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Italian Pages 448 Year 2011
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LA CULTURA STORICA 38 Collana di testi e studi diretta da Giuseppe Cacciatore e Fulvio Tessitore
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Segreteria di redazione Domenico Conte e Edoardo Massimilla
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Wilhelm Dilthey
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER Vol. II a cura di Francesca D’Alberto
ISSN 1972 - 0688
Liguori Editore
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Il volume è stato realizzato con il contributo del Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Padova con fondi di ricerca PRIN MIUR 2007 (Resp. nazionale: Prof. Riccardo Pozzo; Resp. Unità di ricerca locale: Prof. Giuseppe Micheli) e del Progetto di ricerca di Ateneo CPDA078321 (Resp. Prof. Gregorio Piaia).
Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni. L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2010 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Novembre 2010 Dilthey, Wilhelm : La vita di Schleiermacher. Vol. II/Wilhelm Dilthey La Cultura Storica Napoli : Liguori, 2010 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 5049 - 7 ISSN 1972 - 0688 1. Primo Romanticismo
2. Storiografia filosofica I. Titolo
II. Collana
III. Serie
Aggiornamenti: ————————————————————————————————————––—————— 20 19 18 17 16 15 14 13 12 11 10 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
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INDICE
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Introduzione: Schleiermacher: realismo e modernità, di F. D’Alberto Premessa
La vita di Schleiermacher Libro Secondo: Pienezza della vita. L’epoca dell’esposizione intuitiva della sua visione del mondo (1796-1802) 25
Capitolo primo: La letteratura tedesca come formazione di una nuova visione del mondo
54
Capitolo secondo: Berlino
68
Capitolo terzo: Entrata in società
79
Capitolo quarto: L’amicizia con Friedrich Schlegel
112
Capitolo quinto: Prima manifestazione del suo ideale di vita
135
Capitolo sesto: I compagni poeti
170
Capitolo settimo: La visione del mondo e della vita dei Discorsi sulla religione e dei Monologhi, chiarita e spiegata a partire dalla sua relazione con i sistemi filosofici I. La visione del mondo e della vita dell’epoca precedente (fino al 1796), 171; II. La visione del mondo e della vita dei Discorsi e dei Monologhi, 176; La mistica, ossia la religione come forma nella quale l’universo si manifesta all’uomo 177; L’immanenza dell’infinito nel finito come contenuto generale della visione religiosa del mondo
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INDICE
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180; Armonia e individualità nell’universo come espressione dell’infinito nel finito 184; Intuizione di sé e intuizione dell’universo: Monologhi e Discorsi 188; La nuova visione del mondo e della vita e il futuro sistema 190; III. Spiegazione e chiarificazione di questa visione del mondo a partire da Spinoza, Leibniz e Platone 192; Analisi dello spinozismo dei Discorsi sulla religione 192; Le relazioni storiche con il passato. Eclettismo e originalità 193; Relazione con Spinoza. Lo spinozismo dei Discorsi 195; Aggiunta degli influssi di Leibniz e Platone 199; IV. Relazione personale e scientifica con i filosofi viventi 202; Relazione con Friedrich Heinrich Jacobi 203; Relazione con Johann Gottlieb Fichte 208; La nuova generazione. L’intuizione intellettuale 221; Relazione con Friedrich Schelling 225; Relazione con Friedrich Schlegel e Novalis. Le tracce di una trattazione filosofica della storia nei Frammenti di Friedrich Schlegel 227.
238
Capitolo ottavo: La nascita dei Discorsi sulla religione
251
Capitolo nono: Contenuto e significato dei Discorsi sulla religione I. Il compito dell’apologia 254; II. L’essenza della religione 257; III. L’educazione alla religione 268; IV. Chiesa e sacerdozio 272; V. Le religioni, 278; Valutazione storica 286; Legame interno con lavori contemporanei affini 293; Prediche. Prima raccolta. 1801 293; Lettere in occasione del compito politico-teologico e della Missiva dei padri di famiglia ebrei. 1799 296,
300
Capitolo decimo: Primo effetto storico dei Discorsi
318
Capitolo undicesimo: I Monologhi come compiuta esposizione intuitiva del suo ideale di vita La genesi esteriore 318; Il compito scientifico dei Monologhi e la sua soluzione nell’opera d’arte 322; L’intuizione del Sé eterno in mezzo all’agire temporale. La coscienza. Primo Monologo 326; La volontà individuale. Secondo Monologo 328; La volontà individuale e la comunità umana. Terzo Monologo 332; La volontà e il destino. Quarto Monologo 334; La volontà e il corso della vita. Quinto Monologo 336; Primi effetti dei Monologhi 337.
341
Capitolo dodicesimo: Il destino dei nuovi ideali morali nella vita
359
Capitolo tredicesimo: La battaglia teorica dei nuovi ideali etici contro le massime morali vigenti nella società Le Lettere di Schleiermacher sulla Lucinda 359; I. Il romanzo di Friedrich Schlegel. L’origine 360; La tendenza etico-sociale 361; Il materiale di partenza e la sua trasformazione nella fantasia 364; La composizione poetica 365; II. Le Lettere confidenziali di Schleiermacher su questo romanzo. La decisione 367; L’origine delle Lettere 369; Il pensiero filosofico nella sua connessione con le Rapsodie etiche e con i Monologhi 370; La forma artistica 372; 1. Amore e matrimonio. Dalla quarta all’ottava lettera. Caratterizzazione di Eleonore 373; 2. La rappresentazione dell’amore nell’opera d’arte. Dalla prima alla terza lettera. Sul pudore. Dialogo sul decoro 376; 3. Lucinda come
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INDICE
ix
rappresentazione artistica dell’amore nel romanzo. Prima e ultima lettera. Critica della Lucinda nell’Archiv 378; Apprezzamento. Primi effetti 379.
382 415
Capitolo quattordicesimo: Separazioni Appendice: Aggiunte di Dilthey per la seconda edizione Capitolo quarto 415; Capitolo quinto 416; Capitolo settimo 416; Capitolo nono 426.
Indice dei nomi
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INTRODUZIONE
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SCHLEIERMACHER: REALISMO E MODERNITÀ
1. La seconda parte del Leben Schleiermachers fu pubblicata nel 1870 con il titolo Fülle des Lebens. Con “pienezza della vita” Dilthey intende il periodo dal 1796 al 1802, trascorso dal teologo riformato a Berlino, a stretto contatto con il circolo romantico. Questo periodo, dettagliatamente ricostruito, mediante il consueto intreccio di vicende biografiche e Geistesgeschichte dell’epoca, si svolge dal trasferimento di Schleiermacher nella capitale prussiana, nel settembre del 1796, fino alla sua nuova partenza, alla volta di Stolp, nella primavera del 1802, che segna la sostanziale rottura del sodalizio romantico. A questo punto si conclude il lavoro pubblicato da Dilthey in vita: i materiali elaborati per la prosecuzione dell’opera sono stati in parte raccolti da Martin Redeker nella seconda parte del volume XIII delle Gesammelte Schriften, in parte sono disponibili presso l’Archivio della Berlin-Brandeburgische-Akademie der Wissenschaften1. A questo già di per sé notevole numero di pagine, va affiancato l’ampio commento di Dilthey al sistema schleiermacheriano, che doveva fare anch’esso parte della biografia e che è ora (parzialmente) raccolto in GS XIV2. In apertura al primo volume di questa traduzione si è tentato di mostrare il peso che il Leben Schleiermachers ha avuto nel percorso intellettuale di 1 Per le vicende concernenti la nascita e l’impostazione di questo lavoro, come per i problemi editoriali e per lo stato del Nachlass diltheyano, si rimanda a quanto detto nell’introduzione e nella premessa a La vita di Schleiermacher, vol. I, a cura di Francesca D’Alberto, Liguori, Napoli 2008. D’ora innanzi per Gesammelte Schriften si userà la sigla GS. 2 Cfr. GS XIV, Leben Schleiermachers. Zweiter Band. Schleiermachers System als Philosophie und Theologie. Aus dem Nachlaß von Wilhelm Dilthey, a cura di Martin Redeker, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottinga 1966. In questo volume sono raccolte le pagine diltheyane dedicate alla filosofia e alla teologia di Schleiermacher (System Schleiermachers als Philosophie e System Schleiermachers als Theologie) intese come momenti costitutivi di un articolato pensiero sistematico.
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INTRODUZIONE
Dilthey, e che le difficoltà di ricezione da esso incontrate hanno, in certa misura, occultato. Nel presentare questo secondo volume, la cui ricchezza di tesi storiografiche e di spunti teorici è ben lungi dal poter essere esaurita nello spazio di un’introduzione, ci si limiterà a focalizzare singole questioni, che ci sembra possano invitare a un ripensamento del nodo ermeneutico Dilthey-Schleiermacher. Un’articolata interpretazione di tale nesso richiede che vengano prese in esame le parti dedicate da Dilthey al sistema schleiermacheriano, cosa che non può in alcun modo essere fatta in questa sede. Tuttavia ci preme sottolineare che Dilthey intendeva, in ultima istanza, offrire una visione evolutivo-sistematica del percorso intellettuale del teologo, che ne compendiasse tanto la vita quanto il pensiero. Storia e sistema, come si notava già a proposito del primo volume, sono due aspetti di un ampio progetto storiografico, di cui abbiamo altrove tracciato le linee fondamentali3. Accenniamo a questo orizzonte interpretativo per sgomberare il campo dal possibile fraintendimento che le pagine diltheyane, che di seguito presentiamo al lettore italiano, vogliano darci un’immagine definitiva del teologo, riducibile, sostanzialmente, alle sue opere giovanili (in particolare Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächter, Monologen e Vertraute Briefe über Friedrich Schlegels Lucinde) e al rapporto con il romanticismo. Che tale rapporto sia centrale nello sviluppo intellettuale di Schleiermacher non toglie che questa fase (1796-1802) sia comunque, secondo Dilthey, preparatoria al sistema della maturità: si tratta, cioè, di una fase dominata da intuizioni non ancora elaborate in forma concettuale e sistematica. Il fatto che Dilthey non sia riuscito a terminare la storia della maturità schleiermacheriana né a concludere l’esposizione del sistema compiuto, (anche se i ricchi materiali del Nachlass fanno ritenere che fosse molto vicino alla pubblicazione di un nuovo volume), ha probabilmente nuociuto alla ricezione dell’opera. Non bisogna dimenticare, come Dilthey stesso sottolinea, che i diretti discepoli del teologo volevano dimenticare il “periodo romantico” del loro maestro, segnato, in particolare, dalla sfortunata difesa della Lucinde di Friedrich Schlegel4. L’attenzione dedicata dal biografo alle Reden über die Religion e alla loro componente mistica5, non 3
Ci permettiamo di rimandare al nostro Biografia e filosofia. La scrittura della vita in Wilhelm Dilthey, FrancoAngeli, Milano 2005. 4 Cfr. La vita di Schleiermacher, I, cit., pp. 275-276. Per la traduzione italiana cfr. Lucinde, a cura di Maria Enrica D’Agostini, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1985 e I romantici tedeschi, a cura di Giuseppe Bevilacqua, vol. I, 1995, pp. 353-411. 5 Non è un caso che Rudolf Otto, nel 1899, ripubblicando la prima edizione delle Reden, in occasione del loro centenario, la dedichi a Dilthey: su questa prima edizione, infatti, recepita tradizionalmente come manifesto della religiosità romantica, il filosofo aveva concentrato
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INTRODUZIONE
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poteva che fortificare, più tardi, l’antipatia di un ampio settore della teologia evangelica per Schleiermacher6. Di risultati parziali quindi, se così vogliamo dire, si tratta in quest’opera: le concezioni schleiermacheriane che Dilthey qui espone sono il precipitato intuitivo dell’esperienza vitale del teologo, di un Erlebnis religioso di natura pietistica, i cui tratti erano stati con precisione delineati nel primo volume. Alla luce di quanto detto, lo Schleiermacher “romantico” di queste pagine va preso con la dovuta cautela, considerando che le posizioni assunte dal teologo in gioventù troveranno solo a partire dal 1803, con l’uscita delle Grundlinien einer Kritik der bisherigen Sittenlehre, secondo Dilthey, la loro definitiva sistemazione7. Che il rapporto di Schleiermacher con il romanticismo sia poi tutt’altro che un’adesione appassionata e senza riserve, Dilthey si premura di sottolinearlo in più modi, cosicché non gli si può certo imputare di aver fatto del futuro patriota prussiano un’“anima bella”. Il lettore difficilmente si sottrarrà, nell’affrontare questa Pienezza della vita, all’impressione che la figura di Schleiermacher si delinei progressivamente per contrasto con gli altri suoi contemporanei, e per scarto rispetto a molte delle tematiche dominanti nella la propria attenzione nelle pagine della biografia. In realtà, come noto, Schleiermacher ha ampiamente rielaborato il suo testo giovanile, in parte proprio per “mitigarne” gli eccessi romantici. Non possiamo qui entrare nello specifico del dibattito suscitato dalle Reden: i curatori dell’edizione critica delle opere schleiermacheriane hanno puntualmente ricostruito la fortuna di quest’opera, mettendo in luce, grazie alla comparazione tra le quattro edizioni pubblicate da Schleiermacher in vita (1799, 1806, 1821, 1831), i cambiamenti che il teologo stesso ha effettuato, per precisare e correggere, in alcuni casi, le tesi giovanili. Le pagine della biografia diltheyana dedicate alle Reden sono parte decisiva di questa Wirkungsgeschichte. Cfr. Schleiermacher, Kritische Gesamtausgabe (d’ora innanzi KGA), I, 2 Schriften aus der Berliner Zeit 1796-1799, a cura di Günter Meckenstock, de Gruyter, Berlino-New York 1984 (tr. it. Sulla religione. Discorsi a quegli intellettuali che la disprezzano, a cura di Salvatore Spera, Queriniana, Brescia 1989). I testi delle edizioni successive sono oggi riportati in KGA I, 12, Über die Religion (2.-) 4. Auflage, Monologen (2.-) 4. Auflage, a cura di Günter Meckenstock, de Gruyter, Berlino-New York, 1995. Per la storia della fortuna delle Reden cfr. 200 Jahre Reden über die Religion. Akten des 1. Internationalen Kongresses der Schleiermacher Gesellschaft (Halle 14-17. März 1999), a cura di Ulrich Barth e Claus-Dieter Osthoevener, de Gruyter, Berlino-New York 2000; “Welche unendliche Fülle offenbart sich da...”. Die Wirkungsgeschichte von Schleiermachers “Reden über die Religion”, a cura di Nico F.M. Schreurs, Royal van Gorcum, Assen 2003. 6 Cfr., a titolo d’esempio, Emil Brunner, Die Mystik und das Wort, Mohr, Tubinga 1924. Per la ricezione di Schleiermacher nella teologia protestante cfr. Kurt Nowak, Schleiermacher, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottinga 20022, pp. 467-481. Per tale questione indispensabili rimangono i lavori di Hans-Joachim Birkner, Schleiermacher-Studien, a cura di Hermann Fischer, de Gruyter Berlino-New York 1996. 7 Cfr. KGA I, 4, Schriften aus der Stolper Zeit (1802-1804), a cura di Eilert Herms, Günter Meckenstock, Michel Pietsch, de Gruyter, Berlino-New York 2002, pp. 27-357.
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INTRODUZIONE
cerchia con cui si trovò, per due anni, a stretto contatto. Per quanto Dilthey abbia dato ampio spazio ai rapporti del teologo con la cosiddetta “nuova scuola” di Berlino, la sua lettura richiama soprattutto l’attenzione su ciò che lo distingue da quelli che definisce i “compagni poeti”, al fine di delineare la collocazione, per molti versi insolita, del teologo in questo contesto8. È in quest’ottica che si comprende la costante ricerca di equilibrio, nell’interpretazione diltheyana, tra gli influssi romantici e la loro elaborazione sistematica, tra la visione intuitiva del giovane teologo e la rigorosa elaborazione delle questioni filosofiche, colte già in questi anni, nelle opere successive, a partire, appunto, dalle citate Grundlinien, attraverso le lezioni di etica e dialettica fino alle Abhandlungen tenute all’Accademia delle Scienze di Berlino9. Elaborazione del sistema e storia della vita costituiscono dunque i fuochi dell’orizzonte interpretativo diltheyano. Sotto questo punto di vista, il lavoro su Schleiermacher conferma l’immagine di Dilthey che la DiltheyForschung sta gradualmente ricostruendo, e che in parte rettifica quella di matrice irrazionalistica e vitalistica, proposta dalla prima scuola diltheyana e da molta parte della critica agli inizi del Novecento. Accanto all’innegabile componente, per così dire, lebensphilosophisch, si fa sempre più chiaro oggi il profilo, attraverso gli scritti diltheyani, di un pensiero strutturato e orientato al sistema, per quanto cosciente della precarietà di ogni forma sistematica definitiva10. Il Leben Schleiermachers, come e forse più della 8
Cfr. infra, pp. 135 ss. Per la dialettica di Schleiermacher cfr. Sämmtliche Werke (d’ora in poi SW), I, 4.2, Dialektik. Aus Schleiermachers handschriftlichen Nachlasse, a cura di Ludwig Jonas, Reimer, Berlino 1839; le lezioni di dialettica sono oggi pubblicate in KGA II, 10. 1 e 2, Vorlesung über die Dialektik, a cura di Andreas Arndt, de Gruyter, Berlino-New York 2002 (tr. it. Dialettica, a cura di Sergio Sorrentino, Trauben, Torino 2004). Più complessa la situazione degli scritti di etica: oltre alla edizione delle SW, sono disponibili, a cura di Hans-Joachim Birkner: Brouillon zur Ethik (1805/06), Meiner, Amburgo 1981 ed Ethik (1812/13), Meiner, Amburgo 1990, che riprendono il secondo volume di Werke. Auswahl in vier Bände, a cura di Otto Braun e Johannes Bauer, Lipsia 19272. Oltre alle già citate Grundlinien, di grande importanza sono le Abhandlungen, che contengono il precipitato dell’articolata riflessione etica del teologo (raccolte in SW III, 2, disponibili in italiano in Etica ed ermeneutica, a cura di Giovanni Moretto, Bibliopolis, Napoli 1989; cfr. anche Scritti filosofici, a cura di Giovanni Moretto, Utet, Torino 1998). 10 Che dietro agli scritti incompiuti di Dilthey si nasconda la volontà di realizzare un ampio progetto sistematico è stato più volte rilevato: particolarmente significativo è il caso della Einleitung in die Geisteswissenschaften. L’edizione delle opere diltheyane, oggi conclusa (fatta eccezione per gli scambi epistolari, in preparazione), ha reso noti manoscritti che confermano tale intenzione sistematica: cfr. soprattutto GS XIX, XX, XXI. Per una lettura sistematica di Dilthey, che si avvale dei manoscritti pubblicati in questi ultimi volumi, cfr. Massimo Mezzanzanica, Dilthey filosofo dell’esperienza. Critica della ragione storica: vita, struttura e significatività, FrancoAngeli, Milano 2006. Ha messo di recente in evidenza il difficile 9
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Einleitung in die Geisteswissenschaften, conferma questa duplice prospettiva diltheyana: la ricomprensione del passato della filosofia viene qui chiaramente intesa come una premessa necessaria per proseguire alla costruzione di un nuovo sistema, come d’altronde avevano insegnato Friedrich Schlegel e lo stesso Schleiermacher. 2. Le tesi esposte in questa parte della biografia vanno a completare il quadro della cosiddetta deutsche Bewegung, alla ricostruzione del quale Dilthey non smise mai di aggiungere nuovi contributi11. Analogamente a quanto realizzato nel primo volume, in cui aveva delineato dapprima l’atmosfera intellettuale in cui si era formato Schleiermacher, poi i suoi primi scritti e il loro rapporto con la filosofia dell’epoca, Dilthey propone qui una ricostruzione della letteratura tedesca a partire da Lessing (cap. I), un profilo storico-culturale della città di Berlino (cap. II) e la narrazione delle vicende che hanno portato Schleiermacher a incrociare il circolo romantico per poi allontanarsene (capp. III, IV, XIV). Sviluppando la tesi, già sostenuta nel primo volume, che, in Germania, religione, tendenza metafisica e culto dell’interiorità abbiano formato, se così si può dire, un milieu spirituale drasticamente differente rispetto al resto d’Europa, Dilthey analizza qui il contributo specifico che la letteratura, e in particolare la poesia, ha dato alla formazione dello spirito tedesco12. Quello che Dilthey ci presenta è lo sviluppo culturale di una nazione in cui la borghesia era stata per lo più priva di potere politico, gli intellettuali avevano avuto una formazione prevalentemente teologica, e le istanze riformistiche – se non conservatrici – avevano prevalso su quelle rivoluzionarie importate dalla Francia. Su questo sfondo di immobilismo politico, la figura di Schleiermacher spicca, in primo luogo, per il forte caequilibrio, nella concezione diltheyana della filosofia, tra sistema, vita e visione del mondo, Gunter Scholtz, Diltheys Philosophiebegriff, in Aa. Vv., Dilthey und die hermeneutische Wende in der Philosophie, a cura di Gudrun Kühne-Betram e Frithjof Rodi, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottinga 2008, pp. 17-37. 11 Cfr., oltre a Die dichterische und philosophische Bewegung in Deutschland 1770-1800, in GS V, pp. 12-27 (tr. it. a cura di Giancarlo Magnano San Lio, in «Archivio di storia della cultura», 11, 1998, pp. 243-259), che annuncia tesi e scansione temporale della storia dello spirito tedesco alla fine del XVIII secolo, approfondite poi nel Leben Schleiermachers, i saggi dedicati alla poesia e alla musica romantiche, contenuti in Von deutscher Dichtung und Musik. Aus den Studien zur Geschichte des Deutschen Geistes, a cura di Hermann Nohl e Georg Misch, Stoccarda-Gottinga 1932, e quelli, più noti, contenuti in GS XXVI, Das Erlebnis und die Dichtung. Lessing, Goethe, Novalis, Hölderlin, a cura di Gabriele Malsch, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottinga 2005 (tr. it. Esperienza vissuta e poesia, a cura di Nicola Accolti Gil Vitale, Il Nuovo Melangolo, Genova 1999). 12 Cfr. infra, pp. 25 ss.
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INTRODUZIONE
rattere innovatore della sua riflessione etica, che tuttavia non raggiunge gli aspetti più estremi del preromanticismo, più o meno velatamente condannati da Dilthey (esemplare, in questo senso, è la parziale stroncatura di Friedrich Schlegel). Si annuncia in queste pagine (e quanto narrato in relazione alle Briefe bei Gelegenheit des Sendschreibens jüdischer Hausväter, nel cap. IX, ne è un esempio), inoltre, quell’interesse di Schleiermacher per la politica, che ne farà uno dei rappresentanti della “resistenza prussiana” contro i francesi, a dimostrazione, come già sottolineato nel primo volume, che l’intellettualità tedesca non aveva abdicato in toto alle proprie responsabilità politiche13. Che Dilthey abbia voluto “smussare” i lati più polemici e anticonformisti del carattere e della scrittura schleiermacheriani emerge, come ha fatto notare Günter Meckenstock, dalla scelta dei manoscritti pubblicati nel Denkmal, allegato alla prima edizione dell’opera14. Non solo alla severa atmosfera di fine Ottocento possiamo però ascrivere questa lettura: si tratta, piuttosto, come in precedenza accennato, di un’interpretazione intenzionata a far risaltare la peculiarità di Schleiermacher e a mostrarne una specifica continuità con il presente dello stesso Dilthey. Se nel primo volume la Auseinanderseztung di Schleiermacher con Kant e il confronto con Spinoza costituivano lo sfondo della formazione filosofica del protagonista, qui l’orizzonte degli influssi e dei contrasti si fa molto più complicato15. Ai due autori già citati si aggiungono i poeti e i letterati, con i quali Schleiermacher, pur poco dotato di talento poetico, era in stretto contatto (in particolare Novalis, in parte Tieck, indirettamente Wackenroeder) e, soprattutto, i filosofi contemporanei. L’eclettismo schleiermacheriano, che Dilthey in parte conferma, si costituisce, in ultima istanza, su uno spinozismo di fondo, corretto tramite l’influenza di Leibniz (in quanto sostenitore della positività della determinazione individuale), di Platone (la cui arte e la cui dialettica rimangono costanti punti di riferimento per Schleiermacher), di Schelling (uno degli inaspettati ammiratori del pensiero schleiermacheria13 Per lo “Schleiermacher politico”, oltre al saggio giovanile Schleiermachers politische Gesinnung und Wirksamkeit, in GS XII, Zur preussischen Geschichte, a cura di Erich Weniger, Teubner e Vandenhoeck & Ruprecht, Stoccarda-Gottinga 1973, cfr. GS XIV, Staatslehre, pp. 359 ss. L’attenzione del teologo per la vita politica e, in generale, il suo fastidio per un’attività intellettuale chiusa in se stessa e incapace di incidere nella vita reale sono, per Dilthey, segni distintivi della personalità schleiermacheriana, che ne fanno una figura di riferimento per la cultura nazionale. 14 Cfr. Günter Meckenstock, Diltheys Edition der Schleiermacherschen Jugendschriften, in Aa. Vv., Internationaler Schleiermacher Kongress. Berlin 1984, a cura di Kurt-Victor Selge, de Gruyter, Berlino-New York 1985, pp. 1229 ss. Per informazioni sul Denkmal der inneren Entwicklung Schleiermachers cfr. La vita di Schleiermacher, I, cit., pp. 31-32. 15 Cfr. Dilthey, La vita di Schleiermacher, I, cit., pp. 129 ss.
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INTRODUZIONE
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no)16. La vicinanza di Schleiermacher a Jacobi, segnata dalla comune riflessione sul rapporto mistica-filosofia, e la difficile relazione con Fichte (al quale il teologo è debitore della Selbstanschauung come metodo per la comprensione dei fenomeni spirituali17) sono elementi decisivi del percorso schleiermacheriano, che Dilthey tende a risolvere propendendo per una differenziazione della posizione schleiermacheriana rispetto a questi due pensatori. Friedrich Schlegel, come ovvio, è il punto di riferimento costante di queste pagine: la Geistesphilosophie schlegeliana, nonostante i limiti che Dilthey si premura di mettere in evidenza, è l’avvio a una considerazione storica del mondo spirituale che avrà grande influsso sul teologo. Al di là degli intensi e difficili rapporti tra Friedrich Schlegel e Schleiermacher, che culminano nell’episodio della Lucinde e nel naufragio dell’impresa di traduzione a quattro mani di Platone (capp. IV, XIII, XIV), Schlegel offre a Schleiermacher il presupposto per la futura costruzione dell’etica. È a Schlegel, infatti, che l’autore delle Reden, secondo Dilthey, deve «l’immagine globale della cultura umana»18. Con questa minuziosa ricerca delle più disparate influenze esterne sullo sviluppo di Schleiermacher, Dilthey non vuole minimizzare l’originale apporto filosofico del teologo, bensì intende mostrarne la capacità di conciliare istanze differenti e di trovare soluzioni teoretiche in parte innovative rispetto a quelle dei contemporanei. La riflessione sul rapporto filosofia-morale-religione, e la sentita necessità di mantenere intatta l’autonomia di ciascuna di esse, senza ridurle l’una all’altra alla luce di un ipotetico sapere assoluto, sono, per Dilthey, gli elementi che contraddistinguono il pensiero schleiermacheriano. L’autore delle Reden, infatti, sottolinea il biografo, «separò per la prima volta rigorosamente la scienza dalla religione», ponendo così «il fondamento per una futura conciliazione della religione con la cultura intellettuale dell’Occidente»19. Nell’opera di Schleiermacher abbiamo a che fare, in breve, con un progetto di modernizzazione del pensiero religioso, che ha lo scopo di garantirne una relazione fruttuosa con i differenti aspetti della cultura contemporanea e di salvarne, al contempo, l’autonomia. Polemico verso l’epoca irreligiosa, che disprezza ogni forma positiva di culto in nome del razionalismo universalista, ma anche verso ogni affermazione puramente dogmatica del contenuto esperienziale del cristianesimo, Schleiermacher, ci mostra Dilthey, intraprende una strada che lo porta al conflitto con la maggior parte delle correnti teologiche e filosofiche del16
Per il confronto con questi autori cfr. infra, pp. 193-227. Cfr. infra, pp. 208-221. 18 Cfr. infra, p. 236. 19 Cfr. infra, p. 288.
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l’epoca. È in questo conflitto che si rivela la modernità di Schleiermacher, configurabile, ci pare, sotto due punti di vista. Si tratta, primariamente, di una modernità che si definisce tale contro la “vecchia scuola berlinese”, e ambisce dunque ad affermare, in opposizione a essa, un nuovo ideale di vita: in esso si esprime un’etica moderna, che avvicina Schleiermacher ai romantici, in particolare ai più polemici fratelli Schlegel20. Meno evidente, ma implicita nel discorso diltheyano, è la modernità della posizione gnoseologica di Schleiermacher. È qui, a nostro avviso, in questa peculiare soluzione rispetto al problema della conoscenza, che si costituisce il legame di (parziale) continuità tra Schleiermacher e Dilthey. Non possiamo qui ricostruire per intero l’articolato confronto istituito da Dilthey con la filosofia del primo Ottocento (in particolare nel cap. VII): ci limitiamo a rilevare come, infine, la soluzione schleiermacheriana al problema gnoseologico del rapporto tra soggetto conoscente e mondo esterno si traduca, secondo Dilthey, in un tentativo di conciliazione dello spinozismo con la filosofia trascendentale. Se, infatti, l’idealismo trascendentale (di cui, in ogni caso, Schleiermacher condivide molte posizioni) ignora i fatti della natura a tutto favore della coscienza e della sua autonomia (negando, sostanzialmente, la consistenza autonoma del mondo esterno), Spinoza, e dopo di lui Schelling, affondano l’individuale nell’infinito, eliminando l’inevitabile apporto della soggettività alla costruzione della conoscenza21. Schleiermacher istituisce, invece, una relazione dialettica tra universale e individuale, che mantiene i due momenti in costante tensione. Intuizione di sé e intuizione dell’universo costituiscono i due poli del sapere, che rimandano costantemente l’uno all’altro senza esaurirsi, e che vengono compendiati rispettivamente nei Monologen e nelle Reden22. È questa dialettica non risolutiva tra Sé e mondo, tra spirito e natura, a distinguere Schleiermacher dagli altri rappresentanti della deutsche Bewegung: rispetto alle soluzioni unilaterali dell’idealismo e alla riduzione naturalistica dell’empirismo, la filosofia schleiermacheriana mantiene intatta la problematicità di una relazione che non è mai definitivamente risolta (non da ultimo, a nostro avviso, proprio in virtù dell’affinità con il pensiero fichtiano). Questa concezione, che Schleiermacher stesso chiamava un “realismo superiore”, appare in questa fase in forma non compiutamente elaborata: quando, più tardi, come si è visto, avvierà la costruzione del sistema, 20
Per fare il punto sulla modernità della teologia schleiermacheriana, soprattutto nel suo stretto legame con l’etica, cfr. i contributi raccolti in Aa. Vv., Schleiermacher e la modernità, a cura di Sergio Rostagno, Claudiana, Torino 1986. 21 Cfr. infra, pp. 170-237; 419-423. 22 Cfr. infra, pp. 188-192.
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Schleiermacher darà a queste intuizioni di natura religiosa una fondazione concettuale. Annunciato nelle Reden, questo nuovo realismo doveva costituire il sistema del futuro23. Nonostante Dilthey rifiuti i presupposti metafisici e lo schematismo concettuale a cui Schleiermacher riconduce le tensioni tra Sé e mondo, e ne metta in luce i limiti, soprattutto nell’ampia trattazione dell’etica e della dialettica schleiermacheriane24, è certo che il risultato di questo ripensamento del rapporto spirito-natura rimane per Dilthey un punto di riferimento fondamentale. La polarità spirito-natura ricompone l’attività dello spirito sul mondo, ripresa dall’idealismo trascendentale, con il riconoscimento della consistenza reale del mondo stesso, che Schleiermacher eredita dalla filosofia antica. Il fatto che «lo spirito riempie il mondo con alito vitale, e si specchia, per così dire, in esso» non implica che «questo mondo [sia] una creazione dello spirito, che abbia poi consistenza d’ombra: esso è la vera realtà e agisce su di noi come noi agiamo su di lui»25. Dal punto di vista gnoseologico ne consegue che la conoscenza, tutt’altro che vuota o formale, è invece riferita realmente a un oggetto, esistente per sè; dal punto di vista etico, ne deriva che il soggetto non è assolutamente libero, creatore di sé e dell’universo, bensì è costretto a mediare costantemente con l’esterno, con il mondo, con l’altro, nella loro irriducibilità. Pur non facendosi tout court sostenitore di questa prospettiva, Dilthey riconosce che proprio in questa aspirazione a non farsi “sfuggire il mondo reale” consiste la modernità di Schleiermacher, a cui è necessario, anche ai suoi giorni, richiamarsi26. 3. La modernità di Schleiermacher non si gioca solo tra etica e gnoseologia. Come si evinceva già dal primo volume, soprattutto dalle aggiunte diltheyane per la seconda edizione, e si conferma in questa seconda parte dell’opera, anche la religione di Schleiermacher costituisce per Dilthey un aspetto essenziale della sua modernità27. L’“herrnhutiano di ordine superiore”, partito dal misticismo teistico pietista, approda in questi anni, sulla base del proprio Erlebnis religioso, sotto l’influenza di Spinoza, Shaftesbury, Jacobi e grazie al contatto con l’idealismo, a un panteismo mistico che, come ci narra Dilthey, gli creò non pochi problemi in seno alla chiesa riformata (cap. X). Questo panteismo è, per Dilthey, come testimoniano i suoi saggi a riguardo, una 23
Cfr. infra, p. 190. GS XIV, pp. 67 ss. 25 Cfr. infra, p. 421. 26 Cfr. infra, pp. 181, 421. 27 Cfr. infra, pp. 426-429. 24
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cifra costante, anche se spesso misconosciuta, del mondo moderno28. In tal senso, la religiosità schleiermacheriana si colloca a pieno diritto in una tradizione culturale, a cui Dilthey riconosce un ruolo di primo piano nella formazione del pensiero e della mentalità moderni, anche in ambito strettamente scientifico (come Dilthey ci dimostra con il caso di Goethe). Non è certo, quindi, la considerazione dello sfondo religioso presente nello sviluppo filosofico di Schleiermacher a colpirci: essa non è che un atto dovuto verso il “Kant della teologia”. Piuttosto, il ritorno di Dilthey, anche in queste pagine, sulla questione del panteismo, nonché l’approfondimento del legame tra misticismo, spinozismo e idealismo, richiamano un aspetto che ci pare incida nella tradizionale immagine di Dilthey. I giovanili interessi di quest’ultimo per la storia della Weltanschauung religiosa occidentale, come noto, si erano stemperati progressivamente, per cedere il passo a problematiche più chiaramente filosofiche e, soprattutto, gnoseologiche. Per quanto incontrovertibili siano l’atteggiamento “secolarizzato” di Dilthey nei confronti della religione e la sua critica alla teologia, è pur vero che la riflessione sulla religiosità e sulla funzione culturale della religione rimane un tema costante della sua filosofia29. La ricostruzione del panteismo filosofico-religioso nel Leben Schleiermachers è, ci pare, una non trascurabile testimonianza della mai sopita attenzione di Dilthey per tali questioni. Considerando, da un lato, l’apporto decisivo dato da Schleiermacher alla valutazione della religione come ambito peculiare della cultura, dall’altro il ripetuto confronto di Dilthey con le tesi schleiermacheriane, esposte soprattutto negli scritti di etica e nelle Reden, ci chiediamo se non sia opportuno esaminare, in modo più circostanziato di quanto accaduto fino a ora, l’influsso esercitato dal teologo sulla Kulturphilosophie diltheyana e la problematica, ad essa legata, della religiosità in Dilthey. L’attenzione per la religiosità panteistica di ascendenza bruniana è solo uno dei numerosi aspetti del pensiero diltheyano che un’attenta rilettura del Leben Schleiermachers mette in nuova luce. Lo stesso si può affermare, in certa misura, anche riguardo alla riflessione diltheyana sull’etica. Se è vero,
28
Cfr, GS II, Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renaissance und Reformation, pp. 312-390 (tr. it., L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura, a cura di Giovanni Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1974). 29 Per i giovanili progetti diltheyani cfr. Der junge Dilthey. Ein Lebensbild in Briefen und Tagebüchern 1852-1870, a cura di Clara Misch, Teubner, Lipsia-Berlino 1933. La storia dell’interesse di Dilthey per la religione è ancora da fare: tra i pochi contributi cfr. Eugen Wilhelm Freigang, Das Problem der Religion bei Dilthey, Jena 1937 (diss.); Gunter Scholtz, Diltheys Problem der Religion (in corso di stampa).
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infatti, come la Dilthey-Forschung ha per lo più confermato30, che Dilthey non ha elaborato una vera e propria Sittenlehre, né è riuscito a edificare un articolato sistema di etica, non si può tuttavia dimenticare che, proprio in questa biografia, egli ci ha lasciato ampie testimonianze della propria riflessione morale. Per quanto innegabile sia la distanza tra le prospettive dei due autori, altrettanto chiaro è l’apprezzamento di Dilthey per la philosophische Sittenlehre schleiermacheriana. Essa, infatti, sfuggendo tanto alle soluzioni eudaimonistiche quanto al dualismo kantiano, cerca di ricucire, agli occhi di Dilthey, lo strappo tra natura e ragione che l’idealismo aveva definitivamente consumato. Il ruolo centrale riconosciuto all’individuo in questa concezione, che consentiva a Schleiermacher di superare le difficoltà dell’impostazione spinoziana, ma soprattutto la riflessione schleiermacheriana sulla natura risvegliarono l’interesse di Dilthey. Pur sostenendo, in continuità con l’idealismo, il costante affermarsi della ragione sulla natura, grazie a quella che definisce organisierende Tätigkeit, Schleiermacher si mostra consapevole dell’inevitabile condizionamento che la natura stessa esercita sulla ragione31. Dilthey, (in parte) erede del positivismo e affascinato dalla solidità scientifica delle Naturwissenschaften, non poteva che apprezzare l’apertura schleiermacheriana su tali questioni, preludio alla messa in evidenza di tematiche fisiologiche e, in generale, naturalistiche. Dimostrandosi più moderna rispetto alla Naturphilosophie, l’etica schleiermacheriana indicava una via intermedia tra pura affermazione dello spirito e sottomissione rassegnata alla natura. Un’impostazione gnoseologica che non vuole rinunciare alla realtà del mondo, una visione religiosa moderna e un’etica non formale fanno di Schleiermacher un pensatore di riferimento per Dilthey. È l’etica a catalizzare tutti questi elementi, in quanto in essa viene articolato e riassunto, nei suoi 30 Eccezioni sono: Thomas Herfurth, Diltheys Schriften zur Ethik. Der Aufbau der moralischen Welt als Resultat einer Kritik der introspektiven Vernunft, Königshausen & Neumann, Würzburg 1992, e Giovanni Ciriello, La filosofia della Selbstbesinnung di Dilthey, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007. Herfurth dimostra come, pur entro evidenti limiti, Dilthey nutrì un costante interesse per l’etica. Tuttavia è pur vero che gli ha dedicato all’argomento stricto sensu solo le lezioni raccolte in GS X, System der Ethik, a cura di Hermann Nohl, Teubner e Vandenhoeck & Ruprecht, Stoccarda-Gottinga 1970 (tr. it. Sistema di etica, a cura di Giovanni Ciriello, Guida, Napoli 1993). Per l’influsso schleiermacheriano sull’etica di Dilthey cfr. Giovanni Ciriello, La fondazione gnoseologica e critica dell’etica nel primo Dilthey, Liguori, Napoli 2001; nella monografia Zwischen Kultur- und Sozialphilosophie. Wirkungsgeschichtliche Studien zu Wilhelm Dilthey, Königshausen & Neumann, Würzburg 2007, Tobias Bube ha tentato un esame comparativo dell’etica schleiermacheriana e quella diltheyana. 31 Per la differenza tra organisierende e symbolisierende Tätigkeit in Schleiermacher, cfr. SW III, 2; SW III, 5. Per l’interpretazione diltheyana di questa distinzione cfr. GS XIV, cit., pp. 281 ss., 308 ss.
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differenti aspetti, il problema del rapporto tra natura e ragione. In quanto pensatore dell’unità, ideale e regolativa, di questi Gegensätze, Schleiermacher viene riabilitato e attualizzato da Dilthey, nella misura in cui offre soluzioni per un nuovo realismo. Il confronto con l’etica schleiermacheriana diviene, in tale ottica, prioritario, e nasconde, tuttavia, la distanza che separa i due pensatori. In primo luogo, Dilthey ritiene necessario salvare le imprescindibili acquisizioni dell’etica schleiermacheriana all’interno di un quadro di riferimento differente. Pur non essendo una derivazione dalla dogmatica, infatti, l’etica schleiermacheriana è, tuttavia, a ben guardare, organica all’idea religiosa del sommo bene, di cui condivide la fondazione metafisica32. Individuate le necessità della società moderna nell’autonomia di Stato e religione, nell’indipendenza dei differenti ambiti della vita sociale dell’uomo e nel riconoscimento dell’importanza della sfera individuale, Schleiermacher avrebbe dovuto ricercare per esse, secondo Dilthey, un fondamento psico-antropologico, privo di riferimenti religiosi e metafisici. Alla luce di questo tentativo di attualizzare e ripensare l’impostazione schleiermacheriana si comprendono i tentativi diltheyani, a dire il vero non sempre felici, di fondare una morale su sintesi pratiche a priori, che daranno infine luogo a un ibrido tra impostazione neokantiana ed evoluzionismo33. Tolta la legittimazione religiosa all’etica, che Schleiermacher aveva formulato fin dalle Reden come “agire con religione, non per religione”, Dilthey si trova costretto a conciliare la presunta, innata inclinazione dell’uomo alla morale – alla quale non vuole in ogni caso rinunciare – con l’evoluzionismo. Questa mediazione tra scienza e morale rimane un quesito aperto anche per Dilthey: la soluzione evoluzionistica che egli ci propone, non da ultimo per la forte influenza del darwinismo, induce a interrogarsi sulla lettura che Dilthey dà del panteismo schleiermacheriano. La concezione della natura proposta dal teologo, si è visto, lo rende, agli occhi di Dilthey, uno dei rappresentanti del panteismo evoluzionistico, che rimaneva una corrente spesso carsica, ma tuttavia sempre presente, del pensiero e della religiosità occidentali. L’armonizzazione, almeno ideale, di natura e ragione, tentata da Schleiermacher, si colloca in pieno in questa corrente, di cui l’evoluzionismo pare essere, per Dilthey, legittimo erede. Ha di mira, dunque, l’interpretazione diltheyana, la risoluzione del panteismo schleiermacheriano, di chiara ascendenza religiosa, in un evoluzionismo 32
GS XIV, pp. 271 ss. Il riconoscimento di un a priori morale è presente fin dal Versuch einer Analyse des moralischen Bewusstseins, GS VI, pp. 1 ss., risalente al 1864 e viene confermato, pur in un più ampio contesto, nel 1890 in System der Ethik, cit. 33
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naturalistico, che risolverebbe le tensioni tra spirito e natura? Al di là della risposta che si può dare a tale interrogativo, esso invita a prendere in considerazione aspetti differenti del rapporto tra i due pensatori, non riducibile alla tradizionale ricezione della teoria ermeneutica. La famosa Preisschrift dedicata all’ermeneutica di Schleiermacher, che ha reso noto Dilthey, è quindi solo l’inizio di un ben più ampio confronto, dal quale la filosofia diltheyana ha tratto nutrimento più di quanto tradizionalmente sostenuto34.
