglianza speciale di p.s., dovuta alla sopravvenienza di un titolo di custodia cautelare, costituisce un fatto automatico conseguente alla mera ricognizione dell’evento sopravvenuto, e pertanto viene legittimamente disposta dal questore, senza che si determini alcuna lesione della sfera di attribuzioni della giurisdizione, né una situazione meno favorevole al prevenuto rispetto a quella espressamente prevista dall’art. 11, comma secondo, della legge n. 1423 del 1956, che affida all’autorità giudiziaria il potere di disporre la sospensione di efficacia della sorveglianza speciale di p.s. in caso di condanna per un reato commesso durante la sua esecuzione» [ex plurimis, Cass., sez. VI, 31.1.2011, n. 5988; Cass., n. 7095/2010]. In giurisprudenza, si registra un contrasto in ordine all’applicabilità dell’istituto della fungibilità previsto dall’art. 657 c.p.p. È tuttavia prevalente l’orientamento che tende ad escluderne l’applicabilità sul presupposto della diversità di natura tra detenzione subita senza titolo e misura di prevenzione [Cass., sez. I, 5.2.1990, n. 268]. In argomento, pur non richiamandosi l’istituto della fungibilità, si è recentemente affermato che non sussiste alcuna sospensione della durata della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno qualora la persona nello stesso periodo abbia subito una custodia cautelare non seguita da condanna e pertanto il tempo trascorso in custodia cautelare va computato nella detta misura [Cass., sez. VI, 14.5.2003, n. 36760); (c) MOLINARI, 2914]. La sorveglianza speciale di p.s. cessa di diritto allo scadere del termine stabilito nel decreto del tribunale che ha emesso il provvedimento, sempre che il sorvegliato non abbia, nel frattempo, commesso un reato [BRIZZI, PALAZZO, PERDUCA, 158]. In quest’ipotesi, infatti, il tribunale verifica d’ufficio se la commissione di tale reato possa costituire un indice della persistente pericolosità sociale dell’agente: in tal caso, il termine comincia a decorrere dal giorno nel quale è scontata la pena (art. 14 comma 2 d.lgs. n. 159/2011). -

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La disposizione ha, in realtà, codificato il dictum della Corte costituzionale, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge n. 1423/1956 art. 11 comma 2, nella parte in cui non prevedeva che «ai fini della reiterazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nell’ipotesi in cui nel corso del termine stabilito per la sua durata il sorvegliato commetta un reato per il quale riporti successivamente condanna, il giudice debba previamente accertare che la commissione di tale reato sia di per sé indice della persistente pericolosità dell’agente» [C. cost., 21.5.1975, n. 113, in Gazz. Uff., 28.5.1975, n. 140]. 3. Esecuzione differita della sorveglianza speciale. In presenza di uno stato detentivo (anche perenne) la Suprema Corte di Cassazione argomenta per una esecuzione differita della stessa misura di prevenzione personale. La giurisprudenza prevalente, infatti, osserva che è ben possibile l’esecuzione differita della sorveglianza speciale essendo prognosticabile (perché previsto dal codice penale e dall’ordinamento penitenziario) che il sottoposto alla pena perpetua possa ricevere i benefici penitenziari: la liberazione anticipata. A fronte della ricordata impostazione giurisprudenziale, vi era un orientamento della dottrina che, in buona sostanza, ne evidenziava in primis la frattura logico-sistematica (l’argomentare delle S.U. era incentrato solo su criteri normativi e logico-sistematici che, in concreto, non soddisfacevano, perché asfitticamente rivolti all’interno del solo sottosistema prevenzionale), ed in secundis la valenza costituzionale di siffatta “opzione ermeneutica” che con la esecuzione differita minava (e mina) grandemente gli artt. 3 e 24 della Costituzione, nonché la funzione di emenda della pena di cui all’art. 27 comma 3 Cost. C’era, inoltre, chi vedeva in tale scelta delle Sezioni Unite una mera operazione di politica criminale. L’impostazione della dottrina veniva recepita dalla giurisprudenza minoritaria dell’epoca secondo la quale «nei confronti di una persona definitivamente condannata all’ergastolo non può essere disposta l’applicazione di una misura di prevenzione, neppure con la riserva del differimento della effettiva esecuzione della stessa al momento (peraltro incerto nell’an e nel quando) della cessazione della espiazione della pena» [Cass., sez I, 9.3.1992, Franchina, in Cass. pen., 1993, 1216; nonché Trib. Napoli, decreto 26.6.1996, Pres. Gialanella, Est. Lomonte – D’Agostino, in Critica del diritto, 1997, 174 ss. con nota di Montone]. Col tempo, la Suprema Corte ha fatto proprio l’insegnamento della dottrina con la sentenza 5.11.2003, n. 44151, che così ha risolto la questione: «in costanza di espiazione di pena conseguente a condanna definitiva, la misura di prevenzione non può essere disposta se non si acquista la prova certa che la formazione di risocializzazione propria del trattamento penitenziario non ha esercitato alcun effetto sul condannato, né ha eliminato la sua pericolosità sociale; è compito del giudice di merito procedere ai necessari accertamenti, in quanto non si può far luogo a misura

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di prevenzione se la pericolosità sociale non sia sussistente al momento della formulazione del giudizio» [in Cass. pen., X, 2005, 3077, nota contraria di Molinari]. In buona sostanza, con riferimento alla specifica ipotesi della persona condannata all’ergastolo in via definitiva, la stessa eventuale liberazione condizionale, presupponendo, dunque, il sicuro ravvedimento del condannato, renderà impossibile il giudizio di attualità della pericolosità, necessario, a ben vedere, per la legittima applicazione delle misure di prevenzione. Del resto, osservava la dottrina, lo stesso istituto della grazia è concedibile a patto che fosse non persistente la pericolosità sociale dell’ergastolano. Orbene, proprio sotto il secondo profilo evidenziato dalla dottrina, nasce l’ordinanza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, II sez. penale, del 31.5. 2012, nella parte in cui fa questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 legge n. 1423/1956 (attuale art. 15 t.u. antimafia) in relazione agli artt. 3 comma 1 e 24 della Costituzione. La tesi del percorso giustificativo sostenuta è quella della mancanza di un potere-dovere in capo al giudice della prevenzione di rivalutare, ex officio, la pericolosità sociale del proposto nel momento in cui lo stesso è in libertà. Il percorso giustificativo della questione di legittimità costituzionale è tutto incentrato sul rapporto tra le misure di prevenzione e le norme che disciplinano le misure di sicurezza. L’attenzione, a giudizio del tribunale, è rivolta all’applicazione dell’art. 679 c.p.p.; norma che secondo il giudice rimettente non troverebbe omologa rappresentazione nell’art. 12 legge n. 1423/1956 (attuale art. 15 t.u. antimafia). Il testo dell’art. 679 c.p.p. è chiaro: «Quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca è stata, fuori dei casi previsti nell’articolo 312, ordinata con sentenza, o deve essere ordinata successivamente [658], il magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta se l’interessato è persona socialmente pericolosa e adotta i provvedimenti conseguenti, premessa, ove occorra, la dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato. Provvede altresì, su richiesta del pubblico ministero, dell’interessato, del suo difensore o di ufficio, su ogni questione relativa nonché sulla revoca della dichiarazione di tendenza a delinquere». Letto il testo, subito si comprende l’impostazione dell’ordinanza di rimessione che, come detto, è incentrato sulla mancanza di un potere-dovere in capo al giudice della prevenzione dello stesso tipo riconosciuto dall’art. 679 c.p.p. al magistrato di sorveglianza, non essendo sufficiente il vecchio art. 7 della legge n. 1423/1956 (peraltro applicabile alla sola fase esecutiva del decreto). Ed invero, detto articolo riconosce al giudice, solo su iniziativa delle parti (e non anche ex officio), la possibile rivalutazione dei presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione. Di talché, la violazione dell’art. 3 e dell’art. 24 della Costituzione. Epperò, non va sottaciuta l’esistenza della giurisprudenza costituzionale in merito all’obbligo di verifica preliminare del giudice a quo circa la praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base del dubbio di costituzionalità prospettato che può sanare qualsiasi contrasto tra norma costitu-

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zionale e norma ordinaria [ex plurimis, C. cost., n. 192/2007; C. cost., n. 110/ 2010 (ord.); C. cost., n. 338/2009 (ord.); C. cost., n. 171/2009 (ord.); C. cost., n. 32/2007 (ord.); C. cost., n. 34/2006 (ord.)] in assenza della quale la questione è inammissibile. -

4.

Il regime delle autorizzazioni: l’allontanamento dal comune di residenza o dimora abituale.

L’art. 12 comma 1 del t.u. antimafia stabilisce che, quando ricorrono gravi e comprovati motivi di salute, le persone sottoposte all’obbligo di soggiorno possono essere autorizzate a recarsi in un luogo determinato fuori dal comune di residenza o di dimora abituale, ai fini degli accertamenti sanitari e delle cure indispensabili, allontanandosi per un periodo non superiore ai dieci giorni, oltre al tempo necessario per il viaggio. La legge, dunque, precisa il termine massimo di durata che può essere concesso al soggetto a titolo di permesso. Dopo alcune oscillazioni, si è ritenuto che il periodo fruito in regime di autorizzazione sia computabile ai fini della decorrenza del periodo minimo stabilito per l’esecuzione della misura di prevenzione, sulla considerazione che, nel tempo permesso, il soggetto non è affatto libero, bensì è tenuto comunque ad osservare le prescrizioni cui è sottoposto, poiché la misura non è in alcun modo sospesa od interrotta. Il periodo di fruizione del permesso è, pertanto, computato ad ogni effetto, quale tempo di esecuzione della misura di prevenzione. In passato è stata proposta questione di legittimità costituzionale dell’art. 7bis legge n. 1423/1956, nella sua originaria formulazione, nella parte in cui discriminava irragionevolmente – si diceva – i sottoposti a misure di prevenzione rispetto ai condannati e agli internati che, invece, potevano godere di permessi per motivi familiari, secondo la dizione degli artt. 30 e 30-ter della legge n. 354/ 1975. La Corte, nella sentenza del 23.6.1988, n. 722 [in Giur. cost., 1988, 3268], ha respinto il dubbio di legittimità costituzionale, argomentando che la delimitazione dei casi in cui è consentita la concessione dei permessi ai soggetti sottoposti a misura di prevenzione rientra nell’insindacabile discrezionalità del legislatore; e che, in ogni caso, la situazione di condannati e internati rappresenta una situazione del tutto diversa rispetto a quella dedotta come incostituzionale. Nella prassi, l’ambito applicativo dei permessi speciali è stato oggetto di un progressivo ampliamento, sia per quanto riguarda i presupposti sostanziali, sia riguardo ad ipotesi non testualmente previste dalla legge. In virtù della deroga al divieto di allontanamento, l’interessato può spostarsi dal luogo di soggiorno obbligato verso un’altra località determinata. Per tale motivo, non sembra essere consentita la concessione di permessi generici, che consentano, cioè, all’interessato di lasciare il luogo di residenza o dimora abituale verso luoghi non indicati con precisione. -

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La recente giurisprudenza ha avuto modo di specificare che alla persona sottoposta alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno in un determinato comune può essere concessa l’autorizzazione ad allontanarsene per soddisfare esigenze di salute gravi e temporanee, o per fronteggiare gravi e contingenti ragioni familiari, ma non anche per soddisfare generiche esigenze correlate al desiderio di mantenere rapporti visivi e personali con i propri parenti [applicando tale principio al caso di specie, è stata negata l’autorizzazione ad assentarsi dal luogo del soggiorno obbligato per recarsi ad effettuare un colloquio con il padre detenuto: Cass., sez. I, 23.6.2010, n. 27576, in Cass. pen., III, 2011, 1204. In senso conforme: Cass. pen., sez. I, 21.11.2003, n. 46935; Cass. pen., sez. I, 5.11. 2003 n. 44152]. La previsione corrisponde correttamente alla ratio della misura, che esige che il soggetto sia costantemente posto sotto controllo e dia sempre contezza dei propri spostamenti. Il d.lgs. n. 159/2011, nel recepire l’indicazione offerta dal diritto vivente, ha finalmente esteso l’ambito di applicazione della norma, prevedendo che «l’autorizzazione può, inoltre, essere concessa nel medesimo limite temporale, anche quando ricorrono gravi e comprovati motivi di famiglia che rendono assolutamente necessario ed urgente l’allontanamento dal luogo di soggiorno coatto». La giurisprudenza aveva già avuto modo di precisare che l’assoluta necessità della deroga all’obbligo di soggiorno nasce laddove, nel caso di mancata concessione del permesso, si produrrebbero in capo all’interessato gravi conseguenze [Cass., sez. I, 5.12.2003, n. 46935, in Cass. pen., 2005, 3, 944]. La giurisprudenza ha ritenuto sussistente la ragione di necessità sottesa alla concessione del permesso speciale di allontanamento anche nel caso di motivi di giustizia. In particolare, la Cassazione ha affermato il principio per cui l’autorizzazione all’allontanamento dal comune di residenza o dal luogo di dimora abituale, pur essendo prevista solo per gravi e comprovati motivi di salute, deve essere riconosciuta anche per esigenze di partecipazione a processi o al fine di rendere dichiarazioni o deposizioni e, in tal caso, la facoltà di chiedere al tribunale la prescritta autorizzazione spetta anche all’autorità cui la legge riconosca un interesse a quella partecipazione [Cass., sez. I, 4.6.2002, n. 24218, in Dir. giust., 2002, 36, 80]. Il procedimento per la concessione delle autorizzazioni è piuttosto farraginoso in rapporto alle esigenze di celerità connesse alla delicatezza degli interessi in gioco. Si tratta, infatti, di un procedimento instaurato su istanza di parte avanti al presidente del tribunale del capoluogo della provincia in cui ha dimora il soggetto interessato. Il tribunale, dopo aver svolto gli opportuni accertamenti sulle circostanze allegate dal proposto, provvede in camera di consiglio con decreto motivato. Nei casi di assoluta urgenza, la richiesta può essere presentata al presidente del tribunale competente, il quale può autorizzare il richiedente ad allontanarsi per un periodo non superiore a tre giorni, oltre al tempo necessario per il viaggio. Anche il decreto presidenziale – come quello emesso dal tribunale – deve es-

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sere motivato con riferimento agli elementi di fatto e di diritto che stanno a fondamento della decisione. Il decreto, che avrà ovviamente forma scritta, dovrà contenere l’indicazione del mezzo di trasporto da utilizzare; gli itinerari prescritti; le date e gli orari degli spostamenti; e l’obbligo del soggetto di presentarsi, se le condizioni di salute lo permettono, all’ufficio di polizia del luogo di cura. Il decreto – tanto quello emesso dal tribunale, quanto quello presidenziale emesso in via d’urgenza – è comunicato al procuratore della Repubblica ed all’interessato che possono proporre ricorso per cassazione per violazione di legge. Analoga legittimazione deve riconoscersi al difensore del proposto, cui pure deve essere notificato il decreto. Il decreto viene, altresì, comunicato all’autorità di P.S. che deve esercitare la sorveglianza sul soggiornante obbligato, e che provvede ad informare quella del luogo dove l’interessato deve recarsi e a disporre le modalità e l’itinerario del viaggio. La concessione dell’autorizzazione può essere rinnovata qualora persistano le esigenze sottese alla precedente richiesta accolta. Nonostante la dottrina non sia unanime su quest’aspetto, è necessario sottolineare la finalità precipuamente umanitaria del provvedimento di cui all’art. 12 del codice delle leggi antimafia: quindi, la sua reiterazione deve ritenersi senz’altro possibile. Il soggetto, beneficiario del permesso, che violi le prescrizioni e si allontani dal comune in cui ha chiesto di recarsi o non rientri nel termine stabilito, è punito ai sensi dell’art. 76 comma 1 d.lgs. n. 159/2011 con la reclusione da due a cinque anni e d è consentito l’arresto anche al di fuori dei casi di flagranza. È ammesso anche il fermo dell’indiziato, purché vi siano concreti elementi tali da far ritenere sussistente il pericolo di fuga. I provvedimenti di cui all’art. 12 d.lgs. n. 159/2011 possono essere revocati dall’autorità che li ha deliberati, con decisione – si deve ritenere – adottata nel rispetto del contraddittorio. La regola si ricava a contrario implicitamente, laddove la giurisprudenza ammette l’adozione di provvedimenti di revoca de plano, qualora adottati in pendenza dell’impugnazione contro il provvedimento impositivo della misura, poiché in questo caso si tratterebbe di incidenti di esecuzione di secondo grado, non soggetti ad alcun gravame [Cass., sez. I, 6.12.2010 n. 43225, in CED 2010/43225]. 5. L’esecuzione delle misure patrimoniali. Divenuto definitivo il decreto che ha applicato la misura di prevenzione, questo è esecutivo e, in caso di confisca, il bene viene devoluto allo Stato. Il provvedimento che ha applicato la misura di prevenzione è comunicato al questore per l’esecuzione. Il codice delle leggi antimafia definisce all’art. 30 i rapporti con il sequestro e la confisca disposti nell’ambito di procedimenti penali, regolamentando il regime di gestione dei beni de quibus, problematica di sicuro rilievo e meritevole di

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attenzione. Si precisa, infatti, che il sequestro e la confisca di prevenzione possono essere disposti anche in relazione a beni già sottoposti a sequestro penale. In questo caso la custodia giudiziale è affidata all’amministratore giudiziario, che provvede alla gestione degli stessi secondo le disposizioni dettate al Titolo III del codice delle leggi antimafia. L’amministratore giudiziario, previa autorizzazione del tribunale della prevenzione, invia al giudice del procedimento penale copia delle relazioni periodiche. Se il sequestro o la confisca di prevenzione vengono revocati, il giudice del procedimento penale nomina un nuovo custode, salvo che ritenga di confermare l’amministratore. Nel caso previsto dall’art. 104-bis disp. att. c.p.p. ossia quando il sequestro preventivo ha ad oggetto aziende, società ovvero beni, l’amministratore giudiziario nominato nell’ambito del procedimento penale prosegue la propria attività nel procedimento di prevenzione, a meno che il giudice delegato, con decreto motivato e sentita l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, non provveda alla revoca ed alla sostituzione del medesimo. Allorquando le misure reali di prevenzione siano disposte su beni già sottoposti a sequestro nel procedimento penale e la confisca definitiva di prevenzione intervenga prima della sentenza irrevocabile di condanna che dispone la confisca dei medesimi beni in sede penale, si procede in ogni caso alla gestione, vendita, assegnazione o destinazione ai sensi del Titolo III del codice delle leggi antimafia. Il giudice, ove disponga successivamente la confisca anche in sede penale, dichiara la stessa già eseguita in sede di prevenzione (art. 30 comma 2 del codice delle leggi antimafia) [(c) FIORENTIN, 30-33]. L’inverso accade se la sentenza irrevocabile di condanna, che dispone la confisca, interviene prima della confisca definitiva di prevenzione (art. 30 comma 3 del codice delle leggi antimafia). In entrambe le ipotesi, la successiva confisca viene trascritta, iscritta o annotata ai sensi dell’art. 21 del codice delle leggi antimafia, il quale detta le regole per l’esecuzione del sequestro di prevenzione (art. 30 comma 4 del codice delle leggi antimafia). Le disposizioni di cui all’art. 30 commi 1 e 2 del codice delle leggi antimafia, si applicano anche nel caso in cui il sequestro disposto nel corso del giudizio penale sopravvenga al sequestro o alla confisca di prevenzione. Il codice delle leggi antimafia inserisce, poi, a chiare lettere, il principio non già dell’autonomia tra i due riti, bensì letteralmente quello dell’indipendenza tra l’azione di prevenzione e l’azione penale (art. 29 del codice delle leggi antimafia), precisando, infatti, che l’azione di prevenzione possa essere esercitata anche indipendentemente dall’esercizio della azione penale. Resta confermato, pertanto, quanto da sempre sostenuto dalla dottrina per cui, come già in precedenza sottolineato, il sistema è congegnato in modo tale che un soggetto possa andare indenne dalla sanzione penale, ma non da quella di prevenzione, non sussistendo una permeabilità tra i due procedimenti, i quali, però, possono essere promossi sulla base delle medesime contestazioni ed essere fondati sui medesimi elementi di prova.

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L’esecuzione del sequestro nel procedimento di prevenzione: recenti profili problematici.

L’esecuzione del sequestro nell’ambito delle procedure di prevenzione presenta alcuni profili problematici. L’art. 2-quater della legge n. 565/1975, disciplinante le modalità di esecuzione dei sequestri di cui agli artt. 2-bis e 2-ter della stessa legge, è stato modificato dall’art. 2 comma 10 della legge 15.7.2009, n. 94. La disposizione è stata completamente recepita, poi, nell’art. 21 del codice delle leggi antimafia. La norma nella sua nuova formulazione ha inteso dettare una disciplina unitaria per le modalità di esecuzione dell’intervento reale, sia che si fosse attuato in funzione preventiva, in materia di processo penale, sia che si fosse realizzato attraverso la misura di prevenzione di cui alla legge n. 575/1965. La nuova previsione legislativa prescrive che il sequestro sia eseguito con le modalità previste dall’art. 104 delle norme di attuazione del c.p.p. per il sequestro preventivo. L’art. 104 disp. att. c.p.p. è stato a sua volta modificato dalla novella del 2009 nel senso che il sequestro preventivo debba essere eseguito nelle forme previste dal comma 1 della norma e non più, pertanto, nei modi previsti per il sequestro probatorio, pur mantenendo fermo l’espresso richiamo, contenuto nel comma 2 all’art. 92 delle disp. att. c.p.p., relativo alle modalità di trasmissione dell’ordinanza che dispone la misura cautelare. Orbene, l’art. 92 disp. att. c.p.p. prevede espressamente quale modalità generale la trasmissione del provvedimento cautelare a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento, all’organo che deve provvedere all’esecuzione, individuato nell’art. 104 delle disp. att. c.p.p., mentre nell’ipotesi specifica di emissione del provvedimento nel corso delle indagini preliminari, questo deve essere trasmesso al pubblico ministero che ne ha fatto richiesta, il quale ne cura l’esecuzione. Tutto ciò si traduce e si risolve nel procedimento di prevenzione, ai fini della determinazione della competenza, nell’accertare se il provvedimento ablatorio sia stato emesso prima o dopo l’inizio del procedimento, che coincide con la fissazione dell’udienza per la trattazione del merito della proposta. In altri termini, se il sequestro è stato adottato ex art. 2-bis della legge n. 575/1965, ossia prima della fissazione dell’udienza in camera di consiglio, allora competente alla sua esecuzione è l’Autorità proponente, individuata ex art. 2 della legge n. 575/1965; mentre se il decreto di sequestro è concomitante all’inizio del procedimento, nel senso che in esso è già indicata la data dell’udienza per la trattazione del merito, allora competente per l’esecuzione è la cancelleria del Tribunale – Sezione misure di prevenzione – che ha assunto il provvedimento. Affermato questo quale principio generale regolante l’esecuzione dei sequestri nel procedimento di prevenzione, la competenza si determinerà di conseguenza. La soluzione pone due profili di particolare interesse: uno concerne l’equipa-

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razione, in parte qua, tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, l’altro poi, più specificatamente, profili afferenti l’esecuzione del sequestro. Per ciò che concerne il primo profilo, si afferma che affinché abbia inizio il “procedimento di prevenzione” è necessario che una proposta sia stata presentata ed un’udienza sia stata fissata. Se, dunque, non ricorrono entrambe le condizioni il “procedimento” non si è aperto e la fase in cui esso si trova può equipararsi alle indagini preliminari del processo penale cui, di conseguenza, conseguirà la competenza del pubblico ministero in ordine all’esecuzione del sequestro. Ora, è noto come tra il procedimento di prevenzione e il processo penale sussistano profonde differenze funzionali e strutturali che non consentono la mera trasposizione di principi processuali in sede di prevenzione [Cass. pen., sez. I, 10.4.2008, n. 17827]. Del resto la stessa legge, tenuto conto del rinvio che l’art. 4 legge 27.12.1956, n. 1423 fa agli artt. 636 e 637 c.p.p., dice che si osservano (le norme citate) «in quanto applicabili». E non è richiamo di poco conto. In dottrina [MOLINARI, PAPALIA, 194, affermano che «tale automatica applicazione è in contrasto con il comma 5 dell’art. 4 l. n. 1423 del 1956, che richiama gli artt. 636 e 637 c.p.p. abr. ed ora l’art. 678 c.p.p. vigente, che richiama a sua volta l’art. 666 stesso codice, perché l’osservanza delle disposizioni richiamate è imposta, espressamente, in quanto applicabili, ossia in quanto compatibili con le disposizioni proprie del procedimento di prevenzione che, a differenza del procedimento di sorveglianza e di quello di esecuzione, prevedono, come si è visto, che il tribunale provvede con l’intervento anche dell’interessato»], si è affermato che «la proposta è stata considerata “promovimento dell’azione di prevenzione”. Essa corrisponde all’esercizio dell’azione penale nel processo penale di cognizione e come quella è da ritenersi obbligatoria. In effetti l’azione di prevenzione corrisponde all’azione penale e come questa consiste nella formulazione dell’imputazione, così la prima sfocia nella proposta di una misura di prevenzione». La disciplina contenuta nell’art. 2-quater della legge n. 575/1965, nella sua estrema sintesi, dunque, ha generato non poche questioni e sforzi interpretativi tesi a disegnare, con maggiore compiutezza, un sottosistema dell’esecuzione del sequestro di prevenzione. L’art. 2-quater della legge n. 575/1965, infatti, come accennato, si limita a stabilire che, per i beni mobili e per i crediti, il sequestro si esegue secondo le forme prescritte dal codice di procedura civile per il pignoramento presso il debitore o presso il terzo; per gli immobili ed i mobili registrati mediante la trascrizione del provvedimento di sequestro presso i competenti uffici. Con ogni evidenza, si tratta delle forme previste dal codice di procedura civile per l’esecuzione del sequestro conservativo. Il sequestro di prevenzione andrà dunque eseguito, in primo luogo, secondo

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le modalità previste per l’esecuzione del pignoramento dagli artt. 491 e ss. c.p.c., in quanto compatibili con la struttura e la funzione del sequestro medesimo e, dunque, ad eccezione delle norme dettate dal codice di rito civile a proposito dell’intervento dei creditori (art. 498 ss. c.p.c.), della vendita e dell’assegnazione dei beni pignorati (artt. 501 ss. c.p.c.) e della distribuzione della somma ricavata (artt. 509 ss. c.p.c.), attesa l’inconciliabilità di tale disciplina con le norme dettate in tema di amministrazione giudiziaria dei beni in sequestro, a partire dall’art. 2-sexies della legge n. 575/1965, con speciale riguardo alla nomina del giudice delegato e dell’amministratore giudiziario, ed in tema di destinazione di quelli confiscati, con specifico riguardo alle norme in tale legge n. 575/ 1965 introdotte dalla legge n. 109/1996. Sicché, del sequestro di prevenzione costituiranno formalità sempre necessarie: -

– l’ingiunzione, fatta dall’ufficiale giudiziario al proposto o al terzo di cui all’art. 2-ter comma 5 della legge n. 575/1965, di astenersi da qualunque atto diretto a sottrarre al sequestro il bene oggetto dello stesso e i frutti di questo (artt. 492 c.p.c. che disciplina, in via generale, la forma del pignoramento; 518 c.p.c. che disciplina la forma del pignoramento nell’espropriazione mobiliare presso il debitore; 543 c.p.c. che disciplina la forma del pignoramento nell’espropriazione presso terzi; 555 c.p.c. che disciplina la forma del pignoramento nell’espropriazione immobiliare), ingiunzione da enunciarsi nello stesso decreto di sequestro; – la redazione del processo verbale delle operazioni di sequestro ad opera dell’ufficiale giudiziario (artt. 518 comma 1, 543 e 557 c.p.c.); – il successivo deposito del verbale e degli atti d’esecuzione compiuti dall’ufficiale giudiziario nella cancelleria del giudice che ha disposto il provvedimento (artt. 518 comma 4, 1° inciso, 543 e 557 c.p.c.); – la formazione da parte del cancelliere del giudice che ha disposto il sequestro di un fascicolo dell’esecuzione (artt. 518 comma 4, 2° inciso, 543 e 557 c.p.c.). Siffatto fascicolo dovrà contenere, oltre agli atti concernenti l’esecuzione in senso stretto del sequestro, tutti gli atti concernenti l’amministrazione dei beni sequestrati e dovrà essere custodito, ai sensi dell’art. 2-sexies comma 1 della legge n. 575/1965, nella cancelleria del tribunale, del quale è parte il giudice delegato alla procedura, tale destinato a rimanere anche in pendenza dei giudizi d’impugnazione aventi ad oggetto le decisioni assunte nel primo grado di giudizio. Oggi, in seguito alla novella del 2009, si ribadisce che per i beni mobili registrati e i beni immobili si procede alla trascrizione presso i pubblici uffici competenti: adempimento che ha la funzione di assicurare una pubblicità adeguata nei confronti dei terzi. L’esecuzione sui mobili e crediti segue le norme del rito civile per il pignoramento presso debitore e terzo. L’intervento su azioni e quote sociali si attua, di converso, con annotazione nei libri sociali e presso il registro delle imprese; strumenti finanziari e titoli del debito pubblico dematerializzato si assicurano con annotazione nel conto tenuto dall’intermediario.

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Innovativa, invece, è l’esecuzione del sequestro sui beni aziendali organizzati per l’esercizio di un’impresa [POLIGNANO, 2010]. La norma, infatti, prescrive che, oltre che con le modalità previste per ogni singolo bene oggetto di sequestro, sia necessaria l’immissione in possesso da parte dell’amministratore e l’iscrizione del provvedimento nel registro delle imprese presso il quale è iscritta la società. L’esecuzione del sequestro costituisce un profilo ragguardevole, considerando che da una scorretta esecuzione ed imposizione del vincolo ben possono sorgere problemi rilevanti, che si comunicano alla fase successiva di destinazione e devoluzione dei beni. Si discute della necessità o meno della materiale apprensione del bene affinché si perfezioni la fattispecie esecutiva del sequestro. Considerando l’esecuzione sui beni immobili e sui beni mobili registrati, sembra che il dato dell’apprensione del bene non sia richiesto, né emerga come requisito costitutivo dell’esecuzione della cautela. Sennonché, «la funzione del sequestro di prevenzione è quella di interrompere il collegamento tra il bene ed il soggetto pericoloso, per cui lo spossessamento del proposto deve intervenire necessariamente, quale effetto naturale del sequestro. In tal senso depongono espressamente sia la disposizione di cui all’art. 2-sexies, comma 1 l. n. 575 del 1965, che individua tra i compiti dell’amministratore giudiziario la custodia del bene; sia la disposizione di cui all’art. 2sexies comma 2, che contempla un’apposita autorizzazione del giudice delegato acché il proposto permanga nell’abitazione familiare, purché ricorrano le condizioni di cui all’art. 47 l. fall.» [così, testualmente, CASSANO, 145 ss.]. Ne è seguita l’idea in ragione della quale il sequestro si esegue sugli immobili e sui mobili registrati sia con la trascrizione del provvedimento presso i competenti uffici, di suo idonea ad incidere su tutte le successive eventuali vicende traslative del bene; sia con l’apprensione materiale, fermo restando che, ove l’apprensione avvenga, gli effetti del sequestro retroagiscono al momento della trascrizione. L’accorta dottrina [GIALANELLA, 364; MOLINARI, PAPADIA, 62], nel richiamare un decisum della Corte di Cassazione [Cass., sez. I, 2.2.1987, Intile, in Giur. it., II, 1989, 57], evidenzia come il rinvio da parte del legislatore alle norme del codice di procedura civile determini una ricezione integrale di quel quadro normativo e, pertanto, anche delle disposizioni inerenti la custodia e l’immissione in possesso del bene. L’art. 104 disp. att. c.p.p. prevede, espressamente, per i beni aziendali, l’immissione in possesso da parte dell’amministratore giudiziario. A sostegno dell’argomentare, si è sostenuto che, in chiave di efficacia, sarebbe illogico postulare l’esecuzione positiva di un sequestro antimafia, attuato con la mera trascrizione, laddove il bene dovesse restare nella materiale e diretta disponibilità del titolare e/o detentore della res [RUGGERO, 49]. L’ultimo profilo, che pure sembra interessante analizzare, è il sequestro di manufatti abusivi. Laddove il sequestro abbia attinto anche il fondo, su cui sorge il bene abusi-

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vamente realizzato, non si pone problema di sorta e la trascrizione del provvedimento può avvenire contro il titolare del fondo. Il più alto consesso della Suprema Corte si è recentemente pronunciato, sia pure affondando il problema in tema di sequestro finalizzato alla confisca di cui all’art. 12-sexies d.l. 8.6.1992, n. 306, conv. in legge 7.8.1992, n. 356, affermando la possibilità che il sequestro del manufatto (non necessariamente abusivo) si estende alle pertinenze dell’edificio ed al suolo su cui si è edificato, ancorché la provenienza del suolo sia legittima [Cass., S.U., 25.9.2008, dep. 13.1.2009, n. 1152]. L’ufficiale giudiziario, eseguite le formalità previste in tema di sequestro, procede all’apprensione materiale dei beni e all’immissione dell’amministratore giudiziario nel possesso degli stessi [(c) CAIRO], anche se gravati da diritti reali o personali di godimento, con l’assistenza obbligatoria della polizia giudiziaria (art. 21 comma 1 del codice delle leggi antimafia) [NICASTRO, 234 ss.]. Il codice delle leggi antimafia prevede, all’art. 35 (in precedenza art. 2-sexies legge n. 575/1965), che il tribunale con il provvedimento con cui dispone il sequestro nomina il giudice delegato ed un amministratore giudiziario (il d.lgs. 15.11.2012, n. 218, attraverso il procedimento correttivo previsto dalla legge n. 136/2010, interviene con marginali modifiche in materia di prevenzione: l’art. 1 del d.lgs. n. 218 modifica l’art. 39 del d.lgs. n. 159/2011, rimettendo la scelta di assistere l’amministratore giudiziario all’Avvocato generale dello Stato. Risulta, pertanto, ribaltata la situazione attuale, nella quale è l’amministratore giudiziario a decidere se avvalersi o meno dell’Avvocatura. Si limita, inoltre, la previsione alle controversie riguardanti i beni sequestrati, correggendo l’art. 39 previgente che citava anche i beni confiscati gestiti dall’Agenzia nazionale, istituzionalmente patrocinata dall’Avvocatura dello Stato (art. 114). L’amministratore, in particolare, deve essere scelto tra gli iscritti nell’Albo nazionale degli amministratori giudiziari (creato in seguito alla novella del 2009: in precedenza, infatti, l’amministratore dei beni doveva essere scelto negli albi degli avvocati, procuratori legali, dei dottori commercialisti e dei ragionieri del distretto, nonché tra le persone che, seppure non munite delle suddette qualifiche, avessero avuto una provata competenza nell’amministrazione dei beni). Il giudice delegato può autorizzare l’amministratore giudiziario a farsi coadiuvare, sotto la sua responsabilità, da tecnici o da altri soggetti qualificati. Non possono, tuttavia, rivestire la qualità di amministratore o di ausiliario o collaboratore dell’amministratore le persone nei cui confronti è stato disposto il provvedimento; il coniuge, i parenti, gli affini e le persone con essi conviventi, dal momento che la misura del sequestro deve determinare lo spossessamento dei beni in capo al sottoposto. L’amministratore viene immesso nel possesso dei beni sequestrati, ove occorre, per mezzo della polizia giudiziaria. Il tribunale, ove gli occupanti non vi provvedano spontaneamente, ordina lo sgombero degli immobili occupati senza titolo ovvero sulla scorte di titolo privo di data certa anteriore al sequestro mediante l’ausilio della forza pubblica (art. 21 commi 1 e 2 del Codice antimafia).

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L’amministratore giudiziario riveste la qualifica di pubblico ufficiale e, in quanto tale, deve adempiere ai propri doveri d’ufficio con diligenza: più precisamente, egli deve provvedere alla custodia, alla conservazione e all’amministrazione dei beni sequestrati anche nel corso dell’intero procedimento, anche al fine di incrementare, laddove possibile, la redditività dei beni (art. 35, comma 5 del codice delle leggi antimafia, già art. 2-sexies comma 8 legge n. 575/1965). L’art. 36 del codice delle leggi antimafia descrive l’attività che in concreto deve svolgere l’amministratore giudiziario: entro 30 giorni dalla nomina, deve presentare al giudice delegato una relazione particolareggiata dei beni sequestrati. La relazione deve contenere l’indicazione, lo stato e la consistenza dei singoli beni ovvero delle singole aziende; il presumibile valore di mercato dei beni; l’indicazione della documentazione reperita e le eventuali difformità riscontrate tra l’inventario e le scritture contabili in caso di sequestro di beni organizzati in aziende; l’indicazione delle forme di gestione più idonee e redditizie (art. 36 comma 1 lett. a), b), c), d), e) del Codice antimafia). Il deposito della relazione può essere prorogato per giustificati motivi per non più di 90 giorni. Successivamente, l’amministratore deve presentare una relazione periodica al giudice delegato, esibendo, se richiesto, anche i documenti giustificativi (art. 36 comma 3 del codice delle leggi antimafia). L’art. 42 del codice delle leggi antimafia, disciplina, analogamente a quanto disposto precedentemente dall’art. 2-octies legge n. 575/1965, il regime delle spese necessarie o utili per la conservazione e l’amministrazione dei beni che sono sostenute dall’amministratore o dall’Agenzia mediante prelevamento delle somme riscosse a qualunque titolo, ovvero sequestrate o, comunque, nella disponibilità del procedimento (l’ultima parte della previsione è stata introdotta dall’art. 2 della legge n. 94/2009 che ha modificato l’art. 2-octies comma 1 l. n. 575/1965 aggiungendo l’inciso «ovvero sequestrate o, comunque, nella disponibilità del procedimento»). Secondo la disciplina previgente alle spese di gestione si faceva fronte con gli utili ricavati dalla gestione stessa. In difetto, le spese erano anticipate dall’Erario. La novella dovrebbe ridurre l’anticipazione erariale, poiché le spese di gestione possono essere affrontate anche ricorrendo a denaro in sequestro ovvero a somme nella disponibilità della procedura. I beni confiscati con provvedimento definitivo sono acquisiti al patrimonio dello Stato liberi da oneri e pesi, fatta salva la disciplina dettata a tutela dei terzi [v. in dottrina, (a) FIORENTIN, 30-33]. Il provvedimento definitivo di confisca è comunicato dalla cancelleria dell’ufficio giudiziario che ha emesso il provvedimento all’Agenzia nonché al Prefetto e all’ufficio dell’Agenzia del demanio competenti per territorio in relazione al luogo ove si trovano i beni o ha sede l’azienda confiscata (art. 45 comma 2 del codice delle leggi antimafia, già art. 2-nonies comma 1 legge n. 575/1965). La destinazione dei beni immobili e dei beni aziendali è effettuata con delibera del Consiglio direttivo dell’Agenzia, sulla base della stima del valore risultante dalla relazione redatta dall’amministratore entro un mese dalla nomina. I beni immobili sono mantenuti al patrimonio dello Stato per finalità di giu-

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stizia, di ordine pubblico e di protezione civile e, ove idonei, anche per altri usi governativi o pubblici connessi allo svolgimento delle attività istituzionali di amministrazioni statali, agenzie fiscali, università statali, enti pubblici e istituzioni culturali di rilevante interesse, salvo che si debba procedere alla loro vendita per risarcire le vittime dei reati di tipo mafioso. I beni immobili per cui non è possibile effettuare la destinazione e il trasferimento per le finalità di pubblico interesse, sono destinati con provvedimento della Agenzia alla vendita. Al fine di evitare che i beni possano entrare nei circuiti criminali, si prevede che l’Agenzia chieda un parere obbligatorio al Prefetto della provincia interessata, nonché ogni informazione utile affinché i beni non siano acquistati, anche per interposta persona, dai soggetti ai quali furono confiscati, da soggetti altrimenti riconducibili alla criminalità organizzata ovvero utilizzando proventi di natura illecita (art. 48 comma 5 del codice delle leggi antimafia, già art. 2-undecies comma 2-bis legge n. 575/1965). Prendendo atto delle critiche avanzate alla disciplina prevista dal d.lgs. n. 159/2011, che modificava i principali diversi orientamenti, la legge n. 228/2012 è intervenuta anche sull’art. 51 prevedendo per i beni sequestrati (art. 51 comma 3-bis): che gli immobili sono esenti da imposte, tasse e tributi durante la vigenza dei provvedimento di sequestro e confisca, e comunque fino alla loro assegnazione o destinazione; che se la confisca è revocata, l’amministratore giudiziario ne dà comunicazione all’Agenzia delle Entrate e agli altri enti competenti che provvedono alla liquidazione delle imposte, tasse e tributi, dovuti per il periodo di durata dell’amministrazione giudiziaria, in capo al soggetto cui i beni sono stati restituiti. Raccogliendo la richiesta avanzata da enti locali destinatari dei beni confiscati e dell’Agenzia Nazionale, si prevede che qualora sussista un interesse di natura generale, l’Agenzia può richiedere, senza oneri, i provvedimenti di sanatoria, consentiti dalle vigenti disposizioni di legge, delle opere realizzate sui beni immobili che siano stati oggetto di confisca definitiva. Nel caso di vendita di beni immobili gli oneri del provvedimento di sanatoria sono a carico del soggetto acquirente. I beni mobili sono affidati all’autorità giudiziaria in custodia giudiziale agli organi di polizia, anche per esigenze di polizia giudiziaria, i quali ne facciano richiesta per l’impiego in attività di polizia, ovvero possono essere affidati ad altri organi dello Stato o ad altri enti pubblici non economici per finalità di giustizia, protezione civile o tutela ambientale (art. 48 comma 12 del codice delle leggi antimafia, già art. 2 undecies comma 3-bis legge n. 575/1965). La legge n. 228/2012 apporta alcune modifiche all’art. 40 d.lgs. n. 159/2011, che riguardano l’affidamento in giudiziale custodia dei beni mobili sequestrati e la destinazione di quelli confiscati. Vengono inseriti, quindi, i commi 5-bis, ter, quater e quinquies. Il comma 5-bis all’art. 40 d.lgs. n. 159/2011 (gestione dei beni sequestrati) che, con una disposizione analoga all’art. 48 comma 12 cit., attribuisce la competenza all’adozione del provvedimento di affidamento al tribunale, e non più

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alla “autorità giudiziaria” che poteva ricomprendere il giudice delegato. Il comma 5-ter consente al tribunale, su richiesta dell’amministratore giudiziario o dell’Agenzia, di destinare alla vendita i beni mobili sottoposti a sequestro se gli stessi non possono essere amministrati senza pericolo di deterioramento o con rilevanti diseconomie. Se i medesimi beni mobili sono privi di valore, improduttivi, oggettivamente inutilizzabili e non alienabili, il tribunale può procedere alla loro distruzione o demolizione. I proventi derivanti dalla vendita dei beni affluiscono, al netto delle spese sostenute, al Fondo unico giustizia, e sono in parte utilizzati dall’Agenzia per finalità sociali e produttive (comma 5-quater). Se il tribunale non provvede alla confisca dei beni, dispone la restituzione all’avente diritto dei proventi versati al Fondo unico giustizia in relazione alla vendita dei medesimi beni, oltre agli interessi maturati (art. 5-quinquies). I beni aziendali, infine, sono mantenuti al patrimonio dello Stato e sono destinati con provvedimento dell’Agenzia che ne disciplina le modalità operative all’affitto, quando vi sono prospettive di liquidazione o di ripresa dell’attività produttiva, a titolo oneroso, a società od imprese pubbliche o private, ovvero a titolo gratuito, a cooperative di lavoratori dipendenti dell’impresa confiscata; alla vendita a soggetti che ne abbiamo fatto richiesta, qualora vi sia una maggiore utilità per l’interesse pubblico o qualora la vendita sia finalizzata al risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso (art. 48 comma 8 del codice delle leggi antimafia, già art. 2-undecies comma 3 legge n. 575/1965). I provvedimenti riguardanti il versamento delle somme di denaro, la destinazione dei beni immobili e dei beni aziendali, sono immediatamente esecutivi (art. 48 comma 13 del codice delle leggi antimafia, già art. 2-undecies comma 7 legge n. 575/1965). 7. I termini del sequestro. L’art. 24 del codice delle leggi antimafia dispone al comma 2 che «il decreto di confisca può essere emanato entro un anno e sei mesi dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell’amministratore giudiziario. Nel caso di indagini complesse o compendi patrimoniali rilevanti, tale termine può essere prorogato con decreto motivato del tribunale per periodi di sei mesi e per non più di due volte. Ai fini del computo dei termini suddetti e di quello previsto dall’articolo 22, comma 1, si tiene conto delle cause di sospensione dei termini di durata della custodia cautelare, previste dal codice di procedura penale, in quanto compatibili». Una parte della dottrine propendeva per la tesi dell’inefficacia del termine, che sarebbe discesa dall’origine della norma, «dall’inequivoco significato della legge delega, e dai principi già evidenziati dalla giurisprudenza secondo cui nella materia della prevenzione, ove opera addirittura il riconoscimento del giudicato rebus sic stanti bus, non può ritenersi operante alcuna preclusione processuale in

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assenza di decisioni che valutino il merito della questione (S.U. sent. n. 36/01)» [(a) MENDITTO, 425 ss.]. A seguito della modifica apportata dalla legge n. 228/2012, l’art. 24 comma 2, viene riscritto precisandosi che «il provvedimento di sequestro perde efficacia se il tribunale non deposita il decreto che pronuncia la confisca entro un anno e sei mesi dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell’amministratore giudiziario». Il termine, dunque, deve essere rispettato a pena di inefficacia, così come previsto per la corte d’appello (art. 27 comma 6 d.lgs. n. 159/2011: «in caso di appello, il provvedimento di confisca perde efficacia se la corte d’appello non si pronuncia entro un anno e sei mesi dal deposito del ricorso») e si assolve col deposito del provvedimento. Inoltre, si prevede una ulteriore causa di sospensione del termine «per il tempo necessario per l’espletamento di accertamenti peritali sui beni dei quali la persona nei cui confronti è iniziato il procedimento risulta poter disporre, direttamente o indirettamente». Il termine di durata del sequestro non è un istituto nuovo; era stato previsto, infatti, anche dal legislatore del 1982, che, introducendo nel corpo della legge n. 575/1965 l’art. 2-ter, aveva previsto che «nel caso di indagini complesse il provvedimento può essere emanato anche successivamente, ma non oltre un anno dalla data dell’avvenuto sequestro». Ai fini dell’interpretazione della nuova norma, basta ricordare che la giurisprudenza aveva relegato l’operatività di tale termine ad una ipotesi del tutto marginale: quella del sequestro eseguito successivamente all’applicazione di una misura di prevenzione personale. È importante però precisare che la giurisprudenza era comunque consolidata [cfr. Cass., 11.1.1998, Albanese; Cass., 15.1. 1988, Molè; Cass., 9.6.1998, Ciminello; Cass., S.U., 13.12.2000, Madonia] nel ritenere che «in tema di misure di prevenzione patrimoniali, il provvedimento che dispone la confisca dei beni di cui non sia stata dimostrata la legittima provenienza deve necessariamente essere preceduto dal sequestro, ed è invalido qualora sia stato emanato oltre il termine perentorio di cui all’art. 2 ter, comma terzo, l. 31 maggio 1965, n. 575, decorrente dalla data dell’avvenuto sequestro». Era stata sottolineata la stranezza – non prevista da nessun altro ordinamento – della previsione di un meccanismo processuale che fa dipendere le sorti del merito del processo dalle vicende delle misure cautelari adottate [sul punto, GRILLO, 583]. Adesso l’art. 24 comma 2 del nuovo t.u. in materia di criminalità mafiosa ripropone negli stessi termini la formulazione della norma. Per un agevole confronto può citarsi il disposto del comma 3 dell’art. 2-ter della legge n. 575/1965: «Nel caso di indagini complesse il provvedimento può essere emanato anche successivamente, ma non oltre un anno dalla data dell’avvenuto sequestro». La principale differenza sta nel fatto che, mentre nel precedente sistema la decadenza operava in ipotesi marginali, adesso la norma estende l’efficacia preclusiva a tutte le ipotesi di sequestro, e quindi, anche a quelle – più frequenti – -

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di contestuale proposta di applicazione di misura personale e patrimoniale. Ciò ha indotto i primi interpreti a ritenere che nel nuovo sistema, scaduto il termine, al giudice sarebbe preclusa, in tutti i casi, la possibilità di pronunciare il provvedimento definitivo di confisca [parte di dottrina lo qualifica come «termine per l’emanazione del provvedimento di confisca», cfr. BALSAMO, MALTESE; diversamente (a) MENDITTO, 7-9, lo qualifica come «termine previsto a pena di inefficacia» in tutti i casi, con possibilità di emettere un nuovo provvedimento di sequestro, «in presenza dei relativi presupposti». L’Autore non chiarisce quali sarebbero i relativi presupposti, ma sembrerebbe far riferimento alla sopravvenienza di nuovi elementi, che siano idonei a vincere la preclusione di giudicato rebus sic stantibus caratteristica della materia della prevenzione]. Come è noto, il d.l. n. 159/2011 è stato emanato in attuazione della legge delega 13.8.2010, n. 136, il cui art. 1 prevedeva al terzo comma che «nell’esercizio della delega di cui al comma 1, previa ricognizione della normativa vigente in materia di misure di prevenzione, il Governo provvede altresì a coordinare e armonizzare in modo organico la medesima normativa, … aggiornandola e modificandola secondo principi e criteri direttivi». Sul termine la legge delega disponeva: «8.2) che il sequestro perda efficacia se non viene disposta la confisca entro un anno e sei mesi dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell’amministratore giudiziario e, in caso di impugnazione del provvedimento di confisca, se la corte d’appello non si pronuncia entro un anno e sei mesi dal deposito del ricorso». Sottoponendo le norme di cui agli artt. 24 e 27 del t.u. ad una verifica di corrispondenza ai criteri della delega, è chiaro come la nuova disciplina non costituisca una mera trasposizione della precedente, perché estende la portata della precedente norma a tutti i procedimenti di prevenzione. L’estensione dell’efficacia caducatoria del mancato rispetto del termine a tutte le altre ipotesi procedimentali (esemplificando: proposte per contestuale applicazione di misura di prevenzione personale e patrimoniale; proposte di applicazione di misura patrimoniale disgiunta da quella personale) ed al procedimento di appello, in quanto non ricognitiva della precedente disciplina, può ritenersi conforme alla delega solamente se supera anche il vaglio della verifica riguardante la direttiva n. 8.2. Ed è evidente che il delegante aveva in mente una disciplina diversa da quella precedente; infatti, con inequivocabile terminologia, faceva attenzione a limitare gli effetti del mancato rispetto del termine, predisponendo una sanzione di inefficacia della misura, ininfluente sul merito. In definitiva, il legislatore, abbandonando un regime eccezionale, ha trasposto anche nel procedimento di prevenzione l’ordinaria regola procedimentale secondo cui le vicende attinenti le misure cautelari non inficiano il merito: anche se il sequestro dovesse perdere efficacia a seguito della scadenza del termine, il giudice del merito potrà sempre disporre la confisca. L’art. 24 comma 2 prevede due distinti istituti: da una parte la proroga, dall’altra, in quanto compatibili, la sospensione dei termini di durata secondo le

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norme in materia di custodia cautelare previste dal codice di procedura penale. A proposito della proroga, va rilevato come le norme di cui agli artt. 24 e 27 del t.u., come previsto dalla direttiva 8.3, prevedono che il termine sia prorogabile con decreto motivato del tribunale, per periodi di sei mesi e per non più di due volte, in caso di indagini complesse o compendi patrimoniali rilevanti. La proroga può essere disposta d’ufficio. Stessa possibilità di proroga è prevista per il procedimento di appello. Nei primi commenti è stato affermato che fra esecuzione del sequestro e deposito del provvedimento di appello non potranno decorrere più di cinque anni. L’affermazione è imprecisa. A parte quanto si dirà in materia di sospensione dei termini, va rilevato che il termine per il primo grado decorre dall’esecuzione del sequestro e spira al deposito del decreto conclusivo. A questo punto parte una fase paradossalmente indifferente fino «al deposito del ricorso»; da tale momento, a norma dell’art. 27 t.u., comincerà a decorrere il termine previsto per la fase di appello. Il ricorso cui fa riferimento la norma è evidentemente quello previsto dall’art. 10 del testo unico, anche nell’ipotesi di appello del pubblico ministero, nei casi in cui la corte d’appello sospenda la revoca del sequestro, a norma dell’art. 27 t.u. 8. Modifica e revoca delle misure di prevenzione. L’art. 11 comma 2 d.lgs. n. 159/2011 (già art. 7 legge n. 1423/1956) prevede che il provvedimento di applicazione delle misure di prevenzione è comunicato al questore per l’esecuzione. Il provvedimento può essere, su istanza dell’interessato e sentita l’autorità di pubblica sicurezza che lo propose, revocato o modificato dall’organo dal quale fu emanato, quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato. Il provvedimento può essere altresì modificato anche per l’applicazione del divieto o dell’obbligo di soggiorno, su richiesta dell’autorità proponente, quando ricorrono gravi esigenze di ordine e sicurezza pubblica o quando la persona sottoposta alla sorveglianza speciale abbia ripetutamente violato gli obblighi inerenti alla misura. Si tratta di un’ipotesi di modifica in melius, ovvero di revoca della misura, che potrà essere favorevolmente esaminata dal tribunale qualora la causa che ne ha determinato l’applicazione sia mutata in senso favorevole o sia addirittura venuta meno. Alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, si può affermare che la modifica/revoca della misura è consentita in ogni tempo, tenuto conto della natura rebus sic stantibus della pronuncia che applica la medesima, che può, per tale sua natura, essere oggetto di revisione qualora mutino le circostanze che furono poste alla base della decisione [(e) FIORENTIN, 248]. La revoca o la modifica, in senso favorevole al proposto, del provvedimento applicativo della misura di prevenzione presuppone necessariamente un giudi-

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zio di diminuita pericolosità [Cass., sez. I., 18.9.2009, n. 35487]. Secondo un orientamento, ai fini della revoca sarebbe necessaria la ricorrenza di un duplice presupposto: oltre al decorso di un certo lasso di tempo dall’adozione del provvedimento stesso, l’accertamento del venir meno o del modificarsi delle cause che l’hanno determinato, svolto tenendo conto non solo dell’assenza di pregiudizi penali e giudiziari riferibili a fatti successivi al provvedimento applicativo della misura o comunque recenti, ma anche di tutta la condotta della persona [Cass., sez. I, 25.3.2011, n. 25850, in Cass. pen., 2012, 5, 1888]. Se, dunque, nessuna incertezza può aversi in ordine alla necessità di una valutazione globale che involga la complessiva condotta del soggetto proposto, non può, invece, ritenersi condivisibile l’affermazione della necessità del passaggio di un certo lasso di tempo dall’adozione della misura prima di esaminare la possibilità di revoca della misura stessa. Si tratta, infatti, di un presupposto non previsto dalla legge, né pare irragionevole ritenere che sarà il giudice a valutare, nel caso concreto, se il periodo di tempo trascorso fornisca già elementi di valutazione sufficienti a supportare la prognosi di cessata o diminuita pericolosità sociale del prevenuto. Allo stesso modo, qualora le risultanze istruttorie non fossero sufficienti a fondare una prognosi di irreversibilità del mutamento nella condotta della persona, il giudizio non potrebbe che essere di rigetto dell’istanza, non essendo ammissibile una pronuncia di non liquet. Una classica ipotesi di revoca della misura di prevenzione è quella che si verifica in seguito all’istanza del soggetto che, espiata la pena, chiede che sia verificato l’effetto rieducativo della pena nella riduzione della pericolosità sociale. Sebbene la giurisprudenza abbia più volte affermato il principio dell’autonomia del giudizio di prevenzione da quello penale, si è ritenuto che anche la sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso è idonea a fondare la revoca della misura di prevenzione, poiché fa venir meno il presupposto fattuale che ha fondato la misura. Non è stato, invece, ritenuto di per sé sufficiente a fondare un giudizio di diminuita pericolosità sociale l’esercizio di un’attività lavorativa [Cass., sez. I, 24. 9.2009, n. 37487, cit.]. Qualora venga richiesta la revoca anticipata della misura di prevenzione, è necessario condurre un’analisi molto rigorosa del venir meno della pericolosità sociale, non essendo sufficiente il riscontro di un corretto comportamento per un breve lasso di tempo per far ritenere un totale cambiamento di vita ed escludere, di conseguenza, la pericolosità del soggetto intesa come capacità di riprendere l’attività criminosa [Cass., sez. I, 18.12.2007, n. 47002, in CED Cass. pen. 2008]. La revoca del decreto applicativo di una misura di prevenzione ha effetto anche sul procedimento penale poiché fa venir meno la condizione di procedibilità connessa alle fattispecie inerenti l’inosservanza degli obblighi imposti. In altre parole, la revoca pronunciata dal giudice per difetto originario di pericolosità sociale, rende penalmente irrilevante con efficacia ex tunc i comportamenti d’inos-

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servanza degli obblighi medio tempore eventualmente tenuti dal soggetto proposto, con la conseguente declaratoria, ex art. 129 c.p.p., di assoluzione per insussistenza del fatto [Cass., sez. I, 1.12.2008, n. 44601, in Cass. pen., 2009, 9, 3599]. È questione aperta, invece, se le modifiche del provvedimento possano operare, oltre che in senso migliorativo e favorevole all’interessato, anche in senso peggiorativo. Secondo una parte di dottrina, alla luce della natura di sentenza del decreto che impone la misura di prevenzione e dell’incisione del diritto di difesa dell’interessato, le modifiche dovrebbero operare solo in senso favorevole al proposto. Altra parte di dottrina [(e) FIORENTIN, 251], invece, concorde con la giurisprudenza, propende per la soluzione di ritenere consentita anche la modifica in peius delle prescrizioni della misura. Questa soluzione sembrerebbe preferibile poiché, nel processo esecutivo, la natura della decisione “allo stato degli atti” non pregiudica mai, ed anzi impone, l’adeguamento del decisum alla mutata pericolosità del soggetto (e, dunque, non può che operare in senso bidirezionale, pro o contra l’interessato). Del resto, anche l’attuale disciplina prevista dall’art. 11 del d.lgs. n. 159/2011 sancisce la possibilità di modifica della misura nel caso di gravi esigenze per la sicurezza pubblica ovvero di ripetute violazioni delle prescrizioni. La competenza a decidere sull’istanza di revoca o di modificazione delle prescrizioni inerenti a una misura di prevenzione spetta al giudice che ha emesso il decreto impositivo della misura nei soli casi in cui il provvedimento sia divenuto definitivo. Si tratta di una competenza funzionale, la cui fonte è da rinvenirsi nell’art. 11 comma 2 d.lgs. n. 159/2011, che riprende la formulazione dell’abrogato art. 7 legge n. 1423/1956. La giurisprudenza, in applicazione analogica delle norme sul procedimento di esecuzione, ha affermato il principio che la disciplina del procedimento di modifica delle prescrizioni inerenti la misura di prevenzione è il medesimo procedimento di prevenzione, con l’unica eccezione consistente nell’individuazione del giudice competente, che è quello che ha pronunciato il decreto. Un consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene che la competenza a decidere sull’istanza di revoca o modificazione della misura sia del giudice che ha emesso il decreto impositivo della misura solo nel caso in cui il provvedimento sia divenuto definitivo, mentre, in pendenza di impugnazione, spetta al giudice investito del gravame, essendo egli tenuto a riesaminare la pericolosità sociale del proposto, in termini di attualità e di effettività, e ad adottare i conseguenti provvedimenti incidenti sulla caducazione della misura o sul contenuto di essa [Cass., sez. I, 28.4.2010, dep. 18.5.2010, n. 18742, in CED 2010/247456. In senso conforme: Cass. pen., n. 20817/2002]. In particolare, il giudice competente dovrà essere quello di primo grado qualora la corte d’appello abbia confermato la decisione di prime cure; mentre sarà quest’ultima a decidere in caso di riforma del provvedimento del tribunale. La Suprema Corte ha, poi, avuto modo di specificare che la competenza a decidere sull’istanza di revoca o di modificazione delle prescrizioni inerenti a

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una misura di prevenzione spetta, nel caso di giudizio pendente dinanzi alla Corte di Cassazione, al giudice che ha emesso il decreto impositivo della misura, in quanto in detta fase il giudice di appello non è più investito di alcuna valutazione in ordine al riesame della pericolosità del proposto, che, pertanto, non può essere privato di un grado di giudizio sull’istanza stessa [Cass., sez. I, 22.11. 2007, n. 44638, in Cass. pen., III, 2009, 1187]. -

9. Revoca della confisca. La mancanza di coordinamento tra la legge 27.12.1956, n. 1423, che regolava le misure di prevenzione personali, e la successiva introduzione nell’ordinamento, con la legge 31.5.1965, n. 575, delle misure di prevenzione patrimoniali aveva dato luogo ad una corposa produzione normativa, che ha più volte modificato ed innovato le leggi originarie e che si è formata in modo confuso «per accumulazione successiva e sulla spinta di esigenze contingenti» [(b) MARUCCIA, 157 ss; (g) MOLINARI, 1435 ss.]. La legge n. 1423/1956 prevede all’art. 7 comma 2 la revoca o la modifica, da parte dell’organo dal quale fu emanato e su istanza dell’interessato, del provvedimento con il quale è stato applicata una misura di prevenzione personale «quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato». In base ad una interpretazione strettamente letterale è stato ritenuto che anche la revoca, in base alla citata disposizione, possa essere disposta soltanto nel caso in cui venga meno, successivamente all’emanazione del provvedimento, la causa che lo ha determinato, sicché nell’ipotesi che si accerti l’inesistenza originaria di tale causa, debba farsi ricorso, in via analogica, al diverso istituto della revisione, trattandosi di una ingiustizia originaria [ex plurimis, Cass., sez. I, 18. 7.1994, Cavallaro, in Cass. pen., 1996, 928]. Altro orientamento ha ritenuto inammissibile la revisione, anche con riferimento alla tassatività delle impugnazioni, ed applicabile il particolare rimedio della revoca previsto dall’art. 7 comma 2 legge n. 1423/1956. [Cass., sez. I, 10.6.1997, Greco, in Cass. pen., 1998, 2123]. Il contrasto è stato risolto dalle Sezioni Unite con la sentenza Pisco [Cass., S.U., 10.12.1997, Pisco, in Cass. pen., 1998, 1932, con nota di (b) MOLINARI, la quale ha ritenuto che nella specie l’istituto della revisione non è applicabile in quanto l’interesse al riconoscimento dell’inesistenza originaria delle condizioni che legittimano l’adozione della misura di prevenzione è tutelato dalla revoca in discorso, la quale comprende anche tale ipotesi con conseguente effetto ex tunc]. La soluzione della questione ha originato un contrasto giurisprudenziale nel quale si sono manifestati tre orientamenti. Un primo orientamento ammetteva l’applicazione ai provvedimenti di confisca antimafia della revoca di cui all’art. 7 comma 2 legge n. 1423/1956. In particolare tale orientamento riteneva ammissibile tout court il ricorso proposto per conseguire la sola caducazione del decreto di confisca ogniqualvolta la parte -

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istante avesse dedotto l’insussistenza ab origine dei presupposti per l’ablazione patrimoniale [Cass., sez. II, 6.12.2005, Bocellari, in Giur. it., 2006, c. 2379, con nota critica di (b) FURFARO; Cass., sez. VI, 18.10.2005 (dep. 7.12.2005), n. 44985; Cass., sez. I, 20.4.2005, in Cass. pen., 2006, 1405; Cass., sez. V, 22.1. 2003, in Cass. pen., 2004, 3771, con nota di (f) MOLINARI]. Un altro ammetteva tale revoca anche per la confisca, ma esclusivamente nel caso in cui manchino fin dall’origine le condizioni per l’applicazione della misura di prevenzione personale, mentre nel caso in cui restava ferma la pericolosità dell’indiziato di mafia, definitivamente accertata, può essere esperito soltanto l’incidente di esecuzione ex art. 676 c.p.p. esclusivamente dal terzo che non abbia partecipato al giudizio di prevenzione [Cass., sez. VI, 18.9.2002, in Dir. pen. proc., 2003, 1107, con nota di CORTESI]. Infine, un terzo orientamento ritiene irrevocabile la confisca antimafia definitiva ed esclude sia la revisione, sia la revoca, sia l’incidente di esecuzione. Questo perché, letteralmente, l’art. 2-ter comma 4 della legge n. 575/1965 regola la sola ipotesi della revoca del sequestro non operando alcuna menzione della confisca e, l’art. 3-ter della legge n. 575/1965, che attiene sempre alle misure di prevenzione patrimoniale, pur richiamando altre disposizioni della legge n. 1423/1956 in tema di impugnazioni, non richiama il suddetto art. 7, con la conseguenza che la revoca delle misure di prevenzione patrimoniali non è consentita dalla legge. Inoltre l’estensione analogica della norma non è consentita data la diversità dei beni implicati dalle misure personali e da quelle patrimoniali, per cui difetta l’eadem ratio che giustificherebbe il ricorso all’analogia. Sul piano sistematico (e del principio di ragionevolezza), poi, l’intangibilità della confisca non può esser considerata irragionevole, in considerazione del fatto che, nel momento del passaggio in giudicato della sentenza che la dispone, alla confisca consegue un istantaneo trasferimento a titolo originario in favore del patrimonio dello Stato del bene che ne costituisce l’oggetto e che, conseguentemente, è impossibile riconoscere un diritto patrimoniale che non esiste più, in quanto la cosa confiscata ormai appartiene ad altri [Cass., sez. I, 27.6.2006 (dep. 4.10.2006), n. 33056; sez. VI, 3.10.2005 (dep. 19.1.2006), n. 465]. Anche in dottrina si sono manifestate opinioni contrastanti. Alcuni [v., per tutti, (a) FURFARO, 914-916] hanno sostenuto che soltanto la revisione è lo strumento idoneo ai fini della riconsiderazione, in seguito alla sopravvenienza del novum, delle condizioni che legittimano la confisca. In estrema sintesi, si riteneva che apparisse arbitrario estendere l’istituto della revoca delle misure personali, che incidono temporaneamente sulla libertà di movimento, alla situazione del tutto diversa della confisca disposta con un provvedimento che, qualora non più impugnabile, diventa assolutamente e definitivamente ablatorio, sicché «l’eventuale esistenza di nuove prove ovvero di prove in precedenza non considerate concernenti l’acquisizione legittima del bene stesso non determinerebbero né cessazione né mutamento delle ragioni della confisca ma ingiustizia originaria della stessa»; che resta il problema della rimozione di siffatta ingiustizia, rimozione imposta dall’art. 13 della Convenzione europea dei diritti -

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dell’uomo; che il rimedio che assicura le maggiori garanzie di indipendenza del giudice è la revisione, la cui istanza va rivolta ad un organo diverso da quello che ha emesso la decisione divenuta inoppugnabile. L’altra tesi, che riteneva applicabile la revoca ex art. 7 comma 2 legge n. 1423/1956, è stata sostenuta da altra parte di dottrina che affermava come: a) fosse privo di fondamento l’assunto che la revoca ex art. 7 comma 2 legge n. 1423/1956 poteva essere disposta soltanto nel caso in cui non sia cessata la misura di prevenzione, assunto superato dalla citata sentenza Pisco delle Sezioni Unite; b) come pure fosse «infondato il trasferimento alla confisca misura di prevenzione del principio, affermato da Sez. un., 28 maggio 1998, sul carattere di irreversibilità della confisca misura di sicurezza, perché il giudicato in tema di misure di prevenzione è sottoposto alla condizione rebus sic stantibus e la revoca concerne il provvedimento che dispone la confisca, sicché anche l’eventuale impossibilità di restituire il bene confiscato non fa venire meno l’interesse alla revoca del provvedimento sia per ottenere poi, nella sede competente, la restituzione di una somma equivalente al valore del bene e sia per superare gli altri effetti negativi connessi alla applicazione della misura; c) la pretesa esaustività del richiamo operato dall’art. 3-ter legge n. 575/1965 ai commi 8 e 10 (ora 9 ed 11) dell’art. 4 legge n. 1423/1956, al fine di escludere ogni possibile richiamo alla revoca, è frutto di una forzatura interpretativa sia perché il richiamo resta soltanto nei limiti delle impugnazioni, e la revoca non è tale, sia perché non resta coperto esaurientemente neanche il regime delle impugnazioni, tanto che rimangono scoperte diverse modalità per la proposizione e la decisione delle impugnazioni, quali l’organo che deve fissare l’udienza e disporre che ne sia dato avviso alle parti ed il termine minimo dilatorio (dieci giorni) tra la notifica dell’avviso e l’udienza, ricavabili dal comma 3 dell’art. 666 c.p.p.» [così, (g) MOLINARI, 1435]. La Suprema Corte, a Sezioni Unite, con sentenza 8.1.2007 n. 57 [in Guida dir., VII, 2007, 71] chiamata a risolvere il perdurante contrasto in merito alla questione se la misura della confisca di cui all’art. 2-ter comma 3 della legge 31. 5.1965, n. 575, fosse revocabile alla stregua del procedimento previsto dall’art. 7 comma 2 della legge 27.12.1956, n. 1423 (ed al pari delle misure personali di prevenzione), ne ha definitivamente sancito l’applicabilità, connotando l’istituto, al pari del rimedio della revisione, con finalità riparatoria rispetto ad un errore giudiziario. Con la citata sentenza, la Cassazione ha chiarito che l’istituto della revoca di cui all’art. 7 comma 2 della legge n. 1423/1956, si rivela strutturalmente incompatibile con la confisca, quale revoca ex nunc (essendo la revoca ex nunc ipotizzabile soltanto per le misure di prevenzione di cui è costante l’esecuzione al momento in cui viene avanzata la relativa richiesta), e, viceversa, pienamente compatibile con la predetta misura, quale rimedio da adottarsi in termini di revisione e, quindi, con effetti ex tunc, in contemplazione di una invalidità genetica del provvedimento. -

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«La misura di prevenzione della confisca è soggetta soltanto alla revoca ex tunc su iniziativa di quanti abbiano partecipato al procedimento di prevenzione o siano stati messi in condizione di prendervi parte, per il caso in cui si accerti sulla base di elementi nuovi e sopravvenuti, l’invalidità genetica del provvedimento per difetto di uno o più presupposti di legge, dati dalla pericolosità del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione, dalla disponibilità diretta o indiretta del bene da parte di questi, dalla sproporzione del valore del bene rispetto al reddito dichiarato o all’attività economica svolta, dall’essere il bene frutto di attività illecite o del reimpiego di profitti illeciti. … In ordine ai limiti soggettivi di proponibilità la revoca non può essere richiesta da chi, pur dovendo intervenire perché formalmente titolare dei beni sequestrati, non sia stato chiamato a partecipare al procedimento e, comunque, non vi abbia partecipato. In tal caso, l’esistenza delle condizioni per la dichiarazione dell’inefficacia del provvedimento può e deve farsi valere mediante il ricorso a incidente di esecuzione».

La Suprema Corte ha quindi sancito limiti soggettivi ed oggettivi molto precisi per tale revoca in funzione di revisione, finalizzata a «porre rimedio ad un errore giudiziario» ai sensi dell’art. 24 Cost., esperibile solo da chi abbia partecipato al procedimento di prevenzione o sia stato messo in grado di parteciparvi, purché vengano prospettate prove nuove sopravvenute alla conclusione del procedimento, sono tali anche quelle non valutate neanche implicitamente (o, sulla falsa riga della revisione, di inconciliabilità di provvedimenti giudiziari o di procedimento di prevenzione fondato su atti falsi o su un altro reato) che dimostrino l’insussistenza dei presupposti del provvedimento reale (pericolosità del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione, disponibilità diretta o indiretta del bene, sproporzione con il reddito dichiarato, reimpiego di attività illecite). Tali principi vengono stabiliti, in primis, sulla base del fatto che il decreto che irroga la misura esercita una preclusione rebus sic stantibus la quale, proprio perché allo stato degli atti, non impedisce una rivalutazione dei presupposti sulla base di nuove acquisizioni probatorie [(a) FILIPPI, 589]. Secondariamente, non può esservi dubbio circa la necessità di assicurare rimedi straordinari nel caso in cui abbiano ad acquisirsi elementi che attestino l’esaurimento o il mutamento del quadro indiziario dedotto a base del provvedimento di prevenzione («quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato»). Soprattutto ove si consideri il valore polisemantico della locuzione «sia cessata la causa che lo ha determinato», riferibile sia ai fatti sopravvenuti quanto a una nuova e più attenta “valutazione retrospettiva” della situazione iniziale sulla base dei noviter producta [(a) CISTERNA, 76 ss.]. La Corte di legittimità, dunque, nel naturale bilanciamento tra le esigenze di certezza giuridica derivante dalla pretesa irreversibilità della ablazione e la funzione di revisione del provvedimento sanzionatorio viziato fin dall’inizio, ha salvaguardato il preminente principio dell’obbligo riparatore prefigurato dall’art. 24 della Costituzione e circoscritto l’efficacia delle norme previste in materia di rivedibilità di giudicato ex artt. 630 ss. c.p.p. al campo delle prove, condizionando la possibilità di promuovere l’istanza di revoca della confisca ai casi di: a) prove nuove sopravvenute (e tali sono anche quelle non valutate nemmeno implicitamente); b) inconciliabilità di provvedimenti giudiziari; c) di procedimento

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di prevenzione fondato su atti falsi o su un altro reato. Nella decisione si precisa che con la revoca in questione è precluso all’istante di rimettere in discussione atti o elementi già considerati nel procedimento di prevenzione o in esso deducibili. Le Sezioni Unite hanno chiarito che la richiesta di rimozione del provvedimento deve muoversi nello stesso ambito di rivedibilità del giudicato, ex art. 630 c.p.p., con postulazione di prove nuove sopravvenute alla conclusione del procedimento e che tali sarebbero anche quelle non valutate nemmeno implicitamente. La Corte ha affermato, inoltre, che il rimedio esperibile verso il provvedimento definitivo di confisca deliberato ai sensi dell’art. 2-ter legge 31.5.1965, n. 575, è la revoca a norma dell’art. 7 comma 2 legge 27.12.1956, n. 1423, «allorché sia affetto da invalidità genetica e debba, conseguentemente, essere rimosso per rendere effettivo il diritto, costituzionalmente garantito, alla riparazione dell’errore giudiziario, non ostando al relativo riconoscimento l’irreversibilità dell’ablazione determinatasi, che non esclude la restituzione del bene confiscato all’avente diritto o forme comunque riparatorie della perdita patrimoniale da lui subita». Per quanto, poi, riguarda i soggetti legittimati ad richiedere la revoca del provvedimento ablatorio, le Sezioni Unite hanno affermato la limitazione a proporre la relativa istanza unicamente ai soggetti partecipanti al giudizio di prevenzione o che siano stati messi in condizioni di parteciparvi [(g) MOLINARI, secondo l’autore, «anche dopo la pronuncia delle Sezioni Unite (09/1999) il terzo che chieda la revoca della confisca definitiva, deducendo nuove prove non entrate nel procedimento di prevenzione, sembrerebbe soggetto ai limiti previsti dall’art. 395 c.p.c. ed all’onere della prova in ordine ad una delle cause indicate ed alla dimostrazione che la mancata allegazione non sia dipesa da colpa; tale soluzione, oltre che essere aderente ai principi della Cassazione, consentirebbe di raggiungere un punto di equilibrio tra la esigenza di certezza giuridica dei rapporti patrimoniali e la legittima richiesta del terzo incolpevole di presentare tutte le prove a suo favore»], mentre, per coloro che sono rimasti estranei al giudizio resta esperibile l’incidente di esecuzione. Tale orientamento ha sollevato qualche dubbio nella dottrina. Si è obiettato che il terzo, rimasto senza colpa estraneo al procedimento nel corso del quale è stata disposta la confisca, si trova così ad usufruire di un solo grado di cognizione di merito, anziché dei due ordinariamente accordati a chi, per maggior diligenza altrui o per solerzia propria, sia stato parte del giudizio principale a carico del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione [(d) MOLINARI, 2771]. L’art. 666 c.p.p., infatti, ammette quale rimedio avverso l’ordinanza che decide dell’incidente d’esecuzione il solo ricorso per Cassazione. In conclusione, come rilevato anche dalla passata Commissione parlamentare antimafia [nella Relazione sullo stato di attuazione della normativa e delle prassi applicative in materia di sequestro, confisca e destinazione dei beni della criminalità organizzata, Roma, 2007, p. 24], occorre un intervento del legislatore volto a garantire che «l’eventuale revoca della confisca definitiva non dia luogo alla restituzione del bene, bensì solo al riconoscimento del risarcimento a favore dell’avente

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diritto». Questo per evitare il rischio che sui beni confiscati si inneschi un meccanismo di impossibilità di programmare investimenti pubblici o comunitari e la conseguente dilatazione sui tempi di destinazione dei beni, in quanto l’Agenzia del demanio, non sarà in grado di emettere il provvedimento di destinazione, in attesa della decisione sull’istanza di revoca. Nella giurisprudenza di merito si è affermata la necessità di dover delimitare i termini della proponibilità dell’istanza di revoca, chiarendo che giammai potrebbe intendersi come “elemento nuovo sopravvenuto”, un dato materiale che la parte o il terzo già conosceva o avrebbe potuto conoscere con l’impiego della normale diligenza. Da ciò deriva che prove nuove sarebbero non quelle non valutate nemmeno implicitamente nel giudizio originario, ma quelle che non siano state valutate, perché oggettivamente non allegabili al giudizio [Trib. Santa Maria Capua Vetere, decreto emesso nel proc. n. 56/1997]. Il tema assume rilevanza anche in considerazione della circostanza che la decisione di confisca nel procedimento ex art. 2-ter legge n. 575/1965 ha effetto preclusivo su un eventuale procedimento avente ad oggetto gli stessi beni e in danno della stessa persona [Cass., sez. V, 28.4.10, n. 22626]. La Corte di Cassazione ha recentemente evidenziato che in tema di revoca della confisca di prevenzione ci si muove nello stesso ambito della revisione del giudicato penale e non costituisce prova nuova una diversa valutazione tecnico scientifica dei dati già valutati che si tradurrebbe in un apprezzamento critico di emergenze oggettive già conosciute e delibate nel procedimento [Cass., sez. II, 14.5.2009, n. 25577]. La competenza a decidere sull’istanza di revoca della misura di prevenzione patrimoniale della confisca, disposta con provvedimento divenuto definitivo, spetta al giudice di primo grado che ha emesso il decreto applicativo della misura, ancorché tale ultimo provvedimento sia stato ampliato, con l’inserimento di beni ulteriori, dal giudice di appello [Cass., sez. I, 10.1.2011, n. 3140, in Cass. pen., 2012, 1, 243; vd. anche, Cass., n. 18742/2010; Cass., n. 9858/2009; Cass., n. 21374/2008. In senso conforme: Cass., sez. I, 20.4.2005, n. 17084]. Taluno ha dubitato della costituzionalità della previsione. La Corte di Cassazione, investita in via d’eccezione del tema, lo ha ritenuto infondato. Ha affermato invero che «è manifestamente infondata, con riferimento agli art. 3 e 111 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 legge n. 1423 del 1956 nella parte in cui attribuisce la competenza per la revoca della misura di prevenzione patrimoniale della confisca allo stesso organo giudicante che la ha applicata, anziché alla corte di appello individuata ai sensi degli art. 11 e 633 c.p.p.» [Cass., sez. I, 29.4.2011, n. 20159, in Cass. pen., 2012, 5, 1888; Cass., S.U., n. 57/2007 ed in senso conforme anche Cass., sez. I, 20.4.2005, n. 17084; in dottrina (d) FIORENTIN, 3033]. La giurisprudenza di legittimità, infine, è pacifica riguardo i rimedi di impugnazione. Avverso il provvedimento del tribunale che decide, ai sensi dell’art. 7 legge 27.12.1956, n. 1423, in ordine all’istanza di revoca della misura di prevenzione della confisca è ammissibile l’appello e non il ricorso per cassazione, do-

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vendo trovare applicazione la disciplina prevista dall’art. 4 della medesima legge, in tema di impugnazioni del provvedimento impositivo della misura di prevenzione [Cass., sez. VI, 25.1.2011, n. 4445, in Guida dir., XI, 2011, 80]. Revocazione della confisca ex art. 28 del codice delle leggi antima10. fia: regime intertemporale ed applicabilità alle confische disposte prima dell’entrata in vigore del testo unico. Il nuovo Codice antimafia d.lgs. n. 159/2011 è un testo unico che ben può definirsi moderno, con valenza mista, perché caratterizzato dalla presenza di norme, al contempo, ricognitive ed innovative – giurisprudenziali. Innovazioni giurisprudenziali attente alla normativa CEDU e soprattutto ai “casi linea” prodotti dalla stessa Corte in merito alla compatibilità del procedimento di prevenzione personale e/o patrimoniale con gli artt. 6 e 7 della normativa “interposta”. Appartiene alla parte innovativa e giurisprudenziale l’istituto della revoca e la revocazione della confisca. L’art. 28 disciplina e positivizza l’istituto della revocazione. Il quadro normativo preesistente non contemplava una specifica disciplina, e ciò aveva chiamato la giurisprudenza, di merito e di legittimità, ad un ruolo di supplenza. Si era consolidato, infatti, il principio secondo cui la revoca di cui all’art. 7 legge n. 1423/1956 svolgesse una funzione analoga a quella cui, nel giudizio penale, è deputata la revisione. Siffatta tutela, però, era stata riservata soltanto ai soggetti partecipanti al procedimento di prevenzione. Le pretese dei terzi estranei, quindi, erano state affidate all’incidente di esecuzione. In tale contesto, evidentemente, si è inserita la necessità di dettare una specifica disciplina, con l’obiettivo di assicurare agli interessati, per un verso, le necessarie garanzie e, per altro verso, di mantenere in favore della confisca, divenuta definitiva, il carattere dell’irreversibilità. Si fissa, quindi, il principio del c.d. divieto di retrocessione del bene attinto dall’ablazione. La giurisprudenza della Suprema Corte, dopo iniziali tentennamenti [in senso contrario, Cass., sez. V, 15/01/2004, n. 5738], riteneva, ormai pacificamente, perseguibile un simile rimedio straordinario anche prima del d.lgs. n. 159/2011, che – all’art. 28 ha dettato la disciplina della “revocazione” [cfr. per tutte Cass., S.U., 19.12.2006, n. 57, che risulta così massimata: «il provvedimento di confisca deliberato ai sensi dell’art. 2-ter, comma terzo, L. 31 maggio 1975 n. 575 (disposizioni contro la mafia) è suscettibile di revoca ex tunc a norma dell’art. 7, comma secondo, l. 27 dicembre 1956 n. 1423 (misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), allorché sia affetto da invalidità genetica e debba, conseguentemente, essere rimosso per rendere effet-

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tivo il diritto, costituzionalmente garantito, alla riparazione dell’errore giudiziario, non ostando al relativo riconoscimento l’irreversibilità dell’ablazione determinatasi, che non esclude la possibilità della restituzione del bene confiscato all’avente diritto o forme comunque riparatorie della perdita patrimoniale da lui ingiustificatamente subita»]. La competenza a decidere sulla richiesta, ex art. 7 legge n. 1423/1956, spettava «all’organo dal quale fu emanato il provvedimento del quale si chiede la revoca». Il d.lgs. n. 159/2011 con l’art. 28 ha, però, dettato una specifica disciplina: «1. La revocazione della decisione definitiva sulla confisca di prevenzione può essere richiesta, nelle forme previste dall’articolo 630 del codice di procedura penale: a) in caso di scoperta di prove nuove decisive, sopravvenute alla conclusione del procedimento; b) quando i fatti accertati con sentenze penali definitive, sopravvenute o conosciute in epoca successiva alla conclusione del procedimento di prevenzione, escludano in modo assoluto l’esistenza dei presupposti di applicazione della confisca; c) quando la decisione sulla confisca sia stata motivata, unicamente o in modo determinante, sulla base di atti riconosciuti falsi, di falsità nel giudizio ovvero di un fatto previsto dalla legge come reato. 2. In ogni caso, la revocazione può essere richiesta solo al fine di dimostrare il difetto originario dei presupposti per l’applicazione della misura». Il comma 4 dell’art. 28 conferma che – conformemente al modello previsto dagli artt. 630 ss. c.p.p. – la competenza a decidere appartiene alla corte di appello. L’obiettivo è quello di assicurare agli interessati, per un verso, le necessarie garanzie e, per altro verso, di mantenere in favore della confisca divenuta definitiva, il carattere della “irreversibilità”. Se è vero, infatti, che le Sezioni Unite hanno chiarito che l’irreversibile risultato ablatorio, conseguente alla definitività del provvedimento, rende anche la confisca insensibile a successivi mutamenti della situazione che abbiano recato modificazioni alla pericolosità del soggetto inciso o che ne abbiano addirittura fatto cessare la pericolosità, è vero pure come non ne deriva che l’irreversibilità dell’ablazione impedisca di accertare, oggi per allora, e nello spazio non precluso dalla definitività del provvedimento, l’originaria insussistenza dei presupposti che hanno condotto alla sua emanazione, dal momento che la dimostrazione dell’insussistenza non è tanto diretta a far cessare gli effetti di una confisca legittimamente imposta, quanto a farne palese un vizio d’origine, talché una volta riconosciuta l’invalidità del titolo, la ritenuta irreversibilità dell’ablazione non esclude la possibilità di una restituzione, per determinazione discrezionale della Pubblica Amministrazione, e, quanto meno provoca l’insorgenza di un obbligo riparatorio della perdita patrimoniale, priva di giustificazione sin dal momento in cui si è verificata.

