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italian Pages 619 Year 2017
Gli Autori
Richard Feynman Richard P. Feynman è nato nel 1918 a New York e ha conseguito il dottorato nel 1942 alla Princeton University. Malgrado la giovane età ha svolto un ruolo chiave nel Progetto Manhattan, condotto a Los Alamos durante la Seconda guerra mondiale. In seguito Feynman ha insegnato alla Cornell University e al California Institute of Technology. Nel 1965 ha ricevuto il Nobel per la fisica, insieme a Julian Schwinger e Sin-Itiro Tomonaga, per le sue ricerche sull’elettrodinamica quantistica, più di preciso per aver risolto alcune inconsistenze della teoria. Ha inoltre formulato una teoria matematica per spiegare il fenomeno della superfluidità nell’elio liquido. Tempo dopo ha svolto con Murray Gell-Mann ricerche fondamentali sulle interazioni deboli, per esempio sul decadimento beta. Nell’ultima parte della sua vita Feynman ha contribuito in maniera essenziale allo sviluppo della teoria dei quark, elaborando il modello a partoni per descrivere le collisioni di protoni ad alta energia. Oltre a questi risultati teorici, Feynman ha introdotto in fisica nuove tecniche per calcoli fondamentali e notazioni innovative; una fra tutte, i diagrammi di Feynman, che sono diventati imprescindibili e che, forse più di qualsiasi altro formalismo nella storia recente della scienza, hanno influenzato in profondità la concezione e il calcolo di processi fisici fondamentali. Feynman aveva grandi doti didattiche. Fra i suoi molti riconoscimenti, era particolarmente orgoglioso della Medaglia Ørsted per l’insegnamento della fisica, assegnatagli nel 1972. La Fisica di Feynman, pubblicata originariamente nel 1963, è stata descritta su Scientific American come «tosta, ma nutriente e ricca di sapore. Venticinque anni dopo, è ormai il manuale di riferimento tanto per gli insegnanti quanto per i migliori studenti dei primi anni». Per diffondere la comprensione della fisica nel grande pubblico, Feynman ha scritto La legge fisica e QED: la strana teoria della luce e della materia. Ha al suo attivo anche diversi testi avanzati divenuti dei classici, e manuali per studenti e ricercatori. Richard Feynman è stato anche un’attiva figura pubblica. Com’è ben noto, ha fatto parte della commissione che ha indagato sul disastro del Challenger, svolgendo la famo-
sa dimostrazione della fragilità delle guarnizioni O-ring a basse temperature: un esperimento elegante per cui sono bastati un morsetto e un bicchiere d’acqua ghiacciata. È forse meno nota la sua partecipazione, negli anni Sessanta, al California State Curriculum Committee. Incaricato di selezionare i libri di testo per le scuole dello stato, Feynman criticò aspramente il basso livello di quei manuali. Nessun elenco delle innumerevoli imprese di Feynman in campo scientifico e didattico potrebbe restituire per intero la sua figura. Come ben sanno i suoi lettori, la personalità vivace e sfaccettata di Feynman risalta in tutte le sue opere, anche nei testi più tecnici. Oltre a svolgere ricerca in fisica, in vari momenti della sua vita Feynman ha riparato radio, scassinato serrature, creato opere d’arte, danzato, suonato i bongos e perfino decifrato geroglifici Maya. Era un esempio perfetto di atteggiamento empirico e sempre curioso verso il mondo circostante. Richard Feynman è morto a Los Angeles il 15 febbraio 1988.
Robert Leighton Robert B. Leighton è nato a Detroit nel 1919. Nel corso della sua vita ha svolto ricerche pioneristiche in vari campi della fisica: stato solido, raggi cosmici, fisica solare, fotografia planetaria, astronomia infrarossa, millimetrica e submillimetrica; ha inoltre contribuito alla nascita della moderna fisica delle particelle. Famoso per i suoi innovativi progetti di strumenti scientifici, era anche un insegnante apprezzatissimo: ancor prima di partecipare alla stesura de La Fisica di Feynman, ha scritto il manuale di grande successo Principles of Modern Physics. Nei primi anni Cinquanta Leighton ha dato un notevole contributo a dimostrare che il muone decade in un elettrone e due neutrini, e ha realizzato la prima misura dello spettro energetico dell’elettrone risultante. Dopo la scoperta delle particelle strane, Leighton ne ha osservato per primo il decadimento, spiegandone varie proprietà. Pochi anni dopo Leighton ha inventato gli spettroeliografi a effetto Doppler e a effetto Zeeman. Grazie allo spettroeliografo a effetto Zeeman, insieme ai suoi studenti ha creato una mappa ad altissima risoluzione del campo
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Gli Autori
magnetico solare, giungendo a scoperte sorprendenti: la «super granulazione», e oscillazioni dell’ordine di cinque minuti nelle velocità superficiali locali del Sole; è così nato il nuovo campo della sismologia solare. Leighton ha poi progettato e costruito strumenti con cui realizzare immagini più nitide dei pianeti, e ha inaugurato un altro campo di ricerca: l’ottica adattiva. Le immagini dei pianeti a opera di Leighton sono state considerate le migliori fino agli anni Sessanta, quando è iniziata l’era dell’esplorazione spaziale con le sonde. All’inizio degli anni Sessanta Leighton ha creato un nuovo ed economico telescopio a infrarossi e ha realizzato la prima mappa del cielo a 2,2 µm, individuando così nella nostra galassia un numero sorprendentemente alto di oggetti indistinguibili a occhio nudo perché troppo freddi. A metà degli anni Sessanta ha diretto gli studi sulle immagini nelle missioni Mariner 4, 6 e 7 che il Jet Propulsion Laboratory ha inviato verso Marte. Nello stesso laboratorio, Leighton ha dato un contributo decisivo alla creazione del primo sistema di televisione digitale nello spazio profondo, e ha partecipato alle prime ricerche sull’elaborazione e il miglioramento delle immagini. Negli anni Settanta Leighton è passato a occuparsi dello sviluppo di antenne grandi ed economiche utilizzabili per l’interferometria millimetrica e l’astronomia submillimetrica. Una volta di più le sue spiccate doti sperimentali hanno aperto un nuovo campo di ricerca, tuttora attivamente studiato con vari telescopi, come l’Owens Valley Radio Observatory in California e l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA) in Cile. Robert Leighton è morto il 9 marzo 1997 a Pasadena, in California.
Matthew Sands Matthew Sands è nato nel 1919 a Oxford, nel Massachusetts; ha conseguito il Bachelor of Arts alla Clark University nel 1940 e il Master of Arts alla Rice University nel 1941. Durante la Seconda guerra mondiale ha partecipato al Progetto Manhattan, a Los Alamos, occupandosi di elet-
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tronica e strumentazione. Dopo la guerra ha contribuito a fondare la Los Alamos Federation of Atomic Scientists, che si opponeva a usi ulteriori delle armi nucleari. Nello stesso periodo ha conseguito il dottorato al MIT, studiando i raggi cosmici sotto la direzione di Bruno Rossi. Nel 1950 il Caltech ha assunto Sands perché partecipasse alla costruzione di un elettrosincrotrone da 1,5 GeV e ne seguisse il funzionamento. Sands è stato il primo a dimostrare, sul piano teorico e sperimentale, l’importanza degli effetti quantistici negli acceleratori di elettroni. Dal 1960 al 1966 Sands ha fatto parte della Commission on College Physics e ha supervisionato le riforme nel corso di laurea in fisica del Caltech sfociate nella creazione de La Fisica di Feynman. Nello stesso periodo è stato consulente sulle armi nucleari e il disarmo per il President’s Science Advisory Committee, la Arms Control and Disarmament Agency e il Department of Defense. Nel 1963 Sands è diventato vicedirettore per la costruzione e la gestione dello Stanford Linear Accelerator, al laboratorio SLAC, dove si è anche occupato del collisionatore da 3 GeV, Stanford Positron Electron Asymmetric Rings (SPEAR). Dal 1969 al 1985 Sands è stato professore di fisica alla University of California a Santa Cruz, di cui è anche stato Vice Chancellor for Science dal 1969 al 1972. Nel 1972 l’American Association of Physics Teachers gli ha conferito il Distinguished Service Award. Ha continuato a occuparsi di ricerca con gli acceleratori di particelle anche da professore emerito, fino al 1994. Nel 1998 la American Physical Society ha conferito a Sands il Robert R. Wilson Prize «per i suoi vari contributi alla fisica degli acceleratori e allo sviluppo di collisionatori a protoni e a elettronipositroni». Negli anni della pensione Sands ha seguito insegnanti di scienze delle scuole primarie e secondarie di Santa Cruz, aiutandoli a creare attività didattiche in laboratorio e al computer. Ha inoltre curato la pubblicazione dei Consigli per risolvere i problemi di fisica, cui ha partecipato nell’Edizione completa de La Fisica di Feynman. Matthew Sands è morto il 13 settembre 2014 a Santa Cruz, in California.
Prefazione a La Fisica di Feynman - Edizione Millennium
È passato quasi mezzo secolo da quando Feynman ha tenuto al Caltech il corso di fisica generale da cui sono stati tratti i tre volumi de La Fisica di Feynman. In questi cinque decenni la nostra concezione del mondo fisico ha fatto enormi progressi, ma La Fisica di Feynman non ha perso di attualità. Grazie agli straordinari metodi didattici e all’intuito fisico di Feynman, le sue lezioni non hanno perso il loro smalto dall’epoca della prima edizione. Principianti ed esperti di fisica le studiano in tutto il mondo; se ne contano almeno una decina di traduzioni, e nella sola lingua inglese ne sono state stampate oltre un milione e mezzo di copie. È forse l’unico testo di fisica ad aver avuto una risonanza tanto vasta e duratura. Con l’Edizione Millennium, La Fisica di Feynman entra nell’era dell’editoria elettronica. Grazie alle nuove tecnologie, il testo e le equazioni sono stati espressi in LaTeX, linguaggio elettronico di composizione tipografica, e tutte le figure sono state ricreate con moderni programmi di grafica. La versione a stampa di questa edizione non ne esce stravolta: è quasi identica agli originali volumi rossi ben noti agli studenti di fisica e apprezzati da decenni. Le differenze principali risiedono nell’ampliamento e miglioramento dell’indice analitico, nella correzione di 885 errori scovati dai lettori nei cinque anni seguenti alla prima ristampa dell’edizione precedente, e nella facilità con cui si potranno apportare correzioni eventualmente segnalate dai lettori futuri. Ne riparlerò più avanti.
Ricordi delle lezioni di Feynman I tre volumi de La Fisica di Feynman sono un vero e proprio trattato di didattica. Sono anche una documentazione storica delle lezioni di fisica generale tenute da Feynman nel 1961-1964, obbligatorie per gli studenti dei primi due anni di tutte le facoltà scientifiche del Caltech. Mi sono sempre chiesto, e forse anche i lettori, che effetto abbiano avuto le lezioni di Feynman sugli studenti che le hanno frequentate. Nella sua Introduzio-
ne a questi volumi, Feynman era piuttosto pessimista: «non credo che il mio corso abbia avuto molto successo con gli studenti». Matthew Sands, nella sua rievocazione in Consigli per risolvere i problemi di fisica, esprime un parere assai più positivo. Per curiosità, nella primavera del 2005 ho contattato a voce o per e-mail un insieme quasi casuale di diciassette studenti che hanno seguito il corso di Feynman negli anni 1961-63 (tra i circa centocinquanta originari), includendone alcuni che l’avevano trovato molto difficile, e altri che l’avevano assimilato senza problemi; studenti di biologia, chimica, ingegneria, geologia, matematica e astronomia, oltre che di fisica. I ricordi sono forse diventati più rosei col passare degli anni, ma per circa l’80% degli studenti le lezioni di Feynman sono state il clou degli anni universitari. «Era come andare a messa». «Ne uscivi cambiato», era «un’esperienza unica, forse la cosa più importante che mi ha dato il Caltech». «Studiavo biologia, ma le lezioni di Feynman svettavano su tutti gli altri corsi [...] anche se devo ammettere che all’epoca non riuscivo a risolvere gli esercizi e non li consegnavo quasi mai». «Ero tra gli studenti meno promettenti del corso, ma non ho mai fatto un’assenza. [...] Ricordo bene l’entusiasmo della scoperta trasmesso da Feynman e posso riviverlo ancora oggi. [...] Nelle sue lezioni c’era un [...] coinvolgimento emotivo che probabilmente è andato perso nella versione stampata». Al contrario, molti studenti hanno ricordi negativi, soprattutto per due ragioni: (1) «Le lezioni non insegnavano a risolvere i problemi. Feynman era troppo abile. Conosceva diversi trucchi e le approssimazioni utilizzabili, rispetto ai principianti poteva avvantaggiarsi di un intuito basato sulla sua esperienza e genialità». Consci di questa lacuna del corso, Feynman e colleghi vi hanno parzialmente rimediato con il materiale incluso nei Consigli per risolvere i problemi di fisica: tre lezioni di Feynman sulla risoluzione di problemi e un insieme di esercizi completi di soluzione compilato da Robert B. Leighton e Rochus Vogt. (2) «C’erano aspetti molto frustranti: l’incertezza sul probabile argomento della lezione seguente, la mancanza di un libro di testo o di una bibliografia in qual-
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Prefazione a La Fisica di Feynman - Edizione Millennium
che modo collegata a quanto visto a lezione, e quindi l’impossibilità di leggere qualcosa in anticipo. [...] In aula trovavo le lezioni interessanti e comprensibili, ma diventavano sanscrito una volta fuori [quando cercavo di ricostruirne i dettagli]». Questo problema, naturalmente, è stato risolto grazie ai tre volumi della versione stampata de La Fisica di Feynman. Sono poi diventati il libro di testo degli studenti del Caltech per molti anni e a oggi rimangono una delle maggiori eredità di Feynman.
Storia delle correzioni La Fisica di Feynman è stata prodotta molto rapidamente da Feynman e dai suoi coautori, Robert B. Leighton e Matthew Sands, che hanno sfruttato e poi ampliato le registrazioni audio e le foto della lavagna realizzate durante le lezioni di Feynman(1). Data la velocità a cui hanno lavorato Feynman, Leighton e Sands, era inevitabile che nella prima edizione fossero sfuggiti molti errori. Negli anni seguenti Feynman aveva accumulato lunghe liste di presunti errori, scovati dagli studenti e dai professori del Caltech e dai lettori di tutto il mondo. Negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta Feynman ha sottratto del tempo alle sue molteplici attività per controllare gran parte degli errori presunti nei volumi I e II e correggerli nelle edizioni seguenti. Ma poiché il suo senso del dovere ha avuto la peggio rispetto all’eccitazione di fare nuove scoperte, Feynman non è mai arrivato a rivedere gli errori del volume III(2). Dopo la sua morte prematura, nel 1988, alcune liste di errori in tutti e tre i volumi sono state depositate negli archivi del Caltech e completamente dimenticate. Nel 2002, Ralph Leighton (figlio di Robert Leighton, ormai deceduto, e grande amico di Feynman) mi ha informato dell’esistenza dei vecchi errori e di una nuova lunga lista stilata dal suo amico Michael Gottlieb. Leighton ha proposto che il Caltech pubblicasse una nuova edizione de La Fisica di Feynman, correggendo tutti gli errori e accompagnandola a un nuovo volume di materiale supplementare, Consigli per risolvere i problemi di fisica, che stava preparando insieme a Gottlieb. (1)
Per una descrizione della genesi delle lezioni di Feynman e de La Fisica di Feynman, si vedano la prefazione di Feynman e le introduzioni a ciascun volume, la rievocazione di Matthew Sands nei Consigli per risolvere i problemi di fisica, e anche la prefazione speciale all’Edizione commemorativa de La Fisica di Feynman, scritta nel 1989 da David Goodstein e Gerry Neugebauer e inclusa anche nell’Edizione completa del 2005.
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Nel 1975 ha iniziato a rivedere gli errori del terzo volume, ma preso da altri impegni ha lasciato la cosa a metà, senza apportare correzioni.
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Feynman era il mio eroe e uno dei miei amici più cari. Quando ho visto la lista di errori e l’indice del nuovo volume proposto, ho subito accettato di dirigere il progetto per conto del Caltech (la patria accademica di Feynman per tanti anni, cui aveva ceduto tutti i diritti e gli obblighi per La Fisica di Feynman, congiuntamente a Leighton e Sands). Dopo un anno e mezzo di lavoro meticoloso da parte di Gottlieb, e una revisione minuziosa di Michael Hartl (un brillante ricercatore post-dottorato del Caltech che ha ricontrollato tutti gli errori e il nuovo volume), nel 2005 è uscita l’Edizione completa de La Fisica di Feynman, dove erano stati corretti circa 200 errori, accompagnata dai Consigli per risolvere i problemi di fisica di Feynman, Gottlieb e Leighton. Credevo proprio che quell’edizione sarebbe stata definitiva. Ma non avevo previsto la reazione entusiasta dei lettori di tutto il mondo all’appello di Gottlieb a scovare altri errori e segnalarli al sito che Gottlieb ha creato e continua a curare, The Feynman Lectures Website, www.feynmanlectures.info. Nei cinque anni successivi, sono stati segnalati 965 nuovi errori che sono sopravvissuti alla verifica scrupolosa di Gottlieb, Hartl e Nate Bode (un brillante studente di dottorato del Caltech, che ha preso il posto di Hartl nella verifica degli errori per conto del Caltech). Di questi 965 errori assodati, 80 sono stati corretti nella quarta ristampa della versione originale dell’Edizione completa (agosto 2006) e i restanti 885 sono stati corretti nella prima ristampa della nuova Edizione Millennium (332 nel volume I, 263 nel volume II e 200 nel volume III). Per maggiori informazioni sugli errori, si veda www.feynmanlectures.info. La ripulitura de La Fisica di Feynman dagli errori è chiaramente diventata un’impresa globale, seguita da una vasta comunità di appassionati. A nome del Caltech vorrei ringraziare i cinquanta lettori che hanno dato il proprio contributo dal 2005 a oggi, e i molti altri che lo faranno in futuro. Tutti i nomi sono elencati al seguente indirizzo: www.feynmanlectures.info/flp_errata.html. La stragrande maggioranza degli errori rientra in tre categorie: (1) refusi nel testo; (2) refusi ed errori matematici nelle equazioni, tabelle e figure – errori di segno o cifre sbagliate (per esempio un 5 al posto di un 4), elementi mancanti come pedici, segni di sommatoria, parentesi e termini nelle equazioni; (3) riferimenti sbagliati a capitoli, tabelle e figure. Errori di questo genere, benché non particolarmente gravi per i fisici esperti, possono frustrare e confondere i lettori principali cui Feynman aveva destinato il libro: gli studenti. È notevole che, tra tutti e 1165 gli errori corretti sotto la mia supervisione, quelli che considererei veri e propri errori di fisica siano soltanto una manciata. Un esempio si trova nel paragrafo 5.10 del volume II, dove ora è scritto «[...] distribuzioni statiche di cariche all’interno di un conduttore chiuso messo a terra non possono pro-
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Prefazione a La Fisica di Feynman, Edizione Millennium
durre alcun campo [elettrico] all’esterno» (nelle edizioni precedenti mancava la precisazione «messo a terra»). Feynman ha ricevuto la segnalazione di questo errore da vari lettori, fra cui Beulah Elizabeth Cox, studentessa all’università The College of William and Mary, che in un esame aveva fatto affidamento sulla frase sbagliata di Feynman. Nel 1975 Feynman ha scritto a Cox(3): «il suo professore ha ragione a non darle punti, perché la sua risposta è sbagliata – come le ha dimostrato con il teorema di Gauss. Nella scienza bisogna credere alla logica e al ragionamento, non all’autorità. Lei ha quindi letto e inteso il libro correttamente. Io ho commesso un errore; in altre parole, il libro è sbagliato. Probabilmente stavo pensando al caso di una sfera conduttrice messa a terra, o forse al fatto che spostare le cariche in posizioni differenti all’interno di un conduttore non ha alcun effetto su ciò che accade all’esterno. Non so bene come mai, ma ho preso una cantonata; e l’ha presa anche lei, perché mi ha creduto».
Genesi della nuova Edizione Millennium Tra il novembre del 2005 e il luglio del 2006, il sito The Feynman Lectures Website (www.feynmanlectures.info) ha ricevuto 340 segnalazioni di errori. La cosa notevole è che in gran parte provenivano da una persona sola: Rudolf Pfeiffer, all’epoca ricercatore post-dottorato in fisica all’università di Vienna. L’editore, Addison Wesley, ha corretto 80 errori ma esitava a procedere per via dei costi: i libri erano stampati in fotolitografia, a partire da immagini fotografiche delle pagine risalenti agli anni Sessanta. Per correggere un errore occorreva rifare la composizione tipografica dell’intera pagina; per evitare l’introduzione di errori nuovi, la pagina veniva ricomposta due volte da persone diverse, poi confrontata e rivista da altri: un sistema davvero costoso, se gli errori da correggere sono centinaia. Gottlieb, Pfeiffer e Ralph Leighton, frustrati dalla situazione, hanno ideato un progetto per facilitare la correzione di tutti gli errori, mirato anche alla produzione di versioni elettroniche de La Fisica di Feynman. Nel 2007 hanno sottoposto la loro idea a me, in quanto rappresentante del Caltech. Ero entusiasta, ma esitante. Dopo aver visto ulteriori dettagli, tra cui un capitolo di prova della versione elettronica, ho consigliato al Caltech di coadiuvare Gottlieb, Pfeiffer e Leighton nella realizzazione pratica della loro idea. Il progetto è stato approvato da tre successivi direttori della Division of Physics, Mathematics and Astro(3)
Deviazioni perfettamente ragionevoli dalle vie battute: le lettere di Richard Feynman, a cura di Michelle Feynman, traduzione di Franco Ligabue (Adelphi, Milano, 2006), p. 244.
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nomy del Caltech – Tom Tombrello, Andrew Lange e Tom Soifer – e i complessi dettagli legali e contrattuali sono stati chiariti dal consigliere del Caltech per la proprietà intellettuale, Adam Cochran. Con la pubblicazione di questa nuova Edizione Millennium, il progetto è stato realizzato con successo, malgrado la sua complessità. Più di preciso: Pfeiffer e Gottlieb hanno convertito in LaTeX tutti e tre i volumi de La Fisica di Feynman. Le figure sono state ridisegnate in moderna forma elettronica in India, sotto la guida del traduttore tedesco de La Fisica di Feynman, Henning Heinze, a beneficio dell’edizione tedesca. Gottlieb e Pfeiffer hanno concesso l’uso non esclusivo delle loro equazioni in LaTeX nella versione tedesca (pubblicata da Oldenbourg) in cambio dell’uso non esclusivo delle figure di Heinze nella versione inglese dell’Edizione Millennium. Pfeiffer e Gottlieb hanno controllato scrupolosamente tutto il testo e le equazioni in LaTeX e tutte le figure ridisegnate, apportando le correzioni necessarie. Per conto del Caltech, io e Nate Bode abbiamo fatto controlli a campione sul testo, le equazioni e le figure; siamo stati piacevolmente sorpresi di non trovare alcun errore. Pfeiffer e Gottlieb sono stati di una precisione e accuratezza incredibili. Pfeiffer e Gottlieb hanno incaricato John Sullivan della Huntington Library di digitalizzare le foto della lavagna delle lezioni di Feynman del 1962-64, e la George Blood Audio di digitalizzare le registrazioni delle letture – con l’incoraggiamento e il sostegno finanziario di Carver Mead, professore del Caltech, l’assistenza logistica di Shelley Erwin, archivista del Caltech, e l’assistenza legale di Cochran. Le questioni legali non erano di poco conto: il Caltech aveva autorizzato Addison Wesley a pubblicare l’edizione stampata negli anni Sessanta, la versione audio delle lezioni di Feynman e una variante di un’edizione elettronica negli anni Novanta. All’inizio del nuovo millennio, tramite una serie di acquisizioni, i diritti per la stampa erano stati trasferiti al gruppo editoriale Pearson, mentre quelli per le versioni audio ed elettronica erano stati trasferiti al gruppo editoriale Perseus. Cochran, con l’aiuto di Ike Williams, un legale specializzato nell’editoria, è riuscito a riunificare tutti questi diritti sotto l’egida di Perseus / Basic Books, rendendo possibile la nuova Edizione Millennium.
Ringraziamenti Desidero ringraziare a nome del Caltech le persone che hanno reso possibile l’Edizione Millennium. In particolare quelle che, come già accennato, hanno svolto un ruolo essenziale: Ralph Leighton, Michael Gottlieb, Tom Tombrello, Michael Hartl, Rudolf Pfeiffer, Henning Heinze, Adam Cochran, Carver Mead, Nate Bode,
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Prefazione a La Fisica di Feynman - Edizione Millennium
Shelley Erwin, Andrew Lange, Tom Soifer, Ike Williams e i cinquanta lettori che hanno inviato correzioni (elencati su www.feynmanlectures.info). Ringrazio anche Michelle Feynman (figlia di Richard Feynman) per i consigli e l’instancabile sostegno, Alan Rice del Caltech per i consigli e l’aiuto dietro le quinte, Stephan Puchegger e Calvin Jackson per aver consigliato e assistito Pfeiffer nella conversione de La Fisica di Feynman in LaTeX, Michael Figl, Manfred Smolik e Andreas Stangl per di-
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scussioni sulla correzione degli errori; infine, Perseus/ Basic Books e (per le edizioni precedenti) Addison Wesley. KIP S. THORNE Feynman Professor of Theoretical Physics, Emeritus California Institute of Technology
Ottobre 2010
Le risorse multimediali All’indirizzo online.universita.zanichelli.it / feynman sono disponibili i link per consultare il testo originale in lingua inglese messo a disposizione dal California Institute of Technology. Inoltre, chi acquista il libro può scaricare gratuitamente l’ebook, seguendo le istruzioni presenti nel sito sopra
indicato. L’ebook si legge con l’applicazione Booktab, che si scarica gratis da AppStore (sistemi operativi Apple) o da Google Play (sistemi operativi Android). Per accedere alle risorse protette è necessario registrarsi su myzanichelli.it inserendo la chiave di attivazione personale contenuta nel libro.
Prefazione alla prima edizione italiana
Il corso di lezioni di Feynman riscosse fin dal suo apparire numerosi giudizi positivi. Colpiva, nel libro, la freschezza del linguaggio, un linguaggio più «parlato» che «scritto», l’originalità dell’esposizione, ma soprattutto l’acume critico e la profondità con cui i diversi argomenti venivano presentati. Dal punto di vista didattico si trattava in molti casi di un modo nuovo e moderno di insegnare la fisica. Raramente, di fronte ad argomenti complessi, Feynman scende al compromesso di semplificare la materia, ma in generale, affronta le difficoltà, anche se con rara abilità riesce a farle sembrare più facili. Per il lettore privo di una buona conoscenza della lingua inglese, le difficoltà del linguaggio si aggiungono alle difficoltà di comprensione dei concetti esposti. Per questo
crediamo di aver fatto opera gradita ai lettori italiani accettando il non facile compito di traduzione. Il libro esce nell’edizione italiana in una versione bilingue, con testo originale a fronte (*). La traduzione è quindi necessariamente letterale, oltre il limite di eleganza e di scorrevolezza che una traduzione più libera avrebbe permesso. In questo modo crediamo di aver rispettato totalmente lo spirito con cui è stato scritto il libro, libro che riteniamo particolarmente utile per ampliare la preparazione di fisica generale, per il colloquio di cultura generale e per la preparazione di esami di concorso. E. CLEMENTEL, S. FOCARDI, L. MONARI Bologna, maggio 1968
Bibliografia italiana e siti web Freeman Dyson, Turbare l’universo, Bollati Boringhieri, Torino, 2010: è la bellissima autobiografia di questo geniale fisico-matematico inglese. In un capitolo di questo libro, magistrale dal punto di vista narrativo, viene raccontato come Feynman elaborò la teoria dei diagrammi, per la quale vinse il premio Nobel, attraverso la sua descrizione di uomo e di scienziato. Lawrence M. Krauss, L’uomo dei quanti. La vita e la scienza di Richard Feynman, Codice Edizioni, Torino, 2011: il ritratto originale ed emozionante dell’uomo che è diventato una vera e propria leggenda per un’intera generazione di scienziati. Volumi di Richard Feynman disponibili in edizione italiana
La legge fisica, Bollati Boringhieri, Torino, 1993: raccolta di conferenze su cosa è la fisica e come funziona. D.L. Goodstein, J.R. Goodstein, Il moto dei pianeti intorno al sole, Zanichelli, Bologna, 1997: raccolta delle lezioni in cui Feynman analizza le leggi del moto dei pianeti seguendo le orme di Newton e utilizzando solo strumenti geometrici semplici (fuori catalogo).
James Gleick, Genio, la vita e la scienza di Richard Feynman, Garzanti, Milano, 1994 e 1998: la più completa biografia finora pubblicata. Presenta una minuziosa ricerca delle fonti e un’accurata ricostruzione dell’ambiente in cui Feynman si trovò a vivere e a operare (fuori catalogo). Sei pezzi facili, Adelphi, Milano, 2000: raccolta di alcune introduzioni tratte dai primi capitoli de La Fisica di Feynman.
Il piacere di scoprire, Adelphi, Milano, 2002: una raccolta di saggi vari, tra i quali la relazione con cui Feynman dimostrò che il disastro dello Space Shuttle Challenger, nel 1986, fu causato da una semplice guarnizione di gomma. Sei pezzi meno facili, Adelphi, Milano, 2004: raccolta di altre introduzioni su argomenti di fisica quantistica. Deviazioni perfettamente ragionevoli dalle vie battute, Adelphi, Milano, 2006: una raccolta di lettere rese disponibili dalla figlia Michelle, con i destinatari più disparati: eminenti scienziati, ma anche ammiratori, studenti, gente comune. Lettere che confermano la leggendaria versatilità di Feynman e la sua anticonformistica vocazione dialettica. (*)
Per questa edizione, come indicato a pag. X, il testo inglese è disponibile tra le risorse multimediali.
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Prefazione alla prima edizione italiana
«Sta scherzando Mr. Feynman!» Vita e avventure di uno scienziato curioso, Zanichelli, Bologna, 2007: racconto di una vita piena di eventi incredibili, resi possibili da un impasto unico di acuta intelligenza, curiosità irrefrenabile, costante scetticismo e radicato umorismo. «Che t’importa di ciò che dice la gente?» Altre avventure di uno scienziato curioso, Zanichelli, Bologna, 2007: il testamento spirituale di Feynman, redatto, nel suo ultimo anno di vita, assieme all’amico Ralph Leighton. Il senso delle cose, Adelphi, Milano, 2010: raccolta di tre conferenze sulla natura della scienza, sui rapporti tra la scienza, la religione e la politica, e sull’impatto della scienza nella società. QED, la strana teoria della luce e della materia, Adelphi, Milano, 2010: raccolta di lezioni in cui, senza far uso della matematica, spiega la teoria quantistica dei campi. Un vero coup de theatre. Le battute memorabili di Feynman, Adelphi, Milano, 2017: idee, intuizioni, battute, riflessioni raccolte dalla figlia Michelle tra carte personali, registrazioni di conferenze, lezioni e interviste del padre, a testimonianza di un’insaziabile curiosità e di una intelligenza analitica giocosa e spietata.
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R.B. Leighton, M.L. Sands, La Fisica di Feynman, edizione completa, Zanichelli, Bologna, 2007. La raccolta delle Feynman Lectures on Physics, il cosiddetto Libro Rosso della fisica, già edita in Italia da Masson. Incredibile a dirsi, esiste in commercio anche la registrazione su CD del sonoro originale delle lezioni per poterle ascoltare dalla voce di Feynman. Per i più volenterosi segnaliamo: R. Feynman, A. Hibbs, Quantum Mechanics and Path Integrals, Mc Graw-Hill, New York, 1965: uno dei testi cardine della letteratura scientifica, solo per addetti ai lavori. www.caltech.edu È il sito del California Institute of Tech-
nology, l’università dove Feynman ha insegnato per decenni; la sua cattedra è attualmente ricoperta da Kip Thorne. Questo sito è ricchissimo di materiale su Feynman, e comprende anche una ricca sezione fotografica e le sue pubblicazioni scientifiche. www.feynman.com e www.richard-feynman.net Sono i
siti (quasi) ufficiali su Feynman creati da appassionati cultori del personaggio. Rappresentano la partenza ideale per ulteriori ricerche su Feynman, grazie anche al web ring a lui dedicato.
Introduzione di Feynman
Queste sono le lezioni di fisica che ho tenuto negli ultimi due anni agli studenti del secondo corso e alle matricole del Caltech (California Institute of Technology). Le lezioni naturalmente non sono ripetute parola per parola – sono state pubblicate, talvolta ampliando talvolta riassumendo l’argomento. Le lezioni formano soltanto una parte del corso completo. L’intero gruppo di 180 studenti si riuniva in una grande aula due volte la settimana per ascoltare queste lezioni, e poi si divideva in piccoli gruppi di 15 o 20 studenti nelle sezioni per le ripetizioni sotto la guida di un assistente. In più vi era una sessione di laboratorio una volta alla settimana. Lo scopo particolare che cercavamo di raggiungere con queste lezioni era di conservare l’interesse degli studenti più entusiasti e più svegli provenienti dalle scuole superiori e ammessi al Caltech. Essi hanno appreso quanto sia interessante ed eccitante la fisica – la teoria della relatività, la meccanica quantistica e altre idee moderne. Al termine dei due anni dei nostri precedenti corsi parecchi studenti si sentivano scoraggiati perché venivano loro presentate ben poche idee affascinanti. Essi dovevano studiare piani inclinati, elettrostatica e così via, e dopo due anni questo era proprio avvilente. Il problema era se si potesse o no fare un corso che salvasse lo studente più bravo e più interessato mantenendo il suo entusiasmo. Le presenti lezioni non intendono essere in alcun modo una rassegna, ma sono molto serie. Pensai di indirizzarle al migliore della classe e di fare in modo, se possibile, che persino lo studente più intelligente fosse incapace di comprendere completamente tutto il contenuto delle lezioni – suggerendo di applicare idee e concetti in varie direzioni estranee alla linea maestra di applicazione. Per questa ragione comunque ho cercato costantemente di rendere tutta l’esposizione la più esatta possibile, per mettere in rilievo ogni caso in cui equazioni e idee si adattavano al campo della fisica, e come – quando si fosse andati più a fondo – sarebbero state modificate le cose. Pensavo anche che per
questi studenti era importante indicare che cosa essi – se sufficientemente intelligenti – avrebbero dovuto essere in grado di dedurre da quanto già detto, e che cosa veniva introdotto come componente nuovo. Quando entravano in ballo nuove idee cercavo o di dedurle, se erano deducibili, oppure di spiegare che si trattava di una nuova idea che non aveva alcun rapporto con cose già imparate e che non si poteva dimostrare – ma semplicemente aggiungere. All’inizio di queste lezioni ho supposto che gli studenti conoscessero già dalla scuola superiore cose quali l’ottica geometrica, semplici concetti di chimica e così via. D’altronde non mi è parso che vi fosse una qualsiasi ragione di fare le lezioni con un determinato ordine, nel senso che non avrei potuto far menzione di qualcosa finché non fossi stato pronto a discuterla nei particolari. C’erano da fare cenni a molti argomenti senza una discussione completa. Queste discussioni più complete sarebbero venute in seguito, quando la preparazione fosse stata più avanzata. Esempi ne sono le discussioni sull’induttanza e sui livelli energetici, che vengono dapprima presentati in modo molto qualitativo e sono in seguito sviluppati più completamente. Nello stesso tempo in cui mi indirizzavo allo studente più attivo, volevo anche curarmi dello studente per il quale le impennate e le applicazioni collaterali sono semplicemente causa di disorientamento e dal quale non ci si può affatto aspettare che impari la maggior parte della materia della lezione. Per tale studente ho voluto che vi fosse almeno un nucleo centrale, o spina dorsale della materia, che egli potesse comprendere. Anche se non poteva capire tutto nella lezione avevo la speranza che non se ne sarebbe innervosito. Non mi aspettavo che capisse tutto, ma soltanto i lineamenti centrali e più diretti. Occorre naturalmente una certa intelligenza da parte sua per vedere quali siano i teoremi e le idee fondamentali, e quali siano le questioni secondarie e le applicazioni più avanzate che egli potrà capire soltanto negli anni seguenti.
XIV
Introduzione di Feynman
Nel presentare queste lezioni vi era una seria difficoltà. Nel modo in cui il corso veniva fatto, non vi era alcuna reazione degli studenti per indicare, a chi le presentava, se le lezioni venivano bene assimilate. Questa è indubbiamente una difficoltà molto seria, e io non so quanto buone in realtà fossero le lezioni stesse. L’intera cosa fu essenzialmente un esperimento. E se dovessi ripeterlo non lo rifarei allo stesso modo – spero di non doverlo ripetere! Penso tuttavia che l’esperimento si risolse – per quanto concerne la fisica – del tutto soddisfacentemente nel primo anno. Nel secondo anno io non fui altrettanto soddisfatto. Nella prima parte del corso, che tratta dell’elettricità e del magnetismo, non riuscii a trovare alcun modo realmente unico o diverso di presentarla – nessun modo che fosse particolarmente più eccitante del modo solito di presentazione. Così non penso di aver fatto molto nelle lezioni sull’elettricità e il magnetismo. Alla fine del secondo anno avevo pensato originariamente di proseguire, dopo l’elettricità e il magnetismo, facendo alcune lezioni in più sulle proprietà dei materiali, ma principalmente per parlare di cose quali i modi fondamentali, le soluzioni dell’equazione di diffusione, i sistemi vibranti, le funzioni ortogonali, ... sviluppando i primi stadi di quelli che comunemente sono detti «i metodi matematici della fisica». In retrospettiva penso che se dovessi rifare il corso tornerei all’idea originale. Ma poiché non era in progetto che io dovessi ripetere tali lezioni, fu suggerito che poteva essere una buona idea cercare di dare un’introduzione alla meccanica quantistica – cosa che il lettore troverà nel terzo volume. È perfettamente chiaro che gli studenti che vogliono specializzarsi in fisica possono attendere fino al terzo anno per la meccanica quantistica. D’altra parte si arguiva che parecchi degli studenti del corso studiano fisica come fondamento ai loro interessi primari in altri campi. E il modo solito di trattare la meccanica quantistica rende tale soggetto quasi inaccessibile per la grande maggioranza degli studenti, perché essi devono spendere tanto tempo per impararla. Eppure nelle sue applicazioni effettive – specialmente in quelle più complesse di ingegneria elettrotecnica e di chimica – l’intero meccanismo della trattazione mediante le equazioni differenziali non è in realtà usato. Così ho cercato di descrivere i princìpi della meccanica quantistica in un modo che non richiedesse che uno già conoscesse la matematica delle equazioni differenziali a derivate parziali. Anche per un fisico penso che sia una cosa interessante il presentare la meccanica quantistica così a rovescio – per diverse ragioni che risulteranno chiare dalle lezioni stesse. Tuttavia penso che l’esperimento, per quanto riguarda la meccanica quantistica, non sia stato un completo successo – in gran parte per il fatto che in realtà non ho avuto tempo sufficiente verso la fine (avrei dovuto avere, per esempio, tre o quattro lezioni in più per trattare con maggior completezza argomenti quali le bande di energia e la dipendenza spaziale delle ampiezze). Inoltre, non avevo mai presentato prima l’argomento in questo modo, per cui la mancanza di una risposta era partico-
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larmente grave. Credo ora che la meccanica quantistica debba essere presentata in un tempo successivo. Può darsi che un giorno abbia la possibilità di rifarla. Allora la farò bene. La mancanza di lezioni sul come risolvere i problemi dipende dal fatto che vi erano sezioni preposte a tale compito. Benché abbia svolto tre lezioni del primo anno su come risolvere i problemi, esse non sono incluse qui. Vi era anche una lezione sulla guida inerziale, che era certamente appropriata dopo la lezione sui sistemi rotanti, ma che è stata sfortunatamente omessa. La quinta e la sesta lezione sono in realtà dovute a Matthew Sands, essendo io fuori città. Il problema, naturalmente, è quanto bene sia riuscito questo esperimento. Il mio punto di vista – che però non sembra essere condiviso dalla maggior parte delle persone che hanno lavorato con gli studenti – è pessimista. lo non penso di aver fatto molto bene nei riguardi degli studenti. Se osservo come la maggioranza di loro ha affrontato i problemi agli esami, penso che il sistema abbia fallito. Naturalmente i miei amici mi sottolineano che vi erano una o due dozzine di studenti che – sorprendentemente – capirono quasi tutto in tutte le lezioni e che furono attivissimi nel lavorare col materiale e nell’affrontare parecchi punti con entusiasmo e interesse. Queste persone hanno ora, io credo, una preparazione di base di prima classe in fisica e sono, dopo tutto, quelli ai quali avevo cercato di indirizzarmi. Ma allora, «Il potere dell’insegnamento è raramente di molta efficacia tranne che in quelle felici situazioni dove è quasi superfluo» (Gibbons). Pure, non volevo lasciare indietro completamente alcuno studente come forse ho fatto. Penso che un modo di aiutare di più gli studenti sarebbe di dedicare un lavoro più intenso allo sviluppo di un insieme di problemi atti a illustrare alcune delle idee delle lezioni. I problemi offrono una buona opportunità di allargare la materia delle lezioni e di rendere più realistiche, più complete e più salde nella mente le idee che sono state esposte. Penso, tuttavia, che non esista alcuna soluzione a questo problema dell’istruzione oltre a quella di rendersi conto che il miglior insegnamento può essere realizzato soltanto quando vi sia un rapporto individuale e diretto fra uno studente e un buon insegnante – una situazione in cui lo studente discute le idee, riflette sulle cose, conversa sulle cose. È impossibile imparare molto, presenziando semplicemente a una lezione, o anche risolvendo semplicemente i problemi che vengono assegnati. Ma nei nostri tempi dobbiamo insegnare a un così gran numero di studenti che dobbiamo cercare di trovare un qualche surrogato della situazione ideale. Forse le mie lezioni possono dare un certo contributo. Forse in qualche piccolo posto dove vi siano docenti singoli per i singoli studenti, essi possono avere qualche ispirazione o qualche idea dalle lezioni. Forse essi si divertiranno meditandole – o proseguendo nello sviluppo di qualche idea.
RICHARD P. FEYNMAN Giugno 1963
Indice
1
Elettromagnetismo 1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 1.6
2
Calcolo differenziale dei campi vettoriali 2.1 2.2 2.3 2.4 2.5 2.6 2.7 2.8
3
Come capire la fisica Campi scalari e vettoriali: T e h Derivate dei campi. Il gradiente L’operatore � Operazioni con � L’equazione differenziale del flusso di calore Derivate seconde dei campi vettoriali Trabocchetti
Calcolo integrale dei vettori 3.1 3.2 3.3 3.4 3.5 3.6 3.7 3.8
4
Le forze elettriche Campi elettrici e magnetici Caratteristiche dei campi vettoriali Le leggi dell’elettromagnetismo Cosa sono i campi? L’elettromagnetismo nella scienza e nella tecnica
Integrali dei vettori. L’integrale di linea di �ƶ Il flusso di un campo vettoriale Il flusso uscente da un cubetto. Il teorema di Gauss Conduzione del calore. L’equazione di diffusione La circuitazione di un campo vettoriale La circuitazione intorno a un quadrato. Il teorema di Stokes Campi con rotore nullo e a divergenza nulla Riassunto
Elettrostatica 4.1 4.2 4.3 4.4 4.5 4.6 4.7 4.8
Statica Legge di Coulomb. Sovrapposizione degli effetti Potenziale elettrico E = –�ƴ Il flusso di E Legge di Gauss. La divergenza di E Campo di una sfera di carica Linee di campo e superfici equipotenziali
1 1 3 4 6 9 11 12 12 13 15 17 18 20 21 23 25 25 27 29 30 33 34 36 37 39 39 40 42 44 46 49 50 51
XVI
Indice
5
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Applicazioni della legge di Gauss 5.1 5.2 5.3 5.4 5.5 5.6 5.7 5.8 5.9 5.10
6
Il campo elettrico in varie circostanze (1) 6.1 6.2 6.3 6.4 6.5 6.6 6.7 6.8 6.9 6.10 6.11 6.12
7
Metodi per trovare il campo elettrostatico Campi bidimensionali. Funzioni di variabile complessa Oscillazioni nei plasmi Particelle colloidali in un elettrolita Il campo elettrostatico di una griglia
Energia elettrostatica 8.1 8.2 8.3 8.4 8.5 8.6
9
Equazioni per il potenziale elettrostatico Il dipolo elettrico Osservazioni sulle equazioni vettoriali Il potenziale del dipolo come un gradiente L’approssimazione dipolare per una distribuzione arbitraria I campi dovuti a conduttori carichi Il metodo delle immagini Una carica puntiforme vicino a un piano conduttore Una carica puntiforme vicino a una sfera conduttrice Condensatori a lastre parallele Scariche a potenziali elevati Il microscopio a emissione di campo
Il campo elettrico in varie circostanze (2) 7.1 7.2 7.3 7.4 7.5
8
L’elettrostatica è la legge di Gauss, più... Equilibrio in un campo elettrostatico Equilibrio in presenza di conduttori Stabilità degli atomi Il campo di una carica lineare Singola lamina carica e doppia lamina carica Sfera carica e guscio sferico carico Il campo di una carica puntiforme varia esattamente come 1/r2? I campi di un conduttore Il campo nella cavità di un conduttore
L’energia elettrostatica delle cariche. Sfera uniformemente carica L’energia elettrostatica di un condensatore. Forze su conduttori carichi L’energia elettrostatica di un cristallo ionico L’energia elettrostatica nei nuclei L’energia nel campo elettrostatico L’energia elettrostatica di una carica puntiforme
L’elettricità nell’atmosfera 9.1 9.2 9.3 9.4 9.5 9.6
Il gradiente del potenziale elettrico dell’atmosfera Correnti elettriche nell’atmosfera Origine delle correnti elettriche nell’atmosfera I temporali Il meccanismo della separazione delle cariche Il fulmine
53 53 53 54 55 55 56 57 58 61 62 64 64 65 67 68 70 71 72 73 74 76 77 78 80 80 81 84 86 89 91 91 92 95 97 100 103 105 105 106 108 109 112 115
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10 Dielettrici 10.1 10.2 10.3 10.4 10.5
La costante dielettrica Il vettore di polarizzazione P Le cariche di polarizzazione Le equazioni dell’elettrostatica in presenza di dielettrici Campi e forze in presenza di dielettrici
11 Dentro ai dielettrici 11.1 11.2 11.3 11.4 11.5 11.6 11.7
12
I dipoli molecolari La polarizzazione elettronica Molecole polari. Polarizzazione da orientazione I campi elettrici nelle cavità di un dielettrico La costante dielettrica dei liquidi. L’equazione di Clausius-Mossotti I dielettrici solidi Ferroelettricità. BaTiO3
118 118 119 120 123 124 127 127 127 130 132 133 134 135
Analogie con l’elettrostatica
139
12.1 Le stesse equazioni hanno le stesse soluzioni 12.2 Il flusso di calore. Una sorgente puntiforme vicina a un piano di separazione infinito 12.3 La membrana tesa 12.4 La diffusione dei neutroni. Una sorgente sferica uniforme in un mezzo omogeneo 12.5 Il flusso irrotazionale dei fluidi. Il flusso intorno a una sfera 12.6 L’illuminazione uniforme di un piano 12.7 La «fondamentale unità» della natura
139
13 Magnetostatica 13.1 13.2 13.3 13.4 13.5 13.6 13.7 13.8
Il campo magnetico La corrente elettrica. La conservazione della carica La forza magnetica su una corrente Il campo magnetico delle correnti stazionarie. La legge di Ampère Il campo magnetico di un filo diritto e di un solenoide. Correnti atomiche La relatività dei campi magnetici ed elettrici La trasformazione delle correnti e delle cariche Il principio di sovrapposizione. La regola della mano destra
14 Il campo magnetico in varie circostanze 14.1 14.2 14.3 14.4 14.5 14.6 14.7
Il potenziale vettore Il potenziale vettore dovuto a correnti note Un filo diritto Un solenoide lungo Il campo di una piccola spira. Il dipolo magnetico Il potenziale vettore di un circuito La legge di Biot e Savart
15 Il potenziale vettore 15.1 Le forze su una spira di corrente. Energia di un dipolo
140 143 145 148 151 152 154 154 154 156 156 158 160 165 166 168 168 171 172 173 175 177 177 179 179
XVII
XVIII
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15.2 15.3 15.4 15.5 15.6
Energia meccanica ed elettrica L’energia delle correnti costanti Confronto di B e A Il potenziale vettore e la meccanica quantistica Ciò che è vero in statica è sbagliato in dinamica
16 Correnti indotte 16.1 16.2 16.3 16.4
Motori e generatori Trasformatori e induttanze Le forze sulle correnti indotte Elettrotecnica
17 Le leggi dell’induzione 17.1 La fisica dell’induzione 17.2 Eccezioni alla «regola del flusso» 17.3 Accelerazione di particelle per mezzo di un campo elettrico indotto. Il betatrone 17.4 Un paradosso 17.5 Il generatore di corrente alternata 17.6 Induttanza mutua 17.7 Autoinduzione 17.8 Induttanza ed energia magnetica
18 Le equazioni di Maxwell 18.1 18.2 18.3 18.4 18.5 18.6
Equazioni di Maxwell Come funziona il nuovo termine Tutto sulla fisica classica Un campo che si propaga La velocità della luce Risoluzione delle equazioni di Maxwell. I potenziali e l’equazione delle onde
19 Il principio dell’azione minima 19.1 Una lezione speciale, quasi parola per parola 19.2 Una nota aggiunta dopo la lezione
20 Soluzioni delle equazioni di Maxwell nello spazio libero 20.1 20.2 20.3 20.4
Onde nello spazio libero; onde piane Onde tridimensionali L’immaginazione scientifica Onde sferiche
182 184 185 187 193 196 196 199 200 204 207 207 209 210 212 213 215 217 218 223 223 225 227 228 231 232 236 236 249 251 251 258 260 262
21 Soluzioni delle equazioni di Maxwell in presenza di correnti e cariche 21.1 21.2 21.3 21.4 21.5
La luce e le onde elettromagnetiche Onde sferiche generate da una sorgente puntiforme La soluzione generale delle equazioni di Maxwell I campi generati da un dipolo oscillante I potenziali di una carica in moto. La soluzione generale di Liénard e Wiechert
266 266 267 269 270 275
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21.6 I potenziali per una carica che si muove a velocità costante. La formula di Lorentz
22 Circuiti in CA 22.1 22.2 22.3 22.4 22.5 22.6 22.7 22.8
Impedenze Generatori Reti di elementi ideali. Regole di Kirchhoff Circuiti equivalenti Energia Una rete a scala Filtri Altri elementi circuitali
23 Cavità risonanti 23.1 23.2 23.3 23.4 23.5
Elementi circuitali reali Un condensatore alle alte frequenze Una cavità risonante I modi delle cavità Cavità e circuiti risonanti
24 Guide d’onda 24.1 24.2 24.3 24.4 24.5 24.6 24.7 24.8
La linea di trasmissione La guida d’onda rettangolare La frequenza di taglio La velocità delle onde guidate Osservazione di onde guidate Le guide d’onda come condutture Modi delle guide d’onda Un’altra maniera di considerare le onde guidate
277 280 280 284 286 289 290 292 293 297 299 299 300 304 307 309 311 311 314 317 318 319 320 322 323
25 L’elettrodinamica nella notazione relativistica
326
I quadrivettori Il prodotto scalare Il gradiente quadridimensionale L’elettrodinamica nella notazione quadridimensionale Il quadripotenziale di una carica in moto L’invarianza delle equazioni dell’elettrodinamica
326 328 331 334 334 335
25.1 25.2 25.3 25.4 25.5 25.6
26 Trasformazioni di Lorentz dei campi 26.1 26.2 26.3 26.4
Il quadripotenziale di una carica in moto I campi di una carica puntiforme a velocità costante Trasformazione relativistica dei campi Le equazioni del moto in notazione relativistica
27 Energia e impulso dei campi 27.1 27.2 27.3 27.4
Conservazione locale Conservazione dell’energia ed elettromagnetismo Densità e flusso d’energia nel campo elettromagnetico L’ambiguità dell’energia del campo
338 338 339 343 349 353 353 354 355 358
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27.5 Esempi di flusso d’energia 27.6 L’impulso del campo
359 362
28 Massa elettromagnetica
366
28.1 28.2 28.3 28.4 28.5 28.6
L’energia del campo di una carica puntiforme L’impulso del campo di una carica in moto La massa elettromagnetica La forza di un elettrone su sé stesso Tentativi di modificare la teoria di Maxwell Il campo delle forze nucleari
29 Il moto delle cariche nei campi elettrici e magnetici 29.1 29.2 29.3 29.4 29.5 29.6 29.7 29.8
Moto in un campo uniforme elettrico o magnetico Analisi secondo l’impulso Una lente elettrostatica Una lente magnetica Il microscopio elettronico Campi di guida negli acceleratori Focheggiamento a gradiente alternato Moto in campi elettrici e magnetici incrociati
30 La geometria interna dei cristalli 30.1 30.2 30.3 30.4 30.5 30.6 30.7 30.8 30.9
La geometria interna dei cristalli Legami chimici nei cristalli La crescita dei cristalli I reticoli cristallini Simmetrie in due dimensioni Simmetrie in tre dimensioni La resistenza meccanica dei metalli Dislocazioni e crescita dei cristalli Il modello cristallino di Bragg e Nye
31 Tensori
366 367 368 369 371 377 380 380 380 382 382 383 384 386 387 389 389 390 391 391 393 395 396 398 398 416
Il tensore della polarizzabilità Trasformazione delle componenti di un tensore L’ellissoide dell’energia Altri tensori. Il tensore d’inerzia Il prodotto vettoriale Il tensore degli sforzi Tensori di rango più elevato Il quadritensore dell’impulso elettromagnetico
416 418 419 422 423 424 427 428
32 L’indice di rifrazione dei materiali densi
431
31.1 31.2 31.3 31.4 31.5 31.6 31.7 31.8
32.1 32.2 32.3 32.4 32.5 32.6 32.7
La polarizzazione della materia Le equazioni di Maxwell in un dielettrico Onde in un dielettrico L’indice di rifrazione complesso L’indice di un miscuglio Onde nei metalli Approssimazioni per le basse e per le alte frequenze. Profondità di penetrazione e frequenza del plasma
431 433 435 438 439 441 442
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33 La riflessione sulle superfici 33.1 33.2 33.3 33.4 33.5 33.6
Riflessione e rifrazione della luce Onde nei materiali densi Le condizioni al contorno L’onda riflessa e l’onda trasmessa La riflessione sui metalli La riflessione totale interna
34 Il magnetismo della materia Diamagnetismo e paramagnetismo Momenti magnetici e momento angolare La precessione dei magneti atomici Il diamagnetismo Il teorema di Larmor La fisica classica non prevede né il diamagnetismo né il paramagnetismo 34.7 Il momento angolare nella meccanica quantistica 34.8 L’energia magnetica degli atomi 34.1 34.2 34.3 34.4 34.5 34.6
35 Paramagnetismo e risonanza magnetica 35.1 35.2 35.3 35.4 35.5 35.6
Stati magnetici quantizzati L’esperienza di Stern e Gerlach Il metodo di Rabi dei raggi molecolari Il paramagnetismo dei materiali in massa Il raffreddamento per smagnetizzazione adiabatica La risonanza magnetica nucleare
36 Ferromagnetismo 36.1 36.2 36.3 36.4 36.5 36.6
Le correnti di magnetizzazione Il campo H La curva di magnetizzazione Induttanze con nucleo di ferro Elettromagneti La magnetizzazione spontanea
37 Materiali magnetici 37.1 37.2 37.3 37.4 37.5
La comprensione del ferromagnetismo Proprietà termodinamiche La curva d’isteresi I materiali ferromagnetici Materiali magnetici particolari
38 Elasticità 38.1 38.2 38.3 38.4 38.5
La legge di Hooke Deformazioni uniformi L’asta sotto torsione. Onde di distorsione La trave inflessa L’inflessione laterale
445 445 446 449 452 457 458 461 461 463 464 465 466 468 469 471 473 473 475 476 479 482 483 486 486 491 492 493 495 497 503 503 507 508 512 514 517 517 519 522 525 528
XXI
XXII
Indice
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39 Materiali elastici 39.1 39.2 39.3 39.4 39.5
Il tensore delle deformazioni Il tensore dell’elasticità I moti di un corpo elastico Il comportamento non elastico Il calcolo delle costanti elastiche
40 Il flusso dell’acqua asciutta 40.1 40.2 40.3 40.4 40.5
L’idrostatica Le equazioni del moto Flusso stazionario. Teorema di Bernoulli La circuitazione Linee vorticose
41 Il flusso dell’acqua bagnata 41.1 41.2 41.3 41.4 41.5 41.6
La viscosità Il flusso viscoso Il numero di Reynolds Il flusso trasversale intorno a un cilindro circolare Il limite per la viscosità tendente a zero Il flusso di Couette
42 Spazio curvo 42.1 42.2 42.3 42.4 42.5 42.6 42.7 42.8 42.9
Spazi curvi in due dimensioni La curvatura nello spazio tridimensionale Il nostro spazio è curvo La geometria nello spazio-tempo La gravità e il principio di equivalenza La velocità degli orologi in un campo gravitazionale La curvatura dello spazio-tempo Il moto nello spazio-tempo curvo La teoria di Einstein della gravitazione
Indice analitico
531 531 534 536 540 541 546 546 547 551 555 556 559 559 562 563 565 567 568 571 571 576 577 578 579 579 582 583 585 587
Le risorse multimediali All’indirizzo online università zanichelli / feynman
sono disponibili i link per consultare il testo originale in lingua inglese messo a disposizione dal California Institute of Technology. Inoltre, chi acquista il libro può scaricare gratuitamente l’ebook, seguendo le istruzioni presenti nel sito sopra indicato. L’ebook si legge con l’applicazione Booktab, che si scarica gratis da AppStore (sistemi operativi Apple) o da Google Play (sistemi operativi Android). Per accedere alle risorse protette è necessario registrarsi su myzanichelli inserendo la chiave di attivazione personale contenuta nel libro.
1
Elettromagnetismo
1.1
Le forze elettriche
Pensate a una forza simile alla gravitazione, che vari essenzialmente come l’inverso del quadrato della distanza, ma che sia all’incirca un miliardo di miliardi di miliardi di miliardi di volte più forte. E con un’altra differenza: ci sono due specie di «materia», che possiamo chiamare positiva e negativa; ciascuna specie respinge la materia della stessa specie e attrae quella della specie opposta, a differenza della gravità, in cui si ha soltanto attrazione. Che cosa succederebbe? Dei corpuscoli positivi si respingerebbero fra loro con forze enormi e si spargerebbero in tutte le direzioni. Lo stesso farebbero dei corpuscoli negativi. Ma un miscuglio composto ugualmente di corpuscoli positivi e negativi si comporterebbe in modo del tutto diverso: i corpuscoli di segno opposto sarebbero costretti ad avvicinarsi sotto l’azione di enormi forze attrattive e il risultato finale sarebbe che le formidabili forze si compenserebbero quasi perfettamente col formarsi di una mescolanza fine e compatta di corpuscoli positivi e negativi. Fra due frazioni separate di una tale mescolanza non ci sarebbe praticamente alcuna attrazione né repulsione. Una tale forza esiste: è la forza elettrica e tutta la materia è una miscela di protoni positivi ed elettroni negativi che si attirano e si respingono con questa gran forza. Tuttavia la compensazione è così perfetta che stando accanto a un’altra persona voi non risentite alcuna forza. Eppure se ci fosse anche un piccolo difetto nella compensazione ve ne accorgereste subito. Se vi trovaste a un metro di distanza da un altro e ambedue aveste l’uno per cento in più di elettroni che di protoni, la forza di repulsione sarebbe incredibile. Quanto grande? Sufficiente per sollevare l’Empire State Building? No! Per sollevare il monte Everest? No! La repulsione sarebbe abbastanza grande per sollevare un «peso» uguale a quello dell’intera Terra! Con tali enormi forze così perfettamente bilanciate in quella intima miscela che è la materia, non è difficile capire come mai questa, tendendo a mantenere le sue cariche positive e negative nel più perfetto equilibrio, possa mostrare una grande rigidità e tenacia. L’Empire State Building, per esempio, compie per effetto del vento oscillazioni di soli 2,5 metri perché le forze elettriche mantengono ogni protone ed elettrone più o meno al suo posto. D’altra parte, se guardiamo alla materia a una scala abbastanza piccola da considerare soltanto pochi atomi per volta, qualunque minuta porzione di materia in generale non conterrà un ugual numero di cariche positive e negative e perciò ci saranno intense forze elettriche residue. Anche quando in due piccole porzioni vicine i numeri di cariche positive e negative si uguagliano, ci possono essere ancora intense forze elettriche, perché le forze fra le singole cariche variano come l’inverso del quadrato della distanza. Si può avere una forza complessiva non nulla se una delle cariche negative di una delle due porzioni è più vicina alle cariche positive che a quelle negative dell’altra porzione. Le forze attrattive possono in tal caso essere più grandi di quelle repulsive e quindi si può avere una complessiva attrazione fra due piccole porzioni, anche se queste sono prive di cariche non compensate. Le forze che tengono insieme ciascun atomo e le forze chimiche che tengono uniti gli atomi nelle molecole sono realmente forze elettriche che agiscono in regioni dove l’equilibrio delle cariche non è perfetto e dove le distanze sono molto piccole. Naturalmente sapete che negli atomi i protoni si trovano nel nucleo e gli elettroni ne stanno fuori. Potreste chiedervi: «se le forze elettriche sono tanto formidabili, perché protoni ed elettroni non finiscono tutti gli uni sugli altri? Se la loro mescolanza ha da essere intima, perché non
Ripasso: vol. 1, cap. 12, Caratteristiche della forza
Lettere greche minuscole e alcune maiuscole di uso corrente
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Capitolo 1 • Elettromagnetismo
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è ancora più intima?». La risposta si trova negli effetti quantistici. Se cerchiamo di confinare gli elettroni di un atomo in una regione molto vicina ai protoni, allora, in base al principio di indeterminazione, essi devono possedere una quantità di moto quadratica media che è tanto più grande quanto più cerchiamo di confinarli. È questo moto, imposto dalle leggi della meccanica quantistica, che impedisce all’attrazione elettrica di avvicinare le cariche oltre un certo limite. C’è un altro problema: «Che cosa fa sì che il nucleo rimanga unito?». In un nucleo ci sono diversi protoni, che sono tutti positivi. Perché la mutua repulsione non li costringe a separarsi? Il fatto è che nei nuclei ci sono oltre alle forze elettriche delle forze non elettriche, chiamate forze nucleari, che sono più grandi delle forze elettriche e quindi sono capaci di tenere insieme i protoni nonostante la repulsione elettrica. Le forze nucleari, tuttavia, hanno un raggio d’azione piccolo: la loro intensità decresce molto più rapidamente che 1/r 2 . E questo ha un’importante conseguenza. Se un nucleo contiene troppi protoni, diventa troppo grosso e non riesce più a stare unito. Un esempio è dato dall’uranio, con 92 protoni. Le forze nucleari agiscono principalmente fra ogni protone (o neutrone) e il suo vicino più prossimo, mentre le forze elettriche agiscono anche a distanze più grandi, creando una repulsione fra ogni protone e tutti gli altri protoni del nucleo. Più ci sono protoni in un nucleo e più forte è la repulsione elettrica, finché, come nel caso dell’uranio, l’equilibrio è così delicato che il nucleo è quasi pronto a disgregarsi per effetto della forza elettrica repulsiva. Se un simile nucleo viene «picchiato» leggermente (come si può fare inviandogli contro un neutrone lento) esso si rompe in due pezzi, ciascuno carico positivamente, e questi pezzi sono scagliati lontano l’uno dall’altro dalla mutua repulsione elettrica. L’energia che così si libera è l’energia della bomba atomica. Di solito questa energia viene chiamata «nucleare», ma in realtà è un’energia «elettrica» che si libera quando le forze elettriche hanno superato le forze attrattive nucleari. Possiamo infine domandare che cos’è che tiene insieme un elettrone carico negativamente (giacché esso non possiede forze nucleari). Dato che un elettrone è fatto tutto della medesima specie di sostanza, ogni sua parte dovrebbe respingere le altre parti: perché dunque non si disgrega? Ma avrà poi delle «parti» l’elettrone? Forse dovremmo dire che l’elettrone è soltanto un punto e che le forze elettriche agiscono solo fra cariche puntiformi diverse, così che l’elettrone non agisce su se stesso. Forse. Tutto quello che possiamo dire è che il problema di che cosa tiene insieme gli elettroni ha prodotto molte difficoltà nei tentativi di costruire una teoria completa dell’elettromagnetismo. Il problema non ha mai avuto soluzione. Sarà divertente discutere questo soggetto un po’ più da vicino in qualche capitolo successivo. Come si è visto, ci dobbiamo aspettare che ciò che determina la struttura dettagliata dei materiali e quindi le loro proprietà sia una combinazione di forze elettriche ed effetti quantomeccanici. Alcuni materiali sono duri, altri sono teneri. Alcuni sono «conduttori» dell’elettricità perché i loro elettroni sono liberi di muoversi nel loro seno; altri sono «isolanti» perché i loro elettroni sono legati strettamente ai singoli atomi. Vedremo più tardi come vengono fuori alcune di queste proprietà, ma questo è un argomento molto complicato e perciò cominceremo a considerare le sole forze elettriche, in circostanze semplici. Cominceremo, cioè, col trattare soltanto le leggi dell’elettricità, includendo il magnetismo, che è in realtà una parte del medesimo argomento di studio. Si è detto che la forza elettrica, a somiglianza della forza gravitazionale, decresce come l’inverso del quadrato della distanza fra le cariche. Questa relazione si chiama legge di Coulomb. Non è però esattamente verificata quando le cariche sono in movimento: le forze elettriche dipendono anche dal moto delle cariche, in una maniera complicata. Una parte della forza fra cariche in movimento la chiameremo forza magnetica. È realmente un particolare aspetto di un effetto elettrico: questa è la ragione per cui l’argomento di cui ci occupiamo si chiama «elettromagnetismo». C’è un principio generale importante che rende possibile trattare le forze elettromagnetiche in modo relativamente semplice. Sappiamo dall’esperienza che la forza che agisce su una data carica dipende soltanto da posizione, velocità ed entità della carica, indipendentemente da quante altre cariche possano essere presenti e dai loro moti. Possiamo scrivere per la forza F sulla carica q che si muove con la velocità v la formula F =q E+v⇥B
(1.1)
1.2 • Campi elettrici e magnetici
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E si chiama campo elettrico e B campo magnetico nel punto dove si trova la carica. La cosa importante è che questi due vettori riassumono l’effetto delle forze elettriche dovute a tutte le altre cariche dell’universo. I valori dipendono dal punto dove la carica si trova e possono cambiare col tempo. Inoltre, se sostituiamo la carica con un’altra, la forza sulla nuova carica risulta semplicemente proporzionale alla sua entità fintanto che tutte le rimanenti cariche dell’universo non cambiano le loro posizioni o i loro moti. (In realtà, naturalmente, ogni carica esercita forze su tutte le altre cariche presenti nelle vicinanze e può far sì che queste si spostino; perciò in certi casi i campi possono cambiare quando si sostituisce una carica con un’altra). Sappiamo dal vol. 1 come si ricava il moto di una particella conoscendo la forza che agisce su di essa. Si può combinare l’equazione del moto con l’equazione (1.1) ottenendo d * mv +=F =q E+v⇥B p dt , 1 v 2 /c2 -
(1.2)
In questo modo, possiamo determinare il moto, se E e B sono dati. Bisogna quindi conoscere come i campi E e B sono prodotti. Uno dei più importanti princìpi semplificatori riguardante il modo in cui i campi vengono prodotti è il seguente: supponiamo che un certo numero di cariche in moto in una certa maniera produca un campo E1 e che un altro sistema di cariche produca un campo E2 , quando agiscono separatamente. Se i due sistemi di cariche sono presenti nello stesso tempo (conservando le stesse posizioni e gli stessi movimenti che avevano quando si consideravano separatamente) allora il campo prodotto è semplicemente la somma E = E1 + E2
(1.3)
Questo fatto è chiamato principio di sovrapposizione dei campi. Esso vale anche per i campi magnetici. Questo principio significa che se conosciamo le leggi per il campo elettrico e quello magnetico prodotti da una singola carica che si muove in modo arbitrario, allora tutte le leggi dell’elettrodinamica sono complete. Se vogliamo conoscere la forza sulla carica A ci occorre soltanto calcolare i campi E e B prodotti dalle varie cariche B, C, D ecc., e poi sommare gli E e i B di tutte le cariche per trovare i campi E e B complessivi e per mezzo di questi le forze che agiscono sulla carica A. Se fosse risultato che il campo prodotto da una singola carica è semplice, questa sarebbe stata la maniera più chiara di descrivere le leggi dell’elettrodinamica. Abbiamo già dato una descrizione di tale legge (cap. 28 del vol. 1) ed essa, purtroppo, è piuttosto complicata. Si trova perciò che la forma nella quale le leggi dell’elettrodinamica sono più semplici non è quella che ci si potrebbe aspettare. Il dare una formula per la forza che una carica esercita su un’altra non è la via più semplice. È vero che quando le cariche sono immobili la forza è data dalla legge di Coulomb, che è semplice, ma quando si muovono, le relazioni risultano complicate, fra l’altro, da ritardi di tempo e da effetti di accelerazione. In conclusione, non è desiderabile presentare l’elettrodinamica soltanto per mezzo della legge di forza fra cariche: è più conveniente considerare un altro punto di vista, un punto di vista secondo il quale le leggi dell’elettrodinamica appaiono trattabili nel modo più facile.
1.2
Campi elettrici e magnetici
Per prima cosa dobbiamo ampliare alquanto le nostre idee sui vettori elettrico e magnetico, E e B. Abbiamo definito questi vettori per mezzo delle forze che sono subite da una carica. Ora vogliamo parlare dei campi elettrici e magnetici in un punto, anche quando non ci sono cariche. Intendiamo in effetti affermare che, dato che ci sono delle forze che «agiscono sulla» carica, deve esistere tuttavia «qualcosa» anche quando la carica è rimossa. Se una carica posta nel punto (x, y, z) al tempo t subisce la forza F data dall’equazione (1.1), noi associamo i vettori E e B al punto dello spazio (x, y, z). Possiamo pensare che E(x, y, z, t) e B(x, y, z, t) diano le forze che
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Capitolo 1 • Elettromagnetismo
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1.1 Un campo vettoriale si può rappresentare tracciando un sistema di frecce le cui grandezze e direzioni indicano i valori del campo vettoriale nei punti dai quali le frecce sono spiccate. FIGURA
1.2 Un campo vettoriale può essere rappresentato tracciando delle linee che sono tangenti alla direzione del campo vettoriale in ogni punto e prendendo la densità di queste linee proporzionale al modulo del campo. FIGURA
sarebbero risentite al tempo t da una carica posta in (x, y, z), con la condizione che la carica ivi posta non disturbi le posizioni o i moti di tutte le altre cariche che producono i campi. Seguendo questa idea, associamo a ogni punto (x, y, z) dello spazio due vettori, E e B, che possono variare col tempo. I campi elettrico e magnetico sono perciò considerati come funzioni vettoriali di x, y, z e t. Dato che ogni vettore è specificato mediante le sue componenti, ciascuno dei campi E(x, y, z, t) e B(x, y, z, t) rappresenta tre funzioni matematiche di x, y, z e t. È proprio perché E (oppure B) può essere specificato per ogni punto dello spazio che lo si chiama «campo». La temperatura, per esempio, è un campo, in questo caso un campo scalare, che possiamo esprimere con T(x, y, z, t). La temperatura potrebbe anche cambiare col tempo e allora diremmo che si tratta di un campo di temperatura dipendente dal tempo e scriveremmo T(x, y, z, t). Un altro esempio è il «campo di velocità» di un liquido che fluisce. Scriviamo v(x, y, z, t) per la velocità del liquido in ogni punto dello spazio, al tempo t. Si tratta di un campo vettoriale. Tornando ai campi elettromagnetici, benché siano prodotti dalle cariche secondo delle formule complicate, essi hanno la seguente importante caratteristica: le relazioni fra i valori dei campi in un punto e i valori in un punto vicino sono molto semplici. Mediante alcune di queste relazioni, nella forma di equazioni differenziali, possiamo descrivere i campi completamente. È per mezzo di tali equazioni che le leggi dell’elettrodinamica si scrivono nel modo più semplice. Si sono escogitati vari modi per aiutare la mente a visualizzare il comportamento dei campi. Il più corretto è anche il più astratto e consiste semplicemente nel considerare i campi come funzioni matematiche del punto e del tempo. Possiamo anche provare a farci un quadro mentale del campo disegnando in vari punti dello spazio dei vettori, ciascuno dei quali dà l’intensità e la direzione del campo in quei punti. Una simile rappresentazione è mostrata in FIGURA 1.1. Possiamo tuttavia far di più e disegnare delle linee che sono dovunque tangenti ai vettori, le quali per così dire seguono le frecce e registrano la direzione del campo. Così facendo perdiamo di vista la lunghezza del vettore, ma possiamo tener conto dell’intensità del campo disegnando le linee molto distanziate quando il campo è debole e molto vicine quando è forte. Si adotta la convenzione che il numero di linee per unità di area normale alle linee stesse deve essere proporzionale all’intensità del campo. Questa è naturalmente soltanto un’approssimazione e richiederà in generale che nuove linee nascano in certi punti perché il loro numero si mantenga proporzionale all’intensità del campo. Il campo della FIGURA 1.1 è rappresentato per mezzo delle linee di campo nella FIGURA 1.2.
1.3
Caratteristiche dei campi vettoriali
Ci sono due proprietà matematicamente importanti dei campi vettoriali delle quali faremo uso nella nostra esposizione delle leggi dell’elettricità dal punto di vista dei campi. Supponiamo di avere una superficie chiusa qualunque e domandiamoci se si perde «qualcosa» attraverso di essa: ossia se il campo possiede una qualità simile a un «efflusso».
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1.3 • Caratteristiche dei campi vettoriali
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Per esempio, nel caso di un campo di velocità potremmo domandarci se la velocità è sempre diretta all’infuori della superficie, o, più in generale, se esce più fluido (per unità di tempo) di quanto ne entri. Chiameremo «flusso della velocità» attraverso la superficie la quantità complessiva di fluido che esce dalla superficie. Il flusso attraverso un elemento di superficie uguaglia semplicemente la componente della velocità in direzione perpendicolare alla superficie moltiplicata per l’area dell’elemento. Per una superficie chiusa arbitraria il flusso uscente è dato dalla componente normale media (esterna) moltiplicata per l’area della superficie: flusso = componente normale media · area della superficie
Vettore
Componente del vettore perpendicolare alla superficie
(1.4)
Superficie
Nel caso di un campo elettrico, possiamo definire matematicamente qualcosa di analogo a un flusso uscente e lo chiameremo parimenti flusso. Naturalmente non si tratta di un flusso di sostanza, perché il campo elet1.3 Il flusso di un campo vettoriale attraverso trico non è la velocità di alcunché. Risulta tuttavia che quella grandezza FIGURA una superficie è definito come il valore medio matematica che è la componente normale media del campo ha ancora della componente normale del vettore moltiplicato per un utile significato. Parleremo dunque di flusso elettrico, definito ancora l’area della superficie. dall’equazione (1.4). Infine è utile parlare non soltanto del flusso attraverso una superficie completamente chiusa, ma anche attraverso una superficie limitata qualunque. Come prima, il flusso attraverso una tale superficie è definito come la componente normale media di un vettore moltiplicata per l’area della superficie. Queste idee sono illustrate nella FIGURA 1.3. C’è una seconda proprietà di un campo vettoriale che si riferisce a una linea, piuttosto che a una superficie. Supponiamo di nuovo di pensare a un campo di velocità che descrive il fluire di un liquido. Ci potremmo porre questa interessante domanda: il liquido sta circolando? Con questo vogliamo dire: c’è un movimento rotazionale netto intorno a un qualche cammino chiuso? Supponiamo di congelare istantaneamente il liquido dappertutto tranne che all’interno di un tubo di sezione uniforme che si chiude su se stesso, come in FIGURA 1.4. All’esterno del tubo il liquido cessa di muoversi, ma dentro il tubo può darsi che continui a muoversi a causa dell’impulso del liquido ivi rinchiuso, ossia, lo farà se c’è più impulso diretto in un senso che nel senso opposto. Definiremo una grandezza chiamata circuitazione prendendo il prodotto della velocità del liquido per il perimetro del tubo. Di nuovo, possiamo estendere le nostre idee e definire la «circuitazione» per qualsiasi campo vettoriale (anche quando non c’è nulla che si muove). Per qualunque campo vettoriale la circuitazione intorno a una curva chiusa arbitraria è definita come la componente tangenziale media del vettore (in un senso determinato) moltiplicata per il perimetro della curva chiusa (FIGURA 1.5): circuitazione = componente tangenziale media · perimetro della curva
(1.5)
Solido
Tubo
Liquido
1.4 (a) Il campo di velocità di un liquido. Immaginiamo un tubo a sezione normale costante che segue una curva chiusa arbitraria, come in (b). Se il liquido venisse improvvisamente congelato dappertutto tranne che all’interno del tubo, il liquido nel tubo circolerebbe come in (c). FIGURA
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Capitolo 1 • Elettromagnetismo
+ Direzione + + +
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Come vedete, questa definizione dà un numero che è proporzionale alla velocità di circuitazione nel tubo descritto sopra. Con queste due sole idee, flusso e circuitazione, siamo in grado di esporre subito tutte le leggi dell’elettricità e del magnetismo. All’inizio potrete non capire l’importanza di queste leggi, ma vi daranno qualche idea del modo in cui la fisica dell’elettromagnetismo sarà in definitiva esposta.
–
1.4 –
Le leggi dell’elettromagnetismo
–
Curva chiusa arbitraria
La prima legge dell’elettromagnetismo descrive il flusso del campo elettrico: flusso di E attraverso una superficie chiusa = FIGURA 1.5 La circuitazione di un campo vettoriale (1.6) carica totale all’interno è la componente tangenziale media del vettore = (in un senso determinato) moltiplicata per il perimetro ✏0 della curva chiusa. dove ✏ 0 è una costante opportuna. (La costante ✏ 0 si legge di solito «epsilon zero».) Se non ci sono cariche nell’interno della superficie, anche se ce ne sono in vicinanza ma fuori di essa, la componente normale media di E è zero, così che non c’è alcun flusso complessivo attraverso la superficie. Per mostrare la potenza di questo tipo di affermazione, possiamo far vedere che l’equazione (1.6) equivale alla legge di Coulomb, solo che vi si aggiunga l’idea che il campo di una singola carica è sfericamente simmetrico. Tracciamo una sfera intorno a una carica puntiforme. La componente normale media viene a essere semplicemente il modulo del vettore E in un punto qualunque, giacché il campo deve essere diretto radialmente e avere la stessa intensità in tutti i punti che si trovano sulla sfera. Di conseguenza la nostra regola dice che il campo sulla superficie della sfera moltiplicato per l’area della sfera, cioè il flusso uscente, è proporzionale alla carica che si trova nell’interno. Se facessimo crescere il raggio della sfera, l’area crescerebbe come il quadrato del raggio. La componente normale media del campo elettrico moltiplicata per quell’area deve però essere ancora uguale alla carica interna, che resta la stessa e pertanto il campo deve decrescere come il quadrato del raggio: otteniamo un campo che varia con una legge di «quadrato inverso». Se abbiamo nello spazio una curva arbitraria e misuriamo la circuitazione del campo elettrico intorno a tale curva, troveremo in generale che essa non è zero (benché lo sia per il campo coulombiano). Esiste invece una seconda legge che afferma: per ogni superficie S (non chiusa) avente per contorno la curva C si ha d flusso di B attraverso S (1.7) dt Possiamo completare le leggi del campo elettromagnetico scrivendo due corrispondenti equazioni per il campo magnetico B. E cioè circuitazione di E intorno a C =
flusso di B attraverso qualsiasi superficie chiusa = 0
(1.8)
E per una superficie S limitata dalla curva C: c2 · circuitazione di B intorno a C = =
d flusso della corrente elettrica attraverso S flusso di E attraverso S + dt ✏0
(1.9)
La costante c2 che appare nell’equazione (1.9) è il quadrato della velocità della luce. Vi appare perché il magnetismo è in realtà un effetto relativistico dell’elettricità. La costante ✏ 0 è stata inserita perché l’unità di corrente riuscisse adeguata. Le equazioni da (1.6) a (1.9) insieme con l’equazione (1.1) sono tutte le leggi dell’elettrodinamica(1) . Come ricorderete, le leggi di Newton furono molto semplici da formulare, ma ci volle (1)
Occorre aggiungere soltanto un’osservazione circa alcune convenzioni sul segno della circuitazione.
B (del magnete)
Linee di B dovute al filo
Al morsetto +
Al morsetto +
Corrente nel filo
F (sul filo) Al morsetto –
Corrente nel filo Al morsetto –
N
S
1.6 Il magnete produce un campo B nei punti del filo. Se questo è percorso da corrente, si muove a causa della forza F =qv ⇥B.
N F (sul magnete)
Sbarra magnetizzata
FIGURA
S
Sbarra magnetizzata
1.7 Il campo magnetico prodotto dalla corrente circolante nel filo interagisce col magnete, esercitando una forza su di esso. FIGURA
un lungo tempo per farsi un’idea di tutte le complicate conseguenze che da esse derivano. Le presenti leggi sono molto meno semplici da formulare e ciò vuol dire che le loro conseguenze saranno ancora più complesse, così che dovremo spendere un bel po’ di tempo per ricavarle tutte. Possiamo illustrare le leggi dell’elettrodinamica con una serie di piccole esperienze che mostrano qualitativamente le interrelazioni dei campi elettrici e magnetici. Vi siete resi conto del primo termine dell’equazione (1.1) nel pettinarvi, perciò non staremo a illustrarlo. La seconda parte dell’equazione (1.1) può essere messa in evidenza facendo passare la corrente per un filo sospeso in modo lasco sopra un magnete a sbarra, come mostra la FIGURA 1.6. Il filo si muove quando si manda la corrente, a causa della forza F = qv ⇥ B Quando esiste una corrente, le cariche nel filo si muovono: hanno perciò una velocità v e il campo magnetico esercita su di loro una forza che spinge il filo lateralmente. Quando il filo è spinto a sinistra ci aspettiamo che il magnete subisca una spinta verso destra. (Altrimenti potremmo porre il tutto su un carrello e avere un sistema di propulsione che non conserva la quantità di moto!(2) ). Benché la forza sia troppo piccola per rendere visibile il moto del nostro magnete, un magnete sospeso in maniera più sensibile, come per esempio un ago di bussola, può mettere in evidenza il movimento. Come fa il filo ad agire sul magnete? La corrente nel filo produce il suo proprio campo magnetico e questo applica forze al magnete. Conformemente all’ultimo termine dell’equazione (1.9), una corrente deve produrre una circuitazione di B: in questo caso le linee di B sono delle curve che si chiudono attorno al filo, come si vede in FIGURA 1.7. Questo campo B è la causa della forza sul magnete. L’equazione (1.9) ci dice che per una data corrente nel filo la circuitazione di B deve essere la stessa per qualsiasi curva che circonda il filo. Per curve, per esempio cerchi, che circondano il filo a distanze crescenti la circonferenza sarà più grande e perciò la componente tangenziale di B dovrà decrescere. Potete anzi capire che B dovrà decrescere linearmente con la distanza da un filo rettilineo molto lungo. Si è detto che una corrente che percorre un filo produce un campo magnetico e che dove c’è un campo magnetico si ha una forza su un filo che trasporta corrente. Perciò ci dobbiamo anche aspettare che il campo magnetico prodotto dalla corrente che percorre un filo eserciti una forza su (2)
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1.4 • Le leggi dell’elettromagnetismo
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«Quantità di moto» è la traduzione più precisa dell’inglese momentum. Tuttavia nel seguito, quando la brevità lo consigli, cercheremo anche noi di tradurre momentum con un singolo vocabolo, e cioè «impulso», benché a rigore questa parola indichi un concetto un po’ diverso. (N.d.T.)
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Capitolo 1 • Elettromagnetismo
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+ Corrente
B (dovuto alla bobina)
+
F (sul filo)
F 2
F
Al morsetto +
Corrente
Al morsetto –
1
Bobina
Corrente nella bobina
– –
1.8 Due fili che portano corrente esercitano forze l’uno sull’altro. Se le correnti sono equiverse i fili si attraggono, viceversa si respingono. FIGURA
1.9 Il magnete della FIGURA 1.6 può essere sostituito da una bobina percorsa da corrente. Sul filo agisce ancora una forza.
FIGURA
un altro filo anch’esso percorso da corrente. Questo si può mostrare adoperando due fili sospesi come si vede in FIGURA 1.8. Quando le correnti hanno la stessa direzione, i due fili si attraggono; si respingono invece quando le correnti sono opposte. In breve, tanto le correnti che i magneti producono campi magnetici. Ma, un momento! Che cos’è dopotutto un magnete? Se i campi magnetici sono prodotti da cariche che si muovono, non potrebbe darsi che il campo magnetico prodotto da un pezzo di ferro sia in realtà il risultato di correnti? Sembra che sia proprio così. Possiamo, nel nostro esperimento, sostituire la sbarra magnetizzata con una bobina, come mostra la FIGURA 1.9. Se si fa passare una corrente tanto nella bobina quanto nel filo che le sta sopra, osserviamo un moto del filo esattamente come prima, quando avevamo un magnete al posto della bobina. In altre parole, la corrente nella bobina imita un magnete. Sembra perciò che un pezzo di ferro agisca come se contenesse una corrente perpetuamente circolante. Si può effettivamente capire i magneti in termini di correnti permanenti che circolano negli atomi del ferro. La forza sul magnete in FIGURA 1.7 è perciò dovuta al secondo termine dell’equazione (1.1). Qual è l’origine di queste correnti? Una possibilità sarebbe data dal moto degli elettroni su orbite atomiche. Veramente, per il ferro non è questo il caso, benché lo sia per certi materiali. Oltre a muoversi di moto orbitale in un atomo, un elettrone ruota intorno a un suo proprio asse, qualcosa di simile alla rotazione della Terra, ed è la corrente dovuta a questa rotazione che dà il campo magnetico nel ferro. (Diciamo «qualcosa di simile alla rotazione della Terra» perché la questione è così profondamente attinente alla meccanica quantistica che le idee classiche non descrivono troppo bene le cose.) Nella maggioranza dei corpi, parte degli elettroni ruota in un senso e parte nel senso opposto, così che il magnetismo si annulla per compensazione, ma nel ferro, per una misteriosa ragione che discuteremo più avanti, molti degli elettroni ruotano coi loro assi allineati e questa è la sorgente del magnetismo. Siccome i campi dei magneti derivano da correnti, non c’è da aggiungere nessun termine in più all’equazione (1.8) o (1.9) per tener conto dei magneti. Basta considerare tutte le correnti, incluse le correnti dovute alla rotazione degli elettroni, perché la legge sia corretta. Dovreste anche notare che l’equazione (1.8) afferma che non ci sono «cariche» magnetiche analoghe alle cariche elettriche che appaiono nel secondo membro dell’equazione (1.6). Non se ne sono mai trovate. Il primo termine del secondo membro dell’equazione (1.9) fu scoperto teoricamente da Maxwell e ha una grande importanza. Esso dice che campi elettrici variabili producono effetti magnetici. Effettivamente, senza questo termine l’equazione non avrebbe senso, perché senza di esso non ci potrebbero essere correnti in circuiti che non sono chiusi. Tali correnti però esistono, come si può vedere dal seguente esempio. Immaginiamo un condensatore fatto di due lastre piane, che si sta caricando per effetto di una corrente che fluisce da una lastra all’altra, come mostra la FIGURA 1.10.
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1.5 • Cosa sono i campi?
Tracciamo una curva C intorno a uno dei fili e a essa appoggiamo una superficie che taglia il filo, come la superficie S1 in figura. Secondo B B l’equazione (1.9) la circuitazione di B intorno a C (moltiplicata per c2 ) è E data dalla corrente nel filo (divisa per ✏ 0 ). Cosa succede però se appoggiamo Corrente Corrente alla curva C un’altra superficie S2 che è fatta come una coppa e passa fra le lastre del condensatore tenendosi sempre a distanza del filo? Certamente B + non c’è nessuna corrente attraverso questa superficie. Ma, di sicuro, il B – cambiamento di posto di una superficie immaginaria non può cambiare un Curva C campo magnetico realmente esistente! La circuitazione di B deve rimanere Superficie S2 Superficie S1 la stessa. Il primo termine al secondo membro dell’equazione (1.9) coopera infatti col secondo termine per dare lo stesso risultato per le due superfici S1 e S2 . Per S2 la circuitazione di B è espressa per mezzo della velocità FIGURA 1.10 La circuitazione di B intorno curva C è data sia dalla corrente di variazione del flusso di E fra le lastre del condensatore. E si trova che alla che attraversa la superficie S1 , sia il campo elettrico variabile E è legato alla corrente proprio nel modo che dalla velocità di variazione del flusso di E ci vuole perché l’equazione (1.9) sia valida. Maxwell vide la necessità di attraverso la superficie S2 . questo e fu il primo a scrivere l’equazione completa. Col dispositivo indicato in FIGURA 1.6 possiamo illustrare un’altra delle leggi dell’elettromagnetismo. Stacchiamo dalla batteria i terminali del filo sospeso e colleghiamoli con un galvanometro che può dirci quando c’è una corrente nel filo. Osserviamo una tale corrente quando spingiamo il filo trasversalmente attraverso il campo magnetico. Tale effetto è semplicemente un’altra conseguenza dell’equazione (1.1): gli elettroni nel filo risentono una forza F = qv ⇥ B. Essi hanno una velocità trasversale perché si muovono col filo. Questa velocità v insieme col campo verticale B del magnete produce una forza sugli elettroni diretta lungo il filo, che li mette in moto verso il galvanometro. Supponiamo tuttavia di non toccare il filo e di muovere il magnete. La relatività ci suggerisce che ciò non dovrebbe produrre differenza e infatti osserviamo come prima una corrente nel galvanometro. Com’è che il campo magnetico produce delle forze su delle cariche in quiete? Secondo l’equazione (1.1) ciò vuol dire che ci deve essere un campo elettrico: un magnete che si muove deve produrre un campo elettrico. Come ciò avvenga è detto quantitativamente dall’equazione (1.7). Questa equazione descrive molti fenomeni di grande interesse pratico, come quelli che avvengono nei generatori e nei trasformatori elettrici. La più notevole conseguenza delle nostre equazioni è che la combinazione delle equazioni (1.7) e (1.9) contiene la spiegazione dell’irradiazione degli effetti elettromagnetici su grandi distanze. La ragione è all’incirca questa: supponiamo di avere in qualche punto un campo magnetico che sta aumentando perché, per esempio, una corrente è immessa improvvisamente in un filo. Allora, secondo l’equazione (1.7) ci deve essere una circuitazione di un campo elettrico. Mentre il campo elettrico cresce per dare la sua circuitazione, si produrrà, a norma dell’equazione (1.9), una circuitazione magnetica. Ma il costituirsi di questo campo magnetico produrrà una nuova circuitazione di campo elettrico e così via. In questo modo i campi riescono a propagarsi attraverso lo spazio senza bisogno di cariche o correnti, eccetto alla loro sorgente. Questo è il modo con cui noi ci vediamo l’un l’altro! Tutto è contenuto nelle equazioni dei campi elettromagnetici.
1.5
Cosa sono i campi?
Facciamo ora alcune osservazioni sul nostro modo di considerare il nostro tema. Forse state pensando: «Tutta questa faccenda di flussi e circolazioni è piuttosto astratta. Ci sono campi elettrici in ogni punto dello spazio, poi ci sono queste ‹leggi›. Ma che cos’è che effettivamente avviene? Perché non possiamo spiegarlo per mezzo di quello che realmente ha luogo, qualunque cosa sia, fra le cariche?». Ebbene, ciò dipende dai vostri pregiudizi. Molti fisici erano soliti dire che un’azione diretta senza nulla come intermediario era inconcepibile. (Come potevano trovare inconcepibile un’idea già concepita?) Essi dicevano: «Fate attenzione, le sole forze che conosciamo sono le azioni dirette di una porzione di materia su un’altra porzione. È impossibile che esista una forza senza nulla che la trasmette». Ma che cosa
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Capitolo 1 • Elettromagnetismo
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succede realmente se studiamo «l’azione diretta» di una porzione di materia a contatto immediato con un’altra? Scopriamo che il contatto immediato non esiste, perché le due porzioni sono sempre leggermente separate e ci sono invece delle forze elettriche agenti su scala minuscola. In questo modo troviamo che ci tocca spiegare la cosiddetta azione per contatto diretto nei termini della rappresentazione delle forze elettriche. Non è certamente sensato tentare d’insistere che una forza elettrica deve somigliare alla familiare spinta o trazione muscolare, quando poi risulterà che le spinte o trazioni muscolari bisogna interpretarle come forze elettriche! L’unica domanda sensata è quale sia la maniera più comoda di considerare gli effetti elettrici. Alcuni preferiscono rappresentarli come interazioni a distanza di cariche, usando una legge complicata. Altri sono affezionati alle linee di campo e disegnano linee di campo in ogni circostanza, sembrando loro che scrivere vettori E e B sia troppo astratto. Le linee di campo, tuttavia, sono soltanto un modo grossolano di descrivere il campo ed è molto difficile dare le leggi quantitative corrette direttamente per mezzo di linee di campo. Inoltre l’idea delle linee di campo non contiene il principio più profondo dell’elettrodinamica, cioè il principio di sovrapposizione. Anche se conosciamo l’aspetto delle linee di campo per due sistemi di cariche separatamente, questo non ci dà nessuna idea di quella che sarà la configurazione delle linee di campo quando i due sistemi sono presenti insieme. Adoperando il punto di vista matematico, d’altra parte, la sovrapposizione è facile: si tratta semplicemente di sommare due vettori. Le linee di campo hanno qualche vantaggio in quanto danno una rappresentazione vivida, ma hanno anche degli svantaggi. Il modo di pensare basato sulle interazioni dirette è molto vantaggioso quando ci si riferisce a cariche elettriche in quiete, ma ha grandi svantaggi quando si devono trattare cariche in rapido movimento. La via migliore è quella di usare l’idea del campo astratto; che sia astratto è una sfortuna, ma è una cosa necessaria. I tentativi di rappresentare il campo elettrico come movimento di qualche sorta di ruote dentate oppure in termini di linee, o di tensioni in qualche sorta di materiale, sono costati ai fisici più sforzi di quelli che ci sarebbero voluti per ottenere semplicemente le risposte corrette dei problemi elettrodinamici. È interessante ricordare che le equazioni corrette per il comportamento della luce nei cristalli furono elaborate da MacCullagh nel 1843. Gli altri però gli dicevano: «Sì, ma non esiste nessun materiale le cui proprietà meccaniche possano soddisfare codeste equazioni e siccome la luce è un’oscillazione che deve aver luogo in qualcosa, non possiamo aver fiducia in codesta faccenda fondata su equazioni astratte». Se i fisici avessero avuto una mente più aperta, avrebbero potuto affidarsi con un bel po’ di anticipo alle equazioni corrette per il comportamento della luce. Nel caso del campo magnetico possiamo argomentare come segue. Supponiamo di esser finalmente riusciti a costruire una rappresentazione del campo per mezzo di linee oppure di ruote dentate che si muovono attraverso lo spazio. Tentiamo allora di spiegare che cosa succede a due cariche che si muovono tutte e due con la stessa velocità e parallelamente. Siccome si muovono, si comporteranno come due correnti e quindi avranno un campo magnetico associato (come le correnti nei fili della FIGURA 1.8). Un osservatore che viaggiasse insieme alle cariche, però, le considererebbe stazionarie e direbbe che non c’è campo magnetico. Le «ruote dentate» o le «linee» spariscono, dunque, quando ci si muove insieme all’oggetto! Tutto quello che abbiamo fatto è inventare un nuovo problema: come possono sparire le ruote dentate? Quelli che tracciano linee di campo, si trovano in analoghe difficoltà. Non soltanto non è possibile dire se le linee del campo si muovono o non si muovono insieme alle cariche: esse possono sparire del tutto in certi sistemi di riferimento. Tutto ciò equivale a dire che il magnetismo è realmente un effetto relativistico. Nel caso delle due cariche ora considerate che viaggiano parallelamente l’una all’altra, ci si aspetta di dover fare delle correzioni relativistiche al loro moto, mediante termini dell’ordine di v 2 /c2 . Queste correzioni devono corrispondere alla forza magnetica. Cosa si può dire però sulla forza fra i due fili nell’esperienza in FIGURA 1.8? In questo caso la forza magnetica è l’intera forza: non ha l’aspetto di una «correzione relativistica». Inoltre, se stimiamo la velocità degli elettroni nel filo (lo potete fare voi stessi) troviamo che la loro velocità media lungo il filo è circa 0,01 cm/s. Perciò v 2 /c2 è circa 10 25 , certo una correzione trascurabile. Eppure no! Benché la forza magnetica sia in questo caso la frazione 10 25 della «normale» forza elettrica fra gli elettroni in moto, dovete
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1.6 • L’elettromagnetismo nella scienza e nella tecnica
ricordarvi che le «normali» forze elettriche sono scomparse, a causa della compensazione quasi perfetta che si ha per il fatto che i fili hanno lo stesso numero di protoni e di elettroni. Tale compensazione è molto più precisa che una parte su 1025 e il piccolo termine relativistico che chiamiamo forza magnetica è il solo termine superstite. Diventa perciò il termine dominante. È il quasi perfetto annullamento degli effetti elettrici che permise di studiare effetti relativistici (cioè il magnetismo) e di scoprire le equazioni corrette (fino all’ordine v 2 /c2 ), benché i fisici non sapessero che questo era ciò che stava accadendo. E questa è la ragione per cui quando la relatività fu scoperta non ci fu bisogno di modificare le leggi dell’elettromagnetismo. Esse, a differenza di quelle della meccanica, erano già corrette, fino a una precisione dell’ordine di v 2 /c2 .
1.6
L’elettromagnetismo nella scienza e nella tecnica
Per chiudere questo capitolo vogliamo rilevare che c’erano due fenomeni molto strani fra i molti studiati dai greci. Essi sapevano infatti che strofinando un pezzo d’ambra si potevano sollevare dei pezzettini di papiro e che c’era una strana roccia, proveniente dall’isola di Magnesia, che attirava il ferro. Si resta sbalorditi a pensare che quelli erano gli unici fenomeni noti ai greci nei quali si manifestassero elettricità e magnetismo. La ragione per cui questi erano gli unici fenomeni che apparivano è dovuta essenzialmente alla fantastica precisione nella compensazione delle cariche che abbiamo ricordato prima. Gli studi degli scienziati che vennero dopo i greci rilevarono, uno dopo l’altro, nuovi fenomeni che erano realmente altri aspetti dei fenomeni mostrati dall’ambra o dalla magnetite. Oggi ci rendiamo conto che anche i fenomeni di interazione chimica e, in ultima analisi, quelli della vita stessa, sono da interpretare in termini di elettromagnetismo. Nello stesso tempo in cui si sviluppava una comprensione dei fenomeni elettromagnetici, apparivano possibilità tecniche che sfidavano l’immaginazione delle precedenti generazioni: divenne possibile inviare segnali a grandi distanze per telegrafo; parlare ad altre persone lontane molte miglia senza alcuna connessione intermedia; far funzionare reti elettriche di enorme potenza: grandi turbine ad acqua, connesse attraverso fili lunghi centinaia di miglia a motori che girano in risposta alla turbina centrale, molte migliaia di fili di diramazioni, decine di migliaia di motori, in decine di migliaia di luoghi, che fanno marciare le macchine delle industrie e quelle delle case; tutto ciò funziona perché conosciamo le leggi dell’elettromagnetismo. Oggi troviamo applicazioni per effetti anche più raffinati. Le forze elettriche, pur essendo enormi, possono essere anche molto modeste e possiamo controllarle per servircene in molte maniere. I nostri strumenti sono così delicati che possiamo dire ciò che un uomo fa dal modo con cui altera il moto degli elettroni in un’asticella metallica distante centinaia di miglia. Tutto quello che occorre è adoperare l’asticella come antenna per un televisore! Guardando alla storia dell’umanità su un lungo periodo di tempo, diciamo diecimila anni da oggi, ci possono essere pochi dubbi che la scoperta di Maxwell delle leggi dell’elettrodinamica sarà giudicata l’evento più significativo del XIX secolo. La guerra civile americana apparirà come un insignificante avvenimento provinciale in confronto a quell’importante evento scientifico dello stesso decennio.
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Calcolo differenziale dei campi vettoriali
2.1 Ripasso: vol. 1, cap. 11, Vettori
Come capire la fisica
Il fisico ha bisogno di una certa pratica nel vedere i problemi sotto diversi punti di vista. L’analisi esatta dei fenomeni fisici reali è di solito molto complicata e qualunque situazione fisica può riuscire troppo complessa per poterla analizzare direttamente, andando a trovare la soluzione dell’equazione differenziale del problema. Si può però ottenere ugualmente un’idea molto buona del comportamento del sistema se si ha un certo intuito per il carattere delle soluzioni in diverse circostanze. Idee tipo le linee di campo, la capacità, la resistenza e l’induttanza sono molto utili a tale scopo e perciò dedicheremo molto del nostro tempo ad analizzarle. In questo modo acquisteremo una certa intuizione di ciò che dovrebbe accadere in situazioni elettromagnetiche diverse. D’altra parte, nessuno di questi modelli euristici, tipo le linee di campo, è realmente adeguato e preciso per tutte le situazioni. C’è una sola maniera esatta di presentare le leggi e questa è di servirsi delle equazioni differenziali. Esse hanno il vantaggio di essere fondamentali e, per quanto se ne sa, esatte. Se avrete imparato le equazioni differenziali di una certa classe di fenomeni, potrete sempre tornare a quelle. Non c’è nulla da disimparare. Ci vorrà un certo tempo perché possiate capire che cosa dovrebbe accadere quando cambiano le circostanze. Vi toccherà risolvere le equazioni e ogni volta che le risolverete imparerete qualcosa sul carattere delle soluzioni. Per tenere a mente queste soluzioni sarà utile anche studiare il loro significato per mezzo di linee di campo e altri concetti. Questo è il modo in cui potrete realmente «capire» le equazioni. Qui sta la differenza fra la matematica e la fisica. I matematici o quelli che hanno una mente molto matematica spesso si sviano quando «studiano» la fisica perché perdono di vista la fisica. Essi dicono: «Vedete, queste equazioni differenziali (le equazioni di Maxwell) sono tutto quel che c’è nell’elettrodinamica; è ammesso dai fisici che non c’è nulla che non sia contenuto in tali equazioni. Queste equazioni sono complicate, ma dopo tutto non sono altro che equazioni matematiche, e se mi riesce di sviscerarle matematicamente, avrò sviscerato la fisica». Le cose però non vanno così. I matematici che studiano la fisica da questo punto di vista (e ce ne sono stati molti) di solito contribuiscono poco alla fisica e poco, in fondo, anche alla matematica. Essi falliscono perché le effettive situazioni fisiche nel mondo reale sono talmente complicate che è necessario avere una comprensione molto più larga delle equazioni. Che cosa significhi veramente capire un’equazione, cioè capirla al di là di un senso strettamente matematico, è stato spiegato da Dirac. Egli dice: «Capisco ciò che significa un’equazione se, senza effettivamente risolverla, ho modo di ricavare le caratteristiche della soluzione». Perciò se abbiamo modo di conoscere che cosa dovrebbe succedere in date circostanze senza effettivamente risolvere le equazioni, allora noi «capiamo» le equazioni nella loro applicazione a quelle circostanze. La comprensione fisica è una cosa completamente non matematica, imprecisa e inesatta, ma assolutamente necessaria al fisico. Ordinariamente un corso come questo viene svolto sviluppando gradualmente le idee fisiche, cominciando da situazioni semplici e procedendo a considerare situazioni sempre più complesse. Questo comporta il dimenticare continuamente cose precedentemente imparate, cioè quelle che sono vere in certe circostanze, ma non sono vere in generale. Per esempio, la «legge» che la forza
2.2 • Campi scalari e vettoriali: T e h
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elettrica dipende dal quadrato della distanza non è sempre vera. Preferiamo procedere nel modo opposto. Preferiamo cioè partire dalle leggi complete e poi retrocedere per applicarle a situazioni semplici, sviluppando via via le idee fisiche. E questo è quello che faremo. Questo metodo è del tutto opposto al metodo storico, nel quale la materia viene sviluppata secondo le esperienze attraverso le quali l’informazione fu ottenuta. Ma lo studio della fisica è stato sviluppato negli ultimi duecento anni da diversi grandi ingegni e, dato che abbiamo soltanto un tempo limitato per acquisire le nostre conoscenze, non possiamo certo coprire tutto quello che essi fecero. Perciò, disgraziatamente, una cosa che andrà facilmente perduta in queste lezioni è lo sviluppo storico, sperimentale. Speriamo che questa lacuna possa essere corretta in parte nel corso di esercitazioni. Inoltre ciò che dovrà essere tralasciato lo potrete anche reintegrare ricorrendo all’Enciclopedia Britannica, che contiene eccellenti articoli storici sull’elettricità e altre parti della fisica. Troverete inoltre informazioni storiche in molti testi di elettricità e magnetismo.
2.2
Campi scalari e vettoriali: T e h
Cominciamo ora con l’impostazione astratta, matematica, della teoria dell’elettricità e del magnetismo. Lo scopo finale è quello di spiegare il significato delle leggi enunciate nel capitolo 1, ma per far questo dobbiamo prima spiegare una speciale notazione che desideriamo usare. Perciò dimentichiamoci per il momento dell’elettromagnetismo e andiamo a discutere la matematica dei campi vettoriali. È un argomento di grande importanza non soltanto per l’elettromagnetismo, ma per ogni genere di circostanze fisiche. Proprio come l’ordinario calcolo differenziale e integrale è tanto importante per tutti i rami della fisica, così lo è il calcolo differenziale dei vettori. Volgiamoci dunque a questo tema. Qui sotto elenchiamo alcune reazioni dell’algebra vettoriale che si suppongono già note. A · B = scalare = Ax Bx + Ay By + Az Bz
(2.1)
A ⇥ B = vettore
(2.2)
(A ⇥ B)z = Ax By (A ⇥ B)x = Ay Bz (A ⇥ B)y = Az Bx
Ay Bx Az By Ax Bz
A ⇥ A=0
(2.3)
A · (B ⇥ C) = (A ⇥ B) · C
(2.5)
A · (A ⇥ B) = 0
(2.4)
A ⇥ (B ⇥ C) = B (A · C)
(2.6)
C (A · B)
Inoltre avremo bisogno delle due seguenti uguaglianze del calcolo infinitesimale: f (x, y, z) =
@f @x
x+
@f @y
@2 f @2 f = @x @y @y @x
y+
@f @z
z
(2.7) (2.8)
L’equazione (2.7) è vera, naturalmente, solo al limite per x, y e z tendenti a zero. Il campo fisico più semplice possibile è un campo scalare. Per campo, come ricorderete, intendiamo una grandezza che dipende dalla posizione nello spazio. Per campo scalare si intende semplicemente un campo che è caratterizzato in ogni punto da un singolo numero, cioè da uno scalare. Naturalmente il numero può variare col tempo, ma per il momento non è necessario darsene pensiero perché ci occuperemo di come si presenta il campo a un dato istante. Come
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Capitolo 2 • Calcolo differenziale dei campi vettoriali
2.1 La temperatura T è un esempio di campo scalare. A ogni punto (x, y, z) dello spazio è associato un numero T (x, y, z). Tutti i punti della superficie segnata T = 20 (la curva ne dà l’intersezione col piano z = 0) sono alla stessa temperatura. Le frecce indicano particolari valori del vettore flusso termico h.
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FIGURA
2.2 La velocità degli atomi in un oggetto rotante è un esempio di campo vettoriale.
y Caldo T = 40 °C h T = 30 °C T(x, y, z) T = 20 °C T = 10 °C Freddo x
Freddo 0
Rotazione
FIGURA
esempio di campo scalare, consideriamo un blocco compatto di materiale il quale sia stato scaldato in certi punti e raffreddato in altri, così che la temperatura del corpo vari da punto a punto in un modo complicato. La temperatura sarà una funzione di x, y e z, ossia della posizione nello spazio riferita a un sistema di coordinate ortogonali: essa è un campo scalare. Un modo di rappresentare i campi scalari è di immaginare delle «superfici di uguale livello», le quali sono superfici immaginarie condotte per tutti i punti dove il campo ha lo stesso valore, proprio come le linee di uguale livello su una carta topografica uniscono i punti che hanno la stessa altitudine. Per un campo di temperatura le superfici di uguale livello si chiamano «superfici isoterme» o semplicemente «isoterme». La FIGURA 2.1 illustra un campo di temperatura mostrando la dipendenza di T da x e y quando z = 0. Sono state tracciate diverse isoterme. Ci sono poi i campi vettoriali. L’idea è molto semplice: basta che in ogni punto dello spazio sia dato un vettore, vettore che varia da punto a punto. Come esempio consideriamo un corpo che ruota. La velocità del materiale del corpo in ogni punto è un vettore che è funzione della posizione (FIGURA 2.2). Come secondo esempio, consideriamo il flusso di calore in un blocco di materiale. Se la temperatura nel blocco è alta in un posto e bassa in un altro, ci sarà un flusso di calore dai punti più caldi a quelli più freddi. Il calore fluirà in direzioni diverse nelle diverse parti del blocco: tale flusso termico è perciò una grandezza direzionale che indichiamo con h. Il suo modulo è una misura di quanto calore fluisce. Esempi del vettore flusso termico sono anche indicati in FIGURA 2.1. Precisiamo la definizione di h: il modulo del vettore flusso termico in un punto è la quantità d’energia termica che passa per unità di tempo e d’area attraverso un elemento infinitesimo di superficie disposto ad angolo retto rispetto alla direzione del flusso. Il vettore ha per direzione la direzione del flusso (FIGURA 2.3). In simboli: se J è l’energia termica che attraversa nell’unità di tempo l’elemento di superficie a allora è h=
J ef a
(2.9)
dove ef è un versore, cioè un vettore di modulo unitario, diretto come il flusso.
2.3 Il flusso di calore è un campo vettoriale. Il vettore h ha per direzione quella del flusso. Il suo modulo è l’energia trasportata per unità di tempo attraverso un elemento di superficie orientato perpendicolarmente al flusso, divisa per l’area dell’elemento. FIGURA
2.4
Il flusso di calore attraverso a2 è lo stesso che attraversa a1 . FIGURA
y n
T2 h
∆a
h Flusso di calore
T1 ∆a1 x z
∆a2
2.3 • Derivate dei campi. Il gradiente
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Il vettore h può esser definito in un altro modo e cioè in base alle sue componenti. Domandiamoci quanto calore fluisce attraverso una piccola superficie che fa un angolo qualunque col flusso. Nella FIGURA 2.4 si vede una piccola superficie a2 inclinata rispetto alla a1 , che è perpendicolare al flusso. Il versore n è normale alla superficie a2 . L’angolo ✓ fra n e h è lo stesso di quello fra le due superfici (perché h è normale a a1 ). Ora, qual è il flusso di calore per unità d’area attraverso a2 ? Il flusso attraverso a2 è lo stesso che attraversa a1 , solo le aree sono diverse; infatti a1 = a2 cos ✓ Il flusso di calore attraverso a2 è perciò J = a2
J cos ✓ = h · n a1
(2.10)
L’interpretazione di questa equazione è: il flusso di calore (per unità di tempo e di area) attraverso un qualsiasi elemento di superficie, il cui versore normale è n, è dato dal prodotto h · n. Potremmo ugualmente dire: la componente del flusso termico perpendicolarmente all’elemento di superficie a2 è il prodotto h · n. Se si vuole, si può pensare quest’affermazione come una definizione di h. Ci troveremo ad applicare le stesse idee anche ad altri campi vettoriali.
2.3
Derivate dei campi. Il gradiente
Quando i campi variano col tempo, possiamo descriverne la variazione dando le loro derivate rispetto a t. Vogliamo descrivere in una maniera analoga le variazioni con la posizione, perché c’interessa, mettiamo, la relazione fra la temperatura in un punto e la temperatura in un punto vicino. Come si può fare la derivata della temperatura rispetto alla posizione? Deriveremo la temperatura rispetto a x? Oppure rispetto a y o a z? Le leggi fisiche veramente utili non dipendono dall’orientazione del sistema di coordinate e perciò dovrebbero essere scritte in una forma in cui i due membri sono ambedue scalari o ambedue vettori. Cos’è la derivata di un campo scalare, mettiamo @T/@ x? È uno scalare, un vettore o che cosa? Come potrete constatare facilmente, non è né uno scalare né un vettore, perché se si prendesse un asse x diverso, @T/@ x sarebbe certamente diverso. Però, fate attenzione, abbiamo tre possibili derivate: @T/@ x, @T/@ y, @T/@z. Siccome ci sono tre specie di derivate, e sappiamo che ci vogliono tre numeri per formare un vettore, forse queste tre derivate sono le componenti di un vettore: ! @T @T @T ? , , = un vettore (2.11) @ x @ y @z Naturalmente, non è generalmente vero che qualsiasi terna di numeri formi un vettore: ciò è vero se nelle rotazioni del sistema di coordinate le componenti del vettore si trasformano fra loro nel modo corretto. Perciò è necessario analizzare come queste derivate si mutano per effetto di una rotazione del sistema di coordinate. Mostreremo che la (2.11) è realmente un vettore: le derivate si trasformano, effettivamente, nel modo corretto quando il sistema di coordinate viene ruotato. Questo si può vedere in diversi modi. Un modo è quello di porsi una domanda la cui risposta è indipendente dal sistema di coordinate e cercare di esprimere tale risposta in forma «invariante». Per esempio, se è S = A · B e A e B sono vettori, sappiamo, per averlo provato nel cap. 11 del vol. 1, che S è uno scalare. Sappiamo che S è uno scalare anche senza andare a cercare se varia quando cambiamo il sistema di coordinate: esso non può variare, proprio perché è il prodotto scalare di due vettori. Similmente, se sappiamo che A è un vettore e abbiamo tre numeri, B1 , B2 e B3 , tali che risulta Ax B1 + Ay B2 + Az B3 = S (2.12) dove S è lo stesso in tutti i sistemi di coordinate, allora i tre numeri, B1 , B2 e B3 , devono essere le componenti Bx , By e Bz di un vettore B. Torniamo adesso al campo di temperatura. Supponiamo di prendere due punti P1 e P2 separati da una piccola distanza R. Le temperature in P1 e P2 siano rispettivamente T1 e T2 , e la loro
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Capitolo 2 • Calcolo differenziale dei campi vettoriali
y
y'
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y
y'
y ∆ x'
∆y
x ∆y
P2
∆R
x'
P1
∆z
P1
∆x
∆z ∆x
y
∆x
∆ y' P2
y' x'
x'
x
x
x
∆z z
2.5 Il vettore R le cui componenti sono x, y e z. FIGURA
2.6 (a) Passaggio a un sistema di coordinate ruotato. (b) Caso particolare di un intervallo R parallelo all’asse x. FIGURA
differenza sia T = T2 T1 . La temperatura in questi due punti reali, fisici, non dipende certo da quali assi scegliamo per misurare le coordinate. In particolare, T è un numero indipendente dal sistema di coordinate, ossia è uno scalare. Una volta scelto un conveniente sistema di assi, potremo scrivere T1 = T(x, y, z) T2 = T(x + x, y + y, z + z) dove x, y e z sono le componenti del vettore R (FIGURA 2.5). Ricordando l’equazione (2.7), avremo @T @T @T T= x+ y+ z (2.13) @x @y @z Il primo membro di questa equazione (2.13) è uno scalare; il secondo membro è la somma di tre prodotti con i rispettivi fattori x, y e z che sono le componenti di un vettore. Ne segue che anche i tre numeri @T/@ x, @T/@ y e @T/@z sono le componenti secondo x, y e z di un vettore. Denoteremo questo nuovo vettore col simbolo rT. Il simbolo r (chiamato «del») è una capovolta e serve a richiamare l’idea della differenziazione; può esser letto in vari modi: «del-T», «gradiente di T», «grad T». Scriveremo(1) ! @T @T @T grad T = rT = , , (2.14) @ x @ y @z Usando questa notazione, possiamo riscrivere l’equazione (2.13) in una forma più concisa: T = rT · R
(2.15)
A parole, questa equazione dice che la differenza di temperatura fra due punti vicini è il prodotto scalare del gradiente di T per il vettore spostamento fra i due punti. La forma dell’equazione (2.15) illustra anche chiaramente la nostra precedente dimostrazione che rT è veramente un vettore. Forse non ne siete ancora convinti. Proviamolo in un modo diverso (benché se guardate attentamente, potrete accorgervi che si tratta realmente della stessa prova in una forma meno concisa). Mostreremo che le componenti di rT si trasformano proprio nello stesso modo delle componenti di R. Se questo è, rT è un vettore in base alla nostra primitiva definizione di vettore (cap. 11 del vol. 1). Prendiamo un nuovo sistema di coordinate x 0, y 0 e z 0 e in questo nuovo sistema calcoliamo @T/@ x 0, @T/@ y 0 e @T/@z 0. Perché le cose riescano un po’ più semplici, facciamo z = z 0, così che possiamo disinteressarci della coordinata z. (Potrete controllare voi stessi il caso più generale.) (1) Nella notazione qui adottata, l’espressione (a, b, c) rappresenta un vettore con componenti a, b e c. La (2.14) equivale quindi a scrivere @T @T @T rT = i +j +k @x @y @z avendo introdotto i versori i, j e k.
2.4 • L’operatore r
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Prendiamo un sistema x 0 y 0 ruotato di un angolo ✓ rispetto al sistema x y, come in FIGURA 2.6a. Le coordinate di un punto (x, y) nel sistema accentato sono: x 0 = x cos ✓ + y sen ✓
(2.16)
y 0 = x sen ✓ + y cos ✓
(2.17)
x = x 0 cos ✓
(2.18)
ossia, risolvendo per x e y, y 0 sen ✓
0
0
y = x sen ✓ + y cos ✓
(2.19)
Se due numeri si trasformano come fanno x e y secondo queste equazioni, essi sono le componenti di un vettore. Adesso consideriamo la differenza di temperatura fra due punti vicini P1 e P2 scelti come in FIGURA 2.6b. Calcolando con le coordinate x e y verrebbe T=
@T @x
(2.20)
x
perché y è nullo. Cosa darebbe invece un calcolo nel sistema accentato? Darebbe T=
@T @ x0
x0 +
@T @ y0
y0
(2.21)
Dalla FIGURA 2.6b vediamo che x0 =
x cos ✓
(2.22)
y0 =
x sen ✓
(2.23)
giacché y è negativo quando x è positivo. Sostituendo queste espressioni nell’equazione (2.21) troviamo T=
@T @ x0
@T @ y0
x cos ✓
x sen ✓ =
(2.24)
ossia @T T= cos ✓ @ x0
@T sen ✓ @ y0
!
x
(2.25)
Confrontando l’equazione (2.25) con la (2.20) vediamo che si ha @T @T = cos ✓ @x @ x0
@T sen ✓ @ y0
(2.26)
Questa equazione dice che @T/@ x si ottiene da @T/@ x 0 e @T/@ y 0 proprio come x si ottiene da x 0 e y 0 secondo l’equazione (2.18). Perciò @T/@ x è la componente secondo x di un vettore. Lo stesso tipo di ragionamento mostrerebbe che @T/@ y e @T/@z sono le componenti secondo y e z. Perciò rT è chiaramente un vettore. Si tratta di un campo vettoriale derivato dal campo scalare T.
2.4
L’operatore r
A questo punto possiamo fare qualcosa di estremamente divertente e ingegnoso – e anche caratteristico di quelle cose che rendono bella la matematica. Il ragionamento per dimostrare che grad T, ossia rT, è un vettore, non dipende da quale campo scalare si deriva. Tutto procederebbe allo stesso modo se T fosse sostituito da qualsiasi altro campo scalare. Perciò, siccome le equazioni
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Capitolo 2 • Calcolo differenziale dei campi vettoriali
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di trasformazione sono le stesse qualunque sia lo scalare che deriviamo, si potrebbe dopotutto omettere T e sostituire l’equazione (2.26) con l’equazione operatoriale: @ @ = cos ✓ @x @ x0
@ sen ✓ @ y0
(2.27)
Lasciamo cioè gli operatori, secondo la frase di Jeans, «affamati di qualcosa da derivare». Siccome gli operatori di derivazione si trasformano essi stessi come le componenti di un vettore, possiamo chiamarli componenti di un operatore vettoriale. Possiamo scrivere ! @ @ @ r= , , (2.28) @ x @ y @z che significa naturalmente rx =
@ @x
ry =
@ @y
rz =
@ @z
(2.29)
Abbiamo operato il distacco del gradiente da T: questa è l’idea meravigliosa. Dovete sempre ricordare, naturalmente, che r è un operatore; da solo non significa nulla. Se r di per sé non significa nulla, che cosa viene a significare se lo moltiplichiamo per uno scalare – mettiamo T – ottenendo il prodotto Tr ? (Si può sempre moltiplicare un vettore per uno scalare.) Continua a non significare nulla. La sua componente x è T
@ @x
(2.30)
che non è un numero, ma ancora un operatore. Tuttavia, secondo l’algebra dei vettori, anche Tr sarebbe da considerare un vettore. Adesso moltiplichiamo r per uno scalare, ma a destra in modo da ottenere il prodotto rT. Nell’algebra ordinaria è T A = AT (2.31) ma dobbiamo tenere a mente che l’algebra degli operatori è un po’ diversa dall’ordinaria algebra vettoriale. Quando si tratta di operatori dobbiamo sempre tenerli nel giusto ordine, in modo che le operazioni abbiano il corretto significato. Non troverete alcuna difficoltà in questo, ricordando semplicemente che l’operatore r obbedisce alla stessa convenzione della notazione di derivata: ciò che deve esser derivato deve essere posto a destra di r. L’ordine è importante. Tenendo presente questo problema dell’ordine, si capisce che Tr è un operatore, ma il prodotto rT non è più un operatore affamato: l’operatore è completamente sazio. È infatti un vettore fisico avente un suo significato; esso rappresenta la velocità di variazione spaziale di T. Per esempio, la componente x di rT esprime quanto rapidamente T cambia nella direzione x. Quale sarà la direzione del vettore rT? Sappiamo che la rapidità di variazione di T in una direzione qualunque è la componente di rT in quella direzione (equazione (2.15)). Ne segue che la direzione di rT è quella nella quale esso ha la componente più grande possibile; in altre parole, la direzione in cui T cambia più rapidamente: il gradiente di T ha la direzione della più rapida pendenza di T, in senso crescente.
2.5
Operazioni con r
Possiamo fare dell’altra algebra con l’operatore vettoriale r? Proviamo a combinarlo con un vettore. Due vettori si possono combinare facendone il prodotto scalare. Potremo formare i due prodotti (vettore) · r oppure r · (vettore) Il primo non ha per ora alcun significato, perché è ancora un operatore: il suo possibile significato finale dipende da ciò su cui lo facciamo operare. Il secondo prodotto è un campo scalare (A · B è sempre uno scalare).
2.5 • Operazioni con r
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Proviamo a fare il prodotto scalare di r con un vettore che conosciamo, mettiamo h. Esplicitando le componenti abbiamo ossia
(2.32)
r · h = r x h x + r y h y + rz h z r·h =
@ h x @ hy @ hz + + @x @y @z
(2.33)
Questa somma è invariante nelle trasformazioni delle coordinate. Se scegliessimo un sistema diverso (indicato con gli apici), troveremmo(2) r0 · h =
@ h x 0 @ hy 0 @ hz 0 + + @ x0 @ y0 @z 0
(2.34)
che è lo stesso numero che si otterrebbe dall’equazione (2.33) anche se l’espressione sembra diversa. Si ha cioè r0 · h = r · h (2.35) per ogni punto dello spazio. Dunque la grandezza r · h è un campo scalare che deve rappresentare una grandezza fisica. Noterete che la combinazione delle derivate in r · h è piuttosto speciale. Ci sono tante altre combinazioni, come @hy /@ x, che non sono né scalari né componenti di vettori. La grandezza scalare r · (vettore) è estremamente utile in fisica e viene chiamata divergenza. Per esempio, r · h è chiamata «divergenza di h»: r · h = divergenza di h = div h
(2.36)
Come si è fatto per rT si può attribuire un significato fisico a r · h. Tuttavia rimandiamo questo più avanti. Prima vogliamo vedere cos’altro possiamo fabbricare con l’operatore vettoriale r. Perché non provare il prodotto vettoriale? Dobbiamo aspettarci che sia r ⇥ h = vettore
(2.37)
Le componenti di questo vettore le possiamo scrivere in base alla regola usuale del prodotto vettoriale (equazione (2.2)): (r ⇥ h)z = rx hy
ry h x =
@ hy @x
@ hx @y
(2.38)
(r ⇥ h)x = ry hz
rz h y =
@ hz @y
@ hy @z
(2.39)
(r ⇥ h)y = rz h x
r x hz =
@ hx @z
@ hz @x
(2.40)
Similmente e
La combinazione r ⇥ h è chiamata «rotore di h»: r ⇥ h = rotore di h = rot h La ragione di questo nome e il significato fisico della combinazione saranno discussi più avanti. Riassumendo, abbiamo tre specie di combinazioni in cui entra r: rT
= grad T = vettore
r · h = div h = scalare r ⇥ h = rot h = vettore (2)
Il vettore h è pensato come una grandezza fisica che dipende dalla posizione nello spazio e non, a rigore, come una funzione matematica di tre variabili. Quando h si «deriva» rispetto x, y, z oppure rispetto a x 0 , y0 , z 0 , si intende che la sua espressione matematica deve esser preventivamente espressa con le variabili appropriate.
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Capitolo 2 • Calcolo differenziale dei campi vettoriali
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Adoperando queste combinazioni possiamo scrivere le variazioni dei campi in una maniera che è comoda e che è generale, in quanto non dipende da alcuna particolare scelta degli assi. Come esempio dell’uso dell’operatore differenziale r scriviamo le equazioni vettoriali che contengono quelle leggi dell’elettromagnetismo che abbiamo espresso a parole nel capitolo 1, e che vengono chiamate equazioni di Maxwell. Equazioni di Maxwell:
r·E =
⇢ ✏0
r⇥E =
(2.41a) @B @t
(2.41b)
r·B=0 c2 r ⇥ B =
(2.41c) @E j + @t ✏0
(2.41d)
dove ⇢, la «densità di carica elettrica», è la quantità di carica per unità di volume e j, la «densità di corrente elettrica», è la carica che attraversa l’unità d’area per unità di tempo. Queste quattro equazioni contengono la teoria classica completa del campo elettromagnetico. Vedete che elegante semplicità di forma si può ottenere con la nostra nuova notazione!
2.6 T2
T1 Flusso di calore
Area A
d
∆s h Area A
Isoterme
T1+∆T T1
2.7 (a) Flusso di calore attraverso una lastra. (b) Una lastra infinitesima parallela a una superficie isoterma in un blocco esteso. FIGURA
L’equazione differenziale del flusso di calore
Diamo un altro esempio di legge fisica scritta in notazione vettoriale. Questa legge non è una legge rigorosa, ma è abbastanza precisa per molti metalli e diversi altri corpi che conducono calore. Sapete che se si ha una lastra di un certo materiale e se ne scalda una faccia alla temperatura T2 mentre si raffredda l’altra a una temperatura diversa T1 , il calore attraversa il materiale da T2 a T1 (FIGURA 2.7a). Il flusso di calore è proporzionale all’area A delle facce e alla differenza di temperatura. È anche inversamente proporzionale a d, distanza fra le facce. (Per una data differenza di temperatura il flusso di calore è tanto più grande quanto più sottile è la lastra.) Indicando con J l’energia termica che passa per unità di tempo attraverso la lastra, avremo J = (T2
T1 )
A d
(2.42)
La costante di proporzionalità (kappa) si chiama conduttività termica. Cosa succederà in un caso più complesso? Ad esempio in un blocco di forma singolare in cui la temperatura varia in qualche modo strano? Supponiamo di considerare un minuscolo pezzo del blocco in questione, cioè immaginiamo una lastra simile a quella della FIGURA 2.7a ma in miniatura; orientiamo le sue facce parallelamente alle superfici isoterme, come in FIGURA 2.7b, così che l’equazione (2.42) è valida per quella piccola lastra. Se la sua area è A, il flusso di calore per unità di tempo è J= T
A s
(2.43)
dove s è lo spessore della lastra. Ora J/ A lo abbiamo definito più sopra come il modulo del vettore h, la cui direzione è quella del flusso termico. Il flusso di calore andrà da T1 + T verso T1 e perciò sarà perpendicolare alle isoterme, come indicato nella FIGURA 2.7b. Inoltre T/ s non è che la rapidità di variazione di T con la posizione e, siccome il cambiamento di posizione è perpendicolare alle isoterme, T/ s nel nostro caso è la massima rapidità di variazione: coincide perciò col modulo di rT. E siccome la direzione di rT è opposta a quella di h, possiamo scrivere la (2.43) come un’equazione vettoriale: h = rT
(2.44)
2.7 • Derivate seconde dei campi vettoriali
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(Il segno meno è necessario perché il flusso di calore «discende» il gradiente di temperatura.) L’equazione (2.44) è l’equazione differenziale della conduzione del calore nei materiali in blocco. Vedete che si tratta di una caratteristica equazione vettoriale: ognuno dei due membri è un vettore, se è un semplice numero. Si tratta della generalizzazione a casi arbitrari della relazione particolare (2.42) valida per lastre rettangolari. Più avanti dovremo imparare a scrivere ogni sorta di relazioni fisiche elementari, come la (2.42), in quella notazione più raffinata che è la notazione vettoriale. Questa notazione è utile non soltanto perché fa apparire più semplici le equazioni; essa ne mostra anche più chiaramente il contenuto fisico, facendo a meno di riferirsi a qualsiasi sistema di coordinate scelto arbitrariamente.
2.7
Derivate seconde dei campi vettoriali
Finora abbiamo introdotto soltanto derivate prime. Perché non introdurre anche le derivate seconde? Si potrebbero avere diverse combinazioni: r · (rT)
(2.45a)
r ⇥ (rT)
(2.45b)
r (r · h)
(2.45c)
r · (r ⇥ h)
(2.45d)
r ⇥ (r ⇥ h)
(2.45e)
Potete controllare che queste sono le sole combinazioni possibili. Cominciamo con l’esaminare la seconda, cioè la (2.45b). Essa ha la stessa forma di A ⇥ (AT) = (A ⇥ A) T = 0 dato che il prodotto A ⇥ A è sempre zero. Perciò si dovrebbe avere rot (grad T) = r ⇥ (rT) = 0
(2.46)
Possiamo vedere come viene fuori questa equazione calcolando le componenti. Si ha [r ⇥ (rT)]z = rx (rT)y ry (rT)x = ! ! @ @T @ @T = @x @y @y @x
(2.47)
che è zero (per l’equazione (2.8)). Lo stesso succede per le altre componenti. Perciò si ha r ⇥ (rT) = 0 per qualsiasi distribuzione di temperatura, anzi, per qualunque funzione scalare. Facciamo ora un altro esempio. Vediamo se possiamo trovare un’altra espressione che sia sempre nulla. Il prodotto scalare di un vettore per un prodotto vettoriale che contiene quel vettore è zero: A · (A ⇥ B) = 0 (2.48) perché A ⇥ B è perpendicolare ad A e perciò non ha componenti nella direzione A. La stessa combinazione appare nell’equazione (2.45d), perciò abbiamo r · (r ⇥ h) = div (rot h) = 0
(2.49)
Di nuovo, è facile verificare il risultato eseguendo le operazioni mediante le componenti. Enunceremo ora due teoremi matematici che non dimostreremo. Sono teoremi molto utili e interessanti per i fisici. Si trova spesso nei problemi fisici, che il rotore di una certa grandezza – diciamo il campo vettoriale A – è nullo. Ora abbiamo visto (equazione (2.46)) che il rotore di un gradiente è zero; ciò
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Capitolo 2 • Calcolo differenziale dei campi vettoriali
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è facile da ricordare dato il modo di comportarsi di questi vettori. Potrebbe perciò darsi benissimo che A fosse il gradiente di qualche grandezza, perché allora il suo rotore sarebbe necessariamente zero. Uno dei due teoremi interessanti consiste appunto nell’affermazione che se rot A = 0, allora A è sempre il gradiente di qualcosa: esiste un campo scalare (psi) tale che A = grad . In altre parole abbiamo il seguente Teorema:
Se esiste un tale che
r⇥ A=0 (2.50)
A=r
C’è un analogo teorema se la divergenza di A è zero. Abbiamo visto (equazione (2.49)) che la divergenza del rotore di un qualcosa è sempre zero. Se incontrate un campo vettoriale D per il quale div D = 0, allora potete concludere che D è il rotore di qualche campo vettoriale C. In altre parole abbiamo il seguente Teorema:
Se esiste un tale che
r·D =0 C D =r⇥C
(2.51)
Esaminando le possibili combinazioni di due operatori r abbiamo trovato che due di esse danno sempre zero. Esaminiamo ora quelle che non sono zero. Prendiamo la combinazione r · (rT). Mettendo in evidenza le componenti si ha rT = i rx T + j ry T + k rz T quindi r · (rT) = rx (rx T) + ry (ry T) + rz (rz T) = =
@ 2T @ 2T @ 2T + + 2 @ x2 @ y2 @z
(2.52)
che in generale risulterà essere un certo numero. Si tratta di un campo scalare. Si vede che non c’è bisogno di conservare le parentesi, e possiamo scrivere, senz’ombra di confusione, quanto segue: r · (rT) = r · rT = (r · r)T = r2T
(2.53)
Possiamo considerare r2 come un nuovo operatore. È un operatore scalare che, presentandosi spesso in fisica, ha ricevuto un nome speciale: laplaciano. Si ha laplaciano = r2 =
@2 @2 @2 + + @ x 2 @ y 2 @z 2
(2.54)
Siccome il laplaciano è un operatore scalare, possiamo operare con esso su un vettore e questo vorrà dire eseguire la stessa operazione su ogni componente in coordinate rettangolari: ⇣ ⌘ r2 h = r2 h x, r2 hy, r2 hz Consideriamo ancora una possibilità e cioè r ⇥ (r ⇥ h), che è la (2.45e). Il rotore del rotore può essere scritto diversamente adoperando l’uguaglianza vettoriale (2.6): A ⇥ (B ⇥ C) = B (A · C)
C (A · B)
(2.55)
Per applicare questa formula dobbiamo sostituire A e B con l’operatore r e porre C = h. Se lo facciamo, otteniamo r ⇥ (r ⇥ h) = r (r · h) h (r · r) . . . ???
Un momento! C’è qualcosa di sbagliato. Il primo termine è un vettore e va bene (gli operatori sono sazi), ma il secondo non significa proprio nulla. È ancora un operatore. L’inconveniente
2.8 • Trabocchetti
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sorge perché non siamo stati abbastanza attenti a conservare il giusto ordine dei nostri termini. Tuttavia, tornando all’equazione (2.55) vedete che si poteva averla scritta altrettanto bene nella forma A ⇥ (B ⇥ C) = B (A · C) (A · B) C (2.56)
L’ordine dei termini appare migliore. Adesso facciamo le nostre sostituzioni in (2.56). Otteniamo: r ⇥ (r ⇥ h) = r (r · h)
(r · r) h
(2.57)
Questa forma sembra che vada bene. È infatti corretta, come potete verificare calcolando le componenti. L’ultimo termine è il laplaciano, sicché possiamo egualmente scrivere r2 h
r ⇥ (r ⇥ h) = r (r · h)
(2.58)
Abbiamo commentato tutte le combinazioni nella nostra lista dei doppi r eccetto la (2.45c), cioè r (r · h). Si tratta di un possibile campo vettoriale, ma non c’è nulla di speciale da dire su esso. È semplicemente un campo vettoriale che può occasionalmente capitare. Sarà comodo avere un riepilogo delle nostre conclusioni: r · (rT) = r2T = campo scalare
(2.59a)
r ⇥ (rT) = 0
(2.59b)
r (r · h) = campo vettoriale
(2.59c)
r · (r ⇥ h) = 0
(2.59d)
r ⇥ (r ⇥ h) = r (r · h)
r2 h
(r · r) h = r2 h = campo vettoriale
(2.59e) (2.59f)
Potete accorgervi che non abbiamo tentato di inventare un nuovo operatore vettoriale r ⇥ r. Capite il perché?
2.8
Trabocchetti
Abbiamo applicato le nostre cognizioni di algebra vettoriale ordinaria all’algebra dell’operatore r; dobbiamo però essere prudenti, perché è possibile andare fuori strada. Due trabocchetti li vogliamo ricordare, anche se non si presenteranno in questo corso. Che cosa pensereste dell’espressione seguente dove figurano due funzioni scalari (psi) e (fi): (r ) ⇥ (r ) = ? Potreste essere indotti a dire: deve essere zero perché somiglia proprio all’espressione (Aa) ⇥ (Ab) che è nulla perché il prodotto vettoriale A ⇥ A di due vettori uguali è sempre nullo. Nel nostro caso, però, i due operatori r non sono uguali! Il primo opera sulla funzione , l’altro opera su una funzione diversa, cioè . Perciò anche se li rappresentiamo con lo stesso simbolo r essi devono essere considerati come operatori diversi. È chiaro che la direzione di r dipende dalla funzione , perciò non è presumibile che sia parallelo a r . Dunque sarà, in generale, (r ) ⇥ (r ) , 0 Fortunatamente non dovremo usare simili espressioni. (Quanto si è detto non cambia il fatto che è r ⇥ r = 0 per qualunque campo scalare, perché qui ambedue i r operano sulla stessa funzione.)
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Capitolo 2 • Calcolo differenziale dei campi vettoriali
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Il trabocchetto numero due (nel quale non ci imbatteremo nel nostro corso) è il seguente. Le regole che abbiamo delineato sono semplici e soddisfacenti quando si adoperano coordinate rettangolari. Per esempio, se abbiamo r2 h e vogliamo la componente x, essa è ⇣
r2 h
⌘
x
@2 @2 @2 = * 2 + 2 + 2 + h x = r2 h x @y @z , @x
(2.60)
La stessa espressione non andrebbe bene se si richiedesse la componente radiale di r2 h. La componente radiale di r2 h non è uguale a r2 hr . La ragione è che quando si tratta dell’algebra dei vettori, le direzioni di questi sono perfettamente definite. Ma quando si tratta di campi vettoriali le loro direzioni sono diverse nei diversi punti. Se cerchiamo di descrivere un campo vettoriale in coordinate, mettiamo, polari, ciò che chiamiamo direzione «radiale» varia da punto a punto; perciò possiamo andare incontro a una serie di complicazioni quando passiamo a derivare le componenti. Per esempio, anche per un campo vettoriale costante, la componente radiale cambia da punto a punto. Di solito è più sicuro e più semplice attenersi alle coordinate rettangolari ed evitare le complicazioni, ma c’è un’eccezione che merita di esser ricordata: siccome il laplaciano r2 è uno scalare, possiamo scriverlo in qualsiasi sistema di coordinate (per esempio, in coordinate polari). Siccome però è un operatore differenziale, lo dovremo usare soltanto su vettori le cui componenti sono riferite a direzioni fisse, ossia ad assi rettangolari. Perciò esprimeremo tutti i campi vettoriali in termini delle loro componenti secondo x, y e z quando dovremo esplicitare in componenti le equazioni differenziali vettoriali.
3
Calcolo integrale dei vettori
3.1
Integrali dei vettori. L’integrale di linea di r
Nel capitolo 2 abbiamo visto varie maniere di derivare i campi; alcune danno campi vettoriali, altre campi scalari. Benché si siano ottenute numerose formule di vario tipo, l’intero contenuto del capitolo 2 potrebbe essere riassunto in un’unica regola: gli operatori @/@ x, @/@ y e @/@z sono le tre componenti di un operatore vettoriale r. Desideriamo ora acquisire una certa comprensione del significato di queste derivate dei campi. Dopo di che intuiremo meglio ciò che le equazioni dei campi vettoriali vogliono dire. Abbiamo già discusso il significato dell’operazione gradiente (r applicato a uno scalare). Vediamo ora il significato delle operazioni divergenza e rotore. L’interpretazione di queste grandezze si ottiene nel modo migliore per mezzo di certi integrali vettoriali e delle equazioni che li riguardano. Disgraziatamente queste equazioni non si possono ottenere dall’algebra vettoriale per mezzo di qualche facile sostituzione: perciò non resta che impararle come qualcosa di nuovo. Di queste formule integrali, una è praticamente ovvia, ma le altre due non lo sono. Le dedurremo e spiegheremo ciò che esse implicano. Le equazioni che studieremo sono realmente teoremi matematici e saranno utili non soltanto per interpretare il significato e il contenuto della divergenza e del rotore, ma anche nell’elaborare teorie fisiche generali. Questi teoremi matematici sono per la teoria dei campi quello che è il teorema della conservazione dell’energia per la meccanica delle particelle. Teoremi generali come questi sono importanti per una più profonda comprensione della fisica. Vi accorgerete però che non sono molto utili per risolvere problemi particolari, eccetto nei casi più semplici. È tuttavia una circostanza felice che già all’inizio del nostro studio ci siano molti problemi semplici che possono essere risolti con le tre formule integrali che ora tratteremo. Vedremo però che quando i problemi diventano più complessi, non possiamo più adoperare questi semplici metodi. Cominciamo con una formula integrale che riguarda il gradiente. Questa relazione contiene un’idea molto semplice: siccome il gradiente rappresenta la variazione di una grandezza di campo per uno spostamento unitario, se integriamo il gradiente su un certo cammino dovremo ottenere la variazione complessiva. Supponiamo di avere un campo scalare (x, y, z). In due generici punti (l) e (2), la funzione avrà rispettivamente i valori (1) e (2). Adoperiamo una notazione comoda in cui (2) rappresenta il punto (x 2, y2, z2 ) e (2) ha lo stesso significato di (x 2, y2, z2 ). Se (gamma) è una generica curva che unisce (1) e (2), come in FIGURA 3.1, vale la seguente relazione. Teorema 1:
(2)
(1) =
⌅
(2)
(r ) · ds
(3.1)
(1) lungo
L’integrale è un integrale di linea, da (1) a (2) lungo la curva , del prodotto scalare tra r – che è un vettore – e ds – che è un altro vettore, dato da un elemento infinitesimo di linea della curva , diretto da (1) verso (2). In primo luogo dovremo richiamare che cosa s’intende per integrale di linea. Consideriamo una funzione scalare f (x, y, z) e la curva che congiunge i punti (1) e (2). Segniamo sulla curva
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Capitolo 3 • Calcolo integrale dei vettori
3.1 I termini usati nell’equazione (3.1). Il vettore r è valutato nel punto dove si trova l’elemento lineare ds.
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FIGURA
∆
(
∆
∆
(2)
(2) Curva
Curva
3.2
L’integrale di linea è il limite di una somma. FIGURA
)t
c
ds (1)
(1)
∆ si
b
a ∆ s3 ∆ s1 ∆ s2
un certo numero di punti e congiungiamo questi punti con dei segmenti di retta, come mostra la FIGURA 3.2. Ogni segmento generico ha lunghezza s i , dove i è un indice che prende i valori 1, 2, 3,... Per integrale di linea ⌅ (2) f ds (1) lungo
si intende il limite della somma
X
f i si
i
dove f i è il valore della funzione relativo al segmento i-esimo. Il limite è quel valore a cui la somma si avvicina quando aumentiamo indefinitamente il numero dei segmenti (in modo sensato, così che anche il più grande si tenda a zero). L’integrale che figura nel nostro teorema, equazione (3.1), significa la stessa cosa anche se ha un aspetto un po’ differente. Invece di f abbiamo un diverso scalare: la componente di r nella direzione di s. Se scriviamo (r )t per questa componente tangenziale, è chiaro che è (r )t s = (r ) · s
(3.2)
L’integrale nell’equazione (3.1) significa la somma di termini come questo. Vediamo ora perché l’equazione (3.1) è vera. Nel capitolo 1 abbiamo visto che la componente di r nella direzione di uno spostamento infinitesimo R è la velocità di variazione di nella direzione di R. Consideriamo l’elemento di linea s che va da (l) al punto a in FIGURA 3.2. Secondo la nostra definizione si deve avere 1
= (a)
(1) = (r )1 · s1
(3.3)
Si ha inoltre (b)
(a) = (r )2 · s2
dove, naturalmente, (r )1 e (r )2 sono i gradienti valutati rispettivamente sui segmenti s2 . Sommando le equazioni (3.3) e (3.4) otteniamo (b)
(1) = (r )1 · s1 + (r )2 · s2
Si vede che se si continua a sommare di questi termini, risulta X (2) (1) = (r )i · si
(3.4) s1 e (3.5)
(3.6)
i
Il primo membro non dipende da come scegliamo gli intervalli, finché (l) e (2) rimangono gli stessi e perciò possiamo passare al limite nel secondo membro. Abbiamo così dimostrato l’equazione (3.1). Dalla dimostrazione potete vedere che proprio come l’eguaglianza non dipende da come i punti a, b, c,... sono scelti, così non dipende da come scegliamo la curva che congiunge (1) e (2). Il teorema è valido per qualsiasi curva che va da (l) a (2).
3.2 • Il flusso di un campo vettoriale
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Un’osservazione sulla notazione: evidentemente non si fa confusione se si scrive, per comodità, (r ) · ds = r · ds
(3.7)
Con questa notazione il teorema 1 assume la seguente espressione. Teorema 1:
(2)
(1) =
⌅
(2)
r · ds
(3.8)
(1) qualunque curva da (1) a (2)
3.2
Il flusso di un campo vettoriale
Prima di considerare il successivo teorema integrale (un teorema sulla divergenza) desideriamo introdurre un concetto il cui significato fisico è facile da capire nel caso del flusso di calore. Abbiamo definito il vettore h che rappresenta il calore che fluisce attraverso l’unità d’area nell’unità di tempo. Supponiamo di avere in un blocco di materiale una qualunque superficie chiusa S che racchiuda il volume V (FIGURA 3.3). Vogliamo sapere quanto calore fluisce fuori da questo volume. Lo possiamo fare, naturalmente, calcolando il flusso totale di calore attraverso la superficie S. Indichiamo con da l’area di un elemento della superficie. Questo simbolo rappresenta un differenziale a due dimensioni. Se per esempio l’area appartenesse al piano x y si avrebbe da = dx dy Più avanti incontreremo integrazioni in volume e per queste è conveniente considerare un volume differenziale che è un piccolo cubo. Perciò scrivendo dV intendiamo che sia dV = dx dy dz Qualcuno preferisce scrivere d2 a invece che da per ricordare che si tratta di una specie di grandezza del secondo ordine. Analogamente scriverà d3V invece di dV . Qui useremo la notazione più semplice, pensando che sarete capaci di ricordare che un’area ha due dimensioni e un volume ne ha tre. Il flusso di calore che esce dall’elemento di superficie da è dato dall’area moltiplicata per la componente di h perpendicolare a da. Abbiamo già definito n come un versore diretto all’infuori, perpendicolarmente alla superficie (FIGURA 3.3). La componente di h che ci occorre è hn = h · n
(3.9)
h · n da
(3.10)
Il flusso di calore uscente da da è perciò
Per ottenere il flusso totale di calore attraverso una superficie sommiamo i contributi di tutti gli elementi della superficie; in altre parole, integriamo la (3.10) sull’intera superficie: ⌅ flusso totale del calore attraverso S = h · n da (3.11) S
Chiameremo questo integrale di superficie «flusso di h attraverso la superficie». Possiamo pensare h come la «densità di corrente» del flusso di calore e allora il suo integrale di superficie viene a essere la corrente totale di calore diretta all’infuori della superficie, che è l’energia termica uscente per unità di tempo (joule per secondo, J/s). Quest’idea si può generalizzare al caso in cui il vettore non rappresenta il flusso di alcunché: per esempio si potrebbe trattare del campo elettrico. Possiamo infatti sicuramente integrare su una
27
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3.3 La superficie chiusa S delimita il volume V. Il versore n è la normale esterna all’elemento di superficie da, mentre h è il vettore flusso termico nel punto dell’elemento di superficie.
Capitolo 3 • Calcolo integrale dei vettori
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FIGURA
Sb
Sa
h Superficie chiusa S
C
Volume V
n
3.4 Il volume interno V della superficie S è diviso in due parti dal «diaframma» Sab . Si ha il volume V 1 racchiuso dalla superficie S1 = Sa + Sab e il volume V 2 racchiuso dalla superficie S2 = Sb + Sab .
V1
n2
n1
da
FIGURA
V2
Sab
C n
diaframma
certa area la componente normale del campo elettrico, se lo vogliamo. Benché nulla si muova, continueremo a chiamare «flusso» un simile integrale. Definiamo dunque ⌅ flusso di E attraverso la superficie S = E · n da (3.12) S
Generalizziamo, cioè, la parola flusso per designare «l’integrale di superficie della componente normale» di un vettore. Adopereremo la medesima definizione anche quando la superficie considerata non è chiusa, come lo è qui. Tornando al caso particolare del flusso di calore, consideriamo una situazione in cui il calore si conserva. Per esempio immaginiamo un materiale nel quale, dopo un riscaldamento iniziale, l’energia termica non è più generata né assorbita. Allora, se c’è un flusso netto uscente da una superficie chiusa, il contenuto di calore del volume interno a essa deve diminuire. Perciò, nei casi in cui il calore si conserva, affermiamo che si ha ⌅ dQ h · n da = (3.13) dt S dove Q è il calore all’interno della superficie. Il flusso di calore uscente da S è dunque uguale e opposto alla rapidità di variazione temporale del calore Q contenuto in S. Questa interpretazione è possibile perché ci riferiamo a un flusso di calore e abbiamo inoltre supposto che il calore si conservasse: non potremmo infatti parlare di calore totale contenuto nel volume dato se del calore vi fosse continuamente generato. Metteremo ora in evidenza un fatto interessante che si riferisce al flusso di qualsiasi vettore. Potete, se volete, pensare al flusso di calore, ma quello che diremo sarà vero per qualunque campo vettoriale C. Consideriamo una superficie chiusa S che racchiuda il volume V e separiamo tale volume in due parti con un qualsiasi «diaframma», come in FIGURA 3.4. Abbiamo così due superfici chiuse e due volumi. Il volume V1 è racchiuso dalla superficie S1 che è costituita da una parte Sa della superficie originaria e dalla superficie del diaframma Sab . Il volume V2 è racchiuso da S2 che è costituita dal resto Sb dell’originaria superficie e dal diaframma Sab . Ora consideriamo il seguente problema: se calcoliamo il flusso attraverso S1 e lo sommiamo al flusso attraverso S2 , la somma uguaglierà il flusso attraverso l’intera superficie iniziale? La risposta è sì. I flussi attraverso quella parte Sab della superficie che è comune tanto a S1 quanto a S2 non fanno che compensarsi esattamente. Infatti per il flusso del vettore C uscente da V1 possiamo scrivere: ⌅ ⌅ flusso attraverso S1 = C · n da + C · n1 da (3.14) Sa
Sa b
e per il flusso uscente da V2 : flusso attraverso S2 =
⌅
C · n da + Sb
⌅
C · n2 da Sa b
(3.15)
29
3.3 • Il flusso uscente da un cubetto. Il teorema di Gauss
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Notate che nei secondi integrali abbiamo scritto n1 oppure n2 per la normale esterna su Sab a seconda che questa superficie sia pensata come appartenente a S1 oppure a S2 , com’è mostrato nella FIGURA 3.4. Evidentemente si ha n1 = n2 e perciò
⌅
C · n1 da = Sa b
⌅
C · n2 da
(3.16)
Sa b
Se ora sommiamo le equazioni (3.14) e (3.15), vediamo che la somma dei flussi attraverso S1 e S2 è proprio la somma dei primi due integrali; i quali, presi insieme, danno il flusso attraverso l’originaria superficie Sa + Sb . Vediamo così che il flusso attraverso la superficie esterna completa S può essere considerato come la somma dei flussi uscenti dalle due porzioni nelle quali il volume è stato diviso. Possiamo similmente continuare la suddivisione, col tagliare per esempio V1 in due parti. Lo stesso ragionamento è evidentemente ancora valido. Perciò deve essere vero in generale che per qualsiasi suddivisione del volume dato, il flusso attraverso la superficie esterna, che è l’integrale originario, uguaglia la somma dei flussi uscenti da tutte le porzioni in cui il volume è stato diviso.
3.3
Il flusso uscente da un cubetto. Il teorema di Gauss
Vediamo ora il caso particolare di un piccolo cubo(1) , per trovare una formula interessante per il flusso uscente da esso. Consideriamo un cubo i cui spigoli sono allineati con gli assi, come in FIGURA 3.5. Supponiamo che le coordinate del vertice più vicino all’origine siano x, y, z. Sia x la lunghezza del cubo nella direzione x, y quella nella direzione y, z quella nella direzione z. Vogliamo trovare il flusso di un campo vettoriale C attraverso la superficie del cubo. Per questo dovremo fare la somma dei flussi attraverso ognuna delle sei facce. Consideriamo per prima la faccia indicata con 1 in figura. Il flusso uscente da questa faccia si ottiene integrando sulla superficie della faccia la componente x del vettore C cambiata di segno. Questo flusso è perciò ⌅ Cx dy dz
5
∆y
C' C n
1
2
n'
Cx ∆x
6
(x, y, z)
(x + ∆x, y, z)
∆z (x, y, z + ∆z)
3
3.5 Calcolo del flusso di C uscente da un cubetto. FIGURA
Siccome però stiamo trattando un piccolo cubo, possiamo approssimare questo integrale prendendo il valore di Cx al centro della faccia – che indichiamo come punto (1) – e moltiplicandolo per l’area y z della faccia: flusso uscente da 1 = Cx (1) y z Similmente per il flusso uscente dalla faccia 2 scriveremo flusso uscente da 2 = Cx (2) y z Ora Cx (1) e Cx (2) sono in generale leggermente diversi: se x è abbastanza piccolo possiamo scrivere @Cx Cx (2) = Cx (1) + x @x Ci sono naturalmente degli altri termini, ma essi fanno intervenire ( x)2 e potenze superiori e quindi saranno trascurabili quando si considera soltanto il limite per x che tende a zero. Perciò il flusso attraverso la faccia 2 è ! @Cx flusso uscente da 2 = Cx (1) + x y z @x (1)
4
(x, y + ∆y, z)
Gli sviluppi che seguono si applicano ugualmente bene a qualsiasi parallelepipedo rettangolare.
30
Capitolo 3 • Calcolo integrale dei vettori
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Sommando i flussi dovuti alle facce 1 e 2 troviamo @Cx @x
flusso uscente da 1 e 2 =
x y z
In verità la derivata dovrebbe essere valutata al centro della faccia 1, che equivale a dire nel punto (x, y + y/2, z + z/2), ma al limite per un cubo infinitesimo si commette un errore trascurabile valutandola nel vertice (x, y, z). Applicando lo stesso ragionamento a ognuna delle altre coppie di facce si ha flusso uscente da 3 e 4 =
@Cy @y
x y z
flusso uscente da 5 e 6 =
@Cz @z
x y z
e
Il flusso totale attraverso tutte le facce è la somma di questi termini. Troviamo che ! ⌅ @Cx @Cy @Cz C · n da = + + x y z @x @y @z cubo
La somma delle derivate non è altro che r · C, mentre x y z = Perciò possiamo dire che per un cubo infinitesimo si ha ⌅ C · n da = (r · C) V
V è il volume del cubo.
(3.17)
superficie
Abbiamo così mostrato che il flusso uscente dalla superficie di un cubo infinitesimo è uguale alla divergenza del vettore moltiplicata per il volume del cubo. Da qui vediamo il «significato» della divergenza di un vettore. La divergenza di un vettore C nel punto P è il flusso uscente di C per unità di volume nell’intorno del punto P. Abbiamo collegato la divergenza di C al flusso di C uscente da ogni elemento infinitesimo di volume. Per un volume finito possiamo fare riferimento al fatto che abbiamo provato più sopra, cioè che il flusso totale uscente da un dato volume è la somma dei flussi uscenti da ogni sua parte. Possiamo cioè integrare la divergenza sull’intero volume. Questo ci dà il seguente teorema: l’integrale della componente normale di un generico vettore su una superficie chiusa generica può anche essere scritto come l’integrale della divergenza del vettore nel volume racchiuso dalla superficie. Questo teorema porta il nome di Gauss. Teorema di Gauss:
⌅
C · n da = S
⌅
r · C dV
(3.18)
V
dove S è una qualsiasi superficie chiusa e V il volume interno a essa.
3.4
Conduzione del calore. L’equazione di diffusione
Giusto per acquisire una certa familiarità col teorema precedente, vediamo un esempio del suo uso. Supponiamo di nuovo di considerare il flusso di calore, poniamo, in un metallo. Consideriamo il semplice caso in cui tutto il calore è stato preventivamente immesso nel corpo e questo si sta raffreddando. Non ci sono sorgenti di calore e quindi questo si conserva. Quanto calore c’è, allora, in un dato volume, a un istante generico? Esso col tempo decrescerà della stessa quantità che fluisce dalla superficie che racchiude il volume considerato. Se questo è un cubetto, potremo scrivere, secondo l’equazione (3.17), ⌅ calore uscente = h · n da = r · h V (3.19) cubo
3.4 • Conduzione del calore. L’equazione di diffusione
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Questo calore deve essere uguagliato a quello perduto nell’unità di tempo dall’interno del cubo. Se q è il calore per unità di volume, il calore nel cubo è q V e il calore perduto per unità di tempo è perciò @ @q (q V ) = V (3.20) @t @t Confrontando le (3.19) e (3.20) vediamo che si ha @q =r·h @t
(3.21)
Tenete bene a mente la forma di questa equazione. Tale forma si presenta spesso in fisica. Essa esprime una legge di conservazione, in questo caso la conservazione del calore. Abbiamo espresso lo stesso fatto fisico in un modo diverso nell’equazione (3.13). Qui vediamo la forma differenziale di un’equazione di conservazione, mentre l’equazione (3.13) ne è la forma integrale. Abbiamo ottenuto l’equazione (3.21) applicando l’equazione (3.13) a un cubo infinitesimo. Possiamo anche prendere un’altra strada. Per un volume esteso V limitato da S la legge di Gauss dice che si deve avere ⌅ ⌅ h · n da = r · h dV (3.22) S
V
Usando la (3.21), l’integrale al secondo membro diventa dQ/ dt e ritroviamo l’equazione (3.13). Consideriamo ora un caso diverso. Immaginiamo un blocco di materiale nel quale c’è una cavità molto piccola dove ha luogo una reazione chimica che genera del calore. O anche possiamo immaginare che ci arrivino dei fili che portano corrente a una minuscola resistenza che si scalda. Supporremo che il calore sia generato praticamente in un punto e indichiamo con W l’energia liberata per secondo in tal punto. Supporremo che nel rimanente volume il calore si conservi e inoltre che la produzione di calore duri da lungo tempo così che la temperatura non cambi più, in nessun punto. Il problema è: come si comporta il vettore h nei vari punti del metallo? Quanto vale il flusso di calore in ogni punto? Sappiamo che integrando la componente normale di h su una superficie chiusa che racchiude la sorgente, otterremo sempre W . Tutto il calore h generato dalla sorgente puntiforme deve infatti fluire attraverso la superficie, giacché abbiamo supposto che il flusso è stazionario. Ci si presenta il difficile problema di trovare un campo vettoriale che integrato su una suR perficie qualunque dia sempre W . Possiamo trovare questo campo piuttosto Sorgente facilmente se consideriamo una superficie un po’ speciale. Prendiamo una di calore sfera di raggio R centrata nella sorgente e facciamo l’ipotesi che il flusso Blocco di metallo di calore sia radiale (FIGURA 3.6). L’intuizione ci dice che se il blocco di materiale è grande e non ci si trova troppo vicino ai suoi bordi, h sarà radiale e il suo modulo sarà lo stesso su tutti i punti della sfera. Vedete che per trovare la soluzione stiamo aggiungendo alla nostra matematica una FIGURA 3.6 Nella regione vicina a una sorgente di certa dose di congettura, ordinariamente chiamata «intuizione fisica». calore questo fluisce radialmente all’infuori. Quando h è radiale e ha simmetria sferica, l’integrazione della sua componente normale sulla superficie della sfera è molto semplice perché la componente normale non è altro che il modulo di h ed è costante. L’area su cui si integra è 4⇡R2 e perciò abbiamo ⌅ h · n da = h · 4⇡R2 (3.23) S
dove h è il modulo di h. Questo integrale deve uguagliare W , cioè il calore prodotto dalla sorgente per unità di tempo. Otteniamo h=
W 4⇡R2
h=
W er 4⇡R2
ossia
(3.24)
31
32
Capitolo 3 • Calcolo integrale dei vettori
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dove, al solito, er rappresenta il versore nella direzione radiale. Questo risultato ci dice che h è proporzionale a W e varia in proporzione inversa al quadrato della distanza dalla sorgente. Il risultato ora ottenuto si applica al flusso termico in vicinanza di una sorgente puntiforme di calore. Cerchiamo ora di trovare le equazioni che valgono nel caso più generale di flusso termico, mantenendo soltanto la condizione che il calore si conservi. Considereremo soltanto ciò che accade nei punti esterni alle sorgenti e agli assorbitori del calore. L’equazione differenziale per la conduzione del calore è stata ottenuta nel capitolo 2: secondo l’equazione (2.44) si deve avere h = rT (3.25) (Tenete presente che questa relazione è approssimata ma discretamente precisa per alcuni materiali, come i metalli.) L’equazione è applicabile, naturalmente, soltanto nelle regioni del materiale dove non si ha né produzione né assorbimento di calore. Un’altra relazione valida quando il calore si conserva è l’equazione (3.21), ottenuta sopra. Combinando le due equazioni si ha
o anche
@q = r · h = r · ( rT) @t @q = r · rT = r2T @t
(3.26)
nel caso che sia costante. Ricorderete che q è il calore per unità di volume e che r · r = r2 è l’operatore laplaciano: @2 @2 @2 r2 = + + @ x 2 @ y 2 @z 2 Con l’aiuto di un’ulteriore ipotesi possiamo ottenere un’equazione molto interessante. Supponiamo che la temperatura del materiale sia proporzionale al contenuto di calore per unità di volume, cioè che il materiale abbia un calore specifico ben definito. Quando quest’ipotesi è valida (e molto spesso lo è) possiamo scrivere q = cv T ossia @q @T = cv @t @t
(3.27)
Le variazioni nell’unità di tempo del calore e della temperatura risultano dunque proporzionali. La costante di proporzionalità cv è, nel caso presente, il calore specifico per unità di volume del materiale. Dalle equazioni (3.27) e (3.26) segue @T 2 = rT @t cv
(3.28)
Troviamo così che la variazione di T per unità di tempo è, in ogni punto, proporzionale al laplaciano di T, che è legato alle derivate seconde della dipendenza spaziale di T: abbiamo un’equazione differenziale, in x, y, z e t, per la temperatura T. L’equazione differenziale (3.28) è chiamata equazione di diffusione del calore. Viene spesso scritta nella forma @T = D r2T (3.29) @t dove D è chiamato coefficiente di diffusione ed è qui eguale a /cv . L’equazione di diffusione appare in molti problemi fisici: diffusione dei gas, diffusione dei neutroni e altri. Abbiamo già discusso la fisica di alcuni di questi fenomeni nel cap. 43 del vol. 1. Qui avete l’equazione completa che descrive la diffusione nelle condizioni più generali possibili. Un po’ più avanti ci occuperemo dei modi di risolvere l’equazione di diffusione per ottenere come la temperatura varia in casi particolari. Adesso torniamo a considerare altri teoremi sui campi vettoriali.
3.5
33
3.5 • La circuitazione di un campo vettoriale
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La circuitazione di un campo vettoriale
Vogliamo ora fare per il rotore qualcosa di simile a quello che abbiamo fatto per la divergenza. Abbiamo ottenuto il teorema di Gauss considerando un integrale di superficie, benché non fosse ovvio, da principio, che avremmo avuto a che fare con la divergenza. Come avremmo potuto sapere che si doveva integrare su una superficie per arrivare alla divergenza? Non era affatto chiaro che si sarebbe arrivati a un simile risultato. Analogamente, con un’uguale apparente mancanza di giustificazione, ci metteremo a calcolare qualcos’altro riguardo a un campo vettoriale e mostreremo poi la relazione che c’è col rotore. Questa volta calcoleremo ciò che si chiama circuitazione di un campo vettoriale. Se C è un campo vettoriale qualunque, prendiamone la componente lungo una linea chiusa e integriamola lungo l’intero percorso della curva: questo integrale è chiamato circuitazione del vettore intorno alla curva. Abbiamo già considerato l’integrale di linea di r all’inizio di questo capitolo. Ora facciamo lo stesso per un campo qualunque C. Sia una qualunque curva chiusa nello spazio, immaginaria, naturalmente, e sia per esempio quella di FIGURA 3.7. L’integrale di linea della componente tangenziale di C intorno alla curva si scrive ⇥ ⇥ Ct ds =
C · ds
(3.30)
Notate bene che l’integrale è preso tutt’intorno alla curva e non da un punto a un altro come si è fatto prima. Il cerchietto sul segno d’integrale serve a ricordarci che l’integrale deve essere preso sul circuito completo. Questo integrale è chiamato circuitazione del campo vettoriale intorno alla curva . Il nome ha avuto origine dalla considerazione della circolazione di un liquido, ma esso è stato esteso – come il flusso – a qualsiasi campo, anche quando non c’è alcun materiale che «circola». Con un procedimento dello stesso tipo di quello che ci è servito per il flusso, possiamo mostrare che la circuitazione intorno a un circuito è la somma delle circuitazioni intorno a due circuiti parziali. Supponiamo di spezzare la curva di FIGURA 3.7 in due circuiti, congiungendo i due punti (1) e (2) della curva originaria per mezzo di una linea trasversale come mostra la FIGURA 3.8. Si hanno ora due circuiti 1 e 2 . 1 è costituito da a , che è parte della curva data, più la «scorciatoia» ab . 2 è costituito dal resto della curva data, più la scorciatoia. La circuitazione intorno a 1 è la somma di un integrale lungo a e uno lungo ab . Similmente, la circuitazione intorno a 2 è la somma di due parti, una lungo b e l’altra lungo ab . L’integrale lungo ab avrà per la curva 2 il segno opposto di quello che ha per 1 : le direzioni di percorrenza sono infatti opposte, giacché dobbiamo prendere i nostri due integrali di linea con lo stesso «senso» di rotazione. Seguendo lo stesso tipo di ragionamento che abbiamo adoperato a suo tempo, potete vedere che la somma delle due circuitazioni darà precisamente l’integrale di linea intorno alla curva originaria, perché i contributi dovuti al tratto ab si elidono. La circuitazione intorno a una parte più la circuitazione intorno all’altra uguaglia la circuitazione intorno alla linea esterna. Possiamo continuare il processo di tagliare il circuito originario fino ad avere un numero qualunque di circuiti più piccoli. Quando sommiamo le circuitazioni intorno a questi circuiti minori, si elidono
3.7 La circuitazione di C intorno alla curva è l’integrale di linea di Ct , cioè della componente tangenziale di C. FIGURA
C
Curva chiusa
(1)
Ct ds
ds C
b
a
ds2 2
1
Ct
ab
ds (2)
C
3.8 La circuitazione intorno all’intero cammino chiuso è la somma delle circuitazioni intorno ai due cammini 1 = a + ab e 2 = b + ab . FIGURA
ds1
34
Capitolo 3 • Calcolo integrale dei vettori
Curva chiusa
3.9 Si sceglie una superficie che ha la curva per contorno. Tale superficie viene divisa in tante areole, ciascuna approssimativamente quadrata. La circuitazione intorno a è la somma delle circuitazioni intorno alle areole. FIGURA
3.6
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i contributi dei tratti comuni a circuiti adiacenti così che la somma è sempre uguale alla circuitazione intorno al singolo circuito iniziale. Supponiamo ora che la curva chiusa originaria sia il contorno di una superficie. Ci sono naturalmente infinite superfici che hanno quella curva come contorno: tuttavia i risultati che otterremo non dipendono da quale superficie scegliamo. Per prima cosa spezziamo l’originario circuito costituito dalla curva data in tanti piccoli circuiti che giacciono tutti sulla superficie prescelta, come in FIGURA 3.9. Qualunque sia la forma della superficie, se i circuiti che tracciamo sono abbastanza piccoli, possiamo supporre che ciascuno racchiuda un’area essenzialmente piana. Possiamo inoltre scegliere tali circuiti in modo che ciascuno sia praticamente un quadrato. Dopo di che possiamo calcolare la circuitazione intorno al circuito grande determinando le circuitazioni intorno a tutti i quadratini e facendone la somma.
La circuitazione intorno a un quadrato. Il teorema di Stokes
Come possiamo trovare la circuitazione intorno a un quadratino? Una cosa da sapere è come il quadratino sia orientato nello spazio. Potremmo fare il calcolo facilmente se avesse una speciale orientazione, per esempio se si trovasse in uno dei piani coordinati. Siccome fin qui non abbiamo fatto ipotesi sull’orientamento degli assi, possiamo benissimo scegliere degli assi tali che il quadratino che ci interessa giaccia nel piano x y, come in FIGURA 3.10. Se poi il nostro risultato sarà espresso in notazione vettoriale, potremo dire che deve essere lo stesso quale che sia la particolare orientazione del piano. Andiamo ora a valutare la circuitazione del campo C intorno al quadratino. Sarà facile fare l’integrale di linea se il quadratino è tanto piccolo che il vettore C non cambia molto lungo ciascun lato del quadrato. (Questo è tanto più vero quanto più piccolo è il quadrato, perciò si deve intendere che si tratta realmente di quadrati infinitesimi.) Partendo dal punto (x, y), il vertice inferiore sinistro della figura, circoliamo nella direzione indicata dalle frecce. Lungo il primo lato segnato (1) la componente tangenziale è Cx (1) e la distanza è x. La prima parte dell’integrale è perciò Cx (1) x. Lungo il secondo tratto otteniamo Cy (2) y. Lungo il terzo troviamo Cx (3) x e lungo il quarto Cy (4) y, dove i segni meno sono necessari perché vogliamo la componente tangenziale nella direzione di percorrenza. L’integrale di linea completo è dunque ⇥ C · ds = Cx (1) x + Cy (2) y Cx (3) x Cy (4) y (3.31) Prendiamo ora il primo e il terzo termine insieme. Essi danno ⇥ ⇤ Cx (1) Cx (3) x
(3.32)
Potreste pensare che nella nostra approssimazione la differenza sia nulla. Questo è vero in prima approssimazione; possiamo però essere più precisi e tener conto della derivata di Cx . Si ottiene allora @Cx Cx (3) = Cx (1) + y (3.33) @y Se includessimo l’approssimazione successiva, questa porterebbe termini in ( y)2 , ma siccome da ultimo passeremo al limite per y ! 0, tali termini si possono trascurare. Combinando la (3.33) con la (3.32) troviamo che è ⇥ Cx (1)
⇤ Cx (3) x =
@Cx @y
x y
(3.34)
35
3.6 • La circuitazione intorno a un quadrato. Il teorema di Stokes
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3.10 Calcolo della circuitazione di C intorno a un quadratino. FIGURA
y C
3
ds
Superficie S
Cy ∆y
Curva chiusa
C
4 2 C 1 (x,y)
Cx
n
∆x !C
∆
x
La derivata si può, nella nostra approssimazione, valutare nel punto (x, y). Analogamente, possiamo scrivere per gli altri due termini dell’espressione (3.31) della circuitazione @Cy Cy (2) y Cy (4) y = x y (3.35) @x La circuitazione intorno al quadrato è perciò ! @Cy @Cx x y (3.36) @x @y che è un’espressione interessante perché i due termini entro parentesi sono nient’altro che la componente z del rotore. Inoltre notiamo che x y è l’area del quadrato. Possiamo mettere perciò l’espressione (3.36) della circuitazione nella forma (r ⇥ C)z a Ma la componente z significa in realtà la componente normale all’elemento di superficie. Possiamo perciò scrivere la circuitazione intorno a un quadrato infinitesimo in una forma vettoriale, e quindi invariante: ⇥ C · ds = (r ⇥ C)n a = (r ⇥ C) · n a
(3.37)
Questo risultato dice che la circuitazione di un generico vettore C intorno a un quadrato infinitesimo è uguale al prodotto della componente del rotore di C normale alla superficie per l’area del quadrato. La circuitazione intorno a una generica curva chiusa si può a questo punto mettere facilmente in relazione col rotore del campo vettoriale. Alla curva appoggiamo un’appropriata superficie S, come in FIGURA 3.11, e poi sommiamo le circuitazioni intorno ai quadrati infinitesimi nei quali la superficie può venire suddivisa. Questa somma può essere scritta come un integrale. Il risultato finale è un utilissimo teorema, chiamato teorema di Stokes. Teorema di Stokes:
⇥
C · ds =
⌅
S
(r ⇥ C)n da
(3.38)
dove S è una superficie qualunque che ammette come contorno. Dobbiamo ora ricordare una convenzione sui segni. Nella FIGURA 3.10 l’asse z è diretto verso chi guarda, se il sistema di assi è «ordinario», cioè «destro». Prendendo l’integrale di linea nel senso di rotazione «positivo», abbiamo trovato che la circuitazione per unità d’area è uguale alla componente z di r ⇥ C. Se avessimo scelto l’opposto senso di rotazione, avremmo ottenuto il segno opposto. Come faremo a sapere in generale quale direzione dobbiamo prendere come direzione positiva della componente normale di r ⇥ C? La risposta è che la normale «positiva» deve essere sempre connessa col senso di rotazione, com’è implicito nella FIGURA 3.10, ossia com’è indicato più in generale nella FIGURA 3.11.
3.11 La circuitazione di C intorno a è l’integrale di superficie della componente normale di r⇥ C. FIGURA
36
Capitolo 3 • Calcolo integrale dei vettori
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Un modo di ricordare tale connessione è dato dalla «regola della mano destra». Se si appoggiano le dita della mano destra lungo la curva con le punte rivolte nel senso positivo di ds, allora il pollice è rivolto nella direzione della normale positiva della superficie S.
3.7
Campi con rotore nullo e a divergenza nulla
Desideriamo ora considerare alcune conseguenze dei teoremi appena visti. Prendiamo per primo il caso di un vettore il cui rotore è dappertutto nullo: allora il teorema di Stokes ci dice che è nulla la circuitazione su qualsiasi linea chiusa. Ne segue che se scegliamo due punti (l) e (2) su una curva chiusa (FIGURA 3.12), l’integrale di linea fra (l) e (2) della componente tangenziale è indipendente da quale si prende dei due possibili cammini. Ne possiamo concludere che l’integrale fra (l) e (2) non può dipendere che dalla posizione di questi punti, vale a dire è una funzione della posizione soltanto. La stessa logica fu adoperata nel cap. 14 del vol. 1, dove si dimostrò che se l’integrale di una certa grandezza su un cammino chiuso è sempre zero, allora l’integrale si può rappresentare come la differenza dei valori di una funzione dei due estremi. Questo fatto ci permise di inventare il concetto di potenziale. Dimostrammo inoltre che il campo vettoriale era il gradiente di questa funzione potenziale (equazione (14.13) del vol. 1). Segue da qui che qualsiasi campo vettoriale il cui rotore è nullo uguaglia il gradiente di una funzione scalare. Cioè: se è dappertutto r ⇥ C = 0, esiste una (psi) tale che C = r . Quest’idea è molto utile: essa vuol dire che, se lo vogliamo, possiamo descrivere questo speciale tipo di campo vettoriale per mezzo di un campo scalare. Mostriamo ora un’altra cosa. Supponiamo di avere un qualunque campo scalare (fi). Se ne prendiamo il gradiente r , l’integrale di questo vettore intorno a un cammino chiuso qualunque deve essere zero. Il suo integrale di linea dal punto (1) al punto (2) è (2) (1). Se (l) e (2) si fanno coincidere, il teorema 1, equazione (3.8), ci dice che l’integrale di linea è zero: ⇥ r · ds = 0 curva chiusa
Applicando il teorema di Stokes possiamo concludere che è ⌅ ⇥ ⇤ r ⇥ (r ) n da = 0 su qualsiasi superficie. Ma se un integrale è zero su qualsiasi superficie l’integrando deve essere zero, perciò r ⇥ (r ) = 0 sempre
a n
3.13
Passando al limite di una superficie chiusa si vede che l’integrale di superficie di (r⇥ C)n deve annullarsi. FIGURA
(2)
C (1)
b
Curva chiusa
∆
FIGURA 3.12 Se r⇥ C è zero, la circuitazione intorno alla curva chiusa è zero. L’integrale di linea da (1) a (2) lungo a deve essere lo stesso dell’integrale lungo b.
Abbiamo dimostrato lo stesso risultato nel paragrafo 2.7 per mezzo dell’algebra vettoriale. Andiamo ora a considerare un caso particolare in cui una superficie S grande si appoggia a una piccola curva chiusa (FIGURA 3.13). Si vuol sapere che cosa succede quando la curva si restringe fino a ridursi a un punto, così che il contorno della superficie sparisce e la superficie diventa chiusa. Se il vettore C è dappertutto finito, l’integrale di linea intorno a deve andare a zero quando la curva si contrae: sarà infatti dato da un fattore finito moltiplicato per il perimetro
Superficie S
!C
3.8 • Riassunto
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della curva , il quale va a zero. Secondo il teorema di Stokes, l’integrale di (r ⇥ C)n sulla superficie deve pure annullarsi: ossia, quando chiudiamo la superficie, veniamo ad aggiungere all’integrale dei contributi che in qualche modo cancellano ciò che esisteva inizialmente. Abbiamo perciò un nuovo teorema: ⌅ (r ⇥ C)n da = 0
(3.39)
qualunque superficie chiusa
Questo è un risultato interessante perché abbiamo già un teorema sull’integrale di superficie di un campo vettoriale. Secondo il teorema di Gauss (equazione (3.18)), un simile integrale uguaglia l’integrale di volume della divergenza del vettore. Il teorema di Gauss applicato a r ⇥ C dà ⌅ ⌅ (r ⇥ C)n da = r · (r ⇥ C) dV (3.40) volume racchiuso
superficie chiusa
Perciò concludiamo che il secondo integrale deve essere anch’esso nullo: ⌅ r · (r ⇥ C) dV = 0
(3.41)
qualsiasi volume
e questo vale per qualsiasi campo vettoriale C. Siccome l’equazione (3.41) è vera per qualsiasi volume, deve essere vero che in ogni punto dello spazio l’integrando è zero. Abbiamo perciò r · (r ⇥ C) = 0 sempre Ma questo è lo stesso risultato che abbiamo ottenuto dall’algebra vettoriale nel paragrafo 2.7. Adesso cominciamo a vedere come tutte queste cose si accordano fra loro.
3.8
Riassunto
Riassumiamo i risultati di calcolo infinitesimale vettoriale che abbiamo trovato. I punti realmente salienti dei capitoli 2 e 3 sono i seguenti. 1 Gli operatori @/@ x, @/@ y e @/@z possono essere considerati come le tre componenti di un operatore vettoriale r e le formule che risultano dall’algebra vettoriale trattando questo operatore come un vettore sono corrette: ! @ @ @ r= , , @ x @ y @z 2 La differenza dei valori di un campo scalare in due punti è uguale all’integrale di linea della componente tangenziale del gradiente di quello scalare lungo una qualsiasi curva che va dal primo al secondo punto: ⌅ (2) (2) (1) = r · ds (3.42) (1) qualunque curva
3 L’integrale di superficie della componente normale di un vettore arbitrario sopra una superficie chiusa è uguale all’integrale della divergenza del vettore nel volume interno alla superficie: ⌅ ⌅ C · n da = r · C dV (3.43) superficie chiusa
volume racchiuso
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38
Capitolo 3 • Calcolo integrale dei vettori
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4 L’integrale di linea della componente tangenziale di un vettore arbitrario intorno a un cammino chiuso, è uguale all’integrale di superficie della componente normale del rotore di quel vettore sopra una qualunque superficie che ha il cammino dato come contorno: ⌅ ⌅ C · ds = (r ⇥ C) · n da (3.44) contorno
superficie
4
Elettrostatica
4.1
Statica
Cominciamo ora lo studio dettagliato della teoria dell’elettromagnetismo. L’intero elettromagnetismo è contenuto nelle equazioni di Maxwell. Equazioni di Maxwell:
⇢ ✏0
(4.1)
@B @t @E j c2 r ⇥ B = + @t ✏0
(4.2)
r·B=0
(4.4)
r·E = r⇥E =
Ripasso: vol. 1, cap. 13, Lavoro ed energia potenziale (1) cap. 14, Lavoro ed energia potenziale (2)
(4.3)
Le situazioni descritte da queste equazioni possono essere molto complicate. Vogliamo considerare dapprima situazioni relativamente semplici e imparare a maneggiare queste prima di rivolgerci a situazioni più complesse. Il caso più semplice da trattare è quello in cui nulla dipende dal tempo, chiamato caso statico. Tutte le cariche sono permanentemente fisse nello spazio, oppure se si muovono lo fanno come un flusso stazionario (così ⇢ e j sono costanti nel tempo). In queste circostanze, tutti i termini nelle equazioni di Maxwell che sono derivate temporali del campo sono nulli e quindi le equazioni stesse diventano: Elettrostatica:
⇢ ✏0
(4.5)
r⇥E =0
(4.6)
r·E =
Magnetostatica:
r⇥B =
j ✏ 0 c2
r·B=0
(4.7) (4.8)
Noterete una cosa interessante riguardo a questo sistema di quattro equazioni: esso può essere separato in due coppie. Il campo elettrico E appare soltanto nelle prime due equazioni e il campo magnetico B appare soltanto nelle seconde due. I due campi, quindi, non sono collegati. Ciò significa che elettricità e magnetismo sono fenomeni distinti finché cariche e correnti sono statiche. L’interdipendenza di E e B appare soltanto se si producono cambiamenti nelle cariche o nelle correnti, come quando un condensatore viene caricato o un magnete viene spostato. In altre parole, soltanto quando si hanno variazioni sufficientemente rapide, in modo che le derivate rispetto al tempo nelle equazioni di Maxwell diventino importanti, i campi E e B vengono a dipendere l’uno dall’altro.
✏ 0 c2 =
107 4⇡
1 ⇡ 9 · 109 4⇡✏ 0 [✏ 0 ] = C2 /(N·m2 )
40
Capitolo 4 • Elettrostatica
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Se ora si osservano le equazioni della statica, si vede subito che lo studio di quei capitoli che chiamiamo elettrostatica e magnetostatica è l’ideale per imparare le proprietà matematiche dei campi vettoriali. L’elettrostatica è un chiaro esempio di un campo vettoriale a rotore nullo e con una divergenza assegnata. La magnetostatica invece è un altrettanto chiaro esempio di campo vettoriale a divergenza nulla e con un rotore assegnato. Il modo più convenzionale, e vi potrebbe anche sembrare il più soddisfacente, di presentare la teoria dell’elettromagnetismo è quello di partire dall’elettrostatica e così imparare il concetto di divergenza, mentre la magnetostatica e il rotore vengono trattati in un secondo tempo. Da ultimo elettricità e magnetismo vengono fusi insieme. Qui abbiamo preferito partire col calcolo infinitesimale dei vettori già completato e ora lo applicheremo al caso particolare dell’elettrostatica, cioè al campo E dato dalla prima coppia di equazioni. Cominceremo con le situazioni più semplici di tutte, cioè quelle in cui le posizioni di tutte le cariche sono specificate. Se dovessimo studiare l’elettrostatica soltanto a questo livello (come faremo in questo e nel prossimo capitolo) il compito sarebbe molto semplice, anzi quasi banale. Come vedrete, tutto può essere ottenuto dalla legge di Coulomb, con l’aiuto di qualche integrazione. Tuttavia, in molti problemi elettrostatici effettivi, non si sa, all’inizio, dove si trovino le cariche. Si sa soltanto che esse si sono distribuite in modi che dipendono dalle proprietà della materia. Le posizioni che le cariche assumono dipendono dal campo E, il quale a sua volta dipende dalle posizioni delle cariche, perciò le cose possono diventare molto complicate. Se, per esempio, un corpo carico è portato vicino a un conduttore o a un isolante, gli elettroni e i protoni di questi corpi si sposteranno. La densità di carica ⇢ che appare nell’equazione (4.5) può contenere una parte che ci è nota e proviene dalle cariche che noi stessi abbiamo introdotto, ma ci saranno in generale altri contributi dovuti alle cariche che si sono spostate nel conduttore e di tutte queste cariche si dovrà tener conto: si possono presentare dei problemi piuttosto sottili e interessanti. Il presente capitolo perciò, benché dedicato all’elettrostatica, non coprirà la parte più sottile e più bella di questo argomento. Tratterà soltanto quelle situazioni in cui si suppone che le posizioni di tutte le cariche siano note: naturalmente occorre saper trattare questo caso prima di affrontare gli altri.
4.2
Legge di Coulomb. Sovrapposizione degli effetti
Sarebbe logico adoperare le equazione (4.5) e (4.6) come punti di partenza. Torna più facile tuttavia partire da qualcos’altro per poi tornare a quelle equazioni: i risultati saranno equivalenti. Cominceremo perciò con una legge della quale abbiamo già parlato, chiamata legge di Coulomb, secondo la quale fra due cariche in quiete si ha una forza direttamente proporzionale al prodotto delle cariche e inversamente proporzionale al quadrato della distanza, forza che è diretta lungo la retta che va da una carica all’altra. Legge di Coulomb:
F1 =
1 q1 q2 e12 = F2 2 4⇡✏ 0 r 12
(4.9)
dove F1 è la forza sulla carica q1 , e12 è il versore diretto da q2 a q1 e r 12 è la distanza fra q1 e q2 . La forza F2 su q2 è uguale e opposta a F1 . Per ragioni storiche la costante di proporzionalità è scritta nella forma 1/4⇡✏ 0 . Nel sistema che usiamo, cioè il sistema mks, essa è definita precisamente come 10 7 volte il quadrato della velocità della luce. Siccome la velocità della luce è approssimativamente 3 · 108 m/s, tale costante è approssimativamente 9 · 109 e l’unità in cui è espressa risulta essere newton per metro2 su coulomb2 o anche volt per metro su coulomb: 1 = 10 7 c2 4⇡✏ 0 = 9,0 · 109 Unità:
N·m2 /C2
(per definizione) (per esperienza) oppure
V·m/C
(4.10)
4.2 • Legge di Coulomb. Sovrapposizione degli effetti
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Quando sono presenti più di due cariche (e questi sono i casi che interessano realmente) dobbiamo completare la legge di Coulomb con un altro fatto naturale e cioè: la forza su una carica generica è la somma vettoriale delle forze di Coulomb esercitate da tutte le altre cariche. Tale fatto è chiamato «principio di sovrapposizione». Questo è tutto quello che c’è nell’elettrostatica: quando si è combinato la legge di Coulomb col principio di sovrapposizione, non resta altro da aggiungere. Le equazioni (4.5) e (4.6) (cioè le equazioni dell’elettrostatica) non dicono né di più né di meno. Nell’applicare la legge di Coulomb è comodo introdurre l’idea di campo elettrico. Si definisce il campo E(1) come la forza per unità di carica su q1 (dovuta a tutte le altre cariche). Dividendo l’equazione (4.9) per q1 , abbiamo, per un’altra carica in aggiunta a q1 , E(1) =
1 q2 e12 2 4⇡✏ 0 r 12
(4.11)
Si deve pensare E(1) come qualcosa che descrive una certa proprietà del punto (1), che sussiste anche se q1 non si trova in quel punto e supponendo che tutte le altre cariche mantengano le loro posizioni. Ciò si esprime dicendo che E(1) è il campo elettrico nel punto (1). Il campo elettrico E è un vettore, perciò con l’equazione (4.11) s’intendono realmente tre equazioni, una per componente. Scritta esplicitamente per la componente x, l’equazione (4.11) significa q2 x1 x2 (4.12) Ex (x 1, y1, z1 ) = 4⇡✏ 0 ⇥(x 1 x 2 )2 + (y1 y2 )2 + (z1 z2 )2 ⇤3/2 e similmente per le altre componenti. Se sono presenti più cariche, il campo E nel generico punto (1) è la somma dei contributi dovuti a ciascuna carica. Ciascun termine della somma sarà del tipo (4.11) o (4.12). Sia q j l’entità della j-esima carica e r1j lo spostamento da q j al punto (1), avremo X 1 qj E(1) = e1j (4.13) 2 4⇡✏ 0 r 1j j che vuol dire, ovviamente,
Ex (x 1, y1, z1 ) =
X j
1 4⇡✏ 0 ⇥(x 1
q j (x 1 xj
)2
+ (y1
xj) y j )2 + (z1
z j )2
⇤3/2
(4.14)
e così via. È spesso comodo ignorare il fatto che le cariche si presentano in «blocchi», come gli elettroni e i protoni, e pensarle invece come se costituissero un fluido continuo; ossia, come si suol dire, una «distribuzione». Ciò va benissimo finché non ci interessiamo di quello che succede su una scala molto piccola. Una distribuzione di carica si descrive mediante la «densità di carica» ⇢(x, y, z). Se la quantità di carica di un piccolo volume V2 posto nel punto (2) è q2 , allora ⇢ è definita da q2 = ⇢(2) V2
(4.15)
Per usare la legge di Coulomb nel quadro di una simile descrizione, le somme nelle equazioni (4.13) oppure (4.14) vanno sostituite con integrali estesi a tutti i volumi che contengono le cariche. Perciò si avrà ⌅ 1 ⇢(2) e12 dV2 E(1) = (4.16) 2 4⇡✏ 0 r 12 tutto lo spazio
Qualcuno preferisce scrivere
r12 r 12 dove r12 è lo spostamento vettoriale da (2) a (1), come mostra la FIGURA 4.1. Allora l’espressione (4.16) di E diventa ⌅ 1 ⇢(2) r12 dV2 E(1) = (4.17) 3 4⇡✏ 0 r 12 e12 =
tutto lo spazio
41
42
Capitolo 4 • Elettrostatica
4.1 Il campo elettrico E nel punto (1), dovuto a una distribuzione di carica, si ottiene da un integrale sulla distribuzione. Il punto (1) potrebbe anche essere interno alla distribuzione.
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FIGURA
(1); (x1, y1, z1) F r12
b
(x, y, z)
q Un cammino
dV2
4.2
Il lavoro fatto portando una carica da a a b è dato dall’integrale cambiato di segno di F · ds lungo il cammino seguito. FIGURA
a
ds
Un altro cammino
(2); (x2, y2, z2)
Quando si desidera calcolare qualcosa per mezzo di questi integrali, bisogna di solito scriverli esplicitamente in dettaglio. Per la componente x si avrebbe, sia dall’equazione (4.16) sia dalla (4.17), ⌅ (x 1 x 2 ) ⇢ (x 2, y2, z2 ) dx 2 dy2 dz2 Ex (x 1, y1, z1 ) = (4.18) ⇥ ⇤ 2 + (y 2 + (z 2 3/2 4⇡✏ (x x ) y ) z ) 0 1 2 1 2 1 2 tutto lo spazio
Non avremo occasione di adoperare molto questa formula. La scriviamo qui soltanto per mettere in evidenza il fatto che abbiamo completamente risolto tutti i problemi elettrostatici nei quali conosciamo le posizioni di tutte le cariche. Date le cariche, qual è il campo? Risposta: calcolare l’integrale. Perciò non c’è nulla di particolarmente interessante in questo argomento; si tratta di fare degli integrali complicati in tre dimensioni: a rigore, un compito per macchine calcolatrici! Per mezzo di questi integrali possiamo trovare i campi prodotti da una carica distribuita su un piano, una linea, un guscio sferico o da qualsiasi altra assegnata distribuzione. È importante rendersi conto che, anche se continueremo a occuparci di tracciare linee di campo, introdurre potenziali o calcolare divergenze, la soluzione ce l’abbiamo già qui. Tutto dipende, in fondo, dall’essere talvolta più facile calcolare un integrale sulla base di qualche abile congettura che eseguendolo secondo le regole del calcolo. Il lavoro di congettura richiede d’altra parte di imparare cose strane d’ogni sorta. In pratica potrebbe essere forse più facile rinunciare a voler essere ingegnosi e fare sempre gli integrali direttamente, invece di giocare di abilità. Cercheremo però di essere abili in queste cose e continueremo questo capitolo discutendo alcuni altri aspetti del campo elettrico.