34 Cfr, Das hermeneutische System Schleiermachers in der Auseinandersetzung mit der älteren protestantischen Hermeneutik, GS XIV, pp. 595 ss. Per una più equilibrata valutazione dei diversi interessi diltheyani, non riducibili alla sola – o comunque – predominante teoria ermeneutica cfr. Gunter Scholtz, Ethik und Hermeneutik. Schleiermachers Grundlegung der Geisteswissenschaften, Suhrkamp, Francoforte sul Meno 1995. L’etica schleiermacheriana ha risvegliato negli ultimi anni un rinnovato interesse, anche in Italia, dove Omar Brino si è impegnato nell’esame delle difficili Grundlinien einer Kritik der bisherigen Sittenlehre: cfr. Brino L’architettonica della morale. Teoria e storia dell’etica nelle Grundlinien di Schleiermacher, Editrice Università degli Studi di Trento, Trento 2007. Spunti dell’etica schleiermacheriana per il presente si ritrovano in Udo Kliebisch, Transzendentalphilosophie als Kommunikationstheorie. Eine Interpretation der Dialektik Friedrich Schleiermachers vor Hintergrund der Erkenntnistheorie Karl-Otto Apels, Borckmeyer, Bochum 1981 e in Kai Horstmann, Zwischen Natur- und Sittengesetz. Fundamental Ethik nach Schleiermacher im Gespräch mit Konrad Lorenz und Karl-Otto Apel, Mainz, Aquisgrana 1999. Per una lettura del pensiero schleiermacheriano che ne considera l’ermeneutica in rapporto alle altre discipline filosofiche e alla dogmatica cfr. Giovanna D’Aniello, Una ontologia dialettica. Fondamento e autocoscienza in Schleiermacher, Edizioni di pagina, Bari 2007. Alla “ riabilitazione” dell’etica schleiermacheriana è dedicato il numero di Humanitas di prossima pubblicazione.
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PREMESSA
Il presente volume si attiene ai criteri esposti nel dettaglio in apertura di La vita di Schleiermacher, vol. I, e a questo, quindi, si rimanda. La scelta di non corredare questa seconda parte di ampie note esplicative era già stata annunciata e motivata in quella sede. La vasta letteratura critica sul romanticismo, a cui è dedicata buona parte di questa sezione della biografia schleiermacheriana, e la notorietà del contesto rendono inutile un tale lavoro. Mi limito a richiamare ricche fonti di informazione per il periodo in questione, disponibili in italiano: oltre, naturalmente, al classico di Rudolf Haym, La scuola romantica, a cura di Ervino Pocar, Riccardo Ricciardi, Napoli 1965, si segnalano I romantici tedeschi, I-IV, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Rizzoli, Milano 1995-1997 e Athenaeum [1798-1800]. Tutti i fascicoli della rivista di August Wilhelm Schlegel e Friedrich Schlegel, a cura di Giorgio Cusatelli, Elena Agazzi e Donatella Mazza, Bompiani, Milano 2009. Per i riferimenti al contesto pietistico e herrnhutiano e a molti protagonisti di questi anni della vita di Schleiermacher, si dà per scontato quanto detto nelle note al primo volume. Per rendere più agevole la lettura, si è scelto di dare, in nota a piè di pagina in [ ], qualche breve delucidazione sui personaggi meno conosciuti che compaiono nel corso della narrazione e di riportare, quando possibile, per intero i riferimenti bibliografici che Dilthey non indica esplicitamente. Più complessa è la questione delle scelte lessicali: come per il primo volume, si è ritenuto opportuno riportare tra parentesi, nel caso di termini di particolare pregnanza concettuale, la parola tedesca. La traduzione di alcune espressioni utilizzate ripetutamente da Dilthey che, riportate tra parentesi, avrebbero appesantito eccessivamente la lettura, è stata segnalata alla prima occorrenza e, se necessario, chiarita in nota.
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PREMESSA
Abbreviazioni Nel corso della traduzione vengono usate le seguenti abbreviazioni: Opere di Wilhelm Dilthey
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Gesammelte Schriften: GS XIII = Leben Schleiermachers. Erster Band, Erster Halbband (1768-1802). Auf Grund des Textes der 1. Auflage von 1870 und den Zusätzen aus dem Nachlass, hrsg. Martin Redeker. Erster Band, Zweiter Halbband (1803-1807). Abhandlungen aus dem Nachlass Wilhelm Diltheys zur Fortsetzung seiner Schleiermacher-Biographie. Kritische Neuausgabe des von Hermann Mulert in der 2. Auflage der Biographie mitgeteilten Nachlasses. Nachdruck der 3. Auflage von 1970. Zwei Bände in einem Band, a cura di Martin Redeker, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottinga 1991. GS XIV = Leben Schleiermachers. Zweiter Band. Schleiermachers System als Philosophie und Theologie. Aus dem Nachlaß von Wilhelm Dilthey, a cura di Martin Redeker, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottinga 1966. Opere di Friedrich Schleiermacher Kritische Gesamtausgabe: KGA I, 1 = Jugendschriften 1787-1796, a cura di Günter Meckenstock, de Gruyter, Berlino-New York 1984. KGA I, 2 = Schriften aus der Berliner Zeit 1796-1799, a cura di Günter Meckenstock, de Gruyter, Berlino-New York 1984. KGA I, 3 = Schriften aus der Berliner Zeit 1800-1802, a cura di Günter Meckenstock, de Gruyter, Berlino-New York 1988. KGA I, 4, Schriften aus der Stolper Zeit (1802-1804), a cura di Eilert Herms, Günter Meckenstock, Michel Pietsch, de Gruyter, Berlino-New York 2002.
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PREMESSA
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KGA I, 13, 1 e 2 = Der Christliche Glaube. 2. Auflage, a cura di Rolf Schäfer, de Gruyter, Berlino-New York 2003. KGA II, 10, 1 e 2 = Vorlesung über die Dialektik, a cura di Andreas Arndt, de Gruyter, Berlino-New York 2002. KGA V, (1-7) = Briefwechsel, a cura di Andreas Arndt e Wolfgang Virmond, de Gruyter, Berlino-New York 1985-2005
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Sämmtliche Werke: SW I, 12 = Die christliche Sitte nach den Grundsätzen der evangelischen Kirche im Zusammenhange dargestellt. Aus Schleiermacher’s handschriftlichem Nachlasse und nachgeschriebenen Vorlesungen, a cura di Ludwig Jonas, Reimer, Berlino 1843. SW II, 1-10 = Predigten, Reimer, Berlino 1834-1856. SW III, 1 = Friedrich Schleiermacher’s philosophische und vermischte Schriften, Reimer, Berlino 1846. SW III, 4.1 = Geschichte der Philosophie. Aus Schleiermachers handschriftlichem Nachlasse, a cura di Heinrich Ritter, Reimer, Berlino 1839. SW III, 4.2 = Dialektik. Aus Schleiermachers handschriftlichem Nachlasse, a cura di Ludwig Jonas, Reimer, Berlino 1839. SW III, 5 = Entwurf eines Systems der Sittenlehre. Aus Schleiermachers handschriftlichem Nachlasse, a cura di Alexander Schweizer, Reimer, Berlino 1835. SW III, 6, = Psychologie. Aus Schleiermachers handschriftlichem Nachlasse und nachgeschriebenen Vorlesungen, a cura di Leopold George, Reimer, Berlino 1862. SW III, 7 = Vorlesungen über die Aesthetik. Aus Schleiermachers handschriftlichem Nachlasse und nachgeschriebenen Heften, a cura di Carl Lommatzsch, Reimer, Berlino 1842.
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PREMESSA
Epistolari: Br. I = Aus Schleiermachers Leben. In Briefen. 1. Bd.: Von Schleiermacher’s Kindheit bis zu seiner Anstellung in Halle (Oktober 1804), Reimer, Berlino 1858.
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Br. II = Aus Schleiermachers Leben. In Briefen. 2. Bd.: Von Schleiermacher’s Anstellung in Halle (Oktober 1804) bis an sein Lebensende, den 12. Februar 1834, Reimer, Berlino 1858. Br. III = Aus Schleiermachers Leben in Briefen. 3. Bd.: Schleiermachers Briefwechsel mit Freunden bis zu seiner Übersiedlung nach Halle, namentliche der mit Friedrich und August Wilhelm Schlegel. Zum Druck vorbereitet von Ludwig Jonas, a cura di Wilhelm Dilthey, Reimer, Berlino 1861. Br. IV = Aus Schleiermachers Leben in Briefen. 4. Briefe an Brinkmann. Briefwechsel mit seinen Freunden vor der Übersiedlung nach Halle bis zum seinen Tode. Denkschriften. Dialog über das Anständige. Recensionen. Vorbereitet von Ludwig Jonas, a cura di Wilhelm Dilthey, Reimer, Berlino 1863. Opere di Friedrich Schlegel KFSA = Kritische Friedrich-Schlegel-Ausgabe, I-XXXV, a cura di Ernst Behler con la collaborazione di Hans Eichner e Jean-Jacques Anstett, Thomas Verlag, Monaco-Paderborn-Vienna 1958. M = Friedrich Schlegel. Seine prosaischen Jugendschriften, a cura di Jacob Minor, I-II, Vienna 1882. FW = Friedrich Schlegels Sämtliche Werke, I-X, Vienna 1822-1825. PV = Friedrich Schlegels philosophische Vorlesungen aus den Jahren 1804-1806, a cura di Karl Joseph Hieronymus Windischmann, I-II, Bonn 1836-1837. Epistolari: Walzel = Briefe Friedrich Schlegels an seinen Bruder August Wilhelm, a cura di Oskar Walzel, Speyer und Peters, Berlino 1890.
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PREMESSA
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Waitz = Caroline. Briefe aus der Frühromantik, a cura di Georg Waitz e Erich Schmidt, Insel Verlag, Lipsia 1913. Opere di Wolfgang Goethe WA = Werke, Weimarer Ausgabe, (Sophienausgabe), Böhlau, Weimar 18871919.
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HA = Hamburger Ausgabe, I-X, a cura di Erich Trunk, Christian Wegner Verlag, Amburgo 1948-1964. Opere di Immanuel Kant AA IV = Kant’s gesammelte Schriften. Akademie Ausgabe. Kritik der reinen Vernunft (1781); Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können; Grundlegung zur Metaphysik der Sitten; Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft, Berlino 1903-1911. AA V = Kritik der praktischen Vernunft; Kritik der Urteilskraft, Berlino 19081913. Riviste Ath = Athenaeum, Berlino 1798-1800, I-IV. Lyceum = Lyceum der schönen Künste, I, a cura di Johann Friedrich Reichardt, Berlino 1797.
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La vita di Schleiermacher
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LIBRO SECONDO PIENEZZA DELLA VITA L’EPOCA DELL’ESPOSIZIONE INTUITIVA DELLA SUA VISIONE DEL MONDO (1796-1802)
La via segreta conduce all’interno Novalis, Polline
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LA LETTERATURA TEDESCA COME FORMAZIONE DI UNA NUOVA VISIONE DEL MONDO
Nel settembre del 1796 Schleiermacher tornò a Berlino, che era ormai diventata la sua patria spirituale. Confinato nella periferia della Germania settentrionale, era stato fino ad allora poco toccato dalla forza della nostra letteratura. Non menziona con particolare interesse, nella sua corrispondenza, alcun fenomeno poetico dell’epoca. Il suo sviluppo interiore appare dominato dall’illuminismo teologico, da Kant, mentre la sua esistenza era soddisfatta dalla prassi semplice e popolare dell’illuminismo cristiano. Precettore, predicatore, umile consigliere dei suoi amici: così Schleiermacher affrontava il mondo, con il tratto marcato di chi non ambisce a ottenere dalle circostanze esterne nulla se non la possibilità di sviluppare armoniosamente la propria vita interiore. Allora si dovette schiudere di fronte a lui un mondo completamente nuovo. Ovunque avesse vissuto, lo avrebbe in ogni caso conquistato la grandezza di ciò che allora accadeva nel mondo spirituale. Tuttavia ci sono significative coincidenze storiche che portano improvvisamente a pieno spiegamento il più interiore impulso di un uomo grazie a un destino esteriore ad esso del tutto corrispondente. Un destino siffatto conduceva ormai il ventottenne a Berlino. Egli si trovò, ad un tratto, faccia a faccia con il grande movimento poetico-scientifico di quest’epoca, i cui tratti fondamentali erano raccolti e concentrati in questa città. Il nostro racconto si trova qui come ad una svolta, alla quale si schiude improvvisamente una prospettiva significativa. Due forze spirituali hanno determinato nella stessa misura la generazione a cui appartiene Schleiermacher, per quanti influssi specifici vi si siano poi aggiunti: la filosofia di Kant e i nostri grandi poeti. Tanto i filosofi quanto i singoli ricercatori furono debitori del fondamento critico della
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
loro visione del mondo (Weltansicht) ai lavori immortali di Kant; il loro ideale di vita (Lebensideal)1, addirittura il contenuto della loro visione del mondo, lo devono invece ai nostri poeti. I filosofi tentarono di tradurre in nessi concettuali ciò che questi grandi e fortunati poeti avevano intuito. Ho illustrato nell’introduzione questa reale connessione della nostra storia intellettuale. Alla luce delle condizioni nelle quali si sviluppò la cultura presso noi tedeschi, si è ricavata, in quella sede, anche la spiegazione di questo fatto singolare, cioè dell’intreccio di poesia e ricerca, in virtù del quale anche i poeti interrompevano la loro attività artistica per dedicarsi a lavori scientifici, tanto che le loro creazioni poetiche erano sostenute da questi lavori e agivano, dal punto di vista dei contenuti, come una specie di filosofia. A loro volta queste creazioni influenzarono la nascita di ricerche scientifiche e di una visione filosofica del mondo. È giunto ormai il momento di comprendere il contenuto di questo sviluppo avvenuto nelle opere poetiche e scientifiche. La prima di queste due grandi forze spirituali che determinarono Schleiermacher e la sua generazione, cioè la filosofia di Kant, aveva dominato le idee e i lavori del teologo in tutto il primo periodo della sua vita: il suo effetto è stato esposto nel primo libro di questo racconto. Ora mi volgo alla seconda di queste forze spirituali, all’ideale di vita e alla visione del mondo dei nostri grandi poeti. Respinto, sotto questo punto di vista, dalla filosofia kantiana, Schleiermacher, come d’altronde anche i suoi più significativi contemporanei, trovò nella visione dei poeti un completamento della filosofia critica [che superava l’illuminismo leibniziano]. Bisogna in primo luogo parlare di Lessing: dal carattere della nostra epoca poetica, che abbiamo esposto, risulta chiaro perché egli deve essere considerato come il vero fondatore della nostra letteratura e perché, tra tante forze significative, la formazione della nostra letteratura riposi sulle sue spalle, come testimoniano anche i suoi più eccellenti contemporanei, primo fra tutti Goethe. Lessing fu il primo sostenitore del grande contenuto morale e intellettuale della nostra poesia e, perciò, è 1 [I termini Weltanschauung e Weltansicht, come Lebensanschaunng e Lebensansicht, compaiono ripetutamente in queste pagine: sono stati resi con “visione” o “concezione del mondo e della vita”. Il lettore tenga presente che si tratta di termini chiave della famosa Weltanschauungslehre, a cui Dilthey, in quest’opera, non fa ancora esplicito riferimento. Con il termine Lebensideal, “ideale di vita”, Dilthey indica il ricco contenuto morale della poesia tedesca della deutsche Bewegung, che proprio Schleiermacher, in quanto genio etico, porta a concreta realizzazione. Con questo termine vengono compendiati l’aspetto contemplativo e astratto, che Dilthey rimprovera all’intellettualità tedesca, e la potenzialità etica che pur in tale concezione si nasconde].
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rimasto il primo nostro vero contemporaneo. Prima di Lessing troviamo solo elementi caotici, dei quali doveva pur necessitare questo sviluppo: formazione della lingua, impostazione della sua ritmica, dispiegarsi delle forze dell’immaginazione, quasi come una facoltà naturale, come un gioco di sensazioni (sinnliche Gefühle). Addirittura, al cospetto di Lessing, nessun’altra creazione è rimasta veramente attuale per noi. Lo stesso Wieland stava semplicemente al livello dell’ideale di vita che si era formato fino ad allora in Inghilterra e in Francia: egli esercitò un influsso incredibile, standosene lì per molti anni, sempre con lo stesso ricco talento poetico, infaticabile, e dispensando a piene mani invenzioni e idee alla letteratura mondiale. Eppure, in tutta questa ricchezza, egli non offre mai una risposta originale alla necessità della sua epoca. Klopstock, d’altra parte, che pur espresse con così geniale energia la spinta emotiva sviluppatasi nelle classi medie, si rassegnò tuttavia alla ristrettezza opprimente della sensibilità religiosa che vi incontrò. Proprio come Wieland, ma in forma differente, rimase eternamente giovane ed entusiasta: privo di naturale eloquenza e di lucidità scientifica, egli invecchiò nel ristretto circolo dei suoi ammiratori e la sua forma matura fu solo un’arbitraria deformazione degli ideali della giovinezza. Venne Lessing e, nella sua grande anima virile, ciò che si muoveva tutt’intorno, in inesauribili tentativi individuali, divenne carattere, cosciente ideale di vita, libera visione del mondo. Un temperamento nel quale, a partire dalle prime espressioni, domina una chiara e precisa volontà, che comprende in modo lucido e positivo i movimenti del mondo, e sente uno stimolo irresistibile a immischiarsi nella sua vivace attività; un temperamento che, sviluppandosi, trasforma tutto in azione, lotta, movimento energico e che si esprime, di conseguenza, in uno stile capace di rappresentare una combattiva e vivida volontà di conoscenza in ciascun momento della sua azione e che si sente affine alla consequenzialità tipica della scena teatrale, come lo specchio ideale della vita più inquieta: Lessing, l’unico genio poetico della Germania del Nord fino a Kleist, lasciò questo temperamento, come sua fortunata, addirittura ineguagliabile dote, alla nostra letteratura. Le condizioni di vita che Lessing incontrò, lo portarono a sviluppare un carattere di scontrosa indipendenza. Se il tratto caratteristico dello scrittore, che lo distingue dal ricercatore scientifico, sta nel fatto che egli non ha a che fare esclusivamente con il progresso delle scienze, bensì con l’influsso sulla nazione, allora Lessing fu scrittore e drammaturgo nato. Egli osò ciò che tentarono anche i più della
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sua generazione, come Weisse2, Engel3, Moritz, Dusch4, che si salvarono però quasi tutti, poi, in saldi impieghi a vita: egli tentò cioè di fondare la propria esistenza sul mestiere di scrittore. Dai luoghi tradizionali della formazione (Bildung) tedesca, le università e le corti, che rappresentavano il vecchio spirito, egli si rivolse, con la sua pubblicistica, all’emergente spirito pubblico di Berlino, al sorgente teatro tedesco, a ciò che stava allora nascendo e che si dimostrò troppo debole per sostenere il suo futuro. La totale immaturità degli elementi sociali sui quali, in Germania, uno scrittore, a quel tempo, poteva appoggiarsi, nella pubblicistica, nel teatro, ovunque volesse cimentarsi, spiega l’inquietudine e la toccante infelicità di questa grande esistenza. Essa chiarisce anche, però, come qui, nel mezzo di occupazioni letterarie, a tavolino, poteva svilupparsi un nobile carattere, paragonato al quale, a quell’epoca, solo quello di Federico il Grande sembra dello stesso rango. Sulla base di questo carattere si formava il suo ideale di vita. Anche la poesia, come la scienza, esprime un elemento universale, ma non attraverso un’astrazione che comprende in sé molti casi, bensì mediante la rappresentazione di un caso unico. In essa è concesso all’uomo di rappresentare le sue convinzioni relativamente alla propria natura, alla propria destinazione e alle più sublimi idee morali, in modo intuitivo e, di conseguenza, con un’incredibile potenza sugli animi. La poesia esprime l’ideale di vita di un’epoca. Costituiscono la sua grandezza morale sia la veridicità sia l’energia conciliante e chiarificatrice con cui essa porta a realizzazione questo suo supremo compito. Tale aspetto della poesia non è mai apparso più grande che presso di noi: si trattava, infatti, non di riassumere un ideale di vita a partire da una realtà già matura, bensì di formularlo con spirito 2 [Christian Felix Weisse (1726-1804), studiò teologia, filosofia e diritto, fu in stretta amicizia con Lessing. Fu redattore della Bibliothek der schönen Wissenschaften und der freyen Künste dal 1759-1788. La sua produzione comprende le forme letterarie più varie, dalle liriche alle tragedie alle commedie. Non solo Weisse approfondì lo studio psicologico dei caratteri, come era in linea con le tendenze di allora, ma accennò anche a problematiche sociologiche, descrivendo le condizioni della vita nobiliare e di quella contadina]. 3 [Johann Jakob Engel (1741-1802): tra i vari tentativi da parte di Engel di partecipare alla vita letteraria dell’epoca, affidati tanto a composizioni poetiche quanto a traduzioni e saggi filosofici, si ricorda qui la sua raccolta di saggi Philosoph für die Welt, i cui primi due volumi uscirono negli anni 1775-1777, il terzo nel 1800. Fu tale raccolta ad attirare le critiche e l’ironia di Schleiermacher, come si vedrà più avanti. Cfr. infra, pp. 130-131. Grande successo ebbero le Ideen zu einer Mimik, uscite nel 1785, in seguito alle quali, nel 1787, Engel divenne direttore del teatro nazionale di Berlino.] 4 [Johann Jakob Dusch (1725-1787), studioso di letteratura inglese e di estetica, si dedicò soprattutto alla poesia. Visse dapprima facendo l’istruttore privato ad Altona, per poi entrare nel Ginnasio locale chiamato dal reggente danese. Fu inoltre collaboratore di molte riviste letterarie, traduttore e romanziere].
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etico creativo. Perciò Schiller, in mezzo a questo sviluppo, cercava la facoltà creativa del poeta nella ragion pratica, nella facoltà morale (sittliches Vermögen). In questa facoltà morale, cioè nel grande carattere di Lessing, troviamo fondato anche l’armonioso ideale di vita che egli creò. Già la sua attività critica aveva questo sfondo. Dal suo temperamento e dal suo carattere si innalzarono le idee riformatrici dell’essenza della poesia, che egli contrappose, come espressione della sua grande anima, alla poesia pittorica, musicale o persino filosofica, a un freddo ideale drammatico composto dalle virtù del decoro, a una morale teologica, miseramente timorosa, che degradava la vita emotiva alla mediocrità, come era quella che pesava su tutti i poeti di allora. A differenza dell’arte figurativa, l’essenza della poesia è azione e questa azione rappresenta la perfezione interiore. Tale perfezione interiore, però, o il carattere veramente poetico, in quanto del tutto umano e genuino, appare nel libero movimento delle grandi passioni; essa viene appresa, perciò, quando condividiamo, nel dolore, nella gioia, nel timore, i forti e naturali movimenti delle passioni. Di conseguenza, di fronte alla sua anima così possente stava anche una concezione dell’efficacia della poesia molto più potente di quella di qualsiasi altro poeta o critico contemporaneo. Fu quindi Lessing il riformatore della nostra poesia. Ma questa potente concezione nascose ciò che egli stesso era in grado di produrre. E solo per questo motivo, perché nessuna delle sue opere eguagliò la concezione che egli portava dentro di sé, Lessing negava di essere un genio poetico. Tuttavia chi vide la Minna di Barnhelm doveva sentire con il più intenso piacere il soffio di una nuova epoca. Dove avevano i loro pari questi caratteri che si basavano orgogliosamente su se stessi, attivi e scossi con naturalezza da simpatia e antipatia, capaci di esprimere le loro sensazioni in poche parole? Si percepiva tutto ciò, ma non si riusciva ad esprimerlo. Lessing stesso dovette percorrere una lunga strada di battaglie scientifiche e di introspezione, prima di poter esprimere questo ideale di vita nella forma più perfetta. Nacque Nathan. Chi lo lesse non solo sentì intorno a sé, invisibile, il soffio della nuova epoca: imparava anche a comprenderla e a esserne suo concittadino. In quest’uomo il pensiero dell’illuminismo è trasfigurato fino a perfetta bellezza. Intorno a Nathan è costruito un mondo poetico nel quale gli elementi che Lessing vedeva combattere in un’amara e irragionevole battaglia si conciliavano, comprendendosi reciprocamente in modo profondo, sulla base di nobili idee morali, in serena fratellanza. Questo mondo è come l’utopia personificata dell’illuminismo, che scendeva consolante sul generoso combattente che, già allora, cominciava a disperarsi e ad andare in rovina. Certo, nessun serio ricercatore della natura umana può leggere quest’opera,
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nella quale l’ideale di vita di Lessing emerge in modo semplice e compiuto, senza la più profonda commozione (come accade anche leggendo Ifigenia): così concreta, così vera appare in queste opere una pura grandezza d’animo, che ci insegna a giudicare la natura umana, al di là di tutte le nostre esperienze, in modo magnanimo. Se l’ideale di vita riceve dalla visione intuitiva del poeta la forza più penetrante, solo attraverso la riflessione morale, però, ottiene la piena chiarezza su se stesso, e solo attraverso l’elaborazione di una concezione del mondo ginge alla comprensione dei suoi presupposti e delle sue conseguenze. Con ciò si chiarisce l’atteggiamento assunto dal fondatore del nuovo spirito della nazione tedesca nei confronti della scienza. La nostra poesia emerse in un’epoca in cui concezioni teoriche della vita, sistemi morali, manuali teologici, illuminismo filosofico erano già penetrati in ogni poro della nazione. Di fronte ai fondamenti scientifici delle visioni del mondo fino ad allora dominanti, il poeta era costretto a portare a coscienza il contenuto e i presupposti del proprio ideale di vita, se non voleva lasciarlo svanire in una soffocante angustia, come era accaduto all’ideale di Klopstock. Lessing osò fare questo. Era un rischio: solo al poeta è concesso esprimere in ogni epoca, con affascinante chiarezza, ciò che, esplicitato in concetti, consegna i pensatori all’odio, se non alla persecuzione. È stato mostrato nel primo libro che la nostra formazione nazionale, di fronte alla quale si trovò Lessing e che era forte ancora all’epoca della giovinezza di Schleiermacher, stava completamente sotto gli influssi della teologia. Per riformare in modo radicale le convinzioni della borghesia e i concetti degli intellettuali, e fondare così durevolmente, su un’altra base, questa formazione nazionale, Lessing doveva confrontarsi con la teologia. Egli non si tirò indietro di fronte all’ampiezza di questo studio e al rischio implicito in un tale confronto. Ben illustra il limite storico di Lessing il fatto che la prospettiva del confronto con la teologia lo dominò anche quando ormai progettava di esporre concettualmente, in una visione positiva, il suo ideale di vita e la visione del mondo ad esso corrispondente. Era posto comunque in questi elementi il fondamento del futuro. L’analisi lessinghiana dei concetti morali ci sembra oggi assai imperfetta. Solo così si spiega anche il fatto che l’ideale di vita di Kant, che era certamente assai meno radicato in una piena e matura natura umana e perciò molto più unilaterale, agì in modo incomparabilmente più forte. Kant padroneggiava l’analisi concettuale. La riflessione morale di Lessing, invece, sembra, per così dire, balbettare quando tenta di analizzare l’uomo adulto e completo che le sta di fronte. L’essenza dell’uomo è azione, volontà; la sua motivazione determina il valore dell’azione; la motivazione dell’azione
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perfetta o della volontà perfetta è il bene per il bene, a prescindere da ogni conseguenza, da ogni premio o punizione ad essa collegati. «Verrà il tempo, verrà sicuramente il tempo della perfezione, quando l’uomo, quanto più il suo intelletto si sentirà convinto di un futuro sempre migliore, non avrà necessità di prendere a prestito da questo futuro le motivazioni delle sue azioni: poiché egli allora farà il bene perché è bene, non perché ricompense arbitrarie siano basate su ciò»5; verrà certamente «il tempo del nuovo vangelo eterno»6. Ne deriva che il vero motivo dell’aspirazione alla verità non è questo scopo smisurato, bensì la costituzione di un’anima umana rivolta apertamente, energicamente, liberamente alla verità. Questi pensieri, per la prima volta, ruppero completamente con l’illuminismo teologico: diviene visibile il nucleo del nuovo sentimento della vita (Lebensgefühl), che emerse in Germania con Lessing. Appàgati del valore autonomo di ogni giorno, che non si ripeterà mai uguale, del valore assoluto di ogni atto volontario veramente buono, indipendentemente dal suo successo, contro uno stato d’animo che consuma la vita come una materia senza valore, giorno per giorno, in piani ed attese, che desidera fare di ogni attimo presente un mezzo per un momento futuro, e che trascina infine il nostro sentimento in un incerto avvenire. «Perché non si può attendere la vita futura come si attende l’indomani?»7. Lessing si incontra qui con i suoi due più illustri contemporanei, Federico il Grande e Kant. In solitudine regale procedono questi tre, tutti originari della Germania del Nord, o meglio della Prussia, l’uno accanto all’altro, senza in realtà conoscersi: il fondatore della monarchia prussiana, il fondatore della filosofia moderna, il fondatore della nostra letteratura. E così, indipendentemente l’uno dall’altro, si incontrano in questa grandiosa idea della disposizione d’animo (Gesinnung) conforme al dovere, indipendente da tutte le conseguenze, come vera interpretazione della coscienza (Gewissen). «Noi», dice Federico, «che rinunciamo ad ogni ricompensa e non crediamo neppure ai tormenti eterni, non siamo corrotti dal nostro particolare interesse. Il bene del genere umano, la virtù solo ci animano: il sentimento del dovere (Pflichtgefühl)»8. Si dovrebbe morire – dice in un’immagine regale – lasciando le buone conseguenze delle proprie azioni allo stesso modo in cui il sole al tramonto lascia i suoi ultimi raggi. Sulla base di questa grande 5
Lessing, Erziehung des Menschengeschlechts, par. 85. Ivi, par. 86. 7 Lessing, Werke, I-XXV, a cura di Julius Petersen e Waldemar von Olshausen, Lipsia-Berlino 1925 ss., qui XXI, p. 256. 8 Federico II, Epître XVIII au Marechal Keith. Œuvres de Frédéric Grand, X, pp. 236-237, Berlino 1849. 6
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disposizione d’animo (Gesinnung) Lessing soltanto, tra questi tre, fu capace di formare un ideale di vita pienamente armonioso. Allo spirito amaro di Federico l’uomo appare, nell’ordine determinato misteriosamente da un essere supremo, come collocato su una postazione di guardia, nella quale il suo severo sentimento del dovere gli ordina di resistere, in una specie di subordinazione a questo essere stesso. Per il pensiero astratto di Kant l’uomo è determinato dal rispetto della formula della legge morale (Sittengesetz), a prescindere dalle conseguenze delle sue stesse azioni9. Lessing, al contrario, era colmo del pensiero del bene per se stesso, del valore autonomo di ogni giorno, e percepiva perciò in modo del tutto diverso il contenuto, incondizionatamente pieno di valore, della nostra esistenza. Il suo sentimento della vita risuona nelle belle parole di Filote: «sono un uomo e piango e rido volentieri»10. Ulteriori espressioni affini sul vero eroismo testimoniano la sua forte tendenza alla volontà del bene, sostenuta dalla pienezza delle forze dell’animo (Gemütskräfte) e purificata dalla progressiva comprensione del nostro compito: a questo punto, però, ci troviamo abbandonati dalla sua analisi. Solo nella connessione della visione del mondo, che spiega e fonda l’ideale di vita, si appaga l’impulso attivo in quest’epoca poetica. Lessing era cresciuto nella visione del mondo di Leibniz e condivide questo punto di partenza con Kant. Dal momento che, per Kant, il corso del tempo era concepito come forma soggettiva del nostro intuire, anche la grande idea dello sviluppo infinito degli individui psichici (Seelenindividuen), che egli riprende da Leibniz e accoglie nel proprio sistema, doveva divenire misteriosa11. Inoltre con l’inserimento, da parte di Kant, della libertà nel corso dei pensieri del Regno della natura e della grazia di Leibniz, l’ordine leibniziano del mondo doveva ottenere una differente fisionomia12. Lessing, al contrario, procedeva nel dare forma alle idee più tipiche di Leibniz attraverso un libero e geniale studio della natura umana e del mondo morale. Pensatore e poeta si incontravano in lui e, proprio da questo incontro, nascevano i problemi. Lo occupava la questione della profonda differenziazione dell’umanità dovuta alla sua determinatezza storica, che tuttavia non è la sua essenza: una questione che, in quest’epoca priva di senso storico, non sembrava ancora risolvibile; poi si interrogava sul fatto che, senza colpa, la maggioranza degli uomini rimane ferma al livello di imperfezione (e a questa domanda il suo 9
Immanuel Kant, AA IV, p. 402. Lessing, Philotas, scena 7. 11 Kant, AA, IV, 118 ss. 12 Ivi, pp. 229 ss.
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determinismo, cioè la sua convinzione che vi sia, anche nel mondo morale, una severa connessione causale di tutti i fatti, diede un grande significato); lo incalzava, inoltre, il problema di una religione rivelata, moralmente e intellettualmente imperfetta, cioè l’antica religione mosaica, nonché l’atteggiamento dell’umanità, della religione naturale di fronte alle religioni rivelate in generale: tutte domande che solo allora avevano ottenuto il loro peso. Per risolverle egli sviluppò i pensieri fondamentali di Leibniz. Si innalzava così, davanti alla sua anima, l’immagine grandiosa di una coscienza divina che tutto comprende (comparabile a un genio creatore): tale coscienza divina è il fondamento che abbraccia ogni cosa; i fenomeni dell’universo sono sue necessarie conseguenze; essa è l’intelletto che tutto comprende, e il suo progetto si sviluppa in tutti questi fenomeni. Al suo interno, attraverso una precisa combinazione di sensi, sono costituiti tipi e gradi di esseri ricettivi nei confronti del mondo esterno. Tutto è costante e progressivo sviluppo: la nostra vita singola, che appare delimitata da nascita e morte, è solo un punto su una traiettoria infinita dell’individuo psichico, che si è mostrato in questa vita, ma che, in condizioni nuove e più ampie, offerte dalla materia alla sua capacità rappresentativa, si espliciterà in forme vitali sempre migliori. Di conseguenza la terribile dissonanza di una profonda infelicità, il cui fondamento starebbe in Dio, è dissolta nel pensiero che qui è presente solo un gradino necessario di un costante sviluppo interiore intellettuale e morale. Tutti gli enigmi, che i fatti della storia religiosa sembrano offrirci, sono dissolti nel pensiero che la medesima continuità vale anche per lo sviluppo morale e intellettuale della totalità storica, e nella convinzione che, all’interno di questo sviluppo, nella società, nello Stato, nella religione, nella storia, tutto serva al grande compito degli individui. A partire dai principi di Leibniz si ottenne in Germania la prima ampia e filosofica comprensione della storia, il cui nucleo era costituito da uno sviluppo intellettuale e morale costante, che procede attraverso una serie ascendente di epoche regolari. Questa comprensione della storia fu il risultato dell’intera connessione di pensieri avviata da Lessing. Tuttavia questa connessione doveva essere trasformata su basi molto più complete. Una nuova ondata fece emergere uomini che erano destinati a completare questa trasformazione, in modo indipendente dalle ricerche di Kant: Herder e Goethe. Si nota, tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, un forte cambiamento del sentimento della vita (Lebensgefühl). La riforma delle scienze storiche, realizzata in Inghilterra e in Francia, gli importanti lavori degli inglesi su Omero, sulla poesia ebraica, sulla canzone popolare, su Shakespeare, la ricerca naturale in Francia, in particolare l’ampio sguardo di Buffon su
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un’unità della natura che comprende in sé i fenomeni fisici e psichici, infine il nuovo ideale di vita di Rousseau: vediamo interagire tutti questi fattori insieme con ciò che era accaduto in Germania. Alcuni elementi di questo memorabile sviluppo, in particolare la storia della formazione (Bildungsgeschichte) di Hamann, rimangono ancor oggi inesplicati. Ne derivò un passo decisivo nella concezione del fine, delle condizioni interiori e del vero corso dello sviluppo umano. Lessing, in linea con lo spirito del suo tempo, aveva visto nel chiarimento delle nostre rappresentazioni la condizione suprema del nostro sviluppo generale. Ora, invece, si ritornò dalla formazione dei concetti alle più elementari operazioni dell’anima umana. L’uomo che osserva, padrone del suo corpo e delle sue energie sensibili, che si muove liberamente nelle sue sensazioni, apparve come la vera materia per la formazione di un più alto ideale di vita. La riforma dell’educazione, in questo senso, apparve come un fatto comune a tutta la nazione. La fisiognomica di Lavater, genuino figlio di questa epoca, tentò di guardare, attraverso il fenomeno, nella struttura formativa dell’anima (gestaltende Struktur der Seele). Ovunque si imparava a considerare popoli e individui in connessione con le condizioni naturali e ad apprezzare la molteplicità autonoma dei fenomeni storici: emerse la forma storica di ogni ideale umano. Il vero fondamento delle più nobili imprese spirituali viene così cercato nella forma e nella forza delle operazioni più elementari, senza riguardo alla capacità di formare concetti o di determinare la volontà attraverso essi. Questo fondamento è indicato come “genio”. L’essenza del genio è – secondo la descrizione di Lavater-Goethe – un preciso modo di sentire e intuire, “qualcosa di simile all’ispirazione” (Inspirationsmäßige), “apparizione” (Apparition), “esistenza” (Gegebenheit). Questo genio viene dunque prima di ogni formazione concettuale astratta: anzi, esso è compreso nel modo più profondo nei fenomeni della poesia popolare, non influenzata dalla cultura intellettuale, nella canzone popolare, in Ossian, in Shakespeare, come sue manifestazioni originarie. Anche quando appare oggi tra di noi, il genio ottiene il suo puro sviluppo solo dove si mantiene completamente libero da regole estetiche di natura intellettuale e da leggi morali astratte: queste ultime sono addirittura solo generalizzazioni derivate dalla sua forza originaria e dalle sue manifestazioni. Qui nasce un problema decisivo: quello della relazione del genio morale ai concetti morali astratti, che ha impegnato soprattutto Friedrich Heinrich Jacobi nella prima parte della sua vita, nell’Allwill e in Woldemar. Questa nuova generazione vede nell’ideale del genio, da essa elaborato, non il particolare fondamento interiore della forza poetica (così Kant aveva
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determinato i limiti del genio), bensì il fondamento generale di ogni facoltà creativa. Anche nelle scienze quella facoltà geniale di sentire e di intuire deve dimostrarsi mediante le sue manifestazioni. Tutte le forze dell’animo (Gemüt) devono agire insieme, per riprodurre (nachbilden) l’essenza dell’oggetto; in questo modo tutto ciò che è umano deve rinascere, dal momento che esso viene compreso nelle sue profondità, che sono raggiungibili solo dalla fantasia e dalla vivente compartecipazione (Mitempfindung); la natura stessa deve rivelare il suo segreto all’animo capace di compartecipazione (mitempfindendes Gemüt). Qui è fondata l’attività infinitamente fruttuosa di Herder come quella di Winckelmann. Grazie a una mirabile impresa di questa intuizione geniale (geniale Anschauung)13 in ambito scientifico si fece strada Winckelmann, che ne determinò anche saldamente il metodo. Non è necessario parlarne diffusamente, poiché Justi, nella sua importante biografia di Winckelmann14, sulla base dei suoi diari scientifici, ha dato prova di come egli abbia studiato per lungo tempo il nuovo metodo storico di francesi e inglesi, di Montesquieu soprattutto, con l’intenzione di scrivere una grande opera di storia politica, e di come abbia poi trasferito nella storia dell’arte i punti centrali di questo metodo, cioè la dottrina della connessione del clima con i fenomeni spirituali e la teoria delle cause costanti, che chiariscono nascita, fioritura e decadenza dei fenomeni storici, etc. Si spiega così lo strano fenomeno di un uomo che, tardi e senza alcuna preparazione scolastica, mise mano a un terreno difficile, andando incontro subito, con passi molto sicuri, alla soluzione di un grande compito. Alla grande opera di Winckelmann si aggiunsero più tardi le Idee per una filosofia della storia di Herder, ulteriore notevole risultato dell’intuizione geniale nel campo delle scienze storiche, di cui si dovrà parlare più avanti. Da queste due opere, in un’epoca successiva, si tende un filo verso i risultati scientifici del romanticismo, basati anch’essi sul metodo dell’intuizione geniale. A questo metodo siamo debitori di lavori epocali nel terreno delle scienze dello spirito (Geisteswissenschaften) e di eccellenti lavori in quello delle scienze naturali descrittive (beschreibende Naturwissenschaften): al contrario, dove esso si è avvicinato ad altri settori delle scienze della natura, della dottrina generale della scienza o della metafisica, dalla teoria dei colori di Goethe attraverso la filosofia della natura, è stato ovunque causa di errori. I risultati ottenuti in Germania in quest’epoca nell’ambito della chimica, della fisica, della fisiologia sono dovuti, forse solo con l’eccezione dei lavori di Ritter sull’elettricità, agli oppositori di questa 13
[Geniale Anschauung, “intuizione geniale”, indica, nelle pagine che seguono, lo specifico metodo conoscitivo teorizzato alla fine del Settecento]. 14 Carl Justi, Winckelmann und seine Zeitgenosse, I-III, Vogel, Lipsia 1886-1872.