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Le Sezioni Unite ammettono, dunque, una revoca in funzione di revisione, attraverso la quale si pone rimedio ad un errore giudiziario. I principi di diritto elaborati nella pronuncia del più alto consesso della Suprema Corte rappresentano un trait d’union con la disciplina contenuta oggi nell’art. 28 t.u. antimafia, che ha introdotto la revocazione della confisca. Tale strumento consente di far venir meno l’efficacia del provvedimento ablatorio definitivo solo allorquando si dimostri il difetto originario dei presupposti per l’applicazione della misura e costituisce un mezzo proponibile non solo dal prevenuto, ma anche dal terzo estraneo al procedimento, che, in precedenza poteva utilizzare solo lo strumento dell’incidente di esecuzione. Le regole previste dalla disposizione di cui all’art. 28 del codice delle leggi antimafia, hanno lo scopo di ovviare le difficoltà manifestate nel corso degli anni da parte dei soggetti destinatari dei beni confiscati, i quali si sono trovati spesso nell’impossibilità di investire i compendi patrimoniali oggetto della misura ablatoria, in ragione della continua presentazione di istanze di revoca, che avevano l’effetto di rendere instabile il giudicato di prevenzione [FILIPPI, CORTESI, 216]. La revocazione, quindi, può essere richiesta con le forme previste dall’art. 630 c.p.p. per la revisione, in caso di scoperta di nuove prove decisive, sopravvenute alla conclusione del procedimento; quando i fatti accertati con sentenze penali definitive, sopravvenute o conosciute in epoca successiva alla conclusione del procedimento di prevenzione, escludano in modo assoluto l’esistenza dei presupposti di applicazione della confisca; quando la decisione sulla confisca sia motivata, unicamente o in modo determinante, sulla base di atti riconosciuti falsi, di falsità nel giudizio, ovvero di un fatto previsto dalla legge come reato. Si tratta, dunque, di ipotesi tassative, i cui confini parrebbero essere circoscritti in maniera abbastanza definita dall’enunciato legislativo. La loro formulazione riflette, inoltre, l’attuale assetto del sistema di prevenzione, in cui gli istituti di ablazione reale possono essere disposti anche disgiuntamente da quelli di matrice personale, con la conseguenza che l’eventuale assenza ab origine del requisito della pericolosità sociale non rileverà ai fini dell’accoglimento della richiesta di revocazione del provvedimento di confisca. L’istanza deve pervenire alla corte d’appello competente, ai sensi dell’art. 630 c.p.p., a pena di inammissibilità entro sei mesi dalla data in cui si verifica uno dei casi elencati all’art. 28 comma 1 del codice delle leggi antimafia. Quando accoglie la richiesta di revocazione, la corte di appello trasmette gli atti al tribunale che ha emesso il decreto di confisca, affinché, ove sia necessario, provveda, ai sensi dell’art. 46 del codice delle leggi antimafia alla restituzione per equivalente. In altre parole, la restituzione dei beni confiscati – tranne che si tratti dei beni culturali di cui all’art. 10 comma 3 d.lgs. 22.1.2004, n. 42, e degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse ai sensi dell’art. 136 ss. d.lgs. n. 42/2004 – può avvenire anche per equivalente quando i beni medesimi sono stati assegnati per finalità istituzionali e la restituzione possa pregiudicare l’interesse pubblico. In tal caso, perciò, il soggetto nei cui confronti venga dichiarato il diritto alla

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restituzione del bene, ha diritto ad ottenere una somma equivalente al valore del bene confiscato quale risulta dal rendiconto di gestione, al netto delle migliorie e rivalutato sulla base del tasso di inflazione annua. Se, invece, si tratta di beni immobili, si tiene conto dell’eventuale rivalutazione delle rendite catastali. Il tribunale, poi, dopo aver determinato il valore del bene, ordina il pagamento della somma ponendola a carico del Fondo Unico Giustizia se il bene è stato venduto, ovvero all’amministrazione assegnataria in tutti gli altri casi (art. 46 del codice delle leggi antimafia). Lo speciale rimedio della revocazione della decisione definitiva sulla confisca di prevenzione antimafia, previsto dall’art. 28 del d.lgs. n. 159/2011 (c.d. t.u. antimafia), in quanto norma processuale ed in assenza di specifica disciplina transitoria, trova immediata applicazione anche con riferimento alle pronunce di confisca adottate prima del 13.10.2011, data di entrata in vigore del t.u. medesimo. Il problema di diritto intertemporale che si è posto la giurisprudenza di merito [Trib. Trapani, sez. misure di prevenzione, 18.6.2012 (ord.), Pres. ed est. Grillo] riguarda la disciplina applicabile alla richiesta. Stabilisce l’art. 117 del t.u. che «le disposizioni contenute nel libro I (che comprende l’art. 28) non si applicano ai procedimenti nei quali, alla data di entrata in vigore del presente decreto, sia già stata formulata proposta di applicazione della misura di prevenzione. In tali casi, continuano ad applicarsi le norme previgenti». Sono possibili, dunque, due opzioni interpretative: ritenere che la nuova disciplina si applichi solo per le procedure iniziate su proposta antecedente al 13.10.2011 (data di entrata in vigore del t.u.); oppure ritenere che la nuova disciplina, oltre a questi casi, sia applicabile anche ai procedimenti che alla data del 13.10. 2011 erano definiti. Nella scelta fra le due opzioni interpretative, non può non tenersi conto dell’insegnamento più recente della Suprema Corte che, a Sezioni Unite, [cfr. Cass., S.U., 31.3.2011, n. 27919] ha affermato che «in tema di successione di leggi processuali nel tempo, il principio secondo il quale, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronunzia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato, non costituisce un principio dell’ordinamento processuale, nemmeno nell’ambito delle misure cautelari, poiché non esistono principi di diritto intertemporale propri della legalità penale che possano essere pedissequamente trasferiti nell’ordinamento processuale». Le norme processuali non possono non soggiacere alla regola del tempus regit actum che vige nella materia processuale in applicazione, del resto, del principio generale dell’irretroattività della legge fissato dall’art. 11 comma 1 delle preleggi, rispetto al quale si pone come norma derogatoria, ispirata al principio del favor rei, la disciplina dettata dall’art. 2 comma 3 c.p. in materia di successione di leggi penali nel tempo. Se così è, la regola ordinaria è costituita dall’applicazione immediata ed indi-

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scriminata della nuova legge processuale, salvo che la legge disponga una espressa deroga. Deve allora verificarsi se la norma di cui all’art. 117 del codice delle leggi antimafia contenga una espressa deroga a tale principio. Certamente nell’esegesi non soccorre alcuna notazione del legislatore, che sul punto non ha speso alcun commento nella relazione alla legge. Chi conosce le vicende della predisposizione del testo del d.l. n. 159/2011 sa bene che la bozza di decreto delegato trasmessa al Parlamento non conteneva una disciplina transitoria; la regola di diritto intertemporale fu, poi, il frutto di specifici rilievi che riguardavano tutt’altre questioni (ossia l’efficacia del sequestro e l’introduzione del termine di durata massima). Si può ritenere, quindi, che la locuzione «procedimenti nei quali, alla data di entrata in vigore del presente decreto, sia già stata formulata proposta di applicazione della misura di prevenzione» presupponga la pendenza di un procedimento, non ancora definito. Invero, passata in giudicato la decisione, il procedimento viene definito e non ha più senso adoperare la locuzione «procedimenti nei quali sia già stata formulata». Tutti gli incidenti successivi alla definitività determinano l’insorgere di altri procedimenti, che non hanno origine dalla proposta. Ad essi, in base all’art. 11 delle preleggi, va applicata la nuova regola processuale. Non può costituire argomento contrario il disposto dell’art. 28 comma 3 del t.u., che prevede la proponibilità entro sei mesi dalla causa in cui si verifica uno dei casi che consentono la proposizione del ricorso. Invero, quella posta dall’art. 117 comma 1 del t.u. è una regola generale, che riguarda numerose questioni di natura “esecutiva” (vedi artt. 11 ss. t.u.) e, quindi, deve trovare una interpretazione che prescinda dal regime del singolo istituto. Trovata la regola generale, il problema del termine si risolverà – nei casi in cui il ricorrente sia venuto a conoscenza dei fatti in data antecedente al 13.10. 2011 – individuando il dies a quo in quello dell’entrata in vigore della legge. L’opzione interpretativa è conforme al decisum della Suprema Corte su altre questioni di diritto intertemporale. Infine, deve rilevarsi che – una volta accertata la applicabilità della nuova disciplina prevista dall’art. 28 del t.u., – le norme che individuano il modulo procedimentale adottabile sono quelle di cui agli artt. 629 ss. c.p.p. In particolare, l’art. 634 c.p.p. prevede una preventiva valutazione dell’ammissibilità della richiesta, che riguarda anche l’osservanza della disciplina concernente la competenza (vedi il riferimento all’art. 633, secondo cui l’istanza di revisione va depositata «nella cancelleria della corte di appello individuata secondo i criteri di cui all’art. 11», che qui va considerata solamente per l’individuazione dell’ampiezza del criterio di delibazione, posto che l’autorità giudiziaria competente a decidere sulla revocazione è individuata autonomamente dall’art. 28 del t.u.). -

La fase esecutiva

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La pronuncia adottata ai sensi dell’art. 634 c.p.p. non prevede l’acquisizione di parere del P.M. [cfr. in tal senso, Cass., S.U., 19.1.2012, n. 15189], e solo nel caso di erronea acquisizione di siffatto parere si rende necessario attivare il contraddittorio. Ed ancora, va rilevato che, a norma dell’art. 568 comma 5 c.p.p., il rimedio proposto non va dichiarato inammissibile, dovendo, il giudice, nel rilevare l’incompetenza, trasmettere gli atti al giudice competente, in ossequio al principio generale di conversione.

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Il procedimento giurisdizionale per l’applicazione delle misure di prevenzione

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La fase esecutiva

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Parte Sesta

La tutela dei terzi ed i rapporti con le procedure concorsuali

Capitolo I

Misure di prevenzione, tutela dei terzi e procedure concorsuali

*

Sommario

1. La tutela dei diritti dei terzi prima del Codice antimafia – 2. La disciplina del Codice antimafia. – 2.1. La tutela dei diritti di proprietà dei terzi. – 2.2. L’originaria tutela degli altri diritti dei terzi. – 2.2.1. La nuova tutela prevista dal Codice antimafia. – 2.3. Le condizioni richieste ex lege. – 2.4. Il limite della garanzia patrimoniale, il pagamento dei crediti prededucibili, il divieto di azioni esecutive e le altre disposizioni generali. – 2.5. L’accertamento dei diritti dei terzi. – 3. L’accertamento della buona fede del terzo. – 4. La tutela dei terzi rispetto a misure di prevenzione patrimoniali disposte prima dell’entrata in vigore del Codice antimafia. – 5. Rapporti tra misure di prevenzione e fallimento. – 5.1. L’assetto precedente il d.lgs. n. 159/2011. – 5.2. Le innovazioni del d.lgs. n. 159/2011: profili generali. – 5.3. (Segue) e normativa vigente. – Bibliografia.

1.

La tutela dei diritti dei terzi prima del Codice antimafia.

Tra i “nervi scoperti” della prevenzione patrimoniale, un rilievo peculiare riveste il tema della tutela dei diritti dei terzi eventualmente coinvolti. L’applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale può, infatti, attingere beni sì nella disponibilità del prevenuto, ma dei quali sono proprietari (ovvero comproprietari) soggetti “altri”; ovvero, ancora, beni effettivamente appartenenti al destinatario del provvedimento ablatorio sui quali, tuttavia, terzi in buona fede vantino una garanzia patrimoniale e/o una pretesa di natura obbligatoria. Prima dell’entrata in vigore del Codice antimafia, mancando in materia una disciplina dettagliata a fronte del solo art. 2 ter comma 5 legge n. 575/1965, erano emersi, in dottrina ed in giurisprudenza, due contrastanti orientamenti, e* I paragrafi 1, 2, 3 e 4 sono stati redatti da VINCENZO MAIELLO; il paragrafo 5 da LUCA DELLA RAGIONE.

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spressione di diversi bilanciamenti sugli interessi, di natura antagonistica, qui in conflitto: i diritti dei terzi, da un lato, e le esigenze di prevenzione della criminalità organizzata di stampo mafioso, dall’altro. Il primo indirizzo valorizzava le ragioni ostative alla tutela dei diritti dei terzi e manifestava contrarietà a riconoscere ogni forma di tutela al diritto di credito, risultasse assistito o meno da specifiche garanzie. L’assunto prendeva le mosse dall’asserito carattere sanzionatorio/repressivo della confisca [Trib. Palermo, 18.4.1989, in Dir. fall., II, 1990, 163, secondo cui, sopravvenuta la confisca, non v’è spazio per la tutela del terzo anche incolpevole, poiché la misura è finalizzata a colpire tutte le forme di reimpiego dei capitali di illecita provenienza. In dottrina COMUCCI, 84; MANGANO, 684; MONTELEONE, 574]. A sostegno della tesi, veniva addotta la pretesa natura di acquisto a titolo originario che la confisca radicherebbe in capo allo Stato [Cass., sez. I, 5.3.1999, n. 1868; GUERRINI, MAZZA, RIONDATO, 215 ss.], così privando i beni della funzione di garantire il soddisfacimento delle ragioni creditorie, in conformità a quanto disposto dall’art. 2740 c.c. A conclusioni opposte perveniva chi, privilegiando una lettura civilistica del fenomeno, evidenziava come l’orientamento favorevole al sacrificio indiscriminato dei diritti dei terzi poteva produrre conseguenze giuridiche e sociali insostenibili [Cass., 20.12.1962, Stringari, in Giust. pen., II, 1964, 106]. In quest’ottica, appariva fuorviante legare la sorte del diritto dei terzi all’argomento della natura giuridica dell’acquisto in capo allo Stato, reputandosi viziato da illogicità il correlato assunto che pretendeva di far discendere dal carattere originario dell’acquisto l’estinzione dei diritti dei terzi. Il punto di vista veniva variamente motivato in dottrina [MAUGERI, 393], ove, per un verso, è stato sottolineato come il disconoscimento indiscriminato delle ragioni dei terzi sia contrario al principio costituzionale di colpevolezza; per l’altro, traendo spunto dall’art. 41 Cost., veniva rilevata [GAROFOLI, 3889 ss.] l’incompatibilità tra un sistema di tutela della libertà di iniziativa economica – concepita anche quale fattore di equilibrio del mercato – ed un modello di confisca che qualifichi i diritti dei terzi creditori di buona fede recessivi rispetto alla misura di ablazione [CAIRO, 1230]. Sul punto, si è, peraltro, fatto osservare come esistano vicende di acquisto della proprietà a titolo originario – quale l’usucapione – che rispettano i diritti parziari sul bene. Questa seconda posizione, che ha fondato il riconoscimento della tutela dei diritti dei terzi legandola alla natura derivativa dell’acquisito da parte dello Stato del bene confiscato, ha fatto ricorso a molteplici argomenti di diritto positivo. In primo luogo, il carattere derivativo dell’acquisto conseguente alla confisca è stato fondato in giurisprudenza [Cass., 11.1.2001, Palini] sul fatto che quella vicenda – lungi dal prescindere dal rapporto pregresso tra titolare e bene – in realtà lo presuppone. Non è mancata neppure l’opinione di chi [CELENTANO, 6] ha evidenziato che il dibattito appariva ipotecato dalla confusione dommatica tra le coppie concettuali originarietà-derivatività e coattività-volontarietà, rilevanti nel titolo di acquisto del diritto. Peraltro, pronunciandosi sulla confisca penale in materia di usura, le Sezioni

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Unite della Cassazione avevano rimarcato come la questione relativa alla natura dell’acquisito (originario o derivativo) da confisca, fosse irrilevante per stabilire gli effetti civilistici della misura e, quindi, la sorte dei diritti dei terzi sul bene [Cass., S.U., 8.6.1999, n. 99]. Nella circostanza, fu detto che il diritto sulla cosa viene acquisito nella condizione in cui si trova all’atto del provvedimento, di guisa che lo Stato non può conseguire facoltà di cui il soggetto passivo dell’ablazione aveva perso la titolarità. In effetti, ad avviso dei sostenitori dell’orientamento, ciò a cui occorreva fare riferimento era il regime di diritto sostanziale cui soggiace l’adozione della misura; su queste basi – veniva fatto osservare – non poteva residuare spazio per soluzioni lesive di diritti vantati dai terzi, non incompatibili col potere di fatto esercitato sul bene dal proposto, sempre che si fosse trattato di diritti che – secondo le regole fissate dai codici, rispettivamente, civile e di procedura civile, in materia di pignoramento, di vendita e di assegnazione forzata (art. 2915 ss. c.c.) – potevano essere opposti all’acquirente di un bene espropriato [CELENTANO, 7]. Da ciò, l’assunto che il terzo titolare del diritto (reale di godimento o di garanzia) o del privilegio speciale sul bene oggetto di confisca dovesse essere chiamato a partecipare al procedimento di prevenzione, ovvero ammesso ad opporre in executivis il provvedimento di confisca, solo in ipotesi di contestazione del diritto. In ipotesi contraria, non vi era ragione per articolare reazioni e/o difese rispetto ad un provvedimento di confisca che, strutturalmente, non era idoneo a compromettere quella posizione [Cass., sez I, 21.4.2010, n. 16806]. 2. La disciplina del Codice antimafia La complessità dell’argomento e la necessità di stabilire con chiarezza se e come possa essere garantita tutela ai diritti dei terzi in buona fede sui beni attinti dagli strumenti della prevenzione patrimoniale, hanno indotto il legislatore del Codice antimafia ad intervenire, apprestando una disciplina che, conforme ai principi della legge delega, è stata modulata in coerenza agli approdi cui era pervenuto il diritto di formazione giurisprudenziale [PETRINI, 647]. In effetti, le disposizioni concernenti la tutela dei terzi sono collocate in due sedes materiae del Codice, distinte in base alla tipologia dei diritti – rispettivamente di proprietà o di altro genere – vantati dai terzi sul bene. Più in particolare, ai terzi che risultino proprietari o comproprietari dei beni colpiti dalle misure patrimoniali, sono dedicate le norme di cui agli artt. 23-26; mentre a quelli titolari di altri diritti sono destinate le previsioni racchiuse negli gli artt. 52-61. 2.1. La tutela dei diritti di proprietà dei terzi. – Assecondando un’opzione politico-criminale che privilegia obiettivi di difesa sociale, il legislatore, nell’art. 24 del Codice antimafia, ha stabilito che la confisca di prevenzione può essere

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disposta nei confronti dei beni che si trovino nella “disponibilità a qualsiasi titolo” del prevenuto. Il punto cruciale è, dunque, costituito dal significato di tale locuzione, risultando questo il vettore normativo che legittima l’applicazione di misure di prevenzione patrimoniale nei confronti del proposto aventi ad oggetto beni di proprietà o comproprietà di terzi estranei in buona fede. Quel sintagma consente, invero, di poter disporre la confisca nei confronti di ogni res di cui il prevenuto abbia la disponibilità anche solo indiretta, vale a dire nei confronti della quale abbia l’effettivo potere di disposizione e di decisione del suo uso e destinazione [PETRINI, 647]. Tutte le volte che ricorra questa situazione entrano in conflitto l’interesse pubblico-statale ad eliminare dal circuito delle relazioni economiche i patrimoni di formazione illecita nella disponibilità di un indiziato mafioso e quello contrapposto, di natura individuale, del terzo estraneo proprietario del bene ad ottenerne la restituzione e, quindi, la re-immissione nel contesto economico. Allo scopo di comporre il conflitto, l’art. 23 del Codice antimafia prevede che i terzi proprietari e comproprietari dei beni sequestrati, nonché i terzi titolari di diritti reali o personali di godimento sui beni medesimi, intervengano nella procedura di applicazione della misura, mediante partecipazione ad apposita udienza camerale. Viene, così, garantita loro la possibilità di far valere le proprie ragioni, in contraddittorio con le altre parti, con l’eventuale assistenza di un difensore e la facoltà di avanzare richieste funzionali all’esercizio del diritto di difesa. Ai sensi dell’art. 24, ove il Tribunale non riesca ad accertare i presupposti della confisca, i terzi proprietari conseguiranno la restituzione del bene oggetto di sequestro, mentre i terzi titolari di altri diritti reali o personali di godimento, fatta eccezione per quelli che siano intestatari fittizi, otterranno la liquidazione dei loro diritti secondo le norme racchiuse negli artt. 60 e 61 [PETRINI, 647]. 2.2. L’originaria tutela degli altri diritti dei terzi. – Come accennato, le disposizioni contenute negli artt. 52 e ss. regolano la tutela degli altri diritti dei terzi in buona fede eventualmente pregiudicati dalla confisca di prevenzione. Esse prendono in considerazione l’ipotesi in cui quest’ultima attinga un bene di proprietà esclusiva del proposto, ma sul quale siano costituite garanzie patrimoniali, oppure accedano pretese di natura obbligatoria di terzi in buona fede. Prima del Codice antimafia, il tema della tutela dei diritti dei terzi, diversi da quelli reali incidenti sui beni confiscati, era stato affrontato dalla giurisprudenza soprattutto riguardo alle iscrizioni ipotecarie a favore di istituti bancari, con decisioni [da ultimo cfr. Cass., Sez. I, 27.4.2012 n. 44515] che avevano sancito la prevalenza del diritto dei terzi in buona fede sul bene confiscato. A supporto di tale soluzione venivano addotte molteplici ragioni: a) la natura derivativa del titolo di acquisto da parte dello Stato del bene confiscato; b) l’opponibilità dei diritti vantati su titoli trascritti in data anteriore; c) la buona fede del terzo, iden-

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tificata nella sua non conoscenza o non conoscibilità – al metro della diligenza imposta dalle connotazioni del caso concreto – del collegamento fra il diritto proprio e la condotta delittuosa altrui. Quest’ultimo argomento si collocava nel solco già tracciato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 487/1995, ove era stato affermato che – tutte le volte che non sia possibile muovere un rimprovero di colpevolezza al terzo per mancanza di conoscenza o anche solo di conoscibilità della condotta delittuosa del prevenuto – non può essere eseguita una confisca di prevenzione (nell’occasione era stato puntualizzato come la predetta condizione soggettiva non ricorra in colui che, pur non assoggettabile a provvedimenti di prevenzione, compia attività agevolative che determinino una obbiettiva commistione di interessi fra impresa ed attività mafiosa). Quanto all’aspetto dell’opponibilità del diritto di garanzia reale sul bene confiscato, unanime è l’opinione che vi attribuisce rilevanza solo allorché l’iscrizione dell’ipoteca nei registri immobiliari sia avvenuta anteriormente alla trascrizione del sequestro finalizzato alla confisca. In questo quadro di principi e di relative valutazioni, competeva al giudice dell’esecuzione verificare, alla stregua delle prove fornite dal terzo, sia l’effettiva ricorrenza dello ius in re aliena – il cui titolo doveva essere costituito da atto di data certa anteriore al sequestro – sia la mancanza di ogni forma di collegamento del terzo con l’attività illecita del proposto, derivante da condotte di agevolazione o di fiancheggiamento, ovvero il suo affidamento incolpevole, ingenerato da una situazione di oggettiva apparenza che avesse reso scusabile l’eventuale ignoranza ovvero il difetto di diligenza. 2.2.1. La nuova tutela prevista dal Codice antimafia. – La disciplina contenuta nel Titolo IV, Capi I e II del Codice antimafia – nel positivizzare lo statuto giurisprudenziale di tutela del terzo di buona fede [Cass., S.U., n. 9/1999, Bacherotti], tramite la valorizzazione dei requisiti ai quali la prassi aveva legato la meritevolezza di protezione dei diritti del terzo [PETRINI, 649] – coltiva anch’essa l’obiettivo di contemperare l’esigenza di tutela dei terzi in buona fede con quella di garantire l’effettività degli scopi perseguiti dal sistema di prevenzione; impedendo che il riconoscimento incondizionato della prima a detrimento della seconda possa legittimare comportamenti fraudolenti dei proposti – quali la precostituzione di una serie di creditori di comodo, muniti di titoli aventi data certa – idonei ad aggirare la funzione delle misure reali. In particolare, le disposizioni comprese nel Titolo IV dettano una analitica disciplina dei rapporti tra diritti dei terzi e procedimento di prevenzione, regolando aspetti nevralgici come, ad esempio, il regime delle poste debitorie c.d. preesistenti, quelle, cioè, pendenti al momento dell’esecuzione del sequestro (tema questo che, negli anni, ha alimentato un dibattito vivace e, per certi versi, non del tutto sopito) e la coesistenza tra misure di prevenzione patrimoniali e procedure esecutive e concorsuali. Il Capo I reca le disposizioni generali relative alle condizioni in base alle qua-

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li vengono tutelati i diritti dei terzi; stabilisce il limite della garanzia patrimoniale idonea a soddisfare i creditori; regola i rapporti con le azioni esecutive sui beni oggetto di vincolo di prevenzione, nonché il pagamento dei crediti prededucibili. Il Capo II contiene la disciplina di dettaglio dell’accertamento dei diritti dei terzi, nonché quella dell’attività di progettazione e di pianificazione dei pagamenti in favore dei creditori. Il Capo III, infine, definisce i rapporti tra il sequestro ed il fallimento. 2.3. Le condizioni richieste ex lege. – La norma di apertura delle Disposizioni generali, l’art. 52, individua le tipologie dei diritti dei terzi meritevoli di tutela e fissa le condizioni in presenza delle quali la confisca non incide su di essi. Sotto il primo profilo, la norma opera un’opportuna actio finium regundorum della categoria dei diritti in questione, affermando testualmente che essa comprende tanto i diritti di credito dei terzi che risultano da atti aventi data certa anteriore al sequestro, quanto i diritti reali di garanzia costituiti in epoca anteriore al sequestro, fugando, così, ogni residuo dubbio sulla natura sempre derivativa dell’acquisto che consegue allo Stato dalla confisca di prevenzione [CAIRO, 1230]. A ben vedere, la disposizione, nel descrivere i diritti tutelabili dei terzi, fissa anche un loro preliminare requisito di natura formale, consistente nella certezza della loro priorità cronologica rispetto al sequestro finalizzato alla confisca. Sotto il secondo profilo, invece, l’art. 52 elenca in maniera tassativa le condizioni per le quali a quella categoria di diritti va riconosciuta una tutela adeguata, funzionale a scongiurare che la portata sanzionatoria/afflittiva della confisca si riverberi sulle posizioni giuridiche di soggetti incolpevoli, estranei alla vicenda deviante [CAIRO, 1242]. La prima di tali condizioni si identifica nella preventiva escussione del patrimonio c.d. libero. In sostanza, un problema di bilanciamento tra i diritti dei terzi e l’interesse statuale all’applicazione della confisca di prevenzione può sorgere solo quando il legittimo titolare di un diritto di credito o reale di garanzia abbia previamente proceduto ad escutere la parte di patrimonio del proposto non attinta dalla misura ablatoria e questa sia risultata inidonea a soddisfare il credito. L’art. 52 comma 1 lett. b) subordina la tutelabilità del diritto del terzo alla estraneità di quest’ultimo alle attività illecite del proposto [CAIRO, 1242]. Questa ulteriore condizione, elastico/dinamica [PETRINI, 652], implica, dal suo canto, che si vaglino due aspetti: la natura dell’attività del proposto con cui il terzo sia entrato in contatto; il tipo di nesso che si sia venuto a creare. Si ritiene che la prima vada ricostruita nei termini di un’attività illecita in senso ampio, vale a dire comprensiva di quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego e che il secondo coincida in un nesso di congiunzione anch’esso inteso in senso lato; idoneo, cioè, a recuperare quei tipi di collegamento, materiale e/o giuridico, che abbiano consentito al proposto di beneficiarne in chiave di stru-

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mentalità rispetto al conseguimento degli obiettivi antigiuridici [PETRINI, 653]. Il medesimo articolo 52 si interessa, inoltre, dei diritti dei terzi generati da titoli negoziali c.d. astratti (promesse di pagamento, atti di ricognizione del debito, titoli di credito), richiedendo che la relativa protezione sia subordinata non solo alla rivelazione dello schema causale concreto, tipico o atipico che sia, ma anche alla prova del rapporto strutturale sottostante. In questo modo, si risolvono le incertezze interpretative relative al rapporto con i diritti di godimento, stabilendo che solo la confisca definitiva produce lo scioglimento dei contratti aventi ad oggetto diritti personali di godimento, ovvero l’estinzione di diritti reali di godimento. Infine, il comma 8 della disposizione detta la regolamentazione dei beni in communio pro indiviso. Qui, il trattamento riservato al terzo comproprietario in buona fede del bene, si sostanzia nel riconoscimento di un diritto di prelazione per l’acquisto della quota confiscata. Nel caso di mancato esercizio della prelazione, la quota non confiscata può essere acquisita al patrimonio dello Stato con attribuzione al comproprietario di una indennità corrispondente al valore attuale della quota di proprietà. Si viene, così, delineando una ipotesi di scioglimento coatto della comunione, fondata sull’esigenza di una rapida ed utile destinazione del bene, che, pur incidendo la posizione di un soggetto terzo incolpevole, trova ugualmente un’adeguata copertura costituzionale non sostanziandosi in una misura di carattere sanzionatorio [PETRINI, 655]. In effetti, due sono gli elementi che ne condizionano la struttura: la confisca pro quota e l’omesso esercizio della prelazione. Da loro origina una posizione di discrezionalità amministrativa in favore dello Stato e, specularmente, una di interesse legittimo del privato. Si tratta di una tipica situazione in cui coesistono, a vantaggio del medesimo soggetto, posizioni che godono di forme di tutela differenziate. In primo luogo, viene in rilievo quella piena, tipica del diritto soggettivo, verso i terzi che agiscano iure privatorum, così come verso gli atti, iure imperii, della P.A., che non siano estrinsecazione di discrezionalità amministrativa. Su un secondo versante, affiora la tutela dell’interesse legittimo in relazione all’esercizio dell’acquisizione espropriativa del bene [PETRINI, 655]; potere quest’ultimo privo di carattere sanzionatorio, essendo orientato a soddisfare l’interesse pubblico connesso alla destinazione del bene. 2.4. Il limite della garanzia patrimoniale, il pagamento dei crediti prededucibili, il divieto di azioni esecutive e le altre disposizioni generali. – L’art. 53 – provvedendo a dirimere un altro dubbio interpretativo che si era manifestato nella prassi – introduce il principio secondo cui, relativamente ai crediti anteriori al sequestro, lo Stato risponde, intra vires, in misura parziale e dopo un preventivo riscontro procedimentale. Il credito deve, infatti, essere verificato ai sensi delle disposizioni racchiuse nel Capo II; in caso positivo, viene soddisfatto in misura pari al 60 per cento (come stabilito dalla legge 27.12.2013,

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n. 147, che ha modificato l’originario limite del 70 per cento) del valore dei beni oggetto d’ablazione. La determinazione di quest’ultimo valore è demandata alla stima dell’amministratore giudiziario che – come insegna l’esperienza – può registrare una divaricazione dai valori di mercato della res; di qui la clausola di chiusura che legittima il ricorso al criterio alternativo della minor somma eventualmente ricavata dalla vendita dei beni. L’art. 54 segna, invece, un importante momento di definizione dello statuto dei crediti derivanti dall’attività di amministrazione giudiziaria dei beni del proposto; differenziando la disciplina da quella dei crediti preesistenti [PETRINI, 656], si riconosce ai primi il carattere della prededucibilità e della sottrazione al procedimento di verifica ex artt. 57, 58 e 59. Consegue che essi, purché certi liquidi ed esigibili, possono essere soddisfatti, in tutto o in parte, previa autorizzazione del giudice delegato, al di fuori del piano di riparto predisposto per i crediti preesistenti. L’art. 55 detta – sulla falsariga dell’art. 51 della legge fallimentare – un’interessante disciplina in materia di azioni esecutive del terzo titolare di diritti di garanzia reale sui beni oggetto del procedimento di prevenzione, chiarendo che i beni esecutati sono sottratti all’iniziativa del creditore procedente e sono consegnati all’amministratore giudiziario. La norma stabilisce, dunque, il divieto per il terzo di iniziare o di proseguire azioni esecutive per il soddisfacimento del suo credito o della sua garanzia reale sin dal momento in cui viene disposto il sequestro del bene gravato dalla stessa finalizzato alla confisca di prevenzione. Facendo decorrere il divieto dal sequestro, piuttosto che dalla confisca, questa disposizione ha il merito di scongiurare i conflitti – ben conosciuti dalla prassi – connessi, ad esempio, a situazioni nelle quali il bene confiscato era stato espropriato e venduto su iniziativa del creditore esecutante che aveva promosso e proseguito la relativa procedura nonostante il sequestro di prevenzione [CAIRO, 1250]. Tuttavia, essa appare criticabile laddove nulla dice in merito alle azioni cautelari, menzionate, di converso, nella norma fallimentare, dal momento che ciò potrebbe determinare il riproporsi dei problemi interpretativi che, prima della riforma del 2006, aveva alimentato la lettura del citato art. 51 legge fall. [la giurisprudenza era dell’opinione che il divieto operasse anche in rapporto alle azioni cautelari, Cass., 16.4.1996, n. 3595, in Il Fallimento, 1997, 21]. La stessa norma prevede poi che ove il sequestro riguardi beni oggetto di domande giudiziali in precedenza trascritte, concernenti il diritto di proprietà, diritti reali o personali di godimento sul bene, il terzo, che sia parte del giudizio, è chiamato ad intervenire nel procedimento di prevenzione ai sensi degli artt. 23 e 57. All’esito del sequestro, quindi, la procedura espropriativa entra in una fase di quiescenza e va sospesa; essa può essere riassunta in caso di revoca della misura, mentre si estingue con la definitività della confisca. Anche la disciplina dei rapporti pendenti è stata innovata [PETRINI, 656]. La scelta di regolare, analogamente alla direzione seguita dalla legge fallimentare, la sorte dei contratti in essere fa chiarezza intorno ad un punto controverso dell’amministrazione giudiziaria. Con essa si dotano il G.D. e l’ausiliario della pro-

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cedura di uno strumento normativo destinato a guidarne le decisioni, fugando i dubbi sul potere di risolvere unilateralmente determinati contratti, ovvero di succedere nella loro esecuzione. L’art. 56 prevede, inoltre, che l’attuazione dei contratti ineseguiti, ovvero non compiutamente eseguiti all’atto del sequestro, resti sospesa fino alla dichiarazione dell’amministratore giudiziario, autorizzato dal giudice delegato, di voler subentrare in luogo del proposto; diversamente, i contratti sono risolti. Allorché, tuttavia, la sospensione possa provocare un danno grave al bene o all’azienda, il giudice delegato può autorizzare, entro trenta giorni dall’esecuzione del sequestro, la provvisoria attuazione dei contratti. Di particolare rilievo pratico è il disposto del comma 5 dell’art. 56, che, nella ipotesi di scioglimento, riconosce al credito vantato dall’acquirente per effetto di contratto preliminare di vendita immobiliare (trascritto ai sensi dell’art. 2645bis c.c.), il privilegio stabilito dall’art. 2775-bis c.c., a condizione, ben vero, che gli effetti della trascrizione non siano cessati in data anteriore al sequestro. 2.5. L’accertamento dei diritti dei terzi. – Il Capo II (artt. 57 ss.) disciplina il procedimento di verificazione dei crediti. Si è, qui, al cospetto di un iter subprocedimentale che ha veste assolutamente nuova: si tratta di un modello costruito in funzione della verifica delle diverse posizioni giuridiche soggettive che presentano collegamento con i beni attinti dal sequestro. Come si è già detto, sono esclusi da questo procedimento di verificazione unicamente i crediti successivi al sequestro contratti durante l’amministrazione giudiziaria, essendo la loro disciplina rimessa alla regolamentazione del menzionato art. 54, che gli riconosce carattere di prededucibilità; tutti quelli preesistenti vi sottostanno. Ciò comporta che per questi ultimi l’autorizzazione al relativo pagamento non potrà essere concessa in difetto dell’esaurimento della procedura in esame. L’art. 58, concepito come norma strumentale al divieto di azioni esecutive individuali nel concorso della misura patrimoniale di prevenzione, ricalca il procedimento delineato dagli artt. 93 ss. della legge fallimentare ed attribuisce la competenza al G.D. della misura di prevenzione cui spetta anche, in via obbligatoria ed esclusiva, la cognizione della verifica dei crediti. Si tratta di una devoluzione che non radica un tema di competenza in senso stretto, in quanto definisce un mero profilo di specialità del rito. Il che, per un verso, rende inammissibile la proposizione di questioni di competenza; per l’altro, preclude l’esercizio di autonome azioni di accertamento del credito innanzi al giudice civile, secondo le regole ordinarie. È dubbia la posizione che, nell’ambito del procedimento di verifica dei crediti, debba assumere il terzo titolare di un rapporto contrattuale da cui derivi un diritto di credito verso il proposto. Più precisamente, la formula normativa non chiarisce se il terzo sia tenuto all’istanza di verificazione del credito, in fase di esecuzione della misura, nei casi in cui l’amministratore giudiziario non abbia

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dichiarato se intenda o meno subentrare nel contratto. Una lettura sistematica del quadro normativo lascia propendere per la soluzione affermativa. Inoltre, è possibile depositare domande tardive, tali dovendosi considerare quelle depositate oltre il termine di novanta giorni fissato dal giudice. Esse vanno esaminate in apposite udienze innanzi al G.D., che vanno fissate, salvo ragioni d’urgenza, ogni semestre. Il presupposto di ammissibilità della domanda tardiva è la non imputabilità del ritardo al creditore istante (nozione ricavata dall’art. 101 legge fall.). È previsto, poi, un termine finale di decadenza (un anno dalla definitività della confisca), che assorbe anche l’eventuale non imputabilità del ritardo. Il procedimento di verifica dei crediti riproduce la scansione del modello relativo all’accertamento dei crediti ammessi allo stato passivo nella procedura fallimentare. Per la sola Agenzia nazionale è prevista la possibilità di depositare documenti, ma – nonostante il silenzio della norma – non sembra legittimo escludere che anche le altre parti possano fruire della medesima facoltà, con benefici effetti in chiave di economia processuale posto che lo spazio concesso alle integrazioni documentali ridurrebbe le impugnazioni dello stato passivo. I crediti ammessi devono essere indicati distintamente, con specificazione delle cause di prelazione. Il provvedimento di rigetto ne deve esporre sommariamente i motivi. Lo stato passivo è reso esecutivo con decreto depositato in cancelleria e comunicato all’Agenzia. Del deposito l’amministratore giudiziario dà notizia agli interessati non presenti. Il provvedimento, di ammissione o di esclusione, reso all’esito della verifica del credito, ha natura di atto d’accertamento con effetto relativo. In altri termini quella statuizione regolamenta la sorte del rapporto creditorio tra titolare ed Erario ed è opponibile solo tra costoro. V’è parziale asimmetria rispetto all’omologa previsione dell’art. 96 comma 5 legge fall. che sancisce l’effetto preclusivo rispetto ad ogni giudizio promosso, circa l’esistenza, la validità e l’efficacia del titolo da cui ha origine la pretesa ammessa [Cass., S.U., 14.7.2010, n. 16508, in Il Fallimento, 2010, 1133]. Di converso, l’art. 59 comma 4 Codice antimafia riserva ai provvedimenti di ammissione o esclusione dei crediti effetti nei soli confronti dell’Erario. La previsione si collega al disposto dell’art. 58 comma 4 secondo cui la domanda di verificazione del credito non interrompe la prescrizione, né impedisce la maturazione di termini di decadenza nel rapporto tra creditore e proposto o terzo intestatario dei beni. Desta perplessità la scelta normativa, soprattutto per la considerazione che la domanda di verificazione del credito genera formalmente un’istanza di pagamento della posta di debito. I creditori esclusi possono proporre opposizione contro la decisione entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito, anche nei confronti degli altri crediti ammessi. L’udienza di trattazione delle opposizioni è unitaria e va comunicata dall’amministratore giudiziario agli interessati.

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Il diritto alla prova è pieno secondo quanto previsto dal comma 8. La decisione è affidata ad un decreto emesso decorsi sessanta giorni dal termine perentorio fissato dal tribunale, entro il quale le parti possono depositare memorie. Del collegio decidente, in ossequio ai principi ricavati dall’art. 111 Cost. e dalla materia fallimentare, non dovrebbe far parte il giudice che ha proceduto alla verifica dei crediti. Il decreto è ricorribile per Cassazione nel termine di trenta giorni dalla sua notificazione. È previsto, inoltre, che anche dopo la confisca definitiva possono essere presentate domande di ammissione del credito ai sensi dell’art. 57, naturalmente entro il termine di un anno dalla definitività del decreto ablativo. Il procedimento giurisdizionale per la verifica ed il riparto dei crediti prosegue dianzi al tribunale che ha applicato la misura di prevenzione. La fase distributiva in senso stretto della procedura trova disciplina nell’art. 61, che riprende, in definitiva, l’archetipo fallimentare tracciando un sistema che prevede la formazione di un progetto di pagamento dei crediti, ad opera dell’amministratore giudiziario, l’intervento del giudice delegato per le eventuali modifiche e la definitiva formazione del piano all’esito delle osservazioni sulla collocazione e graduazione dei crediti. È, ancora, prevista la possibilità di impugnazione dinanzi al tribunale, entro dieci giorni dalla comunicazione del piano di pagamento; la legittimazione è dei creditori e la disciplina è quella degli artt. 59 commi 6, 7, 8 e 9. 3. L’accertamento della buona fede del terzo. Sicuramente, uno dei passaggi cruciali dell’articolato procedimento ora descritto è quello inerente alla verifica della buona fede del terzo, costituendo quest’ultima il discrimen per il riconoscimento o per il diniego della tutela invocata dai terzi [CAIRO, 1247]. La delicatezza del requisito sta nel fatto che esso non scaturisce da un controllo estrinseco e formale del diritto di credito, ma rinvia alla prova della estraneità effettiva del terzo all’attività delittuosa del debitore. Per tale ragione, parte della dottrina ha ritenuto che, così, si rischia di alterare la ratio che presidia la tutela dei creditori (ancorata al rispetto dei diritti di prelazione e della par condicio), rischiando di sovvertire l’ordine dei privilegi e limitando, in definitiva, la protezione ai soli creditori ritenuti dall’amministratore giudiziario e dal giudice penale in “buona fede” [BUONGIORNO, 26]. In effetti, la genericità del requisito in esame ha finito per rimettere alla giurisprudenza il compito di concretizzarlo, esplicitando i parametri da cui sia desumibile la buona fede del terzo. Nella già citata sentenza in tema di confisca disposta a seguito di condanna per usura, le Sezioni Unite penali della Cassazione hanno stabilito che non è in buona fede il terzo che abbia «oggettivamente tratto vantaggio dall’altrui attività criminosa», precisando che incombe su costui l’onere della prova [Cass. pen., S.U., 8.6.1999, Bacherotti, cit.; in dottrina: MAUGERI, 395 ss., afferma che «ai fini della valutazione della buona fede si attribuisce

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rilievo anche ad atteggiamenti colposi del terzo, imponendo ai cittadini una sorta di obbligo generale di diligenza nello svolgimento degli affari, in linea con la previsione nell’ordinamento penale italiano della fattispecie dell’incauto acquisto»]. Nel tentativo di circoscrivere il concetto di buona fede, è stato osservato [FILIPPI, 519] che il suo significato soggettivo, tratto dalla regola di cui all’art. 1147 c.c., può vanificare i profili di effettività della prevenzione reale, per l’opportunità che si offre al mafioso di precostituire agevolmente diritti di credito fittizi, anche, in ipotesi, assistiti da privilegio e, tuttavia, sostanzialmente incontrollabili [CAIRO, 1247]. Viene rimarcato, però, che la presunzione declinata dall’art. 1147 c.c. opera in materia di proprietà e, più in generale, di diritti reali di godimento, laddove in ambito negoziale il criterio della buona fede implicherebbe spesso una valutazione oggettiva, non rinviando – diversamente da quanto vale a strutturare la buona fede in senso soggettivo ex art. 1147 c.c. – agli stati soggettivi o psicologici del soggetto ignaro di ledere il diritto altrui [CASSANO, 345 ss.; sembra esprima un ordine di idee sensibilmente diverso: MAUGERI, 395 ss. secondo cui «l’unico aspetto problematico della pronuncia del 1999 è dato dal fatto che s’inverte l’onere della prova della buona fede a carico del terzo, come già esaminato nell’ordinamento americano. Tale inversione assume una particolare problematicità laddove si riflette sulla considerazione che essa si applica nei confronti di terzi (estranei alla valutazione di pericolosità sociale, in quanto non indiziati dei reati presupposti)». Ritiene applicabile la presunzione di cui all’art. 1147 c.c., da ultimo, anche FILIPPI, 519]. Le difficoltà si appuntano sulla possibilità di condividere un’accezione soggettiva del criterio della buona fede, che restringe l’area dei soggetti tutelabili, cancellando coloro che, pure estranei all’attività illecita, siano, comunque, consapevoli della stessa, come, ad esempio, i lavoratori dipendenti dell’imprenditore mafioso [CAIRO, 1247]. A tale proposito, le Sezioni Unite, nella menzionata pronuncia, evocano i concetti di partecipazione e di collegamento necessario od occasionale tra l’attività negoziale e l’illiceità d’impresa (intesa questa come orientamento complessivo dell’attività d’impresa). Tale criterio consentirebbe la tutela dei terzi tutte le volte in cui l’atto – da cui il credito tragga genesi – pur essendo stipulato nella consapevolezza della mafiosità dell’interlocutore contrattuale, non sia ancillare o strumentale all’attività illecita, ovvero non esplichi un contributo di agevolazione obiettivo alla stessa, ma rientri nell’ordinario svolgimento dei rapporti economici e contrattuali [CASSANO, 359, ove si precisa pure «che l’inscentia o la estraneità dell’atto negoziale all’attività illecita debbono essere costruite come elementi costitutivi della fattispecie, la cui prova deve gravare su chi invoca tutela»]. Un criterio, del resto, a cui aveva già fatto riferimento la Corte costituzionale, allorquando, in rapporto alla confisca ex art. 3-quinquies legge n. 575/1965, aveva affievolito la posizione giuridica del terzo, affermando che costui, nel momento in cui avesse posto in essere un’attività agevolatrice del fenomeno criminale, non poteva essere considerato estraneo od inconsapevole della gestione del patrimonio mafioso [C. cost., 20.11.1995, n. 487, cit.]. In applicazione di questi principi, la giurisprudenza ha chiarito che in tema

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di confisca ex art. 2-ter legge n. 575/1965, sussiste «a carico del terzo, titolare di un diritto reale di garanzia sul bene oggetto del provvedimento di confisca di prevenzione, l’onere di dimostrare di avere positivamente adempiuto con diligenza agli obblighi di informazione e di accertamento e quindi di avere fatto affidamento “incolpevole” ingenerato da una situazione di oggettiva apparenza relativamente alla effettiva posizione del soggetto nei cui confronti si acquisisce il diritto di garanzia» [Cass., sez. V, 18.3.2009, n. 15328; Cass., sez. I, 14.1.2009, n. 2501, che richiama il concetto di affidamento incolpevole ingenerato da una situazione di oggettiva apparenza che rende scusabile l’ignoranza o il difetto di diligenza; si segnala, altresì, Cass., sez. I, 13.11.2008, n. 43715 Cc. (dep. 21.11. 2008), Rv. 242212, che valorizza il criterio della mancanza di qualsiasi collegamento del proprio diritto con l’attività illecita del proposto indiziato di mafia, derivante da condotte di agevolazione o, addirittura, di fiancheggiamento]. In dottrina [BRIZZI, CAPECCHI, FICHERA, 175] è stato, da ultimo, ritenuto che alcuni fenomeni relazionali possano assurgere ad indici univoci di potenziale mala fede del terzo. Su queste basi, è stato elaborato un catalogo esemplificativo di realtà c.d. sintomatiche, tra le quali si annoverano: il concorso criminoso, che indicherebbe la tendenziale contiguità delle vicende patrimoniali tra proposto e concorrente in uno o più delitti pregressi; l’appartenenza a medesimi gruppi (terroristici, logge segrete o strutture collegate) che dia conto dell’esistenza di relazioni di solidarietà e di condivisione di favori e di convenienze; il concorso esterno in associazioni criminose; l’intestazione fraudolenta ex art. 12 quinquies legge n. 356/1992; le relazioni personali informali; gli acquisti fiduciari; la condizione di riconoscenza (da intendere come qualsiasi forma di relazione retributivo-economica, lecita o illecita, attuata sapendo l’influenza del soggetto con cui si interloquisce); la condizione di soggezione (che accomuna la posizione di chi risulti persona offesa da reato e quanti sono ricattabili per aver conseguito pregressi vantaggi); la commistione di interessi (fenomeni in cui i patrimoni e le strategie di gestione del proposto e dei terzi siano in collegamento necessario); la commistione patrimoniale in senso stretto o pecuniaria (fenomeni di immissione di capitale o di altri beni con vantaggi economici unitari e non più scindibili); gli acquisti fraudolenti consapevoli; le condizione di cd. non estraneità (categoria elastica ed aperta, suscettibile di recuperare tutte le situazioni che rivelino ipotesi di cooperazione, da cui il gruppo criminale o il soggetto tragga beneficio); la condizione di colpevolezza. -

4.

La tutela dei terzi rispetto a misure di prevenzione patrimoniali disposte prima dell’entrata in vigore del Codice antimafia.

La disciplina sin qui esaminata del Codice antimafia non trova applicazione nei casi di confische e di sequestri di prevenzione disposti prima della sua entrata in vigore – vale a dire prima del 13 ottobre 2011 – dal momento che le dispo-

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sizioni del d.lgs. n. 159/2011 operano in relazione alle misure di prevenzione disposte dopo tale data. Allo scopo di chiarire la disciplina transitoria applicabile alle situazioni pendenti si è reso necessario l’intervento del legislatore, prima, e delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, poi. Con l’art. 1 commi 194-205 della legge 24 dicembre 2012, n. 228, il legislatore ha inteso operare un tentativo di armonizzazione tra il quadro normativo previgente (legge n. 575/65) e lo statuto di tutela dei creditori positivizzato nel Codice antimafia, stabilendo che «a decorrere dall’entrata in vigore della presente legge sui beni confiscati all’esito del procedimento di prevenzione per i quali non si applica la disciplina dettata dal libro I del decreto legislativo 6 settembre 2011 n. 159, non possono essere iniziate o proseguite, a pena di nullità, azioni esecutive». Successivamente, alcune decisioni delle Sezioni Unite civili [Cass., S.U., 7.5.2013, n. 10532, 10533 e 10534] – originate da azioni promosse da creditori ipotecari che avevano pignorato immobili attinti da misure di prevenzione ex legge 31.5.1965, n. 575, prima della fine del procedimento di esecuzione – hanno ridefinito in termini asimmetrici questo procedimento di allineamento tra le due situazioni analoghe ante e post riforma, tenendo conto delle innovazioni contenute nell’art. 1 commi 194-205 della legge 24.12.2012, n. 228 e, in particolare, del riferimento ivi contenuto alla sola confisca, e non anche al sequestro. Alla luce di questi arresti giurisprudenziali, la tutela dei terzi rispetto a provvedimenti ablatori disposti prima dell’entrata in vigore della legge n. 228/2012 risulta in parte differente rispetto a quella contenuta nel Codice antimafia e sembra seguire plurimi regimi, differenziati dal fatto che sia stata disposto il solo sequestro oppure anche la confisca e, in quest’ultima evenienza, che sia stata o meno effettuata l’aggiudicazione, anche provvisoria, del bene. Nel caso in cui, alla data del 1 gennaio 2013, i beni siano stati confiscati ma non aggiudicati, spiega efficacia la regola generale già sancita per le nuove confische nell’art. 55 del Codice antimafia, secondo cui nessuna azione esecutiva può essere iniziata o proseguita da parte del titolare dell’ipoteca ed i pesi e gli oneri iscritti o trascritti sugli stessi anteriormente alla confisca si estinguono. In questa ipotesi, i creditori ipotecari o pignoranti, ovvero quelli intervenuti nell’esecuzione, potranno far valere le proprie ragioni nei confronti dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. La forma di tutela prescelta è condizionata dall’anteriorità dell’iscrizione ipotecaria, dalla trascrizione del pignoramento o dell’intervento nel processo esecutivo rispetto alla trascrizione del sequestro di prevenzione sul bene. I medesimi creditori sono onerati, a pena di decadenza, di presentare un’istanza entro il termine perentorio del 30 giugno 2013. L’istanza è presentata al «giudice dell’esecuzione presso il tribunale che ha disposto la confisca». L’Agenzia predispone il piano di pagamento dei creditori ammessi e procede ai pagamenti, che non potranno eccedere la minor somma tra il ricavato della vendita e il 70% del valore del bene. Contro il piano di riparto è ammessa

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opposizione ai sensi dell’art. 737 c.p.c. ed il tribunale provvede in composizione monocratica con decreto reclamabile. Nella diversa ipotesi in cui, invece, alla data del 1 gennaio 2013 sia già avvenuta anche l’aggiudicazione o il trasferimento dei beni confiscati ne restano fermi gli effetti e l’esecuzione, in definitiva, prevale sulla misura di prevenzione. Là dove, infine, alla data del 1 gennaio 2013 i beni non siano stati confiscati, si applicherà la disciplina già descritta per i beni confiscati (alla data del 1 gennaio 2013) ma non ancora aggiudicati. Con la conseguenza che i soggetti che reclamino tutela per i loro diritti eventualmente compressi saranno tenuti a presentare istanza al giudice dell’esecuzione (rappresentato dal Tribunale delle misure di prevenzione), con l’unica particolarità che consiste nel dies di decorrenza del termine dei 180 giorni, individuato nella data in cui la pronuncia di confisca diviene definitiva. Tuttavia, a differenza di quanto statuito espressamente nell’art. 55 del Codice antimafia, il divieto di proseguire o iniziare azioni esecutive per i terzi titolari di diritti coinvolti da un misura ablativa, secondo le Sezioni Unite, si applica esclusivamente ai beni confiscati, e non a quelli sequestrati, dal momento che il menzionato art. 1 comma 194 della legge n. 228/2012, limita espressamente a tali beni il suddetto divieto («a decorrere dall’entrata in vigore della presente legge, sui beni confiscati all’esito dei procedimenti di prevenzione […] non possono essere iniziate o proseguite, a pena di nullità, azioni esecutive»). Questa soluzione, sebbene imperniata sul raffronto con il tenore letterale dell’art. 55 che contempla anche il sequestro e sul condivisibile principio ubi voluit dixit, ubi noluit tacquit, rischia però di creare nella disciplina transitoria prevista per questo tipo di situazioni un pericoloso vuoto, capace di frustrare le aspirazioni statali alla intercettazione dei patrimoni illeciti accumulati dalle consorterie mafiose. Non è infatti escluso che facendo leva su tale lacuna si inizino e si portino a compimento, con finalità elusive, azioni esecutive su beni oggetto di sequestro finalizzato alla confisca di prevenzione da parte di creditori fittizi titolari di garanzie reali artatamente costituite (di comune accordo con il proposto) proprio allo scopo di evitare che il bene sia acquisito dallo Stato con la confisca di prevenzione. Più in generale, le Sezioni Unite, applicando lo ius superveniens (costituito dall’art. 1 commi da 189 a 205 della legge 24.12.2012, n. 228, c.d. Legge di Stabilità 2013) in maniera letterale, senza estenderlo quindi anche al sequestro, hanno enunciato il seguente principio di diritto: «nel conflitto tra l’interesse del creditore a soddisfarsi sull’immobile ipotecato e quello dello Stato a confiscare i beni, che siano frutto o provento di attività mafiosa, deve prevalere il secondo, onde è inopponibile allo Stato l’ipoteca iscritta su di un bene immobile confiscato, ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, prima che ne sia stata pronunciata l’aggiudicazione nel procedimento di espropriazione forzata». «L’acquisto del bene confiscato da parte dello Stato, a seguito dell’estinzione di diritto dei pesi e degli oneri iscritti o trascritti prima della misura di prevenzione della confisca, è così non a titolo derivativo, ma libero dai pesi e dagli oneri, pur iscritti o trascritti anteriormente alla misura di prevenzione». Secondo le Sezioni Unite, difatti, la misu-

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ra di prevenzione deve essere reputata una causa atipica di estinzione dell’ipoteca, che si aggiunge a quelle disciplinate dall’art. 2878 c.c. L’ulteriore esito di questo ragionamento è quello di produrre il mutamento del contenuto delle pretese del terzo indirettamente attinto dalla misura di prevenzione. Come espressamente precisato dalle Sezioni Unite, infatti, «il titolare del diritto reale di godimento o di garanzia è ammesso, ora, ad una tutela di tipo risarcitorio e la competenza è attribuita al tribunale che ha disposto la confisca». Nondimeno, pur cambiando l’oggetto delle pretese del terzo, continuano a vigere le stringenti condizioni fissate per poterle garantire rispetto al provvedimento ablatorio. «L’ammissione del credito, di natura concorsuale, difatti, è subordinata alla condizione di cui all’art. 52, comma 1, lett. g, del d.lgs. n. 159 del 2001, vale a dire che il credito non sia strumentale all’attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, a meno che il creditore dimostri di avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità. Al creditore è addossato l’onere di provare la ricorrenza delle condizioni per l’ammissione al passivo del suo credito e, quindi, la sua buona fede e il suo affidamento incolpevole. Il diniego di ammissione al credito è impugnabile ex art. 666 cod. proc. pen. Competente a conoscere delle opposizioni – proposte dai creditori concorrenti – al piano di riparto proposto dall’Agenzia Nazionale è il giudice civile del luogo dove ha sede il tribunale che ha disposto la confisca» [Cass., S.U., cit.]. Questa decisione, a ben vedere, si trova in sintonia con un’altra pronuncia della Suprema Corte [Cass., sez, III, 17.9.2013, n. 22814] relativa alla questione analoga del rapporto tra le pretese del terzo creditore ipotecario e la confisca disposta ex art. 12-sexies d.l. n. 306/1992, nel processo penale. Anche in quella sede, difatti, è stato affermato il principio della prevalenza delle esigenze pubblicistiche penali sulle ragioni del creditore garantito del soggetto colpito dalle misure di sicurezza patrimoniali, salvo quando sia già avvenuto a suo favore il trasferimento del bene oggetto dell’ipoteca prima della confisca. Essa non è andata esente da critiche, in quanto è stato obiettato che finisce per aprire un pericoloso vulnus nell’impianto normativo posto a tutela delle pretese statali nei procedimenti di prevenzione, non estendendo il divieto di azioni esecutive anche ai beni sottoposti a sequestro di prevenzione. Proprio per far fronte a un simile possibile esito e per consentire di rendere operativo il suddetto limite anche nei confronti dei beni sequestrati, e non solo di quelli confiscati, è stato osservato che il mancato riferimento letterale nel comma 194 dell’art. 1 della legge n. 228 a tali beni deve considerarsi «un mero difetto di coordinamento in cui è incorso il legislatore (…). Una lettura sistematica del comma 194 in uno con i commi successivi, unitamente ai principi più volte richiamati e affermati nella stessa sentenza delle Sezioni Unite, porterebbero a ritenere che l’inibitoria di azioni esecutive di cui al comma 194 non possa che riguardare sia i beni confiscati, in via definitiva e non, che i beni sequestrati nell’ambito di una procedura di prevenzione, con l’unica eccezione di cui al comma 195 della legge n. 228 del 2012» [TASSONE, 1], vale a dire quando il bene, prima dell’entrata in

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vigore della legge, è già stato trasferito o aggiudicato in via provvisoria, ovvero quando è costituito da una quota indivisa già pignorata. 5. Rapporti tra misure di prevenzione e fallimento. 5.1. L’assetto precedente il d.lgs. n. 159/2011. – Anche il rapporto tra la misura patrimoniale di prevenzione ed il fallimento ha ricevuto nuova ed analitica disciplina nel Codice antimafia a seguito del d.lgs. n. 159/2011. Prima di questo intervento normativo, sull’argomento si erano invece sviluppate posizioni contrastanti, riconducibili a due orientamenti di fondo divergenti, ispirati da pre-comprensioni analoghe a quelle evidenziate in materia di diritti dei terzi nei § 2 e ss. di questo capitolo. Un primo attribuiva, infatti, prevalenza alle ragioni della procedura fallimentare e, quindi, anche agli interessi della massa dei creditori. Un secondo, al contrario, riconosceva rango potiore alla pretesa statuale, attuata attraverso il provvedimento di confisca, e considerava, pertanto, recessivo il modello privatistico. Ciò posto, va ricordato che nella seconda metà degli anni Ottanta la Suprema Corte nelle prime decisioni su tale punto [Cass., sez. I, 14.2.1987, Nicoletti, in Cass. pen., 1989, 463, n. 467] ha reputato recessiva la posizione dei creditori rispetto a quella dello Stato, considerando prioritaria la necessità di assicurare effettività al sistema antimafia e, dunque, impossibile sottrarre i beni compresi nel fallimento alla procedura di prevenzione. Tale decisione postulava un difetto di legittimazione ad intervenire nel procedimento di cui all’art. 2-ter comma 5 legge n. 575/1965, non essendo la massa dei creditori titolare dei beni del fallito e vantando, di contro, un semplice diritto di credito, sia esso a carattere chirografario o privilegiato. In ogni caso, era fatta salva la possibilità di far valere eventuali pretese attraverso l’incidente di esecuzione. La giurisprudenza di merito aveva, d’altro canto, assunto atteggiamento non diverso [Trib. Roma, decreto 25.3.1985, Pazienza, in Giur. it., II, 1985, 397. Critico sul punto, GAITO, 397, il quale escludeva che i beni del fallito, intervenuta la procedura concorsuale, potessero, ancora, ritenersi nella disponibilità del proposto e, dunque, legittimare un intervento patrimoniale di prevenzione]. Anche la dottrina, dal canto suo, si è divisa tra coloro i quali attribuivano prevalenza al sequestro antimafia e coloro che ritenevano prevalente il fallimento. In particolare, alcuni [MONTELEONE, 574] hanno posto l’attenzione sulla circostanza che i creditori fittizi avrebbero potuto neutralizzare le misure di prevenzione patrimoniali, con la conseguenza che un conflitto tra lo ius puniendi statuale e l’esigenza di salvaguardia dei diritti dei creditori, non poteva che vedere recessiva la categoria da ultimo citata, in favore degli interessi primari di natura penale. Si è poi evidenziata [NAPOLEONI, 465], a favore della prevalenza del sequestro antimafia, la finalità del sequestro e la necessità di escludere la possibilità che il fallito possa ritornare nella disponibilità dei beni che dovessero residuare all’esito della procedura concorsuale [MAISANO, 889].

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Non sono, comunque, mancate, sin dai primi commenti, voci minoritarie discordi [LO CASCIO, 437 ss.], evidenziandosi come l’art. 2-ter comma 2 legge n. 575/1965 postulava, tra i presupposti strutturali, il requisito della disponibilità dei beni, condizione non ricorrente all’indomani della declaratoria fallimentare, che, per definizione, priva il fallito proprio di tale prerogativa. Tuttavia, in tempi più recenti, sembrava essere divenuta decisamente prevalente la tesi che accordava prevalenza alle esigenze pubblico-statali della prevenzione patrimoniale antimafia [Cass., sez. I, 20.10.1997, Cifuni, in Cass. pen., 1998, 2119. n. 1228; da ultimo cfr. Cass., sez I, 7.4.2010, n. 16783, la quale ha ribadito che la “res” oggetto della misura ablativa, trovando la sua genesi in un’attività illecita, è considerata pericolosa in base a una presunzione assoluta e deve, pertanto, essere definitivamente acquisita al patrimonio dello Stato, non potendo essere rimessa in circolazione nell’ambito della procedura fallimentare; impostazione non dissimile ha assunto Cass., 22.3.2011, n. 16797, secondo cui la procedura di prevenzione patrimoniale diretta alla confisca dei beni prevale su quella fallimentare, sia quando il fallimento sia stato dichiarato prima del sequestro preventivo, sia quando sia stato dichiarato successivamente, dovendo essere privilegiato l’interesse pubblico perseguito dalla normativa antimafia rispetto all’interesse meramente privatistico della “par condicio creditorum” perseguito dalla normativa fallimentare]. Come ulteriore conseguenza di questo “bilanciamento” effettuato sul piano sostanziale, si è assistito sul piano processuale all’estromissione del curatore fallimentare dal novero dei soggetti da convocare all’udienza camerale, non versandosi nella categoria dell’appartenenza a terzi dei beni, secondo il disposto di cui all’art. 2-ter legge n. 575/1965. Le premesse logiche poste hanno, del resto, indotto la Suprema Corte [Cass., sez. I, 30.9.1997, Nicoletti, in Cass. pen., 1998, 3097, n. 1688; Cass., 23.3.1998, Commisso, in Arch. n. proc. pen., 1998, 171] a spingere ulteriormente il ragionamento avviato e ad affermare che, in presenza di un sequestro ex lege n. 575/1965, la dichiarazione di fallimento postuma non avrebbe escluso l’amministrazione in capo all’ausiliario nominato dal Tribunale di prevenzione, di guisa che il curatore fallimentare avrebbe avuto un mero potere di ricognizione sui beni ed un dovere di astensione dall’interferire nell’attività del tribunale di prevenzione [C. FORTE, 54 ss.]. Ed ancora, modi e forme di tutela della massa creditoria risultano tradizionalmente limitate alla proposizione dell’incidente in executivis, a mezzo del curatore fallimentare, unico soggetto a ciò legittimato ed in capo al quale si appunterebbe l’onere di dimostrare la legittima provenienza del bene che, in ipotesi, lo stesso organo avesse preteso di sottrarre all’ablazione in favore dello Stato [Cass., sez. I, 23.3.1998, Commisso, in Arch. n. proc. pen., 1998, 171; Cass., sez. I, 16.4.1996, Biron in Cass. pen., 1997, 849, n. 544; Cass., sez I, 2.5.2006, n. 18955 (ord.), in CED 2006/234177; contra, Cass., sez I, 7.4.2010, n. 16783, che esclude il diritto di intervenire in procedura ed afferma quello di opporre il provvedimento con incidente di esecuzione]. Nondimeno, non è mancata la voce di chi [CELENTANO, 505 ss.] ha ipotizza-

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to di costruire i rapporti tra la misura di prevenzione ed il fallimento, affidando ad un criterio di successione temporale la regola di prevalenza dell’una o dell’altra procedura. L’idea era stata già giudicata inappagante da chi [MAISANO, 889] ha ritenuto inammissibile il criterio della anteriorità cronologica, emergendo misure non omogenee, sul piano dei presupposti, degli scopi e degli effetti. Altro orientamento [MOLINARI, 748] non ha, invece, esitato ad affermare che sarebbe indifferente ed inutile distinguere, cronologicamente, la data di esecuzione del sequestro e di declaratoria del fallimento, sempre che, attinta dal sequestro, risulti l’intera azienda. Là dove, di contro, la misura abbia inciso solo le azioni ovvero le quote di partecipazione del proposto alla compagine sociale è pacifico che l’amministratore giudiziario subentri nella posizione del socio e/o dell’azionista e di costui eserciti ogni diritto e potere. Deriva, secondo tale impostazione che in questa ipotesi il fallimento dovrebbe avere la prevalenza, potendosi lo Stato rivalere per la confisca solo sul residuo della liquidazione, all’esito della procedura concorsuale [per approfondimenti, MOLINARI, 748]. 5.2. Le innovazioni del d.lgs. n. 159/2011: profili generali. – Come si è detto in precedenza, il Codice antimafia detta finalmente nel Libro I, Titolo IV, Capo III una disciplina specifica sul tema dei rapporti tra i diritti dei terzi ed il procedimento di prevenzione [C. FORTE, 54 ss.], applicabile per le sole proposte depositate successivamente al 13 ottobre 2011. In particolare, il Capo III interviene sulla questione del rapporto tra la misura di prevenzione ed il fallimento dell’imprenditore, distinguendo due ipotesi. La prima è quella in cui la dichiarazione di fallimento segue il sequestro già disposto su alcuni o su tutti i beni dell’imprenditore. La seconda è quella in cui la procedura concorsuale precede il vincolo di prevenzione. Nella prima eventualità è legittimato a chiedere il fallimento anche il pubblico ministero. La domanda può essere svolta in tutti i casi in cui emerga, dalle indicazioni dell’amministratore giudiziario, che gestisce l’azienda sequestrata, la sussistenza di uno stato di insolvenza [CAIRO, 1265]. Al pubblico ministero è, ancora, espressamente conferita legittimazione a chiedere al tribunale competente l’emissione del provvedimento di cui all’art. 195 della legge fallimentare ove l’azienda sequestrata riguardi soggetto sottoposto a liquidazione coatta amministrativa, con esclusione del fallimento. In entrambe le ipotesi opera il principio, indicato dal legislatore delegante, di sottrazione alla massa fallimentare dei beni sottoposti all’intervento di prevenzione. L’obiettivo trova attuazione attraverso un duplice meccanismo che tiene conto delle cadenze temporali in cui intervengono le diverse procedure. In caso di dichiarazione di fallimento successiva al sequestro o alla confisca, lo spossessamento dell’imprenditore-proposto è escluso per i beni già sottoposti alla gestione dell’amministratore giudiziario [C. FORTE, 54 ss.]. Là dove, di converso, la dichiarazione di fallimento preceda l’applicazione della misura di prevenzione su beni dell’imprenditore insolvente, l’ufficio falli-

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mentare è chiamato ad eseguire una operazione di separazione dei beni già acquisiti alla massa per la consegna all’amministratore giudiziario di quelli attinti dal sequestro di prevenzione [CAIRO, 1265]. Nelle ipotesi in cui la massa fallimentare sia costituita esclusivamente da beni sottoposti a sequestro (o confisca), si è ritenuto superfluo mantenere aperte entrambe le procedure, contemplandosi un’ipotesi di chiusura ex lege del fallimento [CAIRO, 1265]. Al solo giudice della prevenzione è riservato l’accertamento del passivo, non ancora verificato, e la formazione del progetto di riparto tra i creditori insinuati che intendono soddisfarsi sui beni oggetto di misura di prevenzione, con applicazione delle disposizioni di cui al Capo II. Al di fuori dell’ipotesi di chiusura del fallimento, è stata, altresì, definita la disciplina dell’accertamento del passivo. Le operazioni sono riservate al giudice delegato al fallimento sopravvenuto. L’accertamento dei crediti insinuati al passivo va operato anche alla luce dei criteri e delle condizioni previste dalle disposizioni in materia di prevenzione, a tutela dei diritti dei terzi di buona fede [CAIRO, 1265]. Ciò significa, in definitiva, attribuire al giudice delegato al fallimento, successivo al sequestro, una doppia funzione: il compito di accertare, secondo lo statuto fallimentare, la concorsualità del credito in uno alla sua documentata sussistenza, nonché di verificare (esercitando funzioni proprie del giudice della prevenzione) la ricorrenza delle condizioni poste dalle disposizioni precedenti a garanzia della massa dei creditori, il tutto in funzione di possibili interferenze illecite nella formazione dei crediti concorrenti [CAIRO, 1266]. In caso di fallimento preesistente rispetto al sequestro, è mantenuta la competenza del giudice delegato alla procedura concorsuale per la verifica dei crediti attraverso la fissazione di specifica adunanza dei creditori già ammessi. L’operazione, si comprende, è in funzione dell’accertamento delle condizioni, ora normativamente previste, per la verifica del requisito di buona fede. Accertamento omologo è previsto in ipotesi di insinuazione tardiva al fallimento di imprenditore soggetto a misura di prevenzione e nelle ipotesi di pendenza di impugnazione avverso lo stato passivo già definito. In caso di revoca del sequestro o della confisca, ove il fallimento sia ancora aperto, si prevede che i beni liberati dal vincolo di prevenzione, siano restituiti ed acquisti alla massa fallimentare. Ove il fallimento risulti chiuso, ne è prevista la riapertura anche su iniziativa del pubblico ministero. Inoltre, costituendo punto specifico oggetto di delega, è disciplinata l’ipotesi dell’esercizio delle azioni revocatorie e di inefficacia previste dalla legge fallimentare, quando esse si riferiscano ad atti, pagamenti o garanzie concernenti i beni oggetto di sequestro. Ordinariamente, l’amministratore giudiziario incaricato della gestione di prevenzione, pur detenendo i beni della massa e la cassa liquida della procedura, non è orientato a quel tipo di riscontro. Lo scrutinio delle condizioni per l’esercizio dell’azione revocatoria, infatti, è una delle verifiche cui, tradizionalmente, non è interessato l’organo chiamato a gestire l’intervento in rem di prevenzione [CAIRO, 1265], bensì il curatore fallimentare. Non sono rare, dunque, nella pratica situazioni di stallo, a fronte delle quali il curatore ri-

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tiene sussistenti i presupposti per l’actio in revocatoria e non dispone, tuttavia, né materialmente né idealmente, della massa e della liquidità per l’azione, attesa la disponibilità dei beni in capo all’amministratore giudiziario [CAIRO, 1267]. Disciplinando la questione il legislatore ascrive legittimazione esclusiva all’amministratore giudiziario per l’esercizio delle azioni indicate in funzione di recuperare i beni revocati al patrimonio della misura di prevenzione [CAIRO, 1268]. Approccio diverso muove la regolamentazione dei rapporti tra la procedura concorsuale e le misure del controllo giudiziario e dell’amministrazione giudiziaria. In questi casi il legislatore ascrive prevalenza alla procedura fallimentare. Sul punto, dall’approvazione della legge Rognoni-La Torre del 13.9.1982, n. 646, interventi legislativi scoordinati ed una non sempre lineare attività d’interpretazione giurisprudenziale avevano concorso ad accentuare plurime lacune [C. FORTE, 54 ss.]. Si deve, infine, evidenziare che il Codice antimafia non si occupa del rapporto con le procedure diverse dal fallimento ed, in particolare, del rapporto con il concordato preventivo e con i piani di ristrutturazione del debito. Non si tratta di una mera dimenticanza, dovendosi piuttosto ritenere che, avuto riguardo alla caratteristica di quelle procedure – che non condividono lo spossessamento pieno del debitore – il sequestro di prevenzione non incontra limitazioni e, ricorrendone le condizioni, prevale sulle misure in questione in eventuale concorso [MALTESE, 541]. 5.3. (Segue) e normativa vigente. – Il Codice antimafia ha confermato il principio, elaborato dalla giurisprudenza, della prevalenza del procedimento di prevenzione su quello fallimentare, distinguendo due fattispecie. La prima è quella di cui all’art. 63, che disciplina l’ipotesi del fallimento che segua l’intervento di prevenzione. Oltre ai soggetti tradizionalmente legittimati all’iniziativa di richiedere la declaratoria di fallimento (il debitore ed i creditori) si prevede la titolarità del P.M. su segnalazione dell’amministratore giudiziario. È una previsione che integra significativamente l’art. 7 legge fall., dando conto di un potere autonomo del pubblico ministero, legato all’impulso dell’amministratore giudiziario ed, in definitiva, sganciato dalle condizioni previste dalla norma indicata [MINUTOLI, 1287]. È dubbio se la disposizione escluda ovvero ammetta il potere autonomo e concorrente in capo all’amministratore giudiziario di chiedere la declaratoria di fallimento. Certo, la previsione normativa di una segnalazione specifica dell’amministratore giudiziario in favore del P.M. indurrebbe a postulare l’elisione di potere siffatto in capo all’amministratore giudiziario medesimo. In questo senso è il pensiero di chi esclude la legittimazione di costui al c.d. auto fallimento [BALSAMO, MALTESE, 74]. Di avviso contrario il pensiero di chi ritiene che permanga il potere parallelo dell’amministratore giudiziario stesso e la facoltà in capo a costui di instare autonomamente, ai fini della dichiarazione di fallimento, specie allorquando l’amministratore sia anche il legale rappresentante della struttura sottoposta a sequestro e non mero amministratore di quote [MINUTOLI, 1274].