4.3
Potenziale elettrico
Cominciamo con l’idea del potenziale elettrico, che è legato al lavoro compiuto nel portare una carica da un punto a un altro. Abbiamo una certa distribuzione di carica che produce un campo elettrico. Domandiamoci quanto lavoro sarebbe necessario per portare una piccola carica da un posto a un altro. Il lavoro W fatto contro le forze elettriche nel portare una carica lungo un cammino qualunque è dato dalla componente cambiata di segno della forza elettrica in direzione del moto integrata lungo il percorso. Se portiamo la carica dal punto a al punto b sarà dunque ⌅ b W= F · ds a
dove F è la forza elettrica sulla carica e ds lo spostamento vettoriale infinitesimo lungo il percorso (FIGURA 4.2). È più interessante per i nostri scopi considerare il lavoro che sarebbe compiuto per trasportare una unità di carica: allora la forza sulla carica è numericamente uguale al campo elettrico. Indicando con W (unità) il lavoro fatto contro le forze elettriche in questo caso, scriveremo ⌅ b W (unità) = E · ds (4.19) a
4.3 • Potenziale elettrico
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Ora, in generale, ciò che si ottiene da un integrale di questo tipo dipende dal b cammino che si prende. Ma se l’integrale in (4.19) dipendesse dal cammino fra a e b, si potrebbe ottenere lavoro dal campo portando una carica da a a b (a) lungo un cammino e poi di nuovo in a per un cammino diverso: basterebbe andare da a a b per il cammino per il quale W è più piccolo e tornare indietro a' per l’altro perché il lavoro ottenuto fosse maggiore di quello fornito. q In linea di principio non c’è nulla di impossibile nel fatto di ottenere a energia da un campo. Incontreremo, effettivamente, dei campi in cui ciò è possibile. Potrebbe succedere che nel muovere la carica si producessero b delle forze in qualche parte del «dispositivo»: se il «dispositivo» si muo(b) vesse contro queste forze, perderebbe energia e con questo l’energia totale dell’universo resterebbe costante. In elettrostatica, tuttavia, non esiste un simile «dispositivo». Conosciamo quali sono le reazioni che si esercitano a'' sulle sorgenti del campo: sono le forze di Coulomb sulle cariche che proq a' a ducono il campo. Se tutte queste cariche hanno posizioni fisse, come si ammette soltanto in elettrostatica, queste reazioni non possono compiere lavoro. Non c’è modo di ottenere energia da esse, purché naturalmente il FIGURA 4.3 Portando una carica di prova principio della conservazione dell’energia sia valido nel caso elettrostatico. da a a b si fa lo stesso lavoro lungo l’uno o l’altro Crediamo che lo sia, ma dimostriamo anche che questa è una conseguenza cammino. necessaria della legge di Coulomb. Consideriamo dapprima quello che accade nel campo dovuto a una singola carica q. Sia r a la distanza del punto a da q e r b quella del punto b. Ora portiamo da a a b un’altra carica che chiameremo la carica «di prova» e la cui grandezza sceglieremo uguale all’unità. Cominciamo col cammino che ci permette di fare il calcolo nel modo più facile possibile. Perciò portiamo la carica di prova prima lungo l’arco di cerchio e poi lungo il raggio, com’è indicato nella FIGURA 4.3a. Su questo particolare cammino è un gioco da bambini calcolare il lavoro. (Altrimenti non lo avremmo scelto.) In primo luogo, non c’è lavoro sul cammino da a ad a 0 : il campo è radiale (per la legge di Coulomb) ed è perciò ad angolo retto con la direzione del moto. Successivamente, lungo il cammino da a 0 a b, il campo agisce in direzione del moto e varia come 1/r 2 . Perciò il lavoro sulla carica di prova nel portarla da a a b sarà ⌅
b
E · ds = a
q 4⇡✏ 0
⌅
b a0
q 1 4⇡✏ 0 r a
dr = r2
1 rb
!
(4.20)
Prendiamo ora un altro percorso facile. Per esempio quello indicato nella FIGURA 4.3b, che si muove per un po’ lungo un arco di cerchio, poi per un po’ radialmente, poi di nuovo lungo un arco, poi radialmente, e così via. Tutte le volte che ci si muove sui tratti radiali si deve semplicemente integrare 1/r 2 . Sul primo tratto radiale si integra da r a a r a0 , poi nel successivo tratto radiale si va da r a0 a r a00 e così via. La somma di tutti questi integrali uguaglia l’integrale singolo fatto direttamente da r a a r b , perciò si ottiene lo stesso risultato del percorso precedente. È chiaro che il risultato sarebbe lo stesso per qualsiasi percorso composto da un numero qualunque dello stesso tipo di tratti. Cosa succederà sui percorsi non angolosi? Otterremo lo stesso risultato? Questo punto fu già discusso nel cap. 13 del vol. 1. Applicando gli stessi ragionamenti adoperati allora, possiamo concludere che il lavoro fatto per portare l’unità di carica da a a b è indipendente dal cammino: > W (unità) 9 > == > a!b > ;
⌅
b
E · ds
a qualsiasi cammino
Siccome il lavoro fatto dipende soltanto dagli estremi, esso può essere rappresentato come la differenza fra due numeri. Questo si può vedere nel modo seguente. Prendiamo un punto di riferimento P0 e conveniamo di valutare il nostro integrale adoperando un cammino che passi sempre per il punto P0 . Indichiamo con (a) per il lavoro fatto contro il campo andando da P0 al punto a e con (b) quello fatto andando da P0 al punto b (FIGURA 4.4).
43
44
Capitolo 4 • Elettrostatica
W(a Æ b) = f (b) – f (a)
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Il lavoro fatto andando verso P0 dal punto a (per poi proseguire verso il punto b) è (a) cambiato di segno, perciò abbiamo
b
⌅
W(P0 Æ b) = f (b)
a W(P0 Æ a) = f (a)
P0
4.4 Il lavoro fatto andando da a a b lungo un qualunque percorso è dato dal lavoro compiuto andando da un generico punto P 0 ad a più l’opposto del lavoro fatto andando da P 0 a b. FIGURA
b
E · ds = (b)
(a)
(4.21)
a
Siccome la sola cosa che appare è la differenza dei valori di nei due punti, non c’è realmente bisogno di specificare la posizione di P0 . Una volta però che si sia scelto un punto di riferimento, a ogni punto dello spazio corrisponde un determinato valore per , cioè è un campo scalare. Si tratta di una funzione di x, y e z. Questa funzione scalare si chiama potenziale elettrostatico nei punti dello spazio. Potenziale elettrostatico:
(P) =
⌅
P
E · ds
(4.22)
P0
Per comodità prenderemo spesso il punto di riferimento all’infinito. Allora, per una singola carica posta nell’origine, il potenziale nel punto generico (x, y, z) è dato, secondo la (4.20), da (x, y, z) =
q 1 4⇡✏ 0 r
(4.23)
Il campo elettrico dovuto a più cariche può scriversi come la somma del campo elettrico della prima, della seconda, della terza ecc. Quando integriamo tale somma per trovare il potenziale otteniamo una somma di integrali, ciascuno dei quali è il potenziale di una delle cariche. Ne concludiamo che il potenziale dovuto alle cariche è la somma dei potenziali dovuti alle singole cariche, ossia esiste un principio di sovrapposizione anche per i potenziali. Per mezzo dello stesso tipo di ragionamento col quale abbiamo trovato il campo elettrico dovuto a un gruppo di cariche o a una distribuzione di cariche possiamo ottenere le formule complete per il potenziale in un punto generico che chiamiamo (1): (1) =
X j
(1) =
1 qj 4⇡✏ 0 r 1j
(4.24)
⌅
(4.25)
1 4⇡✏ 0
tutto lo spazio
⇢(2) dV2 r 12
Tenete a mente che il potenziale ha un significato fisico: esso è l’energia potenziale che avrebbe l’unità di carica se fosse portata nel punto specificato del campo, partendo da un certo punto di riferimento.
4.4
E=
r
Che ci importa di , visto che le forze sulle cariche sono date dal campo elettrico E? Il punto essenziale è che E si può dedurre facilmente da : tale deduzione è invero altrettanto facile che fare una derivata. Consideriamo due punti di coordinate, x, y, z e x + x, y, z, e domandiamoci quanto lavoro si fa nel portare l’unità di carica da un punto all’altro. Lo spostamento avviene lungo una linea orizzontale da x a x + x; il lavoro fatto è la differenza dei potenziali nei due punti, cioè @ W = (x + x, y, z) (x, y, z) = x @x
4.4 • E = r
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Ma il lavoro fatto contro il campo sullo stesso cammino è ⌅ W= E · ds = Ex x Si vede che deve essere Ex =
@ @x
Ey =
@ @y
Ez =
@ @z
(4.26)
Similmente si trova:
Queste equazioni si riassumono, adoperando le notazioni dell’analisi vettoriale, in E= r
(4.27)
Questa equazione è la forma differenziale dell’equazione (4.22). Qualsiasi problema in cui la distribuzione delle cariche è data può essere risolto calcolando il potenziale per mezzo della (4.24) o (4.25) e adoperando la (4.27) per ottenere il campo. L’equazione (4.27) è anche in accordo con ciò che abbiamo trovato dal calcolo infinitesimale vettoriale e cioè che per ogni campo scalare deve essere ⌅ b r · ds = (b) (a) (4.28) a
Secondo l’equazione (4.25) il potenziale scalare è dato da un integrale tridimensionale simile a quello trovato per E. C’è vantaggio a calcolare piuttosto che E? Sì, perché c’è un solo integrale nel caso di , mentre ce ne sono tre per E, perché E è un vettore. Per giunta, è di solito un po’ più facile integrare 1/r piuttosto che x/r 3 . Risulta in molti casi pratici che è più facile calcolare e poi prenderne il gradiente e ottenere così il campo elettrico, piuttosto che calcolare i tre integrali che danno E direttamente. Si tratta di pura convenienza pratica. C’è però anche un significato fisico più profondo nel potenziale . Abbiamo mostrato che il campo E dovuto alla legge di Coulomb si ottiene da E = grad , dove è dato dalla (4.22). Ma dal calcolo infinitesimale vettoriale sappiamo che se E è uguale al gradiente di un campo scalare, allora il rotore di E deve essere nullo: r⇥E =0
(4.29)
Questa non è che la nostra seconda equazione fondamentale dell’elettrostatica, cioè l’equazione (4.6); abbiamo dunque fatto vedere che la legge di Coulomb dà un campo E che soddisfa tale equazione. Fin qui tutto torna. In realtà, avevamo la prova che r ⇥ E è zero anche prima di aver definito il potenziale. Avevamo mostrato infatti che il lavoro fatto su un cammino chiuso è zero, cioè che si ha ⇥ E · ds = 0 per qualsiasi cammino. Si vide nel capitolo 3 che per un tale campo r ⇥ E deve essere dappertutto zero. Il campo elettrico in elettrostatica è l’esempio di un campo a rotore nullo. Potete esercitarvi sul calcolo infinitesimale vettoriale dimostrando per una via diversa che r ⇥ E è nullo, cioè calcolando le componenti di r ⇥ E per il campo di una carica puntiforme, com’è dato dall’equazione (4.11). Se otterrete zero, il principio di sovrapposizione vi assicura che otterreste zero per il campo di qualsiasi distribuzione di carica. Un fatto importante deve essere sottolineato. Per qualsiasi forza radiale il lavoro fatto è indipendente dal cammino ed esiste un potenziale. Se ci pensate, l’intero ragionamento che
45
46
Capitolo 4 • Elettrostatica
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abbiamo fatto sopra per far vedere che l’integrale del lavoro era indipendente dal cammino dipendeva soltanto dal fatto che la forza dovuta a una carica singola era radiale e aveva simmetria sferica. Non era conseguenza del fatto che la dipendenza dalla distanza fosse del tipo 1/r 2 : la dipendenza da r avrebbe potuto essere qualunque. L’esistenza di un potenziale e il fatto che il rotore di E è zero deriva realmente soltanto dalla simmetria e dalla direzione delle forze elettrostatiche. È per questo che le equazione (4.28) o (4.29) possono contenere soltanto una parte delle leggi dell’elettricità.
4.5
Il flusso di E
Dedurremo ora un’equazione del campo che dipende specificamente e direttamente dal fatto che la forza di Coulomb segue una legge di quadrato inverso. Che il campo vari in proporzione inversa del quadrato della distanza sembra ad alcuni «una cosa naturale», perché «quello è il modo in cui le cose si spargono attorno». Prendiamo una sorgente puntiforme di luce: la quantità di luce che passa attraverso l’area staccata su una certa superficie da un cono col vertice nella sorgente è la stessa a qualunque distanza si metta la superficie. Dev’essere così se si vuole che l’energia luminosa si conservi. La quantità di luce per unità d’area (normale alla direzione di propagazione), ossia l’intensità, deve variare in proporzione inversa all’area tagliata dal cono, cioè come l’inverso del quadrato della distanza dalla sorgente. Certo il campo elettrico varierà come l’inverso del quadrato della distanza per la stessa ragione! Ma in realtà non c’è nulla di simile a una «stessa ragione». Nessuno può affermare che il campo elettrico misuri il flusso di qualcosa che, come la luce, si deve conservare. Se avessimo un «modello» del campo elettrico tale che il vettore campo rappresentasse la direzione e la velocità, diciamo pure la corrente, di qualche sorta di piccoli «proiettili» che se ne volassero via e se inoltre il nostro modello richiedesse che questi proiettili si conservassero, cioè che nessuno potesse mai scomparire una volta sparato dalla carica, allora si potrebbe dire che «si vede» che la legge del quadrato inverso è necessaria. D’altra parte esisterebbe necessariamente un modo matematico di esprimere questo concetto fisico. Se il campo elettrico fosse simile a dei proiettili che si sparpagliano ma si conservano, allora varierebbe come l’inverso del quadrato della distanza e si potrebbe descrivere tale comportamento con un’equazione, cioè in modo puramente matematico. Non c’è niente di male a pensare in questo modo, finché non si dice che il campo elettrico è fatto di quei tali proiettili e ci si rende invece conto che si sta adoperando un modello che ci aiuti a trovare la corretta matematica. Supponiamo infatti di immaginare per un momento che il campo elettrico rappresenti realmente il flusso di qualcosa che si conserva, o meglio che si conserva dappertutto tranne dove si trovano le cariche. (Deve nascere in qualche posto!) Immaginiamo che, qualcosa, qualunque sia, fluisca dalla carica per spargersi intorno. Se E fosse il vettore che descrive questo flusso
En E
Eb
Superficie chiusa S
Superficie S Ea
b
∆a
a
Carica puntiforme
Carica puntiforme
FIGURA
4.5
Il flusso di E uscente dalla superficie S è zero.
FIGURA
4.6
Il flusso di E uscente dalla superficie S è zero.
47
4.5 • Il flusso di E
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(come h nel caso del flusso di calore), dovrebbe avere una dipendenza secondo 1/r 2 vicino a una sorgente puntiforme. Vogliamo ora adoperare questo modello per trovare un modo di esprimere la legge del quadrato inverso in una maniera più profonda, o più astratta, della formulazione usuale. (Sarete forse curiosi di sapere perché si cerchi di evitare la formulazione diretta di una legge così semplice e si voglia invece suggerire la stessa cosa furtivamente, in un modo diverso. Siate pazienti! Risulterà che ciò è utile.) Chiediamoci: qual è il «flusso» di E che esce da una superficie chiusa arbitraria nella vicinanza di una carica puntiforme? Prendiamo in primo luogo una superficie facile: quella indicata in FIGURA 4.5. Se il campo E somiglia a un flusso, il flusso netto uscente da tale superficie dovrebbe essere zero. Questo è ciò che si ottiene se per «flusso» attraverso questa superficie s’intende l’integrale della componente normale di E. Sulle facce radiali la componente normale è zero. Su quelle sferiche la componente normale En è proprio il modulo di E, preso col segno meno per la faccia più piccola e col segno più per quella più grande. Il modulo di E decresce come 1/r 2 , ma l’area della superficie è proporzionale a r 2 , così che il prodotto è indipendente da r. Il flusso entrante sulla faccia a si compensa esattamente con quello uscente dalla faccia b. Il flusso totale uscente da S è zero, ossia, per questa superficie è ⌅ En da = 0 (4.30) S
Successivamente facciamo vedere che le superfici terminali possono venire inclinate rispetto alla linea radiale senza che cambi l’integrale (4.30). Benché ciò sia vero in generale, per il nostro scopo basta mostrare che è vero quando le superfici terminali sono piccole, così che esse sottendono rispetto alla sorgente un angolo piccolo, anzi infinitesimo. La FIGURA 4.6 mostra una superficie i cui «fianchi» sono radiali, ma le cui «facce terminali» sono inclinate: queste non sono piccole in figura ma dovete immaginare una situazione in cui siano assai piccole. Allora il campo E sarà abbastanza uniforme sulla superficie da poter usare il suo valore al centro. Inclinando l’area di un angolo ✓, l’area aumenta per un fattore 1/ cos ✓ . Ma En , la componente normale alla superficie, diminuisce per un fattore cos ✓; il prodotto En a non cambia: il flusso uscente dall’intera superficie S è ancora zero. Ora è facile vedere che il flusso uscente da un volume racchiuso da qualunque superficie S deve essere zero. Qualsiasi volume può infatti essere pensato come composto di pezzi simili a quello in FIGURA 4.6. La sua superficie può esser suddivisa completamente in coppie di superfici terminali e, siccome i flussi entranti e uscenti da queste superfici si elidono due a due, il flusso uscente dall’intera superficie sarà nullo. Quest’idea è illustrata nella FIGURA 4.7. Troviamo perciò il risultato del tutto generale che il flusso uscente totale di E attraverso qualsiasi superficie S nel campo di una carica puntiforme è zero.
Eb
Superficie S
b E
q En Carica puntiforme
4.7 Qualsiasi volume può essere pensato come costituito da tronchi di cono infinitesimi. Il flusso di E uscente da un estremo di ciascun segmento conico è uguale e opposto a quello uscente dall’altro estremo. Il flusso totale uscente dalla superficie S è perciò nullo. FIGURA
Ea
a
4.8 Se una carica è interna a una superficie, il flusso totale uscente da essa non è nullo. FIGURA
48
Capitolo 4 • Elettrostatica
4.9 Il flusso attraverso S è lo stesso del flusso attraverso S0 .
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FIGURA
Superficie S E
4.10
Il flusso attraverso una superficie sferica contenente una carica puntiforme q è q/ 0 . FIGURA
+ q
S'
Carica puntiforme q
Superficie S'
Ma, attenzione! La nostra dimostrazione funziona soltanto se la superficie S non circonda la carica. Cosa succederebbe se la carica puntiforme si trovasse dentro alla superficie? Potremmo ancora dividere la nostra superficie in coppie di aree collegate fra loro da rette passanti per la carica, come mostra la FIGURA 4.8. I flussi attraverso le due superfici sono ancora uguali per le stesse ragioni di prima; soltanto ora hanno lo stesso segno. Il flusso uscente da una superficie che circonda una carica non è zero. Quanto è dunque? Lo possiamo trovare con un piccolo artificio. Supponiamo di «escludere» la carica dall’«interno» della superficie circondandola con una superficie S 0, tutta interna alla superficie originaria S, come mostra la FIGURA 4.9. Ora il volume compreso fra le due superfici S e S 0 non contiene carica. Il flusso totale uscente da questo volume (incluso quello attraverso S 0 ) è zero per le ragioni date prima. Queste ragioni ci dicono, effettivamente, che il flusso che entra nel volume attraverso S 0 è lo stesso che esce attraverso S. Per S 0 si può scegliere qualsiasi forma si vuole; prendiamo perciò una sfera centrata nella carica, come in FIGURA 4.10. Possiamo allora calcolare facilmente il flusso attraverso di essa. Se il raggio della sferetta è r, il modulo di E su tutta la sua superficie è 1 q 4⇡✏ 0 r 2 e la direzione è sempre normale alla superficie. Il flusso totale attraverso S 0 si trova moltiplicando questa componente normale di E per l’area della superficie: ! q 1 q 0 flusso attraverso la superficie S = 4⇡r 2 = (4.31) 4⇡✏ 0 r 2 ✏0 che è un numero indipendente dal raggio della sfera! Questo ci dice che il flusso uscente attraverso S è ancora q/✏ 0 , un valore indipendente dalla forma di S purché la carica q si trovi nell’interno. Possiamo scrivere le nostre conclusioni come segue: 8 > 0 > > > En da = < q > > > > qualsiasi : ✏0 superficie S ⌅
se q è fuori da S se q è all’interno di S
(4.32)
Torniamo alla nostra analogia dei «proiettili» e vediamo se è sensata. Il nostro teorema dice che il flusso netto di proiettili attraverso a una superficie è nullo se la superficie non contiene il cannone che spara i proiettili. Se il cannone è racchiuso da una superficie di qualsiasi forma e dimensioni, il numero di proiettili che l’attraversano è sempre lo stesso: esso è dato dal numero di proiettili che il cannone «produce». Ma questo modello ci dice forse qualcosa di più di ciò che otteniamo scrivendo semplicemente l’equazione (4.32)? Nessuno è riuscito a ottenere che questi «proiettili» facessero qualcosa di più che produrre quell’unica legge. Dopo di che essi non producono che errori. Questo è il perché oggi si preferisce rappresentare il campo elettromagnetico in modo puramente astratto.
4.6 • Legge di Gauss. La divergenza di E
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4.6
Legge di Gauss. La divergenza di E
L’elegante risultato (4.32) è stato dimostrato per una singola carica puntiforme. Supponiamo ora che ci siano due cariche: una carica q1 in un punto e una carica q2 in un altro. Il problema appare più difficile. Il campo elettrico la cui componente normale dobbiamo integrare per ottenere il flusso è il campo dovuto a entrambe le cariche. Cioè, se E1 rappresenta il campo elettrico che sarebbe prodotto da q1 sola ed E2 rappresenta il campo elettrico prodotto da q2 sola, il campo elettrico totale è E = E1 + E2 Il flusso attraverso una generica superficie S è ⌅ ⌅ ⌅ (E1n + E2n ) da = E1n da + E2n da S
S
(4.33)
S
Il flusso in presenza di entrambe le cariche sarà il flusso dovuto a una singola carica più il flusso dovuto all’altra carica. Se tutt’e due le cariche si trovano fuori da S, il flusso attraverso S è zero. Se q1 è interna, ma q2 è esterna, allora il primo integrale dà q1 /✏ 0 e il secondo dà zero. Se la superficie circonda tutt’e due le cariche, ciascuna darà il suo contributo e si ha che il flusso è q1 + q2 ✏0 Evidentemente la regola generale è che il flusso totale uscente da una superficie chiusa è uguale alla carica totale interna divisa per ✏ 0 . Questo risultato è una legge generale importante del campo elettrostatico, chiamata legge di Gauss. Legge di Gauss:
⌅
En da =
qualunque superficie chiusa S
ossia
⌅
somma delle cariche interne ✏0
E · n da =
qualunque superficie chiusa S
dove Qint =
X
qi internamente aS
Qint ✏0
(4.34)
(4.35)
(4.36)
Se descriviamo la distribuzione delle cariche per mezzo di una densità di carica ⇢, possiamo pensare che ogni elemento di volume infinitesimo dV contenga una carica «puntiforme» ⇢ dV . La somma di tutte le cariche è perciò l’integrale ⌅ Qint = ⇢ dV (4.37) volume interno a S
Vedete dalla nostra derivazione che la legge di Gauss segue dal fatto che l’esponente nella legge di Coulomb è esattamente due. Un campo 1/r 3 o un qualunque campo 1/r n con n , 2 non darebbe la legge di Gauss. Perciò la legge di Gauss non è che un’espressione, in forma diversa, della legge di Coulomb sulla forza fra due cariche. Partendo dalla legge di Gauss si può infatti ritrovare la legge di Coulomb. Esse sono del tutto equivalenti, se soltanto ci ricordiamo che la forza fra cariche è radiale. Desideriamo ora scrivere la legge di Gauss per mezzo di derivate. Per far questo applichiamo la legge di Gauss a una superficie cubica infinitesima. Nel capitolo 3 si è mostrato che il flusso di
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Capitolo 4 • Elettrostatica
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E uscente da un cubetto è il prodotto di r · E per il volume dV del cubo. La carica interna a dV , per la definizione di ⇢, è ⇢ dV perciò la legge di Gauss dà r · E dV = cioè r·E =
⇢ dV ✏0 ⇢ ✏0
(4.38)
La forma differenziale della legge di Gauss è la prima delle equazioni fondamentali del campo elettrostatico, cioè l’equazione (4.5). Abbiamo così mostrato che le due equazioni dell’elettrostatica, cioè le equazioni (4.5) e (4.6) sono equivalenti alla legge di Coulomb. Considereremo ora un esempio di applicazione della legge di Gauss. (Molti altri esempi li incontreremo più avanti.)
4.7
Campo di una sfera di carica
Uno dei problemi difficili che si presentarono studiando la teoria dell’attrazione gravitazionale fu quello di provare che la forza prodotta da una sfera materiale piena era, sulla superficie della sfera, la stessa che se tutta la E materia fosse concentrata nel centro. Per molti anni Newton non pubblicò la P a sua teoria della gravitazione perché non si sentiva sicuro della correttezza di questo teorema. Superficie Nel cap. 13 del vol. 1 dimostrammo il teorema eseguendo l’integrale R Distribuzione gaussiana S di carica del potenziale e poi determinando la forza gravitazionale per mezzo del gradiente. Possiamo ora dimostrarlo in una maniera molto semplice, salvo che questa volta dimostreremo il corrispondente teorema per una sfera di carica elettrica uniformemente distribuita. (Siccome le leggi dell’elettroFIGURA 4.11 La legge di Gauss usata per trovare il campo di una sfera uniforme di carica. statica sono le stesse della gravitazione, la stessa dimostrazione potrebbe essere applicata al campo gravitazionale.) Ci domandiamo: qual è il campo elettrico E in un generico punto P esterno alla superficie di una sfera riempita da un’uniforme distribuzione di carica? Siccome non esiste alcuna direzione «speciale», possiamo ammettere che E è diretto dappertutto come i raggi uscenti dal centro della sfera. Consideriamo un’immaginaria superficie sferica col centro nella sfera di carica e che passa per il punto P (FIGURA 4.11). Per questa superficie il flusso uscente è ⌅
En da = E (4⇡R2 )
La legge di Gauss ci dice che questo flusso è uguale alla carica totale Q della sfera, divisa per ✏ 0 : E (4⇡R2 ) = ossia E=
Q ✏0
1 Q 4⇡✏ 0 R2
(4.39)
che è la stessa formula che si avrebbe per una carica puntiforme Q. Abbiamo così risolto il problema di Newton più facilmente che eseguendo l’integrazione. È naturalmente una facilità artificiosa: avete dovuto infatti spendere un certo tempo per poter capire la legge di Gauss, così che potete anche pensare che del tempo, in fondo, non se n’è guadagnato. Ma dopo che avrete applicato il teorema più e più volte la sua utilità comincerà a farsi evidente: si tratta di una questione di efficienza.
4.8
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4.8 • Linee di campo e superfici equipotenziali
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Linee di campo e superfici equipotenziali
Vogliamo ora dare una descrizione geometrica del campo elettrostatico. Le due leggi dell’elettrostatica, quella per cui il flusso è proporzionale alla carica interna e l’altra per cui il campo elettrico è il gradiente di un potenziale, possono anche essere rappresentate geometricamente. Illustriamo questo con due esempi. Per primo prendiamo il campo di una carica puntiforme. Tracciamo delle linee aventi la direzione del campo, cioè linee che sono sempre tangenti al campo, come in FIGURA 4.12. Esse sono chiamate linee di campo. Queste linee indicano dappertutto la direzione del vettore elettrico. Desideriamo però rappresentare anche il modulo del vettore. Possiamo stabilire la regola che l’intensità del campo elettrico sia rappresentata dalla «densità» delle linee. Per densità delle linee intendiamo il loro numero per unità d’area attraverso una superficie perpendicolare alle linee. Con queste due regole possiamo avere un’immagine del campo elettrico. Per una carica puntiforme la densità delle linee deve decrescere come 1/r 2 . Ma l’area di una superficie sferica, che è perpendicolare alle linee a qualsiasi distanza r, cresce come r 2 ; perciò se conserviamo lo stesso numero di linee a tutte le distanze dalla carica, la densità si manterrà proporzionale all’intensità del campo. Possiamo assicurare la costanza del numero di linee a ogni distanza se esigiamo che le linee siano continue, cioè che una volta partite dalla carica non si fermino mai. In termini di linee di forza, la legge di Gauss dice che le linee devono partire soltanto dalle cariche positive e terminare sulle cariche negative. Il numero di quelle che partono da una carica q deve essere eguale a q/✏ 0 . Un’analoga immagine geometrica si può trovare anche per il potenziale . Il modo più facile di rappresentare il potenziale è quello di tracciare delle superfici sulle quali è costante. Le chiameremo superfici equipotenziali, ossia superfici di uguale potenziale. Ora, qual è la relazione geometrica fra superfici equipotenziali e linee di campo? Il campo elettrico è il gradiente del potenziale; il gradiente ha la direzione del più rapido cambiamento di potenziale ed è quindi perpendicolare a una superficie equipotenziale. Infatti, se E non fosse perpendicolare a tale superficie, esso avrebbe una componente lungo questa e il potenziale cambierebbe da punto a punto della superficie; ma allora questa non potrebbe essere un’equipotenziale. Le superfici equipotenziali devono dunque essere dappertutto perpendicolari alle linee del campo elettrico. Per una carica isolata le superfici equipotenziali sono sfere centrate nella carica. Nella FIGURA 4.12 è mostrata l’intersezione di queste sfere con un piano che passa per la carica.
1
0 –1 2
–2 –3
3 4
1 2 3
Linee di E +
–
+
f = cost.
4.12 Linee di campo e superfici equipotenziali per una carica puntiforme positiva. FIGURA
4.13 Linee di campo e superfici equipotenziali per due cariche uguali e opposte. FIGURA
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Capitolo 4 • Elettrostatica
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Come secondo esempio consideriamo il campo in vicinanza di due cariche uguali, una positiva e una negativa. Ottenere il campo è facile: esso è la sovrapposizione dei campi di ciascuna carica e quindi basterà prendere due figure simili alla FIGURA 4.12 e sovrapporle... Impossibile! Si otterrebbero delle linee che si incrociano e questo non può essere perché E non può avere due direzioni nello stesso punto. Lo svantaggio della rappresentazione per mezzo delle linee di campo è qui evidente. È impossibile con ragionamenti geometrici analizzare in modo semplice l’andamento delle nuove linee di campo. Il principio di sovrapposizione, un principio semplice e profondo dei campi elettrici, non trova nel metodo delle linee di campo una facile rappresentazione. La rappresentazione mediante le linee di campo ha tuttavia la sua utilità, perciò si può desiderare lo stesso di tracciare il diagramma delle linee per una coppia di cariche uguali e opposte. Calcolando i campi con l’equazione (4.13) e i potenziali con la (4.23) si possono tracciare le linee di campo e le superfici equipotenziali. La figura FIGURA 4.13 mostra il risultato. Ma prima dobbiamo aver risolto il problema matematicamente!
Alcune unità di misura importanti.
Grandezza newton
F Q L W ⇢⇠
Unità
coulomb metro joule
Q/L 3
1/✏ 0 ⇠ F L 2 /Q2 E ⇠ F/Q ⇠ W /Q E ⇠ /L 1/✏ 0 ⇠
EL 2 /Q
coulomb/metro3 newton·metro2 /coulomb2 newton/coulomb
joule/coulomb = volt volt/metro volt·metro/coulomb
Applicazioni della legge di Gauss
5.1
5
L’elettrostatica è la legge di Gauss, più...
Ci sono due leggi fondamentali nell’elettrostatica: quella secondo la quale il flusso uscente da un volume è proporzionale alla carica interna, cioè la legge di Gauss, e quella che afferma la nullità della circuitazione del campo elettrico, cioè che E è il gradiente di un potenziale. Tutte le previsioni dell’elettrostatica seguono da queste due leggi. Però una cosa è esprimere matematicamente questi fatti un’altra è usarli facilmente e con una certa dose di abilità. In questo capitolo eseguiremo diversi calcoli che si possono fare direttamente con la legge di Gauss. Dimostreremo dei teoremi e descriveremo certi effetti – specialmente nei conduttori – che si possono capire molto facilmente per mezzo della legge di Gauss. La legge di Gauss da sola non può dare la soluzione di alcun problema, perché anche l’altra legge deve essere rispettata. Perciò quando adopreremo la legge di Gauss per risolvere un problema particolare dovremo aggiungervi qualcosa. Dovremo per esempio premettere qualche idea sull’aspetto del campo, basata, mettiamo, su argomenti di simmetria. Oppure dovremo introdurre specificatamente l’idea che il campo è il gradiente di un potenziale.
5.2
Equilibrio in un campo elettrostatico
Consideriamo per primo il seguente problema: quand’è che una carica puntiforme può essere in equilibrio stabile nel campo elettrico di altre cariche? A titolo di esempio, immaginiamo tre cariche negative uguali poste ai vertici di un triangolo equilatero, in un piano orizzontale. Una carica positiva messa nel centro del triangolo vi resterebbe? (È più semplice ignorare per il momento la forza di gravità, benché la sua inclusione non cambi i risultati.) La forza sulla carica positiva è nulla, ma l’equilibrio sarà stabile? La carica ritorna nella posizione d’equilibrio se la spostiamo leggermente? La risposta è no. Non vi sono posizioni di equilibrio stabile per una carica puntiforme in qualsiasi campo elettrostatico, eccetto che direttamente a ridosso di un’altra carica (di segno opposto). Utilizzando la legge di Gauss è facile vederne il motivo. In primo luogo, perché una carica sia in equilibrio in un certo punto P0 il campo deve essere nullo. In secondo luogo, se l’equilibrio deve essere stabile dobbiamo esigere che se allontaniamo la carica da P0 in qualsiasi direzione vi sia una forza di richiamo che si oppone allo spostamento. Il campo elettrico in tutti i punti vicini deve puntare verso il punto P0 . Ma questo implica una violazione della legge di Gauss se non c’è una carica in P0 , come si può vedere facilmente. Consideriamo una minuscola superficie immaginaria che racchiude P0 , come in FIGURA 5.1. Se il campo elettrico in tutti i punti vicini punta verso P0 , l’integrale di superficie della componente normale è certamente non nullo. Nel caso in figura il flusso uscente dalla superficie deve essere una quantità negativa. Ma la legge di Gauss dice che il flusso uscente del campo elettrico attraverso qualsiasi superficie chiusa è proporzionale alla carica totale interna. Se non c’è una carica in P0 , il flusso che abbiamo immaginato viola la legge di Gauss. È impossibile mantenere in equilibrio una carica positiva nello spazio vuoto, cioè in un punto dove non c’è una qualche carica negativa.
P0
Superficie immaginaria che circonda P0
5.1 Se P0 fosse una posizione di equilibrio stabile per una carica positiva, il campo elettrico dappertutto intorno dovrebbe essere rivolto verso P 0 . FIGURA
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Capitolo 5 • Applicazioni della legge di Gauss
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Una carica positiva può tuttavia essere in equilibrio se si trova in mezzo a una carica negativa distribuita nello spazio. Naturalmente, però, la distribuzione di carica negativa dovrebbe essere mantenuta al suo posto da forze non elettriche! Il risultato ora ottenuto vale per una carica puntiforme. Continuerà a valere per una combinazione complessa di cariche mantenute in posizioni relative fisse, per esempio per mezzo di aste rigide? Consideriamo il problema di due cariche fissate a un’asta. È possibile che questa struttura possa restare in equilibrio in qualche campo elettrostatico? La risposta è nuovamente no. La risultante delle forze agenti sull’asta non può essere una forza di richiamo per spostamenti in qualsiasi direzione. Chiamiamo F la risultante delle forze sull’asta in una posizione generica: F è quindi un campo vettoriale. Ripetendo il ragionamento di prima, se ne conclude che in una posizione di equilibrio stabile la divergenza di F deve essere una quantità negativa. Ma la risultante sull’asta è data dalla somma dei prodotti delle cariche per i campi nei rispettivi punti: F = q1 E1 + q2 E2
(5.1)
La divergenza di F è data da r · F = q1 (r · E1 ) + q2 (r · E2 ) Se ciascuna delle due cariche q1 e q2 si trova in uno spazio vuoto, allora sia r · E1 sia r · E2 sono zero, e r · F è zero – non negativo, come si richiederebbe per l’equilibrio. Da qui si intuisce come un’estensione del ragionamento possa mostrare che nessuna struttura rigida di un numero qualsivoglia di cariche può avere una posizione d’equilibrio stabile in un campo elettrostatico nel vuoto. Con questo non si è dimostrato che l’equilibrio è impossibile nel caso che ci siano perni o altri vincoli meccanici. A titolo d’esempio consideriamo un tubo nell’interno del quale una carica si può muovere liberamente avanti e indietro ma non lateralmente. È ora molto facile immaginare un campo elettrico che punti verso l’interno a entrambi gli estremi del tubo se si permette a questo campo di essere diretto lateralmente in fuori vicino al centro del tubo. Basta per questo mettere due cariche positive agli estremi del tubo, come in FI+ + + GURA 5.2. Adesso si può avere un punto d’equilibrio benché la divergenza di E sia nulla. La carica natuTubo ralmente non sarebbe in equilibrio stabile rispetto a spostamenti laterali, se non vi fossero le forze «non FIGURA 5.2 Una carica può trovarsi in equilibrio se ci sono dei vincoli meccanici. elettriche» esercitate dalle pareti del tubo.
5.3
Equilibrio in presenza di conduttori
Non c’è un punto di stabilità nel campo di un sistema di cariche fisse. Cosa si può dire per un sistema di conduttori carichi? Può un sistema di conduttori carichi produrre un campo dove si abbia un punto d’equilibrio stabile per una carica puntiforme? (Intendiamo naturalmente un punto che non si trovi su uno dei conduttori.) Sapete che i conduttori hanno la proprietà che le cariche si possono muovere liberamente in essi: forse quando la carica puntiforme si sposta leggermente le altre cariche che si trovano sui conduttori si muoveranno in modo da creare una forza di richiamo sulla carica stessa? La risposta è ancora un no, benché la dimostrazione che abbiamo dato non lo lasci capire. In questo caso il ragionamento è più difficile e vogliamo solo dare un’indicazione di come procede. Per prima cosa notiamo che quando le cariche si ridistribuiscono sui conduttori lo fanno solo in quanto il loro moto fa diminuire la loro energia potenziale. (Una certa energia viene perduta come calore mentre esse si muovono nel conduttore.) Ora, abbiamo già mostrato che se le cariche che producono il campo sono stazionarie, a partire da ogni punto P0 di annullamento del campo c’è qualche direzione in cui una carica allontanandosi da P0 produrrà una diminuizione
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5.5 • Il campo di una carica lineare
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5.3 Il modello atomico di Thompson. FIGURA
Sfera uniforme di carica positiva
Nucleo positivo nel centro
– +
Carica negativa concentrata nel centro
– –
Elettroni negativi in orbite planetarie
dell’energia del sistema (perché la forza aiuta l’allontanamento da P0 ). Qualsiasi riaggiustamento delle cariche sui conduttori non può che abbassare l’energia potenziale ancora di più e perciò (per il principio dei lavori virtuali) il loro moto può soltanto aumentare la forza di allontanamento da P0 , invece di invertirla. Le nostre conclusioni non vogliono dire che non è possibile tenere una carica in equilibrio per mezzo di forze elettriche. Questo è possibile se si è disposti a controllare con adatti dispositivi le posizioni o le grandezze delle cariche che devono fare da sostegno. Voi sapete che una bacchetta che si regge sulla punta in un campo gravitazionale è instabile, ma questo non prova che non la si possa tenere in equilibrio sulla punta di un dito. Similmente una carica può essere trattenuta in un punto da campi elettrici se questi sono variabili, ma non da un sistema passivo, cioè statico.
5.4
Stabilità degli atomi
Se le cariche non possono essere mantenute stabilmente in posizioni fisse, non è certamente appropriato immaginare che la materia sia fatta di cariche statiche puntiformi (elettroni e protoni) rette soltanto dalle leggi dell’elettrostatica. Una tale configurazione è impossibile: essa crollerebbe! Fu suggerito un tempo che la carica positiva di un atomo poteva darsi che fosse distribuita uniformemente in una sfera e che le cariche negative, cioè gli elettroni, potevano trovarsi in quiete dentro la carica positiva, come mostra la FIGURA 5.3. Proposto da Thompson, questo fu il primo modello atomico. Ma Rutherford concluse dall’esperienza di Geiger e Marsden che le cariche positive erano molto più concentrate, in ciò che egli chiamò il nucleo. Il modello statico di Thompson dovette essere abbandonato. Rutherford e Bohr suggerirono allora che l’equilibrio poteva essere dinamico, con gli elettroni che girano su delle orbite come è indicato in FIGURA 5.4. I loro moti orbitali avrebbero impedito agli elettroni di cadere verso il nucleo. Conosciamo già almeno una difficoltà di questo modello. Con un simile moto gli elettroni sarebbero accelerati (a causa del loro movimento circolare) e perciò dovrebbero irradiare energia: essi perderebbero l’energia cinetica necessaria per restare in orbita e seguendo una spirale si precipiterebbero verso il nucleo. Ancora una volta instabili! Oggi la stabilità degli atomi si spiega per mezzo della meccanica quantistica. Le forze elettrostatiche traggono l’elettrone quanto più possibile vicino al nucleo, ma l’elettrone è costretto a rimanere diffuso nello spazio, per un’estensione che è data dal principio di indeterminazione. Se fosse confinato in uno spazio troppo piccolo, ci sarebbe una forte incertezza nel suo impulso e questo vorrebbe dire anche un alto valore di aspettazione per l’energia, energia che sarebbe utilizzata per sfuggire all’attrazione elettrica. Il risultato finale è un equilibrio elettrico non molto diverso dall’idea di Thompson, salvo che è la carica negativa a essere diffusa (perché la massa dell’elettrone è tanto più piccola di quella del protone).
5.5
Il campo di una carica lineare
La legge di Gauss può essere usata per risolvere diversi problemi di campi elettrostatici implicanti una speciale simmetria usualmente sferica, cilindrica o piana. Nel resto di questo capitolo appli-
5.4 Il modello atomico di Rutherford-Bohr. FIGURA
56
Capitolo 5 • Applicazioni della legge di Gauss
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cheremo la legge di Gauss ad alcuni di questi problemi. La facilità con la quale questi problemi vengono risolti può dare l’ingannevole impressione che il metodo sia molto potente, e che lo si potrebbe estendere a molti altri problemi. Purtroppo non è così. La lista dei problemi che si possono risolvere facilmente con la legge di Gauss si esaurisce presto. Metodi più potenti per studiare i campi elettrostatici saranno sviluppati in successivi capitoli. Come primo esempio consideriamo un sistema con simmetria cilindrica. Supponiamo di avere un’asta molto lunga uniformemente carica. Con questo intendiamo dire che le cariche elettriche sono distribuite uniformemente lungo una linea retta indefinitamente lunga, con una carica per unità di lunghezza. Vogliamo determinare il campo elettrico. Naturalmente il problema si può risolvere integrando il contributo al campo di ogni elemento della linea. Lo risolveremo invece senza fare integrali, usando la legge di Gauss e un po’ d’intuizione. Anzitutto si può intuire che il campo emanerà radialmente dalla retta carica. Infatti ogni componente assiale dovuta a cariche che si trovano da una parte è compensata da una componente uguale e opposta dovuta a cariche situate dall’altra parte. Il risultato, perciò, può essere soltanto un campo radiale. Sembra anche ragionevole ammettere che il campo abbia lo stesso modulo in tutti i punti che si trovano alla stessa distanza dalla linea. Questo è ovvio. (Può essere una cosa non facile da dimostrare, ma è vera se lo spazio è simmetrico – come riteniamo che sia.) Possiamo applicare la legge di Gauss nel modo seguente. Consideriamo una superficie immaginaria avente la forma di un cilindro coassiale con la retta, come mostra la FIGURA 5.5. Secondo la legge di Gauss il flusso totale E di E su questa superficie è uguale alla carica interna divisa per ✏ 0 . Siccome si suppone che il campo sia normale alla superficie, la componente normale è data dal modulo del campo. Chiamiamolo E. Inoltre sia r il raggio del r cilindro, e la sua lunghezza sia presa uguale a uno per comodità. Il flusso attraverso la superficie cilindrica è uguale a E moltiplicato per l’area della Supericie superficie che è 2⇡r. Il flusso attraverso le due facce terminali è nullo perché gaussiana Carica lineare il campo elettrico è tangente a esse. La carica totale interna è proprio , perché il tratto di linea carica interno al cilindro è di una unità. La legge di Gauss dà perciò FIGURA 5.5 Una superficie gaussiana cilindrica coassiale con una carica lineare.
E · 2⇡r =
✏0
da cui segue E=
2⇡✏ 0 r
(5.2)
Cioè il campo elettrico di una carica lineare va come l’inverso della prima potenza della distanza dalla linea.
5.6
Singola lamina carica e doppia lamina carica
Come altro esempio vogliamo calcolare il campo di una lamina piana uniformemente carica. Supponiamo che il piano abbia un’estensione infinita e che la carica per unità d’area sia . Faremo ancora appello all’intuizione. Considerazioni di simmetria ci inducono a ritenere che la direzione del campo sia dappertutto normale al piano e che, se non si hanno campi dovuti ad altre cariche nell’universo, i campi devono essere gli stessi (in modulo) da ciascun lato. Questa volta sceglieremo come superficie di Gauss una scatola rettangolare che taglia simmetricamente la lamina, come mostra la FIGURA 5.6. Le due facce parallele alla lamina avranno aree A uguali. Il campo è normale a queste due facce e parallelo alle altre quattro. Il flusso totale è il prodotto di E per l’area della prima faccia più il prodotto di E per l’area della faccia opposta, senza contributi dalle altre facce. La carica complessiva contenuta nella scatola è A. Uguagliando il flusso alla carica interna otteniamo A EA + EA = ✏0
57
5.7 • Sfera carica e guscio sferico carico
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da cui segue E=
(5.3)
2✏ 0
risultato semplice, ma importante. Ricorderete che lo stesso risultato si era ottenuto in un capitolo precedente con un’integrazione sull’intera superficie. La legge di Gauss ci dà la risposta, in questo caso, molto più rapidamente (benché non sia applicabile così in generale come il metodo precedente). Si deve sottolineare che questo risultato si applica soltanto al campo dovuto alle cariche della lamina. Se ci sono altre cariche nei paraggi, il campo totale nell’immediata vicinanza della lamina sarebbe la somma di (5.3) e del campo di queste altre cariche. La legge di Gauss allora ci direbbe soltanto che E1 + E2 = (5.4) ✏0
Lamina uniformemente carica
E2
E1
Superficie gaussiana
dove E1 ed E2 sono i campi, diretti all’infuori, da ciascun lato della lamina. Il problema di due lamine parallele con densità di carica uguali e opposte + e è altrettanto semplice se supponiamo nuovamente che il mondo FIGURA 5.6 Il campo elettrico vicino a una lamina esterno sia del tutto simmetrico. Sia sovrapponendo le soluzioni per le uniformemente carica si può trovare applicando lamine singole, sia costruendo una «scatola gaussiana» che includa le due la legge di Gauss a una scatola immaginaria. lamine, si vede facilmente che il campo è nullo fuori dalle due lamine (FIGURA 5.7a). Considerando una scatola che include solo l’una o l’altra delle due lamine, come – + in FIGURA 5.7b oppure in FIGURA 5.7c, si può vedere che il campo fra le due lamine deve essere E = 0 due volte quello che si ha per una lamina singola. Il risultato è dunque: – E=0 + E (fra le lamine)
=
✏0
+
(5.5) (a)
+
E (fuori dalle lamine) = 0
(5.6)
–
E +
–
+
–
– –
+ –E/2 +
–
+
–
(b)
5.7
+
Sfera carica e guscio sferico carico
+
Nel capitolo 4 abbiamo già utilizzato la legge di Gauss per trovare il campo all’esterno di una regione sferica uniformemente carica. Lo stesso metodo ci può anche dare il campo nei punti interni alla sfera. Per esempio, tale calcolo può essere usato per ottenere una buona approssimazione del campo all’interno di un nucleo atomico. Nonostante i protoni in un nucleo si respingano l’un l’altro, essi, a causa delle intense forze nucleari, sono sparsi quasi uniformemente nel corpo del nucleo. Supponiamo di avere una sfera di raggio R riempita uniformemente di carica. Sia ⇢ la carica per unità di volume. Adoperando di nuovo argomenti di simmetria, supporremo che il campo sia radiale e uguale in modulo in tutti i punti che sono alla stessa distanza dal centro. Per trovare il campo alla distanza r dal centro, prendiamo una superficie di Gauss sferica di raggio r (r < R), come nella FIGURA 5.8. Il flusso uscente da questa superficie è 4⇡r 2 E La carica interna alla superficie gaussiana è data dal volume interno moltiplicato per ⇢, ossia 4 3 ⇡r ⇢ 3 In base alla legge di Gauss, ne segue che il modulo del campo è dato da E=
⇢r 3✏ 0
(r < R)
(5.7)
–
+E/2 +
–
–
(c) +
–
5.7 Il campo fra due lamine cariche è / 0 . FIGURA
58
Capitolo 5 • Applicazioni della legge di Gauss
5.8 Si può usare la legge di Gauss per trovare il campo dentro una sfera uniformemente carica.
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FIGURA
Densità uniforme di carica
E r
5.9 Il campo è nullo in ogni punto P interno a un involucro sferico di carica.
∆a1
FIGURA
R
r1
P E
r2 µ 1/r 2
µr
R
∆a2
r
Potete vedere che questa formula dà il risultato appropriato per r = R. Il campo elettrico è proporzionale al raggio e diretto radialmente in fuori. Il ragionamento ora fatto per una sfera uniformemente carica si può applicare anche a un sottile guscio di carica. Supponendo che il campo sia dappertutto radiale e sfericamente simmetrico, si ottiene immediatamente dalla legge di Gauss che il campo fuori dal guscio è come quello di una carica puntiforme, mentre il campo all’interno del guscio è dappertutto nullo. (Una superficie gaussiana interna al guscio non conterrà carica.)
5.8
Il campo di una carica puntiforme varia esattamente come 1/r 2 ?
Guardando un po’ più in dettaglio come mai il campo all’interno di un guscio sferico debba essere nullo, si può vedere più chiaramente perché la legge di Gauss è vera solo in quanto la forza coulombiana dipende esattamente dal quadrato della distanza. Consideriamo un qualunque punto P interno a un guscio sferico uniforme di carica. Immaginiamo un piccolo cono con vertice in P che incontra la superficie della sfera, dove stacca una piccola superficie a1 , come in FIGURA 5.9. Un cono esattamente simmetrico che diverge dalla parte opposta rispetto a P staccherebbe sulla sfera la superficie a2 . Se le distanze di questi due elementi di superficie da P sono r 1 e r 2 , le aree stanno nel rapporto a2 r 22 = a1 r 12 (Questo risulta da considerazioni di geometria per ogni punto P interno alla sfera.) Se la superficie della sfera è uniformemente carica, la carica q su ciascun elemento di superficie è proporzionale alla superficie e perciò si ha q2 = q1
a2 a1
Ma la legge di Coulomb dice che i moduli dei campi prodotti in P da questi due elementi di superficie stanno nel rapporto q2 r2 E2 = 2 = q1 E1 r 12
q2 r 12 = q1 r 22
q2 q1
a1 =1 a2
5.8 • Il campo di una carica puntiforme varia esattamente come 1/r 2 ?
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59
5.10 Il campo elettrico all’interno di un involucro conduttore chiuso è nullo. FIGURA
+ Sfera cava + carica + +
+
+
Isolante
++
+
+ + + +
+ +
+ ++ +
+
+
+
+
0
+
+
1
+ +
+ + +
+
+
0 1
Elettrometro
Tali campi si compensano perciò esattamente. Siccome tutti gli elementi della superficie possono venire appaiati nello stesso modo, il campo totale in P è nullo. Potete però vedere che questo non avverrebbe se l’esponente di r nella legge di Coulomb non fosse esattamente due. La validità della legge di Gauss dipende dalla proporzionalità con l’inverso del quadrato che si ha nella legge di Coulomb. Se la legge di forza non fosse esattamente secondo l’inverso del quadrato, non sarebbe vero che il campo dentro una sfera uniformemente carica è esattamente nullo. Per esempio, se la forza variasse più rapidamente, diciamo come l’inverso del cubo, quella porzione della superficie che è più vicina a un punto interno produrrebbe un campo più grande di quella che si trova più lontano, il che per una carica superficiale positiva darebbe un campo risultante diretto radialmente all’interno. Queste conclusioni suggeriscono una maniera elegante per scoprire se la legge dell’inverso del quadrato è esattamente corretta. Basta per questo determinare se il campo all’interno di un guscio sferico uniformemente carico è esattamente nullo. È una fortuna che un tale metodo esista. È di solito difficile misurare una grandezza fisica con un’elevata precisione: un risultato all’uno per cento può riuscire non troppo difficile, ma come ci si potrebbe mettere a verificare la legge di Coulomb con una precisione, diciamo, di una parte su un miliardo? È certamente impossibile, con le migliori tecniche disponibili, misurare la forza fra due oggetti carichi con una simile precisione. Invece, limitandosi a determinare che i campi elettrici internamente a una sfera carica sono più piccoli di un certo valore, si può fare una misura di alta precisione della correttezza della legge di Gauss e quindi della dipendenza secondo l’inverso del quadrato che appare nella legge di Coulomb. Quello che effettivamente si fa è confrontare la legge di forza con una legge ideale di quadrato inverso. Simili confronti di cose che sono uguali, o quasi uguali, sono usualmente alla base delle misure fisiche più precise. Come osserveremo il campo dentro una sfera carica? Un modo è cercare di caricare un oggetto facendogli toccare l’interno di un conduttore sferico. Sapete che se con una pallina metallica tocchiamo prima un oggetto carico e poi un elettrometro, questo si carica e il suo indice devia dallo zero (FIGURA 5.10a). La pallina cattura una carica perché ci sono campi elettrici esternamente alla sfera carica che costringono delle cariche a portarsi sulla pallina (o ad abbandonarla). Se rifate lo stesso esperimento toccando con la pallina l’interno della sfera carica, trovate che nessuna carica viene trasportata sull’elettrometro. Con una simile esperienza si può mostrare facilmente che il campo all’interno è al più qualche per cento del campo all’esterno, e quindi la legge di Gauss è almeno approssimativamente corretta. Sembra che Benjamin Franklin sia stato il primo ad accorgersi che il campo dentro un involucro conduttore è nullo. Il risultato gli sembrò strano. Quando riferì la sua osservazione a Priestley, questi suggerì che la cosa poteva essere in relazione con una legge di quadrato inverso, perché si sapeva che un guscio sferico di materia non produce alcun campo gravitazionale nell’interno. Tuttavia Coulomb non misurò la dipendenza dal quadrato inverso se non 18 anni dopo e la legge di Gauss venne più tardi ancora. La legge di Gauss è stata verificata accuratamente mettendo un elettrometro dentro una grande sfera e osservando se si hanno deflessioni quando la sfera viene caricata a un alto potenziale. Si ottiene costantemente un risultato nullo. Conoscendo la geometria dell’apparecchio e la sensibilità dell’elettrometro è possibile calcolare il campo minimo che si potrebbe osservare. Da questo risultato è possibile fissare un limite superiore alla deviazione dell’esponente dal valore due.
60
Capitolo 5 • Applicazioni della legge di Gauss
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Scrivendo che la forza elettrostatica dipende da r 2+✏ , si può dare un limite superiore per ✏. Con questo metodo Maxwell stabilì che era meno di 1/10 000. L’esperimento fu ripetuto e migliorato nel 1936 da Plimpton e Lawton. Essi trovarono che l’esponente della legge di Coulomb differisce per meno di una parte su un miliardo dal valore due. Ora, questo solleva un interessante problema: cosa sappiamo sull’esattezza della legge di Coulomb in circostanze diverse? L’esperienza che ora abbiamo descritto determina la dipendenza del campo dalla distanza per distanze di qualche decina di centimetri. Ma che ne sarà per le distanze interne a un atomo, per esempio nell’atomo d’idrogeno, nel quale pensiamo che l’elettrone sia attratto dal nucleo secondo la stessa legge del quadrato inverso? È vero che si deve adoperare la meccanica quantistica per studiare l’aspetto meccanico del comportamento dell’elettrone, ma la forza è la solita forza elettrostatica. Nella formulazione del problema occorre conoscere l’energia potenziale dell’elettrone in funzione della distanza dal nucleo e la legge di Coulomb dà un potenziale che varia come l’inverso della prima potenza della distanza. Con quanta esattezza si conosce l’esponente per tali piccole distanze? In seguito a misure molto precise eseguite nel 1947 da Lamb e Retherford sulle posizioni relative dei livelli energetici dell’idrogeno, sappiamo che l’esponente è corretto a meno di una parte su un miliardo anche alla scala atomica, cioè per distanze dell’ordine di un angstrom (10 8 cm). Anche la precisione della misura di Lamb e Retherford è stata possibile grazie a un fatto fisico «accidentale». Si ritiene infatti che due degli stati dell’atomo di idrogeno abbiano energie quasi identiche soltanto se il potenziale varia esattamente come 1/r. Tale piccolissima differenza d’energia venne misurata determinando la frequenza ! dei fotoni che sono emessi o assorbiti nella transizione da uno stato all’altro e usando E = ~! come espressione di questa differenza. Il calcolo mostra che E sarebbe stato apprezzabilmente diverso dal valore osservato se l’esponente nella legge di forza 1/r 2 differisse da 2 anche soltanto di una parte su un miliardo. Il medesimo esponente sarà corretto a distanze ancora più brevi? Da misure nel campo della fisica nucleare si trova che ci sono forze elettrostatiche alle distanze nucleari tipiche, cioè a circa 10 13 cm, e che esse variano ancora approssimativamente come il quadrato inverso. Esamineremo parte delle prove in questo senso in un capitolo successivo. Possiamo dunque ritenere che la legge di Coulomb è ancora valida, almeno in una certa misura, a distanze dell’ordine di 10 13 cm. Cosa si può dire per 10 14 cm? Questo campo può essere investigato bombardando dei protoni con elettroni molto energetici e osservando come questi vengono diffusi. I risultati sembrano finora indicare che a queste distanze la legge viene meno. La forza elettrica sembra che sia circa 10 volte troppo debole a distanze minori di 10 14 cm. Qui ci sono due possibili spiegazioni. Una è che la legge di Coulomb non funzioni a distanze così piccole; l’altra è che i nostri oggetti, elettroni e protoni, non siano cariche puntiformi. Forse l’elettrone o il protone o tutti e due sono qualcosa di diffuso. I più fra i fisici preferiscono pensare che la carica del protone sia diffusa. Sappiamo che i protoni interagiscono fortemente con i mesoni. Questo implica che un protone di tanto in tanto esisterà come un neutrone con un mesone ⇡+ che gli circola intorno. Una tale configurazione si comporterebbe – in media – come una sferetta di carica positiva e sappiamo che il campo di una sfera di carica non varia come 1/r 2 fino al proprio centro. È affatto verosimile che la carica del protone sia diffusa, ma la teoria dei pioni è ancora molto incompleta sicché può anche essere che la legge di Coulomb cada in difetto a distanze molto piccole. Il problema è ancora aperto. Ancora un punto: la legge del quadrato inverso è valida a distanze dell’ordine del metro e anche per 10 10 m; ma il coefficiente 1/(4⇡✏ 0 ) rimane lo stesso? La risposta è sì, almeno con una precisione di 15 parti su un milione. Torniamo ora a un argomento importante che abbiamo trascurato parlando della verifica sperimentale della legge di Gauss. Forse vi sarà venuta la curiosità di sapere come l’esperimento di Plimpton e Lawton abbia potuto assicurare una precisione così elevata, che potrebbe far pensare all’uso di una sfera perfetta. Raggiungere una precisione di una parte su un miliardo non è davvero una cosa da poco e vi potete giustamente domandare se essi potevano fare una sfera tanto precisa. Sicuramente ci sono leggere irregolarità in qualsiasi sfera materiale, e se ci sono non produrranno dei campi all’interno? Desideriamo ora far vedere che non è necessario avere una sfera perfetta. È infatti possibile mostrare che non c’è campo dentro a un involucro chiuso conduttore di qualsiasi forma. In altre parole le esperienze dipendevano da 1/r 2 , ma non avevano niente a che fare con l’essere la superficie una sfera (salvo il fatto che con una sfera è
5.9 • I campi di un conduttore
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più facile calcolare quali sarebbero i campi se Coulomb avesse sbagliato). Riprendiamo perciò l’argomento, ma per trattarlo è necessario conoscere qualche proprietà dei conduttori elettrici.
5.9
I campi di un conduttore
Un conduttore elettrico è un solido che contiene molti elettroni «liberi». Questi elettroni si possono muovere liberamente nel materiale, ma non possono abbandonare la sua superficie. In un metallo ci sono talmente tanti elettroni liberi che qualsiasi campo elettrico ne mette in moto numeri grandissimi. La corrente di elettroni che viene a crearsi o è continuamente tenuta in movimento da sorgenti esterne d’energia oppure cesserà appena essi neutralizzeranno le sorgenti che hanno prodotto il campo iniziale. In condizioni «elettrostatiche» non si considerano sorgenti continue di corrente (esse saranno considerate più tardi, quando studieremo la magnetostatica); perciò gli elettroni si muovono soltanto fino a che si sono distribuiti in modo da produrre un campo elettrico dovunque nullo nell’interno del conduttore. (Questo succede ordinariamente in una piccola frazione di secondo.) Se ci fosse un campo residuo, questo campo spingerebbe ancora altri elettroni a muoversi: perciò la sola soluzione elettrostatica è che il campo interno sia dappertutto nullo. Consideriamo ora l’interno di un oggetto conduttore carico. (Con la parola «interno» intendiamo nel metallo stesso.) Dato che il metallo è un conduttore, il campo interno deve essere nullo, e perciò il gradiente del potenziale è anch’esso nullo. Questo vuol dire che il potenziale non varia da punto a punto: ogni conduttore è una regione equipotenziale e la sua superficie è una superficie equipotenziale. Siccome in un materiale conduttore il campo elettrico è dovunque nullo, la divergenza di E è zero e per la legge di Gauss la densità di carica nell’interno del conduttore deve essere nulla. Se non ci sono cariche in un conduttore, come potrà mai essere carico? Che cosa intendiamo quando diciamo che un conduttore è carico? Dove stanno le cariche? La risposta è che esse risiedono alla superficie del conduttore, dove ci sono forze intense che impediscono loro di allontanarsi: esse non sono completamente «libere». Quando studieremo la fisica dello stato solido, troveremo che la carica in eccesso su un qualunque conduttore si trova in media dentro uno o due strati atomici della superficie. Per gli scopi presenti, è abbastanza preciso dire che, se una carica è posta su o dentro un conduttore, essa si accumula tutta sulla superficie: non c’è carica nell’interno di un conduttore. Notiamo inoltre che il campo elettrico appena fuori dalla superficie di un conduttore deve essere normale alla superficie. Non ci possono essere componenti tangenziali. Se ci fosse una componente tangenziale, gli elettroni si muoverebbero lungo la superficie perché non ci sarebbero forze che lo impediscano. Detto in un altro modo: sappiamo che le linee del campo elettrico devono incontrare sempre ad angolo retto le superfici equipotenziali. Possiamo anche, adoperando la legge di Gauss, mettere in rapporto il campo appena fuori del conduttore con la densità locale di carica sulla superficie. Prendiamo come superficie gaussiana una scatoletta cilindrica che sta mezza fuori dalla superficie e mezza dentro, come quella che si vede in FIGURA 5.11. Il contributo al flusso totale di E viene soltanto dalla parte che sta fuori dal conduttore. Il campo appena fuori della superficie di un conduttore è perciò il seguente. Campo esterno a un conduttore:
(5.8) ✏0 dove è la densità superficiale di carica nel punto considerato. Perché uno strato di carica su un conduttore produce un campo diverso da quello del medesimo strato, pensato esteso indefinitamente? In altre parole, perché la (5.8) è il doppio della (5.3)? La ragione naturalmente è che nel caso del conduttore non abbiamo detto che non ci sono «altre» cariche. Di fatto, ce ne devono essere perché si possa avere E = 0 nel conduttore. Le cariche nell’immediata vicinanza di un punto P della superficie danno effettivamente un campo E=
Elocale =
locale
2✏ 0
61
62
Capitolo 5 • Applicazioni della legge di Gauss
5.11 Il campo elettrico appena fuori dalla superficie di un conduttore è proporzionale alla densità superficiale locale di carica.
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FIGURA
5.12
Qual è il campo in una cavità vuota, di qualunque forma, all’interno di un conduttore? FIGURA
+
+
+
+
+
+
+ +
+
+
+
Superficie gaussiana
E2 = /
+
E=?
+
+ ? + +
+
+
Curva chiusa
+
– ? – – – –
+ +
+
+
+
+
0
+
+ +
+ +
+
+
+
+
+
+
+
Conduttore E1 = 0
+
+
+
+
+
+
+
Cavità vuota + + + Conduttore +
Densità superficiale locale di carica
+
+
+
Superficie S
sia al di qua sia al di là della superficie. Ma tutte le rimanenti cariche del conduttore «concorrono» a produrre nel punto P un campo addizionale uguale, in modulo, a Elocale . Il campo totale interno va perciò a zero e quello esterno diventa 2 Elocale =
5.10
locale
✏0
Il campo nella cavità di un conduttore
Torniamo ora al problema del recipiente cavo, cioè di un conduttore con una cavità. Nel metallo non c’è campo, ma che succederà nella cavità? Mostreremo che se la cavità è vuota non ci sono campi in essa, qualunque sia la forma del conduttore o della cavità, per esempio quella di FIGURA 5.12. Consideriamo una superficie gaussiana come S (FIGURA 5.12) che racchiude la cavità ma resta dappertutto nel materiale conduttore. Il campo è nullo dovunque su S, perciò non c’è flusso attraverso S e la carica totale interna a S è nulla. Per un guscio sferico si potrebbe dedurre dalla simmetria che non ci può essere carica all’interno. In generale però potremo soltanto dire che ci sono uguali quantità di cariche positive e negative sulla superficie interna del conduttore. Ci potrebbe essere una carica superficiale positiva da una parte e una negativa in qualche altra parte, come indicato nella FIGURA 5.12. Una tale situazione non può essere esclusa dalla legge di Gauss. Naturalmente, quello che succede in realtà è che cariche uguali e opposte che si trovassero sulla superficie interna scivolerebbero l’una verso l’altra per elidersi completamente. Possiamo far vedere che si devono elidere completamente in base alla legge secondo la quale la circuitazione di E è sempre nulla (in elettrostatica). Supponiamo che ci siano delle cariche in certe zone della superficie interna: sappiamo che ci dovrebbero essere un ugual numero di cariche opposte in qualche altra zona. Ora, le linee di E dovrebbero partire dalle cariche positive e terminare su quelle negative (giacché stiamo considerando il caso in cui non ci sono cariche libere nella cavità). Immaginiamo una linea chiusa che attraversi la cavità lungo una linea di forza che va da una delle cariche positive a una delle cariche negative e torni al suo punto di partenza passando dentro al conduttore (come in FIGURA 5.12). L’integrale lungo una simile linea di forza dalla carica positiva a quella negativa non potrebbe essere nullo. L’integrale attraverso il metallo è nullo, perché qui si ha E = 0. Perciò si avrebbe ⇥ E · ds , 0 ???
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5.10 • Il campo nella cavità di un conduttore
Ma l’integrale di linea di E lungo una curva chiusa qualsiasi in un campo elettrostatico è sempre nullo. Perciò non ci possono essere campi in una cavità vuota, né cariche sulla sua superficie interna. Dovreste rilevare attentamente un’importante riserva che è stata fatta. Si è sempre detto «internamente a una cavità vuota». Se delle cariche sono state poste in date posizioni nella cavità, per esempio su un isolante o su un piccolo conduttore isolato dal conduttore principale, allora ci possono essere dei campi nella cavità. Ma allora la cavità non è più «vuota». Si è mostrato che se una cavità è completamente circondata da un conduttore nessuna distribuzione statica di cariche esterne può produrre alcun campo nell’interno. Questo spiega il principio di «schermare» le apparecchiature elettriche mettendole in una scatola metallica. Gli stessi ragionamenti si possono usare per far vedere che distribuzioni statiche di cariche all’interno di un conduttore messo a terra non possono produrre alcun campo all’esterno: la schermatura è efficace nei due sensi! In elettrostatica – ma non con campi variabili – i campi dalle due parti di un involucro chiuso conduttore sono completamente indipendenti(1) . Ora vi rendete conto di come sia stato possibile verificare la legge di Coulomb con una precisione così grande. La forma dell’involucro cavo che si adopera non ha importanza. Non c’è bisogno che sia sferico; potrebbe anche essere quadrato! Se la legge di Gauss è esatta, il campo interno è sempre nullo. E potete anche capire perché si può stare tranquillamente nell’interno del terminale ad alto potenziale di un generatore van de Graaff di un milione di volt, senza preoccuparsi di prendere una scossa: sempre per la legge di Gauss.
(1) Naturalmente se l’introduzione delle cariche dentro la cavità ha fatto apparire delle cariche elettriche sulla superficie esterna del conduttore chiuso, ci saranno dei campi esterni prodotti da queste cariche esterne. Ma la natura di questi campi è completamente indipendente dalla distribuzione delle cariche nella cavità del conduttore. (Questa precisazione è dovuta alla cortesia del Prof. M. Sands.) (N.d.T.)
63
6
Il campo elettrico in varie circostanze (1)
6.1 Ripasso: vol. 1, cap. 23, Risonanza
Equazioni per il potenziale elettrostatico
Questo capitolo sarà dedicato a descrivere il comportamento del campo elettrico in un certo numero di circostanze diverse. Esso servirà a dare una certa pratica del modo in cui il campo elettrico si comporta e a descrivere alcuni dei metodi matematici che si adoperano per determinare questo campo. Cominceremo col far notare che tutto il problema matematico sta nella risoluzione di due equazioni, le equazioni di Maxwell dell’elettrostatica, e cioè ⇢ ✏0
(6.1)
r⇥E =0
(6.2)
r·E =
Effettivamente queste due equazioni si possono combinare in un’unica equazione. Infatti dalla seconda si ricava subito che si può descrivere il campo come il gradiente di uno scalare (paragrafo 3.7): E= r (6.3) Si può, se si vuole, descrivere completamente qualsiasi campo elettrico particolare per mezzo del suo potenziale . Si ottiene l’equazione differenziale a cui deve obbedire sostituendo l’equazione (6.3) nella (6.1): ⇢ r·r = (6.4) ✏0 La divergenza del gradiente di
è la stessa cosa che r2 applicato a :
r · r = r2 =
@2 @2 @2 + + @ x 2 @ y 2 @z 2
(6.5)
perciò scriveremo l’equazione (6.4) nella forma seguente: r2 =
⇢ ✏0
(6.6)
L’operatore r2 si chiama laplaciano e l’equazione (6.6) è detta equazione di Poisson. Da un punto di vista matematico l’intero contenuto dell’elettrostatica è puramente lo studio delle soluzioni dell’unica equazione (6.6). Una volta ottenuto risolvendo l’equazione (6.6), il campo E si può trovare immediatamente dall’equazione (6.3). Cominceremo con l’occuparci di quella particolare classe di problemi in cui ⇢ è data come funzione di x, y e z. In tal caso il problema è quasi banale, perché conosciamo già la soluzione dell’equazione (6.6) nel caso generale. Abbiamo mostrato che se ⇢ è conosciuta in ogni punto, il potenziale nel punto (1) è ⌅ ⇢(2) (1) = dV2 (6.7) 4⇡✏ 0 r 12
6.2 • Il dipolo elettrico
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65
dove ⇢(2) è la densità di carica, dV2 è un elemento di volume intorno al punto (2) e r 12 è la distanza fra i punti (1) e (2). La soluzione dell’equazione differenziale (6.6) è ridotta a un’integrazione nello spazio. La soluzione (6.7) merita una speciale attenzione perché ci sono molte situazioni in fisica che conducono a equazioni del tipo r2 (qualcosa) = (qualcos’altro) e l’equazione (6.7) è un prototipo di soluzione per uno qualsiasi di questi problemi. La soluzione dei problemi di elettrostatica è dunque del tutto chiara quando le posizioni di tutte le cariche sono note. Vediamo con qualche esempio come funziona il procedimento.
6.2
Il dipolo elettrico
Cominciamo col caso di due cariche puntiformi, +q e q, separate dalla distanza d. Facciamo passare l’asse z per le cariche e prendiamo l’origine nel punto di mezzo fra esse, come mostra la FIGURA 6.1. Utilizzando la (4.24), il potenziale dovuto alle due cariche è dato da (x, y, z) =
1 26 6s 4⇡✏ 0 66 66 z 64
d 2
q !2
+ x2 + y2
+s
37 77 !2 7 d z+ + x 2 + y 2 77 75 2 q
(6.8)
Non staremo a scrivere esplicitamente la formula per il campo elettrico: z dato che abbiamo il potenziale, lo potremo sempre calcolare. Abbiamo così risolto il problema delle due cariche. P(x, y, z) C’è un caso particolare importante in cui le due cariche sono molto vicine, ciò che equivale a dire che i campi ci interessano soltanto a distanze dalle cariche che siano grandi rispetto alla loro separazione. Una tale coppia di cariche vicine viene chiamata dipolo. I dipoli sono molto comuni. Un’antenna «dipolare» si può spesso approssimare con due cariche separate da una piccola distanza, se non c’interessiamo del campo trop+q po vicino all’antenna. (Ordinariamente interessano antenne con cariche d che si muovono: allora le equazioni dell’equilibrio statico in realtà non si y –q applicano, ma per certi scopi danno un’approssimazione adeguata.) x Forse più importanti sono i dipoli atomici. Se c’è un campo elettrico in un materiale qualunque, elettroni e protoni subiscono forze opposte e vengono spostati gli uni rispetto agli altri. In un conduttore, ricorderete, un certo numero di elettroni si portano sulla superficie, in modo che il cam- FIGURA 6.1 Un dipolo: due cariche +q e q separate po interno si annulli. Negli isolanti gli elettroni non possono allontanarsi dalla distanza d. molto; essi sono richiamati indietro dall’attrazione del nucleo. Si spostano, tuttavia, un pochino. Perciò, benché un atomo (o una molecola) rimanga neutro in un campo elettrico esterno, c’è una minuscola separazione delle sue cariche positive e negative ed esso diventa – un microscopico dipolo. Se ci interessiamo ai campi di questi dipoli atomici nella vicinanza di oggetti di dimensioni ordinarie, abbiamo normalmente a che fare con distanze grandi in confronto O alla separazione delle coppie di cariche. In certe molecole le cariche sono un po’ separate anche in assenza di campi esterni, a H H causa della forma stessa della molecola. In una molecola d’acqua, per esempio, c’è una carica + + complessivamente negativa sull’atomo di ossigeno e una positiva su ciascuno dei due atomi d’idrogeno, che non sono posti simmetricamente ma come in FIGURA 6.2. Benché la carica dell’intera molecola sia nulla, si ha una distribuzione di carica con un po’ più di carica negativa FIGURA 6.2 La molecola da una parte e un po’ più di carica positiva dall’altra. Questa distribuzione non è certo così dell’acqua H2 O. Agli atomi idrogeno tocca un po’ semplice come una coppia di cariche puntiformi, tuttavia il sistema si comporta come un dipolo di meno della loro parte della quando lo si considera da molto lontano. Come vedremo un po’ più avanti, il campo a grandi nuvola elettronica, all’ossigeno un po’ di più. distanze non risente dei minuti dettagli.
66
Capitolo 6 • Il campo elettrico in varie circostanze (1)
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Torniamo dunque al campo di due cariche opposte, con una piccola separazione d. Se d si annulla le due cariche si sovrappongono, i due potenziali si compensano e non c’è campo. Se però le cariche non sono esattamente sovrapposte, possiamo ottenere una buona approssimazione del potenziale sviluppando i termini di (6.8) in una serie di potenze della quantità piccola d (usando lo sviluppo binomiale). Conservando i termini soltanto fino al primo ordine in d, possiamo scrivere z È comodo porre
d 2
!2
⇡ z2
zd
x2 + y2 + z2 = r 2
Allora si ha d 2
z e anche s
z
d 2
1 !2
!2
+ x2 + y2 ⇡ r 2
+ x2 + y2
zd = r 2 1 1
⇡s
r2 1
Usando di nuovo lo sviluppo binomiale per (1 zd/r 2 ) più alte del quadrato di d otteniamo
s
z
d 2
Similmente s
z+
d 2
1 !2 1 !2
zd r2
1 ! = r 1 zd r2 1/2
! zd r2
!
1/2
e scartando tutti i termini con potenze
1 1 zd ⇡ 1+ r 2 r2
!
1 zd 2 r2
!
+ x2 + y2 1 ⇡ 1 r + x2 + y2
La differenza fra questi due termini dà l’espressione per il potenziale (x, y, z) =
1 z qd 4⇡✏ 0 r 3
(6.9)
Il potenziale, e perciò anche il campo che ne è la derivata, è proporzionale a qd, cioè al prodotto della carica per la separazione. Questo prodotto viene definito come momento dipolare delle due cariche e lo indicheremo col simbolo p (da non confondere con l’impulso): p = qd
(6.10)
L’equazione (6.9) si può anche scrivere (x, y, z) =
1 p cos ✓ 4⇡✏ 0 r 2
(6.11)
perché è z/r = cos ✓, dove ✓ è l’angolo fra l’asse del dipolo e il raggio vettore che va al punto (x, y, z), come si vede in FIGURA 6.1. Il potenziale di un dipolo decresce come 1/r 2 per una data direzione rispetto all’asse (mentre varia come 1/r per una carica puntiforme); il campo elettrico E del dipolo decrescerà come 1/r 3 . Possiamo mettere la formula (6.11) in forma vettoriale se definiamo p come il vettore il cui modulo è p e la cui direzione è quella dell’asse del dipolo, col senso che va da q a +q. Si ha allora p cos ✓ = p · er (6.12)
67
6.3 • Osservazioni sulle equazioni vettoriali
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dove er è il versore radiale (FIGURA 6.3). Possiamo anche rappresentare il punto (x, y, z) per mezzo di r. Si ha allora
P
Potenziale del dipolo:
r
(r) =
1 p · er 1 p·r = 2 4⇡✏ 0 r 4⇡✏ 0 r 3
(6.13)
p
Questa formula è valida per un dipolo con orientazione e posizione qualsiasi se r rappresenta il vettore che va dal dipolo al punto che interessa. Se si vuole il campo elettrico del dipolo, lo si può ottenere prendendo il gradiente di . Per esempio, la componente secondo z del campo sarà @ /@z. Per un dipolo orientato lungo l’asse z si può usare la (6.9) ottenendo @ = @z
! p @ z = 4⇡✏ 0 @z r 3
ossia
p *1 4⇡✏ 0 , r 3
Ez =
p 3 cos2 ✓ 4⇡✏ 0 r3
Ex =
p 3zx 4⇡✏ 0 r 5
Ey =
p 3zy 4⇡✏ 0 r 5
Le componenti x e y sono:
E? =
1
p 3 cos ✓ sen ✓ 4⇡✏ 0 r3
(6.14)
E^ E
p r
(6.15)
La componente trasversale E? giace nel piano x y ed è diretta nel senso di allontanarsi dall’asse del dipolo. Il campo complessivo è naturalmente q E = Ez2 + E?2
FIGURA
6.4
Il campo elettrico di un dipolo.
Il campo del dipolo varia come l’inverso del cubo della distanza dal dipolo. Sull’asse, cioè per ✓ = 0, ha intensità doppia rispetto a ✓ = 90°. Per ambedue questi angoli il campo elettrico ha soltanto la componente z, però con segni opposti nei due casi (FIGURA 6.4).
6.3
6.3 Notazione vettoriale per un dipolo. FIGURA
3z 2 + r5 -
Queste due componenti si possono combinare per dare una componente diretta perpendicolarmente all’asse z che chiameremo componente trasversale E? : q q p 3z E? = Ex2 + Ey2 = x2 + y2 4⇡✏ 0 r 5
o anche
er
Osservazioni sulle equazioni vettoriali
Questo è il momento giusto per fare un’osservazione generale di analisi vettoriale. I risultati fondamentali si possono esprimere per mezzo di eleganti equazioni in forma generale, ma per fare calcoli e analisi specifiche è sempre una buona idea scegliere gli assi in qualche maniera opportuna. Fate attenzione che quando si trattava di trovare il potenziale di un dipolo, abbiamo scelto l’asse z nella direzione del dipolo piuttosto che in una direzione arbitraria. Questo ha reso il compito molto più facile. Alla fine, però, abbiamo scritto le equazioni in forma vettoriale, così
Ez
E
68
Capitolo 6 • Il campo elettrico in varie circostanze (1)
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che non venissero più a dipendere da alcun particolare sistema di coordinate. Dopo di che siamo autorizzati a scegliere qualsiasi sistema si voglia, sapendo che la relazione è vera in generale. Non c’è evidentemente alcun senso a mettersi in difficoltà con un sistema di coordinate arbitrario, orientato secondo un angolo scomodo, quando si può scegliere un sistema semplice, adatto al particolare problema, purché il risultato possa alla fine essere espresso con un’equazione vettoriale. Approfittate dunque, in tutte le maniere, del fatto che le equazioni vettoriali sono indipendenti da qualsiasi sistema di coordinate. D’altra parte, se avete da calcolare la divergenza di un vettore, invece di stare a considerare r · E domandandovi che cosa sia, non dimenticate che la divergenza si può sempre sviluppare nella forma @ E x @ E y @ Ez + + @x @y @z Perciò se potete ricavare le componenti secondo x, y e z del campo elettrico e differenziarle, avrete la divergenza. Sembra che spesso si abbia l’impressione che vi sia qualcosa di inelegante – quasi il senso di una specie di sconfitta – nell’esplicitare le componenti; come se ci dovesse esser sempre un modo di fare tutto con gli operatori vettoriali. Invece spesso non c’è alcun vantaggio in un simile procedimento. La prima volta che s’incontra un particolare tipo di problema giova comunemente scrivere esplicitamente le componenti, per esser sicuri che si capisce di che si tratta. Non c’è nulla di inelegante nel mettere dei numeri nelle equazioni e nel sostituire delle derivate a dei simboli più estrosi. Anzi, c’è spesso una certa abilità nel fare proprio così. Naturalmente, quando si pubblica un articolo in una rivista professionale, esso si presenterà meglio – e sarà meglio capito – se si può scrivere tutto in forma vettoriale. Per di più, si risparmierà nella stampa.
6.4
Il potenziale del dipolo come un gradiente
Desideriamo mettere in evidenza una cosa piuttosto divertente riguardo alla formula del dipolo, equazione (6.13). Il potenziale può anche essere scritto nella forma ! 1 1 = p·r (6.16) 4⇡✏ 0 r Se calcolate il gradiente di 1/r ottenete ! 1 r = r z P ∆z P'
r = r3
er r2
e l’equazione (6.16) viene a coincidere con l’equazione (6.13). Come ce ne siamo accorti? Basta ricordarsi che er /r 2 appariva nella formula del campo di una carica puntiforme e che il campo era il gradiente di un potenziale che varia come 1/r. C’è una ragione fisica perché il potenziale del dipolo si possa scrivere nella forma dell’equazione (6.16). Supponiamo di avere una carica puntiforme q nell’origine. Il potenziale nel punto P di coordinate (x, y, z) è
∆z
0 O
y
x
6.5 Il potenziale in P dovuto a una carica puntiforme che si trova all’altezza z sopra l’origine è lo stesso che il potenziale nel punto P0 (più basso di z rispetto a P) dovuto alla stessa carica posta nell’origine. FIGURA
=
q r
(Lasciamo da parte il fattore 1/4⇡✏ 0 mentre sviluppiamo questo ragionamento: lo possiamo rimettere alla fine.) Ora, se spostiamo in su la carica +q per un tratto z, il potenziale in P cambierà di poco, diciamo di +. Quanto vale + ? Ebbene, è la stessa quantità di cui il potenziale varierebbe se si lasciasse la carica nell’origine e si muovesse P in giù dello stesso tratto z (FIGURA 6.5), cioè +
=
@ 0 @z
z
69
6.4 • Il potenziale del dipolo come un gradiente
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dove con z intendiamo la stessa cosa che d/2. Perciò, utilizzando potenziale della carica positiva è +
@ ✓q◆ d @z r 2
q = r
0
= q/r, abbiamo che il
(6.17)
Applicando lo stesso ragionamento al potenziale della carica negativa, possiamo scrivere q @ ✓ q◆ d + r @z r 2
=
(6.18)
Il potenziale complessivo è la somma di (6.17) e (6.18), cioè =
++
@ ✓q◆ d= @z r
=
! @ 1 qd @z r
(6.19)
Per altre orientazioni del dipolo potremo rappresentare lo spostamento della carica positiva col vettore r+ . Possiamo allora scrivere l’equazione (6.17) come +
= r
0
· r+
dove r+ è poi da sostituire con d/2. Completando la derivazione come prima, l’equazione (6.19) diventerebbe ! 1 = r · qd r Questa coincide con l’equazione (6.16) se si sostituisce qd con p e si reintroduce il fattore 1/4⇡✏ 0 . Considerando le cose in un altro modo, vediamo che il potenziale del dipolo, dato dall’equazione (6.13), può essere interpretato anche come 0
(6.20)
+
p·r
=
+ +
(a)
+
+ – – –
– –
–
– –
–
(b)
= + + + + + +
– – – – – – – (c)
+
è il potenziale dell’unità di carica puntiforme. Benché si possa sempre trovare il potenziale di una distribuzione nota di carica per mezzo di un’integrazione, è possibile qualche volta risparmiare del tempo ricavando il risultato con qualche ingegnoso artificio. Per esempio si può spesso fare uso del principio di sovrapposizione. Se è data una distribuzione di carica che può pensarsi come somma di due distribuzioni i cui potenziali sono già noti, è facile trovare il potenziale cercato sommando semplicemente i due potenziali noti. Un esempio di questo procedimento è la precedente derivazione della (6.20), un altro è il seguente. Supponiamo di avere una superficie sferica con una distribuzione di carica che varia come il coseno dell’angolo polare. L’integrazione per questa distribuzione è abbastanza complicata. Ma, sorprendentemente, tale distribuzione può essere analizzata per sovrapposizione. Infatti, immaginiamo una sfera con un’uniforme densità di volume di carica positiva, e un’altra sfera con un’uguale uniforme densità di volume di carica negativa, originariamente sovrapposte per dare una sfera neutra, cioè non carica. Se allora la sfera positiva viene spostata leggermente, l’interno della sfera rimane neutro, ma un po’ di carica positiva apparirà da una parte e un po’ di carica negativa apparirà dalla parte opposta, come illustrato nella FIGURA 6.6. Se lo spostamento relativo delle due sfere è piccolo, la carica non neutralizzata è equivalente a una carica superficiale (su una superficie sferica) e tale carica superficiale risulta proporzionale al coseno dell’angolo polare. Se ora vogliamo il potenziale di questa distribuzione, non abbiamo bisogno di fare un integrale. Sappiamo che il potenziale di ciascuna delle due sfere è lo stesso – per punti fuori della sfera – di quello di una carica puntiforme; le due sfere spostate sono dunque simili a due cariche puntiformi: il potenziale è proprio quello di un dipolo.
+
1 4⇡✏ 0 r
+
=
+
0
+
+
dove
6.6 Due sfere uniformemente cariche, sovrapposte ma leggermente spostate, equivalgono a una distribuzione superficiale non uniforme di carica. FIGURA
70
Capitolo 6 • Il campo elettrico in varie circostanze (1)
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In questo modo si può mostrare che una distribuzione di carica su una sfera di raggio a con una densità superficiale = 0 cos ✓ produce un campo esterno alla sfera che è proprio quello di un dipolo il cui momento è p=
4⇡
0a
3
3
Si può anche far vedere che internamente alla sfera il campo è costante, di valore E=
0
3✏ 0
Se ✓ è l’angolo formato con l’asse z positivo, il campo elettrico dentro la sfera è nella direzione negativa dell’asse z. L’esempio ora considerato non è così artificioso come potrebbe sembrare; lo incontreremo ancora nella teoria dei dielettrici.
6.5
L’approssimazione dipolare per una distribuzione arbitraria
Il campo del dipolo appare in un’altra circostanza che è interessante e importante nello stesso tempo. Supponiamo di avere un oggetto che possiede una complicata distribuzione di carica – come le molecole dell’acqua ri (FIGURA 6.2) – e di interessarci soltanto ai campi a grande distanza. Faremo – qi R + – vedere che è possibile trovare per i campi un’espressione relativamente + di + semplice che è adatta per distanze grandi in confronto alle dimensioni + – dell’oggetto. – + Possiamo pensare questo oggetto come un insieme di cariche puntiformi qi distribuite in una certa regione limitata, come mostra la FIGURA 6.7. (Più avanti potremo, volendo, sostituire qi con ⇢ dV .) La carica generica qi sia spostata di di rispetto a un’origine scelta in un punto qualunque in mezzo FIGURA 6.7 Computo del potenziale in un punto P che si trova a grande distanza da un sistema di cariche. al gruppo delle cariche. Qual è il potenziale nel punto P posto in R, dove R è molto più grande del massimo di ? Il potenziale dell’intero sistema è dato da P
=
1 X qi 4⇡✏ 0 i r i
(6.21)
dove r i è la distanza da P alla carica qi (il modulo del vettore R di ). Se ora la distanza delle cariche da P, cioè dal punto d’osservazione, è molto grande, ognuna delle r i può essere approssimata con R. Ciascun termine diventa qi /R, e possiamo mettere 1/R a fattore dell’intera somma. Questo dà il semplice risultato =
1 1X Q qi = 4⇡✏ 0 R i 4⇡✏ 0 R
(6.22)
dove Q non è altro che la carica complessiva dell’intero oggetto. Così troviamo che per punti abbastanza lontani da qualsiasi aggregato di cariche l’aggregato si presenta come una carica puntiforme, risultato non troppo sorprendente. Cosa succede però quando ci sono numeri uguali di cariche positive e negative? In tal caso la carica complessiva Q dell’oggetto è nulla. Questo non è un caso insolito; infatti, come sappiamo, gli oggetti sono abitualmente neutri. La molecola dell’acqua, per esempio, è neutra; le sue cariche però non sono tutte nello stesso punto, sicché avvicinandosi abbastanza ci si dovrebbe accorgere un po’ degli effetti delle singole cariche. Occorre dunque un’approssimazione migliore della (6.22)
6.6 • I campi dovuti a conduttori carichi
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per il potenziale di una distribuzione arbitraria di cariche in un oggetto neutro. L’equazione (6.21) è ancora esatta, soltanto non possiamo più porre semplicemente r i = R. Ci vuole un’espressione più precisa per r i . Se il punto P si trova a una grande distanza, un’eccellente approssimazione per la differenza fra r i e R è data dalla proiezione di d su R, come si può vedere dalla FIGURA 6.7. (Dovete immaginare che P sia in realtà molto più lontano di quello che mostra la figura.) In altre parole, se e R è il versore nella direzione di R, la nostra successiva approssimazione per r i è di · e R
ri ⇡ R
(6.23)
Quello che veramente ci occorre è 1/r i che, essendo d i ⌧ R, nella nostra approssimazione può essere scritto come ! 1 1 di · e R ⇡ 1+ (6.24) ri R R
Sostituendo nella (6.21) troviamo che il potenziale è
=
1 * Q X di · e R . + qi + ...+/ 2 4⇡✏ 0 R R i , -
(6.25)
I puntini indicano i termini d’ordine superiore in d i /R che abbiamo trascurato. Questi, come quelli che abbiamo già ottenuto, sono i termini successivi di uno sviluppo di 1/r i , intorno a 1/R, in serie di potenze di d i /R. Il primo termine della (6.25) è quello trovato prima; esso scompare se l’oggetto è neutro. Il secondo termine dipende da 1/R2 , proprio come per un dipolo. Infatti, se definiamo X p= qi di (6.26) i
come una proprietà della distribuzione di carica, il secondo termine del potenziale (6.25) diventa =
1 p · eR 4⇡✏ 0 R2
(6.27)
cioè esattamente il potenziale di un dipolo. La grandezza p è chiamata momento di dipolo della distribuzione. È una generalizzazione della nostra precedente definizione e a essa si riduce nel caso speciale di due cariche puntiformi. Il nostro risultato è che, abbastanza lontano da qualsiasi intrico di cariche che sia complessivamente neutro, il potenziale è un potenziale di dipolo. Esso decresce come 1/R2 e varia secondo cos ✓, mentre la sua intensità dipende dal momento di dipolo della distribuzione di carica. È per questo motivo che i campi di dipolo sono importanti, giacché il semplice caso di una coppia di cariche puntiformi è molto raro. La molecola dell’acqua, per esempio, ha un momento dipolare piuttosto forte. I campi elettrici che risultano da questo momento sono responsabili di alcune fra le importanti proprietà dell’acqua. Per molte molecole, per esempio CO2 , il momento dipolare si annulla a causa della simmetria della molecola. Per queste si dovrebbe sviluppare con più precisione ancora, ottenendo un altro termine nel potenziale, termine che decresce come 1/R3 e che è chiamato potenziale di quadrupolo. Tali casi saranno discussi più avanti.
6.6
I campi dovuti a conduttori carichi
Abbiamo ora completato gli esempi che desideravamo trattare di situazioni in cui le distribuzioni di carica sono note fin dall’inizio. È stato un problema senza serie complicazioni, implicante al più alcune integrazioni. Ci rivolgiamo ora a un tipo di problema interamente nuovo: la determinazione dei campi in vicinanza di conduttori carichi.
71
72
Capitolo 6 • Il campo elettrico in varie circostanze (1)
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Supponiamo di avere una situazione in cui una carica complessiva Q è posta su un conduttore arbitrario. Adesso non saremo più in grado di dire esattamente dove stanno le cariche, perché esse si spargeranno in qualche modo sulla superficie. Come possiamo sapere in che modo le cariche si sono distribuite? Esse si devono distribuire in modo che il potenziale sulla superficie sia costante. Se la superficie non fosse equipotenziale ci sarebbe un campo elettrico nel conduttore e le cariche continuerebbero a muoversi finché questo si annullasse. Il problema generale di questo tipo si può risolvere nella maniera seguente. Cerchiamo d’immaginare una distribuzione di carica e calcoliamone il potenziale. Se il potenziale riesce dappertutto costante sulla superficie, il problema è concluso. Se la superficie non è equipotenziale, la distribuzione che abbiamo immaginato è sbagliata e dobbiamo tornare a indovinare, sperando che la congettura sia migliore! Si può andare avanti così all’infinito, se non si è molto accorti nelle successive congetture. Il problema di come indovinare la distribuzione è matematicamente difficile. La natura, senza dubbio, fa a tempo a risolverlo per tentativi: le cariche spingono e tirano finché raggiungono l’equilibrio. Quando invece noi cerchiamo di risolvere il problema per tentativi successivi ciascuno di essi dura così a lungo che il metodo diventa molto noioso. Nel caso di un gruppo arbitrario di conduttori e di cariche, il problema può essere molto complicato e in generale non si può risolvere senza ricorrere a metodi numerici piuttosto elaborati. Simili calcoli numerici oggi si affidano a una macchina calcolatrice che farà il lavoro in nostra vece, una volta che le abbiamo insegnato come procedere. D’altra parte c’è una quantità di piccoli casi pratici nei quali sarebbe proprio opportuno poter trovare la soluzione con qualche metodo più diretto, senza dover scrivere un programma per una macchina calcolatrice. Fortunatamente c’è un certo numero di casi in cui la soluzione può essere ottenuta spremendola dalla natura con questo o quell’artificio. Il primo artificio che vogliamo descrivere implica di far uso di soluzioni già ottenute per situazioni in cui le cariche hanno posizioni note.
6.7
Il metodo delle immagini
Abbiamo trovato, per esempio, il campo di due cariche puntiformi. La FIGURA 6.8 mostra alcune delle linee di forza e superfici equipotenziali ottenute coi calcoli nel capitolo 5. Consideriamo ora la superficie equipotenziale indicata con A. Supponiamo che si possa modellare una sottile lamiera metallica in modo da adattarla esattamente a questa superficie. Se la si applicasse sulla superficie, aggiustandone il potenziale al valore appropriato, nessuno potrebbe accorgersi della sua presenza, perché nulla cambierebbe. Fate però attenzione! Abbiamo in realtà risolto un nuovo problema. Abbiamo una situazione in cui la superficie di un conduttore curvo avente un dato potenziale è posta vicino a una carica puntiforme. Se la lamina metallica che abbiamo collocato sulla superficie equipotenziale finisce B Conduttore
A
FIGURA 6.8 Linee di campo ed equipotenziali per due cariche puntiformi.
6.9 Il campo all’esterno di un conduttore modellato come la superficie equipotenziale A della FIGURA 6.8. FIGURA
–
+
+q
73
6.8 • Una carica puntiforme vicino a un piano conduttore
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per chiudersi su se stessa (in pratica, se si estende abbastanza) abbiamo il tipo di situazione considerata nel paragrafo 5.10, nel quale si considera lo spazio diviso in due regioni, una dentro e l’altra fuori di un guscio conduttore. Ci risultò che i campi nelle due regioni sono affatto indipendenti l’uno dall’altro. Perciò il campo fuori dal nostro conduttore curvo è sempre lo stesso, qualunque cosa ci sia dentro. Possiamo anche riempire l’intero spazio interno con del materiale conduttore. Abbiamo perciò trovato il campo per il problema in FIGURA 6.9. Nello spazio esterno al conduttore il campo è quello tipico di due cariche puntiformi, come in FIGURA 6.8. All’interno del conduttore esso è nullo. Inoltre, il campo elettrico appena fuori dal conduttore è normale – come deve essere – alla superficie. In questo modo possiamo calcolare i campi in FIGURA 6.9 calcolando il campo dovuto a q e a una carica puntiforme immaginaria q posta in un punto opportuno. La carica puntiforme che si «immagina» esistere dietro la superficie conduttrice viene chiamata carica immagine. Nei libri si possono trovare lunghi elenchi di soluzioni per conduttori di forma iperbolica o altre cose dall’aspetto complicato, e ci si domanda come mai qualcuno sia riuscito a risolvere i problemi per quelle terribili forme. Essi sono stati risolti a ritroso! Qualcuno, risolvendo un semplice problema di quelli in cui le cariche sono date, si è accorto che venivano fuori delle superfici equipotenziali di una forma nuova e ha scritto un articolo per mettere in rilievo che il campo esternamente a quelle particolari superfici può esser descritto in una certa maniera.
6.8
Una carica puntiforme vicino a un piano conduttore
Come semplice applicazione di questo metodo, utilizziamo la superficie equipotenziale piana B della FIGURA 6.8. Con essa possiamo risolvere il problema di una carica posta davanti a un piano conduttore, semplicemente cancellando la parte sinistra del disegno. Le linee di forza per la nostra soluzione si vedono in FIGURA 6.10. Notate che il piano, essendo a mezza strada fra le due cariche, si trova al potenziale zero. Abbiamo risolto il problema di una carica positiva vicina a una lastra conduttrice messa a terra. Abbiamo così trovato il campo complessivo, ma cosa si può dire sulle cariche reali che lo producono? Oltre alla carica positiva puntiforme, ci sono delle cariche negative indotte sulla lastra Lastra conduttrice – – – P – –
Carica immagine
a –
–
+
– – – – – –
6.10 Il campo di una carica vicino a una superficie conduttrice piana determinato col metodo delle immagini. FIGURA
74
Capitolo 6 • Il campo elettrico in varie circostanze (1)
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conduttrice che sono state attratte (da distanze molto grandi) dalla carica positiva. Supponiamo ora che per delle ragioni tecniche – o per curiosità – si desideri conoscere come sono distribuite le cariche negative sulla superficie. Si può trovare la densità superficiale di carica utilizzando il risultato dedotto nel paragrafo 5.6 col teorema di Gauss. La componente normale del campo elettrico appena fuori da un conduttore è uguale alla densità superficiale di carica divisa per ✏ 0 . Possiamo così ottenere la densità di carica in ogni punto della superficie partendo dalla componente normale del campo elettrico. Consideriamo un punto sulla superficie, a una distanza ⇢ da quello che si trova direttamente di fronte alla carica positiva (FIGURA 6.10). Il campo elettrico in questo punto è normale alla superficie e rivolto internamente a essa. La componente normale alla superficie dovuta al campo della carica positiva è 1 aq En+ = (6.28) 2 4⇡✏ 0 (a + ⇢2 )3/2 A questo si deve aggiungere il campo elettrico prodotto dalla carica immagine negativa. Ciò raddoppia semplicemente la componente normale (e cancella tutte le altre), perciò la densità di carica in un punto qualunque della superficie è (⇢) = ✏ 0 E(⇢) =
2aq + ⇢2 )3/2
4⇡(a2
(6.29)
Una verifica interessante del nostro procedimento si ha integrando su tutta la superficie. Si trova che la carica totale indotta è q, come deve essere. Ancora una domanda: c’è una forza sulla carica puntiforme? Sì, perché c’è un’attrazione da parte della carica superficiale negativa indotta sulla lastra. Ora che le cariche superficiali ci sono note (equazione (6.29)), si potrebbe calcolare la forza sulla carica positiva per mezzo di un integrale. Sappiamo però che la forza agente sulla carica positiva è esattamente la stessa che si avrebbe con la carica immagine negativa al posto della lastra, perché il campo vicino alla carica positiva è lo stesso in ambedue i casi. La carica puntiforme subisce perciò una forza diretta verso la lastra il cui modulo è 1 q2 F= (6.30) 4⇡✏ 0 (2a)2 Abbiamo trovato la forza molto più facilmente che integrando su tutte le cariche negative.
6.9
Una carica puntiforme vicino a una sfera conduttrice
Quali altre superfici, oltre al piano, hanno una soluzione semplice? La successiva tra le forme più semplici è la sfera. Determiniamo dunque il campo intorno a una sfera metallica vicino alla quale c’è una carica puntiforme q, come mostra la FIGURA 6.11. Si tratta di cercare una situazione fisica semplice che comporta una sfera come una delle superfici equipotenziali. Se si prendono a considerare i problemi già risolti da altri, si trova che qualcuno si è accorto che il campo di due cariche puntiformi disuguali ha una delle superfici equipotenziali che è una sfera. Benissimo! Se scegliamo la posizione della carica immagine – e ne scegliamo la giusta entità – forse possiamo fare in modo che tale superficie equipotenziale si adatti alla nostra sfera. Effettivamente lo si può fare con il seguente procedimento. Supponiamo di volere che la superficie equipotenziale sia una sfera di raggio a col suo centro alla distanza b dalla carica q. Mettiamo una carica immagine del valore q0 = q
a b
sulla retta che va dalla carica al centro della sfera e a una distanza a2 /b dal centro. La sfera si trova al potenziale zero.
75
6.9 • Una carica puntiforme vicino a una sfera conduttrice
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La ragione matematica discende dal fatto che una sfera è il luogo di tutti i punti le cui distanze da due punti dati stanno in un rapporto costante. Riferendoci alla FIGURA 6.11, il potenziale in P dovuto a q e q 0 è proporzionale a q q0 + r1 r2
P r2
a
r1 b q
a 2/b
q' = –(a /b)q
Il potenziale sarà perciò nullo in tutti i punti, per cui si ha q0 = r2
q r1
r2 = r1
q0 q
6.11 La carica puntiforme q induce delle cariche su una sfera conduttrice messa a terra. Il campo dovuto a queste cariche è quello di una carica q0 posta nel punto indicato. FIGURA
ossia
Se collochiamo q 0 alla distanza a2 /b dal centro, il rapporto r 2 /r 1 ha il valore costante a/b. Se è allora q0 a = (6.31) q b la sfera è una superficie equipotenziale. Il suo potenziale è, effettivamente, zero. Cosa succede se c’interessa il caso di una sfera che non è al potenziale zero? Il potenziale è zero soltanto se la carica totale sulla sfera uguaglia per caso q 0. Naturalmente se la sfera è messa a terra le cariche indotte su di essa provvedono proprio a questo. Ma se la sfera è isolata e non abbiamo posto nessuna carica su di essa? Oppure se ci abbiamo messo una carica complessiva Q? O semplicemente se sappiamo che essa si trova a un potenziale dato che non è uguale a zero? Tutti questi problemi si risolvono facilmente. Infatti, possiamo sempre aggiungere una carica puntiforme q 00 nel centro della sfera. La sfera resta ancora una superficie equipotenziale a causa della sovrapposizione; solo la grandezza del potenziale sarà cambiata. Se abbiamo, per esempio, una sfera conduttrice, inizialmente scarica e isolata da ogni altra cosa, e portiamo vicino a essa la carica puntiforme positiva q, la carica complessiva sulla sfera resterà zero. La soluzione si trova adoperando una carica immagine q 0 come prima, ma aggiungendo in più una carica q 00 nel centro della sfera, scegliendola in modo che sia q 00 = q 0 =
a q b
(6.32)
I campi dappertutto fuori dalla sfera sono dati dalla sovrapposizione dei campi di q, q 0 e q 00. Il problema è risolto. Ci possiamo render conto, ora, che ci sarà una forza d’attrazione fra la sfera e la carica q. Essa non è nulla anche se non c’è carica sulla sfera neutra. Da dove viene tale attrazione? Quando si avvicina una carica positiva a una sfera conduttrice, la carica positiva attrae delle cariche negative dalla parte più vicina e quindi lascia un eccesso di cariche positive sulla superficie della parte più lontana. L’attrazione delle cariche negative supera la repulsione di quelle positive e si ha una complessiva attrazione. Possiamo ricavare l’entità dell’attrazione calcolando la forza su q del campo prodotto da q 0 e q 00. La forza totale è la somma della forza attrattiva fra q e la carica q 0 = (a/b)q posta alla distanza b (a2 /b), e la forza repulsiva fra q e la carica q 00 = +(a/b)q alla distanza b. Quelli che da bambini hanno trovato divertente la scatola del lievito per dolci che nella sua etichetta porta l’immagine di una scatola che nella sua etichetta porta l’immagine di una scatola che..., potranno trovare interessante il seguente problema. Due sfere uguali, una con una carica totale Q e l’altra con una carica totale Q, vengono poste a una certa distanza l’una dall’altra: qual è la forza fra loro? Il problema si può risolvere con un infinito numero d’immagini. Dapprima si approssima ciascuna sfera con una carica posta al centro. Queste cariche producono cariche immagini nell’altra sfera. Le cariche immagini producono a loro volta altre immagini ecc. La soluzione somiglia alla figura sulla scatola del lievito e converge piuttosto rapidamente.
76
Capitolo 6 • Il campo elettrico in varie circostanze (1)
6.10 + – + – + – + – + –
1
+ – +
– + –
6.12 Un condensatore a facce piane e parallele. FIGURA
Condensatori a lastre parallele
Passiamo ora a un altro tipo di problema nel campo dei conduttori. Consideriamo due grandi lastre metalliche parallele l’una all’altra e separate da una distanza piccola in confronto alla loro larghezza. Supponiamo che cariche uguali e contrarie siano state poste sulle lastre. Le cariche su ciascuna lastra verranno attratte dalle cariche dell’altra lastra e si spargeranno uniformemente sulle facce interne delle lastre dove avranno le densità superficiali + e , rispettivamente, come indica la FIGURA 6.12. Dal capitolo 5 sappiamo che il campo fra le lastre è /✏ 0 e che il campo fuori delle lastre è nullo. Le lastre avranno due diversi potenziali 1 e 2 . Per comodità chiameremo V la differenza: questa differenza è spesso chiamata «voltaggio»(1) :
d
Area A
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2
=V
(Troverete che qualche volta alcuni adoperano V per il potenziale, noi però abbiamo preferito usare .) La differenza di potenziale V è il lavoro per unità di carica necessario per portare una piccola carica da una lastra all’altra, così che si ha V = Ed =
✏0
d=
d Q ✏0 A
(6.33)
dove ±Q è la carica totale su ciascuna lastra, A è l’area delle lastre e d la loro separazione. Troviamo che il voltaggio è proporzionale alla carica. Una simile proporzionalità fra V e Q si trova per qualsiasi coppia di conduttori quando si ha una carica positiva su uno e una carica uguale e negativa sull’altro. La differenza di potenziale fra loro – cioè il voltaggio – risulta proporzionale alla carica. (Si fa la supposizione che non ci siano altre cariche intorno.) Perché si ha proporzionalità? Semplicemente per il principio di sovrapposizione. Supponiamo di conoscere la soluzione per un certo insieme di cariche e poi di sovrapporre due di tali soluzioni. Le cariche raddoppiano, i campi raddoppiano e raddoppia anche il lavoro fatto nel portare l’unità di carica da un punto a un altro. Perciò la differenza di potenziale fra due punti qualunque è proporzionale alle cariche. In particolare, la differenza di potenziale fra i due conduttori è proporzionale alle cariche che si trovano su di essi. Qualcuno in origine scrisse la relazione di proporzionalità nel senso opposto. Si scrisse, cioè, Q = CV dove C è una costante. Questo coefficiente di proporzionalità è chiamato capacità e un simile sistema di due conduttori è chiamato condensatore(2) . Per il condensatore a lastre parallele si ha C=
✏0 A d
(lastre parallele)
(6.34)
Questa formula non è esatta, perché il campo non è in realtà uniforme dappertutto fra le lastre, come si è supposto. Il campo non si limita a sparire a un tratto agli orli delle lastre, ma è piuttosto come mostra la FIGURA 6.13. La carica totale non è A, come si è ammesso: c’è una piccola correzione dovuta all’effetto dei bordi. Per ricavare questa correzione si dovrebbe calcolare il campo più esattamente e accertare che cosa succede ai bordi. Questo è un problema matematico complicato che si può tuttavia risolvere con tecniche che ora non descriveremo. Il risultato di tali calcoli è che la densità di carica aumenta un po’ vicino ai bordi delle lastre. Ciò significa che la capacità è un po’ più grande di come l’abbiamo calcolata. (Un’ottima approssimazione (1) Invece di «voltaggio» in italiano si adopera molto frequentemente la parola «tensione». Ci è sembrato però che lo scrupolo inglese di abbandonare le parole generiche pressure e tension per indicare la differenza di potenziale, in favore della parola più specifica voltage meritasse di essere rispettato. (N.d.T.) (2) C’è chi pensa che le parole «capacitanza» e «capacitore» dovrebbero essere usate al posto di «capacità» e «condensatore». Abbiamo deciso di adoperare la vecchia terminologia, perché è ancora quella che più comunemente si incontra nei laboratori di fisica, anche se non nei trattati.
6.11 • Scariche a potenziali elevati
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per la capacità si ottiene se si adopera l’equazione (6.34), ma si prende per l’area A quella che si otterrebbe se le lastre fossero estese artificialmente per una distanza che è i 3/8 della loro separazione.) Abbiamo discusso la capacità nel caso di due soli conduttori. Talvolta si parla anche di capacità di un singolo oggetto. Si dice, per esempio, che la capacità di una sfera di raggio a è 4⇡✏ 0 a. Ciò che si immagina è che l’altro termine della coppia sia un’altra sfera di raggio infinito, ossia che quando c’è una carica +Q sulla sfera, la carica opposta, Q, si trovi su una sfera infinita. Si può anche parlare di capacità quando si hanno tre o più conduttori, tuttavia rimandiamo la discussione di questo argomento. Supponiamo che si desideri avere un condensatore con una capacità molto grande. Si può ottenere un’elevata capacità facendo l’area molto grande e la separazione molto piccola. Si potrebbe mettere della carta paraffinata fra due fogli di alluminio e arrotolare il tutto. (Se poi lo sigilliamo in un plastico, abbiamo un tipico condensatore radio.) A che serve? Serve FIGURA 6.13 Il campo elettrico vicino ai bordi di due a immagazzinare delle cariche. Se tentiamo di immagazzinare della carica lastre parallele. su una palla, per esempio, il suo potenziale sale rapidamente mentre la si carica, e può anche diventare così alto che la carica comincia a sfuggire nell’aria per mezzo di scintille. Se però portiamo la stessa carica su un condensatore la cui capacità è molto grande, il voltaggio generato ai terminali sarà piccolo. In molte applicazioni nel campo dei circuiti elettronici è utile avere qualcosa che può assorbire o fornire grandi quantità di carica senza cambiare molto il potenziale. Un condensatore (o «capacitore») fa proprio questo. Ci sono anche molte applicazioni nel campo degli strumenti e dei calcolatori elettronici in cui si adopera un condensatore per ottenere un determinato cambiamento di voltaggio in risposta a un dato cambiamento di carica. Abbiamo visto una simile applicazione nel cap. 23 del vol. 1, quando abbiamo descritto le proprietà dei circuiti risonanti. Dalla definizione di C vediamo che la sua unità è coulomb/volt. Questa unità viene anche chiamata farad (simbolo F). Guardando all’equazione (6.34) ci accorgiamo che si può esprimere ✏ 0 in F/m, che è infatti l’unità più comunemente usata: ✏0 ⇡
1 F/m 36⇡ · 109
I valori tipici per i condensatori vanno da 1 micro-microfarad (= 1 picofarad) ai millifarad. Piccoli condensatori da pochi picofarad si adoperano nei circuiti risonanti ad alta frequenza, mentre capacità fino a centinaia o migliaia di microfarad si trovano nei filtri degli alimentatori. Una coppia di lastre dell’area di 1 cm2 con una separazione di 1 mm ha all’incirca una capacità di 1 pF.
6.11
Scariche a potenziali elevati
Desideriamo ora discutere qualitativamente alcune caratteristiche dei campi esterni ai conduttori. Se carichiamo un conduttore che non è una sfera, ma possiede una punta o un’estremità molto aguzza, come per esempio l’oggetto schematizzato in FIGURA 6.14, il campo intorno alla punta è molto più intenso che nelle altre regioni. Qualitativamente la ragione è che le cariche tentano di spargersi il più lontano possibile le une dalle altre e che l’estremo di una punta aguzza è il più lontano possibile dalla maggior parte della superficie. Una quantità relativamente piccola di carica in cima alla punta può sempre fornire una forte densità superficiale, e ciò a sua volta vuol dire un campo intenso in vicinanza della superficie. Un modo di rendersi conto che il campo è più intenso in quei punti di un conduttore dove il raggio di curvatura è più piccolo, si ha considerando una sfera grande e una piccola connesse da un filo, come mostra la FIGURA 6.15. Si tratta di una versione alquanto idealizzata del conduttore della FIGURA 6.14. Il filo avrà poca influenza sui campi e c’è soltanto per mantenere le sfere allo
78
Capitolo 6 • Il campo elettrico in varie circostanze (1)
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stesso potenziale. Ora, quale sarà la palla che ha il più forte campo in superficie? Se la palla a sinistra ha il raggio a e porta la carica Q, il suo potenziale è circa 1 Q 1 = 4⇡✏ 0 a (Naturalmente la presenza di una palla altera la distribuzione sull’altra, così che le cariche non hanno in realtà simmetria sferica né sull’una né sull’altra. Ma se c’importa soltanto una stima dei campi si può adoperare il potenziale di una carica sferica.) Se la palla più piccola, il cui raggio è b, porta una carica q, il suo potenziale è circa
Conduttore
2
Ma deve essere
6.14 Il campo elettrico in vicinanza di una punta aguzza appartenente a un conduttore è molto intenso. FIGURA
1
=
2,
=
1 q 4⇡✏ 0 b
perciò Q q = a b
D’altra parte il campo alla superficie (equazione (5.8)) è proporzionale alla densità superficiale di carica, che a sua volta è proporzionale alla carica divisa per il quadrato del raggio. Otteniamo: Ea Q/a2 b = = Eb a q/b2
Filo
6.15 Il campo di un oggetto appuntito può essere approssimato da quello di due sfere allo stesso potenziale. FIGURA
(6.35)
Perciò il campo è più intenso alla superficie della sfera piccola. I campi stanno in proporzione inversa dei raggi. Il risultato è molto importante tecnicamente, perché l’aria cessa di essere isolante se il campo elettrico è troppo forte. Ciò che accade è che una carica (elettrone o ione) vagante in qualche parte nell’aria viene accelerata dal campo e, se il campo è molto intenso, tale carica prima di urtare un atomo può acquistare una velocità sufficiente da essere capace di cacciar via un elettrone da quell’atomo. Di conseguenza si forma un numero sempre più grande di ioni. Il loro moto costituisce una scarica, o scintilla. Se si vuole caricare un oggetto a un potenziale elevato senza che si scarichi da sé nell’aria per effetto delle scintille, ci si deve assicurare che la sua superficie sia liscia, così che non ci siano punti dove il campo è anormalmente intenso.
6.12
Il microscopio a emissione di campo
Esiste un’interessante applicazione del campo elettrico estremamente elevato che circonda qualunque protuberanza aguzza su un conduttore. Il funzionamento del microscopio a emissione di campo dipende infatti dai campi elevati prodotti vicino a una punta metallica acuminata(3) . Esso è costruito nel modo seguente. Un ago molto sottile, con una punta il cui diametro è circa 1000 Å, è posto al centro di una sfera di vetro con l’interno sotto vuoto (FIGURA 6.16). La superficie interna della sfera è rivestita da un sottile strato conduttore di materiale fluorescente e una differenza di potenziale molto elevata viene applicata fra la patina fluorescente e la punta. Consideriamo dapprima che cosa succede quando la punta è negativa rispetto alla patina fluorescente. Le linee di campo sono estremamente concentrate sulla punta acuminata: il campo elettrico può raggiungere i 40 milioni di volt per centimetro. In campi così intensi degli elettroni vengono strappati dalla superficie della punta e accelerati dalla differenza di potenziale fra l’ago e lo strato fluorescente. Quando lo raggiungono essi provocano l’emissione di luce, proprio come su uno schermo televisivo. (3) Vedi E.W. Mueller: «The field-ion microscope», Advances in Electronics and Electron Physics 13, 83-179 (1960). Academic Press, New York.
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6.12 • Il microscopio a emissione di campo
Gli elettroni che arrivano in un dato punto della superficie fluorescente sono – con ottima approssimazione – quelli che sono partiti dall’altro estremo di una linea di campo radiale, perché gli elettroni si muoveranno lungo le linee di campo nel trasferirsi dalla punta alla superficie. Si vede perciò sulla superficie una sorta di immagine della punta dell’ago. Più precisamente, si vede un’immagine dell’emissività di tale superficie, cioè della facilità con la quale gli elettroni possono abbandonare le varie zone della superficie della punta. Se il potere risolutivo fosse abbastanza elevato, si potrebbe sperare di risolvere le posizioni dei singoli atomi sulla punta dell’ago. Con gli elettroni questa risoluzione non è possibile per le ragioni seguenti. Primo, perché c’è la diffrazione quantistica che offusca l’immagine. Secondo, a causa dei moti interni degli elettroni nel metallo, questi quando lasciano la punta hanno una piccola velocità in direzione trasversale e questa componente trasversale casuale della velocità provoca una certa confusione nell’immagine. La combinazione di questi due effetti limita la risoluzione a circa 25 Å. Se però si inverte la polarità e si introduce una piccola quantità di elio nel bulbo, diventano possibili poteri risolutivi molto più alti. Quando un atomo di elio si scontra con la punta dell’ago, il campo elettrico intenso strappa un elettrone dall’atomo di elio, lasciandolo carico positivamente. Dopo di che lo ione di elio viene accelerato radialmente verso lo schermo fluorescente, lungo una linea di campo. Siccome lo ione di elio è molto più pesante di un elettrone, le lunghezze d’onda quantistiche sono molto più piccole. Se la temperatura non è troppo alta, l’effetto delle velocità termiche è pure minore che nel caso dell’elettrone. Essendo l’immagine meno confusa, si ottiene una riproduzione molto più chiara della punta. È stato possibile ottenere ingrandimenti fino a 2 000 000 di volte con il microscopio a emissione di campo che utilizza ioni positivi: un ingrandimento dieci volte migliore di quello che si ottiene con il migliore microscopio elettronico. La FIGURA 6.17 è un esempio dei risultati ottenuti con un microscopio ionico a emissione di campo, usando un ago di tungsteno. Il centro di un atomo di tungsteno ionizza gli atomi di elio con una frequenza leggermente diversa rispetto agli interstizi fra gli atomi di tungsteno. La disposizione delle macchioline sullo schermo fluorescente mostra perciò l’ordinamento dei singoli atomi sulla punta di tungsteno. La ragione per cui le macchioline appaiono distribuite in anelli si può capire pensando a una grande scatola di palline regolarmente stipate secondo un ordinamento rettangolare, le quali rappresentano gli atomi del metallo. Immaginando di tagliare da questa scatola una porzione approssimativamente sferica, si vedrà apparire la disposizione ad anelli caratteristica della struttura atomica del metallo. Il microscopio a emissione di campo ha fornito agli esseri umani, per la prima volta, il mezzo per vedere gli atomi. È un notevole successo, considerando la semplicità dello strumento.
Patina fluorescente
E
Punta metallica A terra
Bulbo di vetro Alla pompa a vuoto ± Alta tensione
FIGURA
6.16
Microscopio a emissione di campo.
6.17 Immagine prodotta da un microscopio a emissione di campo. (Per cortesia del Prof. Erwin W. Mueller della Pennsylvania State University.) FIGURA
7
Il campo elettrico in varie circostanze (2)
7.1
Metodi per trovare il campo elettrostatico
Questo capitolo è una continuazione del nostro studio delle caratteristiche dei campi elettrici in varie situazioni particolari. Descriveremo dapprima alcuni dei metodi più elaborati per risolvere problemi in cui si hanno dei conduttori. A questo punto del corso non ci si può aspettare di impadronirsi di questi metodi più elevati. Può tuttavia essere interessante avere un’idea dei tipi di problemi che si è capaci di risolvere adoperando tecniche che si possono imparare nei corsi superiori. Successivamente prenderemo a considerare due esempi nei quali la distribuzione di carica non è fissa e nemmeno è portata da un conduttore, ma è invece determinata da qualche altra legge della fisica. Come si è visto nel capitolo 6, il problema del campo elettrostatico è fondamentalmente semplice quando la distribuzione delle cariche è definita; esso richiede soltanto la valutazione di un integrale. Quando sono presenti dei conduttori, però, sorgono delle complicazioni perché la distribuzione di carica sui conduttori non è nota inizialmente; la carica si deve distribuire sulla superficie di ogni conduttore in modo che il conduttore risulti equipotenziale. La soluzione di tali problemi non è né diretta né semplice. Abbiamo visto un metodo indiretto di risolvere simili problemi, nel quale si trovano le superfici equipotenziali per qualche distribuzione data di carica e si sostituisce una di esse con una superficie conduttrice. In questo modo si può costruire un elenco di soluzioni particolari per conduttori che abbiano la forma di sfere, piani ecc. L’uso delle immagini, descritto nel capitolo 6, è un esempio di metodo indiretto. Ne descriveremo un altro in questo capitolo. Se il problema da risolvere non appartiene alla classe dei problemi le cui soluzioni si possono costruire col metodo indiretto, siamo costretti a risolverlo con un metodo più diretto. Il problema matematico del metodo diretto consiste nel risolvere l’equazione di Laplace r2 = 0
(7.1)
sotto la condizione che sia un’opportuna costante su certi contorni, cioè sulle superfici dei conduttori. Problemi che implicano la soluzione di un’equazione differenziale di campo sotto il vincolo di certe condizioni al contorno sono chiamati problemi di valori al contorno. Essi sono stati oggetto di un considerevole studio matematico. Nel caso di conduttori aventi forme complicate, non ci sono metodi analitici generali. Anche un problema così semplice come quello di un conduttore carico a forma di cilindro chiuso agli estremi – come un barattolo di birra – presenta difficoltà matematiche notevoli. Lo si può risolvere solo approssimativamente, con l’uso di metodi numerici. I soli metodi generali di soluzione sono numerici. Ci sono alcuni problemi in cui l’equazione (7.1) si può risolvere direttamente. Per esempio il problema di un conduttore carico avente la forma di un ellissoide di rotazione si può risolvere esattamente in termini di funzioni speciali conosciute. La soluzione per un disco sottile si può ottenere prendendo un ellissoide infinitamente schiacciato. Similmente la soluzione per un ago corrisponde a un ellissoide infinitamente allungato. Si deve tuttavia mettere in evidenza che gli unici metodi diretti aventi applicabilità generale sono le tecniche numeriche. Certi problemi al contorno si possono anche risolvere per mezzo di misure su un sistema fisico analogo. L’equazione di Laplace si presenta in molte situazioni fisiche diverse: per il flusso
7.2 • Campi bidimensionali. Funzioni di variabile complessa
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stazionario di calore, per il flusso irrotazionale dei fluidi, per il flusso di corrente in un mezzo esteso, per la deflessione di una membrana elastica. È spesso possibile costruire un modello fisico che sia analogo al problema elettrico che si desidera risolvere. La soluzione del problema può essere ottenuta misurando sul modello un’opportuna grandezza analoga. Un esempio di tecnica analogica è l’uso di una vasca elettrolitica per risolvere problemi bidimensionali di elettrostatica. Il metodo funziona perché l’equazione differenziale per il potenziale in un mezzo conduttore uniforme è la stessa che nel vuoto. Ci sono molte situazioni fisiche in cui le variazioni dei campi in una dimensione sono nulle o si possono trascurare in confronto alle variazioni nelle altre due dimensioni. Tali problemi sono chiamati bidimensionali: il campo dipende da due coordinate soltanto. Per esempio, se mettiamo un lungo filo carico sull’asse z, allora per punti non troppo lontani dal filo il campo elettrico dipenderà da x e y ma non da z: il problema è bidimensionale. Dato che in un problema bidimensionale si ha @ /@z = 0, l’equazione per nel vuoto è @2 @2 + =0 @ x2 @ y2
(7.2)
Siccome questa equazione bidimensionale è relativamente semplice, c’è una vasta gamma di condizioni sotto le quali la si può risolvere analiticamente. C’è anzi a questo scopo una potentissima tecnica matematica indiretta che si basa su un teorema della teoria delle funzioni di variabile complessa e che ora descriveremo.
7.2
Campi bidimensionali. Funzioni di variabile complessa
La variabile complessa z è definita da z = x + iy (Non confondete z con la coordinata z, che ignoriamo nella discussione che segue perché supponiamo che i campi non dipendano da z.) Ogni punto nel piano x y corrisponde perciò a un numero complesso z. Possiamo adoperare z come una singola variabile (complessa) e scrivere per mezzo di essa gli usuali tipi di funzioni matematiche F(z). Per esempio F(z) = z2 oppure F(z) =
1 z3
oppure F(z) = z log z e così via. Data una particolare F(z) possiamo fare la sostituzione z = x + iy, e abbiamo una funzione di x e y, con termini reali e immaginari. Per esempio: z2 = (x + iy)2 = x 2
y 2 + 2ixy
(7.3)
Qualsiasi funzione F(z) può essere scritta come somma di una parte reale pura e una parte immaginaria pura, ciascuna delle quali è una funzione di x e y. Si ha cioè: F(z) = U(x, y) + iV (x, y)
(7.4)
dove U(x, y) e V (x, y) sono funzioni reali. Perciò da ogni funzione complessa F(z) si possono trarre due nuove funzioni U(x, y) e V (x, y). Per esempio F(z) = z2
81
82
Capitolo 7 • Il campo elettrico in varie circostanze (2)
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ci dà le due funzioni U(x, y) = x 2
y2
(7.5)
e V (x, y) = 2x y
(7.6)
Ora arriviamo a uno straordinario teorema matematico, talmente bello che la sua dimostrazione la lasceremo a uno dei vostri corsi di matematica. (Non dobbiamo rivelare tutti i misteri della matematica, se no questa materia diventerebbe troppo noiosa.) Si tratta di questo. Per qualsiasi «funzione ordinaria» (i matematici vi definiranno meglio questo concetto) le funzioni U e V soddisfano automaticamente le relazioni @U @V = @x @y
(7.7)
@V = @x
(7.8)
@U @y
Ne segue immediatamente che ognuna delle funzioni U e V soddisfa l’equazione di Laplace: (7.9)
@ 2V @ 2V + =0 @ x2 @ y2
(7.10)
Queste equazioni sono manifestamente vere per le funzioni (7.5) e (7.6). In questo modo, partendo da una qualunque funzione ordinaria, possiamo arrivare a due funzioni U(x, y) e V (x, y) che sono ambedue soluzioni dely l’equazione di Laplace in due dimensioni. Ciascuna –4 di queste funzioni rappresenta un possibile potenziale –6 6 elettrostatico. Possiamo scegliere qualsiasi funzione –3 –5 5 –4 4 F(z) ed essa dovrebbe rappresentare la soluzione di –2 –3 3 un qualche problema di campo elettrico, anzi due, –2 2 A = –1 perché U e V rappresentano ciascuna una soluzione. B = –1 B=1 Possiamo ricavare quante soluzioni vogliamo, semA=0 plicemente escogitando delle funzioni. Dopo si tratta A=0 soltanto di trovare il problema adatto a ciascuna solu3 2 1 A=1 2 3 4 B=0 zione. Può sembrare una cosa fatta alla rovescia, ma è x una linea d’attacco possibile. B=1 B = –1 B=0 Come primo esempio, vediamo a quali consideraA=0 A=0 2 –2 zioni fisiche ci porta la funzione A = –1
4
3
4 5 6
–2 –3
–3 –4 –5 –6
–4
7.1 Due famiglie di curve ortogonali che possono rappresentare superfici equipotenziali in un campo elettrostatico bidimensionale. FIGURA
@ 2U @ 2U + =0 @ x2 @ y2
F(z) = z2 Da essa si ottengono le due funzioni potenziali (7.5) e (7.6). Per vedere a che problema corrisponde la funzione U, troviamo le superfici equipotenziali ponendo U = A, con A costante, ossia x2
y2 = A
Questa è l’equazione di un’iperbole equilatera. Per valori diversi di A abbiamo le iperboli rappresentate in FIGURA 7.1. Per A = 0 si ha il caso particolare di due rette diagonali passanti per l’origine. Un tale sistema di linee equipotenziali corrisponde a diverse possibili situazioni fisiche. Primo, esso rappresenta i minuti dettagli del campo in vicinanza del punto di mezzo fra due
83
7.2 • Campi bidimensionali. Funzioni di variabile complessa
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7.2 Il campo vicino al punto C è lo stesso di quello in FIGURA 7.1. FIGURA
Conduttore +
f = +V E
7.3 Il campo in una lente quadrupolare. FIGURA
...
...
f = –V
f = –V
Conduttore f = +V
C Conduttore –
cariche puntiformi uguali. Secondo, esso rappresenta il campo all’interno di una rientranza ad angolo retto in un conduttore. Se abbiamo due elettrodi sagomati come indica la FIGURA 7.2, tenuti a potenziali differenti, il campo in vicinanza della rientranza indicata con C avrà l’aspetto del campo al di sopra dell’origine nella FIGURA 7.1. Le linee continue sono le equipotenziali e quelle a tratti, che tagliano le prime ad angolo retto, corrispondono alle linee di E. Mentre tende a essere elevato su punte o su sporgenze, il campo elettrico tende a essere basso all’interno di rientranze o depressioni. La soluzione trovata corrisponde anche a quella per un elettrodo a forma di iperbole, nella regione del vertice, oppure per due elettrodi iperbolici aventi potenziali opportuni. Osserverete che il campo in FIGURA 7.1 ha un’interessante proprietà. La componente lungo l’asse x del campo elettrico è data da @ Ex = = 2x @x Ossia il campo elettrico è proporzionale alla distanza dall’asse. Questo fatto è usato per costruire dei dispositivi (chiamati lenti quadrupolari) che sono utili per focalizzare fasci di particelle (paragrafo 29.7). Il campo desiderato viene ottenuto ordinariamente adoperando quattro elettrodi a forma iperbolica, come mostra la FIGURA 7.3. Per ottenere le linee del campo elettrico in FIGURA 7.3 si è semplicemente copiato dalla FIGURA 7.1 il sistema di curve e tratti che rappresentano V = cost. Un procedimento come questo riserva anche un regalo! Infatti le curve V = cost. sono ortogonali a quelle U = cost., a causa delle equazioni (7.7) e (7.8), perciò ogni volta che scegliamo una funzione F(z), otteniamo da U e da V tanto delle linee equipotenziali quanto delle linee di campo. E tenete a mente che risolviamo l’uno o l’altro di due problemi distinti a seconda di quale dei due sistemi di curve scegliamo come equipotenziali. Come secondo esempio consideriamo la funzione F(z) = z1/2
(7.11)
Se scriviamo z = x + iy = ⇢ ei✓ con
⇢ = (x 2 + y 2 )1/2
e tg ✓ =
y x
allora abbiamo 1/2 i✓/2
F(z) = ⇢ da cui segue
e
1/2
=⇢
✓ ✓ cos + i sen 2 2
26 2 3 1/2 26 2 2 1/2 (x + y 2 )1/2 + x 77 66 (x + y ) F(z) = 66 + i 7 2 2 64 75 64
! 3 1/2 x 77 77 5
(7.12)
84
Capitolo 7 • Il campo elettrico in varie circostanze (2)
y
B=4 A=2
B=3
A=1
Le curve ottenute per U(x, y) = A e V (x, y) = B, prendendo U e V dall’equazione (7.12), sono riportate nel diagramma di FIGURA 7.4. Di nuovo ci sono parecchie possibili situazioni che possono essere descritte da questi campi. Una del1e più interessanti è data dal campo vicino al bordo di una lastra sottile. Se la retta B = 0, alla destra dell’asse y, rappresenta una lastra sottile carica, le linee di campo sono date dalle curve corrispondenti ai vari valori di A. La situazione fisica è mostrata nella FIGURA 7.5. Ulteriori esempi sono:
A=4 A=3
B=2
B=1
A=0
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B=0 x
F(z) = z2/3
(7.13)
che dà il campo esternamente a uno spigolo rettangolare, F(z) = ln z (7.14) che dà il campo per una carica lineare, e F(z) = FIGURA
7.4
che fornisce il campo per l’equivalente bidimensionale di un dipolo elettrico, cioè due linee rette parallele cariche con polarità opposte, e molto vicine fra loro. In questo corso non vogliamo trattare questo argomento più oltre, ma vorremmo sottolineare che per quanto la tecnica fondata sulla variabile complessa sia spesso potente, essa si limita ai problemi bidimensionali; inoltre si tratta di un metodo indiretto.
Lastra messa a terra
7.5
(7.15)
Curve U(x, y) = cost. e V (x, y) = cost. relative all’equazione (7.12).
E
l campo elettrico vicino al bordo di una lastra sottile messa a terra. FIGURA
1 z
7.3
Oscillazioni nei plasmi
Consideriamo ora certe situazioni fisiche nelle quali il campo non è determinato né da cariche fisse né da cariche su superfici conduttrici, ma da una combinazione di due fenomeni fisici. In altre parole, il campo risulta regolato simultaneamente da due gruppi di equazioni: (1) le equazioni dell’elettrostatica che mettono i campi elettrici in relazione con la distribuzione di carica; (2) un’equazione che proviene da un’altra branca della fisica e che determina le posizioni o i moti delle cariche in presenza del campo. Il primo esempio che discuteremo è un esempio dinamico in cui il moto delle cariche è retto dalle leggi di Newton. Un semplice esempio di una simile situazione si presenta in un plasma, che è un gas ionizzato formato da ioni ed elettroni distribuiti in una certa regione dello spazio. La ionosfera, uno degli strati superiori dell’atmosfera, è un esempio di plasma. I raggi ultravioletti del Sole strappano via degli elettroni dalle molecole dell’aria creando elettroni liberi e ioni. In un simile plasma gli ioni positivi sono molto più pesanti degli elettroni, perciò possiamo trascurare il moto degli ioni in confronto a quello degli elettroni. Sia n0 la densità di elettroni nello stato di equilibrio indisturbato. Questa deve essere anche la densità degli ioni positivi, perché il plasma è elettricamente neutro (quando non è perturbato). Supponiamo ora che gli elettroni vengano in qualche modo spostati dall’equilibrio e ci domandiamo che cosa accadrà. Se la densità degli elettroni in una regione è aumentata, essi si respingeranno l’un l’altro e cercheranno di tornare alle loro posizioni di equilibrio. Mentre si muovono verso le loro originarie posizioni, essi accumulano energia cinetica e, invece di ridursi in quiete nella loro configurazioni d’equilibrio, essi oltrepassano il segno e prendono a oscillare avanti e indietro. La situazione è simile a quella che si presenta nelle onde sonore, nelle quali la forza di richiamo è la pressione del gas. In un plasma la forza di richiamo è invece la forza elettrica sugli elettroni.
85
7.3 • Oscillazioni nei plasmi
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Per semplificare la discussione, ci preoccuperemo soltanto di una situazione in cui i moti hanno luogo in una sola direzione, che prendiamo come asse x. Supponiamo che gli elettroni che avevano originariamente l’ascissa x siano all’istante t spostati dalle loro posizioni d’equilibrio di una piccola quantità s(x, t). Dato che gli elettroni sono stati spostati, la loro densità, in generale, sarà cambiata. Tale cambiamento di densità si calcola facilmente. Riferendosi alla FIGURA 7.6, gli elettroni inizialmente contenuti fra i due piani a e b si sono mossi e ora sono contenuti fra i piani a 0 e b0. Il numero degli elettroni che stavano fra a e b è proporzionale a n0 x; lo stesso numero adesso è contenuto in uno spazio la cui larghezza è x + s. La densità è diventata ! 1 s n0 x n0 n= = = n0 1 + (7.16) s x+ s x 1+ x Se il cambiamento di densità è piccolo, possiamo scrivere, adoperando lo sviluppo binominale per (1 + ✏) 1 : ! s n = n0 1 x
a
b
∆x
x
a' s
x+s
(7.17)
n0 ) qe
che diviene, usando la (7.17) con la notazione differenziale per s/ x, ⇢ = n0 qe
ds dx
(7.18)
La densità di carica è legata al campo elettrico dalle equazioni di Maxwell, in particolare r·E =
⇢ ✏0
(7.19)
Se il problema è effettivamente unidimensionale (e se non ci sono altri campi se non quello dovuto allo spostamento degli elettroni) il campo elettrico E ha l’unica componente Ex . L’equazione (7.19), insieme con la (7.18), dà allora @ Ex n0 qe @ s = @x ✏0 @x
(7.20)
n0 qe s+K ✏0
(7.21)
L’integrazione dell’equazione (7.20) dà Ex =
Siccome è Ex = 0 quando s = 0, la costante d’integrazione K è nulla. La forza su un elettrone nella posizione spostata è Fx =
n0 qe2 s ✏0
(7.22)
che rappresenta una forza di richiamo proporzionale allo spostamento s dell’elettrone. Questo porta a un’oscillazione armonica degli elettroni. L’equazione di moto di un elettrone spostato è me
d2 s = dt 2
n0 qe2 s ✏0
s + ∆s
∆ x + ∆s
7.6 Moto in un’onda in un plasma. Gli elettroni che erano sul piano a si spostano al piano a0 e quelli che erano in b si spostano in b0 . FIGURA
Si suppone che gli ioni positivi non si muovano apprezzabilmente (a causa dell’inerzia molto maggiore), perciò la loro densità resta n0 . Ciascun elettrone porta la carica qe , e quindi la densità media di carica in un punto qualunque è data da ⇢ = (n
b'
(7.23)
86
Capitolo 7 • Il campo elettrico in varie circostanze (2)
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Troviamo così che s varia armonicamente. La sua variazione nel tempo avverrà secondo la funzione cos !p t oppure – usando la notazione esponenziale introdotta nel vol. 1 – secondo la funzione ei!p t (7.24) La frequenza d’oscillazione !p è determinata dalla (7.23): !p2 =
n0 qe2 ✏ 0 me
(7.25)
ed è chiamata frequenza del plasma. Essa è un numero caratteristico del plasma. Quando si ha a che fare con cariche elettroniche molti preferiscono esprimere i loro risultati in termini di una grandezza e2 definita da e2 =
qe2 = 2,3068 · 10 4⇡✏ 0
28
N·m2
(7.26)
Usando questa convenzione, l’equazione (7.25) diventa !p2 =
4⇡e2 n0 me
(7.27)
che è l’espressione che troverete nella maggior parte dei libri. Così abbiamo trovato che la perturbazione di un plasma dà luogo a oscillazioni libere degli elettroni con la frequenza naturale !p , che è proporzionale alla radice quadrata della densità degli elettroni. Gli elettroni del plasma si comportano come un sistema risonante, come quelli descritti nel cap. 23 del vol. 1. Questa risonanza naturale del plasma ha degli effetti interessanti. Per esempio, se si tenta di far propagare una radioonda attraverso la ionosfera, si trova che essa può penetrarvi soltanto se la sua frequenza è più alta della frequenza del plasma, altrimenti il segnale viene respinto per riflessione. Si devono impiegare frequenze elevate se si vuole comunicare con un satellite nello spazio; se invece si desidera comunicare con una stazione radio che si trova oltre l’orizzonte, si devono utilizzare frequenze inferiori alla frequenza del plasma, così che il segnale venga riflesso verso terra. Un altro esempio interessante di oscillazioni di un plasma si presenta nei metalli. In un metallo abbiamo un plasma confinato costituito da ioni positivi ed elettroni. La densità n0 è molto alta e così pure la frequenza !p . Dovrebbe tuttavia essere possibile osservare le oscillazioni degli elettroni. Ora, secondo la meccanica quantistica, un oscillatore armonico avente una frequenza naturale !p ha dei livelli d’energia separati da un incremento di energia ~!p . Se dunque si sparano degli elettroni attraverso, mettiamo, un foglio d’alluminio e si fanno misure molto accurate delle energie degli elettroni che emergono dall’altra parte, ci si può aspettare che talvolta gli elettroni cedano l’energia ~!p alle oscillazioni del plasma. Questo infatti avviene. Fu osservato dapprima sperimentalmente nel 1936 che elettroni con energie da qualche centinaio a qualche migliaio di elettronvolt perdevano energia a scatti quando venivano diffusi da un sottile foglio metallico oppure lo attraversavano. Tale effetto non fu compreso fino al 1953, quando Bohm e Pines(1) fecero vedere che i fatti osservati si potevano spiegare in termini di eccitazioni quantiche delle oscillazioni del plasma nel metallo.
7.4
Particelle colloidali in un elettrolita
Veniamo ora a un altro fenomeno in cui le posizioni delle cariche sono controllate da un potenziale che prende origine, in parte, dalle cariche stesse. Gli effetti che ne risultano influenzano in modo (1)
Si vada C.J. Powell e J.B. Swann, Phys. Rev. 115, 869 (1959) per i lavori successivi e la bibliografia.
7.4 • Particelle colloidali in un elettrolita
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significativo il comportamento dei colloidi. Un colloide consiste di una sospensione in acqua di piccole particelle cariche le quali, benché microscopiche, sono ancora molto grandi da un punto di vista atomico. Se le particelle colloidali non fossero cariche, esse tenderebbero a coagularsi in grossi aggregati; a causa però della loro carica esse si respingono fra loro e restano in sospensione. Se ora nell’acqua viene sciolto anche un po’ di sale, sarà dissociato in ioni positivi e negativi. (Una tale soluzione di ioni viene chiamata elettrolita.) Gli ioni negativi saranno attratti verso le particelle colloidali (supponendo che la carica di queste sia positiva) e gli ioni positivi saranno respinti. Vogliamo stabilire come sono distribuiti nello spazio gli ioni che circondano una particella. Perché le idee restino semplici, ancora una volta risolveremo solamente un caso unidimensionale. Se pensiamo una particella colloidale come una sfera avente un raggio molto grande – alla scala atomica! – potremo trattare una piccola porzione della sua superficie come un piano. (Ogni volta che si tenta di capire un nuovo fenomeno è una buona idea prendere un modello molto semplificato; dopo di che, avendo capito il problema con quel modello, si è meglio in grado di andare oltre e affrontare un calcolo più esatto.) Facciamo l’ipotesi che la distribuzione degli ioni generi una densità di carica ⇢(x) e un potenziale elettrico legati dalla legge dell’elettrostatica r2 = ⇢/✏ 0 , ossia, per campi che variano soltanto in una dimensione, dall’equazione d2 = dx 2
⇢ ✏0
(7.28)
Supponendo che si abbia un potenziale (x), come si distribuiranno gli ioni? Questo si può determinare in base ai principi della meccanica statistica. Il nostro problema è quindi di determinare in modo che la densità di carica che ne risulta in base alla meccanica statistica soddisfi anche la (7.28). Secondo la meccanica statistica (cap. 40 del vol. 1), delle particelle in equilibrio termico in un campo di forze si distribuiscono in modo tale che la loro densità n alla posizione x è data da n(x) = n0 e
U(x)/kT
(7.29)
dove U(x) è l’energia potenziale, k la costante di Boltzmann e T la temperatura assoluta. Ammetteremo che gli ioni portino una carica elettronica, positiva o negativa. Alla distanza x dalla superficie di una particella colloidale un ione positivo avrà l’energia potenziale qe (x), così che è U(x) = qe (x) La densità n+ degli ioni positivi è dunque n+ (x) = n0 e
qe (x)/kT
Similmente la densità degli ioni negativi è n (x) = n0 e+qe
(x)/kT
La densità totale di carica è dunque ⇢ = qe n+
qe n
ossia ⇣ ⇢ = qe n0 e
qe /kT
e+qe
/kT
⌘
(7.30)
Combinando questo risultato con l’equazione (7.28) troviamo che il potenziale deve soddisfare l’equazione ⌘ qe n0 ⇣ qe /kT d2 = e e+qe /kT (7.31) 2 ✏0 dx Questa equazione si risolve facilmente anche in generale: basta moltiplicare i due membri per 2 d / dx e integrare rispetto a x. Nonostante ciò, per far sì che il problema resti il più semplice
87
88
Capitolo 7 • Il campo elettrico in varie circostanze (2)
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possibile, consideriamo soltanto il caso limite in cui i potenziali sono piccoli o la temperatura T è alta. Il caso in cui è piccolo corrisponde a una soluzione diluita. In questi casi l’esponente è piccolo e possiamo usare l’approssimazione e±qe
/kT
=1±
qe kT
(7.32)
L’equazione (7.31) dà allora
2n0 qe2 d2 = + (x) (7.33) ✏ 0 kT dx 2 Fate attenzione che questa volta il segno del secondo membro è positivo: le soluzioni per non sono oscillatorie ma esponenziali. La soluzione generale dell’equazione (7.33) è = Ae
x/D
con D=
s
+ B e+x/D
✏ 0 kT 2n0 qe2
(7.34)
(7.35)
Le costanti A e B devono essere determinate dalle condizioni del problema. Nel nostro caso B deve essere zero, altrimenti il potenziale diventerebbe infinito per grandi valori di x. Abbiamo perciò = A e x/D (7.36) dove A è il potenziale per x = 0, cioè sulla superficie della particella colloidale. Il potenziale decresce di un fattore 1/e ogni volta che la distanza cresce di D, come si vede nel grafico di FIGURA 7.7. Il numero D è chiamato lunghezza di Debye ed è una misura dello spessore della guaina di ioni che circonda una grossa particella carica in un elettrolita. L’equazione (7.35) dice che la guaina si assottiglia col crescere della concentrazione degli ioni n0 o al diminuire della temperatura. La costante A nell’equazione (7.36) si ottiene facilmente se si conosce la carica superficiale sulla particella colloidale. Sappiamo che è En = Ex (0) =
(7.37)
✏0
Ma E è anche il gradiente di : Ex (0) = da cui otteniamo
@ @x
0
D
=+
A D
(7.38)
(7.39) ✏0 Portando questo risultato nella (7.36) troviamo (ponendo x = 0) che il potenziale della particella colloidale è D (0) = (7.40) ✏0 Noterete che questo potenziale uguaglia la differenza di potenziale ai capi di un condensatore avente una separazione D fra le lastre e una carica superficiale . S’è detto che le particelle colloidali sono tenute discoste dalle loro repulsioni elettriche. Ma ora vediamo che, allontanandosi un poco dalla superficie di una particella, il campo viene ridotto dalla guaina ionica che vi si raccoglie. Se le guaine diventano abbastanza sottili, le particelle hanno una buona probabilità di urtarsi l’un l’altra. Esse rimangono allora appiccicate, e il colloide coagula e precipita, separandosi dal liquido. Dalla nostra analisi si capisce perché aggiungendo abbastanza sale a un colloide se ne produce la separazione. Questo processo è chiamato «salificazione di un colloide». A=
89
7.5 • Il campo elettrostatico di una griglia
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7.7 La variazione del potenziale vicino alla superficie di una particella colloidale. D è la lunghezza di Debye. FIGURA
f
A z
7.8 Superfici equipotenziali sopra una griglia uniforme di fili carichi. FIGURA
+
+
+
+
0 0
D
2D
3D
x
+
+
a x
Un altro esempio interessante è l’effetto che una soluzione salina ha sulle molecole delle proteine. Una molecola di proteina è una catena lunga, complicata e flessibile, di amminoacidi. Tale molecola porta diverse cariche, e accade qualche volta che vi sia una carica complessiva non nulla, mettiamo negativa, che si distribuisce lungo la catena. A causa della mutua repulsione delle cariche negative, la catena proteica è mantenuta distesa. Inoltre, se altre simili catene molecolari sono presenti nella soluzione, esse saranno tenute a distanza dai medesimi effetti repulsivi. Si può perciò avere una sospensione di catene molecolari in un liquido. Se però si aggiunge del sale al liquido si cambiano le proprietà della sospensione. Via via che si aggiunge sale alla soluzione, decrescendo così la distanza di Debye, le catene molecolari possono avvicinarsi l’una all’altra e possono anche avvolgersi. Se si aggiunge abbastanza sale alla soluzione, le catene molecolari precipitano. Ci sono molti effetti chimici di questo tipo che possono essere compresi in base alle forze elettriche.
7.5
Il campo elettrostatico di una griglia
Come ultimo esempio desideriamo descrivere un’altra proprietà interessante dei campi elettrici, della quale si fa uso nella progettazione di strumenti elettrici, nella costruzione di valvole termoioniche e per altri scopi. Si tratta delle caratteristiche del campo elettrico vicino a una griglia di fili carichi. Per rendere il problema il più semplice possibile, considereremo una schiera di fili paralleli giacenti in un piano, fili infinitamente lunghi e uniformemente spaziati fra loro. Se si considera il campo a grande distanza sopra il piano dei fili, si vede un campo elettrico costante, proprio come se la carica fosse sparsa uniformemente sul piano. Quando ci si avvicina alla griglia, il campo comincia a deviare da quell’uniformità che si era trovata a grande distanza da essa. Si desidera valutare quanto bisogna essere vicini alla griglia per poter scorgere delle variazioni apprezzabili del potenziale. La FIGURA 7.8 mostra uno schizzo semplificato delle superfici equipotenziali a varie distanze dalla griglia. Quanto più ci si avvicina a essa tanto più sono ampie le variazioni. Muovendosi parallelamente alla griglia, si osserva che il campo fluttua in modo periodico. Abbiamo visto, nel cap. 50 del vol. 1, che ogni grandezza periodica si può esprimere come una somma di onde sinusoidali (teorema di Fourier). Vediamo se si può trovare un’adatta funzione armonica che soddisfi le nostre equazioni di campo. Se i fili giacciono sul piano x y e sono diretti parallelamente all’asse y, si potrebbero tentare delle soluzioni del tipo 2⇡nx (x, z) = Fn (z) cos (7.41) a dove a è l’intervallo tra i fili e n è il numero d’ordine dell’armonica. (Abbiamo supposto i fili molto lunghi e perciò non ci dovrebbe essere nessuna variazione al variare di y.) La soluzione completa sarebbe costituita da una somma di tali termini con n = 1, 2, 3, ...
90
Capitolo 7 • Il campo elettrico in varie circostanze (2)
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Se questo deve essere un potenziale ammissibile, esso dovrà soddisfare l’equazione di Laplace nella regione sopra ai fili (dove non ci sono cariche). Cioè si dovrà avere @2 @2 + =0 @ x 2 @z 2 Provando a portare il
della (7.41) in questa equazione troviamo 4⇡ 2 n2 2⇡nx d2 Fn 2⇡nx + =0 F (z) cos cos n 2 2 a a a dz
(7.42)
ossia Fn (z) deve soddisfare l’equazione d2 Fn 4⇡n2 = 2 Fn dz 2 a
(7.43)
Perciò si deve avere Fn = An e
z/z0
(7.44)
dove
a (7.45) 2⇡n Troviamo dunque che se c’è una componente di Fourier col numero d’ordine n, quella componente diminuirà esponenzialmente con una distanza caratteristica z0 = a/2⇡n. Per la prima armonica (n = 1) l’ampiezza decade di un fattore e 2⇡ (una forte diminuzione) ogni volta che z cresce della spaziatura a dei fili della griglia. Le altre armoniche decadono anche più rapidamente quando ci si allontana dalla griglia. Si vede che a una distanza dalla griglia che sia anche poche volte a, il campo è quasi del tutto uniforme, cioè i termini oscillanti sono piccoli. Naturalmente rimarrà sempre il campo «di armonica zero» 0 = E0 z z0 =
a dare un campo uniforme per grandi valori di z. Per ottenere la soluzione completa si dovrebbe combinare questo termine con una somma di termini del tipo (7.41) con Fn dato dalla (7.44). I coefficienti An dovrebbero venire aggiustati in modo che la somma dia, per derivazione, un campo elettrico che vada d’accordo con la densità di carica sui fili della griglia. Il metodo che ora abbiamo sviluppato può essere usato per spiegare perché la schermatura elettrostatica fatta con una rete è altrettanto buona di quella fatta con una lamiera metallica. Eccetto che a distanze dalla rete minori di due o tre volte il lato della maglia, il campo dentro una rete chiusa è nullo. Ci si rende conto del perché della rete di rame – molto più leggera e meno costosa della lamiera – che spesso è usata per schermare sensibili apparecchiature elettriche da campi esterni disturbatori.
8
Energia elettrostatica
8.1
L’energia elettrostatica delle cariche. Sfera uniformemente carica
Nello studio della meccanica una delle scoperte più utili e interessanti è stata la legge di conservazione dell’energia. Le espressioni delle energie potenziale e cinetica di un sistema ci sono state d’aiuto per scoprire i rapporti fra gli stati di un sistema in due diversi istanti senza aver bisogno di esaminare nei dettagli ciò che è accaduto nel frattempo. Desideriamo ora considerare l’energia dei sistemi elettrostatici. Anche in elettricità il principio di conservazione dell’energia riesce utile per scoprire diverse cose interessanti. La legge dell’energia d’interazione in elettrostatica è molto semplice; l’abbiamo, in realtà, già discussa. Supponiamo di avere due cariche q1 e q2 separate dalla distanza r 12 . Tale sistema possiede dell’energia perché per avvicinare le cariche c’è voluta una certa quantità di lavoro. Abbiamo già calcolato il lavoro fatto nell’avvicinare due cariche a partire da una distanza molto grande. Esso è q1 q2 (8.1) 4⇡✏ 0 r 12 Sappiamo anche, dal principio di sovrapposizione, che se sono presenti molte cariche, la forza complessiva su ognuna è la somma delle forze esercitate dalle altre. Ne segue perciò che l’energia totale di un sistema formato da un certo numero di cariche è la somma dei termini dovuti alla mutua interazione di ciascuna coppia di cariche. Se qi e q j sono due qualsiasi di tali cariche e r i j è la distanza fra loro (FIGURA 8.1), l’energia di questa particolare coppia è data da qi q j 4⇡✏ 0 r i j
(8.2)
L’energia elettrostatica totale U è la somma delle energie di tutte le possibili coppie di cariche, cioè X qi q j U= (8.3) 4⇡✏ 0 r i j tutte le coppie
Se abbiamo una distribuzione di carica descritta da una densità di carica ⇢, la somma dell’equazione (8.3) deve naturalmente essere sostituita da un integrale. Ci occuperemo di due aspetti di questa energia. Uno è l’applicazione del concetto di energia ai fenomeni elettrostatici; l’altro è la valutazione di questa energia in diversi modi. Qualche volta, in qualche caso speciale, è più facile calcolare il lavoro direttamente che valutare la somma che appare nell’equazione (8.3) o l’integrale corrispondente. A titolo d’esempio, calcoliamo l’energia necessaria per costituire una sfera di carica avente densità di carica uniforme. Tale energia non è altro che il lavoro fatto per riunire insieme le cariche, inizialmente a distanza infinita. Immaginiamo di assemblare la sfera costruendo una successione di sottili strati sferici di spessore infinitesimo. A ogni stadio del processo una piccola quantità di carica viene raccolta e distribuita in uno strato sottile da r a r + dr. Il processo viene continuato fino a raggiungere il
92
Capitolo 8 • Energia elettrostatica
8.1 L’energia elettrostatica di un sistema di particelle è la somma delle energie elettrostatiche di ciascuna coppia.
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FIGURA
dr qi r
8.2
L’energia di una sfera uniforme di carica può essere calcolata immaginando che la sfera sia stata costruita per mezzo di gusci sferici successivi. FIGURA
R
dQ
rij a qj
raggio a (FIGURA 8.2). Se Qr è la carica della sfera quando essa ha raggiunto il raggio r, il lavoro fatto portando la carica dQ è Qr dQ (8.4) dU = 4⇡✏ 0 r Se la densità di carica nella sfera è ⇢, la carica Qr è Qr = ⇢ e la carica dQ è
4 3 ⇡r 3
dQ = ⇢ 4⇡r 2 dr
L’equazione (8.4) diventa
4⇡ ⇢2 r 4 dr 3✏ 0 L’energia totale necessaria a costituire la sfera è l’integrale di dU da r = 0 a r = a, ossia dU =
U=
4⇡ ⇢2 a5 15✏ 0
(8.5)
(8.6)
Oppure, se desideriamo esprimere il risultato in funzione della carica totale Q della sfera, U=
3 Q2 5 4⇡✏ 0 a
(8.7)
L’energia è proporzionale al quadrato della carica totale e inversamente proporzionale al raggio. Si può anche interpretare l’equazione (8.7) come l’affermazione che la media di 1/r i j per tutte le coppie di punti della sfera è (6/5)a.
8.2
L’energia elettrostatica di un condensatore. Forze su conduttori carichi
Consideriamo ora l’energia che ci vuole per caricare un condensatore. Se la carica Q è stata presa da uno dei conduttori di un condensatore e portata sull’altro, la differenza di potenziale fra loro è V=
Q C
(8.8)
dove C è la capacità del condensatore. Quanto lavoro si compie caricando il condensatore? Procedendo come per la sfera, immaginiamo che il condensatore sia stato caricato per trasferimento della carica da una lastra all’altra in piccole quantità dQ. Il lavoro necessario per trasferire la carica dQ è dU = V dQ
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8.2 • L’energia elettrostatica di un condensatore. Forze su conduttori carichi
Prendendo V dall’equazione (8.8) scriviamo dU =
Q dQ C
Integrando dalla carica zero alla carica finale Q, avremo U=
1 Q2 2 C
(8.9)
Questa energia può anche essere scritta nella forma U=
1 CV 2 2
(8.10)
Rammentando che la capacità di una sfera conduttrice (in combinazione con una sfera di raggio infinito) è Csfera = 4⇡✏ 0 a possiamo subito ottenere dall’equazione (8.9) l’energia di una sfera carica, cioè U=
1 Q2 2 4⇡✏ 0 a
(8.11)
Questa, naturalmente, è anche l’energia di un sottile guscio sferico di carica totale Q e corrisponde ai 5/6 dell’energia di una sfera uniformemente carica (equazione (8.7)). Vedremo ora alcune applicazioni del concetto di energia elettrostatica. Consideriamo per esempio i seguenti problemi: qual è la forza fra le lastre di un condensatore? Oppure: qual è il momento della forza relativo a un dato asse su un conduttore carico, in presenza di un altro che porta una carica opposta? Tali problemi si risolvono facilmente utilizzando il risultato espresso dall’equazione (8.9) per l’energia elettrostatica di un condensatore in combinazione col principio dei lavori virtuali (capp. 4, 13 e 14 del vol. 1). Usiamo questo metodo per determinare la forza fra le armature di un condensatore a facce parallele. Immaginando di aumentare la distanza fra queste di una piccola quantità z, il lavoro meccanico fatto dall’esterno nel muovere le lastre sarà (8.12)
W=F z
dove F è la forza fra le lastre. Questo lavoro deve uguagliare la variazione dell’energia elettrostatica del condensatore. Secondo l’equazione (8.9), l’energia del condensatore era inizialmente U=
1 Q2 2 C
La variazione di energia (se non permettiamo alle cariche di cambiare) è ! 1 2 1 U= Q 2 C
(8.13)
Uguagliando le (8.12) e (8.13), abbiamo Q2 F z= 2 che può anche essere scritta F z=
1 C
!
(8.14)
Q2 C 2C 2
(8.15)
La forza risulta naturalmente dall’attrazione delle cariche che si trovano sulle lastre, ma si vede che non c’è bisogno di occuparsi in dettaglio del modo in cui esse sono distribuite; tutto quello che ci serve è riassunto nella capacità C.
93
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Capitolo 8 • Energia elettrostatica
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8.3 Qual è il momento di forza in un condensatore variabile? FIGURA
f2
8.4
Il campo alla superficie di un conduttore varia da zero a E 0 = / 0 mentre si attraversa lo strato di cariche superficiali. FIGURA
Lastra conduttrice
Strato di carica superficiale
f1
E |E| E0
È facile capire come questa idea si estenda a conduttori di qualsiasi forma e ad altre componenti della forza. Nell’equazione (8.14) basta sostituire a F la componente che vogliamo e a z un piccolo spostamento nella direzione corrispondente. Oppure, se abbiamo un elettrodo con un perno e vogliamo conoscere la coppia ⌧, scriveremo il lavoro virtuale nella forma W=⌧ ✓ dove ✓ è un piccolo spostamento angolare. Naturalmente (1/C) deve essere il cambiamento di 1/C corrispondente a ✓. Si potrebbe in questo modo trovare la coppia sulle lastre mobili di un condensatore variabile del tipo mostrato in FIGURA 8.3. Tornando al caso particolare del condensatore a lastre parallele, si può utilizzare la formula dedotta dal capitolo 6 per la capacità, cioè 1 d = C ✏0 A
(8.16)
dove A è l’area di ciascuna lastra. Se aumentiamo di z la distanza fra le lastre, sarà ! 1 z = C ✏0 A Dall’equazione (8.14) otteniamo che la forza fra le lastre è F=
Q2 2✏ 0 A
(8.17)
Esaminiamo l’equazione (8.17) un po’ più da vicino e vediamo se si può dire come nasce la forza. Se poniamo Q= A per la carica su una delle lastre, l’equazione (8.17) può essere riscritta nella forma F=
1 Q 2 ✏0
Ossia, dato che il campo elettrico fra le lastre è E0 = si avrà F=
✏0
1 QE0 2
(8.18)
8.3 • L’energia elettrostatica di un cristallo ionico
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A prima vista ci si potrebbe immaginare che la forza agente su una lastra sia il prodotto della carica per il campo. Invece abbiamo un imprevisto fattore 1/2. La ragione è che E0 non è il campo sulle cariche. Se immaginiamo che la carica occupi uno straterello alla superficie della lastra, come indica la FIGURA 8.4, il campo varierà dal valore zero al limite interno dello strato al valore E0 nello spazio fuori dalla lastra. Il campo medio che agisce sulle cariche superficiali è E0 /2. Questo è il perché del fattore 1/2 nell’equazione (8.18). Dovreste fare attenzione che nel calcolare il lavoro virtuale si è supposto che la carica sul condensatore fosse costante, cioè che questo non fosse collegato elettricamente ad altri oggetti e quindi la sua carica non potesse cambiare. Supponiamo invece che si fosse immaginato che il condensatore venisse mantenuto a una differenza di potenziale costante mentre si operava lo spostamento virtuale. Allora avremmo dovuto prendere 1 U = CV 2 2 e invece dell’equazione (8.15) si sarebbe ottenuto F z=
1 2 V C 2
che dà una forza di modulo eguale a quella data dalla (8.15) (a causa di V = Q/C) ma col segno opposto! Di certo la forza fra le lastre del condensatore non si inverte quando lo stacchiamo dalla sorgente che lo carica. E del resto sappiamo che due lastre con cariche elettriche opposte si devono attirare. Il principio dei lavori virtuali è stato applicato in modo scorretto nel secondo caso: non si è tenuto conto del lavoro virtuale fatto sulla sorgente di carica. Cioè, per mantenere il potenziale V costante mentre la capacità cambia, una carica V C deve essere fornita da qualche sorgente. Ma questa carica è fornita al potenziale V , perciò il lavoro fatto dal sistema elettrico che mantiene costante il potenziale è V 2 C. Il lavoro meccanico F z più il lavoro elettrico V 2 C costituiscono insieme il cambiamento dell’energia totale (1/2) V 2 C del condensatore. Perciò F z è uguale a (1/2) V 2 C, come prima.
8.3
L’energia elettrostatica di un cristallo ionico
Consideriamo ora un’applicazione del concetto di energia elettrostatica nel campo della fisica atomica. Non si possono misurare facilmente le forze fra gli atomi, ma si ha spesso interesse a conoscere le differenze di energia fra – + + + – – una disposizione e un’altra degli atomi, come, per esempio, la differenza di energia che accompagna un cambiamento chimico. Siccome le forze fra – + + + – – gli atomi sono essenzialmente forze elettriche, le energie chimiche, in gran + + + – – – parte, non sono che energie elettrostatiche. Cl Na Consideriamo per esempio l’energia elettrostatica di un reticolo ionico. + + + – – – Un cristallo ionico come NaCl consiste di ioni positivi e negativi che si possono pensare come sfere rigide. Essi si attraggono elettricamente finché cominciano a toccarsi; da quel momento c’è una forza repulsiva che sale molto rapidamente se si cerca di spingerli ancora più vicini. Come prima approssimazione, immaginiamo perciò un insieme di sfere rigide che rappresentano gli atomi in un cristallo di sale. La struttura del FIGURA 8.5 Sezione attraverso un cristallo di sale in reticolo è stata determinata dalla diffrazione dei raggi X. Si tratta di un scala atomica. La distribuzione a scacchiera degli ioni di Na e Cl è la stessa nelle due sezioni reticolo cubico, come una scacchiera a tre dimensioni. La FIGURA 8.5 ne perpendicolari a quella in figura. mostra una sezione. La distanza fra gli ioni è 2,81 Å (= 2,81 · 10 8 cm). (Vedi vol. 1, FIGURA 1.7.) Se questa rappresentazione del sistema è corretta, dovrebbe essere possibile verificarla ponendosi il seguente problema: quanta energia occorrerà per separare tutti questi ioni, cioè per dissociare completamente il cristallo in ioni? Questa energia dovrebbe uguagliare il calore di vaporizzazione di NaCl più l’energia occorrente per dissociare le molecole in ioni.
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Capitolo 8 • Energia elettrostatica
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Questa energia totale necessaria a separare NaCl in ioni risulta sperimentalmente di 7,92 eV per molecola. Usando la relazione di conversione 1 eV = 1,602 · 10
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J
e il numero di Avogadro come numero di molecole in una grammomolecola N0 = 6,02 · 1023 l’energia di dissociazione può essere espressa anche da W = 7,64 · 105 J/mol I chimico-fisici preferiscono come unità di energia la kilocaloria, che vale 4190 J, così che 1 eV per molecola equivale a 23 kcal per grammomolecola. Un chimico perciò direbbe che l’energia di dissociazione di NaCl è W = 183 kcal/mol Si può ricavare teoricamente questa energia chimica calcolando quanto lavoro ci vorrebbe per dissociare il cristallo? Secondo la nostra teoria questo lavoro è la somma delle energie potenziali di tutte le coppie di ioni. Il modo più facile di ricavare questa somma è di scegliere un dato ione e calcolare la sua energia potenziale nel campo di ciascuno degli altri ioni. Questo ci darà il doppio dell’energia per ione, perché l’energia appartiene alle coppie di cariche. Se si volesse l’energia che deve essere associata a un singolo ione si dovrebbe prendere la metà della somma. In realtà però quello che si vuole è l’energia per molecola, la quale contiene due ioni, sicché la somma che calcoliamo ci darà direttamente l’energia per molecola. L’energia di uno ione con uno dei suoi vicini immediati è e2 a dove
qe2 4⇡✏ 0 e a è la distanza fra i centri degli ioni. (Gli ioni che si considerano sono monovalenti.) Questa energia è 5,12 eV, cosa che ci fa già capire che otterremo un risultato del giusto ordine di grandezza. Siamo però ancora molto lontani dalla somma di infiniti termini che ci occorre. Cominciamo col sommare tutti i termini che vengono dagli ioni che si trovano su una retta. Pensando che lo ione indicato con Na nella FIGURA 8.5 sia il nostro ione base, consideriamo per primi gli ioni che si trovano sulla medesima fila orizzontale. Ci sono i due più prossimi ioni Cl, con carica negativa, ambedue alla distanza a; poi ci sono due ioni positivi alla distanza 2a ecc. Chiamando U1 questa somma di energie, avremo ! e2 2 2 2 2 U1 = + + ⌥ ... a 1 2 3 4 ! 2e2 1 1 1 = 1 + ± ... (8.19) a 2 3 4 e2 =
La serie converge con lentezza, quindi è difficile valutarla numericamente, però si sa che è uguale a ln 2. Perciò 2e2 e2 U1 = ln 2 = 1,386 (8.20) a a Consideriamo ora la fila di ioni che si trova subito sopra alla precedente. Lo p ione più vicino è negativo e si trova alla distanza p pa; ce ne sono poi due positivi alla distanza 2 a; le coppie successive hanno le distanze 5 a, 10 a e così via. Perciò per la linea completa troviamo la serie e2 * 1 2 +p a , 1 2
2 2 p + p ⌥ ...+ 10 5 -
(8.21)
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8.4 • L’energia elettrostatica nei nuclei
Ci sono quattro file come questa: sopra, sotto, davanti e dietro. Poi ci sono le quattro file più vicine spostate diagonalmente rispetto alle precedenti e così via. Se si porta pazientemente in fondo il computo di tutte le file e poi si somma, si trova che il totale generale è e2 U = 1,747 a valore appena un po’ più grande di quello ottenuto per la prima fila (equazione (8.20)). Tenendo conto che e2 /a = 5,12 eV, si ottiene U = 8,94 eV Questo risultato è superiore di circa il 10% all’energia osservata sperimentalmente, e mostra che l’idea che l’intero reticolo sia tenuto insieme da forze elettriche di Coulomb è fondamentalmente giusta. Questa è la prima volta che si è ricavata una particolare proprietà di una sostanza microscopica in base alle nostre conoscenze di fisica atomica. Molto di più sarà fatto in seguito. La disciplina che ha per oggetto di capire il comportamento della materia in base alle leggi che regolano il comportamento degli atomi si chiama fisica dello stato solido. E cosa si può dire dell’errore nel nostro calcolo? Perché il risultato non è del tutto giusto? È a causa della repulsione degli ioni a piccole distanze. Essi non sono delle sfere perfettamente rigide e quindi quando sono vicini si schiacciano in parte. Non sono nemmeno molto molli, perciò si schiacciano soltanto un poco. Un po’ d’energia, però, viene spesa in questa deformazione, e quando gli ioni vengono separati tale energia viene restituita. L’energia effettiva richiesta per separare gli ioni è perciò un po’ meno dell’energia che abbiamo calcolato; la repulsione aiuta infatti a vincere l’attrazione elettrostatica. Si può in qualche modo tener conto di questo contributo? Si potrebbe se si conoscesse la legge della forza repulsiva. Non siamo ancora in grado di analizzare il meccanismo di tale repulsione, ma si può avere un’idea delle sue caratteristiche da alcune misure di carattere macroscopico. Misurando infatti la comprimibilità dell’intero cristallo è possibile avere un’idea quantitativa della legge di repulsione fra gli ioni e quindi del contributo di questa all’energia di dissociazione. In questo modo si è trovato che tale contributo deve essere 1/9,4 del contributo dell’attrazione elettrostatica e, naturalmente, di segno opposto. Se si sottrae questo contributo dall’energia elettrostatica pura si ottiene 7,99 eV per l’energia di dissociazione per molecola. Siamo molto più vicini al valore osservato di 7,92 eV, ma non ancora in perfetto accordo. C’è ancora una cosa che non abbiamo considerato: non abbiamo tenuto conto dell’energia cinetica delle vibrazioni del cristallo. Se si corregge tenendo conto di questo effetto si ottiene un ottimo accordo col valore sperimentale. Dunque le nostre idee sono corrette: il contributo più importante all’energia di un cristallo come NaCl è elettrostatico.
8.4
L’energia elettrostatica nei nuclei
Consideriamo ora un altro esempio di energia elettrostatica in fisica atomica, cioè l’energia elettrica dei nuclei atomici. Prima di far questo dobbiamo discutere alcune proprietà delle forze preponderanti (chiamate forze nucleari) che tengono uniti protoni e neutroni nei nuclei. Nei primi tempi della scoperta dei nuclei – e dei neutroni e protoni che li compongono – si sperava che quella parte non elettrica, molto intensa, della forza che agisce fra un protone e un altro protone seguisse qualche legge semplice, come la legge del quadrato inverso in elettricità. Perché una volta che si fosse determinata questa legge di forza, e quelle analoghe fra un protone e un neutrone e fra due neutroni, sarebbe stato possibile descrivere teoricamente l’intero comportamento di queste particelle nei nuclei. Perciò fu dato l’avvio a un vasto programma per lo studio della diffusione dei protoni nella speranza di trovare la legge di forza fra queste particelle; però dopo trent’anni di sforzi nulla di semplice è emerso. Una notevole mole di cognizioni si è accumulata riguardo alla forza fra protone e protone; si trova però che tale forza è estremamente complessa. Quello che intendiamo con «estremamente complessa» è che essa dipende dal maggior numero possibile di cose.
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98
(a)
(b)
(c)
(d)
(e)
(f)
8.6 La forza fra due protoni dipende da ogni possibile parametro. FIGURA
Capitolo 8 • Energia elettrostatica
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Primo, la forza non è una funzione semplice della distanza fra due protoni: a grande distanza c’è attrazione, ma a distanza più ravvicinata c’è repulsione. La dipendenza dalla distanza è una funzione complessa, tuttora non perfettamente nota. Secondo, la forza dipende dall’orientazione dello spin del protone. I protoni hanno uno spin e due protoni interagenti possono ruotare con momenti angolari nella stessa direzione oppure in direzione opposta. La forza è diversa quando gli spin sono paralleli e quando sono antiparalleli, come nelle FIGURE 8.6a e 8.6b. La differenza è anzi piuttosto grande: non si tratta di un effetto modesto. Terzo, la forza è notevolmente diversa quando la separazione dei due protoni ha luogo nella direzione parallela ai loro spin, come nelle FIGURE 8.6c e 8.6d, oppure quando la separazione è in direzione perpendicolare agli spin, come nelle FIGURE 8.6a e 8.6b. Quarto, la forza dipende, come avviene per il magnetismo, dalla velocità dei protoni, anzi ne dipende molto di più che nel magnetismo. E questa forza dipendente dalla velocità non è un effetto relativistico; è intensa anche a velocità molto più piccole della velocità della luce. Per di più, questa parte della forza dipende da altri fattori oltre che dal valore della velocità. Per esempio, quando un protone si muove in vicinanza di un altro protone, la forza è diversa quando il moto orbitale ha la stessa direzione di rotazione dello spin, come nella FIGURA 8.6e, da quella che si ha quando le due rotazioni sono opposte, come nella FIGURA 8.6f. Questa è chiamata la parte «spin-orbita» della forza. La forza fra un protone e un neutrone e fra un neutrone e un altro neutrone è ugualmente complessa. Fino a oggi non conosciamo il meccanismo che dà luogo a queste forze, vale a dire non conosciamo nessun modo semplice di capirle. C’è tuttavia un aspetto importante, per il quale le forze fra nucleoni sono più semplici di quello che potrebbero essere. Si tratta del fatto che la forza nucleare fra due neutroni è uguale alla forza fra un protone e un neutrone oppure fra due protoni! Se in una qualunque situazione nucleare si sostituisce un protone con un neutrone (o viceversa), le interazioni nucleari non vengono alterate. La «ragione fondamentale» di questa uguaglianza non è nota, ma è un esempio di un principio importante che può essere esteso anche alle leggi d’interazione di altre particelle capaci di interazioni forti, come i mesoni ⇡ e le particelle «strane». Questo fatto è illustrato molto bene dalle posizioni dei livelli di energia in nuclei simili. Consideriamo un nucleo come B11 (boro-undici), che è composto di cinque protoni e sei neutroni. In questo nucleo le undici particelle interagiscono fra loro eseguendo una danza complicatissima. Di tutte le possibili interazioni, c’è una configurazione che ha l’energia più bassa possibile; si tratta dello stato normale del nucleo, chiamato stato fondamentale. Se il nucleo viene disturbato (per esempio per il fatto di essere colpito da un protone ad alta energia o da un’altra particella) può essere portato in un indefinito numero di altre configurazioni, dette stati eccitati, ciascuna delle quali ha un’energia caratteristica, superiore a quella dello stato fondamentale. Nelle ricerche di fisica nucleare, come quelle che si possono eseguire con un generatore van de Graaff (per esempio nei Laboratori Kellogg e Sloan del Caltech), le energie e le altre proprietà vengono determinate sperimentalmente. Le energie dei quindici più bassi stati conosciuti del B11 sono indicate in un grafico unidimensionale nella metà sinistra della FIGURA 8.7. La linea orizzontale più bassa rappresenta lo stato fondamentale. Il primo stato eccitato ha un’energia superiore di 2,14 MeV a quella dello stato fondamentale; il livello successivo supera di 4,46 MeV lo stato fondamentale e così via. Lo studio della fisica nucleare è volto a trovare una spiegazione di questa distribuzione di livelli piuttosto complessa; tuttavia non esiste per ora una teoria generale completa di tali livelli energetici nucleari. Se si sostituisce uno dei neutroni del B11 con un protone, si ha il nucleo di un isotopo del carbonio: C11 . Le energie dei sedici più bassi stati eccitati del C11 sono anch’esse state misurate; esse sono indicate nella metà destra della FIGURA 8.7. (Le linee tratteggiate indicano i livelli per i quali l’informazione sperimentale è discutibile.) Esaminando la FIGURA 8.7, vediamo una sorprendente somiglianza fra le distribuzioni dei livelli energetici dei due nuclei. I primi stati eccitati si trovano a circa 2 MeV sopra i rispettivi stati fondamentali. C’è un ampio intervallo di circa 2,3 MeV per arrivare al secondo stato eccitato, poi un piccolo salto di solo 0,5 MeV per raggiungere il terzo; poi di nuovo un grosso salto fra il quarto e il quinto livello; ma fra il quinto e il sesto c’è una minuscola separazione dell’ordine di
8.4 • L’energia elettrostatica nei nuclei
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0,1 MeV, e così via. Dopo circa il decimo livello la corrispondenza sembra andar perduta, ma si può ancora riconoscerla se i livelli vengono classificati 10,89 10,61 10,56 secondo le altre loro caratteristiche, per esempio il momento angolare, 10,32 10,26 10,08 9,92 9,87 oppure il comportamento nel perdere l’energia extra. 9,73 11 La sorprendente somiglianza nella distribuzione dei livelli del B e del 9,28 9,19 8,98 8,92 C11 non è certo una semplice coincidenza, ma deve rivelare qualche legge 8,66 8,57 8,43 fisica. Effettivamente essa mostra che anche nella situazione complessa che 8,10 7,99 si ha in un nucleo la sostituzione di un neutrone con un protone produce 7,50 7,30 un ben piccolo cambiamento. Questo può voler dire soltanto che le forze 6,90 6,81 6,76 neutrone-neutrone e protone-protone devono essere quasi identiche. Solo in 6,49 6,35 tal caso c’è da aspettarsi che le configurazioni nucleari con cinque protoni e sei neutroni siano le stesse che con sei protoni e cinque neutroni. Notate che le proprietà di questi due nuclei non ci dicono niente circa 5,03 4,81 la forza neutrone-protone; c’è infatti lo stesso numero di combinazioni 4,46 4,32 neutrone-protone in tutti e due i nuclei. Se però si confrontano altri due nuclei, per esempio C14 , che ha sei protoni e otto neutroni, con N14 , che ne ha sette e sette, si trova una simile corrispondenza dei livelli di energia. Perciò si può concludere che le forze p-p, n-n e p-n sono identiche in tutte 2,14 2,00 le loro complessità. C’è un principio inaspettato nelle leggi delle forze nucleari; anche se la forza fra ciascuna coppia di particelle nucleari è molto complessa, la forza fra le tre possibili coppie è la stessa. Delle piccole differenze però ci sono. I livelli non si corrispondono esattamente; inoltre lo stato fondamentale del C11 ha un’energia assoluta 1,982 (cioè una massa) che è 1,982 MeV più alta di quella dello stato fondaB11 C11 mentale del B11 . Anche tutti gli altri livelli sono altrettanto più elevati in energia assoluta. Perciò le forze non sono esattamente uguali. Ma che le FIGURA 8.7 I livelli energetici del B11 e del C11 forze complessive non siano uguali lo sappiamo molto bene; c’è una forza (energie in MeV). Lo stato fondamentale del C11 elettrica fra due protoni perché ciascuno ha una carica positiva, mentre fra è di 1,982 MeV più alto di quello del B11 . due neutroni non c’è una simile forza elettrica. Forse si potrebbero spiegare le differenze fra B11 e C11 col fatto che l’interazione elettrica fra i protoni è diversa nei due casi? Forse anche le rimanenti piccole differenze fra i livelli sono prodotte da effetti elettrici? Dato che le forze nucleari sono molto più intense delle forze elettriche, queste potrebbero avere solo un piccolo effetto perturbatore sull’energia dei livelli. Allo scopo di verificare quest’idea, o piuttosto di scoprire quali siano le conseguenze di quest’idea, consideriamo per prima cosa la differenza delle energie degli stati fondamentali dei due nuclei. Per scegliere un modello molto semplice, supporremo che i nuclei siano sfere di raggio r (da determinarsi) contenenti Z protoni. Considerando che un nucleo sia come una sfera con una densità uniforme di carica, ci si aspetterà che la sua energia elettrostatica sia data (secondo l’equazione (8.7)) da 3 (Zqe )2 U= (8.22) 5 4⇡✏ 0 r dove qe è la carica elementare del protone. Siccome Z = 5 per B11 e Z = 6 per C11 , le loro energie elettrostatiche dovrebbero essere diverse. Con un così piccolo numero di protoni, l’equazione (8.22) non è però corretta. Se si calcola l’energia elettrica per ogni coppia di protoni, considerati come dei punti che si suppongono distribuiti quasi uniformemente in tutta la sfera, si trova che nell’equazione (8.22) la grandezza Z 2 dovrebbe essere sostituita da Z (Z 1), così che l’energia è U=
3 Z (Z 1) qe2 3 Z (Z 1) e2 = 5 4⇡✏ 0 r 5 r
(8.23)
Se si conoscesse il raggio nucleare r, si potrebbe adoperare l’equazione (8.23) per trovare la differenza in energia elettrostatica fra B11 e C11 . Facciamo invece il contrario; adoperiamo cioè la differenza osservata fra le energie per calcolare il raggio, nell’ipotesi che la differenza di energia sia tutta di origine elettrostatica.
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Capitolo 8 • Energia elettrostatica
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Questo però non è del tutto giusto. La differenza di energia di 1,982 MeV fra gli stati fondamentali di B11 e C11 comprende l’energia di riposo – cioè l’energia mc2 – di tutte le particelle. Passando da B11 a C11 sostituiamo un neutrone con un protone, che ha massa minore. Perciò parte della differenza di energia è data dalla differenza delle energie di riposo del neutrone e del protone, che è 0,784 MeV. La differenza da spiegare come effetto dell’energia elettrostatica è perciò maggiore di 1,982 MeV; essa è 1,982 MeV + 0,784 MeV = 2,766 MeV Portando questa energia nell’equazione (8.23), per il raggio di B11 o C11 troviamo r = 3,12 · 10
13
cm
(8.24)
È sensato questo valore? Per vedere se lo è, lo dovremmo confrontare con qualche altra determinazione del raggio dei nuclei in questione. Per esempio, si può fare un’altra valutazione del raggio di un nucleo andando a vedere come esso diffonde le particelle veloci. Quello che si è trovato da misure di questo tipo è che la densità di materia è quasi la stessa in tutti i nuclei, cioè che i loro volumi sono proporzionali ai numeri di particelle che contengono. Se si indica con A il numero di protoni e neutroni in un nucleo (un numero molto sensibilmente proporzionale alla sua massa), si trova che il suo raggio è dato da r = A1/3 r 0 con
(8.25)
13
cm
Da queste misure risulta che il raggio di un nucleo di
B11
r = 1,2 · 10
r = (11)1/3 (1,2 · 10
13
(8.26) (o di
C11 )
cm) = 2,7 · 10
13
dovrebbe essere
cm
Confrontando questo risultato con la (8.24) si vede che la nostra supposizione di considerare elettrostatica la differenza di energia fra B11 e C11 è abbastanza buona; il disaccordo è infatti solo circa del 15% (non c’è male per il nostro primo calcolo nucleare!). La ragione del disaccordo è probabilmente la seguente. Secondo ciò che attualmente si sa dei nuclei, un numero pari di particelle nucleari – nel caso di B11 cinque neutroni insieme a cinque protoni – costituisce una sorta di zona chiusa; quando si aggiunge a questa zona una particella in più, essa le ruota intorno rimanendo all’esterno, piuttosto che venire assorbita. Se è così, l’energia elettrostatica del protone in più va calcolata in modo diverso. L’eccesso di energia di C11 rispetto a B11 sarebbe semplicemente Z B qe2 4⇡✏ 0 r che è l’energia richiesta per aggiungere un altro protone all’esterno della zona chiusa. Questo valore è soltanto i 5/6 di quello che prevede l’equazione (8.23), perciò la nuova previsione per il raggio è i 5/6 di (8.24), che è in accordo molto più preciso con ciò che si misura direttamente. Possiamo trarre due conclusioni da questo accordo. Una è che sembra che le leggi dell’elettricità siano valide anche alla piccolissima distanza di 10 13 cm. L’altra è che abbiamo verificato la notevolissima circostanza che le parti non elettriche delle forze fra protone e protone, neutrone e neutrone, e protone e neutrone sono tutte uguali.
8.5
L’energia nel campo elettrostatico
Consideriamo ora altri metodi per calcolare l’energia elettrostatica. Questi si possono derivare tutti dalla formula fondamentale, equazione (8.3), che è la somma su tutte le coppie di cariche dell’energia mutua di ciascuna coppia. Come prima cosa vogliamo scrivere un’espressione per
8.5 • L’energia nel campo elettrostatico
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l’energia di una distribuzione di carica. Come al solito ammetteremo che ciascun elemento di volume dV contenga l’elemento di carica ⇢ dV . Allora l’equazione (8.3) si deve scrivere ⌅ 1 ⇢(1)⇢(2) U= dV1 dV2 (8.27) 2 4⇡✏ 0 r 12 tutto lo spazio
Si noti il fattore 1/2, che si introduce perché nell’integrale doppio in dV1 e dV2 tutte le coppie di elementi di carica vengono contate due volte. (Non c’è una maniera comoda di scrivere un integrale che tenga conto delle coppie in modo che ciascuna sia contata una sola volta.) Notiamo poi che l’integrale in dV2 nella (8.27) è proprio il potenziale in (1), cioè si ha ⌅ ⇢(2) dV2 = (1) 4⇡✏ 0 r 12 così che la (8.27) si può scrivere 1 U= 2
⌅
⇢(1) (1) dV1
Ossia, dato che il punto (2) non appare più, si può scrivere semplicemente ⌅ 1 ⇢ dV U= 2
(8.28)
Questa equazione si può interpretare come segue. L’energia potenziale della carica ⇢ dV è il prodotto di questa carica per il potenziale nello stesso punto. L’energia totale è perciò l’integrale di ⇢ dV . C’è però il solito fattore 1/2. Esso è ancora necessario perché altrimenti le energie vengono contate due volte. L’energia mutua di due cariche è data dalla carica di una di esse per il potenziale di cui essa risente per effetto dell’altra. Oppure la stessa energia si può considerare come la carica della seconda per il potenziale di cui essa risente per effetto della prima. Perciò per due cariche puntiformi si potrebbe scrivere U = q1 (1) = q1
q2 4⇡✏ 0 r 12
U = q2 (2) = q2
q1 4⇡✏ 0 r 12
oppure
Osservate che si potrebbe anche scrivere U=
⇤ 1⇥ q1 (1) + q2 (2) 2
(8.29)
L’integrale nella (8.28) corrisponde alla somma di ambedue i termini entro parentesi quadre nella (8.29). Questo è il motivo per cui ci occorre il fattore 1/2. Un problema interessante è il seguente: dove è localizzata l’energia elettrostatica? Qualcuno potrebbe anche domandare: a chi interessa? Che senso ha tale domanda? Se vi è una coppia di cariche interagenti, la loro combinazione ha una certa energia. Abbiamo proprio bisogno di dire che l’energia si trova in una delle cariche o nell’altra o in tutt’e due, oppure nello spazio fra di esse? Tali questioni possono anche essere prive di significato, perché in realtà sappiamo soltanto che l’energia totale si conserva. L’idea che l’energia sia localizzata in qualche posto non è necessaria. Supponiamo anche che abbia un senso dire, in generale, che l’energia si trova in un certo posto, come lo ha nel caso dell’energia termica. Allora si potrebbe ampliare il principio della conservazione dell’energia con l’idea che, se l’energia in un dato volume cambia, dovrebbe essere possibile spiegare questo cambiamento per mezzo di un flusso d’energia dentro o fuori di quel volume. Vi renderete conto che la nostra originaria formulazione del principio della conservazione dell’energia rimane perfettamente valida se una parte dell’energia scompare da un luogo e
101
102
Capitolo 8 • Energia elettrostatica
E
dV
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appare in qualche altro, anche molto lontano, senza che nulla accada (cioè senza che si abbiano speciali fenomeni) nello spazio interposto. Stiamo perciò discutendo qui un’estensione dell’idea di conservazione dell’energia, ciò che si potrebbe chiamare principio della conservazione locale dell’energia. Un tale principio affermerebbe che l’energia in un dato volume generico cambia soltanto della quantità che fluisce dentro o fuori di questo volume. È effettivamente possibile che l’energia si conservi localmente in un simile modo. Se questo accadesse, avremmo una legge molto più dettagliata della semplice affermazione della conservazione dell’energia totale. Risulta proprio che in natura l’energia si conserva localmente. Si possono trovare formule che ci dicono dove è localizzata l’energia e come si sposta da un posto a un altro. C’è anche una ragione fisica che ci impone di essere in grado di dire dove si trova l’energia. Secondo la teoria della gravitazione, ogni massa è una sorgente di attrazione gravitazionale. Sappiamo anche, dalla relazione E = mc2 , che massa ed energia sono equivalenti; perciò qualsiasi energia è una sorgente di forza gravitazionale. Se non si potesse localizzare l’energia non si potrebbe localizzare tutta la massa. Non si sarebbe in grado di dire dove si trovano le sorgenti del campo gravitazionale. La teoria della gravitazione sarebbe incompleta. Se ci limitiamo all’elettrostatica, non c’è realmente modo di dire dove si trova l’energia. Le equazioni di Maxwell complete, comprendenti cioè l’elettrodinamica, ci danno molta più informazione (benché anche con queste la soluzione non sia, a rigore, unica). Discuteremo perciò questo problema di nuovo, in dettaglio, in un capitolo successivo. Per ora daremo soltanto il risultato valido nel caso particolare dell’elettrostatica: l’energia si trova nello spazio là dove c’è un campo elettrico. Questo appare ragionevole perché sappiamo che quando delle cariche vengono accelerate esse irradiano campi elettrici. Sembra giusto pensare che quando la luce o delle radioonde si spostano da un punto a un altro, esse trasportino con sé dell’energia: non ci sono cariche, però, nelle onde e quindi sembra giusto collocare l’energia dov’è il campo elettromagnetico e non nelle cariche da cui ha preso origine. Perciò descriveremo l’energia non per mezzo delle cariche, bensì dei campi che esse producono. Si può in effetti mostrare che l’equazione (8.28) equivale numericamente a scrivere ⌅ ✏0 U= E · E dV (8.30) 2 Questa formula si può interpretare come l’affermazione che, quando è presente un campo elettrico, c’è un’energia localizzata nello spazio la cui densità (energia per unità di volume) è u=
8.8
Ciascun elemento di volume dV = dxdydz del campo elettrico contiene l’energia ( 0 /2)E 2 dV. FIGURA
✏0 ✏ 0 E2 E·E= 2 2
(8.31)
Questo concetto è illustrato nella FIGURA 8.8. Per far vedere che l’equazione (8.30) è coerente con le leggi dell’elettrostatica cominciamo a introdurre nell’equazione (8.28) la relazione fra ⇢ e che è stata ottenuta nel capitolo 6, cioè ⇢ = ✏ 0 r2
Risulta
⌅ ✏0 r2 dV 2 Esplicitando le componenti nell’integrando, troviamo
(8.32)
U=
2 2 2 *@ + @ + @ + = 2 @ y 2 @z 2 , @x !2 ! !2 @ @ @ @ @ + + @x @y @y @y @z
r2 =
=
@ @x
@ @x
!