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grande tendenza da noi dominante. Le siamo debitori invece del fatto che, ancora oggi, occupiamo il primo posto in Europa nell’ambito delle scienze dello spirito (Geisteswissenschaften). In questo contesto si trasformò anche l’intuizione poetica dell’uomo. Emersero Werther, Götz, i Masnadieri, Faust, le poesie dello Sturm und Drang. Ritengo molto incerti i risultati che si ricavano volendo astrarre dalle poesie verità generali, una loro essenza, intesa come visione del mondo del poeta. Il creare poetico è affine, in massimo grado, alla formazione del nesso percettivo a partire dalle nostre sensazioni come alla genesi della nostra conoscenza dell’uomo. Si tratta di formare un’immagine di qualcosa che si dà solo una volta. I processi spirituali qui attivi mostrano un duplice tratto caratteristico (e, se esaminato più profondamente, cogente): cioè essi procedono per lo più, nelle deduzioni, da particolare a particolare, e corrono nella profondità incosciente della nostra interiorità. L’elemento universale, dal quale appaiono come saturati avvenimenti e caratteri della vera poesia, non necessita di esistere nella forma di una visione che procede in modo conforme all’intelletto. Quindi, ciò che il lettore astrae dalla connessione di caratteri e destini è una sua idea, formulata soggettivamente, nata in lui nel godimento dell’opera poetica e non già un’idea che inabitava l’opera stessa. Da tale legame si chiarisce quell’inesauribilità dell’opera poetica, in conformità alla quale il suo contenuto può essere espresso attraverso interpretazioni concettuali del tutto diverse, ma non può essere esaurito da nessuna di esse. Stiamo di fronte alle creazioni del poeta come di fronte al mondo stesso, che deride allo stesso modo ogni presunta interpretazione definitiva mediante concetti. Considerato ciò, può essere accordata all’interpretazione concettuale di una poesia una rigorosa verità solo nella misura in cui il poeta, attraverso spiegazioni razionali, all’interno della sua opera o in discussioni scientifiche, si fa egli stesso interprete della propria opera. In tal modo i lavori scientifici di Lessing ci hanno spiegato l’ideale di vita e la visione del mondo del suo Nathan, andando a ritroso fino ai primi drammi. È impresso in essi il pensiero consapevole della intransigente autonomia morale; questi eroi non sono mossi, come quelli shakespeariani, da potenti passioni né, come quelli di Schiller, da idee storiche; il loro punto centrale è il più eccitabile orgoglio morale (Selbstgefühl), una volontà raccolta che obbedisce a principi, uno spiccato senso di giustizia, una capacità di abnegazione senza limiti. Addirittura il carattere più patologico di Lessing, Orsina, trabocca di eccitazione morale e disgusto etico piuttosto che di violento e naturale bisogno di vendetta. Il mondo poetico di Lessing non è interpretabile tout court mediante il concetto e la finalità della tragedia. Si riconosce agevolmente, nelle opere giovanili di Goethe, Schiller, Lenz, Klinger, Jacobi,
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quanto radicalmente sia mutata in questi ambienti la visione della vita e quanto questo cambiamento sia connesso con il nuovo movimento scientifico precedentemente descritto. Il genio, in queste opere giovanili, appare in lotta ora con la scienza esistente, ora con le leggi sociali e le pretese morali dominanti. Orizzonti ancora più vasti si aprono alla consultazione di lettere e annotazioni, come quel curioso Giornale di un mio viaggio del 1769 di Herder15, che rivela tutto ciò che si agitava in una delle menti più eccitate di quell’epoca. La composizione delle singole tendenze, che viene presentata nelle nostre storie della letteratura, dà l’immagine più chiara di tutti questi fenomeni. Tuttavia è impossibile esprimere queste nuove concezioni della vita, allora in fermento, in forma concettuale, per mezzo di un’astrazione che parta dalle poesie di questi anni. Solo da quando Schiller e Goethe iniziarono a chiarire tali concezioni scientificamente, Schiller mediante lo studio della storia e della morale, Goethe attraverso quello della natura, è diventato possibile rinvenire, anche nelle loro poesie, concezioni generali traducibili in concetti. Al contrario, il nuovo contenuto di Götz, Werther, Faust, dei Masnadieri appare inesprimibile come somma di pensieri generali: oggi come allora, esso deve piuttosto essere risentito (nachempfunden), e i racconti risalenti a quei giorni mostrano come l’emozione più violenta che si prova oggi nel leggerli sia solo una spenta eco degli sconvolgimenti che queste poesie suscitarono allora. A partire dagli anni Ottanta, Goethe e Schiller cominciarono a fornire spiegazioni scientifiche sull’impulso che stimolava le migliori menti del loro tempo. Il grandioso spirito di Schiller accolse nella cerchia del suo interesse i due avvenimenti più decisivi: i contrasti e le lotte prodotte dalla riforma religiosa e la riforma filosofica di Kant. Da questi materiali costruì l’orizzonte intuitivo e concettuale della sua vita. Questa nobile semplicità, l’espressione di una natura potente, che procedeva senza indugio, doveva incontrarsi con il bisogno generale della nazione. Solo i suoi lavori filosofici influenzarono le cerchie della più giovane generazione, che stiamo descrivendo. Questa generazione fu invece completamente avvinta dalla totalità unitaria formata dalla vita, dalla poesia e dalle ricerche di Goethe: poiché questo insieme sembrava indicare una nuova via all’esistenza ed esprimere un inedito ideale di vita. Così si guardava a Goethe come alla quintessenza di ciò che la vita può concedere all’uomo. Sono disponibili innumerevoli testimonianze, assolutamente veritiere, di come la sua persona soddisfacesse senza riserve, per un’intera epoca, l’ideale di vita della sua generazione. Goethe è tutt’uno con la vita stessa, diceva Rachel. Le 15
[Herder, Journal meiner Reise im Jahre 1769].
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
rappresentazioni intuitive del contenuto vitale in quest’epoca d’oro sono Ifigenia, Tasso, Wilhelm Meister16. Devono essere messe in risalto alcune delle sue grandi idee sulla collocazione e sulla destinazione dell’uomo nell’universo, che, a tratti, uscivano prorompenti già nelle opere poetiche degli anni Novanta. L’uomo è l’ultimo gradino della natura, cosicché la sua destinazione (Bestimmung) consiste nel comprendere e nel realizzare gli scopi della natura stessa. L’esistenza virile ed attiva di Goethe in questi anni si riflette sobriamente in Lotario e nello zio. «L’uomo è nato per una situazione limitata; egli può scorgere fini semplici, immediati, determinati e si abitua a utilizzare i mezzi che stanno immediatamente a sua disposizione». «Secondo me fermezza e coerenza sono le cose più stimabili nell’uomo». «L’intero mondo sta di fronte a noi come una grande cava di pietra di fronte al capomastro, che merita tal nome se, da queste masse naturali casuali, compone, con la più grande economia, finalità e saldezza, l’immagine originaria (Urbild) che nasce nel suo spirito. Tutto, al di fuori di noi e persino, direi, tutto ciò che è in noi stessi, è solo elemento; ma radicata in noi è questa forza creatrice, che può realizzare ciò che deve essere realizzato, e che non ci lascia in pace né inattivi, finché non lo abbiamo rappresentato fuori di noi o in noi, in un modo o nell’altro»17. Quest’uomo, attivo nel senso richiesto dalla natura, si trova ora di fronte all’umanità e al destino. Nei confronti dell’umanità Goethe insegna quella sublime tolleranza che nobilita ogni individuo, nel quale si rappresentano valore e unità della natura umana. Nei confronti del destino insegna la rassegnazione. «Tutto ci grida che dobbiamo rinunciare». «Noi sostituiamo una passione con un’altra». «Ci sono solo pochi uomini che presentono tali insopportabili sentimenti e che, per evitare ogni parziale rassegnazione, si rassegnano completamente, una volta per tutte. Questi si convincono di ciò che è eterno, necessario, conforme a legge e cercano di formare concetti che siano indistruttibili e che non vengano eliminati dalla considerazione del passato, ma anzi che ne vengano confermati»18. In questa rassegnazione si compie la purificazione dell’animo umano dalle passioni egoistiche, in vista di quella grandezza intellettuale, nella quale intuizione (Anschauung) e conoscenza del mondo lo soddisfano, senza che esso tenda le mani avide verso una sua parte. Non si può pensarla senza avere l’Ifigenia davanti agli 16
Anche Schiller, Über naive und sentimentale Dichtung, p. 279, trova rappresentato nel Werther, nel Faust, nel Tasso e in Wilhelm Meister l’ideale soggettivo in quattro diverse forme di opposizione alla realtà. 17 Goethe, HA, VII, pp. 405-406. 18 Goethe, HA, X, pp. 77-78.
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occhi, senza udire le grandi affermazioni dell’ultimo libro di Spinoza, senza sentir risuonare le meravigliose parole di Goethe, risalenti a questa sua purissima epoca poetica, nelle quali egli, solitario, senza gli egoistici desideri degli anni maturi, accoglie nell’anima, nello splendore mite di una intuizione affine, l’intera natura. Anche le poesie di Goethe, in quest’epoca di riflessione scientifica, diventano comprensibili solo se ci volgiamo ai lavori nei quali egli ha lottato per raggiungere la chiarezza concettuale sulle sue nuove concezioni del mondo, dell’uomo e del corso del mondo stesso. Inizio con la più valida testimonianza di questa importante tendenza presente nei suoi lavori. Schiller era la mente di gran lunga più rilevante alla quale fu possibile osservare Goethe: e quest’ultimo si concesse a lui, nella totalità della sua natura, come a nessun altro. Dopo una convivenza di alcune settimane Schiller riassunse la sua visione dello spirito di Goethe come segue (lettera del 23 agosto 1794): «Lei cerca l’elemento necessario nella natura, ma lo cerca sulla strada più difficile. Lei considera la natura nella sua totalità per ricevere illuminazione dal singolo elemento; nella totalità dei suoi modi di manifestarsi Lei cerca il fondamento esplicativo dell’individuo. Dall’organizzazione semplice, passo dopo passo, Lei sale verso quella più complicata, per costruire, infine, geneticamente, a partire dai materiali dell’intero edificio naturale, la più complicata di tutte, l’uomo. Per il fatto che Lei lo ricrea, per così dire, imitando la natura, cerca di penetrare nella sua tecnica nascosta. Un’idea grande e genuinamente eroica»19. Nella natura, dunque, sta l’inizio delle ricerche di Goethe. Egli doveva risolvere l’enigma nascosto nella confusa nostalgia (Sehnsucht) della sua generazione per la natura. Il suo orizzonte è completamente diverso da quello di Lessing, proprio per il fatto che Goethe fu conquistato dalla ricerca naturalistica. Lo differenzia radicalmente anche dall’orizzonte dell’illuminismo tedesco il fatto che nella formazione della propria visione del mondo era guidato dagli studi naturalistici. I primi tempi di Weimar sono pervasi da un impulso, pieno di ingenua forza, a vivere con l’ordine eterno della natura, con il sole e con la luna, con le piante e le acque, come con potenze amiche, un impulso a contemplare e a sentire costantemente il volgere del tempo sopra di sé e il firmamento sopra la testa. La profonda espressione di questo rapporto con la natura ritorna in sempre nuove forme: a Goethe 19 Schillers Briefe, Kritische Ausgabe, I-VII, a cura di Fritz Jonas, Deutsche Verlag, Stoccarda, 1892-1896, qui III, 1894, p. 472. Con questo sguardo sulla strada, già mezza percorsa da Goethe, si confronti ciò che Goethe stesso scrive a Lavater, nel sentimento di questo “eroismo” nel progetto della sua vita (Schriften der Goethe-Gesellschaft, XVI, p. 65).
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
era concesso guardare nella natura come nel cuore di un amico. Questa tendenza fu agevolata, durante il suo incarico a Weimar, da condizioni molto favorevoli; dalla sensibilità naturale che sta nella pienezza e nello splendore dei fenomeni era spinto ovunque al serio studio naturalistico, dove trovò il fondamento di un’attività adatta all’economia della regione. E il suo spirito scupoloso, costantemente in progresso, era pronto anche a iniziare da capo20. Egli intraprese allora i suoi studi mineralogici, andando su e giù per le valli dell’Ilm e del Saal, per i monti e nelle miniere dei dintorni, collegandosi con l’attività dell’industria mineraria di Ilm. I compendi geologici di Buffon avevano catturato vivacemente l’interesse del pubblico europeo a partire dalla metà del secolo. Un foglio sul granito21, risalente a questo primo periodo di Weimar, mostra come, già allora, si risvegliasse in lui la grandiosa connessione della totalità naturale di Schiller, esposta sopra, della quale l’uomo è una parte. «Non temo il rimprovero che uno spirito di contraddizione mi ha condotto dalla considerazione del cuore umano, la parte più interna, composita, agitata, mutevole e inquieta della creazione, all’osservazione del figlio più antico, più saldo, più profondo, più immobile della natura. Perché mi si concederà volentieri che tutte le cose naturali stanno in una precisa connessione». Da questo «fondamento che si estende fino nei luoghi più profondi della terra», «dai primi, più saldi inizi della nostra esistenza»22, Goethe si rivolse alla storia delle piante e all’anatomia dei corpi animali, che vivificano il suolo terrestre. Metodicamente, attraverso una ricerca scrupolosa, egli cercò, d’ora in poi, la risposta alla domanda faustiana della giovinezza. Questo primo approccio al compito che aveva posto al centro della sua vita, cioè quello di comprendere i fenomeni naturali nella loro articolazione come una totalità, diventa del tutto evidente nello scambio epistolare con Jacobi, il compagno dei suoi primi progetti in fermento, che nello spirito e nelle sue manifestazioni coglieva invece il punto di partenza opposto per la considerazione del mondo. Si chiarisce a questo proposito anche il modo in cui egli riuscì a utilizzare, oltre al metodo di Buffon, gli affini tentativi di Spinoza (non conosceva purtroppo Aristotele). «Quando affermi che si può solo credere in Dio, ti dico che tengo molto all’osservare, e quando Spinoza, parlando della conoscenza intuitiva (intuitive Erkenntnis), 20
A questo proposito cfr. le importanti informazioni di Adolf Schöll, Goethe als Staatsmann, «Preußische Jahrbücher», X, 1862, pp. 423 ss., ristampato e ampliato in Schöll, Goethe in Hauptzügen seines Lebens und Wirkens. Gesammelte Abhandlungen, Hertz, Berlino 1882, pp. 127 ss. 21 [Si tratta di Über den Granit, risalente al 1784 e pubblicato nel 1787]. 22 Goethe, HA, XIII, pp. 255 ss.
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dice: “questo modo di considerare giunge, attraverso il chiaro concetto della vera essenza di certi attributi di Dio, al chiaro concetto dell’essenza delle cose”, queste poche parole mi danno il coraggio di dedicare tutta la mia vita alla considerazione delle cose che posso toccare e delle quali posso formarmi un’idea adeguata»23. «Qui vado su e giù dai monti, cerco il divino in herbis et lapidibus». «Perdonami il fatto che taccio così volentieri, se si parla di un’essenza divina, che io riconosco solo all’interno e a partire dalle rebus singolaribus»24. Questa era la costituzione di Goethe, che fece emergere in lui la concezione creativa del moderno panteismo: da molti anni egli rivolgeva costantemente tutte le forze della sua anima all’articolazione dell’insieme dei fenomeni naturali in vista di una totalità, della quale l’uomo è parte integrante. Goethe, e non Schelling o Hegel (nel caso non si dovesse riuscire a dimostrare un’origine ancora più antica), ha portato alla luce l’intuizione geniale, che differenzia questo panteismo da quello di Spinoza, dell’antichità, del Rinascimento: cioè, tanto dal panteismo il cui punto di vista creativo sta nell’atteggiamento reciproco del mondo della rappresentazione e del mondo dei corpi e nei confronti dell’unità divina, quanto da quello che si basa sull’analogia di un’anima del mondo. Il documento più antico di esso è un saggio, Natura, che fu ritrovato tra le carte della duchessa Amalie molti anni più tardi. «Natura! Viviamo in mezzo a lei e le siamo estranei. Essa ci parla incessantemente, ma non ci svela il suo segreto. Essa sembra aver investito tutto sull’individualità e non se ne fa nulla degli individui. Vive in molti figli, ma la madre dove è? Essa ha pensato e costantemente medita, ma non come uomo, bensì come natura. Ama se stessa e rimane eternamente attaccata a se stessa con gli occhi e con il cuore senza calcolo. Si confronta con se stessa, per comunicare se stessa, per godere di se stessa. Sempre lascia crescere nuovi individui che possano godere di lei, mai sazia di comunicarsi. La vita è la sua più bella invenzione e la morte è il suo espediente per avere molta vita»25. L’idea che la natura si è estrinsecata nella serie dei viventi per godere di se stessa, nella sensazione, nell’intuizione, nella ragione concettuale, è il nucleo caratteristico della visione del mondo di Schelling e di Hegel. Il punto di svolta dello spirito filosofico sta in Kant; la svolta della visione del 23
Lettera di Goethe a Jacobi, 5 maggio 1786. WA, VI, 7, n. 2312, pp. 212 ss. Lettera di Goethe a Jacobi, 9 giugno1785, ivi, n. 2134, p. 63. Allusione a Spinoza, Ethik, 5, principi 24 e 36. 25 Goethe, HA, XIII, pp. 45 ss. 24
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
mondo, assolutamente indipendente dagli allestimenti di una dimostrazione filosofica, sta invece in Goethe, in quel suo grandioso progetto, perseguito ostinatamente, di comprendere l’unità della natura, nel costante accrescimento dei suoi fenomeni, fino a quelli spirituali più alti, mediante la forma panteistica che ne conseguiva. Questa forma si differenzia da ogni forma precedente, dal momento che essa comprende la connessione di questa totalità cosmica come un processo, come una storia, nella quale la natura diviene cosciente di se stessa. Con ciò prende avvio una serie di idee la cui preparazione, sulla base però di presupposti radicalmente diversi, è costituita dalla visione del mondo di Leibniz, dall’Educazione del genere umano di Lessing, e il cui l’ultimo elemento è la filosofia della storia di Hegel. Per quanto Salomon Maimon, nel 1790, rinnovasse l’ipotesi dell’anima del mondo sulla base del punto di vista critico26, anche nel suo modo di vedere non c’è nulla che vada oltre quella vecchia ipotesi e che si avvicini all’idea che nella natura vi sia uno sviluppo dall’incosciente alla coscienza. L’anima del mondo, secondo lui, è una forza presente nella materia, che è attiva in questa e il cui effetto è diverso a seconda delle modificazioni della materia stessa. Essa è il fondamento del peculiare modo di composizione di ognuno: è addirittura il principio organizzativo in tutti i corpi organizzati, la vita in ogni animale, l’intelletto nell’uomo. Anche Maimon trova in questa idea un filo conduttore per ampliare la nostra comprensione dell’unità della natura. Qui Goethe, che amava molto Maimon27, può aver visto una piacevole conferma della propria concezione. Dunque l’intuizione creatrice (schöpferische Anschauung) del moderno panteismo era nata in Goethe dalla sua forte tendenza a comprendere i fenomeni naturali, secondo la loro struttura interiore, in una totalità. Questo punto di vista lo condusse allora a una serie di importanti scoperte. È necessario, prima di addentrarci nei risultati, chiarire ulteriormente questa tendenza tipica della ricerca goethiana. Ne dipende, infatti, una comprensione più profonda del procedere del movimento spirituale che stiamo esponendo. Goethe stesso sentì questa necessità, ma in un’epoca molto successiva, e a quest’epoca dobbiamo ora guardare per trovare una spiegazione. Era il 1828 quando Goethe riprese in mano il citato saggio sulla natura risalente a mezzo secolo prima. Allora, la concezione della natura contenuta in esso gli sembrò una profezia, di cui era giunto il tempo della 26 Berliner Journal für Aufklärung, Juli 1790. È merito di Ueberweg (Geschichte der Philosophie III, p. 204) aver richiamato l’attenzione su questo singolare contributo. 27 Cfr. Briefwechsel zwischen Rahel und David Veit. Aus dem Nachlaß Varnhagen von Ense, Brockhaus, Lipsia 1861, I, p. 245.
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entusiastica realizzazione. Egli descrisse tale realizzazione come la crescente concatenazione dei fenomeni in una tecnica della natura. In una tale tecnica, dunque, gli sembrò che dovesse essere scoperta l’essenza che «pensa, ma non al modo di un uomo». La facoltà che progetta una siffatta tecnica della natura viene chiarita grazie alla Critica del giudizio di Kant: essa non era niente altro che quella intuizione geniale, che è attiva nel poeta e che la sua generazione aveva iniziato a introdurre anche nella ricerca. Come doveva rallegrarlo vedere che, anche in Kant, erano comprese nella loro unità la forza attiva nel poeta e la possibilità di progettare questa tecnica della natura!28 «Qui ho visto i miei lavori più disparati posti l’uno accanto all’altro»29. Fu proprio un pensiero di Kant a portare luce fin nel profondo di questa sua direzione di ricerca. «Noi possiamo pensare un intelletto che, poiché non è discorsivo come il nostro, bensì intuitivo, procede dall’elemento sintetico-universale, dall’intuizione di una totalità come tale, al particolare, cioè dal tutto alle parti»30. Se Kant riconosce soltanto all’intelletto divino questo modo di procedere, Goethe ribatte: come dobbiamo avvicinarci nella sfera morale al sommo bene, così la contemplazione di una natura costantemente creatrice deve renderci degni, anche nella sfera intellettuale, della partecipazione spirituale alle sue creazioni31. Questa espressione è una pietra miliare. Nel famoso passo, a cui Goethe si riferisce, Kant tocca il limite del proprio pensiero. Non c’è nessuna conoscenza se non in virtù della connessione, attraverso i modi dell’intelletto, di intuizioni date (gegebene Anschauungen). Perciò non c’è alcuna facoltà di formare in noi stessi, attraverso un processo creativo, un mondo, senza che ci sia dato un elemento nella sensazione (Empfindung). L’elemento particolare della natura, dato nella sensazione, e la sua unità, che proviene dal nostro 28 Questa affinità tra certi rami della ricerca naturale e della poesia, che è così importante per la comprensione di Goethe, è stata poi messa in luce anche dal grande fisiologo Johannes Müller. «Non meravigliamoci se la medesima persona ha raggiunto il risultato più notevole in entrambe le direzioni. Solo attraverso un’immaginazione che agiva secondo l’idea conosciuta, Goethe scoprì la metamorfosi delle piante, e proprio su questa poggiano i suoi progressi nell’anatomia comparata e la sua concezione sommamente spirituale, addirittura artistica, di questa scienza». Cfr. Über phantastische Gesichtserscheinungen, Coblenza 1826, p. 106. D’altra parte la costituzione del suo genio poetico è condizionata da questa tendenza del suo spirito volta alle scienze naturali, che Lavater espresse così: «Il tuo sforzo, la tua tendenza ineludibile è dare a ciò che è reale una forma poetica». Anche del primo sguardo nel cambio generazionale, la ricerca naturale è debitrice a un poeta, Chamisso. Cfr. Steenstrup, Über den Generationswechsel, pp. 34 ss. 29 Goethe, HA, XIII, p. 27. 30 Kant, AA, V, p. 407, citato da Goethe, HA, XIII, p. 30. 31 Ivi, pp. 30 ss.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
spirito, rimangono, in questo modo, reciprocamente estranei; il loro accordo appare casuale: solo se pensiamo uno spirito divino, che sia veramente intuitivo, questo accordo casuale si innalza fino a diventare unità necessaria. A questa serie di pensieri di Kant si riallaccia Goethe. Essa si collega per lui agli enigmatici luoghi di Spinoza sull’intelletto intuitivo (intuitiver Verstand), che riposa nelle rebus singularibus, senza la mediazione di concetti dedotti32. Partendo dall’intelletto divino (göttlicher Verstand) presente nella natura e dal nostro sprofondarci in esso (in modo simile a Spinoza e a Schelling), Goethe fonda il diritto di una comprensione intuitiva (intuitives Verständnis) o – per cambiare con Schelling la struttura dell’espressione – di una intuizione intellettuale (intellektuelle Anschauung)33. E così impegnavano già Goethe la natura e il diritto della comprensione intuitiva (intuitives Verständnis), che, su un altro terreno, Winckelmann e Herder per primi iniziarono a trasformare in un metodo di ricerca e che, a partire da loro, per tutta l’epoca in questione, è rimasto il procedimento spirituale dominante in Germania, in competizione con i metodi induttivi. Troppo spesso tale metodo è rimasto separato, per gli errori dei pensatori, da questi ultimi, mentre viene sempre ricollegato ad essi dalle reali esigenze dei ricercatori positivi. Nessuna dottrina della scienza (Wissenschaftslehre) fino ad ora ha indagato veramente questa grande corrente della ricerca umana. Dal comportamento dei corpi celesti, attraverso la formazione della terra, la distribuzione geografica degli esseri viventi sulla sua superficie, la struttura sociale e l’intreccio storico delle generazioni umane, fino all’individualità del singolo uomo, è presente un interesse scientifico, che basta a se stesso, ad apprendere ciò che è dato solo una volta, incomparabile, comprensibile nella sua singolarità. A queste importanti intuizioni (Anschauungen) singolari si collegano poi schemi generali (Schemata), nei quali, a prescindere da differenze per noi insignificanti, formiamo ulteriori intuizioni (Anschauungen) che, nell’avvicendarsi dei fenomeni, disegnano un elemento stabile, che tuttavia non esiste. Schemi siffatti erano anche le strutture morfologiche fondamentali, che Goethe aveva intrapreso a stabilire. L’intero mondo dell’intuizione spetta alla ricerca scientifica. È un errore gravido di conseguenze considerare le nostre concezioni astratte, la conoscenza delle leggi, come l’unica conoscenza di valore, cosa che accade chiaramente presso un Mill o un Buckle 32
Spinoza, Ethik 5, 24 e 36. [Intellektuelle Anschauung, “intuizione intellettuale”, è qui riferita alla filosofia schellinghiana; nelle pagine del capitolo VII, essa esprime, insieme all’analoga denkende Anschauung, il modello conoscitivo a cui aspirano i maggiori rappresentanti della nuova generazione di filosofi, contemporanea a Schleiermacher, cfr. infra, pp. ]. 33
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e che tra di noi, in Germania, grazie a molte importanti ricerche, fin da principio è stato evitato. Venne incontro allora a questa tendenza della ricerca goethiana la situazione delle scienze naturali descrittive (beschreibende Naturwissenschaften). Era disponibile, nella botanica e nell’anatomia comparata, un materiale ordinato in modo sufficientemente logico da rendere possibile un’ampia visione d’insieme, che tuttavia non venne allora ancora avviata. In particolare, nella botanica erano disponibili i grandi sistemi di Linneo e Jussieu. Quando la comprensione intuitiva (intuitives Verständnis), compenetrata dall’idea della totalità naturale, diviene un metodo di ricerca, essa tenta di penetrare nella tecnica unitaria di questa totalità: allora rinviene nell’analogia (Analogie) il suo mezzo più potente. La legittimità di quest’ultima sta proprio nell’idea di una tecnica unitaria della natura. In virtù dell’analogia (Analogie) e del metodo comparativo (vergleichendes Verfahren), anche Goethe procedette all’interno delle scienze naturali descrittive (beschreibende Naturwissenschaften). La prima idea che orientò Goethe nello studio degli esseri organici fu quella di una analogia tra le diverse parti di un medesimo organismo. I singoli organismi mostrano una ripetizione, per così dire mascherata, delle medesime parti. Nel caso delle piante, in relazione alle quali essa viene studiata più facilmente, Goethe chiama questa ripetizione “metamorfosi”. È la medesima foglia che appare come germoglio, poi come stelo, come sepalo, poi come petalo, filamento, pistillo, addirittura come tegumento. In condizioni particolari essa sembra perfino passare da una forma all’altra con apparente volontarietà. Goethe fece questa scoperta nel 1787 nei giardini di Palermo. Poi, nel 1790, un fortunato sguardo su un cranio di pecora mezzo rotto, che trovò casualmente sulla spiaggia del Lido di Venezia, gli insegnò ad applicare questa legge anche alla complessione dei vertebrati e a concepire il cranio come una serie di vertebre fortemente mutate. Ancora oggi si discute sul numero e sulla formazione delle singole vertebre del cranio, ma il pensiero di fondo si è conservato. La metamorfosi delle piante è rimasto un saldo possesso della botanica. Una seconda idea portò avanti Goethe. Egli imparò a considerare le differenze nella complessione anatomica delle singole classi animali come mutamenti di un progetto strutturale comune o tipo (Typus), condizionato dai diversi modi di vivere, dai diversi luoghi e tipi di alimentazione. Già Camper aveva posto alla base delle sue ricerche l’idea che in tutto il regno della vita animale, dal pesce fino all’uomo, dove esistono fini comuni, emergono anche parti simili. Allora, nel 1786, Goethe aveva già fatto la singolare scoperta dell’osso intramascellare dell’uomo; mediante essa era stabilito un
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
caso nel quale un’uniformità strutturale innata era in contraddizione con le esigenze della complessione totale, cosicché la parte della struttura in questione doveva essere adattata mediante una successiva concrescenza delle parti nate separatamente. Un’esortazione di Alexander von Humboldt spinse poi Goethe, nel 1795, a elaborare il progetto di un’introduzione generale all’anatomia comparata. «Egli vi insegna», giudica Helmholtz, «con grandissima chiarezza e risolutezza, che tutte le differenze nella struttura delle specie animali devono essere concepite come mutamenti di un unico tipo fondamentale (Grundtypus), che sono state prodotte da fusione, trasformazione, ingrandimento, rimpicciolimento o completa eliminazione di singole parti. Questa è diventata effettivamente l’idea dominante dell’odierna anatomia comparata, che non è mai stata espressa, in seguito, in modo migliore e più chiaro di quanto abbia fatto Goethe. L’epoca successiva ha apportato mutamenti poco decisivi, dei quali il più importante è che ora non si pone un tipo generale alla base dell’intero regno animale, bensì alla base di ciascuna delle sezioni principali di esso, stabilite da Cuvier»34. E Johannes Müller, a proposito dell’ideale di ricerca naturale comparativa (vergleichende Naturforschung) che gli fluttuava davanti, fa notare: «Chi vuole farsi un concetto chiaro di essa, legga la magistrale descrizione goethiana del roditore e delle sue relazioni sociali con altri animali nella Morfologia. Non si può rimandare a nulla di simile che sia in grado di uguagliare questa proiezione, che parte dal centro dell’organizzazione stessa. Se erro, sta in questo accenno il presentimento di un ancora lontano ideale di storia naturale»35. «Il supremo studio dell’uomo è l’uomo»36. Con questa espressione, condivisa anche da Goethe, si accordava l’interpretazione schilleriana della sua costituzione spirituale, secondo la quale egli nella ricerca ripercorreva la serie delle organizzazioni a partire dalle più semplici, per costruire infine, dai materiali dell’intero edificio naturale, l’uomo e comprenderlo così geneticamente; per ricreare, per così dire, la natura. Qui stava lo scopo del suo attraversamento dell’intera realtà naturale. La nostra esposizione delle ricerche di Goethe si arresta però, a questo punto, di fronte alla sua comprensione genetica (genetisches Verständnis) dell’uomo37. Prendiamo in considerazione qui 34 Hermann von Helmholtz, Populäre wissenschaftliche Vorträge, Vieweg, Braunschweig 1865, p. 35; Id., Vorträge und Reden, I, Vieweg, Braunschweig 1884, p. 3. 35 Johannes Müller, Über die phantastischen Gesichtserscheinungen, cit., p. 104. 36 Cfr. Goethe, HA, VI, p. 417. 37 [Un genetisches Verständnis, “comprensione genetica” dell’uomo, capace di vederne lo sviluppo (Entwicklung), radicato nella genetische Kraft (“forza genetica”) della natura, caratterizza la concezione herderiana e, in parte, quella goethiana. La comprensione dell’uomo così
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LETTERATURA TEDESCA E NUOVA VISIONE DEL MONDO
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il modo in cui Goethe rappresentava se stesso, alla fine degli anni Novanta, quando la generazione di Schleiermacher subì il suo influsso. La formazione dei suoi pensieri riguardo alla società umana, sulla base delle sue conoscenze della totalità naturale, risale però all’ultimo periodo della sua vita. In quest’epoca più matura, Goethe ha cercato di risolvere i problemi, emersi all’interno della cerchia alla quale apparteneva Schleiermacher, sotto l’influsso di questi nuovi movimenti. Così nacquero le Affinità elettive, Gli anni di viaggio di Wilhelm Meister. Lo occuparono le questioni del matrimonio, della proprietà, dell’educazione e proprio le ricerche in questo campo lo condussero al pensiero di Schleiermacher e dei suoi amici: «Ognuno è solo un individuo e può interessarsi propriamente solo all’individuale. Il generale si impone, si conserva, si moltiplica; lo utilizziamo, ma non lo amiamo»38. Risale a quest’ultima epoca anche un’estensione della sua visione del mondo, corrispondente all’ampliamento delle sue ricerche sul mondo morale, al di là della concezione panteistica tipica della sua giovinezza: tale ampliamento lo portò a un significativo accordo con Leibniz e con Lessing, cioè con la visione del mondo del Cristianesimo intesa nella sua armonia con Platone e Aristotele. «Il pensiero non si lascia separare dal pensato, la volontà non si lascia separare dal movimento»39. In questo Dio-natura l’uomo è una monade intramontabile, che può attraversare mille metamorfosi, destinata a riposare, in ogni punto di questa esistenza illimitata, nel pieno possesso dell’attimo. «Se il passato ti è chiaro e aperto, se oggi agisci liberamente e con forza, puoi anche sperare in un domani, che sia non meno felice»40. Ci limitiamo a questo sguardo anticipatore sulla sublime conclusione della visione del mondo di Goethe. Fu invece Herder, uno spirito a lui profondamente affine, nell’epoca precedente, dal 1784, a portare a termine il compito di fronte al quale stava Goethe, cioè la comprensione genetica dell’uomo e della storia a partire dalla connessione della totalità universale. L’ideale di vita di Goethe, in armonia con il suo spirito di ricercatore naturale, non era il frutto di fantasie nostalgiche, che superano le condizioni dell’esistenza umana, bensì il miglior risultato dello sguardo all’interno dell’ordine naturale stesso: un tale tipo di considerazione poteva sfociare solo nella comprensione genetica, in una scienza comparativa dell’uomo (vergleichende Wissenschaft des Menschen). I suoi stessi lavori mostrano, anche negli anni più tardi, solo singole geniafondata diviene genetische Anschauung, “intuizione genetica”]. 38 Goethe, HA, X, p. 536. 39 Goethe, WA 1893, XXXVI, p. 269. 40 Goethe, HA, I, p. 308.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
li intuizioni di grande valore scientifico, come ad esempio le annotazioni sul Divano occidentale-orientale 41, molte altre sono contenute nella sua Storia della teoria dei colori. Attraverso il suo metodo di ricerca e i risultati ottenuti grazie a esso nell’ambito della scienza della natura, egli creò un fondamento scientifico più rigoroso per il lavoro da lungo avviato da Herder, l’uomo straordinario, la cui missione fu mostrare ciò che è umano in tutte le sue forme e far valere, in contrapposizione addirittura a un Lessing, il fatto che l’umanità si realizza proprio in relazione alla terra materna, all’ambiente nazionale e che non si dà, nei mutamenti della storia, nessun ideale immutabile di umanità. Goethe condivise tutte le idee di Herder a partire dall’autunno del 1783. Non tento di distinguere l’influsso che l’uno ha esercitato sull’altro, e neppure cosa essi devono ad altri ancora; certo nacque sotto l’influsso di Goethe l’unica opera matura e non fraintesa di Herder, lavorata in grande stile, Idee per una filosofia della storia dell’umanità, la cui prima parte apparve nell’aprile del 178442. Alla comprensione di questa grandiosa opera nulla ha nuociuto di più che lo scritto di Herder, apparso dieci anni prima, Ancora una filosofia della storia per la formazione dell’umanità43. In questo lavoro egli sviluppava l’analogia tra le età del singolo uomo e quelle del genere umano. In relazione alle epoche in cui, nelle singole nazioni, si consolidano le masse di rappresentazioni e le abitudini pratiche, questa analogia non è infruttuosa: in tal senso la ha fatta sua anche Roscher44. Al contrario, i parallelismi tra un 41
[Goethe, West-östlicher Diwan, 1819]. Goethe scrive a Jacobi il 12 novembre del 1783 (WA, IV, 6, p. 211): «è di nuovo una bella fortuna per la mia vita che le fastidiose nubi, che hanno così a lungo separato Herder da me, devono finalmente, una volta per tutte, dileguarsi». Della Metamorfosi delle piante sottolinea: «la mia faticosa ricerca, piena di tormenti, fu alleggerita, addirittura addolcita, dal fatto che Herder intraprese a tracciare le Idee per una storia dell’umanità. Il nostro dialogo quotidiano si occupava delle origini del manto d’acqua, delle creature organiche che si erano sviluppate dall’antichità su di essa. Discutevamo sempre il principio originario e l’ininterrotto procedere di esso, il nostro possesso scientifico veniva ogni giorno chiarito e arricchito grazie al reciproco comunicare e discutere». Mi pare che ciò venga sottolineato non senza l’intenzione di chiarire come già presso Herder fossero accennate alcune delle sue scoperte. Bisogna confrontare questo giudizio anche con quello di Baer (Reden, Bd. I, 1861, p. 61): «Herder ha schizzato con sguardo profetico i tratti dell’anatomia comparata e si possono indicare in generale i lavori di Cuvier e dell’età moderna come un commentario a questi tratti». 43 Johann Gottfried Herder, Sämtliche Werke, I-XXXIII, a cura di Bernhard Suphan, Weidmann Verlag, Anstalt, 1877-1913; V, pp. 475 ss. 44 [Wilhelm Roscher (1817-1894), economista, Fu uno dei maggiori rappresentanti della scuola storica: in System der Volkswirtschaft (1854-1894), in particolare nella prima parte, Die Grundlage der Nationalökonomie, sviluppò l’idea dell’economia nazionale come scienza politica della ricchezza nazionale, basata sul metodo storico. Di maggior impatto la Geschichte der 42
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LETTERATURA TEDESCA E NUOVA VISIONE DEL MONDO
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astratto genere umano e il singolo individuo sono molto poco convincenti. Tuttavia le analogie hanno qualcosa di entusiasmante. Non giovò a nulla il fatto che Herder si dichiarasse contrario alle modifiche in questo tentativo immaturo, addirittura che praticamente lo ritrattasse45. Lo stesso Gervinus, questo importante conoscitore della trattazione filosofica della storia, deplorava che Herder avesse abbandonato la legge fisiologica della vita dei popoli, che aveva promosso in quel primo scritto46. Tutti i libri delle Idee di Herder, come l’Etica di Spinoza, sono attraversati da una caratteristica antipatia nei confronti di concetti immaginati: del tutto in accordo con quest’opera, riconosciuta allora da Goethe e da Herder come fondamento della loro visione del mondo, l’introduzione del concetto di fine (Zwecksbegriff) nella storia appare come nemica della vera ricerca e viene perseguitata nei suoi vari travestimenti. «Lo storico», dice Herder, «non cercherà mai di spiegare una cosa, che è o appare, attraverso un’altra che non è. Di fronte a questo severo principio tutti gli ideali scompaiono, come fantasmi di un regno incantato»47. Conformemente a ciò ci guarderemo bene dall’attribuire a effettivi fenomeni storici specifiche intenzioni nascoste di un progetto delle cose a noi sconosciuto. Alla domanda, perché Alessandro si ritirò in India, non c’è altra risposta che: perché era Alessandro, figlio di Filippo. Se rinunciamo a cercare un piano della storia, verremo premiati con la comprensione delle supreme e belle leggi naturali, alle quali obbedisce l’uomo stesso, anche nelle sue più selvagge sregolatezze e passioni48. Dappertutto, sulla nostra terra, accade esattamente ciò che su di essa può accadere, in parte secondo la condizione e la necessità del luogo, in parte secondo le circostanze e le occasioni del tempo, in parte secondo il carattere innato o acquisito dei popoli49. Noi scomponiamo i motivi di questa pienezza dei fenomeni storici in due classi: nei caratteri genetici delle nazioni e nelle condizioni spazio-temporali, sotto le quali essi agiscono. Le leggi fondamentali dei fenomeni storici stanno dunque, da un lato, nella posizione, nella forma geografica e nella Nationalökonomie in Deutschland, 1874, dove i temi economico-politici vengono collegati con lo sfondo filosofico-letterario dell’epoca]. 45 Cfr. la prefazione alle Ideen. Egli si dichiara anche, senza nominarlo, contro il Versuch einer Geschichte der Kultur des menschlichen Geschlechts, di Adelung, apparso anonimo nel 1782, nel quale le Idee di Herder erano condannate attraverso la più misera trattazione. 46 Gervinus, Geschichte der deutschen Dichtung, V, 18534, p. 341. 47 Herder, Ideen, XIV, p. 145; cfr. Spinoza, Ethik, 1, Appendice. 48 Ideen, XV, Introduzione (e XIV, p. 207); cfr. Spinoza, Ethik, 3, Introduzione. Cfr. anche Ideen, 14, cap.6. 49 Ideen, XII, cap. 6 (Werke, ibid., p. 83); cfr. XIII, cap. 7 e Spinoza, Ethik, 1,11.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
storia della terra, dall’altro, nella natura fisiologico-psicologica dell’uomo. In queste affermazioni Herder, a partire dai presupposti di Spinoza, giunge al pensiero fondamentale, ancor oggi valido, di tutta l’analisi filosofica dei fenomeni storici. Si tratta nientemeno che di un’intuizione genetica, che prende avvio dall’intero universo, procede poi alla posizione della terra in esso e alle condizioni, da essa dipendenti, per tutta la vita ivi presente: da qui procede poi a un’immagine della distribuzione di acqua e terra, montagne e pianure, alla distribuzione della vita organica che ne deriva. Le forme fondamentali della struttura delle piante e degli animali verrebbero così sviluppate dall’interno fino al momento in cui, per parlare con Ritter, l’individuo “terra” giunge alla piena intuizione, insieme alle condizioni che esso offre per la storia dell’uomo. Non si può chiarire meglio questo grande piano herderiano che attraverso le immortali opere di Alexander von Humboldt e di Ritter, che sono il frutto di questo metodo avviato da Herder e dalla sua epoca. Questo grandioso progetto herderiano, però, fu nelle Idee solo la base per uno studio comparativo dell’uomo. L’uomo è il grado sommo dello sviluppo di quella forza genetica (genetische Kraft) che è attiva nella terra. Qui Herder si collega alle ricerche di Goethe, opponendosi decisamente a Kant. In questo passo, in cui si tratta della spiegazione dell’uomo a partire dalla connessione della totalità naturale, riconosciamo il contrasto decisivo tra la tendenza goethiano-herderiana e quella kantiana, secondo la quale l’uomo, strappato all’ordine naturale, è membro di un invisibile ordine superiore. Il progresso della tecnica della natura giunge a elaborare un cervello sempre più raffinato e relativamente più grande, per raccogliere nell’essere vivente un più libero centro di sensazioni e pensieri. Tanto più la testa e il corpo di un animale formano una linea orizzontale ininterrotta, tanto meno spazio c’è in lui per un cervello superiore; tanto più il corpo cerca di sollevarsi e la testa di separarsi e strutturarsi, tanto più raffinata è la formazione dell’essere vivente. Qui sta la spiegazione generale dell’angolo facciale scoperto da Camper50. Alla luce di questa concezione scientifica si capirà allora quale senso ben giustificato abbia, nella serie di pensieri di Herder, il significato della postura diritta. «Nella relazione strutturale delle parti al tutto, secondo la loro posizione reciproca e secondo la direzione della testa, sta il differente atteggiamento di un’organizzazione nei confronti di questo o quell’istinto, per l’effetto di un’anima animale o umana»51. 50
[Petrus Camper, 1722-1789, professore di anatomia a Amsterdam, studioso di fisiognomica, rinvenne nella spina nasalis anterior la chiave per spiegare la bellezza del volto umano]. 51 Ideen, 4, cap. 1 (XIII, p. 128).