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La domanda, finalizzata ad ottenere la declaratoria fallimentare, può essere proposta in tutti i casi in cui ne ricorrano i presupposti ed, in particolare, là dove si versi in ipotesi di insolvenza. Lo stato di insolvenza rivela ed esprime la sua efficacia ed autorizza la dichiarazione di fallimento, là dove si renda visibile e conoscibile ai terzi attraverso la pluralità di esternazioni e segnali che la giurisprudenza ha contribuito a tipizzare. La previsione normativa pone un punto fermo sul tema, indicando come possibile la dichiarazione di fallimento dell’impresa, dopo l’intervento con il sequestro di prevenzione. La riforma, nel prevedere la possibilità dell’iniziativa fallimentare, dà conto della possibilità che il sequestro antimafia si possa confrontare con l’altra esigenza, parimenti di valenza pubblicistica, sottesa alla regola di par condicio creditorum in ipotesi di crisi irreversibile dell’impresa [C. FORTE, 54 ss.]. Ciò impone cautela e rigorosa attenzione nella fase di esecuzione del sequestro di prevenzione, avente ad oggetto attività di impresa [CAIRO, 1271]. Bisogna operare un giudizio di prognosi e capire se l’impresa sia in grado – nel concorso dei fattori finanziari ed industriali effettivamente presenti ed attraverso l’accesso al sistema creditizio o al settore del capitale di debito – di ripristinare i flussi finanziari ordinari, necessari per la prosecuzione dell’attività ed il rientro effettivo dall’indebitamento crescente. Il comma 2 dell’art. 63 disciplina l’ipotesi in cui l’imprenditore di cui al comma 1 sia soggetto alla procedura di liquidazione coatta amministrativa con esclusione del fallimento. In questo caso il pubblico ministero è tenuto a chiedere al tribunale competente l’emissione del provvedimento di accertamento giudiziario dello stato di insolvenza [C. FORTE, 54 ss.]. La dichiarazione di insolvenza è operata con sentenza soggetta ad appello. In caso di rigetto il tribunale pronuncia decreto motivato, reclamabile a norma dell’art. 22 legge fall. La liquidazione coatta amministrativa è una procedura a carattere concorsuale amministrativo cui sono assoggettate alcune e determinate categorie di imprese specificamente indicate da leggi speciali. Obiettivo della liquidazione coatta è quello della eliminazione dal mercato dell’impresa o dell’ente (non necessariamente insolvente) colpito dal provvedimento amministrativo che può derivare dalla violazione di specifiche disposizioni di legge o da altre gravi irregolarità nel funzionamento ovvero da motivi di pubblico interesse. Attesa la diversità di fonti normative che prevedono la liquidazione non è possibile delinearne uno statuto comune [CAIRO, 1271]. La regola indicata dal legislatore delegante è quella di sottrazione alla massa fallimentare dei beni sottoposti all’intervento di prevenzione [CAIRO, 1271]. La disposizione in esame prevede, invero, che quando è dichiarato il fallimento, i beni assoggettati a sequestro o confisca sono esclusi dalla massa attiva fallimentare. Il giudice delegato al fallimento provvede all’accertamento del passivo e dei diritti dei terzi nelle forme degli artt. 52 ss. del regio decreto 16.3. 1942, n. 267, verificando, altresì, anche con riferimento ai rapporti relativi ai beni sottoposti a sequestro, la sussistenza delle condizioni di cui all’art. 52 comma 1 lett. b), c) e d) e comma 3. È una disposizione in cui si legge chiaro l’intento -

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del coordinamento tra le due procedure, con prevalenza netta, in punto di metodo, dell’accertamento secondo lo statuto tipico della misura di prevenzione. La presenza del sequestro o della confisca di prevenzione, in altri termini, induce una verifica sul credito secondo regole “rafforzate”, estranee alla cultura ed alla tradizione dell’istituto fallimentare [CAIRO, 1271]. Si comprende con chiarezza lo scopo di evitare possibili insinuazioni fittizie o di permettere la distrazione, attraverso la procedura fallimentare, di risorse in favore di soggetti legati o, comunque, colpevolmente vicini al titolare del bene attinto dall’intervento patrimoniale antimafia. La normativa, dunque, istituisce un vero e proprio “doppio statuto” di verifica del credito e della posizione del soggetto che si insinui al fallimento, a seconda che la procedura concorsuale stessa sia libera, ovvero vincolata dalla procedura antimafia [CAIRO, 1271]. Nel primo caso prevarrà il solo statuto scritto nella legge fallimentare ed il procedimento di verifica dei crediti si opererà secondo quelle disposizioni. Nel secondo, di converso, al cospetto della coesistenza dell’intervento patrimoniale antimafia, l’accertamento vive dei criteri rafforzati introdotti dalla normativa in esame. Si intende come il nodo centrale di differenziazione tra i due modelli di scrutinio finisce per fissarsi proprio sul requisito di strumentalità del credito rispetto all’attività illecita o alla circostanza che risulti frutto di reimpiego, oltre che sul contenuto dell’onere, da parte del creditore, di dimostrare di avere ignorato, in buona fede, quel nesso di strumentalità [CAIRO, 1271]. Là dove il fallimento interessi solo una parte dei beni sottoposti a misura antimafia, i beni stessi sono sottratti alla procedura concorsuale, trovando per gli stessi applicazione una procedura di verificazione c.d. rafforzata, che combina quella della legge fallimentare e quella scritta nella novella [C. FORTE, 54 ss.]. Desta qualche perplessità la scelta di riservare la verifica sul credito alla procedura fallimentare [BALSAMO, MALTESE, 74]. Si tratta di uno scrutinio complesso che impone cautela e, soprattutto, che non può prescindere da una serie di conoscenze che ordinariamente non sono nel patrimonio cognitivo del giudice fallimentare. Basti riflettere sulla circostanza che il giudice fallimentare non ha conoscenza degli atti e delle investigazioni poste in essere in funzione del sequestro antimafia. Circostanza siffatta, non è remoto, può compromettere l’effettività della valutazione e la stessa correttezza sulla conclusione di assenza o ricorrenza del requisito di strumentalità del credito rispetto all’attività illecita [CAIRO, 1275]. Il fallimento può sopraggiungere anche dopo che il tribunale di prevenzione abbia effettuato la verifica dei crediti ex artt. 57 e ss. Tale ipotesi presuppone l’esistenza di altri beni sottratti ed estranei alla esecuzione della misura di prevenzione, beni ovviamente appresi dal fallimento. Là dove vi fosse coincidenza piena, di converso, tra i due patrimoni non v’è dubbio che il fallimento, alla luce della normativa novellata, dovrebbe essere chiuso immediatamente. Infine, la norma in esame, risolvendo un altro tema controverso, attribuisce espressamente all’amministratore giudiziario la legittimazione alle azioni disciplinate dalla Sezione III del Capo III del Titolo II del regio decreto 16.3.1942,

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n. 267, con gli effetti di cui all’art. 70 del medesimo decreto, in relazione ad atti, pagamenti o garanzie concernenti i beni oggetto di sequestro [CAIRO, 1277]. Da più parti si era ritenuto che azioni siffatte nel concorso della misura di prevenzione continuassero ad essere appannaggio della curatela fallimentare. La seconda fattispecie, vale a dire quella del sequestro di prevenzione successivo al fallimento è regolata dall’art. 64 del Codice antimafia, che ribadisce il principio della sottrazione dalla massa fallimentare dei beni oggetto della misura cautelare reale e, dunque, della prevalenza della misura antimafia. Il giudice delegato al fallimento, sentito il curatore ed il comitato dei creditori, deve disporre, con decreto non reclamabile, la separazione dei beni attinti dalla misura del sequestro dalla massa attiva del fallimento e la consegna all’amministratore giudiziario [C. FORTE, 54 ss.]. La norma in esame non regolamenta espressamente l’ipotesi in cui il sequestro di prevenzione intervenga dopo la vendita del bene in sede fallimentare. Il tema è delicato perché si tratta di individuare il momento oltre il quale il sequestro di prevenzione non può attingere il bene, per l’avvenuto perfezionamento della fattispecie traslativa fallimentare. Sul punto, si deve premettere che, là dove la vendita abbia permesso al proposto o al fittizio intestatario di tornare in possesso del bene, attraverso la funzione liquidatoria fallimentare, si stimano prevalenti le ragioni penalistiche sottese alla misura di prevenzione; conseguentemente, la vendita non può porsi come fattore ostativo alla operatività della misura di prevenzione [C. FORTE, 54 ss.]. Potrebbe discutersi della opponibilità diretta del sequestro iniziale all’avente causa dalla procedura fallimentare, ovvero della necessità di un nuovo titolo di prevenzione, che dia conto della fittizia insinuazione alla massa, ma appare certo che, in tale ipotesi, debba prevalere l’interesse statuale al recupero del bene con la misura antimafia, rispetto alla funzione, pure pubblica, sottesa allo scopo solo liquidatorio, realizzato attraverso la procedura fallimentare [CAIRO, 1277]. Là dove, di converso, non ricorra l’ipotesi della fraudolenta o fittizia insinuazione, la questione presenta profili problematici, tenuto conto che fissare il momento oltre il quale il sequestro antimafia non può attingere il bene venduto in sede fallimentare è opzione che non può prescindere dalla esatta individuazione dell’effetto traslativo nel subprocedimento di liquidazione fallimentare della res [CAIRO, 1278]. Scandiscono la fattispecie liquidatoria, in particolare, tre momenti che potrebbero assumere rilevanza ai fini di specie: il decreto di trasferimento, l’ordinanza di aggiudicazione, ovvero la materiale corresponsione del prezzo da parte dell’acquirente. È idea minoritaria quella per cui la vendita si perfezioni con l’ordinanza di aggiudicazione. Il pensiero maggioritario sembra orientato a ritenere che momento centrale sia l’emissione del decreto di trasferimento, che segna, appunto, un discrimine invalicabile nel subprocedimento di liquidazione [CAIRO, 1278]. Del resto, si è in una fase in cui al giudice delegato compete il potere di sospensione della vendita ex art. 108 legge fall. nel termine di giorni dieci dal deposito in cancelleria della documentazione ex art. 107 comma 5 legge fall. Proprio que-

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sto momento segnerebbe il termine oltre il quale non si può impedire il perfezionamento della vendita del bene [NONNO, 1279]. Non sono mancate voci diverse in giurisprudenza che hanno preferito individuare il momento di perfezionamento nel materiale pagamento del prezzo, dopo l’ordinanza di aggiudicazione [Cass., 30.1.2009, n. 2433, in Foro it., 2009, 2384; riferimenti in CONSOLO, 2351]. L’art. 65, infine, si occupa del rapporto tra le misure del controllo e dell’amministrazione giudiziaria, da un lato, e del fallimento, dall’altro. Il sistema si ispira alla prevalenza esclusiva della procedura fallimentare, con conseguente cessazione della misura di prevenzione. Il legislatore, dunque, seguendo un meccanismo di puro bilanciamento di interessi, ha inteso optare per una pregante ed esclusiva tutela dell’interesse, pure pubblicistico, sotteso alla regola di par condicio creditorum in ipotesi di decozione dell’impresa, rispetto alla finalità la condizione che l’impresa stessa sia nella disponibilità diretta o indiretta del potere deviante qualificato ed, in definitiva, assuma condizione di terzietà rispetto a devianza siffatta [CAIRO, 1279]. Pur a fronte, in certa misura, di un possibile condizionamento da parte del potere criminale, sull’attività aziendale nel suo vivere economico si preferisce incentrare la tutela garantendo la finalità sottesa alla procedura liquidatoria fallimentare. Si è, evidentemente, ritenuto che proprio la finalità liquidatoria, perseguita attraverso la procedura fallimentare, non pregiudichi i risultati della misura di prevenzione proprio perché non ci si trovi al cospetto di realtà imprenditoriali contaminate ed integralmente inquinate, in guisa da far postulare un requisito di intrinseca illiceità della res, la cui ricorrenza autorizzerebbe il sequestro e la confisca nella forma tradizionale [CAIRO, 1279]. Piuttosto si ritiene che, là dove il condizionamento economico dell’impresa sia per così dire esterno e la stessa struttura sia in condizione di terzietà, rispetto all’interesse criminale organizzato, non è opportuno pregiudicare le posizioni dei creditori ed i rapporti economici che hanno tratto origine da contatti commerciali ordinari, recuperando la disciplina del concorso tra le misure allo statuto c.d. antimafia. In tale ipotesi trova applicazione la disciplina fallimentare cui è ascritta prevalenza. La cessazione della misura di prevenzione è automatica e non è soggetta ad alcuna valutazione discrezionale dell’autorità giudiziaria. Le esigenze di prevenzione antimafia, d’altro canto, sono, comunque, salvaguardate dalla previsione secondo cui, nell’ipotesi che alla chiusura del fallimento dovessero residuare beni, il tribunale è autorizzato a rinnovare la misura di prevenzione. Non è, tuttavia, un istituto di natura automatica. Il decreto per l’applicazione della misura è, piuttosto, titolo nuovo che può trovare applicazione sui beni medesimi, solo ove persistano le esigenze di prevenzione che avevano già imposto l’intervento patrimoniale. Sarà, dunque, doveroso un nuovo scrutinio dei presupposti che autorizzano l’intervento patrimoniale [CAIRO, 1280].

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Bibliografia. BALSAMO, MALTESE, Il codice antimafia, Milano, 2011; BUONGIORNO, Tecniche di tutela dei creditori nel sistema delle leggi antimafia, in Riv. dir. proc., 1988, 445; CAIRO, Misure di prevenzione patrimoniali, in TARTAGLIA (a cura di), 1042 ss.; BRIZZI, CAPECCHI, FICHERA, Misure di prevenzione patrimoniali e tutela dei terzi, Torino 2013; CASSANO, La tutela dei terzi nel sistema della prevenzione, in CASSANO (a cura di), Le misure di prevenzione patrimoniali dopo il pacchetto sicurezza, Roma, 2009, 345 ss.; CELENTANO, Misure di prevenzione e rapporti giuridici pendenti; gli effetti civilistici, i rischi per l’impresa connessi all’amministrazione giudiziale e le problematiche relative alla tutela dei diritti dei terzi, in Le Misure di prevenzione patrimoniali, a cura del CSM, Roma, 2003; COMUCCI, Il sequestro e la confisca nella legge antimafia in Riv. it. dir. e proc. pen., 1985, 84; CONSOLO, Codice di procedura civile commentato, Milano, 2010; FILIPPI, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, Padova, 2002; C. FORTE, Il codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione: una nuova disciplina dei rapporti tra le misure di prevenzione patrimoniali e le procedure concorsuali, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, Padova 2012, n. 1, 54 ss.; GAITO, Fallimento, sequestro in funzione di confisca e tutela dei terzi nella repressione del fenomeno mafioso, in Giur. it., II, 1985, 397; GAROFOLI Costituzione economica, trasformazioni in atto del modello economico e tendenze evolutive del sistema prevenzionistico patrimoniale, in Giur. cost., 1996, 3889; LO CASCIO, Misure di prevenzione antimafia: lo stato attuale dell’interpretazione normativa, in Fallimento, 1998, 437; MAISANO, Misure patrimoniali antimafia e tutela dei creditori, in Giur. comm., 1986, 889; MALTESE, I rapporti tra le misure di prevenzione patrimoniali e la procedura fallimentare nel Codice Antimafia, in Il fallimentarista, Milano, 2011; MANGANO, La confisca nella legge Rognoni La Torre ed i diritti dei terzi, in Dir. fall., I, 1988, 684; MAUGERI, Le moderne sanzioni penali tra funzionalità e garantismo, Milano, 2001; MENDITTO, Lo schema di decreto legislativo del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione: esame osservazioni e proposte, in www.penalecontemporaneo.it, 2011; MINUTOLI, Verso una fallimentarizzazione del giudice della prevenzione, in Il Fallimento, XI, 2011, 1280; MOLINARI, Rapporti ed interferenze tra misure di prevenzione patrimoniali e fallimento: un caso analogo di conflitto?, in Cass. pen., 2000, 748; MONTELEONE, Effetti ultra partes delle misure patrimoniali antimafia, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1988, 574; NAPOLEONI, Interferenze problematiche tra fallimento e sequestro antimafia, in Cass. pen., 1989, 465; NONNO, Art. 108 l.f., in FERRO, La legge fallimentare, Padova, 2011, 1279; PETRINI, La tutela dei terzi, in FURFARO, Misure di prevenzione, Torino, 2013, 645 ss.; PIGNATONE, Il modello italiano di contrasto ai patrimoni illeciti: strumenti penali, strumenti di prevenzione, problematiche processuali. La recente riforma delle misure di prevenzione: criticità e prospettive di applicazione, CSM, 27 gennaio 2010; TASSONE, Ancora sulla sentenza delle Sezioni unite civili a proposito del sequestro e della confisca di prevenzione (n. 10532 del 2013). Il non detto dice?, in www.penalecontemporaneo.it.

Parte Settima

La disciplina penale in materia di armi, esplosivi e munizioni

Capitolo I

Le armi e la loro classificazione

Sommario

1. Cenni introduttivi. – 1.1. Le linee del sistema amministrativo e penale di tutela. Il bene protetto. – 1.2. L’evoluzione normativa. – 1.3. Profili strutturali e problemi politico criminali dei reati in materia di armi. – 1.4. Il problema dell’elemento soggettivo nei reati concernenti le armi. – 2. Le diverse tipologie di armi. – 2.1. Classificazioni generali: armi proprie ed armi improprie. – 2.2. Le armi da guerra o tipo guerra. – 2.2.1. Le armi comuni da sparo. – 2.2.2. Le armi comuni da sparo per definizione. – 2.2.3. Le armi antiche, artistiche e rare di importanza storica. – 2.2.4. Le armi da sparo assimilate. – 2.2.5. La qualificazione della pistola semiautomatica cal. 9 parabellum. – 2.3. Le armi chimiche. – 2.4. I c.d. beni a duplice uso. – 2.5. Le armi da caccia. – 2.6. Le armi utilizzate nello sport. – 2.7. Le parti d’arma. – 2.8. Le munizioni e la loro classificazione. – 2.8.1. La munizione da guerra. – 2.8.2. La munizione comune da sparo. – 2.8.3. La munizione per uso civile. – 3. Le armi improprie e le armi bianche (armi proprie non da sparo). – 3.1. Gli strumenti di difesa personale. – 4. Le armi giocattolo. – 5. I materiali di armamento. – 6. Bombe, aggressivi chimici, biologici, radioattivi e altri congegni micidiali. – 7. Esplosivi ed esplodenti. – 7.1. Le nozioni residue in materia di esplosivi. – Bibliografia.

1. Cenni introduttivi. Nessuna norma penalistica o di pubblica sicurezza dà una definizione ontologica dell’arma; la tecnica del nostro legislatore è piuttosto di indicare gli strumenti che che sono armi o debbono essere intesi tali. Partendo dalla definizione generale contenuta nell’art. 585 comma 2 c.p., è possibile affermare che le armi costituiscono strumenti caratterizzati da intrinseca ed ineliminabile pericolosità, in quanto naturalmente destinate all’offesa della persona, nonché, in taluni casi, è opportuno aggiungere, anche di altri interessi fondamentali, come quelli alla pacifica convivenza della collettività, al mantenimento dell’assetto ordinamentale dello Stato, alla libertà di autodeterminazione delle persone, alla integrità o alla proprietà delle cose e, non ultimo, alla incolumità degli animali: ciò spiega la particolare attenzione che, da sempre, il legislatore ha dedicato alla loro disciplina.

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In particolare, com’è stato rilevato da recenti indagini statistiche, le armi assumono un ruolo rilevante nella commissione di crimini violenti contro la persona. Basti pensare che nel 2010 il 42% del totale degli omicidi nel mondo sia stato realizzato con armi da fuoco, con differenze molto significative secondo le aree geografiche [si tratta di dati tratti dal Global Study on Homicide, a cura dell’UNODC – United Nations Office on Drugs and Crime, Vienna, 2011, 39, e riportati da DODARO, 1]. L’esistenza di una correlazione tra disponibilità di armi da fuoco e omicidi, o in generale reati violenti, non è mai stata scientificamente dimostrata, ma la dottrina ha evidenziato che il possesso di armi da fuoco rappresenti un fattore di rischio capace di accrescere significativamente la probabilità che reati di questo genere vengano commessi o che ne vengano aggravate le loro conseguenze. Conseguentemente, si preferisce intervenire non solo nei confronti dei comportamenti finali di utilizzazione delle armi, attribuendo a esse rilevanza di circostanza aggravante di numerosi reati, ma ancor prima in rapporto ad attività come la fabbricazione, l’importazione, il commercio, la circolazione in genere e l’esportazione, sottoponendole a controllo [DODARO, 1].

Secondo la definizione sempre attuale fornita da Palazzo: «requisito minimo, indispensabile ma assolutamente insufficiente, affinché si possa parlare di arma, è che l’oggetto sia dotato di idoneità all’offesa della persona. Ma l’esigenza di assoggettare ad una disciplina giuridica limitativa determinati oggetti in ragione della loro pericolosità sorge solamente allorché essi presentino due caratteristiche ulteriori. In primo luogo, la facilità dell’impiego in direzione dell’offesa alla persona, intendendo per facilità di impiego un insieme di molteplici condizioni, come la semplicità del reperimento, la facilità del trasporto soprattutto manuale, la sufficienza di poche ed agevolmente acquisibili nozioni per l’uso, la versatilità d’impiego nelle più diverse condizioni spazio-temporali, ecc. In secondo luogo, l’elevata potenzialità di offesa nei confronti della persona, intendendo per tale non solo l’intensità dell’evento lesivo sull’organismo umano, ma anche la vastità dei risultati lesivi quanto a numero delle potenziali vittime, e soprattutto la elevata sicurezza dell’esito lesivo, ecc. Naturalmente, la idoneità di un oggetto all’offesa della persona va accertata valutando comparativamente le due caratteristiche della facilità d’impiego e della potenzialità lesiva, nel senso che un grado non particolarmente elevato di quest’ultima, in confronto ad altri oggetti, potrà essere compensato da una notevole facilità di impiego nell’accezione appena prospettata» [PALAZZO, 252 ss.]. 1.1. Le linee del sistema amministrativo e penale di tutela. Il bene protetto. – La tutela della persona costituisce il bene finale tutelato dalla legislazione in materia di armi, esplosivi e munizioni. Essa, tuttavia, non è oggetto specifico di considerazione nelle fattispecie che, in vario modo, puniscono condotte di fabbricazione, importazione, commercio, detenzione, porto di armi. Più direttamente, il bene protetto dalle norme penali in materia di armi è il corretto svolgimento dell’attività di controllo ad opera dell’Autorità preposta [PALAZZO, 256], ovvero, «la sicurezza pubblica, intesa come complesso delle condizioni di pacifica convivenza, messa in pericolo dalla circolazione di armi sottratte al controllo delle autorità di polizia» [PELISSERO, 161 ss. ].

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In giurisprudenza, si è rilevato come il bene giuridico protetto dall’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895 sia la sicurezza interna dello Stato, tutelata dal Ministro per l’Interno, cui compete il controllo del territorio e della diffusione delle armi su di esso; la legge 9.7.1990, n. 185, invece, ha per oggetto la tutela dei rapporti dello Stato con la comunità internazionale. In particolare, le norme relative alla denunzia delle armi e alla licenza di porto d’armi sono previste per mettere l’autorità di polizia in condizioni di avere pronta e specifica conoscenza delle persone che le detengono; quelle relative alle armi prive di matricola mirano a garantire la facile controllabilità delle armi stesse e della loro provenienza [Cass. pen., sez. I, 22.11.1995, n. 4654].

1.2. L’evoluzione normativa. – La disciplina delle armi è estremamente frammentaria a causa dei molteplici interventi legislativi che nel corso del tempo ne hanno mutato ed aggiornato la fisionomia [per analoghe considerazioni relative ai settori, sempre caratterizzati da un forte legame con la disciplina amministrativa di riferimento, del diritto penale dell’ambiente e della sicurezza sul lavoro, cfr. RUGA RIVA, 28 ss.; DOVERE, 247 ss.]: originariamente contenuta nel t.u.l.p.s. (r.d. 18.6.1931, n. 776) e nel relativo regolamento di esecuzione (r.d. 6.5.1940, n. 635) nonché, con riferimento ai riflessi penali, negli artt. 585 e 695-704 c.p., essa è stata rivista dalla legge 2.10.1967, n. 895, che ha dettato nuove norme in materia di armi da guerra e armi comuni da sparo, successivamente modificata dalla legge 14.10.1974, n. 497; la legge 18.4.1975, n. 110 ha apportato nuove norme sul versante sia amministrativo che penale. A questi testi fondamentali, se ne affiancano altri, tra i quali vanno ricordati: la legge 23.12. 1974, n. 694 sul porto di armi a bordo degli aeromobili; la legge 9.7.1990, n. 185 su esportazione, importazione e transito di materiali di armamento; la legge 22.5.1975, n. 152 che ha introdotto la confisca obbligatoria delle armi e la legge 8.8.1977, n. 533 che ha previsto norme speciali in tema di furto e rapina di armi, munizione ed esplosivi; il d.lgs. 30.12.1992, n. 527, di attuazione della direttiva 91/477/CEE del 18.6.1991 relativa al controllo dell’acquisizione e detenzione di armi; la legge 18.11.1995, n. 496 di ratifica ed esecuzione della Convenzione di Parigi del 1993 sulla proibizione dello sviluppo, produzione, immagazzinaggio ed uso di armi chimiche e sulla loro distruzione; la legge 29.10.1997, n. 374 sulla messa al bando delle mine antipersona. Più recentemente la legge 15.7.2009, n. 94 ha introdotto nuove circostanze aggravanti per i delitti di porto abusivo di arma ed ha dato indicazioni specifiche in relazione agli spray per difesa personale. Di recente, con il d.lgs. 26.10.2010, n. 204, è stata data esecuzione alla delega contenuta nell’art. 36 legge 7.7.2009, n. 88 (legge comunitaria 2008) per l’attuazione della direttiva 2008/51/CE in materia di armi [PISTORELLI, 855 ss.]. Tale direttiva ha provveduto a sua volta alla modifica ed all’integrazione della direttiva 91/477/CEE, che costituisce il testo normativo comunitario fondamentale in materia di armi. L’aggiornamento di tale direttiva era divenuto necessario a causa della persistente disomogeneità delle legislazioni in materia di armi dei Paesi membri, ma altresì in ragione dell’intervenuta adesione, nel frattempo, della Comunità europea al protocollo contro la fabbricazione e il traffico illeciti di armi da fuoco, loro parti e componenti e munizioni, allegato alla con-

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venzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata del 15 novembre 2000 (il protocollo è quello del 31 maggio 2001 e la firma della Commissione a nome della Comunità è del 16 gennaio 2002). Con la direttiva del 1991 si era in realtà inteso configurare una misura di accompagnamento del mercato interno, stabilendo un equilibrio tra l’impegno a garantire una certa libertà di circolazione per alcune armi da fuoco nello spazio intracomunitario e la necessità di rendere compatibile tale libertà con le garanzie volte a tutelare la sicurezza pubblica e comunque adeguate a tale tipo di prodotti. A tal fine la direttiva aveva, tra l’altro, istituito la carta europea d’arma da fuoco, oltre a porre alcuni principi tesi ad armonizzare le normative interne relative, esclusivamente, alle armi da fuoco. Alla direttiva in questione è stata data attuazione attraverso il d.lgs. 30.11. 1992, n. 527, il quale, peraltro, ha concentrato la sua disciplina proprio sulla citata carta europea, avendo per il resto il legislatore riconosciuto la generale compatibilità della normativa interna in materia di armi con i principi fissati dalla normativa comunitaria. Come detto, la direttiva del 2008 ha provveduto a rivedere ed ad espandere i contenuti di quella del 1991 (che non è stata sostituita, ma per l’appunto solo modificata), fissando nel 28 luglio 2010 il termine assegnato per l’adeguamento degli ordinamenti nazionali. Il d.lgs. n. 204/2010 ha provveduto ora a tale adeguamento, nel solco tracciato dalla menzionata legge delega del 2009, senza peraltro procedere al più generale riordino della farraginosa legislazione in materia di armi, cui pure il Governo era autorizzato sulla base della disposizione contenuta nell’art. 5 della legge medesima. A tal proposito, è opportuno sottolineare come l’art. 8 della novella stabilisca che le nuove disposizioni entrino in vigore tutte indistintamente (comprese quelle penali dunque) solo a partire dal 1° luglio 2011. L’art. 6 comma 4 prevede, poi, che anche oltre tale data continuino ad applicarsi le norme attualmente vigenti fino a quando non vengano emanati i regolamenti previsti da numerose disposizioni del decreto per l’attuazione delle modifiche apportate alle medesime. Ciò, in particolare, rileva ai fini dell’applicazione delle nuove disposizioni in materia di certificazione medica per il rilascio del nulla osta all’acquisto di armi ovvero per la loro detenzione e in materia di armi giocattolo. Sempre in tempi recenti è stata ratificata la convenzione internazionale sul commercio internazionale di armi, adottata dall’ONU il 2 aprile 2013 (Arms Trade Treaty, ATT). L’obiettivo del Trattato è di: 1) istituire i più elevati standard comuni internazionali possibili al fine di regolare o migliorare la regolamentazione del commercio internazionale di armi convenzionali; 2) prevenire ed eliminare il commercio illecito di armi convenzionali e prevenire la loro diversione, al fine di contribuire alla pace, la sicurezza e la stabilità internazionali e regionali; 3) ridurre le sofferenze umane; 4) promuovere la cooperazione, la trasparenza, e l’agire responsabile degli Stati Parte nel commercio internazionale di armi convenzionali e quindi accrescere la fiducia reciproca fra gli Stati Parte. Il -

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trattato si applicherà a tutte le armi convenzionali incluse nelle seguenti categorie: a) carri armati; b) autoveicoli corazzati da combattimento; c) sistemi di artiglieria di grosso calibro; d) aerei da combattimento; e) elicotteri d’assalto; f) navi da guerra; g) missili e lanciatori di missili; e) armi leggere e di piccolo calibro. Precisa poi la legge di ratifica che «ai fini del presente Trattato, le attività di commercio estero includono l’esportazione, l’importazione, il transito, il trasbordo e l’intermediazione di armi, d’ora innanzi denominate “trasferimento”. Il Trattato non si applica al trasporto internazionale da parte o per conto di uno Stato Parte di armi convenzionali destinate al proprio uso, a condizione che le armi convenzionali restino di proprietà dello stesso Stato Parte» (cfr. la legge 4.10.2013, n. 118, G.U. n. 242 del 15.10.2013). Da ultimo, è intervenuto in materia il d.lgs. 29.9.2013, n. 121, recante “Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 26 ottobre 2010, n. 204, concernente l’attuazione della direttiva 2008/51/CE, che modifica la direttiva 91/ 477/CEE relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi”. -

1.3. Profili strutturali e problemi politico criminali dei reati in materia di armi. – Le attività connesse alle armi ed agli esplosivi (fabbricazione, commercio, cessione, detenzione, porto) sono soggette ad un rigido sistema di controllo che, in alcuni casi, si sostanzia in divieti assoluti (es. quelli in materia di detenzione e raccolta di armi da guerra da parte di privati, compravendita per corrispondenza di armi comuni: v. artt. 10 e 17 legge n. 110/1975), mentre nella maggior parte delle ipotesi si traduce in divieti relativi, condizionati al rilascio di specifiche autorizzazioni o licenze da parte delle autorità amministrative preposte al controllo, tra le quali assume un ruolo centrale il Questore, al quale spetta la competenza generale al rilascio delle autorizzazioni in materia di armi (competenze più limitate spettano al Prefetto ed al Ministro per l’interno, quest’ultimo competente per le armi da guerra) [PELISSERO, 163]. In particolare il controllo delle armi comuni da sparo avviene attraverso la loro catalogazione per prototipi nel catalogo nazionale delle armi comuni da sparo e nella successiva immatricolazione che ne consente in ogni momento l’identificazione attraverso il numero di iscrizione del prototipo nel catalogo nazionale e il numero progressivo di immatricolazione della singola arma (v. artt. 6 e 11 legge n. 110/1975). La legislazione sulle armi si caratterizza poi per una stretta interconnessione tra disciplina amministrativa e disciplina penale [PALAZZO, 254; più in generale, con riferimento ad altri settori della legislazione complementare, DOVERE, 247 ss.; RUGA RIVA, 28 ss.], quest’ultima, infatti, interviene in funzione strumentale a rafforzamento della prima. Lo evidenziano molto bene le principali tecniche di tutela utilizzate dal legislatore, costituite da fattispecie che puniscono attività svolte in assenza di autorizzazione (es. art. 1 legge n. 895/1967) e da fattispecie di inosservanza a provvedimenti emessi dalle autorità preposte al controllo delle armi (es. art. 3 legge n. 895/1967). Ne consegue che l’ambito della tutela penale è strettamente connesso a quello dei limiti del controllo delle autorità pubbliche.

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Va detto, al riguardo, che sebbene possa apparire che il diritto penale tuteli in questa circostanza le funzioni espletate dagli organi competenti, anziché beni finali e concreti, ad una più attenta considerazione emerge che la tutela delle funzioni non è fine a se stessa ma è volta ad assicurare che una indiscriminata diffusione delle armi crei una situazione intollerabile per la tutela della sicurezza pubblica e per i beni della vita e dell’integrità fisica dei consociati (si tratta quindi di reati-ostacolo): non è un caso che, anche laddove il legislatore ha inteso assicurare maggiori spazi di autotutela riformando la legittima difesa, lo ha fatto prevedendo tra i requisiti che fondano la presunzione di proporzione l’utilizzo di un’arma legittimamente detenuta, proprio per evitare il rischio di legittimare la detenzione abusiva di armi. Sempre in termini generali, quanto alle tecniche di tutela impiegate dal legislatore in questo settore, si osserva che è largamente utilizzato il modello normativo-strutturale del reato di pericolo presunto, in quanto l’offesa al bene costituisce la ratio della fattispecie senza che dalla lettera della legge emerga la necessità di accertare la concreta offensività determinata dall’esercizio di una data attività senza autorizzazione, o dal mancato rispetto delle prescrizioni imposte. Detto altrimenti, nelle fattispecie incriminatrici in materia di armi, il bene protetto finisce per sovrapporsi alla mera ratio dell’incriminazione, atteso che nessuna lesione effettiva o potenziale viene arrecata ad un bene giuridico dalle condotte punite. Nei reati in esame l’anticipazione della tutela è infatti talmente accentuata da sanzionare la mera disobbedienza ad obblighi la cui violazione, tuttavia, non ha alcuna diretta implicazione con l’offesa di beni giuridici tradizionalmente intesi; donde l’impossibilità di ricondurre le fattispecie in materia di armi finanche al modello reati di pericolo astratto, che richiede quantomeno l’accertamento di una generale attitudine lesiva della condotta. Alcuni Autori [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 85] affermano invece che le norme in questione potrebbero essere collocate tra i reati di pericolo astratto posti a tutela dell’ordine pubblico; al riguardo, è tuttavia facile osservare che la maggior parte delle condotte punite in materia di armi è intrinsecamente inidonea ad arrecare offesa all’ordine pubblico materiale, trattandosi per lo più di comportamenti del tutto neutri rispetto a tale bene giuridico. Ne esce così confermata la collocazione di tali fattispecie criminose nell’ambito dei reati di pericolo presunto che non ammettono alcuna prova contraria in ordine all’assenza di pericolosità della condotta. Altra questione, poi, è quella relativa alla (re)interpretazione di tali fattispecie, per quanto possibile, in conformità al principio costituzionale di offensività, in modo da delineare una reale dimensione di dannosità sociale delle condotte incriminate. Ed invero, la Corte costituzionale [C. cost., 26.3.1986, n. 62, in Giur. cost., 1986, 408] non ha mancato di valorizzare anche in questo settore il principio di offensività in concreto; in relazione al delitto di detenzione di esplosivi (art. 2 legge n. 895/1967), la Corte ha sottolineato che «può certo discutersi sulla costituzionalizzazione o meno del principio d’offensività: ma che lo stesso principio debba reggere ogni interpretazione di norme penali è ormai canone unanime-

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mente accettato. Spetta al giudice, dopo aver ricavato dal sistema tutto e dalla norma particolare interpretata il bene o i beni tutelati attraverso l’incriminazione d’una determinata fattispecie tipica, determinare, in concreto, ciò (il quantitativo minimo di esplosivo) che, non raggiungendo la soglia dell’offensività dei beni in discussione, è fuori dal penalmente rilevante». Allo stesso modo per la giurisprudenza non basta ad escludere i reati di detenzione e porto illegale il difetto di funzionamento dell’arma, in quanto la qualificazione come arma è esclusa solo quando «questa risulti totalmente ed assolutamente inefficiente, giacché soltanto in questo caso viene a mancare quella situazione di pericolo per l’ordine pubblico e per la pubblica incolumità costituente l’oggetto giuridico delle fattispecie» [da ultimo, Cass., sez. II, 19.2.2013, in CED 2013/255177].

La stretta connessione della disciplina penale con quella amministrativa determina la frequente costruzione di norme penali in bianco in cui le fonti subordinate giocano un ruolo determinante nella identificazione della materia del divieto, con ciò che ne consegue in relazione al rispetto dei principi di riserva di legge e di determinatezza della fattispecie penale. Sul punto, va segnalato che in relazione all’art. 2 legge n. 110/1975, che attribuisce alla Commissione consultiva centrale il potere di escludere dal novero delle armi comuni da sparo quelle ad aria compressa che non abbiano attitudine a recare offesa alla persona, la Corte costituzionale ha escluso la violazione dell’art. 25 comma 2 Cost. in relazione alla riserva di legge, richiamando il principio di sufficiente specificazione, in quanto «è la legge stessa a fissare i presupposti, caratteri, contenuti e limiti dei provvedimenti dell’autorità non legislativa alla trasgressione dei quali deve seguire la pena». Parimenti è stata esclusa la violazione del principio di determinatezza in relazione all’art. 4 legge n. 110/1975 [C. cost., 10.6.1982, n. 108, in Giur. cost., 1982, 1055; C. cost., 9.6.1986, n. 132, in Giur. cost., 1986, 885].

Ancora: in materia di armi, la fattispecie penale è poi spesso costituita da condotte tenute in assenza di autorizzazione o licenza (v. ad es. art. 1 legge n. 895/1967; art. 4 comma 1 legge n. 110/1975); si pone dunque il problema dei limiti del sindacato del giudice penale sugli atti amministrativi che, come noto, coinvolge tutte le fattispecie nelle quali sia incriminata una condotta tenuta in assenza del prescritto atto autorizzatorio. Sul punto, può essere utile, come ben evidenziato in dottrina [PELISSERO, 163], richiamare la giurisprudenza formatasi in materia di reati edilizi in relazione alla contravvenzione di costruzione in assenza di permesso (art. 44 lett. b) d.p.r. 6.6.2001, n. 380), laddove l’illegittimità del permesso è stata oggetto di differenti valutazioni in contrastanti pronunce giurisprudenziali [in tema, MADEO, 378 ss.]. Un primo orientamento, considerando requisito implicito di fattispecie la legittimità del permesso e riconoscendo al giudice penale il potere di disapplicare l’atto amministrativo illegittimo, ha equiparato la illegittimità del permesso alla sua assenza, con ciò che ne consegue sul piano della fattispecie applicabile, salvo accertare la buona fede in ordine alla legittimità dell’atto ed escludere così l’elemento soggettivo. Un secondo orientamento, invece, escludendo l’equiparazione tra illegittimità ed assenza di permesso, ha comunque riconosciuto al giudice penale il potere di sindacare il rispetto, nella costruzione, dei parametri di legalità urbanistica previsti dalla legge, dai regolamenti e dalla disciplina urbanistica di riferimento, con possibilità, in caso di permesso illegittimo, di applicare la meno grave fattispecie di cui all’art. 44 lett. a) d.p.r. n. 380/2001 che prevede la contravvenzione di inosservanza delle norme, delle prescrizioni e modalità esecutive previste dalla legge urbanistica, dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire; per questa impostazione, la illegittimità del permesso è equi-

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parata alla sua mancanza solo quando questo atto è frutto della collusione illecita tra autorità pubblica e destinatario dell’atto. Ora, questo secondo indirizzo si basa sul mutamento dell’interesse tutelato nei reati edilizi a seguito della riforma del 1985 (legge n. 47/1985) che avrebbe spostato l’attenzione dall’interesse formale al controllo amministrativo sull’attività urbanisticoedilizia all’interesse sostanziale al corretto sviluppo del territorio in conformità alla normativa urbanistica. Secondo parte della dottrina un ragionamento analogo non può essere trasposto in toto in relazione alla disciplina penale delle armi, finalizzata ad assicurare il controllo pubblico sulla circolazione delle armi a tutela della sicurezza pubblica [PELISSERO, 163]. Infatti, mentre l’errore sul provvedimento amministrativo cui è in sostanza demandata la formulazione del precetto dovrebbe essere irrilevante ex art. 5 c.p., l’errore sull’atto amministrativo che concretizza un precetto peraltro già completo potrebbe rilevare come errore sul fatto ai sensi dell’art. 47 c.p. Orbene, in presenza di fattispecie penali che richiedono l’assenza di licenza o autorizzazione, sembra convincente, secondo tale impostazione, considerare requisito implicito di fattispecie la legittimità dell’atto amministrativo, in quanto diverrebbero altrimenti lecite attività elusive dei controlli pubblici, in contrasto con l’impianto complessivo della disciplina. L’autorizzazione illegittima dovrebbe pertanto essere parificata ad assenza di autorizzazione, con ciò che ne consegue sul piano della integrazione del precetto, salvo accertare ai sensi dell’art. 47 c.p., l’incidenza sull’elemento soggettivo dell’erronea supposizione della legittimità dell’autorizzazione (con esclusione della responsabilità in caso di delitti dolosi e di una residua responsabilità colposa in caso di contravvenzioni, sempre che l’errore sia colpevole). In altri termini, si rileva che il giudice penale deve essere libero di sindacare tutto il fatto portato al suo giudizio, ivi compreso l’atto amministrativo, ove questo venga in considerazione nella fattispecie penale; in questo caso, il giudizio sulla legittimità dell’atto amministrativo è svolto incidenter tantum e può condurre alla disapplicazione ex art. 5, l. 20.3.1865, n. 2248, all. E dell’atto, il quale sarà considerato, ai fini della punibilità, tamquam non esset [PALAZZO, 256]. Naturalmente, come già visto, la disapplicazione dell’atto amministrativo non conduce de plano ad una pronuncia di condanna, poiché non è sufficiente a fondare ex se il giudizio di colpevolezza: accertato, infatti, che la condotta tipica è stata tenuta in presenza di un atto amministrativo illegittimo, sarà necessario vagliare la sussistenza degli altri elementi costitutivi del reato, tra i quali l’elemento soggettivo.

Infine, va osservato che la progressiva stratificazione della legislazione ha reso estremamente complessa la ricostruzione della disciplina amministrativa e dei connessi limiti della tutela penale, tra contravvenzioni del codice penale, in buona parte non più applicabili, e norme di legislazione complementare che rappresentano il fulcro della tutela. De iure condendo sarebbe così opportuna una revisione complessiva della materia attraverso la predisposizione di un testo unico capace di definire il quadro della disciplina amministrativa e penale, chiarendo quali fattispecie sono ancora in vigore e quali ne sono i limiti reciproci di applicazione [PELISSERO, 164]. Un simile corpus normativo dovrebbe essere adeguato ai principi di precisione, determinatezza e tassatività, nonché al principio di colpevolezza, sotto il profilo della conoscibilità ed intelligibilità della fattispecie normativa da parte del cittadino [CIVELLO, 5]. In tale contesto, il controllo più rigoroso dovrebbe concentrarsi sulle condotte di fabbricazione e commercio illegali, che sono quelle presumibilmente più pericolose in quanto solitamente connesse alla grande criminalità violenta. Va infatti tenuto presente che l’efficacia dissuasiva delle norme sul porto abusivo d’armi, e sulla detenzione illegale, sembra in buona parte circoscriversi nella realtà effettuale a categorie di soggetti ed a tipologie di fatti criminologicamente caratterizzati

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da una pericolosità non sempre proporzionata alla gravità delle pene. Tuttavia, da un punto di vista astratto, non è possibile disconoscere che la condotta di porto è quella più vicina all’uso e come tale dotata di una pericolosità obiettiva particolarmente elevata e non minore delle più imponenti condotte di fabbricazione e commercio [per questo genere di osservazioni, cfr. PALAZZO, 256]. 1.4. Il problema dell’elemento soggettivo nei reati concernenti le armi. – I reati in materia di armi ed esplosivi sono caratterizzati da un dolo quasi sempre delineato dal legislatore come generico [CIVELLO, 56], che «si configura quale semplice coscienza (recte, consapevolezza) e volontà del fatto materiale incriminato; poiché, infatti, le condotte criminose in questione destano particolare allarme sociale e sono potenzialmente lesive di rilevanti beni giuridici, il legislatore ha inteso in tale ambito anticipare notevolmente la soglia della rilevanza penale, dal punto di vista sia oggettivo sia soggettivo». L’indiscriminato ricorso alla categoria del dolo generico è stato tuttavia criticato da parte della dottrina [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 247], secondo cui l’incriminazione di condotte spesso oggettivamente inoffensive avrebbe potuto essere riequilibrata attraverso la previsione del dolo specifico, integrato, ad esempio, dalla «finalità di ledere l’ordine pubblico materiale ovvero di mettere in pericolo la vita delle persone o la sicurezza della collettività». Proprio il dolo specifico, invero, secondo l’interpretazione più accreditata in dottrina [da ultimo, (a) MAIELLO, 541 ss.; in generale DE VERO, 199] è in grado di determinare un arricchimento della fattispecie in termini oggettivi di disvalore, svolgendo una autentica funzione selettiva della punibilità. La necessaria orientazione all’offesa dei reati in materia di armi imporrebbe così una soluzione ermeneutica che consenta di contenere gli effetti dell’impoverimento di offensività della fattispecie. In tale sede va solo ricordato che il dolo specifico, per potere assolvere alla sua connaturata funzione di filtro selettivo della punibilità, deve necessariamente innestarsi su di un sostrato fattuale già di per sé offensivo del bene giuridico. In tal senso, appare fondamentale la ricostruzione del reato a dolo specifico come illecito di pericolo concreto con dolo di danno. Per questa ragione si potrebbero ritenere integrate le fattispecie solo allorquando, oltre alla prova della intenzione di conseguire quel dato scopo descritto nella norma, sia stata altresì raggiunta la prova della oggettiva idoneità della condotta al raggiungimento della finalità presa di mira dall’agente. In questo modo verrebbe recuperata una reale dimensione offensiva delle fattispecie. Il dolo specifico, invece, è richiesto solo per la sussistenza di alcune fattispecie quali la distrazione o sottrazione di armi e di esplosivi (artt. 21 e 29 legge n. 110/1975) o il delitto di cui all’art. 6 legge n. 895/1967. Viene poi in rilievo il problema della rilevanza dell’errore; in proposito, secondo il condivisibile avviso di parte della dottrina [CIVELLO, 1 ss.] è necessario distinguere: 1) l’errore sulla natura dell’arma; 2) l’errore sull’efficienza dell’arma; 3) l’errore sulle norme amministrative, di cui già si è brevemente parlato; 4) l’errore sul fatto. Per quanto concerne l’errore sulla natura dell’arma, si

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tratta di errore di diritto inescusabile, in quanto la qualificazione di un’arma come da guerra o comune da sparo discende direttamente dalle norme di legge e, in particolare, dagli artt. 1 e 2 legge 18.4.1975, n. 110. L’errore sull’efficienza dell’arma è, invece, da ritenersi errore sul fatto ai sensi dell’art. 47 c.p., in quanto trattasi indubbiamente di errore su uno dei presupposti della condotta, per la cui valutazione non occorre fare riferimento ad alcuna norma giuridica, ma alle proprie conoscenze tecniche ed alla propria personale esperienza. L’errore sulle norme amministrative le quali, per esempio, impongano determinati adempimenti in relazione al rapporto instauratosi con l’arma, è inescusabile in quanto ricade su norme integratrici del precetto penale, a meno che non ricorra l’ignoranza inevitabile di cui alla sentenza 24.3.1988, n. 364 della Corte costituzionale. L’errore sul fatto, invece, esclude la sussistenza del dolo ai sensi dell’art. 47 c.p., come nel caso di un soggetto che porti un’arma in un giardino pubblico, ritenendolo erroneamente pertinenza di un’abitazione privata, o come nel caso del fabbricante di armi che, dopo aver venduto regolarmente ad un privato un’arma comune da sparo, consegni tuttavia per errore, confondendo le confezioni, un’arma da guerra [CIVELLO, 1 ss.]. Qualora sia esclusa la sussistenza del dolo, potranno configurarsi le corrispondenti fattispecie contravvenzionali di cui agli artt. 678-680 e 695-704 c.p. Escluso il dolo, ai fini della configurazione delle più lievi fattispecie contravvenzionali, sarà comunque necessario accertare e provare la colpa in capo al soggetto attivo, non essendo ammesse nel nostro ordinamento né ipotesi di responsabilità oggettiva, né presunzioni (assolute o relative) di colpa. Conseguentemente «in presenza di errore sul fatto (che esclude la sussistenza dei delitti dolosi), si dovrà accertare se esso sia determinato da colpa (e, quindi, inescusabile) o sia, invece, incolpevole (e, quindi, scusabile): nel primo caso potranno sussistere le più lievi fattispecie contravvenzionali, mentre nel secondo caso andrà esclusa la punibilità» [CIVELLO, 1 ss.]. In giurisprudenza, si è affermato che, per la sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati di detenzione e porto illegali di armi, è sufficiente il dolo generico consistente nella coscienza e volontà di detenere o portare un’arma, rispetto alla quale non siano state osservate le prescrizioni di legge. Non occorre, invece, la consapevolezza dell’antigiuridicità della condotta, stante l’irrilevanza dell’errore o dell’ignoranza della legge penale e delle norme extra-penali che ne costituiscano parte integrante, quali quelle sulla disciplina amministrativa delle armi [Cass. pen., sez. I, 15.12.1983]. Non sussiste l’errore inevitabile sulla legge penale nei casi di disciplina nient’affatto confusa e caotica [Cass. pen., sez. I, 14.10.1992, n. 3452]. Nell’ipotesi di detenzione o porto abusivo di arma da guerra, l’errore del soggetto attivo sulla qualità di arma da guerra si risolve in una ignoranza della legge penale, come tale inescusabile. L’erronea opinione relativa all’efficienza dell’arma non incide sull’elemento psicologico che, nei reati di detenzione e di porto illegittimi di arma, è integrato dalla consapevolezza, rispettivamente, della detenzione o del porto di armi e della loro idoneità all’impiego. Tale erronea opinione, tuttavia, può integrare, ricorrendone gli altri presupposti, gli estremi dell’errore di fatto previsto dall’art. 47 c.p. [Cass. pen., sez. I, 18.2.1981, n. 49]. Da ultimo, la Suprema Corte ha ribadito che «nel reato di illegale detenzione di armi e munizioni, l'elemento psicologico consiste nel dolo generico, e cioè nella coscienza e volontà di avere a disposizione materialmente l'arma o le munizioni senza averne fatto denuncia» [Cass. pen., sez. I, 20.5.2013, n. 21335].

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2. Le diverse tipologie di armi. Come si è già accennato, la disciplina penale delle armi è collocata in una pluralità di fattispecie codicistiche e di legislazione complementare utilizzando come criterio classificatorio quello del tipo di arma. Invero, le armi, pur essendo tutte accomunate dal fatto di essere strumenti di offesa alla persona, si diversificano tra loro in relazione alla potenzialità aggressiva e alla funzionalità offensiva. La classificazione delle armi in categorie specifiche è poi funzionale alla diversificazione della disciplina legislativa per ciascuna di esse. 2.1. Classificazioni generali: armi proprie ed armi improprie. – In base all’art. 585 c.p., che detta la definizione di armi agli effetti della legge penale, è possibile tracciare una prima distinzione tra armi proprie ed armi improprie. Tale disciplina va altresì letta alla luce della legge n. 110/1975. Altra interpretazione autentica della nozione delle armi come categoria generale è poi offerta dall’art. 704 c.p., il quale recita, nella sostanza, che sono armi quelle indicate dal numero 1 dell’art. 585 c.p. le bombe, qualsiasi macchina o involucro contenente materie esplodenti, e i gas asfissianti o accecanti. Sulla base di tale normativa è possibile procedere in via di prima approssimazione alla seguente categorizzazione, per riservare una trattazione analitica delle diverse tipologie di armi nei paragrafi che seguono. Le armi proprie possono essere suddivise in quattro sottogruppi: 1) armi da guerra di cui all’art. 1 comma 1 legge n. 110/1975; ad esse sono assimilate le armi tipo-guerra di cui all’art. 1 comma 2 legge n. 110/1975; 2) le armi comuni da sparo di cui all’art. 2 commi 1 e 2 legge n. 110/1975. Sono tali tutti quegli oggetti (diversi dalle armi da guerra) idonei a lanciare proiettili mediante una forza propellente pre-immagazzinata, prodotta dall’accensione di un esplosivo (arma da fuoco), o dall’aria compressa, o anche, secondo parte della dottrina [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 120], da un congegno a molla (per le armi per uso sportivo, vale a dire quelle, sia lunghe che corte, che, per le loro caratteristiche strutturali e meccaniche, si prestano esclusivamente allo specifico impiego nelle attività sportive, cfr. art. 2 cpv. legge n. 85/1986). Peraltro, va segnalato che il d.lgs. 26.4.2010, n. 204, nell’introdurre l’art. 1-bis d.lgs. 30.12.1992, n. 527, ha previsto la seguente definizione di “arma da fuoco”: «qualsiasi arma portatile a canna che espelle, è progettata ad espellere o può essere trasformata al fine di espellere un colpo, una pallottola o un proiettile mediante l’azione di un combustibile propellente, a meno che non sia esclusa per una delle ragioni elencate al punto III dell’allegato I della direttiva 91/477/ CEE, e successive modificazioni. Un oggetto è considerato idoneo ad essere trasformato al fine di espellere un colpo, una pallottola o un proiettile mediante l’azione di un combustibile propellente se ha l’aspetto di un’arma da fuoco e, -

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come risultato delle sue caratteristiche di fabbricazione o del materiale a tal fine utilizzato, può essere così trasformata»; 3) gli strumenti considerati armi comuni da sparo ai sensi dell’art. 2 comma 3 legge n. 110/1975, vale a dire: le armi da bersaglio da sala, le armi ad emissione di gas, le armi ad aria compressa o gas compressi che abbiano determinate caratteristiche, nonché gli strumenti lanciarazzi – salvo che si tratti di armi destinate alla pesca. Nel dettaglio: a) le armi da bersaglio da sala sono armi da sparo che, per la loro scarsa rumorosità e limitata pericolosità, possono essere usate in luogo chiuso; b) sono, invece, armi ad emissione di gas gli strumenti da sparo in cui il gas è elemento propulso/proiettile (come pistole e fucili a gas lacrimogeno). Di recente sono stati qualificati tali anche gli oggetti idonei ad offendere la persona mediante emissione di gas, ma senza lancio di proiettili in senso tecnico [VIGNA, BELLAGAMBA, 145], quali le bombolette a spruzzo e le bombolette spray c.d. antiaggressione, contenenti gas lacrimogeni [Cass. pen., sez. I, 4.12. 2007, Amantonico, in CED 2007/238704; Cass. pen., sez. I, 22.6.2006, Hamdi, in CED 2006/234697]. A proposito delle bombolette spray, occorre altresì segnalare che l’art. 3 comma 32 della legge n. 94/2009 ha previsto l’emanazione di un regolamento ministeriale per determinare «le caratteristiche tecniche degli strumenti di autodifesa, di cui all’art. 2 co. 3 della l. 18 aprile 1975, n. 110, che nebulizzano un principio attivo naturale a base di oleoresin capsicum, e che non abbiano l’attitudine a recare offesa alla persona». Sulla base di tale previsione, e nelle more dell’emanazione del previsto regolamento, la Cassazione ha ritenuto che le bombolette a base di oleoresin caspicum non possano essere considerate armi ai sensi dell’art. 2 comma 3 legge n. 110/1975 [Cass. pen., sez. II, 25.2. 2011, n. 7496]; c) sono armi ad aria compressa o gas compressi quelle che sfruttano l’energia sprigionatasi dall’espansione immediata di aria o gas precedentemente compressi e i cui proiettili erogano un’energia cinetica superiore a 7,5 joule; d) sono, infine, strumenti lanciarazzi gli strumenti dalla forma più svariata (di pistola, rivoltella, fucile, stilo), forniti di una canna o di un supporto, che mediante l’impiego di una cartuccia a salve incendiano e lanciano un razzo. Tutti gli strumenti sopra elencati non possono, tuttavia, essere considerati “armi”, né proprie né improprie (e non rilevano, quindi, ai sensi dell’ art. 585 c.p.), qualora la Commissione consultiva, istituita ai sensi dell’art. 6 legge n. 110/1975, ne escluda, in relazione alle loro rispettive caratteristiche, l’attitudine a recare offesa alla persona. In tal caso, gli strumenti suddetti vanno ritenuti mere armi-giocattolo, se ed in quanto costituiscano riproduzione di armi vere [PALAZZO, 260], ovvero strumenti non atti ad offendere; 4) armi proprie non da sparo, individuate in via residuale dall’art. 585 cpv. n. 1, vale a dire: tutte le altre (id est, non da sparo) «la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona». Si tratta delle c.d. armi bianche, cioè di quegli strumenti da punta o da taglio destinati univocamente all’offesa della persona, come: coltello a serramanico con lama a scatto [Cass. pen., 20.3.1995, Di Renzo, in MDP, 1995, 7]; penne e portachiavi con lame incorporate; pugnale [Cass. pen., 21.3.1994 , Daleffe, in CED 1994/197190]; scimitarra; stiletto; spada; sciabola; baionetta. -

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Le armi improprie sono definite dall’art. 585 cpv. n. 2, mediante rinvio al divieto di porto (assoluto, ovvero in assenza di giustificato motivo). Va subito precisato che tale rinvio ha un valore meramente definitorio (peraltro non esaustivo, atteso che lo stesso art. 4 legge n. 110/1975 – che disciplina il porto d’armi – non individua in modo univoco gli oggetti interessati dal relativo divieto). Nella categoria delle armi improprie rientrano svariati oggetti dalle caratteristiche atipiche ed eterogenee, qui di seguito ricondotti in sei sottogruppi, sulla scorta della catalogazione contenuta all’art. 4 legge n. 110/1975: 1) mazze ferrate, bastoni ferrati, sfollagente, noccoliere, storditori elettrici e altri apparecchi analoghi in grado di erogare una elettrolocuzione [PALAZZO, 261] (cfr. art. 4 comma 1 legge n. 110/1975, come modificato dall’art. 5 d.lgs. n. 204/2010). L’opinione maggioritaria riconduce, però, tali strumenti tra le armi proprie non da sparo, attesa la loro esclusiva ed originaria destinazione all’offesa [MORI, 261]; 2) bastoni muniti di puntale acuminato, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche (cfr. art. 4 comma 2, prima ipotesi, legge n. 110/1975), come: randello di legno [Cass. pen., 2.2.2009, Ramaj, in CED 2009/242617]; sbarra o spranga di ferro [Cass. pen., 21.11.2008 , Bertacci, in CED 2008/241674]; manganello; manico di scopa con vite infissavi trasversalmente e sporgente dai due lati; 3) strumenti da punta o da taglio atti ad offendere (cfr. art. 4 comma 2, seconda ipotesi, legge n. 110/1975) che, pur non essendo originariamente destinati ad offendere la persona (altrimenti rientrerebbero tra le armi proprie c.d. bianche), si prestino ad essere utilizzati a tale scopo, come: bisturi; coltello tipo “svizzero” multiuso [Cass., 6.10.2008 , Raifer, in CED 2008/241168]; forbici [Cass. pen., 24.11.1982, Longo, in CED 1982/157864]; roncola; pala; rasoio; scure; machete [Cass., 22.11.1995 , Cervicato, in CED 1995/203268]; fucile subacqueo; balestra; 4) qualsiasi altro strumento non considerato espressamente arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona (art. 4 comma 2, terza ipotesi, legge n. 110/1975). Una prima interpretazione restrittiva riconduce a questo sottogruppo di armi improprie pur sempre solo gli strumenti da punta o da taglio, necessari per un mestiere, un’arte, una scienza (con rinvio al comma 2 dell’art. 45 reg. t.u.l.p.s.) [VIGNA, BELLAGAMBA, 100]. In base alla tesi prevalente, invece, possono essere considerati come armi improprie, ai sensi della disposizione citata – ritenuta non in contrasto col principio di tassatività, benché formulata in termini di analogia esplicita [C. cost. n. 79/1982, in Cass. pen., 1982, 1145] – tutti gli oggetti, ancorché non da punta o da taglio, idonei ad offendere ed inseriti in un contesto spazio-temporale che sveli la non equivocità del proposito dell’agente di recare offesa alla persona [MOSCA, 5; Cass. pen., 9.7.2008, Mameli, in CED 2008/240448]; ciò che rileva, peraltro, ai fini della qualificazione di tali strumenti come arma non è la loro

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forma, ma la destinazione funzionale degli stessi [Cass. pen., 10.7.2008, Iacobene, in CED 2008/240431]. Sono stati pertanto ritenuti rilevanti ai sensi dell’ art. 585 c.p. i seguenti oggetti: ago di siringa [Cass. pen., 26.11.1986, Pantone, in CED 1986/175037]; bacchetta o stecca di legno [Cass., 17.11.2004, n. 44621]; bastone di legno (Cass., 17.3.2006 , Romano, in CED 2006/233896]; bastoni, manganelli e clave di plastica dura, venduti per carnevale; batticarne; bicchiere di vetro [Cass., 9.7.2008, Mameli, in CED 2008/240448, cit.]; bloccapedali per automobile [Cass., 17.7.2009, P., in Cass. pen., 2010, 1963]; frustino [Cass., 3.3.2004 , D., in CED 2004/229402, in Cass. pen., 2005, 2695]; lima; manico di scopa e ombrello [Cass., 16.7.2010, Casco, in CED 2010/247888]; martello; 5) gli strumenti di cui all’art. 5 comma 4 della legge n. 110/1975 (strumenti riproducenti armi, ove idonei all’offesa alla persona), nonché i puntatori laser o oggetti con funzione di puntatori laser, di classe pari o superiore a 3 b, secondo le norme CEI EN 60825-1, CEI EN 60825-1/a11, CEI EN 60825-4 (si tratta di una nuova ipotesi, inserita nell’art. 4 comma 2 dal d.lgs. n. 204/2010); 6) aste di bandiere, dei cartelli e degli striscioni, usate nelle pubbliche manifestazioni e nei cortei, nonché gli altri strumenti simbolici usati nelle stesse circostanze, qualora vengano adoperati come oggetti contundenti (art. 4 comma 9 legge n. 110/1975]. Alle armi l’art. 585 comma 3 c.p. assimila: a) le materie esplodenti, con ciò intendendo sia gli esplosivi in senso stretto (quei prodotti caratterizzati da elevata potenzialità e micidialità, idonei a provocare un’esplosione con rilevante effetto distruttivo, la cui disciplina è contenuta nella legge n. 895/1967 e nella legge n. 497/1974), sia le altre materie esplodenti (quei prodotti utilizzati per i fuochi di artificio, normalmente privi di potenza micidiale, la cui disciplina si ritrova nelle ipotesi contravvenzionali del c.p. e nel t.u.l.p.s.); b) i gas, ma solo quelli asfissianti o accecanti. In tema di armi, vengono, infine, in rilievo ulteriori nozioni e categorie previste dalle leggi speciali, come le armi per uso sportivo (legge 25.3.1986, n. 85), i materiali di armamento (legge 9.7.1990), le armi da caccia (legge 11.2.1992, n. 157), le armi chimiche (legge 18.11.1995, n. 496), gli esplosivi per uso civile (d.lgs. 2.1.1997, n. 7), le mine antipersona (legge 29.11.1997, n. 374) e le tecnologie a duplice uso (d.lgs. 9.4.2003, n. 96). 2.2. Le armi da guerra o tipo guerra. – La disciplina dell’art. 585 c.p. è essenzialmente finalizzata a consentire l’interpretazione del termine armi laddove esso compaia come elemento di fattispecie o come circostanza aggravante. Spetta, invece, alla disciplina contenuta nella legislazione complementare definire, anche agli effetti delle norme penali sul controllo, le diverse tipologie di armi. Le armi da sparo vanno distinte nelle due fondamentali categorie delle armi da guerra e delle armi comuni da sparo. L’art. 1 legge 18.4.1975, n. 110 detta una definizione generale di arma da

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guerra, valevole «agli effetti delle leggi penali, di quelle di pubblica sicurezza e delle altre disposizioni legislative o regolamentari in materia», secondo la quale sono tali: 1) «le armi di ogni specie che, per la loro spiccata potenzialità di offesa, sono o possono essere destinate al moderno armamento delle truppe nazionali o estere per l’impiego bellico; 2) le bombe di qualsiasi tipo o parti di esse; 3) gli aggressivi chimici, biologici, radioattivi; 4) i congegni bellici micidiali di qualunque natura; 5) le bottiglie e gli involucri esplosivi o incendiari». La mancanza di uno dei suddetti requisiti esclude la qualifica di arma da guerra delle armi sub 1); conseguentemente, l’arma in questione dovrà essere considerata un’arma tipo guerra o comune da sparo [SISCARO, 448 ss.]. Con riferimento alla spiccata idoneità offensiva, vengono in rilievo le dimensioni, la forma, il calibro, la lunghezza e la rigatura della canna, la celerità del tiro, la gittata, il grado di automatismo, il potere di arresto e la precisione [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 12]. Particolare rilevo assume il grado di automatismo, che attiene alle modalità d’impiego dell’arma. Sotto questo profilo, nelle armi automatiche e semiautomatiche vi è un meccanismo che, sfruttando parte dell’energia dei gas provocati dalla combustione del proiettile, inserisce automaticamente un nuovo proiettile nella camera di scoppio, prelevandolo dall’apposito serbatoio caricatore e consentendo così il tiro in rapida successione. L’intervento dell’operatore è limitato alla pressione sul grilletto dell’arma, al fine di dar luogo allo sparo che, di conseguenza, provocherà il lancio del primo proiettile ed il caricamento del secondo. Nelle armi semiautomatiche, poi, la pressione sul grilletto dovrà essere ripetuta dopo lo sparo di ogni singolo colpo, mentre in quelle automatiche l’arma continuerà a caricare ed espellere i proiettili finché il grilletto non verrà rilasciato dal tiratore (c.d. “tiro a raffica”). Nelle armi a caricamento manuale, invece, il tiratore, dopo ogni singolo colpo, dovrà effettuare personalmente le operazioni testé illustrate, il che ovviamente implica che il tiro in successione sarà molto meno rapido. La direttiva 91/477/CEE (all’allegato I, art. IV) stabilisce che è automatica «un’arma da fuoco che dopo ogni sparo si ricarica da sola e che può sparare più colpi a raffica azionando una sola volta il grilletto» e che è semiautomatica «un’arma da fuoco che dopo ogni sparo si ricarica automaticamente e che può sparare un solo colpo azionando una sola volta il grilletto».

La dottrina [CIVELLO, 45] ha avuto modo di rilevare, con una interpretazione diretta a valorizzare il principio di offensività, che la caratteristica della spiccata idoneità offensiva deve essere accertata in concreto e non in astratto, tramite gli indici sopra delineati sulla base di un giudizio complessivo, con «la conseguenza che va negata la qualità di arma da guerra a quell’arma che, sebbene adoperata dalle truppe, sia connotata da una scarsa potenzialità offensiva; di converso, deve ritenersi che armi, pur simili ad altre espressamente catalogate dalla legge tra quelle comuni da sparo, qualora presentino il carattere della spiccata potenzialità offensiva, debbano essere annoverate tra le armi da guerra» [CIVELLO, cit.]. Poiché la classificazione di un’arma va operata non in astratto, ma in concreto, attraverso la considerazione di tutti gli elementi idonei a valutarne il potenziale offensivo, spetta al giudice di merito il potere di sindacare la natura dell’arma, con la conseguenza che tale riconoscimento esclude l’obbligatorietà del parere con il quale la Commissione Consultiva Centrale per il controllo delle armi abbia negato la riconducibilità di un’arma ad arma comune da sparo.

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Un altro presupposto per la qualificazione di un’arma da guerra è la sua destinazione, attuale o potenziale, al moderno armamento delle truppe. Le truppe cui fa riferimento l’art. 1 legge n. 110/1975 possono anche appartenere ad uno Stato estero [CARCANO, VARDARO, 6]. La locuzione moderno si caratterizza poi per uno scarso rigore definitorio, in quanto anche un’arma non più in dotazione dell’esercito può conservare l’attitudine all’impiego bellico in ragione della sua elevata potenzialità offensiva. Non potranno, in ogni caso, costituire un moderno armamento (e quindi armi da guerra o tipo guerra) le armi ad avancarica e quelle fabbricate anteriormente al 1890, poiché esse sono legislativamente definite come armi antiche dall’ art. 10 comma 7 legge 18.4.1975, n. 110 [CIVELLO, 67]. Va altresì evidenziato che l’art. 2 d.m. 14.4.1982 stabilisce che le armi antiche, anche se originariamente fabbricate per uso bellico ed utilizzate come armi da guerra, non sono considerate in alcun caso come tali ai sensi dell’art. 1 legge n. 110/75. Parimenti, non è arma da guerra una pistola Beretta cal. 9 cui sia stata successivamente sostituita la canna con un’altra canna cal. 7,65, in quanto una tale arma composta non potrebbe mai essere adottata da un moderno esercito [CIVELLO, 1 ss.]. La legge, inoltre, specifica che è arma da guerra solo quella utilizzata per l’impiego bellico. Viene poi in rilievo il requisito dell’attitudine all’impiego, in base alla quale l’arma non deve essere radicalmente inservibile ed inefficiente, ovvero non devono essere necessarie riparazioni laboriose operazioni. L’arma è invece atta all’impiego quando è solo al momento inefficiente ma agevolmente riparabile. Visti i requisiti essenziali dell’arma da guerra, così come individuati dall’art. 1 legge 18.4.1975, n. 110, non possono essere considerate armi da guerra le c.d. armi bianche, per le quali non sussiste né il requisito della spiccata potenzialità offensiva né quello della destinazione all’impiego bellico. La Suprema Corte ha avuto modo di precisare che l’art. 1 legge 18.4.1975, n. 110 «non è una norma incriminatrice che abbia introdotto una specifica disciplina per le armi da guerra, tipo guerra, materiale esplodente, ordigni esplosivi e incendiari, abrogatrice della precedente disciplina, ma si è limitata a definire, agli effetti delle leggi penali, di pubblica sicurezza o di altre disposizioni legislative o regolamentari, quali armi debbano intendersi da guerra» [Cass. pen., sez. I, 21.2.1983, n. 54]. Per determinare il carattere di arma da guerra poi «non è decisivo il fatto che l’arma sia o meno antiquata e sia o meno in attuale dotazione di corpi delle forze armate nazionali o estere oppure sia di limitata potenza distruttiva in confronto a mezzi molto distruttivi, essendo sufficiente che essa, per potenzialità di offesa, potere di arresto, precisione o altro, sul piano della pericolosità, abbia l’attitudine potenziale ad un impiego bellico, anche per ragioni di carattere contingente, al di fuori del normale armamento di reparti che non richiedano armi di particolare capacità distruttiva» [Cass. pen., sez. I, 17.2.1984, n. 254]. La giurisprudenza è unanime nel ritenere che un’arma da guerra conserva tale natura anche quando la canna sia stata sostituita con altra di calibro minore, poiché siffatta sostituzione, lasciando inalterati il castello e le altre parti essenziali, non impedisce che sia nuovamente montata sulla pistola, con facili accorgimenti, la canna originaria e che, quindi, l’arma sia restituita alla sua iniziale, spiccata potenzialità offensiva [ex multis, Cass., sez. VI, 24.1.1995]. Un’arma

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deve essere qualificata “da guerra” quando abbia spiccata potenzialità offensiva e sia idonea a soddisfare le moderne esigenze di armamento delle truppe per l’impiego pubblico. Pertanto non è sufficiente a far riconoscere la detta qualifica la semplice adozione di un’arma da parte di un esercito, in assenza degli altri requisiti [Cass., sez. I, 30.11.1981; contra Cass. pen., sez. I, 11.5.1982, n. 345: nella specie, la Suprema Corte ha affermato che, ai fini della qualificazione di una pistola come arma da guerra, è sufficiente che la pistola medesima sia ovvero sia stata in dotazione alle Forze Armate di uno stato estero, essendo in tal caso implicita, in relazione all’uso militare cui era destinata, la sua spiccata potenzialità offensiva], o la semplice alterazione di un’arma comune da sparo, mediante taglio delle canne ed accorciamento del calcio, trattandosi di arma che, pur potendo avere una notevole potenzialità lesiva, non potrebbe mai essere destinata al moderno armamento delle truppe. In giurisprudenza, infine, sono state qualificate come armi da guerra: la pistola Beretta cal. 9 parabellum [Cass. pen., sez. I, 19.5.2009, n. 24052], il fucile Mauser cal. 7,62 in dotazione alle forze N.A.T.O. [Cass. pen., sez. I, 26.6. 1982], il fucile Vetterly, il moschetto 91/38, la pistola Fegjergjar cal. 8, la mitragliatrice Thompson mod. 1928 cal. 45 [per i riferimenti giurisprudenziali si rinvia all’approfondita ed analitica trattazione di CIVELLO, 1 ss.]. -

Venendo alle armi tipo guerra, l’art. 1 comma 2 legge 18.4.1975, n. 110, prevede che «sono armi tipo guerra quelle che, pur non rientrando tra le armi da guerra: 1) possono utilizzare lo stesso munizionamento delle armi da guerra; 2) o sono predisposte al funzionamento automatico per l’esecuzione del tiro a raffica; 3) o presentano caratteristiche balistiche o di impiego comuni con le armi da guerra». La sussistenza anche di uno solo di tali requisiti è sufficiente per la qualificazione di un’arma come tipo guerra [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 19]. Per quanto concerne il requisito del munizionamento da guerra, particolarmente problematica è la distinzione tra le armi tipo guerra e le armi comuni da sparo, atteso che l’ art. 2 comma 2 legge n. 110/1975 dispone che «sono altresì armi comuni da sparo i fucili e le carabine che, pur potendosi prestare all’utilizzazione del munizionamento da guerra, presentino specifiche caratteristiche per l’effettivo impiego per uso di caccia o sportivo, abbiano limitato volume di fuoco e siano destinate ad utilizzare munizioni di tipo diverso da quelle militari». Detto altrimenti, il munizionamento da guerra caratterizza sia le armi comuni da sparo, sia le armi tipo guerra. Il problema della distinzione riguarda specialmente le pistole, in relazione alle quali non è semplice la classificazione come arma tipo guerra o arma comune da sparo. Seguendo rigorosamente il dettato dell’art. 1 comma 2 legge n. 110/1975 si dovrebbe affermare che sono armi tipo guerra le pistole che, pur non essendo automatiche, possono essere utilizzate con munizionamento da guerra; in tal modo, tuttavia, un fucile semiautomatico a canna rigata sarebbe mera arma comune da sparo ai sensi dell’ art. 2 comma 1 lett. b) legge 18.4.1975, n. 110 [CIVELLO, 27]. Su queste basi, parte della dottrina afferma che la mera possibilità di usare la munizione da guerra non è sufficiente per classificare la pistola non automatica come arma tipo guerra [RUSSO, 234]. Così, si ritiene che la pistola Beretta, anche in calibro parabellum (utilizzato da talune armi da guerra), sia un’arma comune da sparo; per lo stesso motivo, anche la rivoltella a rotazione Smith &

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Wesson mod. 547, pur utilizzando munizioni cal. 9 parabellum, viene considerata arma comune da sparo [BELLAGAMBA-VIGNA, 29]. In generale, poi, tutte le pistole semiautomatiche, di qualsiasi calibro, sono classificabili come armi comuni da sparo, ad eccezione di quelle calibro 9 lungo e 9 parabellum. Come ben evidenziato in dottrina [CIVELLO, 1 ss.], in deroga all’art. 1 legge 18.4.1975, n. 110, l’ art. 2 comma 2 legge 18.4.1975, n. 110 stabilisce che «sono altresì armi comuni da sparo i fucili e le carabine che, pur potendosi prestare all’utilizzazione del munizionamento da guerra, presentino specifiche caratteristiche per l’effettivo impiego per uso di caccia o sportivo, abbiano limitato volume di fuoco e siano destinate ad utilizzare munizioni di tipo diverso da quelle militari» (rientrano in tale categoria, per esempio, i drilling, i fucili a canne miste, gli express, i fucili da tiro con speciali calciature e i fucili benchrest [cfr., CIVELLO, 45]). Avuto riguardo al requisito della predisposizione al funzionamento automatico (ossia la capacità dell’arma di effettuare il tiro a raffica), esso è integrato «dalla possibilità di un’arma, omologata per effettuare il tiro non a raffica, di essere trasformata, con la facile modifica di alcuni suoi meccanismi, o con la loro completa sostituzione, in arma automatica. È il caso, per esempio, dei fucili da assalto sportirizzati del calibro 7,62 o 223 tipo Sig, o Armalite, i quali vengono trasformati (nel gergo, “sportirizzati” in armi non più in grado di effettuare il tiro a raffica, ma possono agevolmente essere riconvertiti in armi automatiche» [CIVELLO, 1 ss.]. Secondo altra dottrina, invece, la predisposizione al funzionamento automatico andrebbe intesa (al pari della predisposizione al funzionamento semiautomatico di cui all’ art. 2 comma 1 lett. d) legge 18.4.1975, n. 110) come idoneità già attuale al funzionamento automatico e non come mera idoneità alla trasformazione dell’arma in automatica [riferimenti in CIVELLO, 1 ss.]; in questo caso, l’arma automatica sarà qualificata come da guerra o tipo guerra a seconda che sia camerata per cartucce rispettivamente di elevata o di scarsa potenza. Per quanto concerne le caratteristiche balistiche comuni con le armi da guerra, devono essere considerate le dimensioni e la forma dell’arma, la gittata, il peso e la velocità del proiettile, il calibro, la lunghezza della canna, la rigatura dell’arma; per le caratteristiche di impiego, invece, rilevano la precisione, la celerità del tiro, il grado di automatismo, la rusticità, la robustezza, la semplicità di utilizzo e di manutenzione, la possibilità di puntamento e di sostegno, l’idoneità all’innesto eventuale della baionetta o del lancia-granate, la modalità di trasporto. A tal riguardo, vale la pena di ricordare che il solo parere contrario Commissione Consultiva Centrale per il controllo delle armi alla collocazione di una pistola tra le armi comuni da sparo, non è sufficiente a qualificare automaticamente tale pistola quale arma tipo guerra; peraltro, il giudice può in ogni caso disapplicare tale atto amministrativo qualora lo reputi illegittimo [BELLAGAMBAVIGNA, 29]. Viceversa, nei casi in cui un’arma venga iscritta nel catalogo nazionale delle armi comuni da sparo di cui all’art. 7 legge 18.4.1975, n. 110, tale iscrizione costituisce accertamento definitivo della qualità di arma comune da sparo posseduta dal prototipo (art. 7 comma 4 legge 18.4.1975, n. 110).