=r·( r )
(r ) · (r )
@ @z
!
@ @z
!2
= (8.33)
8.6 • L’energia elettrostatica di una carica puntiforme
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L’integrale dell’energia è perciò U=
✏0 2
⌅
(r ) · (r ) dV
✏0 2
⌅
r · ( r ) dV
Possiamo utilizzare il teorema di Gauss per trasformare il secondo integrale in un integrale di superficie ⌅ ⌅ r · ( r ) dV = ( r ) · n da (8.34) volume
superficie
Valutiamo l’integrale di superficie nel caso in cui la superficie vada all’infinito (con questo l’integrale di volume diventa un integrale su tutto lo spazio), supponendo che tutte le cariche si trovino entro una distanza finita. Il semplice metodo da seguire è quello di prendere una superficie sferica di raggio R grandissimo, il cui centro sia nell’origine delle coordinate. Sappiamo che quando si è molto lontani da tutte le cariche, varia come 1/R e r varia come 1/R2 . (Ambedue decrescerebbero anche più rapidamente al crescere di R se la carica totale della distribuzione fosse nulla.) Siccome l’area della grande sfera cresce come R2 , si vede che l’integrale di superficie diminuisce come (1/R)(1/R2 )R2 = 1/R quando il raggio della sfera cresce indefinitamente. Perciò se estendiamo l’integrazione a tutto lo spazio (R ! 1), l’integrale di superficie va a zero e abbiamo ⌅ ⌅ ✏0 ✏0 U= (r ) · (r ) dV = E · E dV (8.35) 2 2 tutto lo spazio
tutto lo spazio
Si vede da qui che è possibile rappresentare l’energia di qualsiasi distribuzione di carica come un integrale su una densità di energia localizzata nel campo.
8.6
L’energia elettrostatica di una carica puntiforme
La nostra nuova relazione, cioè l’equazione (8.35), dice che anche una singola carica puntiforme q deve possedere una certa energia elettrostatica. In questo caso il campo elettrico è dato da E=
q 4⇡✏ 0 r 2
Perciò la densità di energia alla distanza r dalla carica è ✏ 0 E2 q2 = 2 32⇡ 2 ✏ 0 r 4 Possiamo prendere come elemento di volume un guscio sferico di spessore dr e area 4⇡r 2 . L’energia totale risulta ⌅ 1 r=1 q2 q2 1 U= dr = (8.36) 2 8⇡✏ 0 r r=0 r=0 8⇡✏ 0 r Ora l’estremo a r = 1 non dà difficoltà; ma per una carica puntiforme l’integrazione dovrebbe estendersi fino a r = 0, ciò che dà un integrale infinito. L’equazione (8.35) dice dunque che c’è un’energia infinita nel campo di una carica puntiforme, benché fossimo partiti dall’idea che l’energia esiste solo fra cariche puntiformi. Nella nostra originaria formula per l’energia di un insieme di cariche puntiformi (equazione (8.3)) non fu inclusa nessuna energia d’interazione di ciascuna carica con se stessa. Quello che è successo è che quando siamo passati, con l’equazione (8.27), a una distribuzione continua di carica, si è contata l’energia d’interazione di ciascuna carica infinitesima con tutte le altre cariche infinitesime. Lo stesso computo è implicito nell’equazione (8.35); perciò quando la applichiamo a una carica puntiforme finita, mettiamo in conto l’energia che occorrerebbe per costituire tale carica a partire da cariche infinitesime. Vi accorgerete infatti
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Capitolo 8 • Energia elettrostatica
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che si otterrebbe lo stesso risultato (8.36) se si adoperasse l’espressione (8.11) per l’energia di una sfera carica e si facesse tendere il raggio a zero. Ne dobbiamo concludere che l’idea di localizzare l’energia nel campo è incompatibile con l’esistenza di cariche puntiformi. Un mezzo di uscire dalla difficoltà sarebbe di dire che le cariche elementari – come l’elettrone – non sono puntiformi, ma sono in realtà piccole distribuzioni di carica. Come alternativa, si potrebbe dire che c’è qualcosa che non va nella nostra teoria dell’elettricità quando si arriva alle distanze molto piccole, oppure nell’idea della conservazione locale dell’energia. S’incontrano difficoltà con qualunque di questi punti di vista. Queste difficoltà non sono mai state superate; esse esistono tuttora. Un po’ più avanti nel corso, quando avremo discusso alcune ulteriori idee, come l’impulso nel campo elettromagnetico, faremo un resoconto più completo di queste difficoltà fondamentali nella nostra comprensione della natura.
9
L’elettricità nell’atmosfera
9.1
Il gradiente del potenziale elettrico dell’atmosfera
In una giornata ordinaria sopra un terreno desertico piatto oppure sul mare, muovendosi verso l’alto a partire dalla superficie, il potenziale elettrico cresce di circa 100 V per metro. C’è dunque nell’aria un campo elettrico verticale E di 100 V/m. Il segno del campo corrisponde a una carica negativa della superficie terrestre. Ciò vuol dire che all’aperto il potenziale all’altezza del vostro naso è di 200 V superiore a quello dei vostri piedi! Potreste chiedere: «Perché non si impianta un paio di elettrodi, là nell’aria, a un metro l’uno dall’altro e ci si serve dei 100 V per alimentare la luce elettrica?». Oppure vi potreste domandare: «Se davvero c’è una differenza di potenziale di 200 V fra naso e piedi, perché non prendo una scossa tutte le volte che esco per strada?». Rispondiamo prima alla seconda domanda. Il vostro corpo è relativamente un buon conduttore: quindi se siete in contatto col suolo, voi e il suolo costituite approssimativamente una superficie equipotenziale. Generalmente tali superfici sono parallele al suolo, come mostra la FIGURA 9.1a, ma la vostra presenza distorce le superfici equipotenziali e il campo prende all’incirca l’aspetto indicato in FIGURA 9.1b. Perciò fra la testa e i piedi continua a esserci una differenza di potenziale molto vicina a zero. Ci sono delle cariche che dalla terra raggiungono la vostra testa, alterando il campo. Alcune di queste cariche possono essere neutralizzate da ioni raccolti dall’aria, ma la corrente di questi ioni è molto piccola perché l’aria è un cattivo conduttore. Come si può misurare il campo nell’atmosfera se esso cambia quando mettiamo qualcosa in esso? Ci sono diverse vie. Una è di collocare un conduttore isolato a una certa distanza dal suolo e lasciarlo lì finché si trova allo stesso potenziale dell’aria. Se aspettiamo abbastanza a lungo, la piccolissima conducibilità dell’aria farà sì che delle cariche lentamente sfuggano dal conduttore (o vi si depositino) finché questo si porta al potenziale caratteristico del suo livello.
(a)
+300 V +300 V
Collegamento a terra – – – – – –
+200 V E = 100 V/m +100 V
+200 V
+100 V
0V
–
–
–
–
(a)
–
–
–
–
–
Suolo
0V
–
–
– – – – – – – ––
– 0V – – – – – – – –– –
(b)
9.1 (a) La distribuzione del potenziale al di sopra del suolo. (b) La distribuzione del potenziale vicino a un uomo in uno spazio aperto e pianeggiante. FIGURA
Consultazione: Chalmers, J. Alan, Atmospheric Electricity, Pergamon Press, London, 1957
E
– – – – –
Lastra metallica A – – – – – –
Suolo (b)
–
–
E
Collegamento – – – – – – – – – – a terra – – – –
Coperchio metallico B – – – –
Suolo
9.2 (a) La lastra A ha la stessa carica superficiale del suolo. (b) Se la lastra A viene coperta con il conduttore B non ha più carica superficiale. FIGURA
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Capitolo 9 • L’elettricità nell’atmosfera
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Dopo di che lo possiamo riportare al suolo e misurare lo spostamento del potenziale che ne segue. Una via più rapida è di adoperare come conduttore un secchiello d’acqua con una piccola perdita. Sgocciolando, l’acqua si porta via qualsiasi eccesso di carica e il secchiello tende perciò ad assumere lo stesso potenziale dell’aria. (Le cariche, come sapete, si trovano alla superficie e quando le gocce si staccano si portano via «frammenti della superficie».) Il potenziale del secchiello può essere misurato con un elettrometro. C’è un altro metodo per misurare direttamente il gradiente del potenziale. Siccome c’è un campo elettrico, si ha una carica superficiale sul suolo ( = ✏ 0 E) e perciò se si pone una lastra metallica piatta sulla superficie del suolo e la si mette a terra, cariche negative appaiono su di essa (FIGURA 9.2a). Se si copre questa lastra con un coperchio conduttore B, messo a terra, le cariche appariranno su questo, mentre non ce ne saranno più sulla lastra A. Se mentre si copre la lastra A si misura la carica che fluisce da questa verso terra (per esempio per mezzo di un galvanometro inserito nel filo di terra), si può trovare la densità di carica superficiale che c’era sulla lastra e quindi trovare anche il campo elettrico. Avendo dato un’idea di come si può misurare il campo elettrico nell’atmosfera, continuiamo nella sua descrizione. Le misure fanno vedere, in primo luogo, che il campo continua a esistere se si va a grandi altezze, ma diventa più debole. A circa 50 km il campo è molto debole, perciò la maggior parte delle variazioni di potenziale (l’integrale di E) ha luogo ad altezze più basse. La differenza di potenziale totale dalla superficie della terra al limite dell’atmosfera è circa 400 000 V.
9.2
Correnti elettriche nell’atmosfera
Un’altra cosa che può venir misurata, oltre al gradiente del potenziale, è la corrente nell’atmosfera. La densità di corrente è piccola: circa 10 µA attraversano ciascun metro quadrato parallelo al suolo. L’aria evidentemente non è un perfetto isolante e, a causa di questa conduttività, una piccola corrente, prodotta dal campo che abbiamo ora descritto, va dal cielo verso terra. Come mai l’atmosfera ha una certa conduttività? Qua e là, fra le molecole dell’aria, c’è un ione: una molecola di ossigeno che ha acquistato, mettiamo, un elettrone extra, o magari ne ha perso uno. Questi ioni non rimangono allo stato di molecole isolate: a causa del loro campo elettrico essi di solito accumulano intorno a sé un altro po’ di molecole. Ciascuno ione diventa perciò un grumetto che, con altri simili, va alla deriva nel campo, muovendosi lentamente in su o in giù, costituendo la corrente osservata. Questi ioni da dove vengono? Si è supposto dapprima che essi fossero prodotti dalla radioattività della terra. (Si sapeva che la radiazione emessa dai materiali radioattivi è capace di rendere l’aria conduttrice ionizzandone le molecole. Particelle come i raggi che vengono fuori dai nuclei atomici si muovono così rapidamente da strappare elettroni dagli atomi, lasciandoli ionizzati.) Questa spiegazione richiederebbe naturalmente che se si va ad altitudini più elevate si debba trovare meno ionizzazione, perché la radioattività è tutta nello sporco che si trova al suolo e cioè nelle tracce di radio, uranio, potassio ecc. Per mettere alla prova questa teoria, alcuni fisici eseguirono esperimenti per mezzo di palloni allo scopo di misurare la ionizzazione dell’aria (Hess, nel 1912) e scoprirono che era vero il contrario: la ionizzazione per unità di volume aumentava con l’altezza! (L’apparecchio era simile a quello della FIGURA 9.3. Le due lastre venivano caricate periodicamente al potenziale V . A causa della conduttività dell’aria le lastre si scaricavano lentamente; l’elettrometro permetteva di misurare la velocità di questo processo.) Questo era un risultato molto misterioso, la più drammatica scoperta in tutta la storia dell’elettricità atmosferica. Tanto drammatica, di fatto, da portare alla nascita di un ramo di ricerca interamente nuovo: i raggi cosmici. L’elettricità atmosferica in sé rimase un soggetto meno drammatico. Evidentemente la ionizzazione era prodotta da qualcosa che veniva da fuori della Terra; l’indagine di questa sorgente portò alla scoperta dei raggi cosmici. Non discuteremo qui l’argomento dei raggi cosmici, salvo dire che essi mantengono il rifornimento di ioni: benché questi vengano continuamente spazzati via, ne vengono creati di nuovi dalle particelle dei raggi cosmici che arrivano dall’esterno.
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9.2 • Correnti elettriche nell’atmosfera
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9.3 Misura della conduttività dell’aria dovuta al moto degli ioni. FIGURA
50 000 m
+
+ +
+ V –
Ione Elettrometro
– + –
–
+ – Aria –
–
Corrente ≈ 10–12 A/m2
400 000 V Livello del mare
Elevata conduttività
– Superficie terrestre
Per essere esatti, dobbiamo dire che oltre agli ioni costituiti da molecole ci sono anche altri tipi di ioni. Minuscoli frammenti di sporcizia, come granellini estremamente minuti di polvere, fluttuano nell’aria e finiscono per caricarsi. Essi vengono talvolta chiamati «nuclei». Per esempio quando in mare un’onda si rompe, degli spruzzi molto minuti vengono lanciati in aria. Quando una di queste goccioline evapora, essa lascia un cristallino infinitesimo di NaCl a fluttuare nell’aria. Questi cristallini possono captare delle cariche e diventare ioni; essi vengono chiamati «grossi ioni». Gli ioni piccoli, quelli formati dai raggi cosmici, sono i più mobili. Essendo così piccoli, essi si muovono rapidamente nell’aria, con una velocità di circa 1 cm/s in un campo di 100 V/m, ossia 1 V/cm. Gli altri ioni molto più grandi e pesanti si muovono più lentamente. Succede che se ci sono molti «nuclei», essi catturano le cariche degli ioni piccoli: e siccome i «grossi ioni» si muovono così lentamente nel campo, la conduttività totale ne risulta ridotta. La conduttività dell’aria è perciò variabilissima, perché è molto sensibile alla dose di «sporcizia» che l’aria contiene. Di questa ce n’è molto di più al disopra del suolo, dove i venti possono sollevare la polvere e dove l’uomo getta nell’aria ogni sorta di materiali inquinanti, di quanto ce ne sia sull’acqua: non c’è da meravigliarsi che la conduttività vicino alla superficie della terra vari enormemente da un giorno all’altro, da un momento all’altro, da un posto all’altro. Anche il gradiente del potenziale osservato in un dato punto della superficie terrestre varia enormemente, perché all’incirca la stessa corrente defluisce dalle elevate altitudini in posti diversi e la conducibilità variabile vicino al suolo porta a un gradiente di potenziale anch’esso variabile. Anche la conduttività dell’aria dovuta alla migrazione degli ioni cresce rapidamente con l’altezza, per due ragioni. Prima di tutto, la ionizzazione dovuta ai raggi cosmici cresce con l’altezza; in secondo luogo, quando la densità dell’aria diminuisce, il cammino libero medio degli ioni cresce, così che essi possono spostarsi per un più lungo tratto nel campo elettrico prima di subire una collisione, ciò che si risolve in un rapido aumento della conduttività quando ci si innalza. Benché la densità di corrente elettrica nell’aria sia soltanto di pochi micromicroampere per metro quadrato, ci sono moltissimi metri quadrati sulla superficie della terra. La corrente elettrica totale che raggiunge la superficie terrestre a un istante qualunque rimane molto approssimativamente costante, al valore di 1800 A. Questa corrente è, naturalmente, «positiva», cioè porta alla terra cariche positive. Perciò abbiamo un generatore di 400 000 V con una corrente di 1800 A: una potenza di 700 MW! Con una corrente così grande in arrivo, la carica negativa della terra dovrebbe essere presto neutralizzata. Effettivamente, dovrebbe bastare circa mezz’ora per scaricare l’intera terra. Ma il campo elettrico atmosferico è durato più di mezz’ora dal tempo della sua scoperta: in che modo viene dunque conservato? Cosa ne mantiene il voltaggio? E questo voltaggio si stabilisce fra la terra e che? Ci sono molti problemi. La terra è negativa e il potenziale nell’aria è positivo. Se ci si innalza abbastanza, la conduttività diventa così grande che non c’è più caso di trovare variazioni di potenziale in direzione orizzontale. L’aria, alla scala temporale di cui stiamo parlando, diventa effettivamente un conduttore. Questo avviene a un’altitudine intorno ai 50 km, che non è così elevata come la zona chiamata «ionosfera», dove ci sono numerosissimi ioni prodotti dal sole per effetto fotoelettrico. Tuttavia per quel che riguarda la nostra discussione dell’elettricità atmosferica, l’aria all’altezza di 50 km diventa abbastanza conduttrice da poter immaginare che c’è praticamente una superficie conduttrice perfetta a tale altezza, superficie dalla quale discende la corrente. Nella FIGURA 9.4 è mostrata la
9.4 Condizioni elettriche tipiche in un’atmosfera limpida. FIGURA
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Capitolo 9 • L’elettricità nell’atmosfera
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nostra rappresentazione della situazione. Il problema è: come viene mantenuta la carica positiva che si trova a quell’altezza? Come avviene il «pompaggio di ritorno»? Perché, se della carica scende a terra, deve esserci una qualche forma di «pompaggio di ritorno». Questo è stato per un bel pezzo il più grande enigma dell’elettricità atmosferica. Ogni elemento d’informazione reperibile ci dovrebbe dare uno spunto, o almeno dirci qualcosa su questo enigma. Ecco intanto un fenomeno interessante: se si misura la corrente (che è più stabile del gradiente del potenziale) in condizioni precise, per esempio sul mare, e si fanno delle medie molto precise, in modo da liberarsi dalle irregolarità, si scopre che rimane pur sempre una variazione diurna. La media di molte misure sugli oceani ha un andamento col tempo all’incirca come mostra la FIGURA 9.5. La corrente varia di circa il 15% in più o in meno ed è massima quando a Londra sono le E (V/m) 7:00 di sera. L’aspetto più strano della cosa è che dovunque si misuri 120 la corrente, nell’Oceano Atlantico, Pacifico o Artico, essa raggiunge il 110 suo valore di punta quando gli orologi a Londra segnano le 7:00 di sera! 100 Sull’intero mondo la corrente è massima alle 7:00 di sera, ora di Londra, ed è minima alle 4:00 di mattina, ora di Londra. In altre parole, essa dipende 90 dal tempo assoluto e non dal tempo locale del luogo d’osservazione. Per Ore GMT un verso questo comportamento non è misterioso: esso va d’accordo con 0 la nostra idea che a grande altezza c’è un’elevatissima conduttività laterale 12 24 6 18 che rende impossibile alla differenza di potenziale fra il suolo e l’alta atmosfera di variare localmente; tutte le variazioni di potenziale dovrebbero FIGURA 9.5 La variazione media giornaliera essere mondiali, come in effetti sono. Quello che sappiamo, perciò, è che del gradiente del potenziale atmosferico sugli oceani, il voltaggio «in alto» sale e scende del 15%, secondo il tempo assoluto, su in una giornata limpida, riferita al tempo medio di Greenwich. tutta la terra.
9.3
Origine delle correnti elettriche nell’atmosfera
Dobbiamo ora passare a parlare della sorgente delle grandi correnti negative che devono fluire «dall’alto» verso la superficie della terra per caricarla di continuo negativamente. Dove sono le batterie che fanno questo? Una «batteria» è mostrata nella FIGURA 9.6. È un temporale, con i suoi fulmini. Si verifica che i colpi di fulmine non «scaricano» il potenziale di cui abbiamo parlato (come potreste immaginare a una prima impressione): le scariche di fulmini portano alla terra cariche negative. In dieci casi contro uno, quando un fulmine si scarica, esso porta alla terra cariche negative in grande quantità. Sono i temporali sparsi per il mondo che caricano la terra con una corrente media di 1800 A, che poi si scarica attraverso le regioni dove il tempo è buono. Si hanno in tutta la terra circa 300 temporali al giorno ed essi si possono pensare come le batterie che pompano l’elettricità nell’alta atmosfera e ne mantengono la differenza di potenziale rispetto alla terra. Teniamo poi conto della geografia terrestre: ci sono temporali pomeridiani in Brasile, temporali tropicali in Africa, e così via. Alcuni hanno cercato di valutare quanti fulmini cadono nel mondo intero a ogni ora e le loro stime, è forse superfluo dirlo, si accordano più o meno con le misure della differenza di potenziale: l’ammontare totale di attività temporalesca risulta massimo, per l’intera terra, circa alle 7:00 di sera, ora di Londra. Però le stime di tale attività sono molto difficili e sono state fatte soltanto dopo che si sapeva che una variazione ci doveva essere. Queste cose sono molto difficili perché non si hanno abbastanza osservazioni sui mari e tutte le altri parti del mondo per conoscere con precisione il numero dei temporali, ma coloro che pensano di «aver fatto bene le cose», ottengono il risultato che c’è una punta dell’attività alle 7:00 pomeridiane, tempo medio di Greenwich. Per poter capire come la «batteria» funziona, esamineremo in dettaglio un temporale. Che cosa succede dentro una formazione temporalesca? Cercheremo di descriverlo, nei limiti in cui ciò si conosce. Addentrandosi in questo meraviglioso fenomeno della natura vera, in contrasto con le sfere idealizzate di conduttori perfetti interne ad altre sfere (soggetti che possiamo trattare con molta chiarezza) ci accorgiamo di non conoscere un gran che. Eppure si tratta di una cosa veramente avvincente. Chiunque si è trovato in un temporale ne ha goduto, o ha avuto paura o
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9.4 • I temporali
9.6 Il meccanismo che genera il campo elettrico atmosferico. (Fotografia di W.L. Widmayer.) FIGURA
almeno ha provato una certa emozione. E quelle cose della natura che ci producono emozione, si trova che in generale non mancano di complessità e di mistero. Non ci sarà possibile descrivere esattamente come funziona un temporale perché non ne sappiamo ancora molto. Tenteremo, in ogni caso, di descrivere un po’ di quello che accade.
9.4
I temporali
In primo luogo, un’ordinaria formazione temporalesca è costituita da un certo numero di «celle» piuttosto vicine ma quasi indipendenti l’una dall’altra. Perciò è meglio analizzare una cella per volta. Con cella si intende una regione avente un’area limitata in direzione orizzontale nella quale si verificano tutti i processi fondamentali. Di solito ci sono parecchie celle una accanto all’altra e in ciascuna accadono circa le stesse cose, benché eventualmente in tempi diversi. La FIGURA 9.7 indica in maniera idealizzata l’aspetto di una cella nello stadio iniziale del temporale. Succede che in un certo luogo, sotto certe condizioni che descriveremo, si ha un moto generale di ascesa dell’aria, con velocità che vanno crescendo verso la sommità della formazione. Mentre l’aria calda e umida sale dal basso, essa si raffredda e si condensa. Nella figura le crocette e i puntini indicano rispettivamente neve e pioggia, ma siccome le correnti ascensionali sono abbastanza forti e le gocce abbastanza piccole, queste non cadono, a questo stadio. Questo è infatti lo stadio iniziale e non ancora il vero temporale, nel senso che al suolo non sta succedendo nulla. Nello stesso tempo che l’aria calda sale, c’è un trascinamento d’aria dai lati, un elemento importante che fu trascurato per molti anni; perciò non è soltanto l’aria dal basso che sta salendo, ma anche una certa quantità d’aria dai lati. Come mai l’aria sale in questo modo? Come sapete, l’aria è più fredda quando si sale in altezza. Il suolo è scaldato dal sole, mentre la ri-irradiazione del calore verso il cielo è dovuta al vapore d’acqua dell’alta atmosfera; perciò ad altitudini elevate l’aria è fredda, molto fredda, mentre più in basso è calda. Potreste pensare: «Ma allora è molto semplice. L’aria calda è più leggera di quella fredda, perciò la situazione è meccanicamente instabile e l’aria calda sale». Naturalmente, se la temperatura è diversa ad altezze diverse, l’aria è instabile in senso termodinamico: lasciata a sé per un tempo infinitamente lungo, l’aria si porterebbe tutta alla stessa temperatura. Ma essa non è lasciata a sé, perché il sole continua a brillare (durante il giorno). Perciò non si tratta in realtà di un problema di equilibrio termodinamico, ma di equilibrio meccanico. Supponiamo di
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Capitolo 9 • L’elettricità nell’atmosfera
9.7 Una cella temporalesca nello stadio iniziale del suo sviluppo. (Dal rapporto dell’Ufficio Meteorologico del Ministero del Commercio degli Stati Uniti, giugno 1949.)
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FIGURA
9.8
Temperatura atmosferica: (a) atmosfera statica; (b) raffreddamento adiabatico dell’aria secca; (c) raffreddamento adiabatico dell’aria umida; (d) aria umida con un po’ di mescolamento con l’aria circostante. FIGURA
Piedi 25 000
–16 °C
20 000
–8 °C
15 000
0 °C
10 000
+8 °C
Temperatura (a)
(c)
(d)
+17 °C
5000
(e) +28 °C
Superficie
Scala orizzontale
0
Scala dei vettori 0 delle correnti
1 30
miglia
piedi/s
Pioggia
(b)
Altitudine
Neve
mettere in grafico, come in FIGURA 9.8, la temperatura dell’aria al variare dell’altezza dal suolo. In circostanze ordinarie si otterrebbe una diminuzione secondo una curva come quella indicata con (a): mentre l’altezza cresce, la temperatura cala. Come può l’atmosfera essere stabile? Perché l’aria calda di sotto non sale semplicemente su, in mezzo all’aria fredda? La risposta è questa: se l’aria salisse, la sua pressione diminuirebbe e se si considera un certo volume d’aria che sale esso dovrebbe espandersi adiabaticamente. (Non ci sarebbe del calore che fluisce dentro o fuori perché, con le grandi dimensioni che qui si considerano, non c’è tempo per uno scambio notevole di calore.) Perciò l’aria si raffredderebbe nel salire. Un simile processo adiabatico darebbe una curva temperatura-altezza del tipo della curva (b) di FIGURA 9.8: si vede che l’aria salita dal basso sarebbe più fredda dell’ambiente in cui si addentra. Perciò non c’è ragione perché l’aria calda sottostante salga; se salisse, si raffredderebbe a una temperatura più bassa dell’aria che trova, sarebbe più pesante di questa e quindi bisognerebbe che scendesse di nuovo. In una bella giornata limpida, con pochissima umidità, c’è un certo decremento della temperatura nell’atmosfera e questo decremento è in generale più lento del «massimo gradiente stabile» che è rappresentato dalla curva (b). L’aria è in equilibrio meccanico stabile. D’altra parte se immaginiamo di portare in alto dell’aria che contenga molto vapor d’acqua, la sua curva di raffreddamento adiabatico sarà diversa. Mentre essa si espande e si raffredda, il vapor d’acqua condensa e l’acqua di condensazione libera del calore. L’aria umida, perciò, si raffredda a un grado molto minore di quella secca. Quindi, se dell’aria più umida del normale comincia a salire, la sua temperatura segue una curva come (c) in FIGURA 9.8. Si raffredderà un po’, ma rimarrà più calda dell’aria circostante allo stesso livello. Se c’è una regione di aria umida e calda e qualcosa la mette in moto verso l’alto, essa si troverà sempre più leggera e più calda dell’aria che la circonda e continuerà a salire fino a enormi altezze. Questo è il meccanismo che fa salire l’aria nella cella temporalesca. Per molti anni la cella temporalesca fu spiegata in questo semplice modo. Poi però le misure mostrarono che la temperatura della nuvola alle varie altezze non era affatto così alta come indica la curva (c). La ragione è che mentre la «bolla» d’aria umida sale, essa trascina aria dall’ambiente e ne viene raffreddata. La curva temperatura-altezza diventa simile alla curva (d), che è molto più vicina alla curva originaria (a) piuttosto che alla curva (c). Dopo che si è avviata la convezione che abbiamo ora descritto, le sezione trasversale di una cella temporalesca ha l’aspetto indicato nella FIGURA 9.9: abbiamo ciò che viene chiamato un temporale «maturo». C’è una corrente ascendente molto rapida che, a questo stadio, arriva a circa 10 000-15 000 m e qualche volta anche molto più in alto. Le sommità delle celle temporalesche, con la loro condensazione, s’innalzano per un bel tratto sopra il banco delle altre nuvole, portate da una corrente ascendente che raggiunge usualmente i 100 km/h. Mentre il vapor d’acqua viene
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9.4 • I temporali
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Piedi 40 000
–51 °C
35 000
–38 °C
30 000
–26 °C
25 000
–16 °C
20 000
–8 °C
15 000
0 °C
10 000
+8 °C
Piedi
40 000
–51 °C In questa zona ci sono correnti con velocità inferiori a 10 piedi/s
35 000
30 000
–26 °C
25 000
–16 °C
20 000
–8 °C
15 000
0 °C
10 000
+8 °C
5000 5000
+17 °C
Pioggia superficiale
Superficie Scala orizzontale Scala dei vettori delle correnti
0 0
1 30
miglia
piedi/s
+28 °C
Pioggia
+17 °C
Pioggia superficiale leggera
Superficie
Scala orizzontale
0
Scala dei vettori delle correnti
0
1
+28 °C
Pioggia miglia
30 piedi/s
Neve Cristalli di ghiaccio
Neve Cristalli di ghiaccio
9.9 Una cella temporalesca matura. (Dal Rapporto dell’Ufficio Meteorologico del Ministero del Commercio degli Stati Uniti, giugno 1949.) FIGURA
–38 °C
9.10 La fase finale di una cella temporalesca. (Dal Rapporto dell’Ufficio Meteorologico del Ministero del Commercio degli Stati Uniti, giugno 1949.) FIGURA
trasportato in alto e condensa, esso forma minute goccioline che vengono rapidamente raffreddate al di sotto di zero gradi. Esse dovrebbero congelare, ma non congelano immediatamente, ossia rimangono «soprafuse». L’acqua e altri liquidi si raffreddano abitualmente al di sotto dei loro punti di congelamento se non sono presenti dei «nuclei» che danno inizio al processo di cristallizzazione. Soltanto se c’è qualche frammento di materiale, come un minuscolo cristallo di NaCl, la gocciolina d’acqua congela in un pezzettino di ghiaccio. Da quel momento l’equilibrio è tale che le gocce d’acqua evaporano e i cristalli di ghiaccio crescono. Perciò a un certo punto c’è una rapida scomparsa dell’acqua e un rapido formarsi del ghiaccio. Inoltre, ci possono essere delle collisioni dirette fra le gocce d’acqua e il ghiaccio, collisioni nelle quali la gocciolina d’acqua soprafusa rimane saldata al cristallo di ghiaccio che ne provoca l’improvvisa cristallizzazione. Così avviene che a un certo punto nell’espansione della nuvola si ha un rapido accumulo di grosse particelle di ghiaccio. Quando le particelle di ghiaccio sono diventate abbastanza pesanti, esse cominciano a cadere attraverso l’aria ascendente: esse diventano troppo pesanti per essere sostenute dalla corrente che sale. Mentre vengono giù trascinano un po’ d’aria con loro e danno inizio a una corrente discendente. Cosa abbastanza curiosa, è facile vedere che, una volta iniziata, la corrente discendente si mantiene da sé. L’aria adesso si spinge verso il basso! Notate che la curva (d) in FIGURA 9.8 che dà l’effettiva distribuzione della temperatura nella nuvola non è così ripida come la curva (c), che riguarda l’aria umida. Perciò, se dell’aria umida cade, la sua temperatura scenderà con la pendenza della curva (c) e se scende abbastanza in basso si porterà sotto la temperatura ambiente, come indica la curva (e) in figura. Quando arriva a questo punto, essa è più densa dell’ambiente e continua perciò a cadere rapidamente. Direte: «Questo è un moto perpetuo. Prima si dice che l’aria dovrebbe salire e quando è arrivata su si fa un bel
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Capitolo 9 • L’elettricità nell’atmosfera
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ragionamento per concludere che dovrebbe scendere». Tuttavia, non si tratta di moto perpetuo. Quando la situazione è instabile e l’aria calda deve salire, è chiaro che qualcosa deve sostituire l’aria calda. È ugualmente vero che dell’aria fredda venendo giù sostituirebbe energeticamente l’aria calda; ci si accorge però che quella che viene giù non è l’aria che è andata su. I ragionamenti che si facevano inizialmente, secondo i quali una certa nuvola, senza trascinare l’aria circostante, prima saliva e poi scendeva, avevano un che di enigmatico. Essi avevano bisogno di contare sulla pioggia per mantenere la corrente discendente, un discorso difficile da ammettere. Appena ci si rende conto che mescolata all’aria che sale c’è molta dell’aria preesistente, il ragionamento termodinamico dimostra che si può avere una discesa dell’aria fredda che inizialmente si trovava a grande altezza. Questo spiega il quadro di un temporale in azione, schematizzato nella FIGURA 9.9. Mentre l’aria scende, la pioggia comincia a cadere dalla base della formazione temporalesca. Per di più, l’aria relativamente fredda si sparge intorno quando arriva alla superficie della terra. Perciò un momento prima che arrivi la pioggia, c’è un certo venticello fresco che ci dà un avvertimento della tempesta imminente. Durante la tempesta stessa ci sono rapide e irregolari raffiche, un’enorme turbolenza della nube e così via. Sostanzialmente, però, si ha una certa corrente ascendente, poi una corrente discendente: in genere, un processo molto complicato. Il momento in cui inizia la precipitazione è lo stesso in cui comincia la grossa corrente discendente e lo stesso, in effetti, in cui insorgono i fenomeni elettrici. Tuttavia, prima di descrivere il fulmine possiamo chiudere la nostra storia esaminando quello che succede della cella temporalesca dopo circa una mezz’ora o un’ora. L’aspetto della cella è mostrato in FIGURA 9.10. La corrente ascensionale si arresta perché non c’è più abbastanza aria calda per mantenerla. La precipitazione verso il basso continua per un po’ finché le ultime tracce di pioggia vengono giù, poi le cose si fanno sempre più calme, per quanto dei cristallini di ghiaccio rimangano per aria, su in alto. Siccome ci sono venti in varie direzioni a grandissima altezza, la vetta della nuvola si sparge a forma d’incudine. La cella è arrivata alla fine della sua vita.
9.5
Il meccanismo della separazione delle cariche
Vogliamo ora discutere l’aspetto che è più importante per i nostri fini, cioè lo svilupparsi delle cariche + + + elettriche. Esperimenti di vario genere, che compren+ dono voli di aerei attraverso temporali (i piloti che li + + + compiono sono uomini coraggiosi!), ci dicono che la Centro della + carica positiva distribuzione di carica in una cella temporalesca è su + + + + –10 °C per giù come quella mostrata in FIGURA 9.11. La vet– + + + + + + + – – ta del temporale ha una carica positiva e la base ne Centro della Direzione del moto – – – – + – carica negativa ha una negativa, eccetto che per una piccola regione – – – – – – – 0 °C di carica positiva alla base della nuvola, che ha dato a – – + + – + tutti quanti molto filo da torcere. Nessuno è in grado di – – – – – – dire perché c’è, quanto importante sia, se è un effetto – – Gradiente del + + – potenziale in – – secondario della pioggia che viene giù o se è una parte + + + + regime di – bel tempo + + ++ + essenziale del meccanismo. Le cose sarebbero molto Piccolo centro di Zona della – – – – + + + + carica positiva pioggia negativa – + – più semplici se essa non ci fosse. Comunque, la carica – + nella zona di – – + + + + pioggia intensa + prevalentemente negativa alla base e quella positiva + + + + + + + – – – alla vetta, hanno il segno che ci vuole per una batteria che deve rendere negativa la terra. Le cariche positive si trovano a 6 o 7 km d’altezza, dove la temperatura è FIGURA 9.11 La distribuzione delle cariche elettriche in una cella temporalesca circa 20 , mentre le cariche negative sono a 3 o 4 matura. (Dal Rapporto dell’Ufficio Meteorologico del Ministero del Commercio degli Stati Uniti, giugno 1949.) km, dove la temperatura è fra zero e 10 . La carica alla base della nuvola è così grande da produrre differenze di potenziale di 20, 30 o anche 100 milioni di volt fra la nuvola e la terra, molto più grandi degli 0,4 milioni di volt fra il «cielo» e il suolo che si hanno quando l’atmosfera è limpida. Questi grandi voltaggi arrivano a vincere la rigidità dielettrica dell’aria, creando
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9.5 • Il meccanismo della separazione delle cariche
gigantesche scariche ad arco. Quando questo avviene, le cariche negative che si trovano alla base della formazione temporalesca vengono portate a terra dai fulmini. Vogliamo ora descrivere un po’ in dettaglio la natura del fulmine. Prima di tutto ci devono essere nell’ambiente grandi differenze di potenziale che l’aria non è capace di mantenere. Fulmini scoppiano allora fra porzioni diverse della stessa nuvola o fra una nuvola e l’altra o fra una nuvola e il suolo. In ciascun lampo individuale, di quelli che si rivelano ai nostri occhi, si hanno approssimativamente 20 C o 30 C di carica trasferita. Uno dei problemi è questo: quanto tempo ci vuole perché la nuvola rigeneri i 20 C o 30 C che il fulmine si è portato via? Questo si può vedere misurando, lontano dalla nuvola, il campo elettrico prodotto dal momento dipolare di questa. In tali misure si vede un’improvvisa diminuzione del campo quando il fulmine scoppia, seguita da un ritorno esponenziale al valore di prima con una costante di tempo che è leggermente diversa nei diversi casi, ma che si aggira attorno a 5 s. Occorrono al temporale soltanto 5 s, dopo ogni colpo di fulmine, per ricostituire la propria carica. Questo non significa necessariamente che ogni volta si avrà un altro fulmine dopo 5 s precisi, perché naturalmente la geometria e altre circostanze seguitano a cambiare. Il fulmine si produce più o meno irregolarmente, ma il punto importante è che ci vogliono circa 5 s per creare di nuovo le condizioni originarie. Perciò si hanno approssimativamente 4 A di corrente nel «generatore elettrico» del temporale. Questo significa che qualunque modello fatto per spiegare come il temporale genera la sua elettricità deve abbondare in energia, deve essere un meccanismo di grosso calibro e che opera rapidamente. Prima di proseguire vogliamo considerare una cosa che quasi di certo non è affatto pertinente, ma è ugualmente interessante perché fa vedere l’effetto di un campo elettrico su delle gocce d’acqua. S’è detto che può non essere pertinente perché si riferisce a un esperimento che si può fare in laboratorio con un getto d’acqua per mostrare gli effetti piuttosto forti che un campo elettrico ha sulle gocce; ma in un temporale non ci sono getti d’acqua: c’è una nuvola dove per condensazione si formano gocce d’acqua e ghiaccio. Perciò il problema del meccanismo che opera in un temporale non ha probabilmente nulla a che fare con ciò che vedrete nel + ++ semplice esperimento che ora sarà descritto. Se si prende un beccuccio + ++ ++ ++ + collegato con la conduttura dell’acqua e si dirige lo zampillo in su con un + + + + ++ angolo poco lontano dalla verticale (FIGURA 9.12), l’acqua esce come un getto sottile che finisce per rompersi in uno spruzzo di gocce minute. Se ora si stabilisce un campo elettrico attraverso lo zampillo, in vicinanza del beccuccio (per esempio avvicinando una bacchetta carica), la forma del Alla conduttura dell’acqua getto cambia. Con un campo elettrico debole si vede che il getto si rompe in un numero minore di gocce grosse. Ma se si applica un campo più forte, esso si rompe in moltissime goccioline, più minute di prima(1) . Un campo FIGURA 9.12 Un getto d’acqua con un campo elettrico debole tende a ostacolare il frammentarsi del getto in gocce. Un elettrico vicino al beccuccio. campo più forte, invece, accentua questo processo. La spiegazione di questi effetti è probabilmente la seguente. Applicando un debole campo trasversalmente al getto d’acqua che esce dal beccuccio, l’acqua diventa debolmente positiva da un lato e debolmente negativa dall’altro. Di conseguenza quando la corrente si rompe, le gocce che si formano da una parte saranno positive mentre dall’altra saranno negative. Esse si attireranno fra loro e avranno una maggior tendenza a unirsi di quella che avevano prima. D’altra parte, se il campo è più forte, la carica su ciascuna goccia diventa molto più grande ed essa stessa tende a favorire la frammentazione delle gocce per mezzo della loro propria repulsione. Ogni goccia si romperà in molte gocce più piccole, ciascuna portante una carica, così che tutte si respingono e si spargono in giro assai più rapidamente. Perciò facendo crescere il campo, il getto si frammenta sempre più minutamente. L’unica conclusione che desideriamo trarre da tutto questo è che in certe circostanze i campi elettrici hanno una rilevante influenza sulle gocce. Il meccanismo preciso che opera in un temporale non è affatto conosciuto e non è necessariamente collegato a quello che
(1) Un modo comodo per rilevare le dimensioni delle gocce consiste nel far cadere lo spruzzo su una grande lastra di lamiera sottile. Le gocce più grosse fanno un rumore più forte.
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Capitolo 9 • L’elettricità nell’atmosfera
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ora abbiamo descritto e che è stato incluso unicamente perché abbiate modo di rendervi conto delle complessità che possono entrare in gioco. Effettivamente, nessuno ha mai fatto una teoria applicabile alle nuvole fondata su idee del genere. Desideriamo ora descrivere due teorie che sono state inventate per spiegare la separazione delle cariche in una formazione temporalesca. Tutte le teorie implicano l’idea che ci debba essere una certa carica sulle particelle che precipitano e una carica diversa nell’aria. Allora, a causa del movimento di tali particelle d’acqua o di ghiaccio, attraverso l’aria, si ha una separazione di cariche elettriche. Il solo problema è: come cominciano a caricarsi le gocce? Una delle teorie più vecchie è quella basata sulla rottura delle gocce. Qualcuno si accorse che se ci sono delle gocce d’acqua che si rompono in due in una corrente d’aria, si forma una carica positiva nell’acqua e una negativa nell’aria. Questa teoria della rottura delle gocce ha diversi svantaggi, fra i quali il più serio è che il segno non va. In secondo luogo, nel gran numero di temporali delle zone temperate in cui si ha produzione di fulmini, gli effetti di precipitazione alle altitudini elevate si riferiscono al ghiaccio e non all’acqua. Dato quello che si è detto or ora, si può notare che se si potesse immaginare qualche modo per cui la carica sulla parte superiore di una goccia fosse diversa da quella inferiore e si potesse anche vedere qualche ragione perché delle gocce in una corrente d’aria ad alta velocità si rompessero in porzioni diseguali, grande quella anteriore e piccola quella posteriore, per via del moto attraverso l’aria o qualche altro motivo, si avrebbe una teoria. (Diversa da ogni altra conosciuta!) Infatti le gocce piccole a causa della resistenza dell’aria non cadrebbero altrettanto velocemente di quelle grosse, e si avrebbe una separazione di cariche. Come vedete, c’è modo di escogitare ogni sorta di possibilità. Una delle teorie più ingegnose, che sotto molti aspetti è più soddisfacente di quella della rottura delle gocce, è dovuta a C.T.R. Wilson. La descriveremo, come fece Wilson, riferendoci alle gocce d’acqua, benché lo stesso fenomeno sarebbe efficace anche per il ghiaccio. Supponiamo di avere una goccia d’acqua che cade nel campo elettrico di circa 100 V/m, verso la terra che è carica negativamente. La goccia avrà un momento dipolare indotto, col basso della goccia positivo e l’alto Goccia – – – d’acqua negativo, come indicato nella FIGURA 9.13. Nell’aria ci sono i «nuclei» – – che cade dei quali abbiamo parlato prima, i grossi ioni lenti. (Gli ioni veloci non hanno effetti importanti.) Supponiamo che mentre la goccia cade essa si avvicini a un grosso ione. Se lo ione è positivo esso è respinto dalla E base positiva della goccia e allontanato, sicché non può unirsi a essa. Se lo ione si avvicina dall’alto alla goccia, potrebbe unirsi alla parte alta, + + che è negativa. Ma siccome la goccia sta cadendo attraverso l’aria c’è, + + + relativamente a essa, una corrente d’aria diretta in su che porta via gli ioni, – se il loro moto attraverso l’aria è abbastanza lento. Perciò, gli ioni positivi + non possono fissarsi nemmeno nella parte alta della goccia. Come vedete questo ragionamento si applica soltanto ai grossi ioni, che si muovono lentamente. Gli ioni positivi di questo tipo non possono unirsi né da una Grossi ioni parte né dall’altra alle gocce che cadono. D’altra parte quando i grossi ioni lenti negativi si avvicinano a una goccia essi vengono attratti e catturati: la goccia acquista una carica negativa, segno che è determinato da quello FIGURA 9.13 La teoria di C.T.R. Wilson sulla separazione delle cariche in una nuvola temporalesca. dell’originaria differenza di potenziale relativa all’intera terra e che è quello giusto. Cariche negative verranno trasportate giù dalle gocce nella parte inferiore della nuvola, mentre gli ioni carichi positivamente che rimangono vengono soffiati verso l’alto della nuvola dalle varie correnti ascendenti. La teoria appare piuttosto buona e dà almeno il segno giusto. Ed è anche svincolata dalla presenza di gocce liquide: si vedrà infatti, quando studieremo la polarizzazione dei dielettrici, che frammenti di ghiaccio fanno le stesse cose. Anche in essi si formano cariche positive e negative agli estremi quando si trovano in un campo elettrico. Ci sono però dei problemi anche con questa teoria. Prima di tutto, la carica totale in gioco in un temporale è molto grande. Dopo un breve tempo, la provvista di grossi ioni sarebbe consumata. Perciò Wilson e altri hanno dovuto proporre l’esistenza di altre sorgenti di grossi ioni. Appena ha inizio la separazione delle cariche, si producono dei campi elettrici molto intensi, e in questi campi
9.6 • Il fulmine
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intensi ci possono essere dei luoghi dove l’aria si ionizza. Se c’è una punta con una carica molto elevata, o un qualunque piccolo oggetto, come una goccia, si può avere una concentrazione del campo sufficiente a produrre una «scarica a pennello». Quando c’è un campo elettrico abbastanza forte, mettiamo che sia positivo, degli elettroni cadranno in questo campo acquistando un bel po’ di velocità fra una collisione e l’altra. La loro velocità sarà tale che colpendo un atomo essi ne strapperanno elettroni lasciandolo nello stato di ione positivo. Anche questi nuovi elettroni accumulano velocità e urtano con altri atomi. Così si produce una sorta di reazione a catena, ossia di valanga, e c’è un rapido accumulo di ioni. Le cariche positive restano vicine alle loro posizioni originarie, perciò il risultato finale è quello di distribuire la carica positiva che era sulla punta in una regione intorno a questa. A questo stadio, naturalmente, non c’è più un campo intenso e il processo si arresta. Queste sono le caratteristiche di una scarica a pennello. È possibile che i campi nella nuvola possano diventare forti abbastanza da produrre un pochino di scariche a pennello, come è possibile che ci siano anche altri meccanismi, una volta che le cose hanno preso l’avvio, che producono ioni in quantità; ma nessuno sa esattamente come le cose si svolgono. Perciò l’origine fondamentale del fulmine non è in realtà completamente capita. Sappiamo che deriva dal temporale (e sappiamo naturalmente che il tuono deriva dal fulmine, ossia dall’energia termica liberata dalla scarica). Per lo meno, possiamo capire in parte l’origine dell’elettricità atmosferica. A causa dei moti dell’aria, degli ioni, delle gocce d’acqua e delle particelle di ghiaccio presenti nella formazione temporalesca, cariche positive e negative vengono separate. Le cariche positive sono trasportate in alto, verso la sommità della nuvola (FIGURA 9.11), mentre le cariche negative vengono dai fulmini riversate al suolo. Le cariche positive lasciano la sommità della nuvola, entrano negli strati a grande altezza dove l’aria ha una più elevata conduttività e si spargono per tutta la terra. Nelle regioni dove il tempo è sereno, le cariche positive degli strati ora detti vengono lentamente trasferite a terra dagli ioni dell’aria: ioni prodotti dai raggi cosmici, dal mare e dalle attività dell’uomo. L’atmosfera è una macchina elettrica molto attiva!
9.6
Il fulmine
La prima documentazione di ciò che accade in un fulmine fu ottenuta per mezzo di fotografie prese con una macchina tenuta con le mani e fatta muovere avanti e indietro, con l’otturatore aperto, mentre la si puntava dalla parte dove il fulmine era atteso. Le prime fotografie ottenute in questo modo mostrarono chiaramente che i fulmini sono ordinariamente scariche multiple lungo lo stesso percorso. Più tardi fu inventata la camera fotografica di Boys che ha due lenti montate a 180° l’una dall’altra su un disco che può ruotare rapidamente. L’immagine data da ciascuna lente si sposta sul film, così da separare le immagini degli eventi che si seguono nel tempo. Se per esempio la scarica si ripete, si vedranno due immagini una accanto all’altra. Confrontando le immagini date dalle due lenti, è possibile ricavare i dettagli del succedersi delle scariche nel tempo. La FIGURA 9.14 mostra una fotografia presa con la camera di Boys. Descriviamo ora il fulmine. Ancora una volta, non sappiamo esattamente come funzioni: daremo perciò una descrizione qualitativa di come appare, ma non entreremo in alcun dettaglio sul perché fa ciò che si vede che fa. Descriveremo soltanto il caso ordinario di una nuvola con la zona inferiore negativa che si trova su una regione pianeggiante. Il suo potenziale è molto più negativo di quello della terra sottostante, tanto negativo che degli elettroni vengono accelerati verso il suolo. Si svolgono i fatti seguenti: tutto comincia con una cosa chiamata «scarica guida», che non è così brillante come il vero fulmine. Sulle fotografie si può vedere da principio una piccola macchia luminosa che parte dalla nuvola e si muove verso il basso molto velocemente: a un sesto della velocità della luce! Procede per circa
9.14 Fotografia di un fulmine presa con una camera fotografica di Boys. (Da Schonland, Malan e Collens, Proc. Roy. Soc. London, Vol. 152 (1935).) FIGURA
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Capitolo 9 • L’elettricità nell’atmosfera
9.15 La formazione della scarica guida.
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FIGURA
9.16 La scarica di ritorno del fulmine risale il percorso fatto dalla scarica guida. FIGURA
Nuvola
–
–
– – –
Nuvola
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+
soli 50 m e si ferma. Aspetta per circa 50 µs, poi fa un altro salto. Si ferma di nuovo, poi fa ancora un salto e così via. Si muove cioè verso il suolo, in una serie di gradini, lungo un percorso come quello indicato in FIGURA 9.15. Nella scarica guida ci sono delle cariche negative che vengono dalla nuvola; tutta la colonna è piena di cariche negative. Inoltre l’aria si ionizza per effetto delle cariche in rapido movimento che costituiscono tale scarica e diventa perciò conduttrice lungo il percorso tracciato dalla guida. Nel momento in cui questa tocca il suolo c’è un «filo» conduttore che si stende su fino alla nuvola ed è pieno di cariche negative. Ecco finalmente che la carica negativa della nuvola può semplicemente sfuggire e spargersi fuori. Gli elettroni alla base della guida sono i primi ad accorgersi di questo; essi si precipitano al suolo lasciandosi dietro una carica positiva che attira cariche negative da livelli più alti lungo la guida, le quali si riversano a loro volta al suolo e così via. Perciò alla fine tutta la carica negativa contenuta in una regione della nuvola si precipita lungo la colonna in modo rapido ed energico. Perciò il lampo che si vede si muove in su a partire dal suolo, come indicato in FIGURA 9.16. Effettivamente questa scarica principale, che è di gran lunga la più luminosa, viene chiamata la scarica di ritorno. È quella che produce la luce brillantissima e il calore che, provocando una rapida dilatazione dell’aria, produce il colpo del tuono. La corrente del fulmine è circa 10 000 A al suo massimo e trasporta circa 20 C. La cosa però non è ancora finita. Dopo un intervallo di forse pochi centesimi di secondo, quando la scarica di ritorno è scomparsa, viene giù un’altra scarica guida, ma questa volta senza pause. Essa è chiamata la «guida veloce» e fa tutto il percorso da cima a fondo in un solo balzo. Va a tutta velocità sulla precisa pista di prima, perché lì ci sono abbastanza residui di carica da farne la strada più facile. La nuova guida è anch’essa piena di carica negativa. Nel momento in cui tocca il suolo – tac! – c’è una scarica di ritorno che si precipita su per lo stesso percorso. Perciò si vede il fulmine colpire di nuovo e poi di nuovo e di nuovo. Qualche volta colpisce solamente una volta o due, qualche volta cinque o dieci, in un caso si sono viste 42 scariche sullo stesso percorso, ma sempre in rapida successione. Talvolta le cose diventano ancora più complicate. Per esempio, dopo una delle sue pause, la scarica guida può dare origine a una diramazione, scendendo per due scalini, tutti e due diretti verso il suolo ma in direzioni un po’ diverse, come mostra la FIGURA 9.15. Quel che succede in questi casi dipende dal fatto che una delle diramazioni raggiunga il suolo nettamente prima dell’altra oppure no. Nel primo caso la scarica luminosa di ritorno (dovuta alla carica negativa che si riversa al suolo) si sviluppa su per il ramo che tocca il suolo e quando nel suo cammino verso la nuvola oltrepassa la diramazione, una scarica luminosa si vede scendere dall’altro ramo. Come mai? Perché la carica negativa si sta appunto riversando fuori ed è ciò che rende luminosa la scarica: questa carica comincia a muoversi dalla sommità del ramo secondario svuotando successive e
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9.6 • Il fulmine
sempre più lunghe porzioni del ramo, così che la scarica luminosa si vede svilupparsi giù per quel ramo nello stesso tempo che si sviluppa in su, verso la nuvola. Se invece accade che uno di questi rami extra raggiunga il suolo quasi simultaneamente con quello originario, può qualche volta succedere che la guida veloce della seconda scarica prenda il ramo secondario. Allora si vede il primo grosso lampo in un luogo e il secondo in un altro. Si ha una variante del processo originario. Si deve aggiungere che la nostra descrizione è troppo semplificata per quel che riguarda la zona molto vicina al suolo. Quando la scarica guida si avvicina a meno di un centinaio di metri o giù di lì dal suolo, si ha ragione di ritenere che una scarica le salga incontro dal suolo. Presumibilmente, il campo diventa abbastanza intenso perché si produca una scarica a pennello. Se perciò c’è un oggetto appuntito, come un edificio con una punta alla sua sommità, allora quando la scarica guida viene a passare nelle vicinanze, i campi sono così forti che una scarica emana dalla punta aguzza e va a raggiungere la guida. Il fulmine tende a colpire la punta. A quanto pare, si sa da lungo tempo che gli oggetti elevati vengono colpiti dal fulmine. Si cita Artabano, consigliere di Serse, per il parere dato al suo signore su un progettato attacco contro i greci, durante la campagna di Serse diretta a mettere sotto il controllo dei persiani l’intero mondo conosciuto. Disse Artabano: «Vedi come Dio col suo fulmine colpisce gli animali più grossi e non sopporta che essi si facciano insolenti, mentre quelli di più piccola mole non eccitano la sua collera; e come similmente le sue saette cadono sempre sulle case più elevate e gli alberi più alti». E poi ne spiega la ragione: «Perciò, è chiaro, gli piace di atterrare chiunque si fa grande». Ora che conoscete la vera spiegazione del perché il fulmine colpisce gli alberi più alti, vi immaginereste di aver una maggior saggezza di quella che ebbe Artabano 2300 anni fa nel consigliare un re su faccende militari? Non fatevi grandi. Potreste soltanto esprimerlo meno poeticamente.
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Dielettrici
10.1
La costante dielettrica
Cominciamo ora a discutere un’altra delle proprietà caratteristiche della materia sottoposta all’influenza di un campo elettrico. In un capitolo precedente si è considerato il comportamento dei conduttori, nei quali le cariche, reagendo a un campo elettrico, si muovono a tal punto liberamente che dentro al conduttore non rimane alcun campo. Ora vogliamo discutere gli isolanti, cioè i materiali che non conducono l’elettricità. Si potrebbe pensare a prima vista che in essi non si presenti alcun effetto. Tuttavia, usando un semplice elettroscopio e un condensatore a lastre parallele, Faraday scoprì che non è così. Le sue esperienze mostrarono che la capacità del condensatore aumenta quando fra le lastre viene posto un isolante. Se l’isolante riempie completamente lo spazio fra le lastre, la capacità aumenta di un fattore che dipende soltanto dalla natura del materiale isolante. I materiali isolanti vengono anche chiamati dielettrici; il fattore è dunque una proprietà del dielettrico ed è chiamata costante dielettrica. La costante dielettrica del vuoto è naturalmente l’unità. Il problema ora è di spiegare perché esiste un effetto elettrico, se gli isolanti sono davvero isolanti e non conducono l’elettricità. Cominciamo col fatto sperimentale che la capacità aumenta e tentiamo di ricavare col ragionamento che cosa può stare succedendo. Consideriamo un condensatore a lastre parallele con delle cariche sulle superfici dei conduttori, e supponiamo che sia negativa la carica sulla lastra superiore, positiva quella sulla lastra inferiore. Supponiamo anche che la separazione delle lastre sia d e A l’area di ciascuna lastra. Come si è dimostrato in precedenza, la capacità è ✏0 A C= (10.1) d mentre carica e voltaggio del condensatore obbediscono alla relazione Q = CV
(10.2)
Ora, il fatto sperimentale è che se si mette un pezzo di materiale isolante fra le lastre, si trova che la capacità è più grande. Questo significa naturalmente che il voltaggio, per una stessa carica, è più basso. Ma la differenza di potenziale è l’integrale del campo elettrico da una lastra all’altra del condensatore, perciò si deve concludere che all’interno del condensatore il campo elettrico è ridotto, anche se le cariche sulle lastre rimangono inalterate. Ora, questo come può essere? Abbiamo la legge di Gauss che ci dice che il flusso del campo elettrico è legato direttamente alla carica racchiusa. Consideriamo la superficie gaussiana S indicata nella FIGURA 10.1 dalle linee tratteggiate; dato che il campo elettrico viene ridotto quando è presente il dielettrico, ne concludiamo che la carica complessiva dentro la superficie deve essere più piccola di quella che ci sarebbe senza il materiale. C’è una sola spiegazione possibile e questa è che ci devono essere delle cariche positive sulla superficie del dielettrico. Siccome il campo è ridotto ma non è nullo, ci si aspetta che questa carica positiva sia più piccola della carica negativa che si trova sul conduttore. Perciò i fenomeni si potrebbero spiegare se si potesse capire in qualche modo che, quando un materiale dielettrico viene posto in un campo elettrico, c’è una carica positiva indotta su una superficie e una carica negativa indotta sull’altra.
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10.2 • Il vettore di polarizzazione P
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lib
Conduttore
Conduttore –
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– –
+
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+ +
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E
S E
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Conduttore
pol
–
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–
–
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–
–
Dielettrico – –
+
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+
+
+
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+
+
+
– –
b
–
–
–
– –
–
–
–
+ +
+
+
+ +
+ +
+
–
d
E +
Conduttore
lib
10.1 Un condensatore a lastre piane e parallele con un dielettrico inserito tra esse. Sono indicate le linee di campo elettrico E, la densità di carica superficiale lib e di polarizzazione pol . FIGURA
Conduttore
10.2 Se si mette una lastra conduttrice nello spazio fra le lastre parallele di un condensatore, le cariche indotte riducono a zero il campo nel conduttore. FIGURA
Ci si aspetterebbe che questo avvenisse in un conduttore. Per esempio, supponiamo di avere un condensatore con una separazione d fra le lastre e di mettere fra queste un conduttore neutro il cui spessore sia b, come in FIGURA 10.2. Il campo elettrico induce una carica positiva sulla superficie superiore e una negativa su quella inferiore, in modo che non ci sia alcun campo dentro al conduttore. Il campo sul resto dello spazio è lo stesso che si aveva senza il conduttore perché è dato dalla densità superficiale divisa per ✏ 0 ; ma la distanza sulla quale si deve integrare per ottenere il voltaggio (ossia la differenza di potenziale) è più piccola. Il voltaggio è V=
✏0
(d
b)
L’espressione che ne segue per la capacità è simile alla (10.1), con (d C=
✏0 A d 1
b d
!
b) sostituito al posto di d: (10.3)
La capacità è aumentata di un fattore che dipende da b/d, ossia dalla frazione di volume occupata dal conduttore. Questo ci dà un ovvio modello di ciò che accade nei dielettrici: basta pensare che in queste sostanze ci sono tante piccole lamine di materiale conduttore. Il guaio di un tale modello è che possiede un asse particolare, cioè la direzione normale alle lamine, mentre i dielettrici per lo più non hanno un simile asse. Però la difficoltà può essere eliminata se si suppone che tutti i materiali isolanti contengono delle sferette conduttrici separate le une dalle altre da un mezzo isolante, come mostra la FIGURA 10.3. Il fenomeno della costante dielettrica si spiega con l’effetto delle cariche che verrebbero indotte su ciascuna sferetta. Questo è uno dei primissimi modelli fisici di dielettrici, adoperati per interpretare il fenomeno osservato da Faraday. Più precisamente si supponeva che ogni atomo del materiale fosse un perfetto conduttore, ma isolato dagli altri. La costante dielettrica dipenderebbe dalla frazione di spazio occupata dalle sfere conduttrici. Questo però non è il modello che si adopera oggi.
10.2
Il vettore di polarizzazione P
Se si spinge più lontano la precedente analisi, si scopre che l’idea diavere delle regioni di perfetta conduttività e perfetto isolamento non è essenziale. Ciascuna delle sferette agisce come un dipolo il cui momento è indotto dal campo esterno: è senza importanza il fatto che questi dipoli vengano indotti perché ci sono delle minuscole sfere conduttrici o per qualunque altra ragione. Come mai un campo dovrebbe indurre un momento dipolare in un atomo se questo non è una sfera conduttrice? Questo argomento sarà discusso molto più dettagliatamente nel prossimo
10.3 Modello di un dielettrico: delle sferette conduttrici immerse in un isolante idealizzato. FIGURA
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Capitolo 10 • Dielettrici
– – – –
– – – – – –
– – – – – – – –
– – – – – – – +– – – – – – – – –
– – – – – –
– – – –
Distribuzione degli elettroni E – – – –
– – – – – –
– – – – – – – –
– – – – – – – – – – – – + – – – – – – – – – – – – –
10.4 Un atomo in un campo elettrico ha la propria distribuzione di elettroni spostata rispetto al nucleo. FIGURA
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capitolo, che sarà dedicato ai meccanismi interni dei materiali dielettrici. Tuttavia daremo qui un esempio per illustrare un meccanismo possibile. L’atomo ha la sua carica positiva nel nucleo che è circondato dagli elettroni negativi. In un campo elettrico, il nucleo sarà attratto in una direzione e gli elettroni in direzione opposta; le orbite, oppure il sistema di onde degli elettroni (o qualunque altra rappresentazione venga adoperata in meccanica quantistica) subiranno una certa distorsione, come mostra la FIGURA 10.4; il baricentro delle cariche negative sarà spostato e non coinciderà più con la carica positiva del nucleo. Abbiamo già discusso una tale distribuzione di carica: vista da lontano, una simile configurazione neutra è equivalente, in prima approssimazione, a un piccolo dipolo. Sembra ragionevole che l’entità del dipolo indotto, se il campo non è proprio enorme, sia proporzionale al campo. Vale a dire: un campo piccolo sposterà le cariche un pochino, mentre un campo più grande le sposterà un po’ di più, sempre però in proporzione al campo, a meno che lo spostamento diventi troppo grande. Per il resto di questo capitolo si supporrà che il momento dipolare sia esattamente proporzionale al campo. Supporremo dunque che in ogni atomo ci siano delle cariche q separate da una distanza , così che q è il momento dipolare per atomo. (Adoperiamo perché abbiamo già impegnato d per indicare la separazione delle lastre.) Se ci sono N atomi per unità di volume, ci sarà un momento dipolare per unità di volume uguale a N q . Questo momento dipolare per unità di volume sarà rappresentato da un vettore indicato con P; è superfluo dire che esso ha la direzione dei momenti dipolari individuali, cioè la direzione della separazione delle cariche : P = Nq
(10.4)
In generale P varierà da punto a punto nel dielettrico. Però in qualsiasi punto del materiale, P è proporzionale al campo elettrico E. La costante di proporzionalità, che dipende dalla facilità con cui gli elettroni vengono spostati, dipenderà dalla natura degli atomi che costituiscono il materiale. Che cosa effettivamente determini il comportamento di questa costante di proporzionalità, quanto esattamente sia costante per campi molto grandi e che cosa succeda all’interno dei vari materiali, lo discuteremo più avanti. Per il momento, supporremo semplicemente che esista un meccanismo per il quale viene indotto un momento di dipolo che è proporzionale al campo elettrico.
10.3
Le cariche di polarizzazione
Vediamo ora che cosa ci dà questo modello per la teoria del condensatore in cui c’è un dielettrico. Consideriamo dapprima una lastra di un materiale in cui esiste un certo momento di dipolo per unità di volume. Ci sarà in media una qualche densità di carica prodotta da questo stato di cose? Se P è uniforme, no. Se le cariche positive e negative che vengono spostate le une rispetto alle altre hanno la stessa densità media, il fatto di essere spostate non produce alcuna carica risultante nell’interno del volume. D’altra parte, se P fosse più grande in un punto e più piccolo in un altro, ciò vorrebbe dire che c’è più carica che si trasferisce in una certa regione di quanta se ne trasferisce fuori: ci si aspetterebbe quindi di trovare una certa densità di carica di volume. Nel caso del condensatore a lastre parallele, si suppone che P sia uniforme, perciò basta che ci occupiamo di quello che succede sulle superfici. Su una delle superfici i corpuscoli negativi, cioè gli elettroni, si sono effettivamente spostati in fuori per una distanza ; sull’altra superficie si sono invece spostati in dentro lasciando delle cariche positive a una distanza verso l’esterno. Come mostra la FIGURA 10.5, si avrà una densità superficiale di carica, che chiameremo carica superficiale di polarizzazione. Questa carica può essere calcolata come segue. Se A è l’area della lastra, il numero di elettroni che appaiono sulla superficie è il prodotto di A per N (numero di dipoli per unità di volume) e per , che supponiamo perpendicolare alla superficie. La carica totale si ottiene moltiplicando per la carica elettronica qe . Per ottenere la densità superficiale della carica di polarizzazione si dividerà
121
10.3 • Le cariche di polarizzazione
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per A. Il valore assoluto della densità superficiale di carica è perciò pol
= N qe
Ma questo uguaglia proprio il modulo P del vettore di polarizzazione P come è dato dall’equazione (10.4). Si ha dunque (10.5) pol = P La densità superficiale di carica uguaglia la polarizzazione che si ha nel materiale. Essa, naturalmente, è positiva su una delle superfici e negativa sull’altra. Ora supponiamo che la lastra qui considerata sia il dielettrico di un condensatore a lastre parallele. Le lastre del condensatore avranno esse pure una carica superficiale, che chiameremo lib , perché essa si può muovere «liberamente» su tutto il conduttore. Si tratta naturalmente della carica che abbiamo introdotto quando si è caricato il condensatore. Si noti bene che pol esiste soltanto a causa di lib . Se si sopprime lib scaricando il condensatore, allora anche pol sparisce, non sfuggendo per il filo di scarica, ma rientrando nel materiale, per effetto del rilassarsi della polarizzazione all’interno di questo. Possiamo a questo punto applicare la legge di Gauss alla superficie gaussiana S di FIGURA 10.1. Il campo elettrico E nel dielettrico è uguale alla densità totale di carica superficiale divisa per ✏ 0 . È chiaro che pol e lib hanno segni opposti; perciò sarà lib
E=
pol
✏0
(10.6)
Notate che il campo E0 fra la lastra metallica e la superficie del dielettrico è più forte del campo E; esso corrisponde infatti a lib solo. Qui però ci occupiamo del campo dentro al dielettrico, che, se il dielettrico riempie quasi interamente la cavità, è il campo in quasi tutto il volume. Adoperando l’equazione (10.5) possiamo scrivere lib
E=
P
✏0
(10.7)
Questa equazione non ci dice cos’è il campo elettrico, a meno di sapere che cos’è P. Qui però si suppone che P dipenda da E, anzi che sia proporzionale a E. Questa proporzionalità si scrive abitualmente nella forma P = ✏0 E (10.8) La costante («chi» greco) si chiama suscettività elettrica del dielettrico. L’equazione (10.7) diventa allora E=
lib
✏0
1 (1 + )
(10.9)
che ci dà il fattore 1/(1 + ) secondo il quale il campo viene ridotto. Il voltaggio fra le lastre è l’integrale del campo elettrico. Siccome il campo è uniforme, l’integrale non è che il prodotto di E per la separazione d delle lastre. Abbiamo V = Ed = La carica complessiva del condensatore è C=
lib A,
lib d
✏ 0 (1 + ) così che la capacità definita da (10.2) diventa
✏ 0 A (1 + ) ✏ 0 A = d d
(10.10)
I fatti osservati sono così spiegati. Quando un condensatore a lastre parallele è riempito con un dielettrico, la sua capacità aumenta secondo il fattore =1+
(10.11)
+
+–
+
+–
–
+
+–
–
+
+–
–
+
+–
–
+
+–
–
+
–
+–
–
+
+–
–
+
+–
–
+
+–
–
+
+–
–
+
+–
–
+
+–
–
+
+–
–
+
+–
–
+
+–
–
+
+–
–
p
10.5 Una lastra di dielettrico in un campo uniforme. Le cariche positive vengono spostate di una distanza rispetto a quelle negative. FIGURA
122
10.6 La carica che ha attraversato un elemento di una superficie immaginaria in un dielettrico è proporzionale alla componente di P normale alla superficie.
Capitolo 10 • Dielettrici
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FIGURA
10.7 Una polarizzazione P non uniforme può produrre una carica non neutralizzata nell’interno di un dielettrico. FIGURA
Dielettrico
P
Dielettrico
n
P
∆Q Volume V
d
Superficie S
che è una proprietà del materiale. Naturalmente, la nostra spiegazione non sarà completa finché non avremo spiegato, come faremo più avanti, come nasce la polarizzazione atomica. Consideriamo ora un caso un pochino più complicato, cioè quello in cui la polarizzazione P non è dappertutto la stessa. Come si è accennato prima, se la polarizzazione non è costante ci si deve aspettare in generale di trovare una densità di carica di volume, perché in un piccolo elemento di volume può entrare più carica da una parte di quella che esce dall’altra. Come si può fare per trovare quanta carica si guadagna o si perde in un piccolo volume? Calcoliamo prima quanta carica attraversa una qualunque superficie immaginaria quando il materiale viene polarizzato. La quantità di carica che attraversa la superficie non è che P moltiplicato per l’area della superficie, se la polarizzazione è normale alla superficie. Naturalmente, se la polarizzazione è tangente alla superficie nessuna carica si muove attraverso di essa. Seguendo gli stessi ragionamenti che abbiamo già usato è facile vedere che la carica che si sposta attraverso un qualunque elemento di superficie è proporzionale alla componente di P perpendicolare alla superficie: basta confrontare la FIGURA 10.6 con la FIGURA 10.5. Si vede che l’equazione (10.5) nel caso generale dovrebbe essere scritta pol
=P·n
(10.12)
Se si pensa a un elemento di superficie ideale interno al dielettrico, l’equazione (10.12) ci dà la carica che si è spostata attraverso la superficie, ma questo non produce una carica superficiale perché si hanno contributi uguali e opposti del dielettrico di qua e di là dalla superficie. Gli spostamenti delle cariche possono però produrre una densità di carica di volume. La carica totale spostata fuori di un volume qualunque V per effetto della polarizzazione è l’integrale della componente normale esterna di P sulla superficie S che circonda il volume (FIGURA 10.7). Un eccesso di carica uguale e di segno opposto rimane nel volume. Indicando con Qpol la carica complessiva all’interno di V possiamo scrivere ⌅ Qpol = P · n da (10.13) S
Possiamo attribuire Qpol a una distribuzione di carica di volume con densità ⇢pol e quindi ⌅ Qpol = ⇢pol dV (10.14) V
La combinazione delle due equazioni fornisce ⌅ ⇢pol dV = V
⌅
P · n da
(10.15)
S
Si ha dunque una sorta di teorema di Gauss che mette in relazione la densità di carica in un materiale polarizzato col vettore di polarizzazione P. Si può vedere che esso va d’accordo col
10.4 • Le equazioni dell’elettrostatica in presenza di dielettrici
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risultato che abbiamo ottenuto per la carica superficiale di polarizzazione del dielettrico in un condensatore a lastre parallele. Adoperando l’equazione (10.15) con la superficie gaussiana della FIGURA 10.1, l’integrale di superficie dà P A e la carica interna è pol A, perciò si ottiene di nuovo pol = P. Proprio come si è fatto per la legge di Gauss dell’elettrostatica, possiamo mettere l’equazione (10.15) in forma differenziale, usando il teorema matematico di Gauss: ⌅ ⌅ P · n da = r · P dV S
V
Si ottiene ⇢pol = r · P
(10.16)
Se c’è una polarizzazione non uniforme, la sua divergenza dà la densità di carica non neutralizzata che appare nel materiale. Si noti bene che si tratta di una densità di carica assolutamente reale: la chiamiamo «carica di polarizzazione» soltanto per ricordarci come si è formata.
10.4
Le equazioni dell’elettrostatica in presenza di dielettrici
Combiniamo ora il risultato ottenuto con la teoria dell’elettrostatica. L’equazione fondamentale è r·E =
⇢ ✏0
(10.17)
Qui ⇢ è la densità di tutte le cariche elettriche. Siccome non è facile seguire la variazione delle cariche di polarizzazione, è conveniente separare ⇢ in due parti. Di nuovo, chiameremo ⇢pol le cariche dovute a polarizzazioni non uniformi e chiameremo ⇢lib il rimanente. Di solito ⇢lib è la carica che mettiamo sui conduttori o in punti noti dello spazio. L’equazione (10.17) diventa quindi ⇢lib + ⇢pol ⇢lib r · P r·E = = ✏0 ✏0 ossia ! P ⇢lib r· E+ = (10.18) ✏0 ✏0 Naturalmente l’equazione per il rotore di E resta inalterata: r⇥E =0
(10.19)
Prendendo P dall’equazione (10.8) otteniamo l’equazione
⇥ ⇤ ⇢lib r · (1 + ) E = r · (E) = ✏0
(10.20)
Queste sono le equazioni dell’elettrostatica in presenza di dielettrici. Esse, s’intende, non dicono niente di nuovo, ma si presentano in una forma che è più comoda per il calcolo nei casi in cui ⇢lib è nota e la polarizzazione P è proporzionale a E. Si noti che non si è portato la costante dielettrica fuori del simbolo di divergenza. Questo perché essa può non essere dappertutto la stessa. Se essa ha ovunque lo stesso valore, allora può essere messa a fattore e le equazioni diventano niente altro che quelle dell’elettrostatica, dove la densità di carica ⇢lib compare divisa per . Nella forma che abbiamo dato loro, le equazioni si applicano al caso generale in cui dielettrici diversi possono trovarsi in punti diversi del campo. Le equazioni possono essere allora veramente difficili da risolvere. C’è una questione di una certa importanza storica che qui conviene ricordare. Nei primi tempi dell’elettricità, il meccanismo atomico della polarizzazione non era conosciuto e l’esistenza di
123
124
Capitolo 10 • Dielettrici
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⇢pol non era valutata adeguatamente. Si pensava che ⇢lib fosse l’intera densità di carica. Allo scopo di scrivere le equazioni di Maxwell in una forma semplice, si definì un nuovo vettore D che è una combinazione lineare di E e di P: (10.21)
D = ✏0 E + P
Di conseguenza le equazioni (10.18) e (10.19) si scrivevano in una forma apparentemente molto semplice, cioè: r · D = ⇢lib (10.22) r⇥E =0 Si possono risolvere queste equazioni? Soltanto se viene data una terza equazione che dà la relazione fra D ed E. Quando vale la (10.8) tale relazione è D = ✏ 0 (1 + ) E = ✏ 0 E
(10.23)
Questa equazione viene abitualmente scritta (10.24)
D=✏E
dove ✏ è un’altra costante che descrive le proprietà dielettriche dei materiali ed è chiamata «permittività». (Vedete adesso perché abbiamo ✏ 0 nelle nostre equazioni: si tratta della «permittività dello spazio vuoto».) Evidentemente si avrà: ✏ = ✏ 0 = (1 + ) ✏ 0
(10.25)
Oggi si considerano queste cose da un altro punto di vista, cioè si pensa che le equazioni sono più semplici nel vuoto e se introduciamo in ogni caso tutte le cariche, qualunque ne sia l’origine, tali equazioni sono sempre corrette. Se, per comodità oppure perché non si desidera discutere i fenomeni in dettaglio, parte delle cariche si vogliono tenere separate, allora si può, se si vuole, scrivere le equazioni in qualsiasi altra forma che possa essere conveniente. Ancora un aspetto è da mettere in evidenza. Un’equazione come D = ✏ E è un tentativo di descrivere una proprietà della materia. Ma la materia è estremamente complicata e una simile equazione effettivamente non è corretta. Per esempio, se E diventa troppo grande, D non è più proporzionale a E. Per alcune sostanze la proporzionalità si perde anche per campi relativamente piccoli. Inoltre la «costante» di proporzionalità può dipendere dalla rapidità con cui E cambia nel tempo. Perciò questo tipo di equazione è una sorta di approssimazione, come la legge di Hooke; non può essere un’equazione profonda e fondamentale. D’altra parte le nostre equazioni fondamentali per E, cioè la (10.17) e la (10.19), rappresentano la nostra più profonda e più completa conoscenza dell’elettrostatica.
10.5
Campi e forze in presenza di dielettrici
Vogliamo ora dimostrare alcuni teoremi generali riguardanti situazioni dell’elettrostatica in cui sono presenti dei dielettrici. Si è visto che la capacità di un condensatore a lastre parallele aumenta secondo un preciso fattore se il condensatore viene riempito con un dielettrico. Possiamo far vedere che questo è vero per un condensatore di qualunque forma, purché tutta la zona in vicinanza dei due conduttori sia riempita con un dielettrico lineare e uniforme. Senza il dielettrico le equazioni da risolvere sono ⇢lib r · E0 = e r ⇥ E0 = 0 ✏0 In presenza del dielettrico la prima di queste equazioni cambia; sicché abbiamo invece le equazioni r · ( E) =
⇢lib ✏0
e
r⇥E =0
(10.26)
10.5 • Campi e forze in presenza di dielettrici
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Siccome però si suppone che sia lo stesso dappertutto, queste ultime due equazioni possono essere scritte ⇢lib r · ( E) = e r ⇥ ( E) = 0 (10.27) ✏0 Abbiamo perciò le stesse equazioni per E e per E0 : esse hanno dunque per soluzione E = E0 In altre parole il campo è dappertutto più piccolo, secondo il fattore 1/, rispetto al caso in cui non c’è il dielettrico. Siccome la differenza di potenziale è l’integrale di linea del campo, il voltaggio viene ridotto secondo lo stesso fattore. Siccome la carica sugli elettrodi del condensatore si è supposto che sia la stessa nei due casi, l’equazione (10.2) ci dice che la capacità, nel caso di un dielettrico ovunque uniforme, è aumentata secondo il fattore . Domandiamoci ora qual è la forza fra due conduttori carichi che si trovano in un dielettrico. Consideriamo un dielettrico liquido che è omogeneo ovunque. Abbiamo visto in precedenza che un modo di ottenere la forza è quello di derivare l’energia rispetto a una distanza appropriata. Se i conduttori hanno cariche uguali e opposte, l’energia è U = Q2 /2C, dove C è la loro capacità. Utilizzando il principio dei lavori virtuali, si vede che qualsiasi componente è data da una derivazione; per esempio ! @U Q2 @ 1 Fx = = (10.28) @x 2 @x C Siccome il dielettrico aumenta la capacità di un fattore , tutte le forze saranno ridotte di altrettanto. Un punto è da mettere in evidenza. Quello che si è detto è vero soltanto se il dielettrico è un liquido. Qualsiasi moto di conduttori che si trovino in un dielettrico solido cambia le condizioni di tensione meccanica del dielettrico e quindi altera le sue proprietà elettriche, come anche produce dei cambiamenti nell’energia meccanica del materiale. Il moto di conduttori in un liquido non modifica il liquido: questo si sposta in un altro posto, ma le sue caratteristiche elettriche non cambiano. Molti vecchi libri sull’elettricità cominciano con la legge «fondamentale» secondo la quale la forza fra due cariche è q1 q2 F= (10.29) 4⇡✏ 0 r 2 un punto di vista che è completamente insoddisfacente. Da un lato la legge non è vera in generale; è vera soltanto in un universo riempito da un fluido. In secondo luogo essa dipende dal fatto che sia una costante, ciò che è vero solo approssimativamente per la maggior parte dei materiali. È molto meglio partire dalla legge di Coulomb per cariche nel vuoto, che è sempre vera (per cariche stazionarie). Che cosa succede in un solido? Questo è un problema molto difficile, che non è stato risolto perché in un certo senso è indeterminato. Se si mettono delle cariche dentro un dielettrico solido, sorgono molti tipi di pressioni e deformazioni. Non si può considerare il lavoro virtuale senza includerci anche l’energia meccanica necessaria a comprimere il solido, ed è una cosa difficile, in generale, fare una distinzione univoca fra le forze elettriche e le forze meccaniche dovute al solido stesso. Per fortuna, nessuno ha mai veramente bisogno di conoscere la soluzione del problema proposto. Qualche volta potrà occorrere di sapere quale deformazione potrà prodursi in un solido, e questa si può ricavare, ma la cosa è molto più complicata del risultato semplice che abbiamo ottenuto per i liquidi. Un problema curiosamente complicato della teoria dei dielettrici è il seguente: perché un oggetto carico raccatta dei piccoli frammenti di un dielettrico? Se vi pettinate in una giornata asciutta, il pettine facilmente raccatta dei pezzetti di carta. Se ci avete pensato superficialmente, avrete probabilmente supposto che il pettine avesse una carica e la carta ne avesse una opposta. La carta però è inizialmente neutra; non ha alcuna carica complessiva, ma è tuttavia attratta. È vero che qualche volta un pezzetto di carta salta sul pettine e poi schizza via, respinto appena ha toccato il pettine. La ragione è, naturalmente, che quando la carta tocca il pettine, raccoglie un po’ delle cariche negative di questo, dopo di che le cariche simili si respingono. Questo però non risolve il problema originario: perché la carta si è diretta verso il pettine?
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Capitolo 10 • Dielettrici
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La soluzione è legata alla polarizzazione dei dielettrici quando vengono posti in un campo elettrico. Ci sono delle cariche dei due segni che vengono attratte e respinte dal pettine. Complessivamente c’è però un’attrazione perché il campo vicino al pettine è più forte del campo a distanza più E grande: il pettine non è una lastra infinita; la sua carica è localizzata. Il pezzo di carta privo di carica non viene attratto da nessuna delle due lastre F se posto all’interno di un condensatore a lastre parallele. La variazione del campo è una parte essenziale del meccanismo di attrazione. Oggetto dielettrico Come mostra la FIGURA 10.8, un dielettrico è sempre attratto da una zona dove il campo è debole verso una zona dove il campo è più forte. Effettivamente si può dimostrare che per piccoli oggetti la forza è proporzionale al gradiente del quadrato del campo elettrico. Perché dipende dal quadrato del campo? Perché le cariche di polarizzazione indotte sono proporzionali al campo e le forze su una data carica sono proporzionali FIGURA 10.8 Un oggetto dielettrico in un campo non al campo. Tuttavia, come abbiamo notato ora ci sarà una forza risultante uniforme risente una forza diretta verso le regioni dove il campo è più intenso. soltanto se il quadrato del campo cambia da punto a punto. Perciò la forza è proporzionale al gradiente del quadrato del campo. La costante di proporzionalità dipende, fra l’altro, dalla costante dielettrica dell’oggetto, come anche dipende dalla sua grandezza e forma. C’è un problema collegato con questo in cui la forza può essere dedotta in modo piuttosto preciso. Se abbiamo un condensatore a lastre parallele con una lastra di dielettrico solo parzialmente inserita, come mostra la FIGURA 10.9, c’è una forza che trascina la lastra dentro il condensatore. Un esame dettagliato di questa forza è assai complesso; essa è in relazione alla disuniformità del campo vicino ai bordi delle lastre. Però se, senza curarci dei dettagli, adoperiamo puramente il principio della conservazione dell’energia, la forza si può calcolare facilmente. Possiamo ricavarla da una formula che abbiamo dedotto in precedenza. L’equazione (10.28) equivale a V 2 @C @U =+ @x 2 @x
Fx = Conduttori + – +
–
+
–
+ + L
–
+
–
+
–
+
x
– F
Ci occorre soltanto trovare come la capacità varia con la porzione della lastra del dielettrico. Supponiamo che sia L la lunghezza delle lastre, la loro larghezza sia W , la separazione delle lastre e lo spessore del dielettrico siano d e il tratto di dielettrico inserito abbia la lunghezza x. La capacità è il rapporto fra la carica libera totale sulle lastre e il voltaggio fra queste. Abbiamo visto in precedenza che per un dato voltaggio V la densità superficiale di carica libera è ✏ 0 V /d. Perciò la carica totale sulle lastre è
–
+ –
+ –
+ –
+ –
+ –
+ –
+ –
+ –
+ –
+ –
Q=
✏ 0 V ✏ 0V xW + (L d d
C=
✏ 0W (x + L d
10.9 La forza su una lastra dielettrica in un condensatore a lastre parallele può essere calcolata applicando il principio della conservazione dell’energia. FIGURA
x)
(10.31)
V 2 ✏ 0W ( 1) (10.32) 2 d Questa equazione non è di nessuna particolare utilità, a meno che non capiti di dover conoscere la forza in quelle date circostanze. Volevamo soltanto mostrare che la teoria dell’energia si può spesso usare per evitare enormi complicazioni nella determinazione delle forze su materiali dielettrici, come qui sarebbe il caso. La presente discussione della teoria dei dielettrici ha trattato soltanto i fenomeni elettrici, accettando il fatto che i materiali hanno una polarizzazione proporzionale al campo elettrico. Il fatto che esista una tale proporzionalità è forse per la fisica un problema di maggior interesse. Infatti, una volta che si sia capita dal punto di vista atomico l’origine della costante dielettrica, si possono adoperare misure elettriche della costante dielettrica in diverse circostanze per ottenere informazioni dettagliate sulla struttura atomica o molecolare. Questo aspetto sarà trattato in parte nel prossimo capitolo. Fx =
Dielettrico
x) W
da cui otteniamo la capacità
Utilizzando la (10.30) abbiamo d
(10.30)
11
Dentro ai dielettrici
11.1
I dipoli molecolari
In questo capitolo discuteremo come mai certi materiali sono dielettrici. S’è detto nel capitolo precedente che si possono capire le proprietà dei sistemi elettrici comprendenti dei dielettrici una volta che ci si renda conto che, quando un campo elettrico viene applicato a un dielettrico, esso induce negli atomi dei momenti dipolari. Precisamente, se il campo elettrico E induce un momento dipolare medio per unità di volume P, allora , la costante dielettrica, è data da
1=
P ✏0E
Ripasso: vol. 1, cap. 13, L’origine dell’indice di rifrazione cap. 40, I principi della meccanica statistica
(11.1)
–
–
–
–
–
–
–
–
–
Discuteremo prima la polarizzazione delle molecole non-polari. Possiamo cominciare col caso più semplice, cioè quello di un gas monoatomico (per esempio, elio). Quando un atomo di un tale gas si trova in un campo elettrico, gli elettroni sono tirati dal campo in un senso mentre il nucleo è tirato in senso opposto, come mostra la FIGURA 10.4. Benché gli atomi siano molto rigidi nei confronti delle forze elettriche che possiamo applicare loro sperimentalmente, c’è un leggero
–
–
–
–
La polarizzazione elettronica
–
–
–
–
–
–
–
11.2
–
–
Abbiamo già discusso come si applica questa equazione; ora dobbiamo discutere il meccanismo secondo il – – – quale nasce la polarizzazione quando nel materiale c’è +1 +8 +8 un campo elettrico. Cominciamo pure con l’esempio – – • più semplice possibile: la polarizzazione dei gas. Però • anche i gas hanno già delle complicazioni: ce ne so– – +8 Centro della no infatti di due tipi. Le molecole di alcuni gas non carica + – +1 possiedono un momento dipolare intrinseco, come per Centro delle Centro della – esempio l’ossigeno, che ha una coppia simmetrica di cariche + e – carica – – atomi in ogni molecola. Le molecole di altri gas, invece, come il vapor d’acqua (che ha una combinazione non simmetrica di atomi di idrogeno e ossigeno) portano un momento dipolare permanente. Come si è visto FIGURA 11.1 (a) Una molecola d’ossigeno con momento dipolare nullo. nei capitoli 6 e 7, nelle molecole del vapor d’acqua gli (b) La molecola dell’acqua ha un momento dipolare permanente p0 . atomi di idrogeno hanno una carica media positiva e quelli di ossigeno ne hanno una negativa. Siccome il baricentro delle cariche negative e quello delle cariche positive non coincidono, la distribuzione complessiva di carica della molecola ha un momento dipolare. Una molecola come questa si chiama una molecola polare. Nell’ossigeno, a causa della simmetria della molecola, i baricentri delle cariche positive e negative coincidono, perciò essa è una molecola non-polare; diventa però un dipolo quando viene posta in un campo elettrico. Le forme dei due tipi di molecole sono schematizzate nella FIGURA 11.1.
p0
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Capitolo 11 • Dentro ai dielettrici
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spostamento risultante dei centri delle cariche e quindi viene indotto un momento di dipolo. Per campi piccoli l’entità dello spostamento, e quindi anche del momento dipolare, è proporzionale al campo elettrico. Lo spostamento della distribuzione degli elettroni che produce questo tipo di momento dipolare indotto è chiamato polarizzazione elettronica. Abbiamo già discusso l’influenza di un campo elettrico su un atomo nel cap. 31 del vol. 1, quando ci siamo occupati della teoria dell’indice di rifrazione. Se ci pensate un momento vedrete che quello che dobbiamo fare ora è esattamente lo stesso che si fece allora. Ma ora occorre dedicarci soltanto ai campi costanti, mentre l’indice di rifrazione dipendeva da campi variabili con il tempo. Nel cap. 31 del vol. 1 si ammise che quando un atomo è posto in un campo elettrico oscillante, il centro di carica degli elettroni obbedisce all’equazione m
d2 x + m!02 x = qe E dt 2
(11.2)
Il primo termine del primo membro è la massa dell’elettrone moltiplicato per la sua accelerazione e il secondo è una forza di richiamo, mentre il secondo membro è la forza esercitata dal campo elettrico esterno. Se il campo elettrico varia con la frequenza !, l’equazione (11.2) ha la soluzione x=
qe E m (!02 !2 )
(11.3)
la quale ha una risonanza per ! = !0 . Quando abbiamo precedentemente trovato questa soluzione l’abbiamo interpretata nel senso che !0 era la frequenza alla quale la luce (nelle regioni del visibile e dell’ultravioletto, a seconda dell’atomo) veniva assorbita. Per gli scopi presenti, tuttavia, ci interessa soltanto il caso dei campi costanti cioè con ! = 0, possiamo perciò ignorare il termine con l’accelerazione in (11.2) e troviamo che lo spostamento è x=
qe E m!02
(11.4)
Da qui vediamo che il momento dipolare p di un singolo atomo è p = qe x =
qe2 E m!02
(11.5)
In questa teoria il momento p di dipolo risulta effettivamente proporzionale al campo elettrico. Si scrive usualmente p = ↵✏ 0 E (11.6) (Anche qui ✏ 0 si introduce per ragioni storiche.) La costante ↵ è chiamata polarizzabilità dell’atomo e ha le dimensioni L 3 . È una misura di quanto è facile indurre un momento nell’atomo per mezzo di un campo elettrico. Confrontando le (11.5) e (11.6) la nostra semplice teoria dice che si ha qe2 4⇡e2 ↵= = (11.7) ✏ 0 m!02 m!02 Se ci sono N atomi nell’unità di volume, la polarizzazione P – cioè il momento di dipolo per unità di volume – è data da P = N p = N ↵✏ 0 E (11.8) Combinando le (11.1) e (11.8) si ottiene 1=
P = N↵ ✏0 E
(11.9)
4⇡N e2 m!02
(11.10)
ossia, utilizzando la (11.7),
1=
11.2 • La polarizzazione elettronica
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Dall’equazione (11.9) si prevederebbe che la costante dielettrica di un gas dipendesse dalla densità del gas e dalla frequenza !0 del suo assorbimento ottico. Naturalmente la nostra formula è solo un’approssimazione molto rozza, perché nello scrivere l’equazione (11.2) abbiamo scelto un modello che ignora le complicazioni della meccanica quantistica. Per esempio abbiamo supposto che un atomo abbia una sola frequenza di risonanza, mentre in realtà ne ha molte. Per calcolare adeguatamente la polarizzabilità degli atomi si deve usare la teoria quantistica completa, ma le idee classiche introdotte sopra ci danno una stima ragionevole. Vediamo se si può ottenere il giusto ordine di grandezza per la costante dielettrica di qualche sostanza. Proviamo con l’idrogeno. Abbiamo una volta valutato (cap. 38 del vol. 1) che l’energia richiesta per ionizzare l’atomo d’idrogeno dovrebbe essere approssimativamente E⇡
1 me4 2 ~2
(11.11)
Per una stima della frequenza propria !0 , possiamo porre questa energia uguale a ~!0 , che è l’energia di un oscillatore armonico la cui frequenza naturale è !0 . Otteniamo !0 ⇡
1 me4 2 ~3
Se ora utilizziamo questo valore di !0 nell’equazione (11.7) troviamo per la polarizzabilità elettronica 3 ~2 (11.12) ↵ ⇡ 16⇡ * 2 + , me -
La grandezza ~2 /me2 è il raggio dell’orbita nello stato fondamentale di un atomo di Bohr (cap. 38 del vol. 1) e vale 0,528 Å. In un gas monoatomico in condizioni normali di pressione e temperatura (1 atm, 0 ) ci sono 2,69 atomi/cm3 , perciò l’equazione (11.9) ci dà = 1 + (2,69 · 1019 ) 16⇡ (0,528 · 10 8 )3 = 1,00020
(11.13)
Per la costante dielettrica dell’idrogeno gassoso le misure danno il seguente valore sperimentale: sper = 1,00026 Quindi la nostra teoria è quasi giusta. Di meglio non ci si potrebbe aspettare perché le misure sono state fatte naturalmente con idrogeno gassoso normale, le cui molecole sono biatomiche e non atomi singoli: non ci si dovrebbe meravigliare se la polarizzazione degli atomi in una molecola non è proprio la stessa di quella degli atomi separati. L’effetto molecolare, però, non è in realtà tanto grande. Il calcolo esatto, per mezzo della meccanica quantistica, del valore di ↵ dell’atomo d’idrogeno dà un risultato circa il 12% più alto di quello che si ottiene con la (11.12) (16⇡ muta in 18⇡) e perciò fa prevedere una costante dielettrica alquanto più vicina a quella osservata. Comunque, è chiaro che il nostro modello di dielettrico è abbastanza buono. Un’altra verifica della nostra teoria consiste nel provare l’equazione (11.12) nel caso di atomi con una frequenza di eccitazione più alta. Per esempio, ci vogliono circa 24,6 V per strappare all’elio un elettrone, in confronto ai 13,6 V necessari a ionizzare l’idrogeno. Ci si dovrebbe aspettare perciò che la frequenza d’assorbimento !0 per l’elio fosse circa il doppio di quella dell’idrogeno e che ↵ si riduca a un quarto. Ci si aspetta dunque Sperimentalmente si trova
elio ⇡ 1,000050 elio sper = 1,000068
Vedete quindi che le nostre stime grossolane si muovono sulla strada giusta. Abbiamo dunque compreso la costante dielettrica dei gas non-polari, ma soltanto qualitativamente, perché non abbiamo ancora usato una teoria atomica corretta nel trattare i moti degli elettroni atomici.
129
130
Capitolo 11 • Dentro ai dielettrici
11.3
p0
E
11.2 (a) In un gas di molecole polari i momenti individuali sono orientati a caso; il momento medio in un piccolo volume è zero. (b) Quando c’è un campo elettrico, c’è un certo allineamento medio delle molecole. FIGURA
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Molecole polari. Polarizzazione da orientazione
Passiamo ora a considerare una molecola che porta un momento di dipolo permanente p0 , come la molecola dell’acqua. In assenza di campo elettrico, i singoli dipoli puntano in direzioni casuali, perciò il momento risultante per unità di volume è zero. Quando però si applica un campo elettrico, accadono due cose: in primo luogo, c’è un momento dipolare supplementare che viene indotto a causa delle forze sugli elettroni; questa parte dà proprio lo stesso tipo di polarizzabilità che abbiamo trovato per le molecole non-polari. In una trattazione molto precisa questo effetto dovrebbe naturalmente essere incluso, ma per il momento lo trascureremo. (Può essere sempre incluso alla fine.) In secondo luogo, il campo elettrico tende ad allineare i dipoli singoli così da produrre un momento risultante per unità di volume. Se tutti i dipoli del gas si allineassero ci sarebbe una polarizzazione molto grande, ma questo non succede. Con le temperature e i campi elettrici che si hanno ordinariamente, le collisioni delle molecole nel loro moto termico impediscono a queste di allinearsi molto. C’è tuttavia un certo allineamento e quindi una certa polarizzazione (FIGURA 11.2). La polarizzazione che si produce può essere calcolata con i metodi della meccanica statistica che sono stati descritti nel cap. 40 del vol. 1. Per usare questi metodi ci occorre conoscere l’energia di un dipolo in un campo elettrico. Consideriamo un dipolo di momento p0 in un campo elettrico, come mostra la FIGURA 11.3. L’energia della carica positiva è q (1) e l’energia della carica negativa è q (2). Perciò l’energia del dipolo è U = q (1)
q (2) = qd · r
ossia U=
p0 · E = p0 E cos ✓
(11.14)
dove ✓ è l’angolo fra p0 ed E. Come era da aspettarsi, l’energia è più bassa quando i dipoli sono allineati col campo. Calcoliamo ora, con i metodi della meccanica statistica, quale grado di allineamento si produce. Si trovò nel cap. 40 del vol. 1 che in condizioni di equilibrio termico il numero relativo di molecole aventi l’energia potenziale U è proporzionale a e
U/kT
(11.15)
dove U = U(x, y, z) è l’energia potenziale quale funzione della posizione. Lo stesso ragionamento porterebbe a concludere, adoperando l’espressione (11.14) per l’energia potenziale in funzione dell’angolo, che il numero di molecole per unità d’angolo solido che fanno l’angolo ✓ col campo è proporzionale a e U/kT . Indicando con n(✓) il numero di molecole per unità d’angolo solido aventi l’inclinazione ✓, si avrà n(✓) = n0 e+p0 E cos ✓/kT (11.16)
E +q
(1) d –q
11.3
(2)
L’energia di un dipolo p0 nel campo E è p0 · E. FIGURA
Per temperature e campi usuali, l’esponente è piccolo, sicché si può approssimare l’esponenziale sviluppandolo: ! p0 E cos ✓ n(✓) = n0 1 + (11.17) kT Si può determinare n0 se si integra la (11.17) su tutti gli angoli; il risultato è semplicemente N, cioè il numero totale di molecole per unità di volume. Il valor medio di cos ✓ su tutti gli angoli è zero, perciò l’integrale non è che n0 moltiplicato per l’angolo solido totale 4⇡. Otteniamo n0 =
N 4⇡
(11.18)
Si vede dalla (11.17) che ci saranno più molecole orientate nel verso del campo (cos ✓ = 1) che contrariamente al campo (cos ✓ = 1). Perciò in qualsiasi volumetto contenente molte molecole ci sarà un momento dipolare risultante per unità di volume, cioè una polarizzazione P. Per calcolare
11.3 • Molecole polari. Polarizzazione da orientazione
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131
P ci occorre la somma vettoriale di tutti i momenti molecolari nell’unità di volume. Siccome però sappiamo che il risultato sarà un vettore diretto come E, ci basterà sommare le componenti in quella direzione (le componenti ad angolo retto rispetto a E sommandosi daranno zero): X P= p0 cos ✓ i unità di volume
Possiamo valutare questa somma integrando sulla distribuzione angolare. L’angolo solido elementare alla colatitudine ✓ è 2⇡ sen ✓ d✓, perciò ⌅ ⇡ P= n(✓) p0 (cos ✓) 2⇡ (sen ✓) d✓ (11.19) 0
Sostituendo n(✓) per mezzo della (11.17) abbiamo ! ⌅ 1 N p0 E P= 1+ cos ✓ p0 cos ✓ d cos ✓ 2 1 kT che si integra facilmente per dare
N p02 E
(11.20) 3kT La polarizzazione risulta proporzionale a E; si ha dunque il normale comportamento dielettrico. Inoltre, com’era da aspettarsi, la polarizzazione dipende in modo inverso dalla temperatura, perché a temperature più alte c’è più disallineamento da parte delle collisioni. Questa dipendenza da 1/T è chiamata legge di Curie. Il momento permanente p0 compare al quadrato per la seguente ragione: in un campo elettrico dato, la forza che provoca l’allineamento dipende da p0 e il momento medio che è prodotto dall’allineamento è pure proporzionale a p0 ; perciò il momento medio indotto è proporzionale a p02 . Dovremmo ora cercare di vedere quanto l’equazione (11.20) va d’ac–1 cordo con l’esperienza. Esaminiamo il caso del vapore acqueo. Siccome non sappiamo quanto vale p0 , non possiamo calcolare direttamente P; però 0,004 l’equazione (11.20) predice qualcosa e cioè che 1 dovrebbe variare come l’inverso della temperatura e questo si dovrebbe poter verificare. Dalla (11.20) si ottiene P=
1=
N p02 P = ✏ 0 E 3✏ 0 kT
0,003
(11.21)
perciò 1 dovrebbe variare in proporzione diretta alla densità N e in 0,002 proporzione inversa alla temperatura assoluta. La costante dielettrica è stata misurata a parecchie pressioni e temperature, scelte in modo che il numero di molecole per unità di volume restasse costante(1) . (Si noti che se le misure si facessero tutte a pressione costante, il numero di molecole per 0,001 unità di volume diminuirebbe linearmente col crescere della temperatura e 1 varierebbe come T 2 invece che T 1 .) Nella FIGURA 11.4 i dati sperimentali per 1 sono riportati graficamente in funzione di 1/T. La 0 dipendenza prevista dalla (11.21) è seguita piuttosto bene. 0 0,001 0,002 0,003 1/T (K–1) C’è un’altra caratteristica della costante dielettrica delle molecole polari: la sua variazione con la frequenza del campo applicato. Per via del momento d’inerzia delle molecole, ci vuole un certo tempo perché le molecole FIGURA 11.4 Valori sperimentali della costante pesanti si possano girare nella direzione del campo. Perciò se applichiamo dielettrica del vapor d’acqua a varie temperature. delle frequenze appartenenti alla regione alta delle microonde o più elevate ancora, il contributo polare alla costante dielettrica comincia a svanire perché le molecole non possono seguire il campo. Al contrario, la polarizzabilità elettronica rimane la stessa fino alle frequenze ottiche a causa della minore inerzia degli elettroni. (1)
Sänger, Steiger e Gächter, Helvetica Physica Acta 5, 200 (1932).
132
Capitolo 11 • Dentro ai dielettrici
11.4
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I campi elettrici nelle cavità di un dielettrico
Prendiamo ora in considerazione un problema interessante ma complicato: quello della costante dielettrica dei materiali densi. Supponiamo di considerare dell’elio liquido o dell’argon liquido o qualche altro materiale non-polare. Ci aspettiamo che si produca ancora la polarizzazione elettronica. Ma in un materiale denso, P può essere grande, così che il campo P E su un particolare atomo sarà influenzato dalla polarizzazione degli atomi nelle sue immediate vicinanze. Il problema è: quale campo elettrico agisce sul singolo atomo? Immaginiamo che il liquido sia messo fra le lastre di un condensatore. (a) (c) Se le lastre sono cariche produrranno un campo elettrico nel liquido. Ma ci sono anche le cariche dei singoli atomi e il campo totale E è la somma di tutti e due gli effetti. Questo campo elettrico vero varia molto molto S rapidamente da punto a punto nel liquido. È molto grande nell’interno ––––––––– degli atomi – particolarmente nelle immediate vicinanze del nucleo – ed P E +++++++++ è relativamente piccolo fra un atomo e l’altro. La differenza di potenziale fra le lastre è l’integrale di linea di questo campo totale. Ignorando tutte le variazioni a scala molto minuta, possiamo pensare a un campo elettrico (d) (b) medio E, che è semplicemente V /d. (Questo è il campo che si è usato nel capitolo precedente.) Tale campo va pensato come una media su uno spazio che contiene molti atomi. FIGURA 11.5 Il campo in una cavità piatta tagliata in un dielettrico dipende dalla forma e dall’orientazione Ora potreste pensare che un atomo «medio» in una posizione «media» della cavità. sia sottoposto a questo campo medio. Ma le cose non sono così semplici, come si può mostrare considerando ciò che accade se immaginiamo delle cavità di varia forma nel dielettrico. Per esempio, supponiamo di tagliare in un dielettrico polarizzato una cavità piatta con le facce parallele al campo, come mostra la FIGURA 11.5a. Siccome sappiamo che è r ⇥ E = 0, l’integrale di linea di E intorno alla curva tracciata come è indicato in FIGURA 11.5b, deve essere nullo. Il campo interno alla cavità deve dare un contributo che cancella semplicemente la parte dovuta al campo che c’è fuori. Perciò il campo E0 effettivamente misurato al centro di tale cavità lunga e molto piatta è eguale a E, campo elettrico medio nel dielettrico. Consideriamo ora un’altra cavità piatta, con le facce perpendicolari a E, com’è indicato in FIGURA 11.5c. In questo caso, il campo E0 nella cavità non è più E, perché cariche di polarizzazione appaiono sulle facce della cavità. Se si applica il teorema di Gauss a una superficie S tracciata come si vede nella FIGURA 11.5d, si trova che E0 nella cavità è dato da E0 = E +
P ✏0
(11.22)
dove E è, come prima, il campo elettrico nel dielettrico. (La superficie gaussiana contiene la carica superficiale di polarizzazione pol = P.) Abbiamo visto nel capitolo 10 che ✏ 0 E + P è spesso chiamato D, perciò ✏ 0 E0 = D0 è uguale a D nel dielettrico. In tempi passati della storia della fisica, quando si supponeva che fosse molto importante definire ogni grandezza mediante un esperimento diretto, molti erano felici di scoprire che potevano definire ciò che intendevano con E e D in un dielettrico senza bisogno di doversi aggirare in mezzo agli atomi: il campo medio E è numericamente uguale al campo E0 che si poteva misurare in un taglio parallelo al campo; e il campo D poteva esser determinato misurando
11.6 Il campo in un punto qualunque A di un dielettrico si può considerare come la somma del campo in una cavità sferica più il campo dovuto alla sfera di materiale che è stata rimossa.
A P
=
P
+
FIGURA
A P
E0 in un taglio perpendicolare al campo. Ma nessuno, comunque, li misura mai a quel modo; perciò non si trattava che di una cosa di sapore filosofico. Per la maggior parte dei liquidi che non hanno una struttura troppo complicata, ci si può aspettare che un atomo si trovi in media confinato dagli altri atomi in una cavità che in buona approssimazione si può ritenere sferica. Perciò dobbiamo domandarci: «quale sarà il campo in una cavità sferica?». Lo possiamo ricavare osservando che se immaginiamo di tagliare una cavità sferica in un materiale uniformemente polarizzato, questo equivale ad asportare una sfera di materiale polarizzato. (Si deve immaginare che la polarizzazione sia stata «congelata» prima di tagliare la cavità.) A causa della sovrapposizione, però, il campo nel dielettrico, prima che la sfera fosse asportata, è la somma dei campi dovuti a tutte le cariche esterne alla sfera più i campi delle cariche interne alla sfera polarizzata. Cioè, se chiamiamo E il campo nel dielettrico uniforme, possiamo scrivere
Campo dipolare esterno +
+ + + +
dove Ecav è il campo nella cavità ed Esfera è il campo in una sfera uniformemente polarizzata (FIGURA 11.6). Il campo dovuto a una sfera uniformemente polarizzata è mostrato in FIGURA 11.7. Il campo elettrico dentro la sfera è uniforme e il suo valore è P 3✏ 0
Esfera =
–
– – – –
E
Ecav = E +
(11.24)
P 3✏ 0
(11.25)
Cioè il campo in una cavità sferica supera di una quantità P/3✏ 0 il campo medio. (La cavità sferica dà un campo che è a 1/3 dell’intervallo fra il campo in un taglio parallelo e quello in un taglio perpendicolare a E.)
La costante dielettrica dei liquidi. L’equazione di Clausius-Mossotti
In un liquido ci si aspetta che il campo che polarizza l’atomo singolo sia più simile a Ecav che al semplice E. Se adoperiamo Ecav dato dalla (11.25) come campo polarizzante nell’equazione (11.6), allora l’equazione (11.8) diventa ! P P = N ↵✏ 0 E + (11.26) 3✏ 0 ossia N↵ ✏ E (11.27) P= N↵ 0 1 3 1 è proprio P/✏ 0 E, abbiamo
1=
–
N↵ N↵ 1 3
P
11.7 Il campo elettrico di una sfera uniformemente polarizzata. FIGURA
Utilizzando la (11.23), si ottiene
Ricordando che
+
a
(11.23)
E = Ecav + Esfera
11.5
133
11.5 • La costante dielettrica dei liquidi. L’equazione di Clausius-Mossotti
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(11.28)
che ci dà la costante dielettrica di un liquido in funzione di ↵, ossia della polarizzabilità atomica. Questa equazione si chiama equazione di Clausius-Mossotti.
134
Capitolo 11 • Dentro ai dielettrici
TABELLA
11.1
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Calcolo delle costanti dielettriche dei liquidi a partire da quelle dei gas.
Gas Sostanza
(1)
(sperim.)
N
Liquido Densità
Densità
Rapporto(1)
N
(calc.)
(sperim.)
CS2
1,0029
0,0029
0,00339
1,293
381
1,11
2,76
2,64
O2
1,000523
0,000523
0,00143
1,19
832
0,435
1,509
1,507
CCl4
1,0030
0,0030
0,00489
1,59
325
0,977
2,45
2,24
Ar
1,000545
0,000545
0,00178
1,44
810
0,441
1,517
1,54
Rapporto = densità del liquido / densità del gas
Quando N ↵ è molto piccolo, come avviene per un gas (perché la densità N è piccola), il termine N ↵/3 può essere trascurato rispetto a 1 e si ottiene il risultato già visto con l’equazione (11.9), cioè 1 = N↵ (11.29) Confrontiamo ora l’equazione (11.28) con qualche risultato sperimentale. È necessario per prima cosa esaminare dei gas, per i quali si può trovare ↵ dall’equazione (11.29), usando la misura di . Per esempio, per il solfuro di carbonio a 0 la costante dielettrica è 1,0029, perciò N ↵ = 0,0029. La densità del gas si ricava facilmente e la densità del liquido si può trovare nei manuali. A 20 la densità del CS2 liquido è 381 volte più grande che la densità del gas a 0 . Cioè, N è 381 volte più grande nel liquido che nel gas, così che – se si fa l’approssimazione che la polarizzabilità atomica del solfuro di carbonio non cambi quando viene condensato in liquido – N ↵ nel liquido è eguale a 381 · 0,0029, ossia 1,11. Notate che il termine N ↵/3 vale quasi 0,4 e quindi è piuttosto significativo. Con queste cifre si prevede una costante dielettrica di 2,76, che si accorda ragionevolmente bene col valore osservato di 2,64. Nella TABELLA 11.1 riportiamo alcuni valori sperimentali (presi da Handbook of Chemistry and Physics), insieme con le costanti dielettriche calcolate nel modo ora descritto dall’equazione (11.28). Per l’argon e l’ossigeno l’accordo fra osservazione ed esperienza è anche migliore che per CS2 ; non così buono, invece, per il tetracloruro di carbonio. Nel complesso i risultati mostrano che l’equazione (11.28) funziona molto bene. La nostra derivazione dell’equazione (11.28) è valida soltanto per la polarizzazione elettronica nei liquidi. Non è giusta per una molecola polare, come H2 O. Se si esegue lo stesso calcolo per l’acqua, si ottiene 13,2 per il valore di N ↵, che vorrebbe dire un valore negativo per la costante dielettrica del liquido, mentre il valore osservato di è 80. Il problema è collegato al corretto trattamento dei dipoli permanenti e Onsager ha indicato la strada giusta da seguire. Non abbiamo il tempo di trattare questo caso ora, ma se v’interessa esso è discusso nel libro di Kittel, Introduction to Solid State Physics.
11.6
I dielettrici solidi
Rivolgiamoci ora ai solidi. Il primo fatto interessante riguardo ai solidi è che in essi si può avere una polarizzazione permanente intrinseca, cioè che esiste anche senza applicare un campo elettrico. Un esempio si ha con un materiale come la cera, che contiene delle lunghe molecole aventi un dipolo elettrico permanente. Se si fonde della cera e la si mette in un forte campo elettrico mentre è liquida, così che i momenti dipolari vengano in parte allineati, essi rimarranno in tale condizione quando il liquido solidifica. Il materiale solido avrà una polarizzazione permanente che rimane anche quando il campo viene tolto. Un simile solido si chiama elettrete. Un elettrete ha delle cariche permanenti di polarizzazione sulla sua superficie. Esso è l’analogo elettrico di un magnete. Non è altrettanto utile, però, perché cariche libere vaganti nell’aria sono attratte sulle sue superfici e finiscono per neutralizzare le cariche di polarizzazione: l’elettrete si «scarica» e non si manifestano più campi esterni. Una polarizzazione interna permanente P si presenta naturalmente in certe sostanze cristalline. In tali cristalli ciascuna cella del reticolo ha un identico momento dipolare permanente, come
135
11.7 • Ferroelettricità. BaTiO3
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11.8 Un reticolo cristallino complesso può avere una polarizzazione intrinseca permanente P. FIGURA
11.9 La cella fondamentale del BaTiO3 . In realtà gli atomi riempiono la maggior parte dello spazio; per chiarezza sono state indicate soltanto le posizioni dei loro centri. FIGURA
– –
– –
– –
– –
– –
+
+
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– –
+
+
+
+
+
+
+
+
+
4Å
+
Ti 4+
Ba2+
O 2–
mostra la FIGURA 11.8. Tutti i dipoli puntano nella stessa direzione, anche senza campo elettrico applicato. Molti cristalli complicati hanno effettivamente una simile polarizzazione; normalmente non ce ne accorgiamo perché i campi esterni sono stati scaricati, proprio come negli elettreti. Se però questi momenti dipolari interni di un cristallo vengono a cambiare, dei campi esterni si manifestano, perché non c’è tempo per le cariche vaganti di venire raccolte e compensare le cariche di polarizzazione. Se il dielettrico fa parte di un condensatore, delle cariche libere vengono indotte sugli elettrodi. Per esempio i momenti possono variare, a causa della dilatazione termica, quando il dielettrico viene scaldato. Questo effetto è chiamato piroelettricità. Similmente, se si variano le tensioni meccaniche in un cristallo, per esempio se lo si piega, anche in questo caso il momento può variare un poco e si può rivelare un debole effetto elettrico chiamato piezoelettricità. Nel caso di cristalli che non hanno un momento permanente, si può elaborare una teoria della costante dielettrica che si basa sulla polarizzabilità elettronica. Essa procede in modo molto simile al caso dei liquidi. Alcuni cristalli possiedono dei dipoli capaci di ruotare e anche la rotazione di questi dipoli contribuisce a . Nei cristalli ionici, come NaCl, c’è anche una polarizzabilità ionica. Il cristallo consiste in una scacchiera di ioni positivi e negativi: in un campo elettrico gli ioni positivi sono tirati per un verso e i negativi per il verso opposto; ne risulta un moto relativo delle cariche positive rispetto alle negative e quindi una polarizzazione in volume. Si potrebbe stimare l’entità della polarizzazione ionica dalla conoscenza della rigidità dei cristalli, ma qui non ci addentreremo in questo argomento.
11.7
Ferroelettricità. BaTiO3
Vogliamo ora descrivere una classe speciale di cristalli che possiedono proprio quasi casualmente un momento permanente intrinseco. Si tratta di una situazione talmente al limite che se si aumenta un poco la temperatura questi cristalli perdono del tutto il loro momento permanente. D’altra parte, se i cristalli sono quasi cubici, così che i loro momenti possono essere rivolti in diverse direzioni, si può constatare una grande alterazione del momento quando il campo elettrico applicato varia. Tutti i momenti dipolari si capovolgono e si ottiene un forte effetto. Sostanze che possiedono questo tipo di momento permanente sono chiamate ferroelettriche, dai corrispondenti effetti ferromagnetici che furono scoperti per la prima volta nel ferro. Vogliamo spiegare il meccanismo della ferroelettricità descrivendo un particolare esempio di materiale ferroelettrico. Ci sono diversi modi in cui le proprietà ferroelettriche possono prendere
136
Capitolo 11 • Dentro ai dielettrici
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origine; ma vogliamo occuparci soltanto di un caso misterioso: quello del titanato di bario, BaTiO3 . Questo materiale ha un reticolo cristallino la cui cella fondamentale è schematizzata nella FIGURA 11.9. Risulta che sopra a una certa temperatura, precisamente 118 , il titanato di bario è un dielettrico ordinario con un’enorme costante dielettrica; sotto questa temperatura, però, assume di colpo un momento permanente. Nel ricavare la polarizzazione di un materiale solido si deve per prima cosa trovare quali sono i campi locali in ciascuna cella unitaria. Dobbiamo naturalmente includere i campi che sono dovuti alla polarizzazione stessa, proprio come è stato fatto nel caso di un liquido. Il cristallo, però, non è un liquido omogeneo, quindi non si può utilizzare come campo locale quello che si otterrebbe in una cavità sferica. Se lo si calcola per un cristallo, si trova che il fattore 1/3 nell’equazione (11.24) diventa un po’ diverso, ma non lontano da 1/3. (Per un cristallo cubico semplice è proprio 1/3.) Ammetteremo perciò, in questa discussione preliminare, che il fattore per il titanato di bario (BaTiO3 ) sia 1/3. Ora, quando abbiamo scritto l’equazione (11.28) vi sarete forse domandati che cosa succederebbe se N ↵ diventasse maggiore di 3. Sembrerebbe che diventasse negativa, ma questo di certo non può essere giusto. Vediamo che cosa dovrebbe accadere se si facesse crescere gradualmente ↵ in un dato cristallo. Via via che ↵ cresce, la polarizzazione si fa più grande e produce un campo locale più grande. Ma un campo locale più grande polarizzerà di più gli atomi, facendo salire ancor più il campo locale. Se la «cedevolezza» degli atomi è sufficiente, il processo continua: c’è una sorta di accoppiamento reattivo che fa crescere senza limiti la polarizzazione, supponendo che la polarizzazione degli atomi cresca in proporzione al campo. Questa condizione «catastrofica» si verifica per N ↵ = 3. La polarizzazione naturalmente non diventa infinita, perché la proporzionalità fra il momento indotto e il campo elettrico cessa di valere per campi elevati, così che le nostre formule non sono più corrette. Ciò che accade è che il reticolo si «blocca» in una configurazione in cui c’è un’elevata polarizzazione interna, autogenerata. Nel caso del BaTiO3 c’è, in aggiunta alla polarizzazione elettronica, anche una polarizzazione ionica piuttosto grande che si presume dovuta agli ioni di titanio, i quali possono muoversi un poco dentro al reticolo cubico. Il reticolo si oppone ai grossi spostamenti, sicché dopo che il titanio si è spostato un poco esso si incaglia e si ferma, ma la cella cristallina ha acquistato con ciò un momento dipolare permanente. Nella maggior parte dei cristalli questa è in realtà la situazione per tutte le temperature che si possono raggiungere. La cosa molto interessante nel caso del titanato di bario è che in esso esiste una situazione così delicata che se N ↵ diminuisce appena un poco, il reticolo si sblocca. Siccome N diminuisce al crescere della temperatura – a causa della dilatazione termica – si può variare N ↵ col variare della temperatura. Sotto la temperatura critica il reticolo è appena appena bloccato, perciò è facile, applicando un campo esterno, spostare la polarizzazione e farla bloccare in una direzione diversa. Vediamo se si può analizzare più dettagliatamente ciò che accade. Chiamiamo Tc la temperatura critica alla quale N ↵ è esattamente 3. Quando la temperatura cresce, N cala un poco a causa della dilatazione del reticolo; siccome la dilatazione è piccola, si può dire che in vicinanza della temperatura critica si ha N↵ = 3 (T Tc ) (11.30) dove è una piccola costante dello stesso ordine di grandezza del coefficiente di dilatazione 1 . Se ora si sostituisce questa relazione nell’equazione (11.28) termica, ossia circa 10 5 -10 6 si ottiene 3 (T Tc ) 1= (T Tc ) 3 Siccome si è supposto che (T Tc ) sia piccolo rispetto a 1, si può approssimare questa formula scrivendo 9 1= (11.31) (T Tc ) Questa relazione è giusta, naturalmente, soltanto per T > Tc . Si vede che appena sopra la temperatura critica è enorme. Siccome N ↵ è così vicino a 3, c’è un formidabile effetto amplificativo
11.7 • Ferroelettricità. BaTiO3
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e la costante dielettrica può facilmente raggiungere valori come 50 000 o 100 000. Essa è anche molto sensibile alla temperatura. Per temperature crescenti la costante dielettrica diminuisce, ma, a differenza del caso di un gas dipolare per il quale 1 va come l’inverso della temperatura assoluta, nei ferroelettrici 1 va come l’inverso della differenza fra la temperatura assoluta e la temperatura critica (questa legge è chiamata legge di Curie-Weiss). Cosa succede quando si abbassa la temperatura sotto la temperatura critica? Se si immagina un reticolo fatto di celle unitarie del tipo di quelle in FIGURA 11.9, si vede che è possibile mettere in evidenza delle catene di ioni lungo linee verticali. Una di esse è fatta di ioni alterni di ossigeno e titanio. Ce ne sono altre costituite da ioni di bario, oppure di ossigeno, ma l’intervallo su queste linee è maggiore. Per imitare questa situazione facciamoci un semplice modello immaginando, come mostra la FIGURA 11.10a, una serie di catene di ioni. Lungo quella che chiameremo la catena principale, la separazione degli ioni è a, che è la metà della costante del reticolo; la distanza trasversale fra catene identiche è 2a. Interposte ci sono delle catene meno fitte che per il momento ignoreremo. Per facilitare un po’ l’analisi, supporremo che anche tutti gli ioni della catena principale siano identici. (Non è una semplificazione grave perché tutti gli effetti importanti verranno fuori lo stesso. Questo è uno degli accorgimenti della fisica teorica: si risolve un problema diverso perché è più facile a calcolarsi in un primo tempo; poi quando si è capito il meccanismo della cosa, allora viene il momento di introdurre tutte le complicazioni.) Cerchiamo ora di scoprire che cosa succederebbe secondo il nostro modello. Supponiamo che il momento dipolare di ogni atomo sia p; vogliamo calcolare il campo su uno degli atomi della catena. Dobbiamo trovare la somma dei campi di tutti gli altri atomi. Calcoliamo dapprima il campo dei dipoli di una sola catena verticale; delle altre catene diremo dopo. Il campo alla distanza r da un dipolo in direzione del suo asse è dato da E=
1 2p 4⇡✏ 0 r 3
(11.32)
Su ogni dato atomo i dipoli che si trovano a distanze uguali sopra e sotto di esso danno campi nello stesso senso, perciò per l’intera catena otteniamo ! 2 2 2 p 0,383 p 2 Ecatena = 2 + + + + ... = (11.33) 3 4⇡✏ 0 a 8 27 64 ✏ 0 a3 Non è troppo difficile mostrare che se il nostro modello fosse simile a un cristallo veramente cubico, cioè se le più prossime catene (uguali) fossero distanti solo a, il numero 0,383 diventerebbe 1/3. In altre parole, se le catene più vicine fossero a una distanza a esse contribuirebbero soltanto per 0,050 unità alla nostra somma. Invece, la catena principale più vicina che consideriamo si trova alla distanza 2a e, come ricorderete dal capitolo 7, il campo dovuto a una struttura periodica decade esponenzialmente con la distanza. Perciò queste catene contribuiscono per molto meno di 0,050 e quindi possiamo semplicemente ignorarle tutte. È ora necessario trovare che polarizzabilità a è necessaria perché si inneschi il processo catastrofico. Supponiamo che il momento indotto p di ciascun atomo della catena sia proporzionale al campo agente su di esso, come suppone l’equazione (11.6). Il campo polarizzante lo otteniamo da Ecatena , adoperando l’equazione (11.32). Perciò abbiamo le due equazioni p = ↵✏ 0 Ecatena e
0,383 p a3 ✏ 0 Ci sono due soluzioni: Ecatena e p sono entrambi nulli, oppure è Ecatena =
↵=
a3 0,383
con Ecatena e p entrambi finiti. Dunque se ↵ ha almeno il valore a3 /0,383, si stabilirà una polarizzazione permanente mantenuta dal suo proprio campo. Questa uguaglianza critica deve
137
138
Capitolo 11 • Dentro ai dielettrici
2a
a
11.10 Modelli di ferroelettrici: (a) corrisponde a un antiferroelettrico e (b) a un ferroelettrico normale. FIGURA
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essere raggiunta dal titanato di bario proprio alla temperatura Tc . (Si noti che se per campi piccoli ↵ fosse maggiore del valore critico, essa diminuirebbe per campi più grandi e all’equilibrio varrebbe la stessa uguaglianza che abbiamo trovato.) Nel BaTiO3 la distanza a è 2 · 10 8 cm, perciò dobbiamo pensare che sia ↵ = 21,8 · 10 24 cm3 . Possiamo confrontare questo valore con le polarizzabilità note dei singoli atomi. Per l’ossigeno è ↵ = 30,2 · 10 24 cm3 : siamo sulla strada giusta! Per il titanio, però, si ha ↵ = 2,4 · 10 24 cm3 , valore piuttosto piccolo. Per adoperare il nostro modello si dovrebbe probabilmente prendere la media. (Si potrebbe ricalcolare la catena per il caso di atomi alternati ma il risultato sarebbe più o meno lo stesso.) Perciò abbiamo ↵medio = 16,3 · 10 24 , che non è elevata abbastanza per dare una polarizzazione permanente. Un momento, però! Fin qui abbiamo sommato le sole polarizzabilità elettroniche. C’è anche una certa polarizzazione ionica dovuta al moto dello ione di titanio. Tutto quello che ci occorre è una polarizzabilità ionica di 9,2 · 10 24 cm3 . (Un computo più preciso, fatto con atomi alterni, mostra che effettivamente il valore richiesto è 11,9·10 24 cm3 .) Per capire le proprietà del BaTiO3 dobbiamo ammettere che esista una simile polarizzabilità ionica. Perché lo ione di titanio nel titanato di bario debba avere tanta polarizzabilità ionica, non è noto. Inoltre non è chiaro perché a temperature più basse si polarizzi con uguale facilità in direzione della diagonale del cubo come in quella della diagonale di una faccia. Se si calcolano le effettive dimensioni delle sfere in FIGURA 11.9, per vedere se il titanio si trova un poco lasco nella gabbia formata dagli atomi di ossigeno che gli sono vicini, che è quello che ci si aspetterebbe perché possa facilmente venire spostato, si trova proprio il contrario: ci sta molto stretto. Gli atomi di bario sono leggermente laschi, ma se si ammette che siano loro a muoversi, le cose non tornano. Vedete perciò che questo argomento non è chiaro al cento per cento; ci sono ancora dei misteri che si vorrebbe capire. Tornando al semplice modello della FIGURA 11.10a, vediamo che il campo di una catena tenderebbe a polarizzare le catene vicine in direzione opposta, il che vorrebbe dire che, pur essendo bloccata la polarizzazione di ogni catena, non ci sarebbe un momento risultante per unità di volume! (Pur non essendoci effetti elettrici esterni, ci sarebbero tuttavia certi effetti termodinamici che si potrebbero osservare.) Tali sistemi esistono e sono chiamati antiferroelettrici. Perciò quello che abbiamo spiegato è in realtà un antiferroelettrico. Il titanato di bario però, in realtà, è simile alla struttura in FIGURA 11.10b. Le catene ossigeno-titanio sono polarizzate tutte nella stessa direzione perché fra loro ci sono delle catene di atomi intermedie. Benché gli atomi di queste catene non siano molto polarizzabili, né molto fitti, essi si polarizzano un po’, in direzione antiparallela alle catene ossigeno-titanio. I piccoli campi prodotti sulla successiva catena ossigenotitanio ne avviano la polarizzazione in senso parallelo alla prima. Perciò il BaTiO3 è in realtà ferroelettrico, e questo avviene a causa degli atomi intermedi. Vi starete forse domandando: «Ma che cosa ne è dell’effetto diretto fra due catene O-Ti?». Ricordate però: l’effetto diretto decade esponenzialmente con la separazione; l’effetto di una catena di dipoli forti alla distanza 2a può essere minore di quello di una catena di dipoli deboli a distanza a. Con questo abbiamo completato la nostra rassegna piuttosto particolareggiata sullo stato attuale delle nostre conoscenze sulle costanti dielettriche di gas, liquidi e solidi.
12
Analogie con l’elettrostatica
12.1
Le stesse equazioni hanno le stesse soluzioni
La somma totale delle informazioni che si sono acquisite riguardo al mondo fisico dagli inizi del progresso scientifico è enorme e sembra quasi impossibile che chiunque possa conoscerne una ragionevole frazione. Effettivamente, però, è del tutto possibile per un fisico avere una vasta conoscenza del mondo della fisica, invece di diventare uno specialista in qualche ristretto campo. La ragione di questo è triplice. Primo, ci sono i grandi principi che si applicano a ogni sorta di fenomeni, come i principi della conservazione dell’energia e del momento angolare. Una comprensione completa di tali principi dà, tutta in una volta, una comprensione di un gran numero di cose. Secondo, c’è il fatto che molti fenomeni complessi, come il comportamento di un solido che viene compresso, in realtà dipendono fondamentalmente da forze elettriche e quantistiche così che se uno ha capito le leggi fondamentali dell’elettricità e della meccanica quantistica ha almeno una certa possibilità di capire molti dei fenomeni che si presentano in situazioni complesse. Infine c’è una coincidenza notevole: le equazioni per molte situazioni fisiche diverse hanno esattamente lo stesso aspetto. Naturalmente i simboli possono essere diversi – una lettera prende il posto di un’altra – ma la forma matematica delle equazioni è la stessa. Questo vuol dire che quando si è studiato un certo argomento, si hanno immediatamente moltissime conoscenze dirette e precise sulle soluzioni delle equazioni che valgono per un altro argomento. Ora abbiamo finito l’argomento dell’elettrostatica e presto passeremo allo studio del magnetismo e dell’elettrodinamica; ma prima di far questo vorremmo mostrare che imparando l’elettrostatica abbiamo contemporaneamente imparato nozioni appartenenti a un gran numero di altri argomenti. Troveremo che le equazioni dell’elettrostatica appaiono in parecchie altre circostanze della fisica. Per mezzo di una traduzione diretta delle soluzioni (naturalmente le stesse equazioni matematiche devono avere le stesse soluzioni) è possibile risolvere problemi in altri campi con la stessa facilità, o con la stessa difficoltà, che in elettrostatica. Le equazioni dell’elettrostatica, lo sappiamo, sono r · (E) =
⇢lib ✏0
r⇥E =0
(12.1) (12.2)
(Consideriamo le equazioni dell’elettrostatica in presenza di dielettrici, in modo da considerare la situazione più generale.) La stessa fisica può essere espressa in un’altra forma matematica, e cioè (12.3)
E= r r · ( r ) =
⇢lib ✏0
(12.4)
Ora, il punto importante è che ci sono molti problemi fisici le cui equazioni matematiche hanno la stessa forma. Cioè vi appare un potenziale ( ) il cui gradiente moltiplicato per una funzione scalare () ha una divergenza che uguaglia un’altra funzione scalare ( ⇢lib /✏ 0 ).
140
Capitolo 12 • Analogie con l’elettrostatica
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Qualunque conoscenza riguardo l’elettrostatica può essere immediatamente trasportata nell’altro campo e viceversa. (Il procedimento è naturalmente efficace nei due sensi: se l’altro campo ha delle particolari caratteristiche che conosciamo, potremo applicare tale conoscenza al corrispondente problema elettrostatico.) Vogliamo considerare una serie di esempi tratti da diversi campi che portano a equazioni della forma ora vista.
12.2
Il flusso di calore. Una sorgente puntiforme vicina a un piano di separazione infinito
Abbiamo discusso il flusso di calore in un esempio precedente (paragrafo 3.4). Immaginiamo un blocco di materiale, che non occorre sia omogeneo, ma può consistere di materiali diversi in punti diversi, nel quale la temperatura varia da punto a punto. Come conseguenza di queste variazioni di temperatura, c’è un flusso di calore che può essere rappresentato dal vettore h. Questo rappresenta la quantità di energia termica che fluisce per unità di tempo attraverso l’unità di superficie perpendicolare al flusso. La divergenza di h rappresenta il calore per unità di tempo che lascia l’unità di volume nella regione che si considera: r · h = calore uscente per unità di tempo e di volume (Si potrebbe, naturalmente, scrivere l’equazione in forma integrale – proprio come si è fatto in elettrostatica per la legge di Gauss – nel qual caso essa direbbe che il flusso attraverso una superficie è eguale alla rapidità di variazione dell’energia termica contenuta nel materiale. Non ci imbarazzeremo a tradurre le equazioni in un senso o nell’altro fra le due forme differenziale e integrale, perché tutto va esattamente come in elettrostatica.) La rapidità con la quale il calore viene generato o assorbito nei vari punti dipende naturalmente dal problema. Supponiamo per esempio che ci sia una sorgente di calore dentro al materiale (potrà essere una sorgente radioattiva, oppure una resistenza scaldata da una corrente elettrica). Chiamiamo s l’energia termica prodotta per unità di volume e per secondo da questa sorgente. Ci potranno anche essere degli scambi fra l’energia termica e altre forme di energia interna del materiale; perciò se u è l’energia interna per unità di volume, du/dt sarà pure una «sorgente» di energia termica. Abbiamo dunque r·h = s
du dt
(12.5)
Non è questo il momento di andare a discutere l’equazione completa in cui le cose cambiano col tempo, perché stiamo facendo un’analogia con l’elettrostatica in cui nulla dipende dal tempo. Considereremo perciò soltanto problemi di flusso di calore stazionario, in cui delle sorgenti costanti hanno prodotto uno stato d’equilibrio. In questi casi si ha r·h = s
(12.6)
È naturalmente necessario avere un’altra equazione che descrive come il calore fluisce nei vari punti. In molti materiali la corrente di calore è approssimativamente proporzionale alla variazione di temperatura in uno spostamento unitario: quanto più grande è la differenza di temperatura tanto più intensa è la corrente di calore. Come si è visto la corrente vettoriale di calore è proporzionale al gradiente di temperatura. La costante di proporzionalità K, che è una proprietà del materiale, è chiamata conduttività termica. Si ha dunque h = K rT
(12.7)
Se le proprietà del materiale variano da punto a punto, allora si ha K = K(x, y, z), ossia K è una funzione del punto. (L’equazione (12.7) non è altrettanto fondamentale della (12.5), che esprime
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141
12.2 • Il flusso di calore. Una sorgente puntiforme vicina a un piano di separazione infinito
la conservazione dell’energia termica, perché la (12.7) dipende da una particolare proprietà della sostanza.) Se ora sostituiamo l’equazione (12.7) nella (12.6), abbiamo r · (K rT) = s (12.8)
h
che ha esattamente la stessa forma della (12.4). I problemi stazionari di r conduzione del calore e i problemi elettrostatici sono gli stessi. Il vettore b a flusso termico h corrisponde a E e la temperatura T corrisponde a . T1 Si è già notato che una sorgente puntiforme di calore produce un campo K di temperatura che varia come 1/r e un flusso di calore che varia come 2 1/r . Questo è nient’altro che la traduzione delle affermazioni fatte in elettrostatica che una carica puntiforme genera un potenziale che varia come 1/r e un campo elettrico che varia come 1/r 2 . Si può, in generale, T2 (a) risolvere i problemi stazionari del calore altrettanto facilmente di quelli elettrostatici. Consideriamo un esempio semplice. Supponiamo di avere un cilindro di raggio a alla temperatura T1 mantenuta dalla generazione di calore nelE l’interno del cilindro. (Potrebbe essere, per esempio, un filo che trasporta una corrente, o un tubo con dentro del vapore che condensa.) Il cilindro r b è coperto da una guaina concentrica di materiale isolante che ha la cona duttività K. Mettiamo che il raggio esterno dell’isolante sia b e che la f1 temperatura esterna sia mantenuta al valore T2 (FIGURA 12.1a). Vogliamo K trovare il calore perduto per unità di tempo dal filo o dal tubo o qualunque cosa sia, che si trova al centro. Indichiamo con G il calore complessivo perso da una lunghezza L del tubo: è ciò che stiamo tentando di trovare. f2 Come possiamo risolvere questo problema? Le equazioni differenziali (b) le abbiamo, ma siccome queste sono le stesse di quelle dell’elettrostatica, il problema matematico lo abbiamo in realtà già risolto. Il problema analogo è quello di un conduttore di raggio a che si trova al potenziale 1 , separato FIGURA 12.1 (a) Flusso di calore in geometria da un altro conduttore di raggio b, che è al potenziale 2 , da uno strato con- cilindrica. (b) Il problema elettrico corrispondente. centrico di materiale dielettrico interposto, come mostra la FIGURA 12.1b. Siccome il flusso di calore h corrisponde al campo elettrico E, la grandezza G che vogliamo trovare corrisponde al flusso del campo elettrico per unità di lunghezza del tubo interno (quindi, in altre parole, alla carica elettrica per unità di lunghezza divisa per ✏ 0 ). Il problema elettrostatico lo abbiamo risolto usando la legge di Gauss. Seguiremo lo stesso procedimento per il nostro problema di conduzione di calore. Dalla simmetria della situazione, sappiamo che h deve dipendere soltanto dalla distanza dal centro. Perciò chiudiamo il tubo in un cilindro gaussiano di lunghezza L e raggio r. Dal teorema di Gauss sappiamo che il flusso termico h moltiplicato per l’area 2⇡r L della superficie deve essere uguale al calore complessivo generato nell’interno, che è ciò che abbiamo chiamato G: 2⇡r Lh = G ossia
G 2⇡r L Il flusso termico è proporzionale al gradiente di temperatura: h=
(12.9)
h = K rT ossia, in questo caso, il modulo di h è h= K Questo, insieme a (12.9) ci dà
dT = dr
dT dr
G 2⇡K Lr
(12.10)
142
Capitolo 12 • Analogie con l’elettrostatica
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Integrando da r = a a r = b, si ottiene T2
T1 =
G b ln 2⇡K L a
(12.11)
Risolvendo per G troviamo
2⇡K L (T1 T2 ) (12.12) b ln a Questo risultato corrisponde esattamente a quello per la carica in un condensatore cilindrico: G=
Q=
2⇡✏ 0 L (
1
2)
b ln a
I problemi sono gli stessi e hanno le medesime soluzioni. Dalla nostra conoscenza dell’elettrostatica, veniamo a sapere anche quanto calore viene perduto da un tubo con un rivestimento isolante. Consideriamo un altro esempio di conduzione di calore. Supponiamo di voler conoscere il flusso di calore nelle vicinanze di una sorgente termica puntiforme collocata un po’ sotto la superficie della terra oppure sotto quella di un grande blocco metallico. La sorgente termica localizzata potrebbe essere stata una bomba atomica fatta esplodere sotto terra, che ha dato luogo a un’intensa sorgente di calore, oppure potrebbe corrispondere a una piccola sorgente radioattiva dentro un blocco di ferro: ci sono numerose possibilità. Il problema idealizzato che tratteremo è quello di una sorgente termica puntiforme d’intensità G che si trova alla distanza a sotto la superficie di un blocco infinito di materiale uniforme la cui conduttività termica è K. Trascureremo la conduttività termica dell’aria fuori dal materiale. Vogliamo determinare la distribuzione della temperatura sulla superficie del blocco. Quanto caldo fa direttamente sopra alla sorgente oppure in altri punti della superficie del blocco? Come si potrà risolvere questo problema? Esso è simile a un problema elettrostatico in cui si abbiano due materiali con costanti dielettriche diverse ai lati opposti di una superficie di separazione piana. Benissimo! Forse è l’analogo di una carica puntiforme posta vicino alla superficie che separa un dielettrico da un conduttore, o qualcosa di simile. Vediamo qual è la situazione vicino alla superficie. La condizione fisica da imporre è che la componente normale di h sulla superficie sia nulla, giacché abbiamo supposto che non c’è flusso di calore fuori del blocco. Ci si dovrebbe domandare: in quale problema elettrostatico si ha la condizione che la componente normale del campo elettrico E (che è l’analogo di h) è nulla su una superficie? Non ce n’è nessuno! Questa è una delle cose alle quali si deve stare attenti. Per ragioni fisiche, ci possono essere delle restrizioni ai tipi di condizioni matematiche che si presentano in un generico campo. Perciò, se abbiamo analizzato un’equazione differenziale soltanto in certi casi limitati, ci possono essere sfuggiti dei tipi di soluzioni che si possono presentare in altre situazioni fisiche. Per esempio, non c’è alcun materiale che abbia costante dielettrica zero, mentre il vuoto ha proprio una conducibilità termica zero. Perciò non c’è nessun analogo elettrostatico di un isolante termico perfetto. Possiamo però usare ancora gli stessi metodi. Possiamo cercare di immaginare che cosa accadrebbe se la costante dielettrica fosse zero. (Naturalmente la costante dielettrica non sarà mai zero in nessuna situazione reale. Si potrebbe però avere il caso in cui c’è un materiale con una costante dielettrica molto elevata, così da poter trascurare la costante dielettrica dell’aria esternamente a esso.) Come possiamo trovare un campo elettrico che non ha componente perpendicolarmente alla superficie? Cioè un campo che è sempre tangente alla superficie? Noterete che questo problema è l’opposto di quello di una carica puntiforme vicina a un conduttore piano. In quel caso si voleva che il campo fosse perpendicolare alla superficie, perché il conduttore era tutto allo stesso potenziale. Nel caso del problema elettrico si inventò una soluzione immaginando una carica puntiforme dietro la lastra conduttrice. Possiamo adoperare di nuovo la stessa idea. Cerchiamo di scegliere una sorgente immaginaria che automaticamente faccia diventare nulla la componente normale del
campo sulla superficie. La soluzione è mostrata in FIGURA 12.2. Una sorgente immaginaria dello stesso segno e della stessa densità posta alla distanza a sopra la superficie farà sì che il campo sia sempre orizzontale sulla superficie. Le componenti normali delle due sorgenti si compensano infatti esattamente. Così il nostro problema di conduzione del calore è risolto. A causa dell’analogia, la temperatura è dappertutto la stessa del potenziale dovuto a due cariche puntiformi! La temperatura T alla distanza r da un’unica sorgente puntiforme G in un mezzo infinito è T=
K=0 a
a K
G 4⇡Kr
(12.13)
Questo, naturalmente, non è che l’analogo della formula =
q 4⇡✏ 0 R
T
Questa formula ci dà la temperatura in ogni punto del blocco. Diverse superfici isoterme sono indicate in FIGURA 12.2. Sono pure indicate delle linee di h, che si possono ottenere da h = K rT. Inizialmente era stata richiesta la distribuzione della temperatura sulla superficie. Per un punto sulla superficie alla distanza ⇢ dall’asse è q r 1 = r 2 = ⇢2 + a2 così che si ha
Tsuperficie =
h
T = cost.
Temperatura della superficie
La temperatura nel caso di una sorgente puntiforme accompagnata dalla sua immagine è G G T= + (12.14) 4⇡Kr 1 4⇡Kr 2
1 2G p 4⇡K ⇢2 + a2
0
a
2a
12.2 Flusso di calore e isoterme vicino a una sorgente puntiforme di calore posta alla distanza a sotto la superficie di un buon conduttore termico. È indicata una sorgente-immagine fuori dal materiale. FIGURA
(12.15)
Anche questa funzione è indicata nella figura. La temperatura è naturalmente più alta direttamente sopra alla sorgente che in punti più lontani. Questo è un tipo di problema che i geofisici hanno spesso bisogno di risolvere. Adesso vediamo che si tratta di situazioni dello stesso genere di quelle che abbiamo già risolto in elettricità.
12.3
143
12.3 • La membrana tesa
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La membrana tesa
Consideriamo ora una situazione fisica completamente diversa, che, tuttavia, dà di nuovo le stesse equazioni. Consideriamo un foglio sottile di gomma, ossia una membrana, che è stata tesa sopra un grande telaio orizzontale (come la pelle di un tamburo). Supponiamo che questa membrana in un punto sia spinta in su e in un altro in giù, come indica la FIGURA 12.3. Possiamo descrivere la forma della superficie? Mostreremo come si può risolvere il problema quando la deflessione della membrana non è troppo grande. Ci sono delle forze nella membrana in quanto essa è tesa. Se si facesse un piccolo taglio in un punto qualunque, i due margini del taglio si separerebbero (FIGURA 12.4); perciò c’è una tensione superficiale nella membrana, analoga alla tensione unidimensionale che si ha in una corda tesa. Definiremo la grandezza di questa tensione superficiale come la forza per unità di lunghezza che sarebbe giusto sufficiente a tenere insieme i due margini di un taglio simile a uno di quelli indicati in FIGURA 12.4. Supponiamo ora di esaminare una sezione verticale della membrana. Essa apparirà come una curva simile a quella di FIGURA 12.5. Sia u lo spostamento verticale della membrana dalla sua
144
Capitolo 12 • Analogie con l’elettrostatica
12.3 Un foglio sottile di gomma teso su un telaio cilindrico (come una pelle di tamburo). Se il foglio è spinto su in A e giù in B, quale sarà la forma della superficie?
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FIGURA
A
B
12.4 La tensione superficiale di un foglio di gomma teso è la forza per unità di lunghezza lungo un taglio. FIGURA
posizione normale e siano x, y le coordinate in un piano orizzontale. (La sezione indicata è parallela all’asse x.) Consideriamo un pezzettino della superficie, di lunghezza x e larghezza y. Su di esso agiranno le forze dovute alla tensione superficiale su ciascuno dei lati. La forza sul lato indicato con 1 nella figura sarà ⌧1 y, diretta tangenzialmente alla superficie, cioè formante un angolo ✓ 1 col piano orizzontale. Sul lato 2, la forza sarà ⌧2 y, sotto l’angolo ✓ 2 . (Ci saranno forze simili sugli altri due lati del rettangolino, ma per il momento le ignoreremo.) La forza risultante all’insù, dovuta ai lati 1 e 2 è dunque. F = ⌧2 y sen ✓ 2
⌧1 y sen ✓ 1
Limiteremo le nostre considerazioni alle piccole distorsioni della membrana, cioè alle pendenze piccole: possiamo allora sostituire sen ✓ con tg ✓, che può essere scritta @u/@ x. La forza è allora ! 26 @u F = 66⌧2 @x 2 64
⌧1
@u @x
! 3 77 7 y 1 75
La grandezza tra parentesi quadre può ugualmente essere scritta (per x piccolo) come ! @ @u ⌧ x @x @x e quindi F=
@ @u ⌧ @x @x
!
x y
Ci sarà un altro contributo F dalle forze sugli altri due lati; il totale è evidentemente ! !3 26 @ @u @ @u 77 6 F=6 ⌧ + ⌧ x y @x @y @ y 77 64 @ x 5
(12.16)
La distorsione del diaframma è prodotta da forze esterne. Indichiamo con f la forza per unità di superficie diretta verso l’alto dovuta alle forze esterne applicate alla membrana (una sorta di «pressione»). Quando la membrana è in equilibrio (caso statico) questa forza deve essere compensata dalla forza interna che abbiamo calcolato ora, espressa dall’equazione (12.16). Si deve avere cioè F f = x y L’equazione (12.16) può perciò essere scritta f = r · (⌧ ru)
(12.17)
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12.4 • La diffusione dei neutroni. Una sorgente sferica uniforme in un mezzo omogeneo
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12.5 Sezione trasversale di una membrana deflessa. FIGURA
2
1
2
∆x
u u
1
x
dove con r intendiamo naturalmente l’operatore gradiente bidimensionale (@/@ x, @/@ y). Abbiamo qui l’equazione differenziale che mette in relazione u(x, y) con le forze applicate f (x, y) e la tensione superficiale ⌧(x, y), che in generale può variare da punto a punto della membrana. (La distorsione di un corpo elastico tridimensionale è anch’essa governata da equazioni simili, ma ci limiteremo a due dimensioni.) Ci occuperemo soltanto del caso in cui la tensione ⌧ è costante su tutta la membrana. L’equazione (12.17) può allora essere scritta r2 u =
f ⌧
(12.18)
Abbiamo ancora un’equazione che è la stessa che in elettrostatica! Soltanto, questa volta, l’analogia si limita a due dimensioni. Lo spostamento u corrisponde a e f /⌧ corrisponde a ⇢/✏ 0 . Perciò tutto quello che abbiamo fatto per i casi di piani carichi infiniti oppure di lunghi fili paralleli o di cilindri carichi è applicabile direttamente al problema della membrana tesa. Supponiamo di spingere la membrana in certi punti fino a una data altezza, cioè di fissare il valore di u in certi luoghi. Questo è l’analogo di avere un dato potenziale nei corrispondenti punti in un problema elettrico. Così, per esempio, possiamo stabilire un «potenziale» positivo spingendo in su la membrana con un oggetto la cui sezione trasversale ha la forma del corrispondente conduttore cilindrico. Per esempio se spingiamo la membrana con una sbarra tonda, la superficie prenderà la forma indicata in FIGURA 12.6. L’altezza u va nello stesso modo del potenziale elettrostatico di una sbarra cilindrica carica. Essa decresce come ln(1/r). (La pendenza, che corrisponde al campo elettrico, diminuisce come 1/r.) La membrana di gomma tesa è stata usata spesso come un mezzo per risolvere sperimentalmente problemi elettrici complicati. L’analogia in questo caso viene adoperata alla rovescia! Varie bacchette e sbarre vengono spinte contro la membrana ad altezze che corrispondono ai potenziali di un sistema di elettrodi. Misure d’altezza danno quindi il potenziale elettrico cercato. L’analogia è stata spinta anche oltre. Se delle palline vengono poste sulla membrana, il loro moto corrisponde approssimativamente al moto degli elettroni nell’equivalente campo elettrico. Si può effettivamente osservare gli «elettroni» muoversi sulle loro traiettorie. Questo metodo è stato adoperato per progettare la complicata forma di molti fotomoltiplicatori (come quelli che si adoperano coi contatori a scintillazione e quello che serve a controllare i fasci di luce dei fari anteriori nelle automobili Cadillac). Il metodo è adoperato tuttora, ma la sua precisione è limitata. Per un lavoro di maggior precisione è meglio determinare i campi con metodi numerici, usando le grandi macchine calcolatrici elettroniche.
12.4
12.6 Sezione trasversale di una membrana tesa che viene spinta su da una sbarra tonda. La funzione u(x, y) è la stessa del potenziale elettrico (x, y) vicino a una sbarra carica molto lunga. FIGURA
Membrana
La diffusione dei neutroni. Una sorgente sferica uniforme in un mezzo omogeneo
Facciamo un altro esempio, connesso questa volta con la diffusione, che dà lo stesso tipo di legge matematica. Nel cap. 43 del vol. 1 si considerò la diffusione degli ioni in un dato gas e quella di un gas attraverso un altro gas. Questa volta faremo un esempio diverso: la diffusione dei neutroni in un materiale come la grafite. Si è scelto il caso della grafite (una forma del carbonio) perché il carbonio non assorbe i neutroni lenti; in esso i neutroni sono liberi di vagare in giro.
146
Capitolo 12 • Analogie con l’elettrostatica
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Essi procedono in linea retta per diversi centimetri, in media, prima di urtare un nucleo ed essere deflessi in una nuova direzione. Perciò se si ha un grande blocco, delle dimensioni di molti metri, i neutroni che inizialmente si trovano in un punto diffonderanno verso altri punti. Vogliamo trovare una descrizione del loro comportamento medio, cioè del loro flusso medio. Sia N(x, y, z) V il numero di neutroni nell’elemento di volume V nel punto (x, y, z). A causa del loro moto, alcuni neutroni abbandoneranno V e altri vi arriveranno. Se in una regione ci sono più neutroni che in una regione vicina, più neutroni andranno dalla prima regione verso la seconda e viceversa: ci sarà un flusso risultante. Seguendo il ragionamento del cap. 43 del vol. 1, descriveremo il flusso per mezzo di un vettore flusso J. La sua componente Jx lungo l’asse x è il numero complessivo di neutroni che attraversano nell’unità di tempo l’unità di superficie perpendicolare all’asse x. Risulta @N Jx = D (12.19) @x dove il coefficiente di diffusione D è dato, in funzione della velocità media v e del cammino libero medio l fra un urto e l’urto successivo, dalla relazione D=
1 lv 3
L’equazione vettoriale per J è (12.20)
J = D rN
Il numero di neutroni per unità di tempo che fluiscono attraverso un qualsiasi elemento di superficie da è J · n da (dove, al solito, n è il versore normale). Il flusso complessivo uscente da un elemento di volume è quindi (in forza dell’abituale ragionamento gaussiano) r · J dV . Questo flusso avrebbe per conseguenza una diminuzione col tempo del numero di neutroni in V , a meno che questi non vengano creati nel V (da qualche processo nucleare). Se nel volume ci sono delle sorgenti che generano S neutroni per unità di tempo e di volume, allora il flusso netto uscente da V sarà uguale a @N S V @t
Grafite
Vettore flusso neutronico J Regione dove si producono i neutroni
12.7 (a) Dei neutroni vengono prodotti uniformemente nel volume di una sfera di raggio a in un grande blocco di grafite e poi diffondono all’esterno. Si determina la densità N dei neutroni in funzione di r, distanza dal centro della sorgente. (b) L’analoga situazione elettrostatica: una sfera uniforme di carica in cui N corrisponde a e J corrisponde a E.
Campo elettrico E
FIGURA
f
N
0
0 a
r
a
r
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12.4 • La diffusione dei neutroni. Una sorgente sferica uniforme in un mezzo omogeneo
Abbiamo perciò @N @t
r·J = S
(12.21)
Combinando le (12.21) e (12.20) otteniamo l’equazione di diffusione dei neutroni: r · ( D rN) = S
@N @t
(12.22)
Nel caso statico (quando si ha @ N/@t = 0) otteniamo ancora una volta l’equazione (12.4)! Possiamo perciò adoperare la nostra conoscenza dell’elettrostatica per risolvere dei problemi sulla diffusione dei neutroni. Risolviamone dunque uno. (Vi domanderete, forse: perché risolvere un problema se li abbiamo già risolti tutti in elettrostatica? Questa volta però lo possiamo fare più rapidamente proprio perché abbiamo risolto i problemi elettrostatici!) Supponiamo di avere un blocco di materiale in cui i neutroni vengono generati uniformamente, mettiamo per fissione dell’uranio, in tutta una regione sferica di raggio a (FIGURA 12.7). Si vorrebbe sapere: qual è la densità di neutroni in ogni punto? Quanto tale densità è uniforme nella regione dove i neutroni vengono prodotti? Qual è il rapporto della densità neutronica al centro e alla superficie della regione di produzione? È facile trovare le risposte. La densità di sorgente S0 sostituisce la densità di carica ⇢, perciò il nostro problema è lo stesso di quello di una sfera con un’uniforme densità di carica. Trovare N è proprio lo stesso come trovare il potenziale . Abbiamo già ricavato i campi dentro e fuori di una sfera uniformamente carica; possiamo integrarli e ottenere il potenziale. All’esterno il potenziale è =
esterno
con la carica totale data da Q=
Q 4⇡✏ 0 r
4⇡a3 ⇢ 3
e perciò risulta esterno
=
⇢a3 3✏ 0 r
(12.23)
Per i punti interni, il campo è dovuto soltanto alla carica Q(r) interna alla sfera di raggio r: Q(r) =
4⇡r 3 ⇢ 3
perciò si ha E=
⇢r 3✏ 0
(12.24)
Il campo cresce quindi linearmente con r. Integrando E, per ottenere , abbiamo interno
Per r = a deve essere
interno
=
esterno ,
=
⇢r 2 + cost. 6✏ 0
perciò la costante risulta ⇢a2 2✏ 0
(Si ammette che sia zero a grande distanza dalla sorgente, ciò che corrisponde all’annullarsi della densità N dei neutroni.) Si ha in definitiva interno
=
⇢ * 3a2 3✏ 0 , 2
r2 + 2-
(12.25)
147
148
Capitolo 12 • Analogie con l’elettrostatica
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Da qui si ricava immediatamente la densità di neutroni nel nostro problema. Essa è Nesterno = e Ninterno =
Sa3 3Dr S * 3a2 3D , 2
(12.26) r2 + 2-
(12.27)
N in funzione di r è mostrato in FIGURA 12.7. E adesso qual è il rapporto fra la densità al centro e quella alla periferia della sorgente? Al centro (r = 0) essa è proporzionale a 3a2 /2; alla periferia (r = a) essa è proporzionale a 2a2 /2, perciò il rapporto delle densità è 3/2. Una sorgente uniforme non produce una uniforme densità di neutroni. Come vedete, la nostra conoscenza dell’elettrostatica ci dà un buon avvio nella fisica dei reattori nucleari. Ci sono molte circostanze in fisica in cui la diffusione ha una parte molto importante. Il moto degli ioni attraverso un liquido o quello degli elettroni in un semiconduttore obbediscono alla stessa equazione. Le stesse equazioni si ritrovano più e più volte.
12.5
Il flusso irrotazionale dei fluidi. Il flusso intorno a una sfera
Consideriamo ora un esempio che veramente non è molto buono, perché le equazioni che useremo non rappresentano le cose con completa generalità, ma soltanto una situazione artificialmente idealizzata. Vogliamo affrontare il problema del flusso dell’acqua. Nel caso della membrana tesa le nostre equazioni ci davano un’approssimazione che era corretta soltanto per piccole deflessioni. Nel considerare il flusso dell’acqua non faremo un’approssimazione di quel tipo; dovremo fare delle restrizioni che non si applicano affatto al caso reale. Tratteremo infatti soltanto il caso del flusso stazionario di un liquido incomprimibile, non viscoso, a circuitazione nulla. Rappresentiamo quindi il flusso dando la velocità v(r) come funzione della posizione r. Se il moto è stazionario (il solo caso per il quale c’è una analogia elettrostatica), v è indipendente dal tempo. Se ⇢ è la densità del fluido, il prodotto ⇢v è la massa che passa per unità di tempo attraverso l’unità di superficie. A causa della conservazione della materia, la divergenza di ⇢v sarà, in generale, la variazione della massa di materiale per unità di volume e di tempo. Ammettiamo che non ci siano processi di creazione o distruzione continua di materia. Allora la conservazione della materia esige che si abbia r · ⇢v = 0 In generale, dovrebbe essere @⇢ @t ma siccome abbiamo un fluido incomprimibile, ⇢ non può cambiare nel tempo. Dato che ⇢ è dovunque lo stesso, lo possiamo mettere a fattore comune ed eliminarlo; la nostra equazione diventa semplicemente: r·v =0 r · ⇢v =
Bene! Abbiamo di nuovo l’elettrostatica (in assenza di cariche), perché l’equazione è proprio simile a r·E =0 Invece non e così! Infatti l’elettrostatica non consiste semplicemente nella legge r · E = 0, ma si fonda su una coppia di equazioni. Un’equazione soltanto non ci dice abbastanza: occorre ancora un’equazione in più. Per essere conformi all’elettrostatica si dovrebbe avere anche rot v = 0. Questo, però, generalmente non è vero per i liquidi reali. La maggior parte dei liquidi reali
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149
12.5 • Il flusso irrotazionale dei fluidi. Il flusso intorno a una sfera
rivelano ordinariamente una circuitazione non nulla. Ci si deve perciò limitare a quelle situazioni in cui non si ha circuitazione del fluido. Un flusso di tal genere è spesso chiamato irrotazionale. Comunque, se si fanno tutte queste ipotesi, si può immaginare il caso del flusso di un fluido che è analogo all’elettrostatica. Quindi prendiamo e
r·v =0
(12.28)
r⇥v =0
(12.29)
Vogliamo sottolineare che il numero dei casi in cui il flusso di un liquido segue queste equazioni è lontano da essere la grande maggioranza; ce ne sono però alcuni. In questi casi si deve poter trascurare tensione superficiale, comprimibilità e viscosità e si deve poter ammettere che il flusso è irrotazionale. Per l’acqua vera e propria queste ipotesi sono valide così raramente che il matematico J. von Neumann disse che quelli che analizzano le equazione (12.28) e (12.29) studiano l’acqua «asciutta»! (Riprenderemo il problema del flusso dei fluidi con maggior dettaglio nei capitoli 40 e 41.) Essendo r ⇥ v = 0, la velocità dell’acqua «secca» si può scrivere come il gradiente di un certo potenziale v= r (12.30) Qual è il significato fisico di ? Non esiste nessun significato molto utile. La velocità può essere scritta come il gradiente di un potenziale semplicemente perché il flusso è irrotazionale e, per analogia con l’elettrostatica, viene chiamato potenziale della velocità, ma non è connesso a un’energia potenziale come lo è . Siccome la divergenza di v è nulla, si ha r · (r ) = r2 = 0
(12.31)
Il potenziale della velocità obbedisce alla stessa equazione differenziale del potenziale elettrostatico nello spazio libero (⇢ = 0). Scegliamo un problema di flusso irrotazionale e vediamo se lo possiamo risolvere coi metodi che abbiamo imparato. Si consideri il problema di una palla sferica che cade attraverso un liquido. Se va troppo piano, le forze viscose, che abbiamo trascurato, saranno importanti; se va troppo veloce, piccoli vortici (turbolenza) appariranno nella sua scia e ci sarà una certa circuitazione dell’acqua. Ma se la palla non va né troppo veloce né troppo piano, sarà più o meno vero che il flusso è conforme alle nostre ipotesi e si potrà descrivere il moto dell’acqua con le nostre semplici equazioni. Conviene descrivere ciò che accade in un sistema di riferimento fisso con la sfera. In questo riferimento ci poniamo il seguente problema: in che modo l’acqua fluisce intorno a una sfera in quiete quando il flusso a grande distanza è uniforme? Cioè quanto lontano dalla sfera il flusso è lo stesso dappertutto? Il flusso vicino alla sfera sarà com’è indicato dalle linee di flusso tracciate in FIGURA 12.8. Queste linee, sempre parallele a v, corrispondono alle linee del campo elettrico. Vogliamo ottenere una descrizione quantitativa del campo di velocità, cioè un’espressione per la velocità in un qualsiasi punto P. Possiamo trovare la velocità dal gradiente di , perciò ricaviamo prima il potenziale. Vogliamo un potenziale che soddisfi l’equazione (12.31) dappertutto e che soddisfi inoltre a due restrizioni:
P
v
r
1 non c’è flusso nella regione sferica interna alla superficie della palla; 2 a grande distanza il flusso è costante. Per soddisfare il punto 1, la componente di v normale alla superficie della sfera deve essere zero. Ciò significa che @ /@r è zero per r = a. Per soddisfare il punto 2 dobbiamo avere @ /@z = v0 in tutti i punti in cui si ha r a. A rigore, non c’è un caso elettrostatico che corrisponda esattamente a questo problema. Esso in realtà corrisponderebbe a mettere una sfera di
12.8 Il campo di velocità del flusso irrotazionale di un fluido intorno a una sfera. FIGURA
150
Capitolo 12 • Analogie con l’elettrostatica
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costante dielettrica zero in un campo elettrico uniforme. Se si fosse ricavata la soluzione del problema di una sfera di costante dielettrica in un campo uniforme, allora, ponendo = 0 si otterrebbe subito la soluzione del nostro problema. Non abbiamo effettivamente risolto in dettaglio quel particolare problema elettrostatico: facciamolo ora. (Si potrebbe trattare direttamente il problema di flusso, con v e , ma adopereremo E e perché siamo tanto abituati a questi concetti.) Il problema è: trovare una soluzione dell’equazione r2 = 0, tale che E = r è una costante, poniamo E0 , per grandi r e tale che la componente radiale di E è nulla per r = a. Cioè @ @r
r=a
=0
(12.32)
Questo problema implica un nuovo tipo di condizione ai limiti, per la quale invece di avere costante su una superficie, si ha @ /@r costante. Questa è una cosa un po’ diversa e non è facile trovare immediatamente la soluzione. In primo luogo, senza la sfera, sarebbe E0 z; allora E sarebbe diretto come z e avrebbe dappertutto il modulo costante E0 . Ora, abbiamo analizzato il caso di una sfera dielettrica uniformemente polarizzata e si è trovato che il campo dentro la sfera è uniforme e che all’esterno è lo stesso di quello di un dipolo posto nel centro. Facciamo perciò la congettura che la soluzione cercata sia la sovrapposizione di un campo uniforme e di un campo di dipolo. Il potenziale di un dipolo (capitolo 6) è pz 4⇡✏ 0 r 3 Perciò supponiamo che sia = E0 z +
pz 4⇡✏ 0 r 3
(12.33)
Siccome il campo di dipolo decade come 1/r 3 , a grandi distanze rimarrà il solo campo E0 . La nostra congettura soddisfa dunque automaticamente la precedente condizione 2. Ma che valore prenderemo per il modulo p del dipolo? Per trovarlo possiamo usare l’altra condizione per , cioè l’equazione (12.32). Dobbiamo derivare rispetto a r, ma naturalmente dobbiamo farlo tenendo costante l’angolo ✓, perciò è più comodo esprimere prima in funzione di r e ✓, piuttosto che di z e r. Siccome z = r cos ✓, otteniamo = E0 r cos ✓ +
p cos ✓ 4⇡✏ 0 r 2
(12.34)
La componente radiale di E è @ p cos ✓ = +E0 cos ✓ + @r 2⇡✏ 0 r 3
(12.35)
Questa espressione deve essere zero per r = a, qualunque sia ✓. Ciò è vero se è p = 2⇡✏ 0 a3 E0
(12.36)
Notate bene che se ambedue i termini nell’equazione (12.35) non avessero avuto la stessa dipendenza da ✓, non sarebbe stato possibile scegliere p in modo che la (12.35) risultasse nulla per r = a per tutti gli angoli. Il fatto che la cosa riesce vuol dire che nello scrivere l’equazione (12.33) abbiamo visto giusto. Naturalmente quella congettura fu fatta tenendo d’occhio dove si voleva arrivare; si sapeva che ci sarebbe voluto un altro termine che: • soddisfacesse la condizione r2 = 0 (qualsiasi effettivo campo elettrico lo fa); • dipendesse da cos ✓; • andasse a zero per r grande. Il campo di dipolo è l’unico che soddisfi tutte queste tre condizioni. Usando la (12.36) il potenziale diventa a3 = E0 cos ✓ *r + 2 + 2r ,
(12.37)
12.6 • L’illuminazione uniforme di un piano
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151
La soluzione del problema del flusso può scriversi semplicemente a3 = v0 cos ✓ *r + 2 + 2r ,
(12.38)
La velocità v segue in modo diretto da questo potenziale e noi non staremo a trattare l’argomento più oltre.
12.6
L’illuminazione uniforme di un piano
In questo paragrafo prenderemo in considerazione un problema fisico completamente diverso. (Vogliamo far vedere la grande varietà di casi possibili.) Questa volta ci occuperemo di qualcosa che conduce a un tipo d’integrale che abbiamo già trovato in elettrostatica. (Se si ha un problema matematico che ci dà un certo integrale, si conosce già qualcosa sulle proprietà di tale integrale se è lo stesso che abbiamo incontrato in un altro problema.) Prenderemo il nostro esempio dall’illuminotecnica. Supponiamo di avere una sorgente di luce alla distanza a sopra una superficie piana. Quant’è l’illuminazione della superficie? Cioè quant’è S l’energia raggiante che arriva nell’unità di tempo sull’unità d’area delr la superficie? (FIGURA 12.9) Supporremo che la sorgente sia sfericamente simmetrica, così che la luce è irraggiata ugualmente in tutte le direzioni. I = S/r 2 z Allora la quantità di energia raggiante che passa attraverso l’unità di superficie che taglia il flusso luminoso ad angolo retto, varia come l’inverso del quadrato della distanza. È evidente che l’intensità dell’illuminazione di una superficie normale al flusso è data dallo stesso tipo di formula che si ha per il campo elettrico di una sorgente puntiforme. Se i raggi luminosi incontrano la superficie formando un angolo ✓ con la normale, allora In , l’energia in arrivo per unità d’area della superficie, è soltanto la frazione FIGURA 12.9 L’illuminazione I di una superficie è n cos ✓ della precedente, perché la stessa energia cade su un’area che è più l’energia raggiante che arriva per unità di tempo grande per un fattore 1/cos ✓. Se chiamiamo S l’intensità della sorgente sull’unità d’area della superficie. luminosa, allora l’illuminazione In della superficie è In =
S er · n r2
(12.39)
dove er è il versore che esce dalla sorgente e n quello normale alla superficie. L’illuminazione In corrisponde alla componente normale del campo elettrico prodotto da una carica puntiforme 4⇡✏ 0 S. Sapendo questo, si vede che si può trovare l’illuminazione dovuta a una distribuzione qualunque di sorgenti luminose risolvendo il corrispondente problema elettrostatico. La componente verticale del campo elettrico su un piano, dovuta a una distribuzione di cariche, si calcola nello stesso modo che l’illuminazione dovuta a delle sorgenti luminose(1) . Consideriamo l’esempio seguente. Per qualche particolare esigenza sperimentale, si desidera fare in modo che la superficie superiore di un tavolo riceva un’illuminazione molto uniforme. Si dispone di lunghe lampade fluorescenti tubolari che irradiano uniformemente per tutta la loro lunghezza. Possiamo illuminare il tavolo mettendo i tubi fluorescenti in file regolarmente distribuite sul soffitto, il quale è all’altezza z dal tavolo. Qual è la più ampia spaziatura b fra tubo e tubo che si può adoperare se si vuole che l’illuminazione sia uniforme a meno dell’1‰? (1) Siccome si parla di sorgenti incoerenti le cui intensità si sommano sempre linearmente, le cariche elettriche, nell’analogia, avranno sempre lo stesso segno. Inoltre l’analogia vale soltanto per l’energia luminosa che arriva sopra una superficie opaca, perciò si devono includere nel nostro integrale soltanto le sorgenti che mandano luce sulla superficie (e naturalmente non delle sorgenti che si trovino sotto di essa!).
152
Capitolo 12 • Analogie con l’elettrostatica
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Soluzione: 1 si trovi il campo elettrico di una griglia di fili con la spaziatura b, ciascuno uniformemente carico; 2 si calcoli la componente verticale del campo elettrico; 3 si calcoli quanto deve essere b perché l’ondulazione del campo sia non più che una parte su mille. Nel capitolo 7 si è visto che il campo elettrico di una griglia di fili carichi poteva essere rappresentato da una somma di termini ciascuno dei quali dà una variazione sinusoidale del campo con un periodo b/n, in cui n è un intero. L’ampiezza di uno generico di questi termini è data dall’equazione (7.44), cioè Fn = An e 2⇡nz/b Finché si richiede il campo in punti non troppo vicini alla griglia, basta considerare soltanto n = 1. Per avere la soluzione completa, ci sarebbero da determinare anche i coefficienti An , ciò che non abbiamo ancora fatto (benché si tratti di un calcolo privo di complicazioni). Siccome ci occorre soltanto A1 , si può stimare che la sua entità sia grossolanamente la stessa di quella del campo medio. Il fattore esponenziale ci dà allora direttamente l’ampiezza relativa delle oscillazioni. Se si vuole che questo fattore sia 10 3 , si trova che b deve essere 0,91z. Se prendiamo per la spaziatura dei tubi fluorescenti i 3/4 della distanza dal soffitto, il fattore esponenziale diventa 1/4000 e abbiamo un fattore 4 di sicurezza e quindi siamo discretamente certi di ottenere un’illuminazione costante a meno di una parte su mille. (Il calcolo esatto mostra che A1 , in realtà, è il doppio del campo medio, perciò la soluzione esatta è b ⇡ 0,83 z.) Sorprende un po’ che per ottenere un’illuminazione così uniforme la separazione consentita dei tubi risulti così grande.
12.7
La «fondamentale unità» della natura
In questo capitolo si è voluto mostrare che imparando l’elettrostatica si impara nello stesso tempo come trattare molti argomenti di fisica e che, tenendo presente questo fatto, è possibile imparare quasi l’intera fisica in un limitato numero di anni. Tuttavia, una domanda sorge spontanea al termine di una tale discussione: perché equazioni che vengono fuori da fenomeni diversi sono tanto simili? Si potrebbe rispondere: «è un effetto della fondamentale unità della natura». Ma questo che significa? Che cosa potrebbe significare una tale affermazione? Potrebbe significare semplicemente che le equazioni per fenomeni differenti sono simili, ma allora, naturalmente, non si sarebbe data nessuna spiegazione. La fondamentale unità potrebbe significare che tutto è costituito dalla stessa sostanza e perciò obbedisce alle stesse equazioni. Questa ha l’aria di essere una buona spiegazione, ma pensiamo un po’. Il potenziale elettrostatico, la diffusione dei neutroni, il flusso di calore: ci stiamo occupando davvero di una identica sostanza? Possiamo davvero immaginare che il potenziale elettrico è fisicamente identico alla temperatura oppure a una densità di particelle? Certamente non è esattamente la stessa cosa dell’energia termica delle particelle; lo spostamento di una membrana non somiglia di certo a una temperatura. Perché, dunque, c’è una fondamentale unità? Uno sguardo più attento alla fisica dei vari argomenti mostra in effetti che le equazioni non sono in realtà identiche. L’equazione trovata per la diffusione dei neutroni è soltanto un’approssimazione che è valida quando le distanze che si considerano sono grandi in confronto al cammino libero medio. Sicuramente il moto di un singolo neutrone è una cosa completamente diversa dalla variazione uniforme che otteniamo risolvendo l’equazione differenziale. Quest’ultima è un’approssimazione perché suppone che i neutroni siano uniformemente distribuiti nello spazio. E possibile che sia questo il bandolo? Che la cosa comune a tutti i fenomeni sia lo spazio, la cornice dentro la quale poniamo la fisica? Fintanto che le cose sono ragionevolmente uniformi nello spazio, gli elementi importanti che entreranno in gioco saranno le diverse rapidità di variazione delle grandezze al variare della posizione nello spazio. Questa è la ragione per la quale si ottiene sempre un’equazione che contiene un gradiente. Le derivate devono comparire
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12.7 • La «fondamentale unità» della natura
nella forma di gradiente o di divergenza; infatti, siccome le leggi della fisica sono indipendenti dalla direzione, esse devono potersi esprimere in forma vettoriale. Le equazioni dell’elettrostatica sono le più semplici equazioni vettoriali che si possano ottenere nelle quali compaiano soltanto le derivate spaziali delle grandezze. Qualsiasi altro problema semplice – o la semplificazione di un problema complicato – deve somigliare all’elettrostatica. Ciò che è comune a tutti i nostri problemi è che in essi entra in gioco lo spazio e che si è imitato quello che in realtà è un fenomeno complicato, con un’equazione differenziale semplice. Questo ci porta a un’altra interessante questione. La stessa affermazione sarebbe vera anche per le equazioni elettrostatiche? Sono esse pure corrette soltanto come un’imitazione uniformizzata di un mondo microscopico molto più complicato? Potrebbe darsi che l’universo reale consistesse di piccoli X-oni che si possono vedere soltanto a distanze molto molto piccole? Che nelle nostre misure l’osservazione avvenga a una scala così grande che non possiamo accorgerci di questi piccoli X-oni, e che questa sia la ragione per cui otteniamo delle equazioni differenziali? Veramente la più completa teoria moderna dell’elettrodinamica incontra delle difficoltà alle brevissime distanze. Perciò è possibile in linea di principio che queste equazioni siano versioni uniformizzate di qualche altra cosa. Sembra che esse siano corrette fino a distanze di circa 10 14 cm, ma comincino ad andar male oltre questo limite. È possibile che ci sia, a un livello più profondo, un «meccanismo» finora non scoperto e che i dettagli di questa sottostante complessità siano nascosti dalle equazioni apparentemente «uniformi», come avviene nella diffusione «uniforme» dei neutroni. Nessuno però ha finora formulato una teoria riuscita che si fondi su queste idee. Cosa abbastanza strana, succede (per ragioni che non si capiscono affatto) che la combinazione della relatività e della meccanica quantistica, nella forma attuale di queste teorie, sembra proibire che si possa trovare un’equazione che sia fondamentalmente diversa dall’equazione (12.4) e che non conduca nello stesso tempo a qualche sorta di contraddizione. Non un semplice disaccordo con l’esperienza, ma una contraddizione interna. Come per esempio la predizione che la somma delle probabilità di tutte le possibili evenienze non è uguale all’unità, oppure che certe energie possano risultare numeri complessi, o qualche altra idiozia del genere. Nessuno per ora ha costruito una teoria dell’elettricità nella quale l’equazione r2 = ⇢/✏ 0 sia concepita come l’approssimazione «uniformizzata» di un meccanismo nascosto e che non conduca alla fine a qualche sorta di assurdità. Si deve però aggiungere che è anche vero che l’ammissione della validità dell’equazione r2 = ⇢/✏ 0 per tutte le distanze, per quanto piccole, conduce a delle assurdità per conto proprio (l’energia elettrica dell’elettrone è infinita), assurdità alle quali nessuno sa come sfuggire.
153
13
Magnetostatica
13.1 Ripasso: vol. 1, cap. 15, La teoria speciale della relatività
B
90° v
q 90° F
La forza su una carica elettrica dipende non soltanto da dove essa si trova, ma anche da quanto rapidamente si muove. Ciascun punto dello spazio è caratterizzato da due grandezze vettoriali che determinano la forza su una carica. In primo luogo c’è la forza elettrica, che dà quella componente della forza complessiva che è indipendente dal moto della carica. La si descrive per mezzo del campo elettrico E. In secondo luogo c’è un’altra componente, chiamata forza magnetica, che dipende dalla velocità della carica. Questa forza magnetica ha uno strano carattere direzionale: in ogni dato punto dello spazio sia la direzione sia il modulo della forza dipendono dalla direzione di moto della particella: a ogni istante la forza forma sempre un angolo retto col vettore velocità; inoltre, in ogni dato punto, la forza è sempre ad angolo retto rispetto a una direzione fissa dello spazio (FIGURA 13.1); infine, il modulo di questa forza è proporzionale alla componente della velocità perpendicolare a questa speciale direzione. È possibile descrivere interamente questo comportamento definendo un vettore campo magnetico B, che specifica sia la direzione speciale dello spazio sia la costante di proporzionalità rispetto alla velocità. La forza magnetica si scrive allora qv ⇥ B, mentre la forza elettromagnetica complessiva su una carica può essere scritta nella forma F = q (E + v ⇥ B)
13.1
La componente dipendente dalla velocità della forza su una carica in moto è perpendicolare a v e alla direzione di B. È anche proporzionale alla componente di v presa perpendicolarmente a B, cioè a v sen ✓ . FIGURA
Il campo magnetico
(13.1)
Questa forza è chiamata forza di Lorentz. La forza magnetica si può mettere facilmente in evidenza portando una sbarra magnetizzata in vicinanza di un tubo a raggi catodici. La deflessione del fascio elettronico fa vedere che la presenza del magnete produce una forza sugli elettroni che agisce trasversalmente alla loro direzione di moto, come fu già descritto nel cap. 12 del vol. 1. L’unità per il campo magnetico B è, evidentemente, N·s/C·m. La stessa unità si può anche esprimere in V·s/m2 , oppure in Wb/m2 (weber su metro quadrato).
13.2
La corrente elettrica. La conservazione della carica
Considereremo per primo il problema di capire le forze magnetiche che agiscono su fili percorsi da correnti elettriche. A questo scopo definiamo che cosa s’intende per densità di corrente. Le correnti elettriche sono dovute a elettroni o altre cariche che si muovono in modo da produrre un effetto complessivo di deriva o di flusso. Si può rappresentare il flusso di carica con un vettore che dà la quantità di carica che passa per unità d’area e di tempo attraverso un elemento di superficie perpendicolare al flusso (proprio come si è fatto nel caso del flusso di calore). Questo vettore lo chiameremo densità di corrente e lo rappresenteremo col simbolo j. Esso è diretto secondo il moto delle cariche.
155
13.2 • La corrente elettrica. La conservazione della carica
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Se prendiamo una piccola area S in un dato punto del materiale, la quantità di carica che fluisce attraverso questa area nell’unità di tempo è j·n S
(13.2)
dove n è il versore normale a S. La densità di corrente è legata alla velocità di flusso media delle cariche. Supponiamo di avere una distribuzione di cariche il cui movimento medio è una deriva con la velocità v. Mentre questa distribuzione oltrepassa un elemento di superficie S, la carica q che attraversa l’elemento di superficie in un tempo t è uguale alla carica contenuta in un parallelepipedo la cui base è S e la cui altezza è v t, come mostra la FIGURA 13.2. Il volume del parallelepipedo è la proiezione di S perpendicolarmente a v moltiplicato per v t. Questo volume moltiplicato per la densità di carica ⇢ darà q. Si ha cioè q = ⇢v · n S t La carica per unità di tempo è dunque ⇢v · n S, da cui si ottiene j = ⇢v
v n j
∆S
v∆t v∆t v
13.2 Se una distribuzione di carica con densità si muove con velocità v, la carica che attraversa S nell’unità di tempo è v · n S. FIGURA
(13.3)
Se la distribuzione di carica consiste di singole cariche, mettiamo elettroni, ciascuna col valore q e muoventisi con la velocità media v, allora la densità di corrente è j = N qv (13.4) dove N è il numero di cariche per unità di volume. La carica totale che passa per unità di tempo attraverso una qualunque superficie S viene chiamata corrente elettrica, I. Essa è uguale all’integrale della componente normale del flusso attraverso tutti gli elementi della superficie (FIGURA 13.3): ⌅ I= j · n dS (13.5) S
n j
dS
Superficie S
FIGURA ⇤
è
13.3
La corrente I attraverso la superficie S
j · n dS.
La corrente I uscente da una superficie chiusa S rappresenta la rapidità con la quale la carica abbandona il volume V racchiuso da S. Una delle leggi basilari della fisica è che la carica elettrica è indistruttibile; essa mai si perde né si crea. Le cariche elettriche possono muoversi da un luogo a un altro, mai però sorgere dal nulla: si dice che la carica si conserva. Se c’è complessivamente una corrente che esce da una superficie chiusa, il contenuto interno di carica deve diminuire della corrispondente quantità (FIGURA 13.4). Possiamo perciò scrivere la legge di conservazione della carica nella forma ⌅ d j · n dS = (Qinterna ) (13.6) dt superficie chiusa qualunque
n
j
Superficie chiusa S
13.4 L’integrale di j · n su una superficie chiusa dà la variazione per unità di tempo della carica totale interna Q. FIGURA
La carica interna può essere scritta come un integrale di volume della densità di carica: ⌅ Qinterna = ⇢ dV (13.7)
j
j
V dentro S
Se applichiamo la (13.6) a un volumetto V , sappiamo che l’integrale nel primo membro è r · j V . La carica interna è ⇢ V , perciò la conservazione della carica può anche scriversi nella forma @⇢ r· j = (13.8) @t (Matematica gaussiana, ancora una volta!)
156
Capitolo 13 • Magnetostatica
13.3 ∆L
B
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La forza magnetica su una corrente Siamo ora pronti per il compito di trovare la forza su un filo che trasporta corrente in presenza di un campo magnetico. La corrente consiste di particelle cariche che si muovono con la velocità v lungo il filo. Ciascuna subisce una forza trasversale (FIGURA 13.5a)
B
I
F = qv ⇥ B
v F
(a)
∆L
B
B
I
j
(b)
∆F
13.5 La forza magnetica su un filo percorso da corrente è la somma delle forze sulle singole cariche in movimento. FIGURA
Se ci sono N cariche per unità di volume, il loro numero in un volume V del filo è N V . La forza magnetica complessiva F sul volume V è la somma delle forze sulle singole cariche, cioè F = (N V )(qv ⇥ B) Ma N qv è proprio j, sicché si ha (FIGURA 13.5b) F = j⇥B V
(13.9)
La forza per unità di volume è j ⇥ B. Se attraverso un filo la cui sezione trasversale ha area A la corrente è uniforme, si può prendere come elemento di volume un cilindro con base A e lunghezza L. Si ha allora F = j ⇥ BA L
(13.10)
L’espressione j A la possiamo chiamare la corrente vettoriale I che percorre il filo. (Il suo modulo è la corrente elettrica nel filo e la sua direzione è lungo il filo.) Si ha F =I⇥B L
(13.11)
La forza sul filo per unità di lunghezza è I ⇥ B. Questa equazione ci dà l’importante risultato che la forza magnetica su un filo dovuta al moto delle cariche in esso dipende soltanto dalla corrente complessiva e non dalla carica portata da ciascuna particella, e nemmeno dal suo segno! La forza magnetica su un filo in vicinanza di un magnete si rivela facilmente osservando la deflessione del filo quando vi si manda la corrente, come è stato descritto nel capitolo 1 (FIGURA 1.6).
13.4
Il campo magnetico delle correnti stazionarie. La legge di Ampère
Abbiamo visto che c’è una forza su un filo, in presenza di un campo magnetico prodotto, mettiamo, da un magnete. Per il principio che a ogni azione corrisponde un’uguale reazione, ci si può aspettare che ci sia una forza sulla sorgente del campo magnetico, cioè sul magnete, quando c’è una corrente nel filo(1) . Tali forze esistono infatti, come si vede dalla deflessione di un ago di bussola messo vicino a un filo che porta una corrente. Ma sappiamo che i magneti subiscono forze da parte di altri magneti, quindi questo vuol dire che quando c’è corrente in un filo, il filo stesso genera un campo magnetico. Cariche in moto producono dunque un campo magnetico. Vorremo ora cercare di scoprire le leggi che determinano come sono creati tali campi magnetici. Il problema è: data una corrente, quale campo magnetico produce? La soluzione di questo problema fu trovata sperimentalmente in base a tre esperimenti critici e a un brillante ragionamento teorico dato da (1)
Vedremo, tuttavia, più avanti che simili ipotesi non sono in generale corrette per le forze elettromagnetiche!
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13.4 • Il campo magnetico delle correnti stazionarie. La legge di Ampère
Ampère. Ometteremo questo interessante sviluppo storico e diremo semplicemente che un gran numero di esperienze hanno dimostrato la validità delle equazioni di Maxwell. Prenderemo queste come nostro punto di partenza. Se in queste equazioni lasciamo cadere i termini che implicano derivate rispetto al tempo, otteniamo le equazioni della magnetostatica. Equazioni della magnetostatica:
r·B=0 c2 r ⇥ B =
(13.12) j ✏0
(13.13)
Queste equazioni sono valide soltanto se tutte le densità di carica elettrica sono costanti e tutte le correnti sono costanti, così che i campi elettrici e magnetici non cambiano col tempo, ossia tutti i campi sono «statici». Si può notare che è piuttosto pericoloso credere che ci possa essere qualcosa di simile a una situazione magnetica statica, perché delle correnti ci devono pur essere se si deve avere un qualche campo magnetico. Il termine «magnetostatico» è perciò un’approssimazione. Esso si riferisce a un tipo speciale di situazione dinamica in cui si ha un gran numero di cariche in movimento, così da poterne approssimare il moto con un flusso costante. Soltanto allora si può parlare di una densità di corrente j che non cambia col tempo. Con maggior precisione l’argomento si potrebbe chiamare studio delle correnti costanti. Supponendo che tutti i campi siano costanti, si lasciano cadere tutti i termini in @E/@t e @B/@t dalle equazioni complete di Maxwell (equazioni (2.41a), (2.41b), (2.41c), (2.41d)) e si ottengono le due equazioni (13.12) e (13.13) di cui sopra. Si noti anche che, essendo necessariamente nulla la divergenza del rotore di un qualunque vettore, l’equazione (13.13) richiede che sia r · j = 0. Secondo l’equazione (13.8) questo è vero soltanto se @ ⇢/@t = 0; ma questo deve essere proprio così se E non deve cambiare col tempo, perciò le nostre ipotesi sono coerenti. L’esigenza che sia r · j = 0 significa che si devono avere soltanto delle cariche che fluiscono su cammini che si chiudono su se stessi. Esse possono per esempio fluire in fili che formano dei percorsi chiusi, chiamati circuiti. Questi circuiti possono naturalmente contenere generatori o batterie che mantengono le cariche in movimento. Non possono però includere condensatori che si caricano o si scaricano. (Più tardi estenderemo naturalmente la teoria fino a comprendere campi dinamici, ma vogliamo prima considerare il caso più semplice delle correnti costanti.) Esaminiamo ora le equazioni (13.12) e (13.13) per vedere cosa significano. La prima dice che la divergenza di B è zero. Confrontando con l’analoga equazione dell’elettrostatica, cioè r · E = ⇢/✏ 0 , possiamo concludere che non esiste l’analogo magnetico della carica elettrica. Non ci sono cariche magnetiche dalle quali possano emanare linee di campo di B: se pensiamo in termini di «linee» del campo vettoriale B, queste non possono mai avere né principio né fine. Da dove vengono, allora? Il campo magnetico «appare» in presenza di correnti; esso ha un rotore proporzionale alla densità di corrente. Dovunque ci sono delle correnti, ci sono linee del campo magnetico che formano delle spire intorno alle correnti. Siccome le linee di B non cominciano né finiscono, esse in genere si chiudono su se stesse formando delle spire chiuse. Ci possono però essere delle situazioni complesse in cui le linee non sono semplici spire chiuse. Qualunque cosa facciano, però, esse non divergono mai da qualche punto: nessuna carica magnetica è stata mai scoperta, perciò è r · B = 0. Questo è vero non soltanto in magnetostatica: è sempre vero, anche per campi dinamici. Il legame fra il campo B e le correnti è contenuto nell’equazione (13.13). Qui abbiamo un nuovo tipo di situazione del tutto diverso dall’elettrostatica, dove si aveva r ⇥ E = 0. Questa equazione vuol dire che l’integrale di linea di E intorno a qualsiasi cammino chiuso è nullo: ⇥ E · ds = 0 cammino chiuso
Questo risultato è stato ottenuto dal teorema di Stokes, il quale dice che l’integrale intorno a un qualunque cammino chiuso di un qualunque campo vettoriale è uguale all’integrale di superficie
157
158
Capitolo 13 • Magnetostatica
B
Curva chiusa
ds
Superficie S
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della componente normale del rotore di quel campo (preso su una superficie che ha come contorno il cammino chiuso già detto). Applicando lo stesso teorema al vettore campo magnetico e usando i simboli indicati in FIGURA 13.6, si ottiene ⇥ ⌅ B · ds = (r ⇥ B) · n dS (13.14) S
!B
n
∆
13.6 L’integrale di linea della componente tangenziale di B è eguale all’integrale di superficie della componente normale di r⇥ B. FIGURA
Prendendo il rotore di B dall’equazione (13.13) si ha ⇥ ⌅ 1 j · n dS B · ds = ✏ 0 c2 S
(13.15)
Per l’equazione (13.5), l’integrale su S è la corrente totale I attraverso la superficie S. Siccome per correnti costanti la corrente attraverso S è indipendente dalla forma di S, purché questa abbia come contorno la curva , si parla usualmente di «corrente attraverso la curva chiusa ». Abbiamo dunque la legge generale: la circuitazione di B intorno a una curva chiusa qualunque è uguale alla corrente I attraverso la curva chiusa, divisa per ✏ 0 c2 : ⇥ Iattraverso B · ds = (13.16) ✏ 0 c2 Questa legge, chiamata legge di Ampère, svolge in magnetostatica la stessa funzione che la legge di Gauss svolge in elettrostatica. La legge di Ampère da sola non basta a determinare il campo B prodotto dalle correnti; in generale bisogna usare anche l’equazione r · B = 0; però, come vedremo nel prossimo paragrafo, essa può essere utilizzata per trovare il campo in speciali circostanze che presentano certe semplici simmetrie.