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Questa organizzazione offriva all’umanità, grazie a un cuore nobile, libero, umano, le condizioni della lingua. Da qui inizia la sua formazione (Bildung), la sua cultura. A partire da essa la ragione deve essere compresa geneticamente, ma non (come vuole Kant, possiamo aggiungere noi) come una facoltà originaria comune agli angeli e agli uomini52. Il fine supremo dell’umanità può essere solo l’umanità (Humanität) Una morale, che la scavalchi, produce solo chimere. Anche se noi ci immaginiamo angeli o divinità, li pensiamo solo come uomini idealizzati53. La divinità ha legato le mani degli uomini con null’altro che attraverso la loro natura, attraverso tempo, spazio e forze innate54. La madre di questa diversificata organizzazione del genere umano è la forza genetica della natura, alla quale il clima semplicemente ammicca in modo amichevole od ostile, mentre il nesso è da cercare nel dato di fatto dell’unitarietà specifica del genere umano. Herder, a tale proposito, si accorda con le ricerche più moderne. Nello scontro di queste molteplici forze umane, si fa valere una grandiosa legge naturale: tutte le forze distruttive, nel susseguirsi delle epoche, devono sottostare alle forze conservative. È un caso specifico di questa legge generale il fatto che, nel genere umano, nascono meno distruttori che conservatori. Come nel regno animale, a seconda delle condizioni, sono possibili meno carnivori che erbivori, così nel mondo storico ha luogo una relazione simile, poiché in esso passioni ed irregolari predisposizioni naturali devono sopravvenire a condizioni esteriori corrispondenti per produrre una forza storica distruttiva. D’altra parte, il progresso delle arti e delle scienze indebolisce, insieme alla forza animale del corpo, anche la predisposizione alle passioni selvagge e offre crescenti mezzi per limitarle55. Non si può analizzare nel dettaglio quanto avanti è giunto Herder nello studio delle cause costanti dei grandi fenomeni storici e quanto a fondo, inoltre, egli sia penetrato nella loro descrizione. Se nella concezione fondamentale fu condotto da Spinoza, Goethe fu la sua guida nel concepire la forza genetica della natura e la successione delle sue forme; per la sua visione della storia greca fu determinante Winckelmann, mentre per quella
52
Ibid., anche contro Kant, senza nominarlo, pp. 138 ss. Ivi, p. 208. 54 Ivi, p. 210. Anche qui contro Kant. 55 Ivi, p. 216. 7, cap. 1 (Werke, XIII, pp. 72 ss.); cap. 4 (ivi, pp. 103 ss.); 15, cap. 2. Il bel cap. 2 del libro 15 contiene i corretti presupposti per la trattazione del problema del progresso dell’umanità. 53
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
della storia romana Montesquieu56. Chi potrebbe da solo abbracciare tutto ciò? Herder e Goethe ne segnarono il glorioso inizio. Il lettore abbracci in un unico sguardo lo sviluppo che abbiamo esposto della nostra visione del mondo, al di fuori della filosofia specialistica. Sarebbe impossibile apprezzare, addirittura semplicemente comprendere, i grandi lavori della generazione di Schleiermacher e soprattutto quelli di quest’uomo straordinario, se non prendessimo le mosse da ciò che questa generazione si trovò di fronte. Nella poesia e nella riflessione morale si era formato un ideale di vita, che doveva riformare le scienze morali (moralische Wissenschaften). Questa riforma e, insieme ad essa, la più profonda tendenza nella natura di Schleiermacher, possono essere comprese ormai a partire dal proprio specifico impulso. Alla visione del mondo tipica dell’illuminismo teologico era comparsa dinnanzi una visione formata dalla libera considerazione del mondo stesso in un grande spirito. Addirittura era elaborata una concezione mediante la quale l’universo poteva essere compreso come sviluppo genetico (genetische Entwicklung) dalla natura incosciente fino alle supreme forme della coscienza. Con ciò è tracciata la prima e originale forma, dalla quale si sviluppò il moderno panteismo tedesco in Schelling ed Hegel. Sulla base di questa visione entrambi intrapresero allora a sciogliere l’enigma della conoscenza umana: il genuino senso e contenuto della natura è insito nello spirito umano, viene sviluppato insieme ai suoi concetti, poiché lo spirito è semplicemente la natura giunta a coscienza di se stessa; la sua essenza è quella della natura, il suo contenuto semplicemente il contenuto di quella. Si può pensare una più grandiosa concezione poetica della connessione del mondo? Solo a partire da essa può essere apprezzata l’impresa schleiermacheriana di dedurre dal modo in cui ci è data la natura, compenetrata dalla ragione e a essa corrispondente, la connessione metafisica di entrambe, dimostrando al contempo, però, come l’apprensione intuitiva di questo fondamento metafisico dell’armonia universale spetti al sentimento religioso (religiöses Gemüt). L’intuizione geniale era penetrata dal regno della poesia anche in quello delle scienze positive, sviluppandosi fino a diventare l’intuizione combinatoria e comparativa (combinatorische und vergleichende Anschauung) veramente fruttuosa come potente organo della scienza della terra. Era con ciò reso disponibile l’elemento più importante. Humboldt, in seguito, indicò il proprio fine nella «considerazione delle cose corporee sotto la forma di una totalità 56
Il saggio Vom Einfluss der Regierung auf die Wissenschaften, und der Wissenschaften auf die Regierung (XIV, pp. 307 ss.) contiene una ricerca molto bella su un punto assai significativo per la trattazione filosofica della storia delle scienze.
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LETTERATURA TEDESCA E NUOVA VISIONE DEL MONDO
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naturale vivificata e mossa da forze interiori, intesa come scienza isolata»57. Ritter espresse invece così il suo ideale: «la terra è un individuo cosmico con un’organizzazione caratteristica, un ens sui generis in sviluppo progressivo; indagare questa individualità della terra è il compito della scienza geografica». Entrambi questi grandi uomini si trovavano in realtà sulla strada allora intrapresa da Winckelmann, Goethe, Herder. Relativamente al terreno delle scienze dello spirito (Geisteswissenschaften) sarebbe inutile anche solo citare dei nomi: qui il metodo dell’intuizione ha raggiunto il suo apice. Gli Schlegel, Wilhelm von Humboldt, Bopp, i Grimm, Böckh, Welcker formano un’unica successione. Allo stesso tempo, però, in questa grandiosa tendenza dello spirito tedesco a comprendere articolazione, partizione e struttura a partire dalla totalità, stavano anche le cause degli errori più gravi di quest’epoca. È difficile quanto indispensabile per i metodi, che dominano tra i filosofi come tra i ricercatori di scienze positive da Kant fino ad oggi, il compito di scoprire il fondamento esplicativo presente nella concezione dello spirito scientifico di allora, per separare i grandi stimoli in essa contenuti dagli errori. Elementi così disparati portò la corrente della nostra grande epoca poetica, che andava crescendo: nuovi ideali di vita, una nuova visione del mondo, persino metodi per la ricerca scientifica. In primo luogo nelle condizioni sociali e nelle concezioni della morale ci si mostra il singolare fermento, che derivava dai nuovi ideali di vita.
57
52.
Alexander von Humboldt, Kosmos, I-IV, Stoccarda-Tubinga, Cotta 1854-1858; qui I, p.
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BERLINO
A Berlino Schleiermacher entrò nel tempestoso conflitto tra i nuovi ideali di vita e le tradizioni, le convinzioni, addirittura le autorità che i secoli precedenti avevano raccolto. Nella capitale della monarchia di Federico il Grande queste tradizioni possedevano una vitalità differente rispetto a qualsiasi altro luogo. In questo conflitto Schleiermacher e i suoi amici trascorsero gli anni della spumeggiante forza giovanile. In entrambi i partiti coinvolti in questo scontro emersero figure, molto lodate e molto denigrate, che sono giustamente apprezzate solo alla luce dello spirito di questa metropoli in trasformazione. Più di qualsiasi altra città europea, Berlino mostrò presto un’individualità storicamente ben determinata, la cui impronta si imprimeva in tutte le tendenze che vi emergevano. Sembra cresciuto insieme alla città lo stesso influsso di Schleiermacher, ed essa rimase il terreno storico della sua attività fino alla sua morte. Tentiamo di comprendere, a partire dallo sviluppo di Berlino, la sua particolarità, nonché la situazione dei partiti e le condizioni che Schleiermacher si trovò di fronte. Federico il Grande, al mattino del 13 dicembre del 1740, lasciò Berlino, che gozzovigliava nella gioia del carnevale, e a Krossen andò incontro al suo esercito, iniziando, con giovanile coraggio, ciò che poi, per tutta la vita, lo avvinse alla vittoria e al pericolo, al lavoro senza pace: la capitale, che 1
Per questo capitolo la Berliner Bibliothek, in particolare la serie delle opere collettanee, offre un ricco materiale. Di altri scritti importanti (a eccezione della Geschichte Berlins di König, Mila e altri) cito: Berliner Montasschrift dal 1783; Honoré-Gabriel de Riquetti de Mirabeau, De la monarchie prussienne, Le Jay, Londra-Parigi 1788 (nelle parti in oggetto spesso colorata dall’influsso di Nicolai); Berliner Corrispondenz, 1783; Der Berlinismus, 1788; Ein Neujahrgeschenk für Berliner Einwohner, 1788; Taschenbuch des Montagsclub, 1789; Der Zuschauer und Moqueur von Berlin, 1794; Jahrbücher der preußischen Monarchie, 1797, 1798 (in particolare il famoso saggio di Madame Unger, Berlin. Briefe einer reisenden Dame).
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BERLINO
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egli allora abbandonò, era completamente diversa dalla Berlino di oggi. Era una città grande all’incirca come l’attuale Colonia (Süssmilch, dalla lista dei defunti, stima il numero dei suoi abitanti in circa 100.000): era poco più che un centro amministrativo e di guarnigione; la popolazione, che fu, in ogni epoca, attiva e di lingua tagliente, era abituata alla rigida obbedienza. Non spiccavano neppure particolari interessi letterari. Accanto a un forte sentimento dello Stato emersero a Berlino, avvezza a doveri duramente opprimenti, convinzioni molto salde che inclinavano al pietismo. Dopo la pace di Dresda (1746) estensione, costumi, modo di pensare della città si trasformarono però assai velocemente: si preparava la moderna Berlino. Le feste di corte formavano ancora il centro degli interessi della città e, secondo quanto ci narra un valido storico, il pubblico berlinese era mantenuto, grazie a esse, in una piacevole atmosfera. Tempi incredibili, nei quali il cittadino si rallegrava di vedere feste segrete, che erano state pagate di tasca sua! Ma qualcosa di nuovo iniziò a mutare queste piacevoli condizioni. La città crebbe molto rapidamente negli anni immediatamente successivi alla pace. Nel 1747 il numero degli abitanti si aggirava sui 107.000, compresa la guarnigione di oltre 21.00 uomini; a partire da allora, fino al 1755, la popolazione è cresciuta annualmente di circa 3000 anime. I prezzi si alzarono, il numero di matrimoni diminuì, si notava una rapida crescita della ricchezza, la facoltosa nobiltà della Slesia splendeva a corte. Federico concesse allora libertà di parola e di espressione in materia religiosa, si circondò di una società ricca di spirito ma così frivola che ormai sembrava concesso dire e fare tutto ciò che non fosse contro lo Stato. Federico distrusse il vecchio legame tra interessi dello Stato e interessi della chiesa. «Questo cosiddetto “raffinamento” eliminò, poco a poco, negli abitanti della capitale, i principi che erano stati fino ad allora i moventi della vita cittadina». In queste semplici parole è espresso il punto chiave per giudicare l’illuminismo, che ebbe la sua sede a Berlino in questo secolo. C’era, nei moventi del grande re, qualcosa di estraneo allo spirito generale, qualcosa di inquietante. La sua nobile anima si sentiva vincolata solo al pensiero del dovere, al quale non aggiungeva né paura né speranza, né fede né convinzione filosofica: non era però ancora giunto il tempo in cui tale sentimento del dovere nei confronti dello Stato potesse trasformarsi in un potente motivo anche per altri ceti sociali. Tuttavia il nocciolo del suo volere, a prescindere da quella veste della filosofia francese (semplice veste, in effetti, se si guarda alla formazione della volontà in un Federico e in un Voltaire), iniziò a spronare singoli uomini, dotati di notevole intelligenza o di posizioni politiche di primo rango. Esso era inoltre gradito alle classi medie per il fatto che vi si aggiungeva una filosofia domestica. Il punto di vista del bene dello Stato, anche rispetto ai
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
fenomeni morali e religiosi, era naturale per i pubblicisti. Si affermarono allora, senza trovare ostacoli, una prontezza critica ed indagatrice, una vena negativa, che sono rimaste tipiche, da allora, di Berlino. Questo spirito trovò la sua prima espressione sociale per le classi medie nel club del lunedì (Montagsclub): fondato dal poeta di Federico, Ramler2 insieme a Sulzer3, su iniziativa di un certo Schulthess, un teologo svizzero4, si affiliarono ad esso in seguito Nicolai e Lessing. In quel club il nuovo spirito giunse a suprema potenza poetica e letteraria. Esso emerse per la prima volta nel Gelehrter Artikel della Vossische Zeitung. Il tono epistolare leggero, la forma vivace, il forte sentimento della vita reale e sana che caratterizzavano questi autori suscitarono le lettere di Nicolai sulla letteratura5. Si unì quindi a loro un intimidito commerciante ebreo, solitario, escluso dalla cerchia degli intellettuali di allora, Moses Mendelssohn. Si può affermare che, nel 1755, anno in cui Lessing, Nicolai e Mendelssohn si incontrarono, fu fondata la più antica scuola letteraria di Berlino. A lungo il suo carattere è stato considerato all’ombra dei successivi misfatti di Nicolai. Questi scrittori non portavano la parrucca, come era tipico delle università di allora, non percepivano alcuna pensione principesca: si sentivano, invece, rappresentanti della mentalità della borghesia in forte ascesa, sostenuta dagli interessi, dalle atmosfere e dalle necessità intellettuali di una grande città che cresceva velocemente. Ebbe inizio così l’epoca d’oro di Berlino, nella quale essa prese la guida del movimento spirituale dell’intera Germania. È assai curioso come la Guerra dei Sette Anni sostenne potentemente l’ascesa di questo spirito della città. La popolazione diminuiva, anche se non in modo costante e significativo, ma l’atmosfera nella città era tutt’altro che oppressa. Ovunque c’erano tracce di uno spirito pubblico che andava for2 [Karl Wilhelm Ramler (1725-1798), detto l’Orazio tedesco, perché scrisse odi a imitazione del poeta latino, fu uno dei protagonisti del mondo letterario berlinese, in particolare del cosiddetto Donnerstagsclub, nonché insegnante di filosofia alla scuola per cadetti, su chiamata di Federico il Grande. Nel 1750 pubblicò, insieme a Sulzer, citato da Dilthey immediatamente dopo, le Kritische Nachrichten aus dem Reiche der Gelehrtsamkeit]. 3 [Johann Georg Sulzer (1720-1779) filosofo svizzero, si trasferì in Germania nel 1743, dove entrò in contatto con Sack. Docente di matematica al famoso Joachimstahl Gymnasium di Berlino, entrò nel 1750 alla Akademie der Wissenschaften (dal 1775 fu direttore della classe filosofica) e nello stesso anno pubblicò con Ramler le Kritische Nachrichten aus dem Reiche der Gelehrtsamkeit. Fu chiamato poi dal re all’Ecole militaire. Noto per la Allgemeine Teorie der schönen Künste, Lipsia 1771-1774]. 4 [Johann Georg Schulthess (1724-1804), teologo di Zurigo, trasferitosi a Berlino, entrò in contatto con Ramler e Sulzer, e fondò insieme a loro la Montagsgesellschaft]. 5 [Briefe, die neueste Literatur betreffend, I-XXIV, 1761-1767, scritte da Lessig insieme a Nicolai e Mendelssohn].
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BERLINO
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mandosi nelle cose politiche. Un profluvio di scritti sullo Stato, provenienti da entrambi i partiti, prima di tutti la geniale mémoire raisonné di Hertzberg6, stimolò il pubblico a vivaci dibattiti. Proprio come esperiamo ai nostri giorni, la guerra spinse a pubblicare nuovi giornali, che fecero circolare le notizie più recenti tra le masse. Brochures a buon mercato sugli eventi arricchirono i librai. E niente mostra la connessione di vita e letteratura in modo più convincente del fatto che proprio la guerra trasmetteva alle iniziative estetico-letterarie intraprese a Berlino un’energia più radicale. Nicolai testimoniò apertamente che lo stesso Lessing incitava a fare piazza pulita, anche nel mondo poetico tedesco, di Seraphim, Catone e Dafne, una volta per tutte, con un processo ardito e sommario. Così nacquero le citate Lettere sulla letteratura più recente. Pur nel pieno della crisi della Prussia, Berlino si manteneva al culmine del movimento spirituale. E come si sviluppò Berlino dal punto di vista sociale e spirituale, dopo la vittoriosa conclusione della grande guerra, dopo che si erano formati, in tempi così violenti, sentimento della comunità, senso politico, concezione realistica del mondo? Quella che qui si offre è un’immagine meno brillante, ma molto educativa. Mai si è discusso, dapprima con lode incondizionata e poi con smisurato scherno, su un fenomeno spirituale come su quella vecchia tendenza dello spirito berlinese, che si è formata dopo la partenza di Lessing, nel 1766, e ha dominato fino agli anni Novanta. Schleiermacher e i suoi amici si trovarono ripetutamente costretti a combatterla, in attacchi singoli o in gruppo, scherzando o seriamente. Qui ci si chiariscono forze e debolezze del suo carattere. Questo partito della vecchia scuola berlinese nacque mentre premeva l’assolutismo di Federico il Grande sul movimento spirituale emergente, che abbiamo esposto, rallentandolo, deviandolo, addirittura corrompendolo. Da quel 30 marzo, durante il quale il re, atteso inutilmente fin dal mattino dalle schiere festose di cittadini, cavalcò attraverso le periferie, la sera, verso il suo castello, solo in mezzo al popolo entusiasta, per lo spirito pubblico della città, che era stato allevato dalla guerra, era pronta una serie fatale di delusioni. Abitudini acquisite in molti anni di vita militare, tipiche del generale che è costretto, in situazioni terribili, a considerare valido ogni mezzo, e a ritenere l’obbedienza, fino alla morte, come l’unica virtù di un uomo, insieme ad esperienze di altro tipo, che non sono risparmiate a nessun principe e che resero assoluta la sua inclinazione al disprezzo degli uomini, avevano violentemente mutato la natura del re: l’esile fusto era diventato nodoso. La 6 [Conte Ewald Friedrich Herztberg, 1725-1795, uomo di Stato sotto Federico, noto per le sue erudite ricerche sulla storia prussiana e per la sua intensa attività come archivista].
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sua durezza pesava sugli affari e sulle finanze. Se si confrontano le cifre della crescita di Berlino dopo la pace, si rimane stupiti di constatarvi un aumento della popolazione inferiore rispetto ad altri periodi precedenti e successivi. I provvedimenti del re incisero senza pietà anche nei semplici piaceri dei cittadini. Fumatori e fiutatori di tabacco brontolavano per le intromissioni nei diritti naturali dell’uomo; si offriva in città un divertente colloquio sul caffè tra un paio di vecchi invalidi, accanto alla canzone di addio di una vecchia zitella alla sua caffettiera. Il re concedeva ai suoi berlinesi solo il diritto allo scherzo, che era tuttavia notevolmente frenato dalla paura del vecchio leone di Sanssouci, i cui artigli erano imprevedibili. Lo spirito per la discussione seria sul bene comune, che emerse allora, era limitato invece alle questioni letterarie e religiose o svalutato a misera robaccia e adorazione ossequiosa. Sopravviveva questo spirito nella rappresentazione di Berlino fatta da Nicolai nella Descrizione di un viaggio attraverso la Germania e la Svizzera nell’anno 17817, nei saggi di Biester8 su singole questioni amministrative e su singole istituzioni, nella obbediente Monatschrift, nei dibattiti del club del lunedì, ma degenerato e vincolato. Intellettuali come Büsching9 e Süssmilch10 trovarono presso il pubblico grande partecipazione, ma dalle loro compilazioni statistiche furono tratti risultati unilaterali. Il più importante scrittore politico che viveva a Berlino, Dohm11, taceva, da quando era impegnato al ministero degli esteri in incarichi di prim’ordine. Le varie lezioni private, che, nel 1786, ammontavano a non meno di 21, tra cui quelle di fisica sperimentale di 7
[Beschreibung einer Reise durch Deutschland und die Schweiz im Jahre 1781, 1783-1796]. [Johann Erich Biester (1749-1816), personalità di spicco della Berlino del tempo, collaboratore delle Erneute Berichte von gelehrten Sachen e della Allgemeine Deutsche Bibliothek, fu segretario del ministro von Zedlitz. Fondò, con Friedrich Gedike, la Berlinische Monatsschrift, organo dell’illuminismo berlinese (dal 1797 Berlinische Blätter). Nel periodo 1799-1811 fu tra i curatori della Neue Berlinische Montaschrift. Dal 1784 fu bibliotecario di corte di Federico, membro della Akademie der Wissenschaften e della Montagsgesellschaft. La sua fortuna terminò dopo l’editto di Wöllner. Fu curatore delle opere di Federico II]. 9 [Anton Friedrich Büsching (1724-1794), fondatore del moderno metodo politico-statistico in geografia. La sua Neue Erdbeschreibung, uscita nel 1754, fu poi tradotta in molte lingue e riconosciuta come ricca fonte di informazioni per la descrizione della terra. Fu redattore di molte riviste, tra cui, negli anni 1767-1788, il Magazin für die Historie und Geographie der neueren Zeit]. 10 [Johann Peter Süssmilch (1707-1767), parroco evangelico e studioso di scienze naturali: con l’opera Die göttliche Ordnung in den Veränderungen des menschlichen Geschlechtes, del 1741, ha avviato gli studi di statistica della popolazione]. 11 [Christian Wilhelm Dohm (1751-1820), redattore del Deutsches Museum, fu dedito all’attività politica, di cui diede testimonianza negli scritti storiografici, in particolare in Denkwürdikeiten meiner Zeit von 1778-1806. Nel 1781, sollecitato da Mendelssohn, pubblicò il primo scritto sull’emancipazione degli ebrei]. 8
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Herz, e quelle di Moritz sulle scienze del bello, testimoniano i forti interessi spirituali presenti nella città. E altrettanto evidente è che prevaleva sempre in esse una tendenza realistica e pratica. Addirittura la poesia, per quanto solo una piccola parte di essa fosse distribuita in questa onorata società, è assolutamente realistica, volta alla ricerca di una connessione con interessi pratici, che fossero naturalmente il più possibile innocui. Non si può negare che Nicolai fece una grande presa su questa situazione, cimentandosi nel romanzo sociale, tagliente riflesso realistico della società, che era il preciso scopo di questa tendenza realistica, e ne diede un esempio degno di attenzione nel Sebaldus Nothanker12. Proprio nella mediocrità di questi uomini, delle loro azioni e dei loro destini il romanzo di Nicolai è un fedele specchio della borghesia, della burocrazia, del ceto intellettuale berlinese di allora. Qualcosa di simile fu intrapreso da Engel e da Moritz. Lo spirito berlinese si sentiva a casa soprattutto nelle riviste e nella produzione illuministica di carattere pratico e di breve respiro. Il numero di tali pubblicazioni fa spavento. La Allgemeine Deutsche Bibliothek, l’organo di Nicolai, superò tutte le altre. Dopo che Lessing se ne andò, in nessun momento Nicolai dubitò di rappresentare l’intellettualità berlinese, considerando l’impegno per la formazione e l’illuminismo tedeschi come la missione della sua vita. Così si impossessò, prima di tutto, di ciò che allora era chiamato “illuminismo religioso”, e che abbiamo esposto nel primo volume di quest’opera. Ma nelle sue mani e in quelle dei suoi amici, esso perse la spregiudicatezza che gli era propria, la umile e sana autolimitazione. Essi si atteggiavano ad amministratori dell’illuminismo: trasferivano sul suo terreno qualcosa dell’assolutismo di Federico e credevano che solo nelle forme, nelle quali il governo fridericiano amministrava l’illuminismo, fosse possibile proteggere l’illuminismo stesso. Fu istituita, nella Monatschrift e nella Bibliothek, una inquisizione contro i sentimenti, estetici e religiosi, che si insinuavano nell’ombra, senza lasciarsi risolvere nel sano intelletto comune. Questa tendenza dominava presso i giudici e i consiglieri dei collegi, negli uffici della chiesa; Teller e Zöllner13 la rappresentavano tra gli ecclesiastici, Gedike nella scuola; in ambito letterario, accanto a Nicolai, 12 Nicolai, Das Leben und die Meinungen des Herrn Magister Sebaldus Nothanker, I-III, 17731776. 13 [Wilhelm Abraham Teller (1734-1804), teologo evangelico illuminista, fu chiamato a Berlino da Federico il Grande nel 1767. Oltre che al Wörterbuch des neuen Testaments zur Erklärung der christlichen Lehre (1772), il suo nome è legato al confronto con gli ebrei illuminati, che chiedevano i diritti civili. Sua è la Beantwortung des Sendsschreibens einiger Hausväter jüdischer Religion an mich, den Probst Teller, del 1798, in relazione alla quale intervenne lo stesso Schleiermacher. Cfr. infra, pp. 296 ss. Anche Johann Friedrich Zöllner (1753-1804) fu prevosto a Berlino].
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essa si riscontra anche in Biester, Engel e Ramler. Ancora nel 1796 Nicolai fu eletto all’Accademia. Questo era il più vecchio spirito di Berlino. Ma il giudizio più tagliente su un uomo come Nicolai, cioè che egli esercitava la sua critica gretta su fenomeni spirituali a lui del tutto incomprensibili, va respinto, se si osserva quanto insignificanti fossero tutte le altre tendenze della sua anima a confronto con l’entusiasmo per il bene comune della classe borghese, per la fama del suo re, per la posizione della Prussia in Europa, e se si sente parlare dei sacrifici, che egli, nel 1806, si affrettò a sostenere, nonché del turbamento che lo costrinse allora in un ospedale e dal quale non dovette più riprendersi. Nel senso dello Stato e nella mentalità pratica e realistica ad esso legata stava la forza di questi uomini e, visti i tempi, il motivo del profondo dispiacere, della crescente sterilità, addirittura dell’incapacità di comprendere ciò che di grande quest’epoca fu in grado di produrre seguendo un’altra direzione. In altre cerchie di Berlino, al termine della vita del grande re, divenne visibile un effetto del governo assoluto sulla vita spirituale della capitale in trasformazione, fino ad ora poco discusso, ma che fu molto ricco di influssi. Venne alla luce allora una letteratura fatta di pamphlets, di attacchi astiosi, di satire, espressione naturale di una società metropolitana vivacemente animata, che si sente esclusa dalla effettiva partecipazione all’interesse pubblico. Nella società parigina, più chiusa ed esclusiva, nacque, sotto il regime assolutistico, lo stesso prodotto astioso, dal tono però più elegante, più mordace. Esso si originò, a Berlino come a Parigi, dalla stessa alterazione dello sviluppo. Tali fenomeni sotto Federico erano ancora, per lo più, limitati al piccolo pettegolezzo borghese. Le misere scartoffie del consigliere di guerra Krantz, che dapprima iniziò a giocare il ruolo di un Rabener14, e a far passare la sua ricerca di scandali per patriottismo (ad es. la Corrispondenza berlinese e i Dipinti dalla Berlino attuale), venivano divorate. Egli illustra il lusso e la frivolezza della Berlino del 1783 nei toni più esagerati. Parla come se allora le donne berlinesi dei ceti superiori fossero state costantemente in vendita. Questo stile piaceva ed era proseguito da altri con ancora maggior compiacimento. Lo si trovava un po’ forte, ma talentuoso e utile. La morale, letta un tempo dal pulpito, appariva ora come la rispettabile opera di un satirico. Questa tendenza distruttiva dell’interesse spirituale, rivolta ai dettagli della vita privata, si rinforzò sotto il successivo governo. La letteratura scandalistica si estese enormemente. Krantz, che sotto Federico aveva dovuto 14
[Gottlieb Wilhelm Rabener (1714-1771), scrittore satirico, collaboratore dei Bremer Beiträge dal 1751 al 1755. I suoi scritti pungenti, che gli valsero l’appellativo di “Swift tedesco”, sono raccolti in Sammlug satirischer Schriften].
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abbandonare la regione, poiché aveva rubato una cassa e aveva venduto tre volte un cavallo, poté allora ritornare, addirittura i ministri dovevano difendersi dalle proposte di riassumerlo. Tra questi scrittori senza nome si fece strada anche Garlieb Merkel15 che, insieme a Falk, sottopose ad analisi la vita privata della giovane generazione, di Friedrich Schlegel, di Schleiemacher, di Tieck. Per quanto si discerna, nelle descrizioni dei costumi della Berlino di allora, ciò che è dovuto alla necessità di questo mestiere satirico, è pur vero che i costumi della società berlinese decaddero visibilmente e in modo repentino a partire dagli anni Ottanta. Contribuirono a ciò, in un primo momento, la corte senza donne e le simpatie francesi di Federico, in seguito il carattere sensuale e passivo del suo successore. Già nel 1779 Forster trovò che a Berlino l’ospitalità e il buon gusto nei piaceri della vita erano degenerati nell’eccesso e nella crapula, e la libera mentalità illuministica era diventata arrogante lassismo e sfrenato libertinaggio: il sesso femminile era generalmente corrotto. Sotto il successore del grande re scemò l’interesse per lo Stato, che i piaceri della vita privata ricompensarono in misura crescente. Si devono leggere le lettere segrete di Mirabeau da Berlino, la prima delle quali inizia affermando «le roi de Prusse va mourir»16, per cogliere l’atmosfera pesante nella quale la capitale prussiana guardava alla battaglia del grande re con la morte, durata più mesi, e per percepire la poca speranza, con la quale si accompagnarono i primi passi del nuovo governo, nonché la profonda depressione che i passi ancora successivi provocarono. «In una parola», diceva Mirabeau, «tutto si è contratto nel piccolo, come tutto prima si era dispiegato nel grande». Dalle descrizioni si evince come ciò agì sui costumi. Alcune cose, sottolineate con rimprovero, furono in realtà un utile progresso, come il fatto che le classi superiori cominciavano ad abitare in spazi più ampi e a circondarsi di mobili più leggeri e comodi; diventarono di moda allora in città i mobili di mogano. Altri aspetti erano legati inevitabilmente allo sviluppo di una grande città, come l’inclinazione delle classi inferiori al lusso nel vestire, il piacere per il romanzo e per la commedia. Alcuni tratti 15 [Garlieb Merkel (1769-1850), nativo di Riga, divise la sua attività di scrittore tra la ricostruzione della storia della Lettonia (Die Letten, vorzüglich in Liefland, am Ende des philosophischen Jahrhunderts, 1797) e l’attività pubblicistica antiromantica. Legato alla cerchia di Böttiger, Engel, Wieland, Kotzebue, fu molto attivo nel contrastare la nuova scuola berlinese: sono testimonianza di questa posizione, in particolare, le Briefe an eine Frauenzimmer über die neuesten Produkte der schönen Literatur in Deutschland, 1801-1803. Fondò la rivista Ernst und Scherz. Ein Unterhaltungsblatt literarischen und artistischen Inhalts, che nel 1804 confluì nel Freymüthige, edito insieme a Kotzebue]. 16 Mirabeau, Histoire secrète de la cour de Berlin, I, Dupont, Parigi 1789, p. 1.
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di immoralità dipendono evidentemente, qui come ovunque dove emergono, dalla rovina del senso sociale dell’onore, che coinvolgeva la corte e la città. Dominava una grande insicurezza sulla fede matrimoniale, cosicché si udivano spesso e volentieri parole sfacciate sull’onore delle donne: gli stessi intrighi amorosi occupavano un grande spazio nell’interesse e nella vita degli uomini, e le rivelazioni a questo proposito erano l’oggetto preferito della stampa, che solo a questo riguardo era veramente senza freno. Proprio questi aspetti sono in curiosa contraddizione con la coercizione religiosa, che sopraggiunse da quando Wöllner, nel 1788, assunse la direzione del dipartimento dell’istruzione, e con le anguste forme borghesi in società: uomini e donne non avevano un libero scambio sociale, ci si intratteneva in circoli giocando a carte o con gli spettacoli borghesi di Iffland, la cui morale si diluì presto nel piagnucoloso perdono e oblio degli eroi di Kotzebue. Queste erano dunque le condizioni intellettuali e morali della vecchia Berlino, che Schleiermacher trovò dominanti ancora negli anni Novanta. Per quanto la nuova generazione si scagliasse decisamente contro la direzione della vecchia Berlino, anch’essa si trovava a vivere nelle medesime condizioni della capitale della Germania settentrionale; anzi, la formazione dello spirito pubblico di questa comunicava anche alle nuove tendenze la propria forma e il proprio colore. Essa ereditò la pretesa alla guida dello spirito tedesco e la vivace attività giornalistica; ciò che fu accolto prese il colore della nuova tendenza, cioè quella forma di caustica esagerazione e di incondizionata generalizzazione, che nasce dall’intenzione di agire su una società molto occupata. I problemi sociali e morali, che si impongono in seno a una grande città nelle pause della politica, furono risolti dalle poesie e dalle ricerche dello spirito tedesco; e qualcosa del frivolo piacere della vita e dello scetticismo morale ad esso connesso, qualcosa dell’inquietudine tipica della grande città, dell’ansia di vivere, che non consente di raggiungere nessun quieto equilibrio esistenziale, si comunicava anche ai moralisti e ai poeti. In queste condizioni penetrarono nella più giovane generazione di Berlino il nuovo spirito, il nuovo ideale di vita, la visione del mondo esposti nel precedente capitolo. Certo, anche Nicolai e Mendelssohn si richiamavano a Lessing, a quel Lessing che, un tempo, aveva redatto le sue prime rassegne estetiche collaborando con loro; ma a ragione Friedrich Schlegel riteneva necessario spiegare loro che l’elemento più incisivo dell’esistenza di Lessing era da cercare nel grande e libero stile della sua vita, che trovò poi nella sua filosofia un’espressione cosciente di sé. Il saggio schlegeliano su Lessing del 179717 17
Über Lessing, 1797.
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derubava i vecchi compagni del grande uomo della loro suprema autorità, grazie alla quale avevano perpetrato la loro signoria. Radicale fu poi l’effetto di Goethe, nel quale il nuovo ideale di vita venne alla luce in piena libertà. Anche all’interno di queste cerchie solo il Wilhelm Meister inaugurò la piena comprensione di Goethe. Allora la giovane generazione apprese a sentire il libero valore della persona e a dedicarsi con gioia di vivere alla pienezza delle relazioni umane, confidando nell’attimo, con grande piacere per la propria esistenza e piena sensibilità per l’individualità degli altri. La vita, con tutta la poesia in essa racchiusa, sembrò allora aprire il suo occhio luminoso. La poesia, ancora una volta, era riuscita nella grande opera di rendere accessibile, nella calma e serena riflessione, il contenuto infinito dell’esistenza, che emerge altrimenti nell’impulso inquieto dell’animo, delle passioni, della volontà. Iniziò così un’epoca splendida, anzi, l’epoca fino ad oggi più splendida della società berlinese. I periodi in cui la socievolezza (Geselligkeit)18 si è realizzata nel modo più perfetto sono rari come quelli di massimo sviluppo artistico. Erano necessarie, infatti, per l’emergere di tali periodi, non solo condizioni esteriori di benessere e di tranquillità, bensì anche quella libera gioia per l’individualità e per le sue esternazioni, che ricongiunge le diverse classi sociali nell’apprezzamento della formazione personale: la realizzazione della socievolezza si basa prima di tutto, infatti, sul fatto che gli uomini sentono un forte impulso a far valere la propria persona al di là di tutte le intenzioni particolari che nascono dalla vita pratica. Iniziò allora per Berlino un’epoca simile, caratterizzata da relazioni sociali non solo brillanti, ma veramente significative, come quelle che si erano sviluppate, in epoche diverse, ad Atene, a Firenze, a Parigi. Un’espressione della visione della vita, sulla quale essa si basa, ci è disponibile negli scritti di Varnhagen: un uomo dotato dello splendido talento descrittivo di fissare per i posteri l’immagine di personalità, che avevano raggiunto un grande prestigio sociale, senza essere intervenuti in un qualche settore della vita pratica. La necessità stessa, lo spirito in cui questa immagine fu progettata, illustrano l’epoca altrettanto bene delle persone di cui egli ci ha lasciato il ritratto. Tutto allora si basava sul forte interesse per l’individualità e per il suo valore autonomo, che si fa valere nella società. Solo dove questo interesse ha raggiunto un livello non 18
[Geselligkeit viene tradotto solitamente con “socievolezza”: si è fatto uso anche dei termini “socialità” o “compagnia”, nel caso fossero più consoni alla resa italiana. Tuttavia è opportuno ricordare che, molto spesso, Dilthey utilizza questo termine, in senso stretto, riferendosi allo specifico ambito di rapporti sociali tra individui teorizzato da Schleiermacher nell’etica: cfr. Schleiermacher, SW, III, 5, pp. 307 ss.].
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
comune, può produrre una società così brillante, notevole e movimentata, come fu quella di allora. Si è spesso discusso su quale elemento sociale della Berlino di allora abbia stimolato la formazione di una tale socievolezza, che dovette svilupparsi in quest’epoca caratterizzata da una sublime concezione poetica della vita. C’era a Berlino un elemento sociale emergente, desideroso di formazione, fortemente stimolato dalla ricchezza, dalla lontananza dalla corte e da cariche ufficiali, da un’instancabile ambizione a creare un siffatto regno di valore personale. Il ricco commercio era formato prevalentemente da ebrei. Mirabeau sottolinea che a Berlino c’erano pochi commercianti che possedevano da 150 mila fino a 200 mila livree di patrimonio, pochissimi che possedevano 400 mila livree: questi ultimi erano quasi esclusivamente ebrei. Nel 1798 il loro numero a Berlino si aggirava intorno a 4500 su una popolazione totale di 142 mila abitanti (esclusa la guarnigione): la loro ricchezza, il loro sperpero esagerato, la loro presunzione erano assai spiccati. Mendelssohn esercitò un inestimabile influsso sulla formazione tedesca della nazione ebraica. In Dohm gli ebrei trovarono poi un importante pioniere per avviare il loro ingresso nello Stato; il suo scritto Sul miglioramento della condizione civile degli ebrei del 1781 suscitò un dibattito letterario molto vivace, al quale si aggiunse, nel 1787, anche Mirabeau. Abili intellettuali di nazionalità ebraica, come Friedländer19, Herz, Bendavid20, Maimon affiancarono Mendelssohn. Questi, insieme al maestro di cappella Reichardt, fu uno dei primi a Berlino, nonostante le sue relazioni limitate, ad avere una casa aperta agli ospiti e a ricevere presso di sé stranieri d’eccellenza. Allora cominciarono a farsi notare le mogli e le figlie dei mercanti ebrei, intelligenti, dotate di un entusiasmo inquieto (Schwärmerei), di grande capacità di apprendimento e formazione e libere da impegni; esse furono maritate presto e senza troppo consultare i loro cuori. Subito influì sulla loro formazione lo spirito vivace della casa di Mendelssohn. Nel 1778 la figlia di questi, Dorothea, di appena diciassette anni, sposò il banchiere Veit, secondo la volontà del padre, senza 19
[David Joachim Friedländer (1750-1834), educato da Mendelssohn, faceva parte del circolo degli amici della letteratura ebraica, che dal 1783 si dedicò alla rivista Der Sammler. Si impegnò nella battaglia per il riconoscimento dei diritti civili degli ebrei, che si concluse con l’editto di uguaglianza dell’11 marzo 1812. Fu l’autore del Sendschriben an der Propst Teller, per il quale cfr. infra, pp. 296 ss.]. 20 [Lazarus Bendavid (1762-1832) fu redattore della Spenersche Zeitung, attraverso la quale rese noto il kantismo al grande pubblico. Fu tra i pochi fautori del riconoscimento dei diritti civili degli ebrei a sostenere che gli ebrei avrebbero dovuto prima rinunciare alle leggi cerimoniali (cfr. Etwas zur Charakteristik der Juden, 1793). Dal 1778 collaborò alla Jüdische Freischule fondata da Friedländer, che accoglieva anche bambini cristiani e, dal 1806, ne prese la direzione. La scuola fu costretta a chiudere nel 1826].
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amarlo. Ella portò l’ospitalità e la colta socievolezza, tipiche dalla casa di suo padre, nelle più ampie relazioni sociali nelle quali entrò a far parte. Un anno dopo, la sua avvenente amica Henriette de Lemos, anch’essa allevata sotto la protezione del filosofo ebreo, ancora bambina sposò il famoso medico Markus Herz. Anche la Herz raccolse subito intorno a sé un’ampia cerchia di ospiti e la sua bellezza era così unica nella città che tutti gli uomini importanti visitavano la sua casa e lo stesso Nicolai, uomo molto fine e timido in società, le rendeva omaggio. Questo accadeva ancora sotto Federico il Grande: in un primo tempo dominarono nei saloni di queste dame gli interessi letterari della più vecchia scuola berlinese. Nel gruppo di lettura, che si raccoglieva settimanalmente presso Dorothea Veit, si trovavano David Friedländer, Herz, Moritz: Dorothea, come la sua amica Henriette, guardava verso la sedia del vecchio Mendelssohn per carpire la sua approvazione. Nel grande gruppo di lettura, che si raccolse in seguito, nel 1785, presso la moglie del consigliere di corte Bauer, nel castello del re, sotto la guida dell’esperto teatrale Engel, si fecero largo, accanto a Moritz, Teller, Zöllner, Dohm, i fratelli Humboldt, appena ragazzi, ma già eccellenti nelle premure per le belle dame. Questo scenario idilliaco doveva presto mutare. Goethe è stato a Berlino nel 1778, ma ai berlinesi piacque quasi altrettanto poco quanto loro piacquero a lui. Moritz, che comprendeva lo spirito più genuino della poesia di Goethe profondamente e con grande entusiasmo, si impegnò per lui, come anche il maestro di cappella Reichardt, Zelter (i primi due compositori delle sue canzoni), e molti altri. Ma una cosa era intendere in modo chiaro e puro il contenuto radicalmente nuovo della poesia di Goethe, un’altra era, per così dire, comprendere la vita sotto il punto di vista di questo grande poeta. Questo poté farlo solo la giovane generazione, che si liberò definitivamente, in tal modo, dall’influsso della vecchia scuola berlinese. Goethe era la parola chiave che esprimeva la netta separazione tra la vecchia e la giovane generazione. Solo allora, sotto l’influsso di Goethe, si formò la nuova società. Già nell’agosto del 1795 Rahel scriveva che Goethe era il punto di riunificazione di tutto ciò che la parola uomo può e vuol significare21. Nulla richiama alla memoria più chiaramente lo splendore e le ombre di questa nuova società che la vita di questa donna ardentemente passionale, che bisogna ricavare dalle lettere a Veit, da poco pubblicate in forma non abbreviata, e non dagli arrangiamenti fatti da Varnhagen. Il padre era un 21 Rahel a Brinkmann, in Rahel. Ein Buch des Andenkens für Ihre Freunde, I-III, Duncker e Humboldt, Berlino 1834, p. 144.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
gioielliere benestante, senza particolare educazione, il cui buffo dispotismo pesava sulla famiglia. Egli riceveva molte persone, soprattutto attori. Rahel stessa, quasi dieci anni più giovane della Veit e della Herz, non stava in rapporti veramente stretti con questi, bensì frequentava di preferenza le attrici. Vedeva intorno a sé i tipi più vari, ma sapeva bene cosa pensarne. Qui passarono Gentz e la signorina Eigensatz, la sua amante; addirittura il principe Louis Ferdinand e Pauline Wiesel. Ci si spaventa di fronte alla passione con la quale Rahel, nel suo intimo scambio epistolare, percepisce il destino di essere un’ebrea: si sente come un’emarginata. Al contempo si nota quanto persegua sistematicamente, nonostante la sua sensibilità per l’attimo, il progetto di sollevarsi dalla cerchia in cui aveva trascorso la giovinezza, per avere relazioni paritarie con i ceti superiori. È noto in che misura ciò le riuscì; il salotto della signora von Varnhagen rappresentò, accanto a quello della signora von Arnim, ancora nel nostro secolo, quella perfetta libera socievolezza di Berlino, che dovette fare posto in seguito ad altre forme di relazione. Anche altre amiche riuscirono a imporsi alla buona società. Giocarono un ruolo significativo in tal senso due sorelle, delle quali la prima fu la moglie di Grotthuis, l’altra fu data in sposa al principe Reuß, un uomo sgradevole e anziano: ottenne in seguito il titolo von Eybenberg. Il legittimo impulso ad affermarsi in società apparve, presso nature di minor valore, in forme meno piacevoli, tanto che si osservava come le dame si affrettassero a salire i gradi più alti della formazione, senza aver toccato quelli di mezzo. Un incredibile effetto esercitò questa nuova società, che si estese all’intera Berlino, sui talenti della più giovane generazione. Sussiste un’importante connessione, fino ad oggi non ancora esaminata scientificamente, tra le tendenze sociali e quelle spirituali. Le grandi epoche della poesia sono collegate, in ogni tempo, con un vivace sviluppo della socievolezza, e con una notevole libertà individuale nei rapporti sociali. Goethe si creò a Weimar delle condizioni capaci di soddisfare questa necessità. Con ingenua disinvoltura viveva come poetava. Allora il suo ideale di vita si impose in questa società metropolitana, in mezzo al suo radicato scetticismo nei confronti delle sensazioni puramente ideali, in una così grande libertà di vivere, e nel mutare repentino di desiderio e piacere: nacquero da questo ideale di vita le teorie del diritto senza limiti della passione. La società ne fu profondamente sconvolta. Si deve guardare a Gentz, Tieck, Bernhardi, Friedrich Schlegel in un certo senso come ai prodotti di questa società. Una tagliente, realistica conoscenza dell’uomo e disinvoltura nelle relazioni sociali davano spazio a un desiderio senza limiti; la creazione spirituale stessa era considerata al servizio della vita della passione; nacquero su questo terreno tendenze che
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minacciavano la famiglia. Un fenomeno come Genzt trova suoi pari solo nella società italiana del Rinascimento o in quella francese. Tuttavia anche chi considera quanto la libertà delle passioni abbia il suo saldo limite nel bene della totalità, e quanto più profondamente comanda una legge interiore, che ha collegato il valore assoluto della nostra persona e della nostra esistenza al progresso, alla giustizia e alla tranquilla fedeltà, non può considerare senza ammirazione il ricco dispiegarsi in questa società della gioia di vivere, dell’individualità, dei rapporti vivaci. Allora fece ingresso in questa società Schleiermacher, l’uomo che doveva dare a tutto ciò che di duraturo era contenuto nel suo impulso alla libertà un’immortale espressione.