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Volgendo lo sguardo alla giurisprudenza, si è precisato che la presenza di una sola delle caratteristiche strutturali di cui all’art. 1 comma 2 legge 18.4.1975, n. 110 comporta la qualifica di arma tipo guerra per la comune arma da sparo; segue che la possibilità di armamento della pistola semiautomatica marca Spectre HC, di per sé stessa qualificabile come arma comune da sparo, con munizioni recanti impresso il simbolo N.A.T.O., la fa qualificare come arma tipo guerra, in quanto le munizioni in questione risultano essere destinate all’attuale armamento delle truppe dei Paesi aderenti all’Alleanza Atlantica, non rilevando che di dette munizioni si possa fare un uso alternativo mediante armamento di arma comune da sparo [Cass. pen., sez. I, 31.1.1997, n. 46]. Attenta dottrina [CIVELLO, 1 ss.] ha criticato tale orientamento, affermando che il discrimen tra munizione da guerra e munizione per arma comune da sparo non può risiedere nel mero simbolo impresso sulle munizioni medesime, dovendosi guardare per contro alle caratteristiche sostanziali delle stesse. La giurisprudenza risalente affermava poi che un’arma non da guerra, per la quale la Commissione Consultiva Centrale avesse dato parere contrario alla catalogazione fra le armi comuni da sparo, si sarebbe dovuta considerare ufficialmente quale arma tipo guerra [Cass. pen., sez. I, 30.11.1981].Più di recente, tuttavia, la Suprema Corte ha mutato orientamento, affermando che la mancata catalogazione di un’arma da parte della Commissione Consultiva Centrale per il controllo delle armi, quale arma comune da sparo, non è decisiva ai fini della qualificazione giuridica dell’arma, in quanto spetta al giudice stabilire in concreto la natura dell’oggetto e la disciplina applicabile [Cass. pen., sez. I, 20.3.1996].

2.2.1. Le armi comuni da sparo. – La definizione di arma comune da sparo è contenuta nell’art. 2 legge 18.4.1975, n. 110. Tale disposizione individua due categorie: le armi comuni da sparo per definizione (ossia le armi da fuoco di cui ai commi 1 e 2) e quelle assimilate (ossia le armi da bersaglio da sala e quelle ad aria o gas compressi di cui al comma 3). Vi sono tuttavia altri due tipi di arma da annoverare tra le armi comuni da sparo: le armi da caccia di cui all’art. 13 legge 11.2.1992, n. 157, nonché quelle destinate all’uso sportivo di cui all’art. 2 legge 25.3.1986, n. 85. Sono, invece, sottratte alla disciplina delle armi comuni da sparo le armi da sparo ad aria o gas compressi che erogano un’energia cinetica non superiore a 7,5 joule: per tali armi è prevista un’apposita disciplina contenuta nel d.m. 9.8.2001, n. 362, il quale, peraltro, contiene esclusivamente sanzioni amministrative. Deve poi essere evidenziato che la categoria delle armi comuni da sparo è residuale, nel senso che devono essere considerate come comuni tutte quelle armi da sparo non già qualificabili come da guerra o tipo guerra [CIVELLO, 1 ss.]. L’individuazione e la qualificazione in concreto delle armi comuni da sparo, dopo l’abolizione del Catalogo nazionale ad opera della legge 12.11.2011, n. 183, è demandata al giudice. 2.2.2. Le armi comuni da sparo per definizione. – Come già detto, il comma 1 dell’art. 2 della legge n. 110/1975 disciplina le armi comuni da sparo per definizione. Tale disposizione fornisce un elenco dettagliato di armi considerate per definizione armi comuni da sparo. A tal fine, il legislatore prende in considerazione la rigatura della canna ed il grado di automatismo dell’arma: da tale disposizione si desume che «non possono mai essere comuni da sparo le armi automatiche (le quali saranno qualificate da guerra o tipo guerra); viceversa, le armi semiautomatiche o a caricamento manuale possono essere qualificate come comuni

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da sparo solo in presenza di determinate condizioni (quali la presenza della canna liscia o di una sola canna rigata o di una canna corta)» [CIVELLO, 1 ss.]. L’elencazione di cui all’art. 2 legge 18.4.1975, n. 110 deve ritenersi tassativa, nel senso che sono armi comuni da sparo per definizione solamente le armi espressamente richiamate da tale disposizione. Ciononostante, per pistola e per fucile bisogna intendere qualsiasi strumento, anche artigianale o atipico, avente una canna rispettivamente corta o lunga, suscettibile di essere impugnato ed idoneo ad espellere, per mezzo dell’accensione della polvere da sparo, un proiettile ad una discreta velocità. Ne consegue che la norma in questione non sarà applicabile a tutti quegli oggetti che, pur essendo astrattamente qualificabili come armi da sparo, non rientrino nella nozione di pistola o di fucile. Sono da ritenersi armi comuni per definizione, tra le altre, la carabina cal. 22 a canna rigata, la pistola cal. 7,65 semiautomatica, le pistole scacciacani. Si distinguono poi le armi automatiche, semiautomatiche ed a caricamento manuale in base al grado di automatismo, che attiene alle modalità d’impiego dell’arma. Le armi automatiche e semiautomatiche si caratterizzano per un meccanismo che utilizza parte dell’energia dei gas provocati dalla combustione del proiettile, inserendo così automaticamente un nuovo proiettile nella camera di scoppio e consentendo così il tiro in rapida successione. L’intervento dell’operatore è, dunque, limitato alla sola pressione sul grilletto dell’arma. Nelle armi semiautomatiche, poi, la pressione sul grilletto dovrà essere ripetuta dopo lo sparo di ogni singolo colpo, mentre in quelle automatiche l’arma continuerà a caricare ed espellere i proiettili finché il grilletto non verrà rilasciato dal tiratore (c.d. tiro a raffica); nelle armi a caricamento manuale, invece, il tiratore, dopo ogni singolo colpo, dovrà effettuare personalmente le operazioni testé illustrate, il che ovviamente implica che il tiro in successione sarà molto meno rapido. La direttiva 91/477/CEE (all’allegato I, art. IV) stabilisce che è automatica «un’arma da fuoco che dopo ogni sparo si ricarica da sola e che può sparare più colpi a raffica azionando una sola volta il grilletto» e che è semiautomatica «un’arma da fuoco che dopo ogni sparo si ricarica automaticamente e che può sparare un solo colpo azionando una sola volta il grilletto». Con riferimento all’elencazione di cui al comma 1 dell’art. 2 legge n. 110/1975, va precisato che i termini fucile, carabina e moschetto sono sostanzialmente equipollenti, facendo tutti riferimento alle armi lunghe. Un problema interpretativo è sorto in relazione alla dicitura «anche se predisposti per il funzionamento semiautomatico» contenuta nella lett. d) del comma 1 in esame. Ci si è chiesti infatti se con tale espressione la legge abbia fatto riferimento alle armi lunghe già semiautomatiche o a quelle suscettibili di essere trasformate in semiautomatiche. Sul punto, la dottrina ha precisato che sarebbero comprese nel genus armi comuni da sparo tutte le armi lunghe semiautomatiche, siano esse già utilizzabili con tale meccanismo, siano esse trasformabili in semiautomatiche [CIVELLO, 1 ss.]. Rientrano nel novero della lett. e) del comma 1 in esame i fucili e le carabine che impiegano munizioni a percussione anulare: a tale categoria di munizioni

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appartengono le cal. 6 Flobert (munizioni di ridotte dimensioni prive di polvere, in cui il fulminato di mercurio costituisce sia innesco sia propellente) e le munizioni cal. 22 L.R., le quali contengono sia la polvere sia un innesco di fulminato di mercurio che è collocato lungo i bordi del bossolo. Nell’ambito delle rivoltelle (o revolver) si distinguono poi due fondamentali sottotipi: quelle ad azione singola e quelle a doppia azione: nelle prime, la rotazione del tamburo deve avvenire necessariamente per opera del tiratore, mentre questi riarma manualmente il cane che batte il percussore; nelle seconde, invece, il riarmo del cane e la conseguente rotazione del tamburo avvengono con la semplice pressione sul grilletto. Dalla disposizione di cui all’art. 2 comma 1 legge 18.4.1975, n. 110 si deduce che «le rivoltelle, le pistole semiautomatiche ed i fucili semiautomatici non possono in nessun caso essere qualificati come armi da guerra, a prescindere dal calibro, dalle dimensioni e dal volume di fuoco; essi potranno considerarsi quali armi tipo guerra di cui all’art. 1, co. 2, l. 18 aprile 1975, n. 110, qualora utilizzino lo stesso munizionamento delle armi da guerra, come il cal. 9 parabellum, ossia cal. 9x19» [CIVELLO, 1 ss.]. Le armi comuni da sparo per definizione sono altresì disciplinate dal comma 2 dell’art. 2 legge 18.4.1975, n. 110. Questa disposizione richiama i fucili e le carabine che, pur potendosi prestare all’utilizzazione del munizionamento da guerra: 1) presentino specifiche caratteristiche per l’effettivo impiego per uso di caccia o sportivo; 2) abbiano limitato volume di fuoco; 3) e siano destinate ad utilizzare munizioni di tipo diverso da quelle militari. Tali armi, pure astrattamente qualificabili come tipo guerra (in ragione del munizionamento da guerra), sono da considerare armi comuni da sparo per la sussistenza congiunta di questi tre requisiti. La maggior parte delle carabine da caccia o per uso sportivo che esplodono un proiettile unico (non, dunque, pallini), hanno anche qualche versione camerata per cartucce aventi dimensioni identiche a quelle militari. Il legislatore, con riferimento al volume di fuoco, non specifica quale sia la soglia sotto la quale l’arma sia qualificabile come comune, ma in ogni caso il volume stesso (ossia il numero di colpi che l’arma è in grado di sparare nell’unità di tempo convenzionale, di regola il minuto) deve quantomeno essere inferiore a quello delle armi da guerra o tipo guerra. Anche il requisito del munizionamento determina problemi in ordine alla distinzione delle cartucce militari da quelle comuni, tenuto conto della similitudine tra le stesse in ordine alla potenza ed all’efficienza. Si discute in dottrina in ordine ai rapporti tra le armi di cui al comma 2 dell’art. 2 legge n. 110/1975 e le armi per uso sportivo di cui alla legge n. 85/ 1986. Secondo un primo orientamento tali categorie dovrebbero essere tenute distinte atteso che le seconde non presentano alcuna attitudine all’utilizzo del munizionamento da guerra [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 57]. Altri ritengono invece che la maggior parte delle armi sportive sono anche atte all’utilizzo del munizionamento da guerra [RUSSO, 194]. -

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Va infine rilevato che il d.lgs. n. 121/2013 ha riscritto l’art. 2 legge n. 110/ 1975, che nell’attuale versione, nell’ultimo periodo, dispone che «salvo che siano destinate alle Forze armate o ai Corpi armati dello Stato, ovvero all’esportazione, non è consentita l’introduzione nel territorio dello Stato e la vendita di armi da fuoco corte semiautomatiche o a ripetizione, che sono camerate per il munizionamento nel calibro 9x19 parabellum nonché di armi comuni da sparo, salvo quanto previsto per quelle per uso sportivo, per le armi antiche e per le repliche di armi antiche, con caricatori o serbatoi, fissi o amovibili, contenenti un numero superiore a 5 colpi per le armi lunghe ed un numero superiore a 15 colpi per le armi corte, nonché di tali caricatori e di ogni dispositivo progettato o adattato per attenuare il rumore causato da uno sparo. Per le repliche di armi antiche è ammesso un numero di colpi non superiore a 10. Nei casi consentiti è richiesta la licenza di cui all’articolo 31 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 733. Sono infine considerate armi comuni da sparo quelle denominate “da bersaglio da sala”, o ad emissione di gas, nonché le armi ad aria compressa o gas compressi, sia lunghe sia corte i cui proiettili erogano un’energia cinetica superiore a 7,5 joule e gli strumenti lanciarazzi, salvo che si tratti di armi destinate alla pesca ovvero di armi e strumenti per i quali il Banco nazionale di prova escluda, in relazione alle rispettive caratteristiche, l’attitudine a recare offesa alla persona. Non sono armi gli strumenti ad aria compressa o gas compresso a canna liscia e a funzionamento non automatico, destinati al lancio di capsule sferiche marcatrici biodegradabili, prive di sostanze o preparati di cui all’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1997, n. 52, che erogano una energia cinetica non superiore a 12,7 joule, purché di calibro non inferiore a 12,7 millimetri e non superiore a 17,27 millimetri. Il Banco nazionale di prova, a spese dell’interessato, procede a verifica di conformità dei prototipi dei medesimi strumenti. Gli strumenti che erogano una energia cinetica superiore a 7,5 joule possono essere utilizzati esclusivamente per attività agonistica. In caso di inosservanza delle disposizioni di cui al presente comma, si applica la sanzione amministrativa di cui all’articolo 17-bis, primo comma, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773. Con decreto del Ministro dell’interno sono definite le disposizioni per l’acquisto, la detenzione, il trasporto, il porto e l’utilizzo degli strumenti da impiegare per l’attività amatoriale e per quella agonistica». -

2.2.3. Le armi antiche, artistiche e rare di importanza storica. – Nell’ambito delle armi comuni da sparo una particolare disciplina è dettata per le armi antiche, artistiche e rare di importanza storica. Sono armi antiche quelle ad avancarica e quelle fabbricate anteriormente al 1890 (art. 10 comma 7 legge 18.4.1975, n. 110). A titolo esemplificativo, è arma antica la rivoltella d’ordinanza italiana mod. 89, ufficialmente adottata nel 1889; è arma moderna, invece, il fucile d’ordinanza italiano mod. 91, creato nel 1891 [per questo esempio CIVELLO]. Sono armi artistiche quelle che presentano caratteristiche decorative di notevole pregio o sono realizzate da artefici particolarmente noti; sono, invece, rare di

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importanza storica le armi che si rinvengono in numero limitato o sono collegate a personaggi o ad eventi di rilevanza storico-culturale (art. 6 d.m. 14.4.1982). È poi possibile distinguere: 1) le armi da sparo antiche stricto sensu (ossia prodotte prima del 1890) e le armi da sparo artistiche o rare di importanza storica – costruite dopo il 1889 – di modelli anteriori al 1890 (soggette allo speciale regime di cui al d.m. 14.4.1982); 2) le repliche – vale a dire la copia fedele dell’arma – di arma antica, soggette, per l’appunto, al regime delle armi comuni da sparo, secondo quanto previsto dalla lett. h) dell’art. 2 comma 1 legge 18.4. 1975, n. 110. Non sono qualificabili come armi antiche, nonostante siano ad avancarica: 1) le repliche di armi antiche (a meno che non siano costruite su prototipo antico e con materiali e mezzi non moderni); 2) le armi moderne che sparano proiettili micidiali, quantunque caricati dalla parte anteriore della canna (come i fucili lancia-lacrimogeni) [CIVELLO, 1 ss.]. L’art. 2 d.m. 14.4.1982 stabilisce che le armi antiche, anche se originariamente fabbricate per uso bellico ed utilizzate come armi da guerra, non sono considerate in alcun caso come tali ai sensi dell’art. 1 legge 18.4.1975, n. 110. L’art. 3, invece, stabilisce che per le armi da guerra o tipo guerra artistiche o rare di importanza storica e parti di esse, fabbricate su modello successivo al 1889, si osserva la disciplina stabilita dall’art. 10 commi 1 e 2 legge 18.4.1975, n. 110: tali armi, quindi, saranno soggette al generale divieto assoluto di detenzione. Le armi antiche devono ritenersi le sole sottratte al genus delle armi comuni da sparo (e, in linea di massima, soggette alla disciplina codicistica in materia di armi proprie), mentre le armi artistiche o rare di importanza storica di modelli anteriori al 1890 rientrano per ogni altro effetto nella categoria delle armi comuni da sparo (o nel genus delle armi da guerra o tipo guerra, qualora sussistano i requisiti di cui all’art. 1 legge 18.4.1975, n. 110) [come osserva CIVELLO «se l’art. 2, co. 1, lett. h), l. 18 aprile 1975, n. 110 ricomprende tra le armi comuni da sparo le repliche di armi antiche ad avancarica di modelli anteriori al 1890, implicitamente ricomprende in tale genus le armi artistiche e rare di importanza storica, le quali sono prodotte dopo il 1889 su modelli antecedenti al 1890»]. Va segnalato che l’art. 11 legge 21.12.1999, n. 526, modificando la citata lett. h), ha escluso dal novero delle armi comuni da sparo le repliche di armi antiche ad avancarica a colpo singolo. A quest’ultime, dunque, si applica la disciplina di cui al d.m. 9.8.2001, n. 362. Non sono soggette a limiti di detenzione, collezione o trasporto le armi antiche inidonee a recare offesa per difetto ineliminabile della punta o del taglio, ovvero dei congegni di lancio o di sparo (art. 5 legge 21.2.1990, n. 36); resta salva in ogni caso la disciplina in materia di cosiddette armi improprie, qualora tali strumenti antichi siano comunque idonei all’offesa alla persona. Si ritiene infine che la qualità di arma antica sia assorbente rispetto ad altre qualificazioni; così, un’arma antica, la quale sia anche arma da caccia oppure arma ad aria compressa, soggiacerà in ogni caso allo speciale regime previsto per le armi antiche. -

2.2.4. Le armi da sparo assimilate. – Il comma 3 dell’art. 2 legge n. 110/

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1975 disciplina le armi da sparo assimilate, stabilendo che «sono considerate armi comuni da sparo»: 1) le armi denominate da bersaglio da sala; 2) le armi ad emissione di gas e le armi ad aria compressa o gas compressi, sia lunghe sia corte, i cui proiettili erogano un’energia cinetica superiore a 7,5 joule; 3) gli strumenti lanciarazzi. Sul punto, va precisato che per le armi da bersaglio da sala e per quelle ad emissione di gas l’assimilazione alle armi comuni da sparo effettuata dal legislatore deve ritenersi assoluta, mentre per quanto concerne le armi ad aria o gas compressi e gli strumenti lanciarazzi l’assimilazione è soltanto relativa, in quanto la seconda parte dell’art. 2 comma 3 legge 18.4.1975, n. 110, prevede che detti tipi d’arma non devono considerarsi comuni da sparo qualora: a) siano destinati alla pesca; b) ovvero la Commissione Consultiva escluda, in relazione alle rispettive caratteristiche, l’attitudine a recare offesa alla persona. Le armi sub 1) sono quelle generalmente utilizzate per il tiro a bersaglio nelle sale da gioco o nei parchi di divertimenti. Si tratta nella maggior parte dei casi di carabine ad aria compressa che lanciano piombini o piumini appuntiti. Le armi sub 2) possono essere di due tipi, secondo che il gas sia elemento propulso (per esempio nei casi di cartucce contenenti gas irritante o lacrimogeno) o elemento propellente (come nei casi di arma in cui il proiettile è propulso da un gas contenuto in una bombola – generalmente anidride carbonica –, similarmente alle armi ad aria compressa) [SCUDIERI, 128]. Secondo una impostazione ormai accreditata, rientrano nel genus delle armi comuni da sparo entram-be le categorie, salvo che, nel caso di gas propulso, l’elemento chimico espulso dall’arma non sia qualificabile come aggressivo chimico, biologico o radioattivo di cui all’art. 1 legge n. 110/1975 [RUSSO, 196: l’Autore, a titolo esemplificativo, fa riferimento alle c.d. pistole “scacciacani” – le quali sparano sostanze liquide o gassose, più o meno tossiche – ritenute talvolta dalla giurisprudenza come armi comuni da sparo]. La soglia di energia cinetica, al di sopra della quale l’arma è qualificabile come comune da sparo, è stata inserita dall’art. 11 legge 21.12.1999, n. 526. Le armi ad aria compressa, nei casi di energia cinetica non superiore a 7,5 joule, sono disciplinate del d.m. 9.8.2001, n. 362, la cui violazione integra l’illecito amministrativo previsto dall’art. 16 del decreto stesso. Al di sotto della soglia dei 7,5 joule vi è una presunzione assoluta di inoffensività. Viceversa, in caso di energia erogata superiore a 7,5 joule, la Commissione Consultiva può discrezionalmente valutare l’offensività dell’arma, potendo anche escludere che la stessa sia da classificarsi come comune da sparo, nonostante il superamento della soglia di 7,5 joule. Per quanto riguarda l’efficacia del parere della Commissione Consultiva all’interno del giudizio penale, il giudice risulterà vincolato al parere negativo, ma non a quello positivo, potendo in questo caso ritenere l’arma inoffensiva in concreto (si deve infatti considerare che le armi ad aria o gas compressi, originariamente idonei a superare il limite dei 7,5 joule possono perdere progressivamente tale idoneità pur risultando ancora funzionanti), nonostante il superamento del limite energetico dei 7,5 joule e l’inserimento nel Catalogo Nazionale delle armi comuni [CIVELLO, 34]. Con riferimento agli strumenti lanciarazzi (sub 3), gli stessi devono essere

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tenuti distinti dalle armi lanciarazzi, ovvero dalle armi da guerra micidiali, finanche capaci di devastare un mezzo blindato. Si tratta di strumenti non destinati naturalmente all’offesa della persona, adoperati per lanciare in aria un razzo luminoso. L’esplicito richiamo all’interno dell’art. 2 legge 18.4.1975, n. 110 esclude la classificazione degli stessi come armi improprie. Il comma 5 dell’art. 2 cit. sancisce che è esclusa l’illiceità del porto e della detenzione degli strumenti lanciarazzi e delle relative munizioni quando il loro impiego è previsto da disposizioni legislative o regolamentari ovvero quando tali oggetti sono comunque detenuti o portati per essere utilizzati come strumenti di segnalazione per soccorso, salvataggio o attività di protezione civile. Gli strumenti lanciarazzi per uso nautico sono disciplinati dall’art. 5 legge 8.8.1977, n. 533. Le disposizioni concernenti la detenzione ed il porto delle armi comuni da sparo, infine, non si applicano agli strumenti lanciarazzi e ai relativi artifici e munizioni, quando vengono utilizzati per il soccorso alpino ed esercitazioni. 2.2.5. La qualificazione della pistola semiautomatica cal. 9 parabellum. – Una problematica particolarmente discussa in dottrina e in giurisprudenza è quella della categorizzazione delle pistole semiautomatiche cal. 9 come armi da guerra, tipo guerra, ovvero comuni da sparo. Segnatamente, si discute in ordine alle munizioni cal. 9 mm lungo (9x19) o parabellum [su questa problematica, per tutti, CIVELLO, 35 ss.]; le munizioni cal. 9 corto (9x17), invece, vengono generalmente qualificate come comuni da sparo. Al riguardo, va premesso che la giurisprudenza, fino all’abolizione del Catalogo nazionale delle armi comuni da sparo, quando l’iscrizione costituiva accertamento definitivo, era concorde nel sostenere che «l’iscrizione di una tipologia di arma nel catalogo delle armi comuni da sparo costituisce accertamento definitivo della qualità dell’arma, a meno che non vi siano state trasformazioni atte ad aumentare, nel caso concreto, l’offensività di essa» [da ultimo, Cass. pen., sez. IV, 20.1.2009, n. 9034]. La Commissione Consultiva Centrale per il controllo delle armi fino alla sua abolizione aveva infatti catalogato tra le armi comuni da sparo numerosissimi modelli di arma cal. 9, sia corto (9 x 17), sia lungo (9 x 19) (revolver cal. 9 Luger, Smith & Wesson n. 3316 e 3317). Nonostante tali indicazioni, la Suprema Corte ha costantemente affermato che le pistole cal. 9 dovessero essere qualificate come armi da guerra o tipo guerra [Cass. pen., sez. V, 23.1.1985, n. 4913]. A partire dalla G.U. n. 144 del 22.6.1990, la Commissione Nazionale consentiva l’iscrizione nel Catalogo delle Armi Comuni da Sparo di numerose pistole cal. 9 corto o cal. 9x17, tra le quali i modelli n. 6439, 6440, 6441 e 6442, sicché la Suprema Corte mutava orientamento ed affermava che «la pistola calibro 9, modello 34, è arma comune da sparo, e le relative cartucce munizioni per arma comune, in quanto dal 1990 tale arma è stata iscritta nel catalogo nazionale delle armi comuni da sparo» [Cass. pen., sez. I, 12.2.1991, n. 4028]. Sulla base di tale renvirement, si è ipotizzata l’estensione della qualifica di arma comune da sparo non solo alle pistole cal. 9x17 (cal. 9 corto) ma anche alle pistole cal. 9x19 (cal. 9 lungo). La giurisprudenza, tuttavia, non ha mostrato aperture, affermando che «in materia di reati concernenti le armi, l’introduzione attuata nel 1990, nel catalogo delle armi comuni da sparo, di pistole semiautomatiche cal. 9, concerne armi che utilizzano proiettili cal. 9 corto (cal. 9x17), e non calibro 9 lungo (cal. 9x19), che, in quanto destinati ad armi da guerra, devono ritenersi munizioni per arma da guerra» [Cass. pen., sez. I, 3.3.1998, n. 4220]. Tale orientamento è stato costantemente ribadito, qualificando come “arma da guerra” la pistola semiautomatica cal.

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9x19 [ex multis, Cass. pen., sez. I, 31.3.2011, n. 35106, secondo cui «in materia di reati concernenti le armi, l’introduzione nel catalogo delle armi comuni da sparo – attuata nel 1990 – di pistole semiautomatiche cal. 9, concerne armi che utilizzano proiettili cal. 9 corto, e non calibro 9 lungo, che, in quanto destinati ad armi da guerra, devono ritenersi munizioni per arma da guerra»]. Un’attenta dottrina [CIVELLO] ha tuttavia avuto modo di rilevare che nel 2003, la Commissione Nazionale ha autorizzato l’iscrizione nel Catalogo delle armi comuni da sparo di due armi pacificamente cal. 9x19 e, in particolare: il revolver Taurus cal. 9x19 (n. 14258) e la carabina Rossi, cal. 9x19 (n. 14335); tali due armi, dunque, sono state inserite nel Catalogo Nazionale con decreto ministeriale pubblicato nella G.U. n. 210 del 10.9.2003. A tal riguardo si osserva: «se, dunque, è stata disposta per legge l’iscrizione a Catalogo di numerose pistole cal. 9x19, non si vede per quale motivo la giurisprudenza continui a qualificare come da guerra un tale genere di armi corte» [CIVELLO]. Ed infatti «se la Corte di Cassazione ha ritenuto negli anni ‘90 di mutare orientamento e di qualificare come arma comune da sparo la pistola cal. 9x17 (c.d. cal. 9 corto), proprio in virtù della sopravvenuta iscrizione della stessa nel Catalogo Nazionale, non si comprende come si possa oggi, con motivazione congrua ed immune da censure, continuare a qualificare come da guerra la pistola cal. 9x19, la quale – come detto – è stata iscritta nel citato Catalogo quantomeno a far data dalla G.U. n. 210 del 10-9-2003». Sempre in base all’orientamento in esame, è possibile pervenire alle stesse conclusioni anche alla luce della legislazione comunitaria in tema di armi da sparo. In particolare, la direttiva europea n. 1991/477/CE (modificata dalla direttiva europea n. 2008/51/CE in tema di armi), ha introdotto una chiara distinzione tra armi proibite (corrispondenti alle armi da guerra e tipo guerra) di cui alla categoria A dell’Allegato 2, tra le quali rientrano le armi da fuoco automatiche, e le armi da fuoco soggette ad autorizzazione (corrispondenti alle armi comuni da sparo), di cui alla categoria B dell’Allegato 2, tra le quali rientrano le armi da fuoco corte semiautomatiche. E dunque, la direttiva europea n. 1991/477/CE è chiara nell’annoverare tra le armi proibite (ossia da guerra) solamente le armi da fuoco automatiche, mentre le armi da fuoco corte semiautomatiche vengono catalogate come armi non proibite, bensì soggette ad autorizzazione. Del resto, la distinzione interna tra armi da guerra ed armi comuni da sparo non può essere interpretata in contrasto con la normativa europea di armonizzazione, che, essendo sufficientemente precisa, integra una normativa self-executing, immediatamente vincolante. Sempre nel contesto della normativa comunitaria viene in rilievo l’Azione Comune n. 2002/589/PESC del Consiglio dell’Unione Europea, relativa alla lotta alla proliferazione delle armi per uso militare, che annovera le seguenti armi all’interno della categoria armi portatili e accessori appositamente progettate per impiego militare: mitragliatrici, pistole mitragliatrici, fucili automatici, fucili semiautomatici, se sviluppati e/o presentati quali modelli per le forze armate. Da ciò si deduce che il diritto UE annovera tra le armi per uso militare solo quelle automatiche e non quelle semiautomatiche, che costituiscono la maggior parte delle pistole per uso civile e oggetto di licenza di porto d’armi. La normativa comunitaria suindicata, come visto, è stata attuata con il d.lgs. 26.10.2010, n. 204, che all’art. 5 vieta la fabbricazione, l’introduzione e la vendita di armi da fuoco corte semiautomatiche o a ripetizione, che sono camerate per il munizionamento nel calibro 9x19 parabellum (cosi il comma 2 dell’art. 2 legge 18.4.1975, n. 110). Tale normativa potrebbe intaccare le conclusioni appena raggiunte se non fosse che vengono menzionate le condotte di fabbricazione, nonché di introduzione e vendita di tali armi, senza menzionare, ad esempio, le condotte di detenzione e porto d’arma. Sul punto, la dottrina [CIVELLO, 45] ha puntualmente osservato che la disposizione appena citata prevede genericamente un divieto, ma non una specifica sanzione in caso di inottemperanza al divieto medesimo; senza considerare che la disposizione prevede altresì che nei casi consentiti è richiesta la licenza di cui all’art. 31 del t.u.l.p.s. approvato con r.d. 18.6.1931 n. 773. Ora, dall’art. 31 t.u.l.p.s. emerge che lo stesso disciplina il regime delle armi comuni da sparo. Tutto questo conduce ad affermare che è lo stesso legislatore del 2010, a qualificare le armi cal. 9x19 parabellum come armi comuni da sparo, tanto da inquadrare le prime all’interno del regime giuridico previsto, per queste ultime, dall’art. 31 t.u.l.p.s. [CIVELLO, passim].

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L’opposta conclusione violerebbe, con conseguente possibile disapplicazione di quella interna, la normativa europea che annovera espressamente le armi corte semiautomatiche tra le armi suscettibili di autorizzazione e non tra le armi proibite. Senza considerare che la legge delega, che ha poi condotto al d.lgs. 26.10.2010, n. 204, non consentiva al legislatore delegato di prevedere nuove figure di arma da guerra né faceva il minimo riferimento alle pistole semiautomatiche cal. 9x19: in tal caso, dunque, si configurerebbe una vera e propria incostituzionalità per eccesso di delega, in violazione dell’art. 77 Cost. [CIVELLO, passim]. In conclusione, le pistole semiautomatiche (anche cal. 9 lungo parabellum) devono essere qualificate quali armi comuni da sparo [sul punto risultano condivisibili le argomentazioni di CIVELLO, che individua otto ragioni a sostegno dell’assunto, così individuandole «1) l’art. 2, 1° co., lett. g), l. 18-4-1975, n. 110, annovera tra le armi comuni da sparo “le pistole a funzionamento semiautomatico”; 2) l’art. 2, 2° co., l. 9-7-1990, n. 185, annovera tra i materiali di armamento solo le “armi da fuoco automatiche”, così escludendo a contrariis da tale novero le armi da fuoco semiautomatiche; l’art. 1, 1° co., della medesima legge, inoltre, esclude dalla nozione di “materiali di armamento” “le armi corte da sparo purché non automatiche”; 3) l’art. 1, 2° co., l. 18-4-1975, n. 110, riconduce alle armi “tipo guerra” (aventi il medesimo regime giuridico delle armi da guerra) le armi “predisposte al funzionamento automatico per l’esecuzione del tiro a raffica”, così escludendo a contrariis da tale novero le armi da fuoco semiautomatiche; 4) nel Catalogo Nazionale delle Armi Comuni da Sparo – seppur oggi abrogato – risultavano iscritte numerose armi (sia corte sia lunghe cal. 9x19, anche parabellum; 5) le cartucce di piccolo calibro (non superiore a 12,7 mm) per arma lunga o corta, fra cui le più comuni 9x19, sono da guerra solo quando montano proiettili incendiari, esplosivi, traccianti o a nucleo perforante; 6) la direttiva europea n. 1991/477/CE (poi modificata dalla direttiva n. 2008/51/CE) è chiara nell’annoverare tra le armi proibite (ossia “da guerra”) solamente le armi da fuoco automatiche, mentre le armi da fuoco corte semiautomatiche vengono catalogate come armi non proibite, bensì suscettibili di autorizzazione; 7) l’art. 5, d.lg. 26-10-2010, n. 204 (peraltro in tema di fabbricazione, l’introduzione e la vendita di armi) fa soggiacere le “armi da fuoco corte semiautomatiche o a ripetizione, che sono camerate per il munizionamento nel calibro 9x19 parabellum” al regime dell’art. 31 t.u.l.p.s., proprio delle armi comuni da sparo: in ogni caso, il citato art. 5 non può essere interpretato in contrasto con la direttiva n. 2008/51/CE, che lo stesso è chiamato ad attuare (di avviso contrario è, tuttavia, la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale proprio l’inserimento del cal. 9x19 parabellum tra i calibri vietati avrebbe comportato, de plano, la qualificazione di tale calibro come munizionamento da guerra; 8) non si comprende, infine, per quale motivo debbano qualificarsi come “da guerra” le munizioni cal. 9x19 e “tipo guerra” le pistole semiautomatiche con tale calibro, laddove, invece, dottrina e giurisprudenza sono ormai pacifiche nel qualificare come “comune da sparo” il munizionamento 9 x 21, talvolta – paradossalmente – ben più potente e micidiale del cal. 9 x 19»].

2.3. Le armi chimiche. – Come detto in apertura del presente lavoro, la disciplina delle armi è piuttosto frammentaria. Non a caso, fino all’anno 1990, il legislatore non ha disciplinato le armi chimiche. Solo gli aggressivi chimici erano collocati tra gli oggetti materiali dei reati ex legge 2.10.1967, n. 895 e quindi gli stessi rientravano tra le armi da guerra. Successivamente, le armi chimiche sono state usate per individuare una delle categorie dei materiali d’armamento di cui agli artt. 1 comma 7 e 2 comma 2 lett. a) legge 9.7.1990, n. 185; in tali disposizioni, le armi chimiche vengono distinte da quelle biologiche e nucleari. Il d.m. 23.9.1991, nonché i successivi decreti di aggiornamento tra i quali, da ultimo, il d.m. 13.6.2003, ha provveduto a fornire l’elenco delle sostanze che devono considerarsi armi chimiche. Quest’ultimo decreto ministeriale indica come armi chimiche «quegli agenti tossici adat-

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tati per essere utilizzati in guerra per produrre danni alle popolazioni od agli animali, per degradare materiali o danneggiare colture o l’ambiente ed agenti per la Guerra Chimica»; sono inoltre armi chimiche «i precursori per la Guerra Chimica e le apparecchiature appositamente progettate o modificate per la disseminazione dei suddetti agenti chimici o per la difesa dagli agenti medesimi». La legge 18.11.1995, n. 496 ha introdotto, in ratifica ed esecuzione della Convenzione di Parigi del 1993, una speciale disciplina sulla produzione, circolazione e detenzione delle armi chimiche, facendo riferimento alla definizione fornita dalla Convenzione stessa. Quest’ultima convenzione all’art. 2 prevede che sono armi chimiche i composti chimici ed i loro precursori (ossia i reagenti chimici presenti in ogni fase della produzione di un composto chimico tossico) utilizzati per scopi bellici e comunque per scopi diversi da quelli non proibiti dalla Convenzione medesima (quali l’uso industriale, medico, farmaceutico, ecc.), le munizioni ed i dispositivi destinati a causare la morte o altri danni attraverso le proprietà tossiche dei composti sopra citati, nonché qualunque equipaggiamento impiegato in connessione diretta con l’impiego delle munizioni e dei dispositivi suddetti. Sono, dunque, armi chimiche tanto le sostanze tossiche utilizzate come sistema d’arma a fini bellici, tanto gli strumenti predisposti per disperderle. La Convenzione di Parigi, inoltre, stabilisce che devono considerarsi armi chimiche anche le sostanze utilizzate abitualmente per mantenere l’ordine pubblico (come i gas lacrimogeni), qualora vengano impiegate come strumenti di guerra. Alla Convenzione, inoltre, sono allegate tre tabelle che contengono gli elenchi delle sostanze di cui è vietata ogni forma di utilizzazione o la cui utilizzazione deve essere autorizzata ai sensi dell’art. 3 legge 18.11.1995, n. 496. In particolare, quest’ultima disposizione pone un divieto assoluto di produzione, cessione, ricezione, acquisto, importazione, esportazione, transito, detenzione ed uso dei composti di cui alla tabella 1, nonché di ogni altro composto che possa essere utilizzato esclusivamente a scopo di fabbricazione di armi chimiche; tali attività possono essere eccezionalmente oggetto di autorizzazione nei casi di cui all’art. 3 comma 2 legge 18.11.1995, n. 496. In via tendenziale, invece, per le sostanze di cui alle tabelle 2 e 3, le suddette attività possono essere ordinariamente svolte in presenza di determinati presupposti e di appositi provvedimenti autorizzatori. Per quanto non disciplinato dalla legge del 1995, le attività aventi ad oggetto le armi chimiche sono soggette alla disciplina delle armi da guerra ovvero dei materiali di armamento, atteso che l’ultimo comma dell’art. 10 legge 18.11.1995, n. 496 fa espressamente salve le disposizioni contenute in tali atti normativi. L’art. 10 in questione, al comma 1 stabilisce la reclusione da 4 a 12 anni e la multa da 51.645 a 258.228 euro per chiunque produce, cede, riceve, importa, esporta, fa transitare, detiene o usa i composti di cui alla tabella 1, in violazione del divieto di cui all’art. 3, o comunque senza l’autorizzazione di cui al comma 2 del prefato art. 3. Il comma 2 dello stesso art. 10 della legge n. 496/1995 afferma che è punito con la reclusione da 2 a 6 anni e con la multa da euro 25.822 a euro 129.114 chiunque esporta i composti di cui alle tabelle 2 e 3 senza l’autorizzazione di cui all’art. 4. L’art. 13 aggiunge che lo stesso trattamento sanzionatorio

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è riservato al cittadino che commetta all’estero una delle violazioni di cui all’art. 10 in esame. In merito a queste due figure delittuose vi è, innanzi tutto, da precisare che il comma 2 è ipotesi autonoma di reato, e non circostanza attenuante del delitto di cui al comma 1. L’art. 11, al comma 1, punisce come contravvenzione (arresto da uno a tre anni) il fornire in modo non veritiero o l’omettere di fornire le informazioni di cui all’art. 6; il comma 1-bis dello stesso art. 11 commina l’arresto fino a un anno o l’ammenda fino a euro 15.493 a carico di chi ometta la regolare tenuta del registro (dei composti chimici) di cui al comma 4 dell’art. 6; entrambe le disposizioni recitano la clausola di riserva secondo cui è salva la configurazione di un più grave reato. Circa le due contravvenzioni, è stato esattamente osservato che si tratta di reati propri, potendo essere commessi solo dall’operatore del settore. L’ultima figura criminosa è quella delineata dall’art. 12 della legge n. 496/ 1995, che punisce con la reclusione da due a cinque anni chiunque impedisce o ostacola l’ispezione di cui all’art. 8. Il reato può essere commesso anche mediante omissione (ad es., rifiutandosi di collaborare con gli ispettori). Il dolo è generico; nulla osta alla configurabilità del tentativo. Il d.lgs. n. 96/2003 ha poi codificato due nuove figure criminose. Il comma 6 dell’art. 16 prevede la reclusione da 2 a 4 anni o la multa da euro 15.000 a euro 150.000 a carico di chiunque fornisca, salve le deroghe di cui al comma 3 dell’art. 14, assistenza tecnica alla produzione o all’uso di armi chimiche, biologiche o nucleari, compresi i missili destinati a essere usati come vettori. Il comma 7 dello stesso art. 16 punisce con la reclusione fino a 2 anni o con la multa da 10.000 a 50.000 euro chiunque presti assistenza tecnica, per fini militari differenti da quelli appena indicati, a Paesi soggetti ad embargo. -

2.4. I c.d. beni a duplice uso. – Vi sono poi degli strumenti (anche non costituenti armi) utilizzabili sia in ambito civile, sia in ambito militare (come determinati software, paracadute, sensori ottici, materiali nucleari ecc.). Si tratta dunque di beni a duplice uso. Quest’ultimi sono disciplinati dal d.lgs. 9.4.2003, n. 96, il quale stabilisce che «l’esportazione di tali beni può essere effettuata solo in presenza di un’apposita autorizzazione del Ministero delle Attività Produttive, rilasciata ai sensi degli artt. 4, 5, 6 e 8 di tale decreto» (non è, invece, richiesta una previa iscrizione in un pubblico registro come, invece, avviene in materia di esportazione di materiali di armamento). L’art. 15 del d.lgs. suindicato vieta la trasmissione via internet ovvero attraverso altri mezzi elettronici, fax o telefono, senza preventiva autorizzazione, di progetti, design, formule, software e tecnologie a qualsiasi titolo riferibili allo sviluppo, produzione o utilizzazione dei beni a duplice uso di cui agli Allegati I

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e IV del reg. CE n. 1334/2000; la violazione di tale divieto integra il delitto di cui all’art. 16 comma 8 d.lgs. 9.4.2003, n. 96. L’art. 16 d.lgs. 9.4.2003, n. 96, inoltre, stabilisce che «chiunque, ai sensi del regolamento e del presente decreto legislativo, effettua operazioni di esportazione di beni a duplice uso senza la prescritta autorizzazione ovvero con autorizzazione ottenuta fornendo dichiarazioni o documentazione false, è punito con la reclusione da due a sei anni o con la multa da euro 25.000 a euro 250.000. Chiunque effettua operazioni di esportazione di beni a duplice uso in difformità dagli obblighi prescritti dalle autorizzazioni è punito con la reclusione da due a quattro anni o con la multa da euro 15.000 a euro 150.000. Con la sentenza di condanna o con la decisione emessa ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale per i reati di cui ai commi 1 e 2 è disposta la confisca dei beni oggetto delle operazioni». La previsione della pena pecuniaria alternativa a quella detentiva determina l’applicabilità della oblazione facoltativa ex art. 162-bis c.p. ai reati concernenti i materiali di armamento ed i beni a duplice uso. 2.5. Le armi da caccia. – La legge 11.2.1992, n. 157 stabilisce all’art. 13 quali sono le armi e gli strumenti dei quali è consentito l’uso a fini venatori. Non sono previsti limiti numerici alla detenzione di armi da caccia, ma è vietato l’uso venatorio delle armi e degli strumenti non esplicitamente ammessi dall’art. 13 legge 11.2.1992, n. 157. Per l’esercizio della caccia, è necessario essere maggiorenni, avere una apposita licenza di porto di fucile per uso di caccia, stipulare una polizza assicurativa per la responsabilità civile verso terzi e per infortuni e conseguire l’apposito tesserino regionale. La definizione legale di caccia è definita dall’art. 12 della legge sulla caccia, secondo cui «costituisce esercizio venatorio ogni atto diretto all’abbattimento o alla cattura di fauna selvatica mediante l’impiego dei mezzi di cui all’art. 13. È considerato altresì esercizio venatorio il vagare o il soffermarsi con i mezzi destinati a tale scopo o in attitudine di ricerca della fauna selvatica o di attesa della medesima per abbatterla. Non costituisce esercizio venatorio il prelievo di fauna selvatica ai fini di impresa agricola di cui all’art. 10, 8° co., lett. d)». Sempre la medesima disposizione prevede che «ogni altro modo di abbattimento è vietato, salvo che non avvenga per caso fortuito o forza maggiore». L’art. 13 legge 11.2.1992, n. 157, prevede che l’esercizio della caccia può essere effettuato con: 1) fucile con canna ad anima liscia (anima è la parte interna della canna, che, se liscia, predilige, in genere, l’uso delle cartucce a pallini; ma ciò non toglie che possano essere usate cartucce a palla unica, persino rigata) fino a due colpi, a ripetizione e semiautomatico, con caricatore contenente non più di due cartucce, di calibro non superiore al 12; 2) fucile con canna ad anima rigata (la rigatura della canna, per mezzo di solchi elicoidali, che serve per imprimere maggior velocità alla palla, e quindi maggior energia cinetica al proietto, offre, conseguentemente, anche una precisione di tiro maggiore rispetto al fucile

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ad anima liscia. Ciò non significa, però, che, maggiore è la velocità del proiettile, migliore ne è la precisione; difatti, superati determinati limiti – che sono dipendenti da diverse variabili –, l’arma più potente è meno precisa di quella dallo sparo più “dolce”) a caricamento singolo manuale o a ripetizione semiautomatica di calibro non inferiore a millimetri 5,6 con bossolo a vuoto di altezza non inferiore a millimetri 40; 3) fucile a due o tre canne (combinato), di cui una o due ad anima liscia di calibro non superiore al 12 ed una o due ad anima rigata di calibro non inferiore a millimetri 5,6; 4) arco; 5) falco. In via generale, le armi sub 1), 2) e 3) sono da qualificarsi come armi comuni da sparo di cui all’art. 2 legge 18.4.1975, n. 110. È controverso se, nella caccia, possano essere utilizzati fucili ad aria o gas compressi; sul punto, la dottrina ha rilevato che se è pur vero che per le armi a canna rigata soccorre il requisito dell’altezza del bossolo (non inferiore a 40 mm), il quale non può essere riferito alle armi ad aria compressa, nulla vieta di costruire, per uso di caccia, un fucile ad aria compressa a canna liscia [CIVELLO; contra, RUSSO, 16 e 197, secondo il quale, nell’esercizio dell’attività venatoria, non sono ammessi i fucili ad aria o gas compressi]. Va anche rilevato che l’art. 21 comma 1 lett. u) legge 11.2.1992, n. 157 vieta espressamente l’uso venatorio di armi da sparo munite di silenziatore o impostate con scatto provocato dalla preda. Per quanto riguarda, invece, l’arco, trattasi di strumento che oggi non è più destinato naturalmente all’offesa della persona, sicché va qualificato come arma impropria – al pari della balestra – soggetta, in via generale, alla disciplina dell’art. 4 legge 18.4.1975, n. 110. Nell’ambito degli strumenti atti ad offendere, tuttavia, solo l’arco può essere legalmente utilizzato per la caccia, non essendo consentito l’uso venatorio di altri strumenti non previsti dalla legge. Peraltro, l’art. 21 comma 1 lett. u) legge 11.2.1992, n. 157, vieta espressamente l’uso venatorio della balestra, di munizione spezzata nella caccia agli ungulati, di esche o bocconi avvelenati, vischio o altre sostanze adesive, trappole, reti, tagliole, lacci, archetti, congegni similari, civette [CIVELLO, 1 ss.]. Per quanto concerne i fucili a canna liscia, possono essere utilizzati per l’esercizio della caccia i fucili a ripetizione o semiautomatici. Non sono ammessi fucili automatici, che sparano a raffica con la semplice pressione continuata del grilletto, i quali sono da qualificarsi come armi da guerra o tipo guerra. Inoltre, la legge vieta l’uso venatorio di fucili a canna liscia con caricatore che possa contenere più di due colpi [o più di un colpo, se si tratta di fucili semiautomatici a canna liscia utilizzati nella “Zona Alpi” – cfr. CIVELLO, 1 ss.]. Infine, non sono ammessi fucili a canna liscia che abbiano un calibro superiore al 12. La giurisprudenza ha precisato che, in tema di caccia, la disposizione secondo la quale l’attività venatoria è consentita con l’uso del fucile con canna ed anima liscia, a ripetizione e semiautomatico, con caricatore contenente non più di due cartucce, deve essere intesa nel senso che il caricatore non sia in grado di contenere un numero di cartucce superiore alle due consentite e non che il numero delle cartucce dentro il caricatore non debba essere in concreto superiore a due [Cass. pen., sez. III, 18.10.1995, n. 3452].

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I fucili a canna rigata sono ammessi per la caccia, purché di calibro non inferiore a millimetri 5,6 con bossolo a vuoto di altezza non inferiore a millimetri 40. Si discute se tali requisiti (calibro ed altezza del bossolo) debbano concorrere [BELLAGAMBA, 30], oppure se sia sufficiente uno solo di essi [RUSSO, 17]. In base alla prima impostazione, per esempio, non potrebbero essere impiegati per la caccia i fucili cal. 7,62x39 o 6,5x27, ma sarebbero utilizzabili solo i fucili con entrambe le suddette caratteristiche (per esempio, il Flobert 9x45) [CIVELLO, 1 ss.]. È anche opportuno evidenziare che, in materia di fucili da caccia a canna rigata (differentemente da quanto avvenga per i fucili a canna liscia), la legge non impone un numero massimo di colpi; conseguentemente, sarà consentito l’uso venatorio di fucili a canna rigata anche con numero di colpi totali superiore a tre. L’art. 13 legge 11.2.1992, n. 157, infine, consente l’uso dei fucili cosiddetti combinati, ossia a due o tre canne, di cui una o due ad anima liscia di calibro non superiore al 12 ed una o due ad anima rigata di calibro non inferiore a millimetri 5,6. Trattasi, in ogni caso, di armi senza serbatoio, in cui le cartucce devono essere inserite una per una manualmente. 2.6. Le armi utilizzate nello sport. – La disciplina delle armi ad uso sportivo trova la sua disciplina nella legge 25.3.1986, n. 85. Tale legge ha previsto uno speciale regime giuridico delle armi per uno sportivo rispetto alle armi comuni da sparo. Oltre alla speciale disciplina del trasporto di armi sportive (art. 3 legge 25.3.1986, n. 85), è attualmente previsto anche un particolare regime della detenzione delle armi medesime, atteso che l’art. 10 comma 6 legge 18.4.1975, n. 110 prevede che il numero massimo di armi sportive detenibili sia di sei unità, contro le tre unità in materia di armi comuni da sparo. L’art. 2 legge 25.3.1986, n. 85 detta la definizione delle armi sportive, stabilendo che sono tali quelle armi, sia lunghe che corte, le quali, per le loro caratteristiche strutturali e meccaniche, si prestano esclusivamente allo specifico impiego nelle attività sportive. In tale definizione possono astrattamente rientrare sia le armi da fuoco sia, in generale, le armi comuni da sparo. L’esclusività dell’impiego in attività sportive è un requisito assai arduo da individuare, essendo difficile che un’arma per uso sportivo non sia anche utilizzabile, quantomeno in via astratta, per l’offesa alla persona o per l’uso venatorio. Proprio per questa ragione la Commissione Consultiva Centrale ha proceduto a classificare le armi stesse tralasciando il requisito dell’esclusività della destinazione e limitandosi a richiedere che l’arma sia effettivamente idonea all’uso sportivo (tenuto conto della precisione, della leggerezza dello scatto, della sua regolabilità, della lunghezza della canna, della presenza di contrappesi e di altre analoghe caratteristiche). Dalle armi per uso sportivo di cui alla legge 25.3.1986, n. 85 devono essere distinte le armi di cui all’art. 2 comma 2 legge 18.4.1975, n. 110, secondo il quale «sono altresì armi comuni da sparo i fucili e le carabine che, pur potendosi prestare all’utilizzazione del munizionamento da guerra, presentino specifiche

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caratteristiche per l’effettivo impiego per uso di caccia o sportivo, abbiano limitato volume di fuoco e siano destinate ad utilizzare munizioni di tipo diverso da quelle militari». Le armi per uso sportivo di cui alla legge del 1986, invero, non hanno alcuna attitudine all’utilizzo del munizionamento da guerra. Nel caso di arma sportiva ad aria o gas compressi in grado di erogare un’energia cinetica non superiore a 7,5 joule, si è al cospetto di un’arma non rientrante nel genus delle armi comuni da sparo di cui all’art. 2 legge 18.4.1975, n. 110 e soggetto al regime giuridico di cui al d.m. 9.8.2001, n. 362, salva l’applicazione della disciplina delle cosiddette armi improprie qualora tale oggetto sia idoneo all’offesa alla persona. Al medesimo regime sono soggetti anche gli altri strumenti per uso sportivo idonei all’offesa alla persona (quali l’arco e la balestra) [CIVELLO, 1 ss.]. Su queste basi è possibile annoverare tra le armi sportive i fucili Perazzi MX8 e Beretta ASE 90, le pistole G 90 Gamba cal. 9x21, PC Pardini, le carabine Mauser 665 Magnum, cal. 7 Remington, Walther kk Power Match [CIVELLO, 1 ss.]. L’art. 2 legge 25.3.1986, n. 85 stabilisce che la qualifica di arma per uso sportivo viene riconosciuta, a richiesta del fabbricante o dell’importatore, dal Ministero dell’Interno su conforme parere della Commissione Consultiva Centrale delle armi, sentite le federazioni sportive interessate affiliate al CONI. Inoltre, «delle armi per uso sportivo sottoposte a catalogo a norma della legge 18 aprile 1975, n. 110, modificata con la legge 16 luglio 1982, n. 452, è redatto un apposito elenco, che sarà annesso al Catalogo nazionale delle armi comuni da sparo». A seguito dell’abrogazione del Catalogo Nazionale delle armi comuni da sparo, v’è da chiedersi quale sorte abbia il citato art. 2, il quale non è stato formalmente abrogato o modificato, sebbene lo stesso stabilisca che il catalogo delle armi sportive sia «annesso al Catalogo nazionale delle armi comuni da sparo». In tema, è prevalente l’opinione secondo la quale, pur dopo l’abolizione del Catalogo generale, rimane competenza esclusiva del Ministero dell’Interno, e non dunque del Giudice, classificare un’arma come sportiva, mediante la tenuta di un separato Catalogo speciale. Una delle peculiarità del regime giuridico speciale delle armi in esame (e lo stesso vale per le armi da caccia) consiste nella liceità della locazione e del comodato, generalmente vietati per le armi comuni da sparo. Tutte le altre condotte aventi ad oggetto le armi sportive (come la fabbricazione, l’importazione, l’esportazione, la detenzione, ecc.) restano soggetta al regime generale delle armi comuni da sparo (cfr. l’art. 7 legge 2.10.1967, n. 895 e le disposizioni normative di cui alla legge 18.4.1975, n. 110). La giurisprudenza amministrativa ha affermato che la legge 25.3.1986, n. 85, ha ridisciplinato l’intera materia delle armi sportive, con conseguente abrogazione della legge 18.6.1969, n. 323 [Cons. Stato, sez. I, 21.4.1993, n. 290]. Qualora l’arma sportiva venga alterata e trasformata in arma ordinaria è ipotizzabile il delitto di alterazione ex art. 3 legge 18.4.1975, n. 110. L’ipotesi che viene in rilievo è quella di alterazione meccanica o dimensionale, che aumenti la potenzialità offensiva dell’arma o ne renda più agevole il porto, l’uso o l’occulta-

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mento. Per contro, la mera modifica di una parte secondaria sarà da considerarsi lecita. Nel caso di arma ordinaria modificata in arma sportiva non vi sarà alcun reato, in quanto l’arma sportiva è meno offensiva di un’arma ordinaria [MORI, 260]. 2.7. Le parti d’arma. – Per parte d’arma si deve considerare non già «qualsiasi elemento dell’arma, ma soltanto quel componente che, singolarmente considerato, abbia una rilevante importanza strutturale ed una propria autonomia funzionale, prestandosi così alla ricomposizione dell’arma intera attraverso un procedimento agevole e rapido» [RUSSO, 378]; di converso, non è parte di arma un componente che possa contribuire alla ricomposizione dell’intera arma a seguito di un procedimento elaborato e complesso come la saldatura o la fusione. Per le parti di arma comune da sparo, l’art. 1-bis del d.lgs. 30.12.1992, n. 527 (introdotto dal d.lgs. n. 204/10) ha stabilito (lett. b) che parte dell’arma da fuoco ai sensi dell’art. 19 legge 18.4.1975, n. 110 è «qualsiasi componente o elemento di ricambio specificamente progettato per un’arma da fuoco e indispensabile al suo funzionamento, in particolare la canna, il fusto o la carcassa, il carrello o il tamburo, l’otturatore o il blocco di culatta, nonché ogni dispositivo progettato o adattato per attenuare il rumore causato da uno sparo di arma da fuoco», come nel caso del silenziatore; vi è dunque una espressa e tassativa elencazione. Non sono, di contro, parti di arma comune da sparo lo spegnifiamma, il treppiedi, l’ottica, il riduttore di calibro, lo strozzatore e ogni altro finimento dedicato a rendere più preciso il tiro (come i compensatori) o esteticamente più apprezzabile l’arma [CIVELLO, 1 ss.]. L’art. 1-bis precisa, poi (lett. c), che parti essenziali sono «il meccanismo di chiusura, la camera e la canna di armi da fuoco che, in quanto oggetti distinti, rientrano nella categoria in cui è stata classificata l’arma da fuoco di cui fanno parte o sono destinati a farne parte»; tali parti, però, non sono richiamate dall’art. 38 t.u. Un discorso a sé meritano il caricatore (non più evocato dal nuovo art. 19 legge n. 110/1975) e il serbatoio (mai nominato, ma oggetto di pronunce giurisprudenziali); non essendo stati inseriti nell’elenco, se ne può dedurre che non sono più parti di armi rilevanti. Quanto ai silenziatori, va precisato che non tutti possono essere considerati parti di armi da guerra: segnatamente, lo esclude la lettera del d.m. 15.6.2003, che include l’oggetto tra i materiali di armamento, ma alla condizione che sia progettato per le armi da guerra. Senza considerare che il nuovo art. 38 t.u.l.p.s. statuisce l’obbligo di denuncia di detenzione di tutte le parti di armi da fuoco di cui alla lett. b) dell’art. 1-bis d.lgs. n. 527/1992, che, a sua volta, vi include il silenziatore. Orbene, se l’oggetto non fosse detenibile, non lo sarebbe neppure con denuncia. La seconda nozione (lett. c) è della parte essenziale: anch’essa richiama la dicitura dell’art. 1 (comma 1-ter) della direttiva n. 477. Ed invero, la legge 8.5. -

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1989, n. 186 (legge di ratifica della Convenzione di Strasburgo del 28.6.1978) stabilisce che, ai fini della Convenzione, sono assoggettate a controllo le seguenti parti di arma: il meccanismo di propulsione, la camera, il tamburo e la canna. La direttiva 91/477/CEE del Consiglio (all’allegato I) equipara alle armi le parti essenziali delle stesse, il meccanismo di chiusura, la camera e la canna. Diventa così più comprensibile e logico il dettato dell’art. 13-bis legge n. 110/1975, che si preoccupa di chiarire (comma 3) come la disattivazione debba avvenire rendendo inservibili anche le parti essenziali, e rimette all’emanando d.m. il compito di definire le procedure. Sempre per l’importanza annessa a tali parti essenziali, è previsto che su di esse (oltre che su fusto, carcassa e castello) possano essere apposti i segni distintivi di cui all’art. 11 comma 1 della legge n. 110/1975. Dal fatto che l’art. 38 t.u.l.p.s. non stabilisca l’obbligo di denunciare pure la detenzione delle parti delle armi comuni da sparo non da fuoco (ad aria e gas compressi), si ricava la conseguenza logico-giuridica che esse sono ora da equiparare alle cose comuni. Per le armi comuni da fuoco, la legge prende in considerazione anche le parti di arma; il concetto vale anche per quelle da guerra. Vi è da dire, però, che nessuna norma descrive (come, invece, avviene per le armi comuni) quali parti siano quelle penalmente rilevanti: il compito definitorio, perciò, è rimesso all’interprete. Innanzi tutto, vanno considerate parti di arma da guerra tutte quelle elencate a proposito delle armi comuni da fuoco; di qui la punibilità, ai sensi della legge 2.10.1967, n. 895, delle condotte tipiche aventi ad oggetto l’otturatore, la canna, la carcassa, il carrello, il fusto (cioè la parte del castello che, in taluni tipi di fucili, si prolunga a sostenere o contenere la canna), il tamburo, la bascula (cioè la parte che contiene i meccanismi di scatto o di sparo e su cui si innesta la canna) ed il caricatore di arma da guerra [Cass. pen., sez. I, 9.2.2012, n. 25047]. Tuttavia, tale riferimento non è esaustivo, giacché possono entrare nella categoria anche talune componenti che sono essenziali e indispensabili per il funzionamento dell’arma da guerra (come il percussore o le molle di riarmo, il calcio del fucile, il castello (cioè la parte che contiene i congegni di ripetizione o di chiusura e su cui si innesta la culatta della canna), il serbatoio fisso; non certo la guancia di un manico). Una circolare del Ministero dell’Interno in materia di demilitarizzazione (Circ. min., 20.9.2002, n. 557, in G.U. n. 234 del 5.10.2002), indica, tra le parti che andrebbero disattivate, i congegni di elevazione, quelli di direzione, i tromboncini, i treppiedi e le parti funzionali al tiro a raffica; tale atto amministrativo non è certo vincolante per il giudice, ma può essere di ausilio per l’individuazione della nozione legale di parte d’arma da guerra. Come visto in precedenza, la nuova formulazione dell’art. 19 legge 18.4. 1975, n. 110, a seguito del d.lgs. 26.10.2010, n. 204, non contiene più il riferimento al caricatore quale parte d’arma comune da sparo, di tal che «la detenzione ed il porto di caricatori di arma comune da sparo non è più prevista come reato» [Cass. pen., sez. I, 17.10.2012, n. 4050; in applicazione del principio, la -

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Corte ha ritenuto che, essendo stato modificato un elemento normativo di natura extrapenale e essendosi quindi verificato un fenomeno successorio ex art. 2 c.p., non sono più punibili anche i fatti commessi in precedenza], laddove invece il caricatore di arma da guerra continua a costituire parte d’arma, come ribadito dalla più autorevole dottrina [RUSSO, 381, 384], seguita dalla giurisprudenza di legittimità [Cass. pen., sez. I, 17.10.2012, n. 4050]; peraltro, il nuovo art. 1-bis, d.lgs. 30.12.1992, n. 527 pone una distinzione tra parti indispensabili e parti essenziali di arma, sottoponendo solamente le prime all’obbligo di denunzia ex art. 38 t.u.l.p.s. Va, inoltre, aggiunto che l’art. 5 comma 1 lett. l) n. 3 d.lg. 26.10.2010, n. 204, ha introdotto un nuovo comma all’art. 19 legge 18.4.1975, n. 110 (in tema di trasporto di parti d’arma), stabilendo che «ai fini del presente articolo non sono da considerare parti di arma quelle ancora in uno stato di semilavorato. Per semilavorato deve intendersi quella parte di arma che, per poter essere assemblata sull’arma e garantirne il funzionamento, necessita di ulteriori lavorazioni meccaniche. Non sono da considerare lavorazioni meccaniche i trattamenti superficiali dei metalli». Secondo la giurisprudenza, agli effetti della legge penale, costituisce parte di arma non solo ogni elemento strettamente necessario a rendere l’arma stessa atta allo sparo, ma anche quello che contribuisce a rendere l’arma più pericolosa per volume di fuoco o rapidità di sparo, precisione di tiro e simili, ovvero più insidiosa, sempre che essa, pur avendo una sua autonomia funzionale, si presti a una ricomposizione con l’arma mediante un procedimento di facile e veloce effettuazione, di guisa che risultano penalmente irrilevanti solo le parti di mera rifinitura od ornamento, non aventi cioè riflesso alcuno, né diretto, né indiretto, sul funzionamento e/o sulla pericolosità dell’arma al momento della sua utilizzazione [Cass. pen., sez. I, 24.10.2002, n. 41704]. Ai fini della punibilità, la parte d’arma deve essere dotata di autonomia funzionale; deve essere strettamente necessaria a rendere l’arma atta allo sparo; deve prestarsi ad una ricomposizione dell’intera arma mediante un procedimento di facile e veloce attuazione. La legge subordina la punibilità delle condotte aventi ad oggetto le parti di arma al presupposto dell’attitudine all’impiego; per questo motivo non rientra nella definizione legale la parte dell’arma che sia del tutto inefficiente, inservibile o incapace all’uso immediato [Cass. pen., sez. I, 14.3.1988; Cass. pen., sez. I, 19.1.1988; Cass. pen., sez. I, 30.1.1979]. Per parti di arma debbono intendersi non soltanto quelle aventi una loro autonoma funzionalità, ma anche quelle che l’acquistano se, rifinite nella lavorazione, sono unite alle altre. È opportuno, infine, notare come le parti d’arma sono menzionate esclusivamente nelle fattispecie di cui alla legge 2.10.1967, n. 895 e non in quelle di cui all’art. 4 legge 18.4.1975, n. 110 e all’art. 699 c.p.: ne deriva la non punibilità del porto di parti d’arma bianca o d’arma impropria.

2.8. Le munizioni e la loro classificazione. – Per munizione deve intendersi l’involucro, metallico o di altro materiale, occorrente per la carica delle armi da fuoco, che deve necessariamente contenere sostanze esplodenti. Non rientrano, quindi, nel concetto di munizione i proiettili destinati ad essere inseriti nell’arma separatamente dalla carica di lancio o ad essere proiettati da energia diversa da quella generata dalla polvere da sparo. Conseguentemente, non sono munizioni i proiettili (pallini, piumini, palline paintball, ecc.) per arma ad aria compressa. Il termine cartuccia si riferisce, propriamente, alle armi portatili ed indica

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l’elemento comprendente l’innesco o capsula, il bossolo, il propellente ed il proiettile. Per poter essere qualificata quale munizione, la cartuccia deve essere efficiente [Cass. pen., sez. I, 11.10.2011, n. 43356], ossia deve essere in grado di sparare un proiettile in modo idoneo ad offendere la persona. Il bossolo porta la capsula, contiene il propellente e parte del proiettile; esso ha la funzione di assicurare la perfetta tenuta dei gas che si sviluppano nell’arma: infatti, le sue parti, per il brusco aumento di temperatura, si dilatano per aderire alle pareti della camera di cartuccia. Il propellente è l’elemento solido che, trasformato in gas, sospinge il proiettile lungo la traiettoria. Il proiettile, infine, è l’elemento propulso contro l’obiettivo, al fine di offendere lo stesso con la sua energia residua o la sua esplosione od i suoi effetti (chimici, incendiari, lacrimogeni, ecc.). Il proiettile può essere sferico o meno: in quest’ultimo caso se ne distinguono l’ogiva o punta, il corpo ed il fondello. Normalmente il proiettile è costituito da piombo nudo o rivestito di leghe metalliche in rame. L’innesco, posto solitamente al centro del fondello del bossolo, è la parte che, sotto l’azione del percussore, infiamma il propellente. 2.8.1. La munizione da guerra. – La nozione delle munizioni da guerra è offerta dal comma 3 dell’art. 1 legge n. 110/1975, secondo cui sono tali «le cartucce e i relativi bossoli, i proiettili o parti di essi destinati al caricamento delle armi da guerra». La prima considerazione da fare è che anche talune parti delle cariche da guerra sono considerate munizioni intere, e non parti di cartucce da guerra; si tratta dei bossoli delle cartucce (per ogni tipo di arma da guerra) e delle parti dei proiettili (ossia delle munizioni destinate a servire l’arma da guerra pesante). La nozione di munizioni da guerra fornita dall’art. 1 comma 3 legge 18.4. 1975, n. 110, va poi integrata con la disposizione dell’art. 2 comma 4 della medesima legge, per la quale «le munizioni a palla destinate alle armi comuni non possono comunque essere costituite con pallottole a nucleo perforante, traccianti, incendiarie, a carica esplosiva, autopropellenti (…)»; conseguentemente, se una certa munizione ha caratteristiche vietate per il munizionamento civile, resta provato che essa è destinata all’armamento bellico. Sicché sussiste il reato di illegale detenzione di munizioni da guerra anche quando sia detenuta una sola di tali munizioni, a nulla rilevando l’uso, nella norma incriminatrice, della forma plurale giacché, altrimenti, se ne dovrebbe dedurre che anche la detenzione di una sola arma (essendo anche per le armi adoperata la stessa forma) non costituisca reato [Cass. pen., sez. I, 22.4.1993, n. 456]. -

Di difficile interpretazione risulta l’espressione «destinati al caricamento delle armi da guerra», soprattutto in relazione a quelle munizioni che possono essere indifferentemente utilizzate per armi da guerra e per armi comuni. In proposito, va precisato che la legge (art. 1 comma 2 legge 18.4.1975, n. 110) stabilisce che il munizionamento da guerra rende tipo guerra un’arma comune, ma nessuna disposizione legislativa stabilisce che ogni munizione, la quale possa essere adoperata in un’arma da guerra o tipo guerra, sia necessariamente da qualificare come munizione da guerra.

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Sul punto, un primo orientamento afferma che sono munizioni da guerra solo quelle utilizzabili esclusivamente con armi da guerra, come nel caso delle cartucce cal. 12,7 mm, utilizzabili esclusivamente nelle mitragliatrici [MORI, 765]. Secondo altro orientamento sono munizioni da guerra quelle destinate effettivamente ed attualmente o prevalentemente all’impiego in armi da guerra [RUSSO, 250]. Il problema della distinzione tra munizioni comuni e da guerra si pone per le cartucce per fucili a canna rigata e per pistola automatica o semiautomatica, in quanto questo tipo di munizioni trova impiego sia in armi a raffica, sia in armi comuni. Più precisamente, secondo la dottrina [CIVELLO, 43] le munizioni la cui qualificazione è controversa sono quelle cal. 9 mm lungo (9x19) o parabellum, quelle calibro 45 Colt e quelle cal. 7,62 mm; le munizioni cal. 9 corto (9x17 o 9x18), invece, sono da ritenere comuni. Le cartucce cal. 9 parabellum possono infatti essere utilizzate sia in un’arma comune (come la rivoltella Smith & Wesson mod. 547), sia in alcune armi dai guerra (come nel caso dei fucili MAB e di alcune mitragliatrici). Le cartucce cal. 45 Colt, invece, possono essere impiegate sia in pistole semiautomatiche sia in mitra (come il Thompson). Le cartucce cal. 7,62 mm, infine, sono utilizzate in ambito militare (cal. 7,62 N.A.T.O.), ma anche nelle armi da caccia (cal. 308 Winchester). Va poi osservato che il fatto che una determinata munizione sia vietata ex art. 2 comma 4 legge 18.4.1975, n. 110, (ossia sia perforante, tracciante, incendiaria, ecc.), non implica necessariamente la qualifica di munizione da guerra ai fini dell’art. 1 comma 3 della medesima legge, essendo al cospetto di due disposizioni autonome, espressamente dettate per le munizioni da guerra l’una, per le munizioni comuni l’altra.

2.8.2. La munizione comune da sparo. – Le munizioni per armi comuni da sparo non trovano un’esplicita definizione nella legge. Tuttavia, dal combinato disposto dell’art. 1 comma 3 e dell’art. 2 comma 4 legge 18.4.1975, n. 110, si desume che sono munizioni per armi comuni quelle destinate al caricamento delle armi comuni da sparo. Quest’ultima disposizione afferma che le munizioni a palla destinate alle armi da sparo comuni non possono comunque essere costituite con pallottole: 1) a nucleo perforante (quando la pallottola è costituita da materiale atto a perforare elementi che oppongono grande resistenza); 2) traccianti (quando il proiettile, una volta espulso, è capace di produrre una scia luminosa che consente al tiratore di seguire la traiettoria dello stesso, come nel caso della munizione cal. 22 Gevolet, per alcuni anni commercializzato anche in Italia); 3) incendiarie (quando la pallottola contiene, nella sua cavità interna, una miscela incendiaria, la quale si libera allorché il proiettile, colpendo il bersaglio, si rompe); 4) a carica esplosiva (o ad espansione quando la pallottola è idonea, una volta colpito il bersaglio, a provocare un’ulteriore esplosione o ad espandersi cagionando gravi danni); 5) auto propellenti (quando la traiettoria dei proiettili è determinata dalla spinta fornita dalla combustione di un propellente contenuto nel proiettile stesso o in una sua appendice posteriore); 6) ad emissione di sostanze stupefacenti, tossiche o corrosive. Per quanto concerne le munizioni “vietate”, si veda anche la Convenzione di Ginevra del 10 ottobre 1980, ratificata con legge 14.12.1994, n. 715. 2.8.3. La munizione per uso civile. – L’art. 1 legge 6.12.1993, n. 509 prevede che «le munizioni per uso civile assoggettate a controllo ai sensi della presente legge sono quelle di qualunque tipo e calibro, fabbricate in Italia e desti-

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nate all’impiego nelle armi classificate comuni a norma dell’articolo 2 della legge 18 aprile 1975, n. 110, e successive modificazioni, comprese le munizioni a salve, nonché quelle destinate agli apparecchi portatili di impiego industriale funzionanti per mezzo di sostanze esplosive». È dunque possibile individuare due elementi che caratterizzano le munizioni per uso civile: a) la fabbricazione in Italia e b) la destinazione all’impiego nelle armi comuni da sparo). Viene poi in rilevo, l’art. 2 comma 4 legge n. 110/1975, il quale vieta l’uso, nelle armi comuni da sparo, di determinate munizioni a palla; tali munizioni non possono dunque mai essere considerate munizioni per uso civile. L’art. 1 comma 2 legge 6.12.1993, n. 509 stabilisce che le munizioni per uso civile «debbono essere sottoposte a controllo conformemente alle prescrizioni della presente legge ed alle decisioni adottate dalla Commissione internazionale permanente per la prova delle armi da fuoco portatili (CIP), istituita con la Convenzione internazionale di Bruxelles del 1°-7-1969, di cui è stata autorizzata la ratifica con la legge 12-12-1973, n. 993». Sono sottoposte ai suddetti controlli anche le munizioni provenienti dall’estero e non provviste di uno dei contrassegni di controllo riconosciuti in Italia. Quanto ai profili sanzionatori, l’art. 12 legge 6.12.1993, n. 509 punisce, con una sanzione amministrativa pecuniaria, chiunque commerci, esponga in vendita o detenga munizioni soggette a prova, le quali risultino sprovviste del contrassegno o non abbiano superato la prova; per i fabbricanti e gli importatori autorizzati, i quali mettano in commercio tali munizioni irregolari, è prevista la revoca, temporanea o definitiva, della licenza. Le sanzioni vengono irrogate dagli uffici provinciali del Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato competenti per territorio, ai sensi della legge 24.11.1981, n. 689. L’art. 13 legge 6.12.1993, n. 509 stabilisce infine che «restano ferme le vigenti disposizioni legislative e regolamentari, penali e di pubblica sicurezza, compresa la legislazione speciale, in materia di fabbricazione, importazione ed esportazione, anche temporanea, commercio, acquisto e vendita, detenzione e cessione a qualunque titolo della detenzione medesima, deposito, trasporto, porto, nonché intermediazione, aventi ad oggetto le munizioni di qualsiasi genere». In altri termini, la legge speciale del 1993 isola, all’interno del genus munizioni, la species munizioni per uso civile, ma al solo scopo di disciplinarne il controllo di conformità da parte del Banco Nazionale di Prova e la relativa marcatura, con la previsione di alcune sanzioni amministrative, salva ogni altra disposizione amministrativa e penale concernente le munizioni. 3. Le armi improprie e le armi bianche (armi proprie non da sparo). La nozione di arma impropria è dettata dall’art. 4 legge 18.4.1975, n. 110, alla cui stregua possono considerarsi come strumenti atti ad offendere, o armi improprie, anche oggetti differenti da quelli elencati negli artt. 42 e 80 t.u.l.p.s., laddove gli oggetti di cui al comma 2 dell’art. 4 citato possono essere ritenuti,

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sussistendone i requisiti, strumenti da punta e da taglio atti ad offendere [Cass. pen., sez. I, 22.3.2011, n. 13618]. L’art. 4 comma 2 legge 18.4.1975, n. 110 fa riferimento alla nozione di «strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona». Come già visto in precedenza, anche l’art. 585 comma 2 n. 2 c.p., ricomprende nella nozione di armi le cosiddette armi improprie, stabilendo che, agli effetti della legge penale, sono da considerarsi armi «tutti gli strumenti atti ad offendere, dei quali è dalla legge vietato il porto in modo assoluto, ovvero senza giustificato motivo». L’individuazione delle armi improprie impone dunque l’accertamento a) del requisito di tipo naturalistico (attitudine all’offesa) e b) del requisito normativo (divieto di porto senza giustificato motivo). Al riguardo, è possibile sostenere che le armi improprie sono quegli strumenti che, pur non essendo fisiologicamente destinati all’offesa della persona, siano potenzialmente offensivi se adoperati per fini diversi da quelli naturali. In questo giudizio devono essere prese in considerazione le circostanze di tempo e di luogo nelle quali il porto è commesso, atteso che i concetti di giustificato motivo e di circostanze di tempo e di luogo sono intimamente connessi e concorrono entrambi al giudizio sulla liceità del porto d’armi. La Corte costituzionale ha escluso che la definizione residuale di arma impropria fornita dall’art. 4 legge n. 110/1975, sia in contrasto con l’art. 25 comma 2 Cost. a causa dell’astrattezza e della genericità della previsione. Infatti, l’art. 4 fornisce adeguati criteri per l’individuazione delle armi improprie, in particolare: l’idoneità degli strumenti all’offesa alle persone, la non equivocità del proposito di arrecare tale offesa, desumibile dalle circostanze di tempo e luogo, nonché l’assenza di ragioni giustificative del porto degli strumenti stessi [C. cost., 29.4.1982, n. 79]. La Suprema Corte ha poi precisato che il baricentro della distinzione tra la categoria delle armi proprie e quella delle armi improprie risiede non tanto nelle caratteristiche costruttive e strutturali dei singoli strumenti e nella idoneità all’offesa alla persona, comune sia all’una che all’altra categoria, quanto nella individuazione, tra tutte le possibili destinazioni, di quella principale corrispondente all’uso normale, da accertare con specifico riferimento a quello che rappresenta l’impiego naturale dei singoli strumenti in un determinato ambiente sociale alla stregua dei costumi, delle usanze, delle esperienze affermatisi in un dato momento storico [Cass. pen., sez. I, 3.7.2003, n. 32269].