13.5
Il campo magnetico di un filo diritto e di un solenoide. Correnti atomiche
Possiamo illustrare l’uso della legge di Ampère andando a determinare il campo magnetico vicino a un filo. Domanda: qual è il campo all’esterno di un lungo filo rettilineo avente una sezione cilindrica? Ammetteremo una cosa che può non essere affatto evidente, ma che nonostante ciò è vera: cioè che le linee di campo di B girano intorno al filo secondo delle circonferenze chiuse. Se facciamo questa ipotesi, la legge di Ampère (equazione (13.16)) ci dice quanto intenso è il campo. Per la simmetria del problema, B ha lo stesso modulo in tutti i punti di una circonferenza concentrica col filo (FIGURA 13.7). Possiamo calcolare l’integrale di linea di B·ds molto facilmente: non è altro che il prodotto di B per la lunghezza della circonferenza. Se r è il raggio si avrà quindi ⇥ B · ds = B · 2⇡r La corrente complessiva attraverso la linea chiusa è semplicemente la corrente I nel filo, perciò si ha B · 2⇡r = I/✏ 0 c2 ossia
1 2I (13.17) 2 4⇡✏ 0 c r L’intensità del campo magnetico decresce dunque come l’inverso di r, essendo r la distanza dall’asse del filo. Si può, se si vuole, scrivere l’equazione (13.17) in forma vettoriale. Ricordando che B è perpendicolare tanto a I quanto a r, abbiamo B=
B=
1 2I ⇥ er 2 r 4⇡✏ 0 c
(13.18)
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13.5 • Il campo magnetico di un filo diritto e di un solenoide. Correnti atomiche
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L B
Linee di B0 I
r
B0
I
13.7 Il campo magnetico all’esterno di un lungo filo percorso dalla corrente I. FIGURA
FIGURA 13.8 Il campo magnetico all’interno di un solenoide lungo percorso dalla corrente I.
Abbiamo messo in evidenza il fattore 1/4⇡✏ 0 c2 , perché lo si incontra spesso. Vale la pena di ricordare che esso è esattamente 10 7 (nel sistema mks), perché un’equazione simile alla (13.17) viene usata per definire l’unità di corrente, cioè l’ampere (A): a 1 m da una corrente di 1 A il campo magnetico è 2 · 10 7 Wb/m2 . Siccome una corrente produce un campo magnetico, essa eserciterà una forza su un filo vicino che sia percorso da corrente. Nel capitolo 1 abbiamo descritto una semplice prova sperimentale delle forze fra due fili che portano corrente. Se i fili sono paralleli, ognuno è perpendicolare al campo B dell’altro; quindi i fili vengono spinti l’uno verso l’altro o allontanati l’uno dall’altro. Quando le correnti hanno la stessa direzione, i fili si attraggono; quando le correnti si muovono in direzioni opposte, i fili si respingono. Facciamo un altro esempio che può essere analizzato per mezzo della legge di Ampère, se si aggiunge qualche nozione riguardo al campo. Supponiamo di avere una lunga bobina di filo avvolto secondo una fitta spirale, come è mostrato dalle due sezioni in FIGURA 13.8. Una tale bobina è chiamata solenoide. Si osserva sperimentalmente che quando un solenoide è molto lungo in confronto al suo diametro, il campo esterno è molto piccolo in confronto al campo interno. Usando proprio questo fatto, insieme con la legge di Ampère, possiamo determinare l’entità del campo interno. Siccome il campo resta all’interno (e ha divergenza nulla) le sue linee devono correre parallelamente all’asse, come mostra la FIGURA 13.8. Stando così le cose, possiamo usare la legge di Ampère applicandola alla «curva» rettangolare indicata in figura. Questa linea chiusa si estende per un tratto L dentro al solenoide, dove il campo ha un certo valore B0 , poi è diretta ad angolo retto rispetto al campo e si richiude esternamente al solenoide, dove il campo è trascurabile. L’integrale di linea di B su questa curva è semplicemente B0 L e deve uguagliare il prodotto di 1/✏ 0 c2 per la corrente Solenoide complessiva che attraversa , la quale è N I se ci sono N spire del solenoide nel tratto L. Avremo dunque B0 L =
NI ✏ 0 c2
Ossia, chiamando n il numero di spire per unità di lunghezza del solenoide (è quindi n = N/L), risulta B0 =
nI ✏ 0 c2
13.9 Il campo magnetico all’esterno di un solenoide. FIGURA
(13.19)
Che succede delle linee di B quando arrivano alla fine del solenoide? Presumibilmente esse si spargono all’esterno in qualche modo e si girano poi per entrare nel solenoide dalla parte opposta, come è schematizzato in FIGURA 13.9. Un simile campo è proprio quello che si osserva intorno a un magnete a forma di sbarra. Ma, dopo tutto, cos’è un magnete? Le nostre equazioni dicono che
B
160
Capitolo 13 • Magnetostatica
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B proviene dalla presenza di correnti. Eppure sappiamo che delle sbarre di ferro (niente batterie né generatori) producono ugualmente campi magnetici. Forse vi aspettereste che ci fossero degli altri termini nei secondi membri della (13.12) o della (13.13) per rappresentare la «densità di ferro magnetizzato» o qualcosa di simile. Ma tali termini non ci sono. La teoria ci dice che gli effetti magnetici del ferro provengono da correnti interne che sono già incluse nel termine contenente j. La materia è molto complessa quando la si esamina da un punto di vista fondamentale, come si è visto quando si è cercato di capire i dielettrici. Allo scopo di non interrompere il corso della discussione, aspetteremo più avanti per trattare in dettaglio il meccanismo interno dei materiali magnetici come il ferro. Per il momento dovrete accettare l’idea che tutto il magnetismo è prodotto da correnti e che in un magnete permanente ci sono delle correnti interne permanenti. Nel caso del ferro, queste correnti derivano dal fatto che gli elettroni ruotano intorno ai loro assi. Ciascun elettrone ha un simile moto rotatorio (spin), che corrisponde a una minuscola corrente circolante. Naturalmente un elettrone non produce un gran campo magnetico, ma in un ordinario frammento di materia ci sono miliardi e miliardi di elettroni. Normalmente essi ruotano intorno ad assi che puntano un po’ in tutte le direzioni, così che non c’è alcun effetto complessivo. Il miracolo è che in alcune (pochissime) sostanze, come il ferro, una notevole frazione degli elettroni ruotano con i loro assi tutti nella stessa direzione: nel caso del ferro due elettroni per ogni atomo prendono parte a questo movimento cooperativo. In una sostanza magnetizzata c’è un gran numero di elettroni che ruotano tutti nella stessa direzione e, come vedremo, l’effetto totale è equivalente a una corrente che circola sulla superficie della sbarra. (Questo è del tutto analogo a ciò che abbiamo visto per i dielettrici, cioè che un dielettrico uniformemente polarizzato è equivalente a una distribuzione di cariche sulla sua superficie.) Non è perciò un caso che una sbarra magnetizzata sia equivalente a un solenoide.
13.6
La relatività dei campi magnetici ed elettrici
Quando si è detto che la forza magnetica su una carica è proporzionale alla sua velocità, forse vi sarete chiesti: «Quale velocità? Rispetto a quale sistema di riferimento?». È chiaro infatti dalla definizione di B data al principio di questo capitolo che questo vettore viene a dipendere dal sistema di riferimento che si è scelto per specificare la velocità delle cariche. Non abbiamo però detto nulla su quale sia il sistema appropriato per specificare il campo magnetico. Risulta che qualsiasi sistema inerziale può andare bene. Si vedrà inoltre che magnetismo ed elettricità non sono cose indipendenti, che esse si dovrebbero sempre considerare come un unico campo elettromagnetico completo. Benché nel caso statico le equazioni di Maxwell si separino in due coppie distinte, un paio per l’elettricità e un paio per il magnetismo, senza alcuna evidente connessione fra i due campi, c’è tuttavia nella natura stessa un collegamento molto intimo fra le due cose, che nasce dal principio di relatività. Ma vediamo che cosa ci potrebbero dire le nozioni di relatività sulle forze magnetiche, se si ammette che il principio di relatività sia applicabile – come lo è difatti – all’elettromagnetismo. Pensiamo per esempio a ciò che accade quando una carica negativa si muove con velocità v0 parallelamente a un filo percorso da corrente, come in FIGURA 13.10. Cercheremo di capire cosa succede servendoci di due sistemi di riferimento: uno fisso rispetto al filo, come nella figura FIGURA 13.10a, e uno fisso rispetto alla particella, come nella FIGURA 13.10b. Il primo riferimento lo chiameremo S e il secondo S 0. Nel riferimento S c’è evidentemente una forza magnetica sulla particella. La forza è diretta verso il filo, perciò se la carica si muove liberamente la vedremmo curvare verso il filo. Nel riferimento S 0, però, non ci può essere una forza magnetica sulla particella perché la sua velocità è nulla. Forse potremmo veder accadere cose diverse nei due sistemi? Il principio di relatività afferma che anche in S 0 si dovrebbe vedere la particella avvicinarsi al filo. Dobbiamo cercar di capire perché questo avvenga. Torniamo alla nostra descrizione atomica di un filo che trasporta corrente. In un conduttore normale, come il rame, la corrente elettrica deriva dal moto di alcuni degli elettroni – chiamati elettroni di conduzione – mentre le cariche positive nucleari e i rimanenti elettroni restano fissi
161
13.6 • La relatività dei campi magnetici ed elettrici
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v0
q (–)
q
r +
S'
'+
–
v+ = 0
r
S
'–
v'+ = –v
v– = v I (a)
v'– = 0
v
I' (b)
13.10 L’interazione fra un filo percorso da corrente e una particella avente carica q, come la si vede in due riferimenti. Nel riferimento S (a) il filo è in quiete; nel riferimento S0 (b) la carica è in quiete. FIGURA
nel campo del materiale. Sia ⇢ la densità degli elettroni di conduzione e v la loro velocità in S. La densità delle cariche ferme in S sia ⇢+ , che deve essere uguale e opposta a ⇢ , perché stiamo considerando un filo non carico. Non c’è dunque campo elettrico esternamente al filo e la forza sulla particella in moto è semplicemente F = qv0 ⇥ B Adoperando il risultato ottenuto con l’equazione (13.18) per il campo magnetico alla distanza r dall’asse del filo, concludiamo che la forza sulla particella è diretta verso il filo e ha modulo F=
1 2Iqv0 2 r 4⇡✏ 0 c
Usando le equazioni (13.3) e (13.5) la corrente I può essere scritta come ⇢ v A, dove A è l’area della sezione retta del filo. È quindi F=
1 2q ⇢ Avv0 2 r 4⇡✏ 0 c
(13.20)
Si potrebbe continuare a trattare il caso generale in cui le velocità v e v0 sono arbitrarie, ma ci serve esaminare altrettanto bene il caso particolare in cui la velocità v0 della particella è identica alla velocità v degli elettroni di conduzione; perciò poniamo v0 = v e l’equazione (13.20) diventa F=
q ⇢ A v2 2⇡✏ 0 r c2
(13.21)
Rivolgiamo ora l’attenzione a quello che succede in S 0, riferimento nel quale la particella è in quiete e il filo scorre (verso sinistra nella figura) con la velocità v. Le cariche positive che si muovono col filo produrranno un certo campo magnetico B 0 nel punto dove si trova la particella, ma questa è adesso in quiete, perciò non subisce alcuna forza magnetica! Se c’è una qualche forza sulla particella, essa deve avere origine da un campo elettrico. Bisogna perciò che il filo in moto produca un campo elettrico. Ma questo può farlo soltanto se esso appare carico: bisogna dunque che un filo neutro percorso da corrente appaia carico quando viene messo in movimento. È questo che dobbiamo esaminare. Dobbiamo cercare di calcolare la densità di carica nel filo in S 0 da ciò che conosciamo relativamente al sistema S. A prima vista si potrebbe pensare che le densità siano le stesse; ma sappiamo che le lunghezze cambiano nel passare da S a S 0 (cap. 15 del vol. 1), perciò cambieranno anche i volumi. Siccome la densità di carica dipende dal volume, anche la densità di carica cambierà. Prima di poter trarre delle conclusioni circa la densità di carica in S 0, dobbiamo sapere come si comporta la carica elettrica di un fascio di elettroni quando le cariche si muovono. Sappiamo che la massa apparente di una particella cambia per un fattore (1 v 2 /c2 ) 1/2 . La sua carica fa qualcosa di simile? No! Le cariche sono sempre le stesse, che si muovano o no. Altrimenti non si osserverebbe sempre che la carica si conserva. Supponiamo di prendere un blocco di materiale, diciamo un conduttore, inizialmente scarico. Poi scaldiamolo: siccome gli elettroni hanno una massa diversa dai protoni, le velocità degli
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Capitolo 13 • Magnetostatica
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L0
L S
Q
v=0
S'
Area A0
Q
v
(a)
13.11
(b)
Se una distribuzione di particelle cariche a riposo ha la densità di carica se osservate da un riferimento che ha la velocità relativa v. FIGURA
Area A0
0,
le stesse cariche avranno la densità
=
0
q
1
v 2 /c 2
elettroni e dei protoni cambieranno di quantità differenti. Se la carica di una particella dipendesse dalla velocità della particella che la porta, nel blocco scaldato le cariche dei protoni e degli elettroni non si equilibrerebbero più: scaldandolo, un blocco si caricherebbe. Come si è visto precedentemente, un piccolissimo cambiamento percentuale della carica di tutti gli elettroni in un blocco di materiale darebbe origine a campi elettrici enormi. Nessun effetto di questo genere è mai stato osservato. Si può anche far rilevare che la velocità media degli elettroni nella materia dipende dalla sua composizione chimica. Se la carica dell’elettrone cambiasse con la velocità, la carica complessiva in una certa quantità di materiale cambierebbe per effetto di una reazione chimica. Di nuovo, un calcolo immediato mostra che anche una piccolissima dipendenza della carica dalla velocità darebbe dei campi enormi con le più semplici reazioni chimiche. Non si osserva alcun effetto di questo tipo, e se ne conclude che la carica elettrica di una singola particella è indipendente dal suo stato di moto. Dunque la carica q di una particella è uno scalare invariante, indipendente dal sistema di riferimento. Questo vuol dire che in ogni riferimento la densità di carica di una distribuzione di elettroni è semplicemente proporzionale al numero di elettroni per unità di volume. Occorre soltanto stare attenti al fatto che il volume può cambiare, a causa della contrazione relativistica delle distanze. Applichiamo ora questi concetti al nostro filo in movimento. Se si considera una lunghezza L 0 del filo, in cui c’è una densità di carica ⇢0 di cariche stazionarie, essa conterrà la carica totale Q = ⇢0 L 0 A0 Se le stesse cariche vengono osservate in un riferimento diverso che si muove con velocità v, esse verranno trovate tutte in una porzione del materiale che ha una lunghezza più corta, e cioè s v2 L = L0 1 (13.22) c2 ma ha la stessa sezione A0 (perché le dimensioni trasversali rispetto al moto rimangono inalterate, FIGURA 13.11). Se chiamiamo ⇢ la densità delle cariche nel riferimento in cui queste sono in moto, la carica totale Q sarà ⇢L A0 . Questa deve essere anche uguale a ⇢0 L 0 A0 perché la carica è la stessa in ogni sistema, perciò si ha ⇢L = ⇢0 L 0 ossia, per la (13.22),
⇢0
(13.23) v2 1 c2 La densità di carica di una distribuzione di cariche in moto varia perciò nello stesso modo della massa relativistica di una particella. ⇢= r
13.6 • La relatività dei campi magnetici ed elettrici
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Utilizziamo ora questo risultato generale per il caso della densità ⇢+ di cariche positive nel nostro filo. Queste cariche sono a riposo nel riferimento S. In S 0 però, in cui il filo si muove con velocità v, la densità di carica positiva diventa ⇢+0 = r
⇢+
(13.24)
v2 c2
1
Le cariche negative sono in quiete in S 0. Perciò esse hanno la loro «densità di quiete» ⇢0 in questo riferimento. Nell’equazione (13.23) dovremo porre perciò ⇢0 = ⇢0 , perché gli elettroni hanno la densità ⇢ quando il filo è in quiete, cioè nel riferimento S, dove la velocità delle cariche negative è v. Per gli elettroni di conduzione avremo dunque ⇢ =r
ossia
⇢0 = ⇢
⇢0
(13.25)
v2 c2
1
s
v2 c2
1
(13.26)
Ora si vede perché c’è un campo elettrico in S 0 : perché in questo riferimento il filo ha una densità complessiva di carica ⇢0 data da ⇢0 = ⇢+0 + ⇢0 Usando le (13.24) e (13.26) abbiamo ⇢0 = r
⇢+
+⇢
v2 c2
1
s
v2 c2
1
Siccome il filo in quiete è neutro, sarà ⇢ = e perciò risulta ⇢ 0 = ⇢+ r
⇢+ v2 c2
(13.27) v2 1 c2 Il filo in moto è carico positivamente e produrrà un campo elettrico E 0 nel punto dov’è la particella stazionaria che sta fuori. Abbiamo già risolto il problema elettrostatico di un cilindro uniformemente carico. Il campo elettrico alla distanza r dall’asse del cilindro è
E0 =
⇢0 A 2⇡✏ 0 r
=
v2 ⇢+ A 2 c r
2⇡✏ 0 r
1
v2 c2
(13.28)
La forza esercitata sulla particella carica negativamente è rivolta verso il filo. Otteniamo dunque (almeno) una forza che ha la stessa direzione nei due punti di vista: la forza elettrica in S 0 ha la stessa direzione della forza magnetica in S. Il modulo della forza in S 0 è
F0 =
q ⇢+ A r 2⇡✏ 0 r
v2 c2 1
v2 c2
(13.29)
163
164
Capitolo 13 • Magnetostatica
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Confrontando questo risultato per F 0 con l’equazione (13.21) per F vediamo che i moduli delle forze sono quasi identici nei due punti di vista. Effettivamente si ha F0 = r
F v2 c2
1
(13.30)
perciò per le piccole velocità che abbiamo considerato le due forze sono uguali. Possiamo dire che almeno per piccole velocità ci rendiamo conto che magnetismo ed elettricità non sono che «due modi di considerare la stessa cosa». Però la situazione è anche migliore di così. Se si tiene conto che anche le forze si trasformano quando si passa da un sistema a un altro, si trova che i due modi di considerare ciò che avviene danno veramente lo stesso risultato fisico per qualsiasi velocità. Un modo di vedere ciò è di porsi una domanda del tipo: quale sarà la quantità di moto trasversale della particella dopo che la forza ha agito per un breve tempo? Sappiamo dal cap. 16 del vol. 1 che la quantità di moto trasversale deve essere la stessa in ambedue i riferimenti S e S 0. Chiamando y la coordinata trasversale, vogliamo confrontare ⇢y e ⇢0y . Usando l’equazione di moto dp F= dt che è relativisticamente corretta, ci si aspetta che dopo un tempo t la particella abbia una quantità di moto trasversale py nel sistema S data da py = F t
(13.31)
py0 = F 0 t 0
(13.32)
Nel sistema S 0 la stessa grandezza sarà
Dobbiamo naturalmente confrontare py e py0 per intervalli di tempo t e t 0 che si corrispondano. Si è visto nel cap. 15 del vol. 1 che gli intervalli di tempo riferentisi a una particella in moto appaiono più lunghi di quelli misurati nel sistema in cui la particella è in quiete. Siccome qui la particella è inizialmente in quiete in S 0, ci si aspetta, per t piccoli, che sia t=r
t0 1
v2 c2
(13.33)
e tutto va perfettamente a posto. Infatti dalle (13.31) e (13.32) segue py0 py
=
F0 t0 F t
che è proprio uguale a 1 se combiniamo la (13.30) con la (13.33). Si è trovato così che si ottiene lo stesso risultato fisico sia che il moto di una particella che si muove in un filo lo si analizzi in un sistema in quiete rispetto al filo sia che lo si valuti in un sistema in quiete rispetto alla particella. Nel primo caso la forza è puramente «magnetica», nel secondo caso puramente «elettrica». I due punti di vista sono illustrati in FIGURA 13.12. (Benché ci sia ancora un campo magnetico B 0 nel secondo riferimento, esso non produce forze su una particella ferma.) Se si fosse scelto un sistema di riferimento diverso da questi due, si sarebbe trovata una diversa mescolanza dei campi E e B. Le forze elettriche e magnetiche sono parti di un unico fenomeno fisico: l’azione elettromagnetica delle particelle. La separazione di questa interazione in una parte elettrica e una magnetica dipende moltissimo dal sistema di riferimento scelto per la discussione dei fenomeni. Ma una descrizione elettromagnetica completa è invariante; elettricità e magnetismo considerati insieme sono conformi alla relatività di Einstein.
Siccome i campi elettrici e magnetici si presentano in combinazioni diverse se si cambia sistema di riferimento, dobbiamo stare attenti al modo di considerare i campi E e B. Per esempio, se si pensa alle «linee» di E o di B, non si deve attribuire loro molta realtà. Tali linee possono sparire se si cerca di osservarle da un diverso sistema di coordinate. Per esempio nel sistema S 0 ci sono delle linee del campo elettrico che non si ritrovano «in moto con velocità v rispetto a noi» quando si passa al sistema S. Nel sistema S non ci sono affatto linee di campo elettrico! Perciò non ha senso dire cose del tipo: quando muovo un magnete esso si porta con sé il suo campo, perciò le linee di B si muovono anch’esse. Non c’è modo di ricavare un senso, in generale, dall’idea di «velocità di una linea di campo». I campi sono il nostro modo di descrivere quello che accade in un punto dello spazio. In particolare, E e B ci informano sulla forza che agirà su una particella in moto. La domanda: «qual è la forza esercitata su una carica da parte di un campo magnetico in moto?» non significa nulla di preciso. La forza è data dai valori di E e B nel punto dove si trova la carica e la formula (13.1) non deve essere cambiata se la sorgente di E o di B si muove (sono i valori di E e di B che saranno alterati dal moto). La nostra descrizione matematica ha a che fare soltanto con i campi come funzioni di x, y, z e t rispetto a un certo riferimento inerziale. Più tardi parleremo di «un’onda di campi elettrici e magnetici che si muove attraverso lo spazio», come per esempio, un’onda luminosa. Questo però è come parlare di un’onda che si muove lungo una corda: non si vuol dire con questo che qualche parte della corda sia in movimento nella direzione dell’onda, si vuol dire che lo spostamento dell’onda appare prima in un luogo e più tardi in un altro. Similmente, in un’onda elettromagnetica l’onda si sposta, ma dei campi cambia l’intensità. Perciò quando in futuro parleremo – o qualcun altro parlerà – di un campo in «moto», dovreste considerare questo modo di esprimersi come non più di una maniera utile e sintetica di discutere un campo variabile in certe circostanze.
13.7
165
13.7 • La trasformazione delle correnti e delle cariche
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S =0 j B
(a)
E' S' '≠0 j' B'
13.12 Nel riferimento S la densità di carica è zero e la densità di corrente è j. C’è soltanto il campo magnetico. In S0 c’è una densità di carica 0 e una diversa densità di corrente j 0 . Il campo magnetico B0 è diverso e c’è un campo elettrico E 0 . FIGURA
La trasformazione delle correnti e delle cariche
Forse vi avrà preoccupato la semplificazione che in precedenza è stata fatta quando si è presa la stessa velocità per la particella e per gli elettroni di conduzione nel filo. Si potrebbe tornare indietro ed eseguire l’analisi di nuovo, con due velocità diverse, ma è più facile osservare semplicemente che carica e densità di corrente sono le componenti di un quadrivettore (cap. 17 del vol. 1). Si è visto che se ⇢0 è la densità delle cariche nel riferimento in cui queste sono in quiete, allora in un riferimento in cui esse hanno la velocità v la densità diventa ⇢0 ⇢= r v2 1 c2 In questo riferimento la loro densità di corrente è j = ⇢v = r
⇢0 v
1
v2 c2
(13.34)
Ma sappiamo che l’energia U e la quantità del moto p di una particella che si muove con la velocità v sono date da m0 c 2 m0 v U=r p=r v2 v2 1 1 c2 c2
166
Capitolo 13 • Magnetostatica
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dove m0 è la massa di riposo. Sappiamo anche che U e p formano un quadrivettore relativistico. Siccome ⇢ e j dipendono dalla velocità v esattamente come ne dipendono U e p, possiamo concludere che anche ⇢ e j sono le componenti di un quadrivettore relativistico. Questa proprietà è la chiave di un’analisi generale del campo di un filo che si muove a una velocità qualunque, che sarebbe necessaria se si volesse risolvere il problema da capo, con la velocità v0 della particella diversa dalla velocità degli elettroni di conduzione. Se vogliamo trasformare ⇢ e j per passare a un sistema di coordinate che si muove con la velocità u nella direzione x, sappiamo che queste grandezze si trasformano proprio come t e (x, y, z), così che si ha (cap. 15 del vol. 1): x x0 = r
1
ut
jx j x0 = r
u2
1
c2
y0 = y
jy0 = jy
z0 = z
jz0 = jz
t 0 t =r
u⇢
ux c2 u2 1 c2
⇢ 0 ⇢ =r
u2 c2 (13.35)
u jx c2 u2 1 c2
Con queste equazioni si possono riferire cariche e correnti in un certo sistema alle corrispondenti grandezze in un altro. Prendendo cariche e correnti in uno qualunque dei riferimenti, si può risolvere il problema elettromagnetico in quel riferimento facendo uso delle equazioni di Maxwell. Il risultato che si ottiene per i moti delle particelle sarà lo stesso qualunque sia il riferimento che scegliamo. Torneremo più tardi sulle trasformazioni relativistiche dei campi elettromagnetici.
13.8
Il principio di sovrapposizione. La regola della mano destra
Concludiamo questo capitolo discutendo due ulteriori questioni concernenti l’argomento della magnetostatica. La prima osservazione riguarda le equazioni fondamentali per il campo magnetico: r·B=0
e
r⇥B =
j c2 ✏ 0
sono lineari in B e j. Ciò significa che il principio di sovrapposizione si applica anche ai campi magnetici. Il campo prodotto da due diverse correnti costanti è la somma dei campi individuali che ognuna delle correnti produrrebbe agendo da sola. La seconda osservazione riguarda le regole della mano destra che abbiamo incontrato (come la regola della mano destra per il campo magnetico prodotto da una corrente). Si è anche osservato che la magnetizzazione di un magnete di ferro si deve interpretare come dovuta alla rotazione degli elettroni nel materiale. La direzione del campo magnetico di un elettrone rotante è legata a quella del suo asse di rotazione dalla stessa regola della mano destra. Siccome B è determinato da una regola di «mano» – implicante un prodotto vettoriale o un rotore – esso viene chiamato vettore assiale. (Vettori la cui direzione nello spazio non dipende da regole che facciano riferimento a una mano destra o sinistra vengono chiamati vettori polari. Spostamento, velocità, forza e anche E, per esempio, sono vettori polari.) Le grandezze fisicamente osservabili in elettromagnetismo non sono però né destre né sinistre: le interazioni elettromagnetiche sono simmetriche rispetto a una riflessione (cap. 52 del vol. 1). Ogni volta che si calcolano le forze magnetiche fra due sistemi di correnti, il risultato è invariante rispetto a un cambiamento della convenzione riguardo alla mano. Indipendentemente
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13.8 • Il principio di sovrapposizione. La regola della mano destra
dalla convenzione della mano destra, le equazioni conducono al risultato finale che correnti parallele si attraggono e correnti in direzioni opposte si respingono. (Provate a ricavare la forza adoperando «regole della mano sinistra».) Un’attrazione o una repulsione sono infatti vettori polari. Tutto questo succede perché nel descrivere un’interazione completa, la regola della mano destra si adopera due volte: una volta per ricavare B dalle correnti, e poi di nuovo per trovare la forza che B produce su una seconda corrente. Adoperare due volte la regola della mano destra è lo stesso che adoperare due volte quella della mano sinistra. Se si cambiassero le convenzioni e si passasse a un sistema di coordinate sinistro, tutti i campi B sarebbero invertiti, ma tutte le forze – o, ciò che è forse più pertinente, le accelerazioni osservate degli oggetti – rimarrebbero inalterate. Benché i fisici abbiano recentemente scoperto, con loro sorpresa, che tutte le leggi della natura non sono sempre invarianti rispetto alle riflessioni speculari, le leggi dell’elettromagnetismo possiedono tale simmetria fondamentale.
167
14
Il campo magnetico in varie circostanze
14.1
Il potenziale vettore
In questo capitolo continueremo la discussione dei campi magnetici associati a correnti costanti, cioè l’argomento della magnetostatica. Il campo magnetico è legato alle correnti elettriche dalle equazioni fondamentali r·B=0
(14.1)
c2 r ⇥ B =
j ✏0
(14.2)
Vogliamo ora risolvere matematicamente queste equazioni in modo generale, cioè senza richiedere alcuna speciale simmetria o ricorrere a congetture intuitive. In elettrostatica abbiamo visto che c’è un procedimento diretto per trovare il campo quando sono note le posizioni di tutte le cariche: si tratta semplicemente di ricavare il potenziale scalare facendo un’integrazione sulle cariche, come nell’equazione (4.25). Dopo di che se si vuole si ottiene il campo elettrico dalle derivate di . Vogliamo ora far vedere che c’è un corrispondente procedimento per trovare il campo magnetico B se si conosce la densità di corrente j di tutte le cariche che si muovono. In elettrostatica si è visto che è sempre possibile rappresentare E come il gradiente di un campo scalare (perché il rotore di E è sempre nullo). Ora il rotore di B non è sempre nullo e perciò non è possibile in generale rappresentare B come un gradiente. Però la divergenza di B è sempre nulla e questo significa che si può sempre rappresentare B come il rotore di un altro campo vettoriale, perché, come si è visto nel paragrafo 2.8, la divergenza di un rotore è sempre nulla. Perciò possiamo sempre mettere B in rapporto con un campo, che chiameremo A, scrivendo
ossia, esplicitando le componenti:
(14.3)
B =r⇥ A
Bx = (r ⇥ A)x =
@ Az @y
@ Ay @z
By = (r ⇥ A)y =
@ Ax @z
@ Az @x
Bz = (r ⇥ A)z =
@ Ay @x
@ Ax @y
(14.4)
Avere scritto la (14.3) ci garantisce che la (14.1) è soddisfatta, giacché, necessariamente, si ha: r · B = r · (r ⇥ A) = 0
Il campo A viene chiamato potenziale vettore. Ricorderete che il potenziale scalare non era completamente specificato dalla sua definizione. Se si è trovato per un certo problema, possiamo sempre trovare un altro potenziale 0 ugualmente valido aggiungendo una costante: 0 = +C
14.1 • Il potenziale vettore
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Il nuovo potenziale 0 dà lo stesso campo elettrico, perché il gradiente rC è nullo: 0 e rappresentano la stessa fisica. Similmente, si possono avere potenziali vettori A diversi che danno lo stesso campo magnetico. Anche qui, siccome B si ottiene da A per derivazione, l’aggiunta di una costante ad A non produce alcun cambiamento fisico. Ma per A c’è una libertà ancora maggiore. Possiamo aggiungere ad A qualsiasi campo che sia il gradiente di qualche campo scalare senza nulla cambiare alla fisica. Questo si può mostrare come segue. Supponiamo di avere un A che dà correttamente il campo magnetico B in una certa situazione e domandiamoci in quali circostanze un qualche altro potenziale vettore A0 sostituito in (14.3) darebbe lo stesso campo B. Per questo A e A0 devono avere lo stesso rotore: B = r ⇥ A0 = r ⇥ A
Perciò si deve avere
r ⇥ A0
r ⇥ A = r ⇥ (A
A0 ) = 0
Ma se il rotore di un vettore è nullo, questo deve essere il gradiente di qualche campo scalare, diciamo ; perciò sarà A A0 = r Questo significa che se A è un potenziale vettore ammissibile per un certo problema, allora per ogni e qualsiasi , l’espressione A0 = A + r (14.5) sarà un potenziale vettore ugualmente ammissibile e che conduce allo stesso campo B. Conviene ordinariamente togliere una parte della «libertà» inerente ad A, imponendogli arbitrariamente qualche altra condizione. (In modo molto simile, abbiamo trovato spesso conveniente far sì che il potenziale fosse nullo a grande distanza.) Si può per esempio limitare A scegliendo arbitrariamente cosa debba essere la sua divergenza. Ciò si può sempre fare senza che B ne risenta. Questo avviene perché anche se A0 e A hanno lo stesso rotore e danno perciò lo stesso B, non c’è bisogno che abbiano la stessa divergenza. Si ha infatti r · A0 = r · A + r2 e con una scelta appropriata di si può fare in modo che r · A0 sia qualunque cosa si voglia. Cosa dovremo scegliere per r · A? La scelta dovrebbe essere fatta allo scopo di agevolare al massimo la matematica e dipenderà dal problema di cui ci si occupa. In magnetostatica sceglieremo semplicemente r· A=0 (14.6) (Più avanti, quando tratteremo l’elettrodinamica, cambieremo questa scelta.) La definizione(1) completa di A è dunque, per il momento, r⇥ A= B r· A=0
Per acquistare un po’ di pratica col potenziale vettore, vediamo prima quello di un campo magnetico uniforme B0 . Prendendo l’asse z nella direzione di B0 si dovrà avere
(1)
Bx =
@ Az @y
@ Ay =0 @z
By =
@ Ax @z
@ Az =0 @x
Bz =
@ Ay @x
@ Ax = B0 @y
(14.7)
La nostra definizione non determina ancora univocamente A. Per avere una specificazione univoca si dovrebbe dire qualcosa anche sul modo in cui A si comporta su un certo contorno, oppure alle grandi distanze. È talvolta conveniente, per esempio, scegliere un campo che alle grandi distanze va a zero.
169
170
Capitolo 14 • Il campo magnetico in varie circostanze
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Provando, si vede che una possibile soluzione di queste equazioni è Ax = 0
Ay = xB0
Az = 0
Oppure si potrebbe anche prendere Ay = 0
Ax = yB0
Az = 0
Un’altra soluzione ancora è una combinazione lineare di queste due: Ax =
1 yB0 2
Ay =
1 xB0 2
Az = 0
(14.8)
È chiaro che per ogni campo B particolare, il potenziale vettore A non è unico: si hanno molte possibilità. La terza soluzione contenuta nelle equazioni (14.8) ha alcune interessanti proprietà. Siccome la componente x è proporzionale a y e la componente y è proporzionale a +x, A deve formare un angolo retto col vettore condotto dall’asse z e che chiameremo r 0 (l’apice sta a ricordare p che non si tratta del vettore spostamento dall’origine). Inoltre il modulo di A è proporzionale a x 2 + y 2 e quindi a r 0. Perciò A può essere scritto semplicemente (per il nostro campo costante) nella forma A=
y
Ay
A
Ax r'
r'
x
r'
1 B0 ⇥ r 0 2
Il potenziale vettore A ha modulo B0 r 0/2 e ruota intorno all’asse z come mostra la FIGURA 14.1. Se per esempio il campo B è il campo assiale dentro un solenoide, il potenziale vettore circola nello stesso senso della corrente nel solenoide. Il potenziale vettore per un campo uniforme può essere ottenuto anche in un altro modo. La circuitazione di A su ogni curva chiusa può essere messa in relazione con l’integrale di superficie di r ⇥ A per mezzo del teorema di Stokes, equazione (3.38): ⇥ ⌅ A · ds = (r ⇥ A) · n da (14.10) dentro
A
Ma l’integrale a destra è uguale al flusso di B attraverso , così che si ha ⇥ ⌅ A · ds = B · n da (14.11)
A
14.1
dentro
Un campo magnetico uniforme B nella direzione z corrisponde a un potenziale vettore A che ruota intorno all’asse z e avente il modulo A = Br 0 /2 (r 0 è lo spostamento dall’asse z). FIGURA
(14.9)
Perciò la circuitazione di A intorno a qualsiasi curva chiusa è uguale al flusso di B attraverso tale curva. Se prendiamo una curva circolare di raggio r 0 in un piano perpendicolare al campo uniforme B, il flusso non è altro che ⇡r 0 2 B
Se prendiamo l’origine su un asse di simmetria, in modo da ammettere che A abbia simmetria circolare e in particolare sia funzione soltanto di r 0, la circuitazione sarà ⇥ A · ds = 2⇡r 0 A = ⇡r 0 2 B Troviamo, come prima,
Br 0 2 Nell’esempio ora riportato si è calcolato il potenziale vettore partendo dal campo magnetico, che è l’opposto di quello che si fa normalmente: infatti in problemi complessi è ordinariamente più facile risolvere le equazioni rispetto al potenziale vettore e poi determinare da questo il campo magnetico. Mostreremo ora come ciò si può fare. A=
14.2 • Il potenziale vettore dovuto a correnti note
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14.2
Il potenziale vettore dovuto a correnti note
Siccome B è determinato dalle correnti, lo è anche A. Vogliamo adesso trovare A in funzione delle correnti. Partiamo dall’equazione fondamentale (14.2): c2 r ⇥ B =
j ✏0
che equivale naturalmente a c2 r ⇥ (r ⇥ A) =
j ✏0
(14.12)
Questa equazione rappresenta per la magnetostatica ciò che l’equazione r·r =
⇢ ✏0
(14.13)
rappresenta per l’elettrostatica. L’equazione (14.12) per il potenziale vettore prende un aspetto ancora più simile a quella per se riscriviamo r ⇥ (r ⇥ A) servendoci dell’identità vettoriale (2.58): r ⇥ (r ⇥ A) = r (r · A)
r2 A
(14.14)
Siccome si è scelto di porre r · A = 0 (e ora vedete il perché), l’equazione (14.12) diventa r2 A =
j ✏ 0 c2
(14.15)
Questa equazione vettoriale equivale naturalmente a tre equazioni, cioè r2 Ax =
jx ✏ 0 c2
r2 Ay =
jy ✏ 0 c2
r2 Az =
jz ✏ 0 c2
(14.16)
e ciascuna di queste equazioni è matematicamente identica a r2 =
⇢ ✏0
(14.17)
Tutto quello che si è imparato sul modo di trovare i potenziali quando è noto può essere usato per trovare ciascuna componente di A quando j è noto! S’è visto nel capitolo 4 che una soluzione generale per l’equazione elettrostatica (14.17) è ⌅ 1 ⇢(2) dV2 (1) = 4⇡✏ 0 r 12 Perciò si capisce subito che una soluzione generale per Ax è ⌅ 1 j x (2) dV2 Ax (1) = 2 r 12 4⇡✏ 0 c
(14.18)
e similmente per Ay e Az . (La figura FIGURA 14.2 serve a ricordare le convenzioni circa r 12 e dV2 .) Si possono combinare le tre soluzioni per dare l’equazione vettoriale ⌅ 1 j(2) dV2 A(1) = (14.19) r 12 4⇡✏ 0 c2
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172
Capitolo 14 • Il campo magnetico in varie circostanze
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(Se volete, potete verificare per diretta derivazione delle componenti che questo integrale soddisfa la condizione r· A = 0 fintanto che si ha r· j = 0, ciò che – come si vide – deve avvenire per correnti costanti.) r12 j Abbiamo dunque un metodo generale per trovare il campo magnetico 2 delle correnti costanti. Il principio è il seguente: la componente x del podV2 tenziale vettore dovuto a una densità di corrente j è uguale a quella del potenziale elettrico che sarebbe prodotto da una densità di carica uguale a j x /c2 , e similmente per le componenti y e z. (Questo principio funziona soltanto per componenti aventi una direzione fissa. La componente «radiale» di A, per esempio, non risulta nello stesso modo dalla componente FIGURA 14.2 Il potenziale vettore A nel punto 1 è «radiale» di j.) Si può dunque trovare A dalla densità vettoriale di cordato da un integrale sugli elementi di corrente jdV in tutti i punti 2. rente j usando l’equazione (14.19); cioè si trovano le tre componenti di A risolvendo tre immaginari problemi elettrostatici per le distribuzioni di carica 1
⇢1 =
jx c2
⇢2 =
jy c2
⇢3 =
jz c2
Dopo di che si ottiene B prendendo le varie derivate di A e combinandole per formare r ⇥ A. La cosa è un po’ più complicata che in elettrostatica, ma l’idea è la stessa. Illustreremo ora la teoria determinando il potenziale vettore in alcuni casi particolari.
14.3
Un filo diritto Come primo esempio vogliamo trovare di nuovo il campo di un filo diritto: problema che nel capitolo precedente abbiamo risolto usando l’equazione (14.2) e alcuni argomenti di simmetria. Prendiamo un lungo filo rettilineo di raggio a, percorso da una corrente costante I. A differenza della carica su un conduttore nel caso elettrostatico, una corrente costante in un filo si distribuisce uniformemente sulla sezione trasversa del filo. Se scegliamo il nostro sistema di coordinate come mostra la FIGURA 14.3, il vettore densità di corrente j ha la sola componente z. Il suo modulo è
z
I j a
A
jz =
y
r' P x
I ⇡a2
(14.20)
dentro il filo, e zero fuori. Siccome j x e jy sono entrambe nulle, abbiamo immediatamente Ax = 0 Ay = 0 Per ottenere Az si può usare la soluzione trovata per il potenziale di un filo con un’uniforme densità di carica ⇢ = jz /c2 . Per punti esterni a un cilindro carico infinitamente lungo il potenziale elettrostatico è
14.3 Un lungo filo cilindrico lungo l’asse z con un’uniforme densità di corrente j. FIGURA
=
dove r0 = e
2⇡✏ 0 q
ln r 0
x2 + y2
= ⇡a2 ⇢
è la carica per unità di lunghezza. Perciò Az deve essere Az =
⇡a2 jz ln r 0 2⇡✏ 0 c2
14.4 • Un solenoide lungo
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per punti esterni a un lungo filo che porta una corrente uniforme. Essendo ⇡a2 jz = I possiamo anche scrivere I ln r 0 (14.21) 2⇡✏ 0 c2 Ora si può trovare B dalla (14.4). Ci sono soltanto due delle sei derivate che non sono nulle; si ricava: Az =
Bx =
I @ ln r 0 = 2 2⇡✏ 0 c @ y
I y 2 2⇡✏ 0 c r 0 2
(14.22)
By =
I @ ln r 0 = 2 @ 2⇡✏ 0 c x
I x 2 2⇡✏ 0 c r 0 2
(14.23)
Bz =
0
Si ottiene lo stesso risultato di prima: B gira intorno al filo e ha modulo B=
14.4
2I 1 2 4⇡✏ 0 c r 0
(14.24)
Un solenoide lungo
Come secondo esempio, consideriamo nuovamente un solenoide infinitamente lungo sulla cui superficie, per unità di lunghezza, c’è una corrente nI nel senso della circonferenza. (Si immagina che ci siano n giri per unità di lunghezza di un filo percorso dalla corrente I e si trascura il piccolo passo dell’avvolgimento.) Proprio come si è definita una «densità di carica superficiale» , definiremo qui una «densità di corrente superficiale» J uguale alla corrente per unità d’area sulla superficie del solenoide (che è poi, naturalmente, il valor medio di j moltiplicato per lo spessore del sottile avvolgimento). Il modulo di J qui è nI. La corrente superficiale (FIGURA 14.4) ha le componenti Jx = J sen Jy = J cos Jz = 0 Dobbiamo ora trovare A per una tale distribuzione di corrente. In primo luogo vogliamo trovare Ax per i punti esterni al solenoide. Il risultato è lo stesso del potenziale elettrostatico all’esterno di un cilindro con una carica superficiale =
0 sen
dove
J c2 Non abbiamo studiato una tale distribuzione di carica, ma abbiamo fatto qualcosa di simile. Questa distribuzione equivale a due cilindri di carica pieni, uno positivo e uno negativo, con un piccolo spostamento relativo dei loro assi nella direzione y. Il potenziale di questa coppia di cilindri è proporzionale alla derivata rispetto a y del potenziale di un cilindro uniformemente carico. Si potrebbe ricavare la costante di proporzionalità, ma non preoccupiamocene per il momento. Il potenziale di un cilindro di carica è proporzionale a ln r 0; il potenziale della coppia è quindi 0
/
=
y @ ln r 0 = 02 @y r
173
174
Capitolo 14 • Il campo magnetico in varie circostanze
14.4 Un lungo solenoide con una densità superficiale di corrente J.
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FIGURA
14.5 Un cilindro carico ruotante produce all’interno un campo magnetico. Un breve filo radiale che ruota insieme al cilindro presenta delle cariche indotte ai suoi estremi.
z
FIGURA
y J= v
J
Jy B
a
B
– –––
W + + ++
Jx a f
B
–– – – + + ++
W
x J
J= v
A
Sappiamo dunque che deve essere Ax = K
y
(14.25)
r02 dove K è una certa costante. Con lo stesso ragionamento si troverebbe Ay = K
x
(14.26)
r02
Benché prima si sia detto che non c’è campo magnetico all’esterno di un solenoide, ora troviamo che c’è un campo di A che circola intorno all’asse z, come in FIGURA 14.4. La questione è di sapere se il suo rotore è nullo. Evidentemente Bx e By sono nulli e per Bz si ha @ x Bz = K 02 @x r
!
@ @y
K
y r02
!
1 = K * 02 ,r
2x 2 1 + 02 0 4 r r
2y 2 + =0 r04 -
Perciò il campo magnetico all’esterno di un solenoide molto lungo è realmente nullo, anche se il potenziale vettore non lo è. Possiamo controllare questo risultato su qualcos’altro che conosciamo: la circuitazione del potenziale vettore intorno al solenoide dovrebbe uguagliare il flusso di B dentro la bobina (equazione (14.11)). La circuitazione è A · 2⇡r 0, ossia, essendo A = K/r 0, la circuitazione è 2⇡K. Si noti che è indipendente da r 0. Questo è proprio come deve essere se fuori B non c’è, perché allora il flusso non è che il modulo di B dentro il solenoide moltiplicato per ⇡a2 . Esso è lo stesso per tutte le circonferenze di raggio r 0 > a. Nel capitolo precedente si è trovato che il campo interno è nI/✏ 0 c2 , perciò si può determinare la costante K ponendo 2⇡K = ⇡a2
nI ✏ 0 c2
ossia
K=
nIa2 2✏ 0 c2
Quindi il potenziale vettore ha, esternamente, il modulo A=
nIa2 1 2✏ 0 c2 r 0
(14.27)
ed è sempre perpendicolare al vettore r 0. Abbiamo parlato di un solenoide realizzato con una bobina di filo, ma si produrrebbe lo stesso campo se si facesse ruotare un lungo cilindro avente una carica elettrostatica sulla superficie. Se
14.5 • Il campo di una piccola spira. Il dipolo magnetico
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si ha un guscio cilindrico sottile di raggio a, con una carica superficiale luogo a una corrente superficiale J= v
, la sua rotazione dà
dove v = a! è la velocità della carica superficiale. Ci sarà dunque dentro al cilindro un campo magnetico a! B= ✏ 0 c2 Ora possiamo sollevare una questione interessante. Supponiamo di mettere un pezzetto di filo W perpendicolare all’asse del cilindro, che vada dall’asse fino alla superficie e fissato al cilindro, così che ruoti con questo, come in FIGURA 14.5. Questo filo si muove in un campo magnetico, perciò le forze v ⇥ B faranno sì che gli estremi del filo siano carichi (si caricheranno finché il campo E prodotto dalle cariche fa equilibrio alla forza magnetica v ⇥ B). Se il cilindro porta una carica positiva, l’estremo del filo che si trova sull’asse acquisterà una carica negativa. Misurando la carica all’estremo del filo si potrebbe misurare la velocità di rotazione del sistema. Si avrebbe un «tachimetro per la velocità angolare»! Vi domanderete, però: «che cosa succede se mi metto nel sistema di riferimento del cilindro rotante? Lì non c’è che un cilindro in quiete e io so che le equazioni elettrostatiche dicono che non ci sono campi elettrici internamente a un conduttore, perciò non ci possono essere forze che spingono delle cariche verso il centro. Dunque qualcosa deve essere sbagliato». Ma in realtà non c’è nulla di sbagliato: non c’è una «relatività della rotazione». Un sistema rotante non è un sistema inerziale e le leggi della fisica sono in esso differenti. Dobbiamo sempre accertarci di adoperare le equazioni dell’elettromagnetismo soltanto nel quadro di sistemi di coordinate inerziali. Sarebbe interessante poter misurare la rotazione della Terra con un simile cilindro carico, ma disgraziatamente l’effetto è troppo piccolo, e di molto, per poterlo osservare anche con i più delicati strumenti oggi disponibili.
14.5
Il campo di una piccola spira. Il dipolo magnetico
Usiamo ora il metodo del potenziale vettore per trovare il campo magnetico di una piccola spira di corrente. Al solito, col termine «piccola» s’intende semplicemente che ci si interessa soltanto dei campi a distanze grandi in confronto alle dimensioni della spira. Risulterà che una piccola spira è un «dipolo magnetico», cioè produce un campo magnetico simile al campo elettrico di un dipolo elettrico. Consideriamo dapprima una spira rettangolare e scegliamo le coordinate come mostra la FIGURA 14.6. Non ci sono correnti nella direzione z, perciò Az è nullo. Ci sono correnti nella direzione x lungo i due lati di lunghezza a. In ciascun tratto la densità di corrente (e la corrente) è uniforme. Perciò la soluzione per Ax è simile al potenziale elettrostatico di due sbarrette cariche (FIGURA 14.7). Siccome le sbarrette hanno cariche opposte, il loro potenziale elettrico a grande distanza non è che un potenziale di dipolo (paragrafo 6.5). Nel punto P in FIGURA 14.6 il potenziale sarebbe 1 p · eR = (14.28) 4⇡✏ 0 R2 dove p è il momento dipolare della distribuzione di carica. In questo caso il momento dipolare è dato dalla carica totale di una delle sbarrette moltiplicata per la loro separazione: p = ab
(14.29)
Il momento dipolare punta nella direzione y negativa e quindi il coseno dell’angolo fra R e p è y/R (dove y è la coordinata di P). Abbiamo perciò =
1 ab y 4⇡✏ 0 R2 R
175
176
Capitolo 14 • Il campo magnetico in varie circostanze
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P
z
z
y y
R
jx x
b b
x
I
a
I
+ + + + + + + + jx
a
14.6 Una spira rettangolare di filo con una corrente I. Qual è il campo magnetico in P? (R a e R b.)
14.7 La distribuzione di j x nella spira di corrente della FIGURA 14.6.
FIGURA
FIGURA
con I/c2 :
Si ottiene Ax sostituendo semplicemente
Ax =
Iab y 4⇡✏ 0 c2 R3
(14.30)
Con lo stesso ragionamento si ha Ay =
Iab x 4⇡✏ 0 c2 R3
(14.31)
Una volta di più, Ay è proporzionale a x e Ax è proporzionale a y, perciò il potenziale vettore (a grandi distanze) gira intorno all’asse z, circolando nello stesso senso di I nella spira, come mostra la FIGURA 14.8. L’intensità di A è proporzionale a Iab, che è il prodotto della corrente per l’area della spira. Questo prodotto è chiamato momento di dipolo magnetico (o spesso solo «momento magnetico») della spira. Lo rappresenteremo con µ: µ = Iab (14.32) Il potenziale vettore di una piccola spira piana di qualunque forma (cerchio, triangolo ecc.) è pure dato dalle equazioni (14.30) e (14.31) purché si sostituisca Iab con µ = I · (area della spira)
(14.33)
Di questo lasciamo a voi la dimostrazione. Possiamo mettere la nostra equazione in forma vettoriale dando per definizione al vettore µ la direzione della normale alla spira, col senso positivo stabilito dalla regola della mano destra (FIGURA 14.8). Si può allora scrivere A=
1 µ⇥R 1 µ ⇥ eR = 4⇡✏ 0 c2 R3 4⇡✏ 0 c2 R2
(14.34)
Dobbiamo ancora trovare B. Usando le (14.33) e (14.34) insieme alla (14.4) otteniamo @ µ x 3xz = ... 5 @z 4⇡✏ 0 c2 R3 R
Bx =
(14.35)
(dove con «...» si intende µ/4⇡✏ 0 c2 ) ! y 3yz ... 3 = ... 5 R R ! @ y 1 ... 3 = ... * 3 @y R R ,
@ By = @z @ x Bz = ... 3 @x R
!
3z 2 + R5 -
(14.36)
177
14.7 • La legge di Biot e Savart
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Le componenti del campo B si comportano esattamente come quelle del z campo E di un dipolo orientato lungo l’asse z. (Vedi le equazioni (6.14) e (6.15) e anche la FIGURA 6.4.) Questa è la ragione per cui la spira viene chiamata dipolo magnetico. La parola «dipolo» è leggermente ingannevole A perché non ci sono «poli» magnetici che corrispondano alle cariche elettriche. Il «campo di dipolo» magnetico non è prodotto da due «cariche», ma R da una spira elementare di corrente. È tuttavia curioso che partendo da due leggi completamente diverse, y cioè ⇢ j r·E = r⇥B = ✏0 ✏ 0 c2 x si vada a finire nello stesso tipo di campo. Quale potrebbe essere il motivo? I Il motivo è che i campi di dipolo appaiono soltanto quando si è molto lontani da tutte le cariche o correnti; perciò le equazioni per B ed E sono FIGURA 14.8 Il potenziale vettore di una piccola spira identiche nella maggior parte dello spazio che interessa: entrambi i campi percorsa da corrente, posta nell’origine (sul piano xy); vi hanno divergenza nulla e rotore nullo. Perciò si hanno le stesse soluzioni. un campo di dipolo magnetico. Tuttavia le sorgenti – le cui configurazioni vengono riassunte dai momenti dipolari – sono fisicamente del tutto diverse: in un caso si tratta di una corrente che circola, nell’altro si tratta di una coppia di cariche una sopra e l’altra sotto il piano della spira che produce il corrispondente campo magnetico.
14.6
Il potenziale vettore di un circuito
Si ha spesso interesse a considerare i campi magnetici prodotti da circuiti formati da fili il cui diametro è molto piccolo in confronto alle dimensioni dell’intero sistema. In tali casi le equazioni per il campo magnetico si possono semplificare. Per un filo sottile l’elemento di volume si può scrivere
I
j
dV = S ds dove S è l’area della sezione normale del filo e ds l’elemento di lunghezza lungo il filo. Effettivamente, siccome il vettore ds, come mostra la FIGURA 14.9, ha la stessa direzione di j (e siccome si può supporre che j sia costante sull’area di qualsiasi sezione) si può scrivere un’equazione vettoriale, cioè j dV = j S ds (14.37) Ma j S non è che la corrente I nel filo, perciò l’integrale (14.19) per il potenziale vettore diventa ⌅ I ds2 1 A(1) = (14.38) 2 r 12 4⇡✏ 0 c (FIGURA 14.10). (Si suppone che I sia lo stesso in tutto il circuito; se ci sono vari rami con diverse correnti, si dovrà naturalmente considerare in ciascun ramo la I appropriata.) Anche qui dalla (14.38) possiamo determinare i campi sia integrando direttamente, sia risolvendo il corrispondente problema elettrostatico.
14.7
La legge di Biot e Savart
Studiando l’elettrostatica si è trovato che il campo elettrico di una distribuzione nota di cariche si può ottenere direttamente con un integrale (equazione (4.16)): ⌅ 1 ⇢(2)e12 dV2 E(1) = 2 4⇡✏ 0 r 12
S
ds
14.9 Per un filo sottile jdV è uguale a Ids. FIGURA
178
Capitolo 14 • Il campo magnetico in varie circostanze
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Come si vide, è di solito più laborioso valutare questo integrale – in realtà ce ne sono tre, uno per componente – che calcolare quello per il potenziale e prenderne il gradiente. C’è un integrale simile al precedente che lega il campo magnetico alle correnti. Abbiamo già un integrale per A, nell’equazione (14.19); possiamo ottenere un integrale per B prendendo il rotore dei due membri: ! ⌅ 1 j(2) dV2 B(1) = r ⇥ A(1) = r ⇥ (14.39) r 12 4⇡✏ 0 c2 Qui bisogna stare attenti: l’operatore rotore significa che si devono prendere le derivate di A(1); esso opera – cioè – soltanto sulle coordinate (x 1, y1, z1 ). Possiamo portare l’operatore r⇥ sotto il segno di integrale, ricordandoci però che opera soltanto sulle variabili con l’indice 1, le quali naturalmente compaiono soltanto in q r 12 = (x 1 x 2 )2 + (y1 y2 )2 + (z1 z2 )2 (14.40) Per la componente x di B abbiamo Bx =
@ Ay 1 = @z1 4⇡✏ 0 c2
@ Az @ y1 =
1 4⇡✏ 0 c2
⌅
⌅
* jz @ 1 , @ y1 r 12
* j z y1 y2 3 r 12 ,
jy
@ 1 + dV2 = @z1 r 12 -
(14.41)
z1 z2 jy 3 + dV2 r 12 -
La grandezza entro parentesi non è che la componente x di j ⇥ r12 j ⇥ e12 = 3 2 r 12 r 12
Analoghi risultati si trovano per le altre componenti, così che si ha ⌅ 1 j(2) ⇥ e12 B(1) = dV2 2 4⇡✏ 0 c2 r 12
I
r12
1
ds 2
14.10 Il campo magnetico di un filo si può ottenere da un integrale lungo il circuito. FIGURA
(14.42)
Questo integrale dà B direttamente in funzione delle correnti note. La geometria è la stessa che in FIGURA 14.2. Se le correnti esistono soltanto in circuiti di fili sottili si può, come nell’ultimo paragrafo, eseguire subito l’integrazione sulla sezione del filo sostituendo j dV con I ds, dove ds è un elemento di lunghezza del filo. Quindi, adoperando i simboli della FIGURA 14.10, si ottiene ⌅ I e12 ⇥ ds2 1 B(1) = (14.43) 2 4⇡✏ 0 c2 r 12
(Il segno meno appare perché abbiamo invertito l’ordine nel prodotto vettoriale.) Questa equazione per B è chiamata legge di Biot e Savart, dai nomi degli scopritori. Essa dà una formula per ottenere direttamente il campo magnetico prodotto da fili percorsi da correnti. Vi domanderete: «qual è il vantaggio del potenziale vettore, visto che si può trovare direttamente B con un integrale vettoriale? Dopotutto, anche A implica tre integrali!». A causa del prodotto vettoriale, gli integrali per B sono di solito più complessi, com’è evidente dall’equazione (14.41). Inoltre, siccome gli integrali per A sono simili a quelli dell’elettrostatica, può darsi che già li conosciamo. Infine, vedremo che a un livello teorico superiore (in relatività, nella formulazione superiore delle leggi della meccanica – come il principio dell’azione minima che discuteremo più avanti – e nella meccanica quantistica) il potenziale vettore svolge un ruolo importante.
15
Il potenziale vettore
15.1
Le forze su una spira di corrente. Energia di un dipolo
Nel capitolo precedente si è studiato il campo magnetico prodotto da una piccola spira rettangolare di corrente. Si è trovato che si tratta di un campo di dipolo, col momento dipolare µ = IA
(15.1)
dove I è la corrente e A l’area della spira. La direzione del momento è perpendicolare al piano della spira, così che si può anche scrivere µ = I An dove n è il versore normale all’area A. Una spira di corrente – o un dipolo magnetico – non soltanto produce campi magnetici, ma subisce anche delle forze quando è posta nel campo magnetico di altre correnti. Esaminiamo dapprima il caso di una spira rettangolare in un campo magnetico uniforme. L’asse z sia diretto come il campo e il piano della spira passi per l’asse y e formi un angolo ✓ col piano x y, come in FIGURA 15.1. Allora il momento magnetico della spira – che è normale al piano di questa – formerà l’angolo ✓ col campo magnetico. Siccome le correnti nei lati opposti della spira sono opposte, le forze su di esse sono pure opposte e perciò non c’è alcuna forza risultante sulla spira (quando il campo è uniforme). Per via delle forze sui due lati, segnati l e 2 sulla figura, c’è però una coppia che tende a far ruotare la spira intorno all’asse y. Il modulo di queste forze, F1 e F2 , è F1 = F2 = I Bb e il loro braccio è b = a sen ✓ perciò il momento delle forze risulta ⌧ = Iab B sen ✓ ossia, essendo Iab il momento magnetico della spira, ⌧ = µB sen ✓ Il momento delle forze può esser scritto in notazione vettoriale: ⌧=µ⇥B
(15.2)
Benché si sia dimostrato che il momento è dato da questa equazione in un caso piuttosto speciale, il risultato è valido, come vedremo, per una piccola spira di forma qualunque. Ricorderete che si è trovato lo stesso tipo di relazione per il momento di forza su un dipolo elettrico: ⌧ = p⇥E
180
15.1 Una spira rettangolare percorsa dalla corrente I si trova in un campo uniforme B (nella direzione z). Il momento di forza sulla spira è τ = �⇥B, dove il momento magnetico è = Iab.
Capitolo 15 • Il potenziale vettore
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FIGURA
15.2 Una spira viene trasportata nella direzione x attraverso il campo B perpendicolare a x.
z B
y B F4
F1 1
I
FIGURA
3
4 4
x
B
1
F2 F3 a
F1
2 b
x1
I 3 a x2
2 b
F2
x
Occupiamoci ora dell’energia meccanica della spira. Visto che c’è un momento di forza, l’energia dipende evidentemente dall’orientazione; il principio dei lavori virtuali ci dice che il momento è la variazione di energia per unità di spostamento angolare, sicché possiamo scrivere dU = ⌧ d✓ Ponendo ⌧ = µB sen ✓ e integrando, si può scrivere per l’energia U = µB cos ✓ + una costante
(15.3)
(Il segno è negativo perché la coppia tende ad allineare il momento dipolare col campo; l’energia prende quindi il suo valore più basso quando µ e B sono paralleli.) Per ragioni che discuteremo in seguito, questa energia non è l’energia totale della spira. (Fra l’altro non abbiamo tenuto conto dell’energia necessaria a mantenere la corrente nella spira.) Chiameremo perciò Umecc questa energia, per ricordarci che è soltanto un’energia parziale. Inoltre, dato che una certa energia viene comunque tralasciata, si può porre uguale a zero la costante d’integrazione nell’equazione (15.3); sicché riscriviamo tale equazione nella forma Umecc = µ · B
(15.4)
Di nuovo, questo corrisponde al risultato ottenuto per un dipolo elettrico: U=
p·E
(15.5)
Ora, l’energia elettrostatica U nell’equazione (15.5) è una vera energia, ma Umecc nella (15.4) non è l’effettiva energia. Può però – per il principio dei lavori virtuali – essere usata per calcolare le forze, supponendo che la corrente nella spira – o almeno µ – si mantenga costante. Si può far vedere servendosi della spira rettangolare che Umecc corrisponde anche al lavoro meccanico fatto per portare la spira nel campo. La forza risultante sulla spira è nulla soltanto in un campo uniforme; in un campo non uniforme c’è una risultante che agisce su di essa. Nel mettere la spira in una regione in cui c’è un campo bisogna avere attraversato delle zone dove il campo non è uniforme e quindi aver compiuto lavoro. Per render semplice il calcolo, immagineremo che la spira sia portata nel campo col suo momento orientato nel senso del campo. (La possiamo poi portare nella sua posizione finale facendola ruotare quando è già sul posto.) Immaginiamo di voler spostare la spira nella direzione x, verso una regione dove il campo è più forte, ed essa sia orientata come mostra la FIGURA 15.2. Si parte da qualche punto dove il campo è nullo e si integra il prodotto della forza per la distanza mentre si porta la spira nel campo. Calcoleremo dapprima il lavoro fatto su ciascun lato separatamente e poi sommeremo (invece di sommare le forze prima d’integrare). Le forze sui lati 3 e 4 sono ad angolo retto con la direzione
15.1 • Le forze su una spira di corrente. Energia di un dipolo
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del moto e perciò non si compie lavoro contro di esse; la forza sul lato 2 è IbB(x) nella direzione x e per ottenere il lavoro fatto contro di essa dobbiamo integrarla da un certo x dove il campo è nullo – mettiamo che sia x = 1 – alla posizione attuale x 2 : ⌅
W2 =
x2
F2 dx = Ib
1
⌅
x2
B(x) dx
(15.6)
1
Similmente il lavoro fatto contro le forze che agiscono sul lato 1 è W1 =
⌅
x1
F1 dx = Ib
1
⌅
x1
B(x) dx
(15.7)
1
Per valutare ciascun integrale occorre conoscere come B(x) dipende da x. Notiamo però che il lato 1 viene subito di seguito al lato 2, così che il relativo integrale include la maggior parte del lavoro fatto sul lato 2. Effettivamente la somma di (15.6) e (15.7) non è che W = Ib
⌅
x2
B(x) dx
(15.8)
x1
Ma se siamo in una regione dove B è quasi lo stesso sui lati 1 e 2 possiamo scrivere l’integrale nella forma ⌅ x2 B(x) dx = (x 2 x 1 ) B = aB x1
dove B è il campo al centro della spira. L’energia meccanica totale che abbiamo fornito è dunque Umecc = W = IabB = µB
(15.9)
Il risultato concorda con l’energia che è stata indicata nell’equazione (15.4). Naturalmente si sarebbe ottenuto lo stesso risultato se si fossero sommate le forze sulla spira prima d’integrare per trovare il lavoro. Se B1 è il campo sul lato 1 e B2 quello sul lato 2, allora la risultante nella direzione x è B1 )
Fx = Ib(B2
Se la spira è «piccola», cioè se B2 e B1 non sono troppo diversi, si può scrivere B2 = B1 +
@B @x
x = B1 +
@B a @x
Perciò la forza è Fx = Iab
@B @x
(15.10)
Il lavoro totale fatto sulla spira dalle forze esterne è dunque ⌅
x
Fx dx = Iab 1
⌅
@B dx = IabB @x
che è ancora una volta proprio µB. Solo che ora si capisce perché la forza su una piccola spira di corrente è proporzionale alla derivata del campo magnetico, come ci si aspetta dall’equazione Fx x =
Umecc =
( µ · B)
(15.11)
Il nostro risultato è dunque il seguente: anche se Umecc = µ · B non comprende tutta l’energia del sistema (Umecc è una falsa energia), essa può tuttavia essere adoperata insieme al principio dei lavori virtuali per trovare le forze su spire percorse da correnti costanti.
181
182
Capitolo 15 • Il potenziale vettore
15.2
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Energia meccanica ed elettrica
Vogliamo ora far vedere perché l’energia Umecc discussa nel paragrafo precedente non è l’energia corretta da associare a delle correnti costanti e come essa non tenga conto dell’energia totale dell’universo. Effettivamente abbiamo messo in evidenza che può essere usata come se fosse un’energia per calcolare le forze dal principio dei lavori virtuali, purché non ci siano cambiamenti nella corrente della spira (e in tutte le altre correnti). Vediamo perché tutto questo è possibile. Immaginiamo che la spira della FIGURA 15.2 si muova nella direzione +x e prendiamo l’asse z nella direzione di B. Gli elettroni di conduzione nel lato 2 risentiranno di una forza diretta lungo il filo, cioè nella direzione y. Ma a causa del loro fluire – come corrente elettrica – c’è una componente del loro moto nella stessa direzione della forza. Perciò su ciascun elettrone viene effettuato un lavoro Fy vy per unità di tempo, dove vy è la componente della velocità dell’elettrone lungo il filo. Chiameremo lavoro elettrico questo lavoro fatto sugli elettroni. Ora avviene che se la spira si muove in un campo uniforme, il lavoro elettrico totale è nullo, perché del lavoro positivo viene compiuto su certe parti della spira e una quantità uguale di lavoro negativo viene compiuto su altre parti. Questo però non è vero se il circuito si muove in un campo non uniforme: in tal caso ci sarà un lavoro complessivo sugli elettroni. In generale questo lavoro tenderebbe a cambiare il flusso degli elettroni, ma se la corrente è mantenuta costante, dell’energia dovrà essere assorbita o fornita dalla batteria o da altra sorgente che mantiene costante la corrente. Questa energia non è stata inclusa quando è stata calcolata la Umecc dell’equazione (15.9) perché il nostro calcolo riguardava soltanto le forze meccaniche sul filo. Potreste pensare: «Ma la forza sugli elettroni dipende da quanto rapidamente si sposta il filo; forse se il filo viene spostato abbastanza lentamente questa energia elettrica può essere trascurata». È vero che l’energia elettrica fornita per unità di tempo è proporzionale alla velocità del filo, ma l’energia totale fornita è anche proporzionale al tempo di durata di questo effetto. Perciò l’energia elettrica totale è proporzionale al prodotto della velocità per il tempo, che è semplicemente la distanza percorsa. Per una data distanza percorsa in un campo, viene eseguita sempre la stessa quantità di lavoro elettrico. Consideriamo un segmento di filo di lunghezza unitaria che trasporta la corrente I e si muove con velocità vfilo in una direzione perpendicolare a sé stesso e al campo magnetico B. A causa della corrente, gli elettroni avranno una velocità di trascinamento vdrift in direzione del filo. La componente della forza magnetica su ciascun elettrone nella direzione della deriva è qe vfilo B. Perciò il lavoro elettrico per unità di tempo è Fvdrift = (qe vfilo B) vdrift Se ci sono N elettroni di conduzione per unità di lunghezza del filo, il lavoro totale elettrico per unità di tempo è dUelett = N qe vfilo Bvdrift dt Ma N qe vdrift è eguale a I, corrente nel filo, perciò si ha dUelett = Ivfilo B dt Ora, siccome la corrente è mantenuta costante, le forze agenti sugli elettroni di conduzione non li fanno accelerare: l’energia elettrica non va agli elettroni, ma alla sorgente che mantiene costante la corrente. Notate però che la forza sul filo è I B, perciò I B vfilo è anche il lavoro meccanico per unità di tempo fatto sul filo; si ha cioè dUmecc = I Bvfilo dt Ne concludiamo che il lavoro meccanico fatto sul filo è proprio uguale al lavoro elettrico fatto sulla sorgente di corrente, così che l’energia della spira è costante!
183
15.2 • Energia meccanica ed elettrica
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15.3 Trovare l’energia di una piccola spira in un campo magnetico. FIGURA
I2
I2 B1
B1
v
v I1
B2
B2
Spira
I1
I2
(a)
(b)
I2
Questa non è una coincidenza, ma una conseguenza di una legge che già conosciamo. La forza totale su ciascuna carica nel filo è F = q (E + v ⇥ B) Il lavoro fatto per unità di tempo è
⇥ ⇤ v · F = q v · E + v · (v ⇥ B)
(15.12)
Se non ci sono campi elettrici, abbiamo soltanto il secondo termine, che è sempre nullo. Vedremo più avanti che i campi magnetici variabili producono campi elettrici, perciò il nostro ragionamento si applica soltanto a fili che si muovono in campi magnetici costanti. Come mai dunque il principio dei lavori virtuali ci dà la risposta giusta? Infatti, ancora, non abbiamo tenuto conto dell’energia totale dell’universo. Non abbiamo incluso l’energia delle correnti, che producono il campo magnetico che si introduce inizialmente. Supponiamo di pensare a un sistema completo, come quello indicato nella FIGURA 15.3a, nel quale si fa muovere la spira che trasporta la corrente I1 nel campo magnetico B1 prodotto dalla corrente I2 di una bobina. La corrente I1 nella spira produrrà ora anche un certo campo magnetico B2 nella regione della bobina. Se la spira si muove, il campo B2 cambierà. Come vedremo nel prossimo capitolo, un campo magnetico variabile genera un campo elettrico E e questo campo E compie lavoro sulle cariche della bobina. Questa energia deve essere inclusa nel bilancio dell’energia totale. Si potrebbe aspettare fino al prossimo capitolo per chiarire questo nuovo termine energetico, ma si può anche vedere di che si tratta utilizzando il principio di relatività nel modo seguente. Quando spostiamo la spira verso la bobina ferma, sappiamo che la sua energia elettrica è proprio uguale e opposta al lavoro meccanico compiuto. Perciò Umecc + Uelett (spira) = 0 Passiamo ora a esaminare quello che accade da un punto di vista diverso, nel quale la spira è in quiete e si muove la bobina verso di essa. La bobina si muove dunque nel campo prodotto dalla spira: lo stesso ragionamento di prima dà perciò Umecc + Uelett (bobina) = 0 L’energia meccanica è la stessa nei due casi perché deriva dalla forza fra i due circuiti. La somma delle due equazioni dà 2Umecc + Uelett (spira) + Uelett (bobina) = 0 L’energia totale dell’intero sistema è naturalmente la somma delle due energie elettriche, più l’energia meccanica contata una volta sola. Perciò abbiamo Utot = Uelett (spira) + Uelett (bobina) + Umecc = Umecc
(15.13)
L’energia totale dell’universo è dunque in realtà Umecc cambiata di segno. Se si vuole l’energia vera di un dipolo magnetico si dovrebbe scrivere Utot = +µ · B
184
Capitolo 15 • Il potenziale vettore
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Soltanto se si mette la condizione che tutte le correnti siano costanti è possibile usare solo una parte dell’energia, cioè Umecc (che è sempre l’energia vera col segno opposto) per trovare le forze meccaniche. Nei problemi più generali, invece, si deve stare attenti a includere tutte le energie. Abbiamo visto un’analoga situazione in elettrostatica. Abbiamo fatto vedere che l’energia di un condensatore è uguale a Q2 /2C. Quando si usa il principio dei lavori virtuali per trovare la forza che si esercita fra le lastre del condensatore, la variazione dell’energia è uguale al prodotto di Q2 /2 per la variazione di 1/C. Cioè si ha Q2 U= 2
! 1 = C
Q2 C 2 C2
(15.14)
Supponiamo ora di voler calcolare il lavoro fatto nel muovere due conduttori sottoposti a una condizione diversa e cioè che la differenza di potenziale fra loro venga tenuta costante. Si può allora ottenere dal principio dei lavori virtuali la risposta corretta riguardo alla forza facendo una cosa un po’ artificiosa. Siccome è Q = CV , l’energia vera è (1/2) CV 2 . Ma se definiamo un’energia artificiosa uguale a (1/2) CV 2 , allora il principio dei lavori virtuali può essere usato per ottenere le forze ponendo la variazione di questa energia artificiosa uguale al lavoro meccanico, purché si insista che il voltaggio deve essere tenuto costante. Allora sarà Umecc =
2 * CV + = 2 ,
V2 C 2
(15.15)
che è uguale all’equazione (15.14). Si trova il risultato corretto benché si trascuri il lavoro fatto dal sistema elettrico per mantenere costante il voltaggio. Di nuovo, questa energia elettrica è giusto il doppio dell’energia meccanica e di segno opposto. Così avviene che calcolando in modo artificioso, trascurando il fatto che la sorgente di potenziale deve compiere lavoro per mantenere il voltaggio costante, si ottiene la risposta giusta. La cosa è completamente analoga alla situazione in magnetostatica.
15.3
L’energia delle correnti costanti
B n
I
Spira
Possiamo ora utilizzare il fatto che Utot = Umecc per trovare l’energia vera delle correnti costanti nei campi magnetici. Possiamo cominciare con l’energia vera di una piccola spira. Indicando Utot semplicemente con U, scriveremo U =µ·B (15.16)
Benché questa energia sia stata calcolata per una spira rettangolare piana, lo stesso risultato vale per una piccola spira piana di qualunque forma. I Si può trovare l’energia di un circuito di forma qualunque immaginando che esso sia costituito di tante piccole spire. Supponiamo di avere un filo I Superficie S che ha la forma della spira in FIGURA 15.4. Inseriamo in questa curva la superficie S e sulla superficie segniamo un gran numero di piccole spire, ciascuna delle quali può essere considerata piana. Se facciamo circolare una FIGURA 15.4 L’energia di una grande spira in un corrente I intorno a ciascuna di queste piccole spire, il risultato complessivo campo magnetico si può considerare come la somma delle energie di tante spire più piccole. sarà lo stesso che si avrebbe con una corrente intorno a , perché le correnti su tutte le linee interne a si compenseranno. Fisicamente il sistema formato dalle piccole correnti è indistinguibile dal circuito originario. Anche l’energia deve essere la stessa e perciò non è che la somma delle energie delle piccole spire. Se ogni piccola spira ha area a, la sua energia è I Bn a, essendo Bn = B · n la componente di B normale a a (n è il versore normale a a). L’energia totale è perciò X U= I Bn a I
I
I
I
15.4 • Confronto di B e A
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Passando al limite per spire infinitesime, la somma diventa un integrale e si ha ⌅ ⌅ U = I Bn da = I B · n da
(15.17)
dove n è il versore normale a da. Se si pone B = r ⇥ A, si può collegare l’integrale di superficie a un integrale di linea, usando il teorema di Stokes, e si ha: ⌅ ⇥ I (r ⇥ A) · n da = I A · ds (15.18) S
dove ds è l’elemento di linea su . Perciò abbiamo l’espressione per l’energia di un circuito di forma qualunque: ⇥ U=I
A · ds
(15.19)
circuito
In questa espressione A si riferisce naturalmente al potenziale vettore dovuto a quelle correnti (diverse dalla I nel filo) che producono il campo B in cui il filo è immerso. Ora, qualsiasi distribuzione di correnti costanti può essere pensata come costituita da filamenti che corrono parallelamente alle linee di flusso della corrente. Per ciascuna coppia di tali circuiti l’energia è data da (15.19), dove l’integrale si deve prendere lungo uno dei circuiti, usando il potenziale vettore A del campo prodotto dall’altro. Per ottenere l’energia totale occorre sommare tutte queste coppie. Se invece di procedere per coppie si prendesse la somma completa su tutti i filamenti, si conterebbe l’energia due volte (si vide un effetto simile in elettrostatica), perciò l’energia totale può esser scritta ⌅ 1 U= j · A dV (15.20) 2 Questa formula corrisponde al risultato trovato per l’energia elettrostatica: ⌅ 1 U= ⇢ dV 2
(15.21)
Perciò si può, se si vuole, pensare che A sia una specie di energia potenziale delle correnti in magnetostatica. Sfortunatamente quest’idea non è troppo utile perché è vera soltanto per campi statici. Infatti né l’una né l’altra delle equazioni (15.20) e (15.21) dà l’energia corretta quando i campi variano nel tempo.
15.4
Confronto di B e A
In questo paragrafo vorremmo discutere i seguenti interrogativi: il potenziale vettore è puramente un artificio utile per far calcoli – come il potenziale scalare lo è in elettrostatica – oppure è un «vero» campo? Il campo «vero» non è forse il campo magnetico, che è responsabile della forza sulle particelle in moto? Per prima cosa si dovrebbe dire che l’espressione «campo vero» non ha molto senso. Da un lato, non avete probabilmente l’impressione che il campo magnetico sia comunque qualcosa di molto «vero», ossia reale, perché già la stessa idea di campo è una cosa piuttosto astratta. Non potete allungare una mano e toccare il campo magnetico. Per di più il suo valore non è molto definito: scegliendo un opportuno sistema di coordinate in movimento, potete far sì che il campo magnetico in un dato punto scompaia. Quel che qui intendiamo con campo «vero» è questo: un campo vero è una funzione matematica che si usa per evitare l’idea di azione a distanza. Se si ha una particella carica nella posizione P, essa è influenzata da altre cariche poste a qualche distanza da P. Un modo di descrivere questa interazione è di dire che le altre cariche creano una certa «condizione» – qualunque essa possa essere – nell’intorno di P. Se conosciamo tale condizione, che descriviamo attraverso i
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Capitolo 15 • Il potenziale vettore
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campi elettrico e magnetico, allora possiamo determinare completamente il comportamento della particella, senza nessun ulteriore riferimento al modo nel quale quella condizione si è formata. In altre parole, se quelle tali «altre» cariche venissero a cambiare in qualche modo, ma le condizioni in P descritte dal campo elettrico e magnetico in tali punti restassero le stesse, il moto della carica sarebbe ancora lo stesso. Un «vero» campo è perciò un insieme di numeri che specifichiamo in maniera tale che ciò che accade in un punto dipenda soltanto dai numeri relativi a quel punto e non ci sia più bisogno di conoscere quello che sta succedendo in altri punti. È in questo senso che vogliamo discutere se il potenziale vettore è un «vero» campo. Forse avrete delle perplessità riguardo al fatto che il potenziale vettore non è unico, che lo si può cambiare aggiungendogli il gradiente di uno scalare senza alcun cambiamento nelle forze sulle particelle. Questo però non ha nulla a che fare col nostro problema, nel senso che gli abbiamo dato. Per esempio, il campo magnetico è in un certo senso alterato da un cambiamento relativistico (come lo sono anche E e A). Ma non ci preoccupa quello che accade quando il campo può essere alterato in tal modo. Questo in realtà non crea nessuna differenza e non ha nulla a che fare col problema di sapere se il potenziale vettore è un «vero» campo adatto per descrivere gli effetti magnetici o se non è che un utile strumento matematico. Sull’utilità del potenziale vettore A si possono fare alcune osservazioni. S’è visto che lo si può usare secondo un procedimento formale per calcolare i campi magnetici di correnti note, proprio come può essere usato per trovare i campi elettrici. In elettrostatica si è visto che è dato dall’integrale scalare ⌅ ⇢(2) 1 dV2 (15.22) (1) = 4⇡✏ 0 r 12 Da questo si ottengono le tre componenti di E con tre operazioni di derivazione. Questo procedimento è di solito più facile da eseguire che non la valutazione dei tre integrali richiesta dall’uso della formula vettoriale ⌅ 1 ⇢(2) e12 E(1) = dV2 (15.23) 2 4⇡✏ 0 r 12 Per prima cosa, gli integrali sono tre, e in secondo luogo ciascuno di essi è in generale alquanto più difficile. I vantaggi sono molto meno chiari in magnetostatica. L’integrale per A è già un integrale vettoriale: ⌅ 1 j(2) A(1) = dV2 (15.24) 2 r 12 4⇡✏ 0 c il che comporta, naturalmente, tre integrali. Inoltre quando si prende il rotore di A per ottenere B si hanno sei derivate da eseguire e da combinare a coppie. Non è senz’altro ovvio, in tanti problemi, decidere se questo procedimento abbia un qualche vantaggio rispetto a calcolare B direttamente dalla formula ⌅ 1 j(2) ⇥ e12 dV2 (15.25) B(1) = 2 4⇡✏ 0 c2 r 12 L’uso del potenziale vettore è spesso più difficile per problemi semplici, per la ragione seguente. Supponiamo che c’interessi soltanto il campo B in un punto e che il problema si presenti con una bella simmetria; mettiamo per esempio di volere il campo in un punto dell’asse di un anello di corrente. A causa della simmetria, si può facilmente ottenere B eseguendo l’integrale (15.25). Se invece si dovesse trovare prima A, si dovrebbe poi calcolare B dalle derivate di A, così che si dovrebbe conoscere A in tutti i punti in vicinanza di quello che c’interessa. Di questi punti i più sono fuori dell’asse di simmetria e perciò l’integrale per A diventa complicato. Nel problema dell’anello, per esempio, ci occorrerebbe usare integrali ellittici. In tali problemi è chiaro che A non è molto utile. È vero che in molti problemi complessi è più facile operare con A, ma sarebbe difficile sostenere che questa agevolazione della tecnica possa giustificare di farvi imparare un campo vettoriale in più. Si è introdotto A perché ha realmente un significato fisico importante. Non soltanto esso è in rapporto con l’energia delle correnti, come si vide nel paragrafo precedente, ma è anche un
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15.5 • Il potenziale vettore e la meccanica quantistica
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«vero» campo fisico nel senso definito prima. In meccanica classica è chiaro che si può scrivere la forza su una particella nella forma (15.26)
F = q (E + v ⇥ B)
così che, date le forze, tutto quello che riguarda il moto è determinato. In qualunque regione dove B è nullo, anche se A non lo è – come all’esterno di un solenoide – A non ha alcun percepibile effetto. Perciò per molto tempo si è pensato che A non fosse un «vero» campo. Succede però che esistono dei fenomeni connessi con la meccanica quantistica che mostrano come A sia effettivamente un «vero» campo nel senso che abbiamo definito. Nel prossimo paragrafo faremo vedere come questo avviene.
15.5
Il potenziale vettore e la meccanica quantistica
Ci sono molti cambiamenti nell’importanza relativa dei concetti fisici quando si passa dalla meccanica classica a quella quantistica. Ne abbiamo già discussi alcuni nel vol. 1. In particolare, il concetto di forza svanisce gradualmente, mentre i concetti di energia e impulso assumono un’importanza dominante. Vi ricorderete che invece di moti di particelle ci si occupa di ampiezze di probabilità che variano nello spazio e nel tempo. Nelle espressioni di queste ampiezze ci sono lunghezze d’onda legate agli impulsi e frequenze legate alle energie. Gli impulsi e le energie che determinano le fasi delle funzioni d’onda sono perciò le quantità che contano in meccanica quantistica. Invece che delle forze ci si occupa del modo in cui le interazioni alterano la lunghezza d’onda delle onde: l’idea di forza diventa affatto secondaria, se mai appare. Quando i fisici parlano di forze nucleari, per esempio, ciò che essi di solito analizzano e adoperano sono le energie d’interazione fra due nucleoni e non la forza fra questi. Nessuno mai va a derivare l’energia per vedere come sono fatte le forze. In questo paragrafo vogliamo descrivere in che modo i potenziali scalare e vettore entrano nella meccanica quantistica. Effettivamente è proprio perché impulso ed energia giocano in meccanica quantistica una parte fondamentale che A e forniscono il modo più diretto di introdurre gli effetti elettromagnetici in una descrizione quantistica. Dobbiamo rivedere un momento come funziona la meccanica quantistica. Considereremo di nuovo l’esperimento immaginario descritto nel cap. 37 del vol. 1, nel quale degli elettroni vengono diffratti da due fenditure. Il dispositivo è riportato nella FIGURA 15.5. Degli elettroni, aventi tutti quasi la stessa energia, lasciano la sorgente e si dirigono verso una parete che ha due sottili fenditure. Oltre la parete c’è uno «sbarramento» con un rivelatore mobile. Il rivelatore misura il flusso di elettroni – che chiameremo I – in arrivo su una piccola regione dello sbarramento, a una distanza x dall’asse di simmetria. Tale flusso è proporzionale alla probabilità che un singolo elettrone che lascia la sorgente raggiunga quella regione dello sbarramento. Questa probabilità
x
Rivelatore 2 x
I
d 1
Sorgente a Parete
L
15.5 Un esperimento d’interferenza con elettroni (vedi anche cap. 37 del vol. 1). FIGURA
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Capitolo 15 • Il potenziale vettore
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ha la distribuzione dall’aspetto complicato che si vede in figura, che interpretiamo come dovuta all’interferenza di due ampiezze, una per ciascuna fenditura. L’interferenza delle due ampiezze dipende dalla loro differenza di fase. Cioè, se le ampiezze sono C1 ei 1 e C2 ei 2 , la differenza di fase = 1 2 determina la loro figura d’interferenza (equazione (29.12) del vol. 1). Se la distanza fra lo schermo e le fenditure è L e se la differenza dei cammini per gli elettroni che passano per le due fenditure è a, come mostra la figura, la differenza di fase delle due onde è data da a = (15.27) o Come al solito, poniamo o = /2⇡, dove è la lunghezza d’onda relativa alla variazione spaziale dell’ampiezza di probabilità. Per semplicità considereremo soltanto valori di x molto minori di L; allora si può porre x a= d L e x d (15.28) = L o Quando x = 0, allora = 0: le onde sono in fase e la probabilità ha un massimo. Quando = ⇡, le onde sono fuori fase, interferiscono distruttivamente e la probabilità ha un minimo. Così si ottiene la funzione ondulante per l’intensità degli elettroni. Vorremmo ora enunciare la legge che in meccanica quantistica sostituisce la legge di forza F = qv ⇥ B Questa è la legge che determinerà il comportamento quantistico delle particelle in un campo elettromagnetico. Siccome ciò che accade è determinato dalle ampiezze, la legge ci deve dire come gli effetti magnetici influiscono sulle ampiezze; dell’accelerazione delle particelle non ce ne occupiamo più. La legge è la seguente: la fase dell’ampiezza relativa all’arrivo secondo una certa traiettoria viene alterata dalla presenza del campo magnetico di una quantità uguale all’integrale del potenziale vettore lungo l’intera traiettoria moltiplicato per la carica della particella e diviso per la costante di Planck. Si ha cioè, ⌅ q variazione magnetica della fase = A · ds (15.29) ~ traiettoria
Se non ci fosse alcun campo magnetico, si avrebbe una certa fase d’arrivo. Se in qualche parte c’è un campo magnetico, la fase dell’onda in arrivo è aumentata dell’integrale nell’equazione (15.29). Anche se per questa discussione non ne avremo bisogno, ricordiamo che l’effetto di un campo elettrostatico è quello di produrre un cambiamento di fase dato dall’integrale temporale cambiato di segno del potenziale scalare : ⌅ q variazione elettrica della fase = dt ~ Queste due espressioni sono corrette non soltanto per campi statici ma, prese insieme, danno il risultato corretto per qualsiasi campo elettromagnetico, statico o dinamico. Questa è la legge che sostituisce F = q(E + v ⇥ B). Per ora, tuttavia, vogliamo considerare soltanto un campo magnetico statico. Supponiamo che nell’esperimento delle due fenditure sia presente un campo magnetico. Vogliamo cercare la fase d’arrivo sullo schermo delle due onde i cui percorsi passano per le due fenditure. La loro interferenza determina dove si trovano i massimi della probabilità. Possiamo chiamare 1 la fase dell’onda lungo la traiettoria (1). Se 1 (B = 0) è la fase in assenza del campo magnetico, quando il campo è inserito la fase sarà ⌅ q A · ds (15.30) 1 = 1 (B = 0) + ~ (1)
15.5 • Il potenziale vettore e la meccanica quantistica
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Similmente la fase per la traiettoria (2) sarà 2
=
q 2 (B = 0) + ~
⌅
A · ds
(15.31)
(2)
L’interferenza delle onde nel punto dove si trova il rivelatore dipende dalla differenza di fase ⌅ ⌅ q q = 1 (B = 0) (B = 0) + A · ds A · ds (15.32) 2 ~ (1) ~ (2) Chiameremo (B = 0) la differenza di fase in assenza di campo; essa non è che la differenza di fase che abbiamo calcolato precedentemente nell’equazione (15.28). Notiamo inoltre che i due integrali nella (15.32) si possono scrivere come un unico integrale che procede secondo (1) e ritorna secondo (2); chiamiamo questo «cammino chiuso (1-2)». Abbiamo così ⇥ q = (B = 0) + A · ds (15.33) ~ (1-2) Questa equazione ci dice come il moto dell’elettrone viene alterato dal campo magnetico; per mezzo di essa possiamo trovare le nuove posizioni dei massimi e dei minimi d’intensità sullo schermo. Prima di far questo, però, desideriamo sollevare la seguente questione che è interessante e importante. Vi ricorderete che il potenziale vettore è una funzione che ha una certa arbitrarietà. Due potenziali vettori diversi A e A0, la cui differenza è il gradiente r di una qualche funzione scalare , rappresentano lo stesso campo magnetico, perché il rotore di un gradiente è nullo. Essi danno perciò la stessa forza classica qv ⇥ B. Se in meccanica quantistica gli effetti dipendono dal potenziale vettore, quale delle tante possibili funzioni per A è quella corretta? La risposta è che la stessa arbitrarietà di A continua a esistere in meccanica quantistica. Se nell’equazione (15.33) cambiamo A in A0 = A + r , l’integrale di A diventa ⇥ ⇥ ⇥ A0 · ds = A · ds + r · ds (1-2)
(1-2)
(1-2)
L’integrale di r va preso lungo il cammino chiuso (1-2), ma l’integrale della componente tangenziale di un gradiente su un cammino chiuso è sempre nullo, per il teorema di Stokes. Perciò A e A0 danno le stesse differenze di fase e gli stessi effetti quantistici d’interferenza. Tanto nella teoria classica quanto in quella quantistica è soltanto il rotore di A che conta: qualsiasi scelta della funzione A che dà il rotore corretto dà la fisica corretta. La stessa conclusione è evidente adoperando i risultati del paragrafo 14.1. Lì si è trovato che l’integrale di linea di A intorno a un cammino chiuso dà il flusso di B attraverso questo cammino. Nel caso presente si tratta del flusso compreso fra i due percorsi (1) e (2). L’equazione (15.33) può perciò, se si vuole, essere scritta nella forma = (B = 0) +
q [flusso di B tra (1) e (2)] ~
(15.34)
dove con il termine «flusso di B» si intende, al solito, l’integrale di superficie della componente normale di B. Il risultato dipende solo da B e quindi solo dal rotore di A. Ora, siccome il risultato si può scrivere sia in termini di B che in termini di A, potreste essere inclini a pensare che B in fondo resti il «vero» campo e che A possa ancora pensarsi come una costruzione artificiale. Ma la definizione di campo «vero» che abbiamo originariamente proposto era fondata sull’idea che un «vero» campo non dovrebbe agire a distanza su una particella. Si può però dare un esempio in cui B è nullo – o per lo meno arbitrariamente piccolo – in ogni punto dove si ha una certa probabilità di trovare le particelle, così che non è possibile pensare che esso agisca direttamente su di esse. Vi ricorderete che in un lungo solenoide percorso da corrente c’è un campo B all’interno ma non all’esterno, dove invece c’è un’abbondanza di linee di A che circolano intorno, come mostra la FIGURA 15.6. Se disponiamo le cose in modo che gli elettroni debbano trovarsi soltanto fuori
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Capitolo 15 • Il potenziale vettore
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del solenoide – cioè soltanto dove c’è A – si avrà ancora, secondo l’equazione (13.33), un effetto sul loro moto. Classicamente questo è impossibile. B Classicamente la forza dipende soltanto da B; per accorgersi che il solenoide è percorso da corrente la particella deve entrare nel solenoide. In meccanica quantistica però ci si può accorgere che c’è un campo magnetico nel solenoide girando intorno a esso, senza mai avvicinarlo! Supponiamo di mettere un lungo solenoide di piccolo diametro proprio dietro la parte dove si trovano le fenditure e in mezzo a queste, come J mostra la FIGURA 15.7. Il diametro del solenoide sia molto più piccolo della distanza d fra le fenditure. In queste condizioni la diffrazione degli elettroni A da parte delle fenditure non dà alcuna probabilità che questi si accostino al solenoide. Quale sarà l’effetto sul nostro esperimento interferenziale? Paragoniamo la situazione con e senza la corrente nel solenoide. Se non c’è corrente, non c’è né B né A e si ottiene l’originaria distribuzione dell’intensità degli elettroni sullo schermo. Se mandiamo la corrente nel solenoide e produciamo un campo di B nel suo interno, allora esternamente FIGURA 15.6 Il campo magnetico e il potenziale c’è un campo di A e c’è uno spostamento nella differenza di fase, proporvettore di un solenoide lungo. zionale alla circolazione del campo A esterno al solenoide, il che significa che la distribuzione di massimi e minimi si sposta in una nuova posizione. Effettivamente, siccome il flusso del campo B interno è costante per ciascuna coppia di percorsi, tale è anche la circolazione di A: per ogni punto d’arrivo c’è dunque la stessa alterazione della fase e questo corrisponde a far slittare l’intera distribuzione lungo x, di una quantità costante x 0 che si può calcolare facilmente. L’intensità massima si presenta quando la differenza di fase fra le due onde è nulla. Usando l’equazione (15.32) o l’equazione (15.33) per e l’equazione (15.28) per x si ha ⇥ L q x0 = o A · ds (15.35) d ~ (1-2) ossia x0 =
L q o [flusso di B tra (1) e (2)] d ~
(15.36)
La distribuzione col solenoide in funzione dovrebbe apparire(1) come mostra la FIGURA 15.7; o almeno questa è la previsione della meccanica quantistica. Questo preciso esperimento è stato fatto recentemente. È un esperimento molto, molto difficile. Siccome la lunghezza d’onda degli elettroni è tanto piccola, per osservare l’interferenza l’apparecchio deve essere fatto su una scala molto piccola. Accade in certe circostanze che dei cristalli di ferro crescano come lunghissimi filamenti microscopicamente sottili. Quando questi filamenti di ferro sono magnetizzati, essi sono simili a minuscoli solenoidi e non danno campo esternamente eccetto che vicino agli estremi. L’esperimento d’interferenza degli elettroni è stato fatto con uno di questi filamenti posto fra le due fenditure ed è stato osservato lo spostamento previsto della distribuzione degli elettroni. Dunque, nel nostro senso, il campo A è un campo «vero». Potreste dire: «Però c’era un campo magnetico». C’è, infatti, ma ricordate l’idea originaria: che un campo è «vero» se coincide con ciò che bisogna specificare nel punto dove si trova la particella allo scopo di prevederne il moto. Il campo B del filamento agisce a distanza. Se vogliamo descrivere la sua influenza non come un’azione a distanza, dobbiamo usare il potenziale vettore. Questo argomento ha una storia interessante. La teoria che abbiamo descritto fu conosciuta fino dagli albori della meccanica quantistica, nel 1926. Il fatto che il potenziale vettore appaia nell’equazione della meccanica quantistica (chiamata equazione di Schrödinger) fu ovvio dal giorno che questa fu scritta. Che non possa essere sostituito dal campo magnetico in nessun modo facile fu notato da tutti quelli che, uno dopo l’altro, tentarono di farlo. Questo risulta chiaramente anche dal nostro esempio degli elettroni che si muovono in una regione dove non c’è campo e (1) Se il campo B esce dal piano della figura, il flusso, come lo abbiamo definito, è positivo e, poiché la carica q per gli elettroni è negativa, x0 risulta positivo.
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15.5 • Il potenziale vettore e la meccanica quantistica
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15.7 Il campo magnetico può influire sul moto degli elettroni anche se esiste soltanto in zone dove c’è una probabilità arbitrariamente piccola di trovarli. FIGURA
x
1 x0 d
I
2
Sorgente
Solenoide Linee di B
L
nonostante questo risentono di un effetto. Però, siccome in meccanica classica A non sembrava avere alcuna importanza diretta e per di più poteva essere cambiato aggiungendogli un gradiente, molti continuavano a dire che il potenziale vettore non ha un significato fisico diretto e che soltanto i campi magnetici ed elettrici sono quelli «giusti», anche in meccanica quantistica. Sembra strano, ripensandoci ora, che a nessuno venisse in mente di discutere questo esperimento fino al 1956, quando Bohm e Aharanov lo suggerirono per la prima volta, ponendo l’intero problema con cristallina chiarezza. Si sarebbe potuto trarre le conseguenze in qualsiasi momento, ma nessuno vi fece attenzione. Perciò molti furono piuttosto scossi quando l’argomento venne in discussione. Ecco perché qualcuno pensò che sarebbe valsa la pena di compiere un’esperienza per vedere se la previsione era davvero giusta, benché la meccanica quantistica – ormai accettata da tanti anni – desse una risposta non equivoca. È interessante constatare che una cosa come questa può restare a portata di mano per trent’anni e tuttavia seguitare a essere ignorata a causa di certi pregiudizi su ciò che è o non è significativo. Vogliamo ora spingere la nostra analisi un po’ più in là. Mostreremo la connessione fra la formula quantistica e quella classica, per far vedere come avviene che se si guardano le cose a una scala abbastanza grande si ha l’impressione che sulle particelle agisca una forza uguale al prodotto vettoriale di qv per il rotore di A. Per ottenere la meccanica classica dalla meccanica quantistica occorre considerare casi in cui tutte le lunghezze d’onda sono molto piccole in confronto alle distanze che comportano variazioni apprezzabili nelle condizioni esterne, come i campi. Non proveremo questo risultato con grande generalità, ma soltanto su un esempio semplice, per mostrare come vanno le cose. Consideriamo ancora una volta il solito esperimento delle fenditure, ma invece di concentrare tutto il campo magnetico in una regione molto piccola fra le due fenditure, immaginiamo che questo si estenda su una regione più grande, al di là di esse, come si vede nella FIGURA 15.8. Considereremo il caso idealizzato in cui si ha un campo magnetico uniforme in una stretta striscia di larghezza w, pensata piccola in confronto a L. (Questo si può ottenere facilmente; lo schermo può essere messo infatti lontano quanto si vuole.) Allo scopo di calcolare lo spostamento della fase, si devono prendere i due integrali di A lungo le due traiettorie (1) e (2). Come s’è visto, essi differiscono di nient’altro che il flusso di B attraverso la regione che sta fra i due cammini. Nella nostra approssimazione tale flusso è Bwd. La differenza di fase fra i due cammini è perciò q = (B = 0) + Bwd (15.37) ~ Notiamo che, nella nostra approssimazione, lo spostamento della fase è indipendente dall’angolo: perciò anche qui l’effetto sarà quello di far slittare l’intera figura d’interferenza in su, di una lunghezza x. Usando l’equazione (15.35) si ha x=
Lo d
=
Lo [ d
(B = 0)]
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Capitolo 15 • Il potenziale vettore
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15.8 Lo slittamento della figura d’interferenza dovuto a un campo magnetico confinato a una striscia. FIGURA
x w
∆x
2
I d Sorgente
1
Linee di B
L
e usando l’equazione (15.37) per
(B = 0) si ottiene x = Lo
q Bw ~
(15.38)
Un tale slittamento equivale a deflettere tutte le traiettorie di un piccolo angolo ↵ (FIGURA 15.8), con o x ↵= = qBw (15.39) L ~
v '
Anche classicamente ci si aspetterebbe che una striscia sottile di campo magnetico defletta tutte le traiettorie di un certo piccolo angolo – chiamiamolo ↵ 0 – come mostra la FIGURA 15.9a. Mentre gli elettroni attraversano il campo magnetico essi subiscono una forza trasversale qv ⇥ B che dura per un tempo w/v. Il cambiamento della loro quantità di moto trasversale è semplicemente uguale all’impulso, così che si ha px = qwB
Linee di B
(a)
w
(15.40)
La deflessione angolare (FIGURA 15.9b) è uguale al rapporto fra questa quantità di moto trasversale e la quantità di moto totale p. Otteniamo ↵0 =
px = p
qwB p
(15.41)
Possiamo confrontare questo risultato con l’equazione (15.39), che dà la stessa grandezza calcolata in base alla meccanica quantistica. Ma la connesp ' ∆px sione fra la meccanica classica e quella quantistica è questa: una particella (b) con quantità di moto p corrisponde a un’ampiezza quantistica che varia con la lunghezza d’onda o = ~/p. Con questa uguaglianza ↵ e ↵ 0 diventano identici: il calcolo classico e quello quantistico danno lo stesso risultato. FIGURA 15.9 Deflessione di una particella dovuta al passaggio attraverso una striscia dove c’è Da questa analisi si vede come il potenziale vettore, che appare espliun campo magnetico. citamente nelle formule della meccanica quantistica, produca una forza classica che dipende soltanto dalle sue derivate. In meccanica quantistica quello che conta è l’interferenza fra cammini vicini; risulta sempre che gli effetti dipendono soltanto da quanto il campo A varia da punto a punto e perciò dipendono soltanto dalle derivate di A e non dal valore stesso di questa grandezza. Tuttavia il potenziale vettore A (insieme al potenziale scalare che lo accompagna) sembra dare la descrizione più diretta della realtà fisica. Questo diventa sempre più evidente quanto più si approfondisce la teoria quantistica. Nella teoria generale dell’elettrodinamica quantistica si prendono i potenziali vettore e scalare come grandezze fondamentali in un gruppo di equazioni che sostituiscono le equazioni di Maxwell: E e B stanno lentamente scomparendo dall’espressione moderna delle leggi fisiche; essi vengono sostituiti da A e .
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15.6 • Ciò che è vero in statica è sbagliato in dinamica
Ciò che è vero in statica è sbagliato in dinamica
Siamo ora alla fine della nostra esplorazione dell’argomento dei campi statici. Già in questo capitolo abbiamo corso il rischio di doverci occupare di che cosa succede quando i campi variano col tempo. Lo abbiamo appena evitato, nel trattare l’energia magnetica, ricorrendo a un ragionamento relativistico. Anche in questo modo, la nostra trattazione del problema dell’energia magnetica è rimasto alquanto artificiale e forse anche misteriosa, perché si è ignorato il fatto che delle bobine in moto devono in effetti produrre dei campi variabili. È arrivato il momento di intraprendere lo studio dei campi variabili col tempo, cioè l’argomento dell’elettrodinamica. Lo faremo nel prossimo capitolo. Prima però vorremo mettere in evidenza alcuni punti. Benché si sia iniziato questo corso con una presentazione delle equazioni corrette e complete dell’elettromagnetismo, si è cominciato subito a studiare dei pezzi incompleti, perché ciò era più facile. C’è un gran vantaggio a partire dalla teoria dei campi statici, che è più semplice, e solo più tardi passare alla teoria più complessa che comprende anche i campi dinamici. C’è meno materiale nuovo da imparare tutto in una volta e voi avete il tempo di sviluppare i vostri muscoli intellettuali come preparazione per il compito maggiore. C’è però in questo processo il pericolo che, prima che abbiate la visione completa delle cose, le verità incomplete da voi imparate prendano radice e siano scambiate per l’intera verità, cioè che si confonda quello che è vero con quello che è vero soltanto in certi casi. Perciò diamo nella TABELLA 15.1 un sommario delle formule più importanti che abbiamo descritto, separando quelle che sono vere in generale da quelle che sono vere in statica ma sbagliate in dinamica. Questo riassunto indica anche, in parte, dove ci volgeremo, perché trattando la dinamica svilupperemo in dettaglio le cose che qui non possiamo che enunciare senza provarle. Alcune osservazioni su questa tabella possono essere utili. Innanzi tutto dovreste notare che le equazioni dalle quali si prese l’avvio sono le equazioni vere: in questo non siete stati fuorviati. La forza elettromagnetica (spesso chiamata forza di Lorentz) F = q (E + v ⇥ B) è vera. Soltanto la legge di Coulomb è sbagliata, ossia da adoperare soltanto in statica. Le quattro equazioni di Maxwell per E e B sono pure vere. Le equazioni che si considerano nella statica sono naturalmente sbagliate, perché sono stati tralasciati tutti i termini con le derivate rispetto al tempo. La legge di Gauss ⇢ r·E = ✏0 rimane, ma il rotore di E non è in generale nullo. Perciò E non può essere sempre uguagliato al gradiente di uno scalare, il potenziale elettrostatico. Vedremo che un potenziale scalare ancora sussiste, ma si tratta di una grandezza variabile col tempo, da adoperarsi insieme al potenziale vettore per una descrizione completa del campo elettrico. Le equazioni che regolano questo nuovo potenziale scalare sono necessariamente nuove anch’esse. Dobbiamo anche abbandonare l’idea che E sia nullo nei conduttori. Quando i campi cambiano, le cariche nei conduttori non hanno in generale il tempo di ridistribuirsi in modo da annullare il campo. L’unica affermazione generale è questa: i campi elettrici nei conduttori producono delle correnti. Perciò coi campi variabili un conduttore non è una regione equipotenziale. Ne segue pure che l’idea di capacità non è più un’idea precisa. Siccome non ci sono cariche magnetiche, la divergenza di B è sempre nulla. Perciò B può essere sempre uguagliato a r ⇥ A. (Non tutto cambia!) Ma a generare B non sono soltanto le correnti; r ⇥ B è proporzionale alla densità di corrente più un nuovo termine @E/@t. Questo vuol dire che A è legato alle correnti da una nuova equazione. Esso è anche in rapporto con . Facendo uso della nostra libertà di scegliere r · A come meglio conviene, si può fare in modo che le equazioni per A o per prendano una forma semplice ed elegante. Scegliamo perciò la condizione @ c2 r · A = @t e le equazioni differenziali per A o appaiono come indicato nella TABELLA 15.1.
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194
Capitolo 15 • Il potenziale vettore
15.1
TABELLA
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Riepilogo delle formule principali. Le equazioni contrassegnate con • sono le equazioni di Maxwell.
SBAGLIATE IN GENERALE (vere solo in statica)
F=
1 q1 q2 4⇡✏ 0 r 2
SEMPRE VERE
Legge di Coulomb
r⇥E =0
Forza di Lorentz
⇢ ✏0
Legge di Gauss
•
r·E =
•
r⇥E =
E= r
E(1) =
F = q (E + v ⇥ B)
@B @t @A @t
E= r
1 4⇡✏ 0
⌅
Legge di Faraday
⇢(2) e12 dV2 2 r 12
Nei conduttori: E = 0,
= cost.
In un conduttore, E produce correnti.
Q = CV •
r·B=0
(Nessuna carica magnetica)
B =r⇥ A c2 r ⇥ B =
j ✏0
1 B(1) = 4⇡✏ 0 c2 r2 =
⇢ ✏0
r2 A =
j ✏ 0 c2
Legge di Ampère
⌅
Equazione di Poisson
r2
1 @2 = c2 @t 2
r2 A
1 @2 A = c2 @t 2
con
c2 r · A +
r· A=0 1 (1) = 4⇡✏ 0
⌅
1 A(1) = 4⇡✏ 0 c2
⇢(2) dV2 r 12 ⌅
j(2) dV2 r 12
e con
1 2
⌅
⇢ dV +
1 2
⌅
j · A dV
⌅
1 A(1, t) = 4⇡✏ 0 c2
U=
⌅
⇢ ✏0 j ✏ 0 c2
@ =0 @t
1 (1, t) = 4⇡✏ 0
t0 = t
U=
j @E + ✏0 @t
j(2) ⇥ e12 dV2 2 r 12
e con
c2 r ⇥ B =
•
⇢(2, t 0) dV2 r 12 ⌅
j(2, t 0) dV2 r 12
r 12 c 2 * ✏ 0 E · E + ✏ 0 c B · B+ dV 2 ,2 -
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15.6 • Ciò che è vero in statica è sbagliato in dinamica
195
I potenziali A e possono ancora essere trovati per mezzo di integrali (1, t ) sulle correnti o sulle cariche, ma non sono gli stessi integrali della statica. È molto sorprendente, tuttavia, che gli integrali veri siano simili a quelli r12 statici con una sola modifica che è piccola e soddisfacente per il senso fisico. Quando si fanno gli integrali per trovare i potenziali in un punto, mettiamo il punto (1) in FIGURA 15.10, si devono adoperare i valori di j e ⇢ nel punto (2) presi a un istante anteriore t 0 = t r 12 /c. Come c’era da (2, t – r12 /c) aspettarsi, gli effetti si propagano dal punto (2) al punto (l) con velocità c. Con questo piccolo cambiamento si possono trovare le soluzioni per i campi dovuti a cariche e correnti variabili, perché una volta che si ha A e , il campo B si ottiene come prima da r ⇥ A ed E si ottiene da r @ A/@t. FIGURA 15.10 I potenziali nel punto (1) all’istante t si ottengono sommando i contributi di ciascun Infine, noterete che alcuni risultati – per esempio quello che la densità elemento della sorgente, preso nel punto 2 di energia in un campo elettrico è ✏ 0 E /2 – sono veri tanto per l’elettrodi- corrente (2), adoperando le correnti e le cariche namica quanto per la statica. Non lasciatevi indurre a pensare che questo che vi si trovavano all’istante anteriore t r 12 /c. sia minimamente «naturale». La validità di qualunque formula dedotta nel caso statico deve essere dimostrata da capo nel caso dinamico. Un esempio opposto al precedente è dato dall’espressione dell’energia elettrostatica sotto forma di un integrale di volume di ⇢ . Questo risultato è vero soltanto per la statica. Considereremo tutti questi argomenti con più dettaglio al momento opportuno, ma forse è utile tenere a mente il sommario riportato nella TABELLA 15.1, così saprete cosa potete dimenticare e cosa dovete ricordare come sempre vero.
16
Correnti indotte
16.1
Motori e generatori
La scoperta fatta nel 1820 che c’era uno stretto rapporto fra elettricità e magnetismo fu molto stimolante: fino allora i due argomenti erano stati considerati come del tutto indipendenti. La prima scoperta fu che le correnti circolanti nei fili producono campi magnetici; più tardi, nello stesso anno, si trovò che i fili che portano corrente, posti in un campo magnetico, subiscono delle forze. Una delle cose che suscitano interesse ogni volta che si manifesta una forza meccanica è la possibilità di usarla in una macchina per ricavare lavoro. Quasi immediatamente dopo queste scoperte si cominciò a progettare motori elettrici, sfruttando le forze che agiscono su fili percorsi da corrente. Il principio del motore elettromagnetico è indicato nelle sue linee essenziali Magnete permanente in FIGURA 16.1. Un magnete permanente – di solito insieme a dei pezzi di ferro dolce – viene adoperato per produrre un campo magnetico in due intraferri. Affacciati a ciascun intraferro si hanno un polo nord e un polo sud, come indicato. Una spira rettangolare di rame è posta con un lato in ciascun intraferro. Quando una corrente passa attraverso la spira essa fluisce in direzioni opposte nei due intraferri, perciò anche le forze sono Filo di N rame opposte e producono una coppia sulla spira, intorno all’asse indicato. Se la spira è montata su un albero in modo da poter girare, la si può accoppiare S a ruote o ingranaggi e può compiere lavoro. Ferro La stessa idea si può adoperare per costruire un sensibile strumento per dolce I misure elettriche; per questo motivo dal momento in cui la legge di forza N Asse fu scoperta, la precisione delle misure elettriche si accrebbe grandemente. In primo luogo, la coppia motrice del motore ora descritto può essere S resa molto più forte – per una data corrente – facendo fare alla corrente molti giri invece di uno solo. Poi la bobina può essere montata in modo da ruotare per effetto di una coppia piccolissima, sia sostenendone l’asse su delicati supporti in pietra dura, sia appendendola a un filo molto sottile o a una fibra di quarzo. Allora una corrente estremamente piccola basta a far ruotare la bobina e per piccoli angoli la rotazione sarà proporzionale alla FIGURA 16.1 Modello schematico di un semplice motore elettromagnetico. corrente. Questa rotazione può essere misurata incollando un indice alla bobina oppure, negli strumenti più delicati, applicando a essa uno specchietto e osservando lo spostamento dell’immagine di una scala. Strumenti come questi vengono chiamati galvanometri. Voltmetri e amperometri funzionano secondo lo stesso principio. Le stesse idee possono essere applicate in grande per costruire grossi motori destinati a produrre potenza meccanica. Si può far seguitare a girare la bobina indefinitamente disponendo le cose in modo che i suoi collegamenti si invertano ogni mezzo giro per mezzo di contatti montati sull’albero: così la coppia motrice ha sempre la stessa direzione. Nei motori più grossi, in corrente continua (CC) o in corrente alternata (CA), il magnete permanente è in generale sostituito da un elettromagnete eccitato dalla sorgente di energia elettrica. Quando ci si rese conto che le correnti elettriche producono campi magnetici, fu subito suggerito che, in un modo o in un altro, i magneti potessero produrre anche dei campi elettrici.
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16.1 • Motori e generatori
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2
1
B A
B
N
I
I
S
–
+
Batteria
Galvanometro
16.2 Il moto di un filo attraverso un campo magnetico produce una corrente, come indica il galvanometro. FIGURA
Galvanometro
16.3 La bobina 1 percorsa da corrente produce una corrente nella bobina 2 se la 1 viene mossa oppure se varia la sua corrente. FIGURA
Varie esperienze furono tentate. Per esempio, due fili venivano messi paralleli l’uno all’altro e si inviava una corrente in uno di essi nella speranza di trovare una corrente nell’altro. L’idea era che il campo magnetico potesse in qualche modo trascinare gli elettroni nel secondo filo, fornendo una qualche legge del tipo: «simili preferiscono muoversi in modo simile». Con le più forti correnti disponibili e i galvanometri più sensibili per rivelare un’eventuale corrente, il risultato fu negativo. Similmente, grossi magneti posti vicino a dei fili non produssero effetti osservabili. Finalmente Faraday scoprì nel 1840 la caratteristica essenziale che non era stata capita e cioè che gli effetti elettrici esistono soltanto quando c’è qualcosa che cambia. Se la corrente varia in uno dei fili di una coppia, una corrente viene indotta nell’altro; oppure, se un magnete viene spostato vicino a un circuito elettrico, c’è una corrente in questo. Si dice che si hanno delle correnti indotte. Questo fu l’effetto d’induzione scoperto da Faraday. Esso trasformò l’argomento piuttosto noioso dei campi statici in un argomento dinamico e molto stimolante, con un’immensa gamma di fenomeni meravigliosi. Questo capitolo è dedicato a una descrizione qualitativa di qualcuno di essi. Come vedremo, si fa presto a trovarsi in situazioni discretamente complicate che sono difficili da analizzare quantitativamente in tutti i loro dettagli. Ma non importa; il nostro scopo in questo capitolo è in primo luogo quello di farvi fare conoscenza coi fenomeni di cui si tratta. Dell’analisi dettagliata ce ne occuperemo più tardi. Possiamo capire facilmente una caratteristica dell’induzione magnetica da cose che già conosciamo, benché non fossero note al tempo di Faraday. Questa possibilità deriva dalla forza v ⇥ B su una carica in moto, forza che è proporzionale alla velocità della carica nel campo magnetico. Supponiamo di avere un filo che passa vicino a un magnete, come si vede nella FIGURA 16.2, e di connettere i capi di questo filo a un galvanometro. Se muoviamo il filo trasversalmente rispetto all’estremo del magnete, l’indice del galvanometro si muove. Il magnete produce un certo campo verticale e quando spingiamo il filo attraverso il campo, gli elettroni risentono di una forza laterale, ad angolo retto col campo e col movimento. La forza spinge gli elettroni nel filo. Ma perché questo mette in moto il galvanometro che è così lontano dalla forza? Perché quando gli elettroni che risentono della forza magnetica cercano di muoversi essi spingono – per repulsione elettrica – gli elettroni che stanno un po’ più là lungo il filo; questi a loro volta respingono quelli che stanno un po’ più in là ancora e così via, per lunghe distanze. Una cosa sbalorditiva. Sembrava tanto sbalorditiva a Gauss e Weber – i quali per i primi costruirono un galvanometro – che essi cercarono di vedere quanto lontano arrivassero le forze nel filo. Essi tesero un filo attraverso tutta la loro città. Gauss a uno dei capi collegava i fili a una batteria (le batterie
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Capitolo 16 • Correnti indotte
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furono conosciute prima degli altri generatori) e Weber all’altro capo osservava muoversi il galvanometro. Avevano trovato un mezzo di segnalazione a grande distanza: era l’inizio del telegrafo! Naturalmente questo non ha direttamente nulla a che fare con l’induzione; ha a che fare con la maniera in cui i fili trasportano la corrente, sia che la corrente sia spinta dall’induzione, sia che non lo sia. Supponiamo ora che nel dispositivo di FIGURA 16.2 non si tocchi il filo e si muova invece il magnete. Si vede ancora un effetto sul galvanometro. Come Faraday scoprì, se si muove il magnete sotto il filo in un senso, si ha lo stesso effetto che a muovere il filo sul magnete nell’altro senso. Ma quando si muove il magnete, non si ha più alcuna forza del tipo v ⇥ B sugli elettroni nel filo. Questo è il nuovo effetto che Faraday trovò. Oggi si potrebbe sperare di capirlo per mezzo di un ragionamento relativistico. Ci siamo già resi conto che il campo magnetico di un magnete viene dalle sue correnti interne. Perciò ci aspettiamo di osservare gli stessi effetti se invece del magnete della FIGURA 16.2 usiamo una bobina di filo in cui c’è una corrente. Se si muove il filo davanti alla bobina ci sarà una corrente nel galvanometro e ugualmente quando si muove la bobina davanti al filo. Ma ora avviene un fatto più interessante: se si altera il campo magnetico della bobina non muovendola ma variandone la corrente, si ha di nuovo un effetto sul galvanometro. Per esempio, se abbiamo una spira di filo vicino a una bobina, come mostra la FIGURA 16.3, e se teniamo i due oggetti fermi ma apriamo il circuito della bobina, c’è un impulso di corrente nel galvanometro. Quando torniamo a chiudere il circuito, il galvanometro scatta ancora, nella direzione opposta. Tutte le volte che in una situazione come quella indicata in FIGURA 16.2 o in FIGURA 16.3 c’è una corrente nel galvanometro, ci deve essere complessivamente sugli elettroni del filo una spinta in una direzione o nell’altra, lungo il filo. Ci potranno essere spinte in direzioni diverse in punti diversi ma complessivamente ci deve essere più spinta in una direzione che in quella opposta. Ciò che conta è la spinta integrata lungo il circuito completo. Questa spinta risultante integrata la chiameremo forza elettromotrice (abbreviata in fem) nel circuito. Più precisamente la fem è definita come la forza tangenziale sull’unità di carica nella spira integrata sulla lunghezza, l’integrale essendo esteso una volta all’intero circuito. La scoperta completa di Faraday fu che si possono generare forze elettromotrici in un filo in tre modi diversi: muovendo il filo, muovendo un magnete vicino al filo, oppure variando la corrente in un filo vicino. Consideriamo di nuovo la semplice macchina della FIGURA 16.1, soltanto che invece di inviare una corrente nel filo per farlo girare, adesso facciamo girare la spira per mezzo di una forza esterna, per esempio a mano o con una ruota idraulica. Quando la spira ruota, i suoi fili si muovono in un campo magnetico e si avrà una fem nel circuito della spira: il motore diventa un generatore. Nella bobina di un generatore c’è una fem indotta dovuta al suo movimento. La grandezza di questa fem è data da una semplice regola scoperta da Faraday. (Ci limiteremo per ora a enunciare la regola e più avanti la esamineremo in dettaglio.) La regola è che quando il flusso magnetico che attraversa una spira (questo flusso è la componente normale di B integrata sull’area della spira) cambia col tempo, la fem è uguale alla variazione del flusso per unità di tempo. Chiameremo questa la «regola del flusso». Vedete che quando la spira della FIGURA 16.1 viene ruotata il flusso attraverso di essa cambia: all’inizio un certo flusso la attraversa in un certo senso, poi, quando la spira è ruotata di 180°, lo stesso flusso l’attraversa in senso opposto. Se ruotiamo la spira con continuità, il flusso è prima positivo, poi negativo, poi positivo e così via. La variazione di flusso per unità di tempo deve ugualmente alternare, perciò c’è una fem alternata nella spira. Se si collegano i due capi della spira e dei fili esterni per mezzo di contatti striscianti – chiamati anelli collettori – (unicamente perché i fili non si attorciglino), si ha un generatore di corrente alternata. Oppure si può fare in modo, per mezzo di contatti striscianti, che il collegamento fra i capi della spira e i fili esterni si inverta dopo ogni mezza rotazione, così che quando la fem si inverte, i collegamenti facciano lo stesso. Allora gli impulsi di fem spingeranno le correnti nella stessa direzione nel circuito esterno: abbiamo ciò che si chiama generatore di corrente continua. La macchina della FIGURA 16.1 può essere un motore o un generatore. La reciprocità fra motori e generatori si può mostrare elegantemente usando due identici «motori» in CC del tipo a magnete permanente, con le loro bobine collegate con due fili di rame. Quando si fa girare meccanicamente l’albero di uno dei due, questo diventa un generatore e fa girare l’altro che funziona da motore. Se si fa ruotare l’albero del secondo, è questo che diventa il generatore e fa girare il primo come
16.2 • Trasformatori e induttanze
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motore. Dunque abbiamo qui un esempio interessante di un nuovo tipo Pressione di equivalenza sostanziale: motore e generatore sono equivalenti. Il lato Disco sottile del suono di ferro quantitativo di questa equivalenza non è, per la verità, del tutto casuale: esso è in rapporto con la legge della conservazione dell’energia. Ferro Un altro esempio di dispositivo che può funzionare sia generando forze dolce elettromotrici, sia obbedendo a esse è il ricevitore di un normale telefono – cioè un «auricolare». L’originario telefono di Bell consisteva in due di Avvolgimento S N di filo di rame questi «auricolari» collegati da due lunghi fili. Il principio fondamentale di funzionamento è mostrato nella FIGURA 16.4. Un magnete permanente produce un campo magnetico in due «gioghi» di ferro dolce e in un sottile diaframma che viene messo in movimento dalla pressione del suono. FIGURA 16.4 Un trasmettitore o ricevitore telefonico. Quando il diaframma si muove, esso altera il campo magnetico nei gioghi e quindi il flusso in una bobina avvolta intorno a uno dei gioghi cambierà quando un’onda sonora colpisce il diaframma. Si ha perciò una fem nella bobina e se i capi di questa sono collegati a un circuito, si stabilisce una corrente che è una rappresentazione elettrica del suono. Se i capi della bobina della FIGURA 16.4 sono collegati per mezzo di due fili a un altro congegno identico, si hanno correnti variabili nella bobina di questo. Queste correnti produrranno un campo magnetico variabile e quindi un’attrazione variabile sul ferro del diaframma: quest’ultimo vibrerà e produrrà onde sonore approssimativamente simili a quelle che hanno messo in moto il diaframma originario. Con pochi pezzetti di ferro e di rame la voce umana viene trasmessa su filo! (I telefoni da abitazione moderni adoperano un ricevitore come quello descritto, ma per ottenere un trasmettitore più potente adoperano un’invenzione più perfezionata e cioè il «microfono a carbone» che sfrutta la pressione del suono per variare la corrente fornita da una batteria.)
16.2
Trasformatori e induttanze
Una delle caratteristiche più interessanti delle scoperte di Faraday non sta nel fatto che esista una fem in una bobina in movimento – cosa che si può capire in termini della forza magnetica qv ⇥ B – ma che una corrente variabile in una bobina produca una fem in una seconda bobina. Inoltre, cosa sorprendente, l’entità di questa fem indotta nella seconda bobina è data dalla stessa «regola del flusso»: cioè la fem è uguale alla variazione per unità di tempo del flusso magnetico attraverso la bobina. Supponiamo di avere due bobine, come mostra la FIGURA 16.5, ciascuna avvolta su un fascio di lamine di ferro (queste servono a ottenere campi magnetici più forti). Poi colleghiamo una delle bobine – cioè (a) – con un generatore di corrente alternata. La corrente continuamente variabile produrrà un campo magnetico continuamente variabile e questo campo magnetico variabile genererà una fem alternata nella seconda bobina (b). Questa fem può, per esempio, produrre una potenza sufficiente ad accendere una lampadina. La forza elettromotrice nella bobina (b) varia con una frequenza che è naturalmente la stessa di quella dell’originario generatore. Ma la corrente nella bobina (b) può essere più grande o più piccola della corrente nella bobina (a). La corrente nella bobina (b) dipende dalla fem indotta in essa e dalla resistenza e induttanza del circuito di cui fa parte. La fem può essere minore di quella del generatore se c’è, mettiamo, scarsa variazione di flusso. Ma la fem nella bobina (b) può essere fatta diventare molto più grande di quella del generatore usando una bobina (b) con molte spire, perché in un dato campo magnetico il flusso attraverso l’avvolgimento diventa in tal caso più grande. (Oppure, se preferite considerare la cosa in un altro modo, si può dire: c’è una medesima fem in ogni spira e, siccome la fem totale è la somma delle fem nelle singole spire, molte spire in serie producono una fem grande.) Una tale combinazione di due bobine usualmente avvolte su lamine di ferro per guidare i campi magnetici, è chiamata trasformatore. Esso può «trasformare» una fem (chiamata anche «voltaggio») in un’altra. Ci sono effetti d’induzione anche in una bobina unica. Per esempio nel dispositivo di FIGURA 16.5 c’è un flusso variabile non soltanto attraverso la bobina (b) che accende la lampadina, ma anche attraverso (a). La corrente variabile nella bobina (a) produce un campo magnetico variabile
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Capitolo 16 • Correnti indotte
16.5 Due bobine avvolte su due pacchetti di lamierini di ferro permettono a un generatore di accendere una lampadina senza alcun collegamento diretto.
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FIGURA
(b) Lampadina
Interruttore
B
+
16.6
Circuito di collegamento per un elettromagnete. La lampadina permette il passaggio della corrente quando l’interruttore viene aperto, evitando il formarsi di fem eccessive. FIGURA
–
(a)
Generatore di CA
Lampadina
Batteria
attraverso questa bobina e il flusso di questo campo cambia continuamente, così che c’è una fem autoindotta nella bobina (a). C’è una fem che agisce su qualunque corrente quando questa sta creando un campo magnetico, o in generale quando il suo campo magnetico varia in un modo qualunque. Questo effetto è chiamato autoinduzione. Quando è stata enunciata la «regola del flusso», secondo la quale la fem è uguale alla variazione del flusso concatenato per unità di tempo, non è stata precisata la direzione di questa fem. C’è una regola semplice, chiamata legge di Lenz, per dedurre in quale senso la fem è diretta: la fem tende a opporsi a qualunque variazione del flusso. Cioè, la direzione di una fem indotta è sempre tale che se una corrente fluisse nella direzione di questa fem, produrrebbe un flusso di B che si oppone a quel cambiamento di B che ha prodotto la fem. La regola di Lenz può essere usata per trovare la direzione della fem nel generatore della FIGURA 16.1 o negli avvolgimenti del trasformatore della FIGURA 16.3. In particolare, se c’è una corrente che varia in un’unica bobina (o in qualunque filo) ci deve essere una forza contro-elettromotrice nel circuito. Questa fem agisce sulle cariche che fluiscono nell’avvolgimento (a) della FIGURA 16.5 opponendosi al cambiamento del campo magnetico, e perciò in modo da opporsi al cambiamento della corrente. Essa tende a mantenere costante la corrente: si oppone alla corrente quando questa cresce e agisce nella direzione della corrente quando questa diminuisce. Una corrente in un circuito con autoinduzione possiede un’«inerzia», perché gli effetti induttivi tendono a mantenere costante il flusso, proprio come l’inerzia meccanica tende a mantenere costante la velocità di un oggetto. Qualunque grosso elettromagnete ha una forte autoinduzione. Supponiamo che una batteria sia collegata a un grosso elettromagnete, come in FIGURA 16.6 e che si sia costituito un forte campo magnetico. (La corrente raggiunge un valore costante, determinato dal voltaggio della batteria e dalla resistenza del filo dell’avvolgimento.) Supponiamo ora di voler staccare la batteria aprendo l’interruttore. Se davvero si aprisse il circuito, la corrente andrebbe a zero rapidamente e così facendo genererebbe un’enorme fem. Il più delle volte questa fem sarebbe abbastanza grande da produrre un arco fra i contatti dell’interruttore mentre si aprono. Il voltaggio elevato che si produce potrebbe anche danneggiare l’isolamento del filo nella bobina del magnete o magari la persona stessa che apre l’interruttore! Per queste ragioni gli elettromagneti sono di solito collegati secondo uno schema di circuito del tipo indicato in FIGURA 16.6. Quando l’interruttore viene aperto, la corrente non cambia rapidamente, ma conserva inizialmente il suo valore e fluisce invece attraverso la lampadina, spinta dalla fem dovuta all’autoinduzione dell’avvolgimento.
16.3
Le forze sulle correnti indotte
Avrete probabilmente visto la vivida dimostrazione della regola di Lenz fatta con l’apparecchio indicato in FIGURA 16.7. Si tratta di un elettromagnete, proprio come (a) in FIGURA 16.5. Un anello d’alluminio è posato sull’estremo di questo magnete. Quando la bobina, chiudendo l’interruttore,
F
N
Anello conduttore Nucleo di ferro Bobina
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16.3 • Le forze sulle correnti indotte
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I
Interruttore B A un generatore di CA
S
Lastra perfettamente conduttrice
16.7 Un anello conduttore viene energicamente respinto da un elettromagnete in cui la corrente varia. FIGURA
FIGURA
16.8
Un elettromagnete vicino a una lastra perfettamente
conduttrice.
viene collegata con un generatore di corrente alternata, l’anello schizza per aria. Il fatto che l’anello schizzi via mostra che le correnti che lo percorrono si oppongono al cambiamento del campo che lo attraversa. Quando il magnete presenta un polo nord al suo estremo superiore, l’anello presenta un polo nord sulla sua faccia inferiore: anello e bobina si respingono proprio come due magneti che oppongono poli dello stesso nome. Se nell’anello si fa un sottile taglio radiale, la forza sparisce mostrando che essa proviene veramente da correnti che circolano nell’anello. Se invece di un anello si mette sull’estremo dell’elettromagnete della FIGURA 16.7 un disco d’alluminio o di rame, esso pure viene respinto; correnti indotte circolano nel materiale del disco e producono anche qui una repulsione. Un effetto interessante che ha un’origine analoga si presenta con una lastra di un conduttore perfetto. In un «conduttore perfetto» non c’è resistenza alcuna alla corrente; perciò se vi si producono delle correnti queste continuano per sempre. Effettivamente la più piccola fem genererebbe una corrente arbitrariamente grande, ciò che in realtà significa che non ci possono essere affatto fem. Qualunque tentativo di far sì che un flusso magnetico attraversi una lastra di questa natura, genera delle correnti che creano un campo B opposto, sfruttando fem infinitesime e quindi senza lasciar entrare alcun flusso. Se si ha una lastra di un conduttore perfetto e si mette un elettromagnete vicino a essa, quando si manda la corrente nel magnete, delle correnti, chiamate correnti vorticose, appaiono nella lastra così che nessun flusso magnetico entra in essa. Le linee di campo prendono l’aspetto indicato in FIGURA 16.8. Lo stesso succede, naturalmente, se si porta una sbarra magnetizzata vicino a un conduttore perfetto. Siccome le correnti vorticose creano campi in opposizione, il magnete viene respinto dal conduttore. Questo permette di sospendere una sbarretta magnetizzata per aria, sopra una lamina di un conduttore perfetto curvata a forma di scodella, come mostra la FIGURA 16.9. Il magnete resta sospeso a causa della repulsione delle correnti vorticose indotte nel conduttore perfetto. Non ci sono conduttori perfetti a temperatura ordinaria, ma alcuni materiali diventano conduttori perfetti a temperature abbastanza basse. Per esempio lo stagno a 3,8 K conduce perfettamente. È ciò che si dice un superconduttore. Se il conduttore in FIGURA 16.8 non è del tutto perfetto, ci sarà una certa resistenza al fluire delle correnti vorticose; le correnti tenderanno a spegnersi a poco a poco e il magnete si adagierà lentamente. Le correnti vorticose in un conduttore imperfetto richiedono una fem che le mantenga e per avere una fem il flusso deve continuare a variare: il flusso del campo magnetico penetra gradualmente nel conduttore. In un conduttore normale le correnti vorticose non soltanto producono forze repulsive, ma possono produrne anche in direzione laterale. Per esempio, se si sposta un magnete lateralmente, lungo una superficie conduttrice, le correnti vorticose producono una forza frenante, perché le
202
Capitolo 16 • Correnti indotte
N
S
16.9 Una sbarra magnetizzata resta sospesa su una ciotola superconduttrice a causa della repulsione delle correnti vorticose. FIGURA
Perno Lastra di rame B S N
–
+
Interruttore
Batteria
16.10 Il frenamento del pendolo rivela le forze dovute alle correnti vorticose. FIGURA
v S Correnti vorticose B N
FIGURA
16.11
di rame.
Le correnti vorticose nel pendolo
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correnti indotte si oppongono al cambiamento di posizione del flusso. Tali forze sono proporzionali alla velocità e somigliano a una specie di forza viscosa. Questi effetti si manifestano elegantemente nell’apparecchio mostrato in FIGURA 16.10. Una lastra quadrata di rame è sospesa all’estremo di un’asta, così da costituire un pendolo. La lastra oscilla avanti e indietro fra i poli di un elettromagnete: quando si chiude il circuito del magnete, il moto del pendolo si arresta bruscamente. Quando la lastra metallica entra nell’intraferro del magnete c’è in essa una corrente che agisce in modo da opporsi al cambiamento di flusso attraverso la lastra; se la lastra fosse un perfetto conduttore, le correnti sarebbero così forti da respingerla di nuovo fuori: essa rimbalzerebbe indietro. Con una lastra di rame si ha una certa resistenza, perciò le correnti dapprima costringono la lastra a un arresto quasi completo al momento in cui comincia a entrare nel campo, poi, mentre le correnti si spengono gradualmente, la lastra si riduce lentamente in quiete nel campo magnetico. Il carattere delle correnti vorticose nel pendolo di rame è evidenziato nella FIGURA 16.11. L’intensità e la geometria di queste correnti sono molto sensibili alla forma della lastra. Se per esempio la lastra di rame viene sostituita da un’altra dove sono state tagliate diverse sottili fessure, come indicato in FIGURA 16.12, gli effetti delle correnti vorticose risultano ridotti drasticamente. Il pendolo oscilla attraverso il campo magnetico subendo solo una piccola forza ritardante. La ragione è che le correnti in ciascuna sezione del rame hanno un minor flusso che le mette in moto, così che gli effetti della resistenza in ogni segmento del pendolo sono più grandi; le correnti sono più piccole e il frenamento è minore. Il carattere viscoso della forza si vede anche più chiaramente se una lastra di rame viene posta fra i poli del magnete della FIGURA 16.10 e poi abbandonata. Essa non cade, non fa che affondare lentamente giù: le correnti vorticose esercitano una forte resistenza al moto, dando luogo a un effetto simile al frenamento viscoso che si avrebbe nel miele. Se invece di spostare un conduttore rispetto a un magnete si cerca di farlo ruotare in un campo magnetico, ci sarà una coppia resistente dovuta agli stessi effetti. Se viceversa si fa ruotare un magnete – scambiando polo con polo – vicino a una lastra o a un anello conduttore, l’anello viene trascinato in rotazione: le correnti nell’anello creano una coppia che tende a far girare l’anello insieme al magnete. Un campo affatto simile a quello di un magnete ruotante si può produrre con un dispositivo di bobine del tipo indicato in FIGURA 16.13. Si prende un toro di ferro (cioè un anello di ferro simile a una ciambella) e si avvolgono sei bobine su di esso. Se si manda una corrente negli avvolgimenti 1 e 4, come indicato nella FIGURA 16.13a, ci sarà un campo magnetico nella direzione segnata in figura. Se ora si spostano le correnti agli avvolgimenti 2 e 5, il campo magnetico prende un’altra direzione, come mostra la FIGURA 16.13b. Continuando l’operazione si ottiene la successione dei campi indicata nel resto della figura. Se l’operazione è fatta con una certa uniformità, si ha un campo magnetico «rotante». Si può facilmente procurarsi la voluta sequenza di correnti collegando le bobine a una linea trifase che fornisce appunto delle correnti di questo tipo. La «corrente trifase» è prodotta da un generatore che sfrutta il principio della FIGURA 16.1, salvo il fatto che ci sono tre spire, fissate insieme sul medesimo albero in modo simmetrico, cioè con un angolo di 120° fra una spira e la successiva. Quando le bobine vengono fatte girare tutte insieme, la fem è massima in una, poi nella successiva e così via, in sequenza regolare. Si hanno molti vantaggi pratici con le reti trifasi: uno di essi è la possibilità di ottenere campi magnetici
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16.3 • Le forze sulle correnti indotte
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16.12 Gli effetti delle correnti vorticose vengono ridotti drasticamente se si tagliano delle fessure nella lastra. FIGURA
2
3
1
S
2
4
3
1
4
16.13 Come si produce un campo rotante.
v 6
5
6
3
2
(a) 2
FIGURA
5 (b)
1
4
3
1
4
N 6
5
6
(c) 2
2
3
1
4
6
5 (d) 3
1
5 (e)
rotanti. Si può mettere facilmente in evidenza il momento di forza prodotto in un conduttore da un simile campo rotante appoggiando un anello metallico, verticalmente, su un piano isolante posto un po’ sopra al toro della figura precedente, come si vede nella FIGURA 16.14. Il campo rotante costringe l’anello a girare intorno a un asse verticale. Gli elementi fondamentali visti qui sono proprio gli stessi che sono attivi in un grande motore trifase dell’industria. Un’altra forma di motore a induzione è indicata in FIGURA 16.15. Il dispositivo non sarebbe adatto per un motore pratico di alta efficienza ma basterà per illustrare il principio. L’elettromagnete M, che consiste di un pacchetto di lamierini di ferro con avvolta una bobina solenoidale, è alimentato da un generatore a corrente alternata. Il magnete produce un flusso variabile di B attraverso un disco d’alluminio. Se non si hanno che questi due componenti, come si vede nella FIGURA 16.15a, non si ha ancora un motore. Ci sono correnti vorticose nel disco, ma queste sono simmetriche e non c’è momento di forza. (Ci sarà un certo riscaldamento del disco, dovuto alle correnti indotte.) Se ora si copre soltanto una metà del
4
6
5 (f)
16.14 Il campo rotante della FIGURA 16.13 si può usare per applicare una coppia a un anello conduttore. FIGURA
Lastra di alluminio Disco di alluminio M Alla sorgente di CA
Alla sorgente di CA
16.15 Un semplice esempio di motore a induzione a polo schermato. FIGURA
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Capitolo 16 • Correnti indotte
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polo del magnete con una lastra d’alluminio, come si vede nella FIGURA 16.15b, il disco prende a ruotare e si ha un motore. Il suo funzionamento dipende da due effetti dovuti alle correnti vorticose. Primo, le correnti vorticose nella lastra d’alluminio si oppongono al cambiamento del flusso attraverso di essa, così che il campo magnetico sopra la lastra ritarda rispetto a quello che si ha sulla metà del polo che non è coperta. Questo cosiddetto effetto di schermo produce un campo che nella zona schermata varia in modo affatto simile a quello della zona scoperta, eccetto che è ritardato nel tempo di una quantità costante. L’effetto globale è quello che si avrebbe con un magnete largo soltanto la metà che si muovesse continuamente dalla zona scoperta a quella schermata. I campi variabili interagiscono poi con le correnti vorticose nel disco per produrre una coppia su questo.
16.4
Elettrotecnica
Quando Faraday rese pubblica la sua sorprendente scoperta che un campo magnetico variabile produce una fem, gli fu chiesto (come viene chiesto a tutti quelli che scoprono un nuovo fatto naturale): «A cosa può servire?». Tutto quello che egli aveva trovato era il fatto bizzarro che quando muoveva un filo vicino a un magnete, una minuscola corrente si produceva nel filo. A cosa mai poteva servire? La sua risposta fu: «A che serve un bambino appena nato?». Eppure, pensate alle formidabili applicazioni pratiche a cui la sua scoperta ha condotto. Quelli che siamo venuti descrivendo non sono semplici giocattoli ma esempi scelti per lo più per rappresentare il principio di qualche macchina pratica: per esempio, l’anello che gira nel campo rotante è un motore a induzione. Ci sono naturalmente delle differenze fra il modello e un motore a induzione vero. Sull’anello agisce una coppia molto piccola: lo potete fermare con una mano. Per avere un buon motore i pezzi devono essere portati a un contatto molto più intimo: non ci deve essere in giro tanto campo magnetico «sprecato». In primo luogo il campo viene concentrato adoperando del ferro. Non abbiamo ancora discusso come il ferro fa questo, ma il ferro può far sì che il campo magnetico sia decine di migliaia di volte più forte di quello che potrebbero produrre le bobine di rame da sole. In secondo luogo gli spazi fra i pezzi di ferro devono essere ridotti; a questo scopo del ferro viene incluso nell’anello rotante. Tutto viene disposto in modo da ottenere la massima forza e la massima efficienza, cioè la massima conversione della potenza elettrica in potenza meccanica, finché «l’anello» non può più essere tenuto fermo con la mano. Questo problema di chiudere gli intraferri e di far funzionare le cose nella maniera più pratica è un problema d’ingegneria. Esso richiede un serio studio dei problemi di progettazione, benché non ci siano nuovi principi fondamentali riguardo al modo di ottenere le forze. C’è però da fare una strada molto lunga per arrivare a un progetto pratico ed economico, partendo dai principi fondamentali. Tuttavia è proprio un’accurata progettazione da parte dell’ingegneria che ha reso possibili cose formidabili come la diga di Boulder e tutto ciò che essa comporta. Che cos’è la diga di Boulder? Un fiume immenso è stato fermato da una muraglia di cemento. E che razza di muraglia! Sagomata secondo una curva perfetta, molto accuratamente calcolata per trattenere un fiume intero con la minima possibile massa di cemento, essa s’ispessisce alla base, in una forma mirabile che piace all’artista ma che l’ingegnere apprezza perché sa che l’ispessimento è in rapporto col crescere della pressione al crescere della profondità. Stiamo però perdendo di vista l’elettricità. L’acqua del fiume è poi incalanata in un tubo enorme. Questo è già di per sé una bella realizzazione tecnica. Il tubo immette l’acqua in una «ruota idraulica», un’enorme turbina, e fa girare le ruote. (Un altro trionfo dell’ingegneria.) Ma perché far girare delle ruote? Esse sono accoppiate a un intrico raffinatamente complicato di ferro e di rame fra loro tutti attorcigliati e frammisti e fatto di due parti, una che gira e l’altra no. Tutto un complesso intreccio di pochi materiali, per lo più ferro e rame, ma anche un po’ di carta e gomma-lacca per l’isolamento. Una gigantesca cosa che gira: un generatore. Da qualche parte dell’intrico di rame e di ferro escono alcuni speciali pezzi di rame. La diga, la turbina, il ferro, il rame, tutto è là perché qualcosa di speciale nasca in alcune sbarre di rame:
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16.4 • Elettrotecnica
una forza elettromotrice. Poi le sbarre di rame se ne vanno un po’ più in là e girano diverse volte intorno a un altro pezzo di ferro in un trasformatore, dopo di che il loro lavoro è compiuto. Ma intorno allo stesso pezzo di ferro si avvolgono dei cavi di rame che non hanno alcun collegamento diretto con le sbarre del generatore; essi ne rimangono soltanto influenzati, per esser passati lì vicino allo scopo di creare in essi una forza elettromotrice. Il trasformatore converte l’energia dai voltaggi relativamente bassi richiesti per una efficiente progettazione del generatore ai voltaggi molto elevati che sono necessari per una trasmissione efficiente dell’energia elettrica attraverso lunghi cavi. E tutto deve essere enormemente efficiente – non si possono ammettere né sprechi né perdite. Perché? È in transito l’energia per una metropoli: se anche una piccolissima frazione – uno o due per cento – andasse perduta, pensate quanta energia si accumulerebbe! Se l’uno per cento dell’energia fosse perduta nel trasformatore, bisognerebbe smaltirla in qualche modo. Se si manifestasse come calore fonderebbe rapidamente ogni cosa. Naturalmente, qualche piccola inefficienza c’è, ma tutto quello che si richiede sono poche pompe che fanno circolare dell’olio in un radiatore per impedire al trasformatore di scaldarsi. Dalla centrale di Boulder escono qualche dozzina di barre di rame, lunghe, lunghissime barre, forse della grossezza dei vostri polsi, che se ne vanno per centinaia di kilometri in tutte le direzioni; piccole barre di rame che trasportano l’energia di un fiume gigantesco. Poi queste barre si suddividono in tante altre, arrivano ad altri trasformatori, talvolta a grandi generatori che ricreano la corrente in un’altra forma, talvolta a macchine che girano per importanti fini industriali, e ancora ad altri trasformatori e poi ancora si suddividono e si diffondono, finché finalmente il fiume si è sparso per tutta la città per far girare motori, produrre calore e luce, azionare una quantità di congegni. Il miracolo delle luci incandescenti alimentate dall’acqua fredda di un fiume lontano più di mille kilometri! Tutto è stato fatto con alcuni pezzi appositamente disposti di rame e di ferro. Grandi motori per laminare l’acciaio o minuscoli motori per il trapano del dentista: migliaia di piccole ruote girano in risposta alla ruota gigante che gira nella centrale di Boulder. Se la grande ruota si ferma e tutte le altre si fermano, le luci si spengono: tutte queste cose sono collegate in una cosa sola. Ma c’è anche di più. Gli stessi fenomeni che catturano la formidabile potenza di un fiume e la diffondono per il paese fino a che poche gocce del fiume possano far girare il trapano del dentista, li ritroviamo nella costruzione di strumenti estremamente delicati: per la rivelazione di correnti incredibilmente piccole, per la trasmissione di voci, musiche e immagini, per i calcolatori, per macchine automatiche di fantastica precisione. Tutto questo è reso possibile dall’attenta progettazione di dispositivi di rame e di ferro: campi magnetici efficientemente creati, blocchi di ferro di due metri di diametro che vorticano con un margine di spazio di un millimetro, accorto proporzionamento del rame per raggiungere l’optimum dell’efficienza, strane forme, tutte con la loro ragione d’essere, come la curva della diga... Se qualche archeologo futuro scoprirà la diga di Boulder, si può immaginare che ammirerà la bellezza delle sue curve. Ma gli esploratori appartenenti a qualche grande civiltà futura osserveranno i generatori e i trasformatori e diranno: «Notate che ogni pezzo di ferro ha una forma perfettamente efficiente. Pensate quanta attenzione è stata dedicata a ogni pezzo di rame!». Questa è la potenza dell’ingegneria e l’accuratezza di progettazione dell’elettrotecnica. Col generatore elettrico si è creato qualcosa che non esiste altrove in natura. È vero che ci sono forze d’induzione anche in altri luoghi: sicuramente in certe zone del sole o delle stelle si hanno effetti d’induzione elettromagnetica e forse anche il campo magnetico terrestre (benché non sia certo) è creato da un meccanismo simile a quello di un generatore, che funziona facendo circolare delle correnti nell’interno della terra. In nessun luogo però si trovano pezzi montati insieme a parti rotanti per produrre energia elettrica con grande efficienza e regolarità, come avviene nei generatori elettrici. Potreste pensare che la progettazione di motori elettrici non sia più un argomento interessante, che sia anzi un argomento morto, perché ormai tutto è stato progettato: generatori e motori quasi perfetti si trovano belli e fatti. Anche se questo fosse vero, si potrebbe ammirare l’impresa meravigliosa di aver risolto un problema quasi alla perfezione. In realtà rimangono tanti problemi irrisolti. Anche quelli dei generatori e dei trasformatori sono problemi che tornano a presentarsi.
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Capitolo 16 • Correnti indotte
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È probabile che l’intero campo delle basse temperature e dei sopraconduttori troverà presto applicazione al problema della distribuzione dell’energia elettrica. In presenza di un fattore radicalmente nuovo, nuovi schemi dovranno essere creati per realizzare le condizioni ottimali. Le reti elettriche del futuro può darsi che abbiano scarsa somiglianza con quelle di oggi. Come vedete, c’è un numero infinito di applicazioni e di problemi che si potrebbero considerare quando si studiano le leggi dell’induzione. Lo studio della progettazione delle macchine elettriche è un lavoro che può occupare una vita. Non possiamo spingerci molto in là in questa direzione, ma dobbiamo esser consci del fatto che con la scoperta delle leggi dell’induzione la nostra teoria è entrata improvvisamente in relazione con degli sviluppi pratici su scala enorme. Dobbiamo però lasciare questo argomento agli ingegneri e in genere a quelli che si occupano di scienza applicata, che hanno interesse a elaborare i dettagli delle singole applicazioni. La fisica fornisce soltanto la base, i principi fondamentali che sono validi qualunque siano le condizioni particolari. (Ancora non abbiamo completato questa base, perché abbiamo ancora da considerare in dettaglio le proprietà del ferro e del rame. La fisica ha qualcosa da dire su questo argomento, come vedremo un po’ più avanti.) L’elettrotecnica moderna cominciò con le scoperte di Faraday. Sviluppandosi, l’inutile neonato diventò un prodigio e cambiò la faccia della terra in un modo che il suo padre orgoglioso mai avrebbe potuto immaginare.
Le leggi dell’induzione
17.1
17
La fisica dell’induzione
Nel capitolo precedente sono stati discussi molti fenomeni che mostrano come gli effetti dell’induzione siano piuttosto complicati e interessanti. Vogliamo ora discutere i principi fondamentali che regolano questi effetti. Abbiamo già definito la fem in un circuito conduttore come la forza complessiva sulle cariche che si accumula su tutta la lunghezza del circuito. Più precisamente, si tratta della componente tangenziale della forza per unità di carica integrata una volta lungo tutto il circuito. Questa grandezza è perciò uguale al lavoro fatto su una carica unitaria che percorra il circuito una volta. Abbiamo anche dato la «regola del flusso», che dice che la fem è uguale alla variazione per unità di tempo del flusso magnetico attraverso il circuito. Vediamo se si può capire perché le cose stanno così. Per primo consideriamo il caso nel quale il flusso cambia perché il circuito viene fatto muovere in un campo costante. La FIGURA 17.1 mostra un semplice circuito chiuso filiforme le cui dimensioni possono esser fatte variare. Il circuito si compone di due parti: (a) una parte (a) fatta a «U» che resta fissa e una traversa mobile (b) che può scorrere lungo i bracci della «U». Così il circuito resta sempre chiuso, (b) v w ma la sua area è variabile. Supponiamo ora di collocare il circuito in un I campo magnetico uniforme perpendicolare al piano della «U». Secondo la regola, quando la traversa viene mossa viene a esserci nel circuito una fem proporzionale alla variazione del flusso attraverso il circuito nell’unità di L Linee di B tempo. Questa fem produrrà una corrente nel circuito; supporremo che il filo abbia una resistenza sufficiente perché tale corrente sia piccola: si potrà allora trascurare il campo magnetico di questa corrente. FIGURA 17.1 Una fem viene indotta in un circuito se Il flusso attraverso la spira è wLB, perciò la «regola del flusso» darebbe viene alterato il flusso variandone l’area. per la fem E l’espressione dL E = wB = wBv dt dove v è la velocità di traslazione della traversa. Questo risultato si dovrebbe poter interpretare come effetto della forza magnetica v ⇥ B sulle cariche nella traversa in moto. Queste cariche subiranno una forza tangenziale rispetto al filo, uguale a vB per unità di carica. Essa è costante per tutta la lunghezza della traversa ed è nulla altrove, perciò il suo integrale è E = wvB che ci dà lo stesso risultato ottenuto dalla velocità di variazione del flusso. Il ragionamento ora fatto si può estendere a qualsiasi caso in cui vi sia un campo magnetico fisso e dei fili che si muovono. Si può provare in generale che per qualunque circuito le cui parti si muovono in un campo magnetico costante, la fem è la derivata temporale del flusso, senza riguardo alla forma del circuito. D’altro canto, cosa succede se la spira è stazionaria e si varia il campo magnetico? La risposta a questo problema non possiamo dedurla col medesimo ragionamento. Fu una scoperta di Faraday
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Capitolo 17 • Le leggi dell’induzione
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– ottenuta dall’esperienza – il fatto che la «regola del flusso» resta valida qualunque sia la ragione del cambiamento del flusso. La forza sulle cariche elettriche è data con completa generalità dalla legge F = q (E + v ⇥ B) Non ci sono nuove, speciali «forze dovute a campi magnetici variabili». Qualsiasi forza su cariche in quiete in un filo stazionario viene dal termine E. Le osservazioni di Faraday condussero alla scoperta che i campi elettrico e magnetico sono collegati da una nuova legge: in una regione dove il campo magnetico varia col tempo, si genera un campo elettrico. È questo campo elettrico che spinge gli elettroni nel filo ed è perciò responsabile della fem in un circuito stazionario quando c’è un flusso magnetico variabile. La legge generale che regola il campo elettrico associato a un campo magnetico variabile è r⇥E =
@B @t
(17.1)
Questa è chiamata legge di Faraday. Fu scoperta da Faraday, ma fu scritta per la prima volta in forma differenziale da Maxwell, come una delle sue equazioni. Vediamo come questa equazione esprima la «regola del flusso» per i circuiti. Utilizzando il teorema di Stokes, questa legge può essere scritta in forma integrale nel modo seguente: ⇥ ⌅ ⌅ @B E · ds = (r ⇥ E) · n da = · n da (17.2) S S @t dove, al solito, è una curva chiusa qualunque e S una qualunque superficie che ammette come contorno. Qui, ricordiamo, è una curva matematica fissa nello spazio e S una superficie fissa. Allora la derivata rispetto al tempo può esser portata fuori dal segno d’integrale e si ha ⇥
E · ds =
d dt
⌅
B · n da = S
d (flusso attraverso S) dt
(17.3)
Applicando questa relazione alla curva, che descrive un circuito conduttore fisso, si ritrova la «regola del flusso». L’integrale al primo membro è la fem, quello al secondo membro è la diminuzione per unità di tempo del flusso concatenato col circuito. L’equazione (17.1) applicata a un circuito fisso è quindi equivalente alla «regola del flusso». Perciò la «regola del flusso» – cioè che la fem in un circuito è uguale alla variazione per unità di tempo del flusso magnetico attraverso il circuito stesso – si applica quando il flusso varia sia perché cambia il campo, sia perché il circuito si muove (o per tutt’e due le cause insieme). Le due possibilità: «il circuito si muove» oppure «il campo cambia» non vengono distinte nella formulazione della legge. Eppure nella nostra spiegazione della regola abbiamo usato due leggi completamente distinte per i due casi: v ⇥ B per il caso del «circuito che si muove» e r ⇥ E = @B/@t per il caso del «campo che cambia». Non conosciamo nessun altro caso in fisica in cui un principio tanto semplice, preciso e generale esiga per la sua effettiva comprensione un’analisi in termini di due fenomeni diversi. Di solito si trova che una magnifica generalizzazione di quel tipo ha per base un unico profondo principio. Ciò nonostante in questo caso non sembra esserci una simile profonda implicazione. Si deve intendere la «regola» come un effetto congiunto di due fenomeni affatto distinti. Questa «regola del flusso» va considerata nel modo seguente. In modo generale, la forza sull’unità di carica è F =E+v⇥B q Su fili che si muovono c’è la forza che deriva dal secondo termine; inoltre c’è un campo E se in qualche parte esiste un campo magnetico che cambia. Si tratta di effetti indipendenti, ma la fem in una spira è sempre uguale alla variazione per unità di tempo del flusso magnetico che l’attraversa.
17.2
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17.2 • Eccezioni alla «regola del flusso»
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Eccezioni alla «regola del flusso»
Daremo ora alcuni esempi, in parte dovuti a Faraday, che mostrano l’importanza di aver chiara nella mente la distinzione fra i due effetti che danno origine alla fem indotta. Questi esempi riguardano delle situazioni alle quali la «regola del flusso» non si può applicare o perché non c’è alcun filo o perché il cammino seguito dalle correnti indotte si sposta all’interno di un volume esteso di un conduttore. Cominciamo con un’importante chiarimento: quella parte della fem che ha origine dal campo E non dipende dall’esistenza di un filo materiale (come avviene invece per la parte dovuta a v ⇥ B). Il campo E può esistere nello spazio libero e il suo integrale di linea intorno a qualsiasi immaginaria linea chiusa fissa nello spazio è dato dalla variazione per unità di tempo del flusso di B attraverso quella linea. (Si noti che questo è affatto dissimile da ciò che si ha per il campo E prodotto da cariche statiche, perché in tal caso l’integrale di linea su un percorso chiuso è sempre nullo.) Vogliamo ora descrivere una situazione in cui il flusso attraverso il circuito non cambia, ma c’è tuttavia una fem. La FIGURA 17.2 mostra un disco conduttore che può essere fatto ruotare intorno a un asse fisso, in presenza di un campo magnetico. C’è un contatto elettrico con l’albero e un altro, strisciante, col bordo del disco; il circuito si chiude su un galvanometro. Mentre il disco ruota, il «circuito» – nel senso del luogo dello spazio dove si trovano le correnti – è sempre lo stesso. Però quella parte del circuito che appartiene al disco si trova in un materiale che è in moto. Benché il flusso attraverso il «circuito» sia costante, c’è tuttavia una fem, come si può vedere dalla deflessione del galvanometro. È chiaro che questo è un caso in cui la forza v ⇥ B nel disco in movimento dà origine a una fem che non può essere uguagliata a un cambiamento di flusso. Consideriamo ora, come esempio opposto, una situazione piuttosto insolita in cui il flusso attraverso un «circuito» (sempre nel senso del luogo dove c’è la corrente) varia, però non c’è fem. Immaginate due lastre metalliche con i bordi leggermente curvi, come mostra la FIGURA 17.3, poste in un campo magnetico uniforme perpendicolare alle loro superfici. Ciascuna lastra è collegata a uno dei terminali di un galvanometro nel modo indicato. Le lastre sono in contatto in un punto P così da avere un circuito completo. Se ora le lastre vengono fatte ruotare di un piccolo angolo, il punto di contatto si sposterà in P 0. Se s’immagina che il «circuito» si completi attraverso le lastre secondo le linee punteggiate indicate in figura, il flusso magnetico attraverso questo circuito cambia notevolmente mentre le lastre vengono fatte ruotare avanti e indietro. Tuttavia questo si può fare con dei piccoli movimenti, così che v ⇥ B è molto piccolo e non c’è praticamente fem. La «regola del flusso» in questo caso non funziona. Essa deve essere applicata a circuiti nei quali il materiale del circuito resta lo stesso: quando il materiale del circuito cambia occorre ritornare alle leggi fondamentali. La fisica corretta è sempre data dalle due leggi base F = q (E + v ⇥ B)
r⇥E =
@B @t Lastre di rame
P'
Magnete a sbarra
17.2 Quando il disco ruota c’è una fem dovuta a v ⇥ B, ma senza che si abbia alcun cambiamento del flusso concatenato.
FIGURA
!B N S
P
Disco di rame
17.3 Quando le lastre vengono ruotate in un campo magnetico uniforme si può avere un cambiamento notevole nel flusso concatenato senza che si generi una fem. FIGURA
Galvanometro Galvanometro
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Capitolo 17 • Le leggi dell’induzione
17.3
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Accelerazione di particelle per mezzo di un campo elettrico indotto. Il betatrone
S’è detto che la forza elettromotrice generata da un campo magnetico variabile può esistere anche senza conduttori, cioè ci può essere induzione magnetica senza che ci siano dei fili. È sempre possibile immaginare una forza elettromotrice relativa a una curva matematica arbitraria nello spazio. Essa si definisce come la componente tangenziale di E integrata su tutta la curva. Per una curva chiusa la legge di Faraday dice che questo integrale di linea è uguale alla variazione per unità di tempo del flusso magnetico attraverso la curva chiusa, equazione (17.3). Come esempio dell’effetto di un simile campo elettrico indotto, vogliamo ora considerare il moto di un elettrone in un campo magnetico variabile. Immaginiamo un campo magnetico che in tutti i punti di un piano è diretto verticalmente, come indica la FIGURA 17.4. Questo campo magnetico è prodotto da un elettromagnete, ma non ci vogliamo preoccupare dei dettagli. Ammetteremo che esso sia simmetrico intorno a un certo asse, cioè che il suo modulo dipenda soltanto dalla distanza da questo asse; ammetteremo inoltre che vari col tempo. Immaginiamo ora un elettrone che si muove in questo campo su una traiettoria che è una circonferenza di raggio costante col centro sull’asse del campo. (Vedremo più avanti come si può ottenere questo moto.) Per effetto del campo magnetico variabile ci sarà un campo elettrico E tangente all’orbita dell’elettrone che lo spingerà lungo la circonferenza. A causa della simmetria, questo campo elettrico avrà lo stesso valore in tutti i punti della circonferenza. L’integrale di linea di E intorno all’orbita è uguale alla variazione del flusso magnetico attraverso la circonferenza nell’unità di tempo. Se l’orbita dell’elettrone ha il raggio r, l’integrale di linea di E non è che il modulo di E moltiplicato per la lunghezza della circonferenza, cioè 2⇡r. In generale il flusso magnetico si deve calcolare per mezzo di un integrale. Per il momento poniamo che Bm rappresenti il campo magnetico medio nell’interno del cerchio: il flusso è dato allora da questo campo magnetico medio moltiplicato per l’area del cerchio. Si ha dunque 2⇡r E =
⌘ d ⇣ Bm ⇡r 2 dt
Siccome abbiamo supposto che r sia costante, E risulta proporzionale alla derivata del campo medio rispetto al tempo: r dBm E= (17.4) 2 dt L’elettrone sarà soggetto alla forza qE e verrà accelerato da questa. Ricordando che l’equazione relativisticamente corretta del moto è che l’incremento dell’impulso per unità di tempo è proporzionale alla forza, si avrà dp qE = (17.5) dt
E B
v
E
q
E E
17.4
Un elettrone che accelera in un campo magnetico a simmetria assiale, variabile nel tempo.
FIGURA
Vista laterale
Linee di B
Vista dall’alto
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17.3 • Accelerazione di particelle per mezzo di un campo elettrico indotto. Il betatrone
Per l’orbita circolare che abbiamo ipotizzato, la forza elettrica sull’elettrone è sempre nella direzione del moto e perciò il suo impulso totale crescerà con la legge data dall’equazione (17.5). Combinando le equazioni (17.5) e (17.4) si può mettere in relazione la variazione per unità di tempo dell’impulso con quella del campo magnetico medio. Si ha dp qr dBm = dt 2 dt
(17.6)
Integrando rispetto a t, si trova per l’impulso dell’elettrone p = p0 +
qr 2
Bm
(17.7)
dove p0 è l’impulso col quale gli elettroni cominciano a muoversi e Bm è il successivo incremento di Bm . Il funzionamento del betatrone – una macchina per produrre elettroni ad alta energia – è basato su questa idea. Per vedere più in dettaglio come funziona il betatrone, dobbiamo esaminare come un elettrone può esser vincolato a muoversi su una circonferenza. Abbiamo discusso nel cap. 11 del vol. 1 il principio che entra in gioco. Se si fa in modo che ci sia un campo magnetico B sull’orbita dell’elettrone, ci sarà una forza trasversale qv ⇥ B che, scegliendo convenientemente B, può far sì che l’elettrone continui a muoversi sull’orbita considerata. Nel betatrone questa forza trasversale fa muovere l’elettrone su un’orbita circolare di raggio costante. Si può calcolare quale deve essere il campo sull’orbita utilizzando di nuovo l’equazione di moto relativistica, ma questa volta per la componente trasversale della forza. Nel betatrone (FIGURA 17.4) B è perpendicolare a v, così che la forza trasversale è qvB. Questa forza deve essere uguale alla derivata temporale della componente trasversale pt dell’impulso: qvB =
dpt dt
(17.8)
Quando una particella si muove su una circonferenza, la derivata temporale del suo impulso trasversale è uguale al modulo dell’impulso totale moltiplicato per la velocità angolare della rotazione (come risulta dal ragionamento del cap. 11 del vol. 1). Si ha cioè dpt = !p dt
(17.9)
dove, siccome il moto è circolare, deve essere !=
v r
(17.10)
Ponendo la forza magnetica uguale all’accelerazione trasversale, si ha qvBorbita = p
v r
(17.11)
dove Borbita è il campo alla distanza r dall’asse. Durante il funzionamento del betatrone l’impulso dell’elettrone, secondo l’equazione (17.7), cresce proporzionalmente a Bm , ma se l’elettrone deve continuare a muoversi sulla sua orbita appropriata, anche l’equazione (17.11) deve continuare a valere mentre l’impulso dell’elettrone aumenta. Per questo il valore di Borbita deve crescere in proporzione all’impulso p. Confrontando l’equazione (17.11) con l’equazione (17.7) che determina p, si vede che deve valere la seguente relazione fra il campo magnetico medio Bm dentro l’orbita di raggio r e il campo magnetico Borbita sull’orbita: Bm = 2 Borbita (17.12) Il corretto funzionamento del betatrone esige che il campo magnetico medio internamente all’orbita cresca con una rapidità doppia di quella del campo magnetico sull’orbita stessa. In queste circostanze, mentre l’energia della particella viene accresciuta dal campo elettrico indotto, il
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Capitolo 17 • Le leggi dell’induzione
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campo magnetico sull’orbita cresce proprio di quanto è necessario per mantenere la particella in moto sulla sua circonferenza. Il betatrone si adopera per accelerare elettroni fino a energie di decine di milioni di volt o anche centinaia di milioni di volt. Diventa però inadatto per l’accelerazione a energie molto più alte di poche centinaia di milioni di volt, per diverse ragioni. Una di queste è la difficoltà di raggiungere l’elevato valore medio che si richiede per il campo interno all’orbita. Un’altra è che l’equazione (17.6) a energie molto elevate non è più corretta, perché non tiene conto della perdita d’energia delle particelle dovuta all’irradiazione di energia elettromagnetica (la cosiddetta radiazione di sincrotrone, discussa nel cap. 36 del vol. 1). Per queste ragioni l’accelerazione di elettroni a energie altissime – molti miliardi di eV – si compie per mezzo di macchine di un tipo diverso, chiamate sincrotroni.
17.4
Un paradosso
Vorremo ora sottoporvi un apparente paradosso. Un paradosso è una situazione che analizzata in un modo conduce a una certa risposta e analizzata in un altro modo dà una risposta diversa, così da lasciarci nell’imbarazzo Sfere metalliche Bobina cariche riguardo a che cosa dovrebbe realmente accadere. Naturalmente non ci sono mai veri paradossi in fisica, perché c’è una sola risposta corretta; o almeno riteniamo che la natura si comporterà in un modo solo (e questo, + naturalmente, è il modo giusto). Perciò in fisica un paradosso è soltanto una – confusione nella nostra comprensione. Ecco il paradosso in questione. Batteria Immaginiamo di costruire un apparecchio come quello mostrato in FIGUI RA 17.5. C’è un sottile disco di plastica sostenuto da un albero concentrico che poggia su ottimi supporti, così che è liberissimo di ruotare. Sul disco c’è una bobina che costituisce un corto solenoide concentrico con l’asse Disco di plastica di rotazione. Il solenoide è percorso da una corrente costante fornita da una piccola batteria, anch’essa montata sul disco. Vicino all’orlo del disco e distribuite uniformemente lungo questo ci sono delle sferette metalliche isolate l’una dall’altra e dal solenoide dal materiale plastico del disco. FIGURA 17.5 Se la corrente viene a cessare il disco ruoterà? Ognuna di queste sferette conduttrici è carica e porta la stessa carica elettrostatica Q. Tutto è stazionario e il disco è in quiete. Supponiamo ora che per caso, oppure in modo predisposto, la corrente nel solenoide si interrompa, senza però nessun intervento dall’esterno. Fintanto che la corrente circolava, c’era un flusso magnetico attraverso il solenoide, più o meno parallelo all’asse del disco. Quando la corrente s’interrompe, il flusso deve andare a zero. Ci deve essere perciò un campo elettrico indotto che circolerà secondo circonferenze centrate sull’asse del disco: le sfere cariche sul perimetro del disco saranno sottoposte tutte a un campo elettrico tangente al perimetro del disco. Questa forza elettrica ha lo stesso senso per tutte le cariche e perciò produrrà complessivamente un momento di forza applicato al disco. Da questo ragionamento ci si aspetterebbe che quando la corrente nel solenoide scompare, il disco cominci a girare. Conoscendo il momento d’inerzia del disco, la corrente nel solenoide e le cariche delle sferette, si potrebbe calcolare la velocità angolare che ne risulta. Ma si potrebbe fare anche un ragionamento diverso. Usando il principio della conservazione del momento angolare, si potrebbe dire che il momento angolare del disco e di tutti i suoi accessori è inizialmente nullo, e perciò il momento angolare del dispositivo dovrebbe restare nullo: non ci dovrebbe essere rotazione quando la corrente si arresta. Quale dei due ragionamenti è quello corretto? Il disco ruoterà o no? Lasciamo a voi di meditare su questo problema. Vogliamo avvertirvi che la risposta corretta non dipende da nessun aspetto inessenziale, come per esempio la posizione asimmetrica della batteria. Effettivamente, si può immaginare una situazione ideale di questo tipo: il solenoide è fatto di un filo superconduttore nel quale c’è una corrente. Dopo che il disco è stato accuratamente portato in quiete, si lascia che la temperatura del solenoide salga lentamente. Quando il filo raggiunge la temperatura di transizione fra superconduttività e conduttività normale, la corrente nel solenoide si riduce a zero per effetto
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17.5 • Il generatore di corrente alternata
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della resistenza del filo. Il flusso cadrà, come prima, a zero e ci sarà un campo elettrico intorno all’asse. Vi dobbiamo anche avvertire che la soluzione non è facile e non è un artificio. Quando l’avrete ricavata avrete scoperto un importante principio dell’elettromagnetismo.
17.5
Il generatore di corrente alternata
Nel resto di questo capitolo applicheremo i principi del paragrafo 17.1 all’analisi di un certo numero di fenomeni discussi nel capitolo 16. Per prima cosa esaminiamo in maggior dettaglio il generatore di corrente alternata. Un simile generatore consiste essenzialmente di una bobina che ruota in un campo magnetico uniforme. Lo stesso risultato si può anche raggiungere con una bobina fissa che si trova in un campo la cui direzione ruota nella maniera descritta nell’ultimo capitolo. Consideriamo soltanto il primo di questi casi. Supponiamo di avere una bobina circolare che può essere fatta ruotare intorno a un asse coincidente con uno dei suoi diametri. La bobina si trovi in un campo magnetico uniforme perpendicolare all’asse di rotazione, come in FIGURA 17.6. Immaginiamo anche che i capi della bobina raggiungano due collegamenti esterni per mezzo di un qualche tipo di contatti striscianti. A causa della rotazione della bobina, il flusso attraverso di essa cambierà: nel circuito della bobina ci sarà perciò una fem. Sia S l’area della bobina e ✓ l’angolo fra il campo magnetico e la normale al piano della bobina.(1) Il flusso attraverso la bobina è dunque BS cos ✓
B
Carico
(17.13) FIGURA
17.6
L’idea base di un generatore di CA: una
Se la bobina ruota con velocità angolare ! uniforme, ✓ varia secondo la bobina che ruota in un campo magnetico uniforme. legge ✓ = !t. In ciascuna spira della bobina ci sarà una fem uguale alla variazione per unità di tempo del flusso (17.13). Se la bobina ha N spire, la fem totale sarà N volte più grande, perciò si ha E= N
d (BS cos !t) = N BS! sen !t dt
(17.14)
Se i fili che escono dal generatore li portiamo a una certa distanza dalla bobina rotante, in un punto dove il campo magnetico è nullo, o per lo meno non varia col tempo, il rotore di E in questa regione sarà nullo e potremo definire un potenziale elettrico. Infatti se non si preleva corrente dal generatore, la differenza di potenziale V fra i due fili sarà uguale alla fem della bobina rotante. Cioè si avrà V = N BS! sen !t = V0 sen !t La differenza di potenziale fra i fili varia come sen !t. Una differenza di potenziale che varia in questo modo si chiama voltaggio alternato. Dato che c’è un campo elettrico fra i fili, essi devono essere elettricamente carichi. È chiaro che la fem del generatore ha spinto un certo eccesso di carica nei fili finché il campo elettrico fra questi è divenuto abbastanza forte da controbilanciare la forza d’induzione. Visti fuori del generatore, i due fili appaiono come se fossero stati caricati elettrostaticamente fino a raggiungere la differenza di potenziale V e come se la carica cambiasse col tempo, così da dare una differenza di potenziale alternata. C’è anche un’altra differenza rispetto a una situazione elettrostatica. Se si collega il generatore a un circuito esterno che permette il passaggio della corrente, si trova che la fem non permette ai fili di scaricarsi, ma continua a fornire cariche ai fili via via che si preleva la corrente, cercando di mantenere i fili sempre alla stessa differenza di potenziale. Effettivamente, se il generatore è connesso a un circuito la cui resistenza totale è R, la corrente attraverso il (1)
Ora che utilizziamo la lettera A per il potenziale vettore, preferiamo usare S per l’area di una superficie.
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Capitolo 17 • Le leggi dell’induzione
circuito sarà proporzionale alla fem del generatore e inversamente proporzionale a R. Dato che la fem varia col tempo in modo sinusoidale, così farà anche la corrente: si ha una corrente alternata
I
!
R
Generatore di CA
17.7 Un circuito comprendente un generatore di CA e una resistenza. La corrente è I = E/R = (V 0 /R) sen t. FIGURA
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I=
E V0 = sen !t R R
Lo schema di un circuito di questo genere è mostrato in FIGURA 17.7. Si può anche vedere che la fem determina quanta energia è fornita dal generatore. Ogni carica nel filo riceve l’energia F · v per unità di tempo, dove F è la forza che si esercita sulla carica e v la sua velocità. Sia ora n il numero di cariche mobili per unità di lunghezza del filo; allora la potenza comunicata a un qualunque elemento ds del filo è F · vn ds In un filo, v è sempre diretto come ds, perciò si può scrivere la potenza nella forma nvF · ds La potenza totale comunicata all’intero circuito è l’integrale di questa espressione lungo il circuito: ⇥ potenza = nvF · ds (17.15) Ricordiamo ora che qnv è la corrente I e che la fem è definita come l’integrale di F/q lungo il circuito. Si ottiene il risultato potenza dal generatore = EI
(17.16)
Quando c’è una corrente nella bobina del generatore, ci sono anche delle forze meccaniche su di essa. Effettivamente sappiamo che il momento di forza sulla bobina è proporzionale al suo momento magnetico, all’intensità del campo magnetico B e al seno dell’angolo fra questi due vettori. Il momento magnetico è dato dalla corrente nella bobina moltiplicata per la sua area. Perciò il momento di forza è ⌧ = N I SB sen ✓ (17.17) Il lavoro meccanico per unità di tempo che si deve fare per mantenere la bobina in rotazione è dato dal prodotto della velocità angolare ! per il momento di forza: dW = !⌧ = !N I SB sen ✓ dt
(17.18)
Confrontando questa con l’equazione (17.14) si vede che il lavoro meccanico per unità di tempo necessario per far ruotare la bobina contro le forze magnetiche è proprio uguale a EI, cioè all’energia elettrica per unità di tempo fornita dalla fem del generatore. Tutta l’energia meccanica consumata nel generatore appare come energia elettrica nel circuito. Come altro esempio di correnti e forze dovute a una fem indotta analizziamo cosa succede nel dispositivo descritto nel paragrafo 17.1 e illustrato nella FIGURA 17.1. Si hanno due fili paralleli e una traversa scorrevole posti in un campo magnetico uniforme perpendicolare al piano dei fili paralleli. Supponiamo ora che il «fondo» della «U» (il lato sinistro della figura) sia fatto di fili ad alta resistenza, mentre i due fili laterali sono fatti di un buon conduttore, come il rame: allora non è necessario preoccuparsi del cambiamento nella resistenza del circuito quando si muove la traversa. Come prima, la fem nel circuito è E = vBw
(17.19)
La corrente nel circuito è proporzionale a questa fem e inversamente proporzionale alla resistenza del circuito: E vBw I= = (17.20) R R
17.6 • Induttanza mutua
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A causa di questa corrente ci sarà una forza magnetica sulla traversa che è proporzionale alla sua lunghezza, alla corrente che la percorre e al campo magnetico, cioè data da F = BIw
(17.21)
Prendendo I dall’equazione (17.20), abbiamo per la forza F=
B2 w2 v R
(17.22)
Si vede che la forza è proporzionale alla velocità della traversa. Una forza «proporzionale alla velocità», simile quindi alle forze viscose, si trova ogni volta che si producono correnti indotte muovendo dei conduttori in un campo magnetico. Le correnti vorticose, di cui abbiamo dato degli esempi nel capitolo precedente, producevano anch’esse delle forze che agiscono sui conduttori proporzionalmente alla velocità di questi, anche se tali situazioni danno in generale una complessa distribuzione di correnti che è difficile da analizzare. È spesso comodo nella progettazione di sistemi meccanici avere forze di smorzamento proporzionali alla velocità. Le forze sulle correnti vorticose forniscono uno dei modi più comodi per ottenere tali forze. Un esempio di applicazione di una forza di questo genere si trova nell’ordinario wattmetro casalingo. Nel wattmetro c’è un disco sottile d’alluminio che gira fra i poli di un magnete permanente. Questo disco è azionato da un motorino elettrico la cui coppia motrice è proporzionale alla potenza che viene consumata nel circuito elettrico di casa. A causa delle forze sulle correnti vorticose che si hanno nel disco, c’è una forza resistente proporzionale alla velocità. All’equilibrio la velocità è perciò proporzionale al consumo d’energia elettrica per unità di tempo. Per mezzo di un contagiri connesso al disco rotante si registra il numero di giri che il disco fa. Questo numero dà un’indicazione del consumo totale d’energia, cioè del numero di wattora (W·h) utilizzati. Si può anche rilevare che l’equazione (17.22) mostra come la forza che deriva da correnti indotte – cioè anche qualsiasi forza da correnti vorticose – sia inversamente proporzionale alla resistenza. Questa forza sarà tanto più grande quanto migliore è la conduttività del materiale. La ragione naturalmente è che una fem produce più corrente se la resistenza è bassa e che correnti più forti vogliono dire forze meccaniche più grandi. Dalle formule possiamo anche vedere come l’energia meccanica è convertita in energia elettrica. Come prima, l’energia elettrica fornita alla resistenza del circuito è data dal prodotto EI. Il lavoro per unità di tempo che viene fatto per muovere la traversa conduttrice è dato dalla forza su questa moltiplicata per la sua velocità. Usando l’equazione (17.21) per la forza, tale lavoro per unità di tempo è v 2 B2 w2 dW = dt R Si vede che questo è proprio uguale al prodotto EI che si otterrebbe dalle equazioni (17.19) e (17.20). Di nuovo il lavoro meccanico appare come energia elettrica.
17.6
Induttanza mutua
Vogliamo ora considerare una situazione in cui si hanno due bobine fisse, ma i campi magnetici variano. Quando è stata descritta la produzione di campi magnetici da parte delle correnti, si è considerato soltanto il caso di correnti costanti; però finché le correnti si fanno variare lentamente, il campo magnetico a ogni istante sarà quasi lo stesso del campo magnetico di una corrente costante. Nella discussione di questo paragrafo ammetteremo che le correnti cambino sempre con sufficiente lentezza perché ciò sia vero. La FIGURA 17.8 mostra un dispositivo formato da due bobine che illustra gli effetti fondamentali ai quali si deve il funzionamento del trasformatore. La bobina 1 consiste di un filo conduttore avvolto in modo da formare un lungo solenoide. Intorno a questa bobina, e isolata da essa, è avvolta la bobina 2 composta di pochi giri di filo. Se ora si fa passare una corrente nella bobina 1,
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Capitolo 17 • Le leggi dell’induzione
B I1
Bobina 1
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sappiamo che un campo magnetico apparirà nel suo interno. Questo campo magnetico attraversa anche la bobina 2. Variando la corrente nella bobina 1, anche il flusso magnetico varierà e ci sarà una fem indotta nella bobina 2. Calcoliamo ora questa fem indotta. S’è visto nel paragrafo 13.5 che il campo magnetico all’interno di un lungo solenoide ha modulo B=
Bobina 2
I2
17.8 Una corrente nella bobina 1 produce un campo magnetico attraverso la bobina 2. FIGURA
1 N1 I1 ✏ 0 c2 l
(17.23)
dove N1 è il numero di giri nella bobina 1, I1 è la corrente in essa e l la sua lunghezza. Chiamiamo S l’area della sezione normale della bobina 1; allora il flusso di B è il suo modulo moltiplicato per S. Se la bobina 2 ha N2 giri, questo flusso si concatena N2 volte con la bobina. Perciò la fem nella bobina 2 è dB E2 = N2 S (17.24) dt La sola grandezza che varia col tempo nell’equazione (17.23) è I1 . La fem è perciò data da N1 N2 S dI1 E2 = (17.25) ✏ 0 c2 l dt
Si vede che la fem nella bobina 2 è proporzionale alla variazione per unità di tempo della corrente nella bobina 1. La costante di proporzionalità, che è essenzialmente una caratteristica geometrica delle due bobine, è chiamata induttanza mutua ed è di solito indicata con M21 . L’equazione (17.25) si scrive dunque E2 = M21
ds1 I1
(17.26)
Supponiamo ora di inviare una corrente nella bobina 2 e domandiamoci quale sarà la fem nella bobina 1. Bisognerebbe calcolare il campo magnetico, che è dappertutto proporzionale alla corrente I2 . Il flusso concatenato con la bobina 1 dipenderà dalla geometria, ma sarà proporzionale alla corrente I2 . La fem nella bobina 1 sarà perciò proporzionale a dI2 /dt. Possiamo dunque scrivere dI2 E1 = M12 (17.27) dt Il calcolo di M12 sarebbe più difficile del calcolo che abbiamo fatto un momento fa per M21 . Non eseguiremo questo calcolo ora, perché faremo vedere più avanti in questo capitolo che M12 è necessariamente uguale a M21 . Siccome per qualunque bobina il campo è proporzionale alla corrente, lo stesso tipo di risultati si otterrebbe per qualunque coppia di bobine. Le equazioni (17.26) e (17.27) avrebbero la stessa forma e solo le costanti M21 e M12 sarebbero diverse; il loro valore dipenderebbe dalla forma e dalle posizioni relative delle bobine. Supponiamo di voler trovare l’induttanza mutua fra due bobine arbitrarie, per esempio quelle indicate in FIGURA 17.9. Sappiamo che l’espressione generale per la fem nella bobina 1 si può scrivere nella forma ⌅ I2 d r12 E1 = B · n da dt (1) ds2
2 1
17.9 Qualunque coppia di bobine possiede un’induttanza mutua proporzionale all’integrale di ds1 · ds2 /r 12 . FIGURA
dI1 dt
dove B è il campo magnetico e l’integrale è da prendere su una superficie limitata dal circuito 1. S’è visto nel paragrafo 14.1 che l’integrale di superficie di B può essere trasformato in un integrale di linea del potenziale vettore. In particolare si avrà ⌅ ⇥ B · n da = A · ds1 (1)
(1)
17.7 • Autoinduzione
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dove A rappresenta il potenziale vettore e ds1 è un elemento del circuito 1. L’integrale di linea è da prendere lungo il circuito 1. La fem nella bobina 1 può perciò scriversi nella forma ⇥ d E1 = A · ds1 (17.28) dt (1) Ora ammettiamo che il potenziale vettore relativo ai punti del circuito 1 abbia origine dalla corrente nel circuito 2. Allora può esser scritto come un integrale di linea esteso al circuito 2, cioè sarà: ⇥ I2 1 A= ds2 (17.29) 2 r 4⇡✏ 0 c (2) 12 dove I2 è la corrente nel circuito 2 e r 12 è la distanza dall’elemento di circuito ds2 al punto del circuito 1 nel quale si vuole valutare il potenziale vettore (FIGURA 17.9). Combinando le equazioni (17.28) e (17.29), si può esprimere la fem nel circuito 1 come un doppio integrale di linea, cioè ⇥ ⇥ 1 d I2 E1 = ds2 · ds1 2 4⇡✏ 0 c dt (1) (2) r 12 In questa equazione gli integrali sono tutti presi su circuiti stazionari. La sola grandezza che cambia è la corrente I2 , che non dipende dalle variabili d’integrazione: si può perciò portarla fuori dagli integrali e scrivere la fem nella forma E1 = M12
dI2 dt
dove il coefficiente M12 è dato da M12 =
1 4⇡✏ 0 c2
⇥
(1)
⇥
(2)
1 ds2 · ds1 r 12
(17.30)
Si vede da questo integrale che M12 dipende soltanto dalla geometria dei circuiti. Dipende da una specie di separazione media dei due circuiti con la media pesata di più per segmenti paralleli delle due bobine. Questa equazione può essere usata per calcolare la mutua induttanza di qualsiasi coppia di circuiti di forma arbitraria. Inoltre essa fa vedere che l’integrale per M12 è identico a quello per M21 . Abbiamo perciò mostrato che i due coefficienti sono uguali. Per un sistema di due bobine sole, i coefficienti M12 e M21 sono spesso indicati col simbolo M senza indici, chiamato semplicemente induttanza mutua: M12 = M21 = M
17.7
Autoinduzione
Discutendo le forze elettromotrici indotte nelle due bobine della FIGURA 17.8 o della FIGURA 17.9 si è considerato soltanto il caso in cui c’era corrente in una bobina o nell’altra. Se ci sono correnti nelle due bobine simultaneamente, il flusso magnetico concatenato con l’una o l’altra delle bobine sarà la somma dei due flussi che esisterebbero separatamente, perché la legge di sovrapposizione si applica ai campi magnetici. La fem in una delle due bobine sarà proporzionale non soltanto alla variazione della corrente nell’altra bobina, ma anche alla variazione di corrente nella bobina medesima. Perciò la fem totale nella bobina 2 si scriverà(2) E2 = M21
dI1 dI2 + M22 dt dt
(17.31)
(2) I segni di M 12 e M21 nelle equazioni (17.31) e (17.32) dipendono dalle scelte arbitrarie del senso positivo per la corrente in ciascuna delle due bobine.
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Capitolo 17 • Le leggi dell’induzione
TABELLA
17.1
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Corrispondenza tra grandezze meccaniche ed elettriche.
Particella
F v x F = m (dv/dt) mv (1/2) mv 2
Bobina forza velocità spostamento impulso
energia cinetica
V I q
differenza di potenziale corrente carica
V = L (dI/dt) LI (1/2) LI 2
energia magnetica
Similmente la fem nella bobina 1 dipenderà non soltanto dal variare della corrente nella bobina 2, ma anche dal variare della corrente in sé stessa: dI2 dI1 + M11 dt dt sono sempre numeri negativi. Si usa scrivere E1 = M12
I coefficienti M22 e M11
M11 = L1 M22 = L2
(17.32)
(17.33)
dove L1 e L2 vengono chiamate autoinduttanze delle due bobine. La fem autoindotta esiste naturalmente anche se si ha una sola bobina. Qualsiasi bobina ha di per sé un’autoinduttanza. La fem che ne deriva è proporzionale alla variazione per unità di tempo della corrente nella bobina. Per una bobina singola si usa adottare la convenzione che la fem e la corrente sono considerate positive se hanno la stessa direzione. Con questa convenzione si può scrivere per la fem di una singola bobina I
(t )
(a) v F
m (b)
17.10 (a) Un circuito che comprende una sorgente di voltaggio e un’induttanza. (b) Un sistema meccanico analogo. FIGURA
dI (17.34) dt Il segno negativo indica che la fem si oppone al cambiamento della corrente; essa è spesso chiamata «forza controelettromotrice». Siccome qualunque bobina ha un’autoinduttanza che si oppone ai cambiamenti della corrente, la corrente nella bobina ha una specie d’inerzia. Effettivamente se si vuole cambiare la corrente in una bobina si deve vincere questa inerzia collegando la bobina a qualche sorgente esterna di voltaggio – batteria o generatore – come mostra il diagramma schematico della FIGURA 17.10a. In un simile circuito la corrente I dipende dal voltaggio V secondo la relazione E= L
dI (17.35) dt Questa equazione ha la stessa forma della legge di moto di Newton per una particella in una dimensione. La possiamo perciò studiare in base al principio che «le stesse equazioni hanno le stesse soluzioni». Perciò se facciamo corrispondere il voltaggio applicato esterno V alla forza applicata esterna F e la corrente I nella bobina alla velocità v della particella, l’induttanza L della bobina viene a corrispondere alla massa m della particella(3) (FIGURA 17.10b). Possiamo quindi costruire la TABELLA 17.1 con le grandezze che si corrispondono. V=L
17.8
Induttanza ed energia magnetica
Continuando nell’analogia del paragrafo precedente, ci si aspetterebbe che in corrispondenza all’impulso meccanico p = mv, la cui velocità di variazione è la forza applicata, esistesse (3)
Incidentalmente, questo non è il solo modo di stabilire una corrispondenza fra quantità meccaniche ed elettriche.
17.8 • Induttanza ed energia magnetica
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un’analoga grandezza uguale a LI, la cui velocità di variazione è V. Non abbiamo naturalmente il diritto di dire che LI è il vero impulso del circuito, e difatti non lo è. Il circuito può trovarsi in quiete e non avere alcun impulso. Si può dire soltanto che LI è analogo dell’impulso mv nel senso che le due grandezze soddisfano a equazioni che si corrispondono. Nello stesso modo all’energia cinetica (1/2) mv 2 corrisponde la grandezza analoga (1/2) LI 2 . Ma qui abbiamo una sorpresa. Questa grandezza (1/2) LI 2 è veramente l’energia anche nel caso elettrico. Questo avviene perché il lavoro per unità di tempo nell’induttanza è VI, mentre nel sistema meccanico è proprio la grandezza corrispondente, cioè Fv. Perciò nel caso dell’energia le grandezze non solo si corrispondono matematicamente, ma hanno anche lo stesso significato fisico. Questo si può vedere con maggior dettaglio nel modo seguente. Come si è trovato a proposito dell’equazione (17.16), il lavoro elettrico per unità di tempo fatto dalle forze indotte è il prodotto della forza elettromotrice per la corrente: dW = EI dt Sostituendo E con la sua espressione in termini della corrente, data dall’equazione (17.34), si ha dW dI = LI dt dt
(17.36)
Integrando questa equazione, si trova che l’energia che si richiede a una sorgente esterna per vincere la fem di autoinduzione mentre si stabilisce la corrente(4) (e che deve uguagliare l’energia accumulata) è 1 W = U = LI 2 (17.37) 2 Perciò l’energia accumulata in un’induttanza è (1/2) LI 2 . Applicando lo stesso ragionamento a una coppia di bobine come quelle di FIGURA 17.8 o di FIGURA 17.9, si può far vedere che l’energia elettrica del sistema è data da U=
1 1 L1 I12 + L2 I22 + M I1 I2 2 2
(17.38)
Infatti, partendo con I = 0 in tutte e due le bobine, si potrebbe lanciare la corrente I1 nella bobina 1, mentre è I2 = 0. Il lavoro fatto è proprio (1/2) L1 I12 . Però nel lanciare la corrente I2 non si compie soltanto il lavoro (1/2) L2 I22 contro la fem nel circuito 2, ma anche un lavoro in più, M I1 I2 che è l’integrale della fem M dI2 /dt nel circuito 1 moltiplicata per la corrente I1 – adesso costante – in quel circuito. Supponiamo ora di voler trovare la forza fra due bobine qualunque percorse dalle correnti I1 e I2 . Ci si potrebbe aspettare, a prima vista, di poter usare il principio dei lavori virtuali, prendendo la variazione di quella energia che è espressa dall’equazione (17.38). Dobbiamo naturalmente ricordare che nel cambiare le posizioni relative delle bobine la sola grandezza che cambia è l’induttanza mutua M; si potrebbe quindi scrivere l’equazione dei lavori virtuali nella forma F x = U = I1 I2 M
(sbagliato)
Ma questa equazione è sbagliata perché, come abbiamo visto prima, essa comprende soltanto la variazione dell’energia delle due bobine, ma non quella delle sorgenti che devono mantenerne costanti le correnti I1 e I2 . Ci appare ora chiaro che queste sorgenti devono fornire energia per contrastare le fem indotte nelle bobine quando queste vengono mosse. Se vogliamo applicare correttamente il principio dei lavori virtuali dobbiamo includere anche queste energie. Come si è visto, però, possiamo prendere una scorciatoia e adoperare il principio dei lavori virtuali (4)
Si trascura qualche perdita d’energia della corrente sotto forma di calore, dovuta alla resistenza della bobina. Tali perdite richiedono che la sorgente fornisca un’energia supplementare, ma non cambiano l’energia che si accumula nell’induttanza.