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ENTRATA IN SOCIETÀ
Schleiermacher era ventottenne quando, nel settembre del 1796, si trasferì nell’abitazione destinata al predicatore nell’ospedale Charité di Berlino. Per quasi sei anni, fino ai trentaquattro anni, dovette rimanere come predicatore in questo istituto. Il posto lasciava molto a desiderare. La riforma dell’organizzazione interna di questo ospedale e il restauro esteriore, che ebbero luogo proprio in questi anni, lo rendevano molto turbolento e per alcuni aspetti sgradevole. Dai nuovi impianti del ponte sull’Alsen si vede estendersi un edificio colossale, con lunghe file di robuste finestre sulla facciata: è l’ospedale pubblico di Berlino, dedicato “all’amore cristiano”. Quando Schleiermacher entrò al Charité, esso offriva tutta un’altra vista. La città, che era in grande estensione, non aveva ancora raggiunto allora il solitario edificio, costruito ottant’anni prima completamente isolato dalla città come lazzaretto durante la peste. I dintorni erano deserti, non edificati, addirittura senza selciato. L’ospedale era originariamente una casa a due piani, sopra alla quale era stato posto un terzo piano, sulla cui saldezza vi erano notevoli dubbi. Questo terzo piano ospitava alcuni reparti dell’ospedale non molto attraenti e, separati da quelli, il pastore luterano e quello riformato. Schleiermacher doveva essere assai poco viziato, poiché trovò la sua abitazione veramente comoda e si rallegrava per la vista sul giardino della scuola veterinaria. Lo preoccupava, invece, il restauro che era in corso dal 1785. Fino al 1787 si era lavorato nell’ala nord-ovest del nuovo edificio, che si trova dopo la casa degli invalidi; poi, quando fu messa mano all’altra ala, egli dovette abbandonare la sua camera. Si trasferì allora in un’abitazione al di fuori della Oranienburger Tor, sulla Chaussestrasse, che a quel tempo era ancora una solitaria strada di campagna, lungo la quale si trovavano solo poche case, molto distanti l’una dall’altra. Fu un soggiorno molto rustico.
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L’organizzazione interna dell’istituto, di cui ormai faceva parte, era tutt’altro che piacevole. Il piano terra della casa serviva allora come ospedale, nel secondo piano e in una parte del terzo c’era posto per circa 250 malati. Nell’anno precedente il soggiorno di Schleiermacher ne furono ricoverati 3325. Tutto questo era gestito dal Direttorio per i poveri di Berlino. Un ispettore superiore aveva la direzione economica, e ad esso facevano riferimento i medici, i due pastori e il personale di servizio. Considerata l’organizzazione, il punto di vista medico non poteva certo imporsi. Dalla bocca di tutti quelli che avevano a che fare con l’ospedale proveniva un grido di orrore per le condizioni igieniche. Appena dopo l’arrivo di Schleiermacher i più alti funzionari sollevarono, tutti insieme, amare proteste per il cibo, che era preparato da un bizzarro personale di cucina, composto da malati ormai guariti, che pagavano così i costi della loro cura. Chi giungeva all’ospedale dopo aver visitato la vicina scuola veterinaria, scherniva molto malignamente la situazione del Charitè, comparandola con quella dello splendido edificio: Falk diceva che la scuola di veterinaria era il luogo dove si trattavano i cani come uomini e il Charitè il luogo dove si trattavano gli uomini come cani. Durante il secondo anno di servizio di Schleiermacher al Charitè, Prahmer1, il suo collega luterano, ebbe il coraggio e il merito, contestando una descrizione presentata negli atti di Biester (cioè le relazioni dell’ispettore superiore), di esporre al Direttorio per i poveri la vera situazione e le più imminenti necessità dell’ospedale. Il re ordinò un’ispezione immediata, la commissione trovò che tutto era ancor peggio di come il pastore aveva esposto, e da quel momento iniziò, sotto la direzione di un medico competente, la riorganizzazione dell’ospedale. Nella corrispondenza di Schleiermacher trovo menzionati solo una volta questi fatti, che fecero allora molto scandalo in città, poiché furono discussi in scritti polemici di Biester, Prahmer, Falk2 e altri. Lo zio chiede come era andata a finire la storia del collega luterano: «ho visto annunciato nel giornale un breve scritto polemico» (contro il suo promemoria), «ma Lei stesso pare temere che anche presso il Direttorio per i poveri questo passo
1
[Johann Georg Wilhelm Prahmer (1770-1812), predicatore al Charitè. Il testo a cui fa riferimento Dilthey è: Einige Wörte über die Berlinische Charité, zur Beherzigung aller Menschenfreunde, 1798.] 2 [Johannes Daniel Falk (1768-1826), studioso di letteratura, legato a Friedrich August Wolf e in seguito a Wieland, fu molto apprezzato per i suoi scritti satirici. Intensa fu la sua attività politica e filantropica: oltre che mediatore, dopo la disfatta di Jena, tra francesi e prussiani, fondò Freunde in der Not, poi Falk’sches Institut, per aiutare i bambini in difficoltà al termine della guerra].
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
venga preso male»3. Si nota, in ogni caso, che tutt’altri interessi tenevano occupato Schleiermacher. La sua attività come predicatore non era limitata agli abitanti dell’ospizio e dell’ospedale. Anche molte persone provenienti dal quartiere confinante con il Charitè si recavano alla sala di preghiera dell’ospedale. Questo servizio ecclesiastico era suddiviso tra lui e il suo collega luterano. Ai riformati appartenevano, a Berlino, solo il duomo e la chiesa parrocchiale: altre dieci chiese erano in comune con i luterani, fra queste la chiesa del Charitè. Per ulteriori doveri d’ufficio non c’era tra la popolazione di Berlino, né era in uso tra i predicatori allora, alcun punto di riferimento. Era passata, per il momento, l’epoca in cui importanti predicatori occupavano, nella vita della città, un posto di primo piano. Di Teller, Zöllner, Ermann, dallo stesso Sack non c’era da elogiare nessuna straordinaria capacità attrattiva. Il pubblico di Schleiermacher non era tale da consentirgli di influenzare, attraverso esso, lo spirito religioso della città. Il grande oratore doveva abbassare molto il tono al quale era stato abituato dai suoi entusiasti uditori di Landsberg. Egli stesso notava espressamente, in occasione della prima raccolta delle sue prediche, che non avrebbe potuto accoglierne nessuna di quelle tenute alla chiesa del Charitè, poiché i suoi ascoltatori di lì gli avevano mostrato necessità diverse rispetto a quelli di Landsberg, Potsdam o altre chiese di Berlino. La predica di ingresso, che è stata conservata, mostra quanto egli comprendesse seriamente questa necessità: «Non fatemi chiedere inutilmente la benevolenza, l’amore fraterno, che si deve accordare ad ogni cristiano, che chiedo in misura ancora maggiore come vostro compagno, e di cui prego voi tutti, a partire da quelli ai quali è affidato il controllo di questo istituto, fino a quelli che vi hanno trovato un luogo di rifugio nella sventura e nelle debolezze dell’età. Accettatemi come vostro amico con amore»4. «Qui», così concepisce la situazione sulla quale è destinato ad agire, «dove è accumulata così tanta miseria senza colpa a quanto pare, che suscita così tanti lamenti dolorosi, e dove, al contrario, si affronta la miseria causata con così ottusa indifferenza, con spudorata arroganza, può nascere facilmente il pensiero se sia proprio vero che il Dio del cielo guardi giù verso i figli dell’uomo e abbia innalzato il suo trono a tribunale. Dove vediamo così tanti uomini, nei quali pare non esserci mai stata traccia di una migliore disposizione d’animo, presso i quali la coscienza ha perso tutti i diritti, cosicché fino all’ultimo momento rimangono insensibili nei confronti della loro triste situazione e liberi da rimproveri, qui può insinuarsi facilmente il dubbio se la legge 3 4
KGA V, 2, Lettera di Stubenrauch, 4 novembre-6 novembre 1798, n. 539, p. 433. SW, II, 7, p. 380.
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dell’Altissimo è veramente scritta nel cuore di tutti gli uomini»5. Di fronte a tali ascoltatori egli era richiamato ai semplici tratti della moralità cristiana, e non poteva perciò ancora manifestare il suo più alto talento oratorio. Si spiega in tal modo che la sua eloquenza fuori dal comune, anche se così discreta nei suoi mezzi, sia passata inosservata. Schleiermacher riuscì, per molti anni ancora, a studiare, con tutta la disinvoltura di una giovinezza poco considerata, e con pieno agio, gli uomini, la società, il grande sviluppo spirituale della sua epoca. La sua posizione lo condusse innanzitutto in una società che può rappresentare bene, con la sua raffinata moderazione, l’aristocrazia della vecchia scuola berlinese. Tra i Sack e gli Stubenrauch, antiche famiglie di predicatori riformati, c’era un cordiale rapporto. Il predicatore di corte Samuel Gottfried Sack, capo della Chiesa riformata, era allora quasi sulla sessantina. Già suo padre era stato predicatore al Duomo: come la maggior parte degli uomini la cui vita è decisa da una seria tradizione di famiglia, era moderato, cosciente di se stesso, molto affidabile e un po’ pedante. Possedeva un’eloquenza tranquilla e controllata, e come scrittore non ebbe mai particolare successo. Lo circondava una considerevole cerchia di figlie e figli, all’interno della quale Schleiermacher si muoveva volentieri. Egli divenne subito uno degli amici più fidati della casa. Con l’utilizzo di quei concetti classificatori che sono tipici di coloro che hanno da assegnare molti uffici, Sack in seguito spiegò: «Il talento che Dio Le ha dato, le belle conoscenze che Lei si è guadagnato e l’animo onesto che percepisco in Lei, Le hanno fatto conquistare la mia stima e il mio affetto»6. Schleiermacher era molto in confidenza con i parenti di Sack a Potsdam; la sorella di questo, sposata a Bamberga con il predicatore di corte di lì, era stata un’intima amica della mamma di Schleiermacher, e questa stretta relazione si trasmise ai figli. A questa cerchia era vicina la famiglia Spalding. Il prevosto Spalding era allora ottantenne. Dopo la pubblicazione dell’editto religioso [di Wöllner] egli aveva abbandonato i suoi incarichi, dal momento che non era un moderato come Sack. Un’ampia famiglia lo considerava ancora, con armonia e pietà patriarcali, il proprio centro spirituale e in questa famiglia si formò la relazione più duratura che Schleiermacher strinse nei circoli della vecchia Berlino. Il figlio di Spalding, professore al Köllnisches Gymnasium, allora trentenne, sei anni più vecchio di Schleiermacher, era una natura di gentilezza e capacità eccellenti, stimato filologo nonché vivace collaboratore della Berliner 5 6
Ivi, p. 373. KGA V, 5, Lettera di Sack, fine 1800-inizio 1801, n. 1005, p. 4.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
Monatsschrift, poeta in tedesco e in latino, nello stile della vecchia scuola. Soprattutto, però, era dotato del fortunatissimo dono di saper trattare e godere la vita; era uno di quegli uomini che, presi dal grande piacere di vivere in famiglia, tra gli amici, in società, non arrivano alla volontà di concentrarsi in sforzi lunghi, astratti, scientifici, e il cui talento, ricco e sempre attivo, era apprezzato e goduto fino in fondo solo dagli amici. Tra lui e Schleiermacher, due nature così diverse, separate inoltre, nelle loro rispettive inclinazioni, dalla opposizione di vecchia e nuova scuola, crebbe lentamente, dalla fiducia comprovata, una duratura amicizia. A questa prima cerchia sociale sono collegati i lavori schleiermacheriani dell’autunno e dell’inverno. Nel settembre del 1796 Schleiermacher iniziò un quaderno dedicato a questioni politiche e di politica ecclesiastica. Nello stesso tempo lavorava ad una ricerca sulla dottrina del contratto. La questione dei fondamenti del diritto riscontrava allora enorme interesse sull’onda della Rivoluzione francese, cosicché si affollavano le più diverse concezioni del diritto naturale. Anche Schleiermacher si cimentò nel risolvere la questione dell’origine del diritto coercitivo. Si servì nuovamente a questo proposito del suo metodo di sviluppare la propria soluzione a partire dall’impostazione del problema e dalla critica alle soluzioni precedenti. Questa impostazione, tuttavia, condivide l’errato presupposto dell’intero diritto naturale di allora, cioè che esistano individui isolati, dotati di pieno arbitrio, tra i quali nascerebbe poi un diritto coercitivo. Questi individui originariamente del tutto liberi si sarebbero dovuti perciò vincolare da se stessi. Schleiermacher mostra certo con penetrante acume come nessuna teoria fino ad allora fosse riuscita a spiegare questo processo e come tutte presupponessero proprio il carattere vincolante dei contratti, che dovevano invece spiegare. Tuttavia egli non vede ancora con chiarezza che questo circolo è inevitabile per chiunque si attenga all’errata impostazione del diritto naturale. Anche in questo, come in altri lavori dei suoi primi tempi, egli appare trionfare scoprendo le debolezze di un’altra concezione, ma non procede sufficientemente a ritroso per scoprire le cause stesse di tali debolezze. Perciò inutilmente si sforza, nella propria teoria, di risolvere un compito che non è risolvibile a partire dai presupposti che egli stesso ha accettato. Ho presentato i due progetti schleiermacheriani più maturi di questa teoria nel Denkmal tratto dalle sue carte7. Troveremo sviluppata ulteriormente la verità in essi contenuta nella Critica della dottrina dei costumi. Il suo diario scientifico testimonia come fosse allora occupato con questioni affini. Dal settembre del 1796, quando inizia il suo diario, fino al gennaio del 1797, sono oggetto di discussione 7
Cfr. inoltre SW I, 12, p. 286.
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la costituzione dello Stato, il diritto matrimoniale, la politica della chiesa. È degno di nota il fatto che egli vi affermi: «la chiesa è un polipo; se ne viene staccato un pezzo, ne nasce di nuovo un polipo intero, e non giova a nulla se gli uomini, secondo le loro diverse opinioni, si suddividono in ancora più chiese. Il polipo non deve essere fatto a pezzi, ma deve essere completamente annientato»8. Questo era l’orizzonte delle sue ricerche filosofiche di allora. Nella primavera del 1797 la speranza che fosse finalmente portato a termine un volumetto dei suoi saggi filosofici rallegrava di nuovo lo zio. Schleiermacher aveva inoltre ripreso gli studi teologici. «Mi ricordo», scriveva lo zio il 26 settembre del 1796, «che Lei già una volta ha espresso la preferenza, nella teologia, per lo studio esegetico, e per quanto posso ora capire del suo piano» (Schleiermacher si era informato presso di lui, in vista di questo progetto, sulla letteratura gnostica) «Lei dovrà certo farsi largo tra parecchi volumi in folio e in quarto»9. Sussistevano già ulteriori relazioni che lo avrebbero inserito nella nuova società, la sua futura patria spirituale. Ritrovò a Berlino, al seguito della legazione svedese, l’amico Brinkmann, che era rimasto lo stesso dei tempi del seminario. Era impossibile incontrarlo da solo e tantomeno trattenerlo. Anzi: era passato a dedicarsi a una specie di intermediazione sociale; era felice se poteva fare da animatore o da mediatore tra grandi spiriti, cosa che gli fece guadagnare rispetto e stima per la sua riconosciuta abilità. Schleiermacher trovò poi il conte Alexander Dohna. Questi era già da sei anni a Berlino, e otteneva proprio allora, nel 1798, sebbene fosse tre anni più giovane di Schleiermacher, un importante posto di consigliere segreto di guerra nella giunta direttiva. Durante il primo soggiorno di Schleiermacher, Dohna lo aveva portato nella casa di Markus Herz. La famiglia Dohna si serviva, nonostante la distanza, del consiglio di quel famoso medico; Alexander era però avvinto a Henriette Herz da una così seria e profonda simpatia, che per tutta la vita non seppe decidersi a nessun matrimonio e dopo la morte del marito di lei, senza considerare tutti i pregiudizi della distinta famiglia, le offrì la sua mano, che lei rifiutò con le più delicate e disinteressate motivazioni. Così in questa casa era ben accolto chi Alexander portava come suo amico. Tra le due nature che si incontrarono qui vi era una affinità del tipo più singolare. L’amicizia di Schleiermacher con Henriette Herz, molto discussa a Berlino per la notorietà della bella signora, presentata ai lettori dai poeti satirici della vecchia scuola, ma in realtà non compresa neppure dagli amici 8 9
Cfr. Reden, KGA I, 2, p. 287. KGA V, 2, Lettera di Stubenrauch, 27 settembre-29 settembre 1796, n. 341, p. 30.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
più intimi, diffuse il suo sereno splendore sopra gli anni successivi, molto tempestosi e talvolta estremamente infelici, di Schleiermacher. Henriette Herz aveva allora trentadue anni ed era all’apice della sua incomparabile bellezza. È indicativo dell’impressione suscitata dal suo aspetto il fatto che la si chiamasse la musa tragica. Il suo carattere sembrava accordarsi con questa definizione. Misura ed armonia le erano innate. Non aveva nulla della natura inquieta e incalzante tipica delle sue amiche ebree. C’era in lei qualcosa di immutabile, di perfetto. «Lei è come era ed è come sarà»10. Il suo spirito non mostrava nessuna brillante originalità, nessun impeto autonomo; ella possedeva però il dono magico di comprendere tutto ciò che le veniva personalmente messo di fronte, anche complicate serie di pensieri scientifici: «una scientificità passiva»11 la definiva Schleiermacher. La sua mente scrupolosa, precisa, positiva si dimostrava in un talento per le lingue raro anche tra gli uomini (la giovane donna dominava già otto lingue, più tardi imparò il sanscrito e il turco), e in una conoscenza degli uomini discreta, che mai passava il segno. Carattere e abitudini la rendevano molto sicura nella vita sociale e nell’amministrazione di situazioni difficili. Aveva raggiunto questa sicurezza non senza molti conflitti interiori. Markus Herz era non solo diciassette anni più vecchio, alla soglia dei cinquant’anni, quando sposò Henriette, che ne aveva trentadue: l’allievo preferito di Kant, che a trent’anni era molto apprezzato nel mondo filosofico ed era il più famoso medico della città, non aveva alcun senso per il gioco e per l’amenità della vita, era un duro oppositore di tutti i sentimenti non analizzabili. «Quando una volta», racconta la moglie, «Moritz era da me, si avvicinò Herz con in mano la poesia Il pescatore di Goethe. “Freddo sino nella punta del cuore”, esclamò. “Spiegami per favore cosa significa”. “Chi vorrà capire questa poesia anche qui?”, replicò Moritz, ponendo l’indice sulla fronte. Herz lo guardò con tanto d’occhi»12. Il matrimonio senza figli con quest’uomo doveva lasciare inappagate molte speranze presenti nella ricca natura di Henriette. Era un matrimonio fedele e armonioso, fondato su vera stima e amicizia, nella misura in cui può essere felice un matrimonio di questo tipo: era addirittura motivo di orgoglio per Henriette aver reso felice quest’uomo, per quanto era concesso alla natura di Herz essere felice attraverso una donna. Ma questa relazione non soddisfaceva lei stessa, né il suo impulso all’attività, né lo stimolo del suo animo a farsi conoscere, 10
KGA V, 2, Lettera a Henriette Herz, 3 settembre-6 settembre 1798, n. 516, p. 402. KGA V, 6, Lettera a Henriette Herz, 16 settembre 1802, n. 1346, p. 151. 12 Henriette Herz. Ihr Leben und ihre Erinnerungen, a cura di Julius Fürst, Hertz, Berlino 18582, p. 99. 11
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per come era veramente, a vivere scambiando sensazioni e partecipando al loro gioco felice. Derivarono da ciò, nei primi anni del loro matrimonio, strane relazioni e un entusiastico scambio di esuberante vita emotiva, come testimoniano le lettere inviatele da Wilhelm von Humboldt, edite di recente. Si spiega così anche il fatto che, dopo questo periodo senza pace, Henriette appariva, a chi era distante, leggermente fredda e «dominata solo dalla passione per l’onore»13. In tali condizioni essa si diede alle relazioni sociali più pienamente di quanto avrebbe altrimenti fatto. La condizione sociale e il ruolo di suo marito le imposero il dovere di creare una grande casa. Anche se per carattere avrebbe vissuto più volentieri in pace con pochi amici intimi, almeno dopo che era passato il grande entusiasmo per gli omaggi che le rendeva la società, ella trovò per lo meno, in questo compito, una soddisfazione temporanea al suo bisogno di attività. Sempre si lamentava con l’amico della mancanza di attività, del fatto che la vita passasse troppo velocemente e invano. Da questo suo atteggiamento verso il mondo dipendeva una debolezza che Schleiermacher talvolta percepiva. A tale riguardo trovo appuntato nel suo diario: «Voler proteggere e governare gli uomini è certo un errore profondo e radicato, lo ho notato ancora recentemente in Jette, che non ne ha riconosciuto l’ingiustizia»14. Si comprenderà d’ora innanzi anche la preferenza di Henriette per la delicatezza rispetto alla semplice estrinsecazione della forza, che egli inutilmente combatteva, e addirittura una certa inclinazione alla civetteria, di cui ella stessa si accusava. Così la trovò Schleiermacher. Anche nei confronti di una natura così completa e ordinata l’influsso di Schleiermacher fu radicale. La profonda e originale intuizione morale che albergava in lui rendeva chiara a Henriette, che aspirava ad azione ed efficacia, la propria genuina e intima vocazione. Ella ottenne allora qualcosa di più importante della sicurezza esteriore che le avevano date gli anni e le esperienze: ottenne coscienza di se stessa, fiducia in sé. «Che dovessi arrivare io, cara Jette», le scrive Schleiermacher, «a risvegliare la Sua fiducia in se stessa è in breve l’essenza dell’intera Sua storia»15. Fu questo l’inizio della bellissima relazione. Se Schleiermacher difendeva volentieri il principio per il quale esiste un’amicizia tra uomini e donne che non è affatto un amore represso, per grado o per condizioni, e che non 13
Cfr. Karl August Böttiger, Literarische Zustände und Zeitgenossen, II, Lipsia 1838, p. 102 ss. (dal diario di un viaggio a Berlino 1797). Rahel Varnhagen, Rahel, Ein Buch des Andenkens für ihre Freunde, I, Berlino 1834, p. 16. Del tutto maligna la descrizione di Bernhardi nelle Bambocciaden, che furono pubblicate poi nella Jaener Literaturzeitung. 14 Gedanken V, KGA I, 3, n. 18, p. 286. 15 KGA V, 3, Lettera a Henriette Herz, 29 aprile 1799, n. 640, p. 101.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
assume, in alcun momento, questo tono, ma che è piuttosto una perfetta autonoma relazione vitale, questo principio era attinto per lo più dalla sua esperienza con Henriette Herz. Il loro rapporto si basava su una affinità non comune, su una profonda somiglianza di nature, in virtù della quale essi si comprendevano reciprocamente fino nell’ultima piega del loro animo, donandosi l’un l’altra emozioni e pensieri attinti dalla loro esistenza particolare. Non appena si trovarono a vivere vicini, condividendo tutto, questo scambio accrebbe, al di là del ricco contenuto delle loro vite, il sentimento di felicità e la gioiosa consapevolezza della loro individualità. Questo era soprattutto il caso di Schleiermacher. Egli desiderava più d’ogni altra cosa dare a Henriette, negli anni della traboccante pienezza vitale, un’intuizione del contenuto di ogni ora, poiché nella sua bella natura affine questo contenuto si raddoppiava. Lei sola comprendeva veramente un aspetto di Schleiermacher, che persino per gli amici più prossimi, in questi primi anni berlinesi, conteneva qualcosa di inafferrabile, cioè il suo amore entusiasta per il mestiere di predicatore. Non si trattava di un rapporto come quello con Caroline Dohna, con la signora Benecke o con Eleonore Grunow. Non si trattava, nel caso della Herz, di un animo che necessitasse degli altri come di un appiglio nella tempesta della vita. Nei confronti di questa armoniosa e ordinata esistenza c’era, invece, quella uguaglianza e quella reciproca libertà dal bisogno che è la base dell’amicizia. Schleiermacher, scherzando, diceva che Henriette era veramente la sostanza a lui più affine, e che nessun’altra affinità elettiva avrebbe mai potuto separarli l’uno dall’altra, affermando persino di non poter più pensare la sua vita senza di lei: tuttavia questa profonda sensazione era altrettanto vera quanto la chiarissima consapevolezza, addirittura la esplicita reciproca rassicurazione, che la loro relazione non aveva nulla dell’amore e che, anche in condizioni completamente diverse, non avrebbero mai potuto trasformarla in un matrimonio. C’era, in entrambe le nature, una attenta e profonda accortezza, che faceva loro accettare il contenuto delle diverse relazioni con piena coscienza dei loro limiti e perciò in modo tranquillo e completo16. 16 Anche in relazione a Henriette Herz, Varnhagen appare pieno di pregiudizi; sembra qui guidarlo una comprensibile gelosia di Rahel. Cfr. le sue annotazioni in Briefe aus Varnhagen’s Nachlaß, I, Brockhaus, Lipsia, pp. 15 ss.: «una donna meravigliosa, alta, piena di avvenenza e delicatezza, intelligente, istruita, colta, eloquente, mite e gentile, zelante nel fare il bene». «Manca completamente di spirito, ma possiede moltissime altre qualità, intelletto piacevole, gentilezza, utile precisione, non comune conoscenza delle lingue: il tutto però in modo non troppo profondo e con un’evidente ristrettezza di vedute. Sfiora appena ciò che è più importante e ha potuto appropriarsi e tenere saldo sempre e solo ciò che è meno significativo, cioè la conoscenza esteriore». Ben caratterizzano la disonestà di Varnhagen questa acutizzazione,
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Attraverso questa amicizia Schleiermacher si trovò nella condizione più favorevole per entrare in contatto con la nuova società di Berlino. Tutto ciò che c’era di importante, estraneo o familiare, passava attraverso questa casa. L’intera ricca cerchia della società berlinese di allora si faceva vedere qui. Schleiermacher vi trovò gli Humboldt, donne come Rahel e Dorothea Veit. Quasi ogni sera partiva dal Charitè, e più tardi dal suo appartamento sulla Chaussè Oranienburger, per andare dagli amici, che abitavano allora nella nuova Friedrichstrasse, vicino alla Königstrasse. Spesso è stato raccontato l’aneddoto che gli amici, preoccupati per il lungo tragitto che doveva percorrere sulla strada di campagna senza luci, gli regalarono una piccola lanterna, fatta in modo tale che egli potesse agganciarla ad un’asola della sua veste. Molto volentieri si recava dalla Herz, da quando l’amicizia era diventata più stretta, nel tardo pomeriggio prima dell’ora del tè; allora egli trovava solo i conoscenti più intimi della casa; e se alla fine si presentavano degli estranei o un gruppo di persone troppo numeroso poteva ritirarsi, se non era interessato alla loro compagnia. Di fronte a quanto accadeva nel mondo letterario, la nuova società sembrava ancora molto imparziale. Wilhelm Meister era già penetrato a Landsberg, ma Schleiermacher lì trovò solo che Goethe innalzava la prosa tedesca ad un grado di perfezione mai raggiunto in precedenza. Allora, a Berlino, lo lesse per la seconda volta insieme a Henriette, con tutt’altre impressioni. Ma si godeva senza pregiudizi anche di ciò che poteva ampliare e innalzare il senso della vita. La stella di Jean Paul nel 1795 sorse chiara e improvvisa nel cielo; quanto essa attirasse Schleiermacher a quel tempo si evince dal fatto che egli spediva alla sorella lunghi estratti; si scrivevano con zelo su Woldemar e il fratello Karl era abbastanza ingenuo da comparare la sorella con Henriette, tanto fragile quanto piena di sentimento. Anche Matthisson17 era spedito a Landsberg. Ancora una volta lo spirito degli anni passati gli andò incontro, in mezzo alle nuove relazioni vitali, quando, nel giugno del 1797, si recò per quatche arriva alla completa falsità, dei tratti che costituiscono i limiti di una natura altrimenti così notevole, come la sua deduzione, dal fatto che Schleiermacher e Humboldt talvolta scherzavano su di lei, che Henriette non avesse saputo risvegliare in nessuno dei due alcuna vera simpatia. 17 [Friedrich von Matthisson (1761-1831), dopo gli studi di filosofia e teologia a Halle, e un periodo di insegnamento a Dessau, divenne lettore e accompagnatore della principessa Luise di Anhalt-Dessau, per lavorare in seguito a Stoccarda, presso il teatro di corte e la biblioteca. Durante i molti viaggi entrò in contatto con alcuni dei protagonisti dell’ambiente letterario dell’epoca, come Klopstock e Voss. Autore di poesie e lettere di viaggio, fu curatore di un’antologia letteraria in venti volumi].
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
tordici giorni a Landsberg in visita dallo zio. Anche l’amica ve lo spinse. Allora visse di nuovo nel mondo che aveva riempito gli ultimi anni della sua vita. Ma presso l’amato zio egli trovò, con dolore, che tutto andava male. I segni dell’età si mostrarono improvvisamente dopo la malattia. «Il suo zio che diventa ottuso»18: così Stubenrauch aveva firmato la sua ultima lettera. La verità lo scosse allora con un’impressione che, come scrisse alla sorella, non aveva ancora avuto uguali. Vide un destino più maligno della morte, cioè l’annientamento dell’uomo di fronte ai nostri occhi, mentre ancora egli si aggira sulla terra, ed egli implorò la sorella di tentare, insieme a lui, di rendere almeno alcuni momenti della vita dello zio più piacevoli. Insieme a Stubenrauch viveva il figlio. Uno strano contrasto tra le sue pretese e la sua forza gli aveva procurato a Küstrin, dove era referendario, crescenti difficoltà; allora tentò di sistemarsi presso il tribunale cittadino, il cui sopraintendente era Benecke, e si preoccupava ben poco per la salute del padre. «O uomo eccellente! Questo fusto è avvizzito e senza foglie»19. Anche esteriormente moriva per Schleiermacher questa vecchia generazione; i suoi incontri futuri con lei non furono più amichevoli. Tutto ciò era finito. Non era tornato da molto da Landsberg quando incontrò Friedrich Schlegel. Dopo che Schleiermacher, nello spirito della gioia di vivere, del valore individuale, della vera socievolezza che coinvolgeva gli animi e le idee, raggiunto allora, aveva iniziato a formarsi una nuova vita, gli si fece innanzi questo uomo straordinario, nella cui natura geniale lievitata l’intero grande movimento poetico-scientifico, dal quale era nata questa nuova vita. Doveva così ampliarsi l’orizzonte di Schleiermacher: egli raggiunse una più profonda comprensione anche per ciò che allora viveva direttamente e finalmente entrò a pieno titolo, per mano dell’amico, nell’incredibile movimento della sua epoca. A questo punto dobbiamo tentare di comprendere la natura misteriosa di Friedrich Schlegel. E solo uno sguardo attento nella storia della sua vita può spiegare ciò che egli era quando incontrò Schleiermacher e quale doveva essere il destino di questa importantissima relazione personale per quest’ultimo.
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KGA V, 2, Lettera alla sorella, 18 agosto 1797, n. 399, p. 161. Ivi, p. 162.
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L’AMICIZIA CON FRIEDRICH SCHLEGEL1
Accade raramente che quelle menti versatili e piene di fantasia, che per prime hanno il sentore di un movimento spirituale, ne mantengano anche il controllo: sforzi eccessivi o l’esagerata eccitazione della fantasia, di fronte 1 Per lo sguardo nello sviluppo di questa geniale natura mi sono stati messi a disposizione due ampi strumenti manoscritti: le sue lettere ad August Wilhelm Schlegel, per il cui utilizzo ringrazio la bontà del consigliere Böcking, e poi la sua corrispondenza e quella di Dorothea con Schleiermacher. Senza dubbio queste due raccolte epistolari sono quelle di gran lunga più importanti per lo studio di Friedrich Schlegel. Ho potuto inoltre selezionare i frammenti di suo pugno attraverso la ricerca critica brevemente annunciata nei Denkmale; questi frammenti contengono la sua filosofia a partire dal 1798. Un completamento si trova negli estratti delle sue più vecchie carte, che Windischmann ha accluso alle lezioni di Schlegel. Purtroppo il procedimento non metodico del curatore le rende quasi inutilizzabili. Delle espressioni di altri per la comprensione di Friedrich Schlegel resta importantissimo ciò che Schleiermacher dice in molti luoghi delle sue lettere sul carattere e sui progetti di vita dell’amico. Ciò viene completato dalle opinioni di August Wilhelm Schlegel (Sämtliche Werke, I-XII, a cura di Eduard Böcking, Weidmann, Lipsia 1846, qui VIII, pp. 285 ss.) e in parte di Varnhagen, Galerie I, pp. 223 ss. Le opinioni di Herder, Jacobi, Schiller, Jean Paul e altri su di lui (cfr. Koberstein) sono istruttive, ma non nascono dalla comprensione del suo progetto di vita, bensì dalle impressioni dei singoli lavori e perciò sono da integrare con Schleiermacher, Br. I, pp. 54-55. L’immagine del tutto errata dei suoi tentativi filosofici in quest’epoca, che si trova non solo presso Michelet e altri, bensì purtroppo anche presso Erdmann, nella sua altrimenti così valida Geschichte der neueren Philosophie, 3,1 pp. 684 ss., rimanda a Hegel, in diversi luoghi, in particolare a Sämtliche Werke, I-XXXIII, a cura di Glockner, Bad Cannstatt, Stoccarda, X, 1, pp. 83 ss. Una violenta antipatia reciproca irritava Hegel ogni volta che veniva a contatto con Friedrich Schlegel. Forse anche oggi si troverebbe un pubblico interessato a una raccolta di saggi e critiche fino al 1804, il cui centro dovrebbe essere la raccolta dei suoi frammenti ordinata oggettivamente e le introduzioni agli scritti di Lessing. L’edizione delle opere contiene solo pochi elementi e molto deformati. Anche August Wilhelm Schlegel si auspicava la pubblicazione di una tale raccolta. Per ciò che concerne l’elemento biografico, ho corretto, a partire dalle mie fonti, anche i positivi errori delle biografie degli Schlegel, di Novalis etc. senza farne esplicita menzione.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
alla quale sta incessantemente un grande scopo che resta però molto lontano, consuma gli uni, mentre gli altri ricadono esausti dopo gli immensi lavori della loro giovinezza e sopravvivono alla propria fama. Di tutte le importanti menti che assunsero il compito di elaborare le nuove concezioni in una comprensione scientifica della connessione del mondo, gli Schelling, gli Schlegel, Hardenberg, Hülsen, Berger, e molti altri, soltanto due avevano in sé la calma ricettività e la forza intellettuale, in grado di dominare incredibili materiali, Hegel e Schleiermacher; a loro andò la vittoria. La storia rende la giustizia che la vita nega. Se la tradizione non scientifica, secondo la sua legge interiore, accumula tutti i lavori di un’epoca eroica su un unico Ercole, si impone alla storia veritiera il compito di esporre il complicato intrecciarsi di molti lavori spirituali, dal quale nascono creazioni di lunga durata, e di distruggere quella apparenza di un solitario dispiegarsi interiore, che circonda la vita di tutti i grandi spiriti. Se emergono così con chiarezza i limiti nei quali le leggi spirituali trattengono la creatività scientifica originale del singolo, verrà però compresa in modo tanto più puro questa capacità di fondere e tenere strettamente connessi in sé vari elementi, presente in originali e potenti organizzazioni individuali. Friedrich Schlegel era uno degli spiriti che presentivano il nuovo e preparavano la strada; le sue iniziative personali, i suoi lavori formano, insieme ad altri, il terreno fruttuoso sul quale si sono innalzati tra noi tanto i grandi sistemi speculativi quanto le ricerche di filosofia del linguaggio, di letteratura, di storia. Su nessuno agì l’importante progetto dei suoi lavori in modo così pervasivo e immediato come sull’amico con il quale, negli anni più felici, condivise la stessa abitazione, i momenti di ozio, i pensieri più intimi. Perciò una biografia di Schleiermacher diviene di per sé un modo per salvare Friedrich Schlegel. Non si intende nascondere la disarmonia della sua essenza, né occultare il paradosso morale presente nella sua vita e nei suoi scritti. Non si può, né si vuole, scalzare dall’anima del lettore la seguente immagine: Friedrich Schlegel, il compagno, l’annunciatore dell’individualità libera, che aveva goduto dei diritti di questa libertà fino alla sfrenatezza, rimise nelle mani di un parroco cattolico il suo diritto ereditato al libero pensiero, e fu incapace da allora di creare e vivere liberamente. Sicuramente non si allontanò mai dalla sua stessa anima questa immagine, da quando a Colonia rinunciò alla propria fede. Un intreccio di fili scuri e colorati, ciascuno dei quali è legato indissolubilmente all’altro e nessuno può essere sciolto dal particolare effetto della nostra persona, né dalla fortuna o dalla sfortuna: questa è la nostra vita. Nella vita di Schlegel tutto era intessuto di grandi intenzioni, che si estendevano senza limiti, e di necessità. Possiamo esporre il grandioso progetto della sua vita, che si allargava in cerchie sempre più ampie, e mettere in
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L’AMICIZIA CON FRIEDRICH SCHLEGEL
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luce le cause, legate alla particolare situazione delle aspirazioni spirituali e delle visioni morali, che spinsero una così geniale natura oltre i suoi limiti: possiamo d’altra parte mostrare la connessione veramente fruttuosa che lo guidò anche nei suoi scostanti lavori, il raggio di un alto pensiero morale, che egli continuò a perseguire in questo corso eccentrico. Di questo gli è debitrice la ricerca storia. Friedrich Schlegel era nato il 10 marzo del 1772 a Hannover. Suo padre, il famoso critico e poeta Johann Adolf Schlegel, sopraintendente generale a Hannover, era un uomo di valore, fortemente influenzato, in tutte le decisioni, dalle importanti condizioni in cui viveva. Egli dovette dapprima vedere August Wilhelm, il figlio più vecchio di cinque anni, passare da teologia a filologia: le inclinazioni estetiche di famiglia si manifestarono potentemente in lui, che non volle rassegnarsi a nessuna definitiva e sicura sistemazione. L’intransigenza del padre e l’irruenza del figlio provocarono discussioni che li allontanarono profondamente; per un anno non si scambiarono neppure una riga. Friedrich, che per tutta la vita ebbe grandi difficoltà a gestire il denaro, era stato destinato al commercio: tra libri mastri e conti si sentiva però così infelice che fu necessario riportarlo nella casa dei genitori. Durante questo triste periodo forse si sono formate alcune bizzarre inclinazioni nel carattere di Friedrich: una cerebralità, che talvolta sprofondava in cupo sentimento di disperazione, una irregolarità nelle letture e negli studi, un’ambizione smisurata alla grandezza, uno strano odio contro la precisione nelle piccole cose, che fu la causa principale della sua rovina. A circa quindici o sedici anni si decise a studiare. Dotato di vera genialità per le lingue concluse in pochi anni gli studi ginnasiali. Con la potenza di un’impressione completamente nuova, si rivelarono a quest’anima giovane, assetata di grandi cose, i Greci. Egli viveva insieme ai loro scrittori e alla storia antica; anche la loro arte figurativa gli si dischiuse, entro i limiti concessi al suo spirito volto all’interiorità, davanti alle copie di Mengs2 raccolte a Dresda. In questi anni di grande entusiasmo, inoltre, una simpatia, cresciuta con lui dai tempi dell’infanzia, lo avvicinò alla figlia di uno dei primi funzionari di Hannover, un famoso scrittore con cui suo padre era in amicizia. Erano tempi felici, nei quali l’ordine della stimata casa e le nuove, maestose impressioni che vi 2 [Anton Raphael Mengs (1728-1779), studioso di pittura rinascimentale, dopo aver soggiornato a Roma fu nominato, nel 1746, pittore di corte a Dresda dal re Augusto III. Tornato a Roma nel 1752, divenne direttore dell’Accademia capitolina. Dopo essersi stabilito a Madrid, nel 1761, presso Carlo III, passò gli anni successivi sempre in viaggio tra le tre corti. Il suo classicismo eclettico fu molto influente sulle generazioni successive, anche per il suo impegno teorico a risvegliare l’ideale della bellezza greca: cfr. Gedanken über die Schönheit und über den Geschmack in der Malerei, 1762].
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
riceveva, esercitavano un effetto tranquillizzante sulla sua natura irregolare, poco incline a una felicità duratura. Non trovo il motivo che lo spinse, quando nella primavera del 1790 andò all’Università di Gottinga, allo studio del diritto. Forse le prospettive che gli davano i suoi legami famigliari, forse il forte interesse per la situazione politica, suscitato nella sua cerchia di Hannover e che in lui, al contrario che in suo fratello maggiore, emerse d’un tratto, violentemente finché, dal 1797, iniziò a decidere sulla Francia l’esercito e con ciò iniziò a diminuire l’inquietudine politica in Germania. È chiaro, però, che questa scelta professionale acuì la mancanza di regole del suo sviluppo. Egli sedette ai seminari di Heyne e Bouterwerk, lesse storici, oratori e scrittori tragici dell’antichità non con la puntualità e il metodo rigoroso dello studente di filologia, bensì con l’interesse scostante del dilettante. Nel frattempo si era riunito da un anno con il fratello August Wilhelm: era oggetto di ammirazione e di disperazione per il suo animo complicato e cerebrale vedere all’opera, davanti a sé, questa natura cristallina, ordinata nel lavoro e nei piaceri, instancabile. Egli ripensava più tardi con vergogna a come suo fratello lo avesse trovato allora taciturno, in rabbiosa e violenta opposizione con l’ambiente, sregolato nelle sue letture solitarie e nei suoi progetti, «di cuore malaticcio»3, e a come poteva essere apparso strano alla brillante società di Gottinga, nella quale, invece, il fratello si trovava a proprio agio. Il suo amore giovanile, inoltre, finì in un modo che lo irritò profondamente. Già allora giocava con il pensiero di suicidarsi. Come molti protagonisti della nuova generazione, che crescevano sotto l’influsso di Goethe e della Rivoluzione francese, come Tieck e Hölderlin, anche Friedrich Schlegel si consumava in pretese smisurate verso la vita. Nella primavera del 1791 i due fratelli si trovarono insieme per l’ultima volta nella casa paterna. Dovevano separarsi allora per molti anni. August Wilhelm andò ad Amsterdam, come istitutore presso un’importante casa di imprenditori; Friedrich si diresse a Lipsia per proseguire i suoi studi giuridici. Allora, prima di separarsi, August Wilhelm rese il fratello più giovane confidente del suo destino. Egli amava la figlia del famoso orientalista di Göttingen, Michaelis, Caroline Böhmer, che viveva allora, da giovane vedova, a Marburgo. Questa donna doveva diventare fatale per entrambi i fratelli come per Schelling; era molto colta, esperta delle lingue antiche, dotata della più avvenente finezza di spirito, che corrispondeva al suo aspetto esteriore; sembra che nessuno potesse resistere al suo fascino, pur vedendone
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Walzel, p. 25.