La categoria in esame pone due questioni [CIVELLO, 51]: la prima attiene alla distinzione delle stesse rispetto alle armi proprie (specie le armi bianche, ossia proprie non da sparo); la seconda concerne l’individuazione del minimo indispensabile perché uno strumento possa essere considerato arma, sia pure impropria. Sotto quest’ultimo profilo, non può non essere evidenziata l’estrema latitudine della nozione di arma, atteso che uno stesso oggetto deve o meno essere considerato arma a seconda del motivo e delle circostanze del porto. Per individuare una corretta soluzione dei problemi pratici, dunque, si deve guardare, oltre che alla generica attitudine dell’oggetto all’offesa, alla concreta situazione, soggettiva ed oggettiva, concernente il rapporto tra la persona e lo strumento. Il requisito fondamentale dell’attitudine all’offesa va poi valutato alla luce delle generali possibilità d’uso insite nell’oggetto, ossia la sua potenziale utiliz-

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zabilità secondo l’id quod plerumque accidit. Sulla base di tali argomentazioni devono essere esclusi dalla categoria delle armi improprie tutti quegli oggetti che, pur essendo astrattamente offensivi, non vengono in buona sostanza mai concepiti ed utilizzati per l’offesa alla persona, nonché degli oggetti che non sono in grado di provocare lesioni maggiori di quelle che si potrebbero cagionare a mani nude. L’attitudine all’offesa è pertanto un parametro da valutare ex ante e non ex post, con la conseguenza che non sarà sufficiente, ai fini della qualificazione di uno strumento quale arma impropria, la considerazione dell’uso offensivo che l’agente abbia fatto di esso. Questa conclusione, tuttavia, non esime l’interprete, dopo avere effettuato la valutazione ex ante, dall’ulteriore e necessario accertamento dell’offensività in concreto, da valutare ex post. Diversi problemi interpretativi sono emersi in materia di strumenti da punta e da taglio, i quali possono considerarsi talvolta quali armi proprie comuni non da sparo (armi bianche), talvolta quali oggetti atti ad offendere (armi improprie), talvolta quali oggetti comuni non costituenti armi. Sul punto, deve ritenersi ancora vigente l’art. 45 reg. t.u.l.p.s., il quale stabilisce che non sono considerati armi «gli strumenti da punta e da taglio, che, pur potendo occasionalmente servire all’offesa, hanno una specifica e diversa destinazione, come gli strumenti da lavoro, e quelli destinati ad uso domestico, agricolo, scientifico, sportivo, industriale e simili»: tali strumenti, quindi, non potranno mai essere considerati armi proprie non da sparo, ma esclusivamente armi improprie, qualora ne ricorrano i presupposti. Con riferimento, poi, alla portata del secondo comma, prima parte, dell’art. 4 (il quale fa espresso riferimento a bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni e sfere metalliche), la lettera della legge sembrerebbe articolare una presunzione iuris et de iure di potenziale offensività, che esimerebbe il giudice da ogni ulteriore accertamento circa la natura dello strumento. A ben vedere, tuttavia, anche per tali oggetti, come per le altre armi improprie, il giudice non potrà non accertare in concreto l’attitudine all’offesa della persona. Si discute poi se la locuzione da punta o da taglio contenuta nel secondo comma dell’art. 4 legge 18.4.1975, n. 110 vada riferita all’arma – pervenendo alla conclusione che le armi improprie possano anche non essere armi da punta o da taglio – ovvero allo strumento – essendo così armi improprie solo quegli strumenti da punta o da taglio non destinati naturalmente all’offesa della persona (ossia, sostanzialmente, quelli cui fa riferimento l’art. 45 comma 2 reg. t.u.l.p.s.), con esclusione di tutti gli oggetti non da punta né da taglio, i quali non potrebbero mai essere considerati quali armi improprie [riferimenti in BELLAGAMBA, VIGNA, 94]. L’ultimo comma dell’art. 4 precisa infine che «non sono considerate armi ai fini delle disposizioni penali di questo articolo le aste di bandiere, dei cartelli e degli striscioni usate nelle pubbliche manifestazioni e nei cortei, né gli altri oggetti simbolici usati nelle stesse circostanze, salvo che non vengano adoperati come oggetti contundenti».

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La Suprema Corte ha precisato che gli oggetti indicati specificamente nella prima parte dell’art. 4 comma 2 legge 18.4.1975, n. 110 (ossia bastoni con puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni e sfere metalliche) sono del tutto equiparabili alle armi improprie, per cui il loro porto costituisce reato per il sol fatto che manchi il giustificato motivo; viceversa, per gli altri oggetti, non indicati in dettaglio, cui si riferisce l’ultima parte della citata disposizione occorre anche l’ulteriore condizione che essi appaiano chiaramente utilizzabili, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona [Cass., sez. I, 31.1.2013, in CED 2013/255333]. La giurisprudenza ha pertanto qualificato come armi proprie non da sparo (da punta o da taglio o armi bianche) la spada [Cass. pen., sez. III, 11.11.1982], la baionetta [Cass. pen., sez. I, 7.7.1995] e il pugnale [Cass. pen., sez. I, 21.3. 1994]. Sempre la giurisprudenza ha affermato che il coltello con apertura a scatto (o molletta) è arma propria bianca in quanto munito di lama azionata meccanicamente, mediante congegno a molla, che gli fa assumere le caratteristiche di pugnale o stiletto e non di semplice coltello; esso va dunque distinto dal normale coltello a serramanico, che è arma impropria, in quanto la sua lama ripiegata nel manico è estraibile soltanto a manovra manuale e non è munito di meccanismo per il quale, una volta che la lama sia estratta, la fissi rigidamente al manico [Cass. pen., sez. fer., 30.8.2012, n. 33604]. Viceversa, sono state qualificate come armi improprie: un coltello da pesca subacquea [Cass. pen., sez. III, 21.12.2010, n. 4220]; un casco da motociclista [Cass. pen., sez. V, 18.7.2011, n. 30572]; un ago innestato in una siringa [Cass. pen., sez. V, 17.12.2012, n. 25012]; l’affila coltelli [Cass. pen., sez. II, 21.11.2012, n. 47831]; un bloccapedali per automobili [Cass. pen., sez. II, 16.6.2009, n. 29950]; una chiave inglese [Cass. pen., S.U., 27.11.2008, n. 3286]; un taglierino [Cass. pen., sez. VI, 29.9.2010, n. 41385]; una catena [Cass. pen., sez. V, 6.11.2008, n. 43759]; dei paletti di cemento e dei pezzi di ferro destinati a lavori edili [Cass. pen., sez. V, 10.11.2005, n. 170]. -

Dall’analisi della prassi giurisprudenziale, la dottrina [CIVELLO, 54] ha evidenziato la vis espansiva che ha caratterizzato la nozione di arma impropria, sino a ricomprendere, con una evidente violazione del principio costituzionale di tassatività/divieto di analogia cose quali una stampante [Cass. pen., sez. VI, 19.7. 2011, n. 42428] ovvero un tubo in gomma [Cass. pen., sez. V, 20.11.2011, n. 4920]. Con una evidente torsione ermeneutica, la giurisprudenza ha così sovrapposto la nozione astratta di strumento atto ad offendere e l’uso concreto che dello strumento venga fatto. Detto altrimenti, il porto di beni del genere non consente di stabilire se trattasi di arma impropria fino al momento in cui l’oggetto non venga adoperato per finalità offensiva. Sennonché, seguendo tale percorso, ogni bene potrebbe essere considerato arma impropria, con evidente violazione dei principi di determinatezza/tassatività e di offensività. Su queste basi, al fine di delineare una nozione di arma impropria ragionevole e rispettosa dei principi costituzionali, si deve fare ricorso, congiuntamente, all’oggetto che deve avere il carattere di maneggevolezza e portabilità ontologicamente connaturato alla nozione di arma, prima, e alla concreta idoneità ad arrecare danni o lesioni superiori a quelli che l’uomo è comunemente in grado di cagionare a mani nude, poi, in quanto l’uso dell’arma deve integrare un quid pluris rispetto al semplice ed ordinario esercizio della forza fisica. -

3.1. Gli strumenti di difesa personale. – Gli strumenti di difesa personale sono quegli strumenti, sempre più diffusi, destinati all’autodifesa e, più in gene-

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rale, alla protezione da aggressioni altrui (si pensi alle bombolette spray irritanti o agli storditori elettrici). Con riferimento alle bombolette ad emissione di gas, la dottrina [CIVELLO, 46] ha da ultimo evidenziato che potrebbero astrattamente venire in rilievo le seguenti categorie di oggetti: a) materiali di armamento ex art. 2 legge 9.7.1990, n. 185); b) armi chimiche ex legge 18.11.1995, n. 496; c) armi da guerra ex art. 1 legge 2.10.1967, n. 895 [Cass. pen., sez. I, 13.1.2009, n. 6106]; d) armi ex art. 585 c.p. (sub specie gas asfissianti o accecanti); e) armi comuni da sparo ex art. 2 comma 3 legge 18.4.1975, n. 110 [Cass. pen., sez. I, 28.2.2012, n. 11753]; f) armi improprie (art. 4 comma 2 legge 18.4.1975, n. 110]; g) oggetti inoffensivi e penalmente irrilevanti. Le prime quattro opzioni, a ben vedere, rinviano a disposizioni di legge riferibili ad armi altamente micidiali, sicché dovrebbero essere escluse. Potrebbe dunque ipotizzarsi la collocazione di tali strumenti tra le armi comuni da sparo (sub specie arma ad emissione di gas) o tra le armi improprie. Dovrebbe poi essere preso in considerazione il profilo soggettivo che contraddistingue la loro detenzione ed il loro porto, essendo al cospetto di oggetti ontologicamente destinati all’autodifesa e non certo all’offesa alla persona, di talché appare irragionevole una loro equiparazione alla categoria delle armi. Peraltro, anche qualora si considerassero tali strumenti quali armi improprie, sarebbe comunque da escludere la punibilità del loro porto, giacché il motivo di autodifesa configura ex se un giustificato motivo. Lo stesso genere di valutazioni è riferibile agli strumenti generanti scosse elettriche o luci accecanti, astrattamente qualificabili come armi proprie non da sparo (come gli storditori destinati ad usi di polizia o di difesa personale) o come armi improprie (come i pungoli elettrici per bovini o gli strumenti elettrici da lavoro), ma in concreto adoperati per difesa personale ovvero per altri fini leciti, non essendo rilevante l’eventuale uso distorto che di essi si possa fare. Su queste basi, è opportuno delimitare la categoria delle armi ai soli strumenti idonei a cagionare la morte o le lesioni personali, restando esclusi gli oggetti idonei a cagionare solo un momentaneo e limitato dolore. Tali osservazioni valgono per gli strumenti destinati alla difesa personale, laddove, per contro, qualora si tratti di strumenti destinati all’offesa alla persona e portati per fini differenti dalla difesa, possono ricorrere le fattispecie in materia di armi da guerra, armi proprie di cui all’art. 585 c.p. e materiali di armamento. L’art. 5 comma 1 lett. b) n. 1 d.lgs. 26.10.2010, n. 204 ha introdotto una significativa modifica all’art. 4 comma 1 legge 18.4.1975, n. 110, disponendo l’inserimento dell’inciso «storditori elettrici e altri apparecchi analoghi in grado di erogare una elettrocuzione»; conseguentemente, la disposizione risulta così formulata: «salve le autorizzazioni previste dal terzo comma dell’articolo 42 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza 18-6-1931, numero 773, e successive modificazioni, non possono essere portati, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, armi, mazze ferrate o bastoni ferrati, sfollagente, noccoliere, storditori elettrici e altri apparecchi analoghi in grado di erogare una elettro-

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cuzione». Anche la giurisprudenza [Cass. pen., sez. I, 18.12.2003, n. 25912] ha qualificato come arma, i fini del comma 1 dell’art. 4 legge 18.4.1975, n. 110, gli apparecchi in grado di produrre scosse elettriche, ad alto o basso voltaggio, i quali siano naturalmente destinati – sia pure per motivi di difesa personale – ad offendere l’eventuale aggressore, a nulla rilevando la sussistenza del giustificato motivo o delle circostanze di tempo e di luogo di cui al comma 2 della citata disposizione, che riguardano non le armi, ma gli oggetti atti ad offendere. La novella legislativa ha inserito gli storditori elettrici tra le armi (o, comunque, gli oggetti) il cui porto, fuori dall’abitazione o dalle sue appartenenze, è vietato; l’inserimento di tali strumenti nel comma 1 (e non nel 2) dell’art. 4 legge 18.4.1975, n. 110, fa sì che, in linea di principio, il porto di storditori elettrici, fuori dall’abitazione o dalle sue appartenenze, sia illecito, a prescindere dalla sussistenza in concreto di un giustificato motivo. Anche in tal caso, tuttavia, oggetti astrattamente qualificabili come armi proprie non da sparo (come gli storditori destinati ad usi di polizia o di difesa personale) o come armi improprie (come i pungoli elettrici per bovini o gli strumenti elettrici da lavoro), risultano concretamente adoperati per la sola difesa personale o per altri fini leciti e pertanto non dovrebbe rilevare, in ossequio al principio costituzionale di offensività, l’eventuale uso distorto che di essi si possa fare. Per contro, in caso di strumenti ontologicamente destinati all’aggressione alla persona e portati per fini differenti dalla difesa, possono ricorrere ancora una volta le fattispecie in materia di armi da guerra, armi proprie di cui all’art. 585 c.p. e materiali di armamento. 4. Le armi giocattolo. L’arma-giocattolo è un oggetto che, pur riproducendo nel suo aspetto esteriore un’arma vera e propria, è tuttavia completamente privo di capacità offensiva ed ha, come funzione naturale, quella di essere utilizzato per il divertimento. Secondo l’impostazione tradizionale, le armi-giocattolo vengono suddivise in quattro categorie: 1) simulacri inerti di arma (come un fucile di legno o di plastica); 2) armi a salve, ossia armi vere e proprie che possono sparare solo munizioni a salve (come le armi disattivate); 3) strumenti lanciarazzi e armi ad aria compressa per i quali la Commissione Consultiva abbia escluso l’attitudine all’offesa della persona; 4) armi per uso scenico, ossia usate negli studi cinematografici o televisivi per girare film con armi (cfr. legge 21.2.1990, n. 36). La disposizione fondamentale in argomento è l’art. 5 legge 18.4.1975, n. 110, con il quale il legislatore ha inteso da un lato prevenire la produzione ed il commercio di oggetti che, pur simulando la qualifica di giocattoli, abbiano sostanzialmente i caratteri di una vera e propria arma; dall’altro, ha voluto rendere riconoscibili i giocattoli riproducenti armi, al fine di impedirne eventuali usi distorti. Inoltre, nel diritto comunitario, si rinviene la direttiva 88/378/CEE relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti la sicurez-

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za dei giocattoli. L’art. 5 comma 1 lett. c) d.lgs. 26.10.2010, n. 204, ha introdotto alcune modifiche all’art. 5 legge 18.4.1975, n. 110, in tema di armi giocattolo [CIVELLO, 217-218]. Segnatamente, la parola giocattolo è sostituita dal termine strumento (trasformabile in arma). Inoltre, il comma 4 della disposizione viene così riformulato e nell’attuale dicitura recita «i giocattoli riproducenti armi non possono essere fabbricati con l’impiego di tecniche e di materiali che ne consentano la trasformazione in armi da guerra o comuni da sparo o che consentano l’utilizzo del relativo munizionamento o il lancio di oggetti idonei all’offesa della persona. I predetti strumenti se realizzati in metallo devono avere la canna completamente ostruita, non in grado di camerare cartucce ed avere la canna occlusa da un tappo rosso inamovibile. Quelli da segnalazione acustica, destinati a produrre un rumore tramite l’accensione di una cartuccia a salve, devono avere la canna occlusa da un inserto di metallo ed un tappo rosso inamovibile all’estremità della canna. Gli strumenti denominati softair, vendibili solo ai maggiori di 16 anni, possono sparare pallini in plastica, di colore vivo, per mezzo di aria o gas compresso, purché l’energia del singolo pallino, misurata ad un metro dalla volata, non sia superiore ad 1 joule. La canna dell’arma deve essere colorata di rosso per almeno tre centimetri e qualora la canna non sia sporgente la verniciatura deve interessare la parte anteriore dello strumento per un pari tratto. Gli strumenti di cui al presente comma sono sottoposti, a spese dell’interessato, a verifica di conformità accertata dal Banco nazionale di prova e riconosciuta con provvedimento del Ministero dell’Interno. Con decreto del Ministro dell’Interno sono definite le modalità di attuazione del presente comma». In considerazione della riforma è così possibile effettuare una tripartizione in tema di armi ad aria compressa: 1) strumenti ad aria compressa softair, con energia erogata non superiore ad 1 joule, integranti armi-giocattolo tendenzialmente estranee al regime delle armi da sparo e delle armi ad aria compressa; 2) strumenti ad aria compressa con energia erogata superiore ad 1 joule ma non superiore a 7,5 joule, costituenti armi improprie, soggette al regime di cui al d.m. 9 agosto 2001, n. 362; 3) armi ad aria compressa che eroghino energia superiore a 7,5 joule, integranti vere e proprie armi comuni da sparo, che soggiacciono al relativo regime amministrativo e penale (cfr. art. 2 legge 18.4.1975, n. 110). La riforma del 2010 ha poi introdotto un’ulteriore rilevante modifica all’art. 4 comma 2 legge 18.4.1975, n. 110 disponendo l’inserimento dell’inciso «gli strumenti di cui all’articolo 5, quarto comma, nonché i puntatori laser o oggetti con funzione di puntatori laser, di classe pari o superiore a 3 b, secondo le norme CEI EN 60825-1, CEI EN 60825-1/A11, CEI EN 60825-4», così di fatto inserendo tra le armi improprie le armi giocattolo ed i puntatori laser di rilevante potenza. In buona sostanza, la riforma ha introdotto due nuove categorie di strumenti, qualificati normativamente come oggetti atti ad offendere, vale a dire le armigiocattolo di cui all’art. 5 legge n. 110/1975 e i puntatori laser di classe pari o superiore a 3 b. Con riferimento al divieto di porto delle armi-giocattolo, deve essere ricorda-

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to che già l’art. 5 comma 7 legge 18.4.1975, n. 110 stabiliva che «quando l’uso o il porto d’armi è previsto quale elemento costitutivo o circostanza aggravante del reato, il reato stesso sussiste o è aggravato anche qualora si tratti di arma per uso scenico o di giocattoli riproducenti armi la cui canna non sia occlusa a norma del quarto comma». Tale disposizione non puniva tuttavia il mero porto delle armi-giocattolo irregolari, ma solo il porto quale elemento costitutivo di un più ampio reato, come nel caso di porto d’arma a bordo di aerei (art. 6 legge 23.12.1974, n. 694) ovvero di dirottamento d’aereo tramite arma (legge 10.5. 1976, n. 342) [CARCANO, VARDARO, 155]. Ciò posto, la novella del 2010 ha introdotto il riferimento alle armi-giocattolo all’interno dell’art. 4 legge n. 110/1975, parificando le stesse alle cosiddette armi improprie, ai fini del reato di porto abusivo. Sul punto, è solo possibile affermare che l’equiparazione del porto di arma-giocattolo al porto abusivo di armi improprie appare irragionevole atteso che le armi improprie sono tali in quanto atte ad offendere, laddove invece le cosiddette armi-giocattolo non hanno alcuna idoneità all’offesa. Con la novella del 2010, poi, i puntatori laser aventi potenza superiore a 5 mW sono stati parificati a vere e proprie armi improprie, con l’applicazione del conseguente regime giuridico e, in particolare, del divieto di porto, senza giustificato motivo, fuori dall’abitazione o dalle sue appartenenze. -

5. I materiali di armamento. Prima del 1990, l’unica disciplina sanzionatoria in materia di armi da guerra era contenuta nella legge 2.10.1967, n. 895, la quale punisce la fabbricazione, l’introduzione nello Stato, la messa in vendita o cessione a qualsiasi titolo, la raccolta, la detenzione ed il porto illegali di tali armi. La legge 9.7.1990, n. 185 ha tuttavia enucleato un nuovo genus di strumenti, i quali, ai fini dell’esportazione, dell’importazione, del transito, del trasferimento intracomunitario e dell’intermediazione sono soggetti ad un particolare controllo dello Stato: i materiali di armamento (la cui definizione è contenuta nell’art. 2). Tale categoria è più ampia rispetto a quella delle armi da guerra, in quanto comprende anche strumenti non riconducibili a quest’ultimo genus (come i veicoli appositamente costruiti per uso militare o i sistemi od apparati elettronici, elettroottici e fotografici e gli altri equipaggiamenti speciali per uso militare). Ed invero, mentre le leggi n. 895/1967 e n. 110/1975 tutelano la sicurezza interna dello Stato e l’ordine pubblico interno, la legge n. 185/1990 tutela anche gli equilibri ed i rapporti internazionali intrattenuti dal nostro Paese con la comunità mondiale, demandando al Ministro degli Esteri ed al Ministro della Difesa la relativa attività di controllo, al fine di rendere l’esportazione, l’importazione ed il transito dei materiali di armamento conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia.

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Va altresì evidenziato che la legge del 1990 ha un ambito di applicazione da un lato più ampio rispetto alla legge 2.10.1967, stante la latitudine del genus materiali di armamento, dall’altro lato più ristretto, in quanto ha ad oggetto le sole condotte di esportazione, importazione, transito, trasferimento intracomunitario ed intermediazione dei materiali di armamento, di talché le differenti condotte (fabbricazione, cessione interna, detenzione, porto, e così via) aventi ad oggetti tali materiali continuano ad essere soggette alla disciplina generale delle armi da guerra, sempre che nel caso di specie il singolo materiale di armamento sia sussumibile anche nella categoria arma da guerra. L’art. 1 commi 1, 2 e 7 della legge del 1990, enuncia tre princìpi fondamentali, che sono i seguenti: 1) l’esportazione, l’importazione e il transito di materiali d’armamento, nonché la concessione delle licenze di produzione, devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia, secondo i princìpi della Costituzione, che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (art. 11 Cost.); 2) tali attività sono tutte soggette ad autorizzazioni e controlli da parte dello Stato; 3) sono vietati la fabbricazione, l’importazione, l’esportazione e il transito delle armi biologiche, chimiche e nucleari, nonché la ricerca preordinata alla loro produzione e la cessione delle rispettive tecnologie; il divieto si estende anche agli strumenti e alle tecnologie specificatamente progettate per la costruzione delle suddette armi e di quelle idonee alla manipolazione dell’uomo e della biosfera a fini militari. Dal testo dell’art. 1 legge 9.7.1990, n. 185 emergono poi le istanze di politica legislativa sottese alla legge medesima: i commi 4, 5 e 6, infatti, prevedono alcune deroghe alla generale liceità dell’esportazione, transito, trasferimento intracomunitario ed intermediazione dei materiali di armamento; il comma 8, invece, prevede specifiche ipotesi nelle quali è consentita l’importazione di tali materiali. Da ciò si ricava che l’esportazione, il transito, il trasferimento intracomunitario e l’intermediazione sono visti dal legislatore come attività naturalmente consentite, salvo eccezioni, mentre l’importazione è considerata quale attività naturalmente vietata, salvo specifiche ipotesi. Il legislatore ha inteso subordinare le predette condotte, aventi ad oggetto i materiali di armamento, alle medesime autorizzazioni ed ai medesimi controlli e, in particolare, ha elaborato una speciale disciplina lungo le seguenti direttrici: in primo luogo è stato istituito un Comitato Interministeriale per gli scambi di materiale di armamento per la difesa (C.I.D.S.: art. 6 legge 9.7.1990, n. 185). Inoltre, in relazione alle suddette operazioni, sono stati introdotti i seguenti vincoli: 1) le imprese che intendono effettuare l’esportazione, l’importazione od il transito di materiali di armamento debbono iscriversi presso il registro delle imprese presso il Ministero della Difesa; 2) per iniziare trattative contrattuali è, inoltre, necessario ottenere la preventiva autorizzazione del Ministro degli Esteri, d’intesa con il Ministro della Difesa (artt. 9 e 10); 3) per effettuare l’esportazione, l’importazione o il transito di tali materiali, nonché cedere all’estero le licenze di produzione, è necessario conseguire l’autorizzazione del Ministro degli Esteri (art. 13).

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Bombe, aggressivi chimici, biologici, radioattivi e altri congegni micidiali.

L’art. 1 legge 18.4.1975, n. 110, dopo aver definito quali siano le armi da sparo da guerra, stabilisce che sono altresì armi da guerra le bombe di qualsiasi tipo o parti di esse, gli aggressivi chimici, biologici, radioattivi, i congegni bellici micidiali, le bottiglie e gli involucri esplodenti o incendiari. Tali strumenti sono qualificabili come armi da guerra indipendentemente dalla presenza di particolari requisiti di offensività e micidialità [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 16]. Con il termine bomba viene indicato quel congegno offensivo destinato a liberare o sviluppare rapidamente energia, convenzionale o nucleare, gas tossici, sostanze corrosive, nebbiogene, incendiarie o fumogene. La bomba a mano è pacificamente ritenuta una bomba, ai fini della legislazione penale ed amministrativa. Gli aggressivi chimici, poi, sono quelle sostanze – liquide, gassose o solide – in grado di provocare, una volta diffuse nell’aria o sparse sulle acque o sul terreno, lesioni anatomico-funzionali agli esseri viventi: si tratta, per esempio, delle sostanze asfissianti (cloro, bromo, perossido di azoto, fosgene, etile), tossiche (acido cianidrico), vescicatorie (iprite, levisite), nervine, irritanti (cloro acetofenone, ossine). Sul punto, la giurisprudenza ha annoverato tra gli aggressivi chimici i candelotti lacrimogeni e le bombolette contenenti gas paralizzante o gas lacrimogeno [Cass. pen., sez. I, 15.6.2005, n. 27435]. Secondo un contrapposto orientamento, invece, le bombolette spray antiaggressione non sarebbero qualificabili come aggressivi chimici ma, al più, quali strumenti atti ad offendere, vista la loro scarsa potenzialità offensiva. Di contro, si è affermato che il ferrocianuro di potassio non rientra tra gli aggressivi chimici, in quanto non possiede quella idoneità intrinseca a produrre negli esseri viventi lesioni anatomiche-funzionali che è propria di tali sostanze [Cass. pen., sez. I, 12.11.2002, n. 43532].

I lacrimogeni vanno qualificati come aggressivi chimici e non come bombe, in quanto non hanno come carattere peculiare la dispersione violenta del contenitore. Le bombolette spray poste in commercio per scopi di difesa personale sono da considerare quali mere armi improprie. Per quanto concerne la disciplina penale delle armi chimiche, si rinvia alla legge 18.11.1995, n. 496. Gli aggressivi biologici sono quelle sostanze contenenti organismi viventi elementari – quali batteri, virus, funghi, ecc. – pericolosi per la salute degli uomini e degli animali. Gli aggressivi radioattivi sono quei materiali impiegati nei processi di fusione e fissione nucleare, ovvero in quelli residuati a tali processi. Sono congegni bellici micidiali quegli ordigni usati in guerra e capaci di cagionare la morte, come le mine anti-carro, determinati apparecchi che sprigionano scariche elettriche micidiali, le mine anti-uomo a pressione, a strappo, ad urto o a sollevamento ed ogni sorta di trappola esplosiva. Per quanto concerne la disciplina delle mine antipersona, esse sono disciplinate dalla legge 29.10. 1997, n. 374. -

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Sono bottiglie ed involucri esplosivi o incendiari le bottiglie Molotov, le quali possono essere di due tipi: il primo consiste in un contenitore di vetro, pieno per due terzi di benzina, benzolo, liquido smacchiante o ad alta infiammabilità, mentre il restante terzo è costituito da olio, catrame o sapone. Il contenitore è chiuso ermeticamente da un tappo attraversato da una miccia che pesca nel liquido. Il secondo tipo (comunemente denominato cinese) si diversifica dal primo per il sistema di innesco di tipo chimico e per gli effetti che, pur prevalentemente incendiari, hanno azione anche deflagrante: è normalmente costituito da un contenitore, di vetro o plastica, sul fondo del quale giace un congruo quantitativo di acido solforico concentrato, mentre la restante parte del contenitore è piena di liquido altamente infiammabile; il tappo, invece, è costituito da una capsula gelatinosa, contenente una miscela di due terzi di clorato di potassio e di un terzo di zucchero finissimo. Capovolgendo la bottiglia, l’acido attacca la capsula e ne infiamma il contenuto, la cui vivace azione provoca la deflagrazione del liquido infiammabile e, conseguentemente, la proiezione del contenitore in frantumi e del contenuto in fiamme. La giurisprudenza, sul punto, ha statuito che la bottiglia Molotov, strumento capace di cagionare un incendio e una deflagrazione con possibilità di offesa a causa della vampata, della proiezione di schegge e dello sprigionarsi di gas, è arma da guerra [Cass. pen., sez. I, 22.1.2009, n. 6132; Cass. pen., sez. I, 3.7.2008, n. 29943]. 7. Esplosivi ed esplodenti. L’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895 fa riferimento, oltre alle armi da guerra e tipo guerra, agli esplosivi di ogni genere. In proposito, l’art. 46 t.u.l.p.s., in materia di prevenzione di infortuni e disastri, stabilisce che sono esplosivi la dinamite e i prodotti affini negli effetti esplosivi, fulminati, picrati, artifici contenenti miscele detonanti, ovvero elementi solidi e liquidi destinati alla composizione di esplosivi nel momento dell’impiego, nonché le polveri contenenti nitrocellulosa e nitroglicerina; tale disposizione è integrata dagli artt. 81 ss. reg. t.u.l.p.s.. Inoltre, l’art. 53 t.u.l.p.s. distingue gli esplosivi riconosciuti e classificati dal Ministero dell’Interno (sentito il parere della Commissione Consultiva Centrale per le sostanze esplosive ed infiammabili, di cui agli artt. 83-88 reg. t.u.l.p.s.) da quelli non riconosciuti né classificati. L’allegato A al reg. t.u.l.p.s. (modificato dal d.m. 8.8.1972) contiene un elenco degli esplosivi riconosciuti e classificati, i quali vengono divisi in cinque categorie: a) polveri e prodotti affini negli effetti esplodenti; b) dinamiti e prodotti affini (comprese le micce); c) detonanti e prodotti affini; d) fuochi d’artificio e prodotti affini; e) munizioni di sicurezza e giocattoli pirici. Va altresì sottolineato che, ai sensi dell’art. 2 d.p.r. 9.5.1994, n. 608, le competenze in materia di esplosivi sono state affidate alla Commissione Consultiva Centrale per le armi, con conseguente abolizione della Commissione Consultiva Centrale per le sostanze esplosive.

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Ora, deve considerarsi tecnicamente esplosivo ogni sostanza o miscela di sostanze che, in seguito ad adatto stimolo esterno (urto, sfregamento, percussione, azione chimica), può trasformarsi chimicamente, sviluppando in un tempo brevissimo una grande quantità di gas ad altissima temperatura e pressione. Gli esplosivi possono essere detonanti – quando la massima velocità di combustione dell’esplosivo fa prevalere gli effetti di rottura – o deflagranti – quando una minore velocità di combustione fa prevalere gli effetti di proiezione. Ed ancora, gli esplosivi possono esistere sia allo stato grezzo, sia contenuti in manufatti; i detonanti si distinguono, a loro volta, in detonanti in senso stretto e dirompenti: nei primi la reazione è istantanea tant’è che essi vengono sovente usati come innesco per i secondi. Dagli esplosivi in senso stretto, inoltre, si distinguono le sostanze dirette alla loro composizione o fabbricazione, come emerge dagli artt. 47 t.u.l.p.s., 96 reg. t.u.l.p.s. e 678 c.p. Le micce, poi, si distinguono in detonanti e a lenta combustione: le prime sono un mezzo per provocare la detonazione simultanea di più cariche esplosive e sono costituite da un’anima di pentrite protetta da più strati di filati; le seconde sono un mezzo per portare a detonazione la carica esplosiva di un detonatore da mina o alla deflagrazione di una carica di polvere nera e sono costituite da un’anima di polvere nera protetta da più strati di filati impregnati con appositi materiali. Le micce a lenta combustione sono qualificabili come materie esplodenti non micidiali; le micce detonanti sono qualificabili come esplosivi micidiali o mere materie esplodenti secondo il quantitativo e le altre circostanze concrete. I detonatori comuni hanno lo scopo di generare l’onda esplosiva iniziale cui è dovuto l’innescamento e, quindi, la detonazione degli esplosivi con i quali sono a contatto; si tratta di astucci o tubicini metallici cilindrici in alluminio, chiusi ad una estremità, contenenti esplosivi innescanti, i quali avviano il processo che porta allo scoppio dei dirompenti. La discrasia terminologica tra esplosivi (legge 2.10.1967, n. 895) e materie esplodenti (artt. 678, 679 e 704 c.p.) ha dato vita a diversi problemi interpretativi; conseguentemente, dottrina e giurisprudenza hanno provato ad elaborare un sicuro criterio discriminante tra le due categorie richiamate dalla legge. La questione si è posta con riferimento ai giocattoli pirici, come le bombe-carta e cose simili, dotate in quanto tali di una limitata capacità distruttiva. Parte della dottrina [riferimenti in MORI, 569] ha sostenuto l’implicita abrogazione degli artt. 678 e 679 c.p. ad opera della legge 2.10.1967, n. 895, con la conseguente punibilità ex legge del 1967 di ogni condotta avente ad oggetto esplosivi o materiale esplodente di qualsiasi genere. In base a tale impostazione la categoria esplosivi di ogni genere avrebbe integralmente ricompreso, abrogandola, la categoria codicistica materiale esplodente. Anche la giurisprudenza di legittimità, inizialmente, aderiva ad una definizione ampia del termine esplosivi di ogni genere, facendo rientrare in tale categoria qualunque materiale esplosivo, da quelli dotati di grande capacità distruttiva ai più modesti giocattoli pirici. Tale orientamento, avallato anche dalla Corte costituzionale [C. cost., 26.3.1986, n. 62], ha sostenuto l’abrogazione degli artt. 678 e 679 c.p. (contenenti l’espressione più ristretta materie esplodenti) ad opera della legge del 1967 (contenente l’espressione più lata esplosivi di ogni genere); di qui l’affermazione della natura delittuosa di ogni condotta vietata avente ad oggetto ogni esplosivo o materiale esplodente e l’applica-

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bilità delle norme codicistiche esclusivamente ai casi di condotte omissive non punite dalla legge 2.10.1967, n. 895 o alle condotte aventi ad oggetto le sostanze destinate alla composizione ed alla fabbricazione degli esplosivi [Cass. pen., sez. I, 24.1.1984]. In un secondo momento la Suprema Corte ha avanzato diverse riserve nei confronti di tale impostazione, fino al revirement del 1986, quando le Sezioni Unite [Cass. pen., S.U., 19.4. 1986] hanno affermato che la legge 2.10.1967, n. 895 si applica «esclusivamente alle condotte che hanno per oggetto esplosivi, atti a provocare – per quantità o qualità, composizione o confezionamento – una esplosione, ossia una rapidissima e violenta liberazione di energia, da cui derivi un effetto micidiale e distruttivo, equiparabile alle conseguenze cagionate dall’impiego di armi da guerra». Per contro, le condotte aventi ad oggetto le materie esplodenti (cioè le materie che non hanno le suddette caratteristiche, come quelle utilizzate per i cosiddetti fuochi artificiali, privi di potenza micidiale, vuoi per struttura chimica, vuoi per modalità di fabbricazione), integrano, invece, le fattispecie contravvenzionali previste dagli artt. 678 e 679 c.p. [Cass. pen., sez. I, 6.11.2006, n. 38064]. È così prevalsa la tesi diretta a valorizzare la concreta potenzialità offensiva e pertanto per esplosivo ex legge 2.10.1967, n. 895 deve intendersi quel materiale o strumento dotato di capacità distruttiva e micidiale, mentre per materiale esplodente ex artt. 678-704 c.p. si intende quel prodotto non capace di deflagrazione micidiale [DE CARO, 1200]. Tale assunto è convalidato dalla circostanza che l’art. 34 legge 10.4.1975, n. 110 è intervenuta a modificare le pene previste dal codice penale per le contravvenzioni in materia di esplosivi, dimostrando che il legislatore non ritiene abrogate tali disposizioni. -

La qualificazione di un materiale quale esplosivo o mero esplodente dipende pertanto dalla concentrazione di una data quantità di prodotto in un determinato luogo, così che potrà essere qualificato come esplosivo anche un elevato quantitativo di materiale esplodente collocato in un ristretto contesto spaziale; conseguentemente, il giudizio di micidialità andrà condotto sulla base di una doppia valutazione al contempo qualitativa e quantitativa [RUSSO, 164; in giurisprudenza, Cass. pen., sez. I, 24.1.2011, n. 16677]. All’interno degli esplosivi riconosciuti e catalogati nell’allegato A del t.u.l.p.s., vanno poi considerati esplosivi i materiali di cui alla categoria II (dinamite ed affini) e III (detonanti ed affini); i materiali di cui alle categorie I, IV e V sono meri esplodenti, ma rientrano fra gli esplosivi se per la loro quantità e concentrazione sono idonei a produrre deflagrazioni micidiali e distruttive. Per quanto concerne, invece, gli esplosivi non riconosciuti, spetta al giudice un vaglio in concreto della loro potenzialità offensiva. Volgendo lo sguardo alla giurisprudenza, si è così affermato che, per accertare se un determinato congegno esplosivo debba essere considerato micidiale e debba pertanto essere disciplinato dalla normativa speciale di cui alla legge del 1967 si deve considerare in concreto la sua oggettiva ed intrinseca potenzialità offensiva e non anche le conseguenze del suo scoppio, dell’uso improprio che se ne faccia o della qualità della persona che ne faccia uso [Cass. pen., sez. I, 28.1.1992, n. 1342], con la precisazione che anche i giocattoli pirici o altre materie esplodenti non micidiali, se singolarmente considerati, possono, in particolari circostanze, acquistare i requisiti della micidialità e della pericolosità per la pubblica incolumità, allorché dalla loro concentrazione in un determinato posto o nella disponibilità di un singolo soggetto derivi un’oggettiva potenzialità di pericolo per persone o cose, tale che detti oggetti o materiali possano, considerati nel loro insieme, qualificarsi come micidiali. La relativa valutazione spetta al giudice di merito [Cass. pen., sez. I, 22.1.2009, n. 6132]; conseguentemente, uno strumento come la bomba-carta può avere un effetto soltanto detonante ovvero, per la natura e la quantità della carica esplosiva e per le modalità di confezione, un effetto dirompente, divenendo in quest’ulti-

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mo caso un congegno esplosivo di cui alla legge 2.10.1967, n. 895 [Cass. pen., sez. I, 22.1. 2009, n. 6132]. Sono pertanto da qualificarsi come esplosivi, a titolo esemplificativo, quattro metri di miccia con carica esplosiva interna e una bombola riempita di gas e benzina [Cass. pen., sez. I, 7.5.2008, n. 21872]; i detonatori per miccia contenenti una carica di materia esplodente, qualunque sia la qualità e la quantità dell’esplosivo in essi contenuto [Cass. pen., sez. I, 8.11.2012, n. 46256]; la nitroglicerina con meno del 18% di acqua; le micce deflagranti. Sono invece da considerarsi generalmente materie esplodenti i fuochi d’artificio [Cass. pen., sez. I, 19.2.1988]; i petardi [Cass. pen., sez. I, 15.2.1988]; le micce a lenta combustione [Cass. pen., sez. I, 7.10.1992], comprese le munizioni a salve [Cass. pen., sez. I, 27.10.1993]. I semplici proiettili privi di carica sono invece irrilevanti per il diritto penale [Cass. pen., sez. I, 2.2.2000] e le munizioni da guerra sono assoggettate al medesimo regime giuridico delle armi da guerra. -

7.1. Le nozioni residue in materia di esplosivi. – Nel nostro ordinamento gli esplosivi sono soggetti a differenti regimi giuridici, secondo che siano qualificabili come esplosivi micidiali (e, quindi, armi da guerra di cui all’art. 1 legge 18.4.1975, n. 110, o materiali di armamento di cui all’art. 2 legge 9.7.1990, n. 185) e come materie esplodenti non micidiali (soggette, in via tendenziale, alla disciplina codicistica di cui agli artt. 678 e 679 c.p.). Il d.lgs. 2.1.1997, n. 7, in attuazione della direttiva europea n. 93/15/CEE, ha tuttavia introdotto una speciale disciplina precettiva e sanzionatoria in materia di esplosivi per uso civile. Tale nozione si ricava, in negativo, dall’art. 1, secondo il quale non sono tali 1) gli esplosivi e le munizioni destinati ad essere utilizzati dalle Forze armate e di polizia; 2) gli articoli pirotecnici; 3) le munizioni per uso civile, salvo quanto disposto dagli artt. 10, 11 e 12 d.lgs. 2.1.1997, n. 7. I materiali di cui al punto 1), quindi, rimangono soggetti alla disciplina in materia di armi da guerra e di materiali di armamento, mentre gli articoli pirotecnici sub 2) sono soggetti al regime delle materie esplodenti, in quanto non aventi, generalmente, carattere di micidialità. L’art. 2 d.lgs. 2.10.1997, n. 7 stabilisce che gli esplosivi per uso civile devono soddisfare i requisiti essenziali di sicurezza previsti dall’allegato II; tale disposizione, inoltre, al comma 2, stabilisce che è vietato detenere, utilizzare, porre in vendita o cedere a qualsiasi titolo, trasportare, importare ed esportare esplosivi per uso civile che siano privi della marcatura CE e che non abbiano superato la valutazione di conformità di cui all’allegato V. Il comma 4, infine, stabilisce che l’attestato di esame CE del tipo e la valutazione della conformità di cui all’allegato V sostituiscono, per gli esplosivi di uso civile, il riconoscimento e la classificazione di cui all’art. 53 t.u.l.p.s. L’art. 13 d.lgs. 2.1.1997, n. 7 afferma «salvo quanto espressamente previsto dal presente decreto legislativo e dalle relative disposizioni di attuazione, restano ferme le vigenti disposizioni penali e di pubblica sicurezza». Il decreto, infatti, contiene una serie di precetti, la cui violazione continua ad essere sanzionata dalle norme generali in materia di armi, segnatamente, dalle disposizioni sanzionatorie contenute nelle leggi 2.10.1967, n. 895 e 18.4.1975, n. 110. L’art. 81 comma 2 reg. t.u.l.p.s. precisa che le disposizioni di cui agli artt. 46 (in materia di autorizzazioni ministeriali) e 57 t.u.l.p.s. (in materia di esplosioni ed accensioni) si applicano anche agli esplodenti per uso civile.

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Altro regime speciale è previsto per le mine antipersona, che identificano quegli ordigni costituiti da un corpo esplosivo e da un congegno di accensione innescato, per lo più, attraverso la pressione o l’urto. La principale caratteristica delle mine è la loro insidiosità, atteso che l’urto, la pressione o qualsiasi altra attività di innesco possono essere provocati involontariamente, tenuto conto del fatto che, generalmente, tali ordigni sono occultati mediante immersione, seppellimento o camuffamento. L’art. 2 del Protocollo II alla Convenzione di Ginevra del 10.10.1980, ratificata con legge 14.12.1994, n. 715, stabilisce che si intende per mina antiuomo una mina progettata essenzialmente per esplodere in presenza od a contatto con una persona e destinata a porre fuori combattimento, ferire o uccidere una o più persone. Le mine antipersona sono tradizionalmente ricomprese nella categoria dei congegni bellici micidiali di cui all’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895 e, quindi, sono soggette al regime delle armi da guerra; giova, inoltre, evidenziare che, poiché l’art. 1 legge 18.4.1975, n. 110 annovera, tra le armi da guerra, anche le parti di bombe, le parti di mina andranno considerate quali armi da guerra intere e non quali parti di esse [RUSSO, 439]. Peraltro, tali mine possono rientrare anche nel genus dei materiali di armamento (cfr. l’art. 2 comma 2 lett. d) legge 9.7.1990, n. 185), con conseguente applicazione della disciplina dell’importazione, dell’esportazione e del transito di tali materiali, contenuta nella legge 9 luglio 1990, n. 185. Con la legge 29.10.1997, n. 374 si è poi inteso mettere al bando le mine cosiddette antipersona, ossia ogni dispositivo od ordigno congegnato in modo tale da esplodere, causare un’esplosione o rilasciare sostanze incapacitanti come conseguenza della presenza, della prossimità o del contatto di una persona (art. 2). L’art. 1 legge 29.10.1997, n. 374, invero, vieta qualunque tipo di utilizzazione delle mine antipersona, salvo che per i casi di addestramento per le operazioni di sminamento di cui all’art. 5 comma 1 della medesima legge; sono, inoltre, vietate la ricerca tecnologica, la fabbricazione, la vendita, la cessione a qualsiasi titolo, l’esportazione, l’importazione, la detenzione delle mine antipersona o di parti di esse, e l’utilizzazione e la cessione, a qualsiasi titolo, delle tecnologie idonee alla fabbricazione di tali materiali. Il comma 3-bis dell’art. 1 legge 29.10. 1997, n. 374, ancora, precisa che i suddetti divieti non si applicano alle attrezzature per la rimozione delle mine ed alle informazioni tecnologiche connesse a scopi umanitari, nonché all’importazione di mine antipersona funzionale esclusivamente alla distruzione delle mine stesse. La violazione di tali divieti integra il delitto di cui all’art. 7 comma 1 legge 29.10.1997, n. 374; tuttavia, non v’è perfetta coincidenza tra le condotte vietate dall’art. 1 e le condotte punite dal menzionato art. 7 [CIVELLO, 45]: in particolare, l’art. 1 comma 2 fa espresso divieto di condurre attività di ricerca tecnologica afferente alle mine antipersona, ma tale condotta non rientra tra le fattispecie punite dall’art. 7, con conseguente irrilevanza penale della stessa (a meno che essa che non si accompagni al possesso di strutture idonee alla costruzione delle mine stesse, nel qual caso potrebbe configurarsi il delitto ex art. 7 legge 29.10.1997, n. 374, nella forma tentata). -

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La disciplina penale in materia di armi, esplosivi e munizioni

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Capitolo II

Le condotte criminose e le sanzioni

Sommario

1. Le condotte incriminate. – 1.1. Le attività vietate in modo assoluto. Distrazione e sottrazione a fine eversivo ed esplosioni a fine di incutere timore. Omessa consegna di armi. – 1.2. Cancellazione, contraffazione e alterazione dei segni distintivi e alterazione di armi. Locazione e comodato di armi. – 1.3. L’addestramento alla preparazione ed all’uso di armi da guerra. – 2. Le norme incriminatrici delle attività esercitate senza autorizzazione: la fabbricazione, l’introduzione nello stato, la vendita e la cessione a qualsiasi titolo, l’esportazione, la detenzione illegale e il porto di armi. – 2.1. La fabbricazione. – 2.2. L’introduzione e l’importazione. – 2.3. La vendita e la cessione a qualsiasi titolo. – 2.4. L’esportazione. – 2.5. La detenzione. – 2.5.1. Il porto. – 2.5.2. Il porto di armi ex art. 4 legge 18.4.1975, n. 110. – 3. Le norme sanzionatorie residuali. – 3.1. I reati in materia di custodia di armi ed esplosivi. – 3.2. Il trasporto di armi. – 3.3. La categoria delle armi clandestine e i reati di clandestinità. – 3.4. Le esplosioni pericolose. – 3.5. L’uso venatorio di mezzi vietati. – 4. La circostanza attenuante della lieve entità. – 5. La confisca in materia di armi, munizioni ed esplosivi. – Bibliografia.

1. Le condotte incriminate. 1.1. Le attività vietate in modo assoluto. Distrazione e sottrazione a fine eversivo ed esplosioni a fine di incutere timore. Omessa consegna di armi. – Per orientarsi tra le numerosissime fattispecie penali, appare utile procedere, sulla scia di un autorevole orientamento dottrinale [PALAZZO, 252 ss.], ad una tripartizione delle disposizioni incriminatrici, a seconda che si tratti di: a) norme sanzionatorie di attività vietate in modo assoluto; b) norme sanzionatorie di attività clandestine, cioè illecite in quanto esercitate senza la prescritta autorizzazione; c) norme sanzionatorie residuali, destinate a consentire un controllo efficace. Nel primo gruppo vengono in rilievo, oltre ai reati di furto e rapina di armi, munizioni ed esplosivi nelle armerie e consimili locali (art. 4 legge 8.8.1977, n. 533), i delitti di distrazione e sottrazione di armi ed esplosivi a fine eversivo

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(artt. 21 e 29 legge n. 110/1975), di fabbricazione e detenzione di materie esplodenti al fine di attentare alla pubblica incolumità (art. 435 c.p., la cui trattazione esula dal presente lavoro avente ad oggetto l’analisi della legislazione complementare; giova tuttavia ricordare che l’art. 435 c.p. punisce chiunque, al fine di attentare alla pubblica incolumità, fabbrica, acquista o detiene dinamite o altre materie esplodenti, asfissianti, accecanti, tossiche o infiammabili, ovvero sostanze che servono alla composizione o alla fabbricazione di esse; trattasi di delitto di pericolo presunto, integrato anche da meri atti preparatori, il quale si distingue dalla contravvenzione ex art. 678 c.p. per il particolare dolo specifico. In assenza delle licenze richieste dalla legge per tali attività, questo delitto concorrerà con il reato di produzione illegale di cui all’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895 ed all’art. 678 c.p.) e di esplosioni al fine di incutere pubblico timore (art. 6 legge n. 895/1967). Ora, l’art. 21 legge 18.8.1975, n. 110 punisce tre tipi di condotte, aventi ad oggetto armi da guerra, tipo guerra o comuni da sparo: 1) la distrazione; 2) la sottrazione; 3) la detenzione; trattasi di condotte che sono perseguite se sorrette dal dolo specifico, rappresentato dal «fine di sovvertire l’ordinamento dello Stato ovvero di mettere in pericolo la vita delle persone o la sicurezza della collettività mediante la commissione di attentati o comunque di uno dei reati previsti dal capo I, titolo VI, del libro II del codice penale o dagli artt. 284, 285, 286 e 306 dello stesso codice». Una fattispecie identica è prevista dall’art. 29 legge 18.4.1975, n. 110, per l’ipotesi in cui la citata condotta abbia ad oggetto esplosivi. Tali fattispecie, peraltro, costituiscono autonome figure delittuose e non mere circostanze aggravanti. Quanto alle condotte vietate, la distrazione consiste nel distogliere l’arma dalla sua originaria destinazione, come nel caso del fabbricante o del collezionista d’armi autorizzato, il quale destini anche parzialmente le armi prodotte o collezionate agli scopi vietati dalla norma. La sottrazione presuppone che il soggetto agente non sia già detentore dell’arma. Nel caso di detenzione di arma, qualora si tratti di detenzione non solo finalizzata agli scopi illeciti di cui all’art. 21, ma anche illegale, sussisterà il concorso tra l’ipotesi criminosa in esame e quella prevista dagli artt. 2 e 7 legge 2.10.1967, n. 895 [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 235]. Si è al cospetto di un reato plurioffensivo, posto a tutela tanto dell’interesse al mantenimento dell’ordinamento dello Stato, quanto di quello alla pacifica convivenza della collettività. Essendo al cospetto di un reato di pericolo, non è necessario, per la sua consumazione, che si verifichi una lesione degli interessi protetti dalla norma. Laddove alla sottrazione dovessero accompagnarsi anche gli elementi costitutivi del reato di furto, si applicherà comunque la sola disposizione dell’art. 21, in quanto speciale rispetto all’art. 624 c.p. in considerazione del dolo specifico; qualora, invece, vi sia il furto di armi senza il dolo specifico previsto dall’art. 21, sussisterà il delitto di cui all’art. 624 c.p., aggravato ex art. 4 legge 8.8.1977, n. 533 (il quale prevede una pena particolarmente severa per il furto d’armi), eventualmente in concorso con i reati di detenzione o porto illegale di armi.

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L’art. 29 legge 18.4.1975, n. 110 prevede la medesima fattispecie di reato di cui all’art. 21, con riguardo, però, agli esplosivi. Per la punizione del possesso di razzi, bengala, fuochi artificiali, petardi, strumenti per l’emissione di fumo o di gas visibile, ovvero di bastoni, mazze, materiale imbrattante o inquinante, oggetti contundenti, o, comunque, atti ad offendere in occasione di manifestazioni sportive, si rinvia all’art. 6-ter legge 13.12.1989, n. 401. Laddove poi la detenzione di arma sia non solo finalizzata agli scopi illeciti di cui all’art. 21, ma anche illegale, sussisterà il concorso tra l’ipotesi criminosa in esame e quella prevista dagli artt. 2 e 7 legge 2.10.1967, n. 895 [Cass. pen., sez. I, 23.4.1990, n. 231]. Come già evidenziato, il delitto di cui all’art. 21 è punito a titolo di dolo specifico, costituito da un fine immediato (commissione di attentati o comunque di uno dei delitti contro l’incolumità pubblica previsti dagli artt. da 422 a 437 c.p., o di uno dei delitti di cui agli artt. 284, 285, 286 e 306 c.p.) e da uno mediato, consistente nel 1) sovvertire l’ordinamento dello Stato, ovvero 2) mettere in pericolo la vita delle persone, o ancora 3) mettere in pericolo la sicurezza della collettività. La rilevanza del fine di sovversione o di terrorismo non deve essere necessariamente collegata all’appartenenza dell’agente ad una particolare organizzazione, ma serve solo a qualificare il dolo necessario per la configurazione dei reati. Inoltre, per la sussistenza del delitto previsto dall’art. 21 legge 18.4.1975, n. 110 – così come per quello previsto dall’art. 29 della stessa legge – il fine di porre in pericolo la sicurezza della collettività è ben diverso e più ampio rispetto a quello di mettere in pericolo la vita delle persone. Per la consumazione del delitto non è necessaria la sussistenza, nemmeno in forma tentata, di uno dei delitti menzionati dalla norma. Inoltre, la parola attentati va interpretata in senso tecnico-giuridico, con riferimento ai delitti di attentato previsti dalla nostra legislazione penale. La punibilità del tentativo è controversa. Per un primo orientamento sarebbe configurabile quantomeno per le condotte di sottrazione o distrazione, come nel caso di un soggetto che, accingendosi a far cambiare destinazione all’arma per uno dei fini suddetti, venga sorpreso quando ancora non si sia verificato l’evento [RUSSO, 627]. Per contro, va sottolineata l’eccesiva anticipazione della punibilità cui potrebbe condurre tale opzione, non apparendo conforme al principio costituzionale di offensività punire chi tenti di sottrarre un’arma, al fine immediato di commettere un delitto di attentato (di per sé, reato di mera condotta e di pericolo), al fine ulteriore e mediato di sovvertire l’ordinamento statale o di mettere in pericolo la vita o la sicurezza pubblica. Vengono poi in rilievo i casi nei quali l’Autorità può ordinare la consegna di armi, munizioni ed esplosivi. Si tratta delle tre seguenti ipotesi di omessa consegna di armi: 1) art. 39 t.u.l.p.s.; 2) art. 40 t.u.l.p.s.; 3) art. 12 d.lgs. 2.1.1997, n. 7. Segnatamente, l’art. 39 t.u.l.p.s. stabilisce che «il Prefetto ha facoltà di vietare la detenzione delle armi, munizioni e materie esplodenti, denunziate ai termini dell’articolo precedente, alle persone ritenute capaci di abusarne». Il provvedimento è rivolto ai singoli; deve essere ovviamente motivato e contenere il termi-

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ne per adempiere. In determinati casi, può essere ordinata anche la consegna immediata delle armi, le quali saranno ritirate da chi comunicherà il provvedimento stesso all’interessato. L’art. 40 t.u.l.p.s. stabilisce poi che «il Prefetto può, per ragioni di ordine pubblico, disporre, in qualunque tempo, che le armi, le munizioni e le materie esplodenti, di cui negli articoli precedenti, siano consegnate, per essere custodite in determinati depositi a cura dell’autorità di pubblica sicurezza o dell’autorità militare». Tale provvedimento ha carattere generale ed è rivolto alla collettività: per questo motivo, esso può essere comunicato anche mediante manifesti; la consegna è eseguita, nel termine stabilito dal Prefetto, all’autorità di pubblica sicurezza o presso determinati depositi, dove le armi e le materie esplodenti sono temporaneamente custodite senza spesa, a cura dell’autorità di pubblica sicurezza o dell’autorità militare, che rilascia apposita ricevuta (art. 60 reg. t.u.l.p.s.). L’art. 12 d.lgs. 2.1.1997, n. 7 stabilisce ancora che «oltre a quanto stabilito dagli articoli 39 e 40 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, per gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, il Prefetto competente per territorio può, con ordinanza motivata, sospendere i trasferimenti di esplosivi o munizioni od imporre particolari prescrizioni per prevenire la detenzione o l’uso illecito di detto materiale. Il Ministro dell’Interno può in qualsiasi momento disporre la sospensione della fabbricazione, il divieto di vendita o cessione a qualsiasi titolo, nonché la consegna per essere custoditi in depositi a cura dell’autorità di pubblica sicurezza o militare, degli esplosivi per uso civile che, pur muniti della marcatura CE di conformità ed impiegati conformemente alla loro destinazione, risultino pericolosi per la sicurezza o l’incolumità pubblica». Ora, la condotta punita dall’art. 3, legge 2.10.1967, n. 895 consiste nell’omessa consegna delle armi da guerra, tipo guerra o parti di esse e degli altri strumenti di cui all’art. 1 della medesima legge (i quali siano legalmente detenuti), nonostante l’ordine legalmente dato dall’Autorità ai sensi degli artt. 39 e 40 t.u.l.p.s. o dell’art. 12 d.lgs. 2.1.1997, n. 7. Si è al cospetto di una norma penale in bianco speciale rispetto a quella di cui all’art. 650 c.p. [PALAZZO, 262]. Ai sensi dell’art. 7 legge 2.10.1967, n. 895, la disposizione dell’art. 3 si estende all’omessa consegna di armi comuni da sparo. Ci si è interrogati sul rapporto tra il provvedimento ordinatorio dell’Autorità ed il giudizio penale, con particolare riferimento ai casi di illegittimità dell’ordine; invero, già l’art. 3, sul modello dell’art. 650 c.p., precisa che presupposto per la punibilità è l’emanazione di un ordine legalmente dato dall’autorità, donde l’insussistenza del reato nei casi di ordine illegittimo. In proposito, si è osservato che sulla base dell’art. 5 legge 20.3. 1865, n. 2248, all. E, il giudice penale dovrà assolvere l’imputato dal reato di omessa consegna qualora rilevi che, a monte, l’ordine di consegna sia stato disposto con provvedimento amministrativo illegittimo per incompetenza, violazione di legge od eccesso di potere (sviamento, travisamento dei fatti, errore di fatto, contraddizione del provvedimento con altro anteriore o contemporaneo, manifesta ingiustizia, illogicità manifesta, disparità di trattamento, vizi della volontà, insufficienza o contraddittorietà della motivazione) [BELLAGAMBA, VIGNA, 133]. -

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L’acquisizione delle armi da parte dell’Autorità in forza dell’ordine di consegna non comporta un’espropriazione né una confisca, poiché il proprietario delle armi consegnate continua a disporre delle stesse: quest’ultimo potrà rinunziare alle armi, le quali diverranno di proprietà dello Stato, oppure potrà chiedere un congruo termine per cedere le armi a persona abilitata al loro acquisto. Ai fini della configurabilità del reato di omessa consegna di armi, la mancata indicazione, nell’ordine dell’Autorità, di un preciso termine per adempiere è irrilevante, non facendo venir meno la legalità del provvedimento impositivo dell’obbligo il caso in cui la determinazione di siffatto termine risulti assorbita dal connotato di immediatezza nell’esecuzione (che l’ordine può talora rivestire in considerazione delle concrete circostanze di fatto che ne hanno giustificato l’adozione). Presupposto del reato è che le armi di cui si ometta la consegna siano detenute legalmente dal soggetto attivo; se, invece, la precedente detenzione è illegale, ricorrerà la più grave fattispecie di illegittima detenzione di cui agli artt. 2 e 7 legge 2.10.1967, n. 895 [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 225]: per il principio nemo tenetur se detegere, infatti, non si può esigere dal detentore illegale di armi la consegna delle armi stesse all’Autorità. Trattasi inoltre di reato omissivo proprio, secondo taluni permanente, secondo altri di natura istantanea, in quanto consistente nell’inadempimento di un dovere laddove la legge non assegna alcuna efficacia giuridica specifica all’inadempimento tardivo o alla continuazione della detenzione delle armi e delle munizioni [riferimenti in CIVELLO, 69]. Il reato di omessa consegna, se relativo al provvedimento di cui all’art. 40 t.u.l.p.s., cessa solo con la perdita della disponibilità giuridica o materiale dell’arma, oppure con la revoca del provvedimento, o con il cessare del pericolo di disordine pubblico; nel caso, invece, di omessa consegna in seguito al provvedimento di cui all’art. 39 t.u.l.p.s., la permanenza cessa o con la revoca del provvedimento o quando passa in giudicato l’ordinanza di riabilitazione ex art. 683 c.p.p., la quale fa venir meno la presunzione di pericolosità del soggetto e, quindi, il presupposto sul quale poggiava l’ordine. Si ritiene che un’eventuale proroga o rinnovazione del termine per la consegna, disposta dall’Autorità competente, comporti una sanatoria per l’inadempimento precedente, anche se questo sia già stato rilevato [PALAZZO, 263]. Secondo l’opinione dominante, la consegna tardiva fa cessare la permanenza del reato, ma non fa venir meno il reato stesso [PALAZZO, 264]; si tende, inoltre, ad escludere che tale condotta possa integrare l’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p., in quanto la stessa avrebbe come unico effetto quello di far cessare la permanenza del reato [PALAZZO, 265]. Nel coordinamento tra l’art. 3 legge 2.10.1967, n. 895 e le norme codicistiche in materia di omessa consegna, deve essere evidenziato che l’omessa consegna dolosa di armi da guerra, tipo guerra o loro parti, munizioni da guerra, esplosivi micidiali, aggressivi chimici e congegni è punita ex art. 1 legge 2.10.1967, n. 895 (art. 3 legge 2.10.1967, n. 895), l’omessa consegna dolosa di armi comuni da sparo o loro parti è punita ex artt. 3 e 7 legge 2.10.1967, n. 895. Per contro,

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l’omessa consegna di munizioni non da guerra, l’omessa consegna colposa di armi da sparo, siano esse da guerra, tipo guerra o comuni, l’omessa consegna di armi proprie non da sparo (c.d. armi bianche) o di armi antiche sono punite ex art. 698 c.p., mentre l’omessa consegna di materie esplodenti non micidiali e l’omessa consegna colposa di esplosivi micidiali sono punite ex art. 679 comma 3 c.p. Non ricorre, invece, alcuna sanzione per l’omessa consegna di armi improprie, atteso che l’art. 698 c.p. si applica esclusivamente alle condotte aventi ad oggetto le armi di cui all’art. 704 c.p., che, rinviando al solo n. 1 del capoverso dell’art. 585 c.p., non fa riferimento agli strumenti atti ad offendere. Gli artt. 698 e 679 c.p. sono dunque residuali rispetto alla fattispecie di cui all’art. 3 legge 2.10.1967, n. 895. Si sostiene, infine, che, nonostante la locuzione «da lui detenuti legittimamente» non sia presente nell’art. 698 c.p., i presupposti applicativi di quest’ultima disposizione siano i medesimi rispetto a quelli di cui all’art. 3 legge 2. 10.1967, n. 895 e anche qualora si ritenga astrattamente applicabile l’art. 698 c.p., presupposto per l’integrazione di tale contravvenzione è la legittima detenzione delle armi di cui si ometta la consegna, sussistendo in caso contrario la sola fattispecie, più grave, di detenzione illegale [PALAZZO, 265]. La particolare ipotesi di disobbedienza all’ordine di distruggere o rimuovere gli esplodenti detenuti (art. 56 t.u.l.p.s.) è poi punita dall’art. 650 c.p.; qualora si tratti di ordinanza rivolta ad una pluralità di soggetti, la pena sarà quella di cui all’art. 17 comma 2 t.u.l.p.s. -

1.2. Cancellazione, contraffazione e alterazione dei segni distintivi e alterazione di armi. Locazione e comodato di armi. – Sono vietate in modo assoluto le condotte incondizionatamente incompatibili col sistema del controllo di polizia delineato dalla legge. La fattispecie di cancellazione, contraffazione e alterazione dei segni di catalogazione e immatricolazione delle armi da sparo di cui all’art. 23 comma 4, seconda parte, legge n. 110/1975 vanifica la funzione probatoria dei segni distintivi che a norma dell’art. 11 legge n. 110/1975 debbono essere impressi sull’arma e mediante i quali un determinato esemplare è, da un lato, accertabile come conforme al prototipo catalogato, e quindi ammesso alla produzione, importazione e circolazione, e dall’altro è identificabile individualmente per mezzo del numero di matricola, così da poter essere controllato permanentemente nei suoi movimenti. Senza la presenza di quei segni distintivi veritieri crollerebbe l’intero sistema di controllo fondato sulla catalogazione ed immatricolazione. Poiché detto sistema riguarda esclusivamente le armi comuni da sparo, è logico che l’ambito applicativo della fattispecie in esame sia limitato a tale categoria di armi, oltre che alle relative canne. Ed invero, il comma 4, seconda parte, dell’art. 23 punisce la cancellazione, contraffazione od alterazione dei segni distintivi di cui all’art. 11 legge 18.4. 1975, n. 110. Per quanto concerne le condotte punite: 1) cancellare significa eli-

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minare in tutto o in parte di segni distintivi già legittimamente impressi sulle armi; 2) alterare significa apportare delle modificazioni non consentite ai predetti segni; 3) contraffare significa imprimere numeri di catalogo o di matricola o altri segni distintivi fuori dai casi consentiti dalla legge. Tutte queste fattispecie possono altresì ricomprendersi tra i delitti contro la fede pubblica. Si è sostenuto che il testo del comma 4 presenti una formulazione impropria, atteso che il reato non si configurerebbe in relazione a tutti i segni che possono essere apposti su di un’arma, ma solo in relazione a quelli distintivi (matricola, numero di catalogo e sigla o marchio del produttore). Conseguentemente, la cancellazione del marchio del Banco di Prova o dell’emblema della Repubblica non incide affatto sulla identificabilità dell’arma e, quindi, non dovrebbe ritenersi punita; piuttosto, l’alterazione o contraffazione di tali segni dovrebbe ritenersi punita ai sensi dell’art. 469 c.p. [MORI, 151]. Tale fattispecie punisce l’autore della cancellazione, alterazione o contraffazione; chi, invece, detiene l’arma alterata da altri, risponderà eventualmente della detenzione illegale e della ricettazione ex art. 648 c.p. Il comma 6 dell’art. 23 prevede una speciale causa di non punibilità, affermando che «non è punibile ai sensi del presente articolo, per la mancanza dei segni d’identità prescritti per le armi comuni da sparo, chiunque ne effettua il trasporto per la presentazione del prototipo al Ministero dell’Interno ai fini dell’iscrizione nel catalogo nazionale o al Banco nazionale di prova ai sensi del precedente art. 11». Tale causa di non punibilità si applica solamente alle armi mancanti fin dall’origine dei prescritti segni di identificazione, non già alle armi che ne siano sprovviste per altra causa (per esempio, per avvenuta cancellazione). Potranno usufruire, quindi, di tale speciale disposizione sia il produttore o l’importatore che effettui il trasporto dell’arma al fine indicato dalla norma, sia il privato che, in osservanza dell’ultimo comma dell’art. 11, sia in procinto di portare l’arma al Banco Nazionale di Prova entro il termine di un anno dall’inizio delle operazioni di catalogazione. L’art. 3 legge 18.4.1975, n. 110, punisce poi la fattispecie della alterazione delle armi, incriminando «chiunque, alterando in qualsiasi modo le caratteristiche meccaniche o le dimensioni di un’arma, ne aumenti la potenzialità di offesa, ovvero ne renda più agevole il porto, l’uso o l’occultamento»; di converso, non sono punibili le condotte di alterazione che non apportino modifiche meccaniche o dimensionali all’arma; inoltre, non sono punibili le modificazioni meccaniche o dimensionali dell’arma, qualora non abbiano l’effetto di aumentare l’offensività dell’arma o di rendere più agevole il porto, l’uso o l’occultamento dell’arma stessa. Le caratteristiche meccaniche di un’arma sono quelle che ineriscono al reciproco congegnarsi ed al funzionamento delle sue varie parti; la loro alterazione può consistere nella modifica del sistema di chiusura, di alimentazione, di scatto o di percussione che, per esempio, comporti la trasformazione dell’arma da semiautomatica ad automatica o l’aumento della capacità del serbatoio. Le dimensioni dell’arma possono essere modificate mediante diminuzione della larghezza, della lunghezza o dello spessore dell’arma (con conseguente maggiore manegge-

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volezza della stessa), oppure mediante il taglio del calcio del fucile o delle canne, l’eliminazione del calcio o l’installazione di un calcio mobile, la trasformazione dell’arma lunga in fucile pieghevole [Cass. pen., sez. I, 28.4.2009, n. 19345]. La dottrina, contrariamente alla Suprema Corte, ritiene penalmente irrilevanti il cambio di bindella, la filettatura del fucile allo scopo di applicare alla bocca un variatore di strozzatura, l’aggiustamento dello scatto, l’inserimento di meccanismi per diminuire il cosiddetto collasso del retroscatto, l’alesatura della canna o l’aggiunta di contrappesi; né sono punibili l’applicazione di un cannocchiale ad un fucile o di un silenziatore ad un’arma corta: tali alterazioni, infatti, pur aumentando l’offensività o la maneggevolezza dell’arma, non integrano una vera e propria modifica meccanica, in quanto hanno ad oggetto alcuni accessori (cannocchiale o silenziatore) che restano sempre al di fuori dell’entità oggettiva dell’arma [MORI, 92]. La riduzione del calibro di un’arma, inoltre, non costituisce alterazione punibile, in quanto non aumenta la potenzialità d’offesa dell’arma. L’applicazione di un silenziatore all’arma può poi ritenersi attività lecita, atteso che se l’art. 21 comma 1 lett. u) legge 11.2.1992, n. 157 vieta di applicare i silenziatori alle armi da caccia, potrebbe dedursi la generale liceità di tale pratica per le altre armi comuni da sparo. Qualora, tuttavia, l’installazione di un silenziatore comporti una modifica della canna od un’incorporazione di pezzi estranei all’arma, può ritenersi sussistente l’alterazione, sempre che ne ricorrano i presupposti. Secondo la dottrina maggioritaria, anche l’alterazione di armi bianche può rientrare nella fattispecie di cui all’art. 3 legge 18.4.1975, n. 110, vista la generica dizione armi contenuta in tale disposizione legislativa [PALAZZO, 264], anche se non può tacersi che tale tesi può condurre ad un irragionevole trattamento sanzionatorio, considerato che le armi bianche non presentano perlopiù specifiche caratteristiche meccaniche le quali possano essere stricto sensu alterate. La disposizione in esame è applicabile anche alle armi ad aria o gas compressi eroganti un’energia cinetica superiore a 7,5 joule, le quali sono qualificabili come armi comuni da sparo, ai sensi dell’art. 2 comma 3 legge 18.4.1975, n. 110. Non rientrano nella fattispecie tipica né le alterazioni alle armi-giocattolo [Cass. pen., sez. fer., 9.8.2011, n. 31873], né le modifiche dell’arma che siano conformi alla normativa o imposte dalla legge. A seguito dell’abolizione del Catalogo nazionale delle armi comuni da sparo, parte della dottrina ha ipotizzato che non si potrebbe più configurare l’alterazione intesa quale discostamento dello strumento da un prototipo catalogato in relazione a tali armi, anche se tale opinione è contrastata dalla Suprema Corte [Cass. pen., sez. I, 31.1.2012, n. 25237]. I delitti in materia di alterazione di armi sono da considerarsi istantanei con effetti permanenti. Secondo la giurisprudenza dominante, l’applicazione di un silenziatore ad un’arma da sparo è punibile quale alterazione ai sensi dell’art. 3 legge 18.4.1975, n. 110, in quanto la presenza di tale accessorio rende più agevole l’uso della stessa essendo più difficile individuare la provenienza del rumore a seguito dello sparo, ovvero in considerazione dell’aumento della potenzia-

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lità offensiva dell’arma [Cass. pen., sez. I, 21.10.2010, n. 41993]. Il concetto di maggiorata offensività, infatti, non deve identificarsi solo con un aumento della potenza e della precisione dell’arma, ma deve ritenersi riferibile anche a quelle situazioni di potenziale impiego nelle quali la disponibilità di un’arma silenziata costituisce un obiettivo incentivo alla realizzazione di condotte illecite. Per contro, non dovrebbe integrare, ai sensi dell’art. 49 comma 2 c.p., gli estremi del delitto di cui all’art. 3 legge 18.4.1975, n. 110 l’aver dotato una carabina di cannocchiale e di un rudimentale silenziatore facilmente rimovibile. L’aggiunta di tali elementi non comporta, infatti, la modificazione delle caratteristiche meccaniche dell’arma, sebbene l’uso ne sia agevolato. La Suprema Corte ha precisato che l’alterazione di un’arma mediante filettatura per l’applicazione di un silenziatore è già configurabile come reato consumato, a nulla rilevando il mancato ritrovamento del silenziatore stesso [Cass. pen., sez. I, 21.10.2010, n. 41993]. Qualora l’alterazione dell’arma renda più efficace e micidiale l’uso della stessa, ricorre la fattispecie in esame nel caso in cui la modifica renda l’arma più voluminosa e, conseguentemente, meno maneggevole e finanche l’alterazione del numero dei colpi contenuti nel caricatore dell’arma incide sulla potenzialità offensiva dell’arma stessa e quindi costituisce alterazione rilevante.