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Capitolo 17 • Le leggi dell’induzione
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ricordando che l’energia totale è eguale e opposta a quella che abbiamo chiamato «energia meccanica», Umec . Possiamo perciò scrivere per la forza F x = Umec =
(17.39)
U
La forza fra le bobine è allora data da F x = I1 I2 M L’equazione (17.38) per l’energia di un sistema di due bobine può essere usata per far vedere che esiste un’interessante disuguaglianza fra l’induttanza mutua M e le autoinduttanze L1 e L2 delle due bobine. È chiaro che l’energia delle due bobine deve essere positiva. Se si parte da correnti nulle nelle due bobine e si fanno crescere queste correnti fino a raggiungere certi valori, ciò richiede di aver comunicato energia al sistema. Se no, le correnti aumenterebbero spontaneamente, cedendo energia al resto dell’universo: una cosa che non è probabile che accada! Ora, l’equazione (17.38) per l’energia si può scrivere altrettanto bene nella forma seguente: U=
1 M L1 I1 + I2 2 L1
!2
+
1* L2 2,
M2 + 2 I2 L1 -
(17.40)
Non si tratta che di una trasformazione algebrica. Questa grandezza deve essere sempre positiva per qualunque valore di I1 e I2 . In particolare dovrebbe essere positiva se I2 avesse il valore speciale L1 I2 = I1 (17.41) M Ma con questo valore per I2 il primo termine dell’equazione (17.40) è nullo. Se l’energia ha da essere positiva, l’ultimo termine nella (17.40) deve essere maggiore di zero. Si ha perciò la condizione L 1 L 2 > M2 Abbiamo così dimostrato il risultato generale che il valore assoluto dell’induttanza mutua M di una qualunque coppia di bobine è necessariamente inferiore o uguale alla media geometrica delle due autoinduttanze. (M stesso può essere positivo o negativo a seconda delle convenzioni di segno adottate per le correnti I1 e I2 .) Si ha dunque p M < L1 L2 (17.42) La relazione fra M e le autoinduttanze si scrive di solito p M = k L1 L2
(17.43)
La costante k viene chiamata coefficiente di accoppiamento. Se la maggior parte del flusso di una bobina si concatena con la seconda bobina, il coefficiente di accoppiamento si avvicina a uno e si dice che le bobine sono «accoppiate strettamente». Se le bobine sono lontane l’una dall’altra, o altrimenti disposte in modo che ci sia molto poco concatenamento mutuo dei flussi, il coefficiente di accoppiamento si avvicina a zero e l’induttanza mutua è molto piccola. Per calcolare l’induttanza mutua di due bobine abbiamo dato nell’equazione (17.30) una formula che è un integrale doppio lungo i due circuiti. Si potrebbe pensare che la stessa formula potesse essere usata per ottenere l’autoinduttanza di una singola bobina eseguendo entrambi gli integrali di linea intorno alla stessa bobina. Questo però non riesce perché nell’integrale il denominatore r 12 dell’integrando va a zero quando i due elementi di linea capitano nello stesso punto. L’autoinduzione ottenuta da questa formula è infinita. La ragione è che la formula è valida soltanto quando le sezioni dei fili dei due circuiti sono piccole rispetto alla distanza fra un circuito e l’altro. È chiaro che questa approssimazione non vale per una bobina sola. Ed è vero infatti che l’induttanza di una bobina tende logaritmicamente all’infinito quando si fa diventare sempre più piccolo il diametro del filo.
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17.8 • Induttanza ed energia magnetica
Si deve dunque cercare un’altra strada per calcolare l’autoinduzione di una bobina. È necessario tenere conto della distribuzione delle correnti dentro ai fili perché la grossezza del filo diventa un parametro importante. Perciò non ci si deve chiedere qual è l’induttanza di un «circuito», ma qual è l’induttanza di una distribuzione di conduttori. Forse la via più facile per trovare questa induttanza è quella di fare uso dell’energia magnetica. Si è trovata in precedenza, nel paragrafo 15.3, un’espressione per l’energia magnetica di una distribuzione di correnti stazionarie e cioè ⌅ 1 U= j · A dV (17.44) 2 Se si conosce la distribuzione della densità di corrente j, si può calcolare il potenziale vettore A e poi valutare l’integrale dell’equazione (17.44) per ottenere l’energia. Questa energia è uguale all’energia magnetica (1/2) LI 2 dell’autoinduttanza. Uguagliando le due espressioni si ha la formula per l’induttanza ⌅ 1 L= 2 j · A dV (17.45) I Ci si aspetta naturalmente che l’induttanza sia un numero che dipende soltanto dalla geometria del circuito e non dalla corrente in esso. La formula (17.45) dà infatti questo risultato perché l’integrale che vi appare è proporzionale al quadrato della corrente: questa compare una volta attraverso il fattore j e poi nuovamente attraverso il potenziale vettore A. L’integrale diviso per I 2 dipenderà perciò soltanto dalla geometria del circuito ma non dalla corrente I. L’equazione (17.44) per l’energia di una distribuzione di correnti può esser messa in una forma affatto diversa che qualche volta è più comoda per il calcolo. Inoltre, come vedremo più avanti, si tratta di una forma importante perché è valida più in generale. Nell’equazione (17.44) per l’energia, tanto A quanto j si possono mettere in rapporto con B, perciò si può sperare di esprimere l’energia per mezzo del campo magnetico, proprio come ci è riuscito di esprimere l’energia elettrostatica per mezzo del campo elettrico. Cominciamo col sostituire j con ✏ 0 c2 r ⇥ B. Non si può sostituire A così facilmente, perché l’equazione B = r⇥ A non si può invertire per dare A in funzione di B. Comunque si può scrivere ⌅ ✏ 0 c2 U= (r ⇥ B) · A dV (17.46) 2 La cosa interessante è che – con qualche restrizione – questo integrale può essere scritto come ⌅ ✏ 0 c2 U= B · (r ⇥ A) dV (17.47) 2 Per vedere questo, esplicitiamo in dettaglio un termine tipico. Prendiamo per esempio il termine (r ⇥ B)z Az , che si presenta nell’integrale dell’equazione (17.46). Esplicitando le componenti si ottiene ! ⌅ @ By @ Bx Az dx dy dz @x @y (Ci sono naturalmente altri due integrali dello stesso tipo.) Integriamo ora il primo termine rispetto a x, per parti. Ciò vuol dire ⌅ ⌅ @ By @ Az Az dx = By Az By dx @x @x Supponiamo ora che il nostro sistema – sorgenti e campi – sia finito, così che quando si va a distanze grandi tutti i campi vadano a zero. Allora, estendendo gli integrali a tutto lo spazio, la valutazione del termine By Az ai limiti darà zero. Ci resta soltanto il termine contenente By (@ Az /@ x), che fa evidentemente parte di By (r ⇥ A)y e quindi di B · (r ⇥ A). Elaborando gli altri cinque termini si può vedere che l’equazione (17.47) è realmente equivalente all’equazione (17.46). Ora però possiamo sostituire r ⇥ A con B e otterremo ⌅ ✏ 0 c2 U= B · B dV (17.48) 2
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Capitolo 17 • Le leggi dell’induzione
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Abbiamo così espresso l’energia di una situazione magnetostatica per mezzo del solo campo magnetico. L’espressione ottenuta corrisponde strettamente alla formula che è stata trovata per l’energia elettrostatica: ⌅ ✏0 U= E · E dV (17.49) 2 Una ragione per mettere in risalto queste due formule è che esse sono talvolta più comode da usare. Più importante ancora, risulta che per campi dinamici (cioè quando E e B variano nel tempo) le due espressioni (17.48) e (17.49) restano vere, mentre le altre formule che abbiamo dato per le energie elettriche o magnetiche non sono più corrette; esse valgono soltanto per campi statici. Se conosciamo il campo magnetico B di una bobina isolata, possiamo trovare l’autoinduttanza uguagliando a (1/2) LI 2 l’espressione (17.48) per l’energia. S’è visto in precedenza che il campo magnetico all’interno di un solenoide è uniforme, mentre è nullo all’esterno. Il modulo del campo interno è nI B= ✏ 0 c2 dove n è il numero di giri dell’avvolgimento per unità di lunghezza e I è la corrente. Se il raggio dell’avvolgimento è r e la sua lunghezza è L (supporremo che L sia molto grande, cioè L r, così che si possano trascurare gli effetti agli estremi), il volume interno sarà ⇡r 2 L. L’energia magnetica è perciò ✏ 0 c2 2 n2 I 2 U= B · (volume) = ⇡r 2 L 2 2✏ 0 c2 e deve essere eguale a (1/2) LI 2 . Si ricava perciò L=
⇡r 2 n2 L ✏ 0 c2
(17.50)
18
Le equazioni di Maxwell
18.1
Equazioni di Maxwell
In questo capitolo ritorniamo al sistema completo delle quattro equazioni di Maxwell prese come punto di partenza nel capitolo 1. Finora abbiamo continuato a studiare queste equazioni frammentariamente e a pezzi; è ora di aggiungere il pezzo finale e di metterli tutti insieme. Avremo allora la descrizione completa e corretta dei campi elettromagnetici che possono variare col tempo in modo qualsiasi. Qualunque cosa diremo in questo capitolo che contraddica qualcosa detto in precedenza è vera, ed è quello che si era detto prima a essere falso, perché quello che si era detto prima si applicava a situazioni particolari, come per esempio i casi di correnti costanti o cariche fisse. Benché si sia stati molto attenti ogni volta che si scriveva un’equazione a metterne in rilievo le restrizioni, è facile dimenticare tutte le riserve e imparare troppo bene delle equazioni sbagliate. Ora siamo pronti per affrontare l’intera verità, senza riserve (o quasi). Le equazioni di Maxwell complete sono riportate nella TABELLA 18.1, tanto a parole quanto in simboli matematici. Il fatto che le parole siano equivalenti alle equazioni dovrebbe esservi ormai familiare; dovreste esser capaci di tradurre una forma nell’altra, nei due sensi. La prima equazione – che esprime l’uguaglianza fra la divergenza di E e la densità di carica divisa per ✏ 0 – è vera in generale. Nei campi dinamici come in quelli statici la legge di Gauss è sempre valida: il flusso di E attraverso qualsiasi superficie chiusa è proporzionale alla carica interna. La terza equazione è la corrispondente legge generale per i campi magnetici. Siccome non ci sono cariche magnetiche, il flusso di B attraverso qualsiasi superficie chiusa è sempre zero. La seconda equazione, che afferma che il rotore di E è uguale a @B/@t, è la legge di Faraday ed è stata discussa nei precedenti due capitoli. Anche questa è vera in generale. L’ultima equazione mostra qualcosa di nuovo. Prima ne abbiamo visto solo quella parte che vale per correnti costanti. In quel caso è detto che il rotore di B è uguale a j/(✏ 0 c2 ), ma l’equazione generale corretta contiene una parte nuova che fu scoperta da Maxwell. Fino all’opera di Maxwell, le leggi note dell’elettricità e del magnetismo erano quelle che abbiamo studiato dal capitolo 3 al capitolo 17 compreso. In particolare l’equazione per il campo magnetico delle correnti costanti era nota nella forma r⇥B =
j ✏ 0 c2
(18.1)
Maxwell cominciò col considerare queste leggi conosciute e a esprimerle come equazioni differenziali, come abbiamo fatto qui. (Benché la notazione per mezzo di r non fosse ancora stata inventata, si deve principalmente a Maxwell il primo riconoscimento dell’importanza di quelle combinazioni di derivate che oggi si chiamano rotore e divergenza.) Poi notò che c’era qualche cosa di strano nell’equazione (18.1). Se si prende la divergenza di questa equazione, il primo membro sarà nullo perché la divergenza di un rotore è sempre nulla. Perciò questa equazione esige che anche la divergenza di j sia nulla. Ma se la divergenza di j è nulla allora il flusso totale della corrente uscente da qualsiasi superficie chiusa è anch’esso nullo. Il flusso della corrente uscente da una superficie chiusa è la diminuzione della carica che si trova dentro la superficie. Questa certamente non può in generale essere nulla perché sappiamo
224 TABELLA
Capitolo 18 • Le equazioni di Maxwell
18.1
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Fisica classica.
Equazioni di Maxwell (I)
r·E =
(II)
r⇥E =
⇢ ✏0
flusso di E attraverso una superficie chiusa =
@B @t
r·B=0
(IV)
c2 r ⇥ B =
✏0
integrale di linea di E lungo un cammino chiuso =
d (flusso di B attraverso il cammino chiuso) dt
= (III)
carica interna
flusso di B attraverso una superficie chiusa = 0
j @E + ✏0 @t
c2 · (integrale di linea di B lungo un cammino chiuso) = =
corrente attraverso il cammino chiuso
✏0
+ 26Conservazione della carica 66 66 @⇢ 66 r· j = 64 @t
+
d (flusso di E attraverso il cammino chiuso) dt
flusso di corrente attraverso una superficie chiusa =
Legge della forza
37 77 77 d (carica interna) 77 75 dt
F = q (E + v ⇥ B) Legge del moto
d p=F dt
dove
Gravitazione
F= G
p=p
mv 1
v 2 /c2
(Legge di Newton con la modifica di Einstein)
m1 m2 er r2
che delle cariche possono essere spostate da un posto a un altro. L’equazione r· j =
@⇢ @t
(18.2)
infatti, è stata quasi la nostra definizione di j. Questa equazione esprime la fondamentalissima legge che la carica elettrica si conserva: qualsiasi flusso di carica deve provenire da qualche scorta di cariche. Maxwell si rese conto di questa difficoltà e avanzò l’idea che la si potesse evitare aggiungendo il termine @E/@t al secondo membro dell’equazione (18.1); ottenne così la quarta equazione della TABELLA 18.1: c2 r ⇥ B =
j @E + ✏0 @t
Ai tempi di Maxwell non c’era ancora l’abitudine di pensare in termini di campi astratti. Maxwell discusse le sue idee in base a un modello in cui il vuoto veniva assimilato a un solido elastico, e
18.2 • Come funziona il nuovo termine
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tentò anche di spiegare il significato della sua nuova equazione in base a un modello meccanico. Ci fu molta riluttanza ad accettare la sua teoria, in primo luogo a causa del modello e in secondo luogo perché da principio non c’era una giustificazione sperimentale. Oggi si capisce meglio che ciò che conta sono le equazioni stesse e non il modello adoperato per ottenerle. Possiamo soltanto discutere se le equazioni sono vere o false. A questo si risponde facendo esperimenti, e un numero incalcolabile di esperimenti ha confermato le equazioni di Maxwell. Se leviamo di mezzo le impalcature che l’autore adoperò per costruirlo, troviamo che lo stupendo edificio di Maxwell sta in piedi da sé. Egli riunì tutte le leggi dell’elettricità e del magnetismo e ne fece una completa, magnifica teoria. Mostriamo che il termine supplementare è proprio quello che ci vuole per spianare la difficoltà che Maxwell aveva scoperto. Prendendo la divergenza della sua equazione (la quarta nella TABELLA 18.1), si deve trovare che la divergenza del secondo membro è nulla, cioè si deve avere r·
j @E +r· =0 ✏0 @t
(18.3)
Nel secondo termine l’ordine delle derivate rispetto alle coordinate e al tempo si può invertire, quindi l’equazione può essere scritta nella forma r · j + ✏0
@ r·E =0 @t
(18.4)
Ma la prima delle equazioni di Maxwell ci dice che la divergenza di E è ⇢/✏ 0 . Portando questa espressione nell’equazione (18.4) si ritrova l’equazione (18.2) che sappiamo vera. Viceversa, se accettiamo le equazioni di Maxwell – e lo facciamo, perché nessuno ha mai trovato un’esperienza che sia in disaccordo con esse – dobbiamo concludere che la carica si conserva sempre. Le leggi della fisica non danno nessuna risposta alla domanda: «Cosa succede se una carica è improvvisamente creata in questo punto? Quali effetti elettromagnetici ne derivano?». Non si può dare alcuna risposta perché le equazioni dicono che ciò non succede. Se succedesse, ci vorrebbero nuove leggi, ma non si può dire quali potrebbero essere. Non abbiamo avuto occasione di osservare come si comporti un universo senza conservazione della carica. Secondo le nostre equazioni, se si mette improvvisamente una carica in un punto, bisogna avercela portata da qualche altro posto. In questo caso possiamo dire quello che accadrebbe. Quando si aggiunse un nuovo termine all’equazione per il rotore di E, si trovò che si veniva a descrivere un’intera nuova classe di fenomeni. Vedremo che anche la piccola aggiunta fatta da Maxwell all’equazione per r ⇥ B ha conseguenze di grande portata. In questo capitolo potremo accennare solo ad alcune di esse.
18.2
Come funziona il nuovo termine
Come primo esempio consideriamo cosa accade quando si ha una distribuzione radiale a simmetria sferica di corrente: pensiamo ad esempio a una piccola sfera con del materiale radioattivo. Questo materiale radioattivo emette delle particelle cariche. (Oppure si potrebbe immaginare un gran blocco di gelatina con un buchetto nel centro, nel quale con un ago ipodermico si è iniettata una certa carica e dal quale questa carica sta lentamente trapelando.) Nell’uno e nell’altro caso si avrebbe una corrente che è diretta dappertutto radialmente all’infuori. Supporremo che abbia la stessa intensità in tutte le direzioni. Sia Q(r) la carica interna a un raggio r qualsiasi. Se la densità di corrente radiale alla distanza r dal centro è j(r), l’equazione (18.2) richiede che la diminuzione di Q nell’unità di tempo sia data da @Q(r) = 4⇡r 2 j(r) (18.5) @t Domandiamoci ora quale sia il campo magnetico prodotto dalle correnti in questa situazione. Supponiamo di tracciare sulla sfera di raggio r una curva chiusa , come mostra la FIGURA 18.1.
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Capitolo 18 • Le equazioni di Maxwell
E
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C’è una certa corrente attraverso e perciò ci si potrebbe aspettare di trovare un campo magnetico che circoli nella direzione indicata. Però siamo già in difficoltà. Come può B avere una direzione particolare sulla sfera? Una scelta diversa della curva ci permetterebbe di concludere che la direzione di B è esattamente opposta a quella indicata. E allora come ci può essere una circuitazione di B intorno alle correnti? L’equazione di Maxwell ci salva. La circuitazione di B non dipende soltanto dalla corrente totale attraverso , ma anche dalla variazione per unità di tempo del flusso elettrico attraverso questa curva. Deve succedere che queste due parti per l’appunto si compensino. Vediamo se l’idea è giusta. Il campo elettrico alla distanza r dal centro deve essere
j
B? Q
E
Q(r) 4⇡✏ 0 r 2
j
finché la carica è distribuita simmetricamente, come si suppone. Esso è radiale e la sua derivata rispetto al tempo è dunque
18.1
Qual è il campo magnetico di una corrente a simmetria sferica? FIGURA
@E 1 @Q = 2 @t 4⇡✏ 0 r @t
(18.6)
Confrontando questo risultato con l’equazione (18.5) si vede che a qualunque distanza si ha @E = @t
j ✏0
(18.7)
Nell’equazione IV della TABELLA 18.1 i due termini che rappresentano le sorgenti del campo magnetico si compensano e il rotore di B è sempre nullo. Nel nostro esempio non si ha campo magnetico. Come secondo esempio, consideriamo il campo magnetico di un filo che va a caricare un condensatore a lastre parallele (FIGURA 18.2). Se la carica Q sulle lastre varia col tempo (ma non troppo rapidamente), la corrente nei fili è uguale a dQ/dt. Ci si aspetta che questa corrente produca un campo magnetico che circonda il filo. Certamente la corrente anche in vicinanza alle lastre deve produrre il suo normale campo magnetico: questo non può dipendere da dove la corrente sta per andare. Supponiamo di prendere un percorso chiuso 1 che sia una circonferenza di raggio r, come mostra la FIGURA 18.2a. L’integrale di linea del campo magnetico dovrebbe essere uguale alla corrente divisa per ✏ 0 c2 . Si ha I 2⇡r B = (18.8) ✏ 0 c2 Curva chiusa
1
Curva chiusa
S1
1
r I
I
S'1
B Curva chiusa
S2
2
! B
18.2 Il campo magnetico vicino a un condensatore che si sta caricando.
FIGURA
E
I
I (a)
(b)
B
18.3 • Tutto sulla fisica classica
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Questo è ciò che si otterrebbe per una corrente costante, ma il risultato è corretto anche col termine aggiuntivo di Maxwell, perché se si considera la superficie piana S interna al cerchio, non ci sono su di essa campi elettrici (supponendo che il filo sia un conduttore molto buono). L’integrale di superficie di @E/@t è nullo. Supponiamo però di spostare lentamente la curva in giù. Otteniamo sempre lo stesso risultato fino a quando ci si viene a trovare nel piano delle lastre del condensatore. Allora la corrente I va a zero. E il campo magnetico scompare forse? Questo sarebbe molto strano. Andiamo a vedere cosa dice l’equazione di Maxwell per la curva 2 che è una circonferenza di raggio r il cui piano passa fra le lastre del condensatore (FIGURA 18.2b). L’integrale di linea di B intorno a 2 è 2⇡r B e deve uguagliare la derivata temporale del flusso di E attraverso la superficie circolare piana S2 . Questo flusso di E, lo sappiamo dalla legge di Gauss, deve essere uguale a 1/✏ 0 volte la carica Q su una delle lastre del condensatore. Avremo perciò ! d Q 2 c 2⇡r B = (18.9) dt ✏ 0 Questo ci va molto bene: è lo stesso risultato trovato prima con l’equazione (18.2). L’integrazione sul campo elettrico variabile dà lo stesso campo magnetico che si trova integrando sulla corrente nel filo. Naturalmente, questo è proprio ciò che l’equazione di Maxwell afferma. È facile vedere che deve essere sempre così applicando il medesimo ragionamento alle due superfici S1 e S10 che hanno come contorno la stessa circonferenza 1 in FIGURA 18.2b. Attraverso S1 c’è la corrente I, ma non c’è flusso elettrico. Attraverso S10 non c’è corrente ma c’è un flusso elettrico, di cui I/✏ 0 è la variazione nell’unità di tempo. Si ottiene lo stesso B applicando l’equazione IV all’una o all’altra superficie. Dalla discussione del nuovo termine di Maxwell come l’abbiamo condotta fin qui, potete aver ricavato l’impressione che questo non aggiunga molto, che serva semplicemente ad aggiustare le equazioni in modo che vadano d’accordo con quello che già ci si aspetta. Ed è vero che se si considera l’equazione IV da sola, non ne vien fuori nulla di particolarmente nuovo. Le parole «da sola» hanno però un’importanza essenziale. Il piccolo cambiamento introdotto da Maxwell con l’equazione IV, quando lo si combini con le altre equazioni, produce infatti molte cose nuove e importanti. Prima di affrontare questi argomenti vogliamo però dire qualcosa di più a proposito della TABELLA 18.1.
18.3
Tutto sulla fisica classica
Nella TABELLA 18.1 c’è tutto quello che si conosceva in fatto di fisica fondamentale classica, cioè la fisica prima del 1905. È tutto qui, in una sola tabella. Con queste equazioni si può capire l’intero regno della fisica classica. Si hanno dapprima le equazioni di Maxwell, scritte tanto in forma estesa quanto in forma concisa, cioè matematica. Poi c’è la legge di conservazione della carica, che peraltro è scritta fra parentesi, perché quando si hanno le equazioni di Maxwell complete da queste si può dedurre la conservazione della carica; così la tabella è perfino un po’ ridondante. Poi c’è la legge della forza, perché il fatto di conoscere tutto sui campi elettrici e magnetici non ci dice nulla finché non sappiamo come essi agiscono sulle cariche; così, invece, conoscendo E e B possiamo trovare la forza che agisce su un oggetto che ha carica q e si muove con velocità v. Infine, conoscere la forza non dice nulla finché non si sa cosa succede quando la forza agisce su qualcosa: ci occorre la legge del moto, cioè che la forza è uguale alla derivata temporale dell’impulso. (Ricordate? Lo abbiamo stabilito nel vol. 1.) Gli effetti relativistici stessi vengono inclusi scrivendo che l’impulso è dato da m0 v p=p 1 v 2 /c2 Se si vuole essere proprio completi, si deve aggiungere ancora una legge, cioè la legge di gravitazione di Newton; perciò l’abbiamo messa in fondo.
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Capitolo 18 • Le equazioni di Maxwell
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Dunque in una sola piccola tabella abbiamo tutte le leggi fondamentali della fisica classica, con anche lo spazio per scriverle in parole e con qualche ridondanza. Questo è un gran momento. Abbiamo scalato una gran vetta. Siamo in cima al K2, siamo quasi pronti per il Monte Everest, che è la meccanica quantistica. Abbiamo raggiunto la sommità di un «Grande Spartiacque», e ora possiamo scendere dall’altra parte. Si è cercato principalmente di imparare a capire le equazioni. Ora che abbiamo riunito tutto il materiale, ci metteremo a studiare quello che le equazioni significano, quali cose nuove che non abbiamo ancora visto esse ci dicono. Abbiamo lavorato duramente per arrivare a questo punto; è stato un grande sforzo, ma ora ci aspetta una piacevole discesa in folle mentre andiamo a esaminare tutte le conseguenze della nostra conquista.
18.4
Un campo che si propaga
Vediamo ora queste nuove conseguenze. Esse vengono fuori quando si mettono insieme tutte le equazioni Limite mobile dei campi di Maxwell. Vediamo dapprima cosa succederebbe in una situazione che scegliamo in modo che sia particoCarica laminare larmente semplice. Facendo l’ipotesi che tutte le granS dezze varino soltanto secondo una coordinata, avremo un problema unidimensionale: la situazione è indicata nella FIGURA 18.3. Si ha una carica laminare posta B B nel piano yz. Questa lamina è inizialmente in quiete; B poi le viene data istantaneamente la velocità u nella B x E E E E direzione y, dopo di che continua a muoversi con quev j sta velocità. Una tale accelerazione «infinita» potrà z non piacervi ma in realtà la cosa non ha importanNiente za; immaginate semplicemente che la velocità venga campi portata al valore u molto rapidamente. Abbiamo dunE=B=0 vt x=0 x = x0 que improvvisamente una corrente superficiale J (J è la corrente per unità di estensione nella direzione z). Perché il problema resti semplice, supporremo che ci FIGURA 18.3 Una lamina infinita di carica è improvvisamente posta in moto, sia una carica laminare stazionaria, di segno opposto, parallelamente a sé stessa. Ci sono dei campi magnetici ed elettrici che si propagano allontanandosi dalla lamina a velocità costante. sovrapposta all’altra sul piano yz, così che non ci sono effetti elettrostatici. Inoltre, benché in figura si indichi soltanto ciò che accade in una regione finita, si deve immaginare che la lamina si estenda all’infinito nelle direzioni ±y e ±z. In altre parole, si ha una situazione in cui non c’è corrente e poi improvvisamente c’è una corrente laminare. Cosa succederà? Ebbene, quando si ha una corrente laminare nella direzione +y, si genera, come sappiamo, un campo magnetico che sarà nella direzione z per x > 0 e nella direzione opposta per x < 0. Il modulo di B si potrebbe trovare adoperando il fatto che l’integrale di linea del campo magnetico è uguale alla corrente divisa per ✏ 0 c2 . Si otterrebbe y
B=
J 2✏ 0 c2
(giacché la corrente I in una striscia di larghezza w è Jw e l’integrale di linea di B è 2Bw). Questo ci dà il campo vicino alla corrente laminare – cioè per piccoli valori di x – ma siccome ci s’immagina che la lamina sia infinita, ci aspettiamo che lo stesso ragionamento dia il campo magnetico anche più lontano, cioè per valori più grandi di x. Però questo vorrebbe dire che al momento in cui facciamo partire la corrente il campo magnetico cambia improvvisamente da zero a un valore finito dappertutto. Ma, un momento! Se il campo magnetico cambia improvvisamente, si produrranno effetti elettrici formidabili. (Si hanno effetti elettrici se cambia in qualunque modo.) Dunque avendo messo in moto la carica laminare, abbiamo prodotto un campo magnetico
18.4 • Un campo che si propaga
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variabile e perciò devono essersi generati dei campi elettrici. Se dei campi elettrici vengono generati, questi devono partire da zero e prendere un valore (a) BoE diverso: ci sarà una certa @E/@t che contribuirà insieme alla corrente J alla produzione del campo magnetico. Perciò attraverso le diverse equazioni si v ha una forte interdipendenza dei campi e le soluzioni per questi vanno cercate tutte in una volta. x Col solo esaminare le equazioni di Maxwell non è facile vedere diretvt tamente come ottenere la soluzione. Perciò mostreremo dapprima quale sia questa soluzione e poi verificheremo che soddisfa effettivamente alle equazioni. La soluzione è la seguente. Il campo B che abbiamo calcolato è effettivamente quello che si genera vicino alla corrente laminare (cioè (b) BoE per piccoli x). Deve essere così, perché se prendiamo una minuscola curva chiusa intorno al piano della corrente, non c’è spazio per farci passare un v (t – T ) apprezzabile flusso elettrico. Ma il campo B più in là – cioè per x più grandi – è dappertutto nullo. Rimane nullo per un po’ di tempo e poi imx v provvisamente appare. In breve: facciamo partire la corrente e il campo magnetico nell’immediata vicinanza raggiunge subito il valore costante B; poi l’apparire di B si diffonde fuori della regione iniziale. Dopo un certo tempo c’è un campo magnetico uniforme dappertutto fino a un certo valore (c) BoE di x e un campo nullo al di là. A causa della simmetria, il campo si diffonde nella direzione x come in quella x. v Il campo E fa la stessa cosa. Prima di t = 0 (istante in cui la corrente ha inizio) il campo è dappertutto nullo. Poi, al tempo t, tanto E quanto B x sono uniformi fino alla distanza x = vt e nulli al di là. I campi avanzano vT come un’onda di marea, con un fronte che si muove a velocità uniforme che risulta essere c, ma che per il momento chiameremo v. Un grafico del modulo di E o di B in funzione di x al tempo t è indicato in FIGURA 18.4a. FIGURA 18.4 (a) Il modulo di B (oppure di E) come di x al tempo t dopo che la carica laminare è Tornando alla FIGURA 18.3, si può dire che al tempo t la regione fra x = ±vt funzione stata messa in moto. (b) I campi per una carica è «riempita» dai campi, ma questi non sono arrivati più in là. Facciamo laminare messa in moto nel senso delle y negative al notare di nuovo che si ammette che la corrente laminare, e quindi i campi E tempo t = T. (c) Somma di (a) e (b). e B, si estendano all’infinito tanto nella direzione y quanto nella direzione z. (Non potendo disegnare una lamina infinita abbiamo indicato soltanto quello che succede in un’area finita.) Vogliamo ora analizzare quantitativamente ciò che accade. Per far questo considereremo due sezioni prese una guardando lungo l’asse y dall’alto (FIGURA 18.5) e l’altra presa lateralmente, guardando nella direzione dell’asse z negativo (FIGURA 18.6). Cominciamo da quest’ultima. Vediamo la carica laminare muoversi all’insù; il campo magnetico entra nella pagina dove x è positivo ed esce dalla pagina dove x è negativo; e il campo elettrico è rivolto in giù dappertutto, fino alle ascisse x = ±vt. Vediamo se questi campi sono compatibili con le equazioni di Maxwell. Cominciamo col tracciare uno di quei percorsi chiusi che adoperiamo per calcolare gli integrali di linea, e sia il rettangolo 2 indicato in FIGURA 18.6. Noterete che un lato del rettangolo si trova nella regione dove sono i campi, ma un lato sta nella regione che i campi non hanno ancora raggiunto. C’è un certo flusso magnetico attraverso questo rettangolo; se cambia, ci dovrebbe essere una fem lungo il perimetro. Se il fronte d’onda si sposta, avremo un flusso magnetico variabile perché l’area in cui B esiste cresce progressivamente con la velocità v. Il flusso attraverso 2 è il prodotto di B e di quella parte dell’area interna a 2 dove c’è un campo magnetico. La derivata temporale del flusso, dato che il modulo di B è costante, è il prodotto di questo modulo per la derivata temporale dell’area. Questa si ottiene facilmente: se L è la lunghezza del rettangolo 2 , l’area in cui B esiste varia di Lv t nel tempo t (FIGURA 18.6). La derivata temporale del flusso è dunque BLv. Secondo la legge di Faraday questa grandezza dovrebbe uguagliare l’integrale di linea di E intorno a 2 che è semplicemente EL. Abbiamo l’equazione E = vB
(18.10)
Perciò, se E/B = v, i campi che abbiamo ipotizzato soddisferanno l’equazione di Faraday.
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Capitolo 18 • Le equazioni di Maxwell
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Ma questa non è l’unica equazione; abbiamo un’altra equazione che mette in relazione E e B, cioè j @E c2 r ⇥ B = + (18.11) ✏0 @t Per applicare questa equazione osserviamo la vista dall’alto di FIGURA 18.5. Si è trovato che l’equazione in questione ci dà il valore di B vicino alla corrente laminare. Inoltre, per qualsiasi percorso chiuso tracciato fuori dalla lamina ma internamente al fronte d’onda, non si ha rotore di B, né j, né E che varia, perciò l’equazione è corretta in questa zona. Andiamo ora a vedere cosa succede per la curva 1 che interseca il fronte d’onda, come indica la FIGURA 18.5. Qui non ci sono correnti, sicché l’equazione (18.11) può essere scritta – in forma integrale – nel modo seguente: ⇥ ⌅ d 2 c B · ds = E · n da (18.12) dt 1 dentro
1
L’integrale di linea di B è proprio BL. La derivata temporale del flusso di E è dovuta soltanto al fronte d’onda che avanza. L’area interna a 1 , in cui E non è nullo, cresce di vL per unità di tempo. Ne segue che il secondo membro dell’equazione (18.12) è vLE. Tale equazione diventa perciò c2 B = Ev (18.13) Abbiamo dunque una soluzione in cui si ha un B costante e un E costante dietro il fronte d’onda, entrambi perpendicolari alla direzione di avanzamento del fronte e ad angolo retto fra loro. Le equazioni di Maxwell specificano il rapporto E/B. Dalle equazioni (18.10) e (18.13), si ha E = vB
e
E=
c2 B v
Un momento, però! Abbiamo trovato due diverse condizioni per il rapporto E/B. Può davvero esistere un campo come quello che stiamo descrivendo? C’è naturalmente una sola velocità v per la quale entrambe queste equazioni sono valide, e cioè v = c. Il fronte d’onda deve avanzare con la velocità c. Abbiamo un esempio in cui l’influenza elettrica di una corrente si propaga con una certa velocità finita c. Domandiamoci ora cosa succede se si arresta improvvisamente il moto della carica laminare dopo che è andato avanti per un breve tempo T. Si può vedere quello che accadrà ricorrendo al principio di sovrapposizione. Si aveva una corrente che era nulla e poi veniva improvvisamente fatta partire: conosciamo la soluzione in questo caso. Vogliamo ora aggiungere un altro sistema di campi. Prendiamo un’altra carica laminare e mettiamola improvvisamente in moto nella direzione opposta, con la stessa velocità, ma soltanto al tempo T dopo che abbiamo messo in moto l’altra. La corrente totale, somma delle due, è dapprima nulla, poi esiste per un tempo T e poi di nuovo sparisce, perché le due correnti si cancellano. Si ha un «impulso» quadrato di corrente. Vista laterale
Vista dall’alto y
1
j (su)
E
E=0 B=0
E=0 B=0
L
x=0 z
v∆t
v∆t
vt
x = x0
Vista dall’alto della FIGURA 18.3.
L x
Corrente laminare
B vt
18.5
2
x
Corrente laminare
FIGURA
E
B
j
0
FIGURA
18.6
Vista laterale della FIGURA 18.3.
x0
18.5 • La velocità della luce
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La nuova corrente negativa produce gli stessi campi di quella positiva; soltanto, con segni opposti e naturalmente spostata di un intervallo T nel tempo. Un fronte d’onda, di nuovo, si allontana con la velocità c. Al tempo t esso ha raggiunto la distanza x = ±c(t T), come mostra la FIGURA 18.4b. Perciò abbiamo due «blocchi» di campo che si diffondono alla velocità c, come indicato nelle FIGURE 18.4a e 18.4b. I campi risultanti sono del tipo indicato nella FIGURA 18.4c. Essi sono nulli per x > ct, sono costanti (coi valori trovati sopra) fra x = c(t T) e x = ct, e tornano a essere nulli per x < c(t T). In poche parole, abbiamo un pezzettino di campo – uno straterello di spessore cT – che ha abbandonato la lamina di corrente e sta muovendosi per conto suo attraverso lo spazio. I campi si sono «staccati» e stanno propagandosi liberamente nello spazio, non più collegati in alcun modo con la sorgente: il bruco si è mutato in farfalla! Come può mantenersi un simile fascetto di campi elettrici e magnetici? La risposta è: per mezzo degli effetti combinati della legge di Faraday @B @t
r⇥E = e del nuovo termine di Maxwell
@E @t I campi non possono fare a meno di perpetuare se stessi. Supponiamo che dovesse sparire il campo magnetico: ci sarebbe un campo magnetico variabile che produrrebbe un campo elettrico. Se questo campo elettrico cercasse di svanire, tale campo elettrico variabile ricreerebbe da capo un campo magnetico. Così, per mezzo di un perpetuo influsso reciproco – guizzando dall’uno all’altro e viceversa – essi devono continuare per sempre: per loro sparire è impossibile(1) . Essi si perpetuano attraverso una sorta di danza, l’uno producendo l’altro, il secondo producendo il primo, mentre si propagano avanti attraverso lo spazio. c2 r ⇥ B =
18.5
La velocità della luce
Abbiamo un’onda che abbandona la sua sorgente materiale e se ne va con la velocità c, che è la velocità della luce. Ma torniamo indietro un momento. Dal punto di vista storico, non si sapeva che il coefficiente c nelle equazioni di Maxwell era anche la velocità di propagazione della luce. C’era una costante nelle equazioni e l’abbiamo chiamata c fin da principio, sapendo cosa sarebbe risultata essere. Non ci è parso sensato farvi imparare le formule con una costante diversa per poi tornare indietro e sostituire c dappertutto dove doveva andare. Dal punto di vista dell’elettromagnetismo, d’altra parte, si comincia con due costanti, ✏ 0 e c2 , che appaiono nelle equazioni dell’elettrostatica e della magnetostatica r·E = e r⇥B =
⇢ ✏0 j ✏ 0 c2
(18.14) (18.15)
Se adottiamo una qualunque definizione arbitraria per l’unità di carica, possiamo determinare sperimentalmente la costante ✏ 0 richiesta nell’equazione (18.14), per esempio misurando la forza fra due unità di carica in quiete e usando la legge di Coulomb. Dobbiamo anche determinare sperimentalmente la costante ✏ 0 c2 che appare nell’equazione (18.15), ciò che possiamo fare, per esempio, misurando la forza fra due correnti unitarie. (Una corrente unitaria vuol dire un’unità di (1)
Ossia, non del tutto. Essi possono essere «assorbiti» se capitano in una regione dove ci sono delle cariche. Con questo si vuol dire che possono prodursi in qualche parte degli altri campi che, sovrapponendosi ai primi, li «sopprimono» per interferenza distruttiva (cap. 31 del vol. 1).
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Capitolo 18 • Le equazioni di Maxwell
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carica per secondo.) Il rapporto di queste due costanti sperimentali è c2 , che è un’altra «costante elettromagnetica». Ora si noti che questa costante c2 è la stessa qualunque sia la nostra scelta dell’unità di carica. Se mettiamo il doppio di «carica» nella nostra unità, diciamo due volte tante cariche protoniche, ✏ 0 scende a un quarto del suo valore. Quando facciamo passare due di queste «unità» di corrente in due fili, in ogni filo ci sarà il doppio di carica per secondo, perciò la forza fra i fili sarà quattro volte più grande: la costante ✏ 0 c2 deve essere ridotta a un quarto. Ma il rapporto ✏ 0 c2 /✏ 0 rimane immutato. Dunque con puri esperimenti su cariche e correnti si trova un numero c2 che risulta essere il quadrato della velocità di propagazione degli effetti elettromagnetici. Da misure statiche – cioè misurando le forze fra due unità di carica e fra due unità di corrente – si trova che è c = 3,00 · 108 m/s. Quando Maxwell fece per la prima volta questo calcolo partendo dalle sue equazioni, disse che fasci di campi elettrici e magnetici si dovevano propagare con questa velocità. Si espresse inoltre sulla misteriosa coincidenza che questa velocità era uguale a quella della luce. Disse Maxwell: «Sarebbe difficile evitare la conclusione che la luce consiste di oscillazioni trasversali del medesimo mezzo che è la causa dei fenomeni elettrici e magnetici». Maxwell aveva compiuto una delle grandi unificazioni della fisica. Prima del suo tempo c’era la luce e c’erano l’elettricità e il magnetismo. Questi ultimi due campi erano stati unificati dal lavoro sperimentale di Faraday, Oersted e Ampère. Ed ecco che tutt’a un tratto la luce non era più «qualcos’altro» ma era soltanto elettricità e magnetismo in questa nuova forma: pezzettini di campi elettrici e magnetici che si propagano nello spazio per proprio conto. Abbiamo richiamato la vostra attenzione su alcune caratteristiche della nostra speciale soluzione che però risultano vere per qualunque onda elettromagnetica: che il campo magnetico è perpendicolare alla direzione di moto del fronte d’onda; che il campo elettrico è analogamente perpendicolare alla direzione di moto del fronte d’onda; e che i due vettori E e B sono perpendicolari fra loro. Per di più il modulo del campo elettrico E è uguale a c volte il modulo del campo magnetico B. Questi tre fatti – che i due campi sono trasversali rispetto alla direzione di propagazione, che B è perpendicolare a E e che E = cB – sono veri in generale per ogni onda elettromagnetica. Il nostro caso speciale è perciò vantaggioso, in quanto mostra tutti i principali aspetti delle onde elettromagnetiche.
18.6
Risoluzione delle equazioni di Maxwell. I potenziali e l’equazione delle onde
Desideriamo ora fare un po’ di matematica: vogliamo scrivere le equazioni di Maxwell in una forma più semplice. Vi potrà sembrare dapprima che si vadano complicando, ma se avrete un po’ di pazienza, esse improvvisamente risulteranno più semplici. Benché a quest’ora siate completamente abituati alle equazioni di Maxwell prese isolatamente, ci sono ancora molti elementi che devono essere riuniti tutti insieme. Questo è ciò che vogliamo fare. Cominciamo con la più semplice delle equazioni, cioè r · B = 0. Sappiamo che essa implica che B è il rotore di qualcosa. Perciò se scriviamo B =r⇥ A
(18.16)
abbiamo già risolto una delle equazioni di Maxwell. (Incidentalmente, vi renderete conto come resti vero il fatto che un vettore A0 vada altrettanto bene del vettore A se si ha A0 = A + r , dove è un campo scalare, perché il rotore di r è nullo e B rimane ancora lo stesso. Abbiamo parlato di questo precedentemente.) Prendiamo poi la legge di Faraday r⇥E =
@B @t
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18.6 • Risoluzione delle equazioni di Maxwell. I potenziali e l’equazione delle onde
che non fa intervenire né correnti né cariche. Se scriviamo r ⇥ A al posto di B e deriviamo rispetto al tempo, possiamo mettere la legge di Faraday nella forma @ r⇥ A @t
r⇥E =
Siccome si può derivare prima rispetto al tempo oppure prima rispetto allo spazio, questa equazione si può anche scrivere ! @A r⇥ E+ =0 (18.17) @t
Si vede che E + @ A/@t è un vettore il cui rotore è nullo. Perciò questo vettore è il gradiente di qualcosa. Quando ci siamo occupati dell’elettrostatica, si aveva r ⇥ E = 0 e quindi se ne è concluso che E stesso era il gradiente di qualcosa. Lo abbiamo interpretato come il gradiente di (con segno meno per ragioni di comodità tecnica). Faremo la stessa cosa per E + @ A/@t e porremo @A E+ = r (18.18) @t Usiamo lo stesso simbolo così che nel caso elettrostatico, in cui nulla cambia col tempo e il termine @ A/@t sparisce, E tornerà a essere il r di prima. Perciò la soluzione dell’equazione di Faraday può essere messa nella forma @A @t
E= r
(18.19)
Abbiamo già risolto due delle equazioni di Maxwell e abbiamo trovato che per descrivere i campi elettromagnetici E e B abbiamo bisogno di quattro funzioni potenziali: un potenziale scalare e un potenziale vettore A che, naturalmente, vuol dire tre funzioni. Ora che A determina in parte E, oltre che B, cosa succederà quando si cambia A in A0 = = A + r ? In generale E cambierà, se non si prende qualche speciale precauzione. Si può tuttavia permettere che A cambi nel modo detto, senza influenzare i campi E e B – cioè senza cambiare la fisica – se si cambiano A e insieme, secondo le regole A0 = A + r
0
=
@ @t
(18.20)
Allora né B né E, come li si ottiene dall’equazione (18.19), risultano cambiati. In precedenza si scelse di porre r · A = 0, per rendere un po’ più semplici le equazioni della statica. Ora non faremo più così, faremo invece una scelta diversa; ma aspetteremo un po’ a dire qual è questa scelta perché più avanti sarà chiaro perché si fa tale scelta. Torniamo ora alle due residue equazioni di Maxwell che ci daranno le relazioni fra i potenziali e le sorgenti ⇢ e j. Una volta che si sappiano determinare A e dalle correnti e dalle cariche, si potranno sempre ottenere E e B dalle equazioni (18.16) e (18.19): avremo perciò un’altra forma delle equazioni di Maxwell. Cominciamo col sostituire l’espressione (18.19) nell’equazione r·E = Otterremo r·
r
che possiamo scrivere anche come r2 Questa è un’equazione che mette in rapporto
⇢ ✏0
! @A ⇢ = @t ✏0 @ ⇢ r· A= @t ✏0 e A con le sorgenti.
(18.21)
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Capitolo 18 • Le equazioni di Maxwell
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L’equazione finale è la più complicata. Cominciamo col riscrivere la quarta equazione di Maxwell nella forma @E j c2 r ⇥ B = @t ✏0 e poi sostituiamo B ed E con le loro espressioni in termini dei potenziali, usando le equazioni (18.16) e (18.19). Verrà ! @ @A j r = c2 r ⇥ (r ⇥ A) @t @t ✏0 Il primo termine si può trasformare usando l’identità algebrica r2 A
r ⇥ (r ⇥ A) = r(r · A) Si ottiene c2 r2 A + c2 r(r · A) +
@ @2 A j r + 2 = @t ✏0 @t
(18.22)
Non è molto semplice! Per fortuna possiamo fare uso della nostra libertà di scegliere arbitrariamente la divergenza di A. Quello che faremo è utilizzare la nostra facoltà di scelta per aggiustare le cose in modo che le equazioni per A e siano separate, ma abbiano la stessa forma. Possiamo far questo ponendo(2) r· A=
1 @ c2 @t
Con questo i due termini mediani contenenti A e l’equazione diventa molto più semplice: r2 A
1 @2 A = c2 @t 2
(18.23) nell’equazione (18.22) si eliminano e j ✏ 0 c2
(18.24)
E l’equazione per , cioè la (18.21), assume la stessa forma: r2
1 @2 = c2 @t 2
⇢ ✏0
(18.25)
Che belle equazioni! Sono belle, primo, perché sono separate molto opportunamente: è associato con la densità di carica, A è associato con la corrente. Per di più, benché il primo membro abbia un aspetto un po’ curioso – un laplaciano insieme con @ 2/@t 2 – quando lo si sviluppa si trova @2 @2 @2 + + @ x 2 @ y 2 @z 2
1 @2 = c2 @t 2
⇢ ✏0
(18.26)
Questa equazione ha un’attraente simmetria in x, y, z e t; il fattore 1/c2 è necessario perché, naturalmente, tempo e spazio sono diversi e quindi hanno unità diverse. Le equazioni di Maxwell ci hanno condotto a un nuovo tipo di equazioni per i potenziali e A, che hanno però la stessa forma matematica per tutte e quattro le funzioni , Ax , Ay e Az . Una volta che si sappiano risolvere queste equazioni, possiamo ottenere B ed E da r ⇥ A e r @ A/@t. Abbiamo un’altra forma delle leggi elettromagnetiche – esattamente equivalente alle equazioni di Maxwell – e in molte situazioni esse sono molto più facili da trattare. Effettivamente, abbiamo già risolto un’equazione molto simile all’equazione (18.26). Quando abbiamo studiato il suono nel cap. 47 del vol. 1, si aveva un’equazione della forma @2 1 @2 = @ x2 c2 @t 2 (2) La scelta di r · A si chiama «scelta del calibro». Un’alterazione di A mediante l’aggiunta di un r «trasformazione di calibro». L’equazione (18.23) si dice «calibro di Lorentz».
si chiama
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18.6 • Risoluzione delle equazioni di Maxwell. I potenziali e l’equazione delle onde
e si è visto che descriveva una propagazione d’onde nella direzione x con velocità c. L’equazione (18.26) è la corrispondente equazione in tre dimensioni. Perciò nelle regioni in cui non si hanno più né cariche né correnti, la soluzione delle equazioni non è che e A siano nulli. (Benché questa sia effettivamente una possibile soluzione.) Ci sono delle soluzioni in cui si hanno certi e A che variano nel tempo, ma sempre propagandosi con velocità c. I campi procedono per lo spazio libero, come nell’esempio visto al principio del capitolo. Col nuovo termine di Maxwell nell’equazione IV ci è stato possibile scrivere le equazioni dei campi in termini di A e in una forma allo stesso tempo semplice e che rende subito evidente che esistono onde elettromagnetiche. Per molti scopi pratici sarà ancora conveniente utilizzare le equazioni originarie in termini di E e B. Esse però si trovano dall’altro lato della montagna che abbiamo ormai scalato, mentre ora siamo pronti per passare dal lato opposto della sommità. Le cose prenderanno un aspetto diverso; prepariamoci a nuove e belle vedute.
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19
Il principio dell’azione minima
19.1
Una lezione speciale, quasi parola per parola
Quando facevo la scuola media superiore, il mio insegnante di fisica – il Prof. Bader – un giorno, dopo la lezione di fisica, mi chiamò da parte e mi disse: «Mi sembri annoiato, perciò voglio dirti una cosa che ti interesserà». Poi mi disse una cosa che trovai assolutamente affascinante e che da allora mi è parsa sempre affascinante. Ogni volta che questo argomento mi si presenta, ci lavoro sopra. Effettivamente, quando mi sono messo a preparare questa lezione mi è capitato di analizzare ulteriormente la stessa cosa: invece di occuparmi della lezione, mi sono trovato alle prese con un nuovo problema. L’argomento è questo(1) : il principio dell’azione minima. 1 Il Prof. Bader mi disse quanto segue. Immaginiamo di avere una particella (in un campo gravitazionale, per esempio) che parte da un punto qualunque e si muove di moto libero verso un altro punto: lanciata, essa va su e poi torna giù. I 1 Essa va dal punto iniziale al punto finale in un certo intervallo di tempo. Proviamo ora un moto diverso: supponiamo che per andare da «qui» a «là» la particella si sia mossa in questo modo (1)
I capitoli successivi non dipendono dal materiale di questa lezione speciale, che è intesa come un «divertimento».
19.1 • Una lezione speciale, quasi parola per parola
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I 2 ma che abbia impiegato esattamente lo stesso tempo. Poi aggiunse: se si calcola l’energia cinetica a ogni istante lungo il percorso, si sottrae l’energia potenziale e si integra rispetto al tempo durante l’intero percorso, si trova che il numero che si ottiene è sempre più grande di quello per il movimento reale. Il altre parole, le leggi di Newton potrebbero essere enunciate non nella forma F = ma, ma nella forma: l’energia cinetica media meno l’energia potenziale media ha il valore più piccolo possibile per il percorso che un oggetto segue per andare da un punto a un altro. Illustrerò un po’ meglio quanto detto. Prendiamo il caso del campo gravitazionale: se la particella percorre il cammino x(t), dove x è l’altezza dal suolo (contentiamoci per il momento di una sola dimensione, cioè prendiamo una traiettoria che va su e giù ma non lateralmente), l’energia cinetica è (1/2) m (dx/dt)2 e l’energia potenziale in un istante qualunque è mgx. Prendo ora l’energia cinetica meno l’energia potenziale in un istante generico e integro rispetto al tempo dall’istante iniziale all’istante finale. Supponiamo di essere partiti da una certa altezza al tempo origine t 1 e di terminare in un altro punto alla fine dell’intervallo t 2 . I 3 L’integrale è dunque ⌅
t2
t1
"
1 dx m 2 dt
!2
237
2
3
# mgx dt
Il moto reale avviene secondo una certa curva – si tratta di una parabola, se si prende il tempo come ascissa – e dà per l’integrale un certo valore. Si potrebbe però immaginare qualche altro moto che salisse molto in su e poi andasse su e giù in qualche modo bizzarro. I 4 Si può calcolare l’energia cinetica meno l’energia potenziale e integrare per un simile percorso... o per qualsiasi altro percorso. Il miracolo è che il cammino vero è quello per il quale l’integrale ha il valore più piccolo. Proviamo. Supponiamo di prendere dapprima il caso di una particella libera, per la quale non c’è alcuna energia potenziale. La regola dice che per andare da un punto a un altro in un dato intervallo di tempo l’integrale dell’energia cinetica deve essere minimo e perciò la particella deve muoversi a velocità uniforme. (Sappiamo che questa è la soluzione giusta: muoversi a velocità uniforme.) Perché è così? Perché se la particella si muovesse in qualunque altro modo, la sua velocità sarebbe talvolta più alta e talvolta più bassa della media; la quale media è la stessa in ogni caso perché la particella deve portarsi da «qui» a «là» in un intervallo di tempo assegnato. A titolo d’esempio, supponiamo che dobbiate andare da casa a scuola in auto, in un dato tempo. Lo potete fare in vari modi: potete accelerare come matti da principio e poi rallentare frenando verso la fine, oppure potete andare a velocità costante, oppure andare indietro per un po’ e poi avanti e così via. Il fatto è che la velocità media ha da essere, naturalmente, la distanza complessiva divisa per il tempo. Ma qualunque cosa facciate che non sia andare a velocità costante, vorrà dire che qualche volta andate troppo svelti e qualche volta troppo piano. Ora, come sapete, il quadrato medio di qualcosa che devia intorno a una media è sempre più grande del quadrato della media; perciò l’integrale dell’energia cinetica risulterebbe sempre più grande facendo variare la velocità che andando a velocità costante. Perciò si vede che l’integrale è minimo se la velocità è costante (quando non ci sono forze). Il cammino corretto è come questo. I 5 Invece un oggetto scagliato in alto in un campo gravitazionale sale dapprima più rapidamente e poi rallenta. Questo avviene perché c’è anche l’energia potenziale e dobbiamo cercare di avere, in media, la minima differenza fra energia cinetica e potenziale. Siccome l’energia potenziale
4
5
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Capitolo 19 • Il principio dell’azione minima
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aumenta quando si sale, otterremo una differenza più piccola se si può arrivare al più presto possibile in alto dove c’è un’energia potenziale elevata: si può allora sottrarre tale energia potenziale dall’energia cinetica e ottenere una media più piccola. Perciò è meglio prendere un percorso che sale in alto e raccoglie un buon contributo negativo dall’energia potenziale. I 6 D’altra parte, non si può andare su troppo in fretta o troppo in alto, perché ciò richiederebbe troppa energia cinetica: ci si deve muovere molto rapidamente per arrivare lassù e tornare giù nell’intervallo di tempo disponibile, che è fisso. Perciò non bisogna andare troppo in su, ma bisogna andare in su in una certa misura. Così accade che la soluzione è una sorta di compromesso nel tentativo di ottenere una maggiore energia potenziale col minimo di energia cinetica supplementare, ossia nel tentativo di rendere la differenza fra energia cinetica ed energia potenziale la più piccola possibile. Questo è tutto ciò che il mio professore mi disse, perché era un professore molto bravo e sapeva dove fermarsi nel parlare. Ma io non mi so fermare e perciò, invece di lasciare questo soggetto allo stadio di osservazione interessante, rischierò di atterrirvi e disgustarvi con le difficoltà dell’esistenza per dimostrarvi perché le cose stanno così. Il genere di problema matematico che ci aspetta è molto difficile e di un tipo nuovo. Abbiamo una certa grandezza S che viene chiamata azione. Si tratta dell’energia cinetica meno l’energia potenziale integrata rispetto al tempo: ⌅ t2 azione = S = (E.C. E.P.) dt 6
t1
Ricordiamo che tanto E.C. quanto E.P. sono funzioni del tempo. Per ogni diverso cammino possibile si ottiene un numero diverso per l’azione. Il problema matematico è quello di trovare per quale curva quel numero è il più piccolo. Direte: ma questo non è che l’usuale calcolo dei massimi e minimi. Si calcola l’azione e poi basta derivare per trovare il minimo. Però, state attenti. Di solito non abbiamo che una funzione di una certa variabile e dobbiamo trovare il valore di quella variabile dove la funzione è minima o massima. Per esempio, abbiamo una sbarra che è stata scaldata nel mezzo e il calore si è poi diffuso intorno. Per ogni punto lungo la sbarra abbiamo una temperatura e si deve trovare il punto in cui la temperatura è più alta. Qui invece abbiamo un numero per ogni cammino nello spazio – una cosa del tutto diversa – e dobbiamo trovare il cammino nello spazio per il quale tale numero è minimo. Questo è un ramo completamente diverso della matematica; non è il calcolo ordinario. È chiamato infatti il calcolo delle variazioni. Ci sono molti problemi di questo tipo in matematica. Per esempio il cerchio è usualmente definito come il luogo di tutti i punti che sono a distanza costante da un punto fisso, ma un altro modo di definire un cerchio è questo: un cerchio è quella curva di lunghezza data che racchiude la massima area. Qualunque altra curva racchiude, per un dato perimetro, meno area del cerchio. Perciò assegnando il problema: trovare la curva che racchiude la massima area per un dato perimetro, si avrebbe un problema di calcolo delle variazioni, un genere di calcolo diverso da quello al quale siete abituati. 7 Faremo dunque questo tipo di calcolo per la traiettoria di un oggetto, ed ecco il modo in cui lo faremo. L’idea è quella di pensare che esiste un percorso vero e che qualsiasi altra curva che si tracci è un percorso falso, in modo che se si calcola l’azione per uno di questi percorsi falsi, si otterrà un valore più grande che calcolando l’azione sul percorso vero. I 7 Problema: trovare il percorso vero. Dove passerà? Un modo naturalmente è quello di calcolare l’azione per milioni e milioni di percorsi e guardare qual è quello che dà il valore più basso. Trovato il valore più basso, quello è il percorso vero. Questo è un modo possibile; ma si può fare molto meglio. Quando si ha una grandezza che presenta un minimo – per esempio una funzione ordinaria, come la temperatura – una delle proprietà del minimo è che se
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ce ne allontaniamo di una quantità del primo ordine, la deviazione della funzione del suo minimo valore è soltanto del secondo ordine. In ogni altro punto della curva, se ci si sposta di una piccola distanza, anche il valore della funzione cambia al primo ordine. Ma in un minimo, un minuscolo allontanamento non fa, in prima approssimazione, alcuna differenza. I 8 Questo è ciò che utilizzeremo per calcolare il percorso vero. Se abbiamo il percorso vero, una curva che ne differisce un poco non comporterà, in prima approssimazione, nessuna differenza nell’azione: se abbiamo veramente un minimo, qualsiasi differenza è di seconda approssimazione. Provare questo è facile. Se c’è un cambiamento del primo ordine quando faccio deviare la curva in un modo, vuol dire che il cambiamento dell’azione è proporzionale alla deviazione. Presumibilmente questo cambiamento è nel senso di aumentare l’azione, altrimenti non ci si troverebbe in un minimo. Ma allora, se il cambiamento è proporzionale alla deviazione, invertendo il segno di questa si avrebbe un’azione minore: l’azione aumenterebbe in un senso e diminuirebbe nell’altro. Il solo modo di aver davvero il minimo è che in prima approssimazione non si abbia alcun cambiamento, cioè che il cambiamento sia proporzionale al quadrato della deviazione dal percorso vero. Procediamo perciò in questo modo: chiamiamo x (t) il percorso vero, ¯ x(t) che differisca quello che cerchiamo. Prendiamo un percorso di prova da quello vero di una piccola quantità che chiameremo ⌘(t). I 9 Ora, l’idea è che se si calcola l’azione S per il percorso x(t) e poi la differenza fra questa S e l’azione calcolata per il percorso x (t) – per semplificare la scrittura possiamo chiamarla S – la differenza fra S¯ e S deve ¯ essere zero nell’approssimazione del primo ¯ordine in ⌘. Potrà differire al secondo ordine, ma al primo ordine la differenza deve essere zero. E questo deve essere vero per qualsiasi ⌘. Cioè non del tutto. Il metodo non ha significato alcuno se non si considerano percorsi che cominciano e finiscono tutti negli stessi due punti: ciascun percorso comincia in un certo punto al tempo t 1 e finisce in un certo altro punto al tempo t 2 : punti e tempi devono essere tenuti fissi. Perciò le deviazioni espresse da ⌘ devono essere nulle ai due estremi: ⌘(t 1 ) = 0 ⌘(t 2 ) = 0 Con questa condizione il problema matematico è specificato. Se non sapeste nulla di calcolo, potreste fare una cosa dello stesso tipo per trovare il minimo di una funzione ordinaria f (x). Potreste discutere cosa succede prendendo f (x) e aggiungendo un piccolo incremento h a x e concludere che la correzione da portare a f (x) nel punto di minimo deve essere zero nel primo ordine in h. Mettereste x + h al posto di x e sviluppereste fino al primo ordine in h... proprio come stiamo per fare con ⌘. L’idea è dunque quella di sostituire x(t) con x (t) + ⌘(t) nella formula per l’azione, ovvero ¯ !2 # ⌅ " m dx S= V (x) dt 2 dt dove ho indicato con V (x) l’energia potenziale. La derivata dx/dt è naturalmente la derivata di x (t) più la derivata di ⌘(t), perciò per l’azione ottengo questa espressione: ¯ !2 # ⌅ t2 " m d x d⌘ S= V (x + ⌘) dt ¯ + 2 dt dt ¯ t1 Ora devo scrivere questa formula più dettagliatamente. Per il termine quadratico ottengo dx ¯ dt
!2
d x d⌘ d⌘ +2 ¯ + dt dt dt
!2
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Un momento, però. Ordini superiori al primo non mi interessano, perciò prendo tutti i termini che contengono ⌘ 2 e potenze superiori e li metto entro parentesi con l’indicazione «secondo ordine e superiore». Dal termine quadratico ottengo solo il secondo ordine, ma altri termini verranno da altre parti. Dunque la parte che viene dall’energia cinetica è !2 m dx d x d⌘ + (secondo ordine e superiore) ¯ +m ¯ 2 dt dt dt Ci occorre ora il potenziale V per x + ⌘. Considero ⌘ piccolo, perciò posso scrivere V (x) come ¯ una serie di Taylor. Approssimativamente esso è V (x ); nella successiva approssimazione (per la natura stessa delle derivate) il termine correttivo è ⌘¯ moltiplicato per la derivata di V rispetto a x, e così via: ⌘ 2 00 V (x + ⌘) = V (x ) + ⌘ V 0(x ) + V (x ) + ... 2 ¯ ¯ ¯ ¯ 0 Ho scritto V per la derivata di V rispetto a x per un risparmio di scrittura. Il termine in ⌘ 2 e i successivi cadono nella categoria «secondo ordine e superiore» e non abbiamo da occuparcene. Riunendo il tutto, si avrà !2 # ⌅ t2 " m dx d x d⌘ 0 S= V (x ) + m ¯ ⌘V (x ) + (secondo ordine e superiore) dt ¯ 2 dt dt dt ¯ ¯ t1 Se ora si esamina attentamente questa espressione si vede che i primi due termini, come li ho ordinati qui, corrispondono all’azione S che avrei calcolato sul percorso vero x . Quello però su ¯ otterrei per il ¯ cui mi voglio concentrare è il cambiamento di S, cioè la differenza fra S e S che ¯ percorso giusto. Denoteremo questa differenza con S, chiamata «variazione di S». Tralasciando i termini di secondo ordine e superiore, ho per S l’espressione # ⌅ t2 " d x d⌘ 0 ⌘V (x ) dt S= m ¯ dt dt ¯ t1 Il problema ora è questo: ecco un certo integrale; non so ancora cosa sia x , ma so che qualunque ¯ sia ⌘, questo integrale deve essere nullo. Penserete: va bene, l’unico modo in cui questo può avvenire è che sia nullo ciò che moltiplica ⌘. Ma che si può dire del primo termine che contiene il fattore d⌘/dt? Ebbene, dopo tutto, se ⌘ può essere qualunque, lo stesso sarà della sua derivata, e perciò se ne conclude che il coefficiente di d⌘/dt deve ugualmente essere nullo. Questo non è del tutto giusto. Non lo è perché c’è un legame fra ⌘ e la sua derivata; questi non sono assolutamente indipendenti perché ⌘(t) deve essere nullo sia per t 1 sia per t 2 . Il metodo per risolvere tutti i problemi di calcolo delle variazioni impiega sempre lo stesso principio. Si effettua uno spostamento nella cosa che si vuol variare (come si è fatto aggiungendo ⌘); si considerano i termini del primo ordine; poi si aggiustano sempre le cose in modo da ottenere un integrale della forma: «una certa cosa moltiplicata per lo spostamento (⌘)», ma senza altre derivate (niente d⌘/dt). La grande importanza di ciò la vedrete fra un momento. (Ci sono delle formule che insegnano a far questo senza effettuare calcoli – in alcuni casi – ma non sono abbastanza generali perché valga la pena di occuparsene; il meglio è fare esplicitamente il calcolo come facciamo qui.) Come posso rielaborare il termine in d⌘/dt perché ci venga un ⌘ a fattore? Lo posso fare integrando per parti. In fondo, tutto l’artificio del calcolo delle variazioni consiste nell’esplicitare la variazione di S e poi integrare per parti, in modo che le derivate di ⌘ spariscano. Vi ricorderete il principio generale dell’integrazione per parti. Se si ha una generica funzione f moltiplicata per d⌘/dt da integrare rispetto a t, si comincia a scrivere la derivata di ⌘ f : d df d⌘ (⌘ f ) = ⌘ +f dt dt dt L’integrale che si vuole è quello dell’ultimo termine, perciò viene ⌅ ⌅ d⌘ df f dt = ⌘ f ⌘ dt dt dt
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Nella nostra formula per S, la funzione f è m per dx /dt; perciò ho la seguente formula per S: ¯ ! ⌅ t2 ⌅ t2 t 2 dx d dx S = m ¯ ⌘(t) m ¯ ⌘(t) dt V 0(x ) ⌘(t) dt dt dt dt t1 ¯ t1 t1 Il primo termine si deve valutare ai due limiti t 1 e t 2 . Poi viene l’integrale del termine residuo dell’integrazione per parti. L’ultimo termine si riporta senza cambiamenti. A questo punto si presenta una circostanza che si verifica sempre: la parte integrata sparisce. (Effettivamente, se essa non sparisce, si riformula il principio, aggiungendovi delle condizioni che ne assicurino la scomparsa!) Si è già detto che ⌘ deve essere nullo ai due estremi del percorso, perché il principio dice che l’azione è minima a patto che la curva variata cominci e finisca nei punti prescelti: la condizione è che si abbia ⌘(t 1 ) = 0 e ⌘(t 2 ) = 0. Perciò il termine integrato è nullo. Riuniamo gli altri termini insieme e otterremo # ⌅ t2 " d2 x 0 S= m 2¯ V (x ) ⌘(t) dt dt ¯ t1 La variazione di S è ora del tipo che si voleva: c’è la quantità entro parentesi – chiamiamola F – moltiplicata per ⌘(t) e integrata fra t 1 e t 2 . Troviamo che l’integrale di un qualcosa moltiplicato per ⌘(t) è sempre nullo: ⌅ F(t) ⌘(t) dt = 0 Ho una certa F(t), la moltiplico per ⌘(t), integro da un estremo all’altro e ottengo zero quale che sia ⌘. Questo significa che la funzione F(t) è nulla. È una cosa ovvia, ma comunque ve ne farò vedere un esempio dimostrativo. Supponiamo che avessi preso per ⌘(t) qualcosa che è zero per qualsiasi t eccetto che nell’immediata vicinanza di un certo valore. Rimane zero finché ci si avvicina a questo valore di t, I 10 poi scatta in su per un momento e poi, di scatto, torna giù. Quando si integra questo moltiplicato per una generica funzione F, l’unico punto dove si ottiene qualcosa di diverso da zero è quello dove ⌘(t) è scattato, e quello che vien fuori è il valore di F in quel punto moltiplicato per l’integrale della stretta ansa descritta da ⌘(t). L’integrale dell’ansa da sola non è nullo, ma deve diventarlo quando si moltiplica per F; perciò la funzione F deve essere nulla nel punto dove si trova l’ansa. Ma questa si trova in qualunque punto io voglia metterla, perciò F deve essere nulla dappertutto. Vediamo così che se il nostro integrale è nullo per qualunque ⌘, il coefficiente di ⌘ deve essere nullo. L’integrale dell’azione sarà minimo per quel percorso che soddisfa alla complessa equazione differenziale d2 x m 2¯ V 0(x ) = 0 dt ¯ In realtà non è poi tanto complicata; l’avete già vista prima. Non è che F = ma. Il primo termine è la massa per l’accelerazione e il secondo è la derivata dell’energia potenziale, che è la forza. Perciò, almeno per i sistemi conservativi, abbiamo dimostrato che il principio dell’azione minima dà la giusta soluzione; esso dice che il percorso per cui l’azione è minima è quello che soddisfa la legge di Newton. Un’osservazione: non ho dimostrato che si tratta di un minimo – forse si tratta di un massimo. Infatti non c’è realmente bisogno che sia un minimo. La cosa è completamente analoga a quello che abbiamo trovato per il «principio del tempo minimo» che abbiamo discusso in ottica. Anche in quel caso si cominciò col dire che si trattava di un tempo «minimo». Risultò però che si avevano delle situazioni nelle quali il tempo non era minimo. Il principio fondamentale era che per ogni variazione del primo ordine nel cammino della luce, la variazione del tempo fosse nulla; è lo stesso qui. Quello che realmente si vuole dire con «minimo» è che il cambiamento del primo ordine nel valore di S quando si altera il percorso, è nullo. Non è necessariamente un «minimo».
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Vorrei ora fare alcuni commenti su certe generalizzazioni. In primo luogo, le stesse cose si possono fare in tre dimensioni. Invece di x solo, avrei x, y e z come funzioni di t; l’azione è più complicata. Per un moto in tre dimensioni si deve usare l’energia cinetica totale: m/2 per il quadrato della velocità. Cioè si ha m E.C. = 2
"
dx dt
!2
dy + dt
!2
dz + dt
!2 #
Inoltre l’energia potenziale è funzione di x, y e z. E quanto al percorso? Il percorso è una certa curva nello spazio che non è tanto facile tracciare, ma l’idea è la stessa. E quanto a ⌘? Ebbene, ⌘ può avere tre componenti: si può spostare il percorso nelle direzioni x, y o z; oppure lo si può spostare in tutt’e tre le direzioni contemporaneamente. Perciò ⌘ sarebbe un vettore. Questo in realtà non complica tuttavia troppo le cose. Siccome solo la variazione del primo ordine deve essere nulla, si può fare il calcolo per mezzo di tre spostamenti successivi. Si può prendere uno spostamento ⌘ nella sola direzione x e dire che il coefficiente deve essere nullo: otteniamo un’equazione. Poi ci si sposta nella direzione y e se ne ottiene un’altra. E nella direzione z se ne ottiene un’altra ancora. Oppure, ovviamente, in qualunque ordine si voglia. Comunque, si ottengono tre equazioni. E naturalmente la legge di Newton in tre dimensioni equivale in realtà a tre equazioni, una per ogni componente. Credo che, praticamente, possiate rendervi conto che la cosa deve funzionare per forza. Ma voglio lasciare a voi di persuadervi che funziona in tre dimensioni. Incidentalmente, potete utilizzare qualunque sistema di coordinate vogliate, polare o altrimenti, e ottenere direttamente le leggi di Newton nella forma appropriata a quel sistema andando a vedere quel che succede se si varia di ⌘ il raggio o un angolo ecc. Similmente, il metodo si può generalizzare per un numero qualunque di particelle. Se si hanno, mettiamo, due particelle e c’è una forza fra loro e quindi un’energia potenziale mutua, basta sommare le energie cinetiche delle due particelle e sottrarre l’energia potenziale della mutua interazione. E cosa si varia? Si variano i percorsi di tutt’e due le particelle. Per due particelle che si muovono in tre dimensioni ci sono quindi sei equazioni. Si può variare la posizione della particella 1 nella direzione x, nella direzione y e nella direzione z, e similmente per la particella 2; perciò ci sono sei equazioni. Ed è proprio quello che ci vuole. Ci sono le tre equazioni che determinano l’accelerazione della particella 1 in rapporto alla forza che subisce e tre per l’accelerazione della particella 2 dovuta alla forza su di essa. Seguendo lo stesso schema, si ottiene la legge di Newton in tre dimensioni per un numero qualunque di particelle. Ho detto più volte che si ottiene la legge di Newton. Questo non è del tutto vero perché la legge di Newton comprende forze non conservative, come l’attrito. Newton ha detto che ma è uguale a qualsiasi F; ma il principio dell’azione minima si applica soltanto a sistemi conservativi, in cui tutte le forze si possono ottenere da una funzione potenziale. Si sa però che a livello microscopico – il livello più profondo della Fisica – non ci sono forze non conservative. Forze non conservative, come l’attrito, appaiono soltanto perché si trascurano le complicazioni microscopiche, quando si hanno da analizzare troppe particelle. Le leggi fondamentali, però, possono esser messe nella forma di un principio di azione minima. Voglio generalizzare ulteriormente. Domandiamoci cosa succede se una particella si muove relativisticamente. Non abbiamo ottenuto l’equazione giusta, cioè relativistica, del moto; F = ma è giusta soltanto nel caso non relativistico. Il problema è: c’è un corrispondente principio di azione minima per il caso relativistico? C’è. La formula nel caso della relatività è la seguente: ⌅ t2r ⌅ t2 v2 2 1 dt q [ (x, y, z, t) v · A(x, y, z, t)] dt S = m0 c c2 t1 t1 La prima parte dell’integrale d’azione è la massa a riposo m0 per c2 per l’integrale di una funzione p della velocità, 1 v 2 /c2 . Poi, invece della pura energia potenziale, abbiamo un integrale del potenziale scalare e del prodotto scalare tra v e il potenziale vettore A. Naturalmente si considerano così soltanto forze elettromagnetiche. Tutti i campi elettromagnetici sono espressi per mezzo di e A. Questa funzione d’azione dà la teoria completa del moto relativistico di una particella singola in un campo elettromagnetico.
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Naturalmente, dovunque ho scritto v, capirete che prima di poterne ricavare qualcosa dovrete sostituire vx con dx/dt, e così via per le altre componenti. Inoltre per il punto lungo il percorso al tempo t metterete x(t), y(t) e z(t) dove ho scritto semplicemente x, y e z. A rigore, è soltanto dopo aver fatto queste sostituzioni per le componenti di v che avrete la formula per l’azione di una particella relativistica. Lascerò ai più abili fra voi il problema di dimostrare che questa formula per l’azione dà effettivamente le corrette equazioni di moto secondo la relatività. Vi suggerirei di farlo prima senza A, cioè in assenza di campo magnetico. Dovreste allora ottenere le componenti dell’equazione di moto dp = qr dt dove – ricorderete – si ha m0 v p=r v2 1 c2 È molto difficile includere anche il caso in cui si ha un potenziale vettore; le variazioni diventano molto più complicate. Alla fine però il termine della forza risulta uguale a q(E + v ⇥ B), come deve; ma questo lo lascerò a voi perché vi divertiate. Vorrei far notare che nel caso generale, per esempio nella formula relativistica, l’integrando dell’azione non ha più la forma della differenza fra energia cinetica e potenziale. Questa vale p soltanto nell’approssimazione non relativistica. Per esempio il termine m0 c2 1 v 2 /c2 non è ciò che abbiamo chiamato energia cinetica. Il problema di sapere quale debba essere l’azione in ogni caso particolare, deve essere risolto in qualche modo per tentativi. È proprio analogo al problema di determinare quali siano, in primo luogo, le leggi del moto. Non c’è che da destreggiarsi con le equazioni che si conoscono per vedere se si può metterle nella forma di un principio di azione minima. Un’altra osservazione sulla terminologia. La funzione che viene integrata rispetto al tempo per ottenere l’azione S è chiamata lagrangiana (simbolo L), ed è una funzione soltanto delle velocità e delle posizioni delle particelle. Perciò la formula per l’azione viene anche scritta nella forma ⌅ t2
S=
L(x i, vi ) dt
t1
dove con x i e vi si intendono tutte le componenti delle posizioni e delle velocità. Se dunque sentirete qualcuno parlare di «lagrangiana», capirete che si tratta della funzione che si usa per trovare S. Per il moto relativistico in un campo elettromagnetico si ha r v2 2 L = m0 c 1 q( v · A) c2 Inoltre dovrei dire che S non è veramente chiamata «azione» dalle persone più pedanti e precise; è chiamata «prima funzione principale di Hamilton». Mi ripugnava però tenere una lezione sul «principio della minima prima funzione principale di Hamilton» e quindi l’ho chiamata «azione». Inoltre un numero sempre più grande di persone la chiama «azione». Vedete: storicamente, venne chiamata azione una cosa un po’ diversa che non è altrettanto utile, ma io credo che sia più sensato aggiornare le definizioni. Così anche voi adesso chiamerete azione la nuova funzione e ben presto tutti la chiameranno con questo semplice nome. Voglio ora dire alcune cose che sono simili alla discussione che vi feci sul principio del tempo minimo. C’è una bella differenza di caratteristiche fra una legge che afferma che un certo integrale da un punto a un altro è minimo – cioè dice qualcosa riguardo all’intero percorso – e una legge che afferma che mentre si procede c’è una forza che costringe ad accelerare. Il secondo modo insegna a costruire il percorso passo passo, mentre l’altro è un’affermazione globale riguardante tutto il percorso. Si discusse, nel caso della luce, la connessione fra questi due modi. Adesso desidererei spiegarvi perché è vero che si hanno leggi differenziali quando vale un principio di azione minima di questo tipo. La ragione è la seguente: consideriamo l’effettivo percorso nello spazio e nel tempo; come prima, consideriamo soltanto una dimensione, in modo da poter
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disegnare il grafico di x come funzione di t. Lungo il percorso vero S è minima. Supponiamo di conoscere il percorso vero e che questo passi per un certo punto a nello spazio e nel tempo e anche per un altro punto vicino b. I 11 Ebbene, se tutto l’integrale da t 1 a t 2 è minimo, è anche necessario che l’integrale lungo il piccolo tratto da a a b sia minimo. Altrimenti si sarebbe potuto giocare proprio su quel pezzetto di percorso e fare sì che tutto l’integrale fosse un po’ più piccolo. Dunque anche per ogni tratto parziale del percorso si deve avere un minimo e questo è vero comunque breve sia tale tratto. Perciò il principio che l’intero percorso dia un minimo può anche essere enunciato dicendo che un tratto infinitesimo del percorso è una curva tale da avere un’azione minima. Se ora prendiamo un tratto abbastanza piccolo del percorso – fra due punti a e b molto vicini – non ha importanza come il potenziale vari da un punto a uno molto lontano, perché si resta quasi nello stesso posto, in quel pezzetto di percorso. La sola cosa che importa nella discussione è la variazione al primo ordine del potenziale. La soluzione può dipendere soltanto dalla derivata del potenziale e non dal potenziale su tutto il percorso. Perciò l’affermazione di una proprietà in grande, riguardante l’intero percorso, diventa un’affermazione di ciò che accade in un piccolo tratto del percorso, cioè di una proprietà differenziale, e questa proprietà differenziale riguarda soltanto le derivate del potenziale, cioè la forza in un punto. Questa è la spiegazione qualitativa della relazione fra la legge in grande e la legge differenziale. Nel caso della luce si discusse anche il problema: come fa la particella a trovare il giusto percorso? Dal punto di vista differenziale, è facile capirlo. A ogni istante essa subisce un’accelerazione e sa soltanto quello che deve fare in quell’istante. Ma tutte le nostre nozioni istintive sul rapporto fra causa ed effetto restano scombussolate quando si dice che la particella decide di scegliere il percorso che darà luogo all’azione minima. Forse che «fiuta» i percorsi vicini per accertare se hanno o no un’azione maggiore? Nel caso della luce, quando si misero degli ostacoli sul suo cammino, in modo che i fotoni non potessero tentare tutti i percorsi, si trovò che essi non riuscivano a stabilire la via da prendere e si aveva il fenomeno della diffrazione. È lo stesso in meccanica? Sarebbe forse vero che la particella non prende semplicemente «il giusto percorso», ma esplora tutte le altre possibili traiettorie? E che se presentandole degli ostacoli le si impedisce di farlo e si ottiene un fenomeno analogo alla diffrazione? Il lato miracoloso di tutto ciò è che naturalmente fa proprio questo. Questo è ciò che dicono le leggi della meccanica quantistica. Perciò il nostro principio dell’azione minima è enunciato in modo incompleto. Non è che una particella prenda il percorso che dà l’azione minima, essa invece fiuta tutti i percorsi vicini e sceglie quello che ha l’azione minima con un metodo analogo a quello col quale la luce sceglie il percorso più breve nel tempo. Vi ricorderete che il modo in cui la luce sceglie il tempo più breve è questo: se prende un cammino che richiede un tempo diverso, arriva con una fase diversa; d’altra parte l’ampiezza totale in un generico punto è la somma di contributi di ampiezza relativi a tutte le vie diverse che la luce può prendere. Tutti i percorsi le cui fasi sono a casaccio sommandosi non danno nulla. Ma se si può trovare un’intera serie di percorsi che hanno quasi tutti la stessa fase, i loro piccoli contributi si sommano costruttivamente e si ottiene una ragionevole ampiezza totale d’arrivo. Il percorso che conta viene a essere quello per il quale esistono molti percorsi vicini che danno la stessa fase. Accade la stessa identica cosa in meccanica quantistica. La meccanica quantistica completa (per il caso non relativistico e trascurando lo spin dell’elettrone) funziona come segue: la probabilità che una particella partendo dal punto 1 al tempo t 1 arrivi al punto 2 al tempo t 2 è il quadrato dell’ampiezza di probabilità. L’ampiezza totale può essere scritta come la somma delle ampiezze per ogni possibile percorso, per ogni modo di arrivare. Per ogni x(t) che si può avere – per ogni possibile traiettoria immaginaria – si deve calcolare l’ampiezza; poi le ampiezze vanno sommate tutte insieme. Che ampiezza si attribuisce a ogni percorso? È l’integrale d’azione che ci dice quale debba essere l’ampiezza di un singolo percorso. Tale ampiezza è proporzionale a una certa costante moltiplicata per eiS/~ , dove S è l’azione per quel percorso. Cioè, se si rappresenta la fase dell’ampiezza con un numero complesso, l’angolo di fase è S/~. L’azione S ha la dimensione di 11
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un’energia per un tempo e così pure la costante di Planck ~. Questa è la costante che determina quando la meccanica quantistica è importante. Ecco come stanno le cose. Supponiamo che, per tutti i percorsi, S sia molto grande in confronto a ~. Un percorso contribuisce con una certa ampiezza; per un percorso vicino la fase sarà del tutto diversa, perché con S che è enorme, anche un piccolo cambiamento di S vuol dire una fase completamente diversa, dato che ~ è tanto minuscola. Perciò percorsi vicini danno normalmente degli effetti che si elidono quando si va a fare la somma, eccetto in una regione, e cioè dove percorsi vicini danno in prima approssimazione la stessa fase (più precisamente: la stessa azione a meno di ~). Soltanto quei percorsi saranno importanti. Perciò nel caso limite in cui la costante di Planck ~ va a zero le leggi quantistiche corrette possono essere riassunte dicendo semplicemente: dimentichiamoci di tutte quelle ampiezze; c’è un percorso speciale che la particella segue; cioè quello per il quale in prima approssimazione S non varia. Questa è la connessione fra il principio dell’azione minima e la meccanica quantistica. Il fatto che la meccanica quantistica può essere formulata in questa maniera fu scoperto nel 1942 da uno studente di quel Prof. Bader del quale ho parlato all’inizio di questa lezione. (Originariamente la meccanica quantistica fu formulata dando un’equazione differenziale per l’ampiezza (Schrödinger) e anche in modo un po’ diverso per mezzo della matematica delle matrici (Heisenberg).) Ora voglio parlarvi di altri principi di minimo della Fisica. Ce ne sono molti assai interessanti. Non cercherò di elencarli tutti ora, ma ne spiegherò soltanto un altro. Più avanti, quando incontreremo un fenomeno fisico che ammette un bel principio di minimo, ve ne parlerò. Ora voglio far vedere che si può descrivere l’elettrostatica non dando un’equazione differenziale per il campo, ma dicendo che un certo integrale è massimo o minimo. Prendiamo dapprima il caso in cui la densità di carica è nota ovunque e il problema è quello di trovare il potenziale in tutto lo spazio. Sapete che la soluzione è ⇢ r2 = ✏0 Un’altra maniera di affermare la stessa cosa è la seguente. Calcoliamo U ⇤ dato da ⌅ ⌅ ✏0 ⇣ ⌘2 ⇤ U = r dV ⇢ dV 2
che è un’integrale di volume da estendere a tutto lo spazio. Questa espressione è minima per la distribuzione corretta (x, y, z) del potenziale. Si può mostrare che queste due affermazioni riguardo all’elettrostatica sono equivalenti. Supponiamo di scegliere per una funzione qualunque: vogliamo far vedere che quando si prende per il potenziale corretto più una piccola deviazione f , la variazione di U ⇤ è zero al primo ordine. Scriviamo dunque ¯ = +f ¯ Quello che cerchiamo è , ma lo facciamo variare per trovare ciò che deve essere perché la ¯ al primo ordine. Per la prima parte di U ⇤ ci occorre variazione di U ⇤ risulti nulla ⇣ ⌘2 ⇣ ⌘2 = r + 2r · r f + r f ¯ ¯ Il solo termine del primo ordine nella variazione è ⇣
r
⌘2
2r · r f ¯ Nel secondo termine di U ⇤ l’integrando è ⇢ = ⇢ + ⇢f ¯ la cui parte variabile è ⇢ f . Perciò, conservando soltanto le parti che variano, ci viene da calcolare l’integrale ⌅ ⇣ ⌘ ⇤ U = ✏ 0 r · r f ⇢ f dV ¯
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Ora, secondo la nostra vecchia regola generale, dobbiamo ripulire questo arnese da tutte le derivate di f . Vediamo di che derivate si tratta. Il prodotto scalare è @ @f @ @f @ @f + ¯ + ¯ ¯ @x @x @y @y @z @z e lo si deve integrare rispetto a x, y e z. Ecco ora l’artificio: per liberarsi di @ f /@ x si integra per parti rispetto a x; così la derivazione si sposta a . È la stessa idea generale che è stata usata per ¯ liberarsi delle derivate rispetto a t. Si usa l’uguaglianza: ⌅
@ @f @ dx = f ¯ ¯ @x @x @x
⌅
f
@2 ¯ dx @ x2
Il termine integrato è nullo perché f lo dobbiamo prendere nullo all’infinito. (Questo corrisponde a porre ⌘ = 0 agli istanti t 1 e t 2 . Perciò il nostro principio si dovrebbe formulare con più precisione: U ⇤ risulta più piccolo per il vero che per qualsiasi altro (x, y, z) avente lo stesso valore all’infinito.) Poi si fa lo stesso per y e z, così che l’integrale U ⇤ diventa ⌅ ⇣ ⌘ ⇤ U = ✏ 0 r2 ⇢ f dV ¯
Perché questa variazione sia nulla per f comunque scelto, il coefficiente di f deve essere zero e perciò si ha ⇢ r2 = ✏ 0 ¯ Ritroviamo la vecchia equazione; dunque il nostro teorema di minimo è corretto. Possiamo generalizzarlo sviluppando l’algebra in modo un po’ diverso. Torniamo indietro ed eseguiamo l’integrazione per parti senza passare alle componenti. Cominciamo con l’esaminare la seguente uguaglianza: ⇣ ⌘ r · f r = r f · r + f r2 ¯ ¯ ¯ Eseguendo la derivazione nel primo membro posso far vedere che il risultato è proprio uguale al secondo membro. Si può usare questa equazione per integrare per parti. Nell’integrale U ⇤ sostituiamo r · r f con r · ( f r ) f r2 , che sarà da integrare in dV . Il termine con la ¯ ¯ divergenza integrato sul volume può ¯essere sostituito da un integrale di superficie: ⌅ ⌅ ⇣ ⌘ r · f r dV = f r · n da ¯ ¯ Ma siccome si deve integrare su tutto lo spazio, la superficie da considerare è all’infinito, dove f è nulla. Si ottiene perciò lo stesso risultato di prima. Soltanto che ora si vede come risolvere il problema quando non si sa dove si trovano tutte le cariche. Supponiamo di avere dei conduttori con delle cariche distribuite su di essi in qualche modo. Si può ancora utilizzare il principio del minimo se i potenziali di tutti i conduttori sono fissati. L’integrale per U ⇤ lo si esegue soltanto nello spazio esterno a tutti i conduttori. Ora, siccome non possiamo variare sui conduttori, f è nulla su tutte le loro superfici e l’integrale di ¯ superficie ⌅ f r · n da ¯ è ancora nullo. Il rimanente integrale di volume ⌅ ⇣ ⌘ ⇤ U = ✏ 0 r2 ⇢ f dV ¯ deve essere eseguito soltanto nello spazio fra i conduttori. Naturalmente si ottiene di nuovo l’equazione di Poisson: ⇢ r2 = ✏0 ¯
19.1 • Una lezione speciale, quasi parola per parola
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Così si è mostrato che l’originario integrale U ⇤ è minimo se lo si valuta nello spazio esterno a dei conduttori tenuti tutti a dei potenziali fissi (cioè tali che quando x, y, z è un punto sulla superficie di un conduttore qualsiasi, la funzione (x, y, z) in prova deve uguagliare il potenziale dato di quel conduttore). Si ha un caso interessante quando le sole cariche presenti si trovano su dei conduttori. È allora ⌅ ✏0 ⇣ ⌘2 U⇤ = r dV 2
Il nostro principio di minimo dice che nel caso in cui si hanno dei conduttori aventi potenziali assegnati, il potenziale nello spazio interposto si aggiusta in modo che l’integrale U ⇤ è minimo. Cos’è questo integrale? Il termine r è il campo elettrico, perciò l’integrale è l’energia elettrostatica. Il campo vero è, fra tutti quelli che derivano dal gradiente di un potenziale, quello che dà la minima energia totale. Vorrei utilizzare questo risultato per il calcolo di un problema particolare, per mostrarvi che queste cose sono veramente molto pratiche. Supponiamo di prendere due conduttori sotto forma di un condensatore cilindrico. I 12 Il conduttore interno è al potenziale V e quello esterno è al potenziale zero. Il raggio del conduttore interno sia a e il raggio di quello esterno b. Si può immaginare fra i due una distribuzione di potenziale qualunque. Ma se si usa il potenziale corretto e si calcola ¯ ⌅ ✏0 ⇣ ⌘2 r dV 2 ¯
si deve trovare l’energia del sistema, (1/2) CV 2 . Dunque per mezzo del nostro principio si può anche calcolare C. Se però si usa una distribuzione errata del potenziale e si cerca di calcolare la capacità C con questo metodo, si otterrà una capacità troppo grande, dato che V è noto. Qualunque potenziale che non sia precisamente quello corretto, darà un valore falso di C, più grande di quello corretto. Ma se il finto che adopero è un’approssimazione qualunque, anche grossolana, il valore che ottengo per C sarà una buona approssimazione, perché l’errore in C è del secondo ordine rispetto all’errore in . Mettiamo che io non conosca la capacità del condensatore cilindrico. Posso usare questo principio per trovarla. Cercherò di indovinare delle funzioni finché otterrò il più basso valore per C. Per esempio supponiamo di scegliere il potenziale che corrisponde a un campo costante. (Naturalmente si sa che il campo in questo caso non è in realtà costante: esso varia come 1/r.) Un campo costante vuol dire un potenziale che dipende linearmente dalla distanza; per adattarsi alle condizioni sui due conduttori deve essere perciò ✓ =V 1
r b
a◆ a
Questa funzione è V per r = a, 0 per r = b e nell’intervallo ha una pendenza costante uguale a V /(b a). Perciò per trovare l’integrale U ⇤ si moltiplica il quadrato di questo gradiente per ✏ 0 /2 e si integra su tutto il volume. Facciamo questo calcolo per un cilindro di lunghezza unitaria. L’elemento di volume alla distanza r dall’asse è 2⇡r dr. Eseguendo l’integrale trovo che il primo tentativo per trovare la capacità mi dà 1 ✏0 CV 2 (primo tentativo) = 2 2
⌅
L’integrazione è facile e dà ⇡V
2
b+a b a
!
b a
V2 2⇡r dr (b a)2
12
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Capitolo 19 • Il principio dell’azione minima
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Perciò ho una formula per la capacità che non è quella vera, ma un risultato approssimativo: C b+a = 2⇡✏ 0 2(b a) È naturalmente diversa dalla formula corretta C=
2⇡✏ 0 b ln a
ma non è poi tanto sbagliata. Confrontiamola con la formula giusta per diversi valori di b/a. Ho riunito in questa tabella i risultati che ho calcolato: b a
Cvero 2⇡✏ 0
2 4 10 100
1, 4423 0, 721 0, 434 0, 217
1, 5 1, 1
2, 4662 10, 492059
C(prima appross.) 2⇡✏ 0 1, 500 0, 833 0, 612 0, 51 2, 50 10, 500000
Anche quando b/a raggiunge il valore 2 – che dà per il campo uno scostamento abbastanza forte dall’andamento lineare – ottengo una discreta approssimazione. Il valore è naturalmente un po’ troppo alto, come ci si aspettava. Le cose vanno molto peggio se si ha un filo sottile all’interno di un grosso cilindro: in quel caso il campo ha delle variazioni enormi e se lo si rappresenta come costante le cose non vanno troppo bene. Con b/a = 100 si va fuori quasi di un fattore due. Le cose vanno molto meglio per valori piccoli di b/a. Andando all’altro estremo, in cui le dimensioni dei conduttori non sono molto diverse – ad esempio per b/a = 1,1 – allora un campo costante è un’approssimazione piuttosto buona e si ottiene per C un valore corretto a meno dell’uno per mille. Vorrei ora dirvi come si può migliorare un calcolo di questo genere. (Naturalmente per il cilindro la soluzione giusta la conoscete, ma il metodo è lo stesso per forme strane di altri tipi per le quali potete non conoscere la soluzione.) Il passo successivo è tentare di approssimare meglio il vero – e incognito – potenziale . Per esempio si potrebbe provare una costante più una funzione esponenziale ecc. Ma come si fa a sapere se si ha una migliore approssimazione senza conoscere il vero? Risposta: calcolare C; il valore più basso per C è quello più vicino al vero. Mettiamo alla prova questo concetto. Supponiamo che il potenziale non sia lineare, ma quadratico in r, cioè che il campo elettrico non sia costante ma lineare. La più generale forma quadratica che soddisfa le condizioni = 0 per r = b e = V per r = a è " ✓ r a ◆2 # ✓r a◆ =V 1+↵ (1 + ↵) b a b a dove ↵ è un numero costante qualunque. Questa formula è un po’ più complicata; essa contiene un termine quadratico oltre a un termine lineare. È molto facile ottenerne il campo; il campo è precisamente d ↵V (r a)V E= = + 2(1 + ↵) dr b a (b a)2 Ora si deve quadrare questa espressione e integrarla nel volume. Ma un momento! Cosa devo prendere per ↵? Posso prendere una parabola per ; ma quale parabola? Ecco come faccio: calcoliamo la capacità con un ↵ arbitrario. Si ottiene " ! # C b ↵ 2 2↵ 1 2 1 a = + +1 + ↵ + 2⇡✏ 0 b a a 6 3 6 3
19.2 • Una nota aggiunta dopo la lezione
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Ha un aspetto un po’ complicato, ma questo è ciò che si ottiene integrando il quadrato del campo. Ora posso scegliere ↵. So che la capacità vera è più bassa di qualunque risultato che io possa calcolare, perciò qualunque cosa metta per ↵ avrò un risultato troppo grande. Però, seguitando a giocare su ↵ fino a ottenere il valore più basso possibile, quel valore più basso di tutti sarà più vicino al vero di qualunque altro. Perciò il prossimo passo da fare è quello di scegliere l’↵ che dà il valore minimo per C. Ricavandolo con le regole del calcolo ordinario trovo che il C minimo si ha per 2b ↵= b+a Sostituendo questo valore nella formula, ottengo per la capacità minima C b2 + 4ab + a2 = 2⇡✏ 0 3 (b2 a2 ) Ho calcolato cosa dà per C questa formula per vari valori di b/a; questi numeri li chiamo C(quadratico). Ecco una tabella che mette a confronto il C(quadratico) con il C vero. b a
Cvero 2⇡✏ 0
2 4 10 100
1, 4423 0, 721 0, 434 0, 217
1, 5 1, 1
2, 4662 10, 492059
C(quadratico) 2⇡✏ 0 1, 444 0, 733 0, 475 0, 346 2, 4667 10, 492065
Per esempio, quando il rapporto dei raggi è 2 a 1, trovo 1,444, che è una buonissima approssimazione della soluzione giusta 1,4423. Anche per b/a più grandi, la soluzione resta piuttosto buona; essa è molto molto migliore della prima approssimazione. È discretamente buona, con un errore solo del 10%, anche quando b/a è 10 a 1. Quando però si arriva a 100 contro 1, le cose vanno fuori controllo. Ottengo che C è 0,346 invece che 0,267. D’altra parte per un rapporto 1,5 fra i raggi la soluzione è eccellente; e per b/a uguale a 1,1 la soluzione risulta 10,492065 invece che 10,492059: dove ci si aspetta che la soluzione sia buona, essa è molto molto buona. Ho portato questi esempi anzitutto per mostrare il valore teorico dei principi di azione minima e dei principi di minimo in generale, e in secondo luogo per mostrare la loro utilità pratica, non puramente per calcolare una capacità quando si conosce già la soluzione. Per qualsiasi altra forma, si può cercare di indovinare un campo approssimato con dei parametri incogniti, come ↵, da aggiustare in modo che si abbia un minimo. Si ottengono risultati numerici eccellenti per dei problemi altrimenti intrattabili.
19.2
Una nota aggiunta dopo la lezione
Vorrei aggiungere qualcosa che non ho avuto il tempo di dire nella lezione. (A quanto sembra, preparo sempre più di quello che ho tempo di esporre.) Come ho accennato prima, mentre lavoravo a questa lezione mi capitò d’interessarmi a un certo problema. Voglio dirvi di che problema si tratta. Mi accorsi che la maggior parte dei principi di minimo che potrei menzionare prendono origine, in un modo o in un altro, dal principio di azione minima della meccanica e dell’elettrodinamica. C’è però anche una classe diversa. Per fare un esempio, se delle correnti devono attraversare un blocco di materiale che obbedisce alla legge di Ohm, queste correnti si distribuiscono nel blocco in modo che il calore generato per unità di tempo sia il minimo possibile. Si può anche dire (se tutto viene mantenuto isotermo) che è minima l’energia generata per unità di tempo. Ora questo principio, secondo la teoria classica, vale anche nel determinare
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250
Capitolo 19 • Il principio dell’azione minima
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la distribuzione delle velocità degli elettroni in un metallo in cui fluisce una corrente. Questa distribuzione delle velocità non è esattamente quella di equilibrio [vol. 1, cap. 40, equazione (40.6)] perché gli elettroni subiscono una deriva in una certa direzione. La nuova distribuzione si può trovare in base al principio che essa è quella distribuzione per la quale, data la corrente, la produzione di entropia per secondo, per effetto delle collisioni, è la più piccola possibile. La vera descrizione del comportamento degli elettroni dovrebbe però essere fatta con la meccanica quantistica. Il problema è: lo stesso principio di minima produzione di entropia vale anche quando la situazione viene descritta quantisticamente? Non l’ho potuto ancora scoprire. Il problema ha naturalmente un interesse accademico. Principi come quello sono affascinanti e vale sempre la pena di vedere quanto sono generali. Però, anche da un punto di vista più pratico, vorrei saperlo. Insieme ad alcuni colleghi ho pubblicato un lavoro in cui si è calcolato approssimativamente, con la meccanica quantistica, la resistenza che un elettrone incontra nel muoversi attraverso un cristallo ionico, come NaCl. [Feynman, Hellworth, Iddings e Platzman, «Mobility of Slow Electrons in a Polar Crystal», Phys. Rev. 127, 1004 (1962).] Se però esistesse un principio di minimo, si potrebbe adoperarlo per rendere molto più precisi i risultati, proprio come il principio di minimo per la capacità di un condensatore ci ha permesso di ottenere una tale precisione per quella capacità, benché si avesse soltanto una grossolana conoscenza del campo elettrico.
20
Soluzioni delle equazioni di Maxwell nello spazio libero
20.1
Onde nello spazio libero; onde piane
Nel capitolo 18 siamo arrivati al punto in cui le equazioni di Maxwell si conoscono nella loro forma completa. Tutto quello che si sa riguardo alla teoria classica dei campi elettrici e magnetici si può trovare nelle quattro equazioni seguenti. Equazioni di Maxwell:
r·E =
⇢ ✏0
r⇥E =
(20.1a) @B @t
(20.1b)
r·B=0 c2 r ⇥ B =
(20.1c) j @E + ✏0 @t
(20.1d)
Quando si combinano tutte queste equazioni, si presenta un nuovo, notevole fenomeno: i campi generati da cariche in moto possono abbandonare le loro sorgenti e diffondersi da soli attraverso lo spazio. Abbiamo considerato un caso particolare nel quale si dà il via, a un tratto, a una lamina infinita di corrente. Dopo che la corrente ha fluito per un tempo t ci sono dei campi elettrici e magnetici uniformi che si estendono fino alla distanza ct dalla sorgente. Supponiamo che la corrente laminare giaccia nel piano yz, con una densità superficiale di corrente J diretta nel senso delle y positive; il campo elettrico avrà soltanto la componente y e quello magnetico la sola componente z. Il valore assoluto delle componenti dei campi è dato da Ey = cBz =
J 2✏ 0 c
(20.2)
per valori positivi di x minori di ct. Per valori più grandi, i campi sono nulli. Naturalmente, ci sono analoghi campi che si estendono alla stessa distanza dalla corrente laminare nella direzione delle x negative. In FIGURA 20.1 è mostrato un grafico del modulo dei campi in funzione di x all’istante t. Al crescere di t, il «fronte d’onda» che si ha alla distanza ct si allontana con la velocità costante c. Consideriamo ora la seguente successione di fatti. Facciamo fluire una corrente d’intensità unitaria per un po’, poi portiamola improvvisamente a tre unità e manteniamola costante a questo valore. Che aspetto hanno i campi in questo caso? Possiamo vedere che aspetto avranno nel modo seguente. Anzitutto immaginiamo una corrente unitaria che ha inizio a t = 0 e poi rimane costante per sempre. I campi lungo l’asse x positivo sono dati allora dal grafico di FIGURA 20.2a. Poi domandiamoci che cosa succederebbe se si lanciasse una corrente costante di due unità al tempo t 1 . I campi in questo caso saranno doppi rispetto a quelli di prima, ma si estenderanno lungo x soltanto fino alla distanza c(t t 1 ), come si vede nella FIGURA 20.2b. Quando, usando il principio di sovrapposizione, si sommano queste due soluzioni si trova che la somma delle due sorgenti è
252
Capitolo 20 • Soluzioni delle equazioni di Maxwell nello spazio libero
|E | = c |B |
–ct
ct
x
20.1 Il campo elettrico e magnetico come funzione di x al tempo t dopo che la corrente laminare è stata lanciata. FIGURA
E (a)
2 1 0 ct
x
E 2
(b)
1 0 c (t – t1)
x
E 3 2
(c)
1 0 c (t – t1)
ct
x
20.2 Il campo elettrico di una corrente laminare. (a) Corrente d’intensità uno lanciata al tempo t = 0; (b) Corrente d’intensità due lanciata a t = t 1 ; (c) Sovrapposizione di (a) e (b). FIGURA
una corrente d’intensità uno dal tempo zero a t 1 e una corrente di tre unità per tempi maggiori di t 1 . All’istante t i campi varieranno con x nel modo indicato nel grafico di FIGURA 20.2c. Passiamo ora a un problema più complicato. Consideriamo una corrente che fluisce con l’intensità uno per un certo tempo, poi passa a tre unità e più tardi si riduce improvvisamente a zero. Quali sono i campi per tale corrente? Si può trovare la soluzione nello stesso modo, sommando le soluzioni per tre problemi separati. Anzitutto si trovano i campi per una corrente a scalino d’intensità unitaria. (Questo problema l’abbiamo già risolto.) Poi si trovano i campi prodotti da una corrente a scalino di due unità e infine si cercano i campi per una corrente a scalino di meno tre unità. Quando si sommano le tre soluzioni, si avrà una corrente che ha l’intensità uno da t = 0 a un certo istante successivo, mettiamo t 1 ; poi ha l’intensità tre fino a un istante ulteriore t 2 e poi si spegne, cioè va a zero. Il grafico della corrente in funzione del tempo è indicato nella FIGURA 20.3a. Quando si sommano le tre soluzioni per il campo elettrico si trova che la sua variazione con x a un dato istante t è come mostra la FIGURA 20.3b. Il campo è un’esatta rappresentazione della corrente. La distribuzione del campo nello spazio è un preciso grafico della variazione della corrente nel tempo, solo che è disegnata a ritroso. Al passare del tempo l’intera figura si allontana con la velocità c, perciò si ha una zona di campi che si sposta nel senso delle x positive e contiene una registrazione completamente fedele della storia delle variazioni della corrente. Se ci si trovasse a dei kilometri di distanza, si potrebbe sapere dalle variazioni del campo elettrico o di quello magnetico quali siano state precisamente le variazioni della corrente nella sorgente. Noterete inoltre che molto tempo dopo l’arresto di qualsiasi attività nella sorgente, quando tutte le cariche e le correnti sono nulle, i campi continuano a propagarsi nello spazio. Abbiamo una distribuzione di campi elettrici e magnetici che esiste indipendentemente da qualsiasi carica o corrente. Questo è il nuovo effetto che nasce dall’insieme delle equazioni di Maxwell. Dell’analisi ora fatta possiamo dare, se lo vogliamo, una rappresentazione matematica completa scrivendo che il campo elettrico in un dato punto e a un dato istante è proporzionale alla corrente nella sorgente, non a quello stesso istante, ma a un istante anteriore t x/c. Possiamo scrivere cioè Ey (t) =
(a)
J 3 2 1 0 t1
t2
t
–Ey
(b)
3 2 1 0 c(t – t2)
c(t – t1)
ct
x
20.3 Se l’intensità della corrente alla sorgente varia come si vede in (a), allora all’istante t, indicato dalla freccia, il campo elettrico in funzione di x è come si vede in (b). FIGURA
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J(t x/c) 2✏ 0 c
(20.3)
Che lo crediate o no, abbiamo già dedotto la stessa equazione, da un altro punto di vista, nel volume 1, quando ci siamo occupati della teoria dell’indice di rifrazione. Si trattava allora di individuare i campi prodotti da uno strato sottile di dipoli oscillanti contenuto in una lamina di un materiale dielettrico quando questi dipoli erano posti in movimento da un’onda elettromagnetica incidente. Il problema era di calcolare i campi risultanti dovuti all’onda originaria e a quelle irradiate dai dipoli oscillanti. E come si potevano calcolare i campi generati da cariche in moto quando non si avevano ancora le equazioni di Maxwell? In quella circostanza si prese come punto di partenza una formula (che non fu dedotta) per i campi di radiazione prodotti a grande distanza da una carica in moto accelerato. Se andate a guardare nel cap. 31 del vol. 1, vedrete che l’equazione (31.9) è proprio identica all’equazione (20.3) che abbiamo appena scritto. Benché la nostra precedente deduzione fosse corretta solo a grande distanza dalla sorgente, vediamo qui che lo stesso risultato continua a valere anche a ridosso della sorgente.
20.1 • Onde nello spazio libero; onde piane
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Vogliamo ora esaminare in modo generale il comportamento dei campi elettrici e magnetici nello spazio vuoto, lontano dalle sorgenti, cioè da cariche e correnti. Molto vicino alle sorgenti, vicino abbastanza perché durante il ritardo dovuto alla trasmissione la sorgente non abbia avuto il tempo di cambiare molto, i campi sono praticamente gli stessi che abbiamo trovato in quelli che abbiamo chiamato i casi elettrostatico e magnetostatico. Se però andiamo a distanze abbastanza grandi perché i ritardi diventino importanti, la natura dei campi può essere radicalmente diversa dalle soluzioni che abbiamo trovato. In un certo senso, i campi cominciano ad assumere un carattere loro proprio quando si sono allontanati molto da tutte le sorgenti. Perciò possiamo cominciare col discutere il comportamento dei campi in una regione dove non ci sono né correnti né cariche. Supponiamo di chiederci che sorta di campi possono esserci in regioni dove ⇢ e j sono tutti e due zero. Nel capitolo 18 abbiamo visto che la fisica contenuta nelle equazioni di Maxwell si poteva anche esprimere per mezzo di equazioni differenziali per i potenziali scalare e vettore, cioè 1 @2 ⇢ r2 = (20.4) 2 2 ✏0 c @t e 1 @2 A j r2 A = (20.5) 2 2 c @t ✏ 0 c2 Se ⇢ e j sono zero, queste equazioni prendono la forma più semplice r2
1 @2 =0 c2 @t 2
(20.6)
r2 A
1 @2 A =0 c2 @t 2
(20.7)
e
Dunque nello spazio libero il potenziale scalare e ciascuna componente del potenziale vettore A soddisfano la stessa equazione matematica. Mettiamo che rappresenti una qualunque delle quattro grandezze , Ax , Ay , Az . Ci occorrerà investigare le soluzioni generali della seguente equazione: 1 @2 r2 =0 (20.8) c2 @t 2 Questa equazione è chiamata equazione delle onde tridimensionali. Tridimensionali perché la funzione può dipendere in generale da x, y e z e dobbiamo occuparci di variazioni in tutte e tre le coordinate: questo si vede chiaramente se si scrivono esplicitamente i tre termini dell’operatore laplaciano: @2 @2 @2 1 @2 + + =0 (20.9) @ x2 @ y2 @z 2 c2 @t 2 Nello spazio libero anche i campi E e B soddisfano all’equazione delle onde. Per esempio, siccome è B = r ⇥ A, si può ottenere un’equazione per B prendendo il rotore dell’equazione (20.7). Siccome il laplaciano è un operatore scalare, l’ordine delle operazioni laplaciano e rotore può essere invertito: r ⇥ (r2 A) = r2 (r ⇥ A) = r2 B Similmente l’ordine delle operazioni rot e @/@t può essere scambiato: r⇥
1 @2 A 1 @2 1 @2 B = (r ⇥ A) = c2 @t 2 c2 @t 2 c2 @t 2
Usando questi risultati si ottiene la seguente equazione differenziale per B: r2 B
1 @2 B =0 c2 @t 2
(20.10)
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254
Capitolo 20 • Soluzioni delle equazioni di Maxwell nello spazio libero
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Perciò ogni componente del campo magnetico B soddisfa all’equazione delle onde tridimensionali. Analogamente, tenendo conto che E= r
@A @t
si trova che nello spazio libero anche il campo elettrico E soddisfa all’equazione delle onde tridimensionali: 1 @2 E r2 E =0 (20.11) c2 @t 2 Tutti i campi elettromagnetici che conosciamo soddisfano alla stessa equazione d’onda, cioè l’equazione (20.8). Sarebbe naturale domandarsi: qual è la più generale soluzione di questa equazione? Però, piuttosto che affrontare subito questo difficile problema esamineremo prima quel che si può dire in generale di quelle soluzioni nelle quali nulla dipende da y e z. (Conviene sempre fare per primo un caso facile, in modo da poter vedere quel che ci si può aspettare che accada; dopo si può passare ai casi più complicati.) Supponiamo che i moduli dei campi dipendano soltanto da x, cioè che non ci siano variazioni dei campi al variare di y e z. Naturalmente avremo ancora a che fare con onde piane e ci dobbiamo aspettare di ottenere risultati alquanto simili a quelli del paragrafo precedente. Troveremo infatti le stesse precise soluzioni. Potreste chiedere: «perché rifare tutto di nuovo?». Rifarlo è importante in primo luogo perché non abbiamo dimostrato che le onde che si erano trovate erano le soluzioni più generali per delle onde piane, e in secondo luogo perché abbiamo trovato soltanto i campi dovuti a un tipo molto particolare di sorgente costituita da una corrente. Ora si vorrebbe chiedere: qual è il tipo più generale di onda unidimensionale che si può avere nello spazio libero? Questo non si può trovare andando a vedere ciò che accade con questa o quella particolare sorgente; bisogna invece operare con una maggiore generalità. Inoltre questa volta si dovrà lavorare sulle equazioni differenziali invece che su formule integrali. Benché i risultati che si otterranno siano gli stessi, è sempre un modo di esercitarsi a battere più vie, per far vedere che la strada seguita non fa alcuna differenza. Conviene saper trattare le cose per più vie diverse, perché davanti a un problema difficile spesso si trova che soltanto una delle varie vie possibili è praticabile. Si potrebbe considerare direttamente la soluzione dell’equazione delle onde per una grandezza elettromagnetica generica. Ma invece vogliamo partire proprio dal principio, cioè dalle equazioni di Maxwell per lo spazio libero così che possiate capire la loro stretta connessione con le onde elettromagnetiche. Partiamo perciò dalle equazioni (20.1a)-(20.1d) ponendo cariche e correnti uguali a zero; esse diventano r·E =0 r⇥E =
(20.12a) @B @t
r·B=0 c2 r ⇥ B =
(20.12b) (20.12c)
@E @t
(20.12d)
Esplicitiamo la prima equazione mediante le componenti; si avrà r·E =
@ E x @ E y @ Ez + + =0 @x @y @z
(20.13)
Si è supposto che non ci siano variazioni al variare di y e z, perciò gli ultimi due termini sono nulli. L’equazione ci dice quindi che è @ Ex =0 (20.14) @x Il significato di questa equazione è che Ex , la componente del campo elettrico nella direzione x, è costante nello spazio. Dall’equazione (20.12d), nell’ipotesi che neanche B vari con y e z,
20.1 • Onde nello spazio libero; onde piane
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si può vedere che Ex è costante anche nel tempo. Un campo simile potrebbe essere il campo costante dovuto alle lastre di un condensatore poste a grande distanza. Non c’importa di un simile campo statico; per il momento ci importano soltanto i campi dinamicamente variabili. Per campi dinamici si avrà Ex = 0. Abbiamo dunque l’importante risultato che nella propagazione di onde piane in una direzione qualunque, il campo elettrico deve essere perpendicolare alla direzione di propagazione. Può naturalmente variare, invece, in modo complicato al variare della coordinata x. Il campo elettrico trasversale E si potrà sempre scomporre in due componenti, cioè la componente y e la componente z. Risolviamo dapprima il caso in cui il campo elettrico ha una sola componente trasversale. Prendiamo dapprima un campo elettrico che ha sempre la direzione y e una componente z nulla. Evidentemente se si può risolvere questo problema si potrà risolvere anche il caso in cui il campo elettrico è sempre nella direzione z. La soluzione generale si potrà sempre esprimere come la sovrapposizione di due campi di quel tipo. Come diventano facili ora le nostre equazioni. L’unica componente del campo elettrico che non è nulla è Ey e tutte le sue derivate, eccetto quelle rispetto a x, sono nulle. Ciò che rimane delle equazioni di Maxwell diventa semplicissimo. Passiamo a esaminare la seconda equazione di Maxwell, l’equazione (20.12b). Esplicitando le componenti di rot E abbiamo (r ⇥ E)x =
@ Ez @y
@ Ey =0 @z
(r ⇥ E)y =
@ Ex @z
@ Ez =0 @x
(r ⇥ E)z =
@ Ey @x
@ Ey @ Ex = @y @x
La componente x di r⇥E è zero perché le derivate rispetto a y e a z sono nulle. La componente y è anch’essa nulla: il primo termine è nullo perché la derivata rispetto a z è zero e il secondo termine è nullo perché Ez è zero. L’unica componente del rotore di E che non è nulla è la componente z, che è uguale a @Ey /@ x. Ponendo le tre componenti di r ⇥ E uguali alle rispettive componenti di @B/@t, possiamo concludere che si deve avere @ By @ Bx = =0 @t @t @ Bz = @t
@ Ey @x
(20.15)
(20.16)
Siccome le componenti secondo x e y del campo magnetico hanno tutt’e due derivate temporali nulle, queste due componenti non sono che campi costanti e corrispondono alle soluzioni magnetostatiche trovate in precedenza. Qualcuno deve aver lasciato dei magneti permanenti vicino alla regione dove le onde si propagano. Non ci cureremo di questi campi costanti e porremo Bx e By uguali a zero. Incidentalmente, si sarebbe già potuto concludere che la componente x di B è nulla per una ragione diversa. Siccome la divergenza di B è zero (per la terza equazione di Maxwell), applicando lo stesso ragionamento usato sopra per il campo elettrico, si sarebbe concluso che la componente longitudinale del campo magnetico non può variare con x. Siccome vogliamo ignorare questi campi uniformi mentre ci occupiamo delle soluzioni del tipo onda, avremmo posto Bx uguale a zero. Nelle onde elettromagnetiche piane, il campo B, come il campo E, devono essere diretti perpendicolarmente alla direzione di propagazione. L’equazione (20.16) ci dà un teorema in più e cioè che se il campo elettrico ha soltanto la componente y, il campo magnetico ha soltanto la componente z. Perciò E e Bsono perpendicolari fra loro. Questo era precisamente quello che succedeva nel tipo particolare di onda che avevamo già considerato.
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256
Capitolo 20 • Soluzioni delle equazioni di Maxwell nello spazio libero
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Siamo ora pronti per utilizzare l’ultima delle equazioni di Maxwell per lo spazio libero, l’equazione (20.12d). Esplicitando le componenti abbiamo c2 (r ⇥ B)x = c2
@ Bz @y
c2
@ By @ Ex = @z @t
c2 (r ⇥ B)y = c2
@ Bx @z
c2
@ Ey @ Bz = @x @t
c2 (r ⇥ B)z = c2
@ By @x
c2
@ Bx @ Ez = @y @t
(20.17)
Delle sei derivate delle componenti di B soltanto @Bz /@ x non è uguale a zero. Perciò le tre equazioni ci danno semplicemente @ Ey @ Bz c2 = (20.18) @x @t Il risultato di tutto il nostro lavoro è che soltanto una componente per ciascuno dei campi elettrico e magnetico è diversa da zero e che queste componenti devono soddisfare le equazioni (20.16) e (20.18). Queste due equazioni si possono combinare in una differenziando la prima rispetto a x e la seconda rispetto a t; i primi membri delle due equazioni diventano allora i medesimi (eccetto che per il fattore c2 ). Perciò troviamo che Ey soddisfa l’equazione @ 2 Ey @ x2
1 @ 2 Ey =0 c2 @t 2
(20.19)
Abbiamo già incontrato la stessa equazione differenziale quando si studiava la propagazione del suono. È l’equazione delle onde unidimensionali. Dovreste notare che nel nostro procedimento di deduzione abbiamo trovato qualcosa di più di ciò che è contenuto nell’equazione (20.11). Le equazioni di Maxwell ci hanno dato l’ulteriore informazione che le onde elettromagnetiche hanno componenti dei campi soltanto perpendicolarmente alla direzione di propagazione. Richiamiamo quello che conosciamo già a proposito delle soluzioni dell’equazione per le onde unidimensionali. Se una grandezza qualunque soddisfa l’equazione delle onde unidimensionali @2 @ x2
1 @2 =0 c2 @t 2
(20.20)
allora una possibile soluzione è una funzione (x, t) della forma (x, t) = f (x
ct)
(20.21)
cioè una generica funzione della singola variabile x ct. La funzione f (x ct) rappresenta uno schema «fisso» di dipendenza da x che si sposta nel senso delle x positive alla velocità c (FIGURA 20.4). Per esempio, se la funzione f ha un massimo quando il suo argomento è zero, allora per t = 0 il massimo di si avrà per x = 0. Un certo tempo dopo, mettiamo per t = 10, avrà il suo massimo a x = 10c. Col passar del tempo il massimo si muove verso le x positive con la velocità c. Talvolta conviene di più dire che una soluzione dell’equazione delle onde unidimensionali è una funzione di t x/c. Però questo è come dire la stessa cosa, perché qualunque funzione di t x/c è anche una funzione di x ct: ! ✓ x◆ x ct F t =F = f (x ct) c c Facciamo vedere che f (x ct) è veramente una soluzione dell’equazione delle onde. Siccome è funzione di una sola variabile, cioè di x ct, rappresenteremo con f 0 la derivata di f rispetto alla sua variabile e con f 00 la derivata seconda. Derivando l’equazione (20.21) rispetto a x abbiamo @ = f 0(x @x
ct)
giacché la derivata di x ct rispetto a x è 1. La derivata seconda di rispetto a x è evidentemente @2 = f 00(x @ x2 Prendendo la derivata di
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20.1 • Onde nello spazio libero; onde piane
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f ct
ct)
(20.22) t=0
rispetto a t troviamo
t c
@ = f 0(x @t
ct)( c)
@2 = +c2 f 00(x @t 2
ct)
0
(20.23)
20.4 La funzione f (x ct) rappresenta una «sagoma» costante che si sposta nel senso delle x positive con la velocità c. FIGURA
Si vede che soddisfa veramente l’equazione delle onde unidimensionali. Vi può venir fatto di pensare: «Se ho l’equazione d’onda, come faccio a sapere che devo prendere f (x ct) come soluzione? Non mi piace questo metodo a ritroso. Non c’è qualche modo diretto di trovare la soluzione?». Be’, un modo diretto è quello di conoscere la soluzione. È possibile «ammannire» un ragionamento matematico apparentemente diretto, specialmente perché si sa che cosa ci si deve aspettare che la soluzione sia, ma con un’equazione così semplice come questa non c’è bisogno di ricorrere a trucchi. Arriverete presto al punto in cui quando vedrete l’equazione (20.20), quasi simultaneamente vedrete = f (x ct) come sua soluzione. (Proprio come ora quando vedete l’integrale di x 2 dx sapete subito che la soluzione è x 3 /3.) Dovreste realmente vedere anche qualche cosa di più: non soltanto qualsiasi funzione di x ct è soluzione, ma anche qualsiasi funzione di x + ct lo è. Siccome l’equazione d’onda contiene soltanto c2 , cambiare il segno a c non fa alcuna differenza. Effettivamente la soluzione più generale dell’equazione delle onde unidimensionali è la somma di due funzioni arbitrarie, una di x ct e l’altra di x + ct: = f (x ct) + g(x + ct) (20.24) Il primo termine rappresenta un’onda che si propaga verso le x positive e il secondo un’onda arbitraria che si propaga verso le x negative. La soluzione generale è la sovrapposizione di due onde di questo tipo, entrambe presenti contemporaneamente. Il divertente problema che segue viene lasciato alla vostra riflessione. Prendiamo una funzione della forma seguente: = cos k x cos kct Questa equazione non è nella forma di una funzione di x ct o di x + ct. Eppure si può facilmente mostrare che questa funzione è soluzione dell’equazione d’onda, sostituendola direttamente nell’equazione (20.20). Com’è dunque che si può dire che la soluzione generale è della forma indicata dall’equazione (20.24)? Applicando le nostre conclusioni sulle soluzioni dell’equazione delle onde al caso della componente y del campo elettrico, cioè Ey , concludiamo che Ey può variare con x in qualunque maniera arbitraria. Tuttavia i campi che esistono realmente si possono sempre considerare come somma di due schemi tipici: un’onda che viaggia nello spazio in una certa direzione con la velocità c, con un campo magnetico perpendicolare al campo elettrico, e un’onda che viaggia nella direzione opposta con la stessa velocità. Tali onde corrispondono alle onde elettromagnetiche che già conosciamo: luce, radioonde, radiazioni infrarosse, radiazioni ultraviolette, raggi X e così via. Abbiamo già discusso le radiazioni luminose molto dettagliatamente nel vol. 1. Siccome tutto ciò che è stato imparato in quell’occasione si applica a qualsiasi onda elettromagnetica, non abbiamo bisogno di considerare qui molto dettagliatamente il comportamento di queste onde. Saranno tuttavia opportune alcune ulteriori osservazioni sul problema della polarizzazione delle onde elettromagnetiche. Nel risolvere le equazioni si scelse di considerare il caso particolare in cui il campo elettrico ha soltanto la componente y. È chiaro che c’è un’altra soluzione per le
x
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Capitolo 20 • Soluzioni delle equazioni di Maxwell nello spazio libero
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onde che si propagano nella direzione x positiva o negativa, in cui il campo elettrico ha soltanto la componente z. Siccome le equazioni di Maxwell sono lineari, la soluzione generale per le onde unidimensionali propagantesi nella direzione x è la somma di onde di Ey e onde di Ez . Questa soluzione generale è riassunta nelle seguenti equazioni E = (0, Ey, Ez ) Ey = f (x
ct) + g(x + ct)
Ez = F(x
ct) + G(x + ct)
B = (0, By, Bz ) cBz = f (x
ct)
cBy = F(x
(20.25)
g(x + ct)
ct) + G(x + ct)
Tali onde elettromagnetiche hanno un vettore E la cui direzione non è costante ma ruota in maniera arbitraria nel piano yz. In ogni punto il campo magnetico è sempre perpendicolare al campo elettrico e alla direzione di propagazione. Se ci sono soltanto onde che si propagano in una sola direzione, mettiamo che sia la direzione positiva dell’asse x, c’è una regola semplice che ci dà l’orientamento relativo dei campi elettrico e magnetico. La regola è che il prodotto vettoriale E ⇥ B – che è naturalmente un vettore perpendicolare tanto a E quanto a B – punta nella direzione in cui l’onda si propaga. Se per mezzo di una vite destra si ruota E fino a coincidere con B, la vite punta nella direzione della velocità delle onde. (Vedremo più avanti che il vettore E ⇥ B ha uno speciale significato fisico: esso è il vettore che descrive il flusso d’energia in un campo elettromagnetico.)
20.2
Onde tridimensionali
Vogliamo ora rivolgerci all’argomento delle onde tridimensionali. S’è già visto che il vettore E soddisfa l’equazione delle onde. È facile arrivare alla stessa conclusione anche ragionando direttamente a partire dalle equazioni di Maxwell. Partiamo per esempio dall’equazione r⇥E =
@B @t
e prendiamo il rotore dei due membri. Avremo r ⇥ (r ⇥ E) =
@ (r ⇥ B) @t
(20.26)
Ricorderete che il rotore del rotore di un vettore qualunque si può scrivere come la somma di due termini, uno riguardante la divergenza e l’altro il laplaciano: r ⇥ (r ⇥ E) = r (r · E)
r2 E
Nello spazio libero però la divergenza di E è zero, perciò resta soltanto il termine col laplaciano. Inoltre, secondo la quarta equazione di Maxwell per lo spazio libero, l’equazione (20.12d), la derivata temporale di c2 r ⇥ B uguaglia la derivata seconda di E rispetto a t: c2
@ @2 E (r ⇥ B) = @t @t 2
L’equazione (20.26) diventa quindi r2 E =
1 @2 E c2 @t 2
20.2 • Onde tridimensionali
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che è l’equazione delle onde tridimensionali. Scritta esplicitamente in tutta la sua gloria questa equazione è naturalmente @2 E @2 E @2 E + + @ x2 @ y2 @z 2
1 @2 E =0 c2 @t 2
(20.27)
Come si farà a trovare la soluzione generale di questa equazione? La risposta è che tutte le soluzioni dell’equazione delle onde tridimensionali possono venire rappresentate da una sovrapposizione delle soluzioni unidimensionali che abbiamo già trovato. Si ottenne l’equazione delle onde che si muovono nella direzione x supponendo che il campo non dipendesse da y e z. Ovviamente, ci sono altre soluzioni in cui i campi non dipendono da x e y che rappresentano onde che si propagano nella direzione z. Ossia, in generale, dato che abbiamo posto le equazioni in forma vettoriale, l’equazione delle onde tridimensionali ammetterà soluzioni che sono onde piane in moto in una direzione del tutto qualunque. Ancora, siccome le equazioni sono lineari, si potranno avere simultaneamente tante onde piane quante si vuole, propagantesi in altrettante direzioni diverse. Perciò la soluzione più generale dell’equazione tridimensionale delle onde è una sovrapposizione di onde piane di ogni tipo che si muovono in ogni sorta di direzioni. Proviamo a immaginare quali possano essere i campi elettrici e magnetici in questo momento, nello spazio di quest’aula. Prima di tutto c’è un campo magnetico costante; esso proviene da correnti nell’interno della Terra ed è il campo magnetico terrestre. Poi ci sono dei campi elettrici irregolari, quasi statici, prodotti, mettiamo, da cariche elettriche generate per sfregamento da persone che si girano sulla sedia e strofinano sui braccioli le maniche del vestito. Ci sono poi altri campi magnetici prodotti dalle correnti oscillanti dell’impianto elettrico; campi che variano alla frequenza di 60 cicli/s, in sincronismo col generatore della diga di Boulder. Più interessanti sono però i campi elettrici e magnetici che variano a frequenze molto più alte. Per esempio, quando la luce si propaga dalla finestra al pavimento e da parete a parete si tratta di piccole ondulazioni dei campi elettrici e magnetici che si spostano alla velocità di 300 000 km/s. Poi ci sono anche le onde infrarosse che dal tepore della fronte di un uomo raggiungono il freddo di una lavagna. E abbiamo dimenticato la luce ultravioletta, i raggi X e le radioonde che viaggiano attraverso l’aula. Attraverso questa passano onde elettromagnetiche che trasmettono la musica di una banda di jazz; altre onde sono modulate da una serie d’impulsi che rappresentano degli eventi che si stanno svolgendo in altre parti del mondo oppure rappresentano immaginarie aspirine che si sciolgono in stomachi immaginari. Per dimostrare la realtà di queste onde basta mettere in funzione le apparecchiature elettroniche che convertono queste onde in immagini e suoni. Se entriamo ancora più nei dettagli, fino ad analizzare le più piccole ondulazioni, troviamo minute onde elettromagnetiche che sono pervenute da distanze enormi. Ci sono minuscole oscillazioni del campo elettrico, le cui creste sono separate dalla distanza di trenta centimetri, che sono venute da milioni di kilometri di distanza, trasmesse alla Terra dalla sonda spaziale Mariner II che ha oltrepassato Venere. I suoi segnali convogliano compendi di informazioni che ha raccolto sui pianeti (informazioni ottenute da onde elettromagnetiche che hanno viaggiato dal pianeta alla sonda). Ci sono piccolissime ondulazioni dei campi elettrici e magnetici che sono onde originatesi a miliardi di anni luce di distanza da galassie che si trovano nelle parti più remote dell’universo. Che le cose stiano così lo si è trovato «riempiendo lo spazio di fili», cioè costruendo antenne grandi come quest’aula. Si sono scoperte radioonde di questo tipo provenienti da punti dello spazio di là dalla portata dei grandi telescopi ottici. Anche questi ultimi, i telescopi ottici, non sono che raccoglitori di onde elettromagnetiche. Gli oggetti che chiamiamo stelle sono soltanto delle deduzioni ricavate dall’unica realtà fisica che mai si sia ottenuta da loro: da uno studio preciso delle oscillazioni, infinitamente complesse, dei campi elettrici e magnetici che da loro giungono sulla Terra. Naturalmente c’è di più: campi prodotti da fulmini a kilometri di distanza, campi prodotti dalle particelle cariche dei raggi cosmici mentre sfrecciano attraverso l’aula e così via. Che cosa complicata è il campo elettrico nello spazio che ci circonda! E tuttavia esso soddisfa sempre l’equazione delle onde tridimensionali.
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260
Capitolo 20 • Soluzioni delle equazioni di Maxwell nello spazio libero
20.3
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L’immaginazione scientifica
Vi ho chiesto di immaginarvi questi campi elettrici e magnetici. Ma lo potete fare? E come? Come io stesso immagino il campo elettrico e magnetico? Cos’è ciò che effettivamente vedo? Cosa si richiede all’immaginazione scientifica? Non è quasi lo stesso che immaginare l’aula piena di angeli invisibili? No, non è lo stesso. Per capire il campo elettromagnetico occorre un livello d’immaginazione molto più elevato che per capire degli angeli invisibili. Come mai? Perché per rendere comprensibili degli angeli invisibili tutto quello che devo fare è alterare un pochino le loro proprietà: li rendo leggermente visibili e allora posso vedere la forma delle loro ali, dei loro corpi e delle loro aureole. Una volta che sono riuscito a immaginare un angelo visibile, l’astrazione richiesta – che è quella di partire da angeli quasi invisibili e immaginarseli completamente invisibili – è relativamente facile. Uno di voi potrebbe chiedermi: «Professore, per piacere, mi dia una descrizione approssimativa, magari un po’ inesatta, delle onde elettromagnetiche in modo che possa vederle almeno altrettanto bene quanto gli angeli quasi invisibili. Modificherò poi questa immagine per raggiungere la necessaria astrazione». Mi dispiace di non poter far questo per voi. Non saprei come farlo. Non possiedo alcuna immagine del campo elettromagnetico che sia precisa in alcun senso. Il campo elettromagnetico lo conosco da lungo tempo: 25 anni fa ero nella stessa situazione in cui voi vi trovate ora, sicché ho avuto 25 anni di esperienza in più nel pensare a queste onde serpentine. Quando prendo a descrivere il campo magnetico che si muove nello spazio e parlo dei campi E e B e accenno con le braccia a un moto ondulatorio, voi potete anche pensare che li vedo. Ciò che vedo ve lo dico subito: vedo vagamente una sorta di linee indistinte ondulanti; qua e là portano scritto in qualche modo una E o una B e forse qualcuna delle linee è munita di frecce: una freccia qui, una là che scompaiono quando le guardo troppo attentamente. Quando parlo di campi che saettano attraverso lo spazio c’è in me una terribile confusione fra i simboli che adopero per descrivere gli oggetti e gli oggetti stessi. Non posso davvero costruire un’immagine che nemmeno si avvicini a somigliare alle vere onde. Perciò se avete delle difficoltà a costruirvi una tale immagine non dovreste preoccuparvi di questa come di un’insolita difficoltà. La nostra scienza pone all’immaginazione delle esigenze straordinarie. Il grado d’immaginazione che si richiede è molto più spinto di quello richiesto per alcune delle vecchie idee. Le idee moderne sono molto più difficili da immaginare. E sì che per aiutarci adoperiamo una quantità di strumenti. Adoperiamo equazioni e regole matematiche e tracciamo una quantità di figure. Ora che ci penso, mi accorgo che quando parlo del campo elettromagnetico nello spazio, vedo una specie di sovrapposizione di tutti i diagrammi che ho visto disegnati in proposito. Non vedo fascetti di linee di forza che si rincorrono perché m’impensierisce il fatto che se mi muovessi a una diversa velocità tali fascetti sparirebbero. Nemmeno vedo sempre i campi elettrici e magnetici, perché a volte penso che dovrei costruirmi una rappresentazione fondata sui potenziali vettore e scalare, perché forse sono quelle le cose fisicamente più significative che stanno oscillando. Forse, direte, l’unica speranza è di tenersi a un punto di vista matematico. Ma un punto di vista matematico cos’è? Dal punto di vista matematico c’è un vettore campo elettrico e un vettore campo magnetico in ogni punto dello spazio; cioè ci sono sei numeri associati a ogni punto. Potete immaginare sei numeri associati a ciascun punto dello spazio? Troppo difficile. Potete immaginare anche un solo numero associato a ogni punto? Io non ci riesco! Posso immaginare una cosa come la temperatura in ogni punto dello spazio; questo sembra comprensibile: c’è uno stato di caldo o di freddo che varia da punto a punto. Sinceramente, però, non capisco l’idea di un numero in ogni punto. Perciò il problema dovrebbe essere posto così: possiamo rappresentare il campo elettrico mediante qualcosa che sia più simile a una temperatura, simile – mettiamo – allo spostamento in un blocco di gelatina? Supponiamo che si cominci con l’immaginare l’universo come riempito di una gelatina rarefatta e che i campi rappresentino delle distorsioni – diciamo stiramenti o torsioni – di questa gelatina. Allora i campi si potrebbero visualizzare. Dopo aver «visto» le cose come stanno, si potrebbe con uno sforzo di astrazione eliminare la gelatina. Questo è ciò che si tentò di fare per molti anni. Maxwell, Ampère, Faraday e altri tentarono di capire l’elettromagnetismo in questo modo. (A volte chiamavano «etere» quell’astratta gelatina.) Risultò però che il tentativo
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20.3 • L’immaginazione scientifica
261
d’immaginare il campo elettromagnetico in quel modo era in realtà un ostacolo sulla via del progresso. Ci dobbiamo disgraziatamente limitare a delle astrazioni, ad adoperare strumenti per rivelare il campo e simboli matematici per descriverlo ecc. Ciò nonostante, però, i campi sono in qualche modo reali, perché dopo che abbiamo finito di baloccarci con le equazioni matematiche, utilizzando oppure no figure e disegni per tentare di visualizzare le cose, possiamo sempre far rivelare ai nostri strumenti i segnali del Mariner II e ottenere delle informazioni su delle galassie lontane miliardi di kilometri e così via. L’intero problema dell’immaginazione nella scienza è spesso capito male da quelli che si occupano di altre discipline. Essi tentano di mettere alla prova la nostra immaginazione nel modo seguente. Essi dicono: «Ecco una figura che rappresenta certe persone in una certa situazione: cosa pensate che accadrà in seguito?». Quando rispondiamo: «Non saprei immaginarlo» essi possono pensare che abbiamo un’immaginazione debole. Essi trascurano il fatto che tutto quello che ci possiamo permettere di immaginare nella scienza deve essere compatibile con tutto il resto che conosciamo; che i campi elettrici e le onde di cui stiamo parlando non sono felici trovate che possiamo formulare a piacer nostro, ma idee che devono essere coerenti con tutte le leggi della fisica che conosciamo. Non possiamo permetterci d’immaginare seriamente cose che sono ovviamente in contraddizione con leggi note della natura. Perciò il nostro tipo d’immaginazione rappresenta un gioco molto difficile. Si deve avere l’immaginazione di pensare a qualcosa che non è mai stato visto prima e di cui mai si è sentito parlare. Nello stesso tempo i pensieri sono per così dire costretti in una camicia di forza, limitati dalle condizioni che derivano dalla conoscenza di come la natura realmente è. Il problema di creare qualcosa che è nuovo, ma che è coerente con tutto ciò che è stato visto prima, è di un’estrema difficoltà. Giacché mi trovo a parlare di questo argomento, desidero discutere se mai sia possibile immaginare una bellezza che non si può vedere. È un problema interessante. Quando si guarda un arcobaleno esso ci sembra bello. Tutti dicono: «Oh! c’è l’arcobaleno». (Vedete come sono scientifico: avrei timore di dire che qualcosa è bello senza avere un modo sperimentale di definirlo.) Ma come si potrebbe descrivere un arcobaleno se fossimo ciechi? Siamo ciechi quando misuriamo il coefficiente di riflessione del cloruro di sodio nell’infrarosso, oppure quando discutiamo della frequenza delle onde che ci arrivano da qualche galassia che non possiamo vedere; facciamo allora dei diagrammi, tracciamo dei grafici. Per l’arcobaleno, per esempio, un grafico adatto sarebbe quello dell’inIntensità tensità della radiazione in rapporto con la lunghezza d’onda, misurato per ogni direzione del cielo con uno spettrofotometro. In generale tali misure darebbero una curva piuttosto piatta. Poi un bel giorno qualcuno scoprirebbe che in certe condizioni atmosferiche e per certe direzioni del cielo, lo spettro dell’intensità in funzione della lunghezza d’onda si comporta in modo strano, cioè mostra una gobba. Variando anche di poco l’angolo dello strumento, il massimo della gobba si sposta da una lunghezza d’onda a un’altra. Allora la rivista di fisica dei cieli pubblicherebbe un giorno FIGURA 20.5 L’intensità delle onde elettromagnetiche un articolo tecnico del titolo «L’intensità della radiazione in funzione del- come funzione della lunghezza d’onda per tre angoli l’angolo sotto certe condizioni atmosferiche». In questo articolo potrebbe (misurati dalla direzione opposta al sole) come si apparire un grafico simile a quello della FIGURA 20.5. L’autore noterebbe osserva soltanto in certe condizioni meteorologiche. forse che ad angoli più grandi c’è più radiazione alle lunghezze d’onda grandi, mentre a piccoli angoli il massimo della radiazione si presenta a lunghezze d’onda più corte. (Dal nostro punto di vista noi diremmo che la luce a 40° è prevalentemente verde e la luce a 42° è prevalentemente rossa.) Ora, ci sembra bello il grafico della FIGURA 20.5? Esso contiene molti più dettagli di quello che possiamo percepire guardando l’arcobaleno, perché i nostri occhi non possono vedere i dettagli precisi della forma dello spettro. L’occhio tuttavia trova che l’arcobaleno è bello. Abbiamo abbastanza immaginazione per vedere nelle curve spettrali la stessa bellezza che vediamo guardando l’arcobaleno direttamente? Non lo so. Ma supponiamo che io abbia un grafico del coefficiente di riflessione nell’infrarosso di un cristallo di cloruro di sodio, in funzione della lunghezza d’onda, e anche dell’angolo. Avrei una rappresentazione di come apparirebbe ai miei occhi se essi potessero vedere l’infrarosso: forse un brillante bagliore «verde» misto con riflessi superficiali di un «rosso metallico». Ciò sarebbe
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Capitolo 20 • Soluzioni delle equazioni di Maxwell nello spazio libero
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molto bello, ma non so se mi sarà mai possibile guardare un grafico del coefficiente di riflessione di NaCl ottenuto da qualche strumento e dire che esso possiede la stessa bellezza. D’altra parte, anche se non possiamo vedere alcuna bellezza nei risultati particolari di certe misure, possiamo affermare di vedere una certa bellezza nelle equazioni che descrivono delle leggi fisiche generali. Per esempio nell’equazione delle onde (20.9) c’è qualcosa di gradevole nella regolarità con la quale vi compaiono x, y, z e t. E questa gradevole simmetria nell’occorrenza di x, y, z e t suggerisce alla mente una bellezza anche più elevata che si riferisce alle quattro dimensioni, cioè suggerisce la possibilità che lo spazio abbia una simmetria quadridimensionale, la possibilità di analizzare questa nozione e gli sviluppi della teoria speciale della relatività. Perciò associata a queste equazioni c’è una straordinaria bellezza intellettuale.
20.4
Onde sferiche
S’è visto che ci sono soluzioni delle equazioni delle onde che corrispondono a onde piane e che qualsiasi onda elettromagnetica può essere descritta come una sovrapposizione di molte onde piane. In certi casi speciali, però, è più conveniente descrivere il campo d’onda in una forma matematica diversa. Desideriamo ora discutere la teoria delle onde sferiche, onde che corrispondono a delle superfici sferiche che si dilatano a partire da un centro. Quando si butta un sasso in un lago, le increspature si spargono intorno formando delle onde circolari sulla superficie: si tratta di onde bidimensionali. Un’onda sferica è una cosa analoga, salvo che si diffonde in tre dimensioni. Prima di cominciare a descrivere le onde sferiche ci occorre un po’ di matematica, Supponiamo d’avere una funzione che dipende soltanto dalla distanza radiale da una certa origine: in altre parole, una funzione che ha simmetria sferica. Chiamiamo questa funzione (r), dove per r si intende q x2 + y2 + z2
r=
cioè la distanza radiale dall’origine. Per poter trovare quali funzioni (r) soddisfano l’equazione delle onde, ci occorre un’espressione per il laplaciano di . Ossia dobbiamo trovare la somma delle derivate seconde di rispetto a x, y e z. Useremo la notazione 0(r) per rappresentare la derivata di rispetto a r e 00(r) per la derivata seconda di rispetto a r. Cominciamo col trovare le derivate rispetto a x. La derivata prima è @ (r) = @x La derivata seconda di
0
@r @x
(r)
rispetto a x è @2 = @ x2
@r @x
00
!2
+
@ 2r @ x2
0
Possiamo prendere le derivate parziali di r rispetto a x dalle formule @r x = @x r
Perciò la derivata seconda di
@ 2r 1 = *1 2 r, @x
rispetto a x è @2 x2 = @ x2 r2
00
+
x2 + r2 -
1* 1 r,
x2 + r2 -
0
(20.28)
20.4 • Onde sferiche
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Similmente si ha @2 y2 = 2 2 @y r
00
+
@2 z2 = @z 2 r2
00
+
1* 1 r,
y2 + r2 -
1* 1 r,
z2 + r2 -
0
(20.29)
0
(20.30)
Il laplaciano è la somma di queste derivate. Ricordando che x2 + y2 + z2 = r 2 otteniamo r2 (r) =
00
(r) +
2 r
0
(r)
(20.31)
È spesso più comodo scrivere queste equazione nella forma seguente: r2 (r) =
1 d2 (r ) r dr 2
(20.32)
Eseguendo la derivazione indicata in questa equazione vi accorgerete che il secondo membro è lo stesso della (20.31). Se vogliamo considerare campi a simmetria sferica che si propagano come onde sferiche la nostra grandezza di campo deve essere funzione sia di r sia di t. Supponiamo dunque di domandarci quali sono le soluzioni dell’equazione d’onda tridimensionale 1 @2 c2 @t 2
r2 (r, t)
(r, t) = 0
(20.33)
Siccome (r, t) dipende dalle coordinate spaziali solo attraverso r, possiamo adoperare per il laplaciano l’equazione (20.32) trovata sopra. Per essere precisi, però, siccome è anche funzione di t, dovremo scrivere le derivate rispetto a r come derivate parziali. Perciò l’equazione d’onda diventa 1 @2 1 @2 (r ) =0 r @r 2 c2 @t 2 Dobbiamo ora risolvere questa equazione che sembra molto più complicata del caso delle onde piane. Notiamo però che se moltiplichiamo l’equazione per r otteniamo @2 (r ) @r 2
1 @2 (r ) = 0 c2 @t 2
(20.34)
Questa equazione ci dice che la funzione r soddisfa l’equazione delle onde unidimensionali nella variabile r. Usando il principio generale che abbiamo così spesso messo in rilievo, cioè che equazioni identiche hanno sempre soluzioni identiche, sappiamo che se r è funzione soltanto di r ct, allora sarà soluzione dell’equazione (20.34). Sappiamo perciò che le onde sferiche devono avere la forma r (r, t) = f (r ct) Oppure, come abbiamo già visto, possiamo dire in modo analogo che r può avere la forma r
= f (t
r/c)
Dividendo per r, troviamo che la grandezza di campo (qualunque essa sia) ha la forma seguente: =
f (t
r/c) r
(20.35)
Una tale funzione rappresenta un’onda sferica generica che si propaga allontanandosi dall’origine con la velocità c. Se ci dimentichiamo per un momento della r nel denominatore, l’ampiezza
263
264
Capitolo 20 • Soluzioni delle equazioni di Maxwell nello spazio libero
20.6 Un’onda sferica = f (t r/c)/r. (a) come funzione di r per t = t 1 e la stessa onda a un istante ulteriore t 2 . (b) come funzione di t per r = r 1 e la stessa onda vista in r 2 .
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FIGURA
(a)
f (t – r /c)
(b)
r f (t – r /c) r
1/r
t1
r1 v = c
0
r1
t2 c (t2 – t1)
r2 r2
r
0
t1
t2
t
dell’onda come funzione della distanza dall’origine a un dato istante ha una certa forma che si allontana dall’origine con la velocità c. Il fattore r nel denominatore, però, dice che l’ampiezza dell’onda decresce in proporzione a 1/r mentre l’onda si propaga. In altre parole, a differenza di un’onda piana in cui l’ampiezza resta costante mentre l’onda si propaga, in un’onda sferica l’ampiezza decresce continuamente, come mostra la FIGURA 20.6. Questo effetto è facile da capire in base a un semplice ragionamento fisico. Sappiamo che la densità d’energia in un’onda dipende dal quadrato dell’ampiezza dell’onda. Mentre l’onda si diffonde, la sua energia si sparge su aree sempre più vaste, proporzionali al quadrato della distanza radiale. Se l’energia totale si conserva, la densità d’energia deve calare come 1/r 2 e l’ampiezza d’onda deve decrescere come 1/r. Perciò l’equazione (20.35) ha una forma che è «ragionevole» per un’onda sferica. Abbiamo trascurato un’altra possibile soluzione dell’equazione delle onde unidimensionali: r
= g(t + r/c)
ossia
g(t + r/c) r Anche questa rappresenta un’onda sferica che però si propaga in dentro, da valori grandi di r verso l’origine. Faremo ora un’ipotesi particolare. Affermeremo, senza l’ombra di una dimostrazione, che le onde generate da una sorgente sono solo quelle che si propagano in fuori. Siccome sappiamo che le onde sono prodotte dal moto di cariche, vogliamo pensare che le onde emanino dalle cariche. Sarebbe piuttosto strano pensare che prima che le cariche si mettessero in moto, un’onda sferica si sia messa in moto da una distanza infinita per arrivare alle cariche proprio nel momento in cui cominciano a muoversi. È questa una soluzione possibile, ma l’esperienza mostra che quando delle cariche vengono accelerate le onde emanano dalle cariche. Benché le equazioni di Maxwell permettano l’una e l’altra possibilità, introdurremo un fatto supplementare – fondato sull’esperienza – e cioè che solo la soluzione corrispondente a un’onda che si allontana possiede un «significato fisico». Si deve notare, però, che questa ipotesi supplementare ha un’interessante conseguenza: quella di eliminare la simmetria rispetto al tempo che esiste nelle equazioni di Maxwell. Le originarie equazioni per E e B, e anche le equazioni delle onde che sono state dedotte da quelle, hanno la proprietà che se si cambia il segno di t le equazioni restano inalterate. Queste equazioni dicono che per ogni soluzione corrispondente a un’onda che procede in una direzione c’è una soluzione ugualmente valida per un’onda che viaggia nella direzione opposta. La nostra affermazione che considereremo soltanto le onde uscenti è un’ipotesi supplementare importante. (Una formulazione dell’elettrodinamica nella quale questa ipotesi è evitata è stata studiata accuratamente. È sorprendente che in molte circostanze essa non conduce a conclusioni fisicamente assurde, ma il discutere ora queste idee ci porterebbe troppo fuori strada. Ne parleremo un po’ più a lungo nel capitolo 28.) =
20.4 • Onde sferiche
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Dobbiamo accennare a un altro punto importante. Con la nostra soluzione per un’onda uscente, equazione (20.35), la funzione diventa infinita nell’origine. Questo è un po’ singolare, perché ci piacerebbe avere una soluzione che si comporta in modo «uniforme» dappertutto. La nostra soluzione deve rappresentare fisicamente una situazione in cui c’è una certa sorgente nell’origine. In altre parole abbiamo fatto senza accorgercene un errore. Non abbiamo risolto l’equazione delle onde libere (20.33) dappertutto; abbiamo risolto l’equazione (20.33) con uno zero al secondo membro dappertutto eccetto che all’origine. Il nostro errore si è introdotto perché alcuni passi nella nostra deduzione non sono «legittimi» quando è r = 0. Facciamo vedere che è facile fare lo stesso tipo di sbaglio in un problema di elettrostatica. Supponiamo di volere una soluzione dell’equazione del potenziale elettrostatico nello spazio libero, cioè r2 = 0. Il laplaciano è uguale a zero perché si è supposto che non ci sono cariche in alcun luogo. Ma cosa si può dire di una soluzione a simmetria sferica di questa equazione, cioè data da una funzione che dipende soltanto da r? Utilizzando la formula dell’equazione (20.32) per il laplaciano abbiamo 1 d2 (r ) = 0 r dr 2 Moltiplicando questa equazione per r abbiamo un’equazione che si integra facilmente: d2 (r ) = 0 dr 2 Se si integra una volta rispetto a r, si trova che la derivata prima di r è una costante che possiamo chiamare a: d (r ) = a dr Integrando di nuovo, troviamo che r è della forma r = ar + b dove b è un’altra costante d’integrazione. Perciò abbiamo trovato che il seguente è una soluzione del potenziale elettrostatico nello spazio libero: =a+
b r
Qualcosa è evidentemente sbagliato. Nella regione in cui non ci sono cariche elettriche, conosciamo la soluzione per il potenziale elettrostatico: questo potenziale è dappertutto costante. Questo corrisponde al primo termine della nostra soluzione. Abbiamo però anche il secondo termine che dice esserci un contributo al potenziale che varia come l’inverso della distanza dall’origine. Sappiamo però che un simile potenziale corrisponde a una carica puntiforme nell’origine. Perciò, benché credessimo di risolvere per il potenziale nello spazio libero, la nostra soluzione ci dà anche il campo di una carica puntiforme nell’origine. Afferrate la somiglianza fra quello che succede ora e quello che è successo quando abbiamo cercato una soluzione a simmetria sferica dell’equazione delle onde? Se realmente non ci fossero né cariche né correnti nell’origine, non ci sarebbero onde uscenti sferiche. Le onde sferiche devono naturalmente essere prodotte da sorgenti nell’origine. Nel prossimo capitolo studieremo la connessione fra le onde elettromagnetiche uscenti e le correnti e i potenziali che le producono.
265
21
Soluzioni delle equazioni di Maxwell in presenza di correnti e cariche 21.1
Ripasso: vol. 1, cap. 28, Radiazione elettromagnetica cap. 31, L’origine dell’indice di rifrazione cap. 34, Effetti relativistici nella radiazione
La luce e le onde elettromagnetiche
Si è visto nel capitolo precedente che fra le loro soluzioni le equazioni di Maxwell ammettono delle onde di elettricità e magnetismo. Queste onde corrispondono a onde radio, luce, raggi X e così via a seconda della lunghezza d’onda. La luce l’abbiamo già studiata molto dettagliatamente nel volume 1; in questo capitolo vogliamo collegare i due argomenti, cioè vogliamo far vedere che le equazioni di Maxwell possono veramente formare la base della nostra precedente trattazione dei fenomeni della luce. Quando è stata studiata la luce, abbiamo cominciato con lo scrivere le equazioni per il campo elettrico e magnetico prodotto da una carica quando si muove in modo arbitrario. Tali equazioni erano (vedi le equazioni (28.3) e (28.4) del vol. 1): " ! # q er 0 r 0 d er 0 1 d2 + + 2 2 er 0 (21.1) E= 4⇡✏ 0 r 02 c dt r 02 c dt e cB = er 0 ⇥ E
Come già spiegato in precedenza, qui i segni sono negativi rispetto alle vecchie equazioni. Se una carica si muove in modo arbitrario il campo elettrico che troviamo ora in un certo punto dipende soltanto dalla posizione e dal moto della carica non ora, ma a un tempo precedente: a un istante che è anteriore al (1) presente di tanto tempo quanto ci vuole alla luce, muovendosi alla velocità r' er' q c, per percorrere la distanza r 0 dalla carica al punto dove si considera il (2' ) r v campo. In altre parole, se vogliamo il campo elettrico nel punto (1) all’iPosizione a stante t, dobbiamo calcolare la posizione (20) della carica e il suo moto q t – r' /c (2) all’istante t r 0/c, dove r 0 è la distanza che va dalla posizione (20) della carica all’istante t r 0/c al punto (1). L’apice sta a ricordarvi che r 0 è la Posizione a t cosiddetta «distanza ritardata» dal punto (20) al punto (1) e non la distanza effettiva fra il punto (2), la posizione della carica all’istante t, e il punto (1) dove si calcola il campo (FIGURA 21.1). Notate che qui si è usata una FIGURA 21.1 I campi nel punto (1) al tempo t dipendono dalla posizione (20 ) occupata dalla carica q convenzione diversa per la direzione del versore er . Nei capitoli 28 e 34 al tempo t r 0 /c. del vol. 1 era comodo prendere r (e quindi er ) diretti verso la sorgente. Ora seguiamo la definizione che si scelse per la legge di Coulomb, in cui r si dirige dalla carica, che si trova in (2), verso il punto (l). La sola differenza, naturalmente, è che i nuovi r (ed er ) sono quelli di prima cambiati di segno. Abbiamo anche visto che se la velocità di una carica è sempre molto minore di c, e se si considerano soltanto punti a grande distanza dalla carica, così che solo l’ultimo termine dell’equazione (21.1) è importante, i campi si possono anche scrivere nel modo seguente: " # q accelerazione della carica al tempo t r 0/c E= (21.10) 0 4⇡✏ 0 c2 r 0 proiettata perpendicolarmente a r e cB = er 0 ⇥ E
21.2 • Onde sferiche generate da una sorgente puntiforme
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Esaminiamo un po’ più in dettaglio ciò che dice l’equazione completa (21.1). Il vettore er 0 è il versore che va dalla posizione ritardata (20) al punto (1). Il primo termine è perciò quello che ci si aspetterebbe per il campo di Coulomb della carica nella sua posizione ritardata: lo possiamo chiamare «campo coulombiano ritardato». Questo campo elettrico dipende dall’inverso del quadrato della distanza ed emana dalla posizione ritardata della carica (cioè è diretto come il vettore er 0 ). Questo però è soltanto il primo termine. Gli altri termini ci fanno sapere che le leggi dell’elettricità non dicono che i campi sono gli stessi di quelli statici ma soltanto che sono ritardati (come a qualcuno piace qualche volta dire). Al «campo coulombiano ritardato» dobbiamo aggiungere gli altri due termini. Il secondo termine dice che c’è una «correzione» al campo coulombiano ritardato che è data dalla variazione per unità di tempo del campo coulombiano ritardato moltiplicata per il ritardo r 0/c. In un certo senso questo termine tende a compensare il ritardo del primo termine. I primi due termini corrispondono a calcolare il «campo coulombiano ritardato» e poi estrapolarlo verso il futuro nell’intervallo r 0/c, cioè proprio fino al tempo t! L’estrapolazione è lineare, come se si supponesse che il «campo coulombiano ritardato» continuasse a variare col ritmo che si è calcolato quando la carica era in (20). Se il campo varia lentamente, l’effetto del ritardo è quasi completamente eliminato dal termine di correzione e i due termini insieme ci danno – con un’approssimazione molto buona – un campo elettrico che è il «campo coulombiano istantaneo», cioè il campo coulombiano della carica nel punto (2). Infine c’è nell’equazione (21.1) un terzo termine che è la derivata seconda del versore er 0 . Nel nostro studio dei fenomeni della luce, si è fatto uso del fatto che molto lontano dalla carica i primi due termini vanno come l’inverso del quadrato della distanza e per distanze grandi diventano molto piccoli in confronto all’ultimo termine che decresce come 1/r. Perciò ci si è concentrati interamente sull’ultimo termine e si è mostrato che esso (sempre per grandi distanze) è proporzionale alla componente dell’accelerazione della carica perpendicolarmente alla linea visuale. (Inoltre, per la maggior parte del nostro studio nel vol. 1, è stato considerato il caso in cui le cariche si muovono non relativisticamente. Gli effetti relativistici sono stati considerati solo in un capitolo, il cap. 34.) Vorremo ora provare a collegare le due cose: abbiamo le equazioni di Maxwell e abbiamo l’equazione (21.1) per il campo di una carica puntiforme. Certamente, ci dobbiamo domandare se sono equivalenti. Se possiamo dedurre l’equazione (21.1) dalle equazioni di Maxwell avremo realmente capito la connessione fra la luce e l’elettromagnetismo. Fare questo collegamento è lo scopo principale di questo capitolo. Risulterà che non ci arriveremo del tutto, perché gli sviluppi matematici diventano troppo complicati per poterli portare in fondo in tutti i loro ostici dettagli. Ci arriveremo però abbastanza vicini, in modo che dovreste facilmente vedere come il collegamento potrebbe essere compiuto. Le parti mancanti si riferiranno solo a dettagli matematici. Alcuni di voi potranno trovare che la matematica di questo capitolo è piuttosto complicata e potreste anche non desiderare di seguire il ragionamento molto da vicino. Tuttavia pensiamo che sia importante fare il collegamento fra ciò che avete imparato prima e ciò che state imparando ora, o per lo meno indicare come tale collegamento può esser fatto. Se guardate ai capitoli precedenti vi accorgerete che ogni volta che si è accettata un’affermazione come punto di partenza di una discussione, abbiamo diligentemente spiegato se si trattava di una nuova «ipotesi», cioè di una «legge fondamentale», o se si poteva dedurla, in definitiva, da qualche altra legge. Nello spirito di queste lezioni è dunque una cosa che vi è dovuta quella di stabilire il collegamento fra la luce e le equazioni di Maxwell. Se in certi punti il compito diventerà difficile, ebbene, questa è la vita, non c’è altra strada.
21.2
Onde sferiche generate da una sorgente puntiforme
Nel capitolo 18 abbiamo visto che le equazioni di Maxwell si possono risolvere ponendo E= r e
@A @t
(21.2)
267
268
Capitolo 21 • Soluzioni delle equazioni di Maxwell in presenza di correnti e cariche
(21.3)
B =r⇥ A dove
e
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e A devono essere soluzioni delle equazioni r2
1 @2 = c2 @t 2
⇢ ✏0
(21.4)
r2 A
1 @2 A = c2 @t 2
j ✏ 0 c2
(21.5)
e devono inoltre soddisfare la condizione r· A=
1 @ c2 @t
(21.6)
Vogliamo ora trovare la soluzione delle equazioni (21.4) e (21.5). Per far questo dobbiamo trovare la soluzione dell’equazione 1 @2 r2 = s (21.7) c2 @t 2 dove s, che chiameremo sorgente, è conosciuta. Naturalmente s corrisponde a ⇢/✏ 0 e corrisponde a per l’equazione (21.4), oppure s è j x /✏ 0 c2 se è Ax ecc., ma noi vogliamo risolvere l’equazione (21.7) come un problema matematico, quali che siano fisicamente e s. Nei punti dove ⇢ e j sono zero, cioè in ciò che abbiamo chiamato lo spazio «libero», i potenziali e A e i campi E e B soddisfano tutti l’equazione delle onde tridimensionali in assenza di sorgenti, la cui forma matematica è r2
1 @2 =0 c2 @t 2
(21.8)
Nel capitolo 20 si è visto che le soluzioni di questa equazione possono rappresentare onde di vario genere: onde piane nella direzione x, = f (t x/c); onde piane nella direzione y oppure z, o in qualsiasi altra direzione; oppure onde sferiche della forma (x, y, z, t) =
f (t
r/c) r
(21.9)
(Le soluzioni possono essere scritte anche in altri modi, per esempio onde cilindriche che emanano da un certo asse.) Si è anche notato che, fisicamente, l’equazione (21.9) non rappresenta un’onda nello spazio libero: ci devono essere delle cariche nell’origine per dare inizio all’onda uscente. In altre parole, l’equazione (21.9) è soluzione dell’equazione (21.8) dovunque, eccetto che nell’immediata vicinanza di r = 0, dove deve essere soluzione dell’equazione completa (21.7) includente una qualche sorgente. Andiamo a vedere come stanno le cose. Che tipo di sorgente s nell’equazione (21.7) darebbe origine a un’onda del tipo dell’equazione (21.9)? Mettiamo di avere l’onda sferica (21.9) e vediamo quello che succede per un r molto piccolo. Il ritardo r/c può allora essere trascurato nel calcolare f (t r/c), purché f sia una funzione ad andamento uniforme, e diventa =
f (t) r
(r ! 0)
(21.10)
Perciò è simile al campo coulombiano di una carica posta nell’origine e variabile col tempo. Cioè, se si avesse un grumetto di carica con densità ⇢, limitato a una regione molto piccola vicino all’origine, sappiamo che si avrebbe 1 Q = r 4⇡✏ 0 essendo ⌅ Q= ⇢ dV
21.3 • La soluzione generale delle equazioni di Maxwell
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Sappiamo però che un simile potenziale
soddisfa l’equazione ⇢ ✏0
r2 = In base alla medesima matematica si può dire che r2 = s
nell’equazione (21.10) soddisfa (r ! 0)
(21.11)
dove s è legato a f dall’equazione f = con S=
⌅
S 4⇡ s dV
La sola differenza è che nel caso generale, s, e perciò S, può essere funzione del tempo. Ora la cosa importante è che se soddisfa l’equazione (21.11) per piccoli valori di r, esso soddisfa anche la (21.7). Andando molto vicino all’origine, la dipendenza in 1/r di fa sì che le derivate spaziali diventino molto grandi, ma le derivate temporali conservino gli stessi valori. – Esse non sono che le derivate di f (t). – Perciò quando r va a zero, il termine @ 2 /@t 2 nell’equazione (21.7) può essere trascurato in confronto a r2 e l’equazione (21.7) diventa equivalente all’equazione (21.11). Dunque, riassumendo, se la funzione sorgente s(t) dell’equazione (21.7) è localizzata nell’origine e ha l’intensità totale ⌅ S(t) =
s(t) dV
(21.12)
la soluzione dell’equazione (21.7) è (x, y, z, t) =
1 S(t r/c) 4⇡ r
(21.13)
L’unico effetto del termine @ 2 /@t 2 nell’equazione (21.7) è quello di introdurre il ritardo t nel potenziale coulombiano.
21.3
r/c
La soluzione generale delle equazioni di Maxwell
Abbiamo trovato la soluzione dell’equazione (21.7) per una sorgente «puntiforme». Il problema successivo è: qual è la soluzione per una sorgente estesa? Questo è un problema facile: possiamo pensare qualsiasi sorgente s(x, y, z, t) come costituita dalla somma di tante sorgenti «puntiformi», una per ogni elemento di volume dV e ciascuna con l’intensità s(x, y, z, t) dV . Siccome l’equazione (21.7) è lineare, il campo risultante è la sovrapposizione dei campi prodotti da tutti questi elementi di sorgente. Utilizzando i risultati del paragrafo precedente, equazione (21.13), sappiamo che il campo d nel punto (x 1, y1, z1 ) – abbreviato in (1) – all’istante t, dovuto all’elemento di sorgente s dV che si trova nel punto (x 2, y2, z2 ) – abbreviato in (2) – è dato da d (1, t) =
s(2, t r 12 /c) dV2 4⇡r 12
dove r 12 è la distanza da (2) a (1). Sommare i contributi dovuti a tutti gli elementi della sorgente, vuol dire naturalmente integrare su tutte le regioni dove è s , 0; perciò abbiamo ⌅ s(2, t r 12 /c) (1, t) = dV2 (21.14) 4⇡r 12
269
270
Capitolo 21 • Soluzioni delle equazioni di Maxwell in presenza di correnti e cariche
TABELLA
21.1
Equazioni di Maxwell e loro soluzioni.
Equazioni di Maxwell
r·E =
⇢ ✏0
r⇥E =
Soluzioni
@A @t
E= r @B @t
r·B=0 c2 r
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j @E ⇥B= + ✏0 @t
B =r⇥ A (1, t) = A(1, t) =
⌅
⇢(2, t r 12 /c) dV2 4⇡✏ 0 r 12
⌅
j(2, t r 12 /c) dV2 4⇡✏ 0 c2 r 12
Cioè il campo in (1) al tempo t è la somma di tutte le onde sferiche che si staccano dagli elementi della sorgente (punti (2)) agli istanti t r 12 /c. Questa è la soluzione dell’equazione d’onda per una distribuzione qualunque di sorgenti. Vediamo ora come si possa ottenere una soluzione generale delle equazioni di Maxwell. Se con intendiamo il potenziale scalare , la funzione sorgente s diventa ⇢/✏ 0 ; oppure possiamo pensare che rappresenti una qualunque delle tre componenti del potenziale vettore A, sostituendo s con la corrispondente componente di j/✏ 0 c2 . Perciò, se conosciamo la densità di carica ⇢(x, y, z, t) e la densità di corrente j(x, y, z, t) dovunque, possiamo immediatamente scrivere le soluzioni delle equazioni (21.4) e (21.5). Esse sono ⌅ ⇢(2, t r 12 /c) (1, t) = dV2 (21.15) 4⇡✏ 0 r 12 e ⌅ j(2, t r 12 /c) A(1, t) = dV2 (21.16) 4⇡✏ 0 c2 r 12 I campi E e B possono poi essere trovati derivando i potenziali, usando le equazione (21.2) e (21.3). (Incidentalmente, è possibile verificare che e A ottenuti dalle equazioni (21.15) e (21.16) soddisfano effettivamente l’uguaglianza (21.6).) Abbiamo risolto le equazioni di Maxwell. Date le correnti e le cariche in qualsiasi circostanza, dagli integrali precedenti possiamo trovare direttamente i potenziali e poi derivare per ottenere i campi. Perciò abbiamo concluso la teoria di Maxwell. Questo ci permette inoltre di chiudere l’anello con la nostra precedente teoria della luce, perché per collegarsi a quella precedente trattazione occorre soltanto calcolare il campo elettrico di una carica in moto. Tutto quello che resta da fare è prendere una carica in moto, calcolare i potenziali dagli integrali ora visti e poi derivare per trovare E da r @ A/@t. Si dovrebbe ottenere l’equazione (21.1). Risulta che ci vuole un’enormità di lavoro, ma il principio è questo. Qui dunque è il centro dell’universo dell’elettromagnetismo: la teoria completa dell’elettricità e del magnetismo, e della luce; una descrizione completa dei campi prodotti da qualsiasi carica in moto; e più ancora. È tutto qui. Questa è la struttura costruita da Maxwell, completa, in tutta la sua potenza e bellezza. È probabilmente una delle più grandi imprese della fisica. Perché vi ricordiate della sua importanza, raccogliamo le formule, tutte insieme, nella TABELLA 21.1.
21.4
I campi generati da un dipolo oscillante
Non abbiamo ancora mantenuto la promessa di derivare l’equazione (21.1) per il campo elettrico di una carica puntiforme in moto. Anche con i risultati che abbiamo già ottenuto tale derivazione
271
21.4 • I campi generati da un dipolo oscillante
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è piuttosto complicata. Non abbiamo trovato l’equazione (21.1) in alcuna parte della letteratura pubblicata, eccetto che nel vol. 1 di queste lezioni(1) , perciò potete capire che non è facile a ottenersi. (I campi di una carica in moto sono stati scritti in molte altre forme che sono naturalmente equivalenti.) Qui ci dovremo limitare semplicemente a mostrare su qualche esempio che le equazione (21.15) e (21.16) danno gli stessi risultati dell’equazione (21.1). In primo luogo mostreremo che l’equazione (21.1) dà i campi corretti, con la sola limitazione che il moto della particella carica non sia relativistico. (Questo solo caso speciale rende conto del 90%, o più, di ciò che si disse sulla luce.) Consideriamo una situazione in cui si ha un grumetto di carica che si muove in qualche modo in una piccola regione e si vogliono trovare i campi a grande distanza. Detto altrimenti, stiamo cercando il campo a una distanza generica da una carica puntiforme che oscilla su e giù con un moto molto minuto. Siccome la luce è ordinariamente emessa da oggetti neutri, come gli atomi, ammetteremo che la carica ondulante q si trovi vicino a una carica uguale e opposta, in quiete. Se la separazione fra i centri delle cariche è d, le cariche avranno un momento dipolare p = qd, che pensiamo sia una funzione del tempo. Ora c’è da aspettarsi che se esaminiamo i campi vicino alle cariche non ci dovremo preoccupare del ritardo; il campo elettrico sarà esattamente lo stesso che abbiamo calcolato in precedenza per un dipolo elettrostatico, usando naturalmente il momento dipolare istantaneo p(t). Se però andiamo molto lontano, dovremo trovare un termine del campo che va come 1/r e dipende dall’accelerazione della carica perpendicolarmente alla linea visuale. Vediamo se si ottiene un tale risultato. Cominciamo con il calcolare il potenziale vettore A, usando l’equazione (21.16). Supponiamo che la carica mobile si trovi in un grumetto la cui z densità di carica è data da ⇢(x, y, z) e tutto l’insieme si muova a un istante generico con la velocità v. Allora la densità di corrente j(x, y, z) sarà uguale a v ⇢(x, y, z). Sarà comodo prendere un sistema di coordinate tale che l’asse delle z si trovi nella direzione di v; allora la geometria del problema è come mostra la FIGURA 21.2. Vogliamo l’integrale ∆V2 ⌅
(1)
r' r
j(2, t
r 12 /c) r 12
dV2
(21.17)
v
y (x, y, z)
Se ora le dimensioni del grumo di carica sono veramente molto piccole in x confronto a r 12 , possiamo porre il termine r 12 nel denominatore uguale a r, la distanza dal centro del grumo, e portare r fuori dall’integrale. Dopo di che metteremo r 12 = r anche nel numeratore, benché ciò non sia del FIGURA 21.2 I potenziali nel punto (1) sono dati dagli tutto corretto. Non è corretto perché si dovrebbe prendere j, mettiamo, alla integrali sulla densità di carica . sommità della distribuzione di carica a un istante leggermente diverso da quello usato per j alla base della stessa. Mettendo r 12 = r in j(t r 12 /c) si prende la densità di corrente per l’intera distribuzione al medesimo istante t r/c. Questa approssimazione sarà buona soltanto se la velocità v della carica è molto minore di c; perciò stiamo facendo un calcolo non relativistico. Sostituendo j con ⇢v, l’integrale (21.17) diventa 1 r
⌅
v ⇢(2, t
r/c) dV2
Siccome tutta la carica ha la stessa velocità questo integrale è semplicemente v/r per la carica totale q. Ma qv non è che @ p/@t, la rapidità di variazione del momento dipolare, che deve essere ˙ naturalmente calcolata all’istante ritardato t r/c. La denoteremo p(t r/c). Perciò otteniamo per il potenziale vettore A(1, t) =
˙ 1 p(t r/c) 2 r 4⇡✏ 0 c
(21.18)
(1) Tale formula fu pubblicata per la prima volta da Oliver Heaviside nel 1902. Essa fu ricavata in modo indipendente da R.P. Feynman verso il 1950 e proposta in alcune lezioni come un buon mezzo per studiare la radiazione di sincrotrone.
272
Capitolo 21 • Soluzioni delle equazioni di Maxwell in presenza di correnti e cariche
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Questo risultato dice che la corrente in un dipolo variabile produce un potenziale vettore che ha la forma di onde sferiche la cui sorgente ha l’intensità p˙ ✏ 0 c2 Possiamo ora ottenere il campo magnetico dalla formula B = r ⇥ A. Siccome p˙ è tutto nella direzione z, allora A possiede solo la componente z; ci sono soltanto due derivate non nulle nel rotore. Perciò si ha @ Az @ Az Bx = e By = @y @x Esaminiamo prima Bx : Bx =
@ Az 1 @ p(t ˙ r/c) = 2 @y r 4⇡✏ 0 c @ y
(21.19)
Per eseguire la derivazione ci si deve ricordare che è q r = x2 + y2 + z2 perciò si ha
Bx = Ricordando che
1 p(t ˙ 4⇡✏ 0 c2
r/c)
@ 1 1 1 @ + p(t ˙ 2 @ y r 4⇡✏ 0 c r @ y
r/c)
(21.20)
@r y = @y r
il primo termine dà
1 y p(t ˙ r/c) 2 3 4⇡✏ 0 c r
(21.21)
che decade come 1/r 2 , come il campo di un dipolo statico (perché y/r è costante per una data direzione). Il secondo termine nell’equazione (21.20) ci dà gli effetti nuovi. Eseguendo la derivazione otteniamo 1 y p(t ¨ r/c) (21.22) 4⇡✏ 0 c2 cr 2
Az 1/r
c
dove p¨ significa, naturalmente, la derivata seconda di p rispetto a t. Questo termine, che viene dalla derivazione del numeratore, è responsabile della radiazione. In primo luogo descrive un campo che decresce con la distanza soltanto come 1/r; in secondo luogo, dipende dall’accelerazione della carica. Potete cominciare a vedere com’è che otterremo un risultato del tipo dell’equazione (21.10) che descrive la radiazione luminosa. Esaminiamo un po’ più in dettaglio come viene fuori questo termine radiativo: si tratta di un risultato interessante e importante. Partiamo dall’espressione (21.18) che mostra una dipendenza in 1/r ed è perciò simile a un potenziale coulombiano, eccetto che per la presenza del ritardo nel numeratore. Perché dunque quando deriviamo rispetto alle coordinate spaziali per ottenere i campi non troviamo semplicemente un campo in 1/r 2 , naturalmente col corrispondente ritardo nel tempo? Il perché possiamo vederlo nel modo seguente: supponiamo di fare r oscillare il dipolo su e giù secondo un moto sinusoidale. Allora verrebbe p = pz = p0 sen !t e Az =
FIGURA 21.3 Il modulo di A come funzione di r all’istante t per l’onda sferica di un dipolo oscillante.
1 !p0 cos !(t 2 r 4⇡✏ 0 c
r/c)
Se tracciamo un grafico di Az come funzione di r a un dato istante otteniamo la curva in FIGURA 21.3. L’ampiezza di punta decresce come 1/r, ma in più
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21.4 • I campi generati da un dipolo oscillante
c’è un’oscillazione spaziale limitata dall’inviluppo 1/r. Quando prendiamo le derivate spaziali esse saranno proporzionali alla pendenza della curva. Dalla figura vediamo che ci sono delle pendenze molto più ripide della pendenza della curva 1/r stessa. È anzi evidente che per una data frequenza le pendenze massime sono proporzionali all’ampiezza dell’onda, che varia come 1/r. Questo spiega perciò la legge di decremento del termine radiativo. Tutto questo viene fuori perché le variazioni nel tempo della sorgente si traducono in variazioni nello spazio mentre le onde si propagano intorno, e perché i campi magnetici dipendono dalle derivate spaziali del potenziale. Torniamo indietro e finiamo di calcolare il campo magnetico. Abbiamo per Bx i due termini (21.21) e (21.22), perciò troviamo " # 1 y p(t ˙ r/c) y p(t ¨ r/c) Bx = 4⇡✏ 0 c2 r3 cr 2 Con lo stesso tipo di matematica otteniamo " # 1 x p(t ˙ r/c) x p(t ¨ r/c) By = + 4⇡✏ 0 c2 r3 cr 2 Possiamo anche riunire il tutto in una bella formula vettoriale: r p˙ + p¨ ⇥r 1 c t r/c B= 4⇡✏ 0 c2 r3
(21.23)
Esaminiamo ora questa formula. Prima di tutto se si va a r molto grandi, soltanto il termine in p¨ conta. La direzione di B è data da p¨ ⇥ r, che è ad angolo retto rispetto al raggio r e anche rispetto all’accelerazione, come in FIGURA 21.4. Tutto va a posto; questo infatti è anche il risultato che si ottiene dall’equazione (21.10). Ora andiamo a vedere quello a cui non siamo abituati: cioè quello che accade più vicino. Nel paragrafo 14.7 abbiamo dedotto la legge di Biot e Savart per il campo magnetico di un elemento di corrente. Abbiamo visto che un elemento di corrente j dV fornisce al campo magnetico il contributo 1 j⇥r dB = dV (21.24) 2 4⇡✏ 0 c r 3 Vedete che questa formula è molto simile al primo termine dell’equazione (21.23) se ci ricordiamo che p˙ è la corrente. C’è però una differenza. Nell’equazione (21.23) la corrente deve essere valutata al tempo t r/c, il che non appare nell’equazione (21.24). Effettivamente, però, l’equazione (21.24) è lo stesso molto buona per r piccoli, perché il secondo termine nell’equazione (21.23) tende a cancellare l’effetto del ritardo nel primo termine. I due termini insieme danno un risultato molto vicino all’equazione (21.24) quando r è piccolo. Questo lo possiamo vedere in questo modo. Quando r è piccolo, (t r/c) non è molto diverso da t, perciò possiamo sviluppare la parentesi nell’equazione (21.23) in serie di Taylor. Per il primo termine abbiamo r ˙ ˙ ¨ + ... p(t r/c) = p(t) p(t) c e, fino allo stesso ordine in r/c: r r ¨ ¨ + ... p(t r/c) = p(t) c c ˙ Quando facciamo la somma, i due termini in p¨ si elidono e ci resta la corrente ... non ritardata p, 2 2 p ˙ più termini dell’ordine (r/c) o superiori – per esempio, (1/2) (r/c) cioè p(t) – che saranno piccolissimi quando r è abbastanza piccolo perché p˙ non si alteri sensibilmente nel tempo r/c. Perciò l’equazione (21.23) dà dei campi molto simili a quelli della teoria istantanea, molto più vicini a questa che quelli di una teoria istantanea in cui si introduce un ritardo. Gli effetti del primo ordine del ritardo sono infatti eliminati dal secondo termine. Le formule statiche sono molto precise, molto più precise di quello che potreste immaginare. Naturalmente la compensazione funziona soltanto per punti vicini. Per punti lontani l’approssimazione diventa molto cattiva perché i ritardi producono un effetto molto grande e viene fuori l’importante termine in 1/r caratteristico della radiazione.
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Capitolo 21 • Soluzioni delle equazioni di Maxwell in presenza di correnti e cariche
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Abbiamo ancora il problema di calcolare il campo elettrico e dimostrare che è lo stesso di quello dato dall’equazione (21.10). Per distanze grandi si B può vedere che il risultato verrà proprio giusto. Sappiamo che lontano dalle sorgenti, dove abbiamo un’onda che si propaga, E è perpendicolare a B (e E anche a r), come in FIGURA 21.4, e che è cB = E. Perciò E è perpendicolare ¨ come previsto dall’equazione (21.10). all’accelerazione p, r Per ottenere il campo elettrico in generale, per tutte le distanze, occorre trovare una soluzione per il potenziale scalare. Quando abbiamo calcolato p¨ l’integrale sulle correnti per arrivare ad A e abbiamo ottenuto l’equazione (21.18), abbiamo fatto l’approssimazione di trascurare la leggera variazione di r nei termini di ritardo. Questo non può andare per il potenziale scalare, (2) perché si otterrebbe 1/r moltiplicato per l’integrale sulla densità di carica, che è una costante. L’approssimazione è troppo rozza. Occorre salire di FIGURA 21.4 I campi di radiazione B ed E di un un gradino nell’ordine di approssimazione. Invece di imbarazzarci con dipolo oscillante. questo calcolo diretto d’ordine più elevato, possiamo fare una cosa diversa: possiamo determinare il potenziale scalare dall’equazione (21.16), adoperando il potenziale vettore che abbiamo già trovato. La divergenza di A nel nostro caso è semplicemente @ Az /@z, perché Ax e Ay sono identicamente zero. Derivando nello stesso modo che abbiamo usato per trovare B, avremo # " 1 @ 1 1 @ r· A= p(t ˙ r/c) + p(t ˙ r/c) @z r r @z 4⇡✏ 0 c2 " # 1 z p(t ˙ r/c) z p(t ¨ r/c) = 4⇡✏ 0 c2 r3 cr 2 (1)
Ossia, in notazione vettoriale,
r· A=
1 4⇡✏ 0 c2
p˙ +
r p¨ c t r3
r/c
·r
Usando l’equazione (21.6), abbiamo un’equazione per : r p˙ + p¨ ·r @ 1 c t r/c = @t 4⇡✏ 0 r3 L’integrazione rispetto a t non fa che eliminare un punto da ciascuno dei p, così che si ottiene r p + p˙ ·r 1 c t r/c (r, t) = (21.25) 4⇡✏ 0 r3 (La costante d’integrazione corrisponderebbe a un campo statico sovrapposto, che naturalmente potrebbe esistere. Per il dipolo oscillante che qui abbiamo considerato, il campo statico non c’è.) Siamo ora in grado di trovare il campo elettrico E dall’equazione E= r
@A @t
Siccome i passaggi sono noiosi ma senza difficoltà – purché vi ricordiate che p(t r/c) e le sue derivate temporali dipendono da x, y e z attraverso il ritardo r/c –, ci limitiamo a dare il risultato: ( ) g 1 3 ( p ⇤ · r) r 1 f ⇤ ¨ E(r, t) = p + 2 p(t r/c) ⇥ r ⇥ r (21.26) 4⇡✏ 0 r 3 r2 c con p ⇤ = p(t
r/c) +
r ˙ p(t c
r/c)
(21.27)
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21.5 • I potenziali di una carica in moto. La soluzione generale di Liénard e Wiechert
Benché sembri piuttosto complicato, questo risultato si interpreta facilmente. Il vettore p ⇤ è il momento dipolare ritardato e poi «corretto» per il ritardo, così che i due termini con p ⇤ danno proprio il campo dipolare statico quando r è piccolo (vedi cap. 6, equazione (6.14)). Quando r è grande il termine in p¨ domina e il campo elettrico è proporzionale all’accelerazione delle cariche in direzione perpendicolare a r, e diretto, effettivamente, lungo la proiezione di p¨ in un piano perpendicolare a r. Il risultato è in accordo con ciò che si sarebbe ottenuto utilizzando l’equazione (21.1). Naturalmente, l’equazione (21.1) è più generale: essa si applica a qualsiasi moto, mentre l’equazione (21.26) è valida soltanto per movimenti piccoli, per i quali il ritardo r/c si può ritenere costante per tutta la sorgente. Comunque, abbiamo ora fornito le basi della nostra precedente discussione della luce (eccetto alcuni aspetti discussi nel cap. 34 del vol. 1) perché tutto si imperniava sull’ultimo termine dell’equazione (21.26). Passeremo subito a discutere come si possono ottenere i campi per cariche che si muovono più velocemente (argomento che ci porta agli effetti relativistici del cap. 34 del vol. 1).
21.5
I potenziali di una carica in moto. La soluzione generale di Liénard e Wiechert
Nell’ultimo paragrafo si è fatta una semplificazione nel calcolo dell’integrale per A, considerando soltanto basse velocità. Però così facendo abbiamo mancato un punto importante, sul quale inoltre è facile sbagliare. Vogliamo perciò riprendere il calcolo dei potenziali per una carica puntiforme che si muove in modo qualsiasi, anche con velocità relativistica. Una volta raggiunto questo risultato, avremo la teoria elettromagnetica completa delle cariche elettriche. Anche l’equazione (21.1) si può successivamente ricavare per derivazione. La trattazione sarà completa. Perciò siate pazienti. Proviamo a calcolare il potenziale scalare (1) nel punto (x 1, y1, z1 ) prodotto da una carica puntiforme, come un elettrone, che si muove in modo affatto qualunque. Per carica «puntiforme» intendiamo una pallina piccolissima di carica, ridotta a dimensioni piccole quanto si vuole, con una densità di carica ⇢(x, y, z). Possiamo trovare dall’equazione (21.15): ⌅ 1 ⇢(2, t r 12 /c) (1, t) = dV2 (21.28) 4⇡✏ 0 r 12 La risposta, come quasi chiunque penserebbe a prima vista, parrebbe essere che l’integrale di ⇢ su una simile carica «puntiforme» fosse proprio la carica totale q, in modo da avere (1, t) =
1 q 0 4⇡✏ 0 r 12
(sbagliato)
0 intendiamo il raggio vettore dal punto (2), dov’è la carica, al punto (1), al tempo ritardato Con r 12 t r 12 /c. È uno sbaglio. La risposta corretta è
(1, t) =
1 q 1 0 4⇡✏ 0 r 12 1 vr 0 c
(21.29)
0 , cioè verso il punto (1). dove vr 0 è la componente della velocità della carica parallelamente a r12 Vogliamo ora spiegarvi perché. Perché il ragionamento sia più facile da seguire, faremo prima il calcolo per una carica «puntiforme» che abbia la forma di un piccolo cubo di carica che si muove verso il punto (1) con la velocità v, come mostra la FIGURA 21.5a. Sia a la lunghezza dello spigolo del cubo, che supponiamo essere molto, molto più piccolo della distanza r 12 dal centro della carica al punto (1). Per valutare l’integrale dell’equazione (21.28) torniamo ai principi base; scriviamolo come una somma e cioè X ⇢i Vi (21.30) ri i
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Capitolo 21 • Soluzioni delle equazioni di Maxwell in presenza di correnti e cariche
(a)
a Carica «puntiforme» a
(1)
r12 v ∆Vi
(b) ri (1) w
21.5 (a) Una carica «puntiforme» – considerata come una piccola distribuzione cubica di carica – in moto con la velocità v verso il punto (1). (b) L’elemento di volume V i usato per calcolare i potenziali. FIGURA
1 3 5 2 4 6
N
(1)
(a)
(b)
r1 (1)
dove r i è la distanza dal punto (1) allo i-esimo elemento di volume Vi e ⇢i è la densità di carica nel Vi al tempo t i = t r i /c. Siccome è sempre ri a, sarà comodo prendere i nostri Vi come delle sottili fettine rettangolari perpendicolari a r12 , come mostra la FIGURA 21.5b. Scegliamo per gli elementi di volume Vi un certo spessore w molto più piccolo di a. I singoli elementi appariranno come si vede in FIGURA 21.6a, dove ne abbiamo messi a sufficienza per coprire la carica. Non abbiamo però indicato la carica e per una buona ragione. Dove la dovremmo disegnare? Per ciascun elemento di volume Vi dobbiamo prendere ⇢ al tempo t i = t r i /c, ma siccome la carica si muove, essa si trova in una situazione diversa per ogni elemento di volume Vi ! Supponiamo di cominciare con l’elemento di volume segnato «1» in FIGURA 21.6a, scelto in modo che all’istante t 1 = t r 1 /c l’estremo «retrostante» della carica occupi V1 , come mostra la FIGURA 21.6b. Quando poi valutiamo ⇢2 V2 , dovremo usare la posizione della carica a un istante leggermente posteriore t 2 = t r 2 /c, quando la carica sarà nella posizione mostrata in FIGURA 21.6c. E così via, per V3 , V4 ecc. Possiamo ora valutare la somma. Siccome lo spessore di ciascun Vi è w, il suo volume è wa2 . Quindi ogni elemento di volume che si sovrappone alla distribuzione di carica conterrà la carica wa2 ⇢, dove ⇢ è la densità di carica dentro al cubo, che vogliamo supporre uniforme. Quando la distanza della carica dal punto (1) è grande, si farà un errore trascurabile ponendo tutti gli r i nei denominatori uguali a un certo valore medio, diciamo la posizione ritardata r 0 del centro della carica. Allora la somma (21.30) è N X ⇢wa2 r0 i=1 dove VN è l’ultimo Vi che si sovrappone alla distribuzione di carica, come mostra la FIGURA 21.6e. Chiaramente la somma è N
(c)
r2 (1)
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⇢wa2 ⇢a3 N w = 0 0 r r a
Ma ⇢a3 non è che la carica totale q e N w è la lunghezza b indicata nella FIGURA 21.6e. Perciò abbiamo q b = (21.31) 0 4⇡✏ 0 r a
Cos’è b? È la lunghezza del cubo di carica aumentata della distanza percorsa dalla carica fra t 1 = t r 1 /c e t N = t r N /c, che è la distanza che la carica (1) percorre nel tempo r1 r N b v∆t a t = t N t1 = = c c Siccome la velocità della carica è v, la distanza percorsa è v t = vb/c. Ma la rN (e) lunghezza b è questa distanza aggiunta ad a: (1) v b=a+ b c b Risolvendo per b si ottiene a FIGURA 21.6 L’integrazione di (t r 0 /c) dV b= v per una carica in moto. 1 c Naturalmente con v intendiamo la velocità al tempo ritardato t 0 = t r 0/c, ciò che possiamo indicare scrivendo [1 v/c]rit e quindi l’equazione (21.31) per il potenziale diventa (d)
r3
(1, t) =
q 1 0 4⇡✏ 0 r 1 v c
rit
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21.6 • I potenziali per una carica che si muove a velocità costante. La formula di Lorentz
Questo risultato è in accordo con l’affermazione contenuta nell’equazione (21.29). C’è un termine di correzione che viene fuori perché la carica si muove mentre il nostro integrale «spazza la carica». Quando la carica si muove verso il punto (1), il suo contributo all’integrale è aumentato nel rapporto b/a. Perciò l’integrale corretto è q/r 0 moltiplicato per b/a, che vale [1 v/c]rit . Se la velocità della carica non è diretta verso il punto d’osservazione (1), si può vedere che quel che importa è la componente della sua velocità in direzione del punto (1). Chiamando vr questa componente della velocità, il fattore di correzione è [1 vr /c]rit . Inoltre l’analisi che abbiamo fatto procede esattamente nello stesso modo per una distribuzione di carica di forma qualsiasi; non c’è bisogno che sia un cubo. Infine, siccome la «grandezza» a della carica non figura nel risultato finale, lo stesso risultato vale se si restringe la carica a dimensioni qualunque, anche a un punto. Il risultato generale è che il potenziale scalare per una carica puntiforme muoventesi con una velocità qualunque è (1, t) =
4⇡✏ 0
r0
q 1
vr c
(21.32) rit
Questa equazione è spesso scritta nella forma equivalente (1, t) =
4⇡✏ 0 r
q v·r c
(21.33) rit
dove r è il vettore che va dalla carica al punto (1), è calcolato e tutte le grandezze entro parentesi devono avere i valori al tempo ritardato t 0 = t r 0/c. Lo stesso accade quando si calcola A per una carica puntiforme per mezzo dell’equazione (21.16). La densità di corrente è ⇢v e l’integrale su ⇢ è lo stesso che si è trovato per . Il potenziale vettore è qvrit A(1, t) = (21.34) v·r 4⇡✏ 0 c2 r c rit I potenziali per una carica puntiforme furono dedotti per la prima volta in questa forma da Liénard e Wiechert e vengono chiamati i potenziali di Liénard e Wiechert. Per chiudere il cerchio e tornare all’equazione (21.1) è necessario soltanto calcolare E e B da questi potenziali (usando B = r ⇥ A ed E = r @ A/@t). Si tratta ora di sola aritmetica. Essa è però abbastanza involuta, perciò non ne trascriveremo i dettagli. Forse mi crederete sulla parola se vi dico che l’equazione (21.1) è equivalente ai potenziali di Liénard-Wiechert che abbiamo dedotto(2) .