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mente l’egoismo ingenuo e senza limiti4. Legò a sé August Wilhelm, senza a sua volta impegnarsi. «Non dimenticherò mai», scrisse Friedrich un anno più tardi, «quando sei ritornato e siamo rimasti da soli: stavi davanti a me e mi mostravi la catena che ti teneva prigioniero. Tutto il tuo essere testimoniava di una felicità che io non potevo capire»5. Più chiaramente parlano alcune belle poesie di August Wilhelm che nacquero in questa atmosfera: «Arrivo e sopra la valle e la collina aleggia / il saluto dell’amore a te. / Il saluto dell’amore di chi ti è fedele, / che senza contraccambio giurò / di consacrarti eternamente omaggio /come alla natura onnipotente, / che sempre, alla stella polare, / come il navigante, volge lo sguardo e ascolta: / forse nella notte in lontananza/una voce dalla stella gli sussurra». Così se ne andò. «Quando ti ho abbracciato», scrive Friedrich, «ho sentito molto intensamente che anche tu sei mio, perché io ti amo»6. Gli stimoli sentiti fino ad allora da queste due nature così differenti erano stati comuni, come emerge chiaramente nelle lettere di Friedrich a Wilhelm. Heyne e Bouterwerk li condussero alla storia della letteratura e offrirono loro un ricco materiale; con entrambi i professori erano inoltre in rapporto personale. Ricevettero stimolo e sostegno anche dagli studi di storia letteraria, che erano di casa a Gottinga. Convinti ed entusiasti si facevano trascinare dalla grandiosa corrente dell’intuizione geniale, di cui erano rappresentanti Winckelmann e Herder. Trova qui conferma il nesso, descritto in precedenza, degli studi artistici presso di noi7. Friedrich decise che il compito del fratello era quello di fare per la poesia ciò che Winckelmann aveva fatto per l’arte figurativa, e con ciò espresse, alla sua maniera, con una ardita generalizzazione, ciò che il fratello aveva già iniziato. In Wilhelm erano venuti alla luce dapprima talento poetico e un incomparabile genio per la traduzione; Bürger, pare, ha il merito di averlo portato a consapevolezza di questo suo talento e di averlo condotto al 4
Da Johann Diederich Gries. Nach seinen eigenen und den Briefen seiner Zeitgenossen, a cura di Elise Campe, 1855, p. 39 Gries, che aveva vissuto per così tanti anni nella cerchia Goethe-Schiller-Herder, ne conosceva tutte le signore e ripetutamente indicò Caroline come «la donna di gran lunga più geniale che avesse mai conosciuto». «Ella esercitava un fascino magico su tutti i cuori maschili». 5 Walzel, p. 44. 6 Walzel, p. 1. 7 Cfr. Friedrich, 4 giugno 1791: «ho letto uno dei tuoi libri preferiti, la Plastik di Herder. Credo di aver ora compreso meglio il suo carattere rispetto a quando era a Gottinga. Da alcuni giorni trascorro il pomeriggio da Oeser; è veramente come se sentissi parlare lo spirito di Winckelmann». 20 agosto 1791: «Moritz vorrebbe fare il Winckelmann della filosofia e dell’erudizione, il manierismo è proprio là dove lo spirito manca». «Nella storia della poesia tu diventeresti altrettanto unico, quanto Winckelmann nelle sue cose» (Walzel, p. 3, 14,19).
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
progetto di tradurre Shakespeare; a tentare, a Gottinga, la stessa impresa con Dante e Petrarca, lo indusse probabilmente Bouterwerk. Tuttavia lo dominavano ancora i deboli principi che guidavano il lavoro dei traduttori di allora. E per l’ambizione di un giovane, contemporaneo di Goethe e di Schiller, tradurre significava poco. Talvolta lo doveva rinfrancare Friedrich, ricordandogli «che dipendeva solo da lui diventare un grande uomo». «Hai spesso bollato con sfavore in te stesso la forza di penetrare nella più profonda individualità di un grande spirito con il nome di “talento del traduttore”, mentre in Goethe, che lo ha mostrato semplicemente in un campo più ampio, lo ammiri come segno verace di un grande spirito»8. Solo nella caratterizzazione di Dante (Charakteristik Dantes) Wilhelm intraprese una nuova strada, che procedeva su quella dell’intuizione geniale. Nella nostra, o forse in tutte le letterature, questo genio fu incomparabile nella critica e nella poesia di imitazione, in ogni tipo di ricreare (nachschaffen) e ricomprendere (nachverstehen). Il talento di Herder riapparve in Wilhelm, in una natura precisa, che aveva padronanza della lingua e dalla forma rigorosa. E come nella giovinezza del poliedrico fratello, anche nella sua si incrociavano diversi piani: una storia della poesia cavalleresca e una vita di Dante; Friedrich lo esortava a scrivere una storia della poesia greca; i vecchi progetti dei drammi di Ugolino e Cleopatra, elaborati a Gottinga, erano ancora lontani. Solo a fatica egli sopportava l’isolamento letterario ad Amsterdam, e in alcune occasioni, fin dal 1792, si dichiarava pronto a vivere in Germania della sua penna. Anche Friedrich cercava la propria strada sulla scia dell’intuizione geniale, partendo però da punti di vista a lui caratteristici. I problemi morali avevano occupato dapprima il suo spirito sempre al lavoro su se stesso. Nell’ultimo inverno passato a Gottinga aveva già concepito l’idea di offrire, «riunificato in un’immagine, il carattere peculiare della nazione romana nella rappresentazione di uno dei suoi eroi e nella sua catastrofe». Si trattava evidentemente del progetto di cui lo schizzo sbrigativo è la Caratterizzazione di Cesare. Più efficace della morale e del bello ideale delle arti, doveva diventare, per Schlegel, la rappresentazione di una perfezione realizzata all’interno di complesse relazioni9. Schlegel si collegò perciò al procedimento herderiano di cercare l’umano in ciò che è determinato storicamente, di scoprire i tratti fondamentali delle nazioni, le differenze degli individui. In questo senso egli esortava anche Wilhelm a non lasciar perdere la biografia di Dante, nella quale il fratello aveva scoperto un 8 9
Walzel, p. 36. Walzel, p. 15.
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L’AMICIZIA CON FRIEDRICH SCHLEGEL
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santuario segreto, affinché non facesse danno a quella nobile mente, a se stesso e all’arte10. Nella poesia prestava attenzione solo al contenuto; la correttezza gli appariva la virtù dei mediocri. Egli trovava in se stesso solo la sensibilità per le grandi cose, una struggente “tensione verso l’infinito”, e sentiva intorno a sé, nella sua nazione, in Federico il Grande, in Goethe, in Winckelmann, il respiro di una grande epoca, nella quale sarebbero accadute cose che mai erano accadute nel genere umano. Con questa smisurata aspirazione era già allora collegata una strana incapacità di ordinare metodicamente ciò che intraprendeva e di dominare ciò che si agitava in lui. Fin da giovane scriveva poco, leggeva molto e irregolarmente, al contrario di suo fratello. Gli mancava perciò la facilità d’espressione. Addirittura, nonostante l’agitarsi violento e incessante dei suoi pensieri, essa non prendeva forma nella sua anima, bensì appariva solo estendersi e riunirsi in sempre nuove creazioni informi, simili a nebbie. Perciò, in realtà, il suo spirito era poco adatto al mestiere di scrittore. All’inizio Friedrich rimase fedele ai suoi studi giuridici. Allora (e sempre si ripeteva questa inutile speranza) sembrò diradarsi questa difficoltà, questa cupezza che pesava sul suo spirito. «Le mie forze più nascoste», scriveva nella primavera del 1792, «sono vive, tutto in me è diventato vivo»11. Fino a quel momento egli non aveva conosciuto null’altro che lavoro, ambizione, e una lotta confusa, ma molto energica, con i problemi. Lo sviluppo dei progetti dei due fratelli fu interrotto da alcuni eventi in modo così romanzesco che le lettere di Friedrich in quest’epoca sembrano tratte da un confuso racconto nello stile di William Lovell. In Friedrich c’era un presentimento di ciò che stava per accadere; egli aveva visto Caroline Böhmer e conosceva suo fratello. Conformemente al suo carattere prendeva in considerazione solo mascolinità e amicizia maschile. Così scriveva allora a Wilhelm (21 luglio 1791): il tuo amore «dovrebbe aver reso, infine, forte e perfetto nella tua anima l’entusiasmo: i suoi oggetti, nell’età maschile, potrebbero essere la volontà e il pensiero di migliorare se stessi. Non si tratta di egoismo, bensì di essere divini a se stessi»12. Giunsero allora da Wilhelm misteriose allusioni, che gettarono Friedrich nella più profonda inquietudine: «qualsiasi cosa tu intraprenda», scriveva, «agisci in modo magnanimo e se la cosa non va a buon fine, sii saldo. Avrai così una formidabile occasione per disprezzare Dio. Devi sapere che puoi contare su di me: posso intraprendere per te ciò che il mondo 10
Walzel, p. 37. Walzel, p. 45. 12 Walzel, p. 4. 11
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
chiama peccato, sia mediante l’azione sia con il silenzio»13. Wilhelm aveva progettato di andare a Magonza per riunirsi con Caroline, anche contro il volere della famiglia e a costo del proprio futuro. Caroline lo aveva fermato strappando disinvoltamente la promessa di felicità, che gli aveva dato, «perché sentiva che così era in lei»14. Con la sincerità, che si presentava come ingenuità, e che perciò era ancor più dolorosamente distruttiva, della quale ella si serviva di tanto in tanto, gli assicurò che i suoi progressi negli ultimi anni erano opera sua e che lui non sarebbe mai diventato un grande scrittore15. Wilhelm decise di rompere con Caroline. «Non posso stare con te», scriveva Friedrich, «non posso vivere in te e tentare continuamente di scacciare i solchi (la parola ha strappato le lacrime ai miei occhi, che non vi sono avvezzi) dalla fronte»16. In modo sempre più incredibile, sempre più romanzesco si ingarbugliava il nodo. Caroline cercava di trattenere Wilhelm che le volgeva le spalle, ma venne a sapere che ad Amsterdam egli intrecciava un’altra relazione17. La successiva catastrofe di questa vicenda romanzesca fu che Friedrich, nell’autunno del 1792, venne tirato dentro in questo delirio della sensualità. «Ci sono momenti», aveva già scritto in inverno, «in cui il meglio che posso pensare per me, cioè la mia virtù, anche se fosse raggiungibile in un solo attimo, mi disgusta»18. Con una brama folle di esperienze particolari, aumentava, fino a farlo soffrire, il suo trastullarsi in società. «Tu saprai quanto la passione mi rende chiara la nullità della mia vita. Non ho mai sentito ciò chiaramente come ora e forse la nostra separazione è vicina. Perché devo vivere?»19. Le fasi di questo “misero furore” sono contraddistinte da considerevoli richieste di denaro al fratello e ai genitori. Tutte le passioni negative crescevano in lui. Dissipava il suo tempo e la sua salute era minacciata. Una costante disarmonia lo torturava; giudizi taglienti offendevano i suoi amici; addirittura per le sue richieste di denaro trovava solo parole scortesi e una fredda espressione di disperazione. Faceva uscire di senno la sua natura bisognosa d’amore dover ammettere che nessuno lo amava e che 13
Cfr. lettera di Friedrich, 8 novembre 1791. In questa lettera è contenuto un estratto del suo commento ad Amleto per il padre. Il modo di pensare di Amleto sarebbe l’unico oggetto: «Perciò cade in disuso l’abituale lamentela sulla mancanza d’azione. Si tratta di uno spettacolo di pensieri come Faust». Walzel, p. 25. 14 Walzel, p. 31; cfr. Waitz, I, pp. 190 ss. 15 Walzel, p. 33. 16 Walzel, p. 45. 17 Gesang und Kuß, August Wilhelm Schlegel, Sämtliche Werke, I, p. 333, frammento 27? (nonostante l’anno 1791). 18 Walzel, p. 25. 19 Walzel, p. 55.
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L’AMICIZIA CON FRIEDRICH SCHLEGEL
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egli, d’altronde, era del tutto indegno d’amore. «Mi si trova interessante e mi si evita»20. Era caduto in una tale disperazione che si teneva saldo alla prospettiva, se fosse stato necessario, di abbandonare la vita. Nell’inverno del 1791, prima di questa infelicità, in mezzo al fermento giovanile, aveva incontrato Friedrich von Hardenberg. «Un uomo ancora molto giovane» (erano nati nello stesso anno), «di aspetto bello e slanciato, dal viso molto fine, con occhi neri dalla splendida espressione; quando parla di qualcosa di bello, ne parla con indescrivibile passione; parla tre volte di più e tre volte più velocemente di chiunque altro. Lo studio della filosofia gli ha dato un’esuberante facilità di formare bei pensieri filosofici; non punta al vero, ma al bello; con violenta passione, una delle prime sere, mi illustrò il suo pensiero: non c’è nulla di malvagio al mondo, e tutto si avvicina di nuovo all’epoca dell’oro. Non ho mai visto così chiaramente la serenità della gioventù». Hardenberg veniva da Jena, dove aveva vissuto con “gli spiriti belli” e portava con sé i lavori, nei quali Friedrich subito intuì «tutto ciò che può fare il buono, forse il grande poeta»21. Friedrich sembrò abbandonarsi spensieratamente alla guida del precoce amico. Si erano legati profondamente l’uno all’altro, e questa relazione aveva reso felice Hardenberg. Ma l’interiore inquietudine di Friedrich, che lo spingeva alla critica continua, distrusse anche questo rapporto. «[Hardenberg] aveva già alcune volte irritato, in qualche modo, la mia sensibilità con una volgare allegria; finché una volta lo interruppi bruscamente, alludendo ad un duello, sebbene egli non avesse detto niente che fosse anche lontanamente simile ad uno sgarbo. Sebbene fossi allora, per la prima volta nella mia vita, veramente in collera, mi comporterei ancor oggi così. Finì così per sempre la sua fiducia nel mio affetto»22. Solo suo fratello Wilhelm lo sopportava: la sua nobile natura lo spingeva inoltre a spedirgli sempre nuovi risparmi che venivano chiesti in malo modo. Un giorno Friedrich accusava se stesso dell’accattonaggio; l’indomani dichiarava che sempre avrebbe necessitato di tutto ciò che serviva ai suoi bisogni (ed era molto) e che, se gli fosse stato negato, se ne sarebbe andato. Questi sentimenti non sparivano neppure quando si vedeva salvato dall’esterno. «Come può nascere il malinteso che una donna, una donna mi possa spingere a tale indegnità? Il valore della mia vita non dipende da una donna». «Dammi di nuovo la fede della giovinezza, e la cosa più grande non mi peserà. Ma tutto mi è insoddisfacente, vuoto e nauseante, tu stesso, 20
Walzel, p. 61. Walzel, p. 34. 22 Walzel, p. 69. 21
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
io stesso. Spesso mi sembra che mi sia indifferente essere buono o cattivo, felice o infelice»23. La tranquilla fedeltà del fratello e, in seguito, l’amicizia lo guarirono. La sua natura sofferente, la sua indicibile necessità d’amore, parlano nel violento sfogo con cui annunciò a Wilhelm la nuova amicizia con Schweinitz: «Amo e sono amato! Sacro mistero! Perché piango per la seconda volta nella mia vita? Perché verserei così volentieri il mio sangue per lui?»24. Si decise allora a volgere lo sguardo ai lavori che aveva accantonato e al suo futuro. Nella primavera del 1793 decise di abbandonare lo studio del diritto per seguire liberamente la propria inclinazione alla letteratura e alla storia. «È aperta per me ora solo un’unica via, la luminosa via della gloria». «Devo osare il gioco, perché devo». «È evidente che le nostre migliori menti sono mutilate dalla loro condizione borghese. Vedo l’abisso sul quale cammino, ma voglio attraversarlo e passare dall’altra parte. So che non posso vivere se non sono grande, cioè se non sono soddisfatto di me stesso»25. Le sue occupazioni nell’anno seguente (dalla primavera del 1793 alla primavera del 1794) appaiono di una varietà sconcertante. Arte e storia antica, grandi uomini dei primi tempi, storia patria, Shakespeare. Studiò Kant, Goethe, Hemsterhuis, Spinoza, Schiller. Tuttavia l’interesse per l’arte ebbe il sopravvento. Anche allora Friedrich vedeva il valore dell’arte solo nel contenuto e nella grandezza del suo carattere: questa interiore pienezza doveva imprimersi in un’armonia, che egli rinveniva, in realtà, solo negli antichi. A questo periodo risale il primo schizzo sulla natura della poesia. Schlegel vedeva bene che avrebbe dovuto esercitarsi in ogni maniera al fine di rendersi comprensibile ai lettori e superare ciò che, nel suo modo di esprimersi, lo bloccava e che poi, di nuovo, prorompeva senza misura. Ancora una volta un’emergenza finanziaria, di cui era responsabile, interruppe questi progetti, mentre la vita di suo fratello si complicava nuovamente. Era giunta la fine dell’occupazione francese di Magonza. Con una passionalità demonica Caroline Böhmer aveva lì vissuto la confusa attività del periodo della Convenzione, tentando di trascinare anche l’amico in questo vortice. Venne infine imprigionata e chiese l’aiuto di August Wilhelm. Poi riapparve, nella situazione più avventurosa, a Lipsia, sotto la protezione del nome di Schlegel. In questo periodo – nell’estate e nell’autunno del 1793 – Friedrich le fu molto vicino. Anch’egli fu vinto 23
Walzel, p. 70. Walzel, p. 73. 25 Walzel, pp. 86, 90, 94. 24
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L’AMICIZIA CON FRIEDRICH SCHLEGEL
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dal suo fascino e, facendo da mediatore tra i due, contribuì non poco alla decisione, generosa ma fatale, di August Wilhelm, di soccorrere Caroline legandosi a lei. Quando anche il governo sassone si dichiarò contrario alla permanenza della signora Böhmer a Dresda, Friedrich chiese: «Sono insuperabili le difficoltà che impediscono a Caroline e a te di portare un unico nome? La condizione politica di Caroline, in questo caso, cambierebbe completamente»26. Nello stesso tempo Friedrich, che versava in condizioni economiche disperate, doveva di nuovo rivolgersi al fratello. August Wilhelm, nella primavera del 1794, pagò per lui circa 1000 talleri di debito; poté aiutarlo solo dandogli una parte di quello che aveva acquisito in anni di lavoro forzato, e da cui dipendevano la sua libertà, il suo futuro, il suo legame con Caroline. «La tua azione», scrisse allora Friedrich, «è così nobile che per essa ti ringrazierà la mia vita, non questa lettera. Rinasco»27. Solo le circostanze costrinsero questa natura, infine, a concentrarsi. Friedrich si trasferì con il nuovo anno (1794) a Dresda, dove sua sorella era sposata con il segretario Ernst. Arrivò senza soldi, viveva in una restrizione che confinava con l’indigenza, ritirato da ogni compagnia; solo con Körner iniziò gradualmente uno scambio letterario. In quest’epoca scrisse i lavori grazie ai quali conquistò di colpo un posto nel mondo letterario. Il modo in cui egli considerava l’arte lo spinse a concentrarsi, da questo momento in poi, sull’antichità e determinò il punto di vista sotto il quale la storia della poesia greca acquisì per lui un significato universale. I Greci, per Schlegel, furono l’unico popolo dotato di senso artistico naturale, di gusto. «Il problema della nostra poesia pare essere la riunificazione di ciò che è essenzialmente moderno con ciò che è essenzialmente antico»; «Goethe, il primo rappresentante di un’epoca artistica completamente nuova», ha iniziato ad avvicinarsi a questo scopo28. Per raggiungere tale scopo deve essere indagata la legge del bello poetico, lì dove essa si è sviluppata da un innato senso artistico. «La storia della poesia greca è un’esauriente storia naturale del bello e dell’arte; perciò la mia opera è un’estetica. Questa, fino ad oggi non ancora ideata, è il risultato filosofico della storia [dell’estetica e anche l’unica sua chiave]»29. Così scriveva Schlegel già il 27 febbraio e il 5 aprile del 1794, imboccando, in tal modo, la strada più fruttuosa per dare fondamento alla nostra comprensione della facoltà poetica. Con questo 26
Walzel, Walzel, 28 Walzel, 29 Walzel, 27
p. p. p. p.
190. 179. 170. 173.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
spirito assunse su di sé il compito posto in passato al fratello, dando inizio alla sua storia della poesia greca30. Troppo presto, come già ha spiegato Schleiermacher, Friedrich iniziò quest’opera di ampio respiro: la sua inquietudine interiore e le richieste provenienti dall’esterno provocarono, mentre, dal 1794 al 1797, era occupato con la sua esecuzione, una serie di lavori, che avevano sì il loro punto di partenza nella storia della poesia greca, ma che se ne allontanavano sempre più. Egli pubblicò dapprima il progetto dell’opera e singoli studi, poiché la sua situazione economica gli rendeva necessario pubblicare i lavori preparatori per vivere. Così iniziò una traduzione di Eschilo, preparò dei saggi sulla moralità dei tragici greci e la difesa di Aristofane per il Thalia di Schiller. In onore di Caroline, e per stupirla, raccolse materiali sulla femminilità greca, su Diotima, Aspasia, Cleopatra, Olimpia. E già dieci mesi dopo la nascita del suo progetto (27 ottobre 1794), accanto ad un saggio sul valore estetico della commedia greca, che fu poi stampato nella Monatsschrift, poteva spedire a suo fratello lo scritto Sulle scuole della poesia greca. Friedrich Schlegel aveva ventidue anni quando, in questa trattazione delle scuole della poesia greca, progettò il “primo profilo” di storia della letteratura greca. Vi si riscontra chiaramente l’influsso ancora dominante di Winckelmann. Di Winckelmann si nutriva la sua capacità ricettiva, quasi sensuale, che accoglieva in sé, con tutte le forze dell’anima, il fenomeno affascinante, nonché la forza intuitiva che concepiva, a partire dalla totalità, il significato del singolo elemento e il senso per la grandezza. Secondo il modello winckelmanniano, Schlegel intendeva dapprima esaminare sistematicamente la rappresentazione e i mezzi per essa utilizzati nei differenti generi poetici, nella saga e nel mito, nella lingua e nel metro, nelle diverse scuole poetiche, per poi comprenderne, alla luce dei suoi principi, nascita, fioritura e tramonto. Si rifaceva inoltre alla concezione winckelmanniana delle quattro epoche dell’arte31. La poesia, secondo questa concezione, si sviluppa negli stadi della scuola ionica, dorica, attica e alessandrina. La dipendenza da Winckelmann si estende fin nelle singole caratterizzazioni di queste scuole32. 30
Geschichte der Poesie der Griechen und Römer, 1798. Inoltre appare aver influenzato Winckelmann una tradizione opposta: Kunstgeschichte, VIII, 1 (Weim. Ausgabe, 3, 210): «L’arte dei Greci, come la loro poesia, secondo l’indicazione dello Scaligero, ha quattro epoche fondamentali». Il passo dello Scaligero non rinvenuto dagli amici di Weimar è in Jos. Just. Scaligeri opuscula, 1612, p. 323, lettera del 20 novembre 1607 a Salmasius. Le epoche suddette vengono comparate con le età della vita e le stagioni. 32 L’analogia con lo stile più antico dell’arte greca descritto da Winckelmann lo indusse a dire, anche a proposito della poesia ionica, che le opere di questa non sono pura arte bella. 31
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L’AMICIZIA CON FRIEDRICH SCHLEGEL
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Erano comunque molto evidenti, in questo veloce schizzo, le debolezze insite nel suo pur geniale pensiero di fondo. Friedrich stesso notava che, al posto della costruzione filosofica delle scuole, doveva subentrare la precisione storica. Con tanta maggiore felicità apprese della lode di Wilhelm e concepì la speranza di rinnovare lo studio degli antichi in Germania. Apparvero allora i Prolegomena di Friedrich August Wolf33, che Friedrich ricevette nell’estate del 1795, e che diedero al suo progetto un saldo fondamento. Friedrich stesso aveva avuto fino ad allora un presentimento della mancanza di unità interna nell’epica omerica, tanto che nelle Scuole aveva detto: «Inutilmente ci si sforza di dimostrare, partendo da motivazioni interne, che l’ordine dell’Iliade è nuovo e non genuino, se non lo si dimostra dall’esterno»34; quasi avesse voluto provocare i Prolegomena di Wolf. August Wilhelm, già nel 1794, in una lettera richiamava l’attenzione sulle giunture presenti nell’Odissea, nelle quali si poteva osservare chiaramente l’ago del critico35. Così i Prolegomena trovarono Friedrich già occupato con questi problemi e lo scetticismo di Wolf gli ricordava quello di suo fratello. In autunno era alle prese con un lavoro sulle medesime questioni. «Ti rallegreresti», scriveva ad August Wilhelm, «di ritrovare in Wolf ciò che tu stesso Se il suo modello ascrive allo stile più alto, cioè a quello della seconda epoca, grandezza e semplicità, una bellezza, che riposa nel perfetto accordo delle parti e in una nobile espressione, in conformità a ciò Schlegel trova la base dello stile dorico nella grandezza, nella semplicità e nella pace, la sua bellezza nella proporzione di tutte le parti. Se poi Winckelmann scorge nel bello stile una varietà e una maggiore differenziazione espressiva, che non aggiunge nulla alla grandezza, secondo Schlegel costituisce il carattere della scuola attica il fatto che essa collega, con la nobiltà di quella dorica, acuta determinatezza e ampiezza. E come Winckelmann giustificava la decadenza dell’arte semplicemente con il fatto che in nessuna opera della natura si può trovare un punto fermo e che perciò l’arte dovrebbe tornare indietro quando non è più possibile pensare a un avanzamento, anche Schlegel si basava sulla legge universale secondo la quale l’impulso naturale non produce nulla di duraturo. L’ulteriore analogia che così si origina tra i singoli rami dell’arte in decadenza è evidente. 33 Friedrich August Wolf, Prolegomena ad Homerum, I, Halle 1795. 34 FW, IV, p. 10. 35 Il curioso passo nella lettera di Friedrich a Wilhelm del 18 novembre del 1794: «Ancora alcune questioni: quale è il luogo nell’Odissea, nel quale si vede chiaramente l’ago del critico, con il quale egli tappa i buchi? Perché ritieni l’Inno ad Afrodite così evidentemente non omerico? Sento, certo, nel libro XXIV dell’Odissea qualcosa di non genuino ma vorrei solo sapere i motivi per i quali lo si ritiene spurio. Ha avuto qualcuno degli antichi già questa opinione? Ammetto volentieri che l’ordine dell’Iliade e dell’Odissea non provengano da Omero, o piuttosto che non possiamo assolutamente sapere come hanno proceduto coloro che hanno ripristinato questo ordine, e se essi furono veramente soltanto dei ricostruttori. Però posso ritenere verosimile che quei poemi non provengano da un unico uomo» (Walzel, p. 197). Si vede qui la sua separazione di ciò che non è omogeneo per contenuto, colore e forza artistica, cosa che Wilhelm forse, senza Wolf, non sarebbe riuscito a fare.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
hai acutamente ipotizzato. Egli ha però mescolato alcune ipotesi fantasiose, come fanno generalmente gli scettici che, alla fine non possono abbandonare il dogmatizzare, per il quale non hanno alcun talento. C’è veramente qualcosa di geniale in lui»36. Sotto il benefico influsso della ricerca di Wolf prese avvio lo scritto sulla poesia greca37. Questa storia rimane il lavoro più preciso di Friedrich Schlegel; oltre ad esso, solo l’opera indiana38 e forse il saggio su Boccaccio possono pretendere di valere come ricerche complete. Essa fu, dopo le visioni storico-letterarie di Heyne, dopo gli epocali Prolegomena, il primo tentativo di scrivere una vera storia della letteratura dall’altezza ormai raggiunta. Non posso permettermi alcun giudizio particolare, in questo ambito, sul valore delle singole ricerche39. Diverse testimonianze dei fondatori della nostra attuale storia della letteratura greca sostengono di averne ricevuto grande sostegno. Per primo Böckh, nel suo saggio giovanile sulla metrica di Pindaro, spiega: «le seguenti idee sulla collocazione nazionale dei diversi generi lirici sono debitrici del primo impulso alla Storia della poesia di Greci e Romani di Friedrich Schlegel e meritano uno sviluppo più preciso di quanto esse hanno trovato recentemente altrove». La fruttuosa idea della connessione della cultura delle singole stirpi con la fioritura dei generi poetici fu espressa per la prima volta, a quanto vedo, da Schlegel nel saggio sulle scuole, anche se in forma ancora intuitiva e collegata alla materia, per così dire, solo per divinazione. Wilhelm la confermò, ad esempio, nell’architettura dorica e attraverso la classificazione delle colonne: fu in seguito sviluppata nella storia della letteratura greca. Qui venne fatto il primo serio tentativo di caratterizzare le stirpi stesse, come appunto quella dorica, secondo i diversi aspetti della loro esistenza storica, al fine di trovare la base per determinarne anche l’inclinazione poetica. A partire da qui questa concezione storica trapassò nelle lezioni e nei lavori di Böckh e poi nelle opere di Otfried Müller40. Friedrich interruppe la realizzazione di questo importante lavoro in un primo momento per esporre, nel saggio Sullo studio della poesia greca, il ruolo 36 37
338.
Walzel, p. 248. Cfr. Friedrich Schlegel, Geschichte der Poesie der Griechen und Römer, KFSA, III, pp. 9-
38
[Friedrich Schlegel, Über die Sprache und Weisheit der Inder, 1808]. Ci sia concesso, però, citare il giudizio di un profano come Alexander von Humboldt: «ho studiato con zelo», scrive nel 1833 nel Briefwechsel von Alexander von Humboldt an Varnhagen von Ense, a cura di Ludmilla Assing, Brockhaus, Lipsia 1860, p. 17, «gli studi classici di Friedrich Schlegel e mi sono convinto che molte idee sull’antichità greca, che si ascrivono ai contemporanei, giacevano già sepolte nei saggi del 1795». 40 [Karl Otfried Müller (1797-1840), filologo classico, noto per il suo Handbuch der Archäologie der Kunst]. 39
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L’AMICIZIA CON FRIEDRICH SCHLEGEL
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che il suo compito scientifico rivestiva per lo sviluppo della nostra poesia tedesca. Chi ha presente solo i tratti esteriori della vita di Schlegel, deve stupirsi che egli non abbia seguito con costanza la traiettoria che gli stava dinnanzi. Essa lo avrebbe condotto a grandi risultati positivi, ad un’armoniosa esistenza, volta a una ricerca di grande profitto. Ma tutto – l’inclinazione del suo spirito, che abbiamo descritto, le circostanze esteriori della sua esistenza, le condizioni spirituali del suo tempo – contribuiva a rendergli impossibile questa rigorosa limitazione dei suoi lavori. Lo circondava un movimento poetico che cresceva con forza, che incalzava senza tregua tutte le cerchie intellettuali della nazione e che, in questi anni, trascinò con sé tutti i talenti rivolti all’intuizione, addirittura il moderato Wilhelm von Humboldt: entrando in questo movimento si poteva misurare la propria forza con i primi uomini della nazionea. Nello stesso tempo il pubblico cominciò a mostrarsi riconoscente e fedele verso i suoi scrittori preferiti. Particolarmente allettante appariva l’esempio delle Horen: in un’epoca in cui a Jena tutti potevano vivere agiatamente con 250 talleri, l’onorario era di 5 luigi d’oro per foglio, i suoi stretti collaboratori venivano pagati ancora di più. Allora, dopo lungo tentennare, si decise a questa libera professione anche August Wilhelm, uno scrittore di talento innato, come non ne abbiamo mai avuti dall’epoca di Lessing, fatto per una realizzazione veloce, per una brillante affermazione, per il felice dono di cogliere l’attimo, ma altrettanto rigorosamente disciplinato e chiaramente interessato alle questioni di denaro e di affari, così dotato e a suo agio nelle relazioni letterarie quanto sregolato, influenzabile come una donna, senza controllo sui propri umori nelle relazioni sentimentali. Dopo aver progettato per lungo tempo di legarsi in America con Caroline, all’inizio del luglio del 1795 ritornò in Germania, anche in seguito alla vivace pressione di Schiller. Nello stesso tempo anche Hölderlin, il genio profondo per il quale la creazione era però incredibilmente pesante, era trascinato in questo vortice della vita letteraria, e provò la prima grande e mortificante delusione della sua vita. Anche Friedrich imboccò lo stesso pericoloso sentiero, per quanto egli non fosse affatto uno scrittore, bensì una di quelle menti nelle quali nulla si lascia isolare, nelle quali ciascun singolo e limitato lavoro mette in movimento l’intera massa di idee che si sviluppano lentamente e, se mai, giungono solo tardi a maturazione. La direzione del movimento poetico nella quale egli poteva inserirsi era prescritta dalla natura del suo talento. Dove la genialità intuitiva era sorretta dalla sensibilità per la lingua e per la forma cresceva fino a diventare genialità della traduzione, addirittura capacità di ricreare (nachschöpfen). Questa fu concessa a Herder e, in misura maggiore, ad August Wilhelm Schlegel; più leggeri talenti si collegavano a questi. Invece Friedrich, che
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
sempre ebbe difficoltà ad esprimersi, era in grado di aumentare la propria già notevole capacità ricettiva fino a una visione filosofica d’insieme. Fino a questo punto lo aveva guidato Winckelmann e qui gli venne incontro Schiller, con la sua applicazione a fenomeni poetici di concetti estetici chiaramente formati. Schiller e Friedrich Schlegel concepirono nello stesso periodo il medesimo problema. Chi indaga con precisione i movimenti scientifici dei più diversi tipi, impara a dominare l’inclinazione naturale e a subodorare ovunque dipendenza, dove il medesimo pensiero innovativo si fa strada in differenti individui in rapida successione. Dalle premesse di un’epoca scientifica si ottengono, in menti del tutto diverse, gli stessi compiti e le stesse soluzioni. Fu la necessità, insita nel movimento poetico di allora, di confrontarsi con la poesia greca, che aleggiava sopra le loro teste come una stella, a produrre entrambi i lavori. Risultati simili si offrivano a Schiller e a Schlegel, anche se questi si incontrarono solo come due viandanti che, a partire da punti di partenza lontani l’uno dall’altro, percorrono la stessa strada in direzioni che si incrociano41. Il saggio di Schiller Sulla poesia ingenua e sentimentale e quello di Friedrich Schlegel Sullo studio della poesia greca sono completamente differenti per metodo e per finalità. Schiller prendeva le mosse dall’analisi dell’essenza della poesia e ne scopriva due forme fondamentali, presenti, secondo lui, l’una accanto all’altra, nella medesima epoca storica. Schlegel, invece, partiva dalla 41 Il significato e le conseguenze dei due lavori rende importante determinare la vera relazione tra essi. Non c’è nessun motivo di dubitare della dichiarazione di Schlegel di aver letto il saggio sulla poesia sentimentale solo dopo aver concluso il proprio scritto. Già nell’estate del 1796 il Journal di Reichardt portava un estratto dallo scritto di Schlegel, mentre il secondo citato saggio schilleriano apparve nel primo quaderno delle Horen, che giunse al redattore solo il 7 febbraio. Dalle lettere a Wilhelm questa relazione si vede ora molto più chiaramente. Il 23 dicembre del 1795 Friedrich aveva già spedito da due settimane e mezza la fine del saggio Sullo studio della poesia greca; fece seguire al manoscritto la prefazione derivante dalla lettura di Schiller. Rimane la possibilità che alcuni pensieri sulla poesia ingenua abbiano influenzato la sua trattazione; non sono però in grado di trovare nulla che non sia riconducibile con più facilità ai suoi studi legati a Winckelmann. Già il saggio, altrimenti molto confuso, Sui limiti del bello, del 1794 (M, I, 1882, pp. 21 ss.), contiene il pensiero fondamentale. Esso deriva dalla natura moderna di Schlegel, dedita al contenuto della poesia e dai suoi studi sull’antichità guidati da Winckelmann, che gli consentirono di scoprire la legge della bella forma. Devo perciò, a questo proposito, dissentire dall’esposizione di Koberstein (Grundriß der Geschichte der deutschen National-Literatur, I-III, Vogel, Lipsia 1847-1866), che si basa sulla imprecisa indicazione presente nei dialoghi di Eckermann con Goethe (5.A.1883 III 37): anche la precisa esposizione di questa relazione in Tomascheck, Schiller (pp. 446 ss.) non mi sembra, a causa del misconoscimento della successione cronologica e dell’identificazione di una così diversa intenzione, rendere giustizia ai due scritti di Friedrich Schlegel.
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L’AMICIZIA CON FRIEDRICH SCHLEGEL
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concezione storica winckelmanniana dell’arte antica, intesa come un individuo organico, e tentava di determinare, attraverso caratteristiche storiche distintive, l’essenza completamente diversa della poesia moderna. Schiller voleva liberare la nostra poesia dal criterio, ad essa totalmente eterogeneo, dell’arte greca, mettendo in luce a tale scopo il fondamento peculiare della nostra poesia moderna. Friedrich Schlegel, nell’introduzione alla sua storia della poesia greca, intendeva evidenziare l’elemento esemplare eterno, in virtù del quale la storia della poesia greca è la storia naturale della poesia stessa, e pone in tal modo la concezione storica della moderna poesia artificiale accanto a quella di quell’epoca felice. La teoria schilleriana, matura e a fondo meditata, fu del più grande significato per l’analisi della facoltà poetica; tuttavia essa non contiene assolutamente i motivi per individuare le grandi epoche storiche della poesia. Fu per primo Friedrich Schlegel a esaminarli, raccogliendo e semplificando le peculiari caratteristiche dell’epoca moderna. Per quanto il suo tentativo sia rimasto imperfetto, addirittura immaturo, tuttavia questo approccio storico si è dimostrato più fruttuoso di quello filosofico di Schiller. Sta in esso l’inizio della differenziazione, ricca di conseguenze, di poesia classica e poesia romantica. Si può considerare la poesia moderna, sostiene Friedrich Schlegel, come una totalità. La moderna formazione (Bildung) europea è in generale, fin dai suoi primordi, omogenea in tutti i tratti, in virtù di una religione comune e di un costante influsso reciproco; la poesia, in quanto ramo di questa formazione (Bildung), deve mostrare la medesima unità. Tale unità si può osservare nella alterna dipendenza per la quale ora la maniera italiana, ora la maniera francese, ora quella inglese hanno dominato la poesia europea. In tutti i paesi, inoltre, questa poesia mostra caratteristiche simili: ostinata imitazione dell’arte antica; centralità della teoria per l’artista; netto contrasto tra arte inferiore e superiore; prevalenza dell’elemento caratteristico, individuale e interessante. Spiego in breve i tratti fondamentali della poesia moderna. La formazione (Bildung) umana o è naturale, cioè formata dall’impulso (Trieb), o è artificiale (künstlich), cioè guidata dall’intelletto. Ovunque, all’inizio, ci fu formazione naturale (natürliche Bildung), ma essa dovette in seguito tramontare: l’impulso (Trieb) è infatti una guida forte, ma cieca. Alla successiva cultura artificiale (künstliche Kultur) appartiene anche la poesia moderna: in essa dominano i concetti. Nell’inesprimibile miseria che la formazione naturale lasciò dietro di sé stava la condizione della poesia moderna; nei suoi resti, a stretto contatto con quella miseria, in un’artificiale religione universale, stava il suo nocciolo. Quando si innalzò in mezzo a questa formazione (Bildung),
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
l’arte rimase attaccata ai resti dell’antichità, mescolò le forme artistiche di diverse nazioni e i generi artistici stessi, fece all’artista un egoista, isolato nella sua nazione, e diede alle sue opere la prevalenza del contenuto intellettuale o della forza estetica individuale. Se definiamo “interessante” un individuo nel quale contenuto intellettuale o energia estetica possiedono un certo grado di forza, allora l’interessante era lo scopo dell’intera poesia dell’Europa moderna. Questa poesia interessante può sfociare in forme patologiche o elevarsi, dove sia attiva una grande forza morale, fino a genuine, oggettive opere d’arte. A esse preludono i sintomi del presente. «La poesia di Goethe è l’aurora dell’arte genuina e della pura bellezza»42. Affinché essa appaia è necessaria la forza estetica dei grandi artisti e degli intenditori d’arte; è necessaria la moralità, poiché il gusto autentico è il sentimento formato (das gebildete Gefühl) di un buon animo morale (Gemüt); è necessaria, come primo organo della rivoluzione estetica, una compiuta regolamentazione estetica. Filosofia e storia devono a tal fine collegarsi. Il fondamento filosofico è creato da Fichte, mentre la storia, di cui si necessita, è soprattutto quella della poesia greca, poiché essa è tout court la storia naturale della poesia. È giunto il tempo di elaborare una compiuta teoria della bellezza e di promuovere, tramite essa, la grande rivoluzione della poesia. In questi pochi fogli era contenuto il progetto ricco di conseguenze delle tre epoche della poesia. In modo inconfondibile si delinea in esso un primo ricomporsi delle opposizioni che lottano in Schlegel. La sua natura moderna fu presto consapevole di cercare, anche nella poesia, solo il contenuto, la potenza intellettuale, l’energia della passione. Il suo studio della poesia greca lo indusse a concludere che solo tra i Greci ci fu un puro e originario senso per la bellezza43. Quasi non aveva terminato di scrivere che né la determinazione di queste contrapposizioni del bello e dell’interessante, né l’accomodamento del loro significato lo soddisfacevano. Quando il libro era già pronto nelle sue mani, ricevette la teoria della poesia sentimentale di Schiller. Per alcuni giorni non poté fare altro che leggere e scrivere note, trovando in Schiller effettivi chiarimenti. Così nacque la prefazione al proprio scritto che in parte lo contraddice. Questa prefazione giustifica la poesia interessante. Se si applica a essa la misura della pura legge della bellezza, ci si vede costretti a un amaro giudizio, contraddetto dal sentimento naturale (das natürliche Gefühl). Se 42 43
FW, V, pp. 80 ss. Anche Lessing, oltre a Winckelmann, condivideva questa visione (Laokoon, II, III).