Nel caso di detenzione o porto di arma alterata, le due condotte vanno tenute separate e l’accertamento dell’alterazione illegittima dell’arma andrà distinto dall’indagine sulla legittimità della detenzione o del porto. Qualora, quindi, il detentore o portatore illegale dell’arma sia la medesima persona che ha anche alterato la stessa, vi sarà concorso dei due reati di detenzione-porto ed alterazione. Laddove, invece, l’illegittimo detentore o portatore non sia anche l’autore dell’alterazione, si delineerà un concorso tra i delitti di illegale detenzione o porto e di ricettazione, attesa l’illecita provenienza del bene [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 223; Cass. pen., sez. I, 21.10.2010, n. 41993]. Una disposizione speciale, rispetto a quella in esame, è prevista dall’art. 77 legge 1.4.1981, n. 121, che punisce l’appartenente alla Polizia di Stato che alteri in qualsiasi modo le caratteristiche delle armi proprie o del munizionamento in dotazione. Tale particolare fattispecie comprende qualsiasi alterazione dell’arma d’ordinanza, ossia anche un’eventuale modifica peggiorativa della stessa. L’art. 77 legge 1.4.1981, n. 121, al comma 2, stabilisce che alla stessa pena prevista dal co. 1 è sottoposto il superiore gerarchico che consenta che l’inferiore gerarchico alteri l’arma. Qualora l’alterazione di un’arma non sia punibile ai sensi dell’art. 3 legge 2.10.1967, n. 895, ma costituisca comunque una variazione significativa della struttura e delle caratteristiche dell’arma stessa, sussiste l’obbligo ex art. 58 reg. t.u.l.p.s. di comunicare all’Autorità di pubblica sicurezza l’intervenuta modifica, ricorrendo in caso contrario il reato di cui all’art. 221 t.u.l.p.s. Con riferimento alla di locazione e comodato d’armi, l’art. 22 legge 18.4. 1975, n. 110 punisce chiunque dà o riceve in locazione o in comodato armi da guerra, tipo guerra o armi comuni da sparo. La locazione è il contratto con il quale una parte si obbliga a far godere all’altra una cosa per un dato tempo verso un determinato corrispettivo; il comodato è il contratto con il quale una parte consegna all’altra una cosa affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta e senza previsione di un corrispettivo. -

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La giurisprudenza ha precisato che il rapporto di locazione o comodato di armi, disciplinato dall’art. 22 legge 18.4.1975, n. 110, è caratterizzato dagli elementi soggettivi ed oggettivi propri dei due contratti, vale a dire accordo delle parti, causa, oggetto e forma, precisando che anche l’ospitalità favoreggiatrice può costituire base di un rapporto ricadente nell’ambito della norma incriminatrice – secondo l’art. 1803 c.c. – laddove il rapporto tra cosa e persona possa dispiegarsi «per un tempo e per un uso determinato» [Cass. pen., sez. I, 29.6.1984, che ha ritenuto responsabile colui che aveva ospitato, non occasionalmente né temporaneamente, nella propria casa di campagna, un latitante, mettendo nella disponibilità di questi le armi e le munizioni ivi esistenti]. Il rapporto di locazione o comodato di armi è caratterizzato dagli elementi soggettivi ed oggettivi dei detti due contratti e postula il venir meno in capo al proprietario del godimento del bene che viene trasferito ad altro soggetto per finalità che esclusivamente a questo appartengono.

Soggetti attivi del reato sono sia il locatore/comodante, sia il conduttore/comodatario, trattandosi di reato plurisoggettivo o a concorso necessario [MORI, 445]. Non è espressamente punita la locazione o il comodato di parti d’arma o di armi proprie non da sparo. Il bene protetto è l’interesse della Pubblica Autorità a conoscere, in vista degli opportuni controlli e della prevenzione di comportamenti illeciti, presso chi e dove si trovino le armi. La mera traditio di un’arma, anche se al fine di consentire al cessionario il compimento di azioni delittuose, non rileva ex art. 22, in quanto restano esclusi i connotati dei contratti incriminati. L’ultimo comma dell’art. 22 prevede una speciale circostanza aggravante nei casi di locazione o comodato abituali. Al delitto in questione non è applicabile l’attenuante del fatto di lieve entità di cui all’art. 5 legge 2.10.1967, n. 895 [MORI, 448]. Risulta configurabile il tentativo riguardo alla tentata locazione di arma, laddove, con riferimento al comodato, la natura reale del contratto potrebbe inibire l’univocità degli atti propedeutici alla consegna. L’art. 22 esclude espressamente dall’area della punibilità la locazione ed il comodato di armi qualora: si tratti di armi per uso scenico, ossia «armi alle quali, con semplici accorgimenti tecnici, venga occlusa parzialmente la canna al solo scopo di impedire che possa espellere un proiettile ed il cui impiego avvenga costantemente sotto il controllo dell’armaiolo che le ha in carico»; si tratti di armi destinate ad uso sportivo o di caccia; il conduttore od il comodatario sia munito di autorizzazione per la fabbricazione di armi o munizioni ed il contratto avvenga per esigenze di studio, di esperimento o di collaudo. In questi casi, la locazione ed il comodato sono senz’altro leciti, non essendo prescritta dalla legge alcuna licenza o autorizzazione per tali attività; tuttavia, il cessionario dovrà comunque denunziare la detenzione dell’arma ai sensi dell’art. 38 t.u.l.p.s., configurandosi in caso contrario la detenzione illegale ex artt. 2 e 7 legge 18.4.1975, n. 110 [CIVELLO, 80]. L’art. 7 comma 4 d.m. 9.8.2001, n. 362 stabilisce che è consentito il comodato delle armi ad aria o gas compressi che eroghino un’energia cinetica non superiore a 7,5 joule, purché avvengano con scrittura privata tra soggetti maggiorenni. Qualora non venga redatta scrittura privata od il comodatario sia minorenne,

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sussiste l’illecito amministrativo di cui all’art. 16 del medesimo decreto. La giurisprudenza ha precisato che, in tema di locazione e comodato di armi da guerra o comuni da sparo, l’illiceità della condotta è esclusa solo alla doppia condizione: 1) che l’oggetto materiale sia obiettivamente qualificabile quale arma per uso scenico o destinata ad uso sportivo o di caccia 2) e che l’arma concessa in locazione od in comodato sia effettivamente destinata dal ricevente all’uso scenico, sportivo o venatorio [Cass. pen., sez. I, 8.11.2012, n. 46260]. Il divieto di locazione e comodato d’armi deve essere coordinato con la disciplina generale in materia di cessione d’armi. Evidentemente, se la cessione dell’arma avviene non a titolo di locazione o comodato, ma ad altro titolo (per esempio compravendita o permuta), potrà venire in rilievo la sola categoria della cessione illegale di armi, cui sono applicabili gli artt. 1 e 7 legge 2.10.1967, n. 895 [CIVELLO, 83]. Maggiori problemi interpretativi sorgono nei casi di locazione o comodato di armi, nei quali ci si chiede se sia applicabile (alternativamente o cumulativamente rispetto al regime di cui all’art. 22 in commento) la disciplina generale in materia di cessione d’armi. Si ritiene, in proposito, che i rapporti tra le due discipline possano essere così definitivi: 1) nel caso di locazione o comodato di arma da parte di detentore legale (per esempio, in forza di denunzia ex art. 38 t.u.l.p.s.) e nei confronti di cessionario legittimato a ricevere l’arma (per esempio, in forza di licenza di porto o di nulla osta ex art. 35 t.u.l.p.s.), entrambi i soggetti sono puniti esclusivamente ai sensi dell’art. 22; 2) nel caso di locazione o comodato di arma da parte di detentore illegale, costui risponde del delitto ex artt. 1 e 7 legge 18.4.1975, n. 110 (secondo che si tratti di arma da guerra o di arma comune da sparo), mentre il cessionario dovrebbe rispondere del delitto di ricettazione; 3) nel caso di locazione o comodato di arma nei confronti di un cessionario non legittimato a ricevere l’arma in quanto privo di porto d’armi o del nulla osta ex art. 35 t.u.l.p.s., il cedente è punibile ex artt. 1 e 7 legge 18.4.1975, n. 110 o, secondo altro orientamento, ex art. 35 comma 6 t.u.l.p.s.; il cessionario è punibile ex art. 35 comma 7 t.u.l.p.s. Peraltro, con tali fattispecie criminose possono concorrere i reati di detenzione e/o porto illegale d’arma da parte del cedente e del cessionario della stessa [CIVELLO, 82 ss.]. Un’ulteriore distinzione va effettuata tra il reato di locazione o comodato d’arma e l’incauto affidamento della stessa (art. 21-bis legge 18.4.1975, n. 110): se l’arma ceduta all’affidato minorato è da caccia o sportiva, non può configurarsi un comodato illecito e perciò sussiste solo la contravvenzione ex art. 20-bis comma 1. Se, invece, trattasi di arma per la quale è vietato il comodato, ricorre il reato di cui all’art. 22 quando l’azione è dolosa, mentre la contravvenzione ex art. 20-bis se l’azione è colposa [CIVELLO, 82 ss.]. La Suprema Corte ha precisato che l’art. 22 non prevede alcuna deroga all’obbligo di denunzia della detenzione dell’arma trasferita ai sensi dell’art. 38 t.u.l.p.s., obbligo che prescinde dal titolo o dalla durata della detenzione medesima; di talché qualora il comodatario o conduttore non effettui tale denunzia, si configurano i delitti di cui agli artt. 2 e 7 legge 18.4.1975, n. 110 [Cass. pen., sez. IV, 20.1.2006, n. 7292].

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1.3. L’addestramento alla preparazione ed all’uso di armi da guerra. – Una fattispecie delittuosa di nuovo conio è quella di cui all’art. 2-bis legge 2.10.1967, n. 895, introdotta ai sensi del d.l. 27.7.2005, n. 144, in materia di trasferimento e divulgazione di istruzioni sulla preparazione e sull’uso delle armi da guerra e di altri congegni micidiali. Si tratta di un intervento normativo che, pur introdotto nell’ambito di una più vasta legislazione emergenziale volta a fronteggiare il terrorismo internazionale, ha una portata ampia e generale, in quanto punisce determinate condotte concernenti le armi e gli esplosivi a prescindere dalla finalità terroristica o eversiva, a differenza del nuovo delitto di cui all’art. 270-quinquies c.p. Il delitto mira a prevenire i rischi derivanti dalla diffusione indiscriminata delle cognizioni necessarie per preparare gli esplosivi o per usare gli stessi o determinate armi, sicché si è al cospetto di un reato ostacolo di pericolo presunto [RUSSO, 175]; appare dunque evidente la tensione con il principio costituzionale di offensività dell’eccessiva anticipazione della soglia di rilevanza penale delle condotte [SCOTTO, 491]. La condotta punita ha carattere alternativo, atteso che da un lato vi è l’addestramento, dall’altro v’è la divulgazione di istruzioni. La prima è condotta qualificata rispetto a quella alternativa e residuale di istruzione descritta dalla norma incriminatrice, in quanto presuppone un rapporto effettivo tra addestratore e recluta. Il fornire istruzioni, invece, può risolversi anche nella mera divulgazione delle informazioni necessarie all’uso o alla preparazione di armi ed esplosivi. Trattasi di delitto a forma libera, che può essere commesso “in qualsiasi forma, anche anonima, o per via telematica”. Quanto all’ambito di operatività della condotta, la disposizione fa riferimento a: a) materiali esplosivi; b) armi da guerra; c) aggressivi chimici o sostanze batteriologiche nocive o pericolose; d) altri congegni micidiali. Sussiste un unico reato qualora l’addestramento si riferisca a molteplici armi, ovvero in caso di realizzazione di entrambe le condotte incriminate. Come rilevato in dottrina, restano escluse dal novero delle armi di cui all’art. 2-bis [CIVELLO, 89]: 1) le armi tipo guerra; 2) le armi comuni da sparo e le relative munizioni; 3) le mere materie esplodenti non micidiali; 4) i composti chimici o batteriologici di scarsa potenzialità offensiva; 5) le armi bianche, ossia proprie non da sparo. Sul punto, va ricordato che, in materia di atti di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi, l’art. 280-bis comma 2 c.p. precisa che «ai fini del presente articolo, per dispositivi esplosivi o comunque micidiali si intendono le armi e le materie ad esse assimilate indicate nell’articolo 585 e idonee a causare importanti danni materiali». Si è altresì in presenza di una norma costitutiva e non solo sanzionatoria, atteso che la disposizione in esame dispone ex novo un divieto, provvedendo a comminare contestualmente la sanzione per i casi di violazione del medesimo, non limitandosi a fare riferimento a condotte commesse senza la licenza dell’Autorità. La disposizione in questione contiene una espressa clausola di riserva («salvo

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che il fatto costituisca più grave reato»), sicché essa non sarà applicabile, per esempio, ai casi di addestramento con finalità di terrorismo anche internazionale (art. 270-quinquies c.p.); potrà sussistere, invece, il concorso di reati qualora la condotta del soggetto agente integri di per sé altre fattispecie criminose, come nel caso del soggetto che, nel portare illegalmente un’arma da guerra in luogo pubblico divulghi in pubblico istruzioni relative all’uso dell’arma stessa. Non è prevista la realizzazione colposa della fattispecie, salva l’applicazione delle vigenti fattispecie colpose in materia di armi da guerra ed altri congegni esplosivi. Con riferimento al delitto in questione sembra, in astratto, configurabile il tentativo, come nei casi di addestramento affatto parziale o di comunicazione del tutto incompleta ed insufficiente a trasferire all’addestrato le informazioni necessarie alla preparazione od all’uso delle suddette armi. È irrilevante, ai fini della punibilità, che l’agente sia persona povera di cognizioni tecniche o inesperta nell’uso di armi e di esplosivi, salva la ricorrenza del reato impossibile ex art. 49 comma 2 c.p. nei casi di assoluta inidoneità dell’addestramento al trasferimento di competenze specifiche, ovvero nel caso di addestramento di persona totalmente analfabeta, incapace di apprendere anche i più semplici rudimenti di fisica e di balistica [CIVELLO, 82 ss.]. A differenza dell’art. 270-quinquies c.p. non è prevista la punibilità dell’addestrato, ma solo dell’addestratore e del divulgatore: trattasi, quindi, di reato plurisoggettivo improprio, ossia plurisoggettivo dal punto di vista naturalistico, ma monosoggettivo dal punto di vista normativo [sulla plurisoggettività impropria, v. PELLEGRINO, 3 ss.]. Qualora la condotta incriminata si accompagni alla finalità di terrorismo (cfr. art. 270-sexies c.p.), ricorre il più grave delitto di cui all’art. 270-quinquies c.p., che punisce «chiunque, al di fuori dei casi di cui all’articolo 270 bis, addestra o comunque fornisce istruzioni sulla preparazione o sull’uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco o di altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. La stessa pena si applica nei confronti della persona addestrata». Per il più grave delitto di arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale, si veda l’art. 270-quater c.p. Invero, nel confronto tra il delitto in esame e l’art. 270-quinquies c.p., emerge un rapporto di reciproca specialità: da un lato, infatti, la prima disposizione risulta più ampia della seconda, in quanto comprende ogni forma di addestramento alla preparazione ed all’uso delle armi da guerra, a prescindere dalla sussistenza di una finalità specifica di terrorismo; dall’altro, invece, la seconda disposizione risulta più ampia della prima, in quanto concerne l’addestramento, con fine di terrorismo, alla preparazione ed all’uso di qualsiasi arma, comprese, quindi, le armi comuni da sparo e, al limite, anche le armi proprie non da sparo. Pertanto, qualora la condotta di cui all’art. 2-bis sia messa in atto con finalità

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di terrorismo, non ricorrerà il delitto di cui all’art. 2-bis aggravato ai sensi dell’art. 1 d.l. 15.12.1979, n. 625, bensì l’autonoma fattispecie di cui all’art. 270quinquies c.p.; problematico è il caso in cui il reato di cui all’art. 2-bis sia commesso con finalità di eversione dell’ordinamento democratico, richiamato dall’art. 1 d.l. 15.12.1979, n. 625 ma non dall’art. 270-quinquies c.p. Tale questione ermeneutica è suscettibile di una duplice soluzione [CIVELLO, 1 ss.]: secondo una prima cadenza argomentativa – invero strettamente ossequiosa del principio di legalità – la condotta di addestramento ex art. 2-bis sarebbe punita ai sensi dell’art. 270-quinquies c.p. se commessa con finalità di terrorismo ed ai sensi dell’art. 2-bis legge 2.10.1967, n. 895 se perpetrata con finalità di eversione dell’ordinamento democratico. Sotto altro aspetto, si potrebbe ritenere che, in presenza di finalità terroristica e/o eversiva, ricorra in ogni caso il più grave delitto di cui all’art. 270-quinquies c.p., residuando l’applicazione dell’art. 2-bis, legge 2.10.1967, n. 895 per i soli casi di addestramento alla preparazione od all’uso di strumenti micidiali, non finalizzato né al terrorismo né all’eversione. Infine, ulteriore peculiarità dell’art. 270-quinquies c.p. consiste nel fatto che quest’ultima disposizione prevede, al comma 2, la punibilità anche della persona addestrata, delineando una sorta di reato plurisoggettivo proprio ed a concorso necessario; l’art. 2-bis legge 2.10.1967, n. 895, di contro, non contiene una siffatta disposizione sanzionatoria a carico del destinatario dell’addestramento, salva, ovviamente, la punibilità di costui per i reati di fabbricazione, vendita, esportazione illegali e per tutti i reati connessi alla detenzione ed all’utilizzo delle armi da guerra e degli esplosivi prodotti od adoperati nel corso e successivamente all’addestramento; potrebbe, inoltre, restare salva la punibilità ex artt. 110 c.p. e 2-bis legge 2.10.1967, n. 895 del soggetto addestrato il quale istighi il proprio addestrante alla commissione del delitto in questione. Le norme incriminatrici delle attività esercitate senza autorizzazione: la fabbricazione, l’introduzione nello stato, la vendita e la ces2. sione a qualsiasi titolo, l’esportazione, la detenzione illegale e il porto di armi. Le attività assoggettate all’onere della licenza, e punite in mancanza della stessa, sono sostanzialmente quelle concernenti: 1) la fabbricazione, 2) l’introduzione nello stato, 3) la vendita e la cessione a qualsiasi titolo, 4) l’esportazione di armi, 5) la loro detenzione e 6) il porto. Procedendo con ordine, è possibile analizzare il primo gruppo di condotte vietate, per poi passare alle successive. 2.1. La fabbricazione. – Per fabbricazione deve intendersi qualunque attività di trasformazione di materie prime, il cui risultato finale sia costituito da un

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oggetto qualificabile come arma. Alla fabbricazione è equiparato l’assemblaggio di parti prodotte da terzi [MANZINI, 717], purché non si tratti di mera ricostruzione di un’arma precedentemente smontata. Sul punto, l’art. 3 d.lg. 26.10.2010, n. 204, inserendo gli incisi assemblaggio e assemblarle agli artt. 28 e 31 t.u.l.p.s., ha normativamente equiparato l’assemblaggio alla fabbricazione di armi, ai fini del regime autorizzatorio e, indirettamente, penale. Anche la costruzione di una singola arma, pure in forma artigianale, rientra nel concetto di fabbricazione. Il reato di fabbricazione illegale è secondo la migliore dottrina [RUSSO, 287] eventualmente abituale e pertanto anche un solo episodio basta a perfezionare il reato, ma il ripetersi dell’attività non costituisce reato nuovo, bensì altro episodio che affluisce nella fattispecie che si è già perfezionata in forza del principio di assorbimento. La mera progettazione di armi non costituisce invece fabbricazione e deve ritenersi lecita, salva l’esistenza di strutture idonee alla costruzione delle armi stesse, che integra il reato ex art. 1 legge 2.10.1967, n. 895 nella forma tentata [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 100]. Ai fini della sussistenza della fabbricazione di armi, è poi indispensabile accertare l’attitudine dell’arma al funzionamento e pertanto laddove il ciclo produttivo delle armi non sia ancora concluso, sarà configurabile, sussistendo i requisiti di cui all’art. 56 c.p., la forma tentata. La Suprema Corte ha precisato che la fabbricazione di congegni micidiali (bottiglie Molotov) integra un reato di pericolo con dolo di danno, da considerarsi perfetto anche se il ciclo di produzione non è concluso e l’ordigno è in fase di avanzato allestimento [Cass. pen., sez. I, 19. 1.1980]. La rilevanza penale della condotta di fabbricazione abusiva è naturalmente condizionata alla specie di arma oggetto della condotta medesima [come osserva correttamente CIVELLO, 1 ss., la cui impostazione appare del tutto condivisibile]. Nel caso di armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, munizioni da guerra, esplosivi di ogni genere, aggressivi chimici o altri congegni micidiali, verrà in rilievo l’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895 (così come sostituito dall’art. 9 legge n. 497/1974). La condotta di fabbricazione assume penale rilevanza allorché il fabbricante non abbia conseguito (prima dell’inizio dell’attività di produzione) l’apposita licenza, prevista dall’art. 28 comma 2 t.u.l.p.s., che deve essere rilasciata dal Ministro dell’Interno secondo la procedura di cui all’art. 34 reg. t.u. Per tale delitto l’art. 1 legge n. 895/1967 prevede la pena della reclusione da tre a dodici anni e della multa da 10.000 a 50.000 euro. Se la fabbricazione abusiva di armi intere è commessa per colpa, ricorrerà l’art. 695 c.p. Per quella delle parti di armi (sempre se frutto di colpa), invece, varrà la comminatoria dell’art. 17 t.u. Per il resto, si rinvia a quanto verrà di seguito analizzato riguardo alla fabbricazione delle armi comuni da sparo o parti di esse. Anche per i materiali di armamento, in assenza di una specifica disposizione incriminatrice nell’ambito della legge 9.7.1990, n. 185, deve farsi rinvio alla norma generale dell’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895, sempreché l’oggetto rientri, al contempo, nel genus delle armi da guerra o tipo guerra. Per le armi comuni da sparo o parti di esse, vengono in evidenza gli artt. 1 e -

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7 legge 2.10.1967, n. 895. L’attività di fabbricazione delle armi comuni da sparo è subordinata alla licenza, di competenza del Questore (art. 31 t.u.l.p.s.), per il cui ottenimento sono richieste le condizioni di cui all’art. 46 reg. t.u. I rispettivi aspetti procedimentali, finalizzati al rilascio in questione, che sono indicati nell’art. 8 legge n. 110/1975, prevedono l’accertamento, da parte della Commissione tecnica nominata dal Prefetto, di cui all’art. 49 t.u., del possesso delle capacità tecniche del richiedente necessarie per l’esercizio dell’attività in esame, mentre l’art. 9 legge n. 110/1975 stabilisce che non può essere concessa la licenza a chi abbia riportato una delle condanne previste dall’art. 43 t.u. L’art. 7 legge n. 895/1967 estende alle armi comuni da sparo la disciplina prevista dall’art. 1 per le armi da guerra, il quale, come visto, vieta la fabbricazione senza licenza anche di parti d’arma da guerra. Si deve, perciò, ritenere che l’art. 1 legge n. 895/1967 sia una norma costitutiva per quanto attiene a ogni tipo di delitto che essa prende in considerazione. Quanto proposto per la fabbricazione vale, mutatis mutandis, per l’assemblaggio. Il reato è commissivo, comune, di dolo generico, eventualmente abituale. Il delitto in esame (che è ipotesi autonoma, e non circostanza attenuante di quella di cui all’art. 1) è punito, ai sensi dell’art. 7 legge n. 895/1967, con le pene comminate dall’art. 1 per le armi da guerra, diminuite di un terzo. La fabbricazione di armi e di parti di armi costituisce, come già visto, reato unico. Per i materiali esplodenti (non esplosivi) e per le munizioni comuni da sparo, sarà astrattamente ipotizzabile l’art. 678 c.p., mentre per le armi ad aria compressa eroganti una energia cinetica superiore ad 1 joule, ma non superiore a 7,5 joule saranno configurabili le ipotesi di cui agli artt. 5 e 16 d.m. 9.8.2001, n. 362, laddove nei casi di erogazione di una energia cinetica inferiore ad 1 joule si sarà al cospetto di oggetti sostanzialmente inoffensivi, sottratti alla disciplina generale in tema di armi. La fabbricazione degli esplosivi per uso civile soggiace poi al regime di cui al d.lgs. 2.1.1997, n. 7 e quella delle mine anti-uomo al regime dell’art. 7 legge 29.10.1997, n. 374. Con riferimento agli strumenti atti a offendere, la fabbricazione è tendenzialmente libera e non esiste, altresì, il reato di alterazione di tali strumenti, salvo che l’alterazione consista nel fabbricare un’arma “bianca” (per es., affilando ad ambo i lati un coltello a scatti, sì da renderlo pugnale). In tali casi, il soggetto risponde direttamente della contravvenzione di fabbricazione senza licenza di arma non comune da sparo (art. 695 c.p.). L’art. 695 comma 1 c.p. punisce chiunque, senza licenza dell’Autorità, fabbrica, introduce nello Stato, esporta o pone comunque in vendita armi, ovvero ne fa raccolta per ragioni di commercio o di industria. Quanto alla fabbricazione, l’art. 695 è una norma meramente sanzionatoria, dato che il precetto di munirsi di licenza è contenuto nell’art. 31 t.u.l.p.s. Non importa che il soggetto sia armaiolo di professione o no; né ha rilevanza che fabbrichi egli stesso i pezzi dell’arma e li assembli, ovvero che si limiti ad assemblare parti di altre armi; parimenti, a nulla rileva che l’episodio sia singolo. La contravvenzione è comune e commissiva. Quanto all’elemento soggettivo, basta la semplice colpa. Ovviamente, in base ai princìpi generali, trat-

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tandosi di una contravvenzione, non è configurabile il tentativo. Il comma 1 dell’art. 695 prevede l’arresto da tre mesi a tre anni e l’ammenda fino a euro 1.239. Nessun riverbero dovrebbe generare il comma 2 dell’art. 695; infatti, le sottese questioni, se sono espressive per altre fattispecie, non sono evocabili a proposito della fabbricazione, poiché tali svolgimenti non possono certo riguardare armi antiche o armi rare, né collezioni di armi artistiche. Quantomeno in astratto, poi, l’art. 695 c.p. è applicabile anche alla fabbricazione di ogni arma, anche non bianca, qualora meramente colposa. Le armi nucleari, biologiche e chimiche, ai sensi dell’art. 1 legge 18.4.1975, n. 110, rientrano nel genus delle armi da guerra e l’art. 1 comma 7 legge 9.7. 1990, n. 185 ne vieta in modo assoluto la fabbricazione; tuttavia, la legge non stabilisce quale sia la sanzione della violazione di tale divieto. In proposito, parte della dottrina ritiene configurabile la fattispecie delittuosa di cui all’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895 [CARCANO, VARDARO, 71], mentre altri [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 102], reputando tale interpretazione sostanzialmente analogica, affermano che chiunque produca tali armi mediante l’utilizzo di composti chimici vietati dalla legge 18.11.1995, n. 185 (tenuto conto che l’art. 10 comma 3 legge 18.11.1995, n. 496 in tema di armi chimiche fa comunque salve le disposizioni della legge 2.10.1967, n. 895) risponderà in concorso dei delitti previsti da quest’ultima legge e dalla legge 2.10.1967, n. 895, laddove, in caso di armi chimiche prodotte con composti chimici differenti, ricorrerà esclusivamente il delitto di cui all’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895. Per gli esplosivi plastici o in foglie l’art. 3 legge 20.12.2000, n. 420 ne vieta la fabbricazione, qualora non contrassegnati ai sensi della Convenzione di Montreal dell’1.3.1991; l’art. 5 della medesima legge stabilisce espressamente che la violazione di tale divieto integra il delitto di cui all’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895. Riguardo alla fabbricazione di esplosivi in generale, è necessario effettuare una distinzione: se si tratta di esplosivi riconosciuti e classificati dal Ministero dell’Interno, la produzione degli stessi senza la licenza di cui agli artt. 46 e 47 t.u.l.p.s. (del Ministro dell’Interno o del Prefetto, in base al tipo di materiale esplodente), integra il delitto di cui all’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895; se, invece, si tratta di esplosivi non riconosciuti o non classificati, prodotti in violazione del divieto ex art. 53 t.u.l.p.s., ricorre il delitto di cui all’art. 24 legge 18.4.1975, n. 110, a meno che non sia stata concessa l’eccezionale licenza a scopo di ricerca, studio o esperimento di cui all’art. 99 reg. t.u.l.p.s. Qualora, tuttavia, l’esplosivo non riconosciuto abbia potenza micidiale o venga fabbricato da un produttore privo di licenza, ricorrerà in ogni caso la più grave fattispecie di cui all’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895. Rientra nella produzione di esplosivi non riconosciuti la modificazione o alterazione della composizione di esplosivi riconosciuti e classificati. In materia di fabbricazione di esplosivi, si applica poi a tutt’oggi l’art. 678 c.p. nei casi di: 1) illegale fabbricazione di materie esplodenti non micidiali; 2) illegale fabbricazione colposa di esplosivi micidiali; 3) illegale fabbricazione di sostanze destinate alla composizione o alla fabbricazione di esplodenti; 4) fabbricazione senza le prescritte cautele di esplosivi. -

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Quanto ai beni a duplice uso di cui al d.lgs. 9.4.2003, n. 96, il legislatore ha disciplinato esclusivamente le attività di esportazione e transito; dunque, le condotte di introduzione nello Stato ed importazione di tali beni non sono sottoposte ad alcuna forma di autorizzazione, salva l’applicazione delle norme in materia di armi da guerra qualora i beni in esame, una volta importati, siano trasformati in materiali per uso bellico. Un problema particolare riguarda l’individuazione del discrimen tra la fabbricazione e la mera riparazione di armi. Secondo la migliore dottrina [CIVELLO, 90] è da ritenersi fabbricante chi produce parti nuove di armi per cederle a terzi o per assemblarle egli stesso, mentre è riparatore chi interviene su di un’arma già prodotta per ripararla o per modificarla, eventualmente anche mediante l’inserimento di singole parti nuove da lui stesso prodotte. La mera riparazione di armi può essere effettuata senza alcuna autorizzazione o licenza, ma in caso di esercizio in modo industriale – ossia in forma imprenditoriale, continuativa, professionale ed organizzata – è necessario, ai sensi dell’art. 8 comma 2 legge 18.4.1975, n. 110, il previo ottenimento della licenza ex art. 31 t.u.l.p.s. È, inoltre, imposta al riparatore la tenuta del registro delle operazioni giornaliere, ai sensi dell’art. 35 t.u.l.p.s.; la violazione di tale obbligo integra la contravvenzione prevista dal medesimo art. 35 t.u.l.p.s. (cfr. anche art. 25 legge 18.4.1975, n. 110). Non è necessaria la licenza quando difetti il requisito dell’abitualità, come nel caso di un fabbro che una tantum ripari armi; viceversa, la licenza sarà necessaria anche nei casi di riparazione abituale ma non retribuita. Al riparatore industriale privo di licenza, esclusa l’applicazione analogica della fabbricazione di cui all’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895, dovrebbe essere applicabile l’art. 17 t.u.l.p.s. per violazione dell’art. 31 t.u.l.p.s. [MORI, 911]; secondo altri, invece, la violazione dell’art. 8 legge 18.4.1975, n. 110 non sarebbe sanzionata dall’ordinamento [RUSSO, 307]. Peraltro, a prescindere dalla soluzione di tale contrasto interpretativo, chi ripara armi senza alcuna licenza (e senza denunziare la detenzione delle armi riparate, se si tratta di armi comuni da sparo), commetterà il delitto di illegale detenzione di armi ex artt. 2 e 7 legge 2.10.1967, n. 895, a meno che la riparazione non avvenga in presenza del detentore o, comunque, in tempi talmente brevi da escludere la sussistenza, in capo al riparatore, di una detenzione stricto sensu. Dalla riparazione va distinta la semplice manutenzione dell’arma (consistente, per esempio, nella pulizia, nella registrazione delle mire, nella sostituzione di minuterie o di parti intercambiabili), la quale non è sottoposta ad alcuna licenza, salva l’applicazione della disciplina della detenzione. Quando la riparazione si estrinseca in una vera e propria alterazione (con la quale si aumenta la potenzialità o la praticità dell’arma), può concorrere il delitto di cui all’art. 3 legge 18.4. 1975, n. 110. La giurisprudenza ha affermato che la riparazione di armi da guerra, esercitata in forma industriale, necessita, ai sensi dell’art. 8 legge 18.4.1975, n. 110, della licenza di cui all’art. 31 t.u.l.p.s.; qualora manchi tale licenza, è integrata la contravvenzione di cui all’art. 17 t.u.l.p.s. [Cass. pen., sez. III, 12.3.2003, n. 20470]. -

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2.2. L’introduzione e l’importazione. – In via generale si distinguono l’introduzione nello Stato (che consiste nell’attività di chi trasferisce nel territorio nazionale un’arma proveniente dal territorio di uno Stato estero), l’importazione (forma qualificata di introduzione finalizzata alla successiva commercializzazione dell’arma nel territorio nazionale) e l’importazione in transito (ossia l’introduzione temporanea dell’arma nello Stato, finalizzata al trasporto della stessa in altro Stato). Rientra nel concetto di introduzione nello Stato anche il transito di armi da guerra nel mare territoriale. Quando il legislatore adopera la generica parola introduzione, intende comprendere anche i casi di vera e propria importazione [MOSCA, 8]. Secondo un differente orientamento, invece, l’importazione sarebbe la permanenza dell’arma all’interno dello Stato, dopo che ne sia avvenuta l’introduzione [RUSSO, 198]. Anche se solo ai fini della disciplina in tema di materiali di armamento, il legislatore, con l’art. 1 legge 9.7.1990, n. 185, ha di recente definito la nozione di importazione, consistente in «operazione di movimentazione di materiali d’armamento da fornitori situati al di fuori del territorio doganale della Comunità verso destinatari situati nel territorio nazionale». Volendo analizzare le disposizioni incriminatrici della condotta di introduzione ed importazione illegale, secondo la specie di arma oggetto della condotta medesima [seguendo l’impostazione di CIVELLO, 1 ss.], vengono in primo luogo in rilievo le armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, munizioni da guerra, esplosivi di ogni genere, aggressivi chimici o altri congegni micidiali, che ricadono nell’ambito applicativo dell’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895, il quale punisce la reclusione da tre a dodici anni e con la multa da 10.000 euro a 50.000 euro «chiunque, senza licenza dell’autorità, fabbrica o introduce nello Stato o pone in vendita o cede a qualsiasi titolo armi da guerra, o tipo guerra, o parti di esse, atte all’impiego, munizioni da guerra, esplosivi di ogni genere, aggressivi chimici o altri congegni micidiali, ovvero ne fa raccolta». Non può tuttavia essere autorizzata l’importazione di armi comuni da sparo che non abbiano superato la verifica di cui all’art. 23 comma 12-sexiesdecies del d.l. 6.7.2012, n. 95 convertito con modificazioni dalla legge 7.8.2012, n. 135. Il delitto in esame si realizza non solo per l’importazione definitiva senza licenza, ma anche nel caso di importazione in transito nel territorio dello Stato di materiale “solo di passaggio” (perché diretto da uno Stato estero ad altro Stato estero), stante che pure in questa ipotesi vi è introduzione, sia pure temporanea, nel nostro Stato [RUSSO, 267]. L’obbligo di munirsi della licenza del Ministro dell’Interno, per l’introduzione di materiali da guerra, è previsto dall’art. 28 comma 2 testo unico delle leggi di P.S.; dopo la riforma della disposizione (in virtù del d.l. n. 272/2005), tal licenza occorre solo per le armi da guerra non comprese nei materiali di armamento: in caso contrario, vale la legge n. 185/1990. L’art. 38 del Regolamento di esecuzione puntualizza ciò che la domanda diretta a ottenere l’autorizzazione deve indicare, oltre, naturalmente, alle generalità e alla firma del richiedente. La disciplina amministrativa, appena esaminata, integra il precetto penale contenuto nell’art. 1 legge n. 895/1967, che, in parte qua, è da

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considerare norma penale in bianco, mentre è, al contempo, norma costitutiva. La fattispecie contemplata da quest’ultima norma ha natura delittuosa, mentre l’introduzione senza licenza di armi (considerate come genere) è configurata anche come contravvenzione dall’art. 695 c.p. Ne consegue che, mentre all’ipotesi dolosa si applica l’art. 1 legge n. 895/1967, l’ipotesi colposa sarà punita dall’art. 695 c.p. [RUSSO, 198]. Va tuttavia precisato che la contravvenzione di cui all’art. 695 c.p. non è configurabile se l’oggetto dell’introduzione colposa è rappresentato dalle sole parti di armi. Per quanto riguarda le questioni attinenti a natura e tipologia del delitto e delle contravvenzioni, alla configurabilità del tentativo, al concorso con i reati di porto abusivo, ecc., si rinvia a quanto si esporrà a proposito delle armi comuni da sparo: quelle indicazioni valgono per le rispettive figure omologhe. L’art. 1 della legge n. 895/1967, come modificato dall’art. 9 della legge n. 497/1974, vieta, tra l’altro, il commercio abusivo delle armi da guerra o parti di esse, purché atte all’impiego, e delle munizioni da guerra. La norma punisce, con la pena congiunta della reclusione e della multa, la posta in vendita o la cessione a qualsiasi titolo, senza licenza, delle armi suddette e si applica anche nei casi in cui l’oggetto delle attività vietate sia costituito dai materiali di armamento, limitatamente, però, a quelli che rientrino nella categoria delle armi da guerra. Ne consegue che la dolosa introduzione e avvenuta illegale posta in vendita di armi da guerra o parti di esse (tenute all’estero), in quanto condotte fungibili tra loro e alternativamente equivalenti, si compongono in unità di reato (ex art. 1 legge n. 895/1967), purché sostanzialmente contestuali e riguardanti lo stesso oggetto materiale. Il transito e l’esportazione, per avvenuta illegale posta in vendita, sono condotte che, se contestuali con il negozio, sono assorbite, come post factum già punito, dalla posta in vendita, in quanto mere attività esecutive del contratto stipulato dalle parti. Solo nei suddetti limiti, dunque, non si realizza il concorso dei reati previsti, rispettivamente, dall’art. 1 legge n. 895/1967 e dall’art. 25 legge n. 185/1990; negli altri casi, pare che possa configurarsi concorso [CIVELLO, 72]. Per i materiali di armamento, come visto, in ipotesi di mero transito, si applica l’art. 24 legge 9.7.1990; in assenza di una specifica disposizione incriminatrice in tema di importazione, deve farsi rinvio alla norma generale dell’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895, sempreché l’oggetto rientri, al contempo, nel genus delle armi da guerra o tipo guerra. Quanto alle armi comuni da sparo o parti di esse, rilevano gli artt. 1 e 7 legge 2.10.1967, n. 895. L’art. 31 t.u.l.p.s. prevede l’obbligo di munirsi della licenza del Questore per introdurre a qualsiasi titolo, anche per il solo transito, armi comuni da sparo. La licenza deve essere richiesta per ogni singola spedizione, e il rilascio è subordinato alla verifica di requisiti soggettivi, secondo le regole indicate dall’art. 9 della legge n. 110/1975. In ogni caso, è vietata l’introduzione di armi alterate e di quelle che siano da considerare clandestine, nonché delle armi di cui non sia permesso il porto, salvo che per comprovate ragioni di studio (art. 49 Reg., già citato).

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L’art. 7 della legge n. 895/1967 (come modificato dall’art. 14 della legge n. 497/1974) dispone che «le pene rispettivamente previste negli articoli precedenti sono ridotte di un terzo se i fatti ivi previsti si riferiscono alle armi comuni da sparo o a parti di esse atte all’impiego». La norma, quindi, ha esteso alle armi comuni da sparo la disciplina penale dettata in materia di armi da guerra; la fattispecie è reato autonomo, e non circostanza attenuante. Pertanto, costituisce reato, ai sensi degli artt. 1 e 7 della legge n. 895/1967, l’introduzione nello Stato, senza licenza dell’Autorità, di armi comuni da sparo o parti di esse atte all’impiego; le armi possono essere anche quelle di cui al comma 3 dell’art. 2 legge n. 110/1975 (armi da sparo non da fuoco), mentre la parte è quella dell’arma da fuoco. Soggetto attivo del reato può essere chiunque; il delitto è commissivo, istantaneo e di dolo generico. Per i materiali esplodenti (non esplosivi) e le munizioni comuni da sparo, la condotta in esame è punita dall’art. 678 c.p. (per le munizioni per uso civile, cfr. art. 10 d.lgs. 2.1.1997, n. 7). Quanto alle armi ad aria compressa eroganti una energia cinetica superiore ad 1 joule, ma non superiore a 7,5 joule, si rinvia agli artt. 5 e 16 d.m. 9.8.2001, n. 362, mentre per quelle eroganti una energia cinetica inferiore ad 1 joule si è al cospetto di oggetti sostanzialmente inoffensivi e sottratti alla disciplina generale in tema di armi. Relativamente alle armi bianche, viene ancora il rilievo l’art. 695 c.p. (quantomeno in astratto, l’art. 695 c.p. è applicabile anche all’introduzione di ogni arma, anche non bianca, qualora meramente colposa: si pensi al soggetto che, per errore di fatto, importi armi comuni da sparo ritenendole eroganti un’energia cinetica inferiore a 7,5 joule). Commette la contravvenzione prevista dall’art. 695 comma 1 c.p. chiunque esporti o importi armi non comuni da sparo senza essere munito della licenza di cui all’art. 31 t.u.l.p.s. Quanto all’elemento soggettivo richiesto, è sufficiente la semplice colpa, trattandosi di contravvenzione. Entrambe le fattispecie, commissive e comuni, sono di natura istantanea. Se il reo esporta o importa contestualmente più armi, non si ha concorso formale di reati, ma un’unica contravvenzione. Nessun’importanza ha la circostanza che le armi si trovino indosso al reo o che viaggino disgiuntamente; solo che, nel primo caso, può concorrere anche il reato di porto abusivo. È da richiamare anche l’art. 49 del Reg. del t.u., che proibisce l’introduzione di armi di cui non sia consentito il porto (neppure con licenza), salvo che per comprovate ragioni di studio o da chi sia munito di licenza di collezione di armi antiche, artistiche o rare; in quest’ultimo caso, deve trattarsi di armi bianche di tale specie. Anche all’esportazione di armi bianche si applica il disposto di cui ai commi 2 (verifica dell’esistenza di eventuali ulteriori licenze della P.A.) e 3 (obbligo di esportare l’arma entro 90 giorni dall’ottenimento della licenza) dell’art. 16 legge n. 110/ 1975. Alla contravvenzione in esame si applica l’art. 680 c.p., in virtù del richiamo contenuto nell’art. 700 c.p. Non si applica neanche l’attenuante di cui all’art. 5 legge n. 895/1967, perché prevista solo per i delitti di cui alla stessa legge n. 895. L’art. 12 comma 1 legge n. 110/1975 regola poi un’autonoma fattispecie cri-

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minosa, che si realizza quando chi non è munito della licenza per la fabbricazione e il commercio importa armi comuni da sparo in numero superiore a tre, nel corso dello stesso anno solare, senza la speciale licenza del Prefetto. La violazione è punita con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 206 a 1.549 euro. Per le armi nucleari, biologiche e chimiche va detto che tali strumenti, ai sensi dell’art. 1 legge 18.4.1975, n. 110, rientrano nel genus delle armi da guerra e l’art. 1 comma 7 legge 9.7.1990, n. 185 ne vieta in modo assoluto l’importazione; tuttavia, la legge non stabilisce quale sia la sanzione della violazione di tale divieto. In proposito, parte della dottrina ritiene configurabile la fattispecie delittuosa di cui all’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895 [CARCANO, VARDARO, 71], mentre altri [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 102], considerando tale interpretazione sostanzialmente analogica, affermano che chiunque importi o introduce nello Stato tali armi mediante l’utilizzo di composti chimici vietati dalla legge 18.11. 1995, n. 185 (tenuto conto che l’art. 10 comma 3 legge 18.11.1995, n. 496 in tema di armi chimiche fa comunque salve le disposizioni della legge 2.10.1967, n. 895) risponderà in concorso dei delitti previsti da quest’ultima legge e dalla legge 2.10.1967, n. 895, laddove, in caso di armi chimiche prodotte con composti chimici differenti, ricorrerà esclusivamente il delitto di cui all’art. 1 legge 2.10. 1967, n. 895. In materia di introduzione nello Stato di esplosivi ad uso civile, l’art. 8 d.lgs. 2.1.1997, n. 7 stabilisce che è necessario il conseguimento dell’autorizzazione prefettizia; in caso contrario, si configura il delitto di cui all’art. 1 legge 2.10. 1967, n. 895. Inoltre, l’art. 12 d.lgs. 2.1.1997, n. 7 consente al Prefetto di adottare con ordinanza la sospensione dei trasferimenti di qualsiasi tipo di esplosivo, per gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica; la violazione di tale ordinanza potrebbe configurarsi come un’ipotesi di inosservanza delle prescrizioni imposte dall’Autorità ai sensi dell’art. 9 t.u.l.p.s., sanzionata dall’art. 17 del medesimo testo unico. Infine, l’art. 2 d.lgs. 2.1.1997, n. 7 vieta l’importazione di esplosivi per uso civile privi del marchio CE laddove non abbiano superato la valutazione di conformità di cui all’allegato V: in caso contrario, si configura il delitto di cui all’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895 o la contravvenzione ex art. 678 c.p. nei casi di materiale esplodente non micidiale. La materia dell’introduzione nello Stato delle mine anti-uomo soggiace poi alla disciplina di cui all’art. 7 legge 29.10.1997, n. 374, mentre per gli esplosivi plastici o in foglie l’art. 3 legge 20.12.2000, n. 420 vieta l’introduzione degli stessi nello Stato, laddove non contrassegnati ai sensi della Convenzione di Montreal dell’1.3.1991; l’art. 5 della medesima legge, poi, stabilisce espressamente che la violazione di tale divieto integra il delitto di cui all’art. 1 legge 2.12.1967, n. 895. Venendo agli esplosivi in generale, va detto che per la loro introduzione nello Stato deve essere conseguita la licenza del Ministro dell’Interno di cui all’art. 54 t.u.l.p.s., che deve essere rilasciata per ciascuna condotta, atteso che in caso di violazione è integrato il delitto ex art. 1 legge 2.10.1967, n. 895. Diversamente è a dirsi nei casi di introduzione senza licenza di materie esplodenti non micidiali, laddove ricorre la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 678 c.p. Tale ul-

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timo reato si configura parimenti nei casi di introduzione colposa di esplosivi micidiali, ovvero, nei casi di introduzione di esplosivi con licenza ma senza le prescritte cautele, o ancora, nei casi di introduzione senza licenza e/o senza osservanza delle prescritte cautele, di sostanze destinate alla composizione o alla fabbricazione di esplosivi. Secondo altra impostazione, tuttavia, l’introduzione illegale di materiali esplodenti non micidiali sarebbe punita ai sensi dell’art. 695 c.p. nei casi di materiale costituente arma ed ai sensi dell’art. 678 c.p. nei casi di materiale non costituente arma [RUSSO, 378]. In argomento, vale poi la pena di ricordare che l’art. 8 d.l. 27.7.2005, n. 144 (conv. in legge 31.7.2005, n. 155) stabilisce che, oltre a quanto previsto dal t.u.l.p.s. e dal reg. t.u.l.p.s., «il Ministro dell’Interno, per specifiche esigenze di pubblica sicurezza o per la prevenzione di gravi reati, può disporre, con proprio decreto, speciali limiti o condizioni all’importazione, commercializzazione, trasporto e impiego di detonatori ad accensione elettrica a bassa e media intensità e degli altri esplosivi di II e III categoria. Le limitazioni o condizioni di cui al 1° co. possono essere disposte anche in attuazione di deliberazioni dei competenti organi internazionali o di intese internazionali cui l’Italia abbia aderito». Il d.m. 15.8.2005 ha attuato tale disposizione legislativa, imponendo specifiche prescrizioni riguardanti le condotte di cui all’art. 8 d.l. 27.7.2005, n. 144. Per i beni a duplice uso, il legislatore ha disciplinato esclusivamente le attività di esportazione e transito; pertanto, le condotte di introduzione nello Stato ed importazione di tali beni non sono sottoposte ad alcuna forma di autorizzazione, salva l’applicazione delle norme in materia di armi da guerra qualora gli stessi, una volta importati, fossero trasformati in materiali per uso bellico [BELLAGAMBA, VIGNA, 385]. Deve infine essere ricordato che il d.lgs. n. 121/2013 ha modificato l’art. 2 della legge n. 110/1975, nella parte in cui determina quali siano le armi che non possono essere più introdotte nel nostro Paese, la capacità dei caricatori ed il numero massimo dei colpi che essi possono contenere. Testualmente, nel nuovo dettato normativo si legge che «salvo che siano destinate alle Forze armate o ai Corpi Armati dello Stato, ovvero all’esportazione, non è consentita l’introduzione nel territorio dello Stato e la vendita di armi da fuoco corte semiautomatiche o a ripetizione, che sono camerate per il munizionamento 9x19 parabellum, nonché di armi comuni da sparo, salvo quanto previsto per quelle per uso sportivo, per le armi antiche e per le repliche di armi antiche, con caricatori o serbatoi, fissi o amovibili contenenti un numero superiore a 5 colpi per le armi lunghe ed un numero superiore a 15 colpi per le armi corte, nonché di tali caricatori e di ogni dispositivo progettato od adattato per attenuare il rumore causato da uno sparo. Per le repliche di armi antiche è ammesso un numero di colpi non superiore a 10». 2.3. La vendita e la cessione a qualsiasi titolo. – Rientrano nel novero delle attività vietate in assenza di autorizzazione la vendita e la cessione a qualsiasi

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titolo. Con l’espressione “pone in vendita”, il legislatore ha inteso anticipare la soglia della punibilità, fino a ricomprendere anche le mere attività prodromiche all’effettivo trasferimento dell’arma. Per quanto concerne la cessione a qualsiasi titolo la giurisprudenza ritiene punibile ex art. 1 legge 2.10.1967, n. 895 qualsivoglia trasferimento di armi da guerra, sia esso ad efficacia reale od obbligatoria [Cass. pen., sez. I, 11.11.2011, n. 5570]. Secondo la dottrina [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 143], tuttavia, nella nozione di cessione dovrebbero rientrare solo i casi di trasferimento di diritto reale (vendita, permuta, pegno, donazione, ecc.), non essendo punibile la mera consegna in deposito di armi, la quale non potrebbe essere qualificata come cessione non determinando un’effettiva disponibilità dell’arma da parte del depositario; l’assunto si fonda sull’osservazione che se le specifiche condotte di locazione e comodato di armi da guerra o comuni da sparo sono punite – con pena più mite – ai sensi dell’art. 22 legge 18.4.1975, n. 110, a maggior ragione non sarebbe possibile assimilare il semplice deposito alla grave fattispecie di cessione di cui all’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895. L’espressione pone in vendita è comprensiva anche delle trattative, in quanto non può farsi alcuna distinzione tra il carattere negoziale o pre-negoziale dell’attività del privato, oppure tra effetti reali od obbligatori, o ancora tra titolo oneroso o gratuito; non è dunque necessario che alla condotta dell’agente siano seguiti effetti traslativi della proprietà o la materiale consegna del bene [CIVELLO, 98]. Ne consegue che, una volta accertato lo svolgimento di trattative serie tra soggetti interessati oggettivamente alla negoziazione, deve ritenersi integrata la fattispecie incriminatrice dell’offerta in vendita delle armi, a nulla rilevando la diretta disponibilità, o non, nei potenziali contraenti, delle armi e del danaro o l’accertamento dei limiti dei rispettivi mandati. La giurisprudenza, inoltre, ha precisato che il termine «cessione deve intendersi coincidente non con quello di costituzione di un diritto reale a favore del concessionario, bensì con qualunque passaggio di disponibilità materiale di un’arma, per qualunque titolo avvenuto ed anche per un breve lasso di tempo: per realizzare una cessione apprezzabile sotto il profilo della durata – e quindi rilevante ai fini della configurabilità dei reati di detenzione e porto illegale di un’arma – bastano anche pochi minuti di disponibilità dell’arma stessa» [Cass. pen., sez. I, 11.11.2011, n. 5570]. L’art. 33 legge 18.4.1975, n. 110 vieta e punisce la vendita di armi da guerra e comuni da sparo nelle pubbliche aste. La vendita in aste pubbliche comporta l’obbligo di comunicazione al Questore, secondo il dettato dell’art. 59 Reg., pena l’applicazione dell’art. 221 t.u. (che commina l’arresto fino a 2 mesi o l’ammenda fino a euro 103); il reato è istantaneo, omissivo puro e anche di natura colposa; è contravvenzione propria, giacché agente è solo chi presiede l’asta. Volendo analizzare le disposizioni incriminatrici della condotta di vendita o cessione, secondo la specie di arma oggetto della condotta medesima [seguendo l’impostazione di CIVELLO, 1 ss.], va rilevato in primo luogo che il commercio e la cessione delle armi da guerra sono, in via di principio, attività vietate dalla legge, indipendentemente dall’abitudinarietà della condotta e dall’eventuale esistenza di permesso di porto d’armi in capo al cessionario.

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Esistono, tuttavia, determinate eccezioni, le quali, però, presuppongono un’autorizzazione a favore del cedente e una particolare qualità o condizione del cessionario. Innanzi tutto, per quanto attiene alla posizione dell’alienante, questi deve essere munito della licenza di cui all’art. 28 t.u.l.p.s.; inoltre, le armi fabbricate possono essere cedute solo allo Stato o ai soggetti di cui ai commi 2 e 5 dell’art. 10 legge n. 110/1975. Previa iscrizione nel registro di cui ai commi 3 e 4 legge n. 185/1990 (che, abrogati dal d.lgs. n. 66/2010, cedono il campo al Codice dell’ordinamento militare), sono altresì ottenibili le licenze di esportazione e commercio. Altro soggetto abilitato alla cessione delle armi da guerra (ma solo in favore dei soggetti di cui al comma 2 dell’art. 10 legge n. 110/1975) è colui che è autorizzato alla detenzione prima dell’entrata in vigore della normativa speciale, ovvero il suo erede; quest’ultimo chiude anche il cerchio di coloro che possono ricevere armi da guerra (ma, per quanto riguarda l’erede, solo se viene autorizzato a detenerle). Fuori di queste ipotesi, l’attività di cessione di dette armi è penalmente rilevante. Ed invero, con riferimento alle armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, munizioni da guerra, esplosivi di ogni genere, aggressivi chimici o altri congegni micidiali, viene in rilievo il già esaminato art. 1 legge 2.10.1967, n. 895. In materia di cessione di armi da guerra, peraltro, è necessario distinguere: 1) la cessione operata dal privato; 2) la cessione operata dal fabbricante. Per quanto riguarda il primo caso, va innanzitutto precisato che ai privati, ancor prima che la cessione, è oggi vietata anche la mera detenzione delle armi da guerra, stante il divieto ex art. 10 legge 18.4.1975, n. 110; a maggior ragione, quindi, a costoro è vietata la cessione di tali armi [CIVELLO, 134]. I privati potranno legittimamente cedere le armi da guerra, ai sensi di quest’ultima disposizione legislativa, esclusivamente negli eccezionali casi di detenzione lecita (in quanto autorizzata prima dell’entrata in vigore della legge 18.4.1975, n. 110), ovvero per determinate cause tassativamente previste dalla legge (successione mortis causa, versamento al Ministero della Difesa, ecc.); in questo caso, il cessionario dovrà dare al Ministero dell’Interno immediato avviso dell’avvenuta cessione. In sintesi, i privati possono commettere i reati di cessione di arma da guerra illegalmente detenuta (art. 1 legge 2.10.1967, n. 895) o di cessione di arma da guerra legalmente detenuta ma fuori dai casi tassativamente previsti dalla legge (art. 10 comma 3 legge 18.4.1975, n. 110), o ancora di omesso avviso al Ministero dell’Interno da parte del cessionario di arma da guerra (art. 10 comma 4 legge 18.4.1975, n. 110). Pare poi opportuno distinguere la posizione dell’acquirente da quella del cedente. Partendo dalla posizione di chi acquista o comunque riceve le armi da guerra, va detto che l’erede o il legatario che abbia ricevuto armi delle quali era stata consentita la detenzione o la collezione ha l’obbligo di dare immediato avviso al Ministero dell’Interno, il quale può consentire, osservando il disposto degli artt.

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8 e 9 della stessa legge n. 110/1975 (accertamento per il rilascio di autorizzazioni in materia di armi e accertamento dei requisiti soggettivi), la detenzione di dette armi. L’omissione integra una contravvenzione punita con l’ammenda fino a euro 1.000 (comma 4 art. 10 cit.); essa è omissiva e permanente, e può essere commessa pure per sola colpa; è propria dell’erede e del legatario. Più articolato è il sistema sanzionatorio preposto alla repressione delle trasgressioni attuate dal cedente-alienante. Generalmente si ritiene che anche un solo episodio di cessione o di posta in vendita [Cass., sez. II, 23.10.2007, n. 43054, in Cass. pen., 2008, 4784] di arma da guerra integri il delitto di cui all’art. 1 legge n. 895/1967; pertanto, è da concludere che il reato è di natura eventualmente abituale. Ove il fatto sia commesso per colpa, occorre distinguere il caso di cessione nell’esercizio di attività di commercio di armi comuni da quello posto in essere dal privato. Nel primo, si possono individuare due contravvenzioni: quella di cui all’art. 695 comma 1 c.p. (per commercio di arma non rientrante tra quelle descritte in licenza), e quella di cui all’art. 35 commi 5 e 8 t.u.l.p.s. (per colposa cessione di arma a persona sfornita di valido titolo per l’acquisto, non esplicando alcuna valenza l’eventuale permesso d’armi in capo all’acquirente di arma da guerra); nel secondo, la sola contravvenzione di cui al prefato art. 35. L’infrazione del comma 3 dell’art. 10 legge n. 110/1975 (punita con la reclusione da due a sei anni e multa da 2.000 a 20.000 euro) incrimina il trasferire (ossia cedere, alienare) le armi legittimamente detenute a soggetti diversi da quelli autorizzati a riceverle. Il delitto è qualificato (potendo essere commesso solo da colui che detiene le armi da guerra per essere stato autorizzato) e di natura istantanea. Il fatto colposo va represso mercé il ricorso al comma 8 dell’art. 35 t.u.l.p.s.; inoltre, se abituale, ricorre anche l’art. 695 c.p., mentre l’art. 17 t.u.l.p.s. punisce la cessione non abituale, per violazione dell’art. 28 t.u.l.p.s.: ma sempre per fine di vendita (condizione perché operi l’art. 28, che evoca la licenza per la vendita). Per i materiali di armamento, considerata l’assenza di una specifica disposizione incriminatrice in tema di vendita, deve farsi rinvio alla norma generale dell’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895, sempreché l’oggetto rientri, al contempo, nel genus delle armi da guerra o tipo guerra. Riguardo alle armi comuni da sparo o parti di esse, la fattispecie incriminatrice che viene in rilievo è quella di cui agli artt. 1 e 7 legge 2.10.1967, n. 895 (cfr. artt. 12 e 15 legge 18.4.1975, n. 110). Deve tuttavia essere precisato che con l’estensione alle armi comuni da sparo, ad opera dell’art. 7, della disciplina di cui all’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895, si è inizialmente affermato l’orientamento secondo cui anche il privato che effettui una singola cessione di arma comune da sparo dovrebbe munirsi della relativa licenza, rispondendo in caso contrario del delitto di cui agli artt. 1 e 7 legge 2.10.1967, n. 895 [PALAZZO, 226]. Oggi, tuttavia, prevale l’opinione secondo la quale la singola cessione illegale non è punibile ai sensi degli artt. 1 e 7 legge 2.10.1967, n. 895; il cedente è, al limite, punibile ai sensi dell’art. 35 comma 6 t.u.l.p.s. qualora il cessionario non abbia

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conseguito la licenza di porto d’armi ovvero il nulla osta all’acquisto da parte del Questore (tale disposizione, infatti, è applicabile anche alla cessione di arma da parte di un privato non commerciante, come stabilito dall’art. 4 d.l. 22.11. 1956, n. 1274, convertito in legge 22.12.1956, n. 1452). Sul punto, è pacifica la giurisprudenza, secondo cui l’occasionale cessione di armi comuni da sparo tra privati senza licenza deve ritenersi senz’altro lecita a condizione che il cessionario abbia conseguito la licenza di porto d’armi ovvero il nulla osta all’acquisto o sia comunque legittimato ad acquistare l’arma (per esempio, perché fabbricante, riparatore o commerciante), sussistendo in caso contrario il reato ex art. 35 comma 6 t.u.l.p.s. (ed il reato ex art. 35 comma 7 t.u.l.p.s. in capo all’acquirente) e che il cedente abbia tempestivamente denunziato la cessione all’Autorità, sussistendo in caso contrario il reato ex art. 221 t.u.l.p.s. per violazione dell’art. 58 reg. t.u.l.p.s. [Cass. pen., sez. III, 24.1.2013, n. 10234]. Per contro, se la vendita di armi è commerciale, in quanto avviene professionalmente o comunque abitualmente, è necessario conseguire la licenza ex art. 31 t.u.l.p.s., sussistendo in caso contrario il delitto ex artt. 1 e 7 legge 2.10.1967, n. 895. Sul punto, deve essere segnalata la modifica intervenuta con il d.lgs. n. 121/ 2013, il quale, novellando l’art. 31-bis t.u.l.p.s., stabilisce in tema di intermediazione di armi che «fatte salve le previsioni di cui agli articoli 01, comma 1, lettera p), e 1, comma 11, della legge 9 luglio 1990, n. 185, come modificata dal decreto legislativo 22 giugno 2012, n. 105, per esercitare l’attività di intermediario di cui all’articolo 1-bis, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 527, nel settore delle armi, è richiesta una apposita licenza rilasciata dal questore, che ha una validità di 3 anni. Si applicano in quanto compatibili le disposizioni anche regolamentari previste per la licenza di cui all’articolo 31. La licenza non è necessaria per i rappresentanti in possesso di mandato delle parti interessate. Del mandato è data comunicazione alla questura competente per territorio. Ogni operatore autorizzato deve comunicare, l’ultimo giorno del mese, all’autorità che ha rilasciato la licenza un resoconto dettagliato delle singole operazioni effettuate nel corso dello stesso mese. Il resoconto può essere trasmesso anche all’indirizzo di posta elettronica certificata della medesima autorità». Inoltre, l’occasionale vendita o cessione di arma comune da sparo tra privati, se il cessionario non è munito di porto d’armi o di nulla-osta all’acquisto rilasciato dal Questore, integra la contravvenzione prevista dall’art. 35 t.u.l.p.s., purché la vendita o la cessione avvenga tra persone identificate e per causa lecita, nell’ambito, cioè, di rapporti disciplinati comunque dal codice civile. Ne consegue che una vendita o una cessione effettuata, pur occasionalmente e tra privati, al di fuori di quest’ambito, e quindi per causa contra legem e/o tra soggetti non identificati, non può essere riportata alla disciplina dell’art. 35 t.u.l.p.s., ma integra il delitto di cui agli artt. 1 e 7 legge 2.10.1967, n. 895 [Cass. pen., sez. IV, 13.12.2006, n. 6340]. Deve poi essere evidenziato che la legge non impone a chi riceva mortis causa un’arma comune da sparo il conseguimento di un apposito nulla osta all’acquisto, ma solamente la denunzia della detenzione ex art. 38 t.u.l.p.s. -

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Con riferimento ai materiali esplodenti (non esplosivi) e alle munizioni comuni da sparo viene in rilievo l’art. 678 c.p. In relazione alle armi bianche, come già visto in precedenza, sarà configurabile l’art. 695 c.p. Le armi nucleari, biologiche e chimiche, rientrando ai sensi dell’art. 1 legge 18.4.1975, n. 110, nel genus delle armi da guerra e dei materiali di armamento, saranno soggette all’applicabilità dell’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895 e della legge 9.7.1990, n. 185. 2.4. L’esportazione. – Dalla cessione deve essere distinta l’esportazione, che è quella particolare forma di cessione con la quale l’arma viene trasferita dal territorio nazionale a quello di un altro Stato; secondo altra concezione, l’esportazione, invece, consisterebbe nella mera fuoriuscita di un’arma dal territorio nazionale, a prescindere dall’ingresso in altro Stato (nel qual caso, sussisterebbe l’esportazione anche nei casi di semplice trasferimento di armi in acque extraterritoriali non soggette alla sovranità di alcuno Stato) [riferimenti in MORI, 849]. Nelle operazioni concernenti le armi comuni da sparo dichiarate per l’esportazione, sono obbligatori la visita doganale e il riscontro della guardia di finanza. Il rilascio della licenza di polizia per l’esportazione di armi di ogni tipo è subordinato all’accertamento dell’esistenza, nei casi previsti, delle autorizzazioni di competenza di altre pubbliche amministrazioni. Il rilascio della licenza di polizia, singola, multipla e globale, fatte salve le previsioni di cui all’art. 1 comma 11 della legge 9.7.1990, n. 185, come modificata dal d.l. 22.6.2012, n. 105, per l’esportazione di armi comuni da sparo di ogni tipo è subordinato all’applicazione del disposto dell’art. 11 del Regolamento (UE) 14.3.2012, n. 258. Di recente, anche se ai soli fini della disciplina in tema di materiali di armamento, il legislatore ha definito con l’art. 1 legge 9.7.1990, n. 185 la nozione di esportazione come «l’operazione di movimentazione di materiali d’armamento da un fornitore stabilito nel territorio nazionale a uno o più destinatari stabiliti al di fuori del territorio doganale della Comunità». Volendo analizzare le disposizioni incriminatrici della condotta di esportazione, secondo la specie di arma oggetto della condotta medesima [seguendo l’impostazione di CIVELLO, 1 ss.], vengono in primo luogo in rilievo le armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, munizioni da guerra, esplosivi di ogni genere, aggressivi chimici o altri congegni micidiali. Secondo la dottrina maggioritaria, l’esportazione senza licenza non rientra nella fattispecie di cessione a qualsiasi titolo di cui all’art. 1 legge 2.10.967, n. 895, bensì nell’ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 28 t.u.l.p.s. [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 135; MORI, 598]. Differente opinione è stata espressa da altra parte della dottrina [RUSSO, 592], secondo la quale, prima della legge 9.7.1990, n. 185, l’esportazione illegale di armi da guerra era punita dall’art. 695 c.p., stante la clausola di riserva contenuta nell’art. 28 comma 4 t.u.l.p.s. che si sarebbe applicata esclusivamente ai ca-

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si di esportazione di parti di arma da guerra. Del tutto minoritario è l’indirizzo secondo il quale l’esportazione illegale di armi da guerra dovrebbe intendersi punita ai sensi dell’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895, quale illegale cessione a qualunque titolo [CARCANO, VARDARO, 71]. Per i materiali di armamento, come visto, in ipotesi di mero transito, si applica l’art. 25 legge 9.7.1990; in assenza di una specifica disposizione incriminatrice in tema di importazione, deve farsi rinvio alla norma generale dell’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895, sempreché l’oggetto rientri, al contempo, nel genus delle armi da guerra o tipo guerra. Quanto alle armi comuni da sparo o parti di esse, rilevano gli artt. 1 e 7 legge 2.10.1967, n. 895. L’art. 7 della legge n. 895/1967 (come modificato dall’art. 14 della legge n. 497/1974) dispone che «le pene rispettivamente previste negli articoli precedenti sono ridotte di un terzo se i fatti ivi previsti si riferiscono alle armi comuni da sparo o a parti di esse atte all’impiego». La norma, quindi, ha esteso alle armi comuni da sparo la disciplina penale dettata in materia di armi da guerra; la fattispecie è reato autonomo, e non circostanza attenuante. Pertanto, costituisce reato, ai sensi degli artt. 1 e 7 della legge n. 895/1967, l’introduzione nello Stato, senza licenza dell’Autorità, di armi comuni da sparo o parti di esse atte all’impiego; le armi possono essere anche quelle di cui al comma 3 dell’art. 2 legge n. 110/1975 (armi da sparo non da fuoco), mentre la parte è quella dell’arma da fuoco. Soggetto attivo del reato può essere chiunque; il delitto è commissivo, istantaneo e di dolo generico. Per i materiali esplodenti (non esplosivi) e le munizioni comuni da sparo, la condotta in esame è punita dall’art. 678 c.p.. Quanto alle armi ad aria compressa eroganti una energia cinetica superiore ad 1 joule, ma non superiore a 7,5 joule, si rinvia agli artt. 6 e 16, d.m. 9.7.2001, n. 362, mentre per quelle eroganti una energia cinetica inferiore ad 1 joule si è al cospetto di oggetti sostanzialmente inoffensivi e sottratti alla disciplina generale in tema di armi. Relativamente alle armi bianche, viene ancora in rilievo l’art. 695 c.p. (quantomeno in astratto, l’art. 695 c.p. è applicabile anche all’esportazione di ogni arma, anche non bianca, qualora meramente colposa: si pensi al soggetto che, per errore di fatto, importi armi comuni da sparo ritenendole eroganti un’energia cinetica inferiore a 7,5 joule). Per le armi nucleari, biologiche e chimiche va detto che tali strumenti, ai sensi dell’art. 1 legge 18.4.1975, n. 110, rientrano nel genus delle armi da guerra e l’art. 1 comma 7 legge 9.7.1990, n. 185 ne vieta in modo assoluto l’esportazione; tuttavia, la legge non stabilisce quale sia la sanzione della violazione di tale divieto. In proposito, parte della dottrina ritiene configurabile la fattispecie delittuosa di cui all’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895 [CARCANO, VARDARO, 71], mentre altri [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 102], considerando tale interpretazione sostanzialmente analogica, affermano che chiunque esporti tali armi mediante l’utilizzo di composti chimici vietati dalla legge 18.11.1995, n. 185 (tenuto conto che l’art. 10 comma 3 legge 18.11.1995, n. 496 in tema di armi chimiche fa comunque salve le disposizioni della legge 2.10.1967, n. 895) risponderà in con-

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corso dei delitti previsti da quest’ultima legge e dalla legge 2.10.1967, n. 895, laddove, in caso di armi chimiche prodotte con composti chimici differenti, ricorrerà esclusivamente il delitto di cui all’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895. In materia di esportazione di esplosivi ad uso civile, l’art. 8 d.lgs. 2.1.1997, n. 7 vieta l’esportazione di esplosivi per uso civile che siano privi della marcatura CE e che non abbiano superato la valutazione di conformità di cui all’allegato V; in caso contrario, si configura il delitto di cui all’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895. La materia dell’esportazione delle mine anti-uomo soggiace poi alla disciplina di cui all’art. 7 legge 29.10.1997, n. 374, mentre per gli esplosivi plastici o in foglie l’art. 3 legge 20.12.2000, n. 420 vieta l’esportazione degli stessi, laddove non contrassegnati ai sensi della Convenzione di Montreal dell’1.3.1991; l’art. 5 della medesima legge, poi, stabilisce espressamente che la violazione di tale divieto integra il delitto di cui all’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895. Venendo agli esplosivi in generale, va detto che la loro esportazione è consentita solo con la licenza del Ministro dell’Interno di cui agli artt. 46 e 47 t.u.l.p.s.; in caso contrario, qualora l’esplosivo rientri tra i materiali di armamento (v. art. 2 lett. a), d) e h) legge 9.7.1990, n. 185), si applicherà all’esportazione dello stesso la relativa disciplina dettata dall’art. 25 legge 9.7.1990, n. 185. Qualora, invece, l’esplosivo non sia sussumibile nel genus materiali di armamento, l’esportazione (sì come l’introduzione nello Stato) senza licenza integrerà la contravvenzione di cui all’art. 678 c.p., quale forma specifica di trasporto illegale di esplodenti, oppure, nei casi di esplosivo micidiale, il delitto ex art. 1 legge 2.10. 1967, n. 895, sempre che si ritenga, secondo l’indirizzo assolutamente minoritario, che l’esportazione sia species del genus vendita [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 322]. Secondo un diverso orientamento, qualora l’esportazione senza licenza abbia ad oggetto materiale esplodente non micidiale, ricorre la più lieve fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 17 t.u.l.p.s. [RUSSO, 209]. Una particolare disciplina è prevista per l’esportazione dei cosiddetti beni a duplice uso. In tale ambito, vigono le disposizioni del d.lgs. 9.4.2003, n. 96, il quale ha abrogato il d.lgs. 24.2.1997, n. 89, che, a sua volta, aveva abrogato la legge 27.2.1992, n. 222. In particolare, il d.lgs. 9.4.2003, n. 96 stabilisce che l’esportazione di tali beni può essere effettuata solo in presenza di un’apposita autorizzazione del Ministero delle Attività Produttive (Dipartimento per l’internazionalizzazione), rilasciata ai sensi degli artt. 4, 5, 6 e 8 di tale decreto (non è, invece, richiesta una previa iscrizione in un pubblico registro come, invece, avviene in materia di esportazione di materiali di armamento). L’art. 16 d.lgs. 9.4.2003, n. 96, inoltre, stabilisce che «chiunque, ai sensi del regolamento e del presente decreto legislativo, effettua operazioni di esportazione di beni a duplice uso senza la prescritta autorizzazione ovvero con autorizzazione ottenuta fornendo dichiarazioni o documentazione false, è punito con la reclusione da due a sei anni o con la multa da euro 25.000 a euro 250.000. Chiunque effettua operazioni di esportazione di beni a duplice uso in difformità dagli obblighi prescritti dalle autorizzazioni è punito con la reclusione da due a quattro anni o con la multa da euro 15.000 a euro 150.000. Con la sentenza di condanna o con la de-

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cisione emessa ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale per i reati di cui ai commi 1 e 2 è disposta la confisca dei beni oggetto delle operazioni». Qualora, tuttavia, l’esportazione abbia ad oggetto beni qualificabili anche come materiali di armamento, si applicherà la relativa disciplina contenuta nell’art. 25 legge 9.7.1990, n. 185. L’art. 15 d.lgs. 9.4.2003, n. 96, infine, vieta la trasmissione via internet ovvero attraverso altri mezzi elettronici, fax o telefono, senza preventiva autorizzazione, di progetti, design, formule, software e tecnologie a qualsiasi titolo riferibili allo sviluppo, produzione o utilizzazione dei beni a duplice uso di cui agli Allegati I e IV del regolamento CE n. 1334/2000; la violazione di tale divieto integra il delitto di cui all’art. 16 comma 8 d.lgs. 9.42003, n. 96. 2.5. La detenzione. – Altra condotta vietata in assenza di autorizzazione è quella della detenzione. Per detenzione si intende l’instaurazione, tra il soggetto detentore e l’arma, di un rapporto autonomo di disponibilità di fatto del primo sulla seconda, indipendentemente dalla liceità del titolo di acquisizione e dalla circostanza che si tratti di una relazione materiale diretta ed immediata; se la detenzione è mediata, ricorre la fattispecie legale di detenzione qualora il detentore abbia il potere di ripristinare il rapporto diretto con l’arma, quale effetto di un proprio autonomo atto di volontà [PALAZZO, 252]. La detenzione implica che il potere di fatto sulla cosa si eserciti fuori della immediata vigilanza di chi abbia sull’arma un potere giuridico maggiore e per un lasso di tempo apprezzabile [Cass. pen., sez. fer., 30.8.2012, n. 33609]. Su queste basi, è possibile affermare che non è detentore chi si limiti, per esempio, a reggere l’arma mentre gli è accanto il proprietario o possessore della stessa, ovvero chi abbia una disponibilità momentanea dell’arma, per un brevissimo rapporto di deposito o comodato [CIVELLO, 75]. La giurisprudenza ha escluso la sussistenza di una «vera e propria detenzione di armi ed esplosivi in capo al dipendente di un’impresa che utilizzi tali materiali, in quanto la detenzione presuppone che vi sia un rapporto stabile di signoria di fatto sul bene tale da consentire la materiale disponibilità da parte del detentore in virtù di un interesse proprio e qualificato, che non sussiste nei casi di un rapporto di dipendenza nei quali la detenzione è esercitata nomine alieno o sotto la vigilanza del datore di lavoro» [Cass. pen., sez. I, 16.12. 2011, n. 10287], ovvero «in capo ad una donna che si era momentaneamente impossessata dell’arma del marito, per rendere più efficaci le frasi di minaccia rivolte a quest’ultimo» [Cass. pen., sez. I, 16.12. 2011, n. 10287]. In ogni caso, si è precisato che il concetto giuridico di detenzione prescinde dalla possibilità di un utilizzo immediato (fattispecie di collocazione dell’arma all’interno di una scatola custodita in un garage cui l’imputato aveva liberamente accesso) [Cass. pen., sez. III, 27.10. 2011, n. 46622]. È pertanto «detentore di armi o di munizioni chi possiede le stesse a qualsiasi titolo, sia esso legittimo (compravendita, donazione, ecc.), o illegittimo (furto, ricettazione, ecc.), o casuale (rinvenimento). Il concetto penalmente rilevante di detenzione, dunque, prescinde da ogni riferimento alla disciplina civilistica del diritto di proprietà» [Cass. pen., sez. I, 20.4.2004, n. 18013]. La quantità delle armi detenute è indifferente: può, quindi, sussistere la detenzione illegale anche di una sola arma. -

Avuto riguardo al lasso di tempo necessario perché sussista la detenzione, è

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tale un tempo superiore a quello normalmente necessario per presentare la denunzia della detenzione all’autorità competente. Peraltro, il recente d.lgs. 26. 10.2010, n. 204, nel modificare l’art. 38 t.u.l.p.s., anche al fine di porre termine alla disputa interpretativa, ha precisato che il detentore di armi, di parti di esse, di munizioni finite o di materie esplodenti, è tenuto a farne denunzia, anche in via telematica, «entro le 72 ore successive alla acquisizione della loro materiale disponibilità». Sul punto, la Suprema Corte ha precisato che «tale disposizione, prevedendo l’obbligo di denunzia entro 72 ore e non immediatamente, si applica anche ai fatti posti in essere anteriormente alla sua entrata in vigore, trattandosi di norma successiva più favorevole al reo» [Cass. pen., sez. I, 9.11.2012, n. 47921]. Parte della dottrina ha rilevato che la locuzione a qualsiasi titolo, riferita alla detenzione, sarebbe puramente pleonastica [per tutti, MORI, 535]; secondo altri, invece, con tale locuzione il legislatore avrebbe «inteso precisare che la detenzione può conseguire da qualsiasi titolo, sia esso lecito od illecito; in quest’ultimo caso, tuttavia, non può non scorgersi una possibile frizione con il principio nemo tenetur se detegere, poiché è evidente che il soggetto è indotto a non denunziare la detenzione dell’arma, in quanto una tale denunzia comporterebbe il rischio dell’avvio di un procedimento penale a suo carico, in relazione alla provenienza illecita dell’arma medesima» [BELLAGAMBA, VIGNA, 157]. In materia di armi da guerra vige l’assoluto divieto di detenzione da parte di privati (ai sensi dell’art. 10 legge 18.4.1975, n. 110), laddove in materia di armi comuni da sparo la detenzione è considerata dall’ordinamento attività non solo lecita ma anche libera, nel senso che per accedervi non è richiesta la preventiva autorizzazione dell’Autorità della detenzione medesima. Tendenzialmente, l’unica attività cui il detentore di arma comune da sparo sia tenuto è la denunzia: l’art. 38 t.u.l.p.s., infatti, stabilisce che «chiunque detiene armi, munizioni o materie esplodenti di qualsiasi genere e in qualsiasi quantità deve farne immediata denunzia all’ufficio locale di pubblica sicurezza o, se questo manchi, al comando dei carabinieri». In assenza di tale denunzia, la detenzione è punita ai sensi degli artt. 2 e 7 legge 2.10.1967, n. 895. La denunzia in questione è da ritenersi un atto recettizio, che produce effetti per il sol fatto che venga reso noto all’Autorità l’annuncio della detenzione, a prescindere da un provvedimento amministrativo di approvazione. L’art. 38 comma 2 t.u.l.p.s. stabilisce che sono esenti dall’obbligo di denunzia: 1) i corpi armati, le società di tiro a segno e le altre istituzioni autorizzate, per gli oggetti detenuti nei luoghi espressamente destinati allo scopo; 2) i possessori di raccolte autorizzate di armi artistiche, rare o antiche; 3) le persone che per la loro qualità permanente hanno diritto ad andare armate, limitatamente però al numero ed alla specie delle armi loro consentite. L’art. 57 reg. t.u.l.p.s., inoltre, stabilisce che l’obbligo di denunzia non incombe alle persone autorizzate alla fabbricazione, all’introduzione o al commercio delle armi o delle materie esplodenti. Sono peraltro escluse dall’obbligo di denunzia le armi ad aria o gas compressi che eroghino un’energia cinetica non superiore a 7,5 joule, nonché le -

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repliche di armi antiche ad avancarica a colpo singolo (artt. 8 e 15 d.m. 9.8. 2001, n. 362). Si ritiene che l’obbligo di denunzia sussista anche nei casi di detenzione di arma smontata laddove la stessa possa essere prontamente ricomposta. Qualora l’arma sia totalmente inefficiente, non sussiste il reato di detenzione illegale, in quanto l’attitudine all’uso dell’arma è definibile come presupposto della condotta [PUTINATI, 685]. L’obbligo di denunzia ricorre anche nel caso di detenzione di armi da sparo antiche, artistiche o rare di importanza storica, secondo quanto disposto dall’art. 7 d.m. 14.4.1982. L’art. 58 comma 3 reg. t.u.l.p.s., poi, impone la ripetizione della denunzia nei casi di trasferimento delle armi da una località all’altra dello Stato. Si ritiene, in dottrina, che la ripetizione della denunzia non sia necessaria qualora il detentore trasferisca l’arma denunziata nell’ambito della medesima circoscrizione dell’Autorità di P.S. presso la quale era stata presentata la precedente denunzia [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 175]; tale orientamento, tuttavia, non è condiviso dalla giurisprudenza dominante [ribadita a partire da Cass. pen., sez. II, 13.10.1983]. In caso di omessa ripetizione della denunzia, si è discusso sulla configurabilità del delitto ex artt. 2 e 7 legge 2.10.1967, n. 895 o, viceversa, della contravvenzione ex art. 221 t.u.l.p.s. per violazione dell’art. 58 reg. t.u.l.p.s.; la giurisprudenza oggi aderisce a quest’ultima opzione interpretativa [riferimenti in BELLAGAMBA, VIGNA, 239]. Sussiste l’obbligo di denunzia anche nei casi di successione ereditaria o di affidamento anche temporaneo dell’arma da parte del precedente detentore, anche se il dante causa ha precedentemente effettuato la denunzia. È, altresì, tenuto alla denunzia il successore che abbia già conseguito la licenza di porto dell’arma stessa, nonché chi sia legittimato al porto senza licenza. Viene poi in rilievo la peculiare ipotesi di condetenzione di un’arma, che si configura in caso di disponibilità autonoma riferibile a due o più soggetti, con conseguente obbligo di farne denunzia all’autorità di P.S. a carico di ciascuno dei codetentori; ciò a prescindere dal fatto che la proprietà od il materiale possesso dell’arma sussista solamente in capo ad alcuni dei detentori. -

A tal riguardo, è stato affermato in giurisprudenza che «sussiste il concorso di persone nella detenzione illegale anche nei casi di più soggetti che, pur non detenendo personalmente l’arma, agevolino la detenzione che il terzo abbia dell’arma non denunziata o, comunque, rafforzino il proposito del detentore, per esempio partecipando con quest’ultimo alla commissione di una rapina o di altro reato a mano armata» [Cass. pen., sez. II, 22.9.2003, n. 46286]. Non integra, invece, «il delitto di detenzione illegale di armi, previsto e punito dagli artt. 2 e 7, l. 2 ottobre 1967, n. 895, la semplice consapevolezza della presenza delle armi stesse in un luogo di cui si abbia la disponibilità in comune con altri soggetti, non accompagnata dall’esistenza di un potere di fatto sulle medesime tale da imporre a ciascuno la prescritta denunzia» [Cass. pen., sez. II, 22.9.2003, n. 46286]. Altra ipotesi peculiare è quella di detenzione contemporanea di un’arma comune da sparo e delle relative munizioni, che integra un’unica ipotesi di reato, in quanto resta assorbito nel reato di detenzione illegale dell’arma quello di cui all’art. 697 c.p. relativo alle munizioni, pur-

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ché le stesse non eccedano il quantitativo che ordinariamente si conserva e non siano di calibro diverso oppure non siano di numero superiore a quello che può essere contenuto in un caricatore [Cass. pen., sez. I, 9.6.2010, n. 24506]. Ed ancora, la detenzione di più armi in un unico contesto non costituisce un reato continuato, ma un singolo reato ed il numero delle armi può avere rilevanza solo ai fini della determinazione della pena, come è anche desumibile dall’uso del plurale indeterminativo nella norma incriminatrice di cui all’art. 2 legge 2.10.1967, n. 895 [Cass. pen., sez. I, 17.1.2006, n. 4353].