21.6
I potenziali per una carica che si muove a velocità costante. La formula di Lorentz
Possiamo usare i potenziali di Liénard e Wiechert per un caso particolare, cioè per trovare i campi di una carica che si muove con velocità uniforme in linea retta. Più avanti lo faremo di nuovo, utilizzando il principio di relatività. Sappiamo già quali sono i potenziali quando ci troviamo nel sistema di riferimento in cui la carica è in quiete. Quando la carica si muove, possiamo ricavare tutto quello che vogliamo per mezzo di una trasformazione relativistica da quel sistema a un altro. Ma la relatività ha la sua origine nella teoria dell’elettricità e del magnetismo. Le formule della trasformazione di Lorentz (cap. 15 del vol. 1) furono delle scoperte fatte da Lorentz mentre studiava le equazioni dell’elettricità e del magnetismo. Allo scopo di farvi capire da dove le cose (2) Se avete un bel po’ di carta e di tempo potete provare a venirne a capo da soli. Vorrei allora dare due suggerimenti: primo, non dimenticatevi che le derivate di r 0 sono complicate, perché si tratta di una funzione di t 0 ; secondo, non cercate di dedurre la (21.1), ma calcolatevi tutte le derivate che vi appaiono e poi paragonate con quel che ottenete per E calcolato dai potenziali (21.33) e (21.34).
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Capitolo 21 • Soluzioni delle equazioni di Maxwell in presenza di correnti e cariche
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hanno avuto origine, desideriamo mostrare che le equazioni di Maxwell conducono realmente alla tray sformazione di Lorentz. Cominceremo col calcolare P i potenziali di una carica che si muove con velocità (x, y, z) uniforme partendo direttamente dall’elettrodinamica Posizione «ritardata» delle equazioni di Maxwell. Abbiamo mostrato che (all’istante t' = t – r'/c) le equazioni di Maxwell conducono per una carica in moto ai potenziali che abbiamo ottenuto nell’ultivt' mo paragrafo. Perciò quando usiamo questi potenziali, usiamo la teoria di Maxwell. 2' 2 x Supponiamo di avere una carica che si muove lunvt Posizione «presente» go l’asse x con la velocità v. Vogliamo i potenziali (all’istante t ) nel punto P(x, y, z) come si vede nella FIGURA 21.7. Se t = 0 è l’istante in cui la carica è nell’origine, al tempo z t la carica è nel punto x = vt, y = z = 0. Quello che ci occorre sapere, però, è la sua posizione al tempo FIGURA 21.7 Determinazione del potenziale nel punto P di una carica che si ritardato muove con velocità uniforme lungo l’asse x. r0 t0 = t (21.35) c dove r 0 è la distanza dalla carica al punto P al tempo ritardato. All’istante anteriore t 0 la carica si trovava in x = vt 0, perciò q r0 =
vt 0)2 + y 2 + z 2
(x
(21.36)
Per trovare r 0 o t 0 dobbiamo combinare questa equazione con la (21.35). Prima eliminiamo r 0 risolvendo la (21.35) per r 0 e sostituendo nella (21.36). Poi quadrando i due membri otteniamo c2 (t
t 0)2 = (x
vt 0)2 + y 2 + z 2
che è un’equazione di secondo grado in t 0. Sviluppando i quadrati dei binomi e raccogliendo i termini con la stessa dipendenza da t 0 otteniamo (v 2
c2 ) t 02
2 (xv
c2 t) t 0 + x 2 + y 2 + z 2
(ct)2 = 0
Risolvendo per t 0 risulta 1
! v2 0 t =t c2
vx c2
1 c
s
vt)2
(x
! v2 (y 2 + z 2 ) c2
+ 1
(21.37)
Per ottenere r 0 dobbiamo sostituire questa espressione per t 0 nella r 0 = c(t Siamo ora in grado di trovare
dall’equazione (21.33), che, essendo v costante, diventa q ! (x, y, z, t) = (21.38) v · r0 0 4⇡✏ 0 r c
La componente di v nella direzione di r 0 è v(x denominatore completo è c (t Prendendo (1
t 0)
0
t)
v (x c
vt 0)/r 0, perciò v · r 0 non è che v(x
26 vt ) = c 66t 64 0
vx c2
1
v 2 /c2 ) t 0 dall’equazione (21.37) otteniamo per (x, y, z, t) =
q s 4⇡✏ 0
! 3 v 2 077 t c2 775
1 (x
vt)2 + 1
! v2 (y 2 + z 2 ) c2
vt 0) e il
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21.6 • I potenziali per una carica che si muove a velocità costante. La formula di Lorentz
Questa equazione si capisce meglio se la riscriviamo nella forma (x, y, z, t) =
q 1 1 r s !2 4⇡✏ 0 v2 x vt 1 + y2 + z2 p c2 2 2 1 v /c
(21.39)
Il potenziale vettore A ha la stessa espressione con un fattore supplementare v/c2 : v c2
A=
Nell’equazione (21.39) potete vedere chiaramente delinearsi la trasformazione di Lorentz. Se la carica fosse nell’origine nel suo proprio riferimento in quiete, il suo potenziale sarebbe (x, y, z) =
q 1 p 2 4⇡✏ 0 x + y 2 + z 2
La vediamo invece in un sistema di coordinate che si muove ed è evidente che le coordinate dovrebbero essere trasformate secondo la legge x!p
x 1
vt v 2 /c2
y!y z!z
Questa è proprio la trasformazione di Lorentz e quello che abbiamo fatto è essenzialmente il cammino seguendo il quale Lorentz la scoprì. p Qual è però il significato di quel fattore 1/ 1 v 2 /c2 in più che appare in testa alla formula (21.39)? Inoltre, come fa a venir fuori il potenziale vettore A quando esso è nullo dovunque nel riferimento di quiete della particella? Faremo vedere fra poco che A e insieme costituiscono p un quadrivettore, come l’impulso p e l’energia totale U di una particella. Il fattore in più 1/ 1 v 2 /c2 nell’equazione (21.39) è lo stesso fattore che s’introduce sempre quando si trasformano le componenti di un quadrivettore, proprio come la densità di carica ⇢ si trasforma p in ⇢/ 1 v 2 /c2 . Effettivamente, è quasi evidente dalle equazioni (21.4) e (21.5) che A e sono le componenti di un quadrivettore, perché abbiamo già fatto vedere nel capitolo 13 che j e ⇢ sono le componenti di un quadrivettore. Più avanti tratteremo con maggiore dettaglio la relatività dell’elettrodinamica; qui si voleva soltanto far vedere con quale naturalezza le equazioni di Maxwell conducono alla trasformazione di Lorentz. Non vi meraviglierete perciò di trovare che le leggi dell’elettricità e del magnetismo sono già corrette nel quadro della relatività di Einstein. Non dovremo «riaggiustarle» come ci è toccato fare per le leggi di Newton della meccanica.
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22
Circuiti in CA
22.1 Ripasso: vol. 1, cap. 22, Algebra cap. 23, Risonanza cap. 25, Sistemi lineari
Impedenze
La maggior parte del nostro lavoro in questo corso è stata rivolta ad arrivare alle equazioni di Maxwell. Negli ultimi due capitoli abbiamo discusso le conseguenze di queste equazioni. Abbiamo trovato che tali equazioni contengono tutti i fenomeni statici che avevamo studiato in precedenza, come anche i fenomeni delle onde elettromagnetiche e della luce che avevamo trattato abbastanza dettagliatamente nel vol. 1. Le equazioni di Maxwell rendono conto delle due classi di fenomeni a seconda che si studino i campi in vicinanza delle cariche e delle correnti oppure molto lontano da esse. Non c’è molto di interessante da dire riguardo alla regione intermedia; non vi si presentano fenomeni particolari. Rimangono però ancora diversi argomenti di elettromagnetismo che vogliamo prendere in esame. Vogliamo discutere il problema della relatività in connessione con le equazioni di Maxwell: cosa accade quando si esaminano le equazioni di Maxwell in rapporto a sistemi di coordinate in movimento. C’è anche il problema della conservazione dell’energia nei sistemi elettromagnetici. Poi c’è il vasto argomento delle proprietà elettromagnetiche dei materiali: finora, eccetto che per lo studio delle proprietà dei dielettrici, abbiamo considerato soltanto i campi elettromagnetici nello spazio libero. Inoltre, benché l’argomento della luce sia stato esaminato piuttosto in dettaglio nel vol. 1, ci sono ancora alcune cose che vorremmo rifare dal punto di vista delle equazioni dei campi. In particolare vogliamo riprendere l’argomento dell’indice di rifrazione, specialmente per materiali densi. Infine ci sono i fenomeni associati a onde confinate in una regione limitata dello spazio. Si è accennato brevemente a questo tipo di problema quando abbiamo studiato le onde sonore. Anche le equazioni di Maxwell conducono a soluzioni che rappresentano delle onde confinate di campi elettrici e magnetici. Prenderemo in esame questo argomento, che ha importanti applicazioni tecniche, in qualcuno dei capitoli che seguiranno. Allo scopo di preparare il terreno per l’argomento, cominceremo col considerare le proprietà dei circuiti elettrici a bassa frequenza. Saremo così in grado di fare il confronto fra quelle situazioni in cui sono applicabili le approssimazioni quasi statiche delle equazioni di Maxwell e quelle situazioni in cui gli effetti di alta frequenza sono dominanti. Perciò scenderemo dalle grandi ed esoteriche altezze degli ultimi capitoli e prenderemo in considerazione l’argomento relativamente terra-terra dei circuiti elettrici. Vedremo però che anche un argomento così apparentemente banale può contenere delle grandi complicazioni quando si va a esaminarlo abbastanza da vicino. Abbiamo già discusso alcune proprietà dei circuiti elettrici nei cap. 23 e 25 del vol. 1. Ora vogliamo rivedere parte dello stesso materiale ma più dettagliatamente. Anche qui ci occuperemo soltanto di sistemi lineari e con voltaggi e correnti che variano sinusoidalmente: possiamo allora rappresentare tutti i voltaggi e tutte le correnti mediante numeri complessi, adoperando la notazione esponenziale descritta nel cap. 22 del vol. 1. Perciò un voltaggio variabile col tempo V (t) sarà scritto V (t) = Vˆ ei!t (22.1) dove Vˆ rappresenta un numero complesso che è indipendente da t. Si intende naturalmente che
281
22.1 • Impedenze
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l’effettivo voltaggio variabile V (t) è dato dalla parte reale della funzione complessa che si trova nel secondo membro dell’equazione. Similmente, tutte le altre grandezze variabili col tempo si ammetterà che varino sinusoidalmente con la stessa frequenza !. Perciò scriveremo I = Iˆ ei!t
(corrente)
E = Eˆ ei!t
(fem)
E = Eˆ ei!t
(campo elettrico)
(22.2)
e così via. ˆ ˆ E,...) In genere scriveremo le nostre equazioni in termini di V , I, E,... (invece di Vˆ , I, ricordando tuttavia che le dipendenze dal tempo sono quelle date dalle (22.2). Nelle nostre precedenti discussioni sui circuiti abbiamo ammesso che oggetti come induttanze, capacità e resistenze vi fossero familiari. Vogliamo ora esaminare un po’ più in dettaglio che cosa s’intende con questi elementi idealizzati dei circuiti. Cominciamo con l’induttanza. Un’induttanza è fatta avvolgendo molte spire di filo in forma di bobina e portando i due capi a due terminali a una certa distanza dalla bobina, come mostra la FIGURA 22.1. Ipotizziamo che il campo magnetico prodotto dalle correnti nella bobina non si diffonda fortemente nello spazio circostante così da interagire con altre parti del circuito. A questo si provvede avvolgendo la bobina a forma di ciambella, oppure confinando il campo magnetico con l’avvolgere il filo intorno a un adatto nucleo di ferro, oppure ancora mettendo la bobina dentro un’appropriata scatola metallica, com’è indicato schematicamente nella FIGURA 22.1. In ogni caso supporremo che ci sia un campo magnetico trascurabile nella regione esterna, vicino ai terminali a e b. Ammetteremo inoltre che si possa trascurare la resistenza elettrica del filo della bobina. Infine supporremo che si possa trascurare la carica elettrica che appare sulla superficie del filo quando vi si crea un campo elettrico. Con tutte queste approssimazioni abbiamo ciò che si chiama un’induttanza «ideale». (Torneremo più avanti a discutere ciò che accade in un’induttanza reale.) Per un’induttanza ideale diciamo che il voltaggio fra i terminali è uguale a L(dI/dt). Vediamo perché è così. Quando c’è una corrente attraverso l’induttanza, si forma nell’interno di una bobina un campo magnetico proporzionale alla corrente. Se la corrente varia nel tempo, anche il campo magnetico varia. In generale il rotore di E è uguale a @B/@t; o, per esprimerci in un altro modo, l’integrale di linea di E lungo un qualsiasi percorso chiuso è uguale a meno la rapidità di variazione del flusso di B concatenato col percorso stesso. Supponiamo ora di considerare il cammino seguente: si comincia al terminale a e si percorre la bobina (restando sempre dentro al filo) fino al terminale b; poi si torna dal terminale b al terminale a attraverso l’aria, nello spazio esterno all’induttanza. L’integrale di linea di E intorno a questo cammino chiuso può scriversi come la somma di due parti ⌅ b ⌅ a ⇥ E · ds = E · ds + E · ds (22.3) a lungo la bobina
b all’esterno
Come s’è visto prima, non ci possono essere campi elettrici in un perfetto conduttore. (Il più piccolo campo produrrebbe una corrente infinita.) Perciò l’integrale da a a b lungo la bobina è zero. L’intero contributo all’integrale di linea di E viene dal cammino esterno all’induttanza, dal terminale b al terminale a. Siccome si è supposto che non ci sono campi magnetici nello spazio esterno alla «scatola», questa parte dell’integrale è indipendente dal cammino scelto e quindi è possibile definire il potenziale dei due terminali. La differenza di questi due potenziali è ciò che si chiama la differenza di voltaggio, o semplicemente il voltaggio; perciò abbiamo ⌅ a ⇥ V= E · ds = E · ds b
L’integrale di linea completo è ciò che abbiamo chiamato prima la forza elettromotrice E ed è naturalmente uguale alla rapidità di variazione del flusso magnetico nella bobina. Abbiamo visto
I a V
b
FIGURA
22.1
Un’induttanza.
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prima che questa fem è uguale e opposta alla variazione per unità di tempo di I, perciò abbiamo V = E=L
dI dt
dove L è l’induttanza della bobina. Poiché dI = i!I dt abbiamo (22.4)
V = i!LI
Il modo con cui si è descritta l’induttanza ideale illustra il metodo generale da applicare agli altri elementi ideali dei circuiti, di solito chiamati elementi «concentrati». Le proprietà di un elemento sono descritte completamente in termini di correnti e voltaggi che appaiono ai suoi terminali. Facendo adatte approssimazioni è possibile ignorare le grandi complessità dei campi che appaiono internamente all’oggetto. Si opera una separazione fra quello che accade all’interno e quello che accade all’esterno. Per tutti gli elementi circuitali troveremo una relazione, simile a quella dell’equazione (22.4); in cui il voltaggio è proporzionale alla corrente con una costante di proporzionalità che in generale è un numero complesso. Questo coefficiente complesso di proporzionalità è chiamato impedenza ed è usualmente notato con z (da non confondere con una coordinata z). È in generale una funzione della frequenza !. Perciò per ogni elemento concentrato scriveremo V Vˆ = =z I Iˆ
(22.5)
Per un’induttanza abbiamo (22.6)
z (induttanza) = z L = i!L vista(1) .
I a
V
b
FIGURA
22.2
condensatore.
Un
Esaminiamo ora un condensatore dallo stesso punto di Un condensatore consiste di una coppia di lastre conduttrici dalle quali partono due fili che vanno a due terminali opportuni. Le lastre possono avere forma del tutto qualunque e sono spesso separate da un materiale dielettrico. Illustriamo schematicamente tale situazione nella FIGURA 22.2. Anche qui facciamo diverse ipotesi semplificatrici. Ammettiamo che lastre e fili siano conduttori perfetti. Ammettiamo inoltre che l’isolamento fra le lastre sia perfetto, così che nessuna carica può fluire da una lastra all’altra attraverso l’isolante. Poi ammettiamo che i due conduttori siano vicini l’uno all’altro ma lontani da tutti gli altri, così che tutte le linee di campo che partono da una lastra finiscono sull’altra. Allora ci sono sempre cariche uguali e opposte sulle due lastre e le cariche sulle lastre sono molto più grandi delle cariche sulla superficie dei fili di collegamento. Infine ammettiamo che non ci siano campi magnetici in vicinanza del condensatore. Supponiamo ora di considerare l’integrale di linea di E intorno a un cammino chiuso che parte dal terminale a, segue il filo dall’interno fino alla lastra superiore del condensatore, salta attraverso lo spazio fra le lastre, passa dalla lastra inferiore al terminale b per mezzo del filo e ritorna al terminale a attraverso lo spazio esterno al condensatore. Siccome non c’è campo magnetico, l’integrale di E lungo questo cammino chiuso è zero. L’integrale può essere spezzato in tre parti: ⇥ ⌅ ⌅ ⌅ a
E · ds =
E · ds +
lungo i fili
E · ds +
tra le lastre
E · ds
(22.7)
b all’esterno
L’integrale lungo i fili è nullo perché non ci sono campi elettrici nei conduttori perfetti. L’integrale da b ad a esternamente al condensatore è uguale e opposto alla differenza di potenziale fra i (1) Alcuni dicono che si dovrebbero chiamare gli oggetti coi nomi «induttore» e «capacitore» e chiamare le loro proprietà «induttanza» e «capacitanza» (per analogia con «resistore» e «resistenza»). Noi preferiamo utilizzare le parole che si sentono nei laboratori. I più dicono ancora «induttanza» tanto per la vera bobina che per la sua induttanza L. La parola «capacitore» sembra avere attecchito – benché ancora si senta dire piuttosto di frequente «condensatore» – e molti preferiscono la parola «capacità» a «capacitanza».
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22.1 • Impedenze
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terminali. Siccome abbiamo immaginato che le due lastre sono in qualche modo isolate dal resto dell’universo, la carica totale sulle due lastre deve essere zero; se c’è una carica Q sulla lastra di sopra ci deve essere una carica uguale e opposta Q sulla lastra di sotto. Abbiamo visto prima che se due conduttori hanno cariche uguali e opposte, +Q e Q, la differenza di potenziale fra le lastre è uguale a Q/C, dove C è chiamata capacità dei due conduttori. Secondo l’equazione (22.7), la differenza di potenziale fra i terminali a e b è uguale alla differenza di potenziale fra le lastre. Abbiamo perciò Q V= C La corrente elettrica I che entra nel condensatore attraverso il terminale a (ed esce dal terminale b) è uguale a dQ/dt, che è la variazione della carica elettrica sulle lastre nell’unità di tempo. Scrivendo dV /dt nella forma i!V , possiamo porre la relazione fra voltaggio e corrente per un condensatore nella forma seguente I i!V = C ossia I V= (22.8) i!C L’impedenza z di un condensatore è perciò z (condensatore) = zC =
1 i!C
I a
V
b
FIGURA
22.3
Un resistore.
(22.9)
Il terzo elemento che vogliamo considerare è un resistore. Però, siccome non abbiamo ancora discusso le proprietà elettriche dei materiali reali, non siamo ancora preparati a parlare di ciò che accade dentro un conduttore vero. Dovremo semplicemente accettare come un fatto che campi elettrici possono esistere all’interno di materiali reali e che questi campi elettrici danno luogo a un flusso di carica elettrica – cioè a una corrente – e che questa corrente è proporzionale all’integrale del campo elettrico da un capo all’altro del conduttore. Immaginiamo dunque che un resistore ideale sia fatto come nello schema di FIGURA 22.3. Due fili che riteniamo conduttori perfetti vanno dai terminali a e b ai capi di una sbarra di materiale resistivo. Seguendo la linea di ragionamento usuale, la differenza di potenziale fra i terminali a e b sarà uguale all’integrale di linea del campo elettrico esterno, che è anche uguale all’integrale di linea del campo elettrico dentro la sbarra di materiale resistivo. Ne segue che la corrente I attraverso il resistore è proporzionale al voltaggio V ai terminali. Si ha cioè V I= R dove R è chiamato resistenza. Vedremo in seguito che la relazione fra corrente e voltaggio per materiali conduttori reali è soltanto approssimativamente lineare. Vedremo inoltre che questa proporzionalità approssimata ci si aspetta che sia indipendente dalla frequenza di variazione della corrente e del voltaggio soltanto se tale frequenza non è troppo alta. Dunque per correnti alternate il voltaggio ai capi di un resistore è in fase con la corrente; ciò vuol dire che l’impedenza è un numero reale: z (resistenza) = z R = R (22.10) I nostri risultati per i tre elementi circuitali concentrati – l’induttore, il condensatore e il resistore – sono riassunti nella FIGURA 22.4. In questa figura, come nelle precedenti, si è indicato il voltaggio con una freccia che è diretta da un terminale all’altro. Se il voltaggio è «positivo» – cioè se il terminale a è a un potenziale più alto del terminale b – la freccia indica la direzione di una «caduta di potenziale» positiva. Benché si stia parlando di correnti alternate, possiamo naturalmente includere il caso speciale dei circuiti a correnti costanti prendendo il limite in cui la frequenza va a zero. Per una frequenza nulla – cioè per CC – l’impedenza di un’induttanza va a zero, ossia diventa un corto circuito. Per CC l’impedenza di un condensatore va a infinito: il circuito diventa aperto. Siccome l’impedenza di un resistore è indipendente dalla frequenza, questo è l’unico elemento che rimane quando si analizza un circuito riguardo al suo comportamento in CC.
a
(a)
I
z
V
b z=
V I
(b)
L
i L
(c)
C
1 i C
(d)
R
R
22.4 Gli elementi concentrati ideali (passivi) dei circuiti. FIGURA
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Negli elementi circuitali che abbiamo descritto fin qui, corrente e voltaggio sono mutuamente proporzionali; se uno è nullo, tale è anche l’altro. Ordinariamente pensiamo secondo schemi del tipo seguente: un voltaggio applicato «produce» una corrente, oppure una corrente «dà luogo» a un voltaggio fra due terminali; perciò, in un certo senso, gli elementi «rispondono» alle condizioni esterne «applicate». Per questa ragione questi elementi sono chiamati elementi passivi. Si possono perciò contrapporre agli elementi attivi, come i generatori che considereremo nel prossimo paragrafo, che sono le sorgenti delle correnti o dei voltaggi oscillanti del circuito.
22.2 I a
N
V
S
b
22.5 Un generatore composto da una bobina fissa e un campo magnetico rotante. FIGURA
a
V
b
22.6 Il simbolo di un generatore ideale. FIGURA
Generatori
Vogliamo ora parlare di un elemento circuitale attivo – cioè un elemento che è la sorgente delle correnti e dei voltaggi del circuito – vale a dire un generatore. Supponiamo di avere una bobina simile a un’induttanza, eccetto che ha molto poche spire e quindi si può trascurare il campo magnetico della sua corrente. Questa bobina peraltro sta in un campo magnetico variabile come quello che potrebbe esser prodotto da un magnete rotante, com’è schematizzato nella FIGURA 22.5. (Abbiamo visto in precedenza che un simile campo rotante può anche essere prodotto da un opportuno gruppo di bobine percorse da correnti alternate.) Dobbiamo fare di nuovo diverse ipotesi semplificatrici. Le ipotesi che faremo sono tutte quelle che abbiamo descritto nel caso dell’induttanza. In particolare supporremo che il campo magnetico variabile sia limitato a una determinata regione nella vicinanza della bobina e non si faccia sentire fuori dal generatore, nello spazio fra i terminali. Seguendo da vicino l’analisi che abbiamo fatto per l’induttanza, consideriamo l’integrale di linea di E lungo un cammino chiuso che comincia dal terminale a, percorre la bobina fino al terminale b e torna al punto di partenza attraverso lo spazio fra i due terminali. Anche qui concludiamo che la differenza di potenziale fra i terminali è uguale all’integrale di linea complessivo di E lungo il cammino chiuso: ⇥ V= E · ds Questo integrale di linea è uguale alla fem del circuito, perciò la differenza di potenziale V fra i terminali del generatore è anche uguale alla variazione per unità di tempo del flusso magnetico che si concatena con la bobina: d V = E= (flusso) (22.11) dt Per un generatore ideale ammetteremo che il flusso magnetico che si concatena con la bobina sia determinato dalle condizioni esterne – come la velocità angolare di un campo magnetico rotante – e non sia influenzato in alcun modo dalle correnti che circolano nel generatore. Perciò un generatore – o almeno il generatore ideale che stiamo considerando – non è un’impedenza. La differenza di potenziale fra i suoi terminali è determinata dalla forza elettromotrice E(t) arbitrariamente assegnata. Un simile generatore ideale è rappresentato dal simbolo indicato nella FIGURA 22.6. La piccola freccia rappresenta la direzione della fem quando è positiva. Una fem positiva nel generatore della FIGURA 22.6 produrrà un voltaggio V = E, col terminale a a un potenziale più alto del terminale b. C’è un altro modo di fare un generatore, che è del tutto diverso all’interno, ma è indistinguibile da quello ora descritto per quanto riguarda ciò che accade oltre i suoi terminali. Supponiamo di avere una bobina di filo che viene fatta ruotare in un campo magnetico fisso, come indicato in FIGURA 22.7. Si è disegnata una sbarra magnetizzata per indicare la presenza di un campo magnetico; naturalmente potrebbe essere sostituita da qualunque altra sorgente di campo magnetico costante, come un’altra bobina percorsa da una corrente costante. Come si vede dalla figura, i collegamenti fra la bobina rotante e il mondo esterno sono fatti per mezzo di contatti striscianti o «anelli collettori». Anche qui ci interessa la differenza di potenziale che appare fra i due terminali a e b, che è naturalmente l’integrale del campo elettrico dal terminale a al terminale b lungo un percorso esterno al generatore.
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22.2 • Generatori
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Ora nel sistema della FIGURA 22.7 non ci sono campi magnetici variabili, così che alla prima ci si potrebbe meravigliare di come possa apparire un voltaggio ai terminali del generatore. Effettivamente non ci sono campi elettrici da alcuna parte dentro il generatore. Abbiamo ammesso, come al solito per i nostri elementi ideali, che i fili interni sono fatti di un materiale perfettamente conduttore, e come abbiamo detto molte volte, il campo elettrico in un conduttore perfetto è uguale a zero. Ma questo non è vero. Non è vero quando un conduttore si muove in un campo magnetico. L’affermazione esatta è che la forza totale su ogni carica deve essere zero nell’interno di un conduttore perfetto. Altrimenti ci sarebbe un flusso infinito di cariche libere. Perciò quello che è sempre vero è che la somma del campo elettrico E e del prodotto vettoriale della velocità del conduttore per il campo magnetico B – che è la forza totale sulla carica – deve avere il valore zero nel conduttore, ossia
a
N V
S
b
22.7 Un generatore formato da una bobina rotante in un campo magnetico fisso. FIGURA
F/unità di carica = E + v ⇥ B = 0 (in un conduttore perfetto)
(22.12)
in cui v rappresenta la velocità del conduttore. La nostra precedente affermazione che non c’è campo elettrico all’interno di un conduttore perfetto va benissimo se la velocità del conduttore è nulla; altrimenti l’affermazione corretta è data dall’equazione (22.12). Tornando al generatore della FIGURA 22.7, vediamo ora che l’integrale di linea del campo elettrico E dal terminale a al terminale b attraverso le spire conduttrici del generatore deve essere uguale all’integrale di linea di v ⇥ B sullo stesso percorso, cioè ⌅
b
E · ds =
a dentro al conduttore
⌅
b
(v ⇥ B) · ds
(22.13)
a dentro al conduttore
È pur sempre vero, però, che l’integrale di linea di E in un percorso chiuso completo – includente il ritorno da b ad a esternamente al generatore – deve essere zero, perché non ci sono campi magnetici variabili. Perciò il primo integrale nell’equazione (22.13) è pure uguale a V , cioè al voltaggio fra i due terminali. Risulta che l’integrale nel secondo membro dell’equazione (22.13) non è che la variazione per unità di tempo del flusso concatenato con la bobina ed è perciò – secondo la regola del flusso – uguale alla fem della bobina. Troviamo perciò di nuovo che la differenza di potenziale fra i terminali è uguale alla fem nel circuito, in accordo con l’equazione (22.11). Perciò, sia che si abbia un generatore nel quale un campo magnetico cambia in vicinanza di una bobina fissa o un altro in cui una bobina si muove in un campo magnetico fisso, le proprietà esterne del generatore sono le stesse. C’è una differenza di potenziale V fra i terminali che è indipendente dalla corrente nel circuito e dipendente soltanto dalle condizioni arbitrariamente assegnate all’interno del generatore. Dato che stiamo cercando di capire il funzionamento dei generatori dal punto di vista delle equazioni di Maxwell ci si potrebbe anche occupare delle ordinarie pile chimiche, come le batterie per lampade portatili. Sono anch’esse dei generatori, cioè sorgenti di tensione, per quanto, naturalmente, si vedranno solo in circuiti in CC. Il tipo di pila che è più semplice da capire è mostrato nella FIGURA 22.8. Immaginiamo due lastre metalliche immerse in una certa soluzione chimica. Supponiamo che la soluzione contenga ioni positivi e negativi; supponiamo inoltre che uno dei tipi di ione, mettiamo quello negativo, sia molto più pesante dello ione dell’opposta polarità, così che il suo moto attraverso la soluzione – dovuto al processo della diffusione – sia molto più lento. Ammettiamo inoltre che con un mezzo o un altro si sia fatto in modo che la concentrazione della soluzione vari da una parte all’altra del liquido, così che il numero di ioni di entrambe le polarità sia – mettiamo – molto più grande in vicinanza della lastra inferiore che in vicinanza di quella superiore. A causa della loro rapida mobilità, gli ioni positivi migreranno più facilmente nella regione a bassa concentrazione, così che ci sarà un piccolo eccesso di carica positiva in arrivo alla lastra superiore. Questa si caricherà positivamente, mentre quella inferiore avrà una carica complessivamente negativa.
I a + + + – – –+ – + – + – + –+ –
V b
FIGURA
22.8
chimica.
Una pila
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Via via che le cariche diffondono verso la lastra superiore, il potenziale di questa salirà, finché il campo elettrico fra le lastre che ne risulta produrrà delle forze sugli ioni che compenseranno esattamente la loro eccedenza di mobilità; perciò le due lastre della pila raggiungeranno rapidamente una differenza di potenziale che è caratteristica della costituzione interna. Ragionando esattamente come è stato fatto per il condensatore ideale, vediamo che la differenza di potenziale fra i terminali a e b non è che l’integrale di linea del campo elettrico fra le due lastre quando la diffusione degli ioni si è equilibrata. C’è naturalmente una differenza essenziale fra un condensatore e una simile pila chimica. Se cortocircuitiamo i terminali di un condensatore per un momento, il condensatore si scarica e non c’è più alcuna differenza di potenziale fra i terminali. Nel caso della pila chimica si può ricavare corrente in continuità dai terminali senza alcun cambiamento della fem, naturalmente fino a quando i prodotti chimici contenuti nella pila sono stati consumati. In una pila vera si trova che la differenza di potenziale fra i terminali diminuisce quando la corrente richiesta alla pila aumenta. In armonia con le astrazioni che siamo andati facendo, possiamo tuttavia immaginare una pila nella quale il voltaggio fra i terminali è indipendente dalla corrente. Una pila vera, quindi, può esser considerata come una pila ideale in serie con un resistore.
22.3
a
b
z2 V2 z1 V1
V3
z3
g c
V7 f z6
V4
V6
z4
V5 e
z5
22.9
d
La somma delle cadute di potenziale lungo un percorso chiuso qualsiasi è zero. FIGURA
Reti di elementi ideali. Regole di Kirchhoff
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, la descrizione di un elemento circuitale ideale, in termini di quello che accade esternamente all’elemento stesso, è molto semplice. Corrente e voltaggio sono legati linearmente. Quello però che accade all’interno dell’elemento è molto complicato ed è molto difficile darne una descrizione precisa in termini delle equazioni di Maxwell. Immaginate di tentar di dare una descrizione precisa dei campi elettrici e magnetici dentro a una radio che contiene centinaia di resistori, condensatori e induttori. Sarebbe un compito impossibile analizzare un simile oggetto adoperando le equazioni di Maxwell. Facendo invece le molte approssimazioni che abbiamo descritto nel paragrafo 22.2, e riassumendo le caratteristiche essenziali degli elementi circuitali veri in termini delle loro idealizzazioni, diventa possibile analizzare un circuito in una maniera relativamente semplice. Vogliamo ora far vedere come si procede. Supponiamo di avere un circuito che consiste di un generatore e diverse impedenze collegate fra loro, come mostra la FIGURA 22.9. Secondo le nostre approssimazioni non ci sono campi magnetici nella regione esterna ai singoli elementi circuitali. Perciò l’integrale di linea di E lungo qualsiasi curva che non passa attraverso nessuno degli elementi è zero. Consideriamo allora la curva indicata dalla linea a tratti che fa tutto il giro del circuito in FIGURA 22.9. L’integrale di linea di E lungo questa curva è composto di diversi pezzi. Ciascun pezzo è l’integrale di linea da un terminale all’altro di un elemento circuitale. Abbiamo chiamato questo integrale di linea caduta di potenziale attraverso l’elemento circuitale. L’intero integrale di linea non è che la somma delle cadute di potenziale ai capi di tutti gli elementi del circuito: ⇥ X E · ds = Vn Siccome questo integrale di linea è nullo, se ne conclude che la somma delle differenze di potenziale lungo un cammino chiuso composto da elementi del circuito è nulla: X Vn = 0 (22.14) lungo qualunque cammino chiuso
Questo risultato segue da una delle equazioni di Maxwell, che afferma che in una regione dove non ci sono campi magnetici l’integrale di linea di E lungo una qualsiasi curva chiusa è nullo. Supponiamo ora di considerare un circuito come quello mostrato nella FIGURA 22.10. La linea orizzontale che unisce i terminali a, b, c e d serve a far vedere che questi terminali sono tutti collegati, ossia sono uniti mediante fili di resistenza trascurabile. Comunque, il disegno significa
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22.3 • Reti di elementi ideali. Regole di Kirchhoff
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che i terminali a, b, c e d sono tutti allo stesso potenziale e, similmente, che i terminali e, f , g e h sono anch’essi a un potenziale comune. Perciò la I1 I2 I3 I4 caduta di potenziale V ai capi di ciascuno dei quattro elementi è la stessa. Una delle nostre idealizzazioni è stata che cariche trascurabili si accuz1 z2 z3 V mulino sui terminali delle impedenze. Ora ammetteremo in più che qualsiasi carica elettrica sui fili che congiungono i terminali può ugualmente essere I1 I2 I3 I4 trascurata. Allora la conservazione della carica esige che ogni carica che lascia un elemento circuitale entri immediatamente in qualche altro elemento circuitale. Ossia, in altre parole, dobbiamo esigere che la somma algebrica FIGURA 22.10 La somma delle correnti che delle correnti che entrano in qualsiasi dato raccordo deve essere zero. Per convergono in un nodo qualsiasi è zero. raccordo s’intende naturalmente un qualunque gruppo di terminali, come a, b, c e d collegati fra loro. Un tale gruppo di terminali collegati viene usualmente chiamato «nodo». La conservazione della carica richiede dunque che per il circuito in FIGURA 22.10 si abbia I1
I2
I3
I4 = 0
(22.15)
La somma delle correnti che entrano nel nodo formato dai quattro terminali e, f , g e h deve anch’essa essere zero: I1 + I2 + I3 + I4 = 0 (22.16) Questa naturalmente è equivalente all’equazione (22.15): le due equazioni non sono indipendenti. La regola generale è che la somma delle correnti che affluiscono a qualunque nodo deve essere zero: X In = 0 (22.17) in un nodo
La nostra precedente conclusione che la somma delle cadute di potenziale intorno a una catena chiusa è zero, deve valere per ogni catena di elementi in un circuito complesso. Inoltre, il risultato che la somma delle correnti che affluiscono a un nodo è zero, deve essere vero per qualsiasi nodo. Queste due equazioni sono conosciute col nome di regole di Kirchhoff. Con queste due regole è possibile determinare correnti e voltaggi in una rete qualsiasi. Supponiamo di considerare il circuito più complesso in FIGURA 22.11. a Come troveremo le correnti e i voltaggi in questo circuito? Lo possiamo fare z1 nella semplice maniera seguente. Consideriamo separatamente ciascuno dei quattro percorsi chiusi ausiliari che figurano nel circuito. (Per esempio I1 uno di questi va dal terminale a ai terminali b, e, d per poi tornare ad a.) I1 Per ciascuno di questi percorsi chiusi scriviamo le equazioni che traducono I4 la prima delle regole di Kirchhoff, cioè che la somma dei voltaggi lungo z4 d il percorso è uguale a zero. Ci si deve ricordare di contare una caduta di potenziale come positiva se si va nella direzione della corrente e negativa se attraversiamo un elemento in direzione opposta alla corrente; similmente si I5 deve ricordare che la caduta di potenziale ai capi di un generatore è la fem in quella direzione, cambiata di segno. Perciò se si considera il percorso I7 chiuso parziale che comincia e finisce al terminale a abbiamo l’equazione
b
c
z2 I2
z3
I3 I8
e
z5
f
I6
z6
z7
z1 I1 + z3 I3 + z4 I4
g
E1 = 0
h
j
Applicando la stessa regola ai restanti percorsi, si otterrebbero altre tre FIGURA 22.11 Analisi di un circuito con le regole equazioni dello stesso tipo. di Kirchhoff. Poi dobbiamo scrivere l’equazione delle correnti per ciascuno dei nodi del circuito. Per esempio sommando le correnti che arrivano al nodo del terminale b si ha l’equazione I1 I3 I2 = 0 Similmente, per il nodo indicato con e si avrebbe l’equazione delle correnti I3
I4 + I8
I5 = 0
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Capitolo 22 • Circuiti in CA
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Per il circuito in questione ci sono cinque di queste equazioni. Risulta però che ognuna di queste equazioni può essere derivata dalle altre quattro; ci sono perciò soltanto quattro equazioni indipendenti. Abbiamo così un totale di otto equazioni lineari indipendenti: le quattro equazioni dei voltaggi e le quattro equazioni delle correnti. Con queste otto equazioni possiamo determinare le otto correnti incognite. Una volta note le correnti, il circuito è risolto. La caduta di potenziale ai capi di un elemento qualunque è data infatti dalla corrente che lo attraversa moltiplicata per la sua impedenza (oppure, nel caso delle sorgenti di voltaggio, è già nota). Si è visto che quando si scrivono le equazioni delle correnti, si ottiene un’equazione in più che non è indipendente dalle altre. In generale è altrettanto possibile scrivere troppe equazioni dei voltaggi. Per esempio nel circuito della FIGURA 22.11, benché si siano considerati soltanto i quattro percorsi chiusi più piccoli, c’è un gran numero di altri percorsi chiusi per i quali si potrebbe scrivere l’equazione dei voltaggi. C’è per esempio il percorso abc f eda; ce n’è un secondo abc f ehgda. Vedete che ce ne sono molti. Analizzando dei circuiti complessi è molto facile ottenere troppe equazioni. Ci sono delle regole che insegnano a procedere in modo da impostare il numero minimo di equazioni; di solito, però, con un po’ di riflessione, è possibile capire come ottenere il giusto numero di equazioni nella forma più semplice possibile. Inoltre, lo scrivere un’equazione o due in più non fa alcun danno. Non possono condurre a soluzioni sbagliate; se mai, solo a un po’ di algebra superflua. Nel cap. 25 del vol. 1 si è visto che se due impedenze z1 e z2 sono in serie esse sono equivalenti a un’unica impedenza zs data da zs = z1 + z2 (22.18) Abbiamo anche visto che se due impedenze sono collegate in parallelo esse equivalgono a un’unica impedenza zp data da 1 z1 z2 zp = = (22.19) 1/z1 + 1/z2 z1 + z2
z3
z1
z2
z4
z6
z7
z5
z8
22.12 Un circuito che può essere analizzato in termini di combinazioni in serie e in parallelo. FIGURA
Se andate a controllare vedrete che deducendo questi risultati facevamo effettivamente uso delle regole di Kirchhoff. È spesso possibile analizzare un circuito complesso applicando ripetutamente le formule per le impedenze in serie e in parallelo. Per esempio il circuito della FIGURA 22.12 può essere analizzato in questo modo. Dapprima le impedenze z4 e z5 possono essere sostituite dalla loro impedenza equivalente in parallelo ed è così anche per z6 e z7 . Poi l’impedenza z2 può essere combinata con l’impedenza equivalente di z6 e z7 con la regola della serie. Procedendo in questo modo l’intero circuito può essere ridotto a un generatore in serie con un’unica impedenza Z. La corrente che passa per il generatore è perciò semplicemente E/Z. Dopo, operando a ritroso, si possono determinare le correnti in ciascuna delle impedenze. Ci sono però dei circuiti semplicissimi che non possono essere analizzati con questo metodo, come per esempio il circuito della FIGURA 22.13. Per analizzare questo circuito si devono impostare le equazioni delle correnti e dei voltaggi secondo le regole di Kirchhoff. Facciamolo. C’è soltanto un’equazione delle correnti: I1 + I2 + I3 = 0 perciò sappiamo subito che si deve avere
z1
I1
z2
I2
z3
I3 = (I1 + I2 )
I3 = – (I1 + I2)
Ci si può risparmiare un po’ di algebra se facciamo subito uso di questo risultato nello scrivere le equazioni dei voltaggi. Per questo circuito ci sono due equazioni indipendenti per i voltaggi; esse sono: FIGURA 22.13 Un circuito che non può essere analizzato in termini di combinazioni in serie e in parallelo.
E1 + I2 z2 E2
I1 z1 = 0
(I1 + I2 ) z3
I2 z2 = 0
289
22.4 • Circuiti equivalenti
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Ci sono due equazioni e due correnti incognite. Risolvendo queste equazioni per I1 e I2 si ottengono: a
I1 =
z2 E2 (z2 + z3 ) E1 z1 (z2 + z3 ) + z2 z3
(22.20)
I2 =
z 1 E 2 + z 3 E1 z1 (z2 + z3 ) + z2 z3
(22.21)
z6
z1
z2 z3
z4
z5
La terza corrente si ottiene dalla somma di queste due. b Un altro esempio di circuito che non può essere analizzato adoperando le regole per le impedenze in serie e in parallelo è rappresentato nella FIGURA 22.14. Un simile circuito è chiamato un «ponte» e si presenta in FIGURA 22.14 Un circuito a ponte. molti strumenti adoperati per la misura delle impedenze. Con un circuito di questo tipo interessa di solito il seguente problema: come devono essere legate fra loro le varie impedenze perché la corrente attraverso l’impedenza z3 sia nulla? Si lascia a voi il trovare le condizioni per cui questo avviene.
22.4
Circuiti equivalenti
Supponiamo di collegare un generatore E a un circuito che contiene qualche complicata combinazione di impedenze come si è indicato schematicamente nella FIGURA 22.15a. Tutte le equazioni che otteniamo dalle regole di Kirchhoff sono lineari, perciò quando le risolviamo rispetto alla corrente I che passa per il generatore otterremo che I è proporzionale a E. Possiamo scrivere I=
E zeff
dove zeff è un certo numero complesso funzione algebrica di tutti gli elementi circuitali. (Se il circuito non contiene altri generatori oltre a quello indicato, non ci sono ulteriori termini indipendenti da E.) Questa equazione però è precisamente quella che si scriverebbe per il circuito della FIGURA 22.15b. Finché ci si interessa soltanto di ciò che accade a sinistra dei due terminali a e b, i due circuiti della FIGURA 22.15 sono equivalenti. Si può perciò affermare in generale che qualsiasi rete di elementi passivi avente due terminali può essere sostituita da un’unica impedenza zeff senza mutare correnti e voltaggi nella parte rimanente del circuito. Questa affermazione, naturalmente, non è che un’osservazione su ciò che risulta dalle regole di Kirchhoff, o anche, in definitiva, dalla linearità delle equazioni di Maxwell. L’idea può essere estesa a un circuito che contiene generatori, oltre che impedenze. Supponiamo di considerare un simile circuito «dal punto di vista» di una delle impedenze, che chiameremo z n , come in FIGURA 22.16a. Se si risolvesse l’equazione per il circuito completo, si troverebbe che il voltaggio Vn fra i due terminali a e b è una funzione lineare di I che possiamo scrivere Vn = A
a
In
Qualunque circuito di z ed
Qualunque circuito di z I
(22.22)
BIn
I
a
a
In
zeff Vn
zeff
V
V
Vn
zn
22.15 Qualsiasi rete a due terminali formata da elementi passivi è equivalente a un’impedenza efficace. FIGURA
zn
22.16 Qualsiasi rete a due terminali può essere sostituita da un generatore in serie con un’impedenza. FIGURA
b
b
b
290
Capitolo 22 • Circuiti in CA
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dove A e B dipendono dai generatori e dalle impedenze del circuito a sinistra dei terminali. Per esempio, per il circuito della FIGURA 22.13 si trova V1 = I1 z1 Questa relazione può essere scritta, rielaborando l’equazione (22.20), nella forma V1 =
z2 E2 z2 + z3
E1
z2 z3 I1 z2 + z3
(22.23)
Si ottiene quindi la soluzione completa combinando questa equazione con quella dell’impedenza z1 , vale a dire V1 = I1 z1 , oppure – nel caso generale – combinando l’equazione (22.22) con Vn = In z n Se ora si considera che z n sia collegato a un semplice circuito in serie formato da un generatore e una impedenza, come in FIGURA 22.15b, l’equazione corrispondente all’equazione (22.22) è Vn = Eeff
In zeff
che è identica all’equazione (22.22) purché si ponga Eeff = A e zeff = B. Perciò se ci si interessa soltanto a quello che accade a destra dei terminali a e b, il circuito arbitrario della FIGURA 22.16 può essere sempre sostituito da una combinazione equivalente di un generatore in serie con un’impedenza.
22.5
Energia
Abbiamo visto che, per creare una corrente I in una induttanza, l’energia U=
1 2 LI 2
deve essere fornita dal circuito esterno. Quando la corrente ricade a zero, questa energia è restituita al circuito esterno. In un’induttanza ideale non c’è alcun meccanismo che conduca a una perdita d’energia. Quando attraverso un’induttanza c’è una corrente alternata, dell’energia fluisce avanti e indietro fra l’induttanza e il resto del circuito, ma il flusso medio con cui l’energia è fornita al circuito è zero. Si dice che un’induttanza è un elemento non dissipativo; non c’è energia elettrica dissipata, cioè, «perduta» in essa. Similmente l’energia di un condensatore U=
1 CV 2 2
è restituita al circuito esterno quando il condensatore si scarica. Quando un condensatore si trova in un circuito in CA dell’energia fluisce dentro e fuori di esso, ma il flusso netto d’energia in ciascun ciclo è zero. Anche un condensatore ideale è un elemento non dissipativo. Sappiamo che una fem è una sorgente d’energia. Quando una corrente I fluisce nella direzione della fem, dell’energia viene fornita al circuito esterno con la potenza dU = EI dt Se la corrente è fatta circolare – da altri generatori presenti nel circuito – contro la fem, quest’ultima assorbirà la potenza EI; siccome I è negativa dU/dt è anch’essa negativa. Se un generatore è connesso a un resistore R, la corrente attraverso il resistore è I=
E R
291
22.5 • Energia
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L’energia per unità di tempo EI che il generatore fornisce è assorbita dal resistore. Questa energia si trasforma in calore nel resistore ed è sottratta all’energia elettrica del circuito. Si dice che l’energia elettrica viene dissipata nel resistore. La potenza dissipata in un resistore è dU = RI 2 dt In un circuito in CA la potenza media perduta in un resistore è la media di RI 2 durante un ciclo. ˆ i!t – con la quale equazione si vuol dire in realtà che I varia come cos !t – la Siccome è I = Ie 2 media di I in un ciclo è | Iˆ |2 /2, perché la corrente di punta è | Iˆ | e la media di cos2 !t è 1/2. Cosa si può dire della perdita d’energia quando un generatore è collegato a un’impedenza arbitraria z? (Col termine «perdita» s’intende naturalmente la conversione di energia elettrica in energia termica.) Qualunque impedenza z può essere scritta come somma delle sue parti reale e immaginaria. Cioè z = R + iX (22.24) dove R e X sono numeri reali. Dal punto di vista dei circuiti equivalenti, si può dire che ogni impedenza è equivalente a una resistenza in serie con un’impedenza puramente immaginaria – chiamata reattanza – come mostra la FIGURA 22.17. Abbiamo visto in precedenza che qualunque circuito che contiene soltanto L e C ha un’impedenza che è un numero immaginario puro. Siccome in media non c’è perdita d’energia in nessuna L o C, una pura reattanza, contenendo solo L e C non avrà perdita d’energia. Si può vedere che questo deve essere vero in generale per una reattanza. Se un generatore con la fem è collegato all’impedenza z della FIGURA 22.17, la fem deve essere legata alla corrente I fornita dal generatore da (22.25)
E = I (R + iX)
Per trovare la potenza media alla quale l’energia viene fornita ci occorre la media del prodotto EI. Qui bisogna stare attenti. Quando si ha a che fare con simili prodotti, si deve sempre operare con le quantità reali E(t) e I(t). (Le parti reali delle funzioni complesse rappresentano le effettive grandezze fisiche solo quando si hanno equazioni lineari; ma ora siamo interessati a dei prodotti, che certamente non sono lineari.) Supponiamo di scegliere l’origine di t in modo che l’ampiezza Iˆ sia un numero reale, diciamo I0 ; allora l’effettiva dipendenza di I dal tempo è data da I = I0 cos !t La fem espressa dall’equazione (22.25) è la parte reale di I0 ei!t (R + iX) ossia E = I0 R cos !t
I0 X sen !t
(22.26)
I due termini nell’equazione (22.26) rappresentano la caduta di potenziale attraverso R e X in FIGURA 22.17. Si vede che la caduta di potenziale attraverso la resistenza è in fase con la corrente, mentre la caduta attraverso la parte puramente reattiva è fuori fase rispetto alla corrente. La perdita media d’energia per unità di tempo, hPim , è l’integrale del prodotto EI su un ciclo, diviso per il periodo T; in altri termini si ha 1 hPim = T
⌅
0
T
1 EI dt = T
⌅
0
T
I02 R cos2 !t
dt
1 T
⌅
0
T
I02 X cos !t sen !t dt
Il primo integrale è (1/2) I02 R e il secondo integrale è zero. Perciò la perdita media d’energia in un’impedenza z = R + iX dipende soltanto dalla parte reale di z ed è I02 R/2, il che è in accordo col nostro precedente risultato per la perdita d’energia in un resistore. Non c’è perdita d’energia nella parte reattiva.
R z iX
FIGURA
22.17
Qualunque impedenza equivale a una combinazione in serie di una pura resistenza e una pura reattanza.
292
Capitolo 22 • Circuiti in CA
22.6
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Una rete a scala
Desideriamo ora considerare un circuito interessante che può essere analizzato in termini di combinazioni a a z1 in serie e in parallelo. Supponiamo di partire dal circuito della FIGURA 22.18a. È evidente che l’impedenza (a) z2 z3 z3 = z1 + z2 dal terminale a al terminale b è semplicemente z1 + z2 . = Ora prendiamo un circuito un po’ più difficile, quello mostrato nella FIGURA 22.18b. Si potrebbe analizzare b b questo circuito usando le regole di Kirchhoff, ma è anche facile trattarlo per mezzo di combinazioni in serie e in parallelo. Si possono sostituire le due impedenze a a z1 z1 z1 a destra con un’unica impedenza z3 = z1 + z2 , come si vede nella FIGURA 22.18c. Poi le due impedenze z2 e z3 possono essere sostituite dalla loro impedenza equiz2 z3 z2 (b) = (c) z2 valente in parallelo z4 , come mostra la FIGURA 22.18d. Infine, z1 e z4 sono equivalenti alla singola impedenza b b z5 , come mostra la FIGURA 22.18e. Ora si può formulare un divertente quesito: cosa succederebbe se nella rete della FIGURA 22.18b si a a z1 continuasse ad aggiungere nuove sezioni indefinitamente, come vogliono indicare le linee a tratti nella FIGURA 22.19a? Si può risolvere una tale rete infinita? z4 z5 = (d) = (e) z5 = z1 + z4 Ebbene, ciò non è così difficile. Dapprima notiamo che una tale rete infinita rimane immutata se aggiungiab b mo una sezione di più all’estremo «d’entrata». Certo, se aggiungiamo una sezione di più a una rete infini1/z4 = 1/z2 + 1/z3 ta questa resta la medesima rete infinita. Mettiamo di chiamare z0 l’impedenza fra i due terminali a e b delFIGURA 22.18 L’impedenza efficace di una scala di impedenze. la rete infinita; allora l’impedenza di tutta la roba che sta a destra dei due terminali c e d è ugualmente z0 . Perciò, per quanto riguarda l’estremo d’ingresso, possiamo rappresentare la rete come mostra la FIGURA 22.19b. Combinando le impedenze in parallelo z2 e z0 e sommando il risultato in serie con z1 possiamo scrivere subito l’impedenza di questa combinazione: z = z1 +
1 z2 z0 = z1 + 1 1 z2 + z0 + z2 z0
Ma questa impedenza è anche uguale a z0 , perciò abbiamo l’equazione z0 = z1 +
a
(a)
b
FIGURA
22.19
z1
a
c
z1
z2
z1
z2
z2
d
L’impedenza efficace di una scala infinita.
ecc.
(b)
b
z2 z0 z2 + z0
z1
c
a
z2
z0
d
z0
=
b
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22.7 • Filtri
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Possiamo risolvere per z0 e ottenere
z0 =
z1 + 2
s
a
z12 4
+ z1 z2
(22.27)
(a)
L
L C
L C
C
ecc.
b L /2
L /2
L /2
Abbiamo dunque trovato la soluzione per l’impedenza di una scala infinita L /2 di impedenze ripetute in serie e in parallelo. L’impedenza z0 è chiamata a a' (b) l’impedenza caratteristica di tale rete infinita. C C C ecc. b Consideriamo ora un esempio specifico in cui l’elemento in serie è un’induttanza L e quello in parallelo è una capacità C, come si vede in FIGURA 22.20a. In questo caso si trova l’impedenza della rete infinita FIGURA 22.20 Una scala L-C disegnata in due modi equivalenti. ponendo 1 z1 = i!L e z2 = i!C Notate che il primo termine, z1 /2, nell’equazione (22.27) è proprio la metà dell’impedenza del primo elemento. Sembra perciò più naturale, o almeno un po’ più semplice, disegnare la rete infinita come mostra la FIGURA 22.20b. Guardando alla rete infinita dal terminale a 0 si vedrebbe l’impedenza caratteristica r L !2 L 2 z0 = (22.28) C 4 Si presentano ora due casi interessanti, a seconda della frequenza !. Se !2 è minore di 4/LC, il secondo termine nel radicale sarà più piccolo del primo e l’impedenza z0 sarà un numero reale. D’altra parte se !2 è maggiore di 4/LC l’impedenza z0 sarà un numero immaginario puro che possiamo scrivere r !2 L 2 L z0 = i 4 C Abbiamo detto in precedenza che un circuito che contiene soltanto impedenze immaginarie, come induttanze e capacità, ha un’impedenza che è immaginaria pura. Come può dunque avvenire che per il circuito che stiamo studiando – dove ci sono soltanto L e C – l’impedenza sia una resistenza p pura per frequenze inferiori a 4/LC? Per frequenze più elevate l’impedenza è immaginaria pura, in accordo con la nostra affermazione precedente. Per frequenze più basse l’impedenza è una pura resistenza e perciò assorbirà energia. Ma come può il circuito assorbire continuamente energia – come fa una resistenza – se è composto soltanto di induttanze e capacità? Risposta: lo può fare perché c’è un numero infinito di induttanze e capacità, così che quando una sorgente è collegata al circuito essa fornisce energia alla prima induttanza e capacità, poi alla seconda, alla terza e così via. In un circuito di questa natura, l’energia viene continuamente assorbita dal generatore a un ritmo costante e fluisce costantemente nella rete accumulandosi nelle induttanze e capacità lungo la linea. Quest’idea suggerisce una considerazione interessante riguardo a ciò che accade nel circuito. Ci si attende che se si collega una sorgente all’estremo d’entrata, gli effetti di questa si propaghino attraverso la rete verso l’estremo che è all’infinito. La propagazione di onde lungo la linea è molto simile alla radiazione da parte di un’antenna, che assorbe energia dalla sorgente che la fa funzionare; cioè, ci si aspetta che una simile propagazione abbia luogo quando l’impedenza è p reale, ciò che avviene se ! è minore di 4/LC. Ma quando l’impedenza è immaginaria pura, il p che avviene per ! maggiore di 4/LC, non ci si deve aspettare di vedere una simile propagazione.
22.7
Filtri
S’è visto nel paragrafo precedente che la rete infinita a scaletta della FIGURA 22.20 assorbe p energia continuamente se è alimentata a una frequenza inferiore a una certa frequenza critica 4/LC che chiameremo frequenza di taglio !0 . Si è suggerito che questo effetto si possa capire in termini di
294
Capitolo 22 • Circuiti in CA
I1 V1
z1
I2 V2
z2
z1
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I3 V3
z2
z1
In V4
z2
z1
ecc.
Vn
(a)
FIGURA
22.21
In +1
z2
Vn +1
z0
(b)
Determinazione del fattore di propagazione di una scala.
un trasporto continuo di energia lungo la linea. D’altra parte a frequenze elevate, cioè per ! > !0 , non c’è questo assorbimento continuo d’energia: ci si deve dunque aspettare che le correnti, forse, non «penetrino» molto lontano lungo la linea. Vediamo se queste idee sono giuste. Supponiamo di collegare l’estremo d’entrata della scala a un certo generatore di CA e domandiamoci che cosa ne sarà del voltaggio – poniamo – alla 754-esima sezione della scala. Siccome la rete è infinita, quello che accade al voltaggio nel passare da una sezione alla successiva è sempre lo stesso; perciò andiamo a vedere cosa accade quando si passa da una certa sezione – diciamo la n-esima – a quella successiva. Definiamo le correnti In e i voltaggi Vn come mostra la FIGURA 22.21a. Si può ottenere il voltaggio Vn+1 da Vn ricordando che si può sempre sostituire il resto della scala oltre l’n-esima sezione con la sua impedenza caratteristica z0 ; perciò occorre soltanto analizzare il circuito della FIGURA 22.21b. Notiamo dapprima che qualsiasi Vn deve uguagliare In z0 , perché è sempre riferito ai capi di un’impedenza z0 . Inoltre la differenza fra Vn e Vn+1 non è che In z1 : z1 Vn Vn+1 = In z1 = Vn z0 Otteniamo dunque il rapporto Vn+1 =1 Vn
z1 z0 z1 = z0 z0
Possiamo chiamare questo rapporto fattore di propagazione per una sezione della scala; chiamiamolo ↵. È naturalmente lo stesso per tutte le sezioni: ↵=
z0
z1
(22.29)
z0
Il voltaggio dopo la n-esima sezione è dunque Vn = ↵ n E
(22.30)
Adesso potete trovare il voltaggio dopo 754 sezioni; non è che ↵ alla 754-esima potenza moltiplicato per E. Vediamo un po’ cos’è per la scala L-C della FIGURA 22.20a. Prendendo z0 dall’equazione (22.27), e con z1 = i!L, si ottiene r
↵=r
L C
!2 L 2 4
L C
!2 L 2 !L +i 4 2
i
!L 2
Se la frequenza d’alimentazione è inferiore alla frequenza di taglio !0 =
r
4 LC
(22.31)
295
22.7 • Filtri
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il radicale è un numero reale e i moduli dei numeri complessi al numeratore e al denominatore sono uguali. Perciò il modulo di ↵ è uno e possiamo scrivere ↵ = ei il che vuol dire che il modulo del voltaggio è lo stesso in ogni sezione; soltanto la sua fase cambia. Il cambiamento di fase è effettivamente un numero negativo e rappresenta il «ritardo» del voltaggio mentre si propaga lungo la rete. Per frequenze superiori alla frequenza di taglio !0 , è meglio mettere | | in evidenza un fattore i (che scompare) nel numeratore e nel denominatore dell’equazione (22.31) e riscriverla così 1 r !2 L 2 L !L C 2 ↵=r 4 (22.32) 2 2 ! L L !L + 4 C 2 0 0
0
Il fattore di propagazione ↵ è ora un numero reale e un numero minore di uno. Questo vuol dire che il voltaggio in ogni sezione è sempre minore del FIGURA 22.22 Il fattore di propagazione di una voltaggio della sezione precedente per un fattore ↵. Per qualunque frequen- sezione di una scala L-C. za superiore a !0 il voltaggio si smorza rapidamente quando percorriamo la rete. Un diagramma del valore assoluto di ↵ in funzione della frequenza ha l’aspetto del grafico di FIGURA 22.22. C C C C Vediamo che l’andamento di ↵, tanto al di là che al di qua di !0 si accorda con la nostra interpretazione che la rete lascia propagare l’energia L L L L per ! < !0 e la blocca per ! > !0 . Si dice che la rete «lascia passare» (a) le basse frequenze e «respinge» o «filtra» le alte frequenze. Qualunque rete progettata in modo che le sue caratteristiche variino con la frequenza | | in una maniera prestabilita, viene chiamata «filtro». Quello che abbiamo analizzato è un «filtro passa-basso». 1 Forse vi domandate perché si è fatta tutta questa discussione di una rete infinita che ovviamente non si può realizzare. Il punto interessante è (b) che le stesse caratteristiche si hanno per una rete finita se la chiudiamo su un’impedenza uguale all’impedenza caratteristica z0 . Ora, non è possibile in pratica riprodurre esattamente l’impedenza caratteristica con pochi 0 1/ 0 0 1/ elementi semplici, come resistenze, induttanze e capacità. Ma è spesso possibile farlo con buona approssimazione per un certo campo di frequenza. In questo modo si può fare un filtro finito le cui proprietà sono quasi esatta- FIGURA 22.23 a) Un filtro passa-alto; (b) il suo fattore mente le stesse che nel caso infinito. Per esempio, la scala L-C si comporta di propagazione come funzione di 1/ . essenzialmente come l’abbiamo descritta se la terminiamo con una pura resistenza r V(t ) L R= C Se nella scala L-C si scambiano le posizioni degli L e dei C, ottenendo 0 T t la scala indicata in FIGURA 22.23a, si può avere un filtro che propaga le alte frequenze e respinge quelle basse. È facile vedere ciò che accade in questa rete usando i risultati che già abbiamo. Noterete che quando si muta FIGURA 22.24 Il voltaggio d’uscita di un raddrizzatore L in C e viceversa, si muta anche ogni i! in 1/i!. Perciò quello che prima a onda completa. succedeva a ! ora succederà a 1/!. In particolare, si può capire come ↵ varierà con la frequenza, usando la FIGURA 22.22 e cambiando la denominazione dell’asse delle ascisse in 1/! come si è fatto nella FIGURA 22.23b. I filtri passa-basso e passa-alto che abbiamo descritto hanno varie applicazioni tecniche. Un filtro passa-basso è spesso usato come filtro «livellatore» negli alimentatori di CC. Se si vuole ottenere della potenza in CC partendo da una sorgente in CA, si comincia con un raddrizzatore che permette alla corrente di passare soltanto in una direzione. Dal raddrizzatore si ottiene una
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Capitolo 22 • Circuiti in CA
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serie d’impulsi che hanno l’aspetto della funzione V (t) indicata in FIGURA 22.24 che è una CC scalcinata, perché oscilla su e giù. Mettiamo di volere una bella CC pura, come quella che è fornita da una batteria. Ci possiamo avvicinare a questo mettendo un filtro passa-basso fra il raddrizzatore e il carico. Sappiamo dal cap. 50 del vol. 1 che la funzione del tempo indicata in FIGURA 22.24 si può rappresentare come la sovrapposizione di un voltaggio costante, più un’onda sinusoidale, più un’onda sinusoidale di frequenza più alta, più un’onda sinusoidale di frequenza ancora più alta ecc., cioè con una serie di Fourier. Se il nostro filtro è lineare (cioè se – come abbiamo supposto – le L e le C non variano al variare delle correnti o dei voltaggi) allora ciò che esce dal filtro è la sovrapposizione delle uscite corrispondenti alle varie componenti in entrata. Se facciamo in modo che la frequenza di taglio !0 del nostro filtro sia bene al di sotto della frequenza più bassa nella funzione V (t), la CC (per la quale è ! = 0 ) passa molto bene, ma l’ampiezza della prima armonica sarà tagliata di molto e le ampiezze delle armoniche superiori saranno tagliate ancora di più. Perciò possiamo ottenere un’uscita piatta quanto vogliamo, in rapporto soltanto col numero di sezioni di filtro che siamo disposti a comprare. Un filtro passa-alto si usa se si vogliono eliminare certe frequenze basse. Per esempio, in un amplificatore fonografico un filtro passa-alto può essere adoperato per lasciar passare la musica, escludendo invece il ronzio di bassa frequenza dovuto al motore del giradischi. È anche possibile fare dei filtri «passa-banda», che respingono le frequenze al di sotto di !1 e al di sopra di un’altra frequenza !2 (più grande di !1 ), ma passano le frequenze fra !1 e !2 . Questo si può fare semplicemente mettendo insieme un filtro passa-alto e uno passa-basso, ma si realizza più spesso con una scala in cui le impedenze z1 e z2 sono più complicate, (a) essendo ciascuna una combinazione di L e C. Un simile filtro passa-banda può avere una costante di propagazione simile a quella indicata nella FIGURA 22.25a. Potrebbe essere adoperato, per esempio, per separare dei segnali che occupano soltanto un intervallo di frequenze, come i molti canali di conversazione in un cavo telefonico ad alta frequenza, o l’onda portante (b) modulata di una trasmissione radio. Abbiamo visto nel cap. 25 del vol. 1 che un simile filtraggio può essere 1 2 fatto anche usando la selettività di un’ordinaria curva di risonanza, che abbiamo disegnato per confronto in FIGURA 22.25b. Però il filtro risonante non è tanto buono per certi scopi come il filtro passa-banda. Vi ricorderete FIGURA 22.25 (a) Un filtro passa-banda. (b) Un semplice filtro risonante. (cap. 48 del vol. 1) che quando una portante di frequenza !p è modulata con una frequenza «di segnale» !s , il segnale complessivo contiene non soltanto la frequenza della portante ma anche due frequenze di banda laterale !p + !s e !p !s . Con un filtro risonante queste frequenze di banda laterale sono sempre un po’ attenuate e l’attenuazione è tanto maggiore quanto più alta è la frequenza del segnale, come potete vedere dalla figura. Perciò si ha una «risposta in frequenza» poco buona. Le note musicali più alte non passano. Ma se il filtraggio è fatto con un filtro passa-banda progettato in modo che la sua larghezza !2 !1 sia almeno doppia della più alta frequenza di segnale, la risposta in frequenza per i segnali voluti sarà «piatta». Vogliamo discutere ancora un aspetto del filtro a scaletta: la scala L-C della FIGURA 22.20 è anche una rappresentazione approssimata di una linea di trasmissione. Se abbiamo un lungo conduttore che corre parallelo a un altro conduttore – come un filo in un cavo coassiale, o un filo sospeso a distanza da terra – ci sarà una certa capacità fra i due conduttori e anche una certa induttanza dovuta al campo magnetico nello spazio interposto. Se s’immagina la linea spezzata in piccoli segmenti `, ciascuna somiglierà a una sezione della scala L-C con un’induttanza L in serie e una capacità C in parallelo. Possiamo perciò adoperare i nostri risultati per il filtro a scaletta. Se passiamo al limite per ` che tende a zero, abbiamo una buona descrizione della linea di trasmissione. Notate che facendo ` sempre più piccolo, tanto L che C decrescono ma nella stessa proporzione, così che il rapporto L/ C resta costante. Perciò se nell’equazione (22.28) passiamo al limite per L e C tendenti a zero, troviamo che l’impedenza caratteristica z0 è una pura p L/ C. Possiamo anche scrivere il rapporto L/ C nella forma resistenza il cui modulo è
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22.8 • Altri elementi circuitali
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L 0 /C0 , dove L 0 e C0 sono l’induttanza e la capacità di un’unità di lunghezza della linea: allora abbiamo r L0 z0 = (22.33) C0
Noterete inoltre che quando L e C vanno a zero, la frequenza di taglio r 4 !0 = LC
va all’infinito. Non c’è una frequenza di taglio per una linea di trasmissione ideale.
22.8
Altri elementi circuitali
Finora abbiamo definito soltanto le impedenze circuitali ideali – l’induttanza, la capacità e la resistenza – come anche il generatore ideale di voltaggio. Vogliamo ora far vedere che altri elementi, come induttanza mutua o transistor o valvole, possono esser descritti adoperando soltanto gli elementi fondamentali. Supponiamo di avere due bobine e che – volendolo o no – un certo flusso di una delle bobine si concateni con l’altra, come mostra la FIGURA 22.26a. Allora fra le due bobine c’è una mutua induttanza M tale che quando la corrente varia in una delle bobine c’è un voltaggio generato nell’altra. Possiamo tener conto di un simile effetto nei nostri circuiti equivalenti? Lo possiamo, nel modo seguente. Si è visto che le fem in ciascuna delle due bobine interagenti possono essere scritte come somme di due parti: dI1 dI2 E1 = L 1 ±M dt dt (22.34) dI2 dI1 E2 = L 2 ±M dt dt
I2 I1
I1
I2
L1
L2
Il primo termine viene dall’autoinduzione della bobina e il secondo termine viene dalla mutua induzione con l’altra bobina. Il segno del secondo termine può essere un più o un meno, a seconda del modo in cui il flusso di una bobina si concatena con l’altra. Facendo le stesse approssimazioni usate FIGURA 22.26 Il circuito equivalente di un’induttanza nel descrivere l’induttanza ideale, si può dire che la differenza di potenziale mutua. fra i terminali di ciascuna bobina è uguale alla forza elettromotrice attiva nella bobina. Allora le due equazioni (22.34) sono le stesse che si otterrebbero dal circuito della FIGURA 22.26b, purché la forza elettromotrice in ciascuno dei due circuiti dipenda dalla corrente nell’altro circuito secondo le relazioni E1 = ± i!M I2 E2 = ± i!M I1
(22.35)
Perciò quello che possiamo fare è rappresentare l’effetto dell’autoinduzione nel modo normale, ma sostituire l’effetto della mutua induzione con un generatore ausiliario ideale di voltaggio. In più dobbiamo naturalmente introdurre l’equazione che lega questa fem alla corrente che circola in qualche altra parte del circuito; ma fintanto che questa equazione è lineare non abbiamo fatto altro che aggiungere delle altre equazioni lineari alle nostre equazioni circuitali e tutte le nostre conclusioni riguardo ai circuiti equivalenti e il resto rimangono corrette. Oltre alle mutue induttanze, ci possono anche essere mutue capacità. Fin qui quando si è parlato di condensatori, abbiamo sempre immaginato che ci fossero soltanto due elettrodi, ma in molti casi, per esempio in una valvola, ci possono essere molti elettrodi vicini l’uno all’altro. Se mettiamo una carica elettrica su uno qualunque di questi elettrodi, il suo campo elettrico
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Capitolo 22 • Circuiti in CA
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indurrà delle cariche su ciascuno degli altri elettrodi e ne influenzerà il potenziale. Come esempio consideriamo il complesso delle quattro lastre indicato in FIGURA 22.27a. Supponiamo che queste quattro lastre siano collegate a circuiti esterni per mezzo dei fili A, B, C e D. Finché ci occupiamo solo di effetti elettrostatici, il circuito equivalente di un tale complesso di elettrodi è come si vede nella FIGURA 22.27b. L’interazione elettrostatica di qualsiasi elettrodo con ciascuno degli altri è equivalente a una capacità inserita fra i due elettrodi. (a) C D Finalmente consideriamo come si potrebbero rappresentare dei dispositivi complessi come transistor e valvole radio in un circuito in CA. Bisogna A B rilevare preliminarmente che tali dispositivi sono spesso fatti funzionare in un modo tale che la relazione fra corrente e voltaggio non è affatto lineare. In tali casi quelle, fra le cose che abbiamo detto, che dipendono dalla (b) linearità delle equazioni, naturalmente non sono più corrette. D’altra parte in molte applicazioni le caratteristiche di lavoro sono abbastanza lineari da permettere di considerare transistor e valvole come D C dispositivi lineari. Con questo vogliamo dire che le correnti alternate sulla placca, mettiamo, di una valvola sono linearmente proporzionali ai voltaggi FIGURA 22.27 Circuito equivalente di una capacità che appaiono su altri elettrodi, diciamo il voltaggio di griglia e quello mutua. di placca. Quando abbiamo tali relazioni lineari, possiamo incorporare il dispositivo nella nostra rappresentazione equivalente del circuito. Come nel caso dell’induttanza mutua, la rappresentazione dovrà inP cludere dei generatori ausiliari di voltaggio che descrivono l’influenza di Placca G voltaggi e correnti in una parte del dispositivo sulle correnti o sui voltaggi in un’altra parte. Per esempio il circuito di placca di un triodo può Vg di solito essere rappresentato da una resistenza in serie con un generatore Griglia ideale di voltaggio la cui forza elettromotrice è proporzionale al voltagC gio di griglia. Si ottiene il circuito equivalente indicato in FIGURA 22.28.(2) = – Vg Catodo Similmente il circuito collettore di un transistor si rappresenta comodamente con un resistore in serie con un generatore ideale di voltaggio la cui FIGURA 22.28 Circuito equivalente di un triodo, fem è proporzionale alla corrente fra l’emettitore e la base del transistor. valido per frequenze basse. Il circuito equivalente è dunque simile a quello in FIGURA 22.29. Fintanto che le equazioni che descrivono il funzionamento sono lineari, si possono usare simili rappresentazioni per valvole o transistor. In tal caso, quando C Collettore essi sono incorporati in una rete complessa, le nostre conclusioni generali sulla rappresentazione equivalente di qualunque arbitraria connessione fra E gli elementi del circuito sono ancora valide. Emettitore Ie C’è una cosa notevole riguardo ai circuiti contenenti transistor o valvole radio che li fa differire dai circuiti contenenti soltanto impedenze: la parte = kIe reale dell’impedenza efficace zeff può diventare negativa. Abbiamo visto che Base B la parte reale di z rappresenta la perdita d’energia. È però una caratteristica importante dei transistor e delle valvole che esse forniscono energia al FIGURA 22.29 Circuito equivalente di un transistor, circuito. (Naturalmente non è che essi «producano» energia; essi prendono valido per frequenze basse. energia dai circuiti in CC degli alimentatori e la convertono in energia in CA.) Perciò è possibile avere un circuito con una resistenza negativa. Un simile circuito ha la seguente proprietà: se lo si collega a un’impedenza avente una parte positiva – cioè una resistenza positiva – e si dispongono le cose in modo che la somma delle due parti reali sia esattamente zero, allora nel circuito composto non c’è dissipazione. Se non c’è perdita d’energia, qualunque voltaggio alternato, una volta datogli il via, dura per sempre. Questa è l’idea fondamentale che è alla base del funzionamento di un oscillatore o di un generatore di segnali che può essere usato come una sorgente di voltaggio alternato a qualsivoglia frequenza. A
B
(2) Il circuito equivalente indicato è corretto soltanto per frequenze basse. Per frequenze alte il circuito equivalente diventa molto più complesso e include varie capacità e induttanze dette «parassite».
23
Cavità risonanti
23.1
Elementi circuitali reali
Quando lo si guarda da una coppia qualunque di terminali, qualsiasi circuito arbitrario costituito da impedenze ideali e generatori equivale, per ogni data frequenza, a un generatore E in serie con un’impedenza z. Questo avviene perché se si applica un voltaggio V ai terminali e si risolvono tutte le equazioni fino a trovare la corrente I, si deve ottenere una relazione lineare fra la corrente e la tensione. Siccome tutte le equazioni sono lineari, il risultato trovato per I deve dipendere soltanto linearmente da V . La forma lineare più generale può essere espressa da I = (V
E)/z
(23.1)
In generale tanto z quanto E possono dipendere in un certo modo complicato dalla frequenza !. L’equazione (23.1) però è la relazione che si otterrebbe se dietro ai due terminali ci fosse appunto il generatore E(!) in serie con l’impedenza z(!). C’è anche il problema di tipo opposto: se si ha un qualsiasi dispositivo elettromagnetico con due terminali e si misura la relazione fra I e V così da determinare E e z come funzioni della frequenza, si può trovare una combinazione di elementi ideali che sia equivalente all’impedenza interna z? La risposta è che per ogni funzione z(!) ragionevole, cioè avente significato fisico, è possibile approssimare la situazione con una precisione elevata quanto si vuole con un circuito contenente una combinazione finita di elementi ideali. Adesso non vogliamo considerare il problema generale, ma soltanto esaminare in pochi casi quello che ci si può aspettare in base a ragionamenti fisici. Se pensiamo a un resistore ideale, sappiamo che la corrente che lo percorre produrrà un campo magnetico. Perciò qualsiasi resistore reale dovrebbe avere una certa induttanza. Inoltre quando c’è una differenza di potenziale ai capi di un resistore, devono esserci delle cariche ai capi di questo per produrre i necessari campi elettrici. Quando la tensione cambia, le cariche cambieranno in proporzione; perciò il resistore avrà anche una certa capacità. Si prevede perciò che a un resistore reale possa corrispondere il circuito equivalente indicato in FIGURA 23.1. In un resistore ben progettato, i cosiddetti elementi «parassiti» L e C sono piccoli, così che, per le frequenze alle quali è destinato, !L è molto minore di R e 1/!C è molto più grande di R; può perciò essere possibile trascurarli. Quando però la frequenza cresce, essi finiranno per diventare importanti e il resistore comincerà a somigliare a un circuito risonante. Anche un’induttanza reale non è uguale all’induttanza idealizzata, la cui impedenza è i!L. Una bobina reale avrà una certa resistenza e perciò a bassa frequenza la bobina è in realtà equivalente a un’induttanza in serie con una certa resistenza, come indica la FIGURA 23.2a. Però penserete: la resistenza e l’induttanza si trovano insieme nella bobina reale, la resistenza è diffusa lungo tutto il filo, perciò mescolata con l’induttanza; si dovrebbe probabilmente adoperare un circuito più simile a quello di FIGURA 23.2b dove ci sono diverse piccole R e L in serie. Però l’impedenza totale di un tale circuito non è che X X R+ i!L che è equivalente al circuito più semplice della FIGURA 23.2a.
L C R
23.1 Circuito equivalente di un resistore reale. FIGURA
(a)
(b)
23.2 Circuito equivalente di un’induttanza reale alle basse frequenze. FIGURA
300
Capitolo 23 • Cavità risonanti
23.3 Il circuito equivalente di un’induttanza reale a frequenze più elevate.
Per una bobina reale, quando si sale con la frequenza, l’approssimazione induttanza più resistenza non è più molto buona. Le cariche che si devono formare sui fili per produrre le tensioni diventeranno importanti. Le cose vanno come se ci fossero dei piccoli condensatori fra una spira e l’altra della bobina, come si è schematizzato nella FIGURA 23.3a. Si potrebbe cercare di approssimare la bobina reale per mezzo del circuito di FIGURA 23.3b. Alle basse frequenze questo circuito può essere imitato abbastanza bene da quello più semplice di FIGURA 23.3c (che è di nuovo lo stesso circuito risonante trovato per il modello del resistore alle alte frequenze). Per frequenze più elevate, però, il circuito più complesso di FIGURA 23.3b è migliore. Invero, quanto più accuratamente si desidera rappresentare l’impedenza effettiva di un’induttanza reale, fisica, tanto maggiore è il numero degli elementi che si devono adoperare in un modello artificiale di essa. Esaminiamo un po’ più da vicino cosa succede in una bobina reale. L’impedenza di un’induttanza va come !L, perciò diventa zero alle basse frequenze, cioè diventa un «cortocircuito»: tutto quello che si vede è la resistenza del filo. Salendo con la frequenza, presto !L diventa molto più grande di R e la bobina somiglia molto a un’induttanza ideale. Quando si va ancora più sù, però, le capacità diventano importanti. La loro impedenza è proporzionale a 1/!C, che è grande per piccole !. Per frequenze abbastanza piccole, un condensatore è un «circuito aperto» e quando è in parallelo con qualcos’altro non deriva corrente. A frequenze alte però la corrente preferisce fluire attraverso la capacità fra le spire piuttosto che attraverso l’induttanza. Perciò la corrente nella bobina salta da una spira all’altra e non s’impiccia di girare attorno lungo le spire, dove deve scontrarsi con la fem. Perciò, benché potesse essere nelle nostre intenzioni che la corrente dovesse girare lungo le spire, essa prenderà il percorso più facile, il percorso di minima impedenza. Se l’argomento fosse stato d’interesse divulgativo, questo effetto sarebbe stato chiamato «barriera dell’alta frequenza» o qualcosa di simile. Lo stesso genere di cose accade in tutti i campi. In aerodinamica, se si tenta di far viaggiare degli oggetti a velocità superiori a quella del suono quando essi erano stati progettati per velocità più basse, essi non funzionano. Ciò non vuol dire che ci sia una grande «barriera»; vuol dire semplicemente che l’oggetto deve essere riprogettato. Così la bobina che si era progettata come «induttanza», non potrà funzionare come una buona induttanza alle altissime frequenze; ma funzionerà come un’altra cosa. Per frequenze alte dovremo ridisegnare il dispositivo.
(a)
(b)
(c)
FIGURA
23.2
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Un condensatore alle alte frequenze
Vogliamo ora discutere in dettaglio il comportamento di un condensatore, pensato in modo geometricamente ideale, quando la frequenza diventa sempre più grande, così da renderci conto del mutamento delle sue proprietà. (Preferiamo utilizzare un condensatore invece di un’induttanza, perché la geometria di una coppia di lastre è molto meno complicata della geometria di una bobina.) Consideriamo il condensatore mostrato in FIGURA 23.4a, che consiste di due lastre circolari parallele collegate con un paio di fili a un generatore esterno. Se carichiamo il condensatore in CC, ci sarà una carica positiva su una lastra e una negativa sull’altra e ci sarà un campo elettrico uniforme fra le lastre. Supponiamo ora che invece di una CC si applichi alle lastre una CA a bassa frequenza. (Impareremo più avanti che cosa vuol dire «basso» e «alto».) Per esempio colleghiamo il condensatore a un generatore di bassa frequenza. Quando la tensione si inverte, la carica positiva della lastra superiore viene portata via e viene sostituita da una carica negativa; mentre questo accade, il campo elettrico scompare e poi si riforma nella direzione opposta. Mentre la carica oscilla lentamente avanti e indietro, il campo elettrico segue. A ogni istante il campo elettrico è uniforme, come mostra la FIGURA 23.4b, se si eccettua un po’ di effetto ai bordi, che trascureremo. Possiamo scrivere per il modulo del campo elettrico E = E0 ei!t dove E0 è una costante.
(23.2)
301
23.2 • Un condensatore alle alte frequenze
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Superficie S Curva a
h
B
B
E
r Curva
1
r Linee di B Linee di E (a)
FIGURA
23.4
(b)
I campi elettrici e magnetici fra le lastre di un condensatore.
Tutto questo continuerà a essere vero quando la frequenza cresce? No, perché mentre il campo elettrico sale e scende c’è un flusso di campo elettrico attraverso una qualunque curva chiusa, come 1 di FIGURA 23.4a, e – come sapete – un campo elettrico variabile agisce producendo un campo magnetico. Una delle equazioni di Maxwell dice che quando c’è un campo elettrico variabile, come qui avviene, ci deve essere un’integrale di linea del campo magnetico. L’integrale del campo magnetico intorno a un anello chiuso, moltiplicato per c2 , uguaglia la variazione per unità di tempo del flusso elettrico attraverso l’area racchiusa dall’anello (se non ci sono correnti): ⇥ ⌅ d c2 B · ds = E · n da (23.3) dt dentro
Dunque, quanto campo magnetico c’è? Questo non è molto difficile. Prendiamo per esempio il cammino chiuso 1 , che è un cerchio di raggio r. Si capisce dalla simmetria che il campo magnetico circola com’è indicato in figura. Quindi l’integrale di linea di B è 2⇡r B. Siccome il campo elettrico è uniforme, il suo flusso è semplicemente E moltiplicato per l’area del cerchio ⇡r 2 : @ @E 2 c2 B · 2⇡r = (E⇡r 2 ) = ⇡r (23.4) @t @t La derivata di E rispetto al tempo, per il nostro campo alternato, è semplicemente @E = i!E0 ei!t @t Perciò troviamo che il condensatore possiede il campo magnetico B=
i!r E0 ei!t 2c2
(23.5)
In altre parole, anche il campo magnetico oscilla e ha un’intensità proporzionale a r. Qual è l’effetto di ciò? Quando c’è un campo magnetico che varia ci sono dei campi elettrici indotti e il condensatore comincerà a funzionare un po’ come un’induttanza. Quando la frequenza cresce, il campo magnetico si fa più intenso; esso è proporzionale alla rapidità di variazione di E e quindi a !. L’impedenza del condensatore non è più semplicemente 1/i!C. Continuiamo ad aumentare la frequenza e analizziamo più attentamente quello che succede. Abbiamo un campo magnetico che oscilla avanti e indietro. Ma allora il campo elettrico non può essere uniforme come si era ammesso! Quando c’è un campo magnetico che varia ci deve essere un integrale di linea del campo elettrico, a causa della legge di Faraday. Perciò, se c’è un campo magnetico apprezzabile, come comincia a esserci alle alte frequenze, il campo elettrico non può
2
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Capitolo 23 • Cavità risonanti
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essere lo stesso a tutte le distanze dal centro. Il campo elettrico deve variare con r, in modo che l’integrale di linea del campo elettrico possa uguagliare il flusso variabile del campo magnetico. Vediamo se si può valutare il campo elettrico giusto. Possiamo farlo calcolando una «correzione» al campo uniforme che si era originariamente postulato per le basse frequenze. Chiamiamo E1 questo campo uniforme, che sarà ancora espresso da E0 ei!t , e scriviamo il campo corretto nella forma E = E1 + E2 dove E2 è la correzione dovuta al campo magnetico variabile. Per qualsiasi scriveremo il campo al centro del condensatore nella forma E0 ei!t (definendo con questo E0 ) in modo che non c’è correzione al centro: E2 = 0 per r = 0. Per trovare E2 possiamo usare la forma integrale della legge di Faraday: ⇥ d E · ds = (flusso di B) dt Gli integrali sono semplici se si prendono sulla curva 2 , mostrata nella FIGURA 23.4b, che sale lungo l’asse, poi va radialmente per una distanza r lungo la lastra superiore, scende verticalmente fino alla lastra inferiore e quindi torna sull’asse. L’integrale di E1 lungo questa curva è naturalmente zero, perciò soltanto E2 contribuisce e il suo integrale non è che E2 (r)h, in cui h è la distanza fra le lastre. (Prendiamo E positivo se punta verso l’alto.) Questo uguaglia la variazione per unità di tempo del flusso di B, che dobbiamo ottenere per mezzo di un integrale sopra l’area tratteggiata S interna a 2 (FIGURA 23.4b). Il flusso attraverso una striscia verticale di larghezza dr è B(r)h dr, così che il flusso totale è ⌅ h B(r) dr Ponendo @/@t del flusso uguale all’integrale di linea di E2 , abbiamo ⌅ @ E2 (r) = B(r) dr @t
(23.6)
Notate che h scompare: i campi non dipendono dalla separazione delle lastre. Adoperando l’equazione (23.5) per B(r), abbiamo E2 (r) =
@ i!r 2 E0 ei!t @t 4c2
La derivata rispetto al tempo non fa che introdurre un altro fattore i! ; otteniamo E2 (r) =
!2r 2 E0 ei!t 4c2
(23.7)
Come ci si aspettava, il campo indotto tende a ridurre il campo elettrico dalla parte più esterna. Il campo corretto è dunque E = E1 + E2 = *1 ,
1 !2r 2 + E0 ei!t 4 c2 -
(23.8)
Il campo elettrico nel condensatore non è più uniforme; esso ha la forma parabolica indicata dalla linea tratteggiata di FIGURA 23.5. Vedete che il nostro condensatore, così semplice, sta diventando un po’ complicato. Si potrebbe ora usare questi risultati per calcolare l’impedenza del condensatore alle alte frequenze. Conoscendo il campo elettrico, si potrebbero calcolare le cariche sulle lastre e ricavare come la corrente attraverso il condensatore dipenda dalla frequenza !, ma questo problema per il momento non ci interessa. C’è più interesse a vedere cosa accade se si continua ancora a salire con la frequenza. Non abbiamo già finito? No, perché abbiamo corretto il campo elettrico, il che vuol dire che il campo magnetico che abbiamo calcolato non è più giusto. Il campo magnetico
303
23.2 • Un condensatore alle alte frequenze
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dell’equazione (23.5) è approssimativamente giusto, ma è soltanto una prima approssimazione. Perciò chiamiamolo B1 . Si dovrebbe allora riscrivere l’equazione (23.5) nella forma B1 =
i!r E0 ei!t 2c2
E1
(23.9)
Ricorderete che questo campo era prodotto dalla variazione di E1 . Ora il campo magnetico corretto sarà quello prodotto dal campo elettrico totale E1 + E2 . Se scriviamo il campo magnetico nella forma B = B1 + B2 , il secondo termine è proprio il campo supplementare prodotto da E2 . Per trovare B2 si può ripetere il ragionamento fatto per trovare B1 ; l’integrale di B2 intorno alla curva 1 è uguale alla variazione per unità di tempo del flusso di E2 attraverso 1 . Ritroveremo ancora l’equazione (23.4) con B sostituito da B2 ed E sostituito da E2 : c2 B2 (2⇡r) =
E
d (flusso di E2 attraverso dt
E E1 + E2
r 0
23.5 Il campo elettrico fra le lastre di un condensatore ad alta frequenza. (Sono stati trascurati gli effetti ai bordi.) FIGURA
1)
Siccome E2 varia col raggio, per ottenere il flusso si deve integrare sulla superficie circolare interna a 1 . Usando 2⇡r dr come elemento d’area, questo integrale è ⌅ r E2 (r) 2⇡r dr 0
Perciò otteniamo per B2 (r) B2 (r) =
1 @ rc2 @t
⌅
E2 (r) r dr
(23.10)
Prendendo E2 (r) dall’equazione (23.7), ci occorre l’integrale di r 3 dr, che è naturalmente r 4 /4. La correzione del campo magnetico diventa B2 (r) =
i!3 r 3 E0 ei!t 16 c4
(23.11)
Non abbiamo ancora finito, però! Se il campo magnetico B non è quello che credevamo prima, allora abbiamo calcolato E2 in modo inesatto. Dobbiamo fare un’ulteriore correzione a E, che deriva dal campo magnetico aggiuntivo B2 . Chiamiamo E3 questa correzione supplementare al campo elettrico. Essa è legata al campo magnetico B2 nello stesso modo in cui E2 era legata a B1 . Possiamo utilizzare ancora l’equazione (23.6), con il semplice cambiamento degli indici: ⌅ @ E3 (r) = B2 (r) dr (23.12) @t Adoperando per B2 il risultato contenuto nell’equazione (23.11), la nuova correzione al campo elettrico risulta !4r 4 E3 (r) = + E0 ei!t (23.13) 64 c4 Scrivendo E = E1 + E2 + E3 per il campo elettrico corretto due volte, otteniamo " # 1 ✓ !r ◆2 1 ✓ !r ◆4 E = E0 ei!t 1 + 22 c 22 42 c
c/
(23.14)
La variazione del campo elettrico con il raggio non è più secondo la semplice parabola che avevamo visto nella FIGURA 23.5, ma per raggi più grandi giace leggermente al di sopra della curva E1 + E2 .
a
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Capitolo 23 • Cavità risonanti
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Non siamo ancora alla fine. Il nuovo campo elettrico produce una nuova correzione nel campo magnetico e il campo magnetico nuovamente corretto produrrà un’ulteriore correzione del campo elettrico e così via. Però abbiamo già tutte le formule che ci occorrono. Per B3 possiamo usare l’equazione (23.10) cambiando gli indici di B ed E da 2 a 3. L’ulteriore correzione del campo elettrico è ✓ !r ◆6 1 E4 = E0 ei!t 22 42 62 c Perciò fino a quest’ordine abbiamo che il campo elettrico è dato da " # 1 ✓ !r ◆2 1 ✓ !r ◆4 1 ✓ !r ◆6 E = E0 ei!t 1 + ± ... (1!)2 2c (2!)2 2c (3!)2 2c
(23.15)
dove abbiamo scritto i coefficienti numerici in tal maniera che è ovvio come la serie debba continuare. Il risultato finale è che il campo elettrico fra le lastre del condensatore, per qualsiasi frequenza, è dato da E0 ei!t moltiplicato per una serie infinita che contiene soltanto la variabile !r/c. Se vogliamo, possiamo definire una speciale funzione – che chiameremo J0 (x) – ed è la serie infinita che appare fra le parentesi quadre dell’equazione (23.15): 1 ✓ x ◆2 1 ✓ x ◆4 1 ✓ x ◆6 J0 (x) = 1 + ± ... (23.16) (1!)2 2 (2!)2 2 (3!)2 2 Possiamo dunque scrivere la nostra soluzione come E0 ei!t moltiplicato per questa funzione, con x = !r/c: E = E0 ei!t J0 (!r/c) (23.17)
La ragione per cui si è chiamata J0 la nostra funzione speciale è naturalmente che questa non è la prima volta che qualcuno ha elaborato un problema con delle oscillazioni in un cilindro. La funzione si è già presentata in passato e di solito viene chiamata J0 . Essa si presenta tutte le volte che si risolve un problema riguardante delle onde che hanno simmetria cilindrica. La funzione J0 è per onde cilindriche quello che la funzione coseno è per le onde lungo una retta. Perciò è una funzione importante, inventata molto tempo fa, quando un signore di nome Bessel associò a essa il suo nome. L’indice zero significa che Bessel inventò addirittura una quantità di funzioni diverse di cui questa non è che la prima. Le altre funzioni di Bessel – J1 , J2 e così via – riguardano onde la cui intensità varia con l’angolo intorno all’asse del cilindro. Il campo elettrico completamente corretto fra le lastre del nostro condensatore circolare, dato dall’equazione (23.17), è tracciato come una linea continua nella FIGURA 23.5. Per frequenze non molto alte la nostra seconda approssimazione era già molto buona. La terza approssimazione era ancora migliore, anzi tanto buona che, se la si fosse tracciata, non sarebbe stato possibile distinguerla dalla curva continua. Vedrete però nel prossimo paragrafo che occorre la serie completa per ottenere una descrizione accurata per raggi grandi o per frequenze elevate.
23.3
Una cavità risonante
Vogliamo ora vedere cosa dà la nostra soluzione per il campo elettrico fra le lastre del condensatore quando si continua ad andare a frequenze sempre più alte. Per grandi !, il parametro x = !r/c diventa grande e i termini della serie per J0 (x) cresceranno rapidamente. Questo vuol dire che la parabola disegnata in FIGURA 23.5 ha una curvatura più ripida verso il basso alle frequenze più elevate. Effettivamente si direbbe che il campo possa scendere addirittura a zero a una certa frequenza alta, forse quando c/! è approssimativamente la metà di a. Vediamo se J0 passa davvero per lo zero e diventa negativa. Cominciamo a provare x = 2: J0 (2) = 1
1+
1 4
1 = 0,22 36
23.3 • Una cavità risonante
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305
La funzione non è ancora nulla, perciò proviamo con un valore di x più alto, diciamo x = 2,5. Facendo i conti si trova J0 (2,5) = 1
1,56 + 0,61
0,11 = 0,06
La funzione J0 ha già oltrepassato lo zero quando siamo a x = 2,5. Confrontando i risultati per x = 2 e per x = 2,5, sembra che J0 passi per zero a un quinto dell’intervallo fra 2,5 e 2. Si direbbe che lo zero si presenti per x approssimativamente uguale a 2,4. Vediamo cosa dà questo valore per x: J0 (2,4) = 1 1,44 + 0,52 0,08 = 0,00 Otteniamo zero nella nostra approssimazione di prendere due cifre decimali. Se si fa il calcolo più esattamente (oppure, giacché J0 è una funzione ben nota, la si va a guardare su un libro), si trova che J0 passa per lo zero a x = 2,405. Abbiamo calcolato a mano questo risultato per farvi vedere che anche voi potreste aver scoperto queste cose, piuttosto che doverle andare a prendere da un libro. Giacché stiamo guardando J0 in un libro, è interessante rilevare come questa funzione si comporta per grandi valori di x. Essa ha l’andamento J0(x) del grafico di FIGURA 23.6. Quanto x cresce, J0 (x) oscilla fra valori positivi 1,0 e negativi con un’ampiezza d’oscillazione decrescente. Si è ottenuto il seguente interessante risultato: se si sale abbastanza 0,5 con la frequenza, il campo elettrico al centro del condensatore sarà diretto 2,405 in un senso e quello vicino all’orlo sarà diretto in senso opposto. Per 0 esempio, supponiamo di prendere un ! abbastanza alto perché x = !r/c 2 4 6 8 10 sia uguale a 4 al bordo esterno del condensatore; il bordo del condensatore 5,52 –0,5 corrisponde allora all’ascissa x = 4 nella FIGURA 23.6. Questo vuol dire che il condensatore viene fatto funzionare alla frequenza ! = 4c/a. Al bordo della lastra il campo elettrico avrà un’intensità piuttosto alta ma nella direzione opposta a quella che ci si aspetterebbe. Questa è la cosa FIGURA 23.6 La funzione di Bessel J 0 (x). straordinaria che può accadere a un condensatore alle alte frequenze. Se si va a frequenze molto alte, la direzione del campo elettrico oscilla avanti e indietro parecchie volte quando ci si allontana dal centro del condensatore. Inoltre, ci sono i campi magnetici associati con questi campi elettrici. Non meraviglia che alle alte frequenze il condensatore non somigli a una capacità ideale. Si può perfino cominciare a domandarsi se somigli più a un condensatore o a un’induttanza. Si deve mettere in evidenza che ci sono effetti anche più complessi, che abbiamo trascurato e che si manifestano ai bordi del condensatore. Per esempio c’è un’irradiazione d’onda, al di là dei bordi, perciò i campi sono anche più complessi di quelli che abbiamo calcolato, ma ora non ci preoccuperemo di questi effetti. Si potrebbe cercare di mettere insieme un circuito equivalente per il condensatore, ma forse è meglio ammettere semplicemente che il condensatore che si è progettato per campi di bassa frequenza non è più soddisfacente quando la frequenza è troppo alta. Se si vuole trattare il funzionamento di un simile oggetto alle alte frequenze si devono abbandonare le approssimazioni che si sono fatte alle equazioni di Maxwell allo scopo di trattare i circuiti e tornare all’insieme completo delle equazioni che descrivono completamente i campi nello spazio. Invece di occuparci di elementi circuitali idealizzati, ci si deve occupare dei conduttori veri, come essi sono, prendendo in considerazione tutti i campi negli spazi interposti. Per esempio, se si vuole un circuito risonante alle alte frequenze, non si cercherà di progettarlo adoperando una bobina e un condensatore a lastre parallele. Si è già accennato che il condensatore a lastre parallele che siamo andati analizzando presenta aspetti sia di un condensatore, sia di un’induttanza. Al campo elettrico si accompagnano delle cariche sulle superfici delle lastre e al campo magnetico si accompagnano delle forze controelettromotrici. È possibile che in questo abbiamo già un circuito risonante? È proprio così. Supponiamo di scegliere una frequenza per la quale la configurazione del campo elettrico è tale da andare a zero per un certo raggio interno al bordo del disco; cioè scegliamo !a/c maggiore di 2,405. Il campo elettrico sarà nullo in tutti i punti di un cerchio coassiale con le lastre. Ora immaginiamo di prendere un sottile foglio metallico e tagliarne una striscia larga abbastanza da
12 x
306
Capitolo 23 • Cavità risonanti
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Ez
Linee di B –
–
–
–
–
–
1,0
–
j
j +
+
+
+
+
+
+ Linee di E
FIGURA
23.7
1,0
2,405 c /
r
2,405 c /
r
I campi elettrici e magnetici in una scatola cilindrica chiusa.
adattarsi fra le lastre del condensatore; poi pieghiamola per formare un cilindro che si appoggia sul cerchio dove il campo elettrico è nullo. Siccome lì non ci sono campi elettrici, quando si colloca questo cilindro conduttore al suo posto, nessuna corrente lo percorrerà e non ci saranno mutamenti nei campi elettrico e magnetico. Abbiamo potuto mettere un cortocircuito diretto fra le lastre del condensatore senza cambiare alcunché. E guardate che cosa si è ottenuto: abbiamo un barattolo cilindrico chiuso con dentro dei campi elettrici e magnetici e senza alcun collegamento col mondo esterno. I campi interni non cambieranno anche se si eliminano i bordi delle lastre esterni al barattolo, e anche le connessioni del condensatore. Tutto quel che rimane è un barattolo chiuso con dentro dei campi elettrici e magnetici, come si vede nella FIGURA 23.7a. I campi elettrici oscillano su e giù alla frequenza !, che – non dimenticatelo – ha determinato il diametro del barattolo. L’ampiezza del campo oscillante E varia con la distanza dall’asse del barattolo, come mostra il grafico della FIGURA 23.7b. Questa curva è proprio il primo arco della funzione di Bessel d’ordine zero. C’è anche un campo magnetico che gira intorno all’asse e oscilla nel tempo con uno spostamento di 90° rispetto al campo elettrico. Si può anche scrivere una serie per il campo magnetico e rappresentarlo graficamente, come mostra il grafico della FIGURA 23.7c. Com’è che si può avere un campo elettrico e un campo magnetico dentro un barattolo senza collegamenti esterni? È perché i campi elettrici e magnetici si mantengono da sé: il campo E variabile produce B e il campo B variabile produce E, tutto secondo le equazioni di Maxwell. Il campo magnetico ha un aspetto induttivo e quello elettrico ha un aspetto capacitivo; insieme essi costituiscono qualcosa di simile a un circuito risonante. Notate che le condizioni che si sono descritte si realizzeranno soltanto se il raggio del barattolo è esattamente 2,405 c/!. Per un barattolo di raggio dato i campi elettrici e magnetici oscillanti si mantengono da sé – nel modo che si è descritto – soltanto a quella speciale frequenza. Perciò un barattolo cilindrico di raggio r risuona alla frequenza c !0 = 2,405 (23.18) r S’è detto che i campi continuano a oscillare nello stesso modo dopo che il barattolo è stato chiuso completamente. Questo non è del tutto giusto. Sarebbe possibile se le pareti del barattolo fossero dei conduttori perfetti. Per un barattolo reale, però, le correnti oscillanti che esistono nell’interno delle pareti perdono energia a causa della resistenza del materiale. Le oscillazioni dei campi si smorzeranno gradualmente. Si può vedere dalla FIGURA 23.7 che ci devono essere forti correnti associate ai campi elettrici e magnetici dentro la cavità. Siccome il campo elettrico verticale si ferma a un tratto sulle facce superiore e inferiore del barattolo, esso ha qui una forte divergenza; perciò ci devono essere cariche elettriche positive e negative sulle superfici interne del barattolo, come mostra la FIGURA 23.7a. Quando il campo elettrico si inverte, anche le cariche si devono invertire, perciò ci deve essere una corrente alternata fra la faccia superiore e quella inferiore del barattolo. Queste cariche fluiscono nelle pareti del barattolo, come indicato in figura. Si può anche vedere che ci devono essere correnti nelle pareti del barattolo considerando quello che succede al campo magnetico. Il grafico della FIGURA 23.7c ci dice che il campo magnetico cade improvvisamente a zero al bordo del barattolo. Un simile improvviso cambiamento del campo
23.4 • I modi delle cavità
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307
magnetico può avvenire soltanto se c’è una corrente nella parete. Questa corrente è quella che produce le cariche elettriche alternanti sulle facce superiore e inferiore del barattolo. Sarete forse sorpresi della nostra scoperta delle correnti nelle pareti verticali del barattolo: che cosa ne è della nostra precedente affermazione E Spira di Spira di uscita entrata che nulla sarebbe cambiato introducendo queste pareti verticali in una B regione dove il campo elettrico era nullo? Ricordate, però, che quando sono state introdotte queste pareti del barattolo, le lastre superiore e inferiore si estendevano al di là, così che c’erano campi magnetici anche esternamente al barattolo. È soltanto quando abbiamo eliminato le parti delle lastre del FIGURA 23.8 Accoppiamento d’ingresso e d’uscita condensatore oltre all’orlo del barattolo che delle correnti non nulle sono di una cavità risonante. apparse all’interno delle pareti verticali. Benché i campi elettrici e magnetici nel barattolo completamente chiuso Generatore Rivelatore e si smorzino a causa delle perdite d’energia, si può impedire che questo di segnali RF amplificatore avvenga se facciamo un piccolo foro nel barattolo e introduciamo un poco d’energia elettrica per compensare le perdite. Prendiamo un filo sottile, facciamolo passare attraverso il foro nel fianco del barattolo e fissiamolo Cavità alla parete interna in modo che formi una piccola ansa, come mostra la FIGURA 23.8. Se ora colleghiamo questo filo a una sorgente di corrente alternata ad alta frequenza, questa corrente trasferirà dell’energia ai campi elettrici e magnetici della cavità e manterrà in vita le oscillazioni. Questo accadrà, naturalmente, soltanto se la frequenza della sorgente alimentatrice FIGURA 23.9 Configurazione per osservare la coincide con la frequenza di risonanza del barattolo. Se la sorgente non risonanza di una cavità. ha la frequenza giusta, i campi elettrici e magnetici non risuoneranno e resteranno molto deboli nel barattolo. Il comportamento risonante si può vedere facilmente facendo un alCorrente di uscita tro forellino nel barattolo e aggiungendovi un’altra spira d’accoppiamento, anche questa disegnata nella FIGURA 23.8. Il campo magnetico variabile concatenato con questa spira genererà in essa una forza elettromotrice in∆ = 0 /Q dotta. Se ora questa spira viene connessa a un circuito di misura esterno, la corrente sarà proporzionale all’intensità dei campi nella cavità. SupponiaFrequenza 0 mo di collegare la spira d’ingresso della cavità a un generatore di segnali a RF, come mostra la FIGURA 23.9. Il generatore di segnali contiene una sorgente di corrente alternata la cui frequenza può essere variata girando FIGURA 23.10 La curva di risposta in funzione della la manopola frontale dell’apparecchio. Poi colleghiamo la spira d’uscita frequenza per una cavità risonante. della cavità a un «rivelatore» che è uno strumento che misura la corrente della spira e dà una lettura proporzionale a questa corrente. Se si misura la corrente d’uscita come funzione della frequenza del generatore di segnali, si trova una curva come quella indicata in FIGURA 23.10. La corrente d’uscita è piccola per tutte le frequenze eccetto quelle molto vicine alla frequenza !0 , che è la frequenza di risonanza della cavità. La curva di risonanza somiglia moltissimo a quelle che sono state descritte nel cap. 23 del vol. 1. La larghezza della risonanza è però molto più stretta di quella che si trova ordinariamente per circuiti risonanti fatti con induttanze e condensatori; cioè il Q della cavità è molto alto. Non è cosa insolita trovare dei Q fino a 100 000 o più se le pareti della cavità sono fatte di materiale con una conduttività molto buona, come l’argento.
23.4
I modi delle cavità
Supponiamo ora di provare a verificare la nostra teoria facendo delle misure su una cavità effettiva. Si può prendere un barattolo che è un cilindro con un diametro di 7,62 cm e un’altezza di circa 6,35 cm. Il barattolo è provvisto con spire di entrata e di uscita come si vede nella FIGURA 23.8. Se si calcola la frequenza di risonanza prevista per questo barattolo secondo l’equazione (23.18), si ottiene f 0 = !0 /2⇡ = 3010 megacicli.
308
Capitolo 23 • Cavità risonanti
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Quando regoliamo la frequenza del nostro generatore di segnali vicino a 3000 megacicli e la variamo leggermente fino a trovare la risonanza, Corrente di uscita osserviamo che la massima corrente d’uscita si presenta per una frequenza 3050 di 3050 megacicli, che è molto vicina alla frequenza di risonanza prevista, 3300 3820 ma non esattamente la stessa. Ci sono diverse possibili ragioni per questo disaccordo. Forse la frequenza di risonanza è mutata un poco a causa dei fori che abbiamo tagliato per introdurre le spire d’accoppiamento. Un po’ di riflessione mostra tuttavia che i fori dovrebbero abbassare leggermente 3000 3500 4000 /2 (megacicli/s) la frequenza di risonanza, perciò questa non può essere la ragione. Forse c’è qualche piccolo errore nella calibrazione della frequenza del generatore di segnali, o forse la misura del diametro della cavità non è abbastanza FIGURA 23.11 Frequenze di risonanza osservate per precisa. Comunque, l’accordo è discretamente buono. una cavità cilindrica. Molto più importante è ciò che accade se si varia la frequenza del generatore di segnali ancora un po’ più lontano dai 3000 megacicli. Facendo questo si ottengono i risultati indicati in FIGURA 23.11. Si trova che, oltre alla risonanza prevista vicino a 3000 megacicli, ce n’è anche una vicino a 3300 megacicli e una vicino a 3820 megacicli. Cosa significano queste risonanze extra? Se ne può avere un indizio dalla FIGURA 23.6. Sebbene si sia ammesso che il primo zero della funzione di Bessel si presenti al bordo del barattolo, potrebbe anche essere il secondo zero della funzione di Bessel a corrispondere al bordo del barattolo, così che c’è un’oscillazione completa del campo elettrico nel passare dal centro del barattolo al bordo, come mostra la FIGURA 23.12. Questo è un altro possibile modo per i campi oscillanti. Sicuramente ci si deve aspettare che la cavità risuoni secondo un tale modo. Ma, attenzione! Il secondo zero della funzione di Bessel si E presenta a x = 5,52 che è più del doppio del valore che si ha per il primo zero. La frequenza di risonanza di questo modo dovrebbe perciò essere E0 più alta di 6000 megacicli. Non c’è dubbio che ce la troveremmo, ma non spiega la risonanza che osserviamo a 3300. r = 5,52 c / Il guaio è che nella nostra analisi del comportamento di una cavità risonante abbiamo considerato una sola disposizione geometrica dei campi elettrici e magnetici. Abbiamo ammesso che il campo elettrico fosse verr ticale e che quello magnetico si svolgesse secondo cerchi orizzontali. Però altri campi sono possibili. Le sole condizioni sono che i campi devono soddisfare le equazioni di Maxwell dentro la cavità e che i campi elettrici devono incontrare ad angolo retto le pareti. Abbiamo considerato il caso FIGURA 23.12 Un modo di frequenza più elevata. in cui le pareti in alto e in basso del barattolo sono piatte, ma le cose non sarebbero completamente diverse se queste fossero curve. Infatti, come si può pensare che il barattolo sappia cosa sia l’alto e il basso e cosa siano i suoi fianchi? È effettivamente possibile far vedere che c’è un modo di oscillazione dei campi dentro il barattolo in cui il campo elettrico attraversa la cavità più o meno secondo un diametro, come mostra la FIGURA 23.13. E Non è troppo difficile capire perché la frequenza naturale di questo modo non dovrebbe essere molto diversa dalla frequenza naturale del primo modo che abbiamo considerato. Supponiamo che invece di una cavità cilindrica B si fosse presa una cavità a forma di cubo con lato di 7,62 cm. È chiaro che questa cavità avrebbe tre modi differenti ma tutti con la stessa frequenza. Un modo in cui il campo elettrico è diretto più o meno su e giù avrebbe certamente la stessa frequenza del modo in cui il campo elettrico è diretto FIGURA 23.13 Un modo trasverso della cavità a destra e a sinistra. Se ora deformiamo il cubo fino a farlo diventare un cilindrica. cilindro, altereremo un po’ queste frequenze, ma ci si aspetta tuttavia che non cambino molto, purché si mantengano più o meno uguali le dimensioni della cavità. Perciò la frequenza del modo della FIGURA 23.13 non dovrebbe essere troppo diversa dal modo della FIGURA 23.8. Si potrebbe fare un calcolo dettagliato della frequenza naturale del modo indicato in FIGURA 23.13, ma ora non lo faremo.
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23.5 • Cavità e circuiti risonanti
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Portando a termine i calcoli, si trova che per le dimensioni che abbiamo supposto, la frequenza di risonanza riesce molto vicina alla risonanza osservata di 3300 megacicli. Per mezzo di calcoli simili è possibile far vedere che ci dovrebbe essere ancora un altro modo, all’altra frequenza di risonanza che si è trovata, B vicino a 3800 megacicli. I campi elettrici e magnetici per questo modo E sono come mostra la FIGURA 23.14. Il campo elettrico non si scomoda ad attraversare tutta la cavità: esso va dai fianchi alle basi, come indicato. Se si va a frequenze sempre più alte, ormai ne sarete convinti, ci si devono aspettare sempre nuove risonanze. Ci sono molti modi diversi, ciascuno dei quali avrà una diversa frequenza di risonanza, corrispondente a una certa complicata distribuzione dei campi elettrici e magnetici. Ciascuna FIGURA 23.14 Un altro modo di una cavità cilindrica. di queste distribuzioni dei campi viene chiamata modo di risonanza. La frequenza di risonanza di ciascun modo può essere calcolata risolvendo le equazioni di Maxwell per i campi elettrici e magnetici nella cavità. Quando si ha una risonanza a una certa particolare frequenza, come si fa a sapere quale modo è stato eccitato? Una maniera è di inserire un piccolo filo nella cavità attraverso un forellino. Se il campo elettrico va nella direzione del filo, come in FIGURA 23.15a, ci saranno delle correnti relativamente forti nel filo che estraggono energia dai campi e la risonanza sparirà. Se il campo elettrico è invece come si vede in FIGURA 23.15b, il filo avrà un effetto molto minore. Si potrebbe trovare in che direzione punta il campo di questo modo piegando l’estremo del filo come si vede in FIGURA 23.15c. Allora, quando si ruota il filo ci sarà un grosso effetto quando l’estremo del filo è parallelo a E e un piccolo effetto quando lo si ruota in modo da trovarsi a 90° rispetto a E.
23.5
Cavità e circuiti risonanti
Sebbene la cavità risonante che siamo andati descrivendo sembri affatto diversa dall’ordinario circuito risonante fatto con un’induttanza e un condensatore, i due sistemi risonanti sono naturalmente strettamente connessi. Tutti e due sono membri della stessa famiglia; essi non sono che due casi estremi di risonatori elettromagnetici e ci sono molti casi intermedi fra questi due estremi. Supponiamo che si cominci col considerare il circuito risonante formato da un condensatore in parallelo con un’induttanza, come mostra la FIGURA 23.16a. Questo circuito risuonerà alla p frequenza !0 = 1/ LC. Se si vuol salire con la frequenza di risonanza di questo circuito, lo si può fare diminuendo l’induttanza L. Un modo è quello di diminuire il numero di spire della bobina. Però in questa direzione si può andare solo fino a un certo punto: alla fine arriveremo a un’ultima spira e non avremo più che un pezzetto di filo che congiunge la lastra superiore a quella inferiore del
E
(a)
FIGURA
23.15
E
E
(b)
(c)
Un corto filo metallico inserito in una cavità disturba molto di più la risonanza quando è parallelo a E che quando gli è perpendicolare.
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Capitolo 23 • Cavità risonanti
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«L»
Linee di B
B «C»
C L
E
Linee di E
(a)
FIGURA
23.16
(b)
Risonatori con frequenze di risonanza progressivamente più alte.
23.17 Un’altra cavità risonante. FIGURA
(c)
condensatore. Si potrebbe aumentare ancora la frequenza di risonanza facendo il condensatore più piccolo; però si può continuare a diminuire l’induttanza mettendo diverse induttanze in parallelo. Due induttanze di una spira ciascuna messe in parallelo avranno soltanto metà dell’induttanza di ciascuna spira. Perciò, quando l’induttanza è ridotta a un’unica spira, si può continuare a far crescere la frequenza di risonanza aggiungendo altre spire che vanno dalla lastra superiore a quella inferiore del condensatore. Per esempio, la FIGURA 23.16b mostra le placche del condensatore collegate da sei di queste «induttanze di una sola spira». Se si continua ad aggiungere molti di questi fili si passa poco per volta al sistema risonante completamente chiuso indicato nella FIGURA 23.16c che è il disegno della sezione verticale di un oggetto a simmetria cilindrica. L’induttanza ora è diventata una scatola cilindrica cava fissata ai bordi delle placche del condensatore. I campi elettrico e magnetico saranno come indicato in figura. Un tale oggetto è naturalmente una cavità risonante; esso è chiamato cavità «caricata». Possiamo però seguitare a pensarlo come un circuito L-C in cui la parte capacità è la regione dove si trova la maggior parte del campo elettrico e la parte induttanza è quella dove si trova la maggior parte del campo magnetico. Se si desidera aumentare ancora la frequenza del risonatore in FIGURA 23.16c, lo si può fare continuando a diminuire l’induttanza L. Per far questo si devono diminuire le dimensioni geometriche della parte induttanza, per esempio diminuendo la dimensione h del disegno. Quando si diminuisce h la frequenza di risonanza salirà. Alla fine, naturalmente, si arriverà alla situazione in cui l’altezza h è proprio uguale alla separazione fra le placche del condensatore: abbiamo allora un semplice barattolo cilindrico; il circuito risonante è diventato la cavità risonante della FIGURA 23.7. Noterete che nell’originale circuito risonante L-C della FIGURA 23.16, il campo elettrico e quello magnetico sono completamente separati. Via via che abbiamo modificato il sistema risonante per ottenere frequenze sempre più alte, il campo magnetico si è portato sempre più vicino a quello elettrico finché nella cavità risonante i due campi sono del tutto commisti. Benché le cavità risonanti di cui abbiamo parlato in questo capitolo siano delle scatole cilindriche, non c’è nulla di magico nella forma cilindrica. Una scatola di qualsiasi forma avrà delle frequenze di risonanza corrispondenti ai vari modi possibili di oscillazione dei campi elettrici e magnetici. Per esempio la «cavità» che si vede in FIGURA 23.17 avrà la sua collezione di frequenze di risonanza, anche se queste sarebbero piuttosto difficili da calcolare.
Guide d’onda
24.1
La linea di trasmissione
Nel capitolo precedente si è studiato ciò che accade agli elementi circuitali quando vengono fatti funzionare a frequenze molto alte e si è potuto capire come un circuito risonante può essere sostituito da una cavità nel cui interno i campi risuonano. Un altro problema tecnico interessante è il collegamento di un oggetto con un altro, in modo che energia elettromagnetica possa venire trasmessa fra loro. Nei circuiti a bassa frequenza questo collegamento è fatto con dei fili, ma questo metodo non funziona molto bene alle alte frequenze perché i circuiti irraggerebbero energia in tutto lo spazio circostante ed è difficile controllare dove questa energia andrebbe a finire. I campi si diffondono intorno ai fili e le correnti e le tensioni non sono «guidate» molto bene dai fili. In questo capitolo vogliamo indagare i modi in cui alle alte frequenze gli oggetti si possono collegare fra loro. O almeno, questa è una maniera di presentare l’argomento. Un’altra maniera è di dire che, avendo discusso il comportamento delle onde nello spazio libero, è ora il momento di vedere ciò che accade quando i campi oscillanti vengono confinati in una o più dimensioni. Scopriremo il nuovo e interessante fenomeno che quando i campi vengono confinati in due dimensioni soltanto e si permette loro di muoversi liberamente nella terza dimensione, essi si propagano per onde. Queste sono «onde guidate», l’argomento di questo capitolo. Cominciamo con l’elaborare la teoria generale della linea di trasmissione. Le ordinarie linee di trasmissione che corrono da pilone a pilone attraverso la campagna, irradiano un po’ della loro potenza, ma le frequenze di rete (50-60 cicli/s) sono così basse che la perdita non ha importanza. La radiazione si potrebbe arrestare circondando la linea con un tubo metallico, ma questo metodo non sarebbe pratico per le reti dell’energia elettrica perché le correnti e le tensioni adoperate richiederebbero dei tubi costosi, molto grandi e pesanti. Perciò si adoperano semplici «linee aperte». Per frequenze un po’ più alte – diciamo di alcuni kilocicli – la radiazione può essere già importante. Può però essere ridotta usando come linee di trasmissione dei cavi intrecciati come si fa per i collegamenti telefonici a corta distanza. A frequenze più alte però la radiazione diventa presto intollerabile, sia a causa della perdita di potenza, sia perché l’energia appare in altri circuiti dove non la si vuole. Per frequenze da alcuni kilocicli a qualche centinaio di megacicli, energia e segnali elettromagnetici vengono di solito trasmessi per mezzo di linee coassiali che consistono di un filo dentro a un «conduttore esterno» o «schermo», di forma cilindrica. Sebbene la trattazione che segue si applichi a una linea di trasmissione composta da due conduttori paralleli di forma qualunque, la svilupperemo riferendoci a una linea coassiale. Prendiamo la linea coassiale più semplice, che possiede un conduttore centrale che si suppone essere un sottile cilindro cavo e un conduttore esterno che è un altro cilindro sottile con lo stesso asse del conduttore interno, come nella FIGURA 24.1. Cominciamo col calcolare approssimativamente come la linea si comporta a frequenze relativamente basse. Si è già descritto parte del comportamento a bassa frequenza quando si è detto, in precedenza, che una simile coppia di conduttori possiede una certa dose di induttanza per unità di lunghezza e una certa capacità per unità di lunghezza. Si può infatti descrivere il comportamento a bassa frequenza di qualunque linea di trasmissione dando la sua induttanza per unità di lunghezza L 0 e la sua capacità per unità
24
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Capitolo 24 • Guide d’onda
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24.1 Una linea coassiale di trasmissione. FIGURA
I(x)
Filo 1
I(x + ∆x)
b
24.2 Le correnti e i voltaggi in una linea di trasmissione. FIGURA
a
V(x + ∆x )
V(x) Filo 2 x
x + ∆x
di lunghezza C0 . Allora si può analizzare la linea come il caso limite del filtro L-C discusso nel paragrafo 22.6. Si può fare un filtro che imita la linea prendendo dei piccoli elementi L 0 x in serie e delle piccole capacità C0 x in parallelo, dove x è un elemento di lunghezza della linea. Usando i risultati ottenuti per il filtro infinito, vediamo che ci sarebbe una propagazione di segnali elettrici lungo la linea. Piuttosto che seguire questo metodo, però, preferiamo esaminare la linea dal punto di vista di un’equazione differenziale. Andiamo a vedere ciò che accade in due punti vicini lungo la linea di trasmissione, diciamo alle distanze x e x + x dall’inizio della linea. Chiamiamo V (x) la differenza fra i due conduttori e indichiamo con I(x) la corrente nel conduttore «a potenziale» (FIGURA 24.2). Se la corrente nella linea sta variando, l’induttanza ci darà per la caduta di tensione ai capi del segmento di linea fra x e x + x: dI V = V (x + x) V (x) = L 0 x dt Passando al limite per x ! 0 otteniamo @V @I = L0 @x @t
(24.1)
cioè la corrente variabile produce un gradiente del voltaggio. Riferendoci di nuovo alla figura, se il voltaggio in x è variabile, ci deve essere della carica fornita alla capacità nella regione in questione. Se si prende il pezzettino di linea fra x e x + x la carica su di esso è q = C0 xV . La variazione per unità di tempo di questa carica è C0 x dV/dt, ma la carica cambia solo se la corrente I(x) che entra nell’elemento è diversa dalla corrente I(x + x) che ne esce. Chiamando I la differenza, si ha I = C0 x
dV dt
Prendendo il limite per x ! 0 si ottiene @I @V = C0 @x @t
(24.2)
Perciò la conservazione della carica implica che il gradiente della corrente sia proporzionale alla variazione per unità di tempo della tensione. Le equazioni (24.1) e (24.2) sono dunque le equazioni base di una linea di trasmissione. Volendo, si potrebbero modificare per includere gli effetti della resistenza dei conduttori e della fuga di cariche attraverso l’isolamento fra i due conduttori, ma per l’attuale discussione ci concentreremo sul caso più semplice. Le due equazioni della linea di trasmissione possono venire combinate derivandone una rispetto a t e l’altra rispetto a x ed eliminando I oppure V . Abbiamo allora @ 2V @ 2V = C L 0 0 @ x2 @t 2
(24.3)
@2 I @2 I = C L 0 0 @ x2 @t 2
(24.4)
oppure
24.1 • La linea di trasmissione
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Riconosciamo una volta di più l’equazione delle onde in x. In una linea di trasmissione uniforme il voltaggio (e la corrente) si propaga lungo la linea come un’onda. Il voltaggio lungo la linea deve essere della forma V (x, t) = f (x vt) oppure V (x, t) = g(x + vt) o una somma delle due. Ora, qual è la velocità v? Sappiamo che il coefficiente del termine in @ 2 /@t 2 è proprio 1/v 2 , perciò 1 v=p (24.5) L 0 C0 Lasceremo a voi dimostrare che per ogni onda il voltaggio sulla linea è proporzionale alla corrente di quell’onda e che la costante di proporzionalità è proprio l’impedenza caratteristica z0 . Chiamando V+ e I+ voltaggio e corrente per un’onda che va nella direzione delle x positive, dovreste ottenere V+ = z0 I+ (24.6) Similmente, per le onde che vanno verso le x negative la relazione è V = z0 I L’impedenza caratteristica – come è stata trovata dalle equazioni dei filtri – è data da r L0 z0 = C0
(24.7)
ed è perciò una pura resistenza. Per trovare la velocità di propagazione v e l’impedenza caratteristica z0 di una linea di trasmissione, si deve conoscere l’induttanza e la capacità per unità di lunghezza. Si può calcolarle facilmente per il cavo coassiale e così vedere come vanno le cose. Per l’induttanza seguiremo le idee del paragrafo 17.8 e porremo (1/2) LI 2 uguale all’energia magnetica che si ottiene integrando ✏ 0 c2 B2 /2 nel volume. Supponiamo che il conduttore centrale trasporti la corrente I, allora sappiamo che si ha I B= 2⇡✏ 0 c2 r dove r è la distanza dall’asse. Prendendo come elemento di volume un guscio cilindrico di spessore dr e lunghezza l, abbiamo per l’energia magnetica ✏ 0 c2 U= 2
⌅
b a
I 2⇡✏ 0 c2 r
!2
l 2⇡r dr
dove a e b sono i raggi dei conduttori interno ed esterno, rispettivamente. Eseguendo l’integrale si ottiene I 2l b U= (24.8) ln 2 a 4⇡✏ 0 c Ponendo questa energia uguale a (1/2) LI 2 si trova L=
l b ln 2 a 2⇡✏ 0 c
(24.9)
Come deve, L è proporzionale alla lunghezza l della linea e perciò l’induttanza per unità di lunghezza L 0 è b ln a L0 = (24.10) 2⇡✏ 0 c2
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Capitolo 24 • Guide d’onda
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Abbiamo ricavato in precedenza la carica di un condensatore cilindrico (paragrafo 12.2). Adesso, dividendo la carica per la differenza di potenziale, otteniamo C=
2⇡✏ 0 l b ln a
La capacità per unità di lunghezza C0 è C/l. Combinando questo risultato con l’equazione (24.10), si vede che il prodotto L 0 C0 è proprio uguale a 1/c2 , perciò v=p
1 L 0 C0
è uguale a c. L’onda viaggia lungo la linea con la velocità della luce. Rileviamo che questo risultato dipende da due ipotesi: 1 che non ci siano materiali dielettrici o magnetici nello spazio fra i conduttori; 2 che le correnti si trovino solo sulle superfici dei conduttori (come avverrebbe per dei conduttori perfetti). Vedremo più avanti che per buoni conduttori e frequenze alte, le correnti si distribuiscono da sé tutte in superficie, come farebbero per un conduttore perfetto, perciò questa ipotesi è valida. È interessante che fino a quando le ipotesi 1 e 2 sono corrette, il prodotto L 0 C0 sia uguale a 1/c2 per qualunque coppia di conduttori paralleli, anche, mettiamo, per un conduttore esagonale interno comunque collocato dentro un conduttore esterno ellittico. Finché la sezione trasversa è costante e non ci sono materiali nello spazio interposto, le onde vengono propagate con la velocità della luce. Nessuna affermazione generale si può fare riguardo all’impedenza caratteristica. Per la linea coassiale essa è b ln a z0 = (24.11) 2⇡✏ 0 c Il fattore 1/✏ 0 c ha le dimensioni di una resistenza ed è uguale a 120 ⇡ ohm. Il fattore geometrico ln(b/a) dipende soltanto logaritmicamente dalle dimensioni, perciò per le linee coassiali – e in generale anche per linee qualunque – l’impedenza caratteristica ha valori tipici che vanno da circa 50 ohm ad alcune centinaia di ohm.
24.2
La guida d’onda rettangolare
Il prossimo argomento di cui vogliamo parlare sembra essere a prima vista un fenomeno singolare: se si toglie il conduttore centrale da una linea coassiale, essa può ancora trasportare energia elettromagnetica. In altre parole, a frequenze abbastanza alte un tubo vuoto funziona altrettanto bene di uno con fili. Ciò è in rapporto col modo misterioso in cui un circuito risonante con condensatore e induttanza viene sostituito, alle alte frequenze, da nulla più che un barattolo. Benché possa sembrare una cosa notevole quando ci si è abituati a pensare in termini di linee di trasmissione concepite come induttanze e capacità distribuite, tutti sappiamo che delle onde elettromagnetiche possono viaggiare dentro a un tubo metallico vuoto. Se il tubo è diritto, possiamo vedere attraverso di esso! Dunque è sicuro che onde elettromagnetiche possono passare in un tubo. Sappiamo però anche che non è possibile trasmettere onde di bassa frequenza (reti di distribuzione dell’energia o telefono) attraverso lo spazio interno di un unico tubo metallico. Deve dunque succedere che le onde passano soltanto se la loro lunghezza d’onda è abbastanza corta. Perciò vogliamo discutere il caso limite della più grande lunghezza d’onda (o la frequenza più bassa) che può passare in un tubo di date dimensioni. Siccome il tubo viene adoperato per trasportare onde, lo si chiama guida d’onda. Cominceremo con un tubo rettangolare, perché è il caso più semplice da analizzare. Daremo prima una trattazione matematica e torneremo in seguito a considerare il problema in un modo
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24.2 • La guida d’onda rettangolare
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molto più elementare. Il metodo più elementare, però, si può applicare facilmente solo a una guida rettangolare. I fenomeni di base sono gli stessi per una guida generica di forma arbitraria, perciò il ragionamento matematico è fondamentalmente più solido. Il problema è dunque quello di trovare che tipo di onde possono esistere dentro un tubo rettangolare. Per prima cosa scegliamo un sistema di coordinate comodo; prendiamo l’asse z in direzione della lunghezza del tubo e gli assi x e y paralleli ai due lati, come si vede nella FIGURA 24.3. Sappiamo che quando delle onde luminose si propagano nel tubo esse hanno un campo elettrico trasversale; perciò proponiamoci di cercare dapprima delle soluzioni in cui E è perpendicolare a z: per esempio, abbia la sola componente Ey . Questo campo elettrico presenterà delle variazioni attraversando la guida; deve infatti andare a zero sui lati paralleli all’asse y, perché cariche e correnti in un conduttore si assestano sempre in modo che non ci sia componente tangenziale del campo alla superficie del conduttore. Perciò Ey varierà con x secondo un arco, come mostra la FIGURA 24.4. Si tratta forse della funzione di Bessel che si è trovata per una cavità? No, perché la funzione di Bessel riguarda le geometrie cilindriche. Per una geometria rettangolare le onde di solito sono semplici funzioni armoniche, perciò si dovrebbe tentare qualcosa come sen k x x. Siccome si vuole che le onde si propaghino lungo la guida, ci si aspetta che il campo alterni fra valori positivi e negativi quando ci si muove lungo z, come nella FIGURA 24.5 e queste oscillazioni viaggeranno lungo la guida con una certa velocità. Se si hanno delle oscillazioni di una determinata frequenza, ci si aspetta che l’onda possa variare con z come cos(!t k z z) o, anche per usare una forma matematica più comoda, come ei(!t kz z) . Questa dipendenza da z rappresenta un’onda che viaggia con la velocità (vedi cap. 29 del vol. 1) ! v= kz
y
x
z
FIGURA
24.3
Coordinate scelte per la guida d’onda
rettangolare.
y
a
b
E
x
(a) Ey
Perciò si può intuire che l’onda nella guida abbia la forma matematica seguente Ey = E0 ei(!t kz z) sen(k x x) (24.12) Vediamo se questa congettura soddisfa le corrette equazioni dei campi. Per prima cosa, il campo elettrico non dovrebbe avere componenti tangenziali sui conduttori. Il nostro campo soddisfa questa esigenza; esso è perpendicolare alle facce superiori e inferiori ed è zero sulle due facce laterali. Ossia, lo è se scegliamo k x in modo che un mezzo periodo del seno si adatti esattamente alla larghezza della guida, cioè se
a
x
(b)
24.4 Il campo elettrico nella guida d’onda per un certo valore di z. FIGURA
y
kx a = ⇡
B
(24.13)
Ci sono altre possibilità, come k x a = 2⇡, 3⇡, ..., o in generale k x a = n⇡
E
(24.14)
dove n è un intero qualunque. Queste rappresentano varie complicate distribuzioni del campo, ma per ora prendiamo soltanto il caso più semplice, con k x = ⇡/a dove a è la larghezza interna della guida. Poi, la divergenza di E deve essere nulla nello spazio libero dentro la guida, perché non ci sono cariche. Il nostro E ha soltanto la componente y e questa non cambia con y, perciò abbiamo realmente r · E = 0.
z
(a)
Ey vfase z (b)
FIGURA
24.5
guida d’onda.
La dipendenza del campo da z nella
316
24.6 Il campo magnetico nella guida d’onda.
Capitolo 24 • Guide d’onda
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FIGURA
y
E
B
Max E
x
E B
Min E Propagazione dell’onda
E
Max E z
Infine il campo elettrico deve accordarsi con il resto delle equazioni di Maxwell nello spazio libero dentro la guida. Questo è lo stesso che dire che deve soddisfare l’equazione delle onde @ 2 Ey @ 2 Ey @ 2 Ey + + @ x2 @ y2 @z 2
1 @ 2 Ey =0 c @t 2
(24.15)
Dobbiamo vedere se la nostra congettura, cioè l’equazione (24.12), funziona. La derivata seconda di Ey rispetto a x non è che k x2 Ey . La derivata seconda rispetto a y è zero, giacché nulla dipende da y. La derivata seconda rispetto a z è k z2 Ey e la derivata seconda rispetto a t è !2 Ey . L’equazione (24.15) dice dunque che k x2 Ey + k z2 Ey
!2 Ey = 0 c2
A meno che Ey non sia zero dappertutto (il che non è molto interessante) questa equazione è giusta se è !2 k x2 + k z2 =0 (24.16) c2 Abbiamo già fissato k x , perciò questa equazione ci dice che ci possono essere onde del tipo che si è supposto se k z è legato alla frequenza ! in modo che l’equazione (24.16) sia soddisfatta; in altre parole se è r !2 ⇡2 kz = (24.17) c2 a2 Le onde che abbiamo descritto si propagano nella direzione z con questo valore di k z . Il numero d’onde k z che si ottiene dall’equazione (24.17) ci dice, per una data frequenza !, la velocità con la quale i nodi dell’onda si propagano lungo la guida. La velocità di fase è v= Ricorderete che la lunghezza d’onda
! kz
di un’onda che si propaga è data da =
2⇡v !
(24.18)
24.3 • La frequenza di taglio
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così che si ha anche kz =
2⇡ g
dove g è la lunghezza d’onda delle oscillazioni lungo la direzione z, la «lunghezza d’onda nella guida». La lunghezza d’onda nella guida differisce naturalmente dalla lunghezza d’onda delle onde elettromagnetiche della stessa frequenza nello spazio libero. Se chiamiamo 0 la lunghezza d’onda nello spazio libero, che è 2⇡c 0 = ! possiamo scrivere l’equazione (24.17) nella forma g
=s
1
0 0
2a
!2
(24.19)
Oltre ai campi elettrici ci sono quelli magnetici che viaggiano con l’onda, ma non ci annoieremo a calcolarne l’espressione in questo momento. Siccome si ha c2 r ⇥ B =
@E @t
le linee di B circoleranno intorno alle regioni dove @E/@t è più grande, cioè a metà fra i massimi e i minimi di E. Le spire di B giacciono parallelamente al piano xz e fra le cime e le valli di E, come mostra la FIGURA 24.6.
24.3
La frequenza di taglio
Risolvendo l’equazione (24.16) per k z ci dovrebbero essere realmente due radici, una positiva e una negativa. Si dovrebbe scrivere r !2 ⇡2 kz = ± (24.20) c2 a2 I due segni significano semplicemente che ci possono essere onde che si propagano con una velocità di fase negativa (verso z ), così come ci sono quelle che si propagano nella direzione positiva della guida. Naturalmente dovrebbe essere possibile per le onde andare sia nell’una sia nell’altra direzione. Siccome ambedue i tipi d’onda possono essere presenti nello stesso tempo, ci sarà la possibilità di soluzioni che rappresentano onde stazionarie. L’equazione per k z ci dice inoltre che frequenze più alte danno valori più grandi per k z e perciò lunghezze d’onda più piccole, finché al limite per grandi !, k diventa uguale a !/c, che è il valore che ci si aspetta per le onde nello spazio libero. La luce che si «vede» attraverso un tubo viaggia pur sempre alla velocità c. Ma ora osservate che se si va verso frequenze basse, succede qualcosa di strano. Dapprima la lunghezza d’onda diventa sempre più lunga, ma se ! diventa troppo piccola, la grandezza sotto il segno di radice quadrata nell’equazione (24.20) diventa a un tratto negativa. Questo accade appena ! diventa inferiore a ⇡c/a, ossia quando 0 diventa più grande di 2a. In altre parole, quando la frequenza diventa più piccola di una certa frequenza critica ⇡c !c = a il numero d’onde k z (così come g ) diventa immaginario e non abbiamo più una soluzione. O ce l’abbiamo ancora? Chi ha detto che k z deve essere reale? Cosa succede se risulta immaginario? Le nostre equazioni dei campi sono ancora soddisfatte. Forse anche un k z immaginario rappresenta un’onda.
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Capitolo 24 • Guide d’onda
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Supponiamo che ! sia minore di !c ; allora possiamo scrivere Ey
k z = ±ik 0 dove k 0 è un numero reale positivo: r k=
⇡2 a2
!2 c2
(24.21)
(24.22)
Se adesso torniamo all’espressione (24.12) per Ey , abbiamo 0
Ey = E0 ei(!t⌥ik z) sen(k x x) 0
FIGURA
a/
24.7
2a/
z
a
La variazione di E y con z per
⌧
(24.23)
che possiamo anche scrivere c.
0
Ey = E0 e±k z ei!t sen(k x x)
(24.24)
Questa espressione dà un campo E che oscilla con il tempo come ei!t ma che varia con z come 0 e±k z . Cresce o decresce gradualmente con z come un’esponenziale reale. Nella nostra derivazione non ci siamo preoccupati delle sorgenti che hanno dato origine alle onde, ma naturalmente ci deve essere una sorgente in qualche punto nella guida. Il segno da adottare per k 0 deve essere quello che fa decrescere il campo quando la distanza dalla sorgente delle onde cresce. Perciò, per frequenze sotto !c = ⇡c/a, le onde non si propagano lungo la guida; il campo oscillante penetra nella guida solo per una distanza dell’ordine di 1/k 0. Per questa ragione la frequenza !c è chiamata «frequenza di taglio» della guida. Esaminando l’equazione (24.22) si vede che per frequenze appena un poco al disotto di !c , il numero k 0 è piccolo e i campi possono penetrare per un lungo tratto nella guida. Ma se ! è molto minore di !c , il coefficiente esponenziale k 0 è uguale a ⇡/a e il campo si smorza con estrema rapidità come si vede in FIGURA 24.7. Il campo decresce per un fattore 1/e in una distanza a/⇡, ossia in circa un terzo della larghezza della guida. Il campo penetra fino a una distanza molto piccola dalla sorgente. Vogliamo sottolineare un aspetto interessante della nostra analisi delle onde guidate: la comparsa del numero d’onde immaginario k z . Normalmente, se in fisica risolviamo un’equazione e otteniamo un numero immaginario, questo non ha alcun significato fisico. Per le onde, però, un numero d’onde immaginario significa invece qualcosa. L’equazione d’onda è ancora soddisfatta; soltanto vuol dire che la soluzione dà dei campi che decrescono esponenzialmente invece di onde che si propagano. Perciò in ogni problema di onde dove k per qualche frequenza diventa immaginario ciò vuol dire che la forma dell’onda cambia: l’onda sinusoidale si muta in un’esponenziale.
24.4
La velocità delle onde guidate
La velocità che si è usata sopra per le onde è la velocità di fase, che è la velocità di un nodo dell’onda e una funzione della frequenza. Se si combinano le equazione (24.17) e (24.18), si può scrivere c vfase = r (24.25) ✓ ! ◆2 c 1 !
Per frequenze sopra al taglio – dove esistono onde che si propagano – !c /! è minore di uno e la velocità di fase è reale e più grande della velocità della luce. Si è già visto nel cap. 48 del vol. 1 che velocità di fase maggiori della velocità della luce sono possibili, perché sono appunto i nodi dell’onda che si muovono e non energia o informazioni. Allo scopo di sapere quanto rapidamente viaggiano dei segnali, si deve calcolare la velocità di impulsi o modulazioni fatte facendo interferire un’onda di una certa frequenza con una o più onde di frequenze leggermente
24.5 • Osservazione di onde guidate
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diverse (vedi cap. 48 del vol. 1). Si è chiamata velocità di gruppo la velocità dell’inviluppo di un tale gruppo d’onda; non è !/k ma d!/dk: vgruppo =
d! dk
(24.26)
Derivando l’equazione (24.17) rispetto a ! e invertendo per ottenere d!/dk, si trova che è r ✓ ! ◆2 c (24.27) vgruppo = c 1 !
che è minore della velocità della luce. La media geometrica di vfase e vgruppo è proprio c, la velocità della luce: vfase vgruppo = c2
(24.28)
Questo è curioso, perché si è vista una simile relazione in meccanica quantistica. Per una particella con una velocità qualunque – anche relativistica – l’impulso p e l’energia U sono legati da U 2 = p2 c 2 + m 2 c 4
(24.29)
Ma in meccanica quantistica l’energia è ~! e l’impulso è ~/ , che è uguale a ~k; perciò l’equazione (24.29) può essere scritta !2 m2 c2 2 = k + (24.30) c2 ~2 ossia r ! 2 m2 c2 k= (24.31) c2 ~2 che è molto simile all’equazione (24.17)... Interessante! La velocità di gruppo delle onde è anche la velocità alla quale l’energia viene trasportata lungo la guida. Se si vuol trovare il flusso d’energia nella guida, lo si può ottenere dalla densità d’energia moltiplicata per la velocità di gruppo. Se la radice del campo quadratico medio è E0 , allora la densità media dell’energia elettrica è ✏ 0 E02 /2. C’è anche dell’energia associata con il campo magnetico. Non lo dimostreremo qui, ma in qualsiasi cavità o guida le energie elettrica e magnetica sono uguali, così che la densità totale dell’energia elettromagnetica è ✏ 0 E02 . La potenza dU/dt trasmessa dalla guida è dunque dU = ✏ 0 E02 ab vgruppo dt
(24.32)
(Vedremo più avanti un altro modo, più generale, di ottenere il flusso d’energia.)
24.5
Osservazione di onde guidate
Energia può essere immessa in una guida d’onda per mezzo di qualche sorta di «antenna». Per esempio può servire un filo verticale. La presenza delle onde guidate può essere osservata raccogliendo un po’ di energia elettromagnetica con una piccola «antenna» ricevente, che può essere ancora un segmento di filo o una piccola spira. Nella FIGURA 24.8 si fa vedere una guida con alcuni tagli per mostrare un’antennina di accoppiamento e una «sonda» di prelievo. L’antennina di accoppiamento può essere collegata con un generatore di segnali per mezzo di un cavo coassiale e la sonda di prelievo può essere collegata con un analogo cavo al rivelatore. È comodo di solito inserire la sonda di prelievo per mezzo di una fenditura lunga e sottile nella guida, come mostra la FIGURA 24.8. Allora la sonda può essere mossa avanti e indietro lungo la guida per saggiare il campo di varie posizioni. Se il generatore di segnali è regolato a una certa frequenza ! maggiore della frequenza di taglio !c , ci saranno delle onde che si propagano lungo la guida, partendo dall’antennina
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Capitolo 24 • Guide d’onda
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alimentatrice. Queste saranno le sole onde presenti se la guida è infinitamente lunga, ciò che si può effettivaAl rilevatore mente realizzare chiudendo la guida con un assorbitore accuratamente progettato in modo che non ci siano riflessioni dall’estremo lontano. Allora, siccome il rivelatore misura la media nel tempo del campo vicino alla sonda, esso raccoglierà un segnale che è indipendente dalla posizione lungo la guida; la sua risposta sarà proporzionale alla potenza trasmessa. FIGURA 24.8 Una guida d’onda con un’antennina d’accoppiamento e una Se ora l’estremo lontano della guida è chiuso in sonda di prelievo. modo da produrre un’onda riflessa – come esempio limite: se lo chiudiamo con una lastra metallica – ci sarà un’onda riflessa in aggiunta all’onda diretta originaria. Queste due onde interferiranno per produrre nella guida un’onda stazionaria simile alle onde stazionarie in una corda che sono state discusse nel cap. 49 del vol. 1. Allora quando la sonda di prelievo viene mossa lungo la guida il valore letto sul rivelatore salirà e scenderà periodicamente mostrando un massimo del campo in ciascun ventre dell’onda stazionaria e un minimo in ciascun nodo. La distanza fra due successivi nodi (o ventri) non è che g /2. Questo dà un modo conveniente di misurare la lunghezza d’onda nella guida. Se la frequenza viene ora spostata più vicino a !c , la distanza fra i nodi cresce mostrando che la lunghezza d’onda cresce, come predetto dall’equazione (24.19). Supponiamo ora che il generatore di segnali sia regolato a una frequenza appena un poco al disotto di !c . Allora la risposta del rivelatore diminuirà gradualmente mentre la sonda di prelievo si fa scorrere lungo la guida. Se la frequenza è regolata a un valore un po’ più basso, l’intensità del campo cadrà rapidamente, seguendo la curva della FIGURA 24.7 e indicando che non vengono propagate onde. Dal generatore di segnale
24.6
Le guide d’onda come condutture
Un uso pratico importante delle guide d’onda si ha nella trasmissione di energia ad alta frequenza, come per esempio nell’accoppiamento dell’oscillatore ad alta frequenza o dell’amplificatore d’uscita di un apparato radar a un’antenna. In effetti, l’antenna stessa consiste di solito di un riflettore parabolico alimentato nel suo punto focale da una guida d’onda con l’estremo svasato per costituire una tromba che irradia le onde che arrivano lungo la guida. Sebbene si possano trasmettere alte frequenze mediante un cavo coassiale, una guida d’onda è migliore per trasmettere potenze forti. In primo luogo, la massima potenza che può essere trasmessa lungo una linea è limitata dalla rottura dell’isolamento (solido o gassoso) fra i conduttori. Per un alto valore della potenza, le intensità del campo in una guida sono di solito minori che in un cavo coassiale, perciò si possono trasmettere potenze più elevate prima che si produca la rottura. In secondo luogo le perdite di potenza nel cavo coassiale sono di solito maggiori che in una guida d’onda. In un cavo coassiale ci deve essere del materiale isolante per sostenere il conduttore centrale e c’è una perdita d’energia in questo materiale, specialmente alle alte frequenze. Le densità di corrente sul conduttore centrale sono molto alte e, siccome le perdite vanno come il quadrato della densità di corrente, le correnti meno forti che si hanno sulle pareti della guida danno luogo a minori perdite d’energia. Per mantenere queste perdite al minimo, le superfici interne della guida vengono spesso placcate con un materiale ad alta conduttività, come l’argento. Il problema di collegare delle guide d’onda per formare un «circuito» è del tutto diverso dall’analogo problema alle basse frequenze ed è di solito chiamato «idraulica»(1) delle microonde. Molti apparecchi speciali sono stati creati a questo scopo. Per esempio due sezioni di guide d’onda vengono ordinariamente connesse per mezzo di flange, come si può vedere nella FIGURA 24.9. (1) In inglese plumbing indica le reti di tubature (per esempio quelle dell’acqua o del gas nelle abitazioni) e anche l’arte di costruirle e ripararle. (N.d.T.)
321
24.6 • Le guide d’onda come condutture
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Tali connessioni però possono provocare serie perdite d’energia, perché le correnti superficiali devono fluire attraverso il giunto che può avere una resistenza relativamente alta. Un modo di evitare tali perdite è di fare le flange come si vede nella sezione disegnata in FIGURA 24.10. Si lascia un piccolo spazio fra le sezioni adiacenti della guida e una scanalatura è praticata nella faccia di una delle flange per creare una piccola cavità del tipo indicato nella FIGURA 23.16c. Le dimensioni sono scelte in modo che questa cavità risuoni alla frequenza che si adopera. La cavità risonante presenta un’elevata «impedenza» alle correnti, perciò relativamente poca corrente fluisce attraverso i giunti metallici (cioè attraverso a nella FIGURA 24.10). Le elevate correnti della guida caricano e scaricano semplicemente la «capacità» della cavità (regione b nella figura), dove si ha poca dissipazione d’energia. Supponiamo che si voglia bloccare una guida d’onda in un modo che non dia luogo a onde riflesse. Si deve allora mettere in fondo alla guida qualcosa che imiti una lunghezza infinita di guida. Occorre una terminazione che agisca riguardo alla guida come fa l’impedenza caratteristica per una linea di trasmissione: qualcosa che assorba le onde in arrivo senza dar luogo a riflessioni. Allora la guida si comporterà come se continuasse all’infinito. Tali terminazioni si fanno mettendo dentro la guida dei cunei di materiale resistivo accuratamente progettati per assorbire l’energia delle onde senza quasi generare onde riflesse. Se si vogliono connettere tre cose insieme – per esempio, una sorgente con due antenne diverse – si può usare un «T» come quello che mostra la FIGURA 24.11. L’energia convogliata alla parte centrale del «T» si dividerà e uscirà per le due braccia laterali (e ci potranno essere anche un po’ di onde riflesse). Si può vedere qualitativamente dai due schizzi in FIGURA 24.12 che i campi quando arrivano in fondo alla sezione d’entrata tendono a spargersi fuori di essa producendo dei campi elettrici che danno origine a onde che si allontanano lungo le due braccia. A seconda che il campo elettrico nella guida sia parallelo o perpendicolare alla «testa» del «T», i campi nella giunzione saranno all’incirca come indicato nelle FIGURE 24.12a e 24.12b. Infine, vorremo descrivere un apparecchio chiamato «accoppiatore unidirezionale» che è molto utile per rivelare quel che succede dopo che si è montato un complicato dispositivo di guida d’onda. Mettiamo che si voglia conoscere in che direzione vanno le onde in una data sezione di una guida: si potrebbe essere in dubbio, per esempio, se ci sia o no una forte onda riflessa. L’accoppiatore unidirezionale preleva una piccola frazione della potenza della guida se c’è un’onda che va in una certa direzione, ma non ne preleva affatto se l’onda va nell’altra direzione. Collegando l’uscita dell’accoppiatore a un rivelatore, si può misurare la potenza «a senso unico» che circola nella guida.
E
24.9 Sezioni di una guida d’onda collegate per mezzo di flange. FIGURA
a Cavità risonante
Flangia Guida
Guida b
24.10 Un collegamento a bassa perdita fra due sezioni di una guida d’onda. FIGURA
24.11 Un «T» per guide d’onda. (Le flange portano dei cappellotti terminali di plastica per tenere pulito l’interno quando il «T» non viene adoperato.) FIGURA
E
v
v
v
v v
v
(a)
24.12 I campi elettrici nel «T» di una guida d’onda, per due diverse orientazioni possibili del campo. FIGURA
(b)
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Capitolo 24 • Guide d’onda
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La FIGURA 24.13 mostra un accoppiatore unidirezionale: un pezzo di guida d’onda AB porta un altro pezzo di guida d’onda CD saldato lungo una faccia. La guida CD è curvata in fuori perché ci sia posto per le flange di collegamento. Prima che le guide vengano saldate, due (o più) fori sono stati praticati in ciascuna guida (in corrispondenza l’uno con l’altro) così che un po’ dei campi della guida principale AB possano operare l’accoppiamento con la guida secondaria CD. Ognuno dei fori agisce come una piccola antenna che produce un’onda nella guida secondaria. Se ci fosse un foro solo, le onde verrebbero inviate in ambedue le direzioni e sarebbero le FIGURA 24.13 Un accoppiatore unidirezionale. stesse senza riguardo al senso in cui l’onda si propaga nella guida primaria. Quando però ci sono due fori con uno spazio di separazione uguale a un quarto della lunghezza d’onda nella guida, essi costituiscono due sorgenti con uno sfasamento di 90°. Ricordate che nel cap. 29 del vol. 1 è stata considerata l’interferenza di due antenne distanziate di /4 ed eccitate a 90° di sfasamento nel tempo? Si trovò che le onde si sottraggono in una direzione e si sommano nella direzione opposta. La stessa cosa accadrà qui. L’onda prodotta nella guida CD si muoverà nella stessa direzione dell’onda in AB. Se l’onda nella guida primaria viaggia da A verso B, ci sarà un’onda all’uscita D della guida secondaria. Se l’onda nella guida primaria va da B verso A, ci sarà un’onda che va verso l’estremo C della guida secondaria. Questo estremo è provvisto di una terminazione, in modo che quest’onda è assorbita e non ci sono onde all’uscita dell’accoppiatore.
24.7
Modi delle guide d’onda
L’onda che abbiamo scelto di analizzare è una soluzione particolare delle equazioni dei campi. Ce ne sono molte di più. Ciascuna soluzione è chiamata «modo» della guida d’onda. Per esempio, nel nostro caso la dipendenza da x del campo era proprio data dalla metà del ciclo di un’onda sinusoidale. C’è una soluzione ugualmente valida con un ciclo intero; in tal caso la variazione di Ey con x è indicata in FIGURA 24.14. Il k x per un tale modo è il doppio, perciò la frequenza di taglio è molto più alta. Inoltre, nell’onda che si è studiata E aveva solo la componente y, ma ci sono altri modi con campi elettrici più complessi. Se il campo elettrico ha componenti soltanto secondo x e y, così che il campo elettrico totale è sempre ad angolo retto rispetto alla direzione z, il modo è chiamato un modo «trasversale elettrico» (o TE). Il campo magnetico di tali modi ha sempre una componente z. Risulta che se E ha una componente nella direzione z (lungo la direzione di propagazione), allora il campo magnetico ha sempre solo componenti trasversali. Perciò tali campi sono chiamati modi trasversali magnetici (TM). Per una guida rettangolare tutti gli altri modi hanno una frequenza di taglio più alta del semplice modo TE che abbiamo descritto. È perciò una cosa possibile – e abituale – adoperare la guida con una frequenza che è appena sopra al taglio per questo modo più basso di tutti, ma rimane sotto le frequenze di taglio di tutti gli altri modi, così che un modo solo si propaga. Altrimenti il comportamento diventa complesso e difficile da controllare.
Ey
y
E x
x
24.14
Un’altra possibile variazione di E y con x.
FIGURA
(a)
(b)
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24.8
24.8 • Un’altra maniera di considerare le onde guidate
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Un’altra maniera di considerare le onde guidate
Vogliamo ora considerare un altro modo di capire perché una guida d’onda attenua rapidamente i campi per frequenze al disotto della frequenza di taglio !c . Avrete così un’idea più «fisica» del perché il comportamento cambi così drasticamente dalle basse alle alte frequenze. Si può fare questo per la guida rettangolare analizzando i campi in termini di riflessioni – o immagini – nelle pareti della guida. Il metodo funziona, però, soltanto per guide rettangolari; questa è la ragione per cui si è cominciato con l’analisi più matematica che funziona, in principio, per guide di ogni forma. Per il modo che abbiamo descritto, la dimensione verticale (in y) non aveva effetto, perciò si può ignorare l’alto e il basso della guida e immaginare che la guida sia estesa indefinitamente nella direzione verticale. Immaginiamo dunque che la guida consista proprio di due lastre verticali con la separazione a. Mettiamo che la sorgente dei campi sia un filo verticale posto nel mezzo della guida, percorso da una corrente che oscilla alla frequenza !. In assenza delle pareti della guida questo filo irradierebbe onde cilindriche. Pensiamo ora che le pareti della guida siano dei conduttori perfetti. Allora, proprio come in elettrostatica, le condizioni alla superficie saranno quelle giuste se aggiungiamo al campo del filo il campo di uno o più fili-immagine adatti. L’idea dell’immagine funziona altrettanto bene tanto in elettrodinamica quanto in elettrostatica, purché naturalmente si includano anche i ritardi. Sappiamo che questo è vero perché abbiamo spesso visto uno specchio produrre un’immagine di una sorgente luminosa. E uno specchio non è che un «perfetto» conduttore per onde elettromagnetiche a frequenze ottiche. Consideriamo ora una sezione trasversale fatta con un piano orizzontaS5 – le, come indicato nella FIGURA 24.15, dove W1 e W2 sono le due pareti della guida e S0 è il filo che fa da sorgente. Prendiamo come positiva la direzione S3 + della corrente nel filo. Se ci fosse soltanto una parete, mettiamo W1 , la si Sorgenti immagini potrebbe eliminare se si mettesse una sorgente immaginaria (con polarità S1 – opposta) nella posizione segnata S1 . Ma con tutt’e due le pareti presenti, W1 ci sarà anche un’immagine di S0 rispetto alla parete W2 , che indichiamo Sorgente S0 + con S2 . Questa sorgente, a sua volta, avrà un’immagine rispetto a W1 che a lineare Guida d’onda chiameremo S3 . Entrambe, S1 e S3 , avranno poi immagini rispetto a W2 W2 S2 – nelle posizioni segnate S4 e S6 , e così via. Per i due piani conduttori con la sorgente in mezzo fra loro, i campi sono gli stessi che quelli prodotti da Sorgenti immagini una linea infinita di sorgenti, tutte separate dalla distanza a. (È effettivaS4 + mente proprio quello che si vedrebbe guardando un filo posto in mezzo a due specchi paralleli.) Perché i campi si annullino sulle pareti, la polarità S6 – delle correnti nelle immagini deve invertirsi passando da un’immagine alla successiva. In altre parole, esse oscillano sfasate di 180°. Il campo nella FIGURA 24.15 La sorgente lineare S0 fra due pareti guida d’onda, dunque, non è che la sovrapposizione dei campi di una simile piane conduttrici W 1 e W 2 . Le pareti possono essere collezione infinita di sorgenti lineari. sostituite da un’infinita sequenza di sorgenti immagini. Sappiamo che se si è vicini alle sorgenti il campo è molto simile a quello statico. Nel paragrafo 7.5 è stato preso in considerazione il campo statico di una griglia di sorgenti lineari e si è trovato che è simile a quello di una lastra carica, eccetto per termini che diminuiscono esponenzialmente con la distanza dalla griglia. Qui l’intensità media delle sorgenti è zero, perché il segno s’inverte passando da ogni sorgente alla sua vicina. Quel poco di campo che può restare dovrebbe decrescere esponenzialmente con la distanza. Vicino alle sorgenti, si vedrà principalmente il campo di quella più vicina; a grande distanza, molte sorgenti contribuiscono e il loro effetto medio è nullo. Perciò si capisce perché la guida d’onda al disotto della frequenza di taglio dà un campo che decresce esponenzialmente. In particolare, alle basse frequenze l’approssimazione statica è buona e predice una rapida attenuazione dei campi con la distanza. Ora ci troviamo davanti al problema opposto: perché mai delle onde si propagano? Questa è la parte misteriosa! La ragione è che alle alte frequenze il ritardo dei campi introduce ulteriori
324
Capitolo 24 • Guide d’onda
S5
–
S3
+
S1
–
S0
+
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cambiamenti di fase che possono portare i campi delle sorgenti sfasate a sommarsi invece di cancellarsi. Effettivamente, nel cap. 29 del vol. 1 si sono già studiati, proprio per questo problema, i campi generati da una fila di antenne o da un reticolo ottico. Si trovò che quando diverse antenne radio sono convenientemente distribuite, esse possono dare un effetto d’interferenza con un segnale intenso in una certa direzione e nessun segnale in un’altra. Torniamo alla FIGURA 24.15 ed esaminiamo i campi che arrivano a grande distanza dalla fila delle sorgenti immagini. I campi saranno intensi soltanto in certe direzioni che dipendono dalla frequenza e cioè solo in quelle direzioni per le quali i campi di tutte le sorgenti si sommano in fase. A una distanza ragionevole dalle sorgenti il campo si propagherà in queste speciali direzioni sotto forma di onde piane. Abbiamo schematizzato una di queste onde nella FIGURA 24.16, dove le linee intere rappresentano le creste delle onde e le linee a tratti rappresentano le valli. La direzione dell’onda sarà quella in cui la differenza dei ritardi per due sorgenti vicine misurati in un punto della cresta dell’onda corrisponde a mezzo periodo di oscillazione. In altre parole, la differenza fra r 2 e r 0 nella figura deve essere la metà della lunghezza d’onda nello spazio libero:
r0 r2
v=c
a S2
S4
0
–
0/2
Cresta
+ Valle
S6
–
24.16 Un sistema di onde coerenti proveniente da una schiera di sorgenti lineari. FIGURA
S3
+
r2 S1
–
+
0
2
L’angolo ✓ è dato perciò da
W1 S0
r0 =
A
B
C
sen ✓ =
vfase
0
2a
(24.33)
W2
C’è naturalmente un altro sistema d’onde che viaggia verso il basso, nella direzione simmetrica rispetto alla fila delle sorgenti. Il campo completo nella guida g S4 + d’onda (non troppo vicino alla sorgente) è la sovrapposizione di questi due sistemi di onde, come mostra la FIGURA 24.17. Naturalmente, i campi effettivi sono, FIGURA 24.17 Il campo della guida d’onda può essere considerato come una in realtà, come questi soltanto fra le due pareti della sovrapposizione di due treni di onde piane. guida d’onda. In punti come A e C le creste dei due sistemi coincidono e il campo avrà un massimo; in punti come B, tutt’e due le onde hanno il loro massimo valore negativo e il campo avrà il suo valore minimo (cioè il più grande valore negativo). Col passare del tempo, il campo nella guida lo si vede viaggiare lungo questa con una lunghezza d’onda g , che è la distanza fra A e C. Questa distanza è legata a ✓ da S2
–
0
0
cos ✓ =
(24.34)
g
Usando l’equazione (24.33) per ✓ otteniamo g
=
0
cos ✓
=s
1
0 0
2a
!2
che è proprio quello che abbiamo trovato con l’equazione (24.19).
(24.35)
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24.8 • Un’altra maniera di considerare le onde guidate
Vediamo ora perché c’è propagazione d’onde soltanto al disopra della frequenza di taglio !0 . Se la lunghezza d’onda nello spazio libero è maggiore di 2a, non c’è alcun angolo sotto il quale possano manifestarsi le onde indicate in FIGURA 24.16. La necessaria interferenza costruttiva appare improvvisamente quando 0 scende sotto 2a, ossia quando oltrepassa !0 = ⇡c/a. Se la frequenza è abbastanza elevata, ci possono essere due o più direzioni possibili in cui si possono avere delle onde. Nel nostro caso questo succederà se è 0 < (3/2) a. In generale, però, potrebbe anche succedere per 0 < a. Queste onde in più corrispondono ai modi più elevati della guida d’onda cui si è accennato. La nostra analisi ha anche reso evidente perché la velocità di fase delle onde guidate è maggiore di c e perché questa velocità dipende da !. Quando ! cambia, l’angolo fra le onde libere della FIGURA 24.16 cambia e perciò le velocità lungo la guida fa lo stesso. Sebbene si siano descritte le onde guidate come sovrapposizione dei campi di una schiera infinita di sorgenti lineari, potete vedere che si sarebbe arrivati allo stesso risultato se avessimo immaginato due sistemi di onde nello spazio libero riflesse continuamente avanti e indietro da due specchi perfetti, ricordando che una riflessione implica un’inversione della fase. Questi sistemi di onde riflettentisi si cancellerebbero tutti a vicenda, a meno di non propagarsi proprio sotto l’angolo ✓ dato dall’equazione (24.33). Ci sono molte maniere di considerare la stessa cosa.
325
25
L’elettrodinamica nella notazione relativistica
25.1 Ripasso: vol. 1, cap. 15, La teoria speciale della relatività cap. 16, Energia e quantità di moto relativistiche cap. 17, Spazio-tempo vol. 2, cap. 13, Magnetostatica
I quadrivettori
Discutiamo ora l’applicazione della teoria della relatività ristretta all’elettrodinamica. Siccome abbiamo già studiato la teoria della relatività ristretta nei capitoli 15, 16 e 17 del vol. 1, non faremo che passare rapidamente in rassegna le idee fondamentali. Si trova sperimentalmente che le leggi della fisica restano immutate se ci si muove con velocità uniforme. Non ci si accorge del moto se ci si trova in una nave spaziale che si muove in linea retta con velocità uniforme, a meno di guardar fuori dalla nave o almeno di fare delle osservazioni aventi a che fare col mondo esterno. Qualunque vera legge fisica che impostiamo, deve essere congegnata in modo che questo fatto naturale vi risulti incorporato. La relazione fra spazio e tempo per due sistemi di coordinate, uno S 0 in moto uniforme nella direzione x con velocità v relativamente all’altro S, è data dalla trasformazione di Lorentz: t t0 = p
vx
1 v2 x vt x0 = p 1 v2
In questo capitolo:
c=1
(25.1)
y0 = y z0 = z Le leggi della fisica devono essere tali che dopo una trasformazione di Lorentz la nuova forma delle leggi abbia lo stesso aspetto di quella vecchia. Questo è del tutto simile al principio secondo il quale le leggi della fisica non dipendono dall’orientazione del sistema di coordinate. Nel cap. 11 del vol. 1 abbiamo visto che il modo di descrivere matematicamente l’invarianza della fisica rispetto alle rotazioni è scrivere le equazioni in termini di vettori. Per esempio dati due vettori A = (Ax, Ay, Az ) B = (Bx, By, Bz ) abbiamo trovato che la combinazione A · B = Ax Bx + Ay By + Az Bz non cambia se si passa a un sistema di coordinate ruotato. Perciò si sa che se si ha un prodotto scalare A · B nei due membri di un’equazione, questa avrà esattamente la stessa forma in tutti i sistemi di coordinate ruotati. Abbiamo scoperto anche un operatore (vedi cap. 2) ! @ @ @ r= , , @ x @ y @z che, quando lo si applica a una funzione scalare, dà tre grandezze che si trasformano proprio come un vettore. Con questo operatore abbiamo definito il gradiente e, in combinazione con altri
25.1 • I quadrivettori
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vettori, la divergenza e il laplaciano. Infine abbiamo scoperto che, prendendo le somme di certi prodotti di coppie di componenti di due vettori, si possono ottenere tre nuove grandezze che si comportano come un nuovo vettore. Lo abbiamo chiamato prodotto vettoriale di due vettori. Utilizzando il prodotto vettoriale con l’operatore r abbiamo definito il rotore di un vettore. Siccome dovremo fare riferimento a quello che si è fatto in analisi vettoriale, nella TABELLA 25.1 abbiamo TABELLA 25.1 Grandezze e operatori importanti dell’analisi vettoriale riassunto tutte le più importanti operazioni vettoriali in tre dimensioni. usate in passato. L’essenziale è che deve essere posA = (Ax, Ay, Az ) Definizione di vettore sibile scrivere le equazioni della fisica in modo che entrambi i membri si trasformino nello stesso modo Prodotto scalare A·B per effetto delle rotazioni. Se uno dei membri è un Operatore vettoriale differenziale r vettore, l’altro membro deve essere pure un vettore e tutti e due i membri cambieranno insieme esattamente r Gradiente nello stesso modo, se ruotiamo il sistema di coordiDivergenza r· A nate. Similmente, se uno dei membri è uno scalare, l’altro membro deve pure essere uno scalare, così che Laplaciano r · r = r2 né l’uno né l’altro membro cambi quando si ruotano Prodotto vettoriale A⇥B le coordinate; e così via. Ora, nel caso della relatività ristretta, tempo e spaRotore r⇥ A zio sono inestricabilmente mescolati e perciò dovremo fare cose analoghe, ma in quattro dimensioni. Vogliamo che le equazioni restino le stesse non soltanto per le rotazioni, ma anche per qualunque riferimento inerziale. Questo vuol dire che le equazioni devono essere invarianti rispetto alla trasformazione di Lorentz contenuta nelle equazioni (25.1). Lo scopo di questo capitolo è di farvi vedere come questo può essere fatto. Prima di cominciare, però, vogliamo fare una cosa che renderà il nostro lavoro molto più facile (ed eviterà una certa confusione); si tratta di scegliere le nostre unità di spazio e tempo così che la velocità della luce c sia uguale a 1. Potete pensare che si sia scelta come unità di tempo il tempo che ci mette la luce a percorrere un metro (che è circa 3 · 10 9 s). Possiamo anche chiamare questa unità «metro». Adoperando questa unità tutte le nostre equazioni lasceranno vedere più chiaramente la simmetria spazio-temporale. Inoltre tutti i c spariranno dalle equazioni relativistiche. (Se questo vi dà noia potrete sempre reintrodurre il c in qualunque equazione, sostituendo ogni t con ct, oppure – in generale – collocando un c dovunque occorre per far tornare le dimensioni delle formule.) Con questo siamo pronti per cominciare. Il programma è di fare in quattro dimensioni tutte le cose che sono state fatte coi vettori in tre dimensioni. È in realtà un gioco semplicissimo; non abbiamo che da procedere per analogia. La sola vera complicazione è la notazione (abbiamo già esaurito il simbolismo vettoriale col caso a tre dimensioni) e una piccola distorsione dei segni. Per prima cosa, in analogia con i vettori in tre dimensioni, definiamo un quadrivettore come un gruppo di quattro grandezze at , a x , ay e az , che si trasformano come t, x, y e z quando si passa a un sistema di coordinate in moto. Ci sono parecchie notazioni diverse che vengono usate per un quadrivettore; qui scriveremo aµ , intendendo il gruppo dei quattro numeri (at , a x, ay, az ): in altre parole l’indice µ può prendere i quattro «valori» t, x, y e z. Sarà anche comodo, a volte, indicare le tre componenti spaziali con un trivettore, in questo modo: aµ = (at , a). Abbiamo già incontrato un quadrivettore, formato dall’energia e dall’impulso di una particella (cap. 17 del vol. 1). Nella nuova notazione scriveremo (25.2)
pµ = (E, p)
che vuol dire che il quadrivettore pµ è composto dall’energia E e dalle tre componenti del trivettore p di una particella. Sembra che il gioco sia realmente molto semplice: per ogni trivettore della fisica, tutto quello che c’è da fare è di trovare quale debba essere la restante componente e si ottiene un quadrivettore. Per vedere che non è proprio così, consideriamo il vettore velocità, con le componenti vx =
dx dt
vy =
dy dt
vz =
dz dt
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Capitolo 25 • L’elettrodinamica nella notazione relativistica
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Il problema è: qual è la componente temporale? L’istinto dovrebbe darci la giusta risposta. Siccome i quadrivettori sono del tipo t, x, y e z, si direbbe che la componente temporale sia vt =
dt =1 dt
Questo è sbagliato. La ragione è che t, presente in ciascun denominatore, non è un’invariante quando facciamo una trasformazione di Lorentz. I numeratori hanno il comportamento giusto per formare un quadrivettore, ma il dt nel denominatore rovina le cose; esso è asimmetrico e non è lo stesso in due sistemi diversi. Si verifica che le quattro componenti della «velocità» che abbiamo p ora scritto diventano le componenti di un quadrivettore se semplicemente le dividiamo per 1 v 2 . Si può vedere che questo è vero perché se si parte dal quadrivettore impulso m0 m0 v + pµ = (E, p) = * p ,p 2 1 v2 , 1 v
(25.3)
e lo si divide per la massa a riposo m0 , che è uno scalare invariante in quattro dimensioni, si ha pµ * 1 v + = p ,p m0 , 1 v 2 1 v2 -
(25.4)
che deve essere ancora un quadrivettore. (La divisione per uno scalare invariante non cambia le proprietà di trasformazione.) Possiamo perciò definire il «quadrivettore velocità» uµ con le equazioni 1 ut = p 1 v2 vx ux = p 1 v2 (25.5) vy uy = p 1 v2 vz uz = p 1 v2 La quadrivelocità è un’utile grandezza; si può per esempio scrivere (25.6)
pµ = m0 uµ
Questo è il caratteristico tipo di forma che deve avere un’equazione relativisticamente corretta: ciascun membro è un quadrivettore. (Il secondo membro è il prodotto di un invariante e di un quadrivettore, che è ancora un quadrivettore.)
25.2
Il prodotto scalare
È, se volete, un fatto della vita che nelle rotazioni delle coordinate la distanza di un punto dall’origine non cambia. Ciò significa, matematicamente, che r 2 = x 2 + y 2 + z 2 è un invariante. In altre parole, dopo una rotazione si ha r 02 = r 2 , ossia x 02 + y 02 + z 02 = x 2 + y 2 + z 2 Il problema ora è: c’è una quantità analoga che sia invariante nelle trasformazioni di Lorentz? C’è. Dall’equazione (25.1) si può vedere che si ha t 02
x 02 = t 2
x2
25.2 • Il prodotto scalare
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Questo è abbastanza bello, eccetto che dipende da una scelta particolare della direzione x. Ma si può aggiustare sottraendo y 2 e z 2 . In tal caso qualunque trasformazione di Lorentz più una rotazione lascerà la grandezza immutata. Perciò la grandezza che è analoga allo r 2 tridimensionale è, in quattro dimensioni, t 2 x2 y2 z2 Essa è invariante rispetto a ciò che viene chiamato «gruppo completo di Lorentz», che vuol dire rispetto a trasformazioni che comprendono traslazioni a velocità costante e rotazioni. Ora, siccome questa invarianza è una questione algebrica che dipende soltanto dalle regole di trasformazione, cioè le equazione (25.1) – più le rotazioni – essa resta vera per qualsiasi quadrivettore (per definizione essi si trasformano tutti a un modo). Perciò per un quadrivettore aµ avremo che at02 a x02 ay02 az02 = at2 a2x ay2 az2 Chiameremo questa grandezza quadrato della «lunghezza» del quadrivettore aµ . (C’è talvolta qualcuno che cambia il segno di tutti i termini e chiama lunghezza l’espressione a2x + ay2 + az2 at2 , perciò dovrete stare attenti.) Se abbiamo due vettori aµ e bµ le corrispondenti componenti si trasformeranno nello stesso modo, perciò la combinazione at bt
a x bx
ay by
az bz
è pure una grandezza (scalare) invariante. (Effettivamente, abbiamo già dimostrato questo nel cap. 17 del vol. 1.) È chiaro che questa espressione è affatto analoga al prodotto scalare dei vettori. La chiameremo infatti prodotto scalare di due quadrivettori. Sembrerebbe logico scriverlo nella forma aµ · bµ così che abbia anche l’aspetto del prodotto scalare. Purtroppo però non è così che si fa; lo si scrive abitualmente senza il punto. Perciò seguiremo la convenzione e scriveremo il prodotto scalare nella semplice forma aµ bµ . Quindi, per definizione, aµ bµ = at bt
a x bx
ay by
az bz
(25.7)
Tutte le volte che vedrete due indici identici insieme (occasionalmente dovremo usare v o qualche altra lettera al posto di µ) vuol dire che dovrete prendere i quattro prodotti e sommarli, ricordando il segno meno per i prodotti delle componenti spaziali. Con questa convenzione l’invarianza del prodotto scalare nelle trasformazioni di Lorentz può essere scritta nella forma aµ0 bµ0 = aµ bµ Siccome gli ultimi tre termini nella (25.7) non sono altro che il prodotto scalare in tre dimensioni, è spesso più comodo scrivere aµ bµ = at bt a · b È inoltre ovvio che la lunghezza quadridimensionale definita sopra può anche essere scritta aµ aµ : aµ aµ = at2
a2x
ay2
az2 = at2
a·a
(25.8)
Sarà anche comodo qualche volta scrivere aµ2 per questa grandezza: aµ2 ⌘ aµ aµ Daremo ora un’illustrazione dell’utilità del prodotto scalare dei quadrivettori. Degli antiprotoni (P) vengono prodotti nei grandi acceleratori secondo la reazione P+P!P+P+P+P Cioè, un protone di alta energia urta con un protone in quiete (per esempio in un bersaglio d’idrogeno esposto al fascio) e se il protone incidente ha abbastanza energia si può produrre una
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Capitolo 25 • L’elettrodinamica nella notazione relativistica
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coppia protone-antiprotone oltre ai due protoni originari.(1) Il problema è: quanta energia deve essere Prima Dopo data al protone incidente per rendere questa reazione energeticamente possibile? La maniera più comoda di ottenere la soluzione è Sistema del centro di di considerare come si presenta la reazione nel sistema massa del centro di massa (CM) (FIGURA 25.1). Indichiamo con a il protone incidente e con pµa il suo quadriimpulso. Similmente indichiamo con b il protone urtato e con pµb il suo quadriimpulso. Se il protone incidente ha Sistema del giusto appena l’energia sufficiente perché la reazione laboratorio avvenga, lo stato finale – cioè la situazione dopo la collisione – consisterà in un globuletto contenente tre protoni e un antiprotone, in quiete nel sistema del CM. Se l’energia incidente fosse leggermente superiore, le FIGURA 25.1 La reazione P+P! 3P+P considerata nel sistema del centro di particelle dello stato finale avrebbero una certa energia massa e in quello del laboratorio. Si suppone che il protone incidente abbia cinetica e si allontanerebbero le une dalle altre; se l’eenergia appena sufficiente per produrre la reazione. I protoni sono indicati con nergia incidente fosse leggermente minore non ce ne dei pallini, gli antiprotoni con dei cerchietti vuoti. sarebbe abbastanza per formare le quattro particelle. c Chiamando pµ il quadriimpulso totale dell’intero globuletto nello stato finale, la conservazione dell’energia e dell’impulso ci dice che si deve avere pa + pb = pc e Ea + Eb = Ec Combinando queste due equazioni si può scrivere pµa + pµb = pµc
(25.9)
Ciò che importa è che questa è un’equazione fra quadrivettori ed è perciò vera in qualunque riferimento inerziale. Possiamo adoperare questo fatto per semplificare i nostri calcoli. Cominciamo col ricavare le «lunghezze» di ciascun membro dell’equazione (25.9); anch’esse sono, naturalmente, uguali. Si ottiene ⇣ ⌘⇣ ⌘ pµa + pµb pµa + pµb = pµc pµc (25.10)
Siccome pµc pµc è invariante, lo si può valutare in qualsiasi sistema. Nel sistema del CM la componente temporale di pµc è l’energia a riposo dei quattro protoni, cioè 4M, mentre la parte spaziale p è zero; perciò è pµc = (4M, 0). Si è adoperato il fatto che la massa a riposo di un antiprotone uguaglia quella del protone e si è chiamata M questa massa comune. Perciò l’equazione (25.10) diventa pµa pµa + 2 pµa pµb + pµb pµb = 16 M 2
(25.11)
Ora, pµa pµa e pµb pµb sono molto facili, poiché la «lunghezza» del quadrivettore impulso di qualsiasi particella non è che la massa della particella al quadrato: pµ pµ = E 2 (1)
p2 = M 2
Vi potrete domandare: perché non considerare le reazioni
o anche
P+P!P+P+P
P+P!P+P che esigono evidentemente meno energia? La risposta è che un principio chiamato conservazione dei barioni ci dice che la grandezza «numero dei protoni meno numero di antiprotoni» non può cambiare. Questa grandezza è 2 nel primo membro della reazione; perciò se vogliamo un antiprotone nel secondo membro dobbiamo anche avere tre protoni (o altri barioni).
25.3 • Il gradiente quadridimensionale
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Questo si può mostrare mediante il calcolo diretto, oppure, più ingegnosamente, notando che per una particella a riposo è pµ = (M, 0), così che si ha pµ pµ = M 2 ; siccome però si tratta di un invariante, pµ pµ è uguale a M 2 in qualsiasi riferimento. Adoperando questi risultati nell’equazione (25.11) abbiamo 2 pµa pµb = 14 M 2 ossia
pµa pµb = 7M 2
Ora si può anche valutare pµa pµb = pµa 0 pµb
(25.12) 0 0
nel sistema del laboratorio. Il quadrivettore pµa 0 può esser scritto (E a 0, p a 0), mentre è pµb = (M, 0), 0 giacché questo quadrivettore descrive un protone in quiete. Perciò pµa 0 pµb deve anche essere eguale 0 a a M E e, siccome il prodotto scalare è un invariante, questo deve essere numericamente la stessa cosa che abbiamo trovato con l’equazione (25.12). Perciò abbiamo E a 0 = 7M che è il risultato che si cercava. L’energia totale del protone iniziale deve essere almeno 7M (circa 6,6 GeV, perché è M = 938 MeV); ossia, sottraendo la massa a riposo M, l’energia cinetica deve essere almeno 6M (circa 5,6 GeV). L’acceleratore chiamato Bevatrone, a Berkeley, fu progettato per dare circa 6,2 GeV di energia cinetica ai protoni che accelera, allo scopo di poter produrre antiprotoni. Siccome i prodotti scalari sono invarianti, essi sono sempre interessanti da calcolare. Cosa si può dire sulla «lunghezza» della quadrivelocità uµ uµ ? Sarà uµ uµ = ut2
u2 =
v2 =1 1 v2
1 1
v2
Perciò uµ è il quadrivettore unitario.
25.3
Il gradiente quadridimensionale
Il prossimo argomento che dobbiamo discutere è l’analogo quadridimensionale del gradiente. Ricordiamo (cap. 14 del vol. 1) che i tre operatori differenziali @/@ x, @/@ y e @/@z si trasformano come un trivettore e sono chiamati gradiente. Lo stesso schema dovrebbe funzionare in quattro dimensioni; cioè si potrebbe intuire che il gradiente quadridimensionale dovrebbe essere (@/@t, @/@ x, @/@ y, @/@z). Questo è sbagliato. Per capire l’errore, consideriamo una funzione scalare che dipende soltanto da x e da t. La variazione di quando si fa un piccolo cambiamento t di t, mantenendo x costante, è =
@ @t
t
x0 +
@ t0 @t 0
(25.13)
D’altra parte, per un osservatore in moto è =
@ @ x0
Si può esprimere x 0 e t 0 per mezzo di t usando la (25.1). Ricordando che x va tenuto costante, così che x = 0, scriveremo x0 = Perciò =
p
v 1
v2
t
t0 = p 1
@ * v @ t + @ t+ + 0 * p = p 0 @x , @t 0 1 v 2 - @t , 1 v 2 -
t v2
v
! @ t p 0 @x 1 v2
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Capitolo 25 • L’elettrodinamica nella notazione relativistica
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Confrontando questo risultato con l’equazione (25.13) troviamo che si ha ! @ 1 @ @ =p v 0 0 @t @x 1 v 2 @t
(25.14)
Un calcolo analogo dà
! @ 1 @ @ =p v 0 (25.15) 0 @x @t 1 v2 @ x Si può ora vedere che il gradiente è piuttosto strano. Le formule per x e t in termini di x 0 e t 0 ottenute risolvendo le (25.1) sono: t 0 + vx 0 t=p 1 v2
x 0 + vt 0 x=p 1 v2
Questo è il modo in cui si deve trasformare un quadrivettore. Ma le equazione (25.14) e (25.15) hanno una coppia di segni sbagliati! La soluzione è che invece dell’espressione scorretta (@/@t, r), si deve definire l’operatore gradiente quadridimensionale, che chiameremo rµ , ponendo ! ! @ @ @ @ @ rµ = , r = , , , (25.16) @t @t @x @y @z Con questa definizione, le difficoltà di segno incontrate sopra se ne vanno e rµ si comporta come deve fare un quadrivettore. (È piuttosto scomodo avere quei segni meno, ma l’universo è fatto così.) Naturalmente quello che si intende dicendo che rµ «si comporta come un quadrivettore» è semplicemente che il quadrigradiente di uno scalare è un quadrivettore. Se è un vero campo scalare invariante (rispetto alle trasformazioni di Lorentz), allora rµ è un campo quadrivettoriale. Va bene! Ora che abbiamo vettori, gradienti e prodotti scalari, la prossima cosa da cercare è l’analogo della divergenza dell’analisi vettoriale tridimensionale. Chiaramente, l’analogia suggerisce di formare l’espressione rµ bµ , in cui bµ è un campo quadrivettoriale le cui componenti sono funzioni dello spazio e del tempo. Definiamo la divergenza del quadrivettore bµ = (bt , b) come il prodotto scalare di rµ e bµ : ! ! ! @ @ @ @ @ rµ bµ = bt bx by bz = bt + r · b (25.17) @t @x @y @z @t dove r · b è l’ordinaria tridivergenza del trivettore b. Notate che si deve stare attenti ai segni. Alcuni fra i segni meno vengono dalla definizione del prodotto scalare, l’equazione (25.7); gli altri sono richiesti perché le componenti spaziali di rµ sono @/@ x ecc., come nell’equazione (25.16). La divergenza definita secondo la (25.17) è un invariante e dà lo stesso risultato in tutti i sistemi di coordinate che differiscono per una trasformazione di Lorentz. Esaminiamo un esempio fisico in cui appare la quadridivergenza. La possiamo adoperare per risolvere il problema dei campi intorno a un filo in moto. S’è già visto (paragrafo 13.7) che la densità di carica elettrica ⇢ e la densità di corrente j formano un quadrivettore jµ = (⇢, j). Se un filo non carico porta la corrente j x , in un riferimento che si muove rispetto a esso con la velocità v (nella direzione x), il filo avrà la carica e la densità di corrente seguenti, ottenute dalla trasformazione di Lorentz (25.1): ⇢0 = p
v jx 1
v2
j x0 = p
jx 1
v2
Questo non è che il risultato trovato nel capitolo 13. Possiamo adoperare queste sorgenti nelle equazioni di Maxwell, nel sistema in moto per trovare i campi. Anche la legge di conservazione della carica (paragrafo 13.2) prende una forma semplice nella notazione quadrivettoriale. Consideriamo la quadridivergenza di jµ : rµ j µ =
@⇢ +r· j @t
(25.18)
TABELLA
25.2
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25.3 • Il gradiente quadridimensionale
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Le grandezze importanti dell’analisi vettoriale in tre e quattro dimensioni.
Quattro dimensioni
Tre dimensioni Vettore
A = (Ax, Ay, Az )
aµ = (at , a x, ay, az ) = (at , a)
Prodotto scalare
A · B = Ax Bx + Ay By + Az Bz
aµ bµ = at bt
Operatore vettoriale
@ @ @ r= , , @ x @ y @z
Gradiente
@ @ @ r = , , @ x @ y @z
Divergenza
r· A=
@ Ax @ Ay @ Az + + @x @y @z
rµ a µ =
@ at @ a x @ a y @ a z @ at + + + = +r· a @t @x @y @z @t
Laplaciano e dalembertiano
r·r=
@2 @2 @2 + + = r2 @ x 2 @ y 2 @z 2
rµ rµ =
@2 @t 2
!
@ rµ = , @t !
@' rµ ' = , @t
a x bx @ , @x @' , @x
@2 @ x2
ay by @ , @y
! ! @ @ = , r @z @t
@' , @y
@2 @ y2
La legge di conservazione della carica dice che il flusso uscente per unità di volume deve essere uguale e opposto all’aumento per unità di tempo della densità di carica. In altre parole: r· j =
@⇢ @t
Portando questo nell’equazione (25.18) la legge di conservazione della carica prende la forma semplice rµ j µ = 0 (25.19) Siccome rµ jµ è uno scalare invariante, se è zero in un riferimento è zero in tutti gli altri. Abbiamo il risultato che se la carica si conserva in un sistema di coordinate, si conserva in tutti i sistemi di coordinate muoventisi con velocità uniforme. Come ultimo esempio vogliamo considerare il prodotto scalare dell’operatore gradiente rµ con sé stesso. In tre dimensioni tale prodotto dà il laplaciano r2 = r · r =
a·b
az bz = at bt
@2 @2 @2 + + @ x 2 @ y 2 @z 2
Cosa si ottiene in quattro dimensioni? È facile. Seguendo le regole per il prodotto scalare e il gradiente si ottiene ! ! ! ! ! ! @ @ @ @ @ @ @2 @ @ rµ rµ = = 2 r2 @t @t @x @x @y @y @z @z @t Questo operatore, che è l’analogo del laplaciano tridimensionale, è chiamato dalembertiano e ha una notazione speciale: @2 (25.20) ⇤2 = r µ r µ = 2 r 2 @t Per sua definizione, si tratta di un operatore scalare invariante; se opera su un quadrivettore, produce un nuovo campo quadrivettoriale. (Alcuni definiscono il dalembertiano col segno opposto di quello nell’equazione (25.20), perciò dovete stare attenti nel leggere la letteratura.)
! ! @' @' = , r' @z @t
@2 @2 = @z 2 @t 2
r 2 = ⇤2
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Capitolo 25 • L’elettrodinamica nella notazione relativistica
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Abbiamo ora trovato gli equivalenti quadrimensionali della maggior parte delle grandezze tridimensionali elencate nella TABELLA 25.1. (Ancora non abbiamo gli equivalenti del prodotto vettoriale e dell’operatore rotore; li avremo nel prossimo capitolo.) Vi potrà aiutare a ricordare come stanno le cose, se riuniamo insieme tutte le definizioni e i risultati importanti: tale sintesi è riportata nella TABELLA 25.2.