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L’AMICIZIA CON FRIEDRICH SCHLEGEL
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però ci si impegna a chiarire l’oscuro messaggio di questo sentimento, si scopre il carattere precipuo della poesia moderna e ci si vede sorpresi da una brillante giustificazione di essa. Una siffatta deduzione dell’interessante è forse il compito estetico più difficile. La sua base è la visione storica di come, dopo la decadenza della compiuta formazione naturale (natürliche Bildung) e, quindi, dopo la perdita della realtà finita, nacque una tensione verso la realtà infinita, che è il motivo più profondo della vita culturale di quest’epoca (a questi pensieri si lega poi la concezione hegeliana del motivo ultimo della cultura romantica)44. Si scopre anche nelle forme della poesia sentimentale stabilite da Schiller che la caratteristica storica generale è l’interesse per la realtà dell’ideale45. In questo tendere verso una realtà infinita, in questo interesse così potente per la realtà dell’ideale è rinvenuto, dunque, il tratto più generale della poesia interessante, al quale la formulazione di Schiller si relaziona come un caso particolare; contrapposta a essa sta una poesia veramente bella, che procura facilmente un piacere disinteressato e si accontenta di questa soddisfacente apparenza. A partire da questa prefazione, in un rapido sviluppo, la moderna natura di Friedrich ottenne il sopravvento, e da storico della poesia greca, che intendeva mettere di fronte al movimento poetico della sua epoca le leggi della bellezza dello spirito greco, si trasformò nel più acuto difensore del carattere autonomo e dell’incomparabile valore della poesia moderna. All’inizio del 1796, nello stesso momento in cui fu terminata la prefazione di Friedrich, suo fratello andò ad abitare a Jena: deve esservi giunto non molto prima del 27 maggio, e in giugno si sposò con Caroline. Nel luglio del 1796 anche Friedrich si recò a Jena, passando per Weissenfels, dove fece visita a Hardenberg, ed entrò così, occupato con la storia degli antichi e con la giustificazione della poesia moderna, nella cerchia di Schiller e di Goethe. Era un momento critico per la storia della nostra poesia. In solitudine i nostri due grandi poeti avevano lottato con i problemi reali della vita e del mondo; le loro opere erano scaturite immediatamente da questi violenti impulsi. Quando si incontrarono, iniziarono a considerare i mezzi della tecnica poetica volti a ottenere perfezione ed efficacia artistica. La loro conoscenza dei fenomeni metrici, linguistici, poetici era limitata: avevano avuto ben altre cose da fare. Necessitavano ora di una interpretazione del contenuto e dello scopo della loro poesia, come quella iniziata nelle lettere di Schiller. Necessitavano di spiegazioni che illuminassero il loro rapporto con gli antichi e con i poeti moderni di altri popoli, con una competenza 44 45
Hegel, Sämtliche Werke, III, pp. 120 ss. Schlegel, M, I, pp. 1 ss.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
più rigorosa di quanto fosse possibile acquisire sulla loro così elevata strada. Il critico era il compagno del poeta. Agì in questo senso Wilhelm von Humboldt, ma anche Körner, e lo spirito abile, severamente esercitato e brillante di Wilhelm Schlegel fu loro assai gradito. Ma tra questi nessuno possedeva una conoscenza della letteratura antica profonda come quella di Friedrich Schlegel, che a sua volta era entusiasta dei lavori filosofici di Schiller e inebriato dalla poesia di Goethe. Da parte di Schiller sussisteva una fin troppo naturale antipatia verso Friedrich, che l’entrata in scena e il debutto letterario dell’immaturo giovane non fecero che aumentare. Quando Schiller vide il ventenne per la prima volta a casa di Körner nel 1792, lo trovò presuntuoso e freddo e scambiò con lui poco più di sei parole46. Körner e Humboldt, l’ultimo dei quali conosceva Friedrich fin dai tempi di Gottinga e discuteva con lui di letteratura antica in un epistolario, erano instancabili nel consigliargli Friedrich Schlegel per la Thalia e le Horen: tuttavia Schiller trovò sempre i lavori schlegeliani poco chiari e pesanti, addirittura dubitava del fatto che Friedrich possedesse talento per diventare scrittore. Lo tenne perciò a distanza47. Sembra che il nuovo incontro con Friedrich Schlegel, nonostante la prima buona impressione personale, acuì molto presto la sua antipatia. L’incomparabile fascino del discorso e della personalità di Schiller era alla portata solo di pochi spiriti affini. La nobile natura di Schiller aveva costruito il proprio mondo, con risoluta audacia, a partire da pochi ma indistruttibili elementi, eternamente validi: la filosofia di Kant, la potenza storica del Protestantesimo e l’arte antica. Nel procedere, quasi senza respiro, del suo sviluppo, Schiller non aveva avuto né tempo né volontà di accogliere in se stesso ciò che non si inseriva in questa compatta totalità. Egli si trovò a dominare nella propria cerchia. Aveva allontanato Fichte; oltre a Goethe gli erano veramente vicini 46
«Schiller ha parlato molto bene di te, in particolare il tuo Dante gli è molto piaciuto. Questo lo ha detto a Hardenberg, non a me, sebbene io lo abbia visto spesso; poiché non mi poteva soffrire e non abbiamo scambiato molto più di sei parole. Sono venuto casualmente a conoscenza dei giudizi di Körner e dei suoi su di me. Crederesti che io sembro loro uno spiritoso freddo e arrogante? Anche a Schiller? Hanno messo addirittura all’asta il mio cuore, a chi ne offre il più grande rimprovero». Riguardo a ciò, Körner scrive a Schiller, il 20 dicembre del 1793, che il comportamento di Schlegel, che conosceva, era di recente migliorato: «è diventato modesto e non pretende più così tanto» (Schillers Briefwechsel mit Körner, III, Veit, Berlino 1847, p. 157). 47 Per ulteriori informazioni cfr. Schiller a Körner, pp. 1, 157, 180, 183, 201, 207, 211, 217, 224 ss., 241, 268, 272 ss., 301, 329, 333 ss., 344, 349, 362. Per l’intero corso di questo rapporto, oltre alle maggiori e note raccolte di lettere, cfr. Briefe Schillers und Goethes an August Wilhelm Schlegel, a cura di Eduard Böcking, Weidmann, Lipsia 1846; Briefe der Brüder Schlegel an Schiller, «Preußische Jahrbücher», IX, 1862.
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L’AMICIZIA CON FRIEDRICH SCHLEGEL
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solo coloro che condividevano il suo idealismo. Una volta egli descrisse la sua esistenza, che pur si svolgeva nell’ambiente più ricco di geniali talenti, come “assoluta solitudine”. Egli respinse scontrosamente ciò che si andava risvegliando nella giovane generazione, e che Goethe, invece, accompagnava, facendosene partecipe e arricchendosi a sua volta. Al grande scrittore, che aveva condotto le proprie ricerche a partire dalle salde premesse kantiane, la natura di Friedrich, nella quale tutti i problemi filosofici e storici fermentavano in modo confuso, appariva senza speranza. Il curioso mescolarsi di entusiasmo e durezza di giudizio, che nasceva dai presentimenti del nuovo e della ambizione personale, allontanavano il maturo e chiuso carattere di Schiller; proprio ciò che gli era risultato spiacevole nell’incontro con Schlegel a Lipsia si affermava allora nella critica letteraria. Contemporaneamente al suo trasferimento a Jena, Friedrich aveva fatto pubblicare una difesa del Musenalmanach di Schiller, che elogiava entusiasticamente il contenuto filosofico di questo poeta, ma che parlava di una facoltà immaginativa (Einbildungskraft) irrimediabilmente rovinata48. A questa assai infelice applicazione della teoria dell’interessante Schiller replicò nelle Xenien: «Non ti manca molto per chiamarti maestro secondo i miei concetti, escludendo una sola cosa: che tu fantastichi (phantasierst) in modo folle»49. Apparve nella primavera del 1797 una recensione di Friedrich Schlegel alle Horen, che scioglieva ogni relazione di Friedrich con Schiller. Ne derivò l’inevitabile separazione. Ancora nell’estate del 1796 Friedrich aveva spiegato al fratello: «poiché la mia più sacrosanta decisione è di non prendere partito per nessuna fazione di intellettuali, mi auguro che mi si riconosca questo e che non si fraintenda la mia franchezza»50. Questo atteggiamento da critico imparziale Friedrich non lo perse mai. La sua natura e le sue relazioni dovettero invece fare presto del giovane scrittore, un po’ maldestro e molto poco chiaro a se stesso, il capo di una fazione originale e molto influente. Non è facile sedere al tavolo degli dei senza invidia e superbia. Goethe, Schiller, Fichte parlano all’unisono dell’orgoglio smisurato di Friedrich Schlegel. Era l’orgoglio tipico del teorico che si trova in mezzo a un movimento 48 [Einbildungskraft è stato reso con “capacità” o “facoltà immaginativa”, talvolta con “immaginazione”. È termine chiave non solo per la teoria letteraria ed estetica del romanticismo, di cui Dilthey rende conto in queste pagine e nel capitolo successivo, ma per lo stesso Dilthey: cfr. GS VI, Die geistige Welt. Einleitung in die Philosophie des Lebesns. Zweite Hälfte. Abhandlungen zur Poetik, Ethik und Pägagogik, a cura di Georg Misch, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottinga 1978 e GS XXV, Dichter als Seher der Menschheit. Die geplante Sammlung literarhistorischer Aufsätze von 1895, a cura di Gabriele Malsch, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottinga 2006]. 49 Xenien, 1796, Weimar 1893, p. 96. 50 Walzel, p. 286.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
creativo: secondo Schlegel, loro, che volevano invece partecipare anche al comando di questo movimento, avrebbero dovuto solo prestarsi a esserne esempio. Emerse inevitabile questo eterno dissidio tra l’artista e il critico, tra l’uomo di Stato e lo scrittore o l’oratore politico. Proprio Schiller, che aveva intrapreso, con la potenza tipica del grande scrittore, a interpretare il contenuto di questo movimento creativo, fu il primo a entrare in relazione con loro, per poi rompere nel modo più brusco. Proseguendo noncuranti per la loro strada, i fratelli Schlegel hanno procurato alla critica, nella visione comparativa della letteratura, la vera base per un punto di vista oggettivo superiore. Lo storico della poesia greca non solo si sentì allora sempre più attratto dalla poesia moderna e dai compiti critici, ma si sentì anche ricondotto ovunque ai suoi presupposti filosofici. Intese la propria opera solo come parte di un ampio piano: non seppe attendere il tempo giusto per procedere dai fenomeni estetici a quelli morali e politici. Già quando giunse a Jena, gli parve suo compito supremo scrivere una storia dell’umanità o una filosofia della storia; e come condizione gli sembrò necessario completare, correggere e perfezionare la filosofia kantiana, poiché, senza questo chiarimento dei pensieri che stavano alla base della sua analisi della letteratura greca, si trovava ostacolato ovunque nell’elaborazione concettuale. Considerava risultato di questi lavori la critica dell’epoca o la teoria della formazione. È assai caratteristico dello sviluppo della nostra formazione il fatto che proprio i lavori dedicati alle epoche della poesia siano stati determinanti per chiarire l’evoluzione (Entwicklungsgeschichte) dell’umanità. Schiller e Friedrich Schlegel sono i predecessori di Schelling e Hegel. Si ascolti Schiller: «La strada che percorrono i nuovi poeti è la stessa che l’uomo in generale, sia come singolo sia come comunità, deve imboccare. La natura lo rende uno con se stesso, l’arte lo separa e lo divide; attraverso l’ideale egli torna all’unità»51. Il saggio di Schlegel, che abbiamo esposto, determinò con maggior precisione la legge di formazione (Bildungsgesetz) di ciascuna di queste tre epoche52. Ma Schlegel si imbatteva continuamente a questo proposito in questioni filosofiche, la cui soluzione condizionava il procedere dei suoi lavori. Da lungo tempo aveva capito che doveva confrontarsi con Kant e con le ricerche dell’idealismo. Tuttavia questo confronto era impossibile per il suo spirito intuitivo, non formato per la severità dei concetti. Le pagine dei suoi diari 51
Schiller, Die sentimentalischen Dichter, in Über naïve und sentimentale Dichtung. Molti tratti delle tre epoche nella Fenomenologia dello spirito di Hegel si trovavano già in questo tentativo di Friedrich Schlegel di esprimere le leggi di formazione (Bildungsgesetze) delle tre epoche poetiche dello spirito umano. 52
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L’AMICIZIA CON FRIEDRICH SCHLEGEL
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scientifici mostrano ora il suo sguardo penetrante, ora il suo non comune talento nel comprendere intuitivamente e nel collegare in modo sorprendente i tratti fondamentali dei fenomeni. Essi testimoniano anche, però, che fin dall’inizio gli mancavano la precisione, l’ordine costante e la fermezza di spirito, senza i quali non può nascere alcuna valida connessione di concetti, neppure in una testa dotata di geniale forza intuitiva e combinatoria. La sua filosofia era dilettantismo53. In queste vane lotte gli venne in aiuto la Dottrina della scienza fichtiana; a Jena incontrò di persona Fichte, che era già pronto, a quell’epoca, a mettere in relazione la sua giovane filosofia con le più diverse cerchie di interessi. Questa filosofia fece fare alcuni significativi progressi a coloro che si occupavano dei fenomeni spirituali, come i due Schlegel, Hardenberg, Schelling, Schleiermacher, Wilhelm von Humboldt. Fichte si spinse fino ad affermare che il metodo genetico (genetische Methode), che in Germania era stato sviluppato da Winckelmann, Goethe e Herder, era il solo metodo valido per la vera scienza. «Scorgere la genesi è l’organo della scienza»54. Il metodo genetico è la spiegazione del fenomeno compiuto a partire dal suo divenire, appunto dalla sua genesi. Fenomeni simili vengono spiegati, alla luce di questo metodo, a partire da una uniformità, dalla regolarità del fondamento che li produce. Lo scopo del metodo genetico è perciò trovare la legge di formazione (Bildungsgesetz) in quanto fondamento esplicativo del fenomeno stesso. È importante riconoscere il fatto che questa legge di formazione può essere composta e che la conoscenza che otteniamo di essa passa attraverso un’ampia cerchia di possibili gradi. Conoscere perfettamente la natura delle forze e le leggi del loro agire, ottenendo in tal modo la piena comprensione genetica di un gruppo di fenomeni, è il risultato raro di una ricerca coltivata per secoli; Fichte pensava invece di ottenere questa perfetta conoscenza in un sol colpo, come se la volontà potesse impadronirsi della verità con violenza: si mescolarono così, alla fruttuosa scientificità della sua impresa, una serie di devianti errori. Fichte ardì inoltre progettare, in virtù di questo suo metodo, una storia pragmatica (pragmatische Geschichte) dello spirito umano. Egli riteneva che la filosofia, dopo le ricerche analitiche di Kant, fosse in possesso dell’ultimo fondamento esplicativo reale dei fenomeni spirituali. Un agire (Tun) infinito e puro, frenando e limitando se stesso, produce il succedersi dei fenomeni, che costituiscono l’essenza della nostra vita spirituale55. È privilegio di tutte 53
Cfr. Schlegel, PV, II, 1837, pp. 411 ss. Così un successivo riassunto, Nachgel. W. I, 151. 55 Cfr. in particolare Johann Gottlieb Fichte, Gesammelte Werke, a cura di Immanuel Her54
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
le spiegazioni dei fenomeni spirituali il fatto che la forza effettiva (wirkende Kraft), a partire dalla quale essi devono essere spiegati, viene esperita (erlebt) in noi stessi. Così Fichte fondò la sua teoria sul fatto che l’Io che filosofa è in grado di ricreare (nachschaffen) l’intero processo, nel quale sorge il mondo dello spirito56. Fichte metteva in luce, in tal modo, un potente strumento delle scienze dello spirito (Geisteswissenschaften). Il ricercatore necessitava, per il suo utilizzo, di un’esatta valutazione delle molte diverse modalità di questa attività ricreatrice (nachschaffende Tätigkeit) e del suo valore, mentre il metodo fichtiano era assolutamente non critico. Ma si agitava violentemente in Fichte la decisa volontà di procedere fino all’ultimo elemento esplicativo nel nostro Io, e il suo risultato, per quanto sbagliato, offrì un filo conduttore ad ulteriori ricerche. Così, per non parlare dei filosofi, Wilhelm von Humboldt dimostrò che l’attività riflessiva (reflexive Tätigkeit) dell’Io non si lascia soddisfare dalla opposizione puramente ideale e interiore di rappresentante (Vorstellende) e rappresentato (Vorgestellte), bensì preme per scorgere nella lingua la rappresentazione formata sensibilmente al di fuori di sé: egli collega in tal modo le sue ricerche linguistiche ai pensieri fondamentali di Fichte57. Schiller seguì il medesimo filo conduttore delle idee fichtiane, spiegando il fenomeno della bellezza a partire dalla relazione dei due fattori fondamentali presenti nell’uomo58. Erano mescolati insieme in tal modo stimoli salutari e stimoli pericolosi per le scienze dello spirito (Geisteswissenschaften): due punti, in particolare, nell’orizzonte speculativo di Fichte, esercitarono il più positivo influsso in tutti i rami di queste supreme scienze. Per primo, dopo Leibniz, Fichte ha intrapreso di nuovo a esaminare a fondo il terreno dei processi spirituali
mann Fichte, I-VIII, de Gruyter, Berlino 1845-1846, II, Bestimmung des Menschen, II, p. 303; III, 1, Naturrecht, p. 17; Nachgelassenen Werke, de Gruyter, Berlino 1854-1855, I, p. 256, 361. 56 Questo processo era per Fichte in senso più stretto una genesi. Nachgel. W. 1, 151. 2, 194. 57 Humboldt, Über die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaus, Abh. Der Berl. Akad. Jahrg. 1832, II, pp. 53-54 (Einleitung in die Kawisprache, pp. 53-54). Cfr. a questo proposito e a proposito dell’influsso di Fichte sulla concezione humboldtiana dei pronomi la bella esposizione di Rudolf Haym, Wilhelm von Humboldt, Gärtner, Berlino 1856, pp. 459-460. 58 Aesthetische Erziehung, oltre alla famosa tredicesima lettera, nella quale viene toccato l’atteggiamento verso Fichte, cfr. anche la diciannovesima. Siffatti tentativi di una deduzione sintetica (synthetische Ableitung) dei fenomeni spirituali mostrano come Fichte trascinasse con sé anche uno Schiller. Cfr. Veit a Rahel da Jena, Briefwechsel, 2, pp. 99 ss.: «Molti intellettuali hanno voluto affermare che le lettere di Schiller sono semplicemente il sistema di Fichte esposto in modo più bello. Non si sono resi conto che, pur basandosi su esso, percorrono una strada propria. Al posto dell’impulso al gioco (Spieltrieb) – afferma Fichte – egli avrebbe dovuto porre la capacità immaginativa (Einbildungskraft)». Così si discuteva a Jena.
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incoscienti (unbewußt) e per primo ha fatto di nuovo valere il principio che tutto ciò che si trova nello spirito è fondato nell’attività autonoma (Selbsttätigkeit) dello spirito stesso. Da ciò segue che deve essere negata ogni semplice trasposizione di rappresentazioni. Per questo motivo la più antica storia pragmatica (pragmatische Geschichte) dei movimenti spirituali ci appare oggi così estranea, così esteriore e meccanica: poiché essa assume ogni pensiero come una cosa fissa, spiegandolo per trasmissione di influssi estemporanei, e abbandonandosi così a un rintracciare caotico di causalità (Causalitäten), senza la minima comprensione della costruzione genetica e della struttura del nostro pensiero. Grazie all’influsso dell’intuizione geniale e del pensiero fondamentale di Fichte si profilò allora uno dei più grandi progressi nella nostra comprensione dei fenomeni spirituali, pari alla rivoluzione avvenuta, su questo terreno, durante il secolo diciottesimo, a partire dalla storia politica, per mano dei ricercatori inglesi e francesi. Abbiamo raggiunto con ciò il punto nel quale l’aspirazione di Friedrich Schlegel si collegava con i risultati di Fichte ed entrambi, insieme, incisero in modo determinante nel corso della formazione di Schleiermacher. Spettò poi alla dialettica di Schleiermacher, al suo Platone, alla sua ermeneutica e all’etica, raggiungere il pieno risultato di questa grande direzione di pensiero. Allo stesso Friedrich, a causa della sua organizzazione spirituale, ciò era precluso. L’impresa schlegeliana di istituire una teoria in grado di fondare lo studio dei fenomeni spirituali si collega alla dottrina della scienza (Wissenschaftslehre). Schlegel nota subito che a questa mancava ancora l’evidenza; ma le riforme che egli suggerisce non si rifanno al metodo analitico (analytisches Verfahren) di Kant, bensì nascono dal suo peculiare punto di vista dell’intuizione geniale. In analogia con l’opera d’arte egli scorge la prova positiva della verità di un sistema nella totalità, nella sua compiuta connessione interna59. Egli vuole vedere introdotti, in questa scienza fondamentale della logica, l’elemento storico, una teoria generale dei giusti punti di vista, una confutazione delle opinioni contrastanti, che ne contenga la dimostrazione negativa, precedendo, anche in ciò, Hegel60. A partire da essa devono essere sviluppate le leggi 59
Schlegel, PV, II, p. 407: «La filosofia deve iniziare, come la poesia epica, nel mezzo ed è impossibile esporla in modo tale che il primo elemento sia spiegato e fondato in sé subito perfettamente. Si tratta di una totalità e la via per riconoscerla non è una linea retta, bensì un cerchio». Egli coniò questo pensiero riguardo al suo concetto preferito, quello della ciclicità della filosofia. Cfr. ivi, p. 421; Fragm., Ath. Nr. 43: «La filosofia procede ancora per via retta, non è sufficientemente ciclica». 60 Schlegel, PV, II, pp. 406, 408. Perciò la Kritik der philosophischen Systeme forma la seconda parte della Logik pubblicata da Windischmann (PV, I).
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
di formazione delle differenti forme del mondo spirituale, le loro epoche, il loro cooperare61. Qui si apre in ogni punto uno sguardo d’insieme nei lavori di Schleiermacher. Al contrario, per lo spirito peculiare di Friedrich, rapito dalle intuizioni in uno stato di costante ricettività, rimase impossibile, competendo con il genio logico di Fichte, trovare nella logica la base durevole per i suoi scopi. Leggendo le singole annotazioni del suo diario si ha l’impressione che ora un pensiero di Schelling ora uno di Hegel gettino ombre incerte sul suo. Se si passa da queste pagine singolari alla recensione del Philosophisches Journal, l’organo della giovane scuola fichtiana, scritta negli stessi mesi proprio a Jena, il suo cauto tastare qua e là mostra, nel modo più esplicito, tanto nella forma quanto nei particolari, come egli non fosse in grado di sviluppare i propri pensieri. Assomiglia a qualcuno che passi, senza lanterna, per una stanza completamente buia con grande abilità, senza toccare nessuno dei fragili mobili che stanno tutt’intorno. Era costantemente presente nel suo spirito una torbida eccitazione e, per ogni nuovo lavoro, era necessario trovare un differente mezzo per poterla almeno nascondere. Friedrich non ha mai saputo procedere nella costruzione del suo pensiero sulla base di saldi risultati. Perciò egli è, innanzitutto, l’uomo che segna il passaggio dall’intuizione geniale alla costruzione logica dell’universo. L’intuizione geniale, per sua natura, spinse a questo risultato alcuni compagni che avevano una formazione differente. Essa scorge ovunque, infatti, tutto e parti, articolazione. Già Goethe era instancabile nel rendere visibili le sue intuizioni attraverso schemi (Schemata). L’attività di Friedrich Schlegel, anche in relazione agli ambiti a lui più congeniali, la filologia superiore, la linguistica, la scienza della letteratura, la filosofia della storia, rimase semplicemente preparatoria. Proprio questa conformazione del suo spirito fu fatale per lui, ma ebbe le più felici conseguenze per il libero e vario sviluppo del suo amico. A fine luglio del 1797 Friedrich Schlegel giunse a Berlino, venticinquenne, noto ormai come uno dei più famosi scrittori della giovane generazione; «questa è una mente», disse Rahel, quando lesse il suo appassionato attacco contro il Woldemar, «nella quale accadono molte operazioni (Operationen)»62. Già a quell’epoca Friedrich accarezzava il progetto di fondare una rivista per occupare, insieme ai compagni della nuova generazione, un posto au-
61 Solo nei Frammenti sono esposti in parte i risultati di Schlegel a questo proposito; il problema è precisato in limiti più ristretti in Friedrich Schlegel, Lessings Geist, II, Hinrichs, Lipsia 1804, pp. 9-13. 62 Rahel. Ein Buch des Andenkens, I, Berlino 1834, p. 169.
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L’AMICIZIA CON FRIEDRICH SCHLEGEL
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tonomo nella critica63. Aveva già stretto le prime relazioni, sulle quali si fondò la nuova scuola, aveva messo in contatto il suo amico Hardenberg con Wilhelm e si legò a Berlino con un giovane scrittore, Ludwig Tieck, le cui prime poesie avevano risvegliato l’interesse di Wilhelm. Proprio allora gli si fece incontro Schleiermacher. Si videro nella “società del mercoledì” (Mittwochsgesellschaft), una fondazione del sempre operoso Feßler64. Si trattava di una prosecuzione della “società del lunedì”, divenuta obsoleta, nella quale si erano incontrati un tempo Lessing e Mendelssohn. Ci si riuniva nella casa inglese; un paio di candele estendevano la loro penombra sulla lunga e stretta sala, mentre Herz o Schadow, il fisico Fischer o Fleck, leggevano a voce alta; poi si mangiava male e si parlava tanto meglio. Più di frequente i due si incontrarono poi presso Herz, dove, durante l’estate, Friedrich Schlegel fu assiduo ospite65, e Brinkmann li avvicinò ancor di più. Era naturale che Schleiermacher si legasse a Friedrich, perché questi era di gran lunga l’uomo più significativo, più attraente e più famoso della giovane generazione berlinese. Furono per entrambi anni molto fruttuosi, nei quali vissero in una perfetta comunione di idee. Ciascuno venne strappato per un periodo ai limiti insiti nella propria natura grazie alla forte attrazione esercitata dall’altro. Lo si è fatto ben notare a proposito di Schleiermacher, non altrettanto di Friedrich Schlegel. Il motivo sta nel fatto che l’effetto di Schlegel fu immediato e sconvolgente, ma andò poi lentamente calando, mentre quello di Schleiermacher su Schlegel sopraggiunse più tardi e in modo più impercettibile. L’essenza di Schleiermacher consisteva nella più profonda interiorità concentrata in se stessa. Fin da quando era bambino tutte le circostanze avevano fatto sì che egli imparasse a vivere raccolto in se stesso e a lavorare su di sé. Nella sua solitaria mansarda a Halle il mondo e la vita gli si erano mostrati nei racconti di Brinkmann, molto prima che, da questa intuizione premonitrice, arrivasse a farne personale esperienza. Allo stesso modo egli accolse il grande movimento spirituale della sua epoca, in un primo momen63
Secondo l’epistolario con Wilhelm il piano risaliva all’anno di convivenza a Jena (17961797). Wilhelm aveva voluto mettersi in concorrenza con la Jaener Lieraturzeitung, un organo critico che si basava su un intenso lavoro di collaborazione. 64 [Ignaz Aurelius Fessler (1756-1839), appartenente all’ordine dei Cappuccini e convertito nel 1791 al protestantesimo, rimase a Berlino, legato alla massoneria, fino alla conquista francese, dopo la quale andò in Russia]. 65 Böttiger, Zeitgenossen, II, cit., p. 106. Cfr. Fürst, Henriette Herz, cit., 18582, p. 165. Certo senza colpa di Henriette le Memoiren hanno anche qui qualche cosa di comico. «Mi affrettavo a far conoscere Schlegel e Schleiermacher convinta che una più stretta relazione sarebbe stata benefica per entrambi». Suona come se la signora Herz si fosse occupata dell’educazione dei due giovinetti.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
to, alla luce dell’ampia visuale che ne aveva Friedrich Schlegel. Proprio la profondità di Friedrich, l’universalità della sua intuizione geniale, il progetto di misurare fino in fondo questa totalità del mondo spirituale e la volontà di dominarla attraverso il pensiero, dovettero conquistare uno spirito come quello di Schleiermacher, che aveva percorso una strada opposta, lavorando con attenzione a formare se stesso e i propri concetti. Dapprima lo sconvolsero l’ampiezza delle intuizioni scientifiche e lo spirito brillante di Friedrich. Scrisse in ottobre alla sorella: «è un giovane uomo di venticinque anni, di così ampie conoscenze che è difficile comprendere come sia possibile sapere così tanto a quell’età, dotato di uno spirito originale che qui, dove pure c’è molto spirito e talento, supera di gran lunga tutti quanti». «Posso sfogare con lui non solo ciò che è già presente in me bensì, attraverso l’inesauribile corrente di nuove visioni e idee, che incessantemente affluisce in lui, viene messo in moto anche in me qualcosa che era sopito»66. Dopo una più stretta frequentazione, Schleiermacher fu avvinto dalla più profonda essenza di Schlegel, di cui abbiamo visto lo sviluppo. «Per quanto riguarda il suo spirito», scriveva due mesi dopo alla sorella, «mi è così assolutamente superieur, che io posso parlarne solo con molta reverenza. Come penetra velocemente e profondamente nello spirito di ogni scienza, di ogni sistema, di ogni scrittore, con quale alta e imparziale critica indica a ciascuno il suo posto, come le sue conoscenze sono tutte ordinate in un grandioso sistema e tutti i suoi lavori si seguono l’un l’altro, non approssimativamente, bensì secondo un grande progetto, con quale padronanza persegue tutto ciò che ha iniziato! Posso apprezzare pienamente tutto ciò solo da poco tempo, da quando vedo, per così dire, nascere e crescere le sue idee»67. Con entusiasmo pieno di abnegazione e dimentico di sé, che è uno dei tratti più belli di questa natura altrimenti così polemica, Schleiermacher viveva con Friedrich e con la dolorosa lotta da questi condotta con i suoi compiti. E mentre questi, nell’incalzare della vita, perdeva di vista il suo ambizioso scopo di comprendere la cultura umana a partire dalle leggi di formazione delle sue singole sfere, per Schleiermacher, a partire da allora, questo divenne un eccellente punto di vista per la propria concezione del mondo morale. Qui ebbe inizio l’effetto di Friedrich, che divenne ancora maggiore da quando, gradualmente, anche il suo genio critico e filologico ottennero un influsso sulle ricerche di Schleiermacher. Si deve tenere presente che Schleiermacher incontrò Friedrich nel periodo più felice del suo sviluppo così tormentato: il limite spirituale di questa natura, a causa del quale questi fermenti non 66 67
KGA V, 2, Lettera alla sorella, 2 settembre-12 novembre 1797, n. 402, pp. 176 ss. Ivi, Lettera alla sorella, 21 novembre-31 dicembre 1797, n. 424, pp. 217 ss.
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L’AMICIZIA CON FRIEDRICH SCHLEGEL
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dovevano condurre a maturazione, ma solo a sempre nuove rivoluzioni, sarebbe stato difficilmente visibile nell’immediato anche per un occhio meno pieno d’amore. E Schleiemacher lo amava. Quando la loro relazione si trasformò in una più profonda amicizia e in una felice collaborazione, emerse una seconda serie di influssi di Friedrich su Schleiermacher, che forse superò addirittura per significato la prima. Essa riposava sul successo presto raggiunto da Friedrich, sulla sua forza stimolante, sul suo carattere. Il suo spirito audace agì fortemente incalzando Schleiermacher e determinandone la collocazione nella vita, nella società, nella letteratura. «[Schlegel]», racconta Steffens, «era sotto ogni punto di vista un uomo notevole: slanciato, dai tratti del volto di bellezza regolare e di notevole spiritualità. Aveva nel suo aspetto qualcosa di tranquillo, quasi flemmatico. Non era facile trovare un uomo che potesse agire in modo così incisivo grazie alla propria personalità. Egli comprendeva qualsiasi oggetto, di cui fosse messo al corrente, in modo profondo e significativo. Il suo spirito (Witz) era inesauribile e preciso»68. Più chiaramente ancora lo descriveva Schleiermacher: «Una figura non proprio fine e perfetta, ma forte e sana, una testa molto caratteristica, un viso pallido, capelli molto scuri, tagliati corti sulla testa, senza cipria e senza ricci, un vestire abbastanza informale, ma fine e da gentleman»69. Egli possedeva «uno spirito originale che qui, dove pure c’è molto spirito e talento, supera di gran lunga tutti e nei suoi modi è di una naturalezza, di un’apertura e di una giovinezza ingenua, la cui unione con tutto il resto è forse la cosa più mirabile. Ovunque giunga, per la sua arguzia, e anche per la sua disinvoltura, è il compagno più piacevole»70. «Sebbene io impari ad ammirare la sua filosofia e il suo talento molto meglio, tuttavia è una mia caratteristica che io non possa condurre nessuno nell’interiorità del mio pensiero, se non sono convinto anche della purezza e della rettitudine del suo animo. Non posso filosofare con nessuno i cui sentimenti (Gesinnungen) non mi piacciano. Solo dopo che ho ottenuto, a tale riguardo, tutta la certezza che si può attingere da una sana riflessione, dalla frequentazione e dalle piccole espressioni di un uomo, mi sono avvicinato di più a Schlegel e ora passo molto tempo con lui»71. Schleiermacher dà un preciso giudizio sul carattere di Friedrich alla sorella il 31 dicembre, dopo una più assidua frequentazione, e anche que68
Henrik Steffens, Was ich erlebte, I-IX, Max, Breslavia 1840-1844, qui IV, p. 302 ss. [Il termine Witz, denso di significati per il romanticismo, viene reso con “spirito”, “ironia”, “arguzia”.] 69 KGA V, 2, Lettera alla sorella, 21 novembre-31 dicembre 1797, cit., p. 220. 70 Ivi, Lettera alla sorella, 2 settembre-12 novembre 1797, cit., p. 177. 71 Ibid.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
sto giudizio, come quello sul suo spirito scientifico, rivela la perspicacia di Schleiermacher, capace di cogliere l’essenziale e, insieme, il suo affetto che si illude sui limiti dell’amico. «Chiederai sicuramente più sul suo animo (Gemüt) che sul suo spirito (Geist) e sul suo genio (Genie). All’apparenza è infantile; questo è certo il carattere dominante in lui; aperto e felice, ingenuo in tutte le sue esternazioni, un po’ spensierato, nemico mortale di tutte le forme e di tutte le fatiche, irruento nei suoi desideri e nelle sue simpatie, generalmente benevolo, ma anche, come spesso sono i bambini, un po’ irascibile e con diverse antipatie. Il suo carattere non è ancora così saldo, e le sue opinioni sugli uomini e sulle situazioni non così determinate da rendere difficile guidarlo, se ha regalato a qualcuno la sua fiducia. Ciò che però ancora sento mancare in lui è il delicato sentimento e il fine senso per le amabili piccolezze della vita e per le delicate esternazioni dei bei sentimenti, che spesso rivelano nelle piccole cose, involontariamente, l’intero animo. Come ama soprattutto i libri scritti a grossi caratteri, così negli uomini ama i tratti vigorosi e forti. Ciò che è delicato e bello non lo affascina molto, poiché considera troppo debole tutto ciò che non appare focoso e forte, in analogia al suo stesso animo. Tanto poco questa particolare mancanza diminuisce il mio amore per lui quanto tuttavia gli rende impossibile svelare e comprendere del tutto alcuni lati del mio animo. Egli sarà sempre più di me, ma io lo comprenderò e lo conoscerò sempre più profondamente di quanto lui conosca me»72. Proprio in questa opposizione di nature stava per entrambi qualcosa di magico. Friedrich fu il primo uomo geniale incontrato da Schleiermacher, che gli aprì la propria intima essenza sia per affinità sia per opposizione, e che, d’altra parte, con la sua inclinazione alla grandezza, a influire sul mondo, alla realizzazione creativa, venne incontro a Schleiermacher proprio dove la sua natura contemplativa necessitava di aiuto, proprio nel momento esatto in cui tale impulso poteva giovargli. Coinvolgendolo nel lavoro comune della giovane generazione e nei suoi progetti ambiziosi, Friedrich diede a Schleiermacher una precisa collocazione letteraria, compiti, compagni, gioia di creare. Friedrich per primo fece sì che questa grandiosa ma contemplativa natura esercitasse a sua volta un deciso influsso sul movimento spirituale della sua epoca. Si possono così definire l’estensione e i limiti dell’effetto di Schlegel su Schleiermacher. Lo spontaneo collegamento degli elementi spirituali dell’epoca nel progetto di Friedrich avrebbe potuto essere realizzato in modo simile, per molti aspetti, da Schleiermacher come da altri contemporanei della stessa generazione. Si potrebbe rivolgere a tale proposito l’affermazio72
Ivi, Lettera alla sorella, 21 novembre-31 dicembre 1797, cit. pp. 212 ss.
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L’AMICIZIA CON FRIEDRICH SCHLEGEL
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ne più sfacciata di Friedrich, che la filosofia critica sarebbe dovuta nascere in Germania anche senza Kant, ma che è andata meglio così73, con ugual diritto contro Friedrich stesso; questo collegamento di elementi spirituali era in parte già autonomamente realizzato da Schleiermacher e non è stato mai per lui più che materia del proprio indipendente pensiero. D’altra parte, nello spirito di Schleiermacher, non era presente l’idea di osare uno sguardo così ampio sul mondo della cultura: dall’esterno dovette giungergli, in un primo momento, tale prospettiva; e proprio nel modo in cui Schlegel intraprese a realizzare questo sguardo è contenuta una serie di collegamenti geniali, di cui Schleiermacher gli è debitore. Più difficile è giudicare i veri limiti dell’influsso personale che abbiamo esposto. Si può dire solo che l’influsso che Schleiermacher, a sua volta, esercitò sul mondo spirituale, che lo circondava a Berlino, si sarebbe dovuto realizzare molto più lentamente, più tardi, senza il sentimento gioioso della entusiastica collaborazione, forse con una visione meno completa nei profondi moti dell’epoca, ma anche in modo indipendente da alcuni pregiudizi ed errori tipici della giovane generazione. Già ad ottobre gli amici si rallegravano per il progetto di abitare insieme nell’appartamento di Schleiermacher. Lì sarebbe stata realizzata la rivista che andavano progettando; «Schleiermacher», scriveva Friedrich74, «prende parte entusiasticamente al mio progetto». Ci si attendeva da Schleiermacher contributi significativi: «lo incalzo e lo tormento ogni giorno quando lo vedo»75. Fu un tempo felice e pieno di liete aspettative, durante il quale si immedesimavano reciprocamente l’uno nelle idee dell’altro e si spronavano ad un’attività incisiva. Anche la loro cerchia di amicizie diventava sempre più stretta e salda. Nel primo periodo del suo soggiorno berlinese, Schlegel era stato spesso da Henriette Herz e lì aveva visto per la prima volta Dorothea Veit, la figlia di Mendelssohn, che gli si avvicinò sempre di più. «La mia amica», scriveva al fratello, «vive per fortuna molto ritirata e ha molto riguardo del mio tempo. È già abbastanza raro che lì io sacrifichi alcune ore alla convenienza e sarà sempre più raro. È molto bello per me che Schleiermacher sia nostro comune amico, e la cosa più importante è 73
Fragmente, Ath. 1, II, p. 119, n. 387. Da un altro ambito di idee sviluppatosi in questi anni, quello della filosofia della natura, dice Steffens, ricordando il suo rapporto con Goethe, Novalis, Schelling: «spesso mi è apparso tutto come qualcosa di mediato, come un dono, ricevuto con gioia riconoscente, e tuttavia come se tutta la mia più profonda individualità si fosse sprigionata puramente dalla più particolare considerazione». Steffens, Was ich erlebte, IV, cit., p. 85. 74 Walzel p. 301. 75 Ivi, p. 322.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
che, in questa frequentazione, non finisco mai fuori dal mio mondo e dal mio elemento»76. Così giunse di nuovo il 21 novembre, il ventinovesimo compleanno di Schleiermacher (1797). Per la prima volta poteva festeggiarlo nella cerchia degli amici che condividevano con lui ogni cosa: idee, progetti scientifici, emozioni, vita sociale. Un profondo sentimento di felicità risuona nella descrizione di questa giornata a sua sorella. «Avevo veramente deciso di passare questo giorno in silenzio e al lavoro nel mio eremitaggio, e solo di sera ero invitato per il tè dagli amici comuni miei e di Schlegel (della Veit), che non potevano sapere nulla del mio compleanno. Così sedevo al mattino in totale desabillè al mio tavolo, quando apparve il più vecchio Dohna, che non mi aveva ancora fatto visita dal suo ritorno. Si trattene però insolitamente a lungo, guardando talvolta con ansia alla finestra, così che quasi sospettavo dovesse accadere qualcosa, pur senza poter capire cosa. Infine giunse suo fratello, che iniziò con un augurio, così che mi accorsi che era stato rivelato il mio compleanno; non molto dopo giunsero Madame Herz e Madame Veit con Schlegel. Improvvisamente il mio tavolo era stato sgomberato e occupato con cioccolata e dolci portati da Dohna. Mi raggiungevano da tutte le parti i più amichevoli auguri e piccoli regali a ricordo di questa piacevole festa»77. Schlegel gli giocò poi un piccolo scherzo, aizzando la cerchia a esortare il ventinovenne a scrivere, finalmente, e gli strappò, con una solenne stretta di mano, la promessa di lavorare in quell’anno a qualcosa di particolare; un voto di cui Schleiermacher si pentì il giorno stesso. In cambio di ciò veniva decisa una cosa magnifica: il trasferimento di Schlegel da lui per il nuovo anno. Alla sera poi, presso Veit, si beveva alla sua salute un leggero punch, e alla fine della giornata felicemente movimentata, Schleiermacher scrisse alla vecchia amica di Landsberg e alla sorella lontana a Gnadefrei. «Mi ha rallegrato stare accanto a Schlegel, che mi è di molto superiore per talento, spirito, socievolezza, e godere tuttavia del grande affetto di quelli che ci conoscono entrambi. E non può essere niente altro che la mia personalità ciò che piace loro; ma cosa poi? Non lo so. E quali tesori ho ancora lontani da me, a est, a ovest, a sud! Addirittura mi convinco che pochi uomini sono ricchi quanto me e diventerei spavaldo se non sapessi che l’uomo porta anche questi gioielli in vasi fragili. Perché la gioia rende malinconici? Questo è il punto più alto e più bello che essa può raggiungere e così è oggi in me»78. 76
Ivi, p. 355. KGA V, 2, Lettera alla sorella, 21 novembre-31 dicembre 1797, cit., pp. 212 ss. 78 Ivi, p. 214. 77
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L’AMICIZIA CON FRIEDRICH SCHLEGEL
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Dopo Natale Friedrich si trasferì nell’abitazione comune; avevano lì tre camere l’una accanto all’altra. La traboccante felicità di vivere, per la prima volta, nel più franco e intimo rapporto con un amico, che condivideva integralmente la cerchia dei suoi interessi spirituali, è evidente nella sua descrizione: «un magnifico cambiamento produce nella mia esistenza l’abitare con Schlegel. Come mi è nuovo il fatto che devo solo aprire le porte per parlare con un’anima riflessiva, che posso dare e ricevere un buon giorno quando mi alzo, che a tavola qualcuno mi siede di fronte, che posso comunicare fin dal mattino a qualcuno il buon umore che alla sera di solito porto con me. Schlegel si alza d’abitudine un’ora prima di me: poiché al mattino non posso bruciare nessuna luce per i miei occhi, mi organizzo in modo da aver dormito a sufficienza per le otto e trenta. Ma rimane anche lui a letto e legge, io mi sveglio di solito per il tintinnio della sua tazza di caffè. Allora dal suo letto può aprire la porta che separa la mia camera da letto dalla sua stanza, e così iniziano i nostri dialoghi mattutini. Quando ho fatto colazione, lavoriamo alcune ore senza sapere nulla l’uno dell’altro; di solito però facciamo una piccola pausa al tavolo per mangiare una mela. Lì parliamo abitualmente degli oggetti dei nostri studi; poi la seconda parte del nostro lavoro arriva fino all’ora di pranzo, cioè fino alle 13.30. Io ricevo il pranzo dal Charitè, lui se lo fa portare da una trattoria. Quello che arriva prima viene mangiato in comune, poi l’altro, poi si bevono un paio di bicchieri di vino, così che trascorriamo un’oretta pranzando insieme. Il pomeriggio non si lascia descrivere così facilmente; purtroppo devo ammettere che di solito sono il primo che esce e l’ultimo che torna a casa. Non si dedica però l’intera metà del giorno al piacere in società: più volte la settimana vado ad ascoltare le lezioni e ne leggo talvolta alcune a buoni amici. Quando la sera torno a casa, tra le dieci e le undici, trovo Schlegel ancora in piedi, che però sembra solo attendere di darmi la buonanotte e subito va a letto. Io invece mi siedo e lavoro di solito ancora fino alle due, perciò posso dormire fino alle otto e mezza. Da quando Schlegel è qui, è già accaduto alcune volte che io sia rimasto a casa un’intera serata e che abbiamo bevuto insieme dalle sette alle dieci un tè come in famiglia e che ci siamo fatti una lunga chiacchierata»79.