Il delitto di detenzione di armi è considerato un reato permanente in relazione alle armi da guerra, atteso che la condotta tipizzata dalla norma è integrata dal semplice perdurare della detenzione dell’arma [CARCANO, VARDARO, 92]. Si discute, invece, se la detenzione illegale di arma comune da sparo sia reato permanente, nel qual caso il momento focale della fattispecie sarebbe da identificarsi nella perdurante detenzione dell’arma [BELLAGAMBA, VIGNA, 158], o sia reato istantaneo, nel qual caso il sostanziale profilo di antigiuridicità risiederebbe nell’omissione di denunzia entro il termine di legge [FIORELLA, 793]. In giurisprudenza sembra prevalere la tesi della natura permanente del reato [Cass. pen., sez. I, 16.3.1998], tesi che meglio si concilia con la costruzione linguistica del fatto tipico “illegalmente detiene” [CIVELLO, 120]. Un’altra particolare ipotesi contravvenzionale di omessa denunzia è prevista dall’art. 697 comma 2 c.p., il quale punisce chiunque, avendo notizia che in un luogo da lui abitato si trovano armi o munizioni, omette di farne denunzia all’Autorità. In tal caso, l’obbligo scaturisce non dalla detenzione, ma dal rinvenimento delle armi o delle munizioni nell’abitazione; qualora, invece, il soggetto agente sia anche detentore, si applica la più severa disciplina in materia di detenzione illegale. Per luogo abitato si intende anche quello che, pur non essendo destinato normalmente ad abitazione, costituisce dimora permanente o temporanea di taluno; nel concetto di abitazione non vanno ricomprese le mere appartenenze dell’abitazione stessa. Si ritiene che l’ipotesi di cui all’art. 697 comma 2 c.p. riguardi anche le armi e munizioni da guerra e comuni da sparo [CIVELLO, 120]. La detenzione delle armi da caccia soggiace alla disciplina generale in materia di detenzione di armi comuni da sparo, con conseguente obbligo di denunzia ai sensi dell’art. 38 t.u.l.p.s.; qualora la detenzione non venga denunziata all’autorità di pubblica sicurezza, può configurarsi il delitto di detenzione illegale di cui agli artt. 2 e 7 legge 2.10.1967, n. 895. Anche con riferimento a tale condotta incriminata, è opportuno riportare le disposizioni incriminatrici rilevanti secondo il tipo di arma oggetto della condotta medesima. Per le armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, munizioni da guerra, esplosivi di ogni genere, aggressivi chimici o altri congegni micidiali viene in rilievo la fattispecie base di cui all’art. 2 legge 2.10.1967, n. 895. Quanto alle armi comuni da sparo o parti di esse si applicherà il combinato disposto degli artt. 2 e 7 legge 2.10.1967, n. 895, mentre per le munizioni comuni da sparo la fattispecie rilevante è quella di cui all’art. 679 c.p. e per le armi bianche quella di cui all’art. 697 c.p.

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Per i materiali di armamento, in assenza di una specifica disposizione incriminatrice nell’ambito della legge 9.7.1990, n. 185, deve farsi rinvio alla norma generale dell’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895, sempreché l’oggetto rientri, al contempo, nel genus delle armi da guerra o tipo guerra. Le armi nucleari, biologiche e chimiche sono parificate, ai sensi dell’art. 1 legge 18.4.1975, n. 110, alle armi da guerra. In materia di materiale esplodente ed esplosivi, va osservato che la nozione di deposito si distingue dalla mera detenzione in virtù di due profili [CIVELLO, 114]: 1) un profilo quantitativo, in quanto ha ad oggetto una consistente quantità di prodotto; 2) un profilo qualitativo, in quanto sottintende un’attività di custodia e vigilanza. L’art. 2 legge 2.10.1967, n. 895 si applica sia ai casi di deposito illegale sia ai casi di detenzione illegale di esplosivi, in quanto il deposito non è altro che una forma particolare di detenzione. Per la detenzione di esplosivi, è necessaria la denunzia ex art. 38 t.u.l.p.s. all’ufficio di P.S. o, se questo manca, al comando dei Carabinieri; per il deposito, invece, è necessario conseguire la licenza del Ministro dell’Interno (art. 46 t.u.l.p.s.) o del Prefetto (art. 47 t.u.l.p.s.), secondo la natura dell’esplosivo. L’art. 38 comma 2 t.u.l.p.s. enumera i soggetti che possono detenere armi ed esplosivi senza previa denunzia degli stessi. L’art. 97 reg. t.u.l.p.s. prevede alcune ipotesi nelle quali il deposito di esplosivo non richiede la licenza dell’Autorità: in particolare, tra le varie ipotesi, sono esentati dall’obbligo di licenza i soggetti che detengano esplosivi della prima categoria in quantità non superiore a 5 chilogrammi di peso netto, od artifici in quantità non superiore a 25 chilogrammi di peso lordo. Non è tenuto a conseguire la licenza ex artt. 46 e 47 t.u.l.p.s. chiunque tenga in deposito gli esplosivi per poche ore e, nell’arco di una giornata, consumi o distrugga i medesimi. Gli artt. 678 e 679 c.p. puniscono, al riguardo, il deposito di materie esplodenti senza la licenza dell’Autorità o senza le prescritte cautele e la detenzione di materie esplodenti senza la denunzia all’Autorità. Come correttamente osservato in dottrina [CIVELLO, 115], «coordinando tali disposizioni con l’art. 2, l. 2 ottobre 1967, n. 895, si configurano le rispettive aree di applicabilità: 1) detenzione o deposito illegali (ossia rispettivamente senza denunzia o licenza) e dolosi di esplosivi micidiali (art. 2, l. 2 ottobre 1967, n. 895); 2) deposito di materie esplodenti non micidiali senza licenza (art. 678 c.p.); 3) deposito di esplosivi di qualsiasi natura con licenza ma senza le prescritte cautele (art. 678 c.p.); 4) deposito colposo di esplosivi micidiali senza licenza e/o senza le prescritte cautele (art. 678 c.p.); 5) deposito di sostanze destinate alla composizione o alla fabbricazione delle materie esplodenti senza licenza o senza le prescritte cautele (art. 678 c.p.); 6) detenzione senza denunzia di materie esplodenti non micidiali (art. 679 c.p.); 7) detenzione colposa di esplosivi micidiali senza denunzia (art. 679 c.p.). Secondo una certa dottrina, peraltro, l’art. 678 c.p. sarebbe applicabile anche ai casi di deposito senza licenza di esplosivi micidiali, qualora la detenzione non si accompagni ad un fine criminoso». Nel caso di deposito o detenzione illegale avente ad oggetto le materie esplo-

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denti non micidiali, ricorrono le fattispecie contravvenzionali di cui agli artt. 678 e 679 c.p. e non la più grave fattispecie delittuosa di cui all’art. 2 legge 2. 10.1967, n. 895, applicabile alla detenzione ed al deposito di esplosivi micidiali. Ricorre, invece, il delitto di cui all’art. 2 legge 2.10.1967, n. 895 nei casi in cui la detenzione abbia ad oggetto giocattoli pirici, i quali, pur non essendo micidiali di per sé, possono, in particolari circostanze, acquistare i requisiti della micidialità e della pericolosità per la pubblica incolumità, allorché dalla loro concentrazione in un determinato posto o nella disponibilità di un singolo soggetto derivi un’oggettiva potenzialità di pericolo per persone o cose, tale che detti oggetti o materiali possano, considerati nel loro insieme, qualificarsi come micidiali. È infine significativo notare come, con riferimento ai beni a duplice uso di cui al d.lgs. 9.4.2003, n. 96, il legislatore abbia disciplinato esclusivamente le attività di esportazione e transito. La condotta di detenzione di tali beni non è sottoposta ad alcuna forma di autorizzazione, salva l’applicazione dell’art. 2 legge 2.10.1967, n. 895, qualora tali beni rientrino, in concreto, nel genus delle armi da guerra [CIVELLO, 117]. Un particolare tipo di detenzione è quello della raccolta di armi, che consiste nel mettere insieme un numero notevole di armi, qualunque sia il metodo ed il tempo in cui se ne venga in possesso. Dalla raccolta va distinta la collezione: la prima è finalizzata alla detenzione di armi in ragione del loro numero; la seconda, invece, sottende ragioni artistiche, tecniche o culturali (come l’intento di seguire l’evoluzione tecnica o artistica delle armi). Invero, l’art. 10 legge 18.4.1975, n. 110 dispone un divieto assoluto di raccolta (oltre che di detenzione) di armi da guerra e pertanto attualmente la raccolta di tali armi non può mai essere autorizzata ed integra in ogni caso il reato ex art. 1 legge 2.10.1967, n. 895; in materia di armi da guerra, la raccolta e la collezione sono equiparate e sono entrambe punite dalla citata disposizione, a prescindere dalla finalità di commercio o di industria. La distinzione tra raccolta e collezione, invece, rileva in materia di armi comuni da sparo per le quali la raccolta è sempre vietata, mentre la collezione può essere autorizzata con licenza del Questore (v. art. 7 legge 2.10.1967, n. 895 e art. 10 legge 18.4.1975, n. 110). Con riferimento alle armi comuni da sparo, la legge stabilisce particolari limiti numerici alla detenzione delle medesime: l’art. 10 comma 6 legge 18.4.1975, n. 110, infatti, consente di detenere al massimo tre armi comuni da sparo e sei armi per uso sportivo; è, invece, caduto il limite numerico per le armi da caccia, come ribadito dall’art. 37 comma 2 legge 11.2.1992, n. 157 e dall’art. 9 comma 3 legge 19.12.1992, n. 489. In proposito, l’art. 58 u.c. reg. t.u.l.p.s. impone a chi denunci un’arma di indicare tutte le altre armi di cui lo stesso sia in possesso, nonché il luogo ove le armi si trovino, anche se le stesse sono state precedentemente denunziate. Il limite numerico di cui all’art. 10 legge 18.4.1975, n. 110 non opera: 1) nei casi di detenzione per fini di fabbricazione, importazione, esportazione, raccolta, commercio o industria; 2) in relazione alle armi ad aria o gas compressi che eroghino un’energia non superiore a 7,5 joule, nonché in relazione alle repliche -

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di armi antiche ad avancarica monocolpo; 3) in relazione alle armi antiche, artistiche o rare di importanza storica, per le quali è necessario conseguire la licenza di cui all’art. 31 comma 2 t.u.l.p.s.: il relativo limite numerico è fissato in otto unità dall’art. 7 d.m. 14.4.1982, la cui violazione integra la contravvenzione di cui all’art. 697 c.p. Qualora il numero massimo consentito dalla legge sia superato, la detenzione può essere qualificata come raccolta o come collezione: la prima è finalizzata alla detenzione di armi in ragione del loro numero; la seconda, invece, sottende ragioni artistiche, tecniche o culturali (come l’intento di seguire l’evoluzione tecnica o artistica delle armi). La raccolta di armi comuni da sparo non può mai essere autorizzata: essa, quindi, integra in ogni caso il delitto di cui agli artt. 1 e 7 legge 2.10.1967, n. 895 o, nei casi di mera colpa, la contravvenzione di cui all’art. 695 c.p. La collezione di armi comuni da sparo, invece, può essere autorizzata con la speciale licenza del Questore di cui all’art. 10 legge 18.4.1975, n. 110 (la quale è permanente, come precisato dall’art. 47 reg. t.u.l.p.s.); in ogni caso, il collezionista non può detenere più esemplari per ogni modello di arma, di talché la detenzione di armi dello stesso modello oltre il limite stabilito dalla legge integra la raccolta di armi, attività sempre vietata ai privati, mai autorizzabile e punita dagli artt. 1 e 7 legge 2.10.1967, n. 895. 2.5.1. Il porto. – Portare un’arma significa avere scientemente e consapevolmente l’arma stessa a disposizione mentre ci si trova in un determinato luogo, ovvero, in altri termini, essere armati, o avere con sé un’arma in modo da poterla eventualmente usare. In termini generali, su di un piano politico criminale l’andare armati non viene considerato dall’ordinamento come un comportamento neutro, bensì come un atteggiamento oggettivamente sintomatico dell’intenzione di usare l’arma per offendere o intimidire altri soggetti [CADOPPI, 430]. Il reato di porto d’arma ha natura permanente, in quanto costituisce un’attività continuativa che aggredisce, con il carattere della permanenza, il bene giuridico protetto dalla norma; la permanenza cessa con l’abbandonare i luoghi in cui non è ammesso il porto d’arma, ovvero con il disfarsi dell’arma stessa. Il porto di armi da guerra o tipo guerra, parti di esse, munizioni da guerra ed altri oggetti di cui all’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895 è inibito ai privati, i quali, dall’entrata in vigore della legge 18.4.1975, n. 110, non possono più nemmeno essere autorizzati alla detenzione di tali strumenti. Non è dunque più possibile rilasciare licenze di porto di tali armi, essendo punibile ex se il porto delle medesime nei luoghi indicati dalla legge. L’eventuale licenza di porto di tali armi, erroneamente rilasciata dall’Autorità, sarebbe illegittima in quanto affetta da violazione di legge e, quindi, disapplicabile con conseguente punibilità del porto in luogo pubblico o aperto al pubblico dei summenzionati strumenti. Vi sono, tuttavia, alcuni soggetti che possono legittimamente portare in luogo pubblico armi da guerra, sempre che si tratti di armi d’ordinanza [CIVELLO,

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110]: si tratta, per esempio, degli appartenenti alle Forze Armate ed ai corpi armati dello Stato nell’esercizio delle loro funzioni e degli altri compiti istituzionali, secondo quanto stabilito dagli artt. 10 comma 5 e 30 legge 18.4.1975, degli appartenenti agli organismi di informazione e sicurezza di cui alla legge 24.10. 1977, n. 801, nonché del personale di polizia o dei servizi di sicurezza di altro Stato al seguito di personalità straniere. Tuttavia, ricorre il porto illegale qualora tali soggetti portino in luogo pubblico o aperto al pubblico armi differenti da quelle d’ordinanza. Con riferimento al porto di armi comuni da sparo, gli artt. 4 e 7 legge 2.10. 1967, n. 895 puniscono il porto illegale di tali strumenti in luogo pubblico o aperto al pubblico. Il porto di tali armi è legale: 1) quando è autorizzato con licenza dell’Autorità; 2) quando è autorizzato dalla legge. Al riguardo, l’art. 42 comma 3 t.u.l.p.s. prevede: 1) la licenza del Questore per il porto di armi lunghe; 2) la licenza del Prefetto per il porto di armi corte o di bastoni animati con lama non inferiore a 65 cm «in caso di dimostrato bisogno». Nella prassi, si richiede che il dimostrato bisogno si riferisca ad esigenze di difesa personale, connesse al tipo di attività lavorativa svolta (vendita di oggetti preziosi, lavori notturni, attività riguardanti animali pericolosi, attività di guardia giurata, ecc.) o ad altre esigenze personali (come il risiedere in località isolata). Va precisato che il d.p.r. 28.5.2001, n. 311, integrando l’art. 61 reg. t.u.l.p.s., ha stabilito che anche per la licenza di porto di arma lunga per difesa personale è necessario dimostrare l’effettivo bisogno dell’arma. Vi sono, poi, casi in cui il porto d’arma comune da sparo è consentito ex lege: è il caso, per esempio, dell’art. 73 reg. t.u.l.p.s. (per il capo della polizia, i prefetti, gli ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza, ecc.), dell’art. 5 comma 5 legge 7.3.1986, n. 65 (per i vigili urbani), degli artt. 7 e 8 legge 21.2.1990, n. 36 (per i magistrati ordinari, il personale dell’Amministrazione penitenziaria, il personale addetto ai servizi segreti), dell’art. 21 legge 21.7.2000, n. 205 (per i magistrati amministrativi e contabili, esclusi i componenti delle commissioni tributarie). Quanto al porto d’arma comune nonostante il mancato rinnovo annuale del pagamento della tassa, la prevalente giurisprudenza e parte della dottrina, ritengono configurabile la contravvenzione di cui all’art. 699 comma 1 c.p. [MOSCA, 14]; secondo un differente orientamento, in tale ipotesi ricorrerebbe la contravvenzione di cui all’art. 4 commi 1 e 3 legge 18.4.1975, n. 110 [PALAZZO, 269]. Laddove il soggetto, autorizzato al porto dell’arma, utilizzi l’arma per scopi illeciti (ad esempio, per commettere una rapina), il porto deve essere considerato comunque legittimo; medesime considerazioni valgono per il porto d’arma da caccia per fini non venatori. Il regime del porto d’armi è autonomo ed indipendente rispetto al regime della detenzione; così, il conseguimento della licenza di porto non esonera il detentore dall’obbligo di denunzia ex art. 38 t.u.l.p.s., sussistendo in caso contrario il delitto di detenzione illegale di armi comuni da sparo ex artt. 2 e 7 legge 2.10.1967, n. 895. Avuto riguardo alla realizzazione collettiva del reato, vale la pena di sottoli-

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neare che perché sussista concorso di persone nel reato di porto illegale d’armi, non è sufficiente che taluno si accompagni ad un soggetto che materialmente porta l’arma, ma è necessaria la consapevolezza, da parte del concorrente, del porto esercitato dal reo, con conseguente rafforzamento del proposito criminoso; peraltro, è configurabile anche la cooperazione colposa, come nel caso di un pugnale lasciato dall’agente, per distrazione, nell’automobile di un amico, il quale, per propria colposa disattenzione, continui a portare l’arma in macchina [CIVELLO, 1 ss.]. Nel caso in cui più persone riunite portano illegalmente più armi, per stabilire se si tratti di concorso di persone nel porto di più armi da sparo o di altrettanti singoli reati di porto, occorre accertare se ciascun agente abbia dato il proprio contributo causale al porto collettivo di armi, o, al contrario, se il singolo abbia portato l’arma per conto proprio, senza essere compartecipe del fatto commesso dagli altri soggetti. Anche con riferimento a tale condotta incriminata, è opportuno riportare le disposizioni incriminatrici rilevanti secondo il tipo di arma oggetto della condotta medesima [seguendo l’impostazione di CIVELLO, 1 ss.]. Per le armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, munizioni da guerra, esplosivi di ogni genere, aggressivi chimici o altri congegni micidiali viene in rilievo la fattispecie base di cui all’art. 4 legge 2.10.1967, n. 895. Quanto alle armi comuni da sparo o parti di esse si applicherà il combinato disposto degli artt. 4 e 7 legge 2.10.1967, n. 895; per le armi bianche la fattispecie rilevante è quella di cui all’art. 699 c.p. Per le munizioni comuni da sparo, mentre, ai fini del porto, le munizioni da guerra sono parificate alle armi da guerra (con conseguente sottoposizione al regime sanzionatorio di cui all’art. 4 legge 2.10.1967, n. 895), per le munizioni per arma comune da sparo il porto non è previsto dalla legge come reato: in tal caso, o si ha porto abusivo di arma carica con munizioni denunziate, oppure il porto delle munizioni è punito a titolo di detenzione illegale se le munizioni stesse non sono state denunziate (cfr. art. 26 legge 18.4.1975, n. 110). Solo in due particolari ipotesi è punito il porto di munizioni: l’art. 33 d.p.r. 11.7.1980, n. 753 punisce (con una sanzione amministrativa pecuniaria) chiunque porti sui treni e nei veicoli di pubblico trasporto munizioni fuori degli appositi contenitori; l’art. 221 t.u.l.p.s. punisce la violazione dell’art. 43 reg. t.u.l.p.s., il quale vieta di portare munizioni nelle passeggiate militari. A prescindere dall’autonoma punibilità del porto di munizioni, restano salve, in ogni caso, le norme in materia di trasporto illegale di munizioni (per le quali si rinvia agli artt. 18 e 19 legge 18.4. 1975, n. 110) ed al regime del porto di materie esplodenti. Per i materiali di armamento, in assenza di una specifica disposizione incriminatrice nell’ambito della legge 9.7.1990, n. 185, deve farsi rinvio alla norma generale dell’art. 1 legge 2.10.1967, n. 895, sempreché l’oggetto rientri, al contempo, nel genus delle armi da guerra o tipo guerra. Le armi nucleari, biologiche e chimiche sono parificate, ai sensi dell’art. 1 legge 18.4.1975, n. 110, alle armi da guerra. -

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In materia di materiale esplodente ed esplosivi, va rilevato che il porto di esplosivi in luogo pubblico o aperto al pubblico deve ritenersi in ogni caso vietato e punito ai sensi dell’art. 2 legge 2.3.1967, n. 895. Qualora si tratti di esplosivi contenuti in congegni, macchine o involucri, si applicheranno, come ben evidenziato in dottrina [CIVELLO, 1 ss.]: 1) l’art. 4 legge 2.10.1967, n. 895 nel caso di porto doloso in luogo pubblico o aperto al pubblico; 2) l’art. 699 comma 2 c.p. nel caso di porto colposo fuori dalla propria abitazione o dalle appartenenze di essa; 3) l’art. 699 comma 2 c.p. nel caso di porto (anche doloso) fuori dalla propria abitazione o dalle appartenenze di essa, ma in un luogo non pubblico né aperto al pubblico (come nel caso di porto in luogo privato differente dalla propria abitazione). Qualora, invece, si tratti di esplosivi non contenuti in simili ordigni, si applicherà: 1) l’art. 2 legge 2.10.1967, n. 895 nel caso di porto doloso in luogo pubblico o aperto al pubblico; 2) l’art. 4 legge 18.4.1975, n. 110 nel caso di porto colposo fuori dalla propria abitazione o dalle appartenenze di essa; 3) l’art. 4 legge 18.4.1975, n. 110 nel caso di porto (anche doloso) fuori dalla propria abitazione o dalle appartenenze di essa, ma in un luogo non pubblico né aperto al pubblico [RUSSO, 533]. Secondo altro orientamento, invece, qualora il porto di esplosivi avvenga in un luogo non pubblico né aperto al pubblico o per colpa, lo stesso non è punibile di per sé, ma solo a titolo di detenzione (art. 2 legge 2.10.1967, n. 895) o di trasporto (artt. 18 e 19 legge 18.4.1975, n. 110), ove questi siano illegali [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 342]. L’art. 4 legge 2.10.1967, n. 895 non si applica ai casi di porto di mere sostanze o materie atte alla composizione e fabbricazione degli esplosivi (nel qual caso, peraltro, manca il requisito dell’immediatezza dell’uso): in tali ipotesi, potrà, tuttavia, venire in rilievo il profilo del trasporto di tali materiali, il quale è consentito solamente dietro licenza del Ministro dell’Interno o del Prefetto (artt. 46 e 47 t.u.l.p.s.), ricorrendo in caso contrario la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 678 c.p. Con riferimento ai beni a duplice uso di cui al d.lgs. 9.4.2003, n. 96, il legislatore ha disciplinato esclusivamente le attività di esportazione e transito; di conseguenza, la condotta di porto di tali beni non è sottoposta ad alcuna forma di autorizzazione, salva l’applicazione dell’art. 2 legge 2.10.1967, n. 895, qualora tali beni rientrino, in concreto, nel genus delle armi da guerra. In materia di porto d’armi comuni da sparo sono da segnalare tre norme fondamentali in materia, vale a dire l’art. 4 legge 2.10.1967, n. 895 (esteso, ai sensi dell’art. 7, alle armi comuni da sparo), l’art. 4 legge 18.4.1975, n. 110 e l’art. 699 c.p.; quest’ultima disposizione stabilisce: «chiunque, senza la licenza dell’Autorità, quando la licenza è richiesta porta un’arma fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, è punito con l’arresto fino a diciotto mesi. Soggiace all’arresto da diciotto mesi a tre anni chi, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, porta un’arma per cui non è ammessa licenza. Se taluno dei fatti preveduti dalle disposizioni precedenti è commesso in luogo ove sia concorso o adunanza di persone, o di notte o in luogo abitato, le pene sono aumentate».

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Dal confronto dell’art. 4 legge 2.10.1967, n. 895 con l’art. 699 c.p., parte della dottrina [CIVELLO, 1 ss.] ricava che al porto illegale di armi comuni da sparo è applicabile il porto illegale doloso di armi comuni da sparo o di loro parti in luogo pubblico o aperto al pubblico (artt. 4 e 7 legge 2.10.1967, n. 895) ovvero il porto illegale doloso o colposo di armi comuni da sparo in luogo non pubblico né aperto al pubblico, ma fuori dall’abitazione dell’agente e dalle relative appartenenze (art. 699 comma 1 c.p.) o ancora il porto illegale colposo fuori dall’abitazione dell’agente e dalle relative appartenenze ed in luogo pubblico o aperto al pubblico (art. 699 comma 1 c.p.). La dottrina prevalente ritiene tuttavia che il porto illegale di armi comuni da sparo in luogo non pubblico né aperto al pubblico, ma fuori dall’abitazione dell’agente e dalle relative appartenenze (per esempio, in un’abitazione altrui), integrerebbe non la contravvenzione ex art. 699 comma 1 c.p. (tesi prevalente in giurisprudenza), bensì il reato ex art. 4 legge 18.4.1975, n. 110, il quale, facendo generico riferimento alle armi, avrebbe abrogato sul punto l’art. 699 c.p. [CADOPPI, 440]. Viceversa, il differente orientamento, secondo il quale l’art. 699 comma 1 c.p. sarebbe tutt’oggi in vigore, poggia sulla lettura, in via sistematica, dell’art. 40 legge 18.4.1975, n. 110, il quale, nel far espressamente salve le disposizioni della legge 14.10.1974, n. 497 (che, all’art. 14, dispone l’aumento delle pene previste dal codice penale), implicitamente farebbe salve anche le disposizioni del codice penale [CARCANO, VARDARO, 137]. È opportuno, inoltre, rilevare come le parti d’arma siano menzionate esclusivamente nelle fattispecie di cui alla legge 2.10.1967, n. 895 e non in quelle di cui all’art. 4 legge 18.4.1975, n. 110 ed all’art. 699 c.p.: ne deriva che il porto di parti d’arma sarà consentito, anche senza licenza, sia nell’abitazione dell’agente e nelle relative appartenenze, sia in tutti gli altri posti – anche non privati – differenti dai luoghi pubblici o aperti al pubblico, salve, in ogni caso, le pene per la detenzione ed il trasporto illegali; inoltre, in relazione alle parti d’arma, non saranno punibili le condotte colpose di porto illegale. In caso di porto di più parti d’arma, il reato è unico, a meno che non si tratti di parti d’arma da guerra portate insieme a parti d’armi comuni; se il porto ha ad oggetto contestualmente armi e parti di esse, il reato è unico. Il porto contestuale di armi appartenenti a categorie differenti – ad esempio, da guerra e comuni da sparo – integra un’ipotesi di concorso materiale dei reati ex artt. 4 e 7 legge 2.10.1967, n. 895, stante l’autonomia funzionale e normativa delle fattispecie interessate; di converso, nell’ipotesi di porto di più armi appartenenti alla medesima categoria, o di più parti di esse, non sussiste il concorso di reati: il giudice, tuttavia, potrà commisurare la pena al dato quantitativo. Nel caso in cui il porto abbia ad oggetto armi o canne clandestine, ricorre la più grave fattispecie delittuosa di cui all’art. 23 legge 18.4.1975, n. 110. Se il porto d’arma comune da sparo è effettuato in pubbliche riunioni, sussiste il reato di cui all’art. 4 comma 4 legge 18.4.1975, n. 110. Vanno poi segnate altre specifiche fattispecie di reato. In particolare, l’art. 91 d.p.r. 16.5.1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezio-

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ne degli organi delle Amministrazioni comunali), punisce chiunque si introduce armato nella sala delle elezioni o in quella dell’Ufficio centrale, ancorché sia elettore o membro dell’Ufficio; analoga disposizione è contenuta negli artt. 43, 79 e 109 d.p.r. 30.3.1957, n. 361 (testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati). Gli artt. 85 t.u.l.p.s. e 151 reg. t.u.l.p.s. vietano il porto d’armi nei luoghi ove sia consentito comparire mascherati; la sanzione a tale divieto è da rinvenire nella norma generale dell’art. 17 t.u.l.p.s. Gli artt. 3 e 6, legge 23.12.1974, n. 694 puniscono il porto d’armi a bordo di aeromobili, mentre l’art. 33 d.p.r. 11.7.1980, n. 753 prevede un particolare illecito amministrativo consistente nel porto di armi da fuoco cariche e non smontate sui treni e nei veicoli pubblici (quali gli autobus di linea). L’art. 9 legge 15.12. 1972, n. 772 proibiva all’obiettore di coscienza di portare e di usare qualsiasi tipo d’arma; oggi, tuttavia, l’art. 15 comma 6 legge 8.7.1998, n. 230 non prevede più tale divieto. L’art. 1136 cod. nav. punisce il comandante o l’ufficiale di nave nazionale o straniera, fornita abusivamente di armi, che navighi senza essere munita delle carte di bordo. L’art. 41 legge 26.7.1975, n. 354 (legge sull’ordinamento penitenziario) vieta agli agenti in servizio all’interno degli istituti penitenziari di portare armi se non nei casi eccezionali in cui ciò venga ordinato dal direttore. In tutti gli altri casi nei quali l’Autorità ponga il divieto generale di introdurre armi in un determinato luogo, la violazione di tale divieto integra la contravvenzione di cui all’art. 17 t.u.l.p.s. se il divieto proviene dall’Autorità provinciale o locale di P.S., o la contravvenzione di cui all’art. 650 c.p. se il divieto proviene da altra Autorità (come nel caso del Procuratore Generale della Repubblica che vieti il porto d’armi nel Palazzo di Giustizia). Il porto illegale di armi comuni da sparo in luogo pubblico o aperto al pubblico integra il delitto previsto dall’art. 4 legge 2.10.1967, n. 895, mentre il porto delle predette armi senza licenza fuori dell’abitazione o delle appartenenze di essa, ma non in luogo pubblico o aperto al pubblico, integra la contravvenzione prevista dall’art. 699 c.p. In assenza di disposizioni speciali e derogatorie, il porto di fucile da caccia dovrebbe essere soggetto all’ordinaria disciplina del porto di armi comuni da sparo; tuttavia, in deroga a tale regime generale, l’art. 22 legge 11.2.1992, n. 157 prevede il rilascio di una speciale licenza di porto di fucile da caccia. Il porto di fucile da caccia, senza la licenza di cui all’art. 22 legge 11.2.1992, n. 157, integra il reato di porto illegale di arma comune da sparo, punito ai sensi degli artt. 4 e 7 legge 2.10.1967, n. 895; si ritiene, tuttavia che, qualora il soggetto sia titolare di altra licenza di porto (per esempio per difesa personale, ai sensi dell’art. 42 t.u.l.p.s.) o sia, comunque, legittimato per legge al porto di armi (per esempio, in quanto membro delle Forze Armate), non ricorra il reato di porto illegale, salve le sanzioni in materia di caccia illegale od irregolare. Una particolare questione riguarda l’individuazione dell’illecito (penale od amministrativo) sussistente nei casi di porto d’arma da caccia con licenza di caccia scaduta; a tal proposito è necessario distinguere le seguenti ipotesi [CIVEL-

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LO,

90]: 1) licenza scaduta per mancato rinnovo o per revoca; 2) mancato rinnovo del pagamento della tassa annuale. Il primo caso equivale ad un vero e proprio porto senza licenza di arma comune da sparo, punito quale delitto ai sensi degli artt. 4 e 7 legge 2.10.1967, n. 895, salva l’applicazione delle sanzioni in materia di trasporto illegale di armi comuni da sparo. Il secondo caso (omesso pagamento della tassa), invece – il quale, in relazione a tutte le armi comuni da sparo, si ritiene punito ai sensi dell’art. 699 comma 1 c.p. o ai sensi dell’art. 4 legge 18.4.1975, n. 110– costituisce, oggi, con riferimento alle armi da caccia, mero illecito amministrativo, ai sensi dell’art. 31 comma 1 lett. c) legge 11.2.1992, n. 157. Non integra, invece, il reato di porto abusivo di arma comune da sparo di cui agli artt. 4 e 7 legge 2.10.1967, n. 895, la condotta di chi, regolarmente munito di autorizzazione di porto di fucile per uso di caccia, eserciti l’attività venatoria in violazione delle norme stabilite, per l’esercizio della caccia, dalla legge 11.2. 1992, n. 157; invero, dette violazioni costituiscono specifici illeciti penali o amministrativi e, quindi, non incidono sulla liceità della detenzione o del porto delle armi da caccia. Con riferimento ai limiti numerici al porto di armi e munizioni da caccia, l’art. 8 comma 15 r.d. 5.6.1939, n. 1016, consentiva il porto e l’uso di più fucili, quando ciò fosse richiesto «dalle consuetudini di talune forme di caccia». La legge 11.2.1992, n. 157 non stabilisce, expressis verbis, quale sia il numero massimo di armi che possono contestualmente essere oggetto di porto da parte del cacciatore. Secondo una prima opzione interpretativa, nel silenzio della legge, non sarebbe consentito portare contemporaneamente più armi da caccia, nemmeno nei casi nei quali la consuetudine lo richieda. Ciò in quanto, se la legge limita, nell’ambito della medesima arma, persino il numero di colpi caricabili nel serbatoio (v. art. 13 legge 11.2.1992, n. 157), a fortiori non potrebbe ritenersi consentito portare più armi contemporaneamente, in quanto tale porto simultaneo potrebbe vanificare i limiti quantitativi concernenti le cartucce caricabili. Secondo un differente orientamento, invece, né la legge del 1977 né quella del 1992 avrebbero abrogato la summenzionata norma del r.d. 5.6.1939, n. 1016, di talché dovrebbe ritenersi tutt’oggi lecito il porto di più fucili da parte del cacciatore munito di apposita licenza ex art. 22 legge 11.2.1992, n. 157, e ciò conformemente alle «consuetudini di talune forme di caccia». Tale indirizzo ermeneutico troverebbe conferma anche nella littera legis, in quanto l’art. 13 comma 6 legge 11.2.1992, n. 157 stabilisce che «il titolare della licenza di porto di fucile anche per uso di caccia è autorizzato, per l’esercizio venatorio, a portare, oltre alle armi consentite, gli utensili da punta e da taglio atti alle esigenze venatorie» [riferimenti in CIVELLO, 1 ss.]. -

L’art. 22 legge 11.2.1992, n. 157 prevede la concessione di una licenza di porto di fucile per uso di caccia: da ciò si ricava il principio secondo il quale tale speciale tipo di licenza con-

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sente al privato che l’abbia conseguita il solo porto finalizzato all’esercizio venatorio e non anche altri usi (quale quello sportivo o di difesa personale), a meno che il soggetto non sia anche titolare di ulteriore licenza di porto d’arma lunga. Restano, in ogni caso, comprese tra le attività consentite al cacciatore le operazioni strettamente finalizzate all’uso di caccia (come la prova dell’arma, l’allenamento, il porto o trasporto dall’abitazione al luogo di caccia, ecc.). Per quanto concerne il porto di arma da caccia, si registrano due differenti orientamenti. Secondo il primo, l’autorizzazione al porto di fucile, rilasciata per l’esercizio della caccia, rende legittimo il porto di detta arma anche per fini non venatori, compresi quelli non leciti [Cass. pen., sez. I, 8.1.2010, n. 8838]; ciò in quanto le finalità per le quali il titolare di una licenza si avvalga dell’autorizzazione concessagli sono, in genere, penalmente irrilevanti, ferma restando la sanzionabilità in via amministrativa (e penale) dell’eventuale abuso accertato, il quale può anche essere colpito da provvedimenti sospensivi o ablativi dell’autorizzazione [Cass. pen., sez. I, 26.3.2004, n. 16790]. Secondo un differente orientamento, invece, il porto d’un fucile da caccia, da parte di chi sia munito della prescritta licenza, è lecito nei limiti delle attività strumentali all’esercizio della caccia, ma diviene illegittimo se viene effettuato per scopi diversi [Cass. pen., sez. I, 23.9. 2004, n. 41098]. Risponde, pertanto, del reato di porto illegale di arma il titolare della licenza che si serva del fucile per uno scopo illecito, quale il ferimento di una persona. Peraltro, la giurisprudenza ha precisato che il titolare di licenza di porto di fucile per uso di caccia è abilitato al porto di tale arma anche in periodo di divieto dell’attività venatoria e può adoperare l’arma stessa anche per fini non venatori, purché leciti [Cass. pen., sez. I, 26.3.2004, n. 16790]. -

Qualora il porto sia finalizzato all’uso venatorio, ma avvenga in giorni di caccia chiusa, si configurano i reati contravvenzionali di cui all’art. 30 comma 1 lett. a) e f ) legge 11.2.1992, n. 157; tali fattispecie, peraltro, ricorrono anche nei casi in cui il cacciatore, con l’arma finanche scarica, si aggiri alla ricerca della selvaggina. 2.5.2. Il porto di armi ex art. 4 legge 18.4.1975, n. 110. – L’art. 4 l. n. 110/1975 contempla diverse figure di reato, il cui ambito applicativo è però controverso a causa della sua infelice formulazione [GENTILE, 199]. Basti pensare ai dubbi sulla possibilità di riferire le sanzioni di cui al comma 3 ad entrambi i commi precedenti, ovvero solamente al secondo. Al comma 1 si vieta (fatte salve le autorizzazioni previste dal r.d. n. 733/ 1931) il porto, al di fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, di armi, mazze ferrate o bastoni ferrati, sfollagente o noccoliere. A seguito dell’integrazione disposta dal d.lgs. 26.10.2010, n. 204, recante “Attuazione della direttiva 2008/51/CE, che modifica la direttiva 91/477/CEE relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi” (in G.U. n. 288 del 10.12.2010), in vigore dal 1 luglio 2011, agli oggetti già menzionati si sono aggiunti gli storditori elettrici e gli altri apparecchi analoghi in grado di erogare una elettrocuzione: in tal modo, si è formalizzato quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità che era giunto alle medesime conclusioni, inquadrando un apparecchio in grado di produrre scosse elettriche nell’ambito del comma 1 dell’art. 4 legge n. 110/1975, in quanto naturalmente destinato ad offendere la persona [Cass., sez. I, 18.12.2004, Garzanti, in Cass. pen., 2005, 582]. In materia di porto di armi proprie non da sparo (c.d. armi bianche) vige un -

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generale divieto assoluto di porto fuori della propria abitazione e delle sue appartenenze, donde l’impossibilità di conseguire, per tali armi, la licenza di porto. L’unica ipotesi di licenza di porto di “armi bianche” è prevista dall’art. 42 comma 3 t.u.l.p.s., il quale stabilisce che il Prefetto ha facoltà di concedere, in caso di dimostrato bisogno, licenza di portare bastoni animati la cui lama non abbia una lunghezza inferiore a 65 centimetri. Peraltro, vi sono almeno quattro ipotesi nelle quali il porto di “armi bianche” è consentito [CIVELLO, 101]: 1) il porto consentito dai regolamenti (come nel caso delle armi da taglio portate dai Carabinieri in uniforme da cerimonia); 2) il porto consentito dall’art. 8 legge 21.2.1990, n. 36, il quale stabilisce che «gli appartenenti agli organismi di informazione e di sicurezza di cui alla legge 24 ottobre 1977, n. 801 portano senza licenza le armi portatili di qualsiasi tipo di cui sono muniti secondo le disposizioni interne di servizio»; 3) il porto autorizzato ai sensi dell’art. 9 legge 21.2.1990, n. 36, da parte del personale appartenente alle forze di polizia o ai servizi di sicurezza di altro Stato; 4) il porto nel corso di una passeggiata militare di cui all’art. 29 t.u.l.p.s. Al di fuori delle eccezionali ipotesi previste dalla legge, il porto di “armi bianche” deve ritenersi assolutamente vietato. Le sanzioni per il porto illegale d’armi sono, in linea di massima, da rinvenire: 1) nell’art. 4 legge 2.10.1967, n. 895 per le armi da guerra; 2) negli artt. 4 e 7 legge 2.10.1967, n. 895 per le armi comuni da sparo; 3) nell’art. 699 c.p. per le armi comuni non da sparo (armi bianche); 4) nell’art. 4 legge 18.4.1975, n. 110 per le armi improprie. Tale disposizione si affianca dunque ad altre figure di reato in materia di porto d’armi. Innanzitutto, vanno ricordati gli articoli 4 e 7 legge n. 895/1967, relativi al porto illegale in luogo pubblico o aperto al pubblico rispettivamente di armi da sparo da guerra o tipo guerra e di armi comuni. Poi, l’art. 699 c.p. punisce al comma 1 il porto di un’arma fuori dalla propria abitazione o delle appartenenze di essa in assenza di licenza, quando essa è richiesta, e al comma 2 il porto di un’arma per cui non è ammessa licenza (art. 699 comma 2 c.p.). Ebbene, è pacifico che l’art. 4 in esame non interferisca con le disposizioni in tema di porto di armi da sparo da guerra e comuni in luogo pubblico o aperto al pubblico: l’art. 40 comma 2 legge 110/1975 precisa che «nulla è innovato alle disposizioni della legge 14 ottobre 1974, n. 497», che a sua volta ha riformulato i citati artt. 4 e 7 l. n. 895/1967 [per tutti, AMATO, 1395]. Invece, sono controversi i rapporti tra l’art. 4 legge n. 110/1975 e l’art. 699 c.p. nel caso in cui il fatto avvenga fuori dalla propria abitazione o nelle appartenenze di essa [ad esempio in un fondo privato recintato, in una riserva di caccia, nel luogo di lavoro dell’agente: PALAZZO, 269; non invece un cortile munito di recinzione annesso all’abitazione dell’agente e di esclusiva proprietà di quest’ultimo: Cass., sez. I, 28.6.1995, Albano, in Cass. pen., 1996, 2721]. Secondo una prima impostazione, in tale ipotesi troverebbe applicazione l’art. 699 comma 1 c.p., perché le sanzioni dell’art. 699 c.p. sono state raddoppiate dall’art. 7 legge 14.10.1974, n. 497, recante “Nuove norme contro la criminalità” [in G.U.

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n. 275 del 22.10.1974], e le disposizioni di quest’ultima sono state espressamente fatte salve dal già citato art. 40 comma 2 legge n. 110/1975 [BRIGNONE, 1374]. Un analogo schema argomentativo viene speso per motivare la riconducibilità del porto abusivo di armi bianche al paradigma dell’art. 699 comma 2 c.p. [Cass., sez. I, 11.3.1992, Boriosi, in Giust. pen., II, 1993, 224]. Pertanto, in questa prospettiva l’art. 4 comma 3 legge n. 110/1975 si limiterebbe a sanzionare il porto di abusivo di armi improprie di cui al comma 2, mentre il comma 1 costituirebbe una norma precettiva di carattere generale da interpretarsi in modo conforme alle altre disposizioni che, in via particolare, sanzionano i singoli comportamenti vietati dalla predetta disposizione [Cass., sez. I, 11.3.2010, Gamba, in Cass. pen., 2010, 3975]. Secondo un altro indirizzo interpretativo, invece, il quadro sanzionatorio posto dal comma 3 dell’art. 4 in esame si riferirebbe anche al comma 1, e quindi a tutte le armi (non da guerra), siano esse da sparo o meno; di conseguenza, l’art. 699 comma 1 c.p. dovrebbe considerarsi abrogato, mentre la sfera operativa dell’art. 699 comma 2 c.p. sarebbe limitata alle armi non da sparo escluse dal porto autorizzato [PALAZZO, 269; cfr. anche MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 208], ossia tutte le armi bianche con l’esclusione del bastone animato con lama superiore a cm 65 (il cui porto può essere autorizzato ai sensi dell’art. 42 r.d. n. 635/ 1940, e quindi rientra nell’ipotesi sanzionata dall’art. 4 comma 1 in epigrafe). Passando all’esame del comma 2 dell’art. 4 in esame, esso vieta il porto fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, senza giustificato motivo, di bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche, nonché qualsiasi altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona. A seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 204/2010, in vigore dal 1 luglio 2011, il dettato del citato art. 2 comma 4 riguarda altresì gli strumenti di cui all’art. 5 comma 4 nonché i puntatori laser o oggetti con funzione di puntatori laser, di classe pari o superiore a 3b, secondo le norme CEI EN 60825-1, CEI EN 60825-1/A11, CEI EN 60825-4. Il porto di questi strumenti non può mai essere autorizzato e, conseguentemente, è sempre punibile in difetto del giustificato motivo. Il giustificato motivo è la «finalità di adoperare attualmente l’oggetto secondo la sua normale destinazione, oppure un altro scopo connesso alla predetta finalità e in rapporto di tipicità con questa, sempre che coesistano il concorrente intento di uso lecito dell’oggetto e la giusta proporzione tra l’uso concreto e quello tipico dello strumento: si pensi al contadino che porta con sé una roncola per compiere lavori di viticoltura, o al meccanico che rechi con sé, fuori dell’officina, una chiave inglese per riparare un’automobile rimasta in panne» [RUSSO, 471]. Peraltro, il concetto di giustificato motivo è assai ampio e indeterminato: esso, infatti, attiene alla sfera soggettiva e psicologica del soggetto agente, la quale è, per definizione, imperscrutabile. Nella prassi, si finisce per procedere in via inferenziale dall’elemento oggettivo all’elemento soggettivo. -

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La giurisprudenza recente ha precisato che il giustificato motivo del porto degli oggetti di cui all’art. 4 comma 2 legge 18.4.1975, n. 110, ricorre solo quando particolari esigenze dell’agente siano perfettamente corrispondenti a regole comportamentali lecite correlate alla natura dell’oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell’accadimento, alla normale funzione dell’oggetto [Cass. pen., sez. I, 1.2.2013, n. 7331]. In dottrina si è rilevato che il giustificato motivo non può ritenersi insussistente per il sol fatto che il soggetto abbia, successivamente, utilizzato l’oggetto per fini illeciti [MORI, 228]. Al riguardo, l’art. 13 comma 6 legge 11..21992, n. 157 stabilisce che «il titolare della licenza di porto di fucile anche per uso di caccia è autorizzato, per l’esercizio venatorio, a portare, oltre alle armi consentite, gli utensili da punta e da taglio atti alle esigenze venatorie»: in tal caso, la legge, in buona sostanza, sancisce una sorta di presunzione di giustificato motivo nel caso di porto, per uso di caccia, di tali strumenti [CIVELLO, 1 ss.]. Si ritiene che, qualora il porto per uso venatorio abbia ad oggetto armi improprie non da punta né da taglio, ricorra comunque il giustificato motivo di cui alla disposizione in commento [CIVELLO, 1 ss.]. A parere della giurisprudenza, non ricorre il giustificato motivo, idoneo ad escludere il reato di cui all’art. 4 comma 2 legge 18.4.1975, n. 110, qualora l’arma (nella specie un coltello), portata fuori dalla propria abitazione, sia destinata ad un utilizzo illecito o comunque non corrispondente a regole comportamentali correntemente seguite ed accettate [Cass. pen., sez. I, 8.4.2009, n. 18189]. Secondo un rigido orientamento giurisprudenziale, il porto di uno strumento da punta o da taglio atto a offendere è da ritenere giustificato soltanto nel caso in cui la circostanza legittimatrice rivesta carattere di attualità rispetto al momento dell’accertamento della condotta altrimenti vietata [Cass. pen., sez. I, 23.9.2004, n. 41098]. Viceversa, secondo un orientamento meno rigoroso, perché sia giustificato il porto di oggetti che, pur idonei all’offesa, abbiano una diversa destinazione come strumenti di lavoro, è richiesto che il porto medesimo sia unito dal nesso della causalità all’attività lavorativa. Tale nesso non può però essere limitato al solo momento dello svolgimento dell’attività lavorativa, ma comprende qualsiasi momento dell’attività umana che sia comunque collegato, anche indirettamente, con lo svolgimento dell’attività lavorativa [Cass. pen., sez. I, 11.3.1993, n. 431]. Il giustificato motivo, la cui presenza autorizza il porto dell’arma, può essere riconosciuto solo tenendo conto della natura dell’oggetto, della normale funzione dello stesso, delle condizioni soggettive del portatore e dei luoghi dell’accadimento. La buona fede del soggetto agente si traduce in un errore sul significato di giustificato motivo e, quindi, in un errore sulla norma incriminatrice che, secondo il principio generale affermato dall’art. 5 c.p., non ha efficacia scusante [Cass. pen., S.U., 9.7.1997, n. 634].

L’art. 5 comma 4 l. n. 110/1975 prevede un divieto di fabbricazione di strumenti riproducenti armi con l’impiego di tecniche e materiali che ne consentano la trasformazione in armi da guerra o comuni da sparo o che consentano l’utilizzo del relativo munizionamento o il lancio di oggetti idonei all’offesa della persona. Inoltre, a seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 204/2010, si specifica che i predetti strumenti, «se realizzati in metallo devono avere la canna completamente ostruita, non in grado di camerare cartucce ed avere la canna occlusa da un tappo rosso inamovibile. Quelli da segnalazione acustica, destinati

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a produrre un rumore tramite l’accensione di una cartuccia a salve, devono avere la canna occlusa da un inserto di metallo ed un tappo rosso inamovibile all’estremità della canna. Gli strumenti denominati “softair”, vendibili solo ai maggiori di 16 anni, possono sparare pallini in plastica, di colore vivo, per mezzo di aria o gas compresso, purché l’energia del singolo pallino, misurata ad un metro dalla volata, non sia superiore ad 1 joule. La canna dell’arma deve essere colorata di rosso per almeno tre centimetri e qualora la canna non sia sporgente la verniciatura deve interessare la parte anteriore dello strumento per un pari tratto». Pertanto, pare che il divieto di porto sia stato esteso ai puntatori laser ed agli strumenti riproducenti armi, tra i quali figurano quelli da segnalazione acustica (ad esempio le c.d. scacciacani) e le pistole ad aria compressa (c.d. softair). Si discute sulla delimitazione della categoria degli strumenti da punta o da taglio: l’art. 80 r.d. n. 635/1940 prevede una definizione di strumenti da punta o da taglio atti ad offendere (i coltelli e le forbici con lama eccedente in lunghezza i quattro centimetri; le roncole, i ronchetti, i rasoi, i punteruoli, le lesine, le scuri, i potaioli, le falci, i falcetti, gli scalpelli, i compassi, i chiodi e, in genere, gli strumenti da punta e da taglio che, pur potendo occasionalmente servire all’offesa, hanno una specifica e diversa destinazione, come gli strumenti da lavoro, e quelli destinati ad uso domestico, agricolo, scientifico, sportivo, industriale e simili) ed alcune esclusioni (i coltelli acuminati o con apice tagliente, la cui lama, pur eccedendo i quattro centimetri di lunghezza, non superi i sei cm, purché il manico non ecceda in lunghezza otto cm. e, in spessore, nove mm. per una sola lama e millimetri tre in più per ogni lama affiancata; i coltelli e le forbici non acuminati o con apice non tagliente, la cui lama, pur eccedendo i quattro centimetri, non superi i dieci centimetri di lunghezza), ma si tratta di una disciplina data «ai sensi dell’art. 42» r.d. n. 733/1931, il quale è stato abrogato, nella parte in questione, proprio dall’art. 4 comma 9 legge n. 110/1975. In base a ciò la giurisprudenza ha concluso che anche l’art. 80 r.d. n. 635/1940 sarebbe stato abrogato, e pertanto spetterebbe al giudice valutare caso per caso l’attitudine offensiva dello strumento, a prescindere dalle esclusioni previste dal citato art. 80 [cfr. ad esempio Cass., sez. I, 12.11.1997, Murabito, in Cass. pen., 1998, 975]. Per quanto attiene invece alla categoria residuale alla quale si riferisce la seconda parte del comma 2 in esame (ogni altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona), la Corte costituzionale ha rigettato la questione inerente la scarsa determinatezza (censurabile ex art. 25 comma 2 Cost.) della definizione legislativa, argomentando che la «norma in esame non può considerarsi di contenuto non predeterminato perché chiaramente stabilisce specifici criteri di individuazione delle armi improprie: idoneità degli strumenti all’offesa della persona; non equivocità del proposito di arrecare tale offesa, desumibile dalle circostanze di tempo e di luogo e dalla mancanza di motivi che giustifichino il porto degli strumenti fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa»; spetterebbe pertanto al Giudice «l’accertamento

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della sussistenza, nei singoli casi, dei requisiti previsti dalla legge per l’applicabilità del comma secondo della norma impugnata e per la concessione dell’attenuante di cui al terzo comma della stessa norma» (C. cost., 16.4.1982, n. 79, in Giur cost., I, 1982, 239]. Per dare contorni più definiti alla categoria residuale, in dottrina si propone di far riferimento all’art. 45 r.d. n. 635/1940, ai sensi del quale non sono considerati armi, per gli effetti dello stesso articolo, gli strumenti da punta e da taglio, che, pur potendo occasionalmente servire all’offesa, hanno una specifica e diversa destinazione, come gli strumenti da lavoro, e quelli destinati ad uso domestico, agricolo, scientifico, sportivo, industriale e simili [PALAZZO, 261]. La giurisprudenza, da parte sua, riconduce alla categoria residuale delineata dal comma 2 anche strumenti diversi da quelli da taglio, come i martelli [Cass., sez. I, 5.12.1983, Gabutti, in Cass. pen., 1985, 733] o i sassi di fiume [Cass., sez. I, 3.12.1993, Luini, in Riv. pen., 1994, 897]. In ogni caso, la differenza tra gli strumenti specificamente individuati nella prima parte del comma 2 in esame e la categoria residuale sta nel fatto che solo in relazione alla seconda è necessario accertare, oltre che l’assenza del giustificato motivo [da intendersi come quello determinato da particolari esigenze dell’agente perfettamente corrispondenti a regole comportamentali lecite relazionate alla natura dell’oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell’accadimento, alla normale funzione dell’oggetto: Cass., S.U., 9.7.1997, Mosconi, in Cass. pen., 1998, 59] anche l’ulteriore condizione che gli strumenti appaiano chiaramente utilizzabili, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona [Cass., sez. I, 3.7.2003, Porcu, in Cass. pen., 2004, 632]. Il comma 3 dell’art. 4 in esame prevede, accanto al quadro edittale per i reati di cui al secondo e (forse) al primo comma, due circostanze speciali ad effetto comune, e più precisamente una attenuante per i casi di lieve entità, riferibili al porto dei soli oggetti atti ad offendere, e una aggravante per il caso in cui il fatto avvenga nel corso o in occasione di manifestazioni sportive. Si discute se la prima si riferisca a tutte le armi menzionate nel comma 2 [Cass., sez. I, 15.4.2010, Catalfamo, in Rep. Foro it., voce Armi, XXXIII, 2010; Cass., sez. I, 24.2.2010, Nartey, cit., 489], oppure solo alla categoria residuale descritta nella seconda parte, come l’ambiguo dato testuale («al porto dei soli oggetti atti ad offendere») sembra suggerire [Cass., sez. I, 14.10.2008, Errante, CED 2008/242043]. Ciò posto, va rilevato che in materia di porto di armi comuni non da sparo (c.d. armi bianche) e di armi improprie sono astrattamente applicabili due fattispecie contravvenzionali: quella prevista dall’art. 4 comma 3 legge n. 110/19975 e quella prevista dall’art. 699 c.p. In sede ermeneutico-sistematica, si tratta di stabilire quali siano le rispettive aree di applicabilità delle disposizioni richiamate. Giova, innanzitutto, precisare che differenti sono i presupposti applicativi di tali norme [CIVELLO, 110]: 1) art. 699 comma 1 c.p.: porto senza licenza dell’Autorità; 2) art. 699 c.p. comma 2 c.p.: porto di arma per cui non è ammessa licenza; 3) art. 4 legge 18.4.1975, n. 110, comma 1: porto di particolari armi im-

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proprie senza licenza; 4) art. 4 legge 18.4.1975, n. 110, comma 2: porto di arma impropria senza giustificato motivo. Le disposizioni richiamate fanno riferimento al medesimo criterio spaziale, in quanto entrambe puniscono il porto «fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa». In sede di coordinamento sistematico, si possono dunque distinguere le seguenti ipotesi criminose [CIVELLO, 110]: 1) porto illegale di armi proprie non da sparo (c.d. armi bianche) fuori dall’abitazione dell’agente e dalle relative appartenenze (art. 699 comma 2 c.p., non essendo ammessa la licenza di porto per tale categoria di armi); 2) porto senza licenza di bastoni animati con lama superiore ai 65 cm fuori dall’abitazione dell’agente e dalle relative appartenenze (art. 4 comma 3 legge 18.4. 1975, n. 110 o, secondo altro orientamento, art. 699 comma 1 c.p., poiché è l’unico caso di arma bianca per la quale possa essere concessa la licenza di porto); 3) porto illegale di armi improprie fuori dall’abitazione dell’agente e dalle relative appartenenze (art. 4 legge 18..41975, n. 110). Conseguentemente, secondo il prevalente orientamento, l’art. 4 legge 18.4.1975, n. 110 sarebbe applicabile esclusivamente al porto di armi improprie, salvo la particolarissima ipotesi del porto senza licenza di bastone animato; sarebbe, invece, tutt’oggi applicabile l’art. 699 comma 2 c.p. alle ipotesi di porto illegale di armi proprie bianche [CIVELLO, 1 ss.]. Con riferimento alla speciale circostanza attenuante dei casi di lieve entità, riferibili al porto dei soli oggetti atti ad offendere, si osserva che tale disposizione ha dato luogo ad alcuni problemi interpretativi, in quanto non precisa se la lieve entità possa riferirsi esclusivamente agli strumenti chiaramente utilizzabili per l’offesa alla persona, di cui alla seconda parte del comma 2, o se essa possa riferirsi a tutte le armi improprie previste dal comma 2 (ossia anche ai bastoni con puntale acuminato, ai tubi, alle catene, ecc.). A tal proposito, secondo l’opinione dominante, la circostanza attenuante della lieve entità prevista dall’art. 4 comma 3 legge 18.4.1975, n. 110 – che consente la irrogazione facoltativa della sola pena dell’ammenda limitatamente al porto di oggetti atti ad offendere – pur non essendo riferibile all’ipotesi prevista dal comma 1 del medesimo articolo, è applicabile alle ipotesi di armi improprie previste dal comma 2, ivi compresi gli strumenti da punta e da taglio atti ad offendere [Cass. pen., sez. I, 8.11.2012, n. 46264; Cass. pen., sez. I, 1.3.2012, n. 12915], trattandosi di strumenti non predestinati alla offesa alla persona, ma che possono essere occasionalmente adoperati per un tale scopo. L’attenuante della lieve entità, invece, non è applicabile al porto di armi da punta e taglio (ossia armi proprie non da sparo, o armi bianche), ma solo a quello di oggetti atti ad offendere [Cass. pen., sez. I, 19.4.2011, n. 35103]. L’attenuante della lieve entità, peraltro, non è applicabile ai casi di cui al comma 1 dell’art. 4 legge 18.4.1975, n. 110 [Cass. pen., sez. I, 5.4.2013, n. 18405]. L’ipotesi della lieve entità prevista dalla seconda parte del comma 3 non costituisce un’ipotesi autonoma di reato, ma una circostanza attenuante speciale. Ne consegue che, poiché la prima parte del comma 3 prevede la pena congiunta -

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dell’arresto e dell’ammenda, tale fattispecie contravvenzionale non è mai suscettibile della oblazione discrezionale prevista dall’art. 162-bis c.p., neanche nel caso in cui ricorra l’attenuante della lieve entità [Cass. pen., sez. I, 10.4.2008, n. 19177]. La circostanza aggravante relativa alle manifestazioni sportive, inserita dall’art. 2 della legge 19.10.2001, n. 377, recante “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 20 agosto 2001, n. 336, recante disposizioni urgenti per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive” [in G.U. 2 n. 24 del 50.10.2001], presenta invece una problematica sovrapposizione con il comma 5 dell’art. 4 in esame, il quale punisce chiunque porta in una riunione pubblica uno strumento ricompreso tra quelli indicati nel primo o nel secondo comma, dal momento che le manifestazioni sportive sono allo stesso tempo riunioni pubbliche [sul punto, PISTORELLI, 2116]. Deve altresì essere evidenziato che l’art. 4 in esame prevede due figure contravvenzionali relative al porto d’armi in pubbliche riunioni, rispettivamente dedicate alle armi proprie non da sparo (comma 4) e alle armi improprie (comma 5). La nozione di riunione deve essere ricavata dal lessico corrente, atteso che nessuna norma soccorre in proposito: in genere, per riunione si intende il convegno non occasionale di più persone in un determinato luogo per un fine predeterminato e tendenzialmente comune. Dalla riunione si distinguono l’adunanza (cioè il mero raduno) ed il concorso (occasionale) di più persone, specificamente presi in considerazione ai fini dell’aggravante prevista dall’art. 4 comma 2 legge 2.10.1967, n. 895 e dall’art. 699 comma 3 c.p.: in tali circostanze vi è la presenza contestuale di più persone, le quali, tuttavia, non perseguono un fine od un interesse condiviso. La nozione di pubblicità della riunione può essere rinvenuta nell’art. 18 comma 2 t.u.l.p.s., il quale stabilisce che «è considerata pubblica anche una riunione che, sebbene indetta in forma privata, tuttavia per il luogo in cui sarà tenuta, o per il numero di persone che dovranno intervenirvi, o per lo scopo o l’oggetto di essa, ha carattere di riunione non privata». La nozione di riunione pubblica è presente anche nell’art. 266, ult. co., n. 3, c.p. in materia di istigazione di militari a disobbedire alle leggi. La disposizione in esame non specifica quali caratteri ulteriori debba avere una riunione (oltre a quello della pubblicità) ai fini della punibilità, se cioè debba essere lecita o meno, all’aperto o al chiuso, dimostrativa o meno, e così via. Così, un pubblico dibattimento presso un’aula giudiziaria integra, pertanto, l’ipotesi di pubblica riunione. Ancora, ai fini dell’illegittimità del porto d’armi, una partita di calcio deve intendersi quale pubblica riunione, stante il bene giuridico tutelato dall’art. 4 comma 4 legge 18.4.1975, n. 110, ossia l’ordine pubblico. Deve intendersi luogo destinato ad una pubblica riunione, ove sia in corso una partita, anche lo spazio esistente tra i cancelli d’ingresso allo stadio e gli appositi settori destinati ad ospitare il pubblico, poiché anche in tale spazio si verifica la contemporanea presenza di un indeterminato numero di persone conve-

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nute per assistere all’avvenimento sportivo programmato. Nell’ambito del comma 4, vengono punite due ipotesi di porto d’arma in una riunione pubblica, secondo che il soggetto attivo abbia conseguito o meno la licenza di porto, ricorrendo in quest’ultimo caso un’ipotesi contravvenzionale aggravata. Tale fattispecie può avere ad oggetto armi comuni da sparo, armi da guerra e armi proprie non da sparo (armi bianche); in questi ultimi due casi ricorrerà sempre la prima ipotesi contravvenzionale (comma 4 primo periodo), trattandosi di armi per le quali non è ammessa licenza di porto (salvo che per il particolare caso del bastone animato di cui all’art. 42 comma 3 t.u.l.p.s.). Il comma 5, invece, si applica ai casi residui di porto di arma impropria in una pubblica riunione. Infine, il comma sei della disposizione in esame stabilisce che «la pena è raddoppiata nei casi in cui le armi o gli altri oggetti di cui ai precedenti commi sono usati al fine di compiere reati». La medesima disposizione, tuttavia, precisa che l’aggravante in parola non si applica quando l’uso stesso dell’arma costituisce un’aggravante specifica per il reato commesso (come nelle ipotesi di cui agli artt. 339, 385, 585, 628 c.p.); tale precisazione formulata dal legislatore ha dato àdito ad una disputa ermeneutica. Taluni ritengono che si tratti di un’inutile precisazione, stante il disposto dell’art. 15 c.p.; secondo una più corretta interpretazione, invece, la disposizione di cui alla seconda parte del comma 6 avrebbe la funzione di estendere, per così dire, l’area del concorso apparente [CIVELLO, 112]. Se, infatti, il comma 6 non contenesse tale secondo periodo, l’art. 15 c.p. scongiurerebbe il concorso tra l’aggravante del porto illegale d’arma ed il reato commesso mediante l’arma, esclusivamente nei casi di reato il cui elemento costitutivo sia il porto d’arma (come nel caso del porto d’arma a bordo di aerei di cui all’art. 6 legge 23.12.1974, n. 694), ma non impedirebbe il concorso tra l’aggravante dei “fine di compiere reati” ed il reato commesso mediante l’arma, nei casi in cui quest’ultimo reato non abbia quale elemento costitutivo il porto stesso, ma sia semplicemente realizzato mediante l’uso dell’arma (si pensi alla lesione aggravata dall’uso di strumento atto ad offendere, di cui agli artt. 582 e 585 c.p.). 3. Le norme sanzionatorie residuali. Molto numerosi ed eterogenei sono gli obblighi ulteriori relativi alle armi, volti a consentire un controllo efficace. Dagli obblighi di deposito o di denuncia presso l’autorità di armi, munizioni ed esplosivi rinvenuti o della cui esistenza si abbia comunque notizia (art. 20 commi 5, 6 e 7 legge n. 110/1975; art. 696 comma 2 c.p. e art. 679 comma 2 c.p.), agli obblighi di immediata denuncia dello smarrimento o del furto di armi, loro parti od esplosivi (art. 20 commi 3 e 4 legge n. 110/1975). Dai numerosi obblighi di registrazione delle operazioni giornaliere concernenti le armi, le munizioni e gli esplosivi (artt. 35 commi 1, 2 e 5, 54, 55, commi 1 e 2 t.u.; art. 108 reg.; artt. 25, 31 e 32 legge n. 110/1975) agli obblighi e divieti relativi alle aste

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pubbliche (art. 33 legge n. 110/1975; art. 59 reg.), ai numerosi obblighi di custodia (artt. 20 commi 1 e 2, 31 comma 5, 32 comma 5 legge n. 110/1975; art. 702 c.p.). 3.1. I reati in materia di custodia di armi ed esplosivi. – L’art. 20 legge 18.4.1975, n. 110 contiene un sistema di incriminazioni, la cui ratio risiede nell’interesse ad evitare il determinarsi di situazioni di pericolo per la sicurezza pubblica e per l’incolumità delle persone, atteso che la natura intrinsecamente pericolosa delle armi e degli esplosivi impone a chi detiene armi l’adozione di particolari cautele per la loro custodia. Trattasi di reati di pericolo presunto, atteso che le condotte incriminate si esauriscono nella semplice violazione dei doveri cautelari, prescindendo dalla concreta pericolosità o dannosità delle situazioni che ne conseguono. Si tratta, inoltre, di fattispecie contravvenzionali. Inoltre, il dovere di custodia sancito dalla disposizione in questione incombe su chiunque detenga armi od esplosivi, a prescindere dal titolo della detenzione dei medesimi Il comma 1 dell’art. 10 legge 18.4.1975, n 110 individua due differenti doveri di custodia di armi ed esplosivi: 1) un dovere generico, gravante su qualsiasi detentore, di custodire le armi e gli esplosivi con ogni diligenza nell’interesse della sicurezza pubblica; 2) un dovere specifico, gravante su chi eserciti professionalmente attività in materia di armi o di esplosivi, o sia autorizzato alla raccolta o alla collezione di armi, avente ad oggetto l’adozione e la manutenzione di efficienti difese antifurto, secondo le modalità prescritte dalla Autorità di Pubblica Sicurezza. L’assolvimento del secondo dovere specifico non esonera il soggetto (quale il fabbricante, il commerciante o il riparatore) dall’adempiere il generico dovere di diligenza. Con la locuzione ogni diligenza, il legislatore ha inteso imporre al detentore di armi un particolare onere di cautela, affermando implicitamente l’insufficienza di una normale ed ordinaria cura prestata nella custodia; la diligenza che la legge esige, inoltre, va valutata sulla scorta della pericolosità dell’arma, del luogo in cui la stessa è custodita, nonché delle altre circostanze concrete [in giurisprudenza, per tutti, Cass., 8.1.2013, in CED 2013/254828, secondo cui non costituisce violazione dell’obbligo di diligenza nella custodia delle armi, previsto e sanzionato dall’art. 20 legge 18.4.1975 n. 110, la detenzione, da parte di taluno, di un fucile da caccia all’interno del garage di sua esclusiva proprietà, non sussistendo per il privato cittadino alcun obbligo di adottare particolari sistemi ed efficienti misure di difesa antifurto; in dottrina, CIVELLO, 1 ss.]. La violazione dei suddetti doveri di custodia integra la contravvenzione di cui al comma 2 della disposizione in esame, punita con la pena dell’arresto o, alternativamente, dell’ammenda. L’art. 20 concerne solamente la custodia di armi da guerra, tipo guerra e comuni da sparo e di esplosivi, di talché non è applicabile alle munizioni (a differenza dell’art. 20-bis), né alle cosiddette armi bianche (v. art. 4 legge 18.4.1975,

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n. 110), né le armi antiche [Cass. pen., sez. I, 27.1.2005, n. 5112]; inoltre, non sono comprese nella disciplina sanzionatoria de qua le condotte aventi ad oggetto mere parti d’arma. Per tali oggetti, l’omessa custodia sarà penalmente rilevante solo quale violazione di una regola cautelare, che abbia portato ad un determinato evento dannoso o pericoloso, il quale evento costituisca elemento oggettivo di altro reato (come nel caso di omessa custodia di munizioni che, accidentalmente, esplodano uccidendo o ferendo taluno). Per quanto riguarda i luoghi in cui è opportuno custodire le armi per non incorrere in sanzioni penali, è stato affermato che taluni luoghi, come una capanna, una roulotte, uno yacht non possono ritenersi luoghi sicuri, a meno che il detentore non nasconda l’arma in modo adeguato. Nel caso di detenzione presso la propria abitazione, gli obblighi di custodia mutano secondo le circostanze e le cautele dovranno essere maggiori qualora il detentore abbia figli giovani, familiari con problemi psichiatrici, governanti e colf che siano soliti spostare mobili od oggetti; saranno, invece, sufficienti normali cautele qualora, per esempio, il detentore non conviva con altri soggetti o abiti nei piani alti di un condominio [CIVELLO, 78 ss.]. In caso di smarrimento dell’arma, non si può ritenere de plano sussistente il reato di omessa custodia; infatti, la colpa non può mai essere desunta meramente dall’evento (smarrimento) od essere presunta, ma deve essere provata dall’accusa sulla base delle generali regole in materia di colpa, ossia con una valutazione di prevedibilità/evitabilità ex ante [CIVELLO, 80 ss.]. L’art. 28 legge 18.4.1975, n. 110 prevede poi una speciale ipotesi contravvenzionale, sussistente nei casi in cui il titolare di licenza di deposito di esplosivi non effettui personalmente, o a mezzo degli appositi rappresentanti ex art. 8 t.u.l.p.s., le attività e le operazioni di impiego e di utilizzo degli esplosivi. L’obbligo di diligente custodia di armi ed esplosivi prescinde dalla legittimità del titolo di detenzione e riguarda, quindi, anche le armi e gli esplosivi detenuti illecitamente; inoltre, la valutazione dell’adeguatezza della custodia si deve compiere anche tenuto conto della pericolosità dell’arma custodita. Per quanto concerne la misura della diligenza richiesta nella custodia di armi, la giurisprudenza risulta oscillante: da una parte v’è un orientamento rigoristico, il quale esige la massima diligenza possibile; dall’altra, v’è un orientamento più moderato, secondo il quale sarebbe sufficiente l’adozione di cautele che, nelle specifiche situazioni di fatto, possano esigersi da una persona di normale prudenza, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit [riferimenti in CIVELLO, 1 ss.]. Il dovere di diligenza non può ritenersi adempiuto qualora l’arma, regolarmente denunziata, venga lasciata dal proprietario in una casa dalle precarie strutture, durante uno dei lunghi periodi in cui è solito allontanarsi dall’immobile stesso [Cass. pen., sez. I, 29.11.2011, n. 47299]. L’obbligo di diligenza nella custodia delle armi può ritenersi adempiuto quando un’arma, anche carica, venga lasciata all’interno della camera da letto di un’abitazione occupata solo da due persone adulte e posta in luogo isolato, distante circa due chilometri dal più vicino centro abitato [Cass. pen., sez. I, 1.6.2006, n. 21909].