25.4
L’elettrodinamica nella notazione quadridimensionale
Si è già incontrato l’operatore dalembertiano, senza dargli questo nome, nel paragrafo 18.6; le equazioni differenziali che là sono state trovate per i potenziali possono essere scritte nella nuova notazione: ⇢ j ⇤2 = ⇤2 A = (25.21) ✏0 ✏0 Le quattro grandezze nei secondi membri delle due equazioni (25.21) sono ⇢, j x , jy e jz divise per ✏ 0 , che è una costante universale che sarà la stessa in tutti sistemi di coordinate se la stessa unità di carica viene usata in tutti i riferimenti. Perciò le quattro grandezze ⇢/✏ 0 , j x /✏ 0 , jy /✏ 0 e jz /✏ 0 si trasformano come un quadrivettore. Le possiamo scrivere come jµ /✏ 0 . Il dalembertiano non cambia quando si cambia il sistema di coordinate, perciò le grandezze , Ax , Ay e Az si devono pure trasformare come un quadrivettore, ciò che vuol dire che sono le componenti di un quadrivettore. In breve, Aµ = ( , A) è un quadrivettore. Quelli che chiamiamo potenziali scalare e vettore sono in realtà aspetti diversi dello stesso oggetto fisico. Essi sono indissolubilmente legati. E se si considerano insieme, l’invarianza relativistica dell’universo è ovvia. Chiameremo Aµ il quadripotenziale. Nella notazione quadrivettoriale le equazione (25.21) diventano semplicemente ⇤2 Aµ =
jµ ✏0
(25.22)
La fisica di questa equazione è proprio la stessa di quella delle equazioni di Maxwell. C’è però un certo piacere nel poterle riscrivere in una forma elegante. Una tale bella forma è anche significativa; essa fa vedere direttamente l’invarianza dell’elettrodinamica rispetto alla trasformazione di Lorentz. Ricorderete che le equazione (25.21) si potevano dedurre dalle equazioni di Maxwell soltanto imponendo la condizione di calibro @ +r· A=0 @t
(25.23)
che dice semplicemente che è rµ Aµ = 0; la condizione di calibro afferma dunque che la divergenza del quadrivettore Aµ è zero. Questa condizione è chiamata condizione di Lorentz. È molto comoda perché è una condizione invariante e perciò le equazioni di Maxwell conservano la forma dell’equazione (25.22) in tutti i riferimenti.
25.5
Il quadripotenziale di una carica in moto
Sebbene ciò sia implicito in quello che si è già detto, scriviamo esplicitamente le leggi di trasformazione che danno e A in un sistema in movimento in termini di e A in un sistema stazionario. Siccome Aµ = ( , A) è un quadrivettore, le equazioni devono essere proprio come le
equazioni (25.1), salvo che t è sostituito da e x è sostituito da A. Perciò si avrà v Ax 0 = p Ay0 = Ay 2 1 v (25.24) Ax v 0 0 Ax = p Az = Az 1 v2 Questo presuppone che il sistema di coordinate accentato si muova con la velocità v nella direzione delle x positive, rispetto al sistema non accentato. Considereremo un esempio dell’utilità dell’idea di quadripotenziale. Quali sono i potenziali vettore e scalare di una carica q che si muove con velocità v lungo l’asse x? Il problema è facile in un sistema di coordinate che si muove con la carica, perché in questo sistema la carica è immobile. Mettiamo che essa si trovi nell’origine del riferimento S 0, come mostra la FIGURA 25.2. Il potenziale scalare nel sistema in moto è dunque dato da 0
=
y y' S
S'
0
= p
r' z z'
x x'
25.2 Il riferimento S0 si muove con la velocità v (nella direzione x) rispetto a S. Una carica in quiete nell’origine di S0 si trova nel punto x = vt in S. I potenziali nel punto P si possono calcolare nell’uno o nell’altro riferimento. FIGURA
(25.25)
1
Ay = Ay0
v2
(25.26)
A0 + v 0 Ax = px 1 v2 Usando l’espressione di =
0
Az =
Az0
data dall’equazione (25.25) e A0 = 0 si ottiene
q 1 q = p p 4⇡✏ 0 r 0 1 v 2 4⇡✏ 0 1
1 v 2 x 02 + y 02 + z 02 p
Questo ci dà il potenziale scalare che si avrebbe in S, espresso però (sfortunatamente) mediante le coordinate del riferimento S 0. Si può esprimere tutto per mezzo di t, x, y e z sostituendo t 0, x 0, y 0 e z 0 mediante le (25.1). Si ottiene =
q 1 p s 4⇡✏ 0 1 v 2
1 !2
x vt p 1 v2
P
q
q 4⇡✏ 0 r 0
+ v A0x
v r
dove r 0 è la distanza da q al punto dove si calcola il campo, misurata nel sistema in moto. Il potenziale vettore A0 è naturalmente zero. È ora immediato trovare e A, cioè i potenziali come risulteranno nel riferimento stazionario. Le equazioni inverse delle (25.24) sono
(25.27) + y2 + z2
Seguendo lo stesso procedimento per le componenti di A si può far vedere che è A=v
(25.28)
Queste sono le stesse formule che sono state dedotte con un metodo diverso nel capitolo 21.
25.6
335
25.6 • L’invarianza delle equazioni dell’elettrodinamica
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L’invarianza delle equazioni dell’elettrodinamica
Si è trovato che i potenziali e A presi insieme formano un quadrivettore che abbiamo chiamato Aµ e che le equazioni d’onda – le equazioni complete che determinano Aµ in funzione jµ – si possono scrivere come mostra l’equazione (25.22). Questa equazione, insieme con quella della
336
Capitolo 25 • L’elettrodinamica nella notazione relativistica
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conservazione della carica, cioè l’equazione (25.19), ci dà la legge fondamentale del campo elettromagnetico: 1 ⇤2 Aµ = jµ rµ j µ = 0 (25.29) ✏0 Lì, in un minuscolo spazio della pagina, sono contenute tutte le equazioni di Maxwell, nella loro bellezza e semplicità. Si è imparato qualcosa con lo scrivere le equazioni in questo modo, oltre che esse sono semplici e belle? In primo luogo: c’è una differenza rispetto a prima, quando tutto si scriveva per esteso, secondo le varie componenti? Si può dedurre da queste equazioni qualcosa che non si potesse dedurre dalle equazioni d’onda per i potenziali scritte per mezzo delle cariche e delle correnti? La risposta è un chiaro no. L’unica cosa che abbiamo fatto è stata quella di cambiare i nomi delle cose, usare una nuova notazione. Abbiamo scritto un quadratino come simbolo per rappresentare delle derivazioni, ma esso continua a non significare nulla di più né di meno della derivata seconda rispetto a t, meno la derivata seconda rispetto a x, meno la derivata seconda rispetto a y, meno la derivata seconda rispetto a z. Similmente µ significa che abbiamo quattro equazioni, una per ognuno dei significati di µ, cioè t, x, y e z. Qual è dunque l’importanza del fatto che le equazioni possono essere scritte in questa semplice forma? Dal punto di vista di dedurre direttamente qualcosa, questo fatto non significa nulla. Forse, tuttavia, la semplicità delle equazioni vuol dire che la natura stessa ha una certa semplicità. Vorrei farvi vedere una cosa interessante che ho scoperto ultimamente: tutte le leggi della fisica possono essere contenute in un’unica equazione. Questa equazione è U=0
(25.30)
Che equazione semplice! Naturalmente è necessario sapere che cosa significa il simbolo U. U è una grandezza fisica che chiameremo «disuniversalità» della situazione. E ho una formula per essa. Ecco come si calcola la disuniversalità. Prendiamo tutte le leggi fisiche conosciute e scriviamole in una forma speciale. Per esempio, prendiamo la legge della meccanica F = ma e scriviamola nella forma F ma = 0. Poi chiamiamo (F ma) – che naturalmente dovrebbe essere zero – «scompenso» della meccanica. Quindi facciamo il quadrato di questo scompenso e chiamiamolo U1 : questo ci dà la «disuniversalità degli effetti meccanici». In altre parole, poniamo ma)2
U1 = (F
(25.31)
Ora scriviamo un’altra legge fisica, per esempio r · E = ⇢/✏ 0 , e poniamo U2 = r · E
⇢ ✏0
!2
che si potrebbe chiamare «disuniversalità gaussiana dell’elettricità». Continuiamo a scrivere U3 , U4 e così via: un termine per ogni legge che esiste. Infine chiamiamo disuniversalità totale U dell’universo la somma delle varie disuniversalità Ui , dovute a tutti i sottofenomeni che intervengono; cioè poniamo X U= Ui i
Allora la grande «legge della natura» è U=0
(25.32)
Questa «legge» significa naturalmente che la somma dei quadrati dei singoli scompensi è zero, ma il solo modo in cui una somma di tanti quadrati può essere zero è che ognuno di essi sia zero. Perciò la legge contenuta nell’equazione (25.32) con la sua «bella semplicità» è equivalente all’intera serie di equazioni che si erano scritte originariamente. È pertanto assolutamente ovvio che una notazione semplice che non fa che nascondere la complessità con un’adatta definizione dei simboli non è una vera semplicità: non è che un trucco. La bellezza che appare nell’equazione (25.32), per il semplice fatto che parecchie equazioni sono nascoste dentro di essa, non è nulla
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25.6 • L’invarianza delle equazioni dell’elettrodinamica
di più che un trucco. Quando si va a svolgere quelle equazioni ci si ritrova al punto dove si era prima. Però c’è di più nella semplicità delle leggi dell’elettromagnetismo scritte nella forma delle equazioni (25.29). Essa significa di più, come significa di più una teoria di analisi vettoriale. Il fatto che le equazioni elettromagnetiche possano essere scritte in una notazione molto speciale, che era stata progettata per la geometria quadridimensionale delle trasformazioni di Lorentz – ossia, in altre parole, come un’equazione vettoriale del quadrispazio – vuol dire che la teoria è invariante rispetto alle trasformazioni di Lorentz. È perché le equazioni di Maxwell sono invarianti rispetto a queste trasformazioni che esse si possono scrivere in una bella forma. Non è un caso che le equazioni dell’elettrodinamica possono essere scritte nella forma bella ed elegante delle equazioni (25.29). La teoria della relatività fu pensata perché si era trovato sperimentalmente che i fenomeni previsti dalle equazioni di Maxwell erano gli stessi in tutti i sistemi inerziali. E fu precisamente studiando le proprietà di trasformazione delle equazioni di Maxwell che Lorentz scoprì la sua trasformazione, come l’unica che lasciava invarianti quelle equazioni. C’è tuttavia un’altra ragione per scrivere le equazioni in questo modo. Si è scoperto – dopo che Einstein ebbe intuito che le cose potevano andare così – che tutte le leggi della fisica sono invarianti rispetto alla trasformazione di Lorentz. Questo è il principio di relatività. Perciò se si inventa una notazione che – quando una legge è messa in equazione – fa vedere immediatamente se è invariante o no, si può star sicuri che nel cercare di costruire nuove teorie si scriveranno solo equazioni che sono compatibili con il principio di relatività. Il fatto che in questa speciale notazione le equazioni di Maxwell sono semplici non è un miracolo, perché tale notazione fu inventata avendo in mente quelle equazioni. Ma la cosa fisica interessante è che ogni legge della fisica – la propagazione di onde mesoniche o il comportamento dei neutrini nel decadimento beta e così via – deve avere la stessa invarianza rispetto alla stessa trasformazione. Quindi, quando ci si muove a velocità uniforme in una nave spaziale, tutte le leggi della natura si trasformano insieme in tal modo che nessun nuovo fenomeno si presenta. È perché il principio di relatività è un fatto della natura che le equazioni dell’universo appaiono semplici nella notazione che utilizza i vettori quadridimensionali.
337
26
Trasformazioni di Lorentz dei campi
26.1 Ripasso: vol. 2, cap. 20, Soluzioni delle equazioni di Maxwell nello spazio libero
In questo capitolo:
c=1
Il quadripotenziale di una carica in moto
Si è visto nel capitolo precedente che il potenziale Aµ = ( , A) è un quadrivettore. La componente temporale è il potenziale scalare e le tre componenti spaziali sono quelle del potenziale vettore A. Si sono anche ricavati, utilizzando la trasformazione di Lorentz, i potenziali di una particella che si muove con velocità uniforme su una linea retta. (Si erano già trovati con un altro metodo nel cap. 21.) Per una carica puntiforme la cui posizione all’istante t è (vt, 0, 0) i potenziali nel punto (x, y, z) sono q 1 = p 2 1/2 4⇡✏ 0 1 v 2 (x vt) 2 + z2 + y 1 v2 Ax =
1 p 4⇡✏ 0 1
v2
(x
1
qv vt)2 v2
+
y2
+
z2
1/2
(26.1)
Ay = Az = 0 Le equazioni (26.1) danno i potenziali nel punto x, y, z all’istante t per una carica la cui posizione «presente» (col che intendiamo la posizione all’istante t) è x = vt. Si noti che le equazioni sono espresse per mezzo di (x vt), y e z, che sono le coordinate misurate a partire dalla posizione attuale P della carica in moto (FIGURA 26.1). L’influenza effettiva sappiamo che viaggia in realtà alla velocità c, perciò è il comportamento della carica nella posizione ritardata P 0 quello che veramente conta.(1) Il punto P 0 si trova in x = vt 0 (dove t 0 = t r 0/c è il tempo ritardato). Si è detto però che la carica si muoveva con velocità uniforme, in linea retta: perciò il comportamento in P 0 e la posizione attuale sono direttamente collegati. Di fatto, se si fa l’ipotesi aggiuntiva che i potenziali dipendano soltanto dalla posizione e dalla velocità all’istante ritardato si avrebbe nelle equazioni (26.1) una formula completa per i potenziali di una carica che si muove in modo qualunque. Le cose stanno in questo modo. Supponiamo di avere una carica che si muove in maniera arbitraria – mettiamo secondo la traiettoria in FIGURA 26.2 – e di voler trovare i potenziali nel punto (x, y, z). Dapprima troviamo la posizione ritardata P 0 e la velocità v 0 in quel punto. Immaginiamo poi che la carica continui a muoversi con questa velocità durante l’intervallo di ritardo t t 0, così che essa si verrebbe a trovare in una posizione immaginaria Pp – che possiamo chiamare la «posizione proiettata» – e ci arriverebbe con la velocità v 0. (Naturalmente non lo fa; la sua vera posizione all’istante t è in P.) Allora i potenziali in (x, y, z) sono proprio quelli che le equazioni (26.1) darebbero con la carica immaginaria che occupa la posizione Pp . Quello che vogliamo dire è che siccome i potenziali dipendono soltanto da ciò che la carica fa all’istante ritardato, (1) Gli apici usati qui per indicare posizioni e tempi ritardati non vanno confusi con quelli che nel capitolo precedente si riferivano al sistema mobile nella trasformazione di Lorentz.
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26.2 • I campi di una carica puntiforme a velocità costante
essi saranno gli stessi sia che la carica abbia continuato a muoversi a velocità costante, sia che abbia mutato la sua velocità dopo t 0, cioè dopo che i potenziali che si devono manifestare in (x, y, z) al tempo t erano già stati determinati. Vi renderete conto, naturalmente, che quando si possiede la formula per i potenziali di una carica che si muove in modo qualsiasi, si ha l’intera elettrodinamica: per sovrapposizione si possono ottenere i potenziali di qualunque distribuzione di carica. Perciò si possono riassumere tutti i fenomeni dell’elettrodinamica scrivendo le equazioni di Maxwell, oppure ricorrendo alla seguente serie di osservazioni. (Ricordatevene caso mai vi trovaste in un’isola deserta; da esse tutto può essere ricostruito. Naturalmente conoscete la trasformazione di Lorentz; quella non la dimenticherete mai, né in un’isola deserta né altrove.) 1 Aµ è un quadrivettore. 2 Il potenziale di Coulomb di una carica stazionaria è q/4⇡✏ 0 r. 3 I potenziali prodotti da una carica che si muove di moto qualunque dipendono soltanto dalla velocità e dalla posizione al tempo ritardato.
y
(x, y, z)
Posizione ritardata
r'
r y
P
P'
Posizione attuale x
x – vt
vt' vt
26.1 Come trovare i campi in (x, y, z) dovuti a una carica q che si muove lungo l’asse x con la velocità costante v. Il campo «ora» nel punto (x, y, z) si può esprimere per mezzo della posizione «attuale» P come anche per mezzo di P0 , la posizione «ritardata» (cioè all’istante t 0 = t r 0 /c). FIGURA
Con questi tre fatti abbiamo tutto. Per il fatto che Aµ è un quadrivettore, trasformiamo il potenziale di Coulomb – che conosciamo – e otteniamo i potenziali nel caso della velocità costante. Poi, in base all’ultima affermazione che i potenziali dipendono soltanto dalla velocità posseduta al tempo (x, y, z) ritardato, possiamo usare l’artificio della posizione proiettata per trovarli. Non è un modo particolarmente utile di procedere, ma è interessante far vedere che le leggi della fisica possono essere formulate in tante maniere diverse. r' rP Qualche volta si sente dire da persone poco precise che l’intera elettrodinamica può essere dedotta partendo unicamente dalla trasformazione di Posizione v'r' /c ritardata Pp Lorentz e dalla legge di Coulomb. Naturalmente ciò è completamente falso. v' P' Per prima cosa si deve supporre che c’è un potenziale scalare e un potenziaPosizione q «proiettata» le vettore che insieme costituiscono un quadrivettore: questo ci dice come P Posizione Traiettoria i potenziale si trasformano. Ma poi, perché avviene che gli effetti calcolati «attuale» v al tempo ritardato siano le uniche cose che contano? Meglio ancora: perché i potenziali dipendono dalla posizione e dalla velocità e non, per esempio, dall’accelerazione? I campi E e Bdipendono dall’accelerazione. Se si ten- FIGURA 26.2 Una carica si muove su una traiettoria tasse di applicare a essi lo stesso tipo di ragionamento, si potrebbe dire che arbitraria. I potenziali in (x, y, z) all’istante t sono P0 e dalla velocità v 0 essi dipendono soltanto dalla posizione e dalla velocità al tempo ritarda- determinati dalla posizione all’istante ritardato t r 0 /c. Si possono esprimere to. Ma allora i campi prodotti da una carica in moto accelerato sarebbero comodamente per mezzo delle coordinate della gli stessi dei campi della carica nella posizione proiettata, il che è falso. posizione «proiettata» P p . (L’effettiva posizione I campi dipendono non soltanto dalla posizione e dalla velocità lungo il all’istante t è P.) percorso, ma anche dall’accelerazione. Perciò ci sono diverse tacite ipotesi supplementari in questa grandiosa affermazione che tutto si può dedurre dalla trasformazione di Lorentz. (Ogni volta che s’incontra un’affermazione molto generale secondo la quale una straordinaria quantità di cose può venir fuori da un piccolissimo numero di ipotesi, si trova poi sempre che ciò è falso. Di solito, c’è un gran numero di tacite ipotesi che sono tutt’altro che ovvie se ci si pensa con sufficiente attenzione.) p
26.2
I campi di una carica puntiforme a velocità costante
Ora che abbiamo i potenziali di una carica puntiforme che si muove a velocità costante, dovremmo – per ragioni pratiche – ricavare i campi. Ci sono molti casi in cui si hanno particelle che si muovono uniformemente, per esempio raggi cosmici che attraversano una camera di Wilson, o anche elettroni che si muovono lentamente in un filo. Perciò vediamo almeno che aspetto hanno
340
Capitolo 26 • Trasformazioni di Lorentz dei campi
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effettivamente i campi per velocità qualsiasi, anche vicine a quella della luce, nella sola ipotesi che non ci sia accelerazione. È un problema interessante. I campi si ottengono dai potenziali con le solite regole @A @t
E= r B =r⇥ A Cominciamo con Ez :
@ @ Az @z @t nelle equazioni (26.1) si ottiene: Ez =
Ma Az è zero; perciò derivando Ez =
q p 4⇡✏ 0 1
v2
z
(x
vt)2
(x
vt)2
v2
1
+
y2
+
z2
+
z2
(26.2)
3/2
Similmente, per Ey si ha: Ey =
q p 4⇡✏ 0 1
v2
y +
v2
1
y2
La componente secondo x richiede un po’ più di lavoro. La derivata di non è zero. Troviamo dapprima x vt 1 v2 2 v 2 (x vt) + y2 + z2 1 v2
@ q = p @x 4⇡✏ 0 1
(26.3)
3/2
è più complicata e Ax
3/2
(26.4)
Poi derivando Ax rispetto a t troviamo q @ Ax = p @t 4⇡✏ 0 1
v2
v2
(x
x 1
vt v2
vt)2 + y2 + z2 1 v2
3/2
(26.5)
E finalmente, sommando: Ex =
q p 4⇡✏ 0 1
v2
(x
1
x vt)2 v2
vt + y2 + z2
3/2
(26.6)
Esamineremo la fisica di E fra un momento; prima troviamo B. Per la componente z si ha Bz =
@ Ay @x
@ Ax @y
Siccome Ay è zero, non ci resta da ricavare che una sola derivata. Si noti però che Ax non è che v , e @/@ y di v è semplicemente vEy . Perciò si ha Bz = vEy Similmente è By =
@ Ax @z
(26.7)
@ Az @ = +v @x @z
e quindi By = vEz
(26.8)
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26.2 • I campi di una carica puntiforme a velocità costante
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y
E
E Ey E (x, y, z) Ex
Posizione ritardata
v r
P
P'
y
Posizione attuale x
x – vt
vt' vt
(a)
26.3 Per una carica che si muove a velocità costante, il campo elettrico esce radialmente dalla posizione «attuale» della carica.
v=0
v = 0,9 c
26.4 Il campo elettrico generato da una carica che si muove a velocità costante v pari a 0,9 c (b), confrontato col campo elettrico generato da una carica a riposo (a).
FIGURA
FIGURA
Infine, Bx è zero perché Ay e Az sono entrambi nulli. Si può scrivere il campo magnetico nella forma semplice B=v⇥E (26.9) Ora vediamo che aspetto hanno i campi. Cercheremo di tracciare un’immagine del campo in varie posizioni intorno alla posizione presente della carica. È vero che l’influenza della carica proviene, in un certo senso, dalla sua posizione ritardata, ma, siccome il moto è esattamente specificato, la posizione ritardata è data univocamente in base alla sua posizione presente. Per velocità uniformi è più opportuno riferire i campi alla posizione presente, perché le componenti dei campi nel punto (x, y, z) dipendono soltanto da (x vt), y e z, che sono le componenti dello spostamento r dalla posizione presente al punto (x, y, z) (FIGURA 26.3). Consideriamo prima un punto con z = 0. Allora E ha soltanto componenti secondo x e y. Dalle equazioni (26.3) e (26.6) il rapporto di queste componenti risulta proprio uguale al rapporto fra le componenti x e y dello spostamento: ciò significa che E ha la stessa direzione di r, come mostra la FIGURA 26.3. Siccome Ez è pure proporzionale a z, è chiaro che questo risultato vale in tre dimensioni. In breve, il campo elettrico è radiale rispetto alla carica e le linee di campo emanano radialmente da essa, proprio come fanno per una carica stazionaria. Naturalmente il campo non è esattamente lo stesso come per una carica stazionaria, a causa di tutti i fattori extra in (1 v 2 ). Si può però far vedere qualcosa d’interessante: la differenza è proprio quella che si otterrebbe se si tracciasse il campo di Coulomb per mezzo di uno p speciale sistema di coordinate in cui la scala dell’asse x fosse strizzata secondo un fattore 1 v 2 . Così facendo le linee di campo si diraderanno davanti e dietro la carica e si stringeranno ai lati di essa, come si vede in FIGURA 26.4. Collegando nel modo usuale l’intensità di E alla densità delle linee di campo, si vedrà un campo più intenso ai lati e un campo più debole davanti e dietro la carica, che è proprio quello che dicono le equazioni. Se esaminiamo l’intensità p del campo ad angolo retto con la linea di moto, cioè per x vt = 0, la distanza dalla carica è y 2 + z 2 . Qui l’intensità totale del campo è q
che dà E=
(b)
Ey2 + Ez2
q p 4⇡✏ 0 1
2 v2 y
1 + z2
(26.10)
Il campo è proporzionale all’inverso del quadrato della distanza, proprio p come per il campo di Coulomb, eccetto che per un aumento dovuto al fattore costante extra 1/ 1 v 2 che è sempre maggiore di uno. Perciò lateralmente a una carica in moto il campo elettrico è più intenso di quello che si ottiene dalla legge di Coulomb. Infatti, il campo in direzione laterale è più grande del potenziale di Coulomb nel rapporto dell’energia della particella alla sua massa a riposo.
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Capitolo 26 • Trasformazioni di Lorentz dei campi
26.5 Il campo magnetico vicino a una carica in moto è v ⇥ E. (Confrontare con la FIGURA 26.4.)
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FIGURA
q1
q2
v1
v2 (a)
v
26.6
Le forze fra due cariche in moto non sono sempre uguali e opposte. Sembra che l’«azione» non uguagli la «reazione». FIGURA
B
q
F1
q1v1!B1 v1 q1E1
(b)
q2E2 = F2
B1 v2
Davanti alla carica (e dietro) y e z sono zero e quindi E = Ex =
q (1 v 2 ) 4⇡✏ 0 (x vt)2
(26.11)
Il campo varia anche qui come l’inverso del quadrato della distanza dalla carica, ma ora è ridotto secondo il fattore (1 v 2 ), in accordo col quadro datoci dalle linee di campo. Se v/c è piccolo, v 2 /c2 è ancora più piccolo e l’effetto dei termini in (1 v 2 ) è molto piccolo: si ritorna alla legge di Coulomb. Ma se una particella si muove con una velocità molto vicina a quella della luce, il campo nella direzione in avanti viene ridotto enormemente, mentre quello in direzione laterale è enormemente aumentato. Questi risultati per il campo elettrico di una particella si possono esprimere in questo modo: supponiamo di disegnare su un pezzo di carta le linee di campo di una carica in quiete e poi di mettere in moto il disegno con la velocità v. Allora il disegno risulterebbe compresso per effetto della contrazione di Lorentz; cioè i granuli di grafite sulla carta si vedrebbero in punti diversi. Il lato miracoloso della cosa è che il disegno che si vedrebbe mentre la pagina ci passa davanti rappresenta ancora le linee di campo della carica puntiforme: la contrazione le avvicina l’una all’altra ai lati e le dirada davanti e dietro, proprio nel modo giusto per dare la corretta densità di linee. Abbiamo in precedenza sottolineato che le linee di campo non sono reali, ma sono soltanto un modo di rappresentare il campo. Qui però sembrano quasi essere reali. In questo caso particolare, se si fa lo sbaglio di pensare che le linee di campo esistono in qualche modo realmente nello spazio e si applica loro la trasformazione di Lorentz, si ottiene il campo giusto. Questo però non rende le linee di campo affatto più reali. Tutto quello che occorre per ricordarsi che non sono reali è pensare al campo elettrico prodotto da una carica associata a un magnete; quando il magnete si muove, si producono nuovi campi elettrici che distruggono il bel disegno delle linee di campo. Perciò l’idea elegante del disegno che si contrae non funziona in generale. È però un modo conveniente di ricordare quale sia l’aspetto del campo di una carica in moto veloce. Il campo magnetico è v ⇥ E, dall’equazione (26.9). Prendendo il prodotto vettoriale della velocità con un campo radiale si ottiene un campo B che circola intorno alla linea di moto, come mostra la FIGURA 26.5. Se si rimettono i c al loro posto, si vede che è lo stesso risultato che si aveva per cariche a piccola velocità. Un buon metodo per vedere dove devono andare i c è di riportarsi alla legge di forza F = q (E + v ⇥ B) Si vede che una velocità moltiplicata per un campo magnetico ha le stesse dimensioni di un campo elettrico; perciò il secondo membro dell’equazione (26.9) deve avere un fattore 1/c2 : B=
v⇥E c2
(26.12)
Per una carica che si muove lentamente (v ⌧ c), si può prendere per E il campo di Coulomb; risulta allora q v⇥r B= (26.13) 2 4⇡✏ 0 c r 3
26.3 • Trasformazione relativistica dei campi
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Questa formula corrisponde esattamente alle equazioni per il campo magnetico di una corrente che sono state trovate al paragrafo 14.7. Incidentalmente, vorremmo indicarvi una cosa sulla quale sarà interessante meditare. (Torneremo più avanti a discuterla di nuovo.) Immaginate due elettroni le cui velocità formano un angolo retto così che uno taglierà il percorso dell’altro, ma davanti a esso, in modo che non si urtino. A un certo istante le loro posizioni relative saranno come in FIGURA 26.6a. Esaminiamo la forza su q1 dovuta a q2 e viceversa. Su q2 c’è soltanto la forza elettrica di q1 , perché q1 non produce campo magnetico lungo la sua linea di moto. Su q1 però c’è, analogamente, una forza elettrica ma in più c’è una forza magnetica, perché q1 si sta muovendo nel campo di B prodotto da q2 . Le forze sono come è disegnato in FIGURA 26.6b. Le forze elettriche su q1 e q2 sono uguali e opposte; però c’è una forza laterale (magnetica) su q1 , ma non c’è una forza laterale su q2 . L’azione non uguaglia la reazione? Lasciamo a voi di lambiccarvi su questo.
26.3
Trasformazione relativistica dei campi
Nel paragrafo precedente abbiamo calcolato i campi elettrici e magnetici a partire dai potenziali trasformati. I campi naturalmente sono importanti, malgrado gli argomenti addotti prima riguardo al significato fisico e alla realtà dei potenziali. Anche i campi sono reali. Sarebbe comodo per molti scopi avere un modo di calcolare i campi in un sistema mobile quando già si conoscono in un sistema «in quiete». Le leggi di trasformazione per e A le abbiamo, perché Aµ è un quadrivettore. Ora si desidererebbe conoscere le leggi di trasformazione di E e B. Dati E e B in un riferimento, come si presentano in un altro riferimento in moto rispetto al primo? È una trasformazione che è comodo avere. Si potrebbe sempre tornare ai campi passando per i potenziali, ma è comodo talvolta essere in grado di trasformare i campi direttamente. Ora vedremo come questo avviene. Come si possono trovare le leggi di trasformazione dei campi? Conosciamo le leggi di trasformazione di e A e sappiamo come i campi si esprimono per mezzo di e A: dovrebbe essere facile trovare la trasformazione di B ed E. (Potreste supporre che per ogni vettore ci dovesse essere un qualcosa che lo fa diventare un quadrivettore, così che non dovrebbe mancare qualcosa da usare come quarta componente per E; e analogamente per B. Ma non è così. È una cosa del tutto diversa da quello che vi aspettereste.) Per cominciare prendiamo proprio il campo magnetico B, che è naturalmente r ⇥ A. Sappiamo che il potenziale vettore, con le sue componenti secondo x, y e z è soltanto un pezzo di una certa cosa: c’è anche una componente temporale. Sappiamo inoltre che per derivate come r, oltre alle parti relative a x, y e z, c’è anche una derivata rispetto a t. Proviamo perciò a immaginare cosa succede se sostituiamo «y» con «t», o «z» con «t» o qualcosa di simile. Dapprima osserviamo la forma dei termini in r ⇥ A quando si scrivono le componenti: Bx =
@ Az @y
@ Ay @z
By =
@ Ax @z
@ Az @x
Bz =
@ Ay @x
@ Ax @y
(26.14)
La componente x è uguale a una coppia di termini che fanno intervenire solo le componenti secondo y e z. Mettiamo di chiamare questa combinazione di derivate e di componenti un «oggetto zy» e di dargli una denominazione sintetica: Fzy . Intendiamo semplicemente dire che si ha @ Az @ Ay (26.15) Fzy ⌘ @y @z
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Capitolo 26 • Trasformazioni di Lorentz dei campi
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Analogamente, By è uguale allo stesso tipo di «oggetto», ma questa volta si tratta di un «oggetto xz». E Bz naturalmente è il corrispondente «oggetto yx». Abbiamo Bx = Fzy (26.16)
By = Fxz Bz = Fyx
Che succede ora se tentiamo semplicemente di inventare anche qualche oggetto di tipo «t» come Fxt e Ftz (giacché la natura dovrebbe essere bellamente simmetrica in x, y, z e t)? Per esempio, cos’è Ftz ? È naturalmente @ At @ Az @z @t Ricordiamoci però che è At = , così che questo è anche @ @z
@ Az @t
Questo lo avete già visto: è la componente z di E. Bene, ma c’è un segno sbagliato. Abbiamo però dimenticato che nel gradiente quadridimensionale la derivata rispetto a t entra col segno opposto a quelle rispetto a x, y e z. Perciò, in realtà, avremmo dovuto prendere come generalizzazione più coerente per Ftz l’espressione @ At @ Az Ftz = + (26.17) @z @t Allora diventa esattamente uguale a Ez . Provando anche Ft x e Fty si trova che le tre possibilità danno Ft x = Ex (26.18)
Fty = Ey Ftz = Ez
Che succede se entrambi gli indici sono t? Oppure – mettiamo – se entrambi sono x? Si ottengono cose del tipo Ftt =
@ At @t
Fxx =
@ Ax @x
e
@ At @t @ Ax @x
che non danno altro che zero. Abbiamo dunque sei di questi oggetti F. Ce ne sono altri sei che si ottengono invertendo gli indici, ma essi non danno veramente nulla di nuovo, giacché si ha Fxy = Fyx e così via. Perciò di sedici possibili combinazioni dei quattro indici presi a coppie, otteniamo soltanto sei oggetti fisici diversi ed essi sono le componenti di B ed E. Per rappresentare il termine generale di F useremo gli indici generali µ e (nu) che possono significare 0, l, 2 o 3, intendendo nella solita notazione quadrivettoriale t, x, y e z. Perciò tutto sarà coerente con la notazione quadrivettoriale se si definisce Fµ ponendo Fµ = rµ A ricordando che è
@ rµ = , @t
@ , @x
(26.19)
r Aµ @ , @y
e che Aµ = ( , Ax, Ay, Az )
@ @z
!
Quello che si è trovato è che ci sono sei grandezze in natura fra loro collegate, cioè che sono aspetti diversi della stessa cosa. I campi elettrico e magnetico che abbiamo considerato come vettori distinti nel mondo delle piccole velocità (dove non ci si preoccupa della velocità della luce) non sono vettori nello spazio quadridimensionale. Essi sono parte di un nuovo «oggetto». Il nostro «campo» fisico è in realtà l’oggetto a sei componenti Fµ . Questo è il modo nel quale lo dobbiamo considerare secondo la relatività. Riassumiamo i risultati ottenuti per Fµ nella TABELLA 26.1. Vedete che quello che qui si è fatto è di generalizzare il prodotto vettoriale. Abbiamo cominciato con l’operazione rotore e il fatto che le proprietà di trasformazione del rotore sono le stesse di quelle di due vettori: il vettore tridimensionale ordinario A e l’operatore gradiente che sappiamo comportarsi anch’esso come un vettore. Esaminiamo un attimo un prodotto vettoriale ordinario in tre dimensioni, per esempio il momento angolare di una particella. Quando un oggetto si muove in un piano, la grandezza xvy yvx è importante. Per il moto in tre dimensioni ci sono tre analoghe grandezze importanti, che chiamiamo momento angolare: L xy = m(xvy
yvx )
L yz = m(yvz
zvy )
L zx = m(zvx
xvz )
Dopo (benché possiate averlo dimenticato) si è scoperto, nel cap. 20 del vol. 1, che queste tre grandezze si potevano identificare con le componenti di un vettore. Per poter far questo si dovette inventare una regola artificiosa fondata su una convenzione di mano destra. Fu pura fortuna. Fortuna, perché L i j (con i e j uguali a x, y o z) risultò un oggetto antisimmetrico, cioè tale che e
L i j = L ji
L ii = 0
Delle nove grandezze possibili, ci sono soltanto tre numeri che sono indipendenti; e succede proprio che quando si cambia sistema di coordinate questi tre oggetti si trasformano esattamente nello stesso modo delle componenti di un vettore. La stessa cosa ci permette di rappresentare un elemento di superficie come un vettore. Un elemento di superficie ha due parti – diciamo dx e dy – che possiamo rappresentare col vettore da normale alla superficie. Però non possiamo far questo in quattro dimensioni. Qual è la «normale» a dx dy? È diretta come z o come t? In breve, in tre dimensioni è un caso fortunato che dopo aver preso una combinazione di due vettori come L i j la si possa rappresentare anche per mezzo di un altro vettore perché ci sono per l’appunto tre termini che si trasformano per caso come le componenti di un vettore. In quattro dimensioni però questo è evidentemente impossibile, perché ci sono sei termini indipendenti e non si può rappresentare sei cose per mezzo di quattro. Anche in tre dimensioni è possibile avere delle combinazioni di vettori che non si possono rappresentare con dei vettori. Mettiamo di prendere due vettori qualunque, a = (a x, ay, az ) e b = (bx, by, bz ) e costruire le varie possibili combinazioni di componenti, come a x bx , a x by ecc. Ci sono nove possibili grandezze: a x bx
a x by
a x bz
ay bx
ay by
ay bz
az bx
az by
az bz
che potremmo chiamare Ti j . Se ora si passa a un sistema di coordinate ruotato (per esempio ruotato intorno all’asse z) le componenti di a e b sono variate. Nel nuovo sistema a x , per esempio, viene sostituita da a x0 = a x cos ✓ + ay sen ✓ e by viene sostituita da
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26.3 • Trasformazione relativistica dei campi
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by0 = by cos ✓
bx sen ✓
26.1 Le componenti di Fµ . TABELLA
Fµ = F Fµµ = 0 Fxy = Bz Fyz = Bx Fzx = By Fxt = Ex Fyt = Ey Fzt = Ez
µ
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Capitolo 26 • Trasformazioni di Lorentz dei campi
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E analogamente per le altre componenti. Le nove componenti della grandezza prodotto Ti j che abbiamo inventato sono naturalmente tutte cambiate anche loro. Per esempio Txy = a x by si cambia in 0 Txy = a x by (cos2 ✓)
a x bx (cos ✓ sen ✓) + ay by (sen ✓ cos ✓)
ay bx (sen2 ✓)
ossia 0 Txy = Txy cos2 ✓
Txx cos ✓ sen ✓ + Tyy sen ✓ cos ✓
Tyx sen2 ✓
Ciascuna componente di Ti0j è una combinazione lineare delle componenti di Ti j . Scopriamo così che non soltanto è possibile avere un «prodotto vettoriale» come a ⇥ b, che ha tre componenti che si trasformano come un vettore, ma si può anche, artificialmente, costruire un altro tipo di «prodotto» Ti j di due vettori, con nove componenti che si trasformano per effetto di una rotazione secondo un complicato gruppo di regole che si potrebbero ricavare. Un simile oggetto, che richiede due indici per descriverlo invece di uno, si chiama tensore. È un tensore del «secondo rango», perché si potrebbe ripetere il gioco con tre vettori e ottenere un tensore del terzo rango, o con quattro per avere un tensore del quarto rango e così via. Un tensore del primo rango è un vettore. Il punto importante di tutto questo è che la grandezza elettromagnetica Fµ è anch’essa un tensore del secondo rango, perché ha due indici. È però un tensore in quattro dimensioni. Si trasforma in un modo speciale che ricaveremo fra un momento; è il modo tipico di trasformarsi di un prodotto di vettori. Nel caso di Fµ succede che se si scambiano gli indici, Fµ cambia segno. Questo è un caso speciale: si tratta di un tensore antisimmetrico. Perciò diciamo: i campi elettrico e magnetico sono entrambi parte di un tensore antisimmetrico del secondo rango in quattro dimensioni. Avete percorso una lunga strada. Ricordate quando, un tempo lontano, si definiva che cosa vuol dire una velocità? Ora stiamo parlando di «un tensore antisimmetrico del secondo rango in quattro dimensioni». Dobbiamo dunque trovare la legge di trasformazione di Fµ . Farlo non è affatto difficile; è semplicemente laborioso: l’impegno del cervello è nullo, ma non il lavoro. Ciò che vogliamo è la trasformazione di Lorentz di rµ A r Aµ . Siccome rµ non è che un caso speciale di vettore, ci riferiremo alla generica combinazione vettoriale antisimmetrica che possiamo chiamare G µ : G µ = aµ b
a bµ
(26.20)
(Nel nostro caso aµ sarà sostituito nei risultati da rµ e bµ sarà sostituito dal potenziale Aµ .) Le componenti di aµ e bµ si trasformano per mezzo delle formule di Lorentz che sono
v2
bt vbx bt0 = p 1 v2
a x vat a x0 = p 1 v2
bx vbt b0x = p 1 v2
ay0 = ay
by0 = by
az0 = az
bz0 = bz
at at0 = p
va x 1
(26.21)
Ora proviamo a trasformare le componenti di G µ . Cominciamo con Gt x : Gt0 x = at0 b0x
at va x + * bx vbt + a x0 bt0 = * p p 2 2 , 1 v -, 1 v -
* apx vat + * bpt vbx + = at bx 2 2 , 1 v -, 1 v -
Ma questo non è che Gt x ; perciò abbiamo il semplice risultato Gt0 x = Gt x
a x bt
26.3 • Trasformazione relativistica dei campi
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Facciamo ancora una componente: at 0 Gty = p
va x 1
v2
by
bt ay p
vbx v2
1
=
(at by
ay bt ) v (a x by p 1 v2
ay bx )
Otteniamo dunque 0 Gty =
Gty p
vG xy v2
1
E nello stesso modo, naturalmente, si trova 0 Gtz =
Gtz vG xz p 1 v2
È chiaro come andranno le altre componenti. Facciamo una tavola per tutti e sei i termini; soltanto che ora si può scriverli addirittura per Fµ : Ft0x = Ft x
Fxy vFty 0 Fxy = p 1 v2
Fty vFxy 0 Fty = p 1 v2
0 Fyz = Fyz
Ftz Ftz0 = p
Fzx vFzt 0 Fzx = p 1 v2
vFxz 1
v2
(26.22)
Naturalmente abbiamo ancora Fµ0 = F 0 µ
e
0 Fµµ =0
Abbiamo dunque la trasformazione per i campi elettrici e magnetici. Tutto quello che resta da fare è cercare nella TABELLA 26.1 che cosa significano i simboli generali Fµ in termini di E e B. Si tratta di una pura sostituzione. Nella TABELLA 26.2 riscriviamo la trasformazione delle componenti dei campi in modo che si possa vedere come si presenta espressa coi simboli ordinari. Le equazioni della TABELLA 26.2 ci dicono come mutano E e B quando si passa da un riferimento inerziale a un altro. Se conosciamo E e B in un sistema possiamo trovare che cosa sono in un riferimento che si muove rispetto al primo con la velocità v. Possiamo scrivere queste equazioni in una forma che è più facile da ricordare notando che, siccome v è nella direzione x, tutti i termini contenenti v sono delle componenti dei prodotti vettoriali v ⇥ E e v ⇥ B. Perciò si possono scrivere le trasformazioni come indica la TABELLA 26.3. È ora più facile ricordare dove vanno le varie componenti. Effettivamente le trasformazioni possono essere scritte anche più semplicemente se definiamo le componenti del campo lungo x come componenti «parallele» E k e B k (in quanto sono parallele alla velocità relativa di S e S 0 ); mentre definiamo come componenti «perpendicolari» E? e B? i componenti trasversali totali, cioè le somme vettoriali delle componenti y e z. Si ottengono allora le equazioni della TABELLA 26.4. (In esse abbiamo anche rimesso i c al loro posto, per maggior comodità quando più tardi si vorrà farvi riferimento.) Le trasformazioni dei campi ci danno un altro modo di risolvere alcuni problemi che abbiamo già risolto prima, per esempio quello di trovare i campi di una carica puntiforme in moto. Prima abbiamo ricavato questi campi derivando i potenziali. Ma ora lo possiamo fare trasformando il campo di Coulomb. Se abbiamo una carica puntiforme in quiete nel riferimento S, in questo si ha solo il semplice campo E radiale. Nel riferimento S 0 vedremo una carica puntiforme che si muove con la velocità u se S 0 si muove rispetto a S con la velocità v = u. Lasciamo a voi di mostrare che le trasformazioni delle TABELLE 26.3 e 26.4 danno gli stessi campi elettrici e magnetici che sono stati ottenuti nel paragrafo 26.2. La trasformazione della TABELLA 26.2 ci dà un’interessante e semplice risposta riguardo a quello che si vede se ci si muove rispetto a un qualunque sistema di cariche. Per esempio, supponiamo di voler conoscere i campi nel nostro riferimento S 0 se ci si muove fra le lastre di un condensatore,
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Capitolo 26 • Trasformazioni di Lorentz dei campi
26.2 La trasformazione di Lorentz dei campi elettrico e magnetico. (Nota: c = 1.) TABELLA
Ex0 = Ex
Bx0 = Bx
Ey vBz Ey0 = p 1 v2
By + vEz By0 = p 1 v2
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come mostra la FIGURA 26.7. (È naturalmente lo stesso se si dice che un condensatore carico è in moto rispetto a noi.) Cosa vediamo? La trasformazione è facile in questo caso perché il campo B è zero nel sistema originario. Supponiamo dapprima che il nostro moto sia perpendicolare a E; allora vedremo un E0 = p
E 1
v 2 /c2
che è ancora completamente trasversale. In più vedremo un campo magnetico v ⇥ E0 B0 = c2 p (Il divisore 1 v 2 /c2 non appare in questa formula per B 0 TABELLA 26.3 Una forma alternativa per le trasformazioni perché l’abbiamo espresso per mezzo di E 0 invece di E; ma è dei campi. (Nota: c = 1.) la stessa cosa.) Perciò quando ci si muove perpendicolarmente a un campo elettrico statico, si vede un campo E ridotto, insieme Ex0 = Ex Bx0 = Bx a un campo B trasverso. Se il moto non è perpendicolare a E, spezziamo E in E k ed E? . La parte parallela resta invariata, E k0 = E k , e la parte perpendicolare fa come ora si è detto. (E + v ⇥ B)y (B v ⇥ E)y 0 0 Ey = p By = p Facciamo il caso opposto e pensiamo di muoverci attraver1 v2 1 v2 so un puro campo magnetico statico. Questa volta si vedrà un 0 campo elettrico E 0 uguale p a v ⇥ B , mentre il campo magnetico (E + v ⇥ B) (B v ⇥ E) z z cambia per un fattore 1/ 1 v 2 /c2 (pensando che sia trasverso). Ez0 = p Bz0 = p 1 v2 1 v2 Fintanto che v è molto minore di c, si può trascurare il cambiamento del campo magnetico e l’effetto principale è che appare un campo elettrico. Come esempio di questo effetto, consideriamo TABELLA 26.4 Ancora un’altra forma per le trasformazioni il problema, una volta famoso, di determinare la velocità di un di Lorentz di E e B. aereo. Ormai non è più famoso perché oggi si può usare il radar per determinare la velocità di volo dalle riflessioni sul terreno; 0 0 per molti anni, però, fu molto difficile determinare la velocità di Ek = Ek Bk = Bk un aereo col tempo cattivo. Non si poteva vedere il terreno, né ✓ v ⇥E◆ conoscere la verticale e così via. Tuttavia era importante sapere B 2 (E + v ⇥ B) con che rapidità ci si muoveva rispetto alla terra: come si può far ? c ? E?0 = p B?0 = p questo senza vedere la terra? Molti che conoscevano le formule 1 v 2 /c2 1 v 2 /c2 di trasformazione ebbero l’idea di adoperare il fatto che l’aereo si muove nel campo magnetico terrestre. Supponiamo che un aereo si muova in un campo magnetico più o meno noto. Prendiamo il caso semplice in cui il campo magnetico è verticale: se si vola attraverso di esso con una velocità orizzontale v, allora, secondo la nostra formula, si deve vedere un campo elettrico che è v ⇥ B, cioè perpendicolare alla linea di moto. Se si tende un filo isolato attraverso l’aereo, questo campo elettrico indurrà delle cariche ai capi del filo. Non c’è nulla di nuovo in questo: dal punto di vista di un osservatore a terra, stiamo spostando un filo attraverso a un campo e la forza v ⇥ B costringe delle cariche a spostarsi verso i capi del filo. Le equazioni di trasformazione non fanno che dire la stessa cosa in un modo diverso. (Il fatto che si possa dire una cosa in più d’un modo non significa che un modo sia migliore di un altro. Stiamo accumulando tanti metodi e mezzi diversi; di solito si può ottenere lo stesso risultato in 65 modi differenti!) Perciò per misurare v tutto quello che si deve fare è misurare il voltaggio fra i capi del filo. Non si può farlo con un voltmetro perché gli stessi campi agiranno sui fili del voltmetro, ma ci sono dei modi di misurare tali campi. Si parlò di alcuni di essi quando si discusse l’elettricità atmosferica nel capitolo 9. Perciò dovrebbe essere possibile misurare la velocità dell’aereo. Questo importante problema, però, non fu mai risolto in questo modo. La ragione è che il campo elettrico che si produce è dell’ordine dei millivolt per metro. È possibile misurare tali campi, ma il guaio è che essi disgraziatamente non sono diversi da qualsiasi altro campo elettrico. Il campo prodotto dal moto attraverso il campo magnetico non si può distinguere dal Ez + vBy Ez0 = p 1 v2
Bz vEy Bz0 = p 1 v2
campo elettrico che era già presente nell’aria per un’altra causa, dovuta, mettiamo, a cariche elettrostatiche nell’aria o nelle nuvole. Si disse nel capitolo 9 che ci sono campi elettrici alla superficie terrestre con intensità tipiche di circa 100 V/m. Essi però sono affatto irregolari. Perciò mentre l’aereo vola attraverso l’aria, esso vede delle fluttuazioni del campo elettrico atmosferico che sono enormi in confronto al minuscolo campo prodotto dal termine v ⇥ B e il risultato è che per ragioni pratiche è impossibile misurare la velocità di un aereo per mezzo del suo moto attraverso il campo magnetico terrestre.
26.4
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26.4 • Le equazioni del moto in notazione relativistica
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+
+
+
+
–
+
+
+
–
–
–
v
E –
+
–
S' –
–
26.7 Il sistema di coordinate S0, in moto attraverso un campo elettrico statico. FIGURA
Le equazioni del moto in notazione relativistica
Non serve molto trovare i campi elettrici e magnetici dalle equazioni di Maxwell se non si conosce che cosa fanno i campi, una volta che ce li abbiamo. Vi ricorderete che i campi sono necessari per trovare le forze sulle cariche e che queste forze determinano il moto della carica. Perciò, naturalmente, parte della teoria dell’elettrodinamica riguarda la relazione fra il moto delle cariche e le forze. Per una carica singola nei campi E e B la forza è F = q (E + v ⇥ B)
(26.23)
Questa forza è uguale alla massa moltiplicata per l’accelerazione, alle basse velocità, ma la legge corretta per velocità qualsiasi è che la forza è uguale a d p/dt. Scrivendo p=p 1
m0 v v 2 /c2
si trova che l’equazione del moto relativisticamente corretta è d * m0 v + = F = q (E + v ⇥ B) p dt , 1 v 2 /c2 -
(26.24)
Desideriamo ora discutere questa equazione dal punto di vista della relatività. Avendo posto le equazioni di Maxwell in forma relativistica, è interessante vedere quale aspetto prendono le equazioni del moto in forma relativistica. Vediamo se possiamo riscrivere l’equazione precedente in notazione quadrivettoriale. Sappiamo che l’impulso fa parte di un quadrivettore pµ la cui componente temporale è l’energia m0 c 2 p 1 v 2 /c2
Perciò si potrebbe pensare di sostituire il primo membro dell’equazione (26.24) con dpµ /dt. Poi ci occorre soltanto trovare una quarta componente da associare a F. Questa quarta componente deve uguagliare la variazione d’energia per unità di tempo, cioè il lavoro fatto per unità di tempo, che è F · v. Si vorrebbe dunque scrivere il secondo membro dell’equazione (26.24) come un quadrivettore del genere di (F · v, Fx, Fy, Fz ). Questo però non costituisce un quadrivettore. La derivata temporale di un quadrivettore non è più un quadrivettore, perché il d/dt richiede la scelta di un riferimento particolare per misurare t. Ci siamo già imbattuti in questa difficoltà quando abbiamo cercato di trasformare v in un quadrivettore. La nostra prima congettura è stata che la componente temporale fosse c dt/dt = c. Ma le grandezze ! d x d y dz c, , , = (c, v) (26.25) dt dt dt
In questo paragrafo reintrodurremo tutti i c .
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Capitolo 26 • Trasformazioni di Lorentz dei campi
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non sono le componenti di un quadrivettore. Abbiamo trovato che potevano diventarlo moltiplicando ciascuna componente per 1 p 1 v 2 /c2 La «quadrivelocità» uµ è il quadrivettore uµ = * p , 1
c v 2 /c2
,p
+ v 2 /c2 -
v 1
(26.26)
p Appare perciò che l’artificio è quello di moltiplicare d/dt per 1/ 1 derivate costituiscano un quadrivettore. La nostra seconda congettura è dunque che
v 2 /c2 se si vuole che le
d pµ v 2 /c2 dt
1 p
1
(26.27)
dovrebbe essere un quadrivettore. Ma cos’è v ? È la velocità della particella, non quella di un sistema di coordinate! Dunque la grandezza f µ definita da fµ = * p , 1
F·v v 2 /c2
,p 1
+ v 2 /c2 -
F
(26.28)
è l’estensione a quattro dimensioni della forza; la possiamo chiamare «quadriforza». È veramente un quadrivettore e le sue componenti spaziali non sono quelle di F, ma di F p 1
v 2 /c2
Il problema è: perché f µ è un quadrivettore? p Sarebbe bello capire un po’ il significato di quel fattore 1/ 1 v 2 /c2 . Dato che è già successo due volte, è tempo di rendersi conto del perché il d/dt può essere sempre aggiustato per mezzo dello stesso fattore. La risposta è la seguente: quando si fa la derivata temporale di una certa funzione x, si calcola l’incremento x in un piccolo intervallo t della variabile t; ma in un altro riferimento l’intervallo t potrebbe corrispondere a un cambiamento sia di t 0 sia di x 0, perciò se si varia soltanto t 0, la variazione di x sarà differente. Si deve trovare una variabile per la nostra derivazione che sia la misura di un «intervallo» nello spazio-tempo, che quindi sarà lo stesso in tutti i sistemi di coordinate. Quando prendiamo il x corrispondente a quell’intervallo, esso sarà lo stesso per tutti i sistemi. Quando una particella si «muove» nel quadrispazio, si hanno le variazioni t, x, y e z. Possiamo per mezzo di esse costruire un intervallo invariante? Ebbene, esse sono le componenti del quadrivettore x µ = (ct, x, y, z) perciò se definiamo la grandezza s ponendo ( s)2 =
1 c2
xµ xµ =
1 ⇣ 2 2 c t c2
x2
y2
z2
⌘
(26.29)
– che è un prodotto scalare quadridimensionale – abbiamo un buon quadriscalare da usarsi come misura di un intervallo quadridimensionale. Da s – oppure il suo limite ds – possiamo definire un ⇤ parametro s = ds. E la derivata rispetto a s, d/ds, è una corretta operazione quadridimensionale perché è invariante rispetto a una trasformazione di Lorentz. È facile collegare ds a dt per una particella che si muove. Per una particella puntiforme in moto si ha dx = vx dt dy = vy dt dz = vz dt
(26.30)
26.4 • Le equazioni del moto in notazione relativistica
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e ds = Perciò l’operatore
r
dt 2 ⇣ 2 c c2
vx2
vy2
vz2
⌘
= dt
r
1
v2 c2
(26.31)
1 d p 2 2 dt 1 v /c è un operatore invariante. Se con esso si opera su un qualunque quadrivettore si ottiene un altro quadrivettore. Per esempio, se operiamo su (ct, x, y, z) otteniamo la quadrivelocità uµ : d xµ = uµ ds
p Ora capiamo perché il fattore 1 v 2 /c2 aggiusta le cose. La variabile invariante s è un’utile grandezza fisica. Essa è chiamata il «tempo proprio» lungo il percorso della particella, perché ds è sempre un intervallo di tempo in un riferimento che, a qualsiasi particolare istante, si muove con la particella. (Allora è x = y = z = 0 e si ha s = t.) Se è possibile immaginare un «orologio» il cui ritmo non dipende dall’accelerazione, un simile orologio muovendosi con la particella segnerebbe il tempo s. Possiamo ora tornare indietro e scrivere la legge di Newton (corretta da Einstein) nella nitida forma dpµ = fµ (26.32) ds dove f µ è dato dall’equazione (26.28). Inoltre, l’impulso pµ può essere scritto pµ = m0 uµ = m0
d xµ ds
(26.33)
dove le coordinate x µ = (ct, x, y, z) descrivono ora la traiettoria della particella. Infine la notazione quadridimensionale ci dà questa forma semplicissima delle equazioni del moto: f µ = m0
d2 x µ ds2
(26.34)
che ricorda F = ma. È importante notare che l’equazione (26.34) non è la stessa cosa di F = ma perché la formulazione quadrivettoriale della (26.34) implica la meccanica relativistica che differisce da quella di Newton alle alte velocità. Il caso è diverso da quello delle equazioni di Maxwell, che si sono potute riscrivere nella forma relativistica senza il minimo cambiamento del loro significato, ma solo con un cambiamento di notazione. Torniamo ora all’equazione (26.24) e vediamo come si può scrivere il membro di destra in notazione quadrivettoriale. p Le tre componenti – quando vengano divise per 1 v 2 /c2 – sono le componenti di f µ ; dunque è " # vy Bz vz By q (E + v ⇥ B)x Ex fx = p =q p +p (26.35) p 1 v 2 /c2 1 v 2 /c2 1 v 2 /c2 1 v 2 /c2 Dobbiamo ora dare a tutte le grandezze la loro notazione relativistica. In primo luogo vy c vz p p p 2 2 2 2 1 v /c 1 v /c 1 v 2 /c2
sono le componenti secondo t, y e z della quadrivelocità uµ . E le componenti di E e B sono componenti del tensore del secondo ordine dei campi Fµ . Andando a vedere nella TABELLA 26.1 le componenti di Fµ che corrispondono a Ex , Bz e By si trova (2) f x = q (ut Fxt
uy Fxy
uz Fxz )
(2) Quando riportiamo i componenti nella TABELLA 26.1, tutti i componenti di F µ corrispondenti ai componenti di E sono moltiplicati per 1/c.
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Capitolo 26 • Trasformazioni di Lorentz dei campi
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che comincia ad avere un aspetto interessante. Ogni termine in questa espressione ha un indice x, ciò che è ragionevole giacché stiamo calcolando una componente x. Tutti gli altri indici appaiono in coppia: tt, yy, zz, eccetto che il termine in x x manca. Mettiamocelo e scriviamo f x = q(ut Fxt
u x Fxx
uy Fxy
(26.36)
uz Fxz )
Non abbiamo alterato nulla, perché Fµ è antisimmetrico e quindi Fxx è zero. Il motivo di includere il termine in x x è quello di scrivere l’equazione (26.36) nella forma sintetica (26.37)
f µ = qu Fµ
Questa equazione equivale alla (26.36) se poniamo la regola che ogni volta che un indice appare due volte (come qui avviene per v) si sommano automaticamente i termini, come per il prodotto scalare, adoperando la stessa convenzione per i segni. Potete credere facilmente che (26.37) funziona altrettanto bene per µ = y e µ = z, ma cosa succederà per µ = t? Vediamo, per curiosità, cosa viene fuori: f t = q (ut Ftt
u x Ft x
uz Ftz )
uy Fty
Dobbiamo ora tradurre questa espressione in termini delle componenti di E e B. Si ottiene
ossia
f t = q *0 + p 1 ,
vx
Ex + p v 2 /c2 1 ft = p
vy v 2 /c2
qv · E
1
Ey + p 1
vz v 2 /c2
Ez + -
(26.38)
v 2 /c2
Ma secondo l’equazione (26.28) si deve pensare che f t sia dato da F·v p
1
v 2 /c2
=
q (E + v ⇥ B) · v p 1 v 2 /c2
Questa equivale all’equazione (26.38), perché (v ⇥ B) · v è zero. Perciò tutto va a posto benissimo. Riassumendo, l’equazione del moto può essere scritta nella forma elegante m0
d2 x µ = f µ = qu Fµ ds2
(26.39)
Benché sia bello vedere che le equazioni possono essere scritte in tal modo, questa forma non è particolarmente utile. È di solito conveniente risolvere i problemi di moto delle particelle usando le equazioni originarie (26.24) e questo è ciò che generalmente faremo.
27
Energia e impulso dei campi
27.1
Conservazione locale
È chiaro che l’energia della materia non si conserva: quando un oggetto irradia luce esso perde energia; però l’energia perduta è possibile descriverla in qualche altra forma, mettiamo come luce. Perciò la teoria della conservazione dell’energia è incompleta se non si considera l’energia che è associata con la luce, o in generale col campo elettromagnetico. Prenderemo ora in considerazione la legge della conservazione dell’energia, e anche dell’impulso dei campi. Sicuramente non possiamo trattare l’una senza l’altro, perché nella teoria della relatività essi non sono che aspetti diversi dello stesso quadrivettore. Abbiamo discusso la conservazione dell’energia agli inizi del vol. 1; allora abbiamo detto semplicemente che l’energia totale dell’universo è costante. Ora vogliamo estendere l’idea della conservazione dell’energia in un modo importante, un modo che dice qualcosa in dettaglio sul come l’energia si conserva. La nuova legge dirà che se l’energia se ne va da una regione, ciò avviene perché fluisce attraverso i confini di questa. È una legge molto più stringente di quella della conservazione dell’energia senza questa restrizione. Per vedere che cosa vuol dire la precedente affermazione, vediamo come funziona la legge della conservazione della carica. Abbiamo formulato la conservazione della carica dicendo che c’è una densità di corrente j e una densità di carica ⇢ e che, quando la carica in un certo punto diminuisce, ci deve essere un flusso di carica uscente da quel punto. La forma matematica della legge di conservazione è @⇢ r· j = (27.1) @t Questa legge ha come conseguenza che la carica totale nell’universo è sempre costante: non c’è mai un’acquisizione o una perdita complessiva di carica. Tuttavia la carica totale dell’universo potrebbe rimanere costante in un altro modo. Supponiamo che ci sia una carica Q1 vicino a un certo punto (1), mentre non c’è carica vicino a un certo punto (2) a una certa distanza dal primo (FIGURA 27.1). E supponiamo che col procedere del tempo la carica Q1 svanisca e che simultaneamente una certa carica Q2 appaia vicino al punto (2) in tale maniera che a ogni istante la somma di Q1 e Q2 sia costante. In altre parole, in ogni stato intermedio la carica perduta da Q1 si aggiungerebbe a Q2 . Allora la quantità totale di carica nell’universo sarebbe conservata. Questa è una conservazione «su scala universale», ma non ciò che chiameremo una conservazione «locale», perché la carica per trasferirsi da (1) a (2) non avrebbe bisogno di apparire in nessun luogo dello spazio che sta fra il punto (l) e il punto (2). Localmente, la carica sarebbe proprio «perduta». C’è una difficoltà a introdurre una simile conservazione «su scala universale» nella teoria della relatività. Il concetto di «istanti simultanei» in punti distanti è un concetto che non è equivalente in sistemi di riferimento diversi. Due eventi che sono simultanei in un sistema non sono simultanei
(1)
Q1
(2)
(a)
Q2
j
Q1
Q2 (b)
27.1 Due modi di conservare la carica: (a) Q1 + Q2 è costante; ⇤ (b) dQ1 /dt = j · n da = dQ2 /dt. FIGURA
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Capitolo 27 • Energia e impulso dei campi
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per un altro sistema che si muove rispetto al primo. Per una conservazione «su scala universale» del tipo descritto, è necessario che la carica perduta da Q1 appaia simultaneamente in Q2 . Altrimenti ci sarebbero dei momenti in cui la carica non sarebbe conservata. Non sembra esserci modo di rendere relativisticamente invariante la legge di conservazione della carica senza farla diventare una legge di conservazione «locale». In realtà, l’esigenza dell’invarianza relativistica di Lorentz sembra limitare in modi sorprendenti le possibili leggi della natura. Nella moderna teoria quantistica dei campi, per esempio, spesso qualcuno ha voluto alterare la teoria ammettendo quella che viene chiamata interazione «non locale», in cui qualcosa che accade qui ha un effetto diretto su qualcosa là; però ci si trova nei guai col principio di relatività. La conservazione «locale» implica un’altra idea. Essa dice che una carica può passare da un luogo a un altro soltanto se c’è qualcosa che accade nello spazio interposto. Per formulare la legge non ci occorre soltanto la densità di carica ⇢ ma anche un altro tipo di grandezza, cioè j, ossia un vettore che dia la rapidità di flusso della carica attraverso una superficie. Questo flusso viene poi messo in rapporto per mezzo dell’equazione (27.1) con la rapidità di variazione della densità. Questo è il tipo più drastico di legge di conservazione. Esso dice che la carica si conserva in un modo speciale: essa si conserva «localmente». Si trova che anche la conservazione dell’energia è un processo locale. C’è non soltanto una densità di energia in una data regione dello spazio, ma anche un vettore che rappresenta la rapidità del flusso dell’energia attraverso una superficie. Per esempio quando una sorgente di luce irradia, si può determinare l’energia luminosa che lascia la sorgente. Se s’immagina una superficie matematica che circonda la sorgente luminosa, l’energia perduta all’interno della superficie è uguale all’energia che fluisce all’esterno attraverso la superficie.
27.2
Conservazione dell’energia ed elettromagnetismo
Vogliamo ora scrivere quantitativamente la conservazione dell’energia per l’elettromagnetismo. Per far questo dobbiamo poter definire quanta energia c’è in un qualunque elemento di volume dello spazio e anche l’entità del flusso d’energia. Supponiamo dapprima di pensare soltanto all’energia del campo elettromagnetico. Con u rappresentiamo la densità d’energia nel campo (cioè la quantità d’energia per unità di volume nello spazio) e col vettore S rappresenteremo il flusso d’energia del campo (cioè il flusso d’energia per unità di tempo attraverso l’unità di superficie perpendicolare al flusso). Allora, in perfetta analogia con la conservazione della carica, equazione (27.1), possiamo scrivere le legge «locale» della conservazione dell’energia nel campo nella forma @u = r·S (27.2) @t Naturalmente questa legge non è vera in generale; non è vero che l’energia del campo si conserva. Mettiamo di essere in una stanza buia e poi girare l’interruttore della luce. Tutto a un tratto la stanza è piena di luce, perciò c’è dell’energia nel campo, benché prima non ce ne fosse. L’equazione (27.2) non è la legge di conservazione completa, perché l’energia del campo da sola non si conserva, ma soltanto l’energia totale dell’universo: c’è anche l’energia della materia. L’energia del campo cambierà se c’è del lavoro fatto dalla materia sul campo, o dal campo sulla materia. Però se c’è della materia nell’interno del volume che c’interessa, sappiamo quanta energia essa possiede: ciascuna particella ha l’energia m0 c 2 p 1
v 2 /c2
L’energia totale della materia non è che la somma delle energie di tutte le particelle e il flusso di questa energia attraverso una superficie non è che la somma delle energie trasportate da ciascuna particella che attraversa la superficie. Vogliamo ora parlare soltanto dell’energia del campo elettromagnetico. Perciò dobbiamo scrivere un’equazione che dice che l’energia totale
27.3 • Densità e flusso d’energia nel campo elettromagnetico
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del campo in un dato volume decresce sia perché una certa energia del campo fluisce fuori dal volume sia perché il campo cede energia alla materia (o ne riceve, ciò che è semplicemente una perdita negativa). L’energia del campo dentro a un volume V è ⌅ u dV V
e la sua diminuzione nell’unità di tempo è la derivata di questo integrale cambiata di segno. Il flusso dell’energia del campo uscente dal volume V è l’integrale della componente normale di S sopra la superficie ⌃ che racchiude V , cioè ⌅ S · n da ⌃
Perciò si ha d dt
⌅
V
u dV =
⌅
S · n da + (lavoro fatto sulla materia dentro V )
(27.3)
⌃
Si è visto prima che il campo compie su ciascuna unità di volume della materia il lavoro E · j per unità di tempo. (La forza su una particella è F = q(E + v ⇥ B), e il lavoro per unità di tempo è F · v = qE · v. Se ci sono N particelle per unità di volume, il lavoro per unità di tempo e di volume è N qE · v, ma N qv = j.) Perciò la grandezza E · j deve essere uguale alla perdita d’energia per unità di tempo e di volume da parte del campo. L’equazione (27.3) diventa dunque ⌅ ⌅ ⌅ d u dV = S · n da + E · j dV (27.4) dt V ⌃ V Questa è la legge della conservazione dell’energia nel campo. La si può convertire in un’equazione differenziale simile all’equazione (27.2) se si può trasformare il secondo termine in un integrale di volume. Questo è facile farlo per mezzo del teorema di Gauss. L’integrale di superficie della componente normale di S è l’integrale della sua divergenza esteso al volume interno. Perciò l’equazione (27.3) è equivalente a ⌅ ⌅ ⌅ @u dV = r · S dV + E · j dV V @t V V dove si è portata sotto il segno d’integrale la derivata temporale del primo termine. Siccome questa equazione è vera per qualsiasi volume, si possono eliminare gli integrali e si ha l’equazione dell’energia per i campi elettromagnetici: @u =r·S+E· j @t
(27.5)
Ora questa equazione non ci giova a un bel nulla se non sappiamo cosa sono u e S. Forse basterebbe dirvi come si esprimono per mezzo di E e B perché ciò che realmente vogliamo è il risultato. Tuttavia preferiamo mostrarvi il tipo di ragionamento che fu usato da Poynting nel 1884 per ottenere le formule per S e u, così che possiate capirne l’origine. (Non avrete però bisogno, per il nostro lavoro futuro, di imparare questa deduzione.)
27.3
Densità e flusso d’energia nel campo elettromagnetico
L’idea è quella di ammettere che c’è una densità u dell’energia del campo e un flusso S che dipendono soltanto dai campi E e B. (Per esempio, sappiamo che in elettrostatica, almeno, la densità d’energia può essere scritta (1/2) ✏ 0 E · E.) Naturalmente u e S potrebbero dipendere dai potenziali e da qualcos’altro, ma vediamo cosa possiamo ricavare. Si può cercare di riscrivere la grandezza E · j in modo che diventi la somma di due termini dei quali uno sia la derivata rispetto
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Capitolo 27 • Energia e impulso dei campi
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al tempo di una certa grandezza e l’altro sia la divergenza di un’altra grandezza. La prima di queste grandezze sarebbe allora u e la seconda sarebbe S (coi segni opportuni); tutte e due le grandezze dovrebbero essere scritte per mezzo dei soli campi. In altri termini vogliamo scrivere la nostra uguaglianza nella forma E· j=
@u @t
(27.6)
r·S
Il primo membro deve essere espresso per mezzo dei soli campi. Come possiamo farlo? Adoperando le equazioni di Maxwell, naturalmente. Dall’equazione di Maxwell per il rotore di B si ha @E j = ✏ 0 c2 r ⇥ B ✏ 0 @t Sostituendo questa espressione in (27.6) avremo soltanto degli E e dei B: E · j = ✏ 0 c2 E · (r ⇥ B)
✏0E ·
@E @t
(27.7)
Abbiamo già in parte finito. L’ultimo termine è una derivata temporale: è ! @ 1 ✏0E · E @t 2 Perciò (1/2)✏ 0 E · E rappresenta almeno una parte di u; è la stessa cosa che si è trovato in elettrostatica. Ora tutto quello che resta da fare è trasformare l’altro termine nella divergenza di qualcosa. Notate che il primo termine al secondo membro della (27.7) equivale a (r ⇥ B) · E
(27.8)
D’altronde, come sapete dall’algebra vettoriale, (a ⇥ b) · c equivale a a · (b ⇥ c), perciò il termine in questione equivale anche a r · (B ⇥ E) (27.9) e abbiamo la divergenza di «qualcosa», proprio come si voleva. Soltanto, questo è sbagliato! Si è avvertito in precedenza che r «somiglia» a un vettore ma non è «esattamente» la stessa cosa. La ragione per cui non lo è sta nell’esistenza di una convenzione supplementare del calcolo infinitesimale: quando un operatore di derivazione precede un prodotto, esso opera su tutto ciò che si trova alla sua destra. Nell’equazione (27.7) il r opera solo su B, non su E. Ma nella forma (27.9) la convenzione ordinaria direbbe che r opera sia su B sia su E. Perciò non è la stessa cosa. Difatti se si ricava r · (B ⇥ E) mediante le componenti, si può vedere che è uguale a E · (r ⇥ B) più altri termini. È come quando in algebra si deriva un prodotto. Per esempio d df dg ( f g) = g+ f dx dx dx Piuttosto che ricavare per esteso r · (B ⇥ E) per mezzo delle componenti preferiamo indicarvi un artificio che è molto utile per questo tipo di problemi. È un artificio che permette di applicare tutte le regole dell’algebra vettoriale a espressioni che contengono l’operatore r senza incorrere in guai. L’artificio consiste nello scartare – almeno per il momento – la regola di notazione del calcolo relativa a ciò su cui agisce l’operatore di derivazione. Vedete: normalmente l’ordine dei termini è adoperato per due scopi distinti. Uno riguarda il calcolo: f (d/dx)g non è lo stesso di g(d/dx) f ; l’altro riguarda i vettori: a ⇥ b è diverso da b ⇥ a. Possiamo, se vogliamo, decidere di abbandonare momentaneamente la regola del calcolo. Invece di dire che un simbolo di derivata opera su tutto quello che sta a destra, stabiliamo una nuova regola che non dipende dall’ordine in cui i termini sono scritti. Dopo di che possiamo manipolare i termini come vogliamo, senza preoccuparci.
27.3 • Densità e flusso d’energia nel campo elettromagnetico
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Ecco la nostra nuova convenzione: indichiamo con un indice su che cosa opera un operatore differenziale; l’ordine non ha significato. Mettiamo che D rappresenti @/@ x. Allora Df vuol dire che si deve prendere soltanto la derivata della grandezza variabile f . Si ha quindi Df f =
@f @x
Ma se abbiamo Df f g questo vuol dire Df f g =
! @f g @x
Ora però noterete che secondo la nostra nuova regola f Df g significa la stessa cosa. Possiamo scrivere la stessa cosa in uno qualunque dei modi seguenti Df f g = g Df f = f Df g = f g Df Come vedete, il Df può venire anche dopo tutto. (È sorprendente che una notazione così comoda non venga mai insegnata nei libri di matematica o di fisica.) Forse vi chiederete: che succede se voglio scrivere la derivata di f g? Intendo, la derivata dei due termini. È facile, basta dirlo; scriviamo Df f g + Dg f g Questo è proprio @f @g +f @x @x che è quello che si intende, secondo la vecchia notazione, scrivendo g
@ fg @x Vedrete che ora sarà molto facile ricavare una nuova espressione per r · (B ⇥ E). Cominciamo con il passare alla nuova notazione; scriveremo r · (B ⇥ E) = rB · (B ⇥ E) + rE · (B ⇥ E)
(27.10)
Dal momento che s’è fatto questo, non c’è più bisogno di conservare l’ordine giusto: sapremo sempre che rE opera soltanto su E e rB opera soltanto su B. In queste circostanze si può usare r come se fosse un vettore ordinario. (Naturalmente quando avremo finito torneremo alla notazione «regolare» che tutti di solito usano.) Dunque ora potremo fare un certo numero di cose, come scambiare prodotti scalari e vettoriali o eseguire altri tipi di riordinamento dei termini. Per esempio il termine intermedio nell’equazione (27.10) può essere riscritto nella forma E · r ⇥ B (ricorderete che si ha: a · b ⇥ c = b · c ⇥ a), mentre l’ultimo termine equivale a B · E ⇥ rE . Sembra bizzarro, ma va benissimo. Ora, se cerchiamo di tornare alla convenzione ordinaria dobbiamo fare in modo che r operi soltanto sulla «sua» variabile. Il primo r è già a posto, perciò basta omettere il suo indice. Il secondo ha bisogno di un po’ di riordinamento per mettere r davanti a E, cosa che si può fare invertendo il prodotto vettoriale e cambiando segno: B · (E ⇥ rE ) = B · (rE ⇥ E) Ora l’ordine è quello tradizionale e perciò si può tornare alla notazione solita. L’equazione (27.10) equivale a r · (B ⇥ E) = E · (r ⇥ B) B · (r ⇥ E) (27.11)
(Ci si sarebbe arrivati prima, in questo caso particolare, adoperando le componenti, ma valeva la pena di spendere un po’ di tempo per mostrarvi l’artificio matematico. Probabilmente non lo vedrete altrove, mentre è utilissimo per svincolare l’algebra vettoriale dalle regole sull’ordine dei termini contenenti derivate.)
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Capitolo 27 • Energia e impulso dei campi
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Torniamo ora alla discussione sulla conservazione dell’energia e usiamo il nuovo risultato contenuto nell’equazione (27.11) per trasformare il termine r ⇥ B dell’equazione (27.7). Questa equazione dell’energia diventa: ! @ 1 2 2 E · j = ✏ 0 c r · (B ⇥ E) + ✏ 0 c B · (r ⇥ E) ✏0E · E (27.12) @t 2 Come vedete, siamo quasi in fondo. Abbiamo un termine che è una bella derivata rispetto a t, da adoperare per ottenere u e un altro che è una bella divergenza per rappresentare S. Sfortunatamente ci resta il termine centrale che non è né una divergenza né una derivata rispetto a t; perciò ce l’abbiamo quasi fatta, ma non del tutto. Dopo un po’ di riflessione, si va a vedere le equazioni differenziali di Maxwell e si scopre che r ⇥ E, per fortuna, è uguale a @B/@t; il che vuol dire che si può trasformare il termine extra in qualcosa che è una pura derivata temporale: ! ! @B @ B·B B · (r ⇥ E) = B · = @t @t 2 Adesso abbiamo precisamente quello che volevamo. L’equazione dell’energia si presenta così E · j = r · (✏ 0 c2 B ⇥ E)
@ * ✏ 0 c2 ✏0 B·B+ E · E+ @t , 2 2 -
(27.13)
che è esattamente simile all’equazione (27.6) se poniamo le definizioni u= e
✏0 ✏ 0 c2 E·E+ B·B 2 2 S = ✏ 0 c2 E ⇥ B
(27.14) (27.15)
(L’inversione del prodotto vettoriale mette a posto i segni.) Il nostro programma ha avuto successo: abbiamo un’espressione per la densità d’energia che è la somma di una densità d’energia «elettrica» e di una densità d’energia «magnetica», le cui forme sono proprio simili a quelle che sono state trovate nella statica quando abbiamo ricavato l’energia in funzione dei campi. Inoltre abbiamo trovato una formula per il vettore che esprime il flusso d’energia nel campo elettromagnetico. Questo nuovo vettore, S = ✏ 0 c2 E ⇥ B è chiamato «vettore di Poynting» dal nome del suo scopritore. Esso ci dà una misura del moto dell’energia del campo attraverso lo spazio. L’energia che fluisce attraverso un’areola da in un secondo è S · n da, in cui n è il versore perpendicolare a da. (Ora che abbiamo le formule per u e S, potete dimenticarvi la loro derivazione, se volete.)
27.4
L’ambiguità dell’energia del campo
Prima di dedicarci a qualche applicazione delle formule di Poynting (equazioni (27.14) e (27.15)) vorremmo notare che non le abbiamo veramente «provate». Tutto quello che si è fatto è stato di trovare una possibile «u» e un possibile «S». Come si fa a sapere se manipolando i termini un po’ di più non si possa trovare un’altra formula per «u» e un’altra formula per «S»? Il nuovo S e il nuovo u sarebbero diversi, ma soddisfarebbero ancora l’equazione (27.6). Questo è possibile; può essere fatto, ma le formule che sono state trovate contengono sempre varie derivate del campo (e si tratta sempre di termini del secondo ordine, come una derivata seconda o il quadrato di una derivata prima). C’è effettivamente un numero infinito di differenti possibilità per u e S e finora nessuno ha pensato un modo sperimentale di stabilire qual è quella giusta! L’idea comunemente accettata è che la più semplice sia probabilmente quella corretta, ma si deve dire che non sappiamo con
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27.5 • Esempi di flusso d’energia
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certezza quale sia l’effettiva distribuzione nello spazio dell’energia del campo elettromagnetico. Perciò anche noi prenderemo la soluzione più facile e diremo che l’energia del campo è data dall’equazione (27.14). Allora il vettore S del flusso deve essere dato dall’equazione (27.15). Che non sembri esserci un modo unico di risolvere l’indefinitezza nella distribuzione dell’energia del campo è un fatto interessante. Si afferma qualche volta che questo problema può essere risolto ricorrendo alla teoria della gravitazione, in base al seguente ragionamento. Nella teoria della gravità, ogni energia è sorgente di attrazione gravitazionale. Perciò la densità d’energia dell’elettricità deve essere distribuita nel modo appropriato se si ha da sapere in quale direzione la forza di gravità agisce. Fino a oggi, però, nessuno ha fatto un esperimento talmente raffinato da poter determinare la precisa ubicazione dell’influenza gravitazionale dei campi elettromagnetici. Che dei puri campi elettromagnetici possano essere sorgenti di forze gravitazionali è un’idea di cui difficilmente si può fare a meno. Si è osservato infatti che la luce viene deflessa quando passa vicino al sole: si potrebbe dire che il sole tira la luce giù, verso di lui. Non sentite il bisogno di concedere che la luce tiri ugualmente il sole? Comunque, tutti accettano sempre le semplici espressioni che abbiamo trovato per la distribuzione dell’energia elettromagnetica e per il suo flusso. E sebbene talvolta i risultati ottenuti usando quelle espressioni sembrino strani, nessuno ha mai trovato che fossero in qualche modo sbagliati, cioè ci fosse disaccordo con l’esperienza. Perciò seguiremo la grande maggioranza; del resto crediamo che ciò sia probabilmente perfettamente giusto. Si dovrebbe fare un’ulteriore osservazione sulla formula dell’energia. In primo luogo, l’energia per unità di volume nel campo è molto semplice: è l’energia elettrostatica più l’energia magnetica, se scriviamo l’energia elettrostatica per mezzo di E 2 e quella magnetica per mezzo di B2 . Si è trovato che due espressioni di questo tipo erano delle possibili espressioni per l’energia quando si trattava di problemi statici. Si sono trovate anche diverse altre formule per l’energia del campo elettrostatico, come ⇢ , che è uguale all’integrale di E · E nel caso elettrostatico. Però in un campo elettrodinamico tale uguaglianza veniva a cadere e non c’era alcun modo ovvio di sapere quale fosse l’espressione giusta. Ora sappiamo qual è quella giusta. Similmente abbiamo trovato una formula per l’energia magnetica che è corretta in generale. La formula giusta per la densità d’energia dei campi dinamici è l’equazione (27.14).
27.5
Esempi di flusso d’energia
La nostra formula per il vettore flusso energetico S è qualcosa del tutto nuova. Vogliamo ora vedere come funziona in alcuni casi particolari e anche vedere se torna con qualcosa che si sapeva da prima. Il primo esempio che faremo è la luce. In un’onda luminosa si hanno un vettore E e un vettore B ad angolo retto fra loro e con la direzione di propagazione dell’onda (FIGURA 27.2). In un’onda elettromagnetica il modulo di B è uguale a 1/c per il modulo di E, e siccome sono ad angolo retto ne viene che E2 E⇥B = c Perciò per la luce il flusso d’energia per unità d’area per secondo è S = ✏ 0 cE 2
S v B
Direzione di propagazione dell’onda
27.2 I vettori E, B e S per un’onda luminosa. FIGURA
(27.16)
Per un’onda luminosa nella quale si ha E = E0 cos !(t x/c), il flusso medio d’energia per unità d’area hSim – che è chiamato «intensità» della luce – è il valor medio del quadrato del campo elettrico moltiplicato per ✏ 0 c: intensità = hSim = ✏ 0 c hE 2 im
E
(27.17)
Che lo crediate o no, abbiamo già dedotto questo risultato nel par. 31.5 del vol. 1, quando abbiamo studiato la luce. Possiamo ritenere che sia giusto perché torna anche con qualcos’altro.
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Capitolo 27 • Energia e impulso dei campi
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Quando si ha un fascio di luce, c’è nello spazio una densità d’energia data dall’equazione (27.14). Adoperando cB = E, come si ha per un’onda luminosa, otteniamo u=
✏ 0 2 ✏ 0 c2 * E 2 + = ✏ 0 E2 E + 2 2 , c2 -
Ma E varia nello spazio, perciò la densità media d’energia è huim = ✏ 0 hE 2 im
(27.18)
L’onda viaggia con la velocità c, perciò si presume che l’energia che attraversa un metro quadrato in un secondo sia c per la quantità d’energia, in un metro cubo. Si direbbe dunque che si deve avere hSim = ✏ 0 c hE 2 im
–
S
Ed è giusto: si è ritrovata l’equazione (27.17). Vogliamo ora fare un altro esempio. Questo è piuttosto curioso. Consideriamo il flusso d’energia in un condensatore che carichiamo lentamente. (Non vogliamo delle frequenze così alte da far somigliare il condensatore a una cavità risonante, ma non vogliamo nemmeno una tensione costante.) Supponiamo di usare un condensatore a lastre parallele circolari, come si vede in FIGURA 27.3. Dentro c’è un campo elettrico quasi uniforme che cambia col tempo. A un istante qualunque l’energia elettromagnetica totale nell’interno è u moltiplicata per il volume. Se le lastre hanno raggio a e separazione h, l’energia totale fra le lastre è ✓✏ ◆ 0 2 E E (⇡a2 h) (27.19) U= 2 B
Questa energia cambia quando E cambia. Quando il condensatore viene caricato, il volume fra le lastre riceve una energia per unità di tempo dU = ✏ 0 ⇡a2 hE E˙ dt
+
(27.20)
Perciò in quel volume deve entrare da qualche parte un flusso d’energia. Naturalmente immaginate che debba entrare dai fili di collegamento: niente affatto! Non può entrare da quella direzione nello spazio fra le lastre, perché E è perpendicolare alle lastre: E ⇥ B deve essere parallelo a esse. Vi ricorderete naturalmente che c’è un campo magnetico che circola intorno all’asse quando il condensatore si sta caricando. Si è discusso questo nel capitolo 23. Usando l’ultima delle equazioni di Maxwell si è trovato che il campo magnetico al bordo del condensatore è dato da
27.3 Vicino a un condensatore che si carica il vettore di Poynting S punta all’interno verso l’asse. FIGURA
˙ 2 2⇡ac2 B = E⇡a ossia
a ˙ E 2c2 La sua direzione è indicata in FIGURA 27.3. C’è dunque un flusso d’energia proporzionale a E ⇥ B in arrivo attraverso tutto il perimetro, come mostra la figura. L’energia, effettivamente, non arriva dai fili ma dallo spazio che circonda il condensatore. Controlliamo se il flusso totale attraverso l’intera superficie compresa fra i bordi delle lastre torna o no con la variazione per unità di tempo dell’energia all’interno: dovrebbe tornare; ci siamo sobbarcati tutto quel lavoro di provare l’equazione (27.15) per esserne sicuri, ma vediamo pure. L’area della superficie è 2⇡ah e S = ✏ 0 c2 E ⇥ B ha modulo ! a ˙ 2 E S = ✏ 0c E 2c2 B=
27.5 • Esempi di flusso d’energia
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così che il flusso totale d’energia è ⇡a2 h✏ 0 E E˙ Con l’equazione (27.20), torna. Ci dice però una cosa singolare: quando si carica un condensatore l’energia non entra dai fili; arriva passando fra i – bordi delle lastre. Questo è ciò che dice questa teoria! Come può essere? Questo non è un problema facile, ma ecco un modo di farsi un’idea della cosa. Supponiamo che si abbiano delle cariche sopra –––––––– e sotto il condensatore, ma molto lontano. Quando le cariche sono lontane ++++++++ c’è un campo debole ma enormemente esteso che circonda il condensatore (FIGURA 27.4). Poi, mentre le cariche si avvicinano, il campo diventa più forte vicino al condensatore; perciò l’energia del campo, che era lontana, si + sposta verso il condensatore e va a finire in definitiva fra le lastre di questo. Come altro esempio domandiamoci cosa accade in un pezzo di filo da resistenza quando ci passa una corrente. Siccome il filo ha resistenza, c’è un campo elettrico in esso che spinge la corrente. Siccome c’è una caduta di potenziale lungo il filo, c’è un campo elettrico anche appena fuori dal filo, parallelo alla superficie (FIGURA 27.5). C’è in più un campo magnetico che circola intorno al filo, a causa della corrente. I vettori E e B sono FIGURA 27.4 Il campo esternamente a un perpendicolari, perciò c’è un vettore di Poynting diretto radialmente all’in- condensatore che viene caricato portando due cariche da una grande distanza. terno, come mostra la figura. C’è un flusso entrante d’energia tutt’intorno al filo. È naturalmente uguale all’energia che viene perduta nel filo sotto forma di calore. Dunque la nostra teoria «stravagante» dice che gli elettroni ricevono l’energia con la quale generare calore, per via di quella che fluisce nel filo dal campo esterno. L’intuizione sembrerebbe dirci che gli elettroni ricevono la loro energia per il fatto di essere spinti nel senso del filo, perciò l’energia dovrebbe fluire, in giù o in sù, lungo il filo. La teoria però dice che in realtà gli elettroni sono spinti da un campo elettrico che proviene j E E da cariche lontanissime e che essi ricevono da questo campo l’energia che serve loro a generare il calore. In qualche modo, l’energia fluisce da cariche B S lontane in un’ampia regione dello spazio, e poi va a finire nel filo. Infine, per convincervi davvero che questa teoria è ovviamente pazza, faremo ancora un esempio, un esempio in cui una carica elettrica e un magnete sono in quiete, una accanto all’altro, entrambe del tutto immobili. Mettiamo di fare il caso di una carica puntiforme che se ne sta al centro di una sbarra magnetizzata, come mostra la FIGURA 27.6. Tutto è in quiete, perciò l’energia non cambia col tempo; inoltre E e B sono del tutto statici. FIGURA 27.5 Il vettore di Poynting S vicino a un filo Il vettore di Poynting dice però che c’è un flusso d’energia perché c’è un che trasporta una corrente. E ⇥ B che non è zero. Se si va a vedere questo flusso d’energia, si trova che esso non fa che muoversi continuamente in circolo. Non c’è cambiamento E alcuno di energia da nessuna parte: tutto ciò che fluisce dentro un certo volume ne esce di nuovo; è come dell’acqua incomprimibile che circola. N Dunque c’è una circolazione d’energia in questa condizione, cosiddetta B q statica. Come diventa assurda la cosa! S Forse non è tanto sconcertante, però, se ci si ricorda che quello che chiamiamo un magnete «statico» è in realtà una corrente che circola in S permanenza. Nell’interno di un magnete permanente ci sono degli elettroni che ruotano permanentemente. Perciò, forse, una circolazione d’energia FIGURA 27.6 Una carica e un magnete producono all’esterno non è così bizzarra, dopotutto. un vettore di Poynting che circola secondo delle spire Senza dubbio, cominciate ad avere l’impressione che la teoria di Poyn- chiuse. ting violi la vostra intuizione circa il modo in cui l’energia è distribuita nel campo elettromagnetico. Potreste credere che vi tocchi di rabberciare tutte le vostre intuizioni e di avere quindi un mucchio di cose da studiare in questo campo. Però non sembra davvero necessario. Non occorre che abbiate la sensazione di andare incontro a grossi guai se ogni tanto vi dimenticate che l’energia fluisce nel filo dal di fuori, piuttosto che lungo il filo. Quando si usa
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Capitolo 27 • Energia e impulso dei campi
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l’idea della conservazione dell’energia, il prendere dettagliatamente nota del percorso seguito da questa sembra che sia rilevante solo di rado. La circolazione dell’energia intorno a un magnete e a una carica sembra, nella maggior parte delle circostanze, una cosa affatto priva d’importanza; non è un particolare essenziale, ma è chiaro che le nostre ordinarie intuizioni sono del tutto sbagliate.
27.6
L’impulso del campo
Vorremmo ora passare a parlare dell’impulso del campo elettromagnetico. Proprio perché possiede un’energia, il campo avrà anche un certo impulso per unità di volume. Chiamiamo g la densità di questo impulso. Naturalmente l’impulso ha varie possibili direzioni sicché g deve essere un vettore. Occupiamoci di una componente per volta e prendiamo dapprima la componente x. Siccome ogni componente dell’impulso si conserva, si dovrebbe poter scrivere una legge che ha in qualche modo un aspetto come questo: ! ! @ @ gx impulso flusso uscente = + dell’impulso x @t della materia x @t Il primo membro è facile. La variazione per unità di tempo dell’impulso della materia non è che la forza agente. Per una particella questa forza è F = q(E + v ⇥ B); per una distribuzione di cariche la forza per unità di volume è ⇢E + j ⇥ B. Il termine che contiene il «flusso uscente dell’impulso» è, però, strano. Non può essere la divergenza di un vettore, perché non è uno scalare; è piuttosto la componente x di un certo vettore. Comunque, dovrebbe probabilmente somigliare a qualcosa come @a @b @c + + @ x @ y @z perché l’impulso secondo l’asse x potrebbe fluire in una qualunque delle tre direzioni. In ogni caso, qualunque cosa possano essere a, b e c, l’espressione ora scritta si suppone che uguagli il flusso uscente dell’impulso secondo l’asse x. Ora le regole del gioco direbbero di scrivere ⇢E + j ⇥ B per mezzo di E e B soltanto – eliminando ⇢ e j con l’uso delle equazioni di Maxwell – e quindi di manipolare i termini e fare sostituzioni fino ad arrivare a una forma del tipo @ gx @ a @ b @ c + + + @t @ x @ y @z Poi, identificando i termini, si avrebbero le espressioni per gx , a, b e c. È un mucchio di lavoro e non lo faremo. Invece ci limiteremo a trovare un’espressione per g, seguendo un’altra strada. C’è in meccanica un importante teorema, che è questo: ogni volta che c’è un flusso d’energia, in qualsiasi circostanza (energia del campo o qualsiasi altra specie d’energia), l’energia che fluisce attraverso l’unità di superficie nell’unità di tempo, moltiplicata per 1/c2 è uguale all’impulso per unità di volume nello spazio. Nel caso particolare dell’elettrodinamica questo teorema dà il risultato che g è 1/c2 per il vettore di Poynting: g=
1 S c2
(27.21)
Perciò il vettore di Poynting non dà soltanto il flusso d’energia, ma se lo si divide per c2 dà anche la densità d’impulso. Lo stesso risultato viene fuori dall’altra analisi che si è suggerito, ma è più interessante far rilevare questo risultato più generale. Daremo ora un certo numero di esempi e considerazioni interessanti allo scopo di convincervi che il teorema generale è vero. Primo esempio. Supponiamo di avere tante particelle in una scatola – mettiamo N per metro cubo – e che si muovano con una certa velocità v. Consideriamo ora una superficie immaginaria piana perpendicolare a v. Il flusso d’energia per secondo attraverso l’unità d’area di questa
27.6 • L’impulso del campo
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superficie è uguale a Nv, il numero di particelle che fluisce attraverso la superficie per secondo, moltiplicato per l’energia portata da ciascuna. L’energia di ciascuna particella è m0 c 2 Perciò il flusso d’energia per secondo è
Ma l’impulso di ciascuna particella è
p
v 2 /c2
1
Nv p 1
m0 c 2 v 2 /c2
m0 v perciò la densità d’impulso è
p
1
Np
v 2 /c2 m0 v
1
v 2 /c2
che è proprio 1/c2 per il flusso d’energia, come il teorema dice. Perciò il teorema è vero per un fascio di particelle. È anche vero per la luce. Quando nel volume 1 si è studiata la luce, si è visto che quando dell’energia viene assorbita da un fascio di luce, un certo impulso viene comunicato all’assorbitore. Anzi nel cap. 34 del vol. 1 abbiamo mostrato che quell’impulso è il prodotto di 1/c per l’energia assorbita (equazione (34.24) del vol. 1). Se U0 è l’energia che arriva sull’unità d’area per secondo, allora l’impulso in arrivo per unità L d’area per secondo è U0 /c. Ma l’impulso si muove con la velocità c, perciò 2 la sua densità nella zona davanti all’assorbitore deve essere U0 /c . Perciò, nuovamente, il teorema è giusto. U Infine vogliamo esporre un ragionamento dovuto a Einstein che dimostra una volta di più la stessa cosa. Supponiamo di avere un vagone ferroviario su ruote (ammesse prive di attrito), avente una grossa massa M. A un estremo c’è un dispositivo che spara delle particelle, o della luce (o M una cosa qualunque: quello che è non fa alcuna differenza) che sono poi arrestate all’estremo opposto del vagone. C’era originariamente una certa (a) energia a un estremo – mettiamo l’energia U indicata in FIGURA 27.7a – ed ecco che più tardi essa si trova all’altro estremo, come mostra la FIGUc RA 27.7c. L’energia U è stata spostata di un tratto L che è la lunghezza del 2 vagone. Ora, l’energia U possiede la massa U/c sicché, se il vagone non U si muovesse, il suo centro di gravità ne risulterebbe spostato. Einstein non gradiva l’idea che il centro di gravità di un oggetto potesse venire spostato dandosi da fare soltanto all’interno di esso, perciò pose come ipotesi che v è impossibile spostare il centro di gravità agendo comunque da dentro. Ma (b) se è questo il caso, quando si è portata l’energia U da un estremo all’altro, tutto il vagone deve avere indietreggiato di una certa distanza x, com’è indicato nella FIGURA 27.7c. Effettivamente si può vedere che la massa totale del vagone moltiplicata per x deve uguagliare la massa dell’energia che U si è mossa, cioè U/c2 moltiplicata per L (nell’ipotesi che U/c2 sia molto minore di M): U Mx = 2 L (27.22) x c Esaminiamo ora il caso particolare in cui l’energia è trasportata da un lampo (c) di luce. (Il ragionamento andrebbe altrettanto bene per delle particelle, ma vogliamo seguire Einstein al quale importava il problema della luce.) Cos’è che mette in moto il vagone? Einstein ragionò come segue: quando FIGURA 27.7 L’energia U in moto con la velocità c la luce viene emessa, ci deve essere un contraccolpo, un certo contraccolpo trasporta l’impulso U /c.
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Capitolo 27 • Energia e impulso dei campi
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incognito equivalente a un impulso p. È questo contraccolpo che fa indietreggiare il vagone. La velocità di indietreggiamento v del vagone sarà data da questo impulso diviso per la massa del vagone: p v= M Il vagone si muove con questa velocità finché l’energia luminosa U raggiunge l’estremo opposto; poi, nell’urto, questa restituisce il suo impulso e arresta il vagone. Se x è piccolo, la durata del moto del vagone è quasi uguale a L/c; perciò si ha x = vt = v
L p L = c M c
Portando questa espressione di x nell’equazione (27.22), si ottiene p=
U c
Ritroviamo di nuovo la relazione fra energia e impulso per la luce. Dividendo per c per avere la densità di impulso g = p/c, otteniamo una volta di più g=
U c2
(27.23)
È possibile che vi domandiate: che c’è di tanto importante nel teorema del centro di gravità? Forse è sbagliato quello. Forse; ma allora si perderebbe A anche la conservazione del momento angolare. Supponiamo che il vagone c stia muovendosi su un binario con una certa velocità v e che dell’energia v luminosa venga sparata dall’alto verso il basso del vagone, mettiamo da U B A verso B, in FIGURA 27.8. Consideriamo ora il momento angolare del sistema rispetto al punto P. Prima che l’energia U abbandoni A essa ha la massa m = U/c2 e la velocità v e quindi ha il momento angolare mvr A. Quando arriva in B, ha la stessa massa e, se l’impulso del vagone non deve rA rB cambiare, essa deve avere ancora la velocità v. Il suo momento angolare rispetto a P è perciò mvr B . Il momento angolare varierà, a meno che il P giusto momento di rinculo sia stato dato al vagone quando la luce è stata emessa, cioè a meno che la luce trasporti l’impulso U/c. Risulta che la conservazione del momento angolare e il teorema del centro di gravità FIGURA 27.8 L’energia U deve trasportare l’impulso U /c se il momento angolare rispetto a P deve essere sono strettamente connessi nella teoria della relatività. Perciò anche la conconservato. servazione del momento angolare andrebbe distrutta se quel teorema non fosse vero. Comunque, esso risulta essere una vera legge generale e nel caso dell’elettrodinamica ce ne possiamo servire per ottenere l’impulso del campo. Vogliamo ricordare ancora due esempi concernenti l’impulso del campo elettromagnetico. Nel paragrafo 26.2 abbiamo fatto notare che la legge di azione e reazione non valeva più quando due particelle cariche erano in moto su due traiettorie ortogonali. Le forze agenti sulle due particelle non si equilibrano, così che azione e reazione non sono uguali e quindi l’impulso complessivo della materia deve variare: non è conservato. Ma anche l’impulso del campo varia in quelle circostanze. Se si ricava quant’è l’impulso che risulta dal vettore di Poynting, si trova che non è costante. Però la variazione dell’impulso delle particelle è compensata appunto da quella dell’impulso del campo, così che l’impulso totale, quello delle particelle più quello del campo, si conserva. Infine un altro esempio è il caso del magnete e della carica, indicato in FIGURA 27.6. Ci sentivamo a disagio nel trovare che c’era dell’energia che circolava intorno, ma ora, sapendo che il flusso d’energia e l’impulso sono proporzionali, sappiamo anche che c’è dell’impulso che circola nello spazio. Ma un impulso che circola vuol dire che c’è un momento angolare: perciò c’è un momento angolare del campo. Ricordate il paradosso esposto al paragrafo 17.4 riguardante un solenoide e alcune cariche portate da un disco? Sembrava che quando si estingue la corrente, tutto il disco debba mettersi a girare. L’enigma era: da dove viene il momento
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27.6 • L’impulso del campo
angolare? La soluzione è che se si ha un campo magnetico e delle cariche, ci deve essere un certo momento angolare del campo. C’è stato messo quando il campo è stato creato: quando si fa sparire il campo, questo momento angolare viene restituito. Perciò il disco cui il paradosso si riferiva, prenderebbe a girare davvero. Il misterioso flusso circolante d’energia che sembrava così ridicolo è assolutamente necessario. C’è davvero un flusso d’impulso; ci vuole per preservare la conservazione del momento angolare dell’universo.
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28
Massa elettromagnetica
28.1
L’energia del campo di una carica puntiforme
Mettendo in rapporto la relatività con le equazioni di Maxwell, abbiamo terminato il nostro principale lavoro sulla teoria dell’elettromagnetismo. Ci sono naturalmente dei dettagli sui quali abbiamo sorvolato e un vasto argomento del quale dovremo occuparci in futuro: l’interazione dei campi elettromagnetici con la materia. Vogliamo però fermarci un momento per mostrare che questa formidabile costruzione che ha tanto successo nella spiegazione di molti fenomeni, da ultimo fallisce miseramente. In qualunque settore della fisica, quando si cerca di andare troppo lontano, si finisce sempre per andare incontro a qualche guaio. Vogliamo ora discutere un guaio serio: il fallimento della teoria elettromagnetica classica. Siete in grado di rendervi conto che esiste un fallimento di tutta la fisica classica dovuto agli effetti quantistici. La meccanica classica è una teoria matematicamente coerente; solo che non va d’accordo con l’esperienza. È però interessante il fatto che la teoria classica dell’elettromagnetismo sia una teoria insoddisfacente proprio in se stessa. Ci sono delle difficoltà connesse con le idee della teoria di Maxwell che non si riferiscono direttamente alla meccanica quantistica e non sono risolte da essa. Potreste dire: «Forse è inutile preoccuparsi di queste difficoltà. Siccome la meccanica quantistica porterà a cambiare le leggi dell’elettrodinamica, si potrebbe aspettare a vedere quali difficoltà ci saranno dopo la modifica». Però quando si combina l’elettromagnetismo con la meccanica quantistica, le difficoltà restano. Non sarà quindi uno spreco di tempo esaminare ora quali siano queste difficoltà. Inoltre, esse sono di grande importanza storica. Per giunta potrete ricavare un senso di soddisfazione dal fatto di essere stati capaci di spingervi abbastanza avanti nella teoria da vedere tutto, compresi i suoi guai. La difficoltà di cui parliamo è associata ai concetti di energia e impulso elettromagnetici, quando si applicano all’elettrone o a qualunque particella carica. I concetti di particella carica semplice e quello di campo elettromagnetico sono in qualche modo incompatibili. Per illustrare la difficoltà cominciamo col fare alcuni esercizi sui concetti di energia e impulso. Dapprima valutiamo l’energia di una particella carica. Mettiamo di scegliere il modello semplice di un elettrone in cui tutta la carica q è distribuita uniformemente sulla superficie di una sfera di raggio a, che potremo considerare nullo nel caso particolare di una carica puntiforme. Calcoliamo ora l’energia del campo elettromagnetico. Se la carica è ferma, non c’è campo magnetico e l’energia per unità di volume è proporzionale al quadrato del campo elettrico. Il modulo del campo elettrico è q/4⇡✏ 0 r 2 , e la densità d’energia è perciò u=
q2 ✏0 2 E = 2 32⇡ 2 ✏ 0 r 4
Per ottenere l’energia totale si deve integrare questa densità in tutto lo spazio. Utilizzando l’elemento di volume 4⇡r 2 dr, l’energia totale, che chiameremo Uel , è data da Uel =
⌅
q2 dr 8⇡✏ 0 r 2
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28.2 • L’impulso del campo di una carica in moto
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Questa espressione si integra facilmente. Il limite inferiore è a e quello superiore è 1, perciò si ha 1 q2 1 Uel = (28.1) 2 4⇡✏ 0 a Se si usa per q la carica dell’elettrone qe e il simbolo e2 per qe2 /4⇡✏ 0 , allora risulta Uel =
1 e2 2 a
(28.2)
Va tutto bene finché non si pone a = 0 per una carica puntiforme: qui sta la grande difficoltà. Siccome l’energia del campo varia come l’inverso della quarta potenza della distanza dal centro, il suo integrale di volume è infinito. C’è una quantità infinita d’energia nel campo che circonda una carica puntiforme. Cos’è che non va se l’energia è infinita? Se tale energia non può uscire ma deve restare lì per sempre, si hanno veramente delle difficoltà nel caso di un’energia infinita? Naturalmente una grandezza che risulta infinita può disturbare, ma quello che realmente conta è se ci sono degli effetti fisici osservabili. Per risolvere questo problema dobbiamo rivolgerci a qualcos’altro oltre che all’energia. Domandiamoci per esempio come varia l’energia quando si muove la carica: se le variazioni saranno infinite, allora saremo nei guai.
28.2
L’impulso del campo di una carica in moto
Mettiamo che un elettrone si muova nello spazio a velocità uniforme, supponendo per il momento che la velocità sia bassa rispetto alla velocità della luce. C’è un impulso associato a questo elettrone in moto (anche se l’elettrone fosse privo di massa prima di ricevere la carica) a causa dell’impulso del campo elettromagnetico. Si può far vedere che l’impulso del campo ha la direzione della velocità v della carica ed è, per piccole velocità, proporzionale a v. Per un punto P alla distanza r dal centro della carica e in una direzione che forma l’angolo ✓ con la + + linea di moto (FIGURA 28.1) il campo elettrico è radiale e, come si è visto, il + + campo magnetico è v ⇥ E/c2 . La densità d’impulso, equazione (27.21), è
P r
E B g
a
g = ✏0 E ⇥ B
+
Essa è diretta obliquamente verso la linea di moto, come si vede in figura, e ha modulo ✏ 0v g = 2 E 2 sen ✓ c I campi sono simmetrici intorno alla linea di moto, perciò quando si integra nello spazio la somma delle componenti trasversali sarà zero; ciò dà un impulso risultante parallelo a v. La componente di g in questa direzione è g sen ✓, che si deve integrare in tutto lo spazio. Come elemento di volume prendiamo un anello il cui piano è perpendicolare a v, come mostra la 2 FIGURA 28.2. Il suo volume è 2⇡r sen ✓ d✓ dr. L’impulso totale è dunque ⌅ ✏0v 2 p= E sen2 ✓ 2⇡r 2 sen ✓ d✓ dr c2
v
+ + +
f
Elettrone sferico (+)
28.1 I campi E e B e la densità dell’impulso g per un elettrone positivo. Per un elettrone negativo, E e B si invertono, ma non g. FIGURA
dr q
r v
Siccome E è indipendente da ✓ (per v ⌧ c ) si può immediatamente integrare in ✓. L’integrale è ⌅
3
sen ✓ d✓ =
⌅
(1
cos2 ✓) d(cos ✓) =
cos ✓ +
cos3 ✓ 3
28.2 L’elemento di volume 2 r 2 sen✓ d✓ dr usato per calcolare l’impulso del campo. FIGURA
368
Capitolo 28 • Massa elettromagnetica
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I limiti per ✓ sono 0 e ⇡, perciò l’integrale in d✓ dà semplicemente un fattore 4/3 e si ottiene ⌅ 8⇡ ✏ 0 v p= E 2 r 2 dr 3 c2 L’integrale (per v ⌧ c ) è quello che abbiamo calcolato poco fa per trovare l’energia; esso è q2 /16⇡ 2 ✏ 20 a, e quindi si ha 2 q2 v p= 3 4⇡✏ 0 ac2 ossia 2 e2 v (28.3) p= 3 ac2 L’impulso del campo – l’impulso elettromagnetico – è proporzionale a v. È proprio quello che si avrebbe per una particella con massa uguale al coefficiente di v. Possiamo perciò chiamare questo coefficiente la massa elettromagnetica, mel , e scrivere mel =
28.3
2 e2 3 ac2
(28.4)
La massa elettromagnetica
Da dove viene la massa? Nelle leggi della meccanica si è supposto che ciascun oggetto «porti» con sé una cosa che chiamiamo massa, il che vuole anche dire che «porta» un impulso proporzionale alla sua velocità. Adesso scopriamo come arrivare a capire che una particella carica porta un impulso proporzionale alla sua velocità. Potrebbe darsi, effettivamente, che la massa non sia che un effetto di elettrodinamica. Finora l’origine della massa non è stata spiegata: nella teoria dell’elettrodinamica abbiamo finalmente una magnifica occasione di capire qualcosa che non si era mai capito prima. Sembra pioverci dal cielo – ma in realtà discende da Maxwell e Poynting – la nozione che qualunque particella carica ha un impulso proporzionale alla sua velocità come effetto di pure influenze elettromagnetiche. Procediamo con moderazione e diciamo per il momento che ci sono due specie di massa e che l’impulso totale di un oggetto potrebbe essere la somma di un impulso meccanico e di un impulso elettromagnetico. L’impulso meccanico è dato dalla massa «meccanica», mmec , moltiplicata per v. Nelle esperienze in cui si misura la massa di una particella andando a vedere quanto impulso possiede o come si deflette secondo una certa orbita, quella che viene misurata è la massa totale. Diremo in generale che l’impulso è dato dalla massa totale mmec + mel moltiplicata per la velocità. Perciò la massa osservata può consistere di due porzioni (o forse più, se si includono altri campi): una porzione meccanica, più una porzione elettromagnetica. Sappiamo che c’è sicuramente una porzione elettromagnetica e per essa possediamo una formula e c’è l’entusiasmante possibilità che la porzione meccanica non esista affatto: che tutta la massa sia elettromagnetica. Vediamo che dimensione dovrebbe avere l’elettrone nel caso che non ci sia massa meccanica. Lo possiamo ricavare ponendo la massa elettromagnetica data dall’equazione (28.4) uguale alla massa osservata me dell’elettrone. Troviamo a=
2 e2 3 me c2
(28.5)
e2 me c2
(28.6)
La grandezza r0 =
è chiamata il «raggio classico dell’elettrone»; ha il valore numerico 2,82 · 10 centomillesimo del diametro di un atomo.
13
cm, circa un
28.4 • La forza di un elettrone su sé stesso
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Perché r 0 piuttosto che a è chiamato raggio dell’elettrone? Perché si potrebbe fare ugualmente bene lo stesso calcolo supponendo altre distribuzioni di carica: la carica potrebbe essere distribuita uniformemente nel volume della sfera oppure diffusa in giro come una palla dai contorni sfumati. Per ogni ipotesi particolare il fattore 2/3 si modificherebbe in qualche altra frazione. Per esempio per una carica distribuita uniformemente nel volume di una sfera i 2/3 vengono sostituiti da 4/5. Piuttosto che discutere quale distribuzione sia corretta, fu deciso di definire r 0 come il raggio «nominale»; le diverse teorie possono quindi fornire i loro coefficienti preferiti. Seguitiamo a sviluppare la teoria elettromagnetica della massa. Il nostro calcolo era valido per v ⌧ c; cosa accade se si passa alle alte velocità? Alcuni primi tentativi condussero a una certa confusione, ma Lorentz capì che alle alte velocità la sfera carica doveva contrarsi per diventare un ellissoide e che i campi dovevano modificarsi in accordo con le formule (26.6) e (26.7) da noi ricavate per il caso relativistico nel capitolo 26. Eseguendo gli integrali per p in questo caso si p trova che per una velocità arbitraria v, l’impulso viene alterato secondo il fattore 1/ 1 v 2 /c2 : p=
2 e2 v p 2 3 ac 1 v 2 /c2
(28.7)
p In altre parole la massa elettromagnetica cresce con la velocità come l’inverso di 1/ 1 v 2 /c2 , una scoperta che fu fatta prima della teoria della relatività. Esperienze furono dapprima proposte per misurare la variazione della massa di una particella con la velocità allo scopo di determinare quanta parte della massa fosse meccanica e quanta fosse elettrica. Si credeva a quei tempi che la parte elettrica dovesse variare con la velocità, mentre quella meccanica non variava. Ma mentre gli esperimenti venivano fatti, anche i teorici erano al lavoro. Presto si sviluppò la teoria della relatività, la quale proponeva che, qualunque fosse l’origine della massa, essa dovesse sempre variare come m0 p
1
v 2 /c2
L’equazione (28.7) fu l’inizio della teoria che fa dipendere la massa dalla velocità. Torniamo ora al calcolo dell’energia del campo che ci ha portato all’equazione (28.2). Secondo la teoria della relatività, l’energia U avrà la massa U/c2 ; l’equazione (28.2) afferma dunque che il campo dell’elettrone deve avere la massa mel0 =
Uel 1 e2 = 2 ac2 c2
(28.8)
che non ha lo stesso valore della massa elettromagnetica mel . Difatti, basta combinare le equazione (28.2) e (28.4) per scrivere 3 Uel = mel c2 4 Questa formula fu scoperta prima della relatività e quando Einstein e altri cominciarono a capire che si deve sempre avere U = mc2 , ci fu una gran confusione.
28.4
La forza di un elettrone su sé stesso
La discrepanza fra le due formule per la massa elettromagnetica è particolarmente fastidiosa perché abbiamo accuratamente provato che la teoria dell’elettrodinamica è coerente col principio di relatività. E tuttavia la teoria della relatività esige senza dubbio alcuno che l’impulso deve equivalere all’energia moltiplicata per v/c2 . Siamo dunque nei pasticci; dobbiamo aver fatto uno sbaglio. Non si è fatto uno sbaglio algebrico nei calcoli, ma abbiamo trascurato qualcosa. Deducendo le equazioni per l’energia e l’impulso si sono ammesse le leggi di conservazione. Si è ammesso di aver tenuto conto di tutte le forze e che qualsiasi lavoro fatto o qualsiasi impulso impartito da altri meccanismi «non-elettrici» era anch’esso incluso. Però, se abbiamo
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Capitolo 28 • Massa elettromagnetica
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una sfera di carica, le forze elettriche sono tutte repulsive e l’elettrone tenderebbe a esplodere. Siccome nel sistema ci sono delle forze non equilibrate, si può incorrere in ogni sorta di errore nelle leggi che mettono in rapporto energia e impulso. Per avere un quadro coerente si deve immaginare che qualcosa tenga insieme l’elettrone. Le cariche devono essere trattenute sulla sfera da qualche sorta di elastico, qualcosa che impedisca alle cariche di schizzar via. Fu fatto notare da Poincaré che gli elastici – o quel che sia che tiene insieme l’elettrone – devono essere inclusi nei calcoli dell’energia e dell’impulso. Per questa ragione le forze extra, non-elettriche, sono anche conosciute col nome più elegante di «tensioni di Poincaré». Se queste forze extra sono incluse nei calcoli, le masse ottenute nei due procedimenti cambiano (in modi che dipendono dai dettagli delle ipotesi). E i risultati sono coerenti con la relatività; cioè la massa che si ricava dal calcolo dell’impulso è la stessa di quella che si ricava dal calcolo dell’energia. Però tutt’e due contengono due contributi: una massa elettromagnetica e un contributo delle tensioni di Poincaré. Soltanto quando si sommano le due cose si ottiene una teoria coerente. È impossibile perciò ottenere che tutta la massa sia elettromagnetica nel modo che si sperava. Non viene fuori una teoria legittima se non abbiamo altro che l’elettrodinamica: bisogna aggiungerci qualcos’altro. Comunque si vogliano chiamare, «elastici» o «tensioni di Poincaré» o altrimenti, ci devono essere nella natura altre forze per costituire una teoria coerente di questo tipo. È chiaro che dal momento in cui si devono introdurre delle forze nell’interno dell’elettrone, la bellezza dell’idea comincia a sparire. Le cose diventano molto complicate. Si vorrebbe sapere: quanto forti sono queste tensioni? Come vibra un elettrone? È capace di oscillare? Quali sono le sue proprietà interne? E così via. Potrebbe essere che un elettrone abbia delle proprietà interne complicate. Se si facesse una teoria dell’elettrone su queste linee, essa prevederebbe delle strane proprietà, come dei modi oscillatori che a quanto sembra non sono stati osservati. Diciamo «a quanto sembra» perché osserviamo una quantità di cose in natura alle quali non riusciamo tuttora a dare un significato. Può darsi che un giorno si scopra che una delle cose che oggi non si capiscono (per esempio il muone) possa effettivamente essere spiegata come un’oscillazione delle tensioni di Poincaré. Non sembra probabile, ma nessuno può dirlo con certezza. Ci sono tante cose riguardo alle particelle fondamentali che tuttora non capiamo. Sia come sia, la struttura complessa suggerita da questa teoria non funziona e il tentativo di spiegare la massa in base all’elettromagnetismo – almeno nel modo che abbiamo illustrato – ci ha condotti in un vicolo cieco. Vorremmo ragionare ancora un po’ sul perché si dice che c’è una massa quando l’impulso del campo è proporzionale alla velocità. Facile! La massa è il coefficiente che lega l’impulso alla velocità. Si può però considerare la massa in un’altra maniera: una particella ha una massa se si deve esercitare una forza per farla accelerare. Perciò ci può aiutare a capire le cose, se esaminiamo un po’ più da vicino da dove hanno origine le forze. Come facciamo a sapere che ci deve essere una forza? Lo sappiamo perché abbiamo dimostrato la legge di conservazione dell’impulso per i campi. Se abbiamo una particella carica e la spingiamo per un po’, si produce un certo impulso nel campo elettromagnetico: in qualche modo, dell’impulso si è riversato nel campo; perciò ci deve essere stata una forza che ha spinto l’elettrone per metterlo in movimento, una forza in più di quella richiesta dalla sua inerzia meccanica e dovuta alla sua interazione elettromagnetica. E una forza corrispondente deve agire sul «propulsore». Ma da dove viene questa forza?
28.3 L’auto-forza su un elettrone che accelera non è nulla, a causa del ritardo. (Con dF intendiamo la forza su un elemento di superficie da; con d2 F intendiamo la forza esercitata sull’elemento da da parte della carica che si trova sull’elemento di superficie da .) FIGURA
–
–
dF
–
–
–
– –
–
–
d2F
–
–
–
x¨
dF
x¨ –
– –
–
28.5 • Tentativi di modificare la teoria di Maxwell
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Il quadro è pressapoco questo. Possiamo immaginare l’elettrone come una sfera carica. Quando è in quiete, ciascun elemento della carica respinge elettricamente ogni altro, ma le forze si fanno equilibrio a coppie e così non c’è complessivamente nessuna forza (FIGURA 28.3a.] Però quando l’elettrone viene accelerato, le forze non rimangono in equilibrio, per il fatto che gli effetti elettromagnetici richiedono un certo tempo per trasmettersi da un elemento all’altro. Per esempio la forza sull’elemento ↵ in FIGURA 28.3b da parte di un elemento che si trova dalla parte opposta dipende dalla posizione di a un istante anteriore, come indicato. Tanto il modulo quanto la direzione della forza dipendono dal moto della carica. Se la carica sta accelerando, le forze sulle varie parti dell’elettrone potrebbero essere come indicato in FIGURA 28.3c. Sommate, queste forse non si compensano. Si compenserebbero a velocità uniforme, sebbene a prima vista sembri che il ritardo debba condurre a una forza non compensata anche per una velocità uniforme. Però risulta che non c’è una forza complessiva a meno che l’elettrone non venga accelerato. Quando c’è un’accelerazione, se si considerano le forze fra le varie parti dell’elettrone, si trova che azione e reazione non sono esattamente uguali e che l’elettrone esercita una forza su se stesso che tende a fermare l’accelerazione. L’elettrone trattiene sé stesso per i tiranti degli stivali. È possibile, ma difficile, calcolare questa forza di autoreazione; non vogliamo però entrare qui in un calcolo così complicato. Diremo qual è il risultato per il caso particolare – relativamente non tanto complesso – del moto in una dimensione, per esempio la x. Allora l’auto-forza può scriversi come una serie. Il primo termine della serie dipende dall’accelerazione x, ¨ il secondo è ... (1) x proporzionale a e così via . Il risultato è F=↵
e2 x¨ ac2
2 e2 ... x+ 3 c3
e2 a .... x + ... c4
(28.9)
dove ↵ e sono coefficienti dell’ordine di 1. Il coefficiente ↵ del termine in x¨ dipende da quale distribuzione di carica si postula; se la carica è distribuita uniformemente sulla sfera, allora è ↵ = 2/3. Dunque c’è un termine proporzionale all’accelerazione che varia come l’inverso del raggio a dell’elettrone e si accorda esattamente col valore che si è ottenuto nell’equazione (28.4) per mel . Se si sceglie una diversa distribuzione di carica, così che ↵ cambi, la frazione 2/3 ... nell’equazione (28.4) cambierebbe nello stesso modo. Il termine in x è indipendente dalla scelta del raggio a e anche da quella della distribuzione di carica; il suo coefficiente è 2/3 in ogni caso. Il termine successivo è proporzionale al raggio a e il suo coefficiente dipende dalla distribuzione di carica. Noterete che se si fa tendere a zero il raggio a dell’elettrone l’ultimo termine va a zero (come pure tutti quelli che seguirebbero); il secondo termine resta costante, ma il primo – la massa elettromagnetica – va all’infinito. E si può vedere che questo infinito viene fuori a causa della forza di una parte dell’elettrone su un’altra, cioè perché abbiamo ammesso quello che forse è una cosa stupida: la possibilità di un elettrone «puntiforme» che agisce su sé stesso.
28.5
Tentativi di modificare la teoria di Maxwell
Vorremo ora discutere come potrebbe essere possibile modificare la teoria di Maxwell dell’elettrodinamica così che l’idea dell’elettrone come una semplice carica puntiforme possa essere conservata. Molti tentativi sono stati fatti e alcune teorie sono state perfino capaci di aggiustare le cose in modo che tutta la massa dell’elettrone fosse elettromagnetica; ma tutte queste teorie sono morte. È però sempre interessante discutere alcune delle possibilità che sono state suggerite, per rendersi conto degli sforzi della mente umana. Abbiamo cominciato la teoria dell’elettricità parlando delle interazioni di una carica con un’altra. Poi abbiamo costruito una teoria di queste cariche interagenti e abbiamo concluso con una teoria dei campi. Ci crediamo talmente, da accettarne le previsioni riguardo alla forza di una porzione dell’elettrone su un’altra porzione. Forse tutta la difficoltà sta nel fatto che gli elettroni non agiscono su sé stessi; forse stiamo facendo un’estrapolazione troppo grande nel passare dalle (1)
... Usiamo la notazione: x˙ = dx/dt, x¨ = d2 x/dt 2 , x = d3 x/dt 3 , ecc.
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interazioni fra elettroni distinti all’idea che l’elettrone interagisca con sé stesso. Perciò sono state proposte alcune teorie nelle quali la possibilità che un elettrone interagisca con sé stesso viene esclusa. Allora non c’è più l’infinito dovuto all’auto-interazione. Inoltre non c’è più alcuna massa elettromagnetica associata alla particella; tutta la massa torna a essere meccanica. Ci sono però nuove difficoltà nella teoria. Dobbiamo dire subito che tali teorie richiedono una modifica dell’idea di campo elettromagnetico. Ricorderete che abbiamo detto fin dal principio che la forza su una particella in un punto qualunque era determinata da due sole grandezze: E e B. Se abbandoniamo l’idea di «auto-forza» questo non può essere vero, perché se c’è un elettrone in un certo punto, la forza non è data da E totale e B totale, ma soltanto da quelle parti di E e B dovute ad altre cariche. Perciò si deve sempre tener conto di quanta parte di E e B è dovuta alla carica sulla quale si sta calcolando la forza e quanta è dovuta alle altre cariche. Questo rende la teoria molto più complessa, ma ci libera dalla difficoltà dell’infinito. Perciò si può, se si vuole, dire che non esiste nulla di simile a un elettrone che agisce su sé stesso e buttar via tutto il gruppo delle forze espresse dall’equazione (28.9). Però in questo modo si è buttato via il bambino insieme all’acqua sporca! Perché il secondo termine nell’equazione ... (28.9), il termine che contiene x , ci vuole. Questa forza fa qualcosa di molto preciso: scartandola si è di nuovo nei guai. Quando si accelera una carica, essa irradia onde elettromagnetiche e perciò perde energia. Perciò per accelerare una carica si deve esigere che la forza sia più grande che per accelerare un oggetto neutro avente la stessa massa; altrimenti l’energia non sarebbe conservata. Il lavoro per unità di tempo fatto accelerando una carica, deve essere uguale alla corrispondente perdita d’energia per irradiazione. S’è parlato di questo effetto in precedenza: esso è chiamato resistenza di radiazione. Dobbiamo ancora risolvere il problema: la forza extra, contro la quale si deve compiere questo lavoro, da dove viene? Quando una grossa antenna irradia, le forze derivano dall’effetto di una parte della corrente dell’antenna su un’altra parte. Per un elettrone singolo che irradia in uno spazio altrimenti vuoto, sembra esserci soltanto un’origine da dove la forza possa venire: l’azione di una parte dell’elettrone su un’altra parte. Già nel cap. 32 del vol. 1 abbiamo trovato che una carica oscillante irradia un’energia per unità di tempo dW 2 e2 ( x) ¨2 = 3 dt 3 c
(28.10)
Vediamo cosa si ottiene per il lavoro per unità di tempo fatto su un elettrone contro la forza auto-frenante data dall’equazione (28.9). Il lavoro per unità di tempo è la forza per la velocità, ossia F x: ˙ dW e2 2 e2 ... x x˙ + ... = ↵ 2 x¨ x˙ (28.11) dt 3 c3 ac Il primo termine è proporzionale a d x˙ 2 /dt e perciò corrisponde all’aumento per unità di tempo dell’energia cinetica (1/2) mv 2 associata alla massa elettromagnetica. Il secondo termine dovrebbe corrispondere alla potenza irradiata data dall’equazione (28.10); ma è diverso. La discrepanza viene dal fatto che il termine nell’equazione (28.11) è vero in generale, mentre l’equazione (28.10) è giusta soltanto per una carica oscillante. Si può far vedere che i due termini sono equivalenti se il moto della carica è periodico. Per far questo riscriviamo il secondo termine dell’equazione (28.11) nella forma 2 e2 d 2 e2 ( x ˙ x) ¨ + ( x) ¨2 3 c3 dt 3 c3 che è una pura trasformazione algebrica. Se il moto dell’elettrone è periodico, la grandezza x˙ x¨ torna periodicamente allo stesso valore, perciò se prendiamo la media della sua derivata temporale otteniamo zero. Il secondo termine invece è sempre positivo (è un quadrato) perciò la sua media è anch’essa positiva. Questo termine dà il lavoro complessivo fatto ed è proprio uguale all’equazione (28.10). ... Il termine in x dell’auto-forza ci vuole perché si abbia la conservazione dell’energia nei sistemi che irradiano e non può essere scartato. Fu infatti uno dei trionfi di Lorentz il mostrare
28.5 • Tentativi di modificare la teoria di Maxwell
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che c’è una tale forza e che essa viene dall’azione dell’elettrone su sé stesso. Dobbiamo credere ... all’idea dell’azione dell’elettrone su sé stesso e ci occorre il termine in x . Il problema è di come avere quel termine senza avere il primo termine nell’equazione (28.9) che dà tutti i guai: ma quel come non lo conosciamo. Vedete che la teoria classica dell’elettrone si è andata a ficcare in una situazione difficile. Ci sono stati diversi altri tentativi di modificare le leggi allo scopo di mettere a posto le cose. Una strada, proposta da Born e Infeld, è di cambiare le equazioni di Maxwell in un modo complicato, così che esse non risultano più lineari. Allora l’energia e l’impulso elettromagnetici si possono far riuscire finiti. Ma le leggi suggerite prevedono dei fenomeni che non sono stati mai osservati. La teoria, inoltre, è afflitta da un’altra difficoltà sulla quale torneremo più avanti, che è comune a tutti i tentativi di evitare i guai che abbiamo descritto. La seguente singolare possibilità fu suggerita da Dirac. Egli disse: ammettiamo che l’elettrone agisca su sé stesso per via del secondo termine dell’equazione (28.9), ma non del primo. Per liberarsi dell’uno ma non dell’altro ebbe poi un’idea ingegnosa. Vedete, disse, si fece un’ipotesi particolare quando si accettarono soltanto le onde ritardate come soluzioni delle equazioni di Maxwell; se si prendessero invece le onde anticipate si otterrebbe qualcosa di diverso. La formula per l’auto-forza sarebbe F=↵
2 e2 ... e2 x+ x ¨ + 3 c3 ac2
e2 a .... x + ... c4
(28.12)
Questa equazione è del tutto simile all’equazione (28.9) eccetto che per il segno del secondo termine – e di alcuni termini superiori – della serie. (Il cambiamento da onde ritardate a onde anticipate vuol dire cambiare il segno del ritardo, ciò che – non è difficile vederlo – equivale a cambiare il segno di t dappertutto. Il solo effetto sull’equazione (28.9) è quello di cambiare il segno di tutte le derivate temporali d’ordine dispari.) Perciò, propose Dirac, poniamo la nuova regola che l’elettrone agisce su sé stesso secondo la metà della differenza dei campi ritardati e anticipati che esso produce. La differenza delle equazioni (28.9) e (28.12) divisa per due è F=
2 e2 ... x + termini di grado superiore 3 c3
In tutti i termini di grado superiore il raggio a figura al numeratore elevato a un certo esponente positivo. Perciò quando si passa al limite per una carica puntiforme si ottiene soltanto il primo termine, che è quello che ci vuole. In questo modo Dirac otteneva la forza dovuta alla resistenza di radiazione, non accompagnata da forza d’inerzia. Non si ha massa elettromagnetica e la teoria classica si salva, ma al prezzo di un’ipotesi arbitraria riguardo all’auto-forza. L’arbitrarietà di questa ipotesi extra di Dirac fu tolta – almeno fino a un certo punto – da Wheeler e Feynman, i quali hanno proposto una teoria ancora più strana. Essi suggeriscono che le cariche puntiformi interagiscono soltanto con altre cariche, ma l’interazione avviene per metà per mezzo di onde anticipate e per metà per mezzo di onde ritardate. In modo molto sorprendente, risulta che nella maggior parte dei casi non si vede effetto alcuno da parte delle onde anticipate; esse però hanno proprio l’effetto di produrre la forza di reazione della radiazione. La resistenza di radiazione non è dovuta all’azione dell’elettrone su sé stesso, ma al seguente caratteristico effetto. Quando un elettrone viene accelerato all’istante t, esso agisce su tutte le altre cariche dell’universo a un istante ulteriore t 0 = t + r/c (dove r è la distanza dall’altra carica) per effetto delle onde ritardate. Però queste ultime cariche reagiscono sull’elettrone originario per mezzo delle loro onde anticipate che arriveranno al tempo t 00 uguale a t 0 meno r/c, che coincide naturalmente con t. (Esse reagiscono anche con le loro onde ritardate, ma ciò corrisponde semplicemente alle normali onde «riflesse».) La combinazione delle onde anticipate con quelle ritardate significa che all’istante in cui viene accelerata, una carica oscillante risente una forza da parte di tutte le cariche che «dovranno» assorbire le onde da essa irradiate. Vedete in quali strettoie si può incappare nel tentare di arrivare a una teoria dell’elettrone! Illustreremo ora un altro genere di teoria, per far vedere le cose che si escogitano quando ci si trova inguaiati. Si tratta di un’altra modifica delle leggi dell’elettrodinamica, proposta da Bopp. Come ben capite, una volta che si sia deciso di cambiare le equazioni dell’elettromagnetismo,
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si può prendere qualunque punto si vuole come punto di partenza. Si può cambiare la legge di forza per un elettrone, oppure si possono cambiare le equazioni di Maxwell (come si è visto negli esempi descritti), oppure si può cambiare qualcos’altro. Una possibilità è quella di cambiare le formule che danno i potenziali in funzione delle cariche e delle correnti. Una delle formule viste diceva che i potenziali in un certo punto sono determinati dalla densità di corrente (o di carica) in ogni altro punto a un istante anteriore. Usando per i potenziali la notazione quadrivettoriale, si scrive ⌅ jµ (2, t r 12 /c) 1 Aµ (1, t) = dV2 (28.13) 2 r 12 4⇡✏ 0 c L’idea di Bopp, nella sua bella semplicità, è questa: forse il guaio sta nel fattore 1/r, nell’integrale. Supponiamo di partire facendo la sola ipotesi che il potenziale in un punto dipenda dalla densità di carica in ogni altro punto secondo una certa funzione – chiamiamola f (r 12 ) – della distanza fra i punti. Il potenziale totale nel punto (1) sarà allora dato dall’integrale su tutto lo spazio di jµ moltiplicato per questa funzione: ⌅ Aµ (1, t) = jµ (2, t r 12 /c) f (r 12 ) dV2 Questo è tutto. Niente equazioni differenziali, nient’altro. Ossia, ancora una cosa: chiediamo che il risultato sia relativisticamente invariante. Perciò come «distanza» dobbiamo prendere la «distanza» invariante fra due punti dello spazio-tempo. Il quadrato di questa distanza (a meno di un segno che non interessa) è s212 = c2 (t 1
t 2 )2
2 r 12
= c2 (t 1
t 2 )2
(x 1
x 2 )2
(y1
y2 )2
z 2 )2
(z1
(28.14)
Perciò per avere una teoria relativisticamente invariante si dovrà prendere una funzione del valore assoluto di s12 , o – ciò che fa lo stesso – una funzione di s212 . Perciò la teoria di Bopp è che si abbia ⌅ Aµ (1, t 1 ) = jµ (2, t 2 )F(s212 ) dV2 dt 2 (28.15)
F(s2)
(L’integrale deve essere preso, naturalmente, nel volume quadridimensionale dt 2 dx 2 dy2 dz2 .) Tutto quello che resta è di scegliere un’adatta funzione per F. Su F si ammette soltanto una cosa: che sia molto piccola eccetto quando il suo argomento è quasi nullo; così che il grafico di F sarebbe una curva simile a quella di FIGURA 28.4. È una curva stretta, con un’area finita, centrata nel punto s2 = 0 e con una larghezza che all’incirca si può dire che è a2 . Si può dire, grossolanamente, che quando si calcola il potenziale nel punto 2 differisce da zero (1), solo quei punti (2) per i quali s212 = c2 (t 2 t 1 )2 r 12 2 per meno di ±a producono un effetto apprezzabile. Si può indicare questo dicendo che F è importante solo quando si ha
a2
s2
0 (a)
s212 = c2 (t 1
r12 a 2 (b)
28.4
La funzione F (s2 ) utilizzata nella teoria non-locale di Bopp. FIGURA
1
t 2 )2
2 r 12 ⇡ ±a2
(28.16)
Si può rendere tutto ciò più matematico, se si vuole, ma l’idea è questa. Supponiamo ora che a sia piccolissimo in confronto con le dimensioni degli oggetti ordinari, come motori, generatori e simili, così che nei problemi usuali si abbia, r 12 a. Allora l’equazione (28.16) dice che le cariche contribuiscono all’integrale che appare in (28.15) soltanto quando t 1 t 2 cade nel piccolo intervallo definito da c(t 1
q 2 ± a2 = r t 2 ) ⇡ r 12 12
s
1±
a2 2 r 12
28.5 • Tentativi di modificare la teoria di Maxwell
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2 ⌧ 1, la radice quadrata può venire approssimata con 1 ± a 2 /2r 2 , perciò si ha Siccome è a2 /r 12 12
t1
t2 =
r 12 * a2 r 12 a2 1± 2 += ± c , c 2r 12 c 2r 12 -
Qual è il significato di ciò? Il risultato dice che nell’integrale di Aµ i soli tempi t 2 che contano sono quelli che differiscono da t 1 , cioè dal tempo al quale si vuole il potenziale, per il ritardo r 12 /c, con una correzione trascurabile fintanto che è r 12 a. In altre parole, la teoria di Bopp tende alla teoria di Maxwell – fintanto che si è a grande distanza da qualsiasi carica singola – nel senso che essa dà gli effetti di onda ritardata. Si può infatti vedere approssimativamente che cosa potrà dare l’integrale dell’equazione (28.15). Se si integra dapprima rispetto a t 2 da 1 a +1, tenendo r 12 fisso, allora anche s212 va da 1 a +1. L’integrale verrà tutto per valori di t 2 che cadono in un piccolo intervallo di larghezza t 2 = 2a2 /2r 12 c, centrato nel punto t 1 r 12 /c. Mettiamo che la funzione F(s2 ) abbia il valore K nel punto s2 = 0; allora l’integrale rispetto a t 2 dà approssimativamente K jµ t 2 , ossia K a 2 jµ c r 12 Si deve naturalmente prendere il valore di jµ all’istante t 2 = t 1 r 12 /c, perciò l’equazione (28.15) diventa: ⌅ jµ (2, t 1 r 12 /c) K a2 Aµ (1, t 1 ) = dV2 c r 12 Se scegliamo 1 K= 4⇡✏ 0 ca2 si ritrova proprio la soluzione delle equazioni di Maxwell corrispondente al potenziale ritardato, con la dipendenza da 1/r automaticamente inclusa! E tutto quanto è venuto fuori dalla semplice affermazione che il potenziale in un punto dello spazio-tempo dipende dalla densità di corrente in tutti gli altri punti dello spazio-tempo, ma con un fattore di peso che è una certa funzione molto stretta della distanza quadridimensionale fra i due punti. Ancora, questa teoria prevede una massa elettromagnetica finita dell’elettrone, mentre energia e massa mostrano la giusta relazione secondo la teoria della relatività. Devono farlo perché la teoria è relativisticamente invariante in partenza e tutto sembra che vada bene. C’è però un’obiezione fondamentale a questa teoria e a tutte le altre che abbiamo illustrato. Tutte le particelle che conosciamo obbediscono alle leggi della meccanica quantistica, perciò si deve fare una modifica quantistica all’elettrodinamica. La luce si comporta come un insieme di fotoni: non segue al 100 per cento la teoria di Maxwell. Dunque la teoria elettrodinamica deve essere cambiata. Si è già accennato che poteva essere tempo perso far tanta fatica per mettere a posto la teoria classica, perché poteva succedere che nell’elettrodinamica quantistica le difficoltà sparissero o potessero essere risolte in altra maniera. Però le difficoltà non scompaiono in elettrodinamica quantistica e questa è una delle ragioni per cui tanti sforzi sono stati dedicati a cercare di spianare le difficoltà classiche, sperando che se si potevano spianare queste e poi fare le modifiche quantistiche, tutto sarebbe andato a posto. La teoria di Maxwell presenta ancora difficoltà, dopo che si sono fatte le modifiche quantistiche. Gli effetti quantistici portano dei cambiamenti: la formula per la massa risulta modificata e la costante ~ appare, ma il risultato riesce ancora infinito, a meno di non tagliare in qualche modo una certa integrazione, proprio come si dovettero arrestare gli integrali classici al valore r = a. Inoltre, il risultato dipende da come si arrestano gli integrali. Sfortunatamente non possiamo farvi vedere qui che in realtà le difficoltà sono fondamentalmente le stesse, perché abbiamo svolto troppo poco la teoria della meccanica quantistica e ancor meno l’elettrodinamica quantistica. Perciò dovete credermi sulla parola quando vi dico che la teoria quantizzata dell’elettrodinamica di Maxwell dà una massa infinita per un elettrone puntiforme. Risulta però che nessuno ha avuto successo nel costruire una teoria quantistica coerente a partire da nessuna delle teorie modificate. Le idee di Born e Infeld non sono mai state convertite
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soddisfacentemente in una teoria quantistica e lo stesso si può dire delle onde anticipate e ritardate di Dirac o di Wheeler e Feynman e della teoria di Bopp. Perciò non si conosce oggi nessuna soluzione di questo problema. Non sappiamo come costruire una teoria coerente, che includa la meccanica quantistica, la quale non dia un risultato infinito per l’energia intrinseca dell’elettrone o di qualunque carica puntiforme. E nello stesso tempo non c’è una teoria soddisfacente che descriva una carica non puntiforme. È un problema insoluto. Se mai decideste di precipitarvi a fare una teoria nella quale l’azione di un elettrone su sé stesso è completamente eliminata (così che la massa elettromagnetica perda significato) per poi trasformare questa teoria in una teoria quantistica, bisogna che vi avverta che sicuramente vi troverete in difficoltà. C’è una precisa evidenza sperimentale dell’esistenza dell’inerzia elettromagnetica – c’è un’evidenza sperimentale che una parte della massa delle particelle cariche ha un’origine elettromagnetica. Si usava dire nei vecchi libri che finché, ovviamente, la natura non ci regalerà due particelle – una neutra e l’altra carica, ma altrimenti uguali – non saremo mai ingrado di dire di una massa quanta è elettromagnetica e quanta meccanica. Ma si dà il caso che la natura è stata così gentile da regalarci proprio tali particelle così che, confrontando la massa osservata per quella carica con la massa osservata per quella neutra, possiamo dire se c’è una massa elettromagnetica. Per esempio, ci sono i neutroni e i protoni. Essi interagiscono con delle forze formidabili – le forze nucleari – la cui origine è sconosciuta. Tuttavia, come abbiamo già detto, le forze nucleari hanno una notevole proprietà: nei loro confronti neutroni e protoni sono esattamente la stessa cosa. Le forze nucleari fra neutrone e neutrone, neutrone e protone, protone e protone sono – per quanto se ne può dire – tutte identiche. Solo le piccole forze elettromagnetiche sono diverse; elettricamente il protone e il neutrone sono diversi come il giorno e la notte. Questo è proprio quello che si voleva. Ecco due particelle identiche dal punto di vista delle interazioni forti, ma diverse elettricamente. Ed esse hanno una piccola differenza delle masse. La differenza di massa fra il protone e il neutrone, espressa come la differenza delle energie a riposo mc2 misurate in Mev, è circa 1,3 MeV, cioè circa 2,6 volte la massa a riposo dell’elettrone. La teoria classica prevederebbe dunque un raggio che è circa fra 1/3 e 1/2 del raggio classico dell’elettrone, ossia circa 10 13 cm. Naturalmente si dovrebbe in realtà usare la teoria quantistica, ma per un caso strano, tutte le costanti (2⇡, ~ ecc.) risultano combinate in modo che la teoria quantistica dia suppergiù lo stesso raggio della teoria classica. L’unico guaio è che il segno è sbagliato! Il neutrone è più pesante del protone. La natura ci ha dato anche diverse altre coppie, o tripletti di particelle TABELLA 28.1 Masse delle particelle. che sembrano essere esattamente le stesse eccetto che per la carica elettrica. Esse interagiscono con protoni e neutroni per mezzo delle cosiddette Carica Massa ∆m Particella interazioni «forti» caratteristiche delle forze nucleari. In tali interazioni le (elettronica) (MeV) (MeV) particelle di una data specie – mettiamo i mesoni – si comportano sotto tutti gli aspetti come un oggetto unico, eccetto che per la loro carica elet0 n (neutrone) 939,5 +1 p (protone) 938,2 –1,3 trica. Nella TABELLA 28.1 diamo una lista di tali particelle, insieme alle loro masse misurate. I mesoni carichi – positivi o negativi – hanno una massa 0 (mesone ) 135,0 di 139,6 MeV, ma il mesone neutro è di 4,6 MeV più leggero. Crediamo +4,6 ±1 139,6 che questa differenza di massa sia elettromagnetica; essa corrisponderebbe a un raggio della particella di 3 o 4 in 10 14 cm. Dalla tabella vedete che K (mesone K) 0 497,8 ±1 –3,9 493,9 le differenze di massa delle altre particelle sono usualmente dello stesso ordine. (sigma) 0 1191,5 La grandezza delle particelle può essere determinata con altri meto+1 –2,1 1189,4 di, per esempio dai diametri che sembrano avere nelle collisioni di alta +4,5 –1 1196,0 energia. Perciò la massa elettromagnetica sembra genericamente andare ∆m = (massa della particella carica) – (massa della particella neutra) d’accordo con la teoria elettromagnetica se si arrestano gli integrali dell’energia del campo allo stesso raggio ottenuto con questi altri metodi. Questa è la ragione per cui crediamo che quelle differenze rappresentino effettivamente delle masse elettromagnetiche. Senza dubbio vi preoccupano i diversi segni delle differenze di massa indicate sulla tavola. È facile capire perché le particelle cariche dovrebbero essere più pesanti di quelle neutre. Ma cosa dire di quelle coppie come il protone e il neutrone in cui le masse misurate si comportano nel modo opposto? Ebbene, quel che succede è che queste particelle sono complesse e il calcolo
della loro massa elettromagnetica deve essere più minuzioso. Per esempio, benché il neutrone non abbia una carica complessiva, esso però ha una distribuzione interna di carica: è soltanto la carica complessiva che è zero. Infatti crediamo che il neutrone si presenti – almeno ogni tanto – come un protone con un mesone ⇡ negativo che gli si distribuisce intorno secondo una «nuvola», come mostra la FIGURA 28.5. Sebbene il neutrone sia «neutro», perché la sua carica totale è nulla, esiste tuttavia dell’energia elettromagnetica (per esempio la particella possiede un momento magnetico), perciò non è facile dire quale sia il segno della differenza di massa elettromagnetica, in mancanza di una teoria particolareggiata della struttura interna. Qui vogliamo soltanto sottolineare i punti seguenti:
Mesone negativo +
Protone
28.5 Un neutrone può esistere, a volte, come un protone circondato da un mesone negativo. FIGURA
1 la teoria elettromagnetica predice l’esistenza di una massa elettromagnetica, ma al tempo stesso fallisce miseramente perché non ci dà una teoria coerente, e questo resta vero anche con le modifiche quantistiche; 2 l’idea di una massa elettromagnetica trova conferma nell’esperienza; 3 tutte queste masse sono a grandi linee le stesse di quella dell’elettrone. Perciò si torna di nuovo all’idea originaria di Lorentz: forse tutta la massa dell’elettrone è puramente elettromagnetica, forse quegli 0,511 MeV sono interamente dovuti all’elettrodinamica. È così o no? Non abbiamo una teoria e perciò non lo possiamo dire. Dobbiamo ricordare un ulteriore elemento d’informazione che è il più irritante. C’è un’altra particella nell’universo chiamata muone, o mesone µ, che per quanto se ne può dire non differisce in modo alcuno da un elettrone eccetto che per la massa. Sotto ogni aspetto si comporta come un elettrone: interagisce coi neutrini e col campo elettromagnetico e non manifesta forze nucleari. Non fa nulla di diverso da quello che fa un elettrone, o almeno nulla che non si possa capire come una pura conseguenza della sua massa più elevata (206,77 volte la massa dell’elettrone). Perciò quando qualcuno finalmente arriverà a spiegare la massa dell’elettrone gli si presenterà l’enigma dell’origine della massa del muone. Come mai? Ma perché qualunque cosa faccia un elettrone, il muone fa lo stesso: perciò la massa dovrebbe risultare la stessa. Ci sono quelli che credono ciecamente all’idea che il muone e l’elettrone siano la stessa particella e che nella teoria finale la formula per la massa sarà un’equazione quadratica con due radici, una per ciascuna particella. Ci sono anche quelli che suggeriscono che si tratti di un’equazione trascendente con un infinito numero di radici e che si dedicano a cercare d’indovinare quali debbano essere le masse delle altre particelle della serie e perché queste particelle per ora non siano state scoperte.
28.6
Il campo delle forze nucleari
Vorremmo fare alcune ulteriori osservazioni su quella parte della massa delle particelle nucleari che non è elettromagnetica. Da dove viene quest’altra grande frazione della massa? Oltre a quelle elettrodinamiche, ci sono altre forze – come quelle nucleari – che hanno le loro teorie dei campi, benché nessuno sappia se le attuali teorie siano giuste. Anche queste teorie prevedono un’energia del campo, che dà alle particelle nucleari un termine di massa analogo alla massa elettromagnetica; lo si potrebbe chiamare «massa del campo mesonico». È verosimilmente molto grande, perché le forze sono grandi e questa è un’origine possibile della massa delle particelle pesanti. Ma le teorie del campo mesonico sono in uno stadio molto rudimentale. Anche con la teoria dell’elettromagnetismo, che è ben sviluppata, ci siamo dovuti fermare poco dopo la partenza nello spiegare la massa elettronica. Con la teoria dei mesoni dobbiamo rinunziare del tutto.(2) Possiamo fermarci un momento per delineare la teoria dei mesoni, a causa delle sue interessanti relazioni con l’elettrodinamica. In elettrodinamica il campo può venir descritto per (2)
377
28.6 • Il campo delle forze nucleari
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In questo paragrafo vengono usati nel testo inglese termini tratti dal gioco del baseball. (N.d.T.)
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Capitolo 28 • Massa elettromagnetica
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mezzo di un quadripotenziale che soddisfa all’equazione ⇤2 Aµ = sorgenti Ora si è visto che porzioni del campo possono essere irradiate nello spazio così da esistere separatamente dalle sorgenti. Si tratta dei fotoni della luce ed essi sono descritti da una equazione differenziale senza sorgenti: ⇤2 Aµ = 0 Si è pensato che il campo delle forze nucleari dovesse avere i propri «fotoni» – presumibilmente si tratterebbe dei mesoni ⇡ – e che questi dovrebbero essere descritti da un’analoga equazione. (A causa della debolezza del cervello umano, non riusciamo apensare a qualcosa di veramente nuovo; perciò ragioniamo per analogia con ciò che conosciamo.) Dunque l’equazione dei mesoni potrebbe essere ⇤2 = 0 dove potrebbe essere un altro quadrivettore o forse uno scalare. Si trova che il pione non ha polarizzazione, perciò dovrebbe essere uno scalare. Con la semplice equazione ⇤2 = 0, il campo mesonico varierebbe con la distanza dalla sorgente come 1/r 2 , proprio come il campo elettrico. Sappiamo però che le forze nucleari hanno un raggio d’azione molto più corto, perciò l’equazione semplice non può andare. C’è un modo di cambiare le cose senza distruggere l’invarianza relativistica: si può aggiungere o sottrarre al dalembertiano una costante moltiplicata per . Perciò Yukawa suggerì che i quanti liberi del campo nucleare potessero obbedire all’equazione ⇤2
µ2 = 0
(28.17)
dove µ2 è una costante, cioè uno scalare invariante. (Siccome ⇤2 è un operatore differenziale scalare in quattro dimensioni, la sua invarianza è inalterata se gli aggiungiamo un altro scalare.) Vediamo cosa dà l’equazione (28.17) per le forze nucleari quando le cose non cambiano col tempo. Si vuole una soluzione dell’equazione r2
µ2 = 0
che abbia simmetria sferica intorno a una sorgente puntiforme posta, mettiamo, nell’origine. Sappiamo che se dipende soltanto da r si ha r2 = Perciò abbiamo l’equazione
ossia
1 @2 (r ) r @r 2
1 @2 (r ) r @r 2
µ2 = 0
@2 (r ) = µ2 (r ) @r 2 Se pensiamo r come variabile dipendente, questa è un’equazione che abbiamo visto molte volte. La sua soluzione è r = K e±µr È chiaro che non può diventare infinito per r grande, perciò il segno «+» nell’esponente si esclude. La soluzione è dunque e µr =K (28.18) r Questa funzione viene chiamata potenziale di Yukawa. Per una forza attrattiva K è un numero negativo la cui grandezza deve essere regolata in modo da adattarsi all’intensità delle forze osservate sperimentalmente. Il potenziale di Yukawa delle forze nucleari decade più rapidamente di 1/r in quanto contiene il fattore esponenziale. Il potenziale – e quindi la forza – va a zero molto più rapidamente di 1/r,
379
28.6 • Il campo delle forze nucleari
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per distanze maggiori di 1/µ, come mostra la FIGURA 28.6. Il «raggio d’azione» delle forze nucleari è molto minore del «raggio d’azione» delle forze elettrostatiche. Si trova sperimentalmente che le forze nucleari non si estendono oltre circa 10 13 cm, perciò si ha µ ⇡ 1015 m 1 . Infine, esaminiamo la soluzione «onda libera» dell’equazione (28.17). Sostituendo = 0 ei(!t kz)
f
1/r
nell’equazione (28.17) otteniamo !2 c2
r
k2
µ2 = 0
Collegando la frequenza all’energia e il numero d’onde all’impulso, come abbiamo fatto alla fine del cap. 34 del vol. 1, si ottiene E2 c2
0
28.6 Il potenziale di Yukawa e r /r paragonato al potenziale di Coulomb 1/r. FIGURA
2
2 2
p =µ ~
la quale dice che il «fotone» di Yukawa ha una massa uguale a µ~/c. Se usiamo per µ la stima di 1015 m 1 , che dà il raggio d’azione osservato delle forze nucleari, la massa risulta 3 · 10 25 g, ossia 170 MeV, che è circa la massa osservata del mesone ⇡. Perciò, in base a un’analogia con l’elettrodinamica, saremmo portati a dire che il mesone ⇡ è il «fotone» del campo delle forze nucleari. Ora però abbiamo trasportato le idee dell’elettrodinamica in regioni dove veramente possono non essere più valide: siamo andati al di là dell’elettrodinamica, entrando nel problema delle forze nucleari.
r
29
Il moto delle cariche nei campi elettrici e magnetici
29.1 Ripasso: vol. 1, cap. 30, Diffrazione
y
R v^
x
B
Moto in un campo uniforme elettrico o magnetico
Vogliamo ora descrivere – per lo più in modo qualitativo – i moti delle cariche in varie circostanze. Molti dei fenomeni interessanti nei quali delle cariche si muovono in un campo si presentano in situazioni molto complicate con moltissime cariche tutte interagenti fra loro. Per esempio quando un’onda elettromagnetica attraversa un blocco di materiale o un plasma, miliardi e miliardi di cariche interagiscono con l’onda e fra loro. Incontreremo più avanti tali problemi, ma ora vogliamo solo discutere il problema molto più semplice del moto di una carica singola in un campo dato. Possiamo allora trascurare tutte le altre cariche, eccetto naturalmente quelle cariche e correnti che esistono in qualche luogo e che producono i campi che postuleremo. Si dovrebbe probabilmente cominciare con il moto di una particella in un campo elettrico uniforme. A basse velocità il moto non è particolarmente interessante; è semplicemente un’accelerazione uniforme nella direzione del campo. Tuttavia, se la particella acquista abbastanza energia da diventare relativistica, allora il moto diventa più complesso. Ma la soluzione di questo caso la lasceremo a voi perché vi ci divertiate. Successivamente consideriamo il moto in un campo magnetico uniforme con campo elettrico nullo. Abbiamo già risolto questo problema: una soluzione è che la particella si muova su un cerchio. La forza magnetica qv ⇥ B è sempre ad angolo retto col moto, perciò dp/dt è perpendicolare a p e ha modulo vp/R, dove R è il raggio del cerchio: F = qvB =
v
Il raggio dell’orbita circolare è dunque R=
29.1 Moto di una particella in un campo magnetico uniforme. FIGURA
p qB
vp R (29.1)
Questa è soltanto una delle possibilità. Se la particella ha una componente di moto lungo la direzione del campo, tale moto è costante perché non ci può essere componente della forza magnetica nella direzione del campo. Il moto più generale di una particella in un campo magnetico uniforme è perciò composto di una velocità costante parallela a B e un moto circolare ad angolo retto con B; la traiettoria è un’elica cilindrica (FIGURA 29.1). Il raggio dell’elica è dato dall’equazione (29.1), sostituendovi p con p? , cioè con la componente dell’impulso in direzione perpendicolare al campo.
29.2
Analisi secondo l’impulso
Un campo magnetico uniforme viene spesso impiegato per realizzare un «analizzatore d’impulso», o «spettrometro d’impulso», per particelle cariche di alta energia. Mettiamo che delle particelle cariche vengano lanciate in un campo magnetico uniforme nel punto A della FIGURA 29.2a, col campo magnetico perpendicolare al piano del disegno. Ciascuna particella descriverà un’orbita
381
29.2 • Analisi secondo l’impulso
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che è un cerchio il cui raggio è proporzionale al suo impulso. Se tutte le particelle entrano perpendicolarmente al margine del campo, esse escono da questo a una distanza x (da A) che è proporzionale al loro impulso p. Un contatore posto in un punto come C rivelerà soltanto quelle particelle il cui impulso cade in un certo intervallo p intorno all’impulso p = qBx/2. Non è naturalmente necessario che le particelle percorrano 180° prima di essere contate, ma il cosiddetto «spettrometro a 180°» ha una particolare proprietà: infatti non occorre che tutte le particelle entrino perpendicolarmente al margine del campo. La FIGURA 29.2b mostra le traiettorie di tre particelle, tutte con lo stesso impulso ma che entrano nel campo sotto angoli differenti. Vedete che esse percorrono traiettorie diverse, ma tutte escono dal campo molto vicino al punto C. Si dice che lì c’è un «fuoco». Questa proprietà di focheggiamento ha il vantaggio che in A si possono accettare angoli più grandi, benché si ponga di solito un certo limite, come indicato in figura. Un’accettazione angolare più grande significa che in un dato tempo si contano più particelle, diminuendo così il tempo richiesto per una certa misura. Variando il campo magnetico, oppure muovendo il contatore lungo x, oppure usando più contatori per coprire un certo tratto dell’asse x, lo «spettro» degli impulsi nel fascio incidente può venire misurato. (Riferendosi allo «spettro d’impulso» f (p), si vuol dire che il numero di particelle con impulso fra p e p + dp è f (p) dp.) Misure simili sono state fatte, per esempio, per determinare la distribuzione delle energie nel decadimento di vari nuclei. Ci sono molti altri tipi di spettrometri d’impulso, ma ne descriveremo soltanto un altro che ha un angolo solido d’accettazione particolarmente grande. Esso si fonda sulle orbite elicoidali in un campo uniforme, come quella indicata nella FIGURA 29.1. Immaginiamo un sistema di coordinate cilindriche ⇢, ✓, z, disposto con l’asse z nella direzione del campo. Se una particella viene emessa dall’origine sotto un angolo ↵ rispetto all’asse z, essa si muoverà lungo una spirale la cui equazione è ⇢ = a sen k z
✓ = bz
Campo magnetico uniforme
C
x
Rivelatore
Sorgente puntiforme
29.2 Spettrometro d’impulso a campo magnetico uniforme, con focheggiamento a 180°: (a) impulsi diversi; (b) angoli diversi. (Il campo magnetico è diretto perpendicolarmente al piano della figura.) FIGURA
A' B
A
dove a, b e k sono parametri che potrete ricavare facilmente in funzione 0 D z di p, di ↵ e del campo magnetico B. Se si mette in grafico la distanza ⇢ dall’asse in funzione di z per un dato impulso ma per diversi angoli di partenza, si ottengono delle curve come quelle a tratto continuo disegnate FIGURA 29.3 Spettrometro a campo assiale. in FIGURA 29.3. (Ricordatevi che si tratta semplicemente di una specie di proiezione di una traiettoria elicoidale.) Quando l’angolo fra l’asse e la direzione iniziale è più grande, il valore di punta di ⇢ è grande, ma la velocità longitudinale è minore, così che le traiettorie per i diversi angoli tendono a riunirsi in una specie di «fuoco» vicino al punto A in figura. Se in A si mette una stretta apertura, delle particelle in un certo campo di B angoli iniziali riescono a passare e raggiungono l’asse dove possono esser contate dal rivelatore allungato D. Particelle che partono dalla sorgente nell’origine con impulso più elevato ma con gli stessi angoli, seguono i percorsi indicati dalle linee tratteggiate ∆x e non passano per l’apertura A. Perciò l’apparecchio seleziona un piccolo intervallo d’impulso. Il vantaggio rispetto allo spettrometro descritto prima è che l’apertura A – come quella A0 – può essere anulare, in modo che ven- FIGURA 29.4 Una bobina ellissoidale con uguali gano accettate particelle che si staccano dalla sorgente in un angolo solido correnti in ciascun intervallo assiale x produce piuttosto largo, un vantaggio importante per sorgenti deboli o per misure all’interno un campo magnetico uniforme. molto precise. Questo vantaggio però si paga, perché occorre un grosso volume di campo magnetico uniforme e questo in genere si può fare soltanto per particelle di bassa energia. Un modo di produrre un
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Capitolo 29 • Il moto delle cariche nei campi elettrici e magnetici
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29.5 Lente elettrostatica. Le linee di campo indicate sono linee di forza, cioè di qE. FIGURA
c
b
d
a
qE
V
qE
campo uniforme, ricorderete, è quello di avvolgere una bobina su una sfera con una densità superficiale di corrente proporzionale al seno dell’angolo. Si può anche mostrare che lo stesso è vero per un ellissoide di rotazione. Perciò tali spettrometri vengono fatti spesso avvolgendo una bobina ellittica su una forma di legno (o d’alluminio). Tutto quello che si richiede è che la corrente sia la stessa in ogni intervallo di distanza assiale x, come mostra la FIGURA 29.4.
29.3
Una lente elettrostatica
Il focheggiamento delle particelle ha molte applicazioni. Per esempio gli elettroni che partono dal catodo in un tubo televisivo vengono focheggiati sullo schermo, dove producono una macchia minuta. In questo caso si vuole raccogliere degli elettroni che hanno tutti la stessa energia ma con diversi angoli iniziali e riunirli tutti insieme in una piccolissima area. Il problema è simile a quello di focheggiare della luce con una lente e i dispositivi che realizzano il compito corrispondente per delle particelle vengono anch’essi chiamati lenti. Un esempio di lente per elettroni è schematizzato nella FIGURA 29.5. Si tratta di una lente «elettrostatica», il cui funzionamento dipende dal campo elettrico fra due elettrodi adiacenti. Questo funzionamento si può capire considerando ciò che succede a un fascio parallelo che entra da sinistra. Quando gli elettroni arrivano nella regione a, subiscono una forza che ha una componente laterale e ricevono un certo impulso che li piega verso l’asse. Si potrebbe pensare che ricevano un impulso uguale e opposto nella regione b, ma questo non è. Quando gli elettroni raggiungono b hanno acquistato energia e perciò spendono meno tempo nella regione b. Le forze sono le stesse, ma il tempo è più breve e perciò l’impulso è minore. Attraversando le regioni a e b, c’è un impulso complessivo diretto verso l’asse e gli elettroni vengono piegati verso un punto comune. Uscendo dalla regione ad alto potenziale, le particelle ricevono un’altra spinta verso l’asse. La forza è diretta all’esterno nella regione c e all’interno nella regione d, ma le particelle si trattengono più a lungo in quest’ultima regione e perciò si ha nuovamente un impulso complessivo. Per distanze non troppo lontane dall’asse l’impulso totale ricevuto attraversando la lente è proporzionale alla distanza dall’asse (potete capire perché?) e questa è proprio la condizione necessaria per avere un focheggiamento come quello di una lente. Lo stesso ragionamento si può utilizzare per far vedere che c’è focheggiamento sia che il potenziale dell’elettrodo centrale sia positivo oppure negativo rispetto a quello degli altri due. Lenti elettrostatiche di questo tipo vengono usate comunemente nei tubi a raggi catodici e in certi microscopi elettronici.
29.4
Una lente magnetica
Un altro tipo di lente – spesso usato nei microscopi elettronici – è la lente magnetica rappresentata schematicamente nella FIGURA 29.6. Un elettromagnete a simmetria cilindrica ha delle estremità polari circolari molto aguzze che producono un intenso campo disuniforme in una piccola regione. Gli elettroni che viaggiano verticalmente attraverso questa regione vengono focheggiati.
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29.5 • Il microscopio elettronico
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29.6 Lente magnetica (in sezione). FIGURA
Ferro
B
29.7 Moto degli elettroni nella lente magnetica. FIGURA
N
S
N
S
B
b N
S
N
S
Bobina
S a
B
B
Il meccanismo si può capire osservando il prospetto ingrandito della regione delle espansioni polari disegnato in FIGURA 29.7. Consideriamo due elettroni, a e b, che partono dalla sorgente S con un certo angolo rispetto all’asse. Quando l’elettrone a raggiunge l’inizio del campo, viene deflesso di là dal piano della figura dalla componente verticale del campo; acquista perciò una velocità laterale in modo che quando attraversa il forte campo orizzontale riceverà un impulso verso l’asse. Il suo moto laterale è eliminato dalla forza magnetica che subisce all’uscita dal campo, perciò l’effetto complessivo è un impulso verso l’asse, più una «rotazione» intorno all’asse. Tutte le forze che agiscono sulla particella b sono opposte, perciò anche questa sarà deflessa verso l’asse. Nella figura gli elettroni divergenti vengono resi paralleli: l’azione è simile a quella di una lente quando un oggetto si trova nel suo fuoco. Un’altra lente simile a questa posta sul percorso degli elettroni può essere usata per focheggiare nuovamente questi in un unico punto, ottenendo un’immagine della sorgente S.
29.5
Il microscopio elettronico
Sapete già che i microscopi elettronici possono «vedere» oggetti troppo piccoli per essere visti coi microscopi ottici. Nel cap. 30 del vol. 1 sono state discusse le limitazioni fondamentali di qualsiasi sistema ottico, dovute alla diffrazione da parte delle aperture delle lenti. Se l’apertura di una lente sottende l’angolo 2✓ rispetto alla sorgente (FIGURA 29.8), due punti vicini della sorgente non possono essere visti separati se essi sono più vicini di circa ⇡
Apertura della lente
sen ✓
dove è la lunghezza d’onda della luce. Nei migliori microscopi ottici, ✓ si avvicina al limite teorico di 90°, perciò è circa uguale a , ossia approssimativamente 5000 Å. La stessa limitazione sarebbe valida anche per un microscopio elettronico, ma qui la lunghezza d’onda è – per elettroni di 50 kV – circa 0,05 Å. Se si potessero usare lenti con un’apertura di circa 30°, sarebbe possibile vedere degli oggetti distanti solo 1/5 di angstrom. Siccome le distanze tipiche degli atomi nelle molecole sono di 1 o 2 Å, si potrebbero ottenere fotografie delle molecole. La biologia diventerebbe facile: si avrebbero fotografie della struttura del DNA. Che cosa formidabile sarebbe! Gran parte della ricerca odierna in biologia molecolare è un tentativo di ricavare la forma di molecole organiche complesse: se soltanto le potessimo vedere! Sfortunatamente il miglior potere risolutivo che si è raggiunto con il microscopio elettronico è vicino a 20 Å. La ragione è che nessuno per ora ha progettato una lente con una forte apertura. Tutte le lenti hanno un’«aberrazione sferica», il che significa che i raggi che fanno angoli grandi con l’asse hanno fuochi diversi da quelli meno inclinati sull’asse, come mostra la FIGURA 29.9.
Sorgente
29.8 La risoluzione di un microscopio è limitata dall’angolo sotteso dalla sorgente. FIGURA
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Capitolo 29 • Il moto delle cariche nei campi elettrici e magnetici
Immagine confusa
D Apertura della lente
FIGURA
29.9
Aberrazione sferica di una lente.
29.6
29.10 Moto di una particella in un campo leggermente disuniforme. Campo magnetico
B
r
29.11 Moto radiale di una particella in un campo magnetico con una forte pendenza positiva. FIGURA
Per mezzo di tecniche speciali si possono fare lenti da microscopi ottici con aberrazione sferica trascurabile, ma nessuno è riuscito finora a fare una lente elettronica che eviti l’aberrazione sferica. Effettivamente si può mostrare che qualsiasi lente elettrostatica o magnetica dei tipi che abbiamo descritto deve avere una dose irriducibile di aberrazione sferica. Questa aberrazione, insieme con la diffrazione, limita i poteri risolutivi dei microscopi elettronici al loro valore attuale. La limitazione cui abbiamo accennato non si applica a campi elettrici e magnetici che non abbiano simmetria assiale oppure che non siano costanti nel tempo. Forse un giorno qualcuno immaginerà un nuovo tipo di lente elettronica che superi la difficoltà dell’aberrazione inerente alle lenti elettroniche semplici. Allora saremo capaci di fotografare gli atomi direttamente. Forse un giorno i composti chimici verranno analizzati esaminando le posizioni degli atomi, invece che guardando il colore di qualche precipitato!
Campi di guida negli acceleratori
FIGURA
Orbita circolare
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Si adoperano campi magnetici anche per produrre speciali traiettorie delle particelle nelle macchine che accelerano queste ad alte energie. Macchine come il ciclotrone e il sincrotrone portano le particelle a un’energia elevata facendole passare ripetutamente attraverso un forte campo elettrico: le particelle vengono mantenute sulle loro orbite cicliche da un campo magnetico. Si è visto che una particella in un campo magnetico uniforme percorre un’orbita circolare. Questo però è vero soltanto per un campo perfettamente uniforme. Immaginiamo un campo B quasi uniforme sopra una vasta area, ma leggermente più forte in una regione, rispetto a un’altra. Se mettiamo una particella d’impulso p in questo campo essa percorrerà un’orbita quasi circolare col raggio R = p/qB. Il raggio di curvatura sarà però leggermente più piccolo nella regione dove il campo è più forte. L’orbita, quindi, non sarà un cerchio che si chiude, ma «camminerà» attraverso il campo come mostra la FIGURA 29.10. Si può, se si vuole, pensare che il piccolo «errore» nel campo produce una spinta angolare extra che devia la particella su una nuova traiettoria. Se le particelle in un acceleratore devono fare dei milioni di giri, è necessario avere un qualche tipo di «focheggiamento radiale» che tenda a mantenere le traiettorie in vicinanza dell’orbita di progetto. Un’altra difficoltà del campo uniforme è che le particelle non rimangono nello stesso piano. Se partono con un angolo anche piccolissimo – o vengono deviate da un piccolo angolo a causa di qualche piccolo errore del campo – esse prenderanno un cammino elicoidale che le manderà a finire su uno dei poli del magnete oppure sulla faccia superiore o inferiore del serbatoio di vuoto. Si deve provvedere in qualche modo a impedire tali derive verticali; il campo deve fornire, insieme a quello radiale, anche un «focheggiamento verticale». Alla prima si potrebbe supporre che si possa avere un focheggiamento radiale facendo un campo magnetico che cresca al crescere della distanza dal centro del percorso di progetto. In tal caso, se una particella si porta su un raggio grande, si troverà in un campo magnetico più forte che la farà ripiegare verso il raggio corretto; se si porta su un raggio troppo piccolo, la sua curvatura diminuirà e sarà ricondotta verso il raggio di progetto. Se poi una particella parte facendo un angolo rispetto al cerchio ideale, essa
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29.6 • Campi di guida negli acceleratori
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oscillerà intorno all’orbita circolare ideale, come si vede nella FIGURA 29.11. Il focheggiamento radiale manterrebbe le particelle nei pressi dell’orbita circolare. In realtà c’è un certo focheggiamento radiale anche con un’opposta pendenza del campo. Questo può avvenire se il raggio di curvatura della traiettoria non cresce più rapidamente della distanza della particella dal centro del campo. Le orbite della particella saranno come quelle disegnate in FIGURA 29.12. Se però il gradiente del campo è troppo grande, le orbite non si riportano al raggio di progetto, ma si contraggono o si espandono a spirale, come indicato nella FIGURA 29.13. Ordinariamente si descrive la pendenza del campo per mezzo del «gradiente relativo», o indice del campo, n: n=
dB/B dr/r
(29.2)
Un campo guidante produce un focheggiamento radiale se il gradiente relativo è maggiore di 1. Un gradiente radiale del campo produce anche delle forze verticali sulle particelle. Mettiamo di avere un campo che è più forte verso il centro dell’orbita e più debole all’esterno. Una sezione verticale del magnete, ad angolo retto rispetto all’orbita, potrebbe essere come indicato nella FIGURA 29.14. (Nel caso di protoni le orbite emergerebbero dalla pagina.) Se il campo deve essere più forte a sinistra e più debole a destra, le linee del campo magnetico devono essere curve nel modo indicato. Si può vedere che deve essere così adoperando la legge per cui la circuitazione di B deve essere zero nello spazio libero. Prendendo delle coordinate come mostra la figura, si avrà @ Bx @ Bz (r ⇥ B)y = =0 @z @x ossia @ Bx @ Bz = (29.3) @z @x Siccome si suppone che @Bz /@ x sia negativa, ci deve essere un’uguale e quindi negativa @Bx /@z. Se il piano «nominale» dell’orbita è un piano di simmetria, nel quale si ha Bx = 0, allora la componente radiale Bx sarà negativa al di sopra del piano e positiva al di sotto: le linee devono incurvarsi come indicato. Un tale campo possiede delle proprietà di focheggiamento verticale. Pensiamo a un protone che viaggia più o meno parallelamente all’orbita centrale ma al di sopra di questa. La componente orizzontale di B eserciterà su di esso una forza diretta verso il basso; se il protone si trova sotto l’orbita centrale, la forza si rovescia. Perciò c’è un’effettiva «forza di richiamo» verso l’orbita centrale. Secondo questo ragionamento ci sarà un focheggiamento verticale, purché il campo verticale decresca all’aumentare del raggio; ma se il gradiente del campo è positivo ci sarà uno «sparpagliamento verticale». Perciò per avere focheggiamento verticale l’indice del campo n deve essere minore di zero. Più sopra si è trovato che per il focheggiamento radiale n doveva essere maggiore di 1. Le due condizioni riunite danno la condizione 1 @ 2 u2 > r·< ( + 2µ) r2 u2 = (39.37) > ⇢ @t 2 >=0 : ;
539
39.4 • Il comportamento non elastico
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Ma r ⇥ u2 è zero per definizione e il rotore dell’espressione tra parentesi graffe è anch’esso zero; perciò l’espressione tra graffe è identicamente zero, e resta ⇢
@ 2 u2 = ( + 2µ) r2 u2 @t 2
(39.38)
Questa è l’equazione vettoriale di un’onda che si muove con la velocità
C2 =
s
+ 2µ ⇢
Siccome il rotore di u2 è zero, non ci sono scorrimenti associati a quest’onda; essa è un’onda di compressione, del tipo visto nel capitolo precedente, e la sua velocità ha proprio il valore che si è trovato per Clong . In modo analogo – prendendo il rotore dell’equazione (39.36) – si può far vedere che u1 soddisfa l’equazione ⇢
@ 2 u1 = µ r2 u1 @t 2
(39.39)
Polaroid
Questa è ancora un’equazione vettoriale per delle onde la cui velocità è C2 =
r
µ ⇢
Siccome r · u1 = 0, u1 non produce alterazioni della densità; il vettore u1 corrisponde alle onde trasversali del tipo «di distorsione» che abbiamo visto nel capitolo precedente, ed è C2 = Cs . Se si desiderasse conoscere gli sforzi statici in un materiale isotropo, si potrebbe trovarli, in linea di principio, risolvendo l’equazione (39.32) con f uguale a zero – o uguale alle forze statiche di volume dovute alla gravità, come ⇢g – sotto certe condizioni che si riferiscono alle forze che agiscono sulle superfici del blocco esteso di materiale. Questo è un problema alquanto più difficile da risolvere dei problemi corrispondenti dell’elettromagnetismo. È più difficile, in primo luogo, perché le equazioni sono un po’ più difficili da maneggiare e in secondo luogo perché le forme dei corpi elastici dei quali si ha probabilità di interessarsi sono di solito molto più complesse. Nell’elettromagnetismo si ha spesso interesse a risolvere le equazioni di Maxwell riferentisi a forme geometriche relativamente semplici come cilindri o sfere e così via, perché queste sono forme adatte per gli apparecchi elettrici. In elasticità gli oggetti che si vorrebbero analizzare possono avere forme del tutto complicate, come il gancio di una gru, l’albero motore di un’automobile o il rotore di una turbina a gas. Tali problemi possono qualche volta essere risolti approssimativamente per mezzo di metodi numerici usando il principio del minimo dell’energia che abbiamo ricordato prima. Un altro modo è quello di utilizzare un modello dell’oggetto e misurarne le deformazioni interne sperimentalmente, usando luce polarizzata. Il metodo funziona così: quando un materiale isotropo trasparente – per esempio una plastica trasparente, come il plexiglas – è posto sotto sforzo, esso diventa birifrangente. Se viene attraversato da luce polarizzata, il piano di polarizzazione ruota in misura dipendente dallo sforzo; misurando la rotazione si può misurare lo sforzo. La FIGURA 39.6 mostra l’aspetto che potrebbe avere un simile dispositivo. La FIGURA 39.7 è la fotografia di un modello fotoelastico di forma complessa sotto sforzo.
Schermo luminoso
FIGURA
39.6
Modello di plexiglas sotto sforzo
Misura degli sforzi interni con la luce
polarizzata.
39.7 Un modello plastico sotto sforzo visto fra polaroid incrociati. (Da F. W. Sears, Optics, Addison-Wesley Publishing Co., Reading, Mass., 1949). FIGURA
540
Capitolo 39 • Materiali elastici
39.4
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Il comportamento non elastico
In tutto quello che si è detto fin qui si è supposto che lo sforzo fosse proporzionale alla deformazione; in generale, questo non è vero. La FIGURA 39.8 mostra una tipica curva sforzo-deformazione per un materiale duttile. Per piccole deformazioni lo sforzo è proporzionale alla deformazione. Alla fine, però, oltre un certo punto, la relazione fra sforzo e deformazione comincia a deviare dalla linea retta. Per molti materiali – quelli che chiamiamo «fragili» – l’oggetto si rompe per deformazioni soltanto di poco superiori al punto dove la curva comincia a piegarsi verso il basso. In generale ci sono altre complicazioni nei rapporti fra sforzo e deformazione. Per esempio, se si deforma un oggetto, lo sforzo può essere dapprima elevato poi decresce lentamente nel tempo. Inoltre, se si raggiungono sforzi elevati, ma ancora al di qua del punto di «rottura», quando si diminuisce la deformazione lo sforzo tornerà indietro secondo una curva diversa. C’è un piccolo effetto d’isteresi (come quello fra B e H che si vide nei materiali magnetici). Lo sforzo che produce la rottura del materiale varia entro ampi limiti passando da un materiale all’altro. Alcuni materiali si rompono quando lo sforzo di tensione massimo raggiunge un certo valore. Altri materiali Sforzo cedono quando il massimo sforzo di taglio raggiunge un certo valore. Qui si verifica Il gesso è un esempio di materiale che è molto più debole rispetto alla la rottura trazione che agli sforzi di taglio. Se un gessetto da lavagna viene tirato per gli estremi, esso si rompe perpendicolarmente alla direzione dello sforzo applicato, come mostra la FIGURA 39.9a. Si rompe perpendicolarmente alla forza applicata perché è soltanto un ammasso di particelle stipate insieme che si possono facilmente separare. Il gesso, però, è molto più resistente Regione lineare alle deformazioni di taglio perché allora le particelle si ostacolano fra loro. Ricorderete che quando abbiamo studiato la sbarra sotto torsione, abbiamo Deformazione trovato che c’era uno stato di scorrimento in tutta la sua estensione. Inoltre abbiamo visto che uno sforzo di taglio equivale a combinare una trazione e una compressione con un angolo di 45°. Per queste ragioni, se si torce un FIGURA 39.8 Un tipico andamento sforzo-deformazione per grosse deformazioni. gessetto da lavagna esso si rompe secondo una superficie complicata che si stacca dall’asse a 45°. La fotografia di un gessetto rotto in questo modo è riportata nella FIGURA 39.9b. Il gesso si rompe dove il materiale è nello stato di massima tensione. Altri materiali si comportano in modo strano e complesso. Quanto più i materiali sono complessi, tanto più interessante è il loro comportamento. Se si prende un foglio di «involucro Saran»(2) , se ne fa una palla e lo si butta su una tavola, esso lentamente si riapre e torna alla sua originaria forma piana. A prima vista si potrebbe essere tentati di pensare che è l’inerzia che gli ostacola il ritorno alla forma originaria. Però un semplice calcolo mostra che l’inerzia è di diversi ordini di grandezza troppo piccola per rendere conto dell’effetto. Sembra che ci siano due effetti importanti in competizione: «qualcosa» nel materiale «ricorda» la forma che aveva inizialmente e «cerca» di tornare a quella, ma qualcos’altro «preferisce» la nuova forma e «si oppone» a tornare alla forma di prima. Non tenteremo di descrivere il meccanismo che è in gioco nella plastica Saran, ma ci si può fare un’idea di come può prodursi un simile effetto in base al seguente modello. Mettiamo di immaginare un materiale fatto di lunghe fibre, flessibili ma forti, mescolate con delle celle cave riempite di un liquido viscoso. Immaginiamo inoltre che ci siano delle comunicazioni anguste fra ogni cella e quella più prossima così che il liquido può trapelare lentamente da una cella a una cella vicina. Quando si spiegazza un foglio di questo materiale, le lunghe fibre vengono distorte e si spreme il liquido dalle celle di una zona per costringerlo in altre celle che ne restano sforzate. Quando si lascia la presa, le fibre cercano di tornare alla loro forma originaria; per far questo però devono obbligare il liquido a tornare dov’era – ciò che accadrà lentamente a causa delle viscosità. Le forze che applichiamo nello spiegazzare il foglio sono molto più grandi di quelle esercitate dalle fibre: possiamo spiegazzare il foglio prontamente, ma il recupero si farà più lentamente. (2)
Foglio di plastica sottilissimo usato negli Stati Uniti, e anche in Italia, in genere per avvolgere cibi. (N.d.T.)
541
39.5 • Il calcolo delle costanti elastiche
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39.9 (a) Un gessetto rotto tirandolo per gli estremi; (b) un gessetto rotto per torsione. FIGURA
È senza dubbio una combinazione di grosse molecole rigide e di molecole più piccole e mobili che è responsabile del comportamento dell’involucro Saran. Questa idea va anche in accordo con il fatto che il materiale quando è scaldato torna più rapidamente alla sua forma originaria che quando è freddo: il calore aumenta la mobilità (diminuisce la viscosità) delle molecole più piccole. Sebbene si sia discusso come la legge di Hooke perda la sua validità, forse la cosa più notevole non è che la legge di Hooke cessi di valere per grosse deformazioni, ma che sia vera tanto in generale. Si può avere un’idea di come questo possa accadere considerando l’energia di deformazione di un materiale. Dire che lo sforzo è proporzionale alla deformazione, è lo stesso che dire che l’energia di deformazione varia come il quadrato di questa. Supponiamo di avere una bacchetta e di torcerla di un piccolo angolo ✓. Se la leggedi Hooke vale, l’energia di deformazione sarà proporzionale al quadrato di ✓. Ipotizziamo che l’energia sia una funzione arbitraria dell’angolo; la si potrebbe scrivere come uno sviluppo in serie di Taylor intorno all’angolo zero: U(✓) = U(0) + U 0(0) ✓ +
1 00 1 U (0) ✓ 2 + U 000(0) ✓ 3 + . . . 2 6
(39.40)
Il momento assiale ⌧ è la derivata di U rispetto all’angolo; si avrà perciò ⌧(✓) = U 0(0) + U 00(0) ✓ +
1 000 U (0) ✓ 2 + . . . 2
(39.41)
Se gli angoli vengono misurati dalla posizione di equilibrio, il primo termine è nullo; perciò il primo dei termini restanti è proporzionale a ✓ e per angoli abbastanza piccoli dominerà sul termine in ✓ 2 . (In realtà, i materiali sono abbastanza simmetrici internamente perché si abbia ⌧(✓) = ⌧( ✓): il termine in ✓ 2 è pertanto nullo e uno scostamento dalla linearità verrebbe solamente dal termine in ✓ 3 . Non ci sono ragioni, però, perché questo sia vero per compressioni o trazioni.) La cosa che non abbiamo spiegato è perché i materiali di solito si rompono appena dopo che i termini d’ordine superiore diventano significativi.
39.5
Il calcolo delle costanti elastiche
Come ultimo soggetto dell’elasticità, vorremo far vedere come si potrebbe cercare di calcolare le costanti elastiche di un materiale partendo da una certa conoscenza delle proprietà degli atomi che lo costituiscono. Considereremo soltanto il caso semplice di un cristallo cubico ionico, come il cloruro di sodio. Quando un cristallo viene deformato il suo volume o la sua forma cambiano. Tali cambiamenti hanno per conseguenza un aumento dell’energia potenziale del cristallo. Per calcolare questo cambiamento dell’energia di deformazione dobbiamo conoscere dove ogni atomo va. Nei cristalli complessi gli atomi si ridistribuiscono nel reticolo in modi molto complicati per far sì che l’energia totale sia quanto più piccola possibile. Questo rende piuttosto difficile il calcolo dell’energia di deformazione. Nel caso di un cristallo cubico, però, è facile capire quello che
542
Capitolo 39 • Materiali elastici
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succederà. Le distorsioni all’interno del cristallo saranno geometricamente simili alle distorsioni dei confini del cristallo. Si possono calcolare le costanti elastiche di un cristallo cubico nel modo seguente. Per prima cosa ammetteremo una certa legge di forza fra gli atomi del cristallo; poi calcoleremo la variazione dell’energia interna del cristallo quando viene distorto dalla sua configurazione d’equilibrio. Questo ci dà una relazione fra l’energia e le deformazioni che è quadratica rispetto a tutte le deformazioni. Confrontando l’energia ottenuta in questo modo con l’equazione (39.13) potremo identificare i coefficienti dei vari termini con le costanti elastiche Ci jkl . Nel caso del nostro esempio ammetteremo una legge di forza semplice, cioè che la forza fra atomi vicini sia una forza centrale, col che intendiamo che essa agisce lungo la retta che unisce gli atomi. Ci si aspetta che le forze nei cristalli ionici siano di questo tipo, giacché non si tratta – principalmente – che di forze di Coulomb. (Le forze dovute a legami covalenti sono di solito più complicate, perché possono esercitare una spinta laterale su un atomo vicino; trascureremo questa complicazione.) Prenderemo inoltre in considerazione le sole forze fra ciascun atomo e i suoi vicini primi e secondi. In altre parole useremo un’approssimazione che trascura tutte le forze al di là dei secondi vicini. Le forze che considereremo sono indicate, per il piano xy, nella FIGURA 39.10a. Le forze corrispondenti nei piani yz e zx dovranno anch’esse essere considerate. Siccome ci interessano soltanto i coefficienti elastici che vanno bene per piccole deformazioni, e quindi vogliamo soltanto i termini dell’energia che variano quadraticamente con le deformazioni, possiamo immaginare che per ciascun paio di atomi la forza vari linearmente con gli spostamenti. Possiamo allora immaginare che ciascuna coppia di atomi sia tenuta insieme da una molla lineare, come si è disegnato nella FIGURA 39.10b. Tutte le molle fra un atomo di sodio e un atomo di cloro avranno la stessa costante elastica, diciamo k1 . Le molle fra due atomi di sodio e due di cloro dovrebbero avere costanti diverse, ma renderemo più semplice la discussione prendendole uguali; le chiameremo k2 . (Potremo tornare indietro più tardi e assumerle diverse dopo che avremo visto come procede il calcolo.) Supponiamo ora che il cristallo sia distorto da una deformazione omogenea descritta dal tensore delle deformazioni ei j . Questo avrà in generale delle componenti riguardanti x, y e z; ma per ora considereremo soltanto una deformazione con le tre componenti e xx , e xy ed eyy in modo che sia facile visualizzarla. Se scegliamo un atomo come origine, lo spostamento di ogni altro è dato da equazioni simili alla (39.9), cioè u x = e xx x + e xy y uy = e xy x + eyy y
(39.42)
Supponiamo di chiamare «atomo 1» l’atomo che è nel punto x = 0, y = 0 e di numerare i suoi vicini nel piano x y come indica la FIGURA 39.11. Chiamando a la costante del reticolo, si hanno gli spostamenti secondo x e y, cioè u x e uy che sono elencati nella TABELLA 39.1.
Na
Cl
Na
Na
Cl k2
Na
k2 Cl
Na
Cl
Cl
k2 Na
k1 k2
k1
Cl
k1
k2
39.10
(a) Le forze interatomiche che si prendono in considerazione; (b) un modello in cui gli atomi sono uniti da molle. FIGURA
k2
k1
Na
Cl
Na
Na
Cl
Na
543
39.5 • Il calcolo delle costanti elastiche
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Ora si può calcolare l’energia accumulata nelle molle, che è k/2 per il quadrato dell’allungamento di ciascuna di esse. Per esempio l’energia nella molla orizzontale posta fra gli atomi 1 e 2 è k 1 (e xx a)2 2
4 5
3
eyya
exya
(39.43) a
Si noti che al primo ordine lo spostamento secondo y dell’atomo 2 non altera la lunghezza della molla fra gli atomi 1 e 2. Per ottenere l’energia della deformazione di una molla diagonale, come quella fra gli atomi 1 e 3, bisogna però calcolare il cambiamento di lunghezza dovuto sia allo spostamento orizzontale sia a quello verticale. Per piccoli spostamenti dal cubo originario, possiamo scrivere il cambiamento della distanza fra gli atomi 1 e 3 come la somma delle componenti di u x e uy nella direzione diagonale, cioè
eyxa
2
1 Na
exxa a
6
9 7
8
1 p (u x + uy ) 2 Usando i valori di u x e uy della tabella, si ottiene l’energia
FIGURA
39.11
Gli spostamenti dei primi e dei secondi vicini dell’atomo 1
(esagerati).
2
k 2 * u x + uy + k2 a2 = (e xx + eyx + e xy + eyy )2 (39.44) p 2 , 4 2 Per l’energia totale di tutte le molle nel piano xy ci occorre la somma di otto termini del tipo (39.43) e (39.44). Chiamando U0 questa energia, si ottiene ( a2 k2 U0 = k1 e2xx + (e xx + eyx + e xy + eyy )2 + 2 2 k2 (e xx eyx e xy + eyy )2 + 2 k2 + k1 e2xx + (e xx + eyx + e xy + eyy )2 + 2 ) k2 + k1 e2yy + (e xx eyx e xy + eyy )2 2 + k1 e2yy +
TABELLA
39.1
(39.45)
Spostamenti ux e uy degli atomi primi vicini all’«atomo 1».