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Ivi, p. 219.
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PRIMA MANIFESTAZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
Le prime dichiarazioni di Friedrich sull’impressione ricevuta da Schleiermacher confermano il tratto fondamentale che è sempre stato colto anche da altri successivi acuti osservatori dell’umanità: «Schleiermacher è un uomo nel quale è giunta a forma l’umanità e perciò appartiene per me ad una classe più alta; Tieck, per esempio, è semplicemente un uomo comune, dotato però di un talento singolare e molto addestrato. Schleiermacher è solo tre anni più vecchio di me, ma mi supera infinitamente per intelligenza morale. Spero di imparare ancora molto da lui. La sua intera essenza è morale e, rispetto a tutti gli eccellenti uomini che conosco, la moralità supera in lui, di gran lunga, tutto il resto»1. «Tu devi», così Friedrich Schlegel incitava l’amico, «tenermi saldo nel mezzo dell’umanità». «Ciò che di te è inesauribilmente fruttuoso per me è che tu esisti. Tu sei, secondo me, per l’umanità, ciò che Goethe e Fichte furono per la poesia e la filosofia»2. Friedrich indica come innata dote intellettuale di questa natura, interessata primariamente all’umanità, e non alla scienza, una «forza dialettica», «che è sì genuinamente fichtiana», ma dotata di un «caratteristico sviluppo particolare», «un’audace capacità di combinazione», che lo faceva assomigliare di gran lunga più a Hardenberg che a lui; possedeva inoltre, in sommo 1
Walzel, p. 322. KGA V, 2, Lettera di Friedrich Schlegel, metà luglio 1798, n. 485, p. 351. Cfr. Varnhagen, Tagebücher, I, 1861, p. 29: «L’aspetto di Schleiermacher, che lo rende singolare e rilevante, non ha trovato ancora oggi alcuna considerazione. Ciò che egli era come intellettuale, come predicatore, come scrittore, in generale come uomo di spirito e di scienza, lo apprezzo nel suo sommo valore, per quanto esso mi appaia sempre come la brillante dote che egli ricevette per i suoi singolari destini. In questi ultimi, nei compiti che egli come uomo aveva da compiere nella sfera di ciò che è puramente umano, sta il suo segno più alto, il suo grandissimo interesse per il mondo». Cfr. la spiegazione fatta da Schleiermacher su se stesso in Monologen, pp. 44 ss. 2
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PRIMA MANIFESTAZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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grado, il senso del paradosso, che è a sua volta genuinamente popolare3. Il profitto del lungo lavoro di Schleiermacher su se stesso, dell’incessante esercizio durato molti anni all’utilizzo libero dei concetti, sembra riunificato in questi tratti fondamentali del carattere ormai formato. Schleiermacher era un grande genio morale e l’istinto critico di Friedrich aveva ragione ad accostarlo a Goethe in quanto genio poetico, e a Fichte in quanto genio dialettico. Nella misura in cui la potenza del carattere si basa sulle forze fisiche non pochi lo hanno superato: nella fine sensibilità per i fatti e le necessità morali, nel lavoro incessante su se stesso, nell’universale comprensione morale che ne nasce, invece, nessuno è paragonabile a lui dai tempi di Lutero. Nei confronti dell’ampio materiale che la sua epoca gli offriva, sia dal punto di vista culturale che esistenziale, e che gli si presentò attraverso le serie di fatti, che abbiamo esposto, la sua prima reazione fu la creazione di una visione morale. Questa visione fu la rivelazione del segreto morale della sua epoca: egli fu l’annunciatore della grande dottrina dell’individualità (Individualität). Questo libro vuole progressivamente distruggere i pregiudizi che contrastano l’effetto di questa semplice e sublime verità negli animi dei nostri contemporanei. Esso vuole mostrare che questa verità, nel suo senso originale, non ha nulla ha che fare con l’egoismo, con un piacere pigro di se stessi, con una qualche forma di allontanamento dai veri interessi generali, ma, al contrario, contiene la profonda motivazione morale di tutti questi elementi. Esso vuole mostrare come gradualmente, con l’allargamento della sua esperienza vitale, Schleiermacher stesso proseguì nella formazione di questa verità, ma non vuole tacere i motivi che gli impedirono di fondarla saldamente in una connessione di idee scientifiche che possa valere ancora oggi. Un giudizio morale (sittliches Urteil) parla in noi, in virtù del quale approviamo o rigettiamo azioni e caratteri, a prescindere dalle conseguenze che essi hanno, e in virtù del quale ci sentiamo vincolati con le nostre azioni ad una legge. Il segreto di questo giudizio morale può essere svelato solo attraverso un’ampia analisi comparativa. Non potendo riprodurre in questa sede tale analisi, ne metto in evidenza solo il risultato, che ciascuno può comunque confermare a partire dalla storia e dall’esperienza vitale. Il nostro giudizio morale non viene prodotto dalla nostra visione della vita e del mondo, ma non ne è nemmeno completamente indipendente: esso viene fondato, sostenuto, innalzato a unità e a potenza dominate nella nostra anima attraverso una qualche convinzione (Überzeugung) del contenuto 3
Walzel, p. 321.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
della vita, nel cui orizzonte anch’essa si forma. Così nascono l’inclinazione e l’entusiasmo per il bene. Ci sono tempi nei quali una vivace convinzione della religione positiva scorre attraverso tutte le vene della società, determinandone la morale. Questo non era più il caso dell’Europa del Settecento, e neppure di quella odierna. Comunque si giudichi a riguardo, questa società, per come essa è, ha bisogno di motivazioni per entusiasmarsi alla morale. Ci sono poi tempi, nei quali una società borghese saldamente strutturata, con un chiaro ambito di doveri, regola la vita grazie al proprio concetto dell’onore e la riempie con i propri compiti. La condizione della società moderna ha imposto precisi limiti anche a questi effetti. La vita, nelle sue relazioni più fini, e quindi più importanti per la moralità, non viene più ordinata, nella società moderna, attraverso un preciso concetto di onore. Addirittura, alcune esigenze della società appaiono semplicemente come mezzo di coloro che si sono arricchiti e sono giunti alla tranquillità nei confronti di quelli che cercano di emergre lottando con le difficoltà della vita. E anche a prescindere da questa separazione, non si addice all’uomo, riguardo alla cosa più importante, cioè riguardo alla sua destinazione, rimanere dipendente dalle condizioni mutevoli della società. Egli deve trovare fondata in se stesso una forza che lo renda sicuro della propria destinazione in ogni circostanza. Ho illustrato le condizioni che in Germania, in modo più deciso e più pervasivo che altrove, spinsero gli intellettuali a occuparsi di tale questione, ritenendola di assoluta necessità: ho illustrato il forte impulso della nostra poesia e il fatto che la dottrina di Kant non abbia soddisfatto appieno tali esigenze; ho messo in luce che, anche presso di noi, la società di una metropoli mostra, come in uno specchio che ingrandisce tutte le caratteristiche, la liberazione, l’inquietudine, il vuoto interiore di una vita non più sostenuta da alcun principio orientativo. Fu liberato un impulso sfrenato a valorizzare, nell’esistenza, piacere e desiderio illimitati. Le storie giovanili di Friedrich Schlegel, quella di suo fratello, del Lovell di Tieck erano come la dichiarazione esplicita di questo impulso vitale; si presti ascolto, a tal riguardo, anche alla strana confessione di Rahel in una lettera a Pauline Wiesel, una donna persa nel piacere dei sensi: «Lei vive tutto, perché ha coraggio e ha avuto fortuna; io, per lo più, vivo nell’immaginazione, perché non ho avuto alcuna fortuna e non ho ricevuto alcun coraggio: ma la natura agì con potenza in entrambe. E noi siamo nate per amare la verità in questo mondo». Troviamo poi un’espressione quasi selvaggia delle pretese di un’anima indomita e dei contrasti e dei dolori smisurati che albergano in essa: «si desidera andare in guerra per
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PRIMA MANIFESTAZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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nutrire la pretesa con la quale la natura ha gettato uno nell’esistenza»4. La teoria di questo oscuro impulso vitale e della sua storia si annunciava già nella Lucinda di Friedrich Schlegel e nella filosofia di Schelling: epigono delle loro idee fu Schopenhauer. Questo fermento rivoluzionario, che investiva tutti i concetti morali, fu sentito soprattutto in Germania. Quando Jean Paul, nel 1799, a Weimar vide la nuova società, scrisse che, proprio nel cuore del mondo, avanzava una rivoluzione, più grande e più spirituale, ma altrettanto annientante di quella che si vedeva a Ovest5. Friedrich Heinrich Jacobi diceva, nel Woldemar, che non c’era più nulla in questa società, per cui ci si impegnasse, se non «piacere e ricchezze»: una grande rivoluzione verso il meglio doveva essere alle porte – «o il giorno del giudizio»6. È uno dei compiti più difficili per la ricerca storica valutare le idee relative alla nostra destinazione (Bestimmung) e l’influsso che esse esercitano sulla vita reale di un’epoca storica. Questo problema diviene molto tangibile quando si deve determinare la non trascurabile potenza di alcuni grandi pensieri morali di questo periodo, per quanto essi non si dimostrassero tuttavia in grado di soddisfare il bisogno di questa epoca. All’inizio esisteva un’estesa letteratura morale, prodotto del più vecchio illuminismo, che si può vedere rappresentata, con Schleiermacher, in Garve. Essa era molto elogiata, portata in palma di mani dalla sobria mediocrità, priva di entusiasmo, di cui essa progettò la teoria. A tale teoria mancava un pensiero in grado di determinare l’azione, attraverso il quale soltanto la vita morale può essere riformata dal punto di vista teorico: senza un tale pensiero, che solo Kant, quanti si rifacevano a lui e, in seguito, i nostri poeti, furono in grado di offrire, tutta la finezza dell’analisi si rivela inutile. Un’importante cerchia di intellettuali si era collegata a Kant ma cercava di elaborare una forma più soddisfacente per l’etica di questo grande pensatore. Wilhelm von Humboldt osservava giustamente che, con l’esistenza particolare di qualsiasi uomo, è collegata una forza che aspira a elevare l’esistenza personale e a formarla in una totalità ben connessa; questa tendenza a creare una connessione interiore ed esteriore nella nostra vita era, ai suoi occhi, l’aspirazione più nobile presente nella natura umana e l’imperativo categorico posto da Kant ne era solo una conseguenza7. 4 Lettera di Rahel a Paulina Wiesel, Berlino, 12 marzo 1810, in Hanna Arendt, Rahel Varnhagen. Lebensgeschichte einer deutschen Jüdin aus der Romantik, Piper, Monaco 1950, pp. 230 ss. 5 Cfr. Lettera di Jean Paul a Christian Otto, Weimar, 27 gennaio 1799, in Die Briefe Jean Pauls, III, a cura di Eduard Berend, Monaco 1924, p. 168. 6 Friedrich Heinrich Jacobis Werke, V, a cura di Friedrich Roth, Fleischer, Lipsia, 1820, pp. 177, 218. 7 Wilhelm von Humboldt, Über Jacobi’s Woldemar, Werke, I, pp. 85 ss. Per le più mature
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
Schiller riformò Kant a partire dall’altro giusto pensiero che l’eccellenza umana non è da rinvenire solo nella maggiore somma possibile di azioni morali, bensì nella più grande armonia dell’intera predisposizione naturale con la legge morale: secondo questa concezione, l’ideale morale non viene realizzato in una volontà costantemente combattiva, bensì nella più intima armonia della ragione con il desiderio. Gli scritti giovanili di Schleiermacher, che abbiamo qui riportato, sono contigui in molti punti con queste e con simili riforme della dottrina morale di Kant. La formulazione schilleriana coincide esattamente con quella che Schleiermacher aveva elaborato, del tutto indipendentemente da Schiller (poiché Schiller presentò questi pensieri solo nel 1793), nel saggio Sul valore della vita. Nessuna di queste riformulazioni incise, però, abbastanza a fondo nella radice dell’insostenibile concezione morale kantiana. Questa consisteva, come si è dimostrato, nell’affermazione che, nell’intero mondo morale, si ha a che fare semplicemente con la realizzazione, tramite i singoli individui, di una ragione incondizionata, uguale in tutti. Questa concezione doveva essere sottoposta a esame e riformulata. Finché ciò non accadde, la profondità della visione morale (sittliche Anschauung) di Kant riempì di entusiasmo alcuni, dando forte sostegno alla loro formazione morale, mentre la sua unilateralità e la sua pedanteria morale dovevano ostacolare l’effetto dei suoi pensieri su altri. Neppure la potente dialettica di Fichte si rivolse contro le radici della visione morale di Kant. Piuttosto questa visione, nella Dottrina dei costumi, viene esagerata fino al limite tra sublime e ridicolo. L’Io, così comincia la sua famosa opera, è assolutamente spontaneo solo in virtù della spontaneità (Selbsttätigkeit). La legge della moralità, che riposa in lui stesso, dice: l’Io deve determinare la sua libertà, senza alcuna eccezione, secondo il concetto di autonomia (Selbstständigkeit), deve agire secondo la propria coscienza (Gewissen) e secondo la miglior convinzione del proprio dovere. Ma si capisce! Questo Io era solo l’apparire fenomenico di qualcosa di sovrasensibile. E così Fichte finisce in modo apparentemente opposto a come aveva iniziato, ma, di fatto, con più coerente consequenzialità, affermando, nella stessa opera: l’uomo è solo veicolo della legge morale; è un semplice strumento, non è scopo; non c’è alcuna visione morale del mio prossimo se non quella per la quale egli è uno strumento della ragione; se mi occupo di lui, ciò accade perché il mio scopo deve essere la maggiore idoneità possibile di ogni strumento della ragione. visioni morali di Humboldt, cfr. Haym, Humboldt, cit., pp. 50 ss. 104 ss. (da completare con le lettere, apparse più tardi, di Gentz a Garve, pp. 93 ss.).
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PRIMA MANIFESTAZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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Ai poeti dobbiamo un ideale di vita più vero e più umano. Da una grande e libera considerazione della vita è nato il modo di pensare di Goethe, che veniva comunicato al pubblico, per la prima volta, proprio in questi anni nel Wilhelm Meister. La formazione (Bildung) di un individuo era l’oggetto di quest’opera; la libera gioia per la varietà dell’individualità umana era il suo tono fondamentale. In essa era offerta, in forma intuitiva, una visione della vita che non accettava i limiti insiti nella filosofia morale sviluppata fino ad allora, pur avendone tuttavia accolto l’elemento essenziale. «Tutto ciò che è fuori di noi», vi ripeto le belle parole dello zio, che sta sullo sfondo del Wilhelm Meister come modello eccellente di formazione morale, «è solo elemento, e posso ben dire, anche tutto ciò che è in noi; ma, nel nostro intimo, sta la forza che sa creare ciò che deve essere, che non ci lascia riposare né fermarci, fino a che non lo abbiamo rappresentato fuori di noi o in noi, in un modo o nell’altro»8. Non si può neanche immaginare quale potente effetto produsse, in mezzo al movimento morale di allora, questa meravigliosa opera, che per la prima volta aprì alla nazione la matura visione della vita di Goethe. Schleiermacher la lesse più volte: dapprima a Landsberg, dove rimase colpito solo dalla forma esteriore, mentre era ancora troppo lontano dalla cerchia dell’intuizione poetica, poi a Berlino, insieme con Henriette Herz. Friedrich Schlegel scrisse allora, nella camera vicino alla sua, la magistrale analisi di Wilhelm Meister; Schlegel, come fecero d’altronde anche Novalis e le altre importanti menti di questa giovane generazione, sviluppò la propria visione del mondo confrontandosi con il romanzo di Goethe. Quanto più se ne occupavano, però, tanto più vi percepivano l’incompletezza della visione morale, che doveva essere superata. Per quanto concerne la percezione del mondo e della vita, Schleiermacher riceveva ancor più stimoli dalle opere poetiche di Friedrich Heinrich Jacobi. Anche in Jacobi vi erano una vivace, per quanto troppo delicata, moralità, un lavoro su se stesso fin troppo tormentato e il più alto senso per la bella socievolezza in lotta con i sistemi astratti9. Tutto questo si muoveva in Schleiermacher da quando era arrivato a Berlino. Egli lesse intensamente anche Leibniz, subendo il fascino dell’idea delle monadi eterne. Così nacque in lui, spontaneamente, come il frutto di contemplazione incessante e di autoformazione (Selbstbildung) morale, il germe di una visione morale del mondo armoniosa, capace di soddisfare tutte le giuste pretese dell’individuo. «Quest’estate», scriveva alla sorella nel8
Cfr. Wilhelm Meisters Lehrjahre, HA, VII, p. 405. Cfr. ad esempio Woldemar, Jacobis Werke, V, cit., pp. 42, 47, 59, 65, 74, 88, 89, 112, 182, 218, 267. 9
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
l’agosto del 1797, «tengo tutto nel mio intimo: le mie lettere, i miei idilli, le mie prediche, la mia filosofia»10. Annota dei pensieri che nascevano nel suo animo. La prima forma, nella quale fu esposto ciò che andava sviluppandosi, fu quella di uno sfogo immediato della sua vita morale più intima: le Rapsodie. Già quando Friedrich Schlegel, nell’autunno del 1797, conobbe più da vicino Schleiermacher, vide a casa sua alcuni di questi sfoghi. Alla fine di novembre Friedrich scriveva al fratello come l’amico, per il momento, non potesse scrivere altro che tali rapsodie: ma in queste egli dimostrava «una grande produttività e un’incessante corrente di pensieri»11. All’inverno e alla primavera successivi risale un gruppo più corposo di tali rapsodie; due di loro sono passate per intero nella raccolta di frammenti; dalle altre Friedrich ne estrasse solo alcune. Nello stesso tempo iniziarono lenti preparativi per la realizzazione di un vecchio progetto, che andò acquisendo allora un’importanza crescente. Una volta Schleiermacher scrisse alla Herz di essere giunto a coscienza di se stesso e ad aver fiducia in sé grazie al proprio spirito polemico, non troppo conciliante e rivolto pressoché a tutto. Questo era un tratto fondamentale della sua organizzazione intellettuale e ad esso era dovuto il fatto che l’analisi critica della filosofia morale kantiana precorse la riflessione Sul valore della vita. Ora, nel profondo sentimento della sua nuova visione della vita, si armava per l’attacco all’intera filosofia morale del suo tempo. Presentiamo innanzitutto la prima forma di tale visione, per quanto di essa è possibile indovinare dai Frammenti. Schleiermacher stesso si lamentava della forma frammentaria delle proprie rapsodie. Ciò che esse presumibilmente contenevano fu connesso in forma più matura solo nei Monologhi. Tuttavia sembra possibile comprendere, almeno parzialmente, il primo fresco erompere di questa visione epocale della vita. Non si attenda dalle idee che qui presentiamo né precisione né ampiezza di utilizzo, che solo lo sviluppo più maturo diede loro. Non ci si aspetti neppure una analisi completa di questa nuova visione. Essa era piuttosto l’espressione immediata del suo modo di guardare la vita: questa visione si concentrava sulla società, che era allora l’unico teatro per il genio morale (sittliches Genie) e punto centrale di tutte le questioni che animavano il suo ambiente. Se la visione morale di Schleiermacher rischiara inizialmente solo questo ambito, già nei Monologhi si vede quanto più lontano essa poteva portare la sua lucea. 10 11
KGA V, 2, Lettera alla sorella, 18 agosto-24 agosto 1797, n. 399, p. 155. Walzel, p. 321.
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PRIMA MANIFESTAZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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L’uomo non scopre la sua destinazione (Bestimmung) né ponendo di fronte a sé un dovere astratto, né considerando empiricamente lo stato di fatto della natura umana. Come ogni natura organica, l’uomo porta in se stesso la propria regola. In sé deve dunque trovare la propria destinazione (Bestimmung); solo chi è uomo, e sa di esserlo, dirà ciò che l’uomo deve essere. L’uomo morale, infatti, si muove liberamente, con la propria forza, attorno al proprio asse. È necessario dunque, per la realizzazione della destinazione morale (sittliche Bestimmung), che l’uomo comprenda e tenga salda in sé la legge della sua essenza, cioè il suo io. A pochi accade di comprenderla in un attimo felice, a pochissimi di mantenerla salda per sempre. In questo Io è presente una forza che forma organicamente l’intera vita. Nel mutare delle età e delle situazioni questa legge della nostra essenza permane e ciò che essa forma in noi resta immutabile. «L’io non perde nulla, e in esso nulla si perde; esso abita con tutto ciò che gli appartiene, i suoi pensieri e i suoi sentimenti, nel privilegio dell’immutabilità»12. I sensi da soli non creano il mondo esterno: la fantasia produttiva (bildende Phantasie) deve aggiungersi ad essi. Per quanto una sensibilità altrettanto vivace possa volgersi a ciò che è umano, il mondo spirituale esiste solo per il sentimento (Gemüt). Alla sua bacchetta magica tutto si apre: esso pone uomini e li comprende; scruta come l’occhio, senza essere cosciente della sua operazione matematica13. Solo una superiore benevolenza scopre la bellezza nascosta che è incatenata, in molti uomini, alla bassa materia terrena. Solo a una siffatta intuizione (Anschauung) si apre l’interiorità degli altri uomini. È vano, invece, voler conoscere un uomo a partire dalle descrizioni, per quanto verosimili, che egli dà di sé o dalle descrizioni di un altro uomo. In una siffatta analisi la vita interiore è destinata a scomparire. La comunità del mondo spirituale riposa su tale intuizione (Anschauung). Offrirsi liberamente a essa è la sola apertura (Offenheit) che possa essere richiesta. Un uomo genuino, che ha qualcosa di importante in sé, non si presterà a descrivere o a spiegare se stesso: piuttosto «l’uomo si offre come un’opera d’arte che, posta all’aperto, concede a chiunque l’accesso, e che può venir compresa e goduta, tuttavia, solo da quelli che portano con sé sensibilità e cultura. Egli è libero e si muove secondo la propria natura, senza interrogarsi su chi lo guarda e come». Più di questa tranquilla disinvoltura non spetta «all’ospitalità (Gastfreiheit) che l’uomo deve dimostrare all’interno del suo animo; tutto il resto non è al posto sbagliato solo nelle effusioni 12 13
Fragmente, KGA I, 2, p. 148. Ivi, p. 149.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
e nei piaceri di un’intima amicizia». «Per trovare questa intima amicizia è necessario un coinvolgimento un po’ prematuro, una apertura (Offenheit) che procede per tentativi, pudicamente e timidamente, che lascia qua e là indovinare la propria profonda esistenza», la propria inclinazione all’amore e all’amicizia14. Il coinvolgimento che in tal modo si offre non è una condizione costante, bensì un tentativo ripetuto ma transitorio. È qui il sottile limite del bello in senso morale. In questa libera comunità del mondo spirituale la donna deve avere un posto di ugual dignità. Lo avrà se assolve alla propria vocazione, come illustra il saggio, molto famoso, Catechismo della ragione per nobili signore15. «Non devi farti nessun ideale, né di un angelo in cielo, né dell’eroe di un poema o di un romanzo, né di un eroe sognato o di fantasia, ma devi amare un uomo per come è. Non devi avere nessun altro amante accanto a lui, ma devi saper essere amica, senza giocare in modo malizioso o civettare o idolatrare. Non devi volere essere amata, quando non ami. Desidera l’educazione, l’arte, la saggezza e l’onore degli uomini. Rispetta l’individualità e la volontà dei tuoi figli, affinché stiano bene e vivano forti sulla terra». Ancora più chiaro è il suo Credo per signore16: esso esprime forse nel modo più radicale l’ideale schleiermacheriano, che emerge da tutti i Frammenti. «Credo all’umanità immortale, che esisteva prima di assumere le spoglie di maschile e femminile. Credo di vivere non per obbedire o per distrarmi, ma per essere e per divenire; credo alla capacità della volontà e della formazione di farmi avvicinare di nuovo all’infinito, di liberarmi dalle catene della cattiva educazione e di rendermi indipendente dai limiti del sesso. Credo all’entusiasmo e alla virtù, alla dignità dell’arte e allo stimolo della scienza, all’amicizia degli uomini e all’amore per la patria, alla grandezza passata e al perfezionamento futuro»17. È indicativo del limite che aveva allora la forma del suo ideale di vita il fatto che, esclusivamente in questa comunità di sentimenti, si realizzasse per Schleiermacher la vera vita. Eppure, secondo le Rapsodie, ci circonda, oltre a questa, un insieme di azioni reciproche molto ramificate, che costituisce il mondo di ciascuno di noi; un ideale di questo mondo accompagna la nostra vita; certo chi lo conosce sa che «non si ha molto potere su di esso e che in esso, perciò, non può essere realizzato nessun sogno filosofico»18. 14
Ivi, p. 146. Cfr. Idee zu einem Katechismus der Vernunft für edle Frauen, ivi, pp. 153-154. 16 Cfr. Glaubenkenntnis der Frauen, ivi, p. 154. 17 Ibid. 18 Fragmente, ivi, p. 151.
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Dalla sua esperienza personale (Erleben) erano nate queste intuizioni; esse si presentavano come comunicazioni a uomini amati, con i quali egli si sentiva spinto a confidarsi. Come avevano innalzato e formato la sua esistenza, così esse volevano fin dall’inizio ampliare e determinare anche la vita degli amici. Schleiermacher cercava di unire tutto ciò che amava nella chiara coscienza di questo ideale di vita. Così queste idee diedero a Henriette Herz, per la prima volta, la piena coscienza di se stessa e della sua destinazione, e perciò la piena fiducia in sé. «Veramente», le scriveva Schleiermacher, «non c’è nessuna più grande sfera d’azione che l’animo (Gemüt), anzi, non ce ne è nessun’altra. Non agisce forse anche Lei proprio lì? Oh, proprio Lei, che è fruttifera, produttiva, una vera Cerere della vita interiore, pone un così grande accento sull’attività del mondo esteriore, che è, invece, assolutamente solo un mezzo, dove l’uomo si perde in un meccanismo universale, di cui pochissimo giunge allo scopo e al fine dell’agire, e mille volte di più va perso per strada! E ogni fare e agire in cui l’uomo si affatica e suda – cosa che egli non dovrebbe mai fare – non è chiassoso e violento in confronto con la nostra attività silenziosa? Chi ode qualcosa di noi? Chi conosce il mondo della nostra natura interiore e dei suoi movimenti? Non è in esso tutto segreto?»19. Le parole che le spediva il primo gennaio del 1798 esprimono la stessa profonda fede nel mondo spirituale dell’amica e nei suoi silenziosi ma importanti effetti: «Quando un’anima tranquilla e bella si muove tra le sponde ridenti della benevolenza e dell’amore, forma in modo simile anche la propria vita. Se le dolci esternazioni di un tale animo si aprono solo a chi è più intimo, si moltiplica con ciò tutta la sua bella esistenza. Poiché per colui che può contemplare una vita ben formata provandone piacere, la propria scorre accanto a questa tranquillamente»20. Ancora più incisivamente, mi sembra, agì questo ideale di vita sulla natura inquieta di Friedrich Schlegel, che sempre ripete la sua gratitudine per il fatto che in Schleiermacher egli trovava concretamente realizzata l’intuizione della moralità umana. Grazie a queste idee, inoltre, Schleiermacher tentava di tenere unito il circolo di amici al di là di tutti gli errori contingenti. Alla considerazione della Herz su Friedrich Schlegel egli risponde con la nobile spavalderia della sua fede: «ci lasci essere» (Friedrich, Henriette e lui stesso) «un unico mondo: vedrà, ci sarà un bel suono di sfere e saremo tutti felici. Se io non 19
KGA V, 2, Lettera a Henriette Herz, 6 settembre-7 (o 8) settembre 1798, n. 522, pp. 408 ss. 20 Ivi, Lettera a Henriette Herz, 1 gennaio 1798, n. 435, p. 244.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
avessi così tanto coraggio e non mi attenessi così all’immutabile, Lei avrebbe potuto farmi paura. Non sente Lei stessa l’eternità di tutto ciò che è? E non è un’intuizione morale infallibile che proprio questo è ciò che così si manifesta?»21. Fino a Gnadefrei, nella cerchia non irrilevante in cui viveva sua sorella, agiva la potenza formativa del suo ideale di vita. Nella forma che il genio morale di Schleiermacher aveva dato alla propria esistenza, vi erano molti aspetti che entravano in armonioso contatto con l’esistenza della sorella a Gnadefrei. Secondo leggi peculiari nella nostra interiorità nuovi elementi lavorano sulla base della nostra forma vitale più vecchia; se potessimo esprimere la formula di questa relazione, essa risolverebbe l’enigma di come noi, anche in mezzo allo sviluppo più intenso e deciso, rimaniamo tuttavia sempre gli stessi. E infatti Schleiermacher, il compagno di Friedrich Schlegel, comprendeva e condivideva assai intimamente la vita del silenzioso circolo herrnhutiano della sorella: anche in lui, pur dopo una così radicale formazione di se stesso (Selbstbildung) in vista del raggiungimento di un più alto ideale di vita, tutto era ancora determinato dagli stessi caratteri fondamentali provenienti dalla vita herrnhutiana. Profonde riflessioni sul contenuto emotivo (Gemütsgehalt) della nostra esistenza, scritte ora dalla sorella, ora da lui, ora dalla loro vecchia amica Zimmermann –, una donna di grande valore che, pur tra terribili dolori fisici e morali, non lasciava andare in rovina la propria forza interiore, bensì la portava a più alta maturazione – e descrizioni fatte dalla cerchia di Gnadefrei, come quella “sulla pienezza del cuore”, venivano scambiate tra loro. L’avidità di Schleiermacher nell’osservare nature altrui – tratto nel quale il genio morale era affine al poeta – si estendeva anche su tutta questa cerchia, come se fosse stato lì presente. «Queste stelle della Slesia contribuiscono non poco a rallegrare il mio cielo di qui e, alla sera, all’aperto, per quanto l’uomo sia predisposto a guardare mondi lontani, spesso non vedevo oltre Gnadefrei e ciò che vi si trova». E dopo si trovano alcune annotazioni sulla signora Zimmermann: «da tutto questo lei [la Zimmermann] deve fare una trattazione di quanto è in me; ma deve anche riportarla con il tono che è presente in me e che nasce in ogni uomo che guarda verso stelle lontane e che, dopo ogni piacere e ogni fantasia vissuti in società, sente come la sua esistenza sarebbe sconnessa e misera se non potesse vivere con, attraverso e dentro uomini migliori. Lei conosce certo questo registro d’arpa della benevolenza»22. Schleiermacher aveva innalzato questa socievolezza degli animi (Gemüter) fino alla concezione della libera intuizione e formazione di ogni 21 22
Ivi, Lettera a Henriette Herz, 9 settembre 1798, n. 524, pp. 410 ss. Ivi, Lettera alla sorella, 18 agosto-24 agosto 1797, n. 399, pp. 155 ss.
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individualità: in ciò stava, almeno per ora, il confine tra i modi di vivere e di pensare suo e della sorella. Lentamente Lotte fece progressi sotto l’influsso delle lettere del fratello. Nel modo in cui Schleiermacher fece uscire l’affine natura della sorella dal ristretto ambiente in cui ella si trovava, si mostra, forse, nella forma più pura, la silenziosa potenza formativa, attiva sempre e in modo graduale, della sua intuizione morale (sittliche Anschauung). In lui stesso si formava sempre più chiaramente l’immagine di un’opera che presentasse questo ideale di vita, cioè il progetto dei Monologhi, anticipato nel frammento Sul valore della vita. Già nell’estate 1798, durante la sua assenza, Friedrich chiedeva all’amico come procedevano le sue “intuizioni di sé” (Selbstanschauungen)23. Dalla formazione interiore di questo ideale di vita passiamo ora ai coevi attacchi alle concezioni morali dominanti e alla filosofia morale di quel tempo. Essi colpirono prima di tutti Kant e Fichte, i rappresentanti della filosofia della sua epoca: ci imbattiamo, in loro, in un ulteriore passo verso la Critica alla dottrina dei costumi. Quanto più a fondo si penetra nello sviluppo spirituale di Schleiermacher, tanto più si vede, dietro alla stupefacente molteplicità dei lavori completati, una continuità tenace, per così dire un’economia dello spirito, che gli veniva dalla consapevolezza, dalla capacità di tenere insieme molti elementi, da una salda connessione e da un chiaro ordine. Schleiermacher non ha dovuto ritrattare quasi nulla, neppure di ciò a cui lavorava solo per sé; il suo sviluppo era un procedere prudente e costante. Così, anche in questi attacchi, riemergono i risultati dei suoi primi lavori sulla filosofia morale di Kant: solo che ora, questa critica, rivolta in modo più circostanziato alle premesse kantiane, è collegata con uno sguardo più ampio sugli altri sistemi morali dell’epoca. Tutti questi sistemi morali si dimostravano, confrontati con la libera visione schleiermacheriana, come dissoluzione della vera moralità. Già nell’autunno del 1797 Friedrich rinvenne presso di lui «uno schizzo veramente notevole sull’immoralità di ogni morale»24, cioè di tutta la filosofia morale. Nell’estate del 1798, quando Schlegel si trovava a Dresda, Schleiermacher era costantemente occupato con la critica della morale e sperava, in settembre, di poter già iniziarne la stesura. L’intenzione di questa critica è «un’apologia dell’umanità»25, della piena e completa umanità, contro la filosofia. Essa doveva colpire Kant, la cui Dottrina dei costumi fu conclusa nell’autunno del 23
Ivi, Lettera di Friedrich Schlegel, fine luglio 1798, n. 498, p. 376. Walzel, p. 301; cfr. Ath. n. 371, in un frammento di Schleiermacher: «in generale l’intera morale di tutti i sistemi è tutto tranne che morale». 25 KGA V, 2, Lettera di Friedrich Schlegel, dopo il 6 agosto 1798, n. 503, p. 385. 24
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
1797 con la Metafisica dei costumi, e Fichte, la cui Dottrina dei costumi apparve a Pasqua del 1798. Anche la più tarda stesura della Critica della dottrina dei costumi rivela che il primo schizzo era strutturato come uno scritto polemico contro Kant e Fichte. Tuttavia c’è una significativa differenza tra quel primo progetto e l’esposizione successiva. Scheleiermacher sembra in generale, in questo periodo, aver dubitato della possibilità di esporre la pienezza della vera umanità in un sistema morale. Ancora non presagiva la forma nella quale questo compito poteva essere risolto, perciò non gli si offriva in vera forma sistematica una pietra di paragone della critica. Voleva combattere l’unilateralità, l’inadeguatezza, la rigidità presenti nella formazione concettuale di ogni filosofia morale e intendeva a tal fine utilizzare tutte le armi della beffa, dell’entusiasmo e della dialettica. Ne sarebbe derivata un’opera completamente diversa dalla Critica dei costumi che è ora disponibile. Essa sarebbe stata un’espressione della spavalderia di quegli anni di felice collaborazione. La grande massa delle annotazioni di allora, probabilmente insieme con tutti gli altri lavori preparatori alla Critica, è stata forse distrutta, dopo che questa fu completata. Tuttavia è rimasta una serie di annotazioni nel suo diario scientifico. Quando, più tardi, la sua trattazione di Kant e Fichte provocò un grido di indignazione, Schleiermacher non poteva capire perché ciò accadesse, dal momento che egli era cosciente di non avere altra intenzione che scoprire i loro errori: «nel progetto originario della Critica, impostato più decisamente sull’ironia (Witz), sarebbe nata tutta un’altra cosa»26. Questa annotazione è superata da ciò che è conservato nel diario. Bisogna comunque tenere presente, come attenuante, che questo era il tempo delle Xenien e Schleiermacher era compagno del sostenitore della sovranità dell’ironia (Witz). La legge morale di Kant non forma autonomamente un mondo morale, bensì può solo rielaborare le motivazioni naturali: un punto colpito anche dalla sua critica più tarda27. Schleiermacher fa la parodia di questo processo nel modo che segue: «Secondo Kant l’intera procedura della virtù consiste in ciò: ci si costituisce in una giuria permanente e si pronuncia incessantemente una sentenza sulle massime che si presentano; o, ancor meglio, si procede come in un tribunale di torneo, dove i cavalieri devono mostrare le loro prove araldiche. Se si presenta un partecipante viene messo in lizza e si dà fiato alle trombe. Se non viene nessuno, però, i giudici di torneo non possono fare nulla»28. 26
KGA V, 5, Lettera a Friedrich Schlegel, 27 aprile 1801, n. 1051, pp. 108 ss. SW III 1, pp. 54 ss. 28 Gedanken I, KGA I, 2, n. 27, p. 13. 27
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PRIMA MANIFESTAZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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Kant differenziava, inoltre, la somma dei doveri umani in quelli verso se stessi e quelli verso gli altri. Questa distinzione, contro la quale la sua Critica volse poi le armi più serie29, era colpita all’epoca da un’ironia tagliente: «per decidere la differenza tra i doveri verso se stessi e quelli verso gli altri, si potrebbero trovare difficilmente segni diversi da quelli che quel semplice uomo ha dato per distinguere tragedia e commedia. Ridi e alla fine ne ricavi qualcosa: consideralo un dovere verso te stesso; se ti senti invece più vicino al pianto e qualcun altro ne ottiene alla fine qualcosa consideralo un dovere verso il prossimo»30. Nell’Athenaeum aggiunge più seriamente che questa differenza è immorale, proprio perché attraverso essa nasce l’idea che ci siano due differenti opinioni in contrasto, che dovrebbero o essere accuratamente tenute separate o comparate artificiosamente con una gretta aritmetica. Se poi Kant, determinando più da vicino gli scopi che è dovere dell’uomo realizzare, li individua nella perfezione propria e nella felicità altrui, Schleiermacher nota, contro questa suddivisione, attaccata anche dalla Critica31, che lo scopo della propria perfezione nasce per Kant solo dalla devozione che vuol far onore alla natura, mentre lo scopo della felicità altrui nasce dalla gentilezza, che vuole procurare in modo morale agli altri uomini questa felicità, che non può essere per loro stessi un dovere32. «Ci si è spesso attenuti al detto che la Critica della ragion pura non doveva essere un sistema e si è poi dimenticato che la metafisica della natura era il sistema. Ci si potrebbe anche dimenticare che la metafisica dei costumi è il sistema per la Critica della ragion pratica!». Questo è il giudizio definitivo di Schleiermacher33. Inoltre Schleiermacher, non influenzato dall’ammirazione che i suoi amici tributavano a Fichte, giunse a condannare anche la Dottrina dei costumi. «Non posso», scrive Friedrich all’amico in estate, «disprezzare Fichte come puoi disprezzarlo tu dal tuo punto di vista»; ma si augurava che «il disprezzo di tutto l’uomo» in Fichte fosse, nello scritto polemico di Schleiermacher, almeno il più silenzioso e pacato possibile. Alla replica di Schleiermacher, Schlegel protesta come se non volesse «torcere un solo capello alla [sua] sacra polemica»34. Si intuisce qui quale tono Schleiermacher volesse rivolgere contro Fichte. 29
SW III, 1, pp. 141 ss. Fragmente, KGA I, 2, p. 154. 31 SW III, 1, pp. 147 ss. 32 Gedanken I, KGA I, 2, n. 61, p. 20. 33 Ivi, n. 62, p. 20. 34 KGA V, 2, Lettera di Friedrich Schlegel, fine luglio 1798, n. 498, pp. 376-377 e ivi, Lettera di Friedrich Schlegel, inizio-metà luglio 1798, n. 483 e 484, pp. 347-348. 30
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
Al di là della filosofia morale, Schleiermacher rivolgeva poi, in generale, il suo attacco contro i concetti morali dominanti. In mezzo al primo tumulto provocato dai Frammenti, Friedrich e Schleiermacher cominciarono a lavorare alla loro prosecuzione. Nell’estate del 1798 singoli nuovi frammenti di Schleiermacher circolavano tra lui, Henriette Herz e Friedrich. Tra i più variopinti scherzi, una parodia sulle concezioni di virtù e vizi che circolavano all’epoca attraversa come un filo rosso tutto ciò che ci è conservato. Alla giovane generazione apparivano superati, grigi e rigidi i concetti morali nei quali pensavano e parlavano gli uomini di allora. I nuovi ideali di vita penetravano tanto più violentemente questa generazione quanto meno erano giunti a chiarezza. Così in Bernhardi, Tieck, negli Schlegel si possono leggere raramente un paio di pagine senza incontrare un esuberante attacco alla moralità dei filistei. La monotonia di questi attacchi in Tieck, la loro arrogante smodatezza nelle Bambocciate di Bernhardi, la loro veemenza in Friedrich Schlegel feriscono il lettore; egli sente, già nello stile dell’attacco, quanto indeterminata fosse ancora la forma in cui si presentava la nuova concezione, addirittura può sentire come, nella maggior parte di questi sfrontati giovani, non albergasse nessuno stimolo morale a chiarirla in una forma matura. In ciò consiste la frivolezza di tali invettive. Nessuno dei compagni che lottavano insieme a Schleiermacher eguagliò la sua ironia tagliente e appassionata. Si consideri però che questa ironia era, per Schleiermacher, solo la compagna trionfante del potente impulso a esprimere l’ideale di vita dell’epoca in tutto il suo contenuto positivo. Raccolgo alcune delle sue divertenti parodie di quelle virtù convenzionali, la cui raccomandazione accompagna l’uomo fin dalle prime regole infantili. «Buono è colui che osserva tutte le leggi, che nessuno vuole avere fatto e di cui tutti si lamentano. O buono è chi si affatica per essere inutile»35. «Filantropo è chi ha alcuni favoriti e una rubrica per i poveri nel libro di conti»36. «Indulgenza è il rispetto per la pura passività o la riconoscenza per il male non fatto»37. «Naiv è tutto ciò che si dovrebbe considerare come una satira, se non fosse involontario»38. «Essere modesto significa rinunciare, come quel nobile impoverito, ai propri privilegi, per intraprendere con stranieri un’attività commerciale»39. Aperto è chi, per poco, si rende castellano 35
Gedanken Gedanken 37 Ivi, n. 24, 38 Gedanken 39 Ivi, n. 54.
36
I, KGA I, 2, n. 51, p. 17. II, ivi, n. 14, p. 110. p. 113. I, ivi, n. 53, p. 18.
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PRIMA MANIFESTAZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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o anche chi consiste solo di porte e finestre40. Sono definiti anche un paio di reati contro la morale convenzionale: «Chi esiste, senza aver chiesto il permesso, si chiama orgoglioso»; «chi osa fare qualcosa che potrà diventare di moda solo tra cento anni si chiama originale»41. «Chi ha insieme sensibilità e carattere e, di tanto in tanto, fa notare che questo legame è buono e utile, è arrogante. Chi pretende entrambe le cose anche dal genere femminile è nemico delle donne»42. Ci si fa un’idea della serie che doveva ornare l’Athenaeum. Una bacinella traboccante di scherno si rovesciava sulle teste dei due grandi maestri dell’arte di vivere in Germania, il barone von Knigge43 e il famoso scrittore modello Engel. La concezione dell’individualità si era sviluppata grazie alla nuova socialità inquieta, e dovette perciò, in primo luogo, retroagire sulla sua comprensione. Il risultato più notevole di Schleiermacher per la comprensione del mondo morale fu l’aver posto le prime solide basi di un’etica della socievolezza. Ciò avvenne in una serie di lavori i cui risultati andarono