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I successivi commi dell’art. 20 legge 18.4.1975, n. 110 impongono tre ordini di obblighi: 1) obbligo di immediata denunzia dello smarrimento o del furto di armi, parti di esse o esplosivi di qualsiasi natura; 2) obbligo di immediato deposito dell’arma o di parti di essa a seguito di rinvenimento delle stesse; 3) obbligo di immediata denunzia in caso di rinvenimento di esplosivi o di conoscenza di depositi o di rinvenimenti di esplosivi. Le suddette attività devono tenersi presso l’ufficio di Pubblica Sicurezza o, in mancanza, presso il più vicino comando dei Carabinieri; in caso contrario, ricorrono le contravvenzioni di cui ai commi 4 e 7 dell’art. 20 in commento. Nelle ipotesi sub 1) e 2), l’obbligo di denunzia sussiste anche nei casi di arma propria non da sparo (c.d. arma bianca). Nell’ipotesi di smarrimento o furto, l’obbligo di denunzia sussiste anche se la perdita dell’arma è avvenuta per negligenza del detentore nel custodire l’arma; di qui il possibile concorso dei reati di cui ai commi 2 e 4 dell’art. 20 legge 18.4.1975, n. 110. Tale ipotesi, tuttavia, suscita alcune perplessità, in quanto «l’agente sarebbe costretto per legge – sotto la minaccia della sanzione penale di cui al 4° co. – a denunziare un fatto in riferimento al quale è eventualmente configurabile a suo carico l’autonomo reato di cui al 2° co., ciò in patente violazione del principio nemo tenetur se detegere» [CIVELLO, 1 ss.]. Nell’ipotesi di rinvenimento di arma di cui al comma 5, la legge impone all’inventore di depositare l’arma stessa presso l’ufficio locale di P.S.; tuttavia, tale norma va interpretata alla luce dei principi generali in materia di detenzione e porto d’armi, con la conseguenza che il soggetto il quale rinvenga un’arma avrà il dovere di informare l’Autorità dell’avvenuto ritrovamento e di consegnare agli ufficiali ed agenti di Pubblica Sicurezza le armi, una volta che questi si siano recati nel luogo indicato dal denunziante. In caso contrario, cioè qualora il rinveniente prendesse con sé le armi rinvenute e le portasse manu propria all’ufficio di P.S., potrebbero sussistere i reati di detenzione e porto illegali delle armi stesse, nonostante l’unico fine dell’agente sia quello di operarne il deposito. Con riferimento all’omessa custodia di armi, va rilevato che fino all’anno 1991, l’art. 702 c.p. puniva «chiunque, anche se provveduto della licenza di porto d’armi: 1) consegna o lascia portare un’arma a persona di età minore dei quattordici anni, o a qualsiasi persona incapace o inesperta nel maneggio di essa; 2) trascura di adoperare, nella custodia di armi, le cautele necessarie a impedire che alcuna delle persone indicate nel numero precedente giunga a impossessarsene agevolmente; 3) porta un fucile carico in un luogo ove sia adunanza o concorso di persone». Con il d.l. 13.5.1991, n. 152, tale articolo è stato abrogato ed è stato, in buona sostanza, sostituito dall’art. 20-bis legge 18.4.1975, n. 110; quest’ultima disposizione presenta senza dubbio una formulazione più articolata e complessa, oltre ad un trattamento sanzionatorio inasprito rispetto alla precedente disposizione codicistica. Esso, inoltre, contiene alcune ipotesi contravvenzionali (commi 1, 2 e 3) ed un’ipotesi delittuosa (comma 4). Le ipotesi contravvenzionali consistono: 1) nella consegna di armi comuni da fuoco, munizioni o esplosivi diversi dai giocattoli pirici a minori degli anni di-

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ciotto, che non siano in possesso della licenza dell’Autorità; 2) nella consegna delle medesime armi a persone anche parzialmente incapaci, a tossicodipendenti o a persone impedite nel maneggio; 3) nell’omissione delle cautele necessarie per impedire che i soggetti testé menzionati giungano ad impossessarsi agevolmente delle suddette armi. Ricorre la più grave fattispecie delittuosa, invece, se le suddette condotte hanno ad oggetto: 1) armi, munizioni o esplosivi rientranti nelle armi da guerra; 2) armi clandestine di cui all’art. 23 legge 18.4.1975, n. 110. La ratio dell’incriminazione risiede nell’intenzione del legislatore di evitare che persone poco esperte nell’uso delle armi, o non completamente in grado di gestire le proprie facoltà mentali, possano maneggiarle, mettendo così in pericolo la propria e l’altrui incolumità. Il soggetto attivo di reato può essere chiunque, anche colui che detenga illegittimamente le armi; chi riceve le armi non è soggetto attivo del reato né compartecipe; tuttavia, costui potrà rispondere dei reati previsti in tema di detenzione o porto dell’arma senza licenza, ove ne ricorrano le condizioni. L’art. 20-bis comma 1 legge 18.4.1975, n. 110 punisce chiunque consegna un’arma comune da fuoco, munizioni o esplosivi diversi dai giocattoli pirici: 1) a minori degli anni diciotto, che non siano in possesso della licenza dell’autorità; 2) a persone anche parzialmente incapaci; 3) a tossicodipendenti; 4) a persone impedite nel maneggio. Per consegna deve intendersi qualsiasi atto di materiale cessione dell’arma ad uno dei soggetti indicati, a prescindere dal motivo e dal titolo della consegna stessa. Non sussiste, tuttavia, il reato se l’arma rimane sotto la vigilanza ed il potere illimitato di colui al quale appartiene. Dalla consegna devono tenersi distinte le vere e proprie forme di cessione formale dell’arma stessa, come nel caso della compravendita, della locazione o del comodato di armi: in questi casi, infatti, potranno ricorrere le fattispecie di cui agli artt. 1 e 7 legge 2.10.1967, n. 895 ed all’art. 22 legge 18.4.1975, n. 110. Nel caso della locazione o del comodato, il cessionario ha la disponibilità esclusiva dell’arma; nel caso di incauto affidamento, invece, la disponibilità dell’arma da parte dell’affidatario è temporanea e, per così dire, precaria. Nel caso di omissione dolosa, consistita nel rimanere del tutto inerti di fronte al fatto che un soggetto minorato sottragga l’arma alla disponibilità immediata dell’agente, può ritenersi integrata l’ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 20-bis. Il comma 2 dell’art. 20-bis punisce chiunque trascura di adoperare, nella custodia delle armi comuni da fuoco, delle munizioni e degli esplosivi, le cautele necessarie per impedire che tali oggetti possano essere agevolmente oggetto di impossessamento da parte di: 1) minori degli anni diciotto, che non siano in possesso della licenza dell’autorità; 2) persone anche parzialmente incapaci; 3) tossicodipendenti; 4) persone impedite nel maneggio. Trattasi, quindi, di ipotesi speciale rispetto a quella prevista dall’art. 20 legge 18.4.1975, n. 110, in quanto concerne l’omessa custodia di armi da parte di soggetti che, in qualche modo, convivano o siano altrimenti in contatto con i soggetti minorati previsti dal comma 1.

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Secondo la più recente giurisprudenza [Cass., sez. I, 4.5.2004 n. 20950], il reato di cui all’art. 20-bis comma 2 legge 18.4.1975, n. 110, è un reato di mera condotta e di pericolo che si perfeziona per il semplice fatto che l’agente non abbia adottato le cautele che, sulla base delle circostanze di fatto da lui conosciute o conoscibili con l’ordinaria diligenza, era necessario che adottasse; ciò, indipendentemente dal fatto che una delle persone indicate dal comma 1 dello stesso articolo sia giunta o meno a impossessarsi dell’arma o delle munizioni. Né per effetto di tale interpretazione potrebbe ritenersi che la contravvenzione de qua sia un’inutile ripetizione di quella di cui all’art. 20 comma 1 della stessa legge, secondo cui «la custodia delle armi deve essere assicurata con ogni diligenza nell’interesse della pubblica sicurezza». Infatti, «entrambe le ipotesi contravvenzionali sono dirette alla realizzazione dello stesso scopo (la prevenzione di più gravi reati contro la sicurezza pubblica in generale), ma si caratterizzano tra loro per un rapporto di specialità, nel senso che il reato di cui all’art. 20, 1° co., pone un dovere generalizzato di diligenza nei confronti di tutti i possessori delle armi, diretto ad impedire che “chiunque” possa impossessarsene; la disposizione di cui all’art. 20 bis, 2° co., è diretta, invece, ad impedire che giungano a impossessarsi delle armi e delle munizioni quelle categorie di persone con riferimento alle quali, proprio per la maggiore pericolosità che può derivare dal maneggio da parte loro di tali strumenti, il legislatore richiede l’adozione di “cautele necessarie”, ovverosia di cautele dirette proprio a evitare che possa verificarsi quel particolare tipo di evento» [CIVELLO, 90 ss.]. Esclude la sussistenza del reato ex art. 20-bis l’adozione di particolari cautele, nella custodia di armi o munizioni, che possano essere superate non agevolmente. L’art. 20-bis legge 18.4.1975, n. 110 al comma 3 prevede l’irrogazione della pena della sola ammenda se il fatto di cui al comma 1 (c.d. incauto affidamento) è commesso: a) nei luoghi predisposti per il tiro, sempre che non si tratti dell’esercizio consentito di attività sportiva; b) nei luoghi in cui può svolgersi l’attività venatoria. Si discute se tali ipotesi integrino autonome fattispecie di reato [CARCANO, VARDARO, 254] o circostanze attenuanti [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 229]. In ogni caso, trattasi di figure attenuate che possono venire in rilievo solo in materia di armi comuni da fuoco e non anche in materia di armi da guerra. La locuzione «sempre che non si tratti dell’esercizio consentito di attività sportiva», contenuta nella citata lett. a), parrebbe integrare un’ipotesi codificata di scriminante per esercizio consentito di attività sportiva; v’è, tuttavia, chi ne sostiene la natura pleonastica e tautologica, stante il principio generale della possibilità di uso dell’arma, anche da parte del minore, sotto la stretta vigilanza dell’istruttore, vale a dire qualora la persona inesperta quasi non agat sed agatur. Da tale considerazione si traggono due conclusioni [CIVELLO, 90 ss.]: 1) tale causa di non punibilità opera anche nell’ipotesi di cui alla citata lett. b), qualora, per esempio, durante una battuta di caccia, il minore o la persona inesperta si eserciti sotto lo strettissimo controllo da parte del cacciatore; 2) l’esercizio dell’attività sportiva, in ogni caso, non costituisce causa di non punibilità qualora il

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minore o l’inesperto operino pur sempre nel corso di una esercitazione, tuttavia al di fuori del controllo da parte di chi sovrintenda all’esercitazione stessa. L’ultimo comma dell’art. 20-bis, stabilisce che «quando i fatti di cui ai commi precedenti riguardano le armi, le munizioni o gli esplosivi indicati nell’articolo 1 o armi clandestine, la pena è della reclusione da uno a tre anni». Trattasi di una speciale ipotesi delittuosa di incauto affidamento ed omessa custodia di armi da guerra, tipo guerra, munizioni da guerra ed esplosivi qualificabili come armi da guerra. 3.2. Il trasporto di armi. – Il trasporto di armi consiste nel trasferimento di un’arma da un luogo di detenzione ad un altro, senza che da indici oggettivi o soggettivi venga in rilievo la potenziale utilizzazione dell’arma trasportata; in altri termini, nel trasporto l’arma viene in considerazione quale oggetto statico ed inerte, suscettibile di mera attività cinematica e non quale oggetto utilizzabile dinamicamente per l’offesa. Anche la circolare del Ministero dell’Interno del 17.2.1998 (n. 559/C-3159-10100) ha chiarito che «il trasporto di un’arma ne concretizza il trasferimento da un luogo ad un altro come oggetto inerte e non suscettibile d’uso, in assenza quindi della pronta disponibilità che caratterizza il porto». Con riferimento ai rapporti tra porto e trasporto di armi, secondo un primo orientamento interpretativo [PALAZZO, 269], il porto sarebbe species del genus trasporto e si distinguerebbe da quest’ultimo per un quid pluris costituito dalla (quasi) immediata utilizzabilità dell’arma. Gli stessi sostenitori di tale tesi, tuttavia, devono ammettere che sussiste il porto anche in determinate ipotesi di non immediata utilizzabilità dell’arma, come nel caso di arma scarica, la quale può essere agevolmente adoperata dall’agente con il reperimento delle munizioni. Le condizioni che possono escludere la possibilità di un uso immediato dell’arma possono essere soggettive od oggettive [riferimenti in CIVELLO, 90 ss.]. Quanto alle prime condizioni, si è fatto l’esempio della persona che, per menomazioni fisiche, non sia in grado di azionare l’arma. Relativamente alle condizioni oggettive, si è notato che, se l’arma è collocata in una cassa o in un baule, dai quali non possa essere estratta facilmente e prontamente nel contesto dell’attività individuale concreta, essa non differisce da un qualsiasi arnese imballato, salve le prescrizioni che concernono il trasporto delle armi. A tale orientamento, se ne contrappone un secondo [RUSSO, 458], in base al quale il trasporto sarebbe species del genus porto: sussisterebbe il porto in tutti i casi nei quali l’agente “ha con sé” l’arma, mentre sussisterebbe la speciale ipotesi del trasporto nei casi in cui l’agente compie un’attività effettivamente diretta al mero trasferimento dell’arma da un luogo ad un altro. Secondo tale orientamento, il trasporto consisterebbe in quell’attività di delazione dell’arma dal luogo ove è detenuta al luogo ove sarà detenuta direttamente dall’agente (come nel caso del cambio di domicilio), o da altro soggetto autorizzato a detenerla (per esempio, un armaiolo), ovvero al luogo predisposto al legittimo uso della stessa

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(come un poligono di tiro); il trasporto, quindi, non potrà essere escluso – con conseguente sussistenza del porto – per il sol fatto che l’arma sia carica o non smontata. Nella prassi, si è sostenuto che nei casi di trasferimento di arma detenuta illegalmente, o di trasporto abusivo (senza, cioè, l’avviso ed il visto di cui agli artt. 34 t.u.l.p.s. e 50 reg. t.u.l.p.s.) di arma pur detenuta legalmente, si presumerebbe fino a prova contraria il fine di porto e non il mero trasporto; viceversa, nei casi di trasporto legale di arma (come, ad esempio, avviene per chi sia munito di licenza di trasporto di armi sportive), si presumerebbe la sussistenza del trasporto d’arma, salvo la prova contraria del fine di porto [Cass. pen., sez. I, 2.4.2004, n. 22282]. La giurisprudenza è unanime nell’affermare che il criterio distintivo fra porto e trasporto di arma non è di carattere obiettivo, ma va ravvisato nella possibilità, o non, dell’utilizzazione immediata dell’arma stessa, sicché è configurabile il reato di porto illegale di arma quando questa, pur non essendo addosso al soggetto, si trovi nella sua pronta disponibilità per un uso quasi immediato, mentre ricorre l’ipotesi del trasporto quando l’arma è oggetto inerte di un’operazione di trasferimento da luogo a luogo, senza essere suscettibile di pronta utilizzazione [Cass. pen., sez. I, 22.5.2008, n. 24686]. La Suprema Corte ha poi precisato che il discrimen tra il porto ed il trasporto di armi non risiede nelle modalità con le quali le stesse vengano trasferite da un luogo del territorio nazionale ad un altro, bensì nell’esistenza o meno dell’autorizzazione a detto trasferimento rilasciata dall’autorità di pubblica sicurezza ai sensi degli artt. 28 e 34 t.u.l.p.s. e art. 50 reg. t.u.l.p.s.; pertanto chi trasporta armi senza autorizzazione incorre nel generale divieto di porto di armi in luogo pubblico, così come colui che detiene armi senza averne fatta denunzia ex art. 38 t.u.l.p.s. [Cass. pen., sez. I, 7.3.2006, n. 11597].

Le modalità di trasporto delle armi da guerra (compresi gli esplosivi micidiali), tipo guerra e comuni da sparo sono disciplinate dall’art. 18 legge 18.4.1975, n. 110, stabilendo che tale attività può essere svolta esclusivamente: 1) a mezzo di pubblici servizi (per esempio, le Ferrovie); 2) o a mezzo di imprese di trasporto in possesso dei requisiti di legge; 3) ovvero a mezzo di soggetti dipendenti dalle aziende produttrici o commerciali, muniti di specifica autorizzazione del Questore della Provincia di residenza ed in possesso dei requisiti di cui all’art. 9 legge 18.4.1975, n. 110. La legge, poi, rinvia ad un decreto interministeriale il quale disciplini nel dettaglio le modalità di trasporto, spedizione, ricezione, presa e resa a domicilio di armi ed esplosivi. Ad oggi, l’unico decreto emanato è il d.m. 2.9.1977, il quale prevede, come unico adempimento specifico nei casi di trasporto di armi ed esplosivi, quello dell’emissione di apposito documento di accompagnamento [CIVELLO, 1 ss.]. Alla disciplina del menzionato decreto ministeriale soggiace anche il trasporto di armi proprie non da sparo (armi bianche), di armi antiche e di materie esplodenti non micidiali, in quanto il comma 2 dell’art. 18 in esame fa generico riferimento alle armi o parti di esse, oltre che agli esplosivi di ogni genere. Il comma 3 della disposizione in esame prevede una sanzione penale nel caso di violazione: 1) delle disposizioni sui soggetti legittimati al trasporto di armi (comma 1); 2) delle disposizioni contenute nel decreto del Ministro dell’Interno. Qualora, in relazione al trasporto di esplosivi, siano omesse le cautele prescritte dal t.u.l.p.s., può configurarsi la contravvenzione di cui all’art. 678 c.p. L’applicazione della suddetta disciplina al trasporto di determinati tipi di

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cartucce e polveri è esclusa dal comma 4 dell’art. 18 legge 18.4.1975, n. 110. Il trasporto di armi da guerra o tipo guerra e delle loro parti è disciplinato dall’art. 28 comma 3 t.u.l.p.s., il quale stabilisce che per effettuare il trasporto di armi da guerra o tipo guerra nel territorio dello Stato è necessario darne avviso al Prefetto. L’art. 19 legge 18.4.1975, n. 110 ha esteso tale obbligo di avviso anche al trasporto di parti di arma da guerra o tipo guerra. In caso di violazione dell’obbligo di preavviso, occorre distinguere secondo che il trasporto abbia ad oggetto armi intere o parti di esse; nel primo caso l’omissione è sanzionata dall’art. 28 comma 4 t.u.l.p.s., mentre nel secondo caso la norma sanzionatoria è quella dell’art. 19 comma 2 legge 18.4.1975, n. 110. Nel caso in cui il trasporto venga effettuato personalmente dal titolare dell’autorizzazione al commercio o alla produzione di armi, si ritiene che questo titolo abiliti, di per sé, anche al trasporto, essendo soddisfatta la ratio della disposizione, la quale esige che il trasportatore offra la massima garanzia di affidabilità e che le armi non abbiano una destinazione diversa da quella apparente. È importante, peraltro, evidenziare che, a prescindere dalla disciplina del trasporto, sussiste un generale ed assoluto divieto di detenzione e di porto d’armi da guerra da parte dei privati, ai sensi dell’art. 10 comma 1 legge 18.4.1975, n. 110, la cui violazione integra, rispettivamente, i delitti cui agli artt. 2 e 4 legge 2.10.1967, n. 895. Quanto al trasporto di armi comuni da sparo e delle loro parti, lo stesso è disciplinato dall’art. 34 t.u.l.p.s. (applicabile anche al trasporto di armi proprie non da sparo – cosiddette armi bianche – ed alle armi antiche, artistiche e rare), il quale stabilisce che il commerciante, il fabbricante di armi e chi esercita l’industria della riparazione delle armi non può trasportarle fuori del proprio negozio od opificio senza preventivo avviso all’Autorità di P.S.; l’obbligo dell’avviso spetta anche al privato che, per qualunque motivo, intenda trasportare armi nel territorio nazionale. L’art. 50 reg. t.u.l.p.s. precisa che tale avviso va presentato al Questore della Provincia dalla quale le armi sono spedite; tale disposizione, inoltre, prevede che il Questore, ricevuto l’avviso, autorizzi il trasporto con visto (c.d. “licenza di trasporto”). Tuttavia, l’art. 50 reg. t.u.l.p.s. sembra contrastare con l’art. 34 t.u.l.p.s., secondo il quale per il trasporto di armi è sufficiente l’avviso all’Autorità, senza ulteriori autorizzazioni amministrative; si ritiene che, per la gerarchia delle fonti, la disposizione del t.u.l.p.s. prevalga rispetto a quella del reg. t.u.l.p.s., di talché per trasportare le armi sarebbe sufficiente darne avviso all’Autorità di P.S., senza che sia necessario attendere l’autorizzazione del Questore. L’art. 19 legge 18.4.1975, n. 110 ha esteso l’obbligo di preavviso anche al trasporto di parti di arma comune; in particolare, per quanto riguarda quest’ultima categoria, il legislatore enumera dettagliatamente le parti per il cui trasporto è necessario il preavviso: canne, carcasse, carrelli, fusti, tamburi, bascule; con la riforma del 2010, invece, è stato espunto il riferimento al caricatore, quale parte di arma comune da sparo. Per carcassa si intende l’involucro esterno di un’arma. Il carrello è una delle parti scorrevoli dell’arma e si identifica con la parte

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mobile che contiene l’otturatore. Il fusto è una parte della cassa. La cassa è sempre di legno nelle armi lunghe, metallica nelle armi corte: serve a contenere in modo meccanicamente ben determinato i vari congegni dell’arma stessa o a permetterne la presa, il puntamento, il maneggio, l’appoggio o le manovre di tiro. La bascula è il massello attorno al cui perno ruotano le canne dell’arma. Non è, invece, soggetto all’obbligo di preavviso il trasporto di parti d’arma antica, in quanto trattasi di oggetti tendenzialmente esclusi dal genus delle armi comuni da sparo; di contro, l’art. 19 in commento si applica alle parti di armi artistiche e rare (cfr. art. 2 legge 18.4.1975, n. 110) [CIVELLO, 1 ss.]. Gli artt. 46 e 47 t.u.l.p.s. stabiliscono che per effettuare il trasporto di esplosivi è necessario conseguire apposita licenza del Ministro dell’Interno o del Prefetto (secondo il tipo di esplosivo). Ai sensi dell’art. 94 reg. t.u.l.p.s., tale licenza è redatta in calce all’avviso di spedizione; ai sensi dell’art. 106 reg. t.u.l.p.s., inoltre, la licenza di trasporto di esplosivi deve vincolarsi alla condizione che il trasporto per via ordinaria sia fatto con l’accompagnamento di una o più guardie particolari giurate, oppure di uno o più agenti della forza pubblica, in modo da rendere sicura la custodia di quelle materie. L’art. 107 reg. t.u.l.p.s. stabilisce che «i comandanti delle navi mercantili in arrivo che hanno carico, anche parziale, di esplosivi, e quelli delle navi mercantili che devono ricevere il carico, anche parziale, di esplosivi, sono rispettivamente tenuti, i primi a darne avviso entro 24 ore dalla entrata in porto, e i secondi almeno 24 ore prima di ricevere il carico alle autorità di pubblica sicurezza del porto»; si ritiene che la violazione di tali obblighi integri la contravvenzione di cui all’art. 221 t.u.l.p.s. L’art. 97 reg. t.u.l.p.s. prevede alcune ipotesi in cui il trasporto può essere effettuato senza licenza, al di sotto di determinate soglie quantitative espresse in chilogrammi. Il trasporto senza licenza di esplosivi (o di sostanze destinate alla composizione o alla fabbricazione di esplodenti) deve ritenersi tutt’ora punito dall’art. 678 c.p.; peraltro, qualora vengano violate le disposizioni del decreto ministeriale concernenti le modalità di trasporto, ricorrerà il delitto di cui all’art. 18 comma 3 legge 18.4.1975, n. 110; ricorrerà, viceversa, il reato di cui all’art. 678 c.p. nei casi di violazione delle prescritte cautele, differenti dalle cautele imposte dal decreto ministeriale. Anche in questo caso, per difetto di coordinamento, è punito meno gravemente ed a titolo contravvenzionale il trasporto senza licenza, rispetto al trasporto effettuato con licenza ma con inosservanza delle prescrizioni ministeriali. Avuto riguardo, poi, al trasporto di munizioni per armi da sparo comuni (considerate quali materie esplodenti non micidiali), esso è subordinato dall’art. 47 t.u.l.p.s. al rilascio della licenza del Prefetto. L’art. 97 reg. t.u.l.p.s. stabilisce alcune soglie quantitative, al di sotto delle quali il trasporto è effettuabile senza licenza. Il trasporto di munizioni senza licenza è punito, quale violazione di una norma del t.u.l.p.s., ai sensi dell’art. 17 t.u.l.p.s. Qualora le munizioni vengano trasportate sui treni e sui veicoli di pubblico trasporto, le stesse devono essere tenute negli appositi contenitori ed accuratamente custodite, ricorrendo in caso contrario l’illecito amministrativo di cui all’art. 33 d.p.r. 11.7.1980, n. 753. Nel

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caso in cui il trasporto abbia ad oggetto munizioni cariche aventi potenza micidiale, si applicherà la disciplina del trasporto di esplosivi. Le munizioni da guerra, invece, sono soggette al regime del porto e del trasporto di armi da guerra (cfr. l’art. 4 legge 2.10.1967, n. 895). 3.3. La categoria delle armi clandestine e i reati di clandestinità. – Nell’ambito delle fattispecie residuali è possibile annoverare i reati di clandestinità. Invero, l’art. 23 legge n. 110/1975 introduce la categoria di arma clandestina, e in relazione ad essa prevede molteplici figure di reato. Sono considerate clandestine: 1) le armi comuni da sparo che non sono catalogate ai sensi dell’art. 7 legge n. 110/1975 (che però è stato abrogato dalla legge 183/2011), ovvero non sottoposte alla verifica di cui all’art. 23 comma 12-sexiesdecies del d.l. 6.7.2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla legge 7.8.2012, n. 135 (modifica introdotta dal d.lgs. n. 121/2013); 2) le armi e le canne che non sono conformi alla disciplina dell’immatricolazione dettata dall’art. 11 legge n. 110/1975 (riformato dal d.lgs. n. 204/2010). Le armi da guerra e tipo guerra di cui all’art. 1 legge n. 110/1975 non sono soggette a catalogazione, e pertanto non rientrano nella sfera operativa dell’art. 23 legge n. 110/1975 [cfr. Cass., sez. I, 19.5.2009, Letizia, in Cass. pen., 2010, 1133]. La catalogazione consisteva nell’iscrizione nel Catalogo nazionale delle armi, istituito presso il Ministero degli interni, di ogni nuovo modello di arma prodotto od importato nel territorio dello Stato. L’interessato doveva inoltrare domanda dalla quale risultasse il tipo, la denominazione, lo Stato o gli Stati in cui essa è prodotta, il calibro, la specie e il numero delle canne e relativa lunghezza, la lunghezza dell’arma, il sistema di funzionamento e ogni altra particolarità strutturale dell’arma; qualora la Commissione consultiva per il controllo delle armi, istituita ai sensi dell’art. 6 legge n. 110/1975, avesse fornito parere positivo, l’arma veniva iscritta nel catalogo, nel quale erano indicati il numero progressivo d’iscrizione, la descrizione dell’arma e il calibro, il produttore o l’importatore e lo Stato in cui l’arma è prodotta o dal quale è importata (art. 7 legge n. 110/1975). A seguito della legge n. 183/2011, tale procedura non è più richiesta, e quindi le armi di nuova produzione non catalogate non possono essere considerate clandestine. L’immatricolazione consiste invece nell’obbligo del fabbricante o (a seguito della riscrittura dell’art. 11 legge n. 110/1975 da parte del d.lgs. n. 204/2010) dell’assemblatore di imprimere in modo indelebile sulle armi prodotte, assemblate o introdotte nello Stato il nome, la sigla od il marchio del fabbricante o assemblatore, l’anno e il Paese o il luogo di fabbricazione nonché il numero di matricola. Un numero progressivo deve, altresì, essere impresso sulle canne intercambiabili di armi. Anche se l’art. 11 continua a menzionarlo, non dovrebbe più essere necessario imprimere sull’arma il numero di iscrizione del prototipo o dell’esemplare nell’abrogato Catalogo nazionale [che assicurava la continuità «tra

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catalogazione ed immatricolazione, per cui ogni arma in circolazione appartiene a tipi previamente catalogati», PISTORELLI, 2219]. La nuova formulazione dell’art. 11 legge n. 110/1975 specifica altresì dove devono essere impressi i segni identificativi, ossia «in un’area delimitata del fusto, carcassa o castello o di una parte essenziale dell’arma, di cui all’art. 1-bis, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 527 (recante Attuazione della direttiva 91/477/ CEE relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi, in Supp. ord. n. 5 alla Gazz. uff., 11 gennaio 1993, n. 7)». A cura del Banco nazionale di prova di Gardone Valtrompia deve essere apposta la sigla della Repubblica Italiana e l’indicazione dell’anno in cui è avvenuta l’introduzione dell’arma nel territorio nazionale, salvo che tali indicazioni siano già state apposte da altro Stato membro dell’Unione europea. Lo stesso Banco nazionale di prova di Gardone Valtrompia provvede (direttamente o a mezzo delle sue sezioni) al controllo dell’avvenuta immatricolazione, imprimendo uno speciale contrassegno con l’emblema della Repubblica italiana e la sigla identificativa del Banco o della sezione. In mancanza di uno solo dei contrassegni di identificazione richiesti dall’art. 11 legge n. 110/1975, l’arma si considera clandestina [Cass., sez. I, 17.3.1999, Ponzio, in Cass. pen., 2000, 2745]. Tuttavia, una pronuncia di merito ha affermato che la clandestinità di un’arma con matricola abrasa è correlata alla impossibilità della sua identificazione e del controllo della sua provenienza, sicché l’arma cessa di essere clandestina ove i segni identificativi vengano completamente recuperati, ad esempio tramite esaltazione della matricola abrasa [Trib. Lanusei, 7.3.2003, Magari, in Giur. mer., 2003, 2478, con nota di MAZZEO, In tema di armi clandestine]. Anche dopo l’abolizione del Catalogo delle armi non ci dovrebbero essere dubbi sulla natura clandestina delle armi non immatricolate: secondo la giurisprudenza la catalogazione mirava a distinguere le armi comuni da sparo e le armi da guerra, mentre l’immatricolazione avrebbe una diversa finalità, ossia quella di sottoporre a costante controllo tutte le armi comuni da sparo e le persone legittimate a detenerle, in modo da consentire agli organi di polizia di seguire gli eventuali trasferimenti e di identificare in ogni momento i detentori [Cass., sez. I, 1.3.2002, Lattuada, in Cass. pen., 2003, 599]. Passando ai reati in materia di armi clandestina, sono punite innanzitutto, ai sensi del comma 2 dell’art. 23 legge n. 110/1975, la fabbricazione, l’introduzione nello Stato [nella quale rientra la nozione più specifica di importazione: GUERRINI, 403], l’esportazione, il commercio [che consiste in un’attività caratterizzata da caratteri di abitualità e professionalità: PISTORELLI, 2120], la posa in vendita o la cessione di armi o canne clandestine. Non si prevede espressamente l’incriminazione dell’acquisto di arma clandestina, ma esso può essere punito a titolo di ricettazione ex art. 648 c.p., potendo essere costituito il reato presupposto dalla cancellazione dei contrassegni identificativi [Cass., sez. I, 5.12.1995, Nicotra, in Giust. pen., II, 1996, 526]. Tra l’altro, secondo la Suprema Corte il mero possesso di un’arma clandestina integrerebbe di per sé la prova della ricettazione, sull’assunto che l’abrasione della matricola sarebbe chia-

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ramente finalizzata a impedire la loro identificazione, «ciò dimostrando, in mancanza di elementi contrari, il proposito di occultamento del possessore e la consapevolezza dello stesso della provenienza illecita dell’arma» [Cass., sez. VI, 6.5.2010, Melina, in Guida dir., XXXIX, 2010, 98]. Il comma 3 dell’art. 23 in esame punisce invece la detenzione di armi o canne clandestine. Tale reato è ritenuto dalla giurisprudenza «un reato commissivo permanente, la cui consumazione si inizia con la disponibilità di un’arma comune da sparo non iscritta nel relativo catalogo nazionale, ovvero di un’arma comune o di una canna sprovvista dei numeri, dei contrassegni e delle sigle di cui all’art. 11 l. 18.4.1975, n. 110, e cessa con la cessazione della detenzione» [Cass., sez. I, 20.2.2009, Sapiente, in Cass. pen., 2010, 2838]. In coerenza con questo assunto, si afferma altresì che per «la configurazione del delitto di detenzione abusiva d’arma comune da sparo è necessaria una relazione stabile del soggetto con la cosa, in quanto il concetto di detenzione per sua natura implica un minimo di permanenza del rapporto materiale tra detentore e cosa detenuta ed un minimo apprezzabile di autonoma disponibilità del bene da parte del soggetto»; ne consegue che gli estremi della predetta condotta delittuosa non sarebbero ravvisabili nell’ipotesi in cui il soggetto abbia avuto il precario possesso dell’arma soltanto per i pochi istanti intercorsi tra la sua ricezione ed il suo trasferimento ad altra persona [Cass., sez. I, 20.5.2008, Ponzo, in Cass. pen., 2009, 4874]. Oltre alla detenzione, è punito anche il porto di armi o canne clandestine in luogo pubblico o aperto al pubblico (art. 23 comma 4 legge n. 110/1975]. A tal proposito, la giurisprudenza adotta una linea interpretativa particolarmente rigorosa, affermando che i reati di detenzione e porto di armi comuni da sparo previsti dagli artt. 2, 4 e 7 legge n. 895/1967, e quello di detenzione di arma clandestina sarebbero figure di reato totalmente autonome, anche se si riferiscono alle medesime armi, e pertanto suscettibili di dar luogo ad un concorso formale di reati: ciò in ragione della diversità del bene giuridico protetto, perché mentre le norme relative alla denunzia delle armi e alla licenza di porto d’armi sarebbero previste per mettere l’autorità di polizia in condizioni di avere pronta e specifica conoscenza delle persone che le detengono, quelle relative alle armi prive di matricola mirano a garantire la facile controllabilità delle armi e della loro provenienza [Cass., sez. I, 22.11.1995, Guerra, massimata in Cass. pen., 1996, 3442; più di recente, Cass., sez. I, 6.3.2008, in Cass. pen., 2009, 3058]. Tale impostazione è criticata in dottrina [DONINI, 204 nota 7, 209 nota 11, 218 nota 23], in quanto «la illegalità specifica della detenzione o del porto di arma clandestina non presenta soltanto […] un significato specializzante sotto il profilo del tipo di illegalità […], ma assorbe anche completamente il disvalore di ogni generica illegalità sanzionata dagli artt. 2 e 7 L. n. 895/1967». Tra l’altro, è discutibile la stessa premessa di fondo del ragionamento svolto dalla giurisprudenza, ossia la subordinazione dell’operatività del principio di specialità ex art. 15 c.p. all’identità dell’oggettività giuridica di riferimento: oltre a non trovare costante riscontro nella stessa giurisprudenza di legittimità [a favore della tesi dell’identità del bene giuridico, cfr. Cass., S.U., 21.4.1995, La Spina, in Foro it.,

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II, 1996, c. 163 ss., 169; contra, a distanza di poche settimane, Cass., S.U., 12.5. 1995, Grassi, in Giur. it., II, 1996, 414 ss.; da ultimo, Cass, S.U., 26.10.2010, Di Lorenzo, in Cass. pen., 2001, 2076], si tratta secondo la dottrina di una tesi priva fondamento sul piano letterale e irragionevole sul piano politico-criminale [per tutti, MARINUCCI, DOLCINI, 428]. Infine, il comma 4 dell’art. 23 punisce chiunque cancella, contraffà o altera i numeri di catalogo o di matricola e gli altri segni distintivi di cui all’art. 11 legge n. 110/1975. Per cancellazione si intende l’abrasione (anche parziale) dei segni distintivi impressi sull’arma, mentre l’alterazione consiste nella loro modificazione illegittima; la contraffazione, infine, è un’immatricolazione non autorizzata. Sul piano dell’elemento psicologico, va osservato che i reati in materia di armi clandestine sono delitti, e quindi realizzabili solo a titolo di dolo. Nondimeno, nell’accertare il dolo la giurisprudenza è incline a prescindere, in applicazione dei principi generali alla stregua dei quali non è richiesta la coscienza dell’illiceità del fatto, dalla effettiva conoscenza degli obblighi fissati dall’art. 11 legge n. 110/1975: ne deriva che il dolo si riduce alla coscienza e volontà del possesso, non essendo percepibile dal soggetto che ignori l’obbligo legale di immatricolazione la mancanza del dato fattuale della mancanza del numero di matricola [sul punto, DONINI, 204 ss.]. Il sesto dell’art. 23, come modificato dal d.lgs. n. 121/2013, prevede una speciale causa di non punibilità, disponendo che «non è punibile, ai sensi del presente articolo, per la mancanza dei segni d’identificazione prescritti per le armi comuni da sparo, chiunque ne effettua il trasporto per la presentazione del prototipo al Banco nazionale di prova ai fini della sottoposizione alla verifica di cui all’articolo 23, comma 12-sexiesdecies, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, o l’importazione ai sensi dell’articolo 11». Tale causa di non punibilità si applica solamente alle armi mancanti fin dall’origine dei prescritti segni di identificazione, non già alle armi che ne siano sprovviste per altra causa (per esempio, per avvenuta cancellazione). Potranno usufruire, quindi, di tale speciale disposizione sia il produttore o l’importatore che effettui il trasporto dell’arma al fine indicato dalla norma, sia il privato che, in osservanza dell’ultimo comma dell’art. 11, sia in procinto di portare l’arma al Banco Nazionale di Prova entro il termine di un anno dall’inizio delle operazioni di catalogazione. Infine, l’art. 9 legge 31.5.1965, n. 575 prevede che «le pene stabilite per i reati concernenti armi alterate sono triplicate […] se i fatti sono commessi da persona sottoposta, con provvedimento definitivo, ad una misura di sicurezza durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l’esecuzione». Per quanto concerne l’attenuante della lieve entità, si precisa che l’attenuante in questione non si applica ai reati di cui alla legge 18.4.1975, n. 110, tra i quali quelli previsti dall’art. 23 [Cass. pen., sez. II, 23.3.2004, n. 39648]; tuttavia, se sussiste la continuazione od il concorso di più reati previsti dalla legge 2.10. 1967, n. 895 e dalla legge 18.4.1975, n. 110, qualora il reato di cui alla legge 2.10.1967, n. 895 sia ritenuto più grave, sarà applicabile l’attenuante di cui -

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all’art. 5 legge 2.10.1967, n. 895. Peraltro, qualora l’arma clandestina sia oggetto di condotte previste e punite dalla legge 2.10.1967, n. 895, la clandestinità dell’arma costituisce elemento di particolare riprovevolezza, potenzialmente ostativo alla concessione della circostanza attenuante in parola. 3.4. Le esplosioni pericolose. – L’art. 57 t.u.l.p.s. vieta la realizzazione senza licenza di esplosioni pericolose in luogo abitato o nelle sue adiacenze o lungo una via pubblica o in direzione di essa. L’art. 110 reg. t.u.l.p.s. aggiunge, inoltre, che gli spari, le esplosioni e le accensioni in occasione di festività o analoghe riunioni di folla non possono compiersi che in luogo sufficientemente lontano dalla folla stessa, in modo da evitare danni o infortuni; tale disposizione, inoltre, impone la presenza della forza pubblica. Il cap. V dell’allegato B al reg. t.u.l.p.s., tuttavia, precisa che le suddette norme non si applicano allo sparo di mine in campagna; in ogni caso, per le mine da usarsi al di fuori di cave o miniere, si deve dare un preventivo avviso all’Autorità locale di P.S., la quale potrà prescrivere le opportune cautele. Le due norme che puniscono le accensioni o esplosioni pericolose sono l’art. 703 c.p. e l’art. 6 legge 2.10.1967, n. 895. La condotta punita dall’art. 6 legge 2.10.1967, n. 895 può assumere una molteplicità di forme e può consistere nell’esplosione di colpi di arma da fuoco (sia questa da guerra o comune da sparo), nello scoppio di bombe o di altri ordigni o materie esplodenti, siano esse contenute o meno in appositi involucri; sono, invece, escluse dall’area della punibilità le condotte perpetrate con armi ad aria compressa, poiché trattasi di armi comuni da sparo non da fuoco. Trattasi di delitto plurioffensivo, atteso che da una parte il dolo specifico fa riferimento alla tutela dell’ordine pubblico; dall’altra, invece, il fatto che la fattispecie in questione abbia abrogato l’originario art. 420 c.p. (intimidazione col mezzo di materie esplodenti), sta ad indicare la volontà legislativa di tutelare anche l’interesse connesso al controllo delle armi e degli esplosivi. Trattasi, inoltre, di reato di pericolo, che si consuma a prescindere dal fatto che dalla condotta consegua un danno per le cose o le persone, essendo sufficiente il fine di produrre un turbamento dell’ordine o della sicurezza pubblica. Circa il luogo ove gli spari o gli scoppi possono avvenire, non ha alcun rilievo che si tratti di luogo pubblico, aperto al pubblico o privato; tuttavia, non sussiste l’esplosione pericolosa nei casi di spari in luogo chiuso idoneo, come un poligono di tiro [MORI, 940]. Al delitto in questione non pare applicabile l’attenuante del fatto lieve, poiché l’art. 5 legge 2.10.1967, n. 895 fa riferimento alle «pene stabilite dagli articoli precedenti». Al delitto di cui all’art. 6, non è applicabile la riduzione di pena di cui all’art. 7 della medesima legge, in quanto trattasi di fattispecie applicabile indiscriminatamente a tutte le armi da fuoco [CIVELLO, 1 ss.]. La Suprema Corte ha precisato che il delitto previsto dall’art. 6 legge 2.10.1967, n. 895 è volto a tutelare l’ordine pubblico e richiede il dolo specifico consistente nel fine di incutere

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timore o di suscitare tumulto o pubblico disordine o di attentare alla sicurezza pubblica, pur non essendo necessario che si sia verificato l’effetto voluto, mentre la contravvenzione prevista dall’art. 703 c.p., anche quando ha a oggetto lo stesso elemento materiale, è volta a tutelare la vita e l’incolumità fisica riferibile non a persone determinate ma a un numero indeterminato di soggetti e richiede la coscienza e volontà del fatto che costituisce contravvenzione [Cass. pen., sez. I, 22.9.2006, n. 37384].

L’art. 703 c.p. punisce una condotta simile a quella contemplata dall’art. 6 legge 2.10.1967, n. 895 e stabilisce che «chiunque, senza la licenza dell’Autorità, in un luogo abitato o nelle sue adiacenze, o lungo una pubblica via o in direzione di essa spara armi da fuoco, accende fuochi d’artificio, o lancia razzi, o innalza aerostati con fiamme, o, in genere, fa accensioni o esplosioni pericolose, è punito con l’ammenda fino a 103 euro. Se il fatto è commesso in un luogo ove sia adunanza o concorso di persone, la pena è dell’arresto fino a un mese». La fattispecie dell’art. 6 legge 2.10.1967, n. 895 si distingue da quella ex art. 703 c.p. in quanto, a differenza di quest’ultima, è caratterizzata dal dolo specifico. Peraltro, la fattispecie codicistica si contraddistingue per il riferimento spaziale al “luogo abitato”, alle “sue adiacenze” ed alla “pubblica via”, nonché per la particolare circostanza aggravante prevista al comma 2. Secondo parte della dottrina tali disposizioni sono in rapporto non di reciproca specialità [BELLAGAMBA, VIGNA, 181], bensì di consunzione l’una con l’altra, in quanto la figura delittuosa di cui all’art. 6 consumerebbe tutte le ipotesi riconducibili anche alla contravvenzione di cui all’art. 703 c.p.: la prima disposizione, infatti, «racchiude in sé l’intero disvalore sociale e la globale valutazione della pericolosità dell’azione del reato» [RUSSO, 88]. L’art. 703 c.p. non si applica alle esplosioni effettuate in luogo abitato ma nel chiuso degli edifici, come nel caso dei poligoni pubblici o privati. Ai fini della punibilità, l’esplosione deve essere pericolosa, di talché non rientrano nella fattispecie in questione lo sparo di armi giocattolo a salve o l’accensione di artifici pirotecnici non classificati tra le materie esplodenti. 3.5. L’uso venatorio di mezzi vietati. – L’uso venatorio di armi non consentite integra la contravvenzione di cui all’art. 30 comma 1 lett. h) legge 11.2. 1992, n. 157, il quale punisce con l’ammenda fino ad euro 1.549 «chi esercita la caccia con mezzi vietati». Si ritiene che se l’arma adoperata, pur non essendone consentito l’uso venatorio, è comunque qualificabile come un fucile (per esempio, un fucile ad aria compressa od un fucile combinato a quattro canne), ricorra la sola contravvenzione di cui all’art. 30 comma 1 lett. h) menzionato; qualora, invece, l’arma non sia nemmeno qualificabile come fucile (per esempio, perché si tratta di una semplice pistola con la canna lunga), ricorre il più grave delitto di porto illegale di arma comune da sparo (artt. 4 e 7 legge 2.10.1967, n. 895), in quanto trattasi di arma il cui porto non è consentito al titolare di una mera licenza di porto di fucile da caccia.

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Si discute sul significato della locuzione mezzi vietati di cui alla norma incriminatrice [riferimenti in CIVELLO, 1 ss.]: secondo un’interpretazione restrittiva (invero prevalente, specie in giurisprudenza), sarebbero tali esclusivamente i mezzi destinati all’abbattimento della fauna selvatica (con conseguente punibilità, per esempio, del cacciatore che utilizzi una pistola ad uso venatorio). Secondo un’interpretazione estensiva, invece, sarebbero tali anche i mezzi non destinati all’abbattimento delle prede, ma comunque adoperati dal cacciatore per ricercare e scovare le prede (c.d. mezzi ausiliari, come binocoli, ricetrasmittenti, cani segugi, ecc.). In proposito, si è evidenziato come l’art. 12 della legge in esame definisca la caccia come «ogni atto diretto all’abbattimento o alla cattura di fauna selvatica» (compreso il mero vagare o soffermarsi in attitudine di ricerca), con la conseguenza che sarebbero da qualificarsi come mezzi per l’esercizio della caccia non solo gli strumenti utilizzati per l’abbattimento delle prede, ma anche tutti i mezzi adoperati nella ricerca e nella cattura delle stesse; con la conseguenza che, qualora il cacciatore utilizzasse mezzi di ricerca e/o di cattura non previsti dalla legge, dovrebbe ritenersi integrata la contravvenzione di cui all’art. 30 comma 1 lett. h) legge 11.2.1992, n. 157. D’altra parte, secondo tale orientamento, la ratio delle disposizioni in questione è quella di salvaguardare la fauna selvatica e di garantire che l’esercizio venatorio sia effettuato secondo regole di sano spirito sportivo; così, devono ritenersi vietati anche i mezzi di ricerca delle prede, i quali trasformino la caccia da mera attività di svago a vera e propria “mattanza di animali”. In dottrina, si è rilevato, in polemica con un certo indirizzo giurisprudenziale, come l’art. 30 comma 1 lett. h) della legge in commento faccia riferimento a mezzi vietati, ossia a strumenti od utensili differenti dalla mera forza corporea del cacciatore; su queste basi, si afferma che non sarebbe punibile il cacciatore che catturasse la fauna selvatica a mani nude, non potendo gli arti umani qualificarsi come mezzi vietati [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 121 ss.]. Si ritiene che l’uso venatorio di munizioni irregolari (in quanto vietate dall’art. 2 comma 4 legge 18.4.1975, n. 110), integri la contravvenzione di cui all’art. 30 comma 1 lett. h) della legge in esame.

4. La circostanza attenuante della lieve entità. L’art. 5 legge 2.10.1967, n. 895 prevede una speciale circostanza attenuante nei casi in cui i fatti concernenti le armi da sparo siano “di lieve entità”. Il giudizio relativo alla sussistenza della lieve entità deve essere condotto esclusivamente con riguardo alla quantità ed alla quantità delle armi e non anche ad altre circostanze; di converso, per escludere la sussistenza della lieve entità, avranno rilevanza anche le circostanze differenti dalla quantità e dalla qualità delle armi in questione. In altri termini, potrà essere concessa l’attenuante di cui all’art. 5 solo in virtù dei tenui profili quantitativi e quantitativi e non di altri aspetti concernenti la persona del reo (come l’incensuratezza) o il fatto (come le circostanze oggettive della condotta); di contro, anche nei casi di quantità e/o qualità di lieve entità, il giudice potrà negare l’attenuante in parola se avrà riscontrato altri indici negativi concernenti le modalità dell’azione, le circostanze di tempo e di luogo, i precedenti penali dell’imputato, ecc. [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 260]. I due criteri della quantità e qualità vanno considerati congiuntamente, contrariamente a quanto deducibile dalla mera lettera della legge: conseguentemente, l’attenuante in parola sarà negata nei casi di quantità modica, ma di alta pericolosità e micidialità, nonché nei casi di quantità notevole (decine di armi), ma a bassa micidialità. Una volta accertata la notevole potenzialità offensiva dell’ar-

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ma, l’attenuante della lieve entità non può essere concessa, essendo preponderante il giudizio qualitativo su quello quantitativo, il quale appare criterio meramente sussidiario. La qualità è l’insieme delle caratteristiche intrinseche dell’arma in quanto tale, con particolare riferimento alla rapidità di tiro ed alla potenzialità d’offesa; essa prescinde dalla catalogazione dell’arma quale arma da guerra o comune, sicché l’attenuante della lieve entità potrà essere ragionevolmente negata per le condotte aventi ad oggetto armi comuni da sparo e concessa per le condotte aventi ad oggetto armi da guerra, qualora nei ricorrano i presupposti [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 262]. Ai fini della concessione della circostanza attenuante di cui all’art. 5 legge 2.10.1967, n. 895, il giudice «è tenuto a valutare, in primo luogo, le componenti oggettive e soggettive del fatto e solo dopo, effettuato positivamente il predetto vaglio, può prendere in considerazione la qualità e la quantità delle armi detenute. Ed invero ciò risponde alla ratio stessa della previsione di cui alla norma in commento, che riconnette la riduzione della pena alla minore offensività del fatto, con riguardo ai valori della sicurezza e dell’ordine pubblico tutelati dalla normativa in materia di armi» [Cass. pen., sez. V, 16.3.2001, n. 21243]. Ai fini della concessione dell’attenuante della lieve entità, inoltre, il Giudice può tener conto anche della personalità del soggetto e della condotta da questo tenuta, valutazione discrezionale che si sottrae al sindacato di legittimità se congruamente e logicamente motivata. La clandestinità di un’arma costituisce una qualità idonea a connotare in senso fortemente negativo la valutazione del fatto agli effetti dell’art. 5 legge 2.10.1967, n. 895, sicché tale attenuante può essere in concreto riconosciuta solo eccezionalmente ed in presenza di consistenti elementi di opposto significato [Cass. pen., sez. I, 10.11.2011, n. 43719]. Secondo un differente orientamento, invece, la clandestinità dell’arma non costituisce quella “qualità negativa” che da sola può giustificare il diniego della concessione della diminuente de qua, poiché detta qualità deve essere rapportata ad altri referenti ed in particolare alle caratteristiche tecniche, alla rapidità del tiro ed alla potenzialità offensiva [Cass. pen., sez. I, 2.3.1992, n. 3412]. L’attenuante della lieve entità si applica esclusivamente ai delitti previsti dalla legge 2.10.1967, n. 895. Conseguentemente, l’attenuante in questione non si applica ai reati di cui alla legge 18.4.1975, n. 110 ed al codice penale; tuttavia, se sussiste la continuazione o il concorso di più reati previsti dalla legge del 1967 e dalla legge del 1975 e se il reato di cui alla legge del 1967 è ritenuto più grave, sarà applicabile l’attenuante di cui all’art. 5 legge 2.10.1967, n. 895 [CIVELLO, 109]. L’attenuante in parola si applica, pacificamente, anche ai delitti, di cui alla legge 2.10.1967, n. 895, concernenti le armi comuni da sparo di cui all’art. 7 della medesima legge, nonostante l’art. 5 inizi con la locuzione «le pene stabilite negli articoli precedenti» [CIVELLO, 109]. La giurisprudenza è pacifica nell’affermare che l’attenuante speciale del fatto di lieve entità di cui all’art. 5 legge 2.10.1967, n. 895 è applicabile anche ai delitti relativi alle armi comuni da sparo, con la conseguenza che la pena prevista per

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tali delitti non può essere diminuita al di sotto del limite minimo di sei mesi di reclusione indicato dalla suddetta disposizione di legge [Cass. pen., sez. I, 19. 12.2001, n. 5469]. Dal momento che l’art. 5 in esame prevede una diminuzione per «le pene stabilite negli articoli precedenti», l’attenuante è applicabile esclusivamente ai delitti di cui agli artt. 1, 2, 3 e 4 legge 2.10.1967, n. 895: da ciò si ricava, implicitamente, la sua inapplicabilità al delitto di esplosioni pericolose di cui al successivo art. 6. L’attenuante del fatto di lieve entità, prevista dall’art. 5 legge 2.10.1967, n. 895, non è applicabile alle ipotesi disciplinate dalla successiva legge 18.4.1975, n. 110 o da altre leggi speciali in materia di armi. In particolare, l’attenuante in questione non si applica ai reati di clandestinità d’arma di cui all’art. 23 legge 18.4.1975, n. 110. L’attenuante del fatto di lieve entità, infine, non si applica alle contravvenzioni previste dal codice penale [CIVELLO, 110 ss.].

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5. La confisca in materia di armi, munizioni ed esplosivi. L’art. 6 della legge 22.5.1975, n. 152 estende il disposto dell’art. 240 comma 2 c.p. a tutti i reati (delitti e contravvenzioni) concernenti le armi, ogni altro oggetto atto ad offendere, nonché le munizioni e gli esplosivi. Tale disposizione si inserisce in un quadro normativo piuttosto confuso, che già prevede diverse figure di confische speciali in materia di armi [GENTILE, 202 ss.]. Invero, già secondo la disciplina generale posta dall’art. 240 comma 2 c.p., ai sensi del quale è disposta la confisca obbligatoria delle cose la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato, anche se non c’è stata condanna, e a prescindere dall’appartenenza della res a persona estranea a reato, molti dei reati in materia di armi erano soggetti alla più rigorosa forma di confisca conosciuta dall’ordinamento. L’art. 6 in esame estende la portata dell’art. 240 comma 2 c.p. a tutti i reati concernenti le armi (proprie e improprie), le munizioni e gli esplosivi, e non solo a quelli attinenti alla fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione e l’alienazione: si pensi, innanzitutto, a diversi reati previsti dalla legge 18.4.1975, n. 110. Peraltro, già gli artt. 4 comma 8 e 23 comma 5 legge 18.4.1975, n. 110 prescrivevano la confisca obbligatoria rispettivamente delle armi e degli altri oggetti atti ad offendere portati illegalmente e delle armi clandestine (precisando, peraltro, che in questi casi la confisca segue alla sentenza di condanna). Ulteriore ipotesi di confisca obbligatoria è stata introdotta dall’art. 3 comma 3 legge 8.8.1977, n. 533 che stabilisce che, nei procedimenti per i reati concernenti le armi e gli esplosivi (nonché per quelli previsti dagli artt. 241, 285, 286 e 306 c.p. e dalla legge 20.6.1952, n. 645), quando il procedimento è definito con sentenza di condanna, è sempre ordinata la confisca dell’immobile che sia sede di enti, associazioni o gruppi, quando in tale sede siano rinvenuti armi da sparo, esplosivi o ordigni esplosivi o incendiari, ovvero quando l’immobile sia pertinente al reato, se appartenente al condannato. La confisca obbligatoria è prevista anche dall’art. 25 comma 3 legge 9.7.1990, n. 185 in materia di materiali di armamento: tale disposizione, quindi, integra quella di cui all’art. 6 legge 22.5.1975, n. 152, estendendo la

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confisca obbligatoria anche a quei materiali che non possono qualificarsi come armi (come i materiali speciali blindati per uso militare o gli equipaggiamenti speciali). Infine, l’art. 28 comma 2 legge 11.2.1992, n. 157 prevede la confisca obbligatoria delle armi adoperate in violazione di alcune norme in materia di caccia (in tali casi l’art. 28 comma 2, della medesima legge subordina la confisca obbligatoria delle relative armi alla pronunzia di sentenza di condanna; l’art. 30 legge 11.2.1992, n. 157, nello stabilire che «salvo quanto espressamente previsto dalla presente legge, continuano ad applicarsi le disposizioni di legge e di regolamento in materia di armi», comporta che la sola norma applicabile, in materia di confisca di armi, le quali, legittimamente detenute e portate, siano state tuttavia utilizzate per commettere reati venatori, sia quella costituita dall’art. 28 comma 2 della stessa legge, in base alla quale la confisca può essere disposta solo in caso di condanna per le contravvenzioni ivi richiamate, con esclusione, quindi, dell’operatività del combinato disposto di cui all’art. 240 cpv. c.p. e all’art. 6 legge 22.5.1975, n. 152, in forza della quale può darsi luogo a confisca, quando trattasi di reati concernenti le armi, anche in assenza di una pronuncia di condanna – cfr. Cass. pen., sez. III, 28.1.2003, n. 15166). Una ulteriore ipotesi di confisca obbligatoria è prevista dall’art. 91 d.p.r. 16.5.1960, n. 570 in materia di porto illegale di armi o di bastoni nelle sale delle elezioni comunali e dell’Ufficio centrale. Ed ancora, viene in evidenza l’art. 5 comma 3 legge 20.12.2000, n. 420 in materia di fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione a qualsiasi titolo, detenzione, trasporto ed uso di esplosivi plastici o in foglie non contrassegnati ai sensi della Convenzione di Montreal dell’1 marzo 1991; nei casi di violazione delle disposizioni della legge 20.12.2000, n. 420, in materia di esplosivi plastici o in foglie, l’art. 5 comma 3 di quest’ultima legge stabilisce che è sempre ordinata la confisca dell’esplosivo non contrassegnato, ai sensi dell’art. 6 legge 22.5.1975, n. 152, anche in caso di applicazione della pena su richiesta delle parti, a norma dell’art. 444 c.p.p. Medesima previsione è contenuta nell’art. 16 comma 3 d.lgs. 9.4.2003, n. 96 in materia di confisca di beni a duplice uso esportati illegalmente. Nei casi di arma clandestina ricorrerà la confisca obbligatoria ex art. 23 legge 18.4.1975, n. 110, la quale prescinde dall’accertamento di un reato ulteriore (come la detenzione o il commercio di arma clandestina); tale disposizione deve ritenersi superata dall’art. 6 in commento, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria nei soli casi di condanna. Sicché, la confisca dovrà essere ordinata dal giudice anche in presenza di una formula assolutoria piena (perché il fatto non costituisce reato o per non aver commesso il fatto), in quanto l’arma è di per sé criminosa.

Ritornando all’art. 6 legge 22.5.1975, n. 152, va precisato che rientrano nella sua sfera operativa tutti i reati contravvenzionali [Cass. pen., sez. I, 10.11.2006, Pisciotta, in Cass. pen., 2008, 201], nonché l’omessa denuncia di armi, munizioni e materie esplodenti ex art. 38 r.d. 18.6.1931, n. 733, recante “Approvazione del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza,” in Suppl. alla G.U. n. 146 del 26.6.1931 [cfr. Cass. pen., sez. I, 20.1.2010, Trisolino, in CED 2010/246532; contra, Cass. pen., sez. I, 1.4.2008, Serra, in Cass. pen., 2009, 3058, secondo la quale la confisca in esame non troverebbe applicazione con riferimento al reato di trasporto di armi senza preventivo avviso all’autorità di pubblica sicurezza]. All’isolata obiezione che la confisca ex art. 6 potrebbe trovare applicazione solamente in relazione alle condotte menzionate nell’art. 240 comma 2 c.p., si è ribattuto che «il rinvio dell’art. 6 al disposto dell’art. 240 c.p., comma 2 riguarda la sola imposizione dell’obbligatorietà della confisca per tutti i reati concernenti le armi e non l’intera previsione normativa contenuta nel predetto comma secondo»; ne consegue, tra l’altro, «che tutti i materiali indicati nell’art. 6 cit. devono considerarsi aggiunti all’elenco delle cose confiscabili di cui alla su detta norma codicistica a prescindere dalla loro intrinseca criminosità, avendo il legislatore, con la norma speciale posta a tutela dell’ordine pubblico, inteso deroga-

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re, limitatamente alle armi, alla disciplina ordinaria in tema di confisca» [Cass. pen., sez. I, 20.1.2010, Trisolino, cit.; cfr. anche EPIDENDIO, 241, nota 2]. Peraltro, in caso di condanna per detenzione di armi comuni da sparo in numero superiore a quello consentito, la confisca non va limitata alle armi detenute in eccedenza, ma a tutte quelle trovate in possesso del reo, anche se regolarmente denunziate. L’art. 6 richiama espressamente il capoverso dell’art. 240, ma non gli ultimi due commi dai quali discende l’applicabilità della confisca ai terzi estranei al reato, a meno che la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione possa essere consentita mediante autorizzazione amministrativa. Secondo una prima impostazione, non rileverebbe la distinzione tra cose pericolose in senso assoluto (art. 240 comma 2 n. 2), come le armi da guerra e quelle clandestine, e cose relativamente pericolose (art. 240 comma 4 c.p.), come le armi comuni da sparo: in entrambi i casi andrebbe disposta la confisca obbligatoria [così, in tema di patteggiamento, Cass. pen., sez. I, 4.3.1994, Avidano, in Cass. pen., 1995, 1601]. In altri termini, l’operatività dell’art. 6 prescinderebbe dalla circostanza che la condotta in astratto vietata possa essere autorizzata, atteso che «la semplice circostanza che l’arma o le altre cose sopra elencate siano oggetto materiale di uno dei reati previsti dalla legislazione in subiecta materia comporta l’obbligo della loro confisca» [MAZZA, MOSCA, PISTORELLI, 373]. Nondimeno, parte della giurisprudenza respinge tale impostazione, argomentando che in mancanza di una deroga espressa è preferibile un’interpretazione conforme all’art. 27 comma 1 Cost., secondo cui, fuori dai casi in cui la cosa configuri un’illiceità obiettiva in senso assoluto, a prescindere dal rapporto col soggetto che ne dispone, non può procedersi alla confisca di cose pertinenti al reato, ove chi ne sia proprietario al momento in cui debba ordinarsi la confisca non sia concorrente del reato o non ne abbia tratto in alcun modo profitto [Cass. pen., sez. I, 28.9.1999, Romeo, in Cass. pen., 2000, 2090; Cass. pen., sez. I, 22.9.2006, Bardino, in Cass. pen., 2007, 4306]. Ne deriva che, secondo questo orientamento, non si procede alla confisca alla duplice condizione [GENTILE, 206]: 1) che l’arma appartenga a persona estranea al reato; 2) che il suo uso, porto, ecc. possa essere autorizzato (ad esempio, una collezione d’armi: Cass. pen., sez. I, 22.12.1999, Bernardi, in Cass. pen., 2001, 619). Per estraneo a reato si intende non l’estraneo al processo, ma solo chi risulti non aver avuto alcun collegamento, diretto o indiretto, con la consumazione del fatto reato, ossia soltanto chi non abbia posto in essere alcun contributo di partecipazione o di concorso, ancorché non punibile, e non anche colui il quale, pur implicato nella fattispecie criminosa, sia sfuggito o non sia ancora sottoposto o venga separatamente sottoposto a procedimento penale. È estraneo al reato anche il soggetto nei cui confronti sia disposta l’archiviazione per la infondatezza della notitia criminis, qualunque sia la causa (fatta salva l’ipotesi dell’archiviazione per estinzione del reato o per una causa di improcedibilità), a condizione che si tratti di cose non oggettivamente criminose in modo assoluto [Cass. pen., sez. I, 22.4. 2009, Cortellazzo, in Cass. pen., 2010, 1133]. -

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Si discute se la confisca ex art. 6 in esame possa essere disposta sulla base di una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. Il problema scaturisce dal dettato dell’art. 445 c.p.p., il quale esclude dagli effetti del patteggiamento l’applicazione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza fatta eccezione della confisca nei casi previsti dall’art. 240 c.p. In linea generale, il rinvio operato dall’art. 445 c.p.p. all’art. 240 c.p. è da intendersi in termini tassativi, perché «in riferimento ad una norma posta come eccezione ad un divieto – anzi, ad una incompatibilità –, non è consentita una interpretazione che estenda l’eccezione al di là del limite normativo esplicitamente fissato dal legislatore», ma è necessaria un’esplicita presa di posizione da parte di quest’ultimo [Cass. pen., S.U., 15.12.1992, Bissoli, in Foro it., II, 1993, 266]. Nella stessa prospettiva, si è anche osservato che il richiamo dell’art. 240 comma 2 c.p. da parte dell’art. 445 c.p.p. «non si presta ad essere interpretata come rinvio a tutte le ipotesi di confisca obbligatoria; il regime di largo favore che il nuovo codice attribuisce ai riti alternativi, fino ad escludere l’applicabilità delle misure di sicurezza personali e delle pene accessorie, il cui contenuto afflittivo è indubbiamente maggiore rispetto alla sanzione patrimoniale, sarebbe illegittimamente vulnerato e ristretto se si consentisse di disporre la confisca anche di cose esulanti dalla specifica ed unica eccezione imposta dalla legge» [così, Cass. pen., sez. III, 26.5.1992, De Goey, in Cass. pen., 1993, 2059]. Sennonché, tornando alla confisca in materia di armi, la giurisprudenza ha affermato che le armi e gli oggetti atti ad offendere devono ritenersi aggiunti all’elenco degli oggetti confiscabili a norma del primo capoverso dell’art. 240 c.p., avendo il legislatore introdotto una norma speciale, derogatoria alla disciplina ordinaria in tema di confisca [Cass., sez. I, 28.3.2008, Pinna, in Rep. Foro it., XXIII, 2008; Cass., sez. I, 22.9.2006, Bardino, in Cass. pen., 2007, 4306]. In altri termini, come ben evidenziato in dottrina [GENTILE, 209], l’art. 240 c.p. sarebbe integrato dall’art. 6 della legge 22.5.1975, n. 152, e pertanto il rinvio dell’art. 445 c.p.p. al primo potrebbe estendersi anche al secondo. In giurisprudenza si precisa inoltre che l’obbligatorietà della confisca concerne anche le armi comuni che possono essere detenute previa dichiarazione all’autorità di p.s. e portate con licenza della stessa, nonché le armi alterate o prive dei prescritti contrassegni, ma suscettibili di regolarizzazione [Cass. pen., sez. I, 10.2.1997, Brancalenti, in Rep. Foro it., XCVI, 1997, n. 96]. Risulta pertanto superato l’orientamento minoritario secondo il quale la confisca delle armi sarebbe stata possibile solamente nei casi descritti dal capoverso dell’art. 240 c.p. (prezzo del reato e cose il cui uso ecc. costituisca reato), ma non per tutti i reati concernenti l’uso delle armi [Cass. pen., sez. I, 28.1.1997, Di Iorio, in Rep. Foro it., XCVII, 1997].

Il capoverso dell’art. 240 c.p., richiamato dall’art. 6 della legge 22.5.1975, n. 152, prevede che la confisca delle c.d. cose intrinsecamente pericolose (la cui fabbricazione, porto ecc., costituisce reato) è disposta anche in assenza di condanna. Da questa disposizione, e dall’ulteriore elemento fornito dall’art. 236 c.p., che non richiama l’art. 210 c.p. (in base al quale l’estinzione del reato impedisce l’applicazione delle misure di sicurezza e ne fa cessare l’esecuzione), si desume che la confisca in materia di armi potrebbe disporsi anche sulla base di

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una sentenza di proscioglimento, ad esempio per prescrizione [Cass. pen., sez. III, 24.1.2013, n. 10236], amnistia [Cass. pen., sez. I, 24.9.1990, n. 13241], o per oblazione [Cass. pen., sez. I, 4.12.2012, n. 1806]. A tal proposito, si precisa però la necessità di un accertamento degli elementi oggettivi del reato, sicché un’assoluzione nel merito non costituisce titolo esecutivo per la confisca (giurisprudenza pacifica: ex multis, Cass. pen., sez. I, 20.1.2010, Trisolino, in Rep. Foro it., voce Armi, XXIV, 2010]. Detto altrimenti, la confisca non potrà essere disposta in presenza di una formula assolutoria piena (ad esempio, perché il fatto non è preveduto dalla legge come reato). In dottrina [GUERRINI, 462; in senso contrario, ROMANO, GRASSO, PADOVANI, 537] si è però ritenuto opportuno distinguere tra le cose intrinsecamente pericolose in modo assoluto (ad esempio, le armi da guerra), suscettibili di confisca in ogni caso, e quelle relativamente vietate (rispetto alle quali sussisterebbe la necessità di accertare l’inesistenza dell’autorizzazione che rende legittimo l’uso, il porto ecc.): in questo secondo caso, la confisca potrebbe essere disposta solo se la causa estintiva è intervenuta in un momento successivo all’acquisizione della prova certa del carattere criminoso della condotta. Le conclusioni raggiunte in tema di presupposti processuali della confisca in materia di armi potrebbero essere rimesse in discussione dalla nota sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Sud Fondi [CEDU, sentenza 29.1.2009, Soc. Sud Fondi c. Italia, in Cass. pen., 2009, 3180], la quale ha stabilito che l’inflizione della confisca presuppone «un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore materiale del reato»: da ciò il contrasto con l’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali di una normativa che consentiva l’inflizione di una confisca (intesa quale sanzione penale) [sulla nozione allargata di pena accolta dalla Corte europea, cfr. da ultimo (b) MAIELLO, 15 ss.] sulla base di una sentenza di assoluzione per difetto di colpevolezza. Più precisamente, se si ammettesse l’estensione di tale principio all’art. 6 della legge 22.5.1975, n. 152, potrebbe concludersi che «la confisca non potrà essere disposta nell’ambito di sentenze che dispongano l’assoluzione dell’imputato per carenza di elemento soggettivo, indipendentemente dallo stato o dal grado del procedimento in cui la sentenza venga emessa» [così, da ultimo, GENTILE, 206]. Ed invero, la confisca disposta in un caso del genere, integrerebbe una palese violazione del principio di colpevolezza, venendosi a trovare al cospetto di una sanzione penale comminata a seguito dell’accertamento di una mera responsabilità oggettiva. Deve però essere precisato che l’applicabilità dei principi desunti dagli artt. 6 e 7 della Convenzione europea alla disciplina della confisca in materia di armi non è affatto scontata, presupponendo il carattere sanzionatorio (e non esclusivamente preventivo) di quest’ultima. Ed invero, dopo la sentenza Sud Fondi, la giurisprudenza italiana si è affrettata a precisare che la qualificazione, a livello europeo, della confisca come una «pena ai sensi dell’art. 7 della Convenzione» non inficia(va) «il principio, pacifico in sede nazionale, secondo cui la misura ablatoria è una sanzione amministrativa irrogata dal giudice penale» [Cass., sez. III, 26.6.2008, Belloi, in Cass. pen., 2009, 3069].

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Questa presa di posizione, tuttavia, risulta suscettibile di ulteriore revisione critica alla luce della recentissima sentenza della CEDU Varvara [CEDU, 29. 10.2013 – Varvara contro Italia], la quale, ribadendo la natura sanzionatoria penale della confisca, ha affermato che «essendo la confisca una pena, essa soggiace inesorabilmente ai principi sanciti dall’articolo 7 della Convenzione che, costituendo elemento essenziale della preminenza del diritto, non autorizza alcuna deroga in tempi di guerra o di altro pericolo pubblico e, men che meno, il ricorso alla analogia». Quest’ultima importante sentenza precisa altresì: «posto che la normativa italiana consente, invece, la confisca senza condanna trattandosi di una sanzione amministrativa, sebbene esista in ambito nazionale il principio generale secondo il quale, quando l’infrazione si estingue a causa della prescrizione, non si può infliggere una pena, la Corte non vede come la punizione di un imputato il cui processo non ha portato a una condanna, possa conciliarsi con l’articolo 7 della Convenzione, disposizione che chiarisce il principio di legalità nel diritto penale, in forza del quale nessuno può essere riconosciuto colpevole di una infrazione non prevista dalla legge», con la conseguenza che non è consentito ai «giudici nazionali di interpretare estensivamente la legge a scapito dell’imputato, altrimenti costui potrebbe essere punito per un comportamento che non è previsto come infrazione». In forza di tali principi, è possibile affermare che l’applicazione della confisca in difetto dell’elemento psicologico non si concilia con i principi di legalità penale e di colpevolezza, che sono parte integrante del principio di legalità ex art. 7 della CEDU; in breve, la confisca sarebbe arbitraria. Sul punto, vale altresì la pena di ricordare che la Suprema Corte, in considerazione del disposto di cui all’art. 23 legge 11.3.1953, n. 87, ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, ha da ultimo sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 44 comma 2 d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380 come interpretato dalla Corte E.D.U. nel senso che la confisca ivi prevista non può applicarsi nel caso di dichiarazione di prescrizione del reato anche qualora la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi, per violazione degli artt. 2, 9, 32, 41, 42, 117 comma 1 Cost. [Cass. pen., sez. III, 20.5.2014, n. 20636]. L’art. 6 della legge 22.5.1975, n. 152 detta altresì un’articolata disciplina in materia di destinazione delle armi, che muta a seconda della categoria delle stesse. Ai sensi del comma 2 del citato articolo 6, le armi da guerra e tipo guerra confiscate debbono essere versate alla competente direzione di artiglieria che ne dispone la rottamazione e la successiva alienazione, ove non le ritenga utilizzabili da parte delle forze armate. Invece, le armi comuni e gli oggetti atti ad offendere confiscati, ugualmente versati alle direzioni di artiglieria, devono essere destinati alla distruzione, salvo l’eventuale riconoscimento di un interesse storico od artistico alla conservazione, da accertarsi ai sensi dei commi 9 e 10 dell’art. 32 legge 18.4.1975, n. 110. La giurisprudenza ha chiarito che la destinazione alla competente direzione di artiglieria delle armi confiscate è stabilita dalla legge come atto conseguenziale alla confisca, e pertanto non occorre che sia espressamente disposta dal giudice di merito [Cass. pen., sez. I, 3.11.1997, Pan-

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nace, in Cass. pen., 1999, 973]; anzi, l’autorità giudiziaria non può provvedere sulla sorte delle armi confiscate ed imporre la trasmissione alla direzione di artiglieria competente, immediatamente dopo che il provvedimento del giudice sia divenuto esecutivo, perché ciò si tradurrebbe nell’esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge ad organi amministrativi, emendabile mediante l’annullamento senza rinvio della sentenza, ai sensi dell’art. 620 comma 1 lett. c) c.p.p., limitatamente all’ordine di distruzione ed al contestuale ordine di trasmissione delle armi alla direzione di artiglieria competente [Cass. pen., sez. I, 18.2.2009, Gargamelli, in Cass. pen., 2010, 759]. Le munizioni e gli esplosivi confiscati devono essere versati alla competente direzione di artiglieria, per l’utilizzazione da parte delle forze armate, ovvero per l’alienazione nei modi previsti dall’art. 10 comma 2 legge 18.4.1975, n. 110, o per la distruzione. Infine, va ricordato che l’art. 33 legge n. 110/1975 ha introdotto un divieto assoluto di vendita nelle aste pubbliche delle armi da guerra e delle armi comuni da sparo.

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armi come reato di pura omissione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, 685; RINELLA, Guida alla disciplina delle armi e degli esplosivi, Rimini, 1985; ROMANO, GRASSO, PADOVANI, Commentario sistematico del codice penale, III, Art. 150-240, Milano, 1994; SCOTTO, sub art. 8, d.l. 27 luglio 2005, n. 144, in Leg. pen., IV, 2005, 485; SCUDIERI, Se le armi ad aria compressa e Flobert siano soggette alla nuova disciplina prevista dalla L. 14 ottobre 1974, n. 497, in Il Nuovo diritto, 1975, 128; SISCARO, Riflessioni (provocatorie) in tema di armi e munizioni, comuni e da guerra, nota a Trib. Lanusei 10 luglio 2001, in Giur. merito, 2002, 448 ss.

Indice analitico

A Agente – infiltrato: 171 – provocatore: 171 Armi – cancellazione, contraffazione e alterazione: 662 – circostanze aggravanti: 407 – clandestine: 718 – custodia: 709 – detenzione: 687 – distrazione e sottrazione a fine eversivo: 657 – fabbricazione, introduzione, vendita e cessione: 670 – giocattolo: 646 – omessa consegna: 657 – porto: 693 – proprie e improprie: 613 – tipologie: 612 – trasporto: 714 Autorizzazioni – allontanamento dal comune di residenza o dimora abituale: 541 – violazioni delle autorizzazioni ad allontanarsi: 431 Avviso – orale: 346

B Benefici premiali – valutazione discrezionale 246

magistratura:

Black list: 42 C Carcere duro – genesi e funzione del 41 bis ord. pen.: 269 – impugnazioni: 287 Cause di giustificazione – artt. 51 e 54 c.p.: 177 – non codificate: 176 Cauzione: 370 Circostanze aggravanti – armi ed esplosivi: 407 – metodo mafioso: 69 – natura giuridica: 77 – rapporto con attenuante della dissociazione: 227 – transnazionalità: 93 Circostanze attenuanti – attenuanti generiche: 228 – dissociazione attuosa: 197, 232 – lieve entità: 724

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Indice analitico

– natura giuridica: 225

Foglio – di via: 349

Codice antimafia – definizione: 306 – revocazione della confisca: 564 – tutela dei terzi: 577

G Gestione dei beni confiscati – disciplina: 151

Codice della strada – violazioni: 409 Collaborazione: – vedi sub Pentiti

M

Concorso esterno – rapporti con aggravante ex art. 7, d.l. n. 152/1991: 82 – rapporti con art. 3 legge n. 146/2006: 100 Confisca – antimafia o per sproporzione: 119 – antiriciclaggio: 46 – della cauzione: 402 – di prevenzione: 381 – in materia di armi, munizioni ed esplosivi: 726 – natura giuridica: 137 – per equivalente: 397 – reato transnazionale: 108 – revoca: 558 – sproporzione: 132 Convenzione di Palermo: 95 Custodia cautelare – presunzione: 88 D D.A.S.P.O. – disciplina: 357 – problemi applicativi: 364

Misure di prevenzione – altre violazioni penalmente rilevanti: 431 – fallimento, rapporti con: 591 – origini e fonti normative: 299 – patrimoniali: 305, 313, 367, 370 – personali: 307, 323, 345 – reati del pubblico ufficiale: 417 – sorveglianza speciale, violazione: 423 Misure interdittive – applicazione provvisoria: 372 – le singole misure: 374 Morte – del proposto: 386 O Operazioni sotto copertura – definizione: 163 – disciplina processuale: 179 – fonti normative:166 – giudizio di bilanciamento: 229 P

F

Pentiti – caratteri della collaborazione: 258 – dissociazione, collaborazione processuale e collaborazione di giustizia: 205, 248, 263 – forme di pentitismo: 205 – programma di protezione: 216

Fallimento – rapporti con le misure di prevenzione: 591 – tutela dei diritti dei terzi: 591

Pericolosità – connessione con acquisizione patrimoniale: 395

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Indice analitico

– – – –

oggettiva: 304 qualificata: 327 semplice: 335 sintomatico-soggettiva: 302

Retroattività – misure di prevenzione: 314, 316 – revoca della confisca ex art. 28 codice antimafia: 564

Procedimento di prevenzione – costituzione e partecipazione delle parti: 488 – impugnazioni: 511 – natura: 471 – ne bis in idem: 505 – prove: 495 – provvedimenti cautelari: 506 – revisione e revoca: 528 – valutazione di ammissibilità: 480

Riciclaggio – definizione: 33

Provocato – attenuazione della pena: 190 – non punibilità: 187

Sorveglianza speciale – decorrenza e cessazione: 535 – esecuzione differita: 539 – nozione e disciplina: 353 – prescrizioni: 426 – violazione degli obblighi: 423

R Reato – istantaneo: 15 – permanente: 16 – plurisoggettivo improprio : 21 – transnazionale: 97 Responsabilità degli enti – per violazione normativa antiriciclaggio: 65 – reati transnazionali: 115

S Sequestro nel procedimento di prevenzione – esecuzione: 545 – termini: 552

T Terzi – accertamento dei diritti: 583 – accertamento della buona fede: 585 – altri diritti: 578 – diritti di proprietà: 577 – tutela dei loro diritti: 575

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Finito di stampare nel mese di gennaio 2015 nella Stampatre s.r.l. di Torino Via Bologna 220

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