Atomo
Posizione x, y
ux
uy
k
1 2 3
0, 0 a, 0
0 eyx a
– k1
a, a
0 e xx a (e xx + e xy ) a
(eyx + eyy ) a
k2
0, a
e xy a
eyy a
k1
a, a
( e xx + e xy ) a
( eyx + eyy ) a
k2
6
a, 0
eyx a
k1
7 8 9
a, a
e xx a ( e xx + e xy ) a
( eyx + eyy ) a
k2
4 5
0, a a, a
e xy a (e xx
e xy ) a
eyy a (eyx
eyy ) a
k1 k2
544
Capitolo 39 • Materiali elastici
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Per ottenere l’energia totale di tutte le molle connesse con l’atomo 1 si deve fare un’aggiunta all’energia espressa dalla (39.45). Benché si abbiano solo le componenti x e y della deformazione, c’è ancora una certa energia associata coi secondi vicini che stanno fuori dal piano x y. Questa energia in più è k2 (e2xx a2 + e2yy a2 ) (39.46) Le costanti elastiche sono legate alla densità di energia w dall’equazione (39.13). L’energia che si è calcolata è quella associata a un atomo, o piuttosto è il doppio dell’energia per atomo, perché dell’energia di ciascuna molla una metà dovrebbe essere assegnata a ciascuno degli atomi che essa congiunge. Siccome ci sono 1/a3 atomi per unità di volume, w e U0 sono legate dalla relazione w=
U0 2a3
Per trovare le costanti elastiche Ci jkl occorre soltanto sviluppare i quadrati nell’equazione (39.45) – aggiungendoci i termini (39.46) – e confrontare i coefficienti ei j ekl coi corrispondenti coefficienti nell’equazione (39.13). Per esempio, riunendo i termini in e2xx e in e2yy si trova il fattore (k1 + 2k 2 )a2 perciò si ha
k1 + 2k2 a Per i restanti termini c’è una leggera complicazione. Siccome non si possono distinguere i prodotti di due termini come e xx eyy ed eyy e xx , il coefficiente di tali termini nell’espressione (39.45) dell’energia è uguale alla somma di due termini dell’equazione (39.13). Il coefficiente di e xx eyy nell’equazione (39.45) è 2k2 , perciò abbiamo Cxxxx = Cyyyy =
(Cxxyy + Cyyxx ) =
2k2 a
Ma a causa della simmetria del cristallo, è Cxxyy = Cyyxx , perciò si ha Cxxyy = Cyyxx =
k2 a
Con un analogo procedimento si può ottenere inoltre Cxyxy = Cyxyx =
k2 a
Infine, noterete che qualunque termine che contiene x o y soltanto una volta è zero, come abbiamo concluso precedentemente in base ad argomenti di simmetria. Riassumendo, abbiamo i seguenti risultati: k 1 + 2k2 Cxxxx = Cyyyy = a k2 Cxyxy = Cyxyx = a (39.47) k2 Cxxyy = Cyyxx = Cxyyx = Cyxxy = a Cxxxy = Cxyyy = . . . = 0 Siamo riusciti a mettere in relazione le costanti elastiche con le proprietà atomiche che appaiono nelle costanti k1 e k2 . Nel nostro caso particolare si ha Cxyxy = Cxxyy . Succede – come forse potete capire dal modo in cui il calcolo si svolge – che questi termini sono sempre uguali per un cristallo cubico, indipendentemente da quanti termini si considerino nell’espressione della forza, alla sola condizione che le forze agiscano secondo la congiungente degli atomi a due a due, ossia finché le forze fra gli atomi sono come molle e non hanno componenti laterali, come quelle
che si possono ottenere da una trave incastrata (e che effettivamente si ottengono con i legami covalenti). Si può controllare questa conclusione sulle misure sperimentali delle costanti elastiche. Nella TABELLA 39.2 riportiamo i valori osservati dei tre coefficienti elastici per diversi cristalli cubici(3) . Noterete che Cxxyy e Cxyxy in generale non sono uguali. La ragione è che nei metalli, come il sodio e il potassio, le forze interatomiche non agiscono secondo le congiungenti degli atomi, come si è supposto nel nostro modello. Neanche il diamante obbedisce alle leggi in questione, perché nel diamante le forze sono covalenti e hanno delle proprietà direzionali: i legami preferiscono formare fra loro l’angolo tetraedrico. I cristalli ionici, come il fluoruro di litio, il cloruro di sodio e così via hanno effettivamente tutte le proprietà fisiche postulate nel nostro modello e la tabella mostra che le costanti Cxxyy e Cxyxy sono quasi uguali. Non è chiaro perché il cloruro d’argento non soddisfi la condizione Cxxyy = Cxyxy .
545
39.5 • Il calcolo delle costanti elastiche
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TABELLA 39.2 Moduli elastici di cristalli cubici in 1012 dine ·cm2 . (Da C. Kittel, Introduction to Solid State Physics, John Wiley and Sons, Inc., New York, 2nd ed., 1956).
Cxxxx
Cxxyy
Cxyxy
Na
0,055
0,042
0,049
K
0,046
0,037
0,026
Fe
2,37
1,41
1,16
10,76
1,25
5,76
Al
1,08
0,62
0,28
LiF
1,19
0,54
0,53
NaCl
0,486
0,127
0,128
KCl
0,40
0,062
0,062
NaBr
0,33
0,13
0,13
Kl
0,27
0,043
0,042
AgCl
0,60
0,36
0,062
Diamante
(3) Nella letteratura si trova spesso che viene utilizzata una diversa notazione. Per esempio alcuni autori scrivono abitualmente C x x x x = C11 , C x x y y = C12 e C x y x y = C44 .
40
Il flusso dell’acqua asciutta
40.1
L’idrostatica
L’argomento del flusso dei fluidi, e particolarmente dell’acqua, affascina tutti. Tutti possiamo ricordarci di aver giocato, da bambini, nella vasca da bagno o in qualche pozza fangosa, con quella roba strana. Cresciuti, osserviamo torrenti, cascate e vortici e restiamo affascinati da questa sostanza che sembra quasi viva rispetto ai solidi. Il comportamento dei fluidi è in molti modi inaspettato e interessante ed è l’argomento di questo e del prossimo capitolo. Gli sforzi del bambino che tenta di sbarrare un rivolo che scorre nella via e la sua sorpresa davanti allo strano modo con cui l’acqua si fa strada e sfugge, trovano un’analogia nei nostri tentativi nel corso degli anni di capire il flusso dei fluidi. Ci siamo sforzati di mettere una diga all’acqua – nel nostro intelletto – col capire le leggi e le equazioni che descrivono il flusso. Descriveremo questi tentativi in questo capitolo. Nel prossimo capitolo descriveremo il modo singolare con cui l’acqua si è aperta un varco nella diga ed è sfuggita ai nostri tentativi di capirla. Pensiamo che le proprietà elementari dell’acqua vi siano già note. La proprietà essenziale che distingue un fluido da un solido è che un fluido non può sostenere uno sforzo di taglio per un tempo apprezzabile. Se a un fluido si applica uno sforzo di taglio, esso si muove per effetto di questo. Liquidi più spessi, come il miele, si muovono meno facilmente di fluidi come l’aria e l’acqua. La misura della facilità con la quale un fluido cede allo sforzo è determinata dalla sua viscosità. In questo capitolo considereremo soltanto situazioni nelle quali l’effetto viscoso può essere ignorato. Gli effetti della viscosità saranno considerati nel prossimo capitolo. Cominceremo col considerare l’idrostatica, cioè la teoria dei liquidi in quiete. Quando i liquidi sono in quiete non ci sono forze di taglio (nemmeno per liquidi viscosi). La legge dell’idrostatica è, perciò, che gli sforzi sono sempre normali a qualunque superficie interna al fluido. La forza normale per unità d’area è chiamata pressione. Dal fatto che non ci sono scorrimenti in un fluido
Superficie
p = p0 – gh
F F
40.1 In un fluido statico la forza per unità d’area attraverso una superficie qualunque è normale alla superficie ed è la stessa per tutte le orientazioni della superficie.
F
FIGURA
40.2 La pressione in un liquido statico. FIGURA
F F h
Liquido statico
F
p = p0 h=0
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40.2 • Le equazioni del moto
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statico, segue che la pressione è la stessa in tutte le direzioni (FIGURA 40.1). Lasceremo che vi divertiate a provare che se non c’è scorrimento in alcun piano in un fluido, la pressione deve essere la stessa in qualunque direzione. La pressione in un fluido può variare da punto a punto. Per esempio, in un fluido statico alla superficie della terra la pressione varierà con l’altezza a causa del peso del fluido. Se la densità ⇢ del fluido si considera costante e se la pressione a un certo livello arbitrario la chiamiamo p0 (FIGURA 40.2), allora la pressione all’altezza h sopra a questo punto è p = p0 ⇢gh, dove g è la forza di gravità per unità di massa. La combinazione p + ⇢gh è perciò costante nel fluido statico. Questa relazione vi è familiare, ma ora deriveremo un risultato più generale del quale questo è un caso particolare. Se si prende un cubetto d’acqua, qual è la forza complessiva esercitata su di esso dalla pressione? Siccome la pressione in qualunque punto è la stessa in tutte le direzioni, ci può essere una forza complessiva per unità di volume solo perché la pressione varia da un punto a un altro. Supponiamo che la pressione vari nella direzione x e prendiamo le direzioni delle coordinate parallele agli spigoli del cubo. La pressione sulla faccia che si trova all’ascissa x dà una forza p y z (FIGURA 40.3) e la pressione sulla faccia che è x + x dà una forza ✓ @p ◆ p+ x y z @x
∆z
p
così che la risultante della forza è
@p x y z @x
∆x
p + (∂p/∂x)∆x
∆y
Se si considerano le rimanenti coppie di facce del cubo si vede facilmente che la forza per unità di volume dovuta alla pressione è rp. Se in più ci FIGURA 40.3 La forza complessiva sul cubo per sono altre forze – come la gravità – allora la pressione le deve compensare effetto della pressione è rp per unità di volume. perché si abbia l’equilibrio. Consideriamo una situazione in cui una tale forza in più può venire descritta da un potenziale, come avverrebbe nel caso della gravitazione; rappresentiamo con l’energia potenziale per unità di massa. (Per la gravità non è che gz.) La forza per unità di massa è data in funzione del potenziale da r , e se ⇢ è la densità del fluido, la forza per unità di volume è ⇢r . Perché si abbia equilibrio, questa forza per unità di volume sommata alla forza di pressione deve dare zero: rp
⇢r = 0
(40.1)
L’equazione (40.1) è l’equazione dell’idrostatica. In generale essa non ha soluzioni. Se la densità varia nello spazio in modo arbitrario, non c’è modo per le forze di equilibrarsi e il fluido non può essere in equilibrio statico: correnti di convezione si metteranno in moto. Si può vedere questo dall’equazione, giacché il termine della pressione è un puro gradiente, mentre l’altro non lo è, se ⇢ è variabile. Soltanto se ⇢ è costante il termine del potenziale è un puro gradiente. Allora l’equazione ha la soluzione p + ⇢ = cost. Un’altra possibilità che permette l’equilibrio idrostatico è che ⇢ sia una funzione soltanto di p. Abbandoneremo però l’argomento dell’idrostatica perché è ben lontano dall’essere altrettanto interessante della situazione in cui i fluidi sono in movimento.
40.2
Le equazioni del moto
Discuteremo dapprima i moti dei fluidi in modo teorico, puramente astratto, e poi considereremo degli esempi particolari. Per descrivere il moto di un fluido se ne devono dare le proprietà in
548
Capitolo 40 • Il flusso dell’acqua asciutta
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ogni punto. Per esempio, in punti diversi, l’acqua (il fluido chiamiamolo «acqua») si muove con velocità diverse. Per specificare il carattere del flusso si devono perciò dare le tre componenti della velocità in ogni punto e per ogni istante. Se si possono trovare le equazioni che determinano la velocità, si può sapere come il liquido si muove in qualunque momento. Però la velocità non è la sola proprietà del fluido che varia da punto a punto. Abbiamo discusso or ora la variazione della pressione da punto a punto. E ci sono ancora altre variabili. Ci può essere anche una variazione della densità da punto a punto. Per giunta il fluido può essere conduttore e trasportare una corrente elettrica la cui densità j varia da punto a punto in grandezza e direzione. Ci può essere una temperatura che varia da punto a punto, o un campo magnetico e così via. Perciò il numero di campi necessari a descrivere la situazione completa dipenderà dalla complessità del problema. Ci sono fenomeni interessanti quando le correnti e il magnetismo hanno una parte dominante nel determinare il comportamento del fluido; l’argomento si chiama magnetoidrodinamica, e oggi gli si dedica una grande attenzione. Però non ci metteremo a considerare queste situazioni più complicate, perché ci sono già fenomeni interessanti a un più basso livello di complessità e anche il livello più elementare riuscirà abbastanza complicato. Considereremo la situazione in cui non c’è campo magnetico e non c’è conduttività e non ci preoccuperemo della temperatura perché supporremo che densità e pressione determinino la temperatura in modo univoco in qualunque punto. In realtà, ridurremo la complessità del nostro lavoro facendo l’ipotesi che la densità sia costante: immagineremo che il fluido sia essenzialmente incomprimibile. Per esprimerci in un altro modo, si supporrà che le variazioni di pressione siano così piccole che i cambiamenti di densità prodotti in tal modo siano trascurabili. In casi diversi da questo, si incontrerebbero fenomeni in più di quelli che qui andremo discutendo; per esempio, la propagazione di suono o d’onde d’urto. Abbiamo già discusso la propagazione del suono e degli urti in una certa misura, perciò ora isoleremo questi altri fenomeni dalle nostre considerazioni idrodinamiche facendo l’approssimazione che ⇢ sia costante. È facile stabilire quando l’approssimazione di una ⇢ costante è buona. Si può dire che se le velocità dovute al flusso sono molto minori della velocità delle onde sonore nel fluido, non ci dovremo preoccupare delle variazioni di densità. Il fatto che l’acqua eluda i nostri tentativi di capirla non ha rapporto con l’approssimazione della densità costante. Le complicazioni che permettono all’acqua di eluderci saranno discusse nel prossimo capitolo. Nella teoria generale dei fluidi si deve cominciare con l’equazione di stato del fluido, che lega la pressione alla densità. Nella nostra approssimazione questa equazione di stato è semplicemente ⇢ = cost. Questa è dunque la prima relazione per le nostre variabili. La relazione che segue esprime la conservazione della materia: se della materia fluisce allontanandosi da un posto, ci deve essere una diminuzione della materia che resta. Se la velocità del fluido è v, la massa che fluisce per unità di tempo attraverso l’unità d’area di una superficie è la componente di ⇢v normale alla superficie. Abbiamo trovato una relazione simile in elettricità. Sappiamo inoltre dall’elettricità che la divergenza di tale grandezza dà la diminuzione della densità per unità di tempo. Nello stesso modo l’equazione @⇢ r · (⇢v) = (40.2) @t esprime la conservazione della massa in un fluido; è l’equazione di continuità dell’idrodinamica. Nella nostra approssimazione, che è l’approssimazione del fluido incomprimibile, ⇢ è costante e l’equazione di continuità è semplicemente r·v =0
(40.3)
La velocità del fluido v – come il campo magnetico B – ha divergenza nulla. (Le equazioni idrodinamiche hanno spesso una stretta analogia con quelle elettrodinamiche; questa è la ragione per la quale abbiamo studiato prima l’elettrodinamica. Alcuni ragionano nel modo opposto; pensano che si dovrebbe studiare prima l’idrodinamica, così che sia più facile, dopo, capire l’elettricità. In realtà però l’elettrodinamica è molto più facile dell’idrodinamica.)
40.2 • Le equazioni del moto
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La nostra prossima equazione la ricaveremo dalla legge di Newton che ci dice come la velocità cambi a causa delle forze. La massa di un elemento di volume del fluido moltiplicata per la sua accelerazione deve essere uguale alla forza che agisce sull’elemento. Prendendo un elemento di volume unitario e scrivendo f per la forza per unità di volume, avremo ⇢ · (accelerazione) = f Scriveremo la densità di forza come somma di tre termini. Abbiamo già considerato la forza di pressione per unità di volume, rp. Poi ci sono le forze «esterne» che agiscono a distanza, come la gravità o l’elettricità. Quando si tratta di forze conservative con un potenziale per unità di massa, esse danno una densità di forza ⇢r . (Se le forze esterne non sono conservative, si dovrebbe introdurre una fest , la forza esterna per unità di volume.) C’è poi un’altra forza «interna» per unità di volume che è dovuta al fatto che in un fluido in moto ci possono anche essere sforzi di taglio. Questa è chiamata forza viscosa e la indicheremo con fvisc . L’equazione di moto è dunque ⇢ · (accelerazione) = rp
⇢ r + fvisc
(40.4)
In questo capitolo supporremo che il liquido sia «magro», cioè che la sua viscosità sia priva d’importanza; perciò ometteremo fvisc . Quando si lascia cadere il termine viscoso, si fa un’approssimazione che descrive una certa sostanza ideale piuttosto che l’acqua vera. John von Neumann era ben conscio della formidabile differenza fra quello che succede quando non ci sono i termini viscosi e quando ci sono, ed era anche conscio del fatto che durante la maggior parte dello sviluppo dell’idrodinamica, fin verso il 1900, quasi tutto l’interesse consisteva nel risolvere dei bei problemi matematici con questa approssimazione, che non ha quasi nulla a che fare coi fluidi veri. Definì il teorico che faceva codeste analisi come uno che studiava «l’acqua asciutta». Tali analisi tralasciano una proprietà essenziale del fluido. Ed è perché stiamo tralasciando questa proprietà nei calcoli di questo capitolo che lo abbiamo intitolato «Il flusso dell’acqua asciutta». Rimandiamo al prossimo capitolo la discussione dell’acqua vera. Se tralasciamo fvisc , abbiamo nell’equazione (40.4) tutto quello che ci v + ∆v occorre, salvo un’espressione per l’accelerazione. Potreste pensare che la v(x, y, z, t) formula per l’accelerazione di una particella del flusso sia semplicissima, perché sembra ovvio che se v è la velocità della particella in un certo punto P2 P1 del fluido, l’accelerazione debba essere semplicemente @v/@t. Non lo è, e Cammino di una particella v∆t per una ragione piuttosto sottile. La derivata @v/@t è la rapidità con cui la velocità v(x, y, z, t) cambia in un punto fisso dello spazio. Ma quello che ci occorre è sapere quanto rapidamente varia la velocità di un particolare elemento del fluido. Immaginiamo di marcare un piccolo volume dell’acqua con un bruscolo colorato, così da poterlo tenere d’occhio. In un intervallino di tempo t, il volumetto si sposterà,in una posizione diversa. Se esso si FIGURA 40.4 L’accelerazione di una particella muove su un certo percorso, come è schematizzato nella FIGURA 40.4, nel di fluido. tempo t potrebbe muoversi da P1 a P2 . Effettivamente, si muoverà nella direzione x per un tratto vx t, nella direzione y per un tratto vy t e nella direzione z per un tratto vz t. Si vede che se v(x, y, z, t) è la velocità della particella di fluido che si trova in (x, y, z) all’istante t, la velocità della stessa particella all’istante t + t è data da v(x + x, y + y, z + z, t + t) con x = vx t
y = vy t
e
z = vz t
Dalla definizione delle derivate parziali – ricordate l’equazione (2.7) – abbiamo, al primo ordine: v(x + vx t, y + vy t, z + vz t, t + t) = = v(x, y, z, t) +
@v @v @v @v vx t + vy t + vz t + t @x @y @z @t
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Capitolo 40 • Il flusso dell’acqua asciutta
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L’accelerazione v/ t è @v @v @v @v + vy + vz + @x @y @z @t Questa si può scrivere simbolicamente, trattando r come un vettore: vx
(v · r) v +
@v @t
(40.5)
Si noti che ci può essere accelerazione anche se è @v/@t = 0, così che la velocità in un dato punto non cambia. Per esempio, dell’acqua che scorre in circolo, a velocità costante, accelera anche se la velocità in un dato punto non varia. La ragione è, naturalmente, che la velocità di un particolare elemento dell’acqua che si trova inizialmente in un certo punto del cerchio ha una direzione diversa un momento più tardi; c’è un’accelerazione centripeta. Il resto della teoria non è che matematica: si tratta di trovare le soluzioni dell’equazione del moto che si ottiene portando l’accelerazione (40.5) nell’equazione (40.4). Si ha @v + (v · r) v = @t
rp ⇢
(40.6)
r
dove la viscosità è stata omessa. Possiamo riformulare questa equazione usando la seguente identità dell’analisi vettoriale: (v · r) v = (r ⇥ v) ⇥ v +
1 r(v · v) 2
Se si definisce un nuovo campo vettoriale ⌦ come il rotore di v, (40.7)
⌦ =r⇥v l’identità vettoriale può essere scritta 1 (v · r) v = ⌦ ⇥ v + rv 2 2 e l’equazione del moto (40.6) diventa @v 1 + ⌦ ⇥ v + rv 2 = @t 2
rp ⇢
r
(40.8)
Potete verificare che le equazioni (40.6) e (40.8) sono equivalenti controllando che le componenti dei due membri sono uguali e facendo uso della (40.7). Il campo vettoriale ⌦ è chiamato vorticità. Se la vorticità è dovunque nulla si dice che il flusso è irrotazionale. Abbiamo già definito nel paragrafo 3.5 una cosa chiamata circuitazione di un campo vettoriale. La circuitazione intorno a qualsiasi cammino chiuso in un fluido è l’integrale di linea della velocità del fluido, preso intorno a quel cammino, a un dato istante: ⇥ (circuitazione) = v · ds La circuitazione per unità d’area per un percorso chiuso infinitesimo è uguale – secondo il teorema di Stokes – a r ⇥ v. Perciò la vorticità ⌦ è la circuitazione intorno all’unità d’area (perpendicolare alla direzione di ⌦). Si ha anche la conseguenza che, se si mette un corpuscolo estraneo – non un punto infinitesimo – in qualsiasi punto nel liquido, esso ruoterà con la velocità angolare ⌦/2. Provate a vedere se vi riesce dimostrarlo. Potete anche controllare che, per un secchio d’acqua su un sostegno che gira, ⌦ è uguale al doppio della velocità angolare locale dell’acqua. Se ci interessa soltanto il campo di velocità, si può eliminare la pressione dalle nostre equazioni. Prendendo il rotore dei due membri dell’equazione (40.8), ricordando che ⇢ è costante e che il rotore di qualunque gradiente è nullo, si ottiene, usando l’equazione (40.3): @⌦ + r ⇥ (⌦ ⇥ v) = 0 @t
(40.9)
40.3 • Flusso stazionario. Teorema di Bernoulli
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Questa, insieme con le equazioni e
⌦ =r⇥v
(40.10)
r·v =0
(40.11)
descrive completamente il campo di velocità v. Dal punto di vista matematico, se si conosce ⌦ a un certo istante, si ha il rotore del vettore velocità e si sa inoltre che la sua divergenza è zero; quindi, data la situazione fisica, si ha tutto ciò che occorre per determinare v dappertutto. (È proprio come nel magnetismo, dove si aveva r · B = 0 e r ⇥ B = j/✏ 0 c2 .) Perciò un dato ⌦ determina v, proprio come j determina B. Poi, noto v, l’equazione (40.9) ci dà la rapidità di variazione di ⌦, dalla quale si può ottenere il nuovo ⌦ per l’istante successivo. Tornando a usare l’equazione (40.10) si può trovare il nuovo v e così via. Si vede come queste equazioni contengano il meccanismo per calcolare il flusso. Si noti che questo procedimento dà soltanto il campo di velocità; si è persa tutta l’informazione riguardante la pressione. Facciamo notare una conseguenza particolare della nostra equazione. Se è ⌦ = 0 dappertutto, a qualunque istante t, @⌦/@t è anch’essa nulla, cosicché ⌦ continua a essere nullo dovunque all’istante t + t. Abbiamo una soluzione dell’equazione: il flusso è in permanenza irrotazionale. Se un flusso ha avuto inizio con rotazione nulla, avrà sempre rotazione nulla. Le equazioni da risolvere sono r·v =0 r⇥v =0 Esse sono proprio simili alle equazioni del campo elettrostatico o magnetostatico nello spazio libero. Più tardi torneremo a esse ed esamineremo alcuni problemi particolari.
40.3
Flusso stazionario. Teorema di Bernoulli
Vogliamo ora tornare all’equazione del moto (40.8) limitandoci però alle situazioni in cui il flusso è «stazionario». Per flusso stazionario s’intende che in qualunque punto la velocità del fluido non cambia mai. Il fluido in ogni punto viene sempre sostituito da nuovo fluido che si muove nello stesso identico modo. La distribuzione delle velocità è sempre la stessa: v è un campo statico. Nello stesso modo in cui si tracciano delle «linee di campo» in magnetostatica, ora possiamo tracciare delle linee che sono sempre tangenti alla velocità del fluido, come mostra la FIGURA 40.5. Queste v linee vengono chiamate linee di corrente. Nel flusso stazionario esse sono evidentemente gli effettivi percorsi delle particelle del fluido. (Nel flusso non stazionario, la configurazione delle linee di corrente cambia col tempo e non rappresenta – in qualunque istante – le traiettorie delle particelle del fluido.) FIGURA 40.5 Linee di corrente nel flusso stazionario Un flusso stazionario non vuol dire che nulla accada (gli atomi del fluido di un fluido. si muovono e cambiano di velocità). Vuol dire soltanto che si ha @v/@t = 0. Perciò, moltiplicando scalarmente per v l’equazione del moto (40.8), il termine v · (⌦ ⇥ v) si elimina e resta ! p 1 2 v·r + + v =0 (40.12) ⇢ 2 Questa equazione dice che in un piccolo spostamento nella direzione della velocità del fluido la grandezza entro parentesi non cambia. Ma nel flusso stazionario tutti gli spostamenti avvengono lungo le linee di corrente, perciò l’equazione (40.12) ci dice che per tutti i punti lungo una linea di corrente si può scrivere p 1 2 + v + ⇢ 2
= cost. (linea corrente)
(40.13)
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Capitolo 40 • Il flusso dell’acqua asciutta
40.6 Moto di un fluido in un tubo di flusso.
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FIGURA
v2∆t
v2
v1∆t v1
A1
∆M
A2
∆M
(a)
(b)
Questo è il teorema di Bernoulli. La costante può anche essere diversa per linee di corrente diverse; tutto quello che sappiamo è che il primo membro dell’equazione (40.13) è lo stesso lungo una data linea di corrente. Incidentalmente, possiamo notare che per un moto stazionario irrotazionale, per il quale si ha ⌦ = 0, l’equazione di moto (40.8) ci dà la relazione ! p 1 2 r + v + =0 ⇢ 2 così che si ha
p 1 2 + v + ⇢ 2
= cost. (dappertutto)
(40.14)
Questa equazione è simile alla (40.13) eccetto che ora la costante ha lo stesso valore dappertutto nel fluido. Il teorema di Bernoulli è in sostanza nulla più che un’affermazione della conservazione dell’energia. Un teorema di conservazione di questo tipo ci dà una quantità d’informazioni sul flusso senza che si debbano effettivamente risolvere le equazioni dettagliate. Il teorema di Bernoulli è così semplice e così importante che desideriamo mostrarvi come può esser dedotto in un modo diverso dai calcoli formali che abbiamo fatto or ora. Immaginiamo un fascio di linee di corrente vicine che formano un tubo di corrente, come si è schematizzato nella FIGURA 40.6. Siccome le pareti del tubo sono fatte da linee di corrente, il fluido non attraversa le pareti. Chiamiamo A1 l’area a un estremo del tubo di corrente, dove la velocità è v1 , la densità del fluido ⇢1 e l’energia potenziale 1 . All’altro estremo del tubo siano A2 , v2 , ⇢2 e 2 le grandezze corrispondenti. Ora, dopo un breve intervallo di tempo t, il fluido in A1 si è spostato della distanza v1 t e il fluido in A2 si è spostato della distanza v2 t (FIGURA 40.6b). La conservazione della massa esige che la massa che entra attraverso A1 deve essere uguale alla massa che esce attraverso A2 : queste masse ai due estremi devono essere le stesse: M = ⇢1 A1 v1 t = ⇢2 A2 v2 t Perciò abbiamo l’uguaglianza ⇢1 A1 v1 = ⇢2 A2 v2
(40.15)
Questa equazione ci dice che la velocità varia inversamente all’area del tubo di corrente, se ⇢ è costante. Calcoliamo ora il lavoro fatto dalla pressione del fluido. Il lavoro fatto sul fluido che entra attraverso A1 è p1 A1 v1 t e il lavoro fatto dal fluido che esce attraverso A2 è p2 A2 v2 t. Il lavoro complessivo fatto sul fluido fra A1 e A2 è perciò p1 A1 v1 t
p2 A2 v2 t
che deve uguagliare l’aumento d’energia della massa M di fluido che va da A1 a A2 . In altre parole, sarà p1 A1 v1 t p2 A2 v2 t = M (E2 E1 ) (40.16)
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40.3 • Flusso stazionario. Teorema di Bernoulli
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dove E1 è l’energia per unità di massa del fluido in A1 ed E2 è l’energia per unità di massa in A2 . L’energia per unità di massa di un fluido può esser scritta nel modo seguente: E=
1 2 v + 2
+U
dove (1/2) v 2 è l’energia cinetica per unità di massa, è l’energia potenziale per unità di massa e U è un termine addizionale che rappresenta l’energia interna per unità di massa del fluido. L’energia interna potrebbe corrispondere per esempio all’energia termica in un fluido comprimibile, o a energia chimica. Tutte queste grandezze possono variare da punto a punto. Usando questa forma per le energie che appaiono in (40.16) abbiamo p1 A1 v1 t M
p2 A2 v2 t 1 2 = v2 + M 2
2
+ U2
1 2 v 2 1
1
U1
Ma si è visto che è M = ⇢Av t perciò otteniamo
p1 1 2 + v + ⇢1 2 1
1
+ U1 =
p2 1 2 + v + ⇢2 2 2
2
+ U2
(40.17)
che è il risultato di Bernoulli, con un termine addizionale per l’energia interna. Se il fluido è incomprimibile il termine dell’energia interna è lo stesso dai due lati e si ottiene di nuovo che l’equazione (40.14) è valida lungo una linea di corrente. Consideriamo ora alcuni semplici esempi nei quali l’integrale di Bernoulli ci dà una descrizione del flusso. Supponiamo di avere dell’acqua che sgorga da un foro vicino al fondo di un serbatoio, come si è mostrato nella FIGURA 40.7. Mettiamoci in un caso in cui la velocità veff di efflusso dal foro è molto più grande della velocità del flusso vicino alla cima del serbatoio; in altre parole, immaginiamo che il diametro del serbatoio sia così grande che si possa trascurare il calo di livello del liquido. (Desiderandolo, si potrebbe fare un calcolo più preciso.) In cima al serbatoio la pressione è la pressione atmosferica p0 e la pressione sui fianchi del getto è anch’essa p0 . Scriviamo ora l’equazione di Bernoulli per una linea di corrente come quella indicata in figura. In cima al serbatoio prendiamo v uguale a zero e poniamo che sia zero anche il potenziale della gravità. All’uscita la velocità è veff ed è = gh, così che si ha p0 = p0 +
1 2 ⇢v 2 eff
⇢gh
ossia veff =
p
2gh
(40.18)
Questa velocità è proprio quella che si otterrebbe per qualcosa che cade dall’altezza h. Ciò non è molto sorprendente, perché l’acqua all’uscita acquista energia cinetica a spese dell’energia
p0 Acqua
Linea di corrente
FIGURA
p0 veff
40.7
Efflusso da
un serbatoio. FIGURA 40.8 Con un tubo di scarico rientrante, la corrente si contrae fino alla metà dell’area dell’apertura.
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Capitolo 40 • Il flusso dell’acqua asciutta
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40.9 La pressione è minima dove la velocità è massima. FIGURA
FIGURA
40.10
Dimostrazione p che v non è uguale a 2gh.
v1
v2
v1
potenziale dell’acqua in cima al serbatoio. Non vi venga in mente, però, che si possa calcolare la portata del fluido che esce dal serbatoio moltiplicando questa velocità per l’area del foro. Le velocità nel fluido quando il getto abbandona il foro non sono tutte mutuamente parallele, ma hanno componenti dirette internamente verso il centro della vena: il getto è convergente. Dopo che il getto si è allontanato un po’, la contrazione si arresta e le velocità finiscono per diventare parallele. Perciò il flusso totale è dato dal prodotto della velocità per l’area in questo punto. Di fatto, se si ha un’apertura di scarico che sia un semplice foro rotondo con orli netti, il getto si contrae fino al 62% dell’area del foro. L’area ridotta effettiva dello scarico varia a seconda delle diverse forme di tubi di scarico e le contrazioni misurate sperimentalmente si possono trovare sulle tabelle dei coefficienti di efflusso. Se il tubo di scarico è rientrante, come mostra la FIGURA 40.8, è possibile provare in modo bellissimo che il coefficiente di efflusso è esattamente il 50%. Daremo un semplice cenno di come procede la dimostrazione. Abbiamo usato la conservazione dell’energia per ottenere la velocità mediante l’equazione (40.18), ma c’è anche da considerare la conservazione dell’impulso. Siccome nel getto di scarico c’è un efflusso d’impulso, ci deve essere una forza applicata sulla sezione del tubo di scarico. Da dove viene questa forza? La forza deve venire dalla pressione sulle pareti. Purché il foro di efflusso sia piccolo e lontano dalle pareti, la velocità del fluido vicino alle pareti del serbatoio sarà molto piccola. Perciò la pressione su ogni faccia sarà quasi identica alla pressione statica del fluido in quiete, da calcolarsi con l’equazione (40.14). Quindi la pressione statica in ogni punto delle fiancate del serbatoio deve essere bilanciata da una pressione uguale su un punto della parete opposta, eccetto che nei punti della parete opposti al tubo di scarico. Se si calcola l’impulso riversato nel getto da questa pressione si può mostrare che il coefficiente di efflusso è 1/2. Non si può però usare questo metodo per uno scarico come quello mostrato nella FIGURA 40.7, perché l’aumento di velocità lungo la parete nelle vicinanze dell’area di scarico dà una caduta di pressione che non si è in grado di calcolare. Consideriamo un altro esempio: un tubo orizzontale a sezione variabile, come mostra la FIGURA 40.9, con dell’acqua che entra da una parte ed esce dall’altra. La conservazione dell’energia, cioè la formula di Bernoulli, dice che la pressione è più bassa nella zona stretta, dove la velocità è più alta. Si può mostrare facilmente questo effetto misurando la pressione in punti dove la sezione è diversa per mezzo di piccole colonne verticali d’acqua connesse al tubo di flusso attraverso dei fori abbastanza piccoli da non disturbare il flusso. La pressione è misurata dall’altezza dell’acqua in queste colonne verticali. Si trova che la pressione è più piccola nella strettoia che nelle zone laterali. Se dopo la strettoia l’area riprende il valore che aveva prima, la pressione sale di nuovo. La formula di Bernoulli direbbe che la pressione a valle della strettoia dovrebbe esser la stessa che a monte, ma in realtà è sensibilmente minore. La ragione per cui la nostra previsione è sbagliata è che abbiamo trascurato le forze d’attrito, viscose, che provocano una caduta di pressione lungo il tubo. Malgrado la caduta di pressione, la pressione è nettamente più bassa nella strettoia (a causa dell’aumento di velocità) rispetto ai due estremi, come previsto da Bernoulli. La velocità v2 deve
40.4 • La circuitazione
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certamente superare la velocità v1 , per far passare la stessa quantità d’acqua attraverso il tubo più stretto. Perciò l’acqua accelera andando dalla parte larga a quella stretta. La forza che dà questa accelerazione viene dalla caduta della pressione. Possiamo controllare questi risultati con un’altra semplice esperienza. Supponiamo di avere applicato a un serbatoio un tubo di scarico che butta un p getto d’acqua in su, come mostra la FIGURA 40.10. Se la velocità d’efflusso fosse esattamente 2gh, l’acqua di scarico dovrebbe salire fino a un livello pari a quello della superficie dell’acqua nel serbatoio. Sperimentalmente, ne resta un po’ al disotto. La nostra previsione è abbastanza giusta, ma anche qui l’attrito viscoso, che non è stato incluso nella formula della conservazione dell’energia, ha per conseguenza una perdita d’energia. Avete mai provato a tenere vicini due pezzi di carta e cercare di allontanarli soffiandoci in mezzo? Provate! Essi si accostano di più. La ragione, naturalmente, è che l’aria ha una velocità maggiore quando passa nello spazio ristretto fra i due fogli che non quando ne esce. La pressione fra i fogli è più bassa della pressione atmosferica, perciò essi si accostano invece di separarsi.
40.4
La circuitazione
Abbiamo visto all’inizio del paragrafo precedente che se si ha un fluido incomprimibile con circuitazione nulla, il flusso soddisfa le seguenti due equazioni: r·v =0 (40.19) r⇥v =0
(a)
Esse coincidono con le equazioni dell’elettrostatica e della magnetostatica nello spazio vuoto. La divergenza del campo elettrico è zero quando non ci sono cariche e il rotore del campo elettrostatico è sempre zero. Il rotore del campo magnetostatico è zero se non ci sono correnti e la divergenza del campo magnetico è sempre zero. Perciò le equazioni (40.19) hanno le stesse (b) soluzioni delle equazioni per E in elettrostatica o per B in magnetostatica. In realtà, abbiamo già risolto – nel paragrafo 12.5 – come un’analogia elettrostatica il problema del flusso di un fluido che investe una sfera. L’analogo elettrostatico è un campo elettrico uniforme, più un campo di dipolo. Il campo di dipolo è aggiustato in modo che la velocità di flusso normale F alla superficie sia zero. Lo stesso problema per il flusso che oltrepassa un cilindro può essere trattato usando un’opportuna linea dipolare insieme con un campo uniforme di flusso. Questa soluzione vale per una situazione in (c) cui la velocità del fluido a grande distanza è costante, sia in grandezza sia in direzione. La soluzione è schematizzata nella FIGURA 40.11a. C’è un’altra soluzione per il flusso intorno a un cilindro, quando le condizioni sono tali che il fluido a grande distanza si muove in circolo intorno al cilindro. Il flusso è allora dappertutto circolare, come nella FIGURA 40.11b. FIGURA 40.11 (a) Flusso ideale di un fluido che Tale flusso possiede una circuitazione intorno al cilindro, benché r ⇥ v sia oltrepassa un cilindro. (b) Circolazione intorno a un ancora zero nel fluido. Come può esservi circuitazione senza un rotore? cilindro. (c) Sovrapposizione di (a) e (b). Si ha una circuitazione intorno al cilindro perché l’integrale di linea di v intorno a ogni linea chiusa che circonda il cilindro non è zero. Nello stesso tempo l’integrale di linea intorno a ogni cammino chiuso che non contiene il cilindro è zero. Abbiamo visto la stessa cosa quando si è trovato il campo magnetico intorno a un filo. Il rotore di B era nullo fuori dal filo, benché l’integrale di linea di B su un cammino che circondava il filo non si annullasse. Il campo di velocità in una circuitazione irrotazionale intorno a un cilindro è precisamente lo stesso del campo magnetico intorno a un filo. Per un cammino circolare col centro nel centro del cilindro, l’integrale di linea della velocità è ⇥ v · ds = 2⇡rv
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Capitolo 40 • Il flusso dell’acqua asciutta
FIGURA
Nel flusso irrotazionale l’integrale deve essere indipendente da r. Chiamiamo C il suo valore costante; dovrà essere C (40.20) v= 2⇡r dove v è la velocità tangenziale e r è la distanza dall’asse. C’è una bella esperienza su un fluido che circola intorno a un buco. Si prende un recipiente cilindrico trasparente con un foro di scarico al centro del fondo. Lo si riempie di acqua, si provoca una certa circolazione agitando con una bacchetta e si tira via il tappo dello scarico. Si ottiene il grazioso effetto indicato nella FIGURA 40.12. (Avrete visto una cosa simile molte volte nella vasca da bagno!) Benché si introduca una certa ! all’inizio, essa svanisce presto a causa della viscosità e il flusso diventa irrotazionale, benché sempre con una certa circolazione intorno al buco. Dalla teoria si può calcolare la forma della superficie interna dell’acqua. Mentre una particella d’acqua si porta verso l’interno, essa acquista velocità. Secondo l’equazione (40.20) la velocità tangenziale cresce come 1/r; questo è semplicemente dovuto alla conservazione del momento angolare, come la pattinatrice che ritira a sé le braccia. Anche la velocità radiale cresce come 1/r: ignorando il moto tangenziale, abbiamo dell’acqua che si muove radialmente in dentro verso un buco; segue allora da r · v = 0 che la velocità radiale è proporzionale a 1/r. Perciò anche la velocità totale cresce come 1/r e l’acqua si muove lungo delle spirali di Archimede. La superficie aria-acqua è tutta alla pressione atmosferica, perciò – secondo l’equazione (40.14) – deve avere la proprietà 1 gz + v 2 = cost. 2 Ma v è proporzionale a 1/r, perciò la forma della superficie è
40.12
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Svuotamento di un serbatoio con circolazione dell’acqua.
z
z0 =
k r2
Un punto interessante – che non è vero in generale ma è vero per il flusso irrotazionale incomprimibile – è che se si ha una soluzione e una seconda soluzione, la somma è pure una soluzione. Questo è vero perché le equazioni (40.19) sono lineari. Le equazioni complete dell’idrodinamica, cioè le equazioni (40.9), (40.10) e (40.11) non sono lineari: ciò fa un’enorme differenza. Per il flusso irrotazionale intorno al cilindro, però, si può sovrapporre il flusso della FIGURA 40.11a a quello della FIGURA 40.11b per ottenere la nuova configurazione del flusso indicata in FIGURA 40.11c. Questo flusso ha uno speciale interesse. La velocità del flusso è più elevata nella parte più alta del cilindro che nella parte più bassa. Le pressioni sono perciò più basse nella parte alta che in quella bassa. Perciò quando si ha la combinazione di una circolazione intorno a un cilindro e un flusso orizzontale complessivo, c’è una forza verticale complessiva sul cilindro: essa viene chiamata portanza. Naturalmente se non c’è circolazione, non c’è forza complessiva su alcunché, secondo la nostra teoria dell’acqua «asciutta».
40.5
Linee vorticose
Abbiamo già scritto le equazioni generali per il flusso di un fluido incomprimibile quando si può avere vorticità. Esse sono I II III
r·v =0 ⌦ =r⇥v @⌦ + r ⇥ (⌦ ⇥ v) = 0 @t
Il contenuto fisico di queste equazioni è stato descritto a parole da Helmholtz per mezzo di tre teoremi. Prima di tutto immaginiamo che nel fluido siano tracciate delle linee vorticose, invece che delle linee di corrente. Per linee vorticose intendiamo delle linee che hanno la direzione di ⌦
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40.5 • Linee vorticose
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e la cui densità in ogni regione è proporzionale al modulo di ⌦. Secondo la II, la divergenza di ⌦ è sempre zero (si ricordi – paragrafo 3.7 – che la divergenza di un rotore è sempre zero). Perciò le linee vorticose sono come le linee di B: esse non cominciano né finiscono mai e tendono a presentarsi come circuiti chiusi. Helmholtz illustrò la III a parole con l’affermazione seguente: le linee vorticose si muovono col fluido. Questo vuol dire che se si marcassero le particelle del fluido che si trovano lungo alcune linee vorticose – per esempio colorandole con inchiostro – allora, mentre il fluido si muove e trasporta con sé queste particelle, esse segnerebbero sempre le nuove posizioni delle linee vorticose. In qualunque maniera gli atomi del liquido si muovano, le linee vorticose si muovono con loro. Questo è uno dei modi di descrivere le leggi. Esso suggerisce anche un metodo per risolvere i problemi. Data la configurazione iniziale del flusso – per esempio dato v dappertutto – se ne può calcolare ⌦. Conoscendo v si può anche dire dove le linee vorticose si troveranno un po’ più tardi: esse si muovono con la velocità v. Noto il nuovo ⌦, si può adoperare I e II per trovare il nuovo v. (Questo è proprio come il problema di trovare B, date le correnti.) Se ci viene data la configurazione del flusso a un certo istante possiamo, in via di principio, calcolarlo per tutti gli istanti successivi. Abbiamo la soluzione generale per il flusso non viscoso. Desideriamo far vedere come le affermazioni di Helmholtz – e quindi III – possono essere almeno parzialmente capite. Si tratta in realtà semplicemente della legge della conservazione del momento angolare applicata al fluido. Consideriamo un cilindretto di liquido il cui asse sia parallelo alle linee vorticose, come nella FIGURA 40.13a. A un certo istante successivo, la stessa porzione di fluido si troverà in qualche altro luogo. In generale occuperà un cilindro con un diametro diverso, in un luogo diverso. Potrà anche avere una diversa orientazione, per esempio come in FIGURA 40.13b. Se il diametro è diminuito, però, la lunghezza sarà aumentata per mantenere costante il volume (giacché si fa l’ipotesi di un fluido incomprimibile). Inoltre, siccome le linee vorticose fanno corpo col materiale, la loro densità salirà quando l’area della sezione trasversa diminuisce. Il prodotto della vorticità ⌦ per l’area A del cilindro rimarrà costante; perciò, secondo Helmholtz, si (a) dovrà avere ⌦2 A2 = ⌦1 A1 (40.21) Ora notiamo che, essendo nulla la viscosità, tutte le forze sulla superficie del volume cilindrico (o di qualsiasi volume, peraltro) sono perpendicolari alla superficie. Le forze di pressione possono costringere il volume a muoversi da un posto a un altro, o a cambiare forma; ma in assenza di forze tangenziali l’entità del momento angolare del materiale che vi è contenuto non può cambiare. Il momento angolare del liquido nel cilindretto è dato dal suo momento d’inerzia I moltiplicato per la velocità angolare del liquido che è proporzionale alla vorticità ⌦. Per un cilindro il momento d’inerzia è proporzionale a mr 2 . Perciò dalla conservazione del momento angolare si conclude che deve essere (M1 R12 ) ⌦1 = (M2 R22 ) ⌦2
Area A1
Area A2
(b)
40.13 (a) Un gruppo di linee vorticose all’istante t; (b) le stesse linee a un istante successivo t 0 . FIGURA
Ma la massa è la stessa, ossia M1 = M2 e le aree sono proporzionali a R2 , perciò si ottiene di nuovo proprio l’equazione (40.21). L’affermazione di Helmholtz – che equivale alla III – non è che una conseguenza del fatto che in assenza di viscosità il momento angolare di un elemento del fluido non può cambiare. C’è una graziosa esperienza per mostrare l’esistenza di un vortice in moto, che si può fare col semplice apparecchio della FIGURA 40.14. Si tratta di un «tamburo» di mezzo metro di diametro e lungo mezzo metro, fatto tendendo uno spesso foglio di gomma sul lato aperto di una «scatola» cilindrica. Il tamburo è coricato su un fianco e il fondo, che è rigido, ha un foro di 7-8 cm di diametro. Se con la mano si dà un colpo secco sul diaframma di gomma, un vortice anulare viene proiettato di là dal foro. Benché il vortice sia invisibile, si può dire che c’è perché può spegnere
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Capitolo 40 • Il flusso dell’acqua asciutta
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una candela a distanza di 3-6 m. Dal ritardo dell’effetto si può dire che c’è «qualcosa» che viaggia a velocità finita. Si può vedere meglio cosa sta succedendo se prima si soffia un po’ di fumo nella scatola. Allora si vede il vortice come un bell’«anello di fumo» rotondo. L’anello di fumo è un fascio a forma di toro di linee vorticose, come mostra la FIGURA 40.15a. Avendosi ⌦ = r⇥v, queste linee vorticose rappresentano anche una circuitazione di v come è mostrato nella FIGURA 40.15b. FIGURA 40.14 Produzione di un anello vorticoso Si può capire il moto in avanti dell’anello nel modo seguente: la velocità di in movimento. circolazione intorno alla parte inferiore dell’anello si estende fino alla parte superiore, dove ha un moto in avanti. Siccome le linee di ⌦ si muovono col fluido, esse pure si muovono in avanti con la velocità v. (Naturalmente, la Linee circuitazione di v intorno alla parte superiore dell’anello è causa del moto vorticose in avanti delle linee vorticose in quella inferiore.) Dobbiamo ora parlare di una seria difficoltà. Si è già notato che l’equazione (40.9) dice che se ⌦ è inizialmente zero, sarà sempre zero. Questo risultato è una grossa deficienza della teoria dell’acqua «asciutta», perché Direzione in queste condizioni si dovrebbe concludere che è impossibile produrre la del moto vorticità in alcuna circostanza. Tuttavia, nella nostra semplice esperienza v col tamburo, possiamo generare un anello vorticoso partendo da aria inizialmente in quiete. (Certamente si aveva v = 0, ⌦ = 0 dovunque nella Parte superiore scatola, prima di darle il colpo.) Inoltre sappiamo tutti che si può far nascere una certa vorticità in un lago con un remo. Evidentemente si deve passare a v Linee una teoria dell’acqua «bagnata» per comprendere il comportamento di un vorticose fluido. v Direzione del moto Un’altra caratteristica della teoria dell’acqua asciutta, che è inesatta, è l’ipotesi che si fa riguardo al flusso alla superficie di contatto fra l’acqua e Parte inferiore un solido. Quando per esempio abbiamo discusso il flusso che lambisce un cilindro – come in FIGURA 40.11 – abbiamo permesso al fluido di scivolare lungo la superficie del solido. Nella nostra teoria la velocità alla superficie del solido poteva avere qualunque valore in dipendenza dalle condizioni FIGURA 40.15 Un anello vorticoso (un anello di fumo). (a) Le linee vorticose. (b) Sezione dell’anello. iniziali e non si considerava alcun «attrito» fra il fluido e il solido. È però un fatto sperimentale che la velocità di un fluido vero va sempre a zero alla superficie di un oggetto solido. Perciò la nostra soluzione per il cilindro, con o senza circolazione, è sbagliata, come lo è il risultato concernente la produzione della vorticità. Delle teorie più corrette diremo nel prossimo capitolo.
41
Il flusso dell’acqua bagnata
41.1
La viscosità
Nel capitolo precedente si è discusso il comportamento dell’acqua ignorando il fenomeno della viscosità. Desideriamo ora discutere i fenomeni di flusso nei fluidi includendo gli effetti della viscosità. Vogliamo esaminare il comportamento vero dei fluidi. Descriveremo qualitativamente il comportamento dei fluidi in varie circostanze diverse, così che acquistiate un certo intuito riguardo a questo argomento. Anche se avrete occasione di vedere delle equazioni complicate e di sentir parlare di cose complicate, non è nei nostri scopi che dobbiate imparare tutte queste cose. Questo è in un certo senso un capitolo «culturale» che vi darà una certa idea di com’è fatto il mondo. C’è un solo particolare che vale la pena d’imparare e questo è la semplice definizione della viscosità, che incontreremo fra un momento. Il resto è soltanto per vostro divertimento. Nel capitolo precedente si è trovato che le leggi di moto di un fluido sono contenute nell’equazione @v + (v · r) v = @t
rp ⇢
r +
fvisc ⇢
(41.1)
Nell’approssimazione dell’acqua «asciutta» si è tralasciato l’ultimo termine e quindi si sono trascurati tutti gli effetti viscosi. Inoltre si è fatta qualche volta un’approssimazione supplementare considerando che il fluido fosse incomprimibile; si aveva allora in più l’equazione r·v =0 Quest’ultima approssimazione è spesso molto buona, specialmente quando le velocità del flusso sono molto più piccole della velocità del suono. Ma nei fluidi reali non è quasi mai vero che si possa trascurare l’attrito interno, che chiamiamo viscosità; la maggior parte delle cose interessanti che possono accadere viene, in un modo o in un altro, da quella. Per esempio, abbiamo visto che nell’acqua «asciutta» la circuitazione non cambia mai: se non ce n’è da principio, non ci sarà mai. Tuttavia, la circolazione nei fluidi è un’evenienza di tutti i giorni. Dobbiamo aggiustare la nostra teoria. Cominciamo con un importante fatto sperimentale. Quando abbiamo calcolato il flusso dell’acqua «asciutta» intorno a un cilindro o trasversalmente a esso – il cosiddetto «flusso potenziale» – non si aveva alcun motivo di non permettere all’acqua di avere una velocità tangente alla superficie; soltanto la componente normale doveva essere nulla. Non abbiamo tenuto in alcun conto la possibilità che ci potesse essere una forza di taglio fra il liquido e il solido. Risulta – sebbene non sia affatto evidente di per sé – che, in tutte le circostanze in cui si è potuto fare una verifica sperimentale, la velocità di un fluido è esattamente nulla sulla superficie di un solido. Senza dubbio avrete notato che le pale di un ventilatore raccolgono un sottile strato di polvere e che questa è sempre lì dopo che il ventilatore ha continuato ad agitare l’aria. Si può vedere lo stesso effetto anche sulle pale del grande ventilatore di un tunnel aerodinamico. Perché la polvere non è soffiata via dall’aria? Malgrado le pale del ventilatore si muovano ad alta velocità attraverso l’aria, la velocità dell’aria relativamente alla pale, direttamente sulla superficie,
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Capitolo 41 • Il flusso dell’acqua bagnata
Area A v0
F
v
d
Fluido v=0
FIGURA
41.1
Trascinamento viscoso fra due lastre
parallele.
∆F
∆A
vx + ∆vx
∆y vx
FIGURA
41.2
Lo sforzo di taglio in un fluido viscoso.
y
a r
b
x
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va a zero. Perciò le più piccole fra le particelle di polvere non vengono disturbate(1) . Si deve modificare la teoria per andare d’accordo col fatto sperimentale che in tutti i fluidi ordinari le molecole più vicine a una superficie solida hanno velocità nulla (relativamente alla superficie)(2) . Originariamente un liquido è stato caratterizzato dal fatto che se gli si applica uno sforzo di taglio – per quanto piccolo – esso non oppone resistenza. Esso scorre. In condizioni statiche non ci sono sforzi di taglio. Ma prima che l’equilibrio sia raggiunto – fintanto che si continua a spingerlo – ci possono essere forze di taglio. La viscosità descrive queste forze di taglio che esistono in un fluido in moto. Per ottenere una misura delle forze di taglio durante il moto di un fluido consideriamo il seguente esperimento. Supponiamo di avere due superfici piane solide, con dell’acqua fra loro, come nella FIGURA 41.1 e teniamone una ferma mentre facciamo muovere l’altra a una piccola velocità v0 . Se si misura la forza necessaria a tenere in moto la lastra superiore, si trova che è proporzionale all’area delle lastre e a v0 /d, dove d è la distanza fra le lastre. Perciò lo sforzo di taglio F/A è proporzionale a v0 /d: v0 F =⌘ A d La costante di proporzionalità ⌘ è chiamata coefficiente di viscosità. Se si ha una situazione più complicata si può sempre considerare nell’acqua una celletta piatta, rettangolare, con le facce parallele al flusso, come nella FIGURA 41.2. La forza di taglio fra le facce di questa cella è data da F vx @ vx =⌘ =⌘ (41.2) A y @y Ora, @vx /@ y è la variazione per unità di lunghezza della deformazione di taglio che è stata definita nel capitolo 39, perciò per un liquido lo sforzo di taglio è proporzionale alla rapidità di variazione della deformazione di taglio. Nel caso generale scriveremo ! @ vy @ v x Sxy = ⌘ + (41.3) @x @y
Se si ha una rotazione uniforme del fluido, @vx /@ y è uguale e opposta a @vy /@ x e Sxy è zero, come deve essere, perché non ci sono sforzi in un fluido che ruota uniformemente. (Si è fatta una cosa analoga nel definire e xy nel capitolo 39.) Si hanno naturalmente le espressioni corrispondenti Fluido per Syz e Szx . vb Come esempio di applicazione di questi concetti consideriamo il moto di un fluido fra due cilindri coassiali. Siano a e va il raggio e la velocità periferica relativa al cilindro interno e b e vb il raggio e la velocità relativi FIGURA 41.3 Il flusso in un fluido fra due cilindri concentrici che ruotano a velocità angolari diverse. al cilindro esterno (FIGURA 41.3). Si chiede: qual è la distribuzione della velocità fra i due cilindri? Per rispondere a questa domanda cominciamo col trovare una formula per lo sforzo di taglio viscoso nel fluido a una distanza r dall’asse. Dalla simmetria del problema possiamo ammettere che il flusso sia sempre tangenziale e che la sua entità dipenda soltanto da r; v = v(r). Se si osserva un bruscolo nell’acqua a distanza r dall’asse, le sue coordinate in funzione del tempo sono va
x = r cos !t
y = r sen !t
(1) Si possono soffiar via da sopra una tavola le grosse particelle di polvere, ma non quelle finissime: quelle grosse sono esposte alla corrente d’aria. (2) Si possono immaginare dei casi in cui questo non è vero: il vetro è teoricamente un «liquido», ma può certamente essere fatto slittare su una superficie d’acciaio. Perciò la nostra asserzione deve a un certo punto cessare di valere.
41.1 • La viscosità
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dove è ! = v/r. Dunque le componenti x e y della velocità sono vx = r! sen !t = !y vy = r! cos !t = !x Dall’equazione (41.3) si ha Sxy
"
@ =⌘ (x!) @x
# " @ @! (y!) = ⌘ x @y @x
(41.4)
@! y @y
#
(41.5)
Per un punto con y = 0, si ha @!/@ y = 0 mentre x@!/@ x è la stessa che r d!/dr. Perciò per un tale punto è d! (41.6) (Sxy )y=0 = ⌘r dr (È ragionevole che S debba dipendere da @!/@r; quando ! non cambia con r il liquido è in rotazione uniforme e non ci sono sforzi.) Lo sforzo che abbiamo calcolato è lo sforzo tangenziale di taglio che è lo stesso tutt’intorno al cilindro. Possiamo ottenere il momento assiale che agisce su una superficie cilindrica di raggio r moltiplicando lo sforzo di taglio per il braccio r e per l’area 2⇡rl (dove l è la lunghezza del cilindro). Si ottiene d! ⌧ = 2⇡r 2 l (Sxy )y=0 = 2⇡⌘lr 3 (41.7) dr Siccome il moto dell’acqua è stazionario – non c’è accelerazione angolare – il momento complessivo sullo strato cilindrico d’acqua compreso fra r e r + dr deve essere zero; cioè il momento sulla superficie di raggio r deve essere compensato da un momento uguale e opposto sulla superficie di raggio r + dr, ossia ⌧ deve essere indipendente da r. In altre parole r 3 d!/dr è uguale a una certa costante, mettiamo A; si ha cioè d! A = 3 (41.8) dr r Integrando, si trova che ! varia con r secondo la relazione !=
A +B 2r 2
(41.9)
Le costanti A e B devono essere determinate in modo da soddisfare le condizioni ! = ! a per r = a e ! = !b per r = b. Si trova A=
2a2 b2 (!b b2 a2
!a )
B=
b2 !b b2
a2 ! a a2
(41.10)
Si conosce dunque ! come funzione di r e da questa si ha la velocità v = !r. Se si vuole il momento, lo si può ottenere dalle equazioni (41.7) e (41.8): ⌧ = 2⇡⌘l A ossia
4⇡⌘la2 b2 (!b ! a ) (41.11) b2 a2 Esso è proporzionale alla velocità angolare relativa dei due cilindri. Un apparecchio corrente per misurare i coefficienti di viscosità è costruito in questo modo. Uno dei cilindri – quello esterno – è montato su perni, ma è tenuto stazionario da un dinamometro che misura il momento assiale al quale è sottoposto quando il cilindro interno viene fatto ruotare a una velocità angolare costante. Il coefficiente di viscosità si può allora determinare dall’equazione (41.11). Si vede dalla definizione che l’unità per ⌘ è N·s/m2 . Per l’acqua a 20 si trova ⌧=
⌘ = 10
3
N·s/m2
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Capitolo 41 • Il flusso dell’acqua bagnata
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In generale è più conveniente utilizzare la viscosità specifica, che è ⌘ divisa per la densità ⇢. I valori per l’acqua e l’aria diventano allora paragonabili: 6
m2 /s
acqua a 20
⌘/⇢ = 10
aria a 20
⌘/⇢ = 15 · 10
6
m2 /s
(41.12)
Le viscosità dipendono di solito fortemente dalla temperatura. Per esempio per l’acqua appena sopra al punto di congelamento ⌘/⇢ è 1,8 volte più grande che a 20 .
41.2
Il flusso viscoso
Passiamo ora alla teoria generale del flusso viscoso; almeno nella forma più generale nota all’uomo. Ci siamo già resi conto che le componenti degli sforzi di taglio sono proporzionali alle derivate spaziali delle varie componenti della velocità, come @vx /@ y oppure @vy /@ x. Però nel caso generale di un fluido comprimibile c’è un altro termine negli sforzi che dipende da altre derivate della velocità. L’espressione generale è ! @ vi @ v j Si j = ⌘ + + ⌘ 0 i j (r · v) (41.13) @ x j @ xi dove x i è una qualunque delle coordinate rettangolari x, y o z e vi è una qualunque delle componenti rettangolari della velocità. (Il simbolo i j è il delta di Kronecker, che è 1 per i = j e 0 per i , j.) Il termine supplementare aggiunge ⌘ 0r · v a tutti gli elementi diagonali Sii del tensore degli sforzi. Se il liquido è incomprimibile si ha r · v = 0 e questo termine extra non appare. Perciò ha a che fare con delle forze interne che agiscono durante la compressione. Si richiedono dunque due costanti per descrivere il liquido, proprio come si avevano due costanti per descrivere un solido elastico omogeneo. Il coefficiente ⌘ è il coefficiente di viscosità «ordinario» che abbiamo già incontrato. È anche chiamato primo coefficiente di viscosità o «coefficiente di viscosità di scorrimento», mentre il nuovo coefficiente ⌘ 0 è chiamato secondo coefficiente di viscosità. Vogliamo ora determinare la forza viscosa per unità di volume, fvisc , così da poterla mettere nell’equazione (41.1) per ottenere l’equazione di moto di un fluido reale. La forza su un volumetto cubico di un fluido è la risultante delle forze su tutte e sei le facce. Prendendole a due per volta, si ottengono delle differenze che dipendono dalle derivate degli sforzi e perciò dalle derivate seconde della velocità. Questo ci va bene perché ci riporterà a un’equazione vettoriale. La componente della forza viscosa per unità di volume nella direzione della coordinata rettangolare x i è ( !) 3 3 X @ Si j X @ @ vi @ v j @ ( f visc )i = = ⌘ + + (⌘ 0 r · v) @ x @ x @ x @ x @ x j j j i i j=1 j=1
(41.14)
Di solito la variazione dei coefficienti di viscosità con la posizione non è importante e può essere trascurata. Allora la forza viscosa per unità di volume contiene soltanto derivate seconde della velocità. Si è visto nel capitolo 39 che il modo più generale in cui delle derivate seconde possono entrare in un’equazione vettoriale è dato dalla somma di un termine contenente il laplaciano, r · rv = r2 v, e di un termine contenente il gradiente della divergenza, r(r · v). L’equazione (41.14) è proprio una somma del genere, coi coefficienti ⌘ e ⌘ + ⌘ 0. Si ottiene fvisc = ⌘ r2 v + (⌘ + ⌘ 0) r(r · v)
(41.15)
Nel caso incomprimibile è r · v = 0 e la forza viscosa per unità di volume non è che ⌘r2 v. Questo è tutto ciò che molti usano; però, se si dovesse calcolare l’assorbimento del suono in un liquido, il secondo termine ci vorrebbe.
41.3 • Il numero di Reynolds
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Si può ora completare l’equazione generale del moto per un fluido reale. Sostituendo la (41.15) nella (41.1), si ottiene l’equazione ( ) @v ⇢ + (v · r) v = rp ⇢ r + ⌘ r2 v + (⌘ + ⌘ 0) r(r · v) @t È complicata; ma la natura è fatta così. Se, come si è fatto prima, si introduce la vorticità ⌦ = r ⇥ v, si può scrivere l’equazione precedente nella forma ) ( @v 1 2 ⇢ + ⌦ ⇥ v + rv = rp ⇢ r + ⌘ r2 v + (⌘ + ⌘ 0) r(r · v) (41.16) @t 2 Si è nuovamente supposto che le uniche forze di massa che agiscono siano forze conservative, come la gravità. Per vedere cosa vogliono dire i nuovi termini, esaminiamo il caso del fluido incomprimibile. In quel caso, se si prende il rotore dell’equazione (41.16), si ottiene @⌦ ⌘ + r ⇥ (⌦ ⇥ v) = r2 ⌦ @t ⇢
(41.17)
Questa somiglia all’equazione (40.9) eccetto che per il nuovo termine nel secondo membro. Quando il secondo membro era nullo, si aveva il teorema di Helmholtz che la vorticità si muove col fluido. Ora abbiamo nel secondo membro un termine non nullo piuttosto complicato che però ha delle conseguenze fisiche chiare. Se si trascura per un momento il termine r⇥(⌦ ⇥ v), abbiamo un’equazione di diffusione. Il nuovo termine vuol dire che la vorticità diffonde attraverso il liquido. Se c’è un forte gradiente della vorticità, questa si spargerà in giro, nel liquido circostante. È questo termine che fa diventare più spesso l’anello di fumo mentre procede. Inoltre si manifesta elegantemente se si manda un vortice «pulito» (un anello «senza fumo» fatto con l’apparecchio descritto nel capitolo precedente) attraverso una nuvola di fumo. Quando esce dalla nuvola, l’anello ha raccattato un po’di fumo e nella nuvola resta l’impronta vuota del suo passaggio. Una parte di diffonde all’esterno, nel fumo, pur continuando a mantenere il suo moto in avanti insieme al vortice.
41.3
Il numero di Reynolds
Descriveremo ora i cambiamenti che avvengono nel carattere del flusso dei fluidi in conseguenza del nuovo termine dovuto alla viscosità. Esamineremo due problemi un po’ dettagliatamente. Il primo di questi è il flusso trasversale intorno a un cilindro, flusso che abbiamo tentato di calcolare nel capitolo precedente usando la teoria del flusso non viscoso. Succede però che le equazioni con i termini viscosi possono essere risolte dall’uomo soltanto in pochi casi particolari. Perciò parte di ciò che diremo è basata su misure sperimentali, nell’ipotesi che il modello sperimentale soddisfi l’equazione (41.17). Il problema matematico è questo. Si vorrebbe la soluzione per il flusso trasversale di un liquido viscoso incomprimibile intorno a un lungo cilindro di diametro D. Il flusso dovrebbe essere dato dall’equazione (41.17), insieme a ⌦ =r⇥v (41.18)
con le condizioni che la velocità a grande distanza sia una certa velocità costante – mettiamo V (parallela all’asse x) – e che sulla superficie del cilindro la velocità si annulli, cioè si abbia v x = v y = vz = 0 per
x 2 + y 2 = D2 /4
Questa specifica completamente il problema matematico.
(41.19)
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Capitolo 41 • Il flusso dell’acqua bagnata
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Esaminando le equazioni si vede che ci sono nel problema quattro diversi parametri: ⌘, ⇢, D e V . Si potrebbe pensare che si debba considerare un’intera serie di casi a seconda dei valori di V , D ecc. Invece questo non è il caso. Tutte le varie soluzioni possibili corrispondono a valori diversi di un unico parametro. Questo è il fatto generale più importante che si possa stabilire riguardo al flusso viscoso. Per vedere perché è così notiamo dapprima che viscosità e densità appaiono soltanto nel rapporto ⌘/⇢, la viscosità specifica. Questo riduce a tre il numero dei parametri indipendenti. Adesso supponiamo di misurare tutte le distanze prendendo come unità la sola lunghezza che compare nel problema: il diametro D del cilindro; cioè sostituiamo a x, y e z le nuove variabili x 0, y 0 e z 0 con x = x0D
y = y0D
z = z0D
Allora D scompare dalla (41.19). Nello stesso modo, se si misurano tutte le velocità in termini di V , cioè se si pone v = v 0V , ci si libera di V e v 0 è proprio uguale a 1 a grande distanza. Avendo fissato le unità di lunghezza e di velocità, la nostra unità di tempo è ora D/V ; perciò si dovrà porre D t = t0 (41.20) V Con le nuove variabili, le derivate nell’equazione (41.18) cambiano da @/@ x a (1/D)@/@ x 0 e simili; perciò l’equazione (41.18) diventa ⌦ =r⇥v =
V 0 V 0 r ⇥ v0 = ⌦ D D
(41.21)
L’equazione principale (41.17) prende allora la forma @⌦0 ⌘ + r0 ⇥ (⌦ 0 ⇥ v 0) = r02 ⌦ 0 0 @t ⇢V D Tutte le costanti confluiscono in un unico fattore che, seguendo la tradizione, indichiamo con 1/R: ⇢ R = VD (41.22) ⌘ Se ci si ricorda che tutte le equazioni devono essere scritte con tutte le grandezze espresse nelle nuove unità, si possono omettere tutti gli apici. Le equazioni del flusso sono dunque @⌦ 1 + r ⇥ (⌦ ⇥ v) = r2 ⌦ @t R
(41.23)
⌦ =r⇥v
(41.24)
e con le condizioni
v=0 per
x 2 + y 2 = 1/4
(41.25)
e vx = 1 per
v y = vz = 0
x2 + y2 + z2
1
Ciò che tutto questo significa fisicamente è molto interessante. Significa per esempio che, se si risolve il problema del flusso per una velocità V1 e un certo diametro D1 del cilindro e poi si chiede il flusso per un diametro diverso D2 e un diverso fluido, il flusso sarà lo stesso per quella velocità V2 che dà lo stesso numero di Reynolds, cioè quando è R1 =
⇢1 ⇢2 V1 D1 = R2 = V2 D2 ⌘1 ⌘2
(41.26)
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41.4 • Il flusso trasversale intorno a un cilindro circolare
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41.4 Il coefficiente di trascinamento CD di un cilindro in funzione del numero di Reynolds. FIGURA
CD
3
2
1
Stazionario ∂v/∂t = 0 0
1
10
Periodico (laminare)
102
Turbolento Strato limite
Periodico (turbolento)
103
104
105
106
107
Per qualunque coppia di situazioni che hanno lo stesso numero di Reynolds, il flusso avrà lo stesso «aspetto», descrivendolo con le appropriate variabili calibrate x 0, y 0, z 0 e t 0. Questo è un teorema importante perché significa che si può determinare quale sarà il comportamento del flusso d’aria su un’ala di aereo senza dover costruire un aereo e provarlo. Si può invece fare un modello e fare delle misure usando una velocità che dà lo stesso numero di Reynolds. Questo è il principio che ci permette di applicare agli oggetti reali i risultati di misure fatte in un «tunnel aerodinamico» su aerei in scala ridotta, oppure fatte in «vasche di prova» su scafi in scala ridotta. Si ricordi però che questo si può fare soltanto fino a che la comprimibilità del fluido può essere trascurata. Altrimenti interviene un’altra grandezza: la velocità del suono. Situazioni diverse corrispondono realmente l’una all’altra soltanto se anche il rapporto fra V e la velocità del suono è lo stesso. Quest’ultimo rapporto è chiamato il numero di Mach. Perciò per velocità vicine a quelle del suono o al di sopra, i flussi saranno gli stessi in due situazioni se tanto il numero di Mach quanto il numero di Reynolds sono gli stessi in quelle situazioni.
41.4
Il flusso trasversale intorno a un cilindro circolare
Torniamo al problema del flusso a piccola velocità di un fluido pressoché incomprimibile intorno a un cilindro. Daremo una descrizione qualitativa del flusso di un fluido reale. Ci sono molte cose che si potrebbe voler conoscere riguardo a questo flusso; per esempio, qual è la forza di trascinamento sul cilindro? Questa forza è portata in grafico in FIGURA 41.4 come funzione di R, che è proporzionale alla velocità V dell’aria, se tutto il resto è mantenuto fisso. Quello che si è effettivamente messo in grafico è il cosiddetto coefficiente di trascinamento CD , che è un numero uguale alla forza divisa per (1/2) ⇢V 2 Dl, dove D è il diametro, l è la lunghezza del cilindro e ⇢ è la densità del liquido: F CD = 1 ⇢V 2 Dl 2 Il coefficiente di trascinamento varia in modo piuttosto complicato, dandoci un pre-indizio che qualcosa di piuttosto interessante e complicato sta accadendo nel flusso. Descriveremo ora la
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Capitolo 41 • Il flusso dell’acqua bagnata
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natura del flusso nei vari campi del numero di Reynolds. Dapprima, quando il numero di Reynolds è molto piccolo, il flusso è del tutto stazionario; cioè la velocità è costante in ogni punto e il flusso gira intorno al cilindro. L’effettiva distribuzione delle linee di flusso non è, però, simile e quella che si ha nel flusso potenziale: si tratta delle soluzioni di un’equazione alquanto diversa. Quando la velocità è molto piccola oppure – ciò che è equivalente – quando la viscosità è molto elevata, così che il materiale è come il miele, i termini inerziali sono trascurabili e il flusso è descritto dall’equazione r2 ⌦ = 0
41.5 Flusso viscoso (a bassa velocità) intorno a un cilindro. FIGURA
Questa equazione fu risolta per la prima volta da Stokes, che risolse anche lo stesso problema per la sfera. Se si ha una sferetta che si muove in condizioni di numero di Reynolds basso, la forza che ci vuole per trascinarla è uguale a 6⇡⌘aV , dove a è il raggio della sfera e V è la sua velocità. Questa è una formula molto utile perché ci dice la velocità alla quale minuscoli sporchini (o altre particelle che possono essere approssimate a sfere) si muovono in un fluido sotto una data forza, come per esempio in una centrifuga, o durante una sedimentazione o una diffusione. Nella regione dei bassi numeri di Reynolds – per R < 1 – le linee di v intorno a un cilindro sono mostrate in FIGURA 41.5. Se ora si aumenta la velocità del fluido per ottenere un numero di Reynolds un po’ più grande di 1, si trova che il flusso è diverso. C’è una circolazione dietro al cilindro, come mostra la FIGURA 41.6b. È ancora una questione aperta il decidere se lì ci sia sempre una circolazione anche ai più piccoli numeri di Reynolds, oppure se le cose cambino improvvisamente a un certo numero di Reynolds. Si era soliti pensare che la circolazione crescesse con continuità; ma oggi si pensa che essa appaia improvvisamente ed è certo che la circolazione cresce con R. In ogni caso si ha per il flusso un carattere diverso per R che va da circa l0 a circa 30. Ci sono un paio di vortici dietro al cilindro.
(a) ≈ 10–2
(b) ≈ 20
(c) ≈ 100
(d) ≈ 104
(e)
41.6
Flusso trasversale intorno a un cilindro per vari numeri di Reynolds.
FIGURA
≈ 106
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41.5 • Il limite per la viscosità tendente a zero
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Il flusso cambia di nuovo quando si arriva al numero 40. C’è tutt’a un tratto un cambiamento completo del carattere del moto. Quel che succede è che uno dei vortici dietro al cilindro diventa così lungo che si rompe e se ne va con la corrente del fluido. Poi il fluido si piega ad anello dietro al cilindro e produce un nuovo vortice. I vortici si staccano alternativamente dai due lati, così che una veduta istantanea del flusso ha l’aspetto schematizzato alla meglio in FIGURA 41.6c. La corrente di vortici viene chiamata la «scia di vortici di Karman». Essi appaiono per R > 40. Mostriamo una fotografia di un flusso del genere nella FIGURA 41.7. La differenza fra il flusso in FIGURA 41.6c e quelli nelle FIGURE 41.6b o 41.6a è una quasi totale differenza di regime. Nelle FIGURE 41.6a o 41.6b, FIGURA 41.7 La «scia di vortici» nel flusso intorno a la velocità è costante, mentre in FIGURA 41.6c la velocità in ogni punto varia un cilindro fotografata da Ludwig Prandtl. col tempo. Non esistono soluzioni stazionarie sopra R = 40, che abbiamo segnato sulla FIGURA 41.4 con una linea tratteggiata. Per questi numeri di Reynolds più alti il flusso varia col tempo, ma in un modo regolare e ciclico. Ci si può fare un’idea fisica di come questi vortici sono prodotti. Si sa che la velocità del fluido deve essere zero alla superficie del cilindro e anche che cresce rapidamente allontanandosi da quella. La vorticità è creata da questa forte variazione locale della velocità del fluido. Ora, quando la velocità dominante della corrente è abbastanza bassa, c’è il tempo sufficiente perché questa vorticità diffonda fuori dalla sottile regione vicina alla superficie solida dove viene prodotta e cresca per dare una vasta regione di vorticità. Questo quadro fisico dovrebbe servire a prepararci per il successivo cambiamento nella natura del flusso quando la velocità dominante della corrente, ossia R, viene aumentata ancora di più. Via via che la velocità cresce c’è sempre meno tempo perché la vorticità possa diffondere in una più vasta regione del fluido. Quando si raggiunge un numero di Reynolds di diverse centinaia, la vorticità comincia a riempire una banda sottile, come mostra la FIGURA 41.6d. In questo strato il flusso è caotico e irregolare. Tale regione è chiamata strato limite e questa zona di flusso irregolare avanza controcorrente sempre più, via via che R aumenta. Nella regione turbolenta le velocità sono molto irregolari e «rumorose»; inoltre il flusso non è più bidimensionale, ma si contorce e gira in tre dimensioni. Un moto alternato regolare si sovrappone tuttavia ancora a quello turbolento. Se il numero di Reynolds viene fatto crescere ancora, la regione turbolenta si fa strada fino a raggiungere – per flussi alquanto al di sopra di R = 105 – il punto in cui le linee di flusso abbandonano il cilindro. Il flusso è come mostra la FIGURA 41.6e e si ha ciò che si chiama lo «strato limite turbolento». Inoltre, c’è un mutamento drastico nella forza di trascinamento; essa cala di un grosso fattore, come si vede nella FIGURA 41.4. In questa regione di velocità la forza di trascinamento effettivamente diminuisce al crescere della velocità. Non sembra che ci sia periodicità. Cosa succede per numeri di Reynolds ancora più grandi? Quando si aumenta ulteriormente la velocità, la scia torna a crescere in grandezza e il trascinamento cresce. Gli ultimissimi esperimenti – che salgono fino a R = 107 o lì vicino – indicano che appare una nuova periodicità della scia, sia perché l’intera scia oscilla in qua e in là con un moto d’insieme sia perché si presenta qualche nuovo tipo di vortice, insieme con un moto rumoroso irregolare. I dettagli non sono per ora del tutto chiari e seguitano a essere studiati sperimentalmente.
41.5
Il limite per la viscosità tendente a zero
Desideriamo rilevare che nessuno dei flussi che sono stati descritti ha qualche somiglianza con la soluzione del flusso potenziale che si era trovata nel capitolo precedente. Questo è, a prima vista, del tutto sorprendente. Dopotutto R è proporzionale a 1/⌘. Perciò ⌘ che va a zero, equivale a R che va a infinito. E se si passa al limite per grandi valori di R nell’equazione (41.23) ci si libera del secondo membro e si ottengono proprio le equazioni dell’ultimo capitolo. Però sarebbe difficile credere che il flusso altamente turbolento che si ha per R = 107 sta tendendo al flusso «uniforme»
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Capitolo 41 • Il flusso dell’acqua bagnata
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calcolato dalle equazioni dell’acqua «asciutta». Come può essere che quando ci si avvicina a R = 1, il flusso descritto dall’equazione (41.23) dia una soluzione completamente diversa da quella che si era ottenuta ponendo ⌘ = 0 come punto di partenza? La risposta è molto interessante. Notiamo che il termine del secondo membro dell’equazione (41.23) porta 1/R moltiplicato per una derivata seconda. È la derivata più alta di qualunque altra nell’equazione. Ciò che accade è che, per quanto il coefficiente 1/R sia piccolo, ci sono variazioni rapidissime di ⌦ nello spazio vicino alla superficie. Queste rapide variazioni compensano la piccolezza del coefficiente e il prodotto non va a zero quando cresce. Le soluzioni non si avvicinano al caso limite di R = 0 quando il coefficiente di r2 ⌦ va a zero. Vi potreste domandare: «Cos’è questa turbolenza a scala minuta e come fa a mantenersi? Come può la vorticità prodotta in qualche zona alla superficie del cilindro generare tanto rumore di fondo?». Anche questa risposta è interessante: la vorticità ha tendenza ad amplificarsi. Se ci dimentichiamo per un momento della diffusione della vorticità, che è una causa di perdita, le leggi del flusso dicono (come abbiamo visto) che le linee vorticose sono trasportate insieme al fluido, alla velocità v. Si può immaginare un certo numero di linee di ⌦ che vengono distorte e attorcigliate dalla complicata distribuzione di flusso del campo v. Ciò fa sì che le linee si stringano e si mescolino tutte insieme. Linee che prima erano semplici, diventano aggrovigliate e commiste; saranno più lunghe e più serrate. L’intensità della vorticità crescerà e così in generale cresceranno le sue irregolarità, in più e in meno. Perciò l’entità della vorticità in tre dimensioni cresce via via che si costringe il fluido a torcersi. Potreste giustamente chiedere: «Succede mai che il flusso potenziale sia una teoria soddisfacente?». In primo luogo, è soddisfacente fuori della regione turbolenta, dove la vorticità non è penetrata sensibilmente, per diffusione. Dando agli oggetti dei profili speciali si può contenere la regione turbolenta nei limiti più piccoli possibili; il flusso intorno alle ali degli aereoplani – che sono disegnate con cura – è quasi per intero vero flusso potenziale.
41.6
(a)
(b)
(c)
(d)
Il flusso di Couette
41.8 Configurazione del flusso liquido fra due cilindri trasparenti che ruotano. FIGURA
È possibile far vedere che il complesso e mutevole carattere del flusso intorno a un cilindro non è un caso speciale, ma che una grande varietà di tipi di flusso si presenta in generale. Nel paragrafo 41.1 abbiamo ricavato una soluzione per il flusso viscoso fra due cilindri e si possono confrontare i risultati con ciò che accade realmente. Se si prendono due cilindri concentrici con dell’olio nello spazio intermedio e si mette una fine polvere d’alluminio in sospensione nell’olio, il flusso è facile a vedersi. Se ora si ruota il cilindro esterno lentamente, non accade nulla di inatteso (FIGURA 41.8a). Se, a sua volta, si ruota lentamente il cilindro interno nulla di molto notevole accade. Se però si ruota il cilindro interno a una velocità più elevata, si ha una sorpresa: il fluido si rompe in bande orizzontali, come è indicato nella FIGURA 41.8b. Quando il cilindro esterno ruota a una velocità simile e quello interno è fermo, tale effetto non si produce. Come può essere che ci sia una differenza fra ruotare il cilindro interno o quello esterno? Dopotutto, la configurazione di flusso che abbiamo dedotto nel paragrafo 41.1 dipendeva soltanto da !b ! a . Si può trovare la risposta osservando le sezioni dei cilindri disegnate nella FIGURA 41.9. Quando gli strati interni del fluido si muovono più rapidamente di quelli esterni, essi tendono a muoversi in fuori: la forza centrifuga è maggiore della pressione che tende a mantenerli a posto. Uno strato interno non può muoversi uniformemente perché gli altri strati fanno ostacolo. Deve rompersi in celle e circolare come mostra la FIGURA 41.9b, cosa che ricorda le correnti di convezione in una stanza dove ci sia dell’aria calda in basso. Quando il cilindro interno è fermo e quello esterno ha una velocità elevata le forze
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41.6 • Il flusso di Couette
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41.9 Perché il flusso si rompe in bande FIGURA
Forze centrifughe v
v
Forze centrifughe (a)
(b)
(c)
centrifughe producono un gradiente di pressione che mantiene tutto in equilibrio (FIGURA 41.9c), come in una stanza dove l’aria calda è in alto. Ora torniamo ad aumentare la velocità del cilindro interno. Dapprima il numero delle bande cresce. Poi, improvvisamente, si vedono le bande diventare ondulate, come nella FIGURA 41.8c, e le onde si spostano intorno al cilindro. È facile misurare la velocità di queste onde: per elevate velocità di rotazione essa tende a 1/3 della velocità del cilindro interno. E nessuno sa perché. Ecco una sfida: un numero semplice come 1/3 e nessuna spiegazione. Effettivamente tutto il meccanismo della formazione delle onde non è ben capito e tuttavia si tratta di un flusso stazionario laminare. Se ora si comincia a ruotare anche il cilindro esterno – ma nella direzione opposta – la configurazione del flusso comincia a rompersi. Si ottengono delle regioni ondose che si alternano con regioni apparentemente quiete, secondo una configurazione a spirale, come si è indicato nella FIGURA 41.8d. Nelle regioni «quiete», però, si può vedere che il flusso in realtà è assai irregolare; è infatti completamente turbolento. Anche le regioni ondose cominciano a mostrare un flusso irregolare turbolento e, se i cilindri vengono fatti ruotare ancora più rapidamente, tutto il flusso diventa caoticamente turbolento. In questo semplice esperimento si vedono parecchi importanti regimi di flusso che sono affatto diversi e tuttavia sono tutti contenuti nella nostra semplice equazione, per vari valori dell’unico parametro R. Coi cilindri rotanti si possono vedere parecchi degli effetti che si presentano nel flusso intorno al cilindro: prima c’è un flusso stazionario; in una seconda fase subentra un flusso che varia col tempo ma in maniera regolare e senza sbalzi; infine il flusso diventa completamente irregolare. Tutti quanti avete visto gli stessi effetti nella colonna di fumo che s’innalza da una sigaretta in aria quieta. C’è una colonna continua e stazionaria, seguita da una serie di contorcimenti quando la corrente del fumo comincia a rompersi, per terminare alla fine in una nuvola irregolare di fumo che si rimescola. La lezione più importante da imparare da tutto questo è che una formidabile varietà di comportamenti si nasconde nel semplice sistema di equazioni formato dalla (41.23) e seguenti. Tutte le soluzioni valgono per le stesse equazioni, soltanto con diversi valori di R. Non ci sono ragioni di pensare che in queste equazioni manchino dei termini. L’unica difficoltà è che non abbiamo oggi la capacità matematica di analizzarle, eccetto che per numeri di Reynolds piccolissimi, cioè nel caso completamente viscoso. L’aver scritto un’equazione non toglie al flusso dei fluidi il suo fascino, il suo mistero o il suo potere di sorprenderci. Se una simile varietà è possibile con una semplice equazione con un solo parametro, quante maggiori possibilità ci saranno con equazioni più complesse! Forse l’equazione fondamentale che descrive le nebulose vorticanti e le stelle e le galassie che si condensano, ruotano ed esplodono non è che una semplice equazione che regola il comportamento idrodinamico dell’idrogeno gassoso quasi puro. Spesso della gente che ha un ingiustificato timore della fisica dice che non si può scrivere un’equazione della vita. Ebbene, forse si può. In realtà è del tutto possibile che possediamo già questa equazione, con una sufficiente approssimazione, quando scriviamo l’equazione della meccanica quantistica: ~ @ H = i @t
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Capitolo 41 • Il flusso dell’acqua bagnata
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Abbiamo visto or ora come la complessità delle cose possa facilmente e drammaticamente eludere la semplicità delle equazioni che le descrivono. Inconsapevole della potenzialità delle equazioni anche semplici, l’uomo ha spesso concluso che non delle pure equazioni, ma nulla di meno di un Dio è quel che ci vuole per spiegare le complessità dell’universo. Si sono scritte le equazioni del flusso dell’acqua. Dall’esperienza si è ricavato un sistema di concetti e approssimazioni utili per discutere la soluzione: scìe di vortici, scìe turbolente, strati limite. Quando si hanno simili equazioni in una situazione meno familiare e nella quale non si può ancora sperimentare, si tenta di risolvere le equazioni in un modo primitivo, zoppicante e confuso per determinare quali caratteristiche possano manifestarsi, oppure quali nuove forme qualitative siano conseguenza delle equazioni. Le equazioni che considerano il sole, per esempio, come una palla d’idrogeno gassoso, descrivono un sole senza macchie solari, senza la struttura a grani di riso della superficie, senza protuberanze né corona. Eppure tutte queste cose sono in realtà nelle equazioni, solo che non abbiamo trovato il modo di tirarle fuori. Ci sono persone che resteranno deluse quando non si troverà la vita su altri pianeti. Io no; voglio che l’esplorazione interplanetaria sia un’occasione di più per ricordarmi, incantarmi e meravigliarmi dell’infinita varietà e novità dei fenomeni che possono scaturire da principi tanto semplici. Il cimento, per la scienza, è la sua capacità di prevedere. Se non aveste mai visitato la terra, potreste aver previsto i temporali, i vulcani, le onde dell’oceano, le aurore boreali, i colori del tramonto? Sarà una lezione salutare quando impareremo tutto quello che succede su ciascuno di quei pianeti morti, quelle otto o dieci palle, ognuna agglomerata dalla stessa nuvola di polvere e ciascuna soggetta esattamente alle stesse leggi della fisica. La prossima grande ora di risveglio dell’intelletto umano potrà magari produrre un metodo per poter capire il contenuto qualitativo delle equazioni. Oggi non lo possiamo. Oggi non possiamo vedere che le equazioni del flusso dell’acqua contengono cose come la struttura a insegna di barbiere della turbolenza che si manifesta fra due cilindri rotanti. Oggi non possiamo dire se l’equazione di Schrödinger contiene ranocchi, compositori di musica, l’etica... o se non è così. Non possiamo dire se oltre a essa ci vuole qualcosa di simile a Dio, oppure no. Perciò possiamo avere opinioni molto definite in un senso o nell’altro.
Spazio curvo
42.1
42
Spazi curvi in due dimensioni
Secondo Newton ogni cosa attrae ogni altra cosa con una forza inversamente proporzionale al quadrato della distanza, e gli oggetti rispondono alle forze con accelerazioni a esse proporzionali. Sono le leggi di Newton della gravitazione universale e del moto. Come sapete esse rendono conto del moto di palline, pianeti, satelliti, galassie e così via. Einstein ha dato un’interpretazione diversa della legge della gravitazione. Secondo lui, spazio e tempo – che devono essere riuniti in uno spazio-tempo – sono incurvati in vicinanza di grosse masse. Ed è lo sforzo delle cose di muoversi lungo «linee rette» in questo spazio-tempo curvo che le fa muovere nel modo in cui si muovono. Questa è un’idea complessa, molto complessa. È l’idea che vogliamo spiegare in questo capitolo. Il nostro argomento si compone di tre parti. Una riguarda gli effetti della gravitazione. Un’altra riguarda le idee dello spazio-tempo che abbiamo già studiato. La terza riguarda l’idea dello spazio-tempo curvo. Semplificheremo da principio l’argomento non occupandoci né della gravità né del tempo e discutendo solamente lo spazio curvo. Discuteremo più avanti delle altre parti, ma ora ci concentreremo sull’idea dello spazio curvo: cosa s’intende per spazio curvo e, più specificamente, cosa s’intende per spazio curvo in questa applicazione di Einstein. Anche così limitato, l’argomento risulta essere alquanto difficile in tre dimensioni, perciò prima ridurremo il problema ancora di più e discuteremo cosa s’intende con le parole «spazio curvo» in due dimensioni. Per arrivare a capire quest’idea dello spazio curvo in due dimensioni, bisogna rendersi veramente conto di quanto sia limitato il punto di vista di un personaggio che vive in un simile spazio. Immaginiamo un insetto senz’occhi che vive su un piano, come mostra la FIGURA 42.1. Esso può muoversi soltanto sul piano e non ha modo di sapere che ci sono mezzi per scoprire un «mondo esterno». (Non ha la vostra immaginazione.) Dovremo naturalmente ragionare per analogia. Noi viviamo in un mondo tridimensionale e non c’immaginiamo per nulla che si possa uscire da questo mondo tridimensionale in una nuova direzione; perciò dobbiamo discutere la cosa in base ad analogie. È come se fossimo degli insetti che vivono su un piano e ci fosse uno spazio in un’altra direzione. Questo è il motivo per cui ragioneremo dapprima sull’insetto, ricordando che deve vivere sulla sua superficie e non ne può uscire.
42.1 Un insetto su una superficie piana. FIGURA
FIGURA
42.2
su una sfera.
Un insetto
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Capitolo 42 • Spazio curvo
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Come altro esempio d’insetto che vive in due dimensioni, immaginiamone uno che vive su una sfera. Immaginiamo che possa camminare in qua e in là sulla superficie della sfera, come in FIGURA 42.2, ma che non possa guardare in «su» o in «giù» o «fuori». E ora vogliamo considerare ancora un terzo tipo di creatura. Anche 30 40 lui è un insetto come gli altri e anche lui – come il primo – vive su un 50 piano, ma questa volta si tratta di un piano speciale: la sua temperatura è diversa in punti diversi. Inoltre l’insetto e tutti i regoli graduati che adopera sono fatti di un materiale che si dilata quando si scalda. Ogni volta che FIGURA 42.3 Un insetto su una lastra calda. appoggia un regolo in qualche punto per misurare qualcosa, il regolo si dilata immediatamente fino a prendere la lunghezza corrispondente alla temperatura in quel punto. Dovunque metta un oggetto qualunque – se stesso, un regolo, un triangolo o qualunque cosa – l’oggetto si estende a causa della dilatazione termica. Nei punti caldi tutto è più lungo di quanto sia nei punti freddi e tutto ha lo stesso coefficiente di dilatazione. B Chiameremo la dimora del terzo insetto «lastra calda», benché si voglia A pensare a un tipo particolare di lastra calda che è fredda al centro e diventa sempre più calda andando verso i bordi (FIGURA 42.3). Immaginiamo ora che i nostri insetti comincino a studiare la geometria. Benché ci si immagini che siano ciechi, così che non possono vedere il FIGURA 42.4 Costruzione di una «linea retta su un piano. mondo «esterno», essi possono fare una quantità di cose con le loro zampe e le loro antenne. Possono tracciare linee e possono fare regoli graduati coi quali misurare le lunghezze. Supponiamo dapprima che comincino con la più semplice idea della geometria: essi imparano a costruire una retta, definita come la linea più corta fra due punti. Il primo insetto (FIGURA 42.4) impara a fare delle rette molto buone. Ma cosa succede all’insetto sulla B sfera? Costruisce la sua retta come la linea di più corta distanza – per lui – fra due punti, come in FIGURA 42.5. Può sembrare curva a noi, ma lui non ha modo di uscire dalla sfera e scoprire che «in realtà» c’è una linea A più corta. Egli sa semplicemente che se prova qualsiasi altro cammino – appartenente al suo mondo – esso è sempre più lungo della sua retta. Perciò dobbiamo riconoscere che per lui la retta è l’arco più corto fra due punti. (È naturalmente un arco di cerchio massimo.) FIGURA 42.5 Costruzione di una «linea retta su una Infine, anche il terzo insetto – quello della FIGURA 42.3 – traccerà delle sfera. rette che a noi sembrano curve. Per esempio, la distanza più corta fra A e B in FIGURA 42.6 sarebbe una curva come quella indicata. Come mai? Perché quando la linea si curva verso le parti più calde della lastra, i regoli B diventano più lunghi (dal nostro punto di vista onniscente) e bastano meno «metri» posti in fila per andare da A a B. Perciò per lui la linea è una retta; 30 esso non ha alcun modo di sapere che ci potrebbe essere qualcuno fuori, 40 in uno strano mondo tridimensionale, che chiamerebbe «retta» una linea 50 diversa. A Crediamo che ora abbiate afferrato l’idea che tutto il resto dell’analisi sarà sempre fatto dal punto di vista degli insetti e non dal nostro punto FIGURA 42.6 Costruzione di una «linea retta su una di vista. Avendo questo in mente, vediamo qualche altro aspetto delle loro lastra calda. geometrie. Supponiamo che gli insetti abbiano imparato tutti a costruire delle linee che si incontrano ad angolo retto. (Potete immaginare come lo possono fare.) Allora il primo insetto (quello sul piano normale) scopre un fatto interessante. Se parte dal punto A e costruisce una retta lunga 100 pollici, poi fa un angolo retto e stacca altri 100 pollici, poi fa un altro angolo retto e prosegue per altri 100 pollici, poi fa un terzo angolo retto e una quarta retta lunga 100 pollici, alla fine si trova esattamente al punto di partenza, come mostra la FIGURA 42.7a. È una proprietà del suo universo, uno dei fatti della sua «geometria». Poi scopre un’altra cosa interessante. Se costruisce un triangolo – una figura formata da tre rette – la somma degli angoli è uguale a 180°, cioè alla somma di due angoli retti (FIGURA 42.7b).
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42.1 • Spazi curvi in due dimensioni
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42.7 Un quadrato, un triangolo e un cerchio in uno spazio piatto. FIGURA
100 pollici 90°
90° a + b + c = 180°
r c
100 pollici
100 pollici
r r r r
90°
90°
a
b
100 pollici
Poi inventa il cerchio. Cos’è un cerchio? Un cerchio è fatto così: si fanno partire delle rette in tantissime direzioni da un solo punto e ci si segnano tanti punti che sono tutti alla stessa distanza da quel punto (FIGURA 42.7c). (Si deve stare attenti nel definire queste cose perché dobbiamo essere capaci di procedere analogamente per gli altri compagni.) Naturalmente la curva A equivale a quella che si può ottenere facendo girare un regolo intorno a un punto. Come che sia, il nostro insetto impara il modo di fare dei cerchi. Poi un giorno gli viene in mente di misurare il percorso lungo il cerchio. Misura diversi cerchi e trova una chiara relazione: quel percorso è sempre lo stesso numero moltiplicato per il raggio r (che è, naturalmente, la distanza dal centro alla curva). La circonferenza e il raggio hanno sempre lo stesso FIGURA 42.8 Tentativo di costruire un «quadrato» su rapporto – approssimativamente 6,283 – indipendente dalle dimensioni del una sfera. cerchio. Vediamo ora cosa hanno trovato gli altri insetti riguardo alle loro geometrie. In primo luogo, cosa succede all’insetto che sta sulla sfera quando tenta di costruire un «quadrato»? Se segue la ricetta che abbiamo dato sopra, probabilmente penserà che il risultato non valga proprio la fatica. 30 Trova una figura simile a quella indicata nella FIGURA 42.8: il suo punto 40 50 A terminale B non si sovrappone al punto di partenza A. Non ottiene affatto una figura chiusa. Prendete una sfera e provate. Una cosa simile succede al nostro amico sulla lastra calda: se dispone quattro rette di uguale lunghezza – misurate coi suoi regoli che si dilatano – unite da quattro angoli retti, ottiene una figura come quella in FIGURA 42.9. FIGURA 42.9 Tentativo di costruire un «quadrato» su Supponiamo ora che gli insetti avessero avuto ciascuno il loro Euclide, una lastra calda. che avesse detto loro come la geometria «dovrebbe» essere e che essi lo avessero grossolanamente controllato facendo delle misure rozze, su piccola scala. Allora nel tentare di fare delle misure più precise su una scala più grande scoprirebbero che qualcosa è sbagliato. L’importante è 90° che con delle pure misure geometriche essi scoprirebbero che c’è qualcosa 90° che non va nel loro spazio. Definiremo spazio curvo uno spazio in cui la geometria non è quella che ci si aspetta per un piano. La geometria degli insetti che si trovano sulla sfera e sulla lastra calda è la geometria di uno 90° spazio curvo. Le regole della geometria euclidea vi cadono in difetto. E non è necessario potersi sollevare fuori del piano per scoprire che l’universo in cui si vive è curvo. Non è necessario circumnavigare il globo per scoprire che è una palla. Ci si può accorgere di vivere su una palla costruendo un FIGURA 42.10 Su una sfera un «triangolo» può avere quadrato; se il quadrato è molto piccolo occorrerà tanta precisione, ma se tre angoli di 90°. il quadrato è grande la misura potrà essere fatta più rozzamente. Prendiamo il caso di un triangolo su un piano. La somma degli angoli è 180°. L’amico sulla sfera può trovare triangoli che sono molto strani; può trovare, per esempio, triangoli con tre angoli retti. Proprio così! Uno è mostrato in FIGURA 42.10. Supponiamo che l’insetto parta dal polo nord e si diriga in linea retta fino a raggiungere l’equatore; poi fa un angolo retto e percorre
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Capitolo 42 • Spazio curvo
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42.11 Un cerchio tracciato su una sfera. FIGURA
rpred
rmis
42.12 Un cerchio tracciato su una lastra calda. FIGURA
30 40 50
un’altra linea retta perfetta della stessa lunghezza; poi fa di nuovo lo stesso. Con la lunghezza molto particolare che ha scelto si trova proprio nel punto di partenza e incontra anche la prima linea ad angolo retto. Perciò non c’è dubbio che per lui il suo triangolo ha tre angoli retti, ossia la somma è 270°. Si trova che per lui la somma degli angoli di un triangolo è sempre maggiore di 180°. E l’eccedenza (nel caso particolare, i 90° extra) è proporzionale all’area del triangolo. Se un triangolo tracciato su una sfera è molto piccolo, i suoi angoli danno una somma molto vicina a 180°, solo un poco superiore; quando il triangolo diventa più grande, il disaccordo cresce. Gli insetti sulla lastra calda scoprirebbero analoghe difficoltà per i loro triangoli. Passiamo a esaminare quello che gli insetti trovano riguardo ai cerchi. Essi tracciano dei cerchi e ne misurano le circonferenze. Per esempio, l’insetto sulla sfera potrebbe tracciare un cerchio simile a quello indicato nella FIGURA 42.11, e scoprirebbe che la circonferenza è meno che 2⇡ volte il raggio. (Lo si può capire, perché con la saggezza che ci viene dal veder le cose in tre dimensioni è ovvio che ciò che lui chiama il «raggio» è una curva più lunga del vero raggio del cerchio.) Mettiamo che l’insetto sulla sfera avesse letto Euclide e deciso di prevedere il raggio dividendo la circonferenza C per 2⇡, cioè ponendo r pred =
C 2⇡
(42.1)
Allora troverebbe che il raggio misurato è più grande del raggio previsto. Continuando a studiare l’argomento potrebbe definire la differenza come «eccedenza del raggio» e scrivere r mis
r pred = r ecc
(42.2)
e studiare come l’eccedenza del raggio dipenda dalle dimensioni del cerchio. L’insetto sulla lastra calda scoprirebbe un fenomeno simile. Mettiamo che tracciasse un cerchio centrato nel punto freddo della lastra, come in FIGURA 42.12. Se lo si osservasse mentre traccia il cerchio, ci si accorgerebbe che i suoi regoli graduati sono più corti verso il centro e si allungano quando vengono portati verso la periferia, benché l’insetto naturalmente non lo sappia. Quando misura la circonferenza il regolo è sempre lungo, perciò anche lui trova che il raggio misurato è più lungo di quello previsto, C/2⇡. L’insetto della lastra calda trova anch’esso un «effetto di eccedenza del raggio». E anche qui l’entità dell’effetto dipende dal raggio del cerchio. Definiremo «spazio curvo» uno spazio in cui si presentano questi tipi di errori: la somma degli angoli di un triangolo è diversa da 180 gradi; la circonferenza di un cerchio divisa per 2⇡ non è uguale al raggio; la regola per costruire un quadrato non dà una figura chiusa. Potete pensarne altri. Abbiamo dato due esempi di spazi curvi: la sfera e la lastra calda. È però interessante che se si sceglie l’opportuna variazione della temperatura in funzione della distanza sulla lastra calda, le due geometrie saranno esattamente le stesse. È piuttosto divertente: possiamo far sì che l’insetto sulla lastra calda ottenga esattamente gli stessi risultati di quello sulla sfera. Per quelli che amano la geometria e i problemi geometrici diremo come si può fare. Se si fa l’ipotesi che la lunghezza dei regoli di misura (in quanto determinata dalla temperatura) vari in proporzione di uno più una certa costante per il quadrato della distanza dall’origine, si trova che la geometria della lastra calda è precisamente la stessa, in tutti i dettagli(1) , della geometria della sfera. (1)
Eccetto che per un punto all’infinito.
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42.1 • Spazi curvi in due dimensioni
42.13 Un «cerchio» su una superficie a forma di sella. FIGURA
42.14 Uno spazio bidimensionale con curvatura intrinseca nulla. FIGURA
Ci sono naturalmente altri tipi di geometria. Si potrebbe investigare la geometria di un insetto che vive su una pera, cioè una cosa che ha una curvatura più marcata in un punto e una curvatura più debole in un altro, così che l’eccedenza degli angoli di un triangolo è più notevole quando costruisce dei triangolini in una parte del suo universo che quando li costruisce da un’altra parte. In altre parole, la curvatura di uno spazio può variare da punto a punto. Questa non è che una generalizzazione dell’idea, che può anche essere imitata con una conveniente distribuzione di temperatura sulla lastra calda. Si può anche far notare che i risultati potrebbero mostrare il tipo opposto di disaccordo. Si potrebbe scoprire, per esempio, che tutti i triangoli quando diventano troppo grandi hanno una somma degli angoli che è meno di 180°. Questo può sembrare impossibile, ma non lo è affatto. Prima di tutto, si potrebbe avere una lastra calda in cui la temperatura decresce allontanandosi dal centro: allora tutti gli effetti sarebbero invertiti. Ma si può ottenere il risultato in modo puramente geometrico osservando la geometria bidimensionale della superficie di una sella. Immaginiamo una superficie a forma di sella come quella schematizzata nella FIGURA 42.13. Tracciamo ora un «cerchio» su questa superficie, definito come il luogo di tutti i punti che hanno la stessa distanza dal centro. Questo cerchio è una curva che oscilla su e giù, con un effetto di smerlatura. Perciò la sua circonferenza è più grande di quello che ci si aspetterebbe calcolando 2⇡r mis . Dunque C/2⇡ è ora più grande di r mis : l’«eccedenza di raggio» è negativa. Sfere, pere e simili sono tutte superfici a curvatura positiva; mentre le altre sono chiamate superfici a curvatura negativa. In generale un universo bidimensionale avrà una curvatura che varia da punto a punto e può essere positiva in certi posti e negativa in altri. In generale, s’intende per spazio curvo uno spazio in cui le regole della geometria euclidea cessano di valere, con disaccordi dell’uno o dell’altro segno. L’entità della curvatura, – definita, mettiamo, dall’eccedenza del raggio – può variare da punto a punto. Si potrebbe rilevare che, con la nostra definizione di curvatura, un cilindro – cosa abbastanza sorprendente – non è curvo. Se un insetto vivesse su un cilindro, come si vede nella FIGURA 42.14, troverebbe che triangoli, quadrati e cerchi avrebbero tutti lo stesso comportamento che hanno in un piano. Questo è facile da capire pensando semplicemente all’aspetto che avrebbero queste figure se il cilindro fosse srotolato su un piano: tutte le figure geometriche potrebbero esser fatte corrispondere esattamente a quello che sono in un piano. Perciò non c’è modo per un insetto che vive su un cilindro (ammesso che non ne faccia il giro, ma si accontenti di fare delle misure locali) di scoprire che il suo spazio è curvo. In senso tecnico, dunque, giudichiamo che questo spaziò non è curvo. Quella di cui vogliamo discutere è chiamata più precisamente curvatura intrinseca; cioè quella curvatura che può essere trovata per mezzo di misure fatte soltanto in una regione locale. (Un cilindro non ha curvatura intrinseca.) Questo è il senso che Einstein intendeva quando diceva che il nostro spazio è curvo. Ma per ora abbiamo definito soltanto lo spazio curvo in due dimensioni; dobbiamo andare avanti per vedere che cosa quest’idea può voler dire in tre dimensioni.
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Capitolo 42 • Spazio curvo
42.2
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La curvatura nello spazio tridimensionale
Viviamo in uno spazio tridimensionale e vogliamo considerare l’idea che questo spazio tridimensionale sia curvo. Direte: «ma come si può immaginare che sia piegato in una direzione qualsiasi?». Ebbene, non possiamo immaginare che lo spazio sia piegato in una direzione qualunque perché la nostra immaginazione non ci arriva. (Forse, dopotutto, è meglio che non possiamo immaginare troppe cose, così da non svincolarci troppo dal mondo reale.) Però possiamo sempre definire la curvatura senza uscire dal nostro universo tridimensionale. Tutto quello che abbiamo discusso in due dimensioni era semplicemente un esercizio per far vedere che si poteva ottenere una definizione di curvatura che non richiede di essere capaci di «guardar dentro» dal di fuori. Possiamo determinare se il nostro universo è curvo o no in un modo del tutto analogo a quello usato da quegli esseri che vivevano sulla sfera o sulla lastra calda. Può darsi che non si riesca a distinguere fra due casi del genere, ma di certo possiamo distinguere quei casi dallo spazio piatto, cioè il piano ordinario. Come? È piuttosto facile: si traccia un triangolo e si misurano gli angoli. Oppure si fa un gran cerchio e si misurano circonferenza e raggio. Oppure si cerca di tracciare dei quadrati precisi o un cubo. In ciascun caso si verifica se le leggi della geometria funzionano. Se non funzionano, si dice che il nostro spazio è curvo. Se tracciamo un gran triangolo e la somma degli angoli supera i 180°, possiamo dire che il nostro spazio è curvo. Oppure se il raggio di un cerchio misurato non è uguale alla circonferenza divisa per 2⇡, possiamo dire che il nostro spazio è curvo. Noterete che in tre dimensioni la situazione può essere molto più complicata che in due. In due dimensioni, in qualunque punto c’è una certa dose di curvatura. Ma in tre dimensioni la curvatura può avere diverse componenti. Se si traccia un triangolo in un certo piano, si può ottenere una risposta diversa da quella che si ottiene orientando il piano del triangolo in un altro modo. Oppure prendiamo l’esempio di un cerchio. Mettiamo di tracciare un cerchio e di misurarne il raggio e che non torni con C/2⇡, ma si abbia una certa eccedenza del raggio. Poi tracciamo un altro cerchio ad angolo retto rispetto al primo, come nella FIGURA 42.15: non c’è ragione che l’eccedenza sia esattamente la stessa per tutti e due i cerchi. Ci potrebbe essere infatti un’eccedenza positiva per un cerchio in un piano e un difetto (eccedenza negativa) per un cerchio in un altro piano. Forse state pensando a un’idea migliore: non si potrebbe fare a meno di tutte queste componenti adoperando, nel caso delle tre dimensioni, una sfera? Possiamo specificare una sfera prendendo tutti i punti che sono alla FIGURA 42.15 L’eccedenza del raggio può esser stessa distanza da un dato punto dello spazio. Poi possiamo misurare l’area diversa per cerchi che hanno orientazioni diverse. della superficie tracciando una rete rettangolare a scala fine sulla superficie della sfera e sommando tutti i pezzetti di area. Secondo Euclide, l’area totale A dovrebbepessere 4⇡ volte il quadrato del raggio; perciò possiamo definire un «raggio previsto» dato da A/4⇡. Ma possiamo anche misurare il raggio direttamente scavando un buco fino al centro e misurando la distanza. Di nuovo, possiamo considerare il raggio misurato meno il raggio previsto e chiamare questa differenza eccedenza del raggio: ✓ area misurata ◆ 1/2 r ecc = r mis 4⇡ Essa sarebbe una misura perfettamente soddisfacente della curvatura e avrebbe il grande vantaggio di non dipendere da come si orienta un triangolo o un cerchio. Ma l’eccedenza del raggio di una sfera ha anche uno svantaggio; essa non caratterizza completamente lo spazio. Dà ciò che si chiama curvatura media dell’universo tridimensionale, perché equivale a fare una media sulle varie curvature. Siccome è una media, però, non risolve completamente il problema di definire la geometria. Conoscendo soltanto questo numero non si possono prevedere tutte le proprietà della geometria dello spazio, perché non si può dire che cosa succede con dei cerchi aventi orientazioni diverse. La definizione completa richiede di specificare sei «numeri di curvatura» in ciascun punto. Naturalmente i matematici sanno come scrivere tutti questi numeri. Un giorno potrete leggere in un libro di matematica come scriverli tutti quanti in
42.3 • Il nostro spazio è curvo
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una forma elegante e di alta classe, ma è una buona idea conoscere prima in modo grossolano cos’è quel che si cerca di mettere in formule. Per la maggior parte dei nostri scopi la curvatura media sarà sufficiente(2) .
42.3
Il nostro spazio è curvo
Adesso viene il problema principale. È vero? Cioè, l’effettivo spazio fisico tridimensionale in cui viviamo è curvo? Dal momento che abbiamo abbastanza immaginazione per renderci conto della possibilità che lo spazio sia curvo, la mente umana diventa naturalmente curiosa di sapere se l’universo reale è curvo o no. Sono state fatte delle misure geometriche dirette per cercare di scoprirlo, ma non si sono trovate deviazioni. D’altra parte, ragionando sulla gravitazione Einstein scoprì che lo spazio è curvo e desideriamo farvi conoscere qual è la legge di Einstein per l’entità della curvatura e anche raccontarvi un poco di come è arrivato alla sua scoperta. Einstein ha detto che lo spazio è curvo e che la materia è l’origine della curvatura. (La materia è anche l’origine della gravitazione, perciò la gravità è in rapporto con la curvatura, ma questo verrà più avanti nel capitolo.) Per rendere le cose un po’ più facili, supponiamo che la materia sia distribuita in modo continuo con una certa densità che può variare – però – quanto si vuole da punto a punto(3) . La regola che Einstein ha dato per la curvatura è la seguente: se c’è una regione dello spazio che contiene della materia e prendiamo una sfera abbastanza piccola perché la densità ⇢ della materia nell’interno sia in pratica costante, l’eccedenza del raggio per la sfera è proporzionale alla massa interna alla sfera. Adoperando la definizione di eccedenza del raggio, si ha r A G eccedenza del raggio = r mis = 2M (42.3) 4⇡ 3c
dove G è la costante della gravitazione (della teoria di Newton), c è la velocità della luce e M = 4⇡ ⇢r 3 /3 è la massa della materia interna alla sfera. Questa è la legge di Einstein per la curvatura media dello spazio. Prendiamo come esempio la Terra, dimenticando che la densità varia da punto a punto (così non si devono fare integrali). Supponiamo di misurare la superficie della Terra con gran precisione, poi di scavare un buco fino al centro e di misurarne il raggio. Dall’area della superficie si potrebbe calcolare il raggio previsto, ponendo l’area uguale a 4⇡r 2 . Quando si confronta il raggio previsto col raggio effettivo, si trova che il raggio effettivo supera quello previsto della quantità data dall’equazione (42.3). La costante G/3c2 è circa 2,5 · 10 29 cm/g, perciò per ogni grammo di materiale il raggio misurato scarta di 2,5 · 10 29 cm. Introducendo la massa della Terra, che è circa 6 · 1027 g, risulta che la Terra ha un raggio che è 1,5 mm più lungo di quello che dovrebbe avere in base all’area della sua superficie(4) . Facendo lo stesso calcolo per il Sole, si troverebbe che il raggio del Sole è troppo lungo di mezzo kilometro. Si deve notare che la legge dice che la curvatura media, valutata per mezzo di una piccola sfera posta al di sopra della superficie della Terra, è nulla. Ma questo non vuol dire che tutte le componenti della curvatura siano nulle. Ci può essere – ed effettivamente c’è – una certa curvatura al di sopra della Terra. Per un cerchio in un piano c’è un’eccedenza del raggio avente un segno per certe orientazioni e il segno opposto per altre. Si trova appunto che la media su una sfera è nulla quando non c’è massa nell’interno. (Incidentalmente, si trova che c’è una relazione fra le varie componenti della curvatura e la variazione della curvatura media da punto a punto.) (2)
Per completezza, si dovrebbe ricordare ancora un dettaglio. Se si vuole trasportare in tre dimensioni il modello di spazio curvo della lastra calda, si deve pensare che la lunghezza del regolo di misura dipenda non soltanto da dove lo si mette, ma anche da quale orientazione ha quando lo si dispone per la misura. È una generalizzazione del caso semplice in cui la lunghezza del regolo dipende da dove si trova, ma è la stessa se lo si dispone in direzione nord-sud o est-ovest o dall’alto in basso. Questa generalizzazione ci vuole se si desidera rappresentare con tale modello uno spazio tridimensionale con una geometria arbitraria, benché ciò non fosse necessario in due dimensioni. (3) Nessuno – nemmeno Einstein – sa come si debba fare se la materia si presenta concentrata in punti. (4) Approssimativamente, perché la densità non è indipendente dal raggio come abbiamo supposto.
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Capitolo 42 • Spazio curvo
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Perciò, sebbene la curvatura media al di sopra della Terra sia nulla, tutte le sue componenti non lo sono e quindi quello spazio è curvo. Ed è questa curvatura che interpretiamo come una forza gravitazionale. Supponiamo di avere un insetto su un piano e che la superficie di questo «piano» abbia delle bollicine. Dovunque c’è una bolla, l’insetto ne concluderebbe che il suo spazio ha delle piccole regioni di curvatura localizzate. Abbiamo la stessa cosa in tre dimensioni: dovunque c’è un accumulo di materia il nostro spazio tridimensionale ha una curvatura locale, una specie di bolla in tre dimensioni. Se in un piano produciamo tanti rigonfiamenti, ci potrebbe essere, oltre a quella delle bolle, una curvatura d’insieme: la superficie potrebbe diventare simile a una palla. Sarebbe interessante sapere se il nostro spazio ha una curvatura complessiva, accanto alle bolle locali dovute ad accumuli di materia come la Terra e il Sole. Gli astrofisici hanno cercato di risolvere questo problema facendo conteggi di galassie a grandissime distanze. Per esempio, se il numero di galassie che vediamo in un guscio sferico a grande distanza fosse diverso da quello che ci aspettiamo dalla nostra conoscenza del raggio del guscio, si avrebbe una misura dell’eccedenza del raggio di una sfera di grandezza formidabile. Da simili misure si spera di scoprire se l’intero universo è in media piatto o rotondo, se è «chiuso» come una sfera o «aperto» come un piano. Forse avete sentito parlare delle discussioni che sono in corso su questo argomento. Ci sono discussioni perché le misure astronomiche sono ancora completamente inconcludenti; i dati sperimentali non sono abbastanza precisi per dare una risposta definitiva. Disgraziatamente, non abbiamo la più vaga idea sulla curvatura d’insieme, su larga scala, del nostro universo.
42.4
La geometria nello spazio-tempo
Dobbiamo ora parlare del tempo. Come sapete dalla teoria della relatività ristretta, le misure di spazio e quelle di tempo sono legate fra loro. E sarebbe piuttosto insensato sostenere che qualcosa accada nello spazio senza che il tempo sia coinvolto nella stessa cosa. Ricorderete che le misure di tempo dipendono dalla velocità alla quale ci si muove. Per esempio se si osserva un tizio che se ne va con una nave spaziale, si vede che per lui le cose accadono più lentamente che per noi. Mettiamo che parta per un giro e ritorni in 100 s secchi, secondo i nostri orologi; il suo orologio potrebbe dire che era partito soltanto da 95 s. In confronto con i nostri il suo orologio e tutti gli altri processi, come il battito del suo cuore, sono andati più piano. Consideriamo ora un problema interessante. Mettiamo che siate voi a essere sulla nave spaziale: vi si chiede di partire a un dato segnale e di tornare alla vostra base di partenza in tempo per raccogliere un successivo segnale, esattamente (mettiamo) 100 s dopo, secondo il nostro orologio. E vi si chiede inoltre di compiere il viaggio in modo tale che il vostro orologio segni il tempo trascorso più lungo possibile. Come vi dovreste muovere? Dovreste star fermi. Se vi muovete appena, il vostro orologio segnerà meno di 100 s quando sarete di ritorno. Supponiamo tuttavia di cambiare un po’ il problema. Mettiamo che vi venga richiesto di partire dal punto A a un dato segnale e andare al punto B (ambedue fissi relativamente a noi) e di farlo in modo di arrivare proprio all’istante di un secondo segnale (mettiamo 100 s dopo, letti sul nostro orologio fisso). Di nuovo vi si richiede di compiere il viaggio nel modo che vi fa arrivare col vostro orologio che segna l’ora più tarda possibile. Cosa farete? Per quale percorso e quale tabella oraria il vostro orologio segnerà il più lungo tempo trascorso quando arriverete? La risposta è che impiegherete il più lungo tempo dal vostro punto di vista, se fate il viaggio andando a velocità uniforme lungo una linea retta. La ragione: qualsiasi moto extra e qualsiasi eccesso extra di velocità farà andare più lento il vostro orologio. (Siccome le deviazioni temporali dipendono dal quadrato della velocità, quello che si perde andando extra veloci in un tratto non si può mai riguadagnare andando extra lentamente in un altro tratto.) L’essenziale di tutto questo è che si può sfruttare l’idea per definire una retta nello spaziotempo. L’analogo di una retta nello spazio è, nello spazio-tempo, un moto a velocità uniforme in una direzione costante.
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42.6 • La velocità degli orologi in un campo gravitazionale
La curva di più breve distanza nello spazio corrisponde nello spazio-tempo non al cammino che dà il tempo più breve, ma a quello che dà il tempo più lungo, a causa dei fatti curiosi che succedono coi segni dei termini temporali in relatività. Il moto «rettilineo» – l’analogo della «velocità uniforme su una retta» – è dunque il moto che trasporta un orologio da un certo punto a un certo istante in un altro punto a un altro istante nel modo che permette all’orologio di segnare la più lunga durata. Questa sarà la nostra definizione per l’analogo di una retta nello spazio-tempo.
42.5
La gravità e il principio di equivalenza
Siamo ora pronti per discutere le leggi della gravitazione. Einstein ha cercato di costruire una teoria che si adattasse alla teoria della relatività che aveva elaborato in precedenza. Ha continuato nei suoi sforzi finché è arrivato a impadronirsi di un importante principio che gli ha fatto da guida nell’ottenere le leggi corrette. Questo principio è basato sull’idea che quando un oggetto cade liberamente ogni cosa nell’interno sembra priva di peso. Per esempio, un satellite in orbita cade liberamente nel campo di gravità della Terra e un astronauta a bordo si sente privo di peso. Quest’idea, enunciata con maggior precisione, è chiamata principio di equivalenza di Einstein. Esso dipende dal fatto che tutti gli oggetti cadono esattamente con la stessa accelerazione, senza riguardo alla loro massa o alla loro composizione. Se si ha una nave spaziale che si sta muovendo coi motori spenti – così che è in caduta libera – e c’è dentro un uomo, le leggi che regolano la caduta dell’uomo e della nave sono le stesse. Perciò l’uomo, se si mette nel mezzo della nave, resterà lì. Egli non cade rispetto alla nave. Questo è ciò che si vuol dire quando si afferma che è «privo di peso». Supponiamo ora di essere su una nave spaziale azionata da un razzo, che sta accelerando. Accelerando rispetto a cosa? Diciamo semplicemente che i motori sono accesi e generano una spinta, così che non si è più in caduta libera. Immaginiamo inoltre di essere lontano, nello spazio vuoto, così che sulla nave non agiscano praticamente forze gravitazionali. Se la nave sta accelerando con 1 g si riuscirà a stare in piedi sul «pavimento» e si avrà la sensazione del proprio peso normale. Inoltre se si lascia andare una palla, questa «cadrà» verso il pavimento. Come mai? Perché la nave accelera «in su», ma sulla palla non ci sono forze e perciò non subirà accelerazione; le succederà di essere lasciata indietro. Dentro la nave la palla mostrerà di possedere un’accelerazione di 1 g all’ingiù. Confrontiamo ora questa situazione con quella in una nave spaziale in quiete sulla superficie della Terra. Tutto è lo stesso! Ci si sentirebbe premuti verso il pavimento, una palla cadrebbe con l’accelerazione di 1 g e così via. Difatti, come si potrebbe distinguere da dentro una nave spaziale se essa è posata sulla Terra o sta accelerando nello spazio libero? Secondo il principio di equivalenza di Einstein, non c’è modo di fare questa distinzione se si fanno solamente misure di ciò che accade all’interno. Per essere rigorosamente corretti, questo è vero soltanto per un punto dentro la nave. Il campo gravitazionale della Terra non è esattamente uniforme, quindi una palla che cade liberamente ha un’accelerazione leggermente diversa in punti diversi: direzione e modulo cambiano. Ma se s’immagina un campo di gravità rigorosamente uniforme, esso è completamente imitato sotto tutti gli aspetti da un sistema che ha un’accelerazione costante. Questa è la base del principio di equivalenza.
42.6
La velocità degli orologi in un campo gravitazionale
Vogliamo ora usare il principio di equivalenza per capire una cosa strana che succede in un campo gravitazionale. Mostreremo una cosa che succede in un missile, che probabilmente non vi sareste aspettati che succedesse in un campo gravitazionale. Supponiamo di mettere un orologio nella «testa» del missile – cioè all’estremo «anteriore» – e di metterne un altro identico nella «coda», come nella FIGURA 42.16. Chiamiamo i due orologi A e B. Se si confrontano questi orologi mentre il
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Capitolo 42 • Spazio curvo
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Accelerazione
missile sta accelerando, l’orologio in testa sembra che vada avanti rispetto a quello di coda. Per vederlo, immaginiamo che emetta un lampo di luce ogni secondo e che qualcuno nella coda del missile confronti l’arrivo dei segnali Orologio A luminosi col ticchettio dell’orologio B. Mettiamo che il razzo sia nella posizione a della FIGURA 42.17 quando l’orologio A emette un lampo e sia nella posizione b quando il lampo arriva all’orologio B. Più tardi il missile sarà nella posizione c quando l’orologio A emette il lampo successivo e nella posizione d quando lo si vede arrivare all’orologio B. Il primo lampo percorre la distanza L 1 e il secondo lampo percorre la distanza più breve L 2 . È una distanza più breve perché il missile sta accelerando e ha una velocità maggiore al momento del secondo lampo. Si può Orologio B dunque vedere che se i due lampi sono stati emessi dall’orologio A a un secondo di distanza, essi arriveranno all’orologio B con una separazione un po’ minore di un secondo, perché il secondo lampo non impiega altrettanto tempo per il tragitto. La stessa cosa accadrà anche per tutti i lampi successivi. Perciò uno che si trovasse nella coda concluderebbe che l’orologio A va FIGURA 42.16 Un missile con due orologi che sta più in fretta dell’orologio B. Se si facesse lo stesso confronto alla rovescia, accelerando. cioè facendo emettere la luce da B e osservandola nel punto dove si trova A, si concluderebbe che B va più piano di A. Tutto si accorda e non c’è nulla di misterioso in tutto ciò. Ma ora pensiamo che il missile sia in quiete nel campo della gravità terrestre. Succede la stessa cosa. Se ci si mette sul pavimento con un orologio Posizione d e se ne osserva un altro posato su un alto scaffale questo sembrerà che vada più in fretta di quello sul pavimento! Direte: «ma questo è sbagliato. Le ore devono esser le stesse; in mancanza di accelerazione non c’è ragione A che gli orologi appaiano in disaccordo». Però essi lo devono essere, se il L2 principio di equivalenza è giusto. E Einstein sostenne che il principio era giusto e andò avanti coraggiosamente e correttamente. Egli suggerì che orologi situati in punti diversi in un campo gravitazionale devono sembrare andare a velocità diverse. Ma se uno sembra che vada sempre a una velocità diversa rispetto all’altro, allora, per quanto riguarda il primo, l’altro va a B una velocità diversa. Posizione c Ma allora si vede che qui abbiamo l’analogo per gli orologi del «metro dilatato» di cui si parlava prima, quando si discuteva dell’insetto sulla lastra calda. Si era immaginato che regoli e insetti e il resto cambiassero di lunghezza nello stesso modo alle diverse temperature, così che gli insetti non Posizione b potessero mai accorgersi che i loro metri cambiavano mentre si muovevano sulla lastra calda. È lo stesso con gli orologi in un campo gravitazionale. A Ogni orologio che mettiamo a un livello più alto, lo vediamo andare più in fretta. I battiti del cuore vanno più in fretta, tutti i processi si svolgono più L1 in fretta. Se non lo facessero, si sarebbe in grado di distinguere fra un campo gravitazionale e un sistema di riferimento che accelera. L’idea che il tempo vari da punto a punto è difficile, ma è l’idea che Einstein ha usato, ed è B Posizione a corretta, che lo crediate o no. Usando il principio di equivalenza si può calcolare di quanto la velocità di un orologio cambia con l’altezza in un campo gravitazionale. Non si FIGURA 42.17 Un orologio che si trova nella testata fa che ricavare l’apparente disaccordo fra i due orologi nel missile che di un missile che sta accelerando mostra di andare più veloce di un orologio che sta nella coda. accelera. Il modo più facile di farlo è di usare il risultato trovato nel cap. 34 del vol. 1 per l’effetto Doppler. Lì si è trovato – vedi equazione (34.14) – che se v è la velocità relativa di una sorgente e di un ricevitore, la frequenza ricevuta ! è legata alla frequenza emessa !0 dalla relazione 1 + v/c ! = !0 p 1 v 2 /c2
(42.4)
42.6 • La velocità degli orologi in un campo gravitazionale
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Se ora pensiamo al missile che accelera della FIGURA 42.17, l’emettitore e il ricevitore si muovono con uguali velocità a ogni istante. Ma nel tempo che occorre ai segnali luminosi per andare dall’orologio A all’orologio B il missile ha accelerato. Ha infatti acquistato la velocità supplementare gt, dove g è l’accelerazione e t il tempo impiegato dalla luce per percorrere la distanza H fra A e B. Questo tempo è quasi esattamente H/c. Perciò quando i segnali arrivano in B il missile ha aumentato la sua velocità di gH/c. Il ricevitore ha sempre questa velocità rispetto all’emettitore, all’istante che il segnale lo ha lasciato. Perciò è questa velocità che deve essere usata nella formula per lo spostamento Doppler (42.4). Supponendo che l’accelerazione e la lunghezza del missile siano abbastanza piccole perché questa velocità sia molto minore di c, si può trascurare il termine in v 2 /c2 . Si ha ! gH ! = !0 1 + 2 (42.5) c Perciò per i due orologi nel missile abbiamo la relazione gH (frequenza al ricevitore) = (frequenza di emissione) 1 + 2 c
!
(42.6)
dove H è l’altezza dell’emettitore sopra al ricevitore. Secondo il principio di equivalenza, lo stesso risultato deve valere per due orologi separati dall’altezza H in un campo gravitazionale in cui la caduta libera avviene con l’accelerazione g. Questa è un’idea così importante che desideriamo dimostrare che deriva anche da un’altra legge della fisica: dalla conservazione dell’energia. Sappiamo che la forza gravitazionale su un oggetto è proporzionale alla sua massa M, che è in rapporto con la sua energia interna totale E secondo la relazione E M= 2 c Per esempio, le masse dei nuclei determinate a partire dalle energie delle reazioni nucleari che trasmutano un nucleo in un altro vanno d’accordo con le masse ottenute dai pesi atomici. Ora pensiamo a un atomo che ha l’energia totale E0 nel suo stato di più bassa energia, ha uno stato di energia più alta E1 e può andare dallo stato E1 allo stato E0 emettendo luce. La frequenza della luce sarà data da ~! = E1 E0 (42.7) Supponiamo ora di avere un atomo di questo genere, nello stato E1 , che se ne sta sul pavimento e di portarlo da lì all’altezza H. Per far questo si deve fare un certo lavoro nel sollevare la massa m1 = E1 /c2 contro la forza di gravità. Tale lavoro è E1 gH c2
(42.8)
Poi si lascia che l’atomo emetta un fotone e vada nello stato di energia più bassa E0 . Dopo si riporta l’atomo sul pavimento. Nel percorso di ritorno la massa è E0 /c2 e ci viene restituita l’energia E0 gH (42.9) c2 sicché abbiamo fatto un lavoro complessivo uguale a U=
E1
E0 c2
gH
(42.10)
Quando l’atomo ha emesso il fotone, ha ceduto l’energia E1 E0 . Supponiamo ora che il fotone sia stato emesso verso il pavimento e qui assorbito. Quanta energia avrà ceduto? Si penserebbe a prima vista che dovesse cedere proprio l’energia E1 E0 . Ma questo non può essere giusto se l’energia si conserva, come si può vedere con il seguente ragionamento. All’inizio si aveva l’energia E1 , al livello del pavimento. Alla fine l’energia al livello del pavimento è l’energia E0 dell’atomo nel suo stato più basso, più l’energia Efot ricevuta dal fotone. Nel frattempo
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però abbiamo dovuto fornire l’energia supplementare U dell’equazione (42.10). Se l’energia si conserva, l’energia finale al livello del pavimento deve superare quella in partenza di una quantità uguale al lavoro che abbiamo fatto. Cioè si deve avere Efot + E0 = E1 + U ossia Efot = (E1
E0 ) + U
(42.11)
Deve dunque succedere che il fotone non arrivi al pavimento proprio con l’energia E1 E0 con cui è partito, ma con un poco d’energia in più. Altrimenti una certa energia sarebbe andata persa. Se si sostituisce nell’equazione (42.11) il U che si è ricavato con l’equazione (42.10) si trova che il fotone arriva al pavimento con l’energia ! gH Efot = (E1 E0 ) 1 + 2 (42.12) c Ma un fotone di energia Efot ha la frequenza !=
Efot ~
Chiamando !0 la frequenza del fotone emesso che, secondo l’equazione (42.7), è uguale a !0 =
E1
E0 ~
il risultato contenuto nella (42.12) ci dà di nuovo la relazione (42.5) tra la frequenza del fotone quando è assorbito nel pavimento e la frequenza con la quale è stato emesso. Lo stesso risultato si può ottenere in un’altra maniera ancora. Un fotone di frequenza !0 ha l’energia E0 = ~!0 Siccome tale energia E0 possiede la massa gravitazionale E0 /c2 , il fotone ha una massa (che non è massa a riposo) ~!0 /c2 ed è «attratto» dalla Terra. Cadendo della distanza H, acquisterà un’energia in più ~!0 gH c2 perciò arriverà con l’energia ! gH E = ~!0 1 + 2 c
Ma la sua frequenza dopo la caduta è E/~, che dà di nuovo il risultato dell’equazione (42.5). Le nostre idee sulla relatività, la fisica quantistica e la conservazione dell’energia vanno tutte d’accordo soltanto se le previsioni di Einstein sugli orologi in un campo gravitazionale sono giuste. Le variazioni di frequenza di cui stiamo discutendo sono normalmente molto piccole. Per esempio, per una differenza d’altezza di 20 m alla superficie terrestre la differenza delle frequenze è soltanto di circa due parti su 1015 . Proprio la variazione trovata sperimentalmente usando l’effetto Mössbauer(5) . Einstein aveva perfettamente ragione.
42.7
La curvatura dello spazio-tempo
Vogliamo ora mettere in rapporto quello che abbiamo appena discusso con l’idea dello spaziotempo curvo. Abbiamo già fatto notare che se il tempo ha un diverso ritmo in posti diversi, la cosa è analoga allo spazio curvo della lastra calda. Ma si tratta di più che un’analogia; ciò (5)
R.V. Pound e G.A. Rebka, Jr., Physical Review Letters, Vol. 4, p. 337 (1960).
significa che lo spazio-tempo è curvo. Cerchiamo di fare un po’ di geometria nello spazio-tempo. Questo alla prima può sembrare strano, però abbiamo spesso costruito diagrammi dello spazio-tempo con la distanza riportata su un’asse e il tempo su un altro. Supponiamo di voler costruire un rettangolo nello spazio-tempo. Cominciamo col tracciare un grafico dell’altezza H in funzione di t, come nella FIGURA 42.18a. Per avere la base del rettangolo prendiamo un oggetto che è fermo all’altezza H1 e seguiamo la sua linea d’universo per 100 s. Otteniamo la linea BD nella FIGURA 42.18b, che è parallela all’asse t. Prendiamo ora un altro oggetto che si trova 100 m sopra il primo al tempo t = 0. In partenza ci si trova al punto A della FIGURA 42.18c. Ora seguiamone la linea d’universo per 100 s, misurati con l’orologio in A. L’oggetto va da A in C come si vede nella FIGURA 42.18d. Ma si noti che siccome il tempo va a ritmo diverso alle due altezze – si ammette che ci sia un campo gravitazionale – i due punti C e D non sono simultanei. Se si cerca di completare il quadrato tracciando una retta fino al punto C 0, che si trova 100 m sopra D, allo stesso tempo – come in FIGURA 42.18e – i pezzi non si raccordano. E questo è ciò che s’intende quando si dice che lo spazio-tempo è curvo.
H
(a)
t H
(b)
100 s B
D t H
42.8
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42.8 • Il moto nello spazio-tempo curvo
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(c)
A
Il moto nello spazio-tempo curvo 100 ft
100 s Consideriamo un piccolo indovinello interessante. Abbiamo due orologi B D identici, A e B, posti tutt’e due sulla superficie terrestre, come nella FIGURA 42.19. Ora si innalza l’orologio A a una certa altezza H, lo si tiene lì t un po’ e poi si riporta al suolo in modo che arrivi proprio all’istante in cui H (d) l’orologio B ha camminato per 100 s. L’orologio A segnerà qualcosa come 100 s 107 s, perché è andato più in fretta quando si trovava in alto. C A Ora ecco l’indovinello. Come si dovrebbe muovere l’orologio A perché segni l’ora più avanti possibile – sempre nell’ipotesi che ritorni quando B 100 ft segna 100 s? 100 s Direte: «È facile. Portiamo A più in alto che si può. Allora andrà il più D B in fretta possibile e al ritorno segnerà l’ora più tarda possibile». Sbagliato. t Dimenticate una cosa: abbiamo soltanto 100 s per andare in alto e tornare. Se andiamo molto in alto, dobbiamo andare molto in fretta per arrivare là e H (e) tornare indietro in 100 s; e non dovete dimenticare l’effetto della p relatività 100 s 2 2 speciale che fa rallentare gli orologi in moto per un fattore 1 v /c . C C' A Questo effetto della relatività agisce nel senso di far segnare all’orologio A meno tempo dell’orologio B. Vedete che si ha una specie di gioco. 100 ft 100 ft Se l’orologio A si tiene fermo si ottengono 100 s; se si sale lentamente 100 s fino a una piccola altezza e si torna giù lentamente si può ottenere un po’ di D B più di 100 s; andando un po’ più in alto forse si può ottenere ancora un po’ t di più. Ma se si va troppo in alto, ci tocca muoverci in fretta e l’orologio può rallentare abbastanza da arrivare in fondo con meno di 100 s. Quale tabella di altezze in funzione dei tempi (che ci dica quanto alto FIGURA 42.18 Tentativo di costruire un rettangolo si deve andare e con che velocità arrivarci), accuratamente aggiustata per nello spazio tempo. farci tornare quando l’orologio B avrà compiuto 100 s, ci potrà dare la massima durata possibile letta sull’orologio A? Soluzione: calcolare con quale velocità si deve lanciare in aria una palla in modo che torni al suolo esattamente in 100 s. Il moto della palla – salita rapida, rallentamento, fermata e ritorno al suolo – è esattamente il moto giusto per far segnare il tempo massimo a un orologio da polso allacciato alla palla. Consideriamo ora un gioco leggermente diverso. Abbiamo due punti A e B sulla superficie della Terra a una certa distanza l’uno dall’altro. Dedichiamoci allo stesso gioco che si fece prima
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Capitolo 42 • Spazio curvo
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per trovare quello che chiamiamo linea retta. Domandiamoci come si dovrebbe andare da A in B in modo che il percorso letto su un orologio in moto sia il più lungo possibile, nell’ipotesi che si parta da A a un dato segnale e si arrivi in B insieme a un altro segnale che rispetto a un orologio fisso arriva 100 s dopo il primo. Direte: «Ebbene, abbiamo trovato prima che la cosa da fare è muoversi a motore spento lungo una retta, a velocità costante, in modo da arrivare in B esattamente 100 s più tardi. Se non si segue una retta, ci vuole più velocità e il nostro orologio rallenta». Piano, però! Questo succedeva prima che si prendesse in considerazione la gravità. Non sarebbe meglio curvare un pochino in su e poi tornare giù? Il nostro orologio non andrebbe un po’ più veloce quando siamo più in alto? È meglio davvero. Se si risolve il problema matematico di aggiustare la curva del moto in modo che il tempo trascorso per l’orologio in movimento sia il massimo possibile, si trova che il moto è una parabola, la stessa curva seguita da qualcosa che si muove su un percorso balistico libero in un campo gravitazionale, come in FIGURA 42.19. Perciò le leggi del moto in un campo gravitazionale possono anche essere enunciate così: un oggetto si muove sempre da un posto a un altro in modo che un orologio che lo accompagna indichi un tempo più lungo di quello che indicherebbe su qualunque altra traiettoria possibile – s’intende, con le stesse condizioni iniziali e finali. Il tempo misurato dall’orologio mobile viene spesso chiamato «tempo proprio». Nella caduta libera la traiettoria rende massimo il tempo proprio dell’oggetto che cade. Vediamo come funziona tutto questo. Cominciamo con l’equazione (42.5) che dice che l’eccedenza di frequenza dell’orologio mobile è !0 gH/c2 A
Terra
B
42.19 In un campo di gravitazione uniforme la traiettoria che dà il tempo proprio massimo per un tempo trascorso assegnato è una parabola. FIGURA
(42.13)
Oltre a questo dobbiamo ricordare che c’è una correzione di segno opposto per effetto della velocità. Per questo effetto sappiamo che si ha q ! = !0 1 v 2 /c2
Sebbene il principio sia valido per qualunque velocità, facciamo un esempio in cui le velocità siano sempre molto minori di c. Allora possiamo scrivere l’equazione precedente nella forma ! v2 ! = !0 1 2c2 e il difetto di frequenza del nostro orologio sarà !0 v 2 /2c2 Combinando i due termini dati da (42.13) e (42.14) abbiamo ! !0 v2 ! = 2 gH 2 c
(42.14)
(42.15)
Un simile spostamento della frequenza dell’orologio mobile significa che, se misuriamo un tempo dt con un orologio fisso, l’orologio mobile registrerà il tempo " !# gH v2 dt 1 + (42.16) c2 2c2 L’eccedenza totale di tempo su tutta la traiettoria è l’integrale nel tempo del termine extra, vale a dire ! ⌅ 1 v2 dt (42.17) gH 2 c2 che si suppone sia massimo.
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42.9 • La teoria di Einstein della gravitazione
Il termine gH non è che il potenziale gravitazionale . Supponiamo di moltiplicare tutto quanto per il fattore costante mc2 , dove m è la massa dell’oggetto. Questo non altera la condizione di massimo, ma il segno meno cambierà il massimo in minimo. L’equazione (42.16) dice allora che l’oggetto si muoverà in modo che si abbia ! ⌅ mv 2 m dt = un minimo (42.18) 2 Ma ora l’integrando non è che la differenza delle energie cinetica e potenziale. E se andate a guardare il capitolo 19, vedrete che quando abbiamo discusso il principio dell’azione minima, abbiamo mostrato che le leggi di Newton per un oggetto in un potenziale qualunque potevano essere scritte esattamente nella forma dell’equazione (42.18).
42.9
La teoria di Einstein della gravitazione
La forma data da Einstein alle equazioni del moto – cioè che il tempo proprio deve essere massimo nello spazio-tempo curvo – dà, per piccole velocità, gli stessi risultati delle leggi di Newton. Mentre Gordon Cooper girava intorno alla Terra, il suo orologio segnava l’ora più tarda di quella che avrebbe segnato su qualsiasi altro percorso immaginabile per il suo satellite(6) . Dunque la legge della gravitazione può essere enunciata in termini delle idee della geometria dello spazio-tempo in questo notevole modo. Le particelle scelgono sempre il tempo proprio più lungo: una grandezza analoga, nello spazio-tempo, alla «distanza più corta». Questa è la legge del moto in un campo gravitazionale. Il grande vantaggio di metterla in questa forma è che la legge non dipende da coordinate o da altri modi di descrivere la situazione. Riassumiamo quello che si è fatto. Abbiamo dato due leggi per la gravità: 1 Come la geometria dello spazio-tempo cambia quando è presente della materia; cioè che la curvatura espressa per mezzo dell’eccedenza del raggio è proporzionale alla massa interna a una sfera, equazione (42.3). 2 Come si muovono gli oggetti quando ci sono soltanto forze gravitazionali; cioè che gli oggetti si muovono in modo che il loro tempo proprio fra le condizioni iniziale e finale sia massimo. Queste due leggi corrispondono ad analoghe coppie di leggi che abbiamo visto in precedenza. Originariamente abbiamo descritto il moto in un campo gravitazionale per mezzo della legge di Newton del quadrato inverso e delle sue leggi del moto. Ora le leggi 1 e 2 prendono il loro posto. La nuova coppia di leggi corrisponde anche a ciò che abbiamo visto in elettrodinamica. Là si aveva la «legge» – cioè, l’insieme delle equazioni di Maxwell – che determinava i campi prodotti dalle cariche. Essa ci dice come il carattere dello «spazio» cambia per la presenza di materia carica, che è quello che la legge 1 fa per la gravità. In più si aveva la legge su come le particelle si muovono in un campo dato: d (mv) = q (E + v ⇥ B) dt Questo, nel caso della gravità, lo fa la legge 2. Nelle leggi 1 e 2 si ha una precisa enunciazione della teoria della gravitazione secondo Einstein, sebbene di solito la si trovi enunciata in una forma matematica più complicata. Si deve però fare un’aggiunta ulteriore. Proprio come la scala dei tempi in un campo gravitazionale cambia da punto a punto, così fa anche la scala delle lunghezze. I regoli di misura cambiano lunghezza quando ci si muove. Essendo lo spazio e il tempo così intimamente mescolati, è impossibile che succeda qualcosa al tempo senza che si rifletta in qualche modo nello spazio. Facciamo l’esempio più semplice: vi state muovendo rispetto alla Terra; quello che è «tempo» (6)
A rigore si tratta solo di un massimo locale. Si sarebbe dovuto dire che il tempo proprio è più lungo che per ogni altro percorso vicino. Per esempio non c’è ragione per cui il tempo proprio su un’orbita ellittica intorno alla Terra sia più lungo che sull’orbita balistica di un oggetto che viene lanciato a grande altezza e ricade giù.
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Capitolo 42 • Spazio curvo
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secondo il «vostro» punto di vista è in parte spazio dal «nostro» punto di vista, perciò ci devono essere dei cambiamenti anche nello spazio. È lo spazio-tempo tutto quanto che è distorto dalla presenza di materia e questo è più complicato che un cambiamento nella sola scala dei tempi. Tuttavia, la regola che abbiamo dato con l’equazione (42.3) basta per determinare completamente tutte le leggi della gravitazione, purché s’intenda che questa regola sulla curvatura dello spazio si applica non soltanto per un particolare osservatore ma è vera per chiunque. Un osservatore in moto rispetto a una massa di materiale vede un contenuto di massa diverso, per via dell’energia cinetica che il materiale ha rispetto a lui: egli deve includere la massa corrispondente a questa energia. La teoria deve essere congegnata in modo che chiunque – quale che sia il suo moto – tracciando una sfera trovi che l’eccesso del raggio è il prodotto di G/3c2 per la massa totale contenuta nella sfera (o meglio è G/3c4 per il contenuto totale di energia). Che questa legge – la legge 1 – debba essere vera in qualsiasi sistema in moto è una delle grandi leggi della gravitazione, chiamata equazione di Einstein del campo. L’altra grande legge è 2: che le cose si devono muovere in modo che il tempo proprio sia massimo; ed è chiamata equazione di Einstein del moto. Scrivere queste leggi in una forma algebrica completa, confrontarle con quelle di Newton o metterle in relazione con l’elettrodinamica è un difficile compito matematico. È però il modo in cui le leggi più complete sulla fisica della gravità ci si presentano oggi. Sebbene abbiano dato un risultato in accordo con la meccanica di Newton per il semplice esempio che abbiamo considerato, esse non sempre fanno così. Le tre discrepanze che Einstein dedusse per primo, sono state confermate sperimentalmente: l’orbita di Mercurio non è un’ellisse fissa; la luce delle stelle passando vicino al Sole è deflessa il doppio di quello che ci si aspetterebbe; e il ritmo degli orologi dipende dalla loro posizione nel campo gravitazionale. Ogni volta che le previsioni di Einstein differiscono dalle idee della meccanica newtoniana, si trova che la natura ha scelto le idee di Einstein. Si può riassumere tutto quello che si è detto nel modo seguente. In primo luogo, le scale dei tempi e delle distanze dipendono dal punto dello spazio dove si fanno le misure e dal tempo. Questo equivale all’affermazione che p lo spazio-tempo è curvo. Dall’area misurata di una sfera si può definire un raggio previsto, A/4⇡, ma l’effettivo raggio misurato risulterà in eccesso rispetto a questo valore e questa eccedenza è proporzionale (secondo la costante G/c2 ) alla massa totale contenuta nella sfera. Questo fissa il grado esatto di curvatura dello spazio-tempo. E questa curvatura deve essere la stessa, senza riguardo a chi fa la misura o al suo moto. In secondo luogo, le particelle si muovono secondo «linee rette» (traiettorie con tempo proprio massimo) nello spazio-tempo curvo. Questo è il contenuto della formulazione di Einstein delle leggi della gravitazione.
Indice analitico
A acceleratori – campi di guida, 384 accelerazione di particelle per mezzo di un campo elettrico indotto, 210 acciaio, 397 – inossidabile, 513 accoppiatore unidirezionale, 321 acqua – asciutta, 149 – – flusso, 546-558 – – – circuitazione, 555 – – – equazioni del moto di un fluido, 547 – – – idrostatica, 546 – – – linee vorticose, 556 – – – stazionario, 551 – – – teorema di Bernoulli, 551 – bagnata – – flusso, 559-570 – – – viscoso, 562 – – – – flusso di Couette, 568 – – – – flusso trasversale attorno a un cilindro circolare, 565 – – – – limite per viscosità tendente a zero, 567 – – – – numero di Reynolds, 563 – – viscosità, 559 – – – coefficiente di, 560 – – – – primo, 562 – – – – secondo, 562 – – – di scorrimento, coefficiente di, 562 – – – specifica, 562 – molecola, 71, 130 – – distribuzione di cariche, 65 – – momento dipolare, 71 Aharanov, Yakir, 191 alluminio, 461, 514 Alnico V, 497, 513 ambra, 11, 516 amianto, 390 ampere, 159 Ampère, André-Marie, 232, 260, 487 – legge di, 156 ampere-spira per metro, 491 amperometri, 196 analizzatore d’impulso, 380
angolo – critico, 458 – di incidenza, 445 – di riflessione, 445 antenna dipolare, 65 antiprotone, 330 argento, 393 aria – conduttività, 107 – ionizzazione, 106 Artabano, 117 assi principali d’inerzia, 423 asta sotto torsione, 522 atmosfera, elettricità, 105-117 – correnti elettriche, 106 – – origine, 108 – fulmine, 113, 115 – gradiente del potenziale elettrico, 105 – meccanismo della separazione delle cariche, 112 – temporali, 109 atomi – energia magnetica, 471 – modelli atomici, 55 – stabilità, 55 autoinduttanza, 218 autoinduzione, 200, 217 azione, 238 – minima, principio, 236-250 B Barkhausen, Heinrich Georg – effetto, 512 Bell, Alexander, 199 berillio, 393 Bernoulli, Daniel – teorema di, 551 Bessel, Friedrich – funzioni di, 304 betatrone, 210 Bevatrone, 331 Biot, Jean-Baptiste e Savart, Felix – legge di, 177 bismuto, 461 bobine accoppiate strettamente, 220 Bohm, David, 86, 191
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Indice analitico
Bohr, Niels – magnetone di, 472, 482, 503 bomba atomica, 2 Bopp, Friedrich, 373, 376 Born, Max, 373, 375 Bragg, William Lawrence, 398 Bragg, William Lawrence e Nye, John – modello cristallino di, 398 C CA, circuiti, v. circuiti in CA calcite, 448 calcolo – delle variazioni, 238 – differenziale dei campi vettoriali, v. campi vettoriali, calcolo differenziale – integrale dei vettori, v. vettori, calcolo integrale – numerico, 530 calore – flusso attraverso una superficie, 27 – specifico, 507 camera fotografica di Boys, 115 campo/i, 4, 9 – a divergenza nulla, 36 – bidimensionali, 81 – con rotore nullo, 36 – coulombiano – – istantaneo, 267 – – ritardato, 267 – delle forze nucleari, 377 – di guida negli acceleratori, 384 – di una carica puntiforme a velocità costante, 339 – elettrico, v. campo elettrico – elettromagnetico, v. campo elettromagnetico – elettrostatico – – di una griglia, 89 – – energia elettrostatica, 100 – – equilibrio, 53 – – metodi di determinazione, 80 – – v. anche campo elettrico – generati da un dipolo oscillante, 270 – gravitazionale, velocità degli orologi in un, 579 – H, 491 – in presenza di dielettrici, 124 – magnetico, v. campo magnetico – magnetizzante, 492 – principio di sovrapposizione, 3 – scalare, 4 – – temperatura, 14 – statici e dinamici, 193 – tensoriale, 427 – vettoriali, 4 – – calcolo differenziale, 12-24 – – – derivate, 15
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– – – – seconde, 21 – – – divergenza, 19 – – – gradiente, 15 – – – laplaciano, 22 – – – operatore �, 16 – – – – operazioni, 16 – – – rotore, 19 – – calcolo integrale, v. vettore/i, calcolo integrale campo elettrico, 3 – carica lineare, 55 – carica puntiforme, 58 – cavità di un conduttore, 62 – conduttore, 61 – derivato dal potenziale, 44 – divergenza, 49 – doppia lamina carica, 56 – e relatività, 160 – flusso attraverso una superficie, 27, 46 – guscio sferico carico, 57 – in varie circostanze, 64-79, 80-90 – – campi bidimensionali, 81 – – campo elettrostatico di una griglia, 89 – – carica puntiforme vicino a un piano conduttore, 73 – – carica puntiforme vicino a una sfera conduttrice, 74 – – condensatore a facce piane e parallele, 76 – – – capacità, 76 – – conduttori carichi, 71 – – – metodo delle immagini, 72 – – dipolo elettrico, 65 – – – approssimazione dipolare per una distribuzione arbitraria di cariche, 70 – – – campo elettrico, 67 – – – potenziale, 67 – – – – come gradiente, 68 – – equazioni per il potenziale elettrostatico, 64 – – – equazione di Poisson, 64 – – lastre parallele, 76 – – metodi per trovare il campo elettrostatico, 80 – – oscillazioni nei plasmi, 84 – – – ionosfera, 84 – – – metalli, 86 – – particelle colloidali in un elettrolita, 86 – – scariche a potenziali elevati, 77 – – – microscopio a emissione di campo, 78 – indotto, accelerazione di particelle, 210 – linee di campo, 51 – – per due cariche uguali di segno opposto, 52 – – per una carica puntiforme, 51 – nelle cavità di un dielettrico, 132 – sfera carica, 50, 57 – singola lamina carica, 56 – superfici equipotenziali, 51 – – per una carica puntiforme, 51
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campo elettromagnetico, 4 – energia e impulso, 353-365 – – ambiguità dell’energia del campo elettromagnetico, 358 – – conservazione dell’energia, 354 – – – locale, 353 – – densità di energia, 355 – – flusso di energia, 355 – – – esempi, 359 – – impulso 362 – immaginazione, 260 – propagazione, 228 campo magnetico, 3, 154 – B, 154 – di correnti stazionarie, 156 – e relatività, 160 – filo diritto, 158, 172 – residuo, 514 – rotante, 202 – solenoide, 158 – – lungo, 173 – spira piccola, 175 – terrestre, 516 capacità, 283 – di un condensatore, 76 capacitanza, 76 capacitore, 76 carica/he – densità di, 41 – di polarizzazione, 123 – – superficiale, 120 – di prova, 43 – distribuzione, 41 – – arbitraria, approssimazione dipolare, 70 – immagine, 73 – in moto – – a velocità costante – – – potenziali, 277 – – – – trasformazione di Lorentz, 279 – – potenziali, 275 – – – di Liénard e Wiechert, 277 – – quadripotenziale, 334 – lineare, campo elettrico, 55 – puntiforme – – campo elettrico, 58 – – energia elettrostatica, 103 – – linee di campo, 51 – – superfici equipotenziali, 51 – – vicino a un piano conduttore, campo elettrico, 73 – – vicino a una sfera conduttrice, campo elettrico, 74 – trasformazione relativistica, 165 – uguali (due) di segno opposto, linee di campo, 51 cavità – caricata, 310
Indice analitico
– di un conduttore, campo elettrico, 62 – risonanti, 299-310 – – condensatore alle alte frequenze, 300 – – e circuiti risonanti, 309 – – elementi circuitali reali, 299 – – funzioni di Bessel, 304 – – modi, 307 cella – cristallina, v. reticoli cristallini – temporalesca, 109 cera, 134 circuitazione, 5 – di un campo vettoriale, 33 – fluidi, 550, 555 – intorno a un quadrato, 34 circuiti – in CA, 280-298 – – capacità, 283 – – circuiti equivalenti, 289 – – condensatore, 282 – – elementi circuitali, 286, 297 – – energia, 290 – – filtri, 293 – – generatori, 284 – – impedenze, 280 – – induttanza, 281 – – regole di Kirchhoff, 286 – – resistenza, 283 – – resistore, 283 – – rete a scala, 292 – – reti di elementi ideali, 286 – risonanti, 309 Clausius, Rudolf - Mossotti, Ottaviano – equazione di, 133, 438 cloruro di sodio, 95, 541 – cristallo, 390, 541 cobalto, 461, 504 – curve di magnetizzazione, 510 coefficiente/i – di accoppiamento, 220 – di assorbimento, 439 – di diffusione del calore, 32 – di efflusso, 554 – di riflessione, 445 – di rigidità, 521 – di scorrimento, 562 – di trascinamento, 565 – di viscosità, 560 – – primo, 562 – – secondo, 562 collettori, 198 colloide, 87 – lunghezza di Debye, 88 – particelle colloidali in un elettrolita, 86 – salificazione, 88
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Indice analitico
comportamento – elastico, 517 – non elastico, 540 comprimibilità, modulo di, 520 condensatore, 282 – a facce piane e parallele, 76 – – campo elettrico, 76 – – capacità, 76 – a lastre parallele circolari, 360 – – flusso di energia, 360 – alle alte frequenze, 300 condizione/i – al contorno, 449 – di Lorentz, 334 conduttività, 441 – dell’aria, 107 – nei cristalli, 422 – termica, 20, 140 conduttore/i, 2 – campo elettrico, 61 – carichi – – campi elettrici, 71 – – – metodo delle immagini, 72 – – forze su, 93 – equilibrio in presenza di, 54 – perfetto, 201 conduzione del calore, 30 – equazione di diffusione, 30 conservazione – dell’energia (campo elettromagnetico), 354 – – locale, 353 – della carica, 154, 353 corpo elastico, 531 – moti, 536 corrente/i – amperiane, 487 – atomiche, 143 – costanti, energia, 184 – di magnetizzazione, 486 – di polarizzazione, 433 – elettrica/he, 154 – – nell’atmosfera, 106 – – – origine, 108 – – trasformazione relativistica, 165 – – vettoriale, 156 – indotte, 196-206 – – elettrotecnica, 204 – – forze sulle, 200 – – generatori di corrente, 196 – – induttanze, 199 – – motori elettromagnetici, 196 – – trasformatori, 199 – stazionarie – – campo magnetico di, 156 – trifase, 202 – vorticose, 201
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costante/i – di Planck, 245 – dielettrica, 118 – – dei liquidi, 133 – elastiche – – di Lamé, 536 – – in un cristallo cubico, 541 Couette, Maurice – flusso di, 568 Coulomb, legge di, v. legge di Coulomb cristallo/i – birifrangente, 448 – conduttività, 422 – cubico – – costanti elastiche, 541 – geometria interna, 389-398 – – crescita, 391, 398 – – dislocazioni, 398 – – legami chimici, 390 – – modello cristallino di Bragg e Nye, 398 – – resistenza meccanica dei metalli, 396 – – reticoli cristallini, 391 – – simmetrie in due dimensioni, 393 – – simmetrie in tre dimensioni, 395 – ionico, energia elettrostatica, 95 – molecolari, 391 cromo, 514 Curie, Pierre – temperatura di, 500, 507, 514 Curie, Pierre - Weiss, Pierre-Ernest – legge di, 137 curva/e – d’isteresi, 493, 508 – di magnetizzazione, 492 – elastiche, 530 – sforzo-deformazione, 540 curvatura – dello spazio-tempo, 582 – intrinseca, 575 – media dello spazio, 576, 577 D dalembertiano, 333 Debye, Petrus – lunghezza di, 88 – – colloide, 88 deformazione/i, 518 – di scorrimento, 520 – di taglio, 520 – di volume, 520 – locale, 531 – omogenea, 531 – tensore delle, 428, 531 – uniformi (elasticità), 519 delta di Kronecker, 421, 562 densità – di carica elettrica, 20, 41
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– di corrente elettrica, 20, 154 – di corrente superficiale, 173 – di energia (campo elettromagnetico), 355 derivate dei campi vettoriali, 15 – seconde, 21 diamagnetismo, 461, 465 – e fisica classica, 468 diamante, 390 dielettrico/i, 118-126, 127-138 – campi e forze in presenza di dielettrici, 124 – campi elettrici nelle cavità di un dielettrico, 132 – cariche di polarizzazione, 120 – costante dielettrica, 118 – – dei liquidi, 133 – dipoli molecolari, 127 – equazioni dell’elettrostatica in presenza di dielettrici, 123 – equazioni di Clausius-Mossotti, 133 – equazioni di Maxwell in un, 433 – ferroelettricità, 135 – molecole polari, 130 – onde in un, 435 – polarizzazione da orientazione, 130 – polarizzazione elettronica, 127 – solidi, 134 – vettore di polarizzazione, 119 differenza di voltaggio, 281 diffrazione, 244 diffusione – dei neutroni, 145 – del calore – – coefficiente, 32 – – equazione, 30 – equazione di, 563 dipolo/i – atomici, 65 – elettrico, 65 – – approssimazione dipolare per una distribuzione arbitraria di cariche, 70 – – campo elettrico, 67 – – potenziale, 67 – – – come gradiente, 68 – energia, 179 – magnetico, 175 – molecolari, 127 – oscillante, campi generati da un, 270 Dirac, Paul, 12, 376 dislocazione/i, 397 – a vite, 398 – di scorrimento, 398 – e crescita dei cristalli, 398 distanza ritardata, 266 distribuzione di carica/he, 41 – arbitraria approssimazione dipolare, 70 disuniversalità, 336 – degli effetti meccanici, 336
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– gaussiana dell’elettricità, 336 – totale, 336 divergenza, 19 – del campo elettrico, 49 – di un vettore, 30 dominio/i (ferromagnetismo), 502, 508 doppia lamina carica, campo elettrico, 56 E eccedenza del raggio, 577 effetto – Barkhausen, 512 – Mössbauer, 582 – piezoelettrico, 428 efflusso (fluidi), coefficienti di, 554 Einstein, Albert, 337, 363, 571, 577, 579 – curvatura media dello spazio, 577 – equazione del campo, 586 – equazione del moto, 586 – principio di equivalenza e gravità, 579 – teoria della gravitazione, 585 elasticità, 517-530 – asta sotto torsione, 522 – deformazioni uniformi, 519 – inflessione laterale, 528 – legge di Hooke, 517 – onde di distorsione, 522 – tensore, 534 – trave inflessa, 525 elementi – circuitali, 286, 297 – – passivi, 284 – – reali, 299 – delle terre rare, 479, 515 – di transizione, 479 elettrete, 134 elettricità nell’atmosfera, v. atmosfera, elettricità elettrodinamica nella notazione relativistica, 326-337 – dalembertiano, 333 – gradiente quadrimensionale, 331 – invarianza nelle equazioni dell’elettrodinamica, 335 – notazione quadrimensionale, 334 – quadripotenziale, 334 – – di una carica in moto, 334 – quadrivettori, 326 – – lunghezza, 329 – – prodotto scalare di due quadrivettori, 328 elettrolita, 87 elettromagneti, 495 elettromagnetismo, 1-11 – campi, 9 – – elettrici e magnetici, 3 – caratteristiche dei campi vettoriali, 4 – forze elettriche, 1
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– leggi, 6 – nella scienza e nella tecnica, 11 elettrone/i, 1, 2 – di conduzione, 160, 441, 505 – dimensione, 368 – energia media, 505 – forza su sé stesso, 369 – liberi, 61 – momento angolare, 463 – – nella meccanica quantistica, 469 – momento magnetico, 463, 503 – – di spin, 463, 472 – raggio classico, 368 – spin, 503 elettrostatica, 39-52 – campo elettrico – – derivato dal potenziale, 44 – – di una sfera carica, 50 – – divergenza, 49 – – flusso, 46 – – linee di campo, 51 – equazioni, 39 – – in presenza di dielettrici, 123 – flusso del campo elettrico, 46 – legge di Coulomb, 40 – legge di Gauss, 49 – linee di campo, 51 – potenziale elettrostatico, 44 – sovrapposizione degli effetti, 40 – superfici equipotenziali, 51 elettrostatica, analogie, 139-153 – – diffusione dei neutroni, 145 – – equazioni che hanno le stesse soluzioni, 139 – – flusso di calore stazionario, 140 – – flusso intorno a una sfera, 148 – – flusso irrotazionale di un fluido, 148 – – illuminazione uniforme di un piano, 151 – – membrana tesa, 143 – – sorgente sferica uniforme in un mezzo omogeneo, 145 – – sorgente termica puntiforme vicina a un piano di separazione infinito, 140 elettrotecnica, 204 ellissoide – d’inerzia, 422 – dell’energia, 419 – della polarizzabilità, 421 – di polarizzazione, 396 energia, 290 – del campo elettromagnetico – – ambiguità, 358 – – carica puntiforme, 366 – – conservazione, 354 – – – locale, 353 – – densità, 355 – – flusso, 355 – – – esempi, 359
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– della parete, 508 – delle correnti costanti, 184 – di un dipolo, 179 – elettrostatica, 82-94 – – campo elettrostatico, 100 – – carica puntiforme, 103 – – condensatore, 93 – – cristallo ionico, 95 – – forze su conduttori carichi, 93 – – nuclei atomici, 97 – – sfera uniformemente carica, 91 – – sistema di cariche, 91 – ellissoide dell’, 419 – magnetica – – degli atomi, 471 – – e induttanza, 218 – meccanica ed elettrica, 182 – nucleare, 2 – principio della conservazione locale, 102 equazione/i – che hanno le stesse soluzioni, 139 – del moto di una carica puntiforme in notazione relativistica, 349 – dell’elettrostatica, 39 – – in presenza di dielettrici, 123 – dell’idrostatica, 547 – della magnetostatica, 39 – delle onde elettromagnetiche, 232 – delle onde tridimensionali, 253 – di Clausius-Mossotti, 133, 438 – di continuità dell’idrodinamica, 548 – di diffusione, 563 – – del calore, 30 – di Einstein – – del campo, 586 – – del moto, 586 – di Laplace, 80 – di Maxwell, v. equazioni di Maxwell – di Poisson, 64 – di Schrödinger, 190 – di stato di un fluido, 548 – vettoriali – – osservazioni, 67 equazioni di Maxwell, 20, 39, 223-235 – campi che si propagano, 228 – e fisica classica, 227 – equazione delle onde, 232 – in un dielettrico, 433 – potenziali, 232 – risoluzione, 232 – soluzioni in presenza di correnti e cariche, 266-279 – – campi generati da una dipolo oscillante, 270 – – luce e onde elettromagnetiche, 266 – – onde sferiche generate da una corrente puntiforme, 267 – – potenziali di una carica in moto, 275
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– – – potenziali di Liénard e Wiechert, 277 – – potenziali per una carica in moto a velocità costante, 277 – – – trasformazione di Lorentz, 279 – – soluzione generale, 269 – soluzioni nello spazio libero, 251-265 – – immaginazione dei campi elettrici e magnetici, 260 – – onde – – – nello spazio libero, 251 – – – piane, 251 – – – sferiche, 262 – – – tridimensionali, 258 – – – – equazioni delle, 253 – tentativi di modificazione, 356 – termine aggiuntivo, 225 – velocità della luce, 231 esperienza di Stern e Gerlach, 475 etere, 260 Eulero, Leonhard, 529 – forza di, 529 F farad, 77 Faraday, Michael, 197, 198, 204, 207, 208, 232, 260 – legge di, 208 fattore – di propagazione, 294 – g di Landé, 464 – g nucleare, 464 fem autoindotta, 218 ferriti, 515 ferro, 8, 461, 492, 497, 508, 513, 514 – curve di magnetizzazione, 510 – da trasformatori, 494 – isteresi, 493 – permeabilità, 494 – – relativa, 495 – reticolo, 392 – spin elettronico, 504 – struttura microscopica, 511 ferroelettricità, 135, 462 ferromagnetismo, 461, 486-502 – campo H, 491 – comprensione, 503 – correnti di magnetizzazione, 486 – curva di magnetizzazione, 492 – – isteresi, 493 – elettromagneti, 495 – induttanze con nucleo di ferro, 493 – magnetizzazione spontanea, 497 Feynman, Richard, 373, 376 filo diritto, campo magnetico, 158, 172 filtro/i, 293 – passa-alto, 296 – passa-banda, 296
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– passa-basso, 295 fisica – capire la, 12 – classica – – e diamagnetismo, 461, 465 – – e paramagnetismo, 461 – – ed equazioni di Maxwell, 227 – – leggi fondamentali, 224 fluido, 546 – equazioni del moto, 547 – equazioni di stato, 548 – flusso irrotazionale di un, 148 flusso, 5 – del campo elettrico, 5, 6, 46 – di calore, 20 – – equazione differenziale, 20 – – stazionario, 140 – di Couette, 568 – di energia (campo elettromagnetico), 355 – – esempi, 359 – di un campo vettoriale, 27 – di un vettore – – attraverso una superficie, 27 – – uscente da un cubetto, 29 – intorno a una sfera, 148 – irrotazionale, 550 – – di un fluido, 148 – magnetico, regola del, 207 – – eccezioni, 209 – stazionario (fluidi), 551 – termico come campo vettoriale, 14 – uscente dell’impulso, 362 – viscoso, 562 – – flusso di Couette, 568 – – flusso trasversale attorno a un cilindro circolare, 565 – – limite per viscosità tendente a zero, 567 – – numero di Reynolds, 563 focheggiamento a gradiente alternato, 386 forza/e – agente su una carica in moto, 2 – coercitiva, 514 – controelettromotrice, 200, 218 – dell’elettrodinamica, 6 – dell’elettromagnetismo, 6 – di Eulero, 529 – di Lorentz, 154 – di scambio, 504 – di un elettrone su sé stesso, 369 – elettrica/he, 1, 154 – elettromotrice, 198, 281 – in presenza di dielettrici, 124 – magnetica, 2, 154 – – su una corrente, 156 – nucleari, 2, 97, 376, 378 – – campo, 377 – – fra neutrone e neutrone, 98
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– – fra protone e neutrone, 98 – – fra protone e protone, 98 – su conduttori carichi, 93 – su una spira di corrente, 179 – sulle correnti indotte, 200 – viscosa, 549 – – per unità di volume, 562 fotone di Yukawa, 379 Franklin, Benjamin, 59 frequenza – del plasma, 86 – di Larmor, 467 – di taglio (guide d’onda), 317 fulmine, 113, 115 funzione/i – di Bessel, 304 – di variabile complessa, 81 G gadolinio, 461 galvanometri, 196 gauss, 492 Gauss, Carl, 197, 492 – legge di, v. legge di Gauss – teorema di, 29 Geiger, Johann e Marsden, Ernest, 55 – esperienza di, 55 generatore/i, 198 – di corrente, 196 – – alternata, 198, 213, 284 – – continua, 198 geometria dello spazio-tempo, 578 gradiente, 15 – quadrimensionale, 331 – relativo, 385 grafite, 145 granati, 515 gravità – e principio di equivalenza di Einstein, 579 gravitazione – teoria di Einstein, 585 griglia – campo elettrostatico, 89 grossi ioni, 107 gruppo completo di Lorentz, 329 guide d’onda, 311-325 – come condutture, 320 – frequenza di taglio, 317 – guida d’onda rettangolare, 314 – lunghezza d’onda, 317 – modi, 322 – – modi trasversali elettrici (TE), 322 – – modi trasversali magnetici (TM), 322 – velocità delle onde guidate, 318 – – velocità di fase, 318 – – velocità di gruppo, 319
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guscio sferico carico, campo elettrico, 57 H Hamilton, William – prima funzione principale di, 243 Heisenberg, Werner, 245 Helmholtz, Hermann, 556 Hess, Victor, 106 Hooke, Robert – legge di, 517 I idraulica delle microonde, 320 idrodinamica, equazione di continuità, 548 idrogeno, costante dielettrica, 129 idrostatica, 546 – equazione della, 547 illuminazione uniforme di un piano, 151 immaginazione scientifica, 260 impedenza/e, 280 – caratteristica, 293 – in parallelo, 288 – in serie, 288 – perdita media d’energia per unità di tempo, 291 impulso – del campo elettromagnetico, 362 – – carica in moto, 367 – elettromagnetico, quadritensore, 428 incidenza, angolo di, 445 indice – del campo, 385 – di rifrazione dei materiali densi, 431-444 – – approssimazioni per basse e alte frequenze, 442 – – equazioni di Maxwell in un dielettrico, 433 – – frequenza del plasma, 442 – – indice di rifrazione complesso, 438 – – indice di rifrazione di un miscuglio, 439 – – onde in un dielettrico, 435 – – onde nei metalli, 441 – – polarizzazione della materia, 431 – – profondità di penetrazione, 442 – di rifrazione dei metalli, 442 induttanza/e, 199, 281 – con nucleo di ferro, 493 – ed energia magnetica, 218 – mutua, 215 – toroidale, 493 induzione magnetica, 197 – leggi, 207-222 – – accelerazione di particelle per mezzo di un campo elettrico indotto, 210 – – autoinduzione, 217 – – betatrone, 210
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– – generatore di corrente alternata, 213 – – induttanza ed energia magnetica, 218 – – induttanza mutua, 215 – – regola del flusso magnetico, 207 – – – eccezioni, 209 inerzia – assi principali di, 423 – ellissoide di, 422 – momento di, 422 – tensore di, 422 Infeld, Leopold, 373, 375 inflessione, v. trave inflessa inflessione laterale, 528 integrale di linea di �ƶ, 25 interazione/i – non locale, 354 – nucleari, 98 invarianza nelle equazioni dell’elettrodinamica, 335 inversione, 395 ionizzazione dell’aria, 106 ionosfera, 107, 84 – come plasma, 84 – – oscillazioni, 84 isolanti, 2, 118 – ferromagnetici, 515 istanti simultanei, 353 isteresi, 493 – curva di, 493, 508 – perdita di, 494 ittrio, 515 J Jeans, James, 18 K Karman, Theodore – scia di vortici di, 567 Kirchhoff, Gustav – regole di, 286 Kronecker, Leopold – delta di, 421, 562 L lagrangiana, 243 Lamb, Willis, 60 Lamé, Gabriel – costanti elastiche di, 536 lamina carica – doppia, campo elettrico, 56 – singola, campo elettrico, 56 lampo, 116 Landé, Alfred – fattore g di, 464 Laplace, Pierre-Simon de – equazione di, 80 laplaciano, 22
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Larmor, Joseph – frequenza di, 467 – teorema di, 466 lastre parallele – campo elettrico, 76 lavoro elettrico, 182 Lawton, Willard, 60 legami chimici (cristalli), 390 – legame covalente, 390 – legame ionico, 390 – legame nei metalli, 391 legge/i – di Ampère, 156 – di Biot e Savart, 177 – di Coulomb, 2, 40, 58 – – esattezza, 60 – di Curie-Weiss, 137 – di Faraday, 208 – di Gauss, 49 – – applicazioni, 53-63 – – – campo elettrico – – – – carica lineare, 55 – – – – carica puntiforme, 58 – – – – cavità di un conduttore, 62 – – – – conduttore, 61 – – – – guscio sferico carico, 57 – – – – lamina carica – – – – – doppia, 56 – – – – – singola, 56 – – – – sfera carica, 57 – – – equilibrio in presenza di conduttori, 54 – – – equilibrio in un campo elettrostatico, 53 – – – stabilità degli atomi, 55 – di Hooke, 517 – di Lenz, 200 – di Snell, 445, 455 lente/i – elettrostatica, 382 – magnetica, 382 – quadripolare, 386 – quadrupolari, 83 Lenz, Emilij – legge di, 200 Liénard, Alfred-Marie e Wiechert, Emil – potenziali di, 277 linea/e – coassiali, 311 – del campo magnetico, 157 – di campo, 4, 10, 51 – di corrente (fluidi), 551 – di scorrimento, 395 – di trasmissione, 311 – – impedenza caratteristica, 313 – vorticose (fluidi), 556 litio, 470
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Lorentz, Hendrik Antoon, 279, 337, 369, 372, 377 – condizione di, 334 – gruppo completo di, 329 – trasformazione di, 279, 326 luce, 10, 244, 359 – assorbimento da parte dei materiali, 439 – comportamento nei cristalli, 10 – connessione con le equazioni di Maxwell, 267 – e onde elettromagnetiche, 266 – flusso di energia, 359 – intensità, 359 – onda/e – – nei materiali densi, 446 – – riflessa, 452 – – trasmessa, 452 – riflessione e rifrazione, v. riflessione e rifrazione della luce sulle superfici – velocità, 231 lunghezza – d’onda (guide d’onda), 317 – di Debye, 88 – di un quadrivettore, 329 M MacCullagh, James, 10 magnesio, 393, 514 magnete/i, 8, 196, 198 – atomici, precessione, 464 magnetismo della materia, 461-472 – diamagnetismo, 461, 465 – – e fisica classica, 468 – energia magnetica degli atomi, 471 – momento magnetico dell’elettrone, 463 – – nella meccanica quantistica, 469 – paramagnetismo, 461 – – e fisica classica, 468 – precessione dei magneti atomici, 464 – teorema di Larmor, 466 magnetite, 11, 516 magnetizzazione – correnti di, 486 – curva di, 492 – – isteresi, 493 – spontanea, 497 – vettore, 479, 488 magnetoidrodinamica, 548 magnetometro a risonanza protonica, 484 magnetone di Bohr, 472, 482, 503 magnetostatica, 154-167, 168-178 – campo magnetico, 154 – – correnti stazionarie, 156 – – filo diritto, 158, 172 – – solenoide, 158 – – – lungo, 173 – – spira piccola, 175 – correnti atomiche, 143
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– dipolo magnetico, 175 – equazioni, 39, 157 – forza magnetica su una corrente, 156 – legge di Ampère, 156 – legge di Biot e Savart, 177 – potenziale vettore, 168 – – di un circuito, 177 – – dovuto a correnti note, 171 – principio di sovrapposizione, 166 – regola della mano destra, 166 – relatività dei campi magnetici ed elettrici, 160 – trasformazioni relativistiche delle correnti e delle cariche, 165 magnetostrizione, 509 magnetron, 388 manganese, 514 massa – del campo mesonico, 377 – elettromagnetica, 366-379 – – campo delle forze nucleari, 377 – – energia del campo di una carica puntiforme, 366 – – forza di un elettrone su sé stesso, 369 – – impulso del campo di una carica in moto, 367 – – tentativi di modificare la teoria di Maxwell, 371 – meccanica, 368 materiale/i – antiferromagnetico, 514 – elastici, 531-545 – – calcolo delle costanti elastiche in un cristallo cubico, 541 – – comportamento non elastico, 540 – – moti di un corpo elastico, 536 – – tensore dell’elasticità, 534 – – tensore delle deformazioni, 531 – magnetici, 503-516 – – comprensione del ferromagnetismo, 503 – – curva d’isteresi, 508 – – materiali ferromagnetici, 512 – – materiali magnetici particolari, 514 – – proprietà termodinamiche, 507 Maxwell, James Clerk, 8, 11, 60, 208, 232, 260, 337, 368 – equazioni di, v. equazioni di Maxwell meccanica quantistica, 244 – e fenomeni magnetici, 468 – e momento angolare dell’elettrone, 469 – e paramagnetismo, 480 – e potenziale vettore, 187 – e spin dell’elettrone, 504 membrana tesa, 143 mesone/i, 376 – µ, 377 – , 379 – negativo, 377
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metalli – come plasma, 86 – – oscillazioni, 86 – effetti degli elettroni di conduzione, 441 – indice di rifrazione, 442 – legame nei, 391 – onde nei, 441 – resistenza meccanica, 396 – riflessione sui, 457 – trasparenza, 444 metodo – delle immagini, 72 – di Rabi dei raggi molecolari, 476 mica, 390 microfono a carbone, 199 microscopio – a emissione di campo, 78 – elettronico, 383 Minkowski, Hermann – spazio di, 429 miscuglio – indice di rifrazione, 439 modello cristallino di Bragg e Nye, 398 modi – di una cavità risonante, 307 – guide d’onda, 317 – – modi trasversali elettrici (TE), 322 – – modi trasversali magnetici (TM), 322 modulo – di comprimibilità, 520 – di scorrimento, 521 – di Young, 518 molecola/e – dell’acqua, 130 – non-polare, 127 – polare/i, 127, 130 momento – angolare, quantizzazione, 476 – angolare dell’elettrone, 463 – – nella meccanica quantistica, 469 – d’inerzia, 422 – di dipolo magnetico di una spira, 176 – diamagnetico, 466 – dipolare per unità di volume, 120 – flettente, 526 – magnetico – – dell’elettrone, 463 – – di una spira, 176 – – medio per unità di volume, 490 – – misura col metodo di Rabi, 476 Mössbauer, Rudolf – effetto, 582 moto – delle cariche nei campi elettrici e magnetici, 380-388 – – campi di guida negli acceleratori, 384 – – focheggiamento a gradiente alternato, 386
– – lente elettrostatica, 382 – – lente magnetica, 382 – – lente quadripolare, 386 – – microscopio elettronico, 383 – – moto in campi elettrici e magnetici incrociati, 387 – – moto in un campo uniforme elettrico o magnetico, 380 – – – analisi secondo l’impulso, 380 – di una particella carica, 3 – nello spazio-tempo, 583 motore/i – a induzione, 203, 204 – elettromagnetici, 196 muone, 377 mutua/e – capacità, 297 – induttanza, 297 N natura, fondamentale unità, 152 Newman, John von, 149, 549 neutrone/i, 97, 98, 376, 377 – diffusione, 145 – momento magnetico di spin, 464 Newton, Isaac, 571, 586 nichel, 461, 497, 500, 504 – curve di magnetizzazione, 510 nitrato di ammonio e praseodimio, 482 nodo, 287 nucleo atomico, 2, 97 – energia elettrostatica, 97 – momento magnetico, 464 numero – di Mach, 565 – di Reynolds, 563 Nye, John, 398 O oersted, 492 Oersted, Hans, 232, 492 onde – dei metalli, 441 – di compressione, 525 – – velocità, 525 – di distorsione, 522 – elettromagnetiche – – equazioni delle, 232 – guidate, 311 – – velocità, 318 – – – di fase, 318 – – – di gruppo, 319 – in un dielettrico, 435 – longitudinali, 525 – luce – – nei materiali densi, 446 – – riflessa, 452
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– – trasmessa, 452 – nello spazio libero, 251 – sferiche, 262 – – generate da una corrente puntiforme, 267 – torsionali, 523 – tridimensionali, 258 – – equazione delle, 253 Onsager, Lars, 134 operatore – �, 17 – – operazioni, 18 – invariante per quadrivettori, 351 – vettoriale, 18 P paramagnetismo, 461, 473-485 – dal punto di vista della meccanica quantistica, 480 – dei materiali di massa, 479 – e fisica classica, 468 – esperienza di Stern e Gerlach, 475 – metodo di Rabi dei raggi molecolari, 476 – raffreddamento per smagnetizzazione adiabatica, 482 – stati magnetici quantizzati, 473 particella/e – accelerazione per mezzo di un campo elettrico indotto, 210 – carica, moto, 3 pendolo, oscillazioni di grande ampiezza, 530 perdita d’isteresi, 494 permalloy, 514 permittività, 124 piani di sfaldatura, 390 piezoelettricità, 135 pile chimiche, 285 Pines, David, 86 pione, 378 piroelettricità, 135 Planck, Max – costante di, 245 plasma, 84 – frequenza, 86, 442 – oscillazioni, 84 – – ionosfera, 84 – – metalli, 86 Plimpton, Samuel, 60 Poincaré, Henri, 370 – tensioni di, 370 Poisson, Simon-Denis – equazione di, 64 – rapporto di, 518 polarizzabilità, 416 – atomica, 432 – dell’atomo, 128 – ellissoide della, 421
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– ionica, 135 – tensore della, 396, 416 polarizzazione – atomica media, 438 – cariche, 120 – corrente, 433 – da orientazione, 130 – della materia, 431 – delle molecole non-polari, 127 – elettronica, 127 – ellissoide di, 396 – vettore, 119, 433 ponte, circuito a, 289 portanza, 556 posizione proiettata, 338 potenziale – della velocità, 149 – di quadrupolo, 71 – di Yukawa, 378 – elettrico, 42 – – dell’atmosfera, 105 – elettrostatico, 44, 64 – – equazioni, 64 – – – equazione di Poisson, 64 – vettore, 168, 179-195 – – campi statici e campi dinamici, 193 – – confronto fra B e A, 185 – – di un circuito, 177 – – dovuto a correnti note, 171 – – e meccanica quantistica, 187 – – energia delle correnti costanti, 184 – – energia di un dipolo, 179 – – energia meccanica ed elettrica, 182 – – forze su una spira di corrente, 179 Poynting, John Henry, 355, 358, 361, 368 – vettore di, 358, 430 precessione dei magneti atomici, 464 pressione, 546 Priestley, Joseph, 59 prima funzione principale di Hamilton, 243 principio – del tempo minimo, 241 – dell’azione minima, 236-250 – della conservazione locale dell’energia, 102 – di equivalenza di Einstein – – e gravità, 579 – di esclusione, 504 – di sovrapposizione, 3, 166, 518 problemi di valori al contorno, 80 prodotto scalare di due quadrivettori, 328 prodotto vettoriale, 423 profondità di penetrazione, 442 proteina, salificazione, 89 protone/i, 1, 97, 98, 330, 376 – momento magnetico di spin, 464 – spin, 98
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Q quadriforza, 350 quadripotenziale, 334 – di una carica in moto, 334, 338 quadritensore dell’impulso elettromagnetico, 428 quadrivelocità, 350 quadrivettore/i, 326 – lunghezza, 329 – prodotto scalare di due quadrivettori, 328 – velocità, 328 quantizzazione del momento angolare, 476 quarzo, 390 quattro dimensioni, 346 R Rabi, Isidor – metodo dei raggi molecolari, 476 radiazione – di sincrotrone, 212 – resistenza di, 372 radicale libero, 479, 485 raffreddamento per smagnetizzazione adiabatica, 482 raggi – cosmici, 106 – molecolari, metodo di Rabi, 476 rame, 393, 397 rapporto di Poisson, 518 reattanza, 291 regola/e – del flusso, 198 – – magnetico, 207 – – – eccezioni, 209 – della mano destra, 36, 166 – di Kirchhoff, 286 relatività, teoria – e campi elettrici, 160 – e campi magnetici, 160 – trasformazioni relativistiche delle correnti e delle cariche, 165 resistenza, 283 – di radiazione, 372 – meccanica dei metalli, 396 resistore, 283 rete/i – a scala, 292 – di elementi ideali, 286 Retherford, Robert, 60 reticoli cristallini, 391, 395 – cubico, 396 – – a corpo centrato, 392 – – a facce centrate, 392 – esagonale, 396 – monoclino, 395 – ortorombico, 396 – tetragonale, 396
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– triclino, 395 – trigonale, 395 Reynolds, Osborne – numero di, 563 riflessione – angolo di, 445 – coefficiente di, 445 – e rifrazione della luce sulle superfici, 445-460 – – condizioni al contorno, 449 – – onda riflessa, 452 – – onda trasmessa, 452 – – onde nei materiali densi, 446 – – riflessione sui metalli, 457 – – riflessione totale interna, 457 rigidità, coefficiente di, 521 risonanza magnetica nucleare, 483 rotore, 19 rottura del materiale, 540 Rutherford, Ernest, 55 Rutherford, Ernest - Bohr, Niels – modello atomico, 55 S salificazione – di un colloide, 88 – di una proteina, 89 scarica/he – a pennello, 115 – a potenziali elevati, 77 – – microscopio a emissione di campo, 78 – di ritorno, 116 – guida, 115 – – veloce, 116 – principale, 116 Schrödinger, Erwin, 245 – equazione di, 190 scia di vortici di Karman, 567 scorrimento – coefficiente di, 562 – deformazione di, 520 – linea di, 395 – modulo di, 520 – puro, 521 separazione delle cariche nell’atmosfera, 112 sfaldatura, piani di, 390 sfera – carica – – campo elettrico, 57 – – uniformemente, energia elettrostatica, 91 – flusso intorno a una, 148 sforzo/i, 518 – di taglio, 521 – di volume, 520 – sforzo-deformazione, curva, 540 – sforzo-energia, tensore, 430 – tensore degli, 424
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simmetrie – in due dimensioni (cristalli), 393 – – simmetria a quattro lati, 394 – – simmetria a sei lati, 394 – – simmetrie di rotazione, 394 – in tre dimensioni (cristalli), 395 – – reticoli cristallini, v. reticoli cristallini sincrotrone, 212, 387 – radiazione di, 212 sistema di cariche, energia elettrostatica, 91 smagnetizzazione adiabatica, raffreddamento per, 482 Snell, Willebrord – legge di, 445, 455 sodio, 478, 479 solenoide – campo magnetico, 158 – lungo, campo magnetico, 173 solfato di rame, 479 solfuro di carbonio, 134 sorgente – sferica uniforme in un mezzo omogeneo, 145 – termica puntiforme vicina a un piano di separazione infinito, 140 sostanze – anisotrope, 416 – antiferroelettriche, 138 – diamagnetiche, 461 – ferroelettriche, 135 – paramagnetiche, 461 sovrapposizione degli effetti, 40 spazio – curvo, 571-586 – – curvatura dello spazio-tempo, 582 – – e spazio fisico tridimensionale, 577 – – geometria dello spazio-tempo, 578 – – in due dimensioni, 571 – – in tre dimensioni, 576 – – moto nello spazio-tempo, 583 – – principio di equivalenza di Einstein e gravità, 579 – – teoria di Einstein della gravitazione, 585 – – velocità degli orologi in un campo gravitazionale, 579 – di Minkowski, 429 – fisico tridimensionale e spazio curvo in tre dimensioni, 577 spazio-tempo – curvatura, 582 – geometria, 578 – moto, 583 spettrometro d’impulso, 380 spin – elettrone, 463, 472 – neutrone, 464 – protone, 98, 464 – sistema atomico, 470, 473
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spinello, 514 spira – di corrente, forze su una, 179 – piccola, campo magnetico, 175 stato/i – eccitati, 98 – fondamentale, 98 – magnetici quantizzati, 473 Stern, Otto e Gerlach, Walther – esperienza di, 475 Stokes, George, 566 – teorema di, 34 strato limite, 567 – turbolento, 567 superconduttore, 201 superfici equipotenziali, 51 superficie neutra, 526 supermalloy, 495 suscettività – elettrica, 121 – magnetica, 480 T taglio – deformazione di, 520 – sforzo di, 521 telefono, 199 telegrafo, 198 temperatura – come campo scalare, 14 – di Curie, 500, 507, 514 tempo proprio, 351, 584 temporale, 109 tensione/i, 76 – di Poincaré, 370 tensore/i, 346, 416-430 – antisimmetrico, 346 – – del secondo rango in quattro dimensioni, 346 – d’inerzia, 422 – degli sforzi, 424 – del secondo rango, 346 – dell’elasticità, 534 – della polarizzabilità, 396, 416 – delle deformazioni, 428, 531 – piezoelettrico, 428 – quadritensore dell’impulso elettromagnetico, 428 – sforzo-energia, 430 – trasformazione delle componenti di un tensore, 418 – unitario, 421 teorema – di Bernoulli, 551 – di Gauss, 29 – di Larmor, 466 – di Stokes, 34
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teoria – dei gruppi, 422 – dei mesoni, 377 – di Einstein della gravitazione, 585 – elettromagnetica della massa, 369 terremoto, 525 Thompson, Joseph, 55 – modello atomico, 55 titanato di bario, 136 torsione – asta sottoposta a, 522 transistor, 298 trascinamento, coefficiente di, 565 trasformatore/i, 199, 215, 495 trasformazione/i – di Lorentz, 279, 326 – – dei campi, 338-352 – – – campi di una carica puntiforme a velocità costante, 339 – – – equazioni del moto di una carica puntiforme in notazione relativistica, 349 – – – quadripotenziale di una carica in moto, 338 – – – trasformazione relativistica dei campi, 343 trave inflessa, 525 tuono, 116 U uranio, 2 – nucleo, 2 V valvole radio, 298 variazioni, calcolo delle, 238 velocità – del suono, 565 – della luce, 231 – delle onde guidate, 318 – – velocità di fase, 318 – – velocità di gruppo, 319 versore, 14 vettore/i – assiale, 166 – calcolo differenziale, v. campi vettoriali, calcolo differenziale – calcolo integrale, 25-38 – – campi con rotore nullo, 36
– – circuitazione di un campo vettoriale, 33 – – circuitazione intorno a un quadrato, 34 – – equazione di diffusione del calore, 30 – – flusso di un campo vettoriale, 27 – – flusso di un vettore uscente da un cubetto, 29 – – integrale di linea di �ƶ, 25 – – teorema di Gauss, 29 – – teorema di Stokes, 34 – campo magnetico B, 154 – di polarizzazione, 119 – di Poynting, 358, 430 – magnetizzazione, 488 – polari, 166 – polarizzazione, 433 – primitivi, 393 viscosità, 559 – coefficiente di, 560 – – primo, 562 – – secondo, 562 – di scorrimento, coefficiente di, 562 – specifica, 562 voltaggio, 76, 281 – alternato, 213 voltmetri, 196 vorticità, 550 W wattmetro, 215 Weber, Wilhelm, 197 Weiss, Pierre-Ernest, 501 Wheeler, John, 373, 376 Wilson, Charles T.R., 114 Y Young, Thomas – modulo di, 518 Yukawa, Hideki, 378 – fotone di, 379 – potenziale di, 378 Z zinco, 514 zucchero, 391 – cristallo, 391 – indice di rifrazione di una soluzione acquosa, 439 – polarizzabilità della molecola, 440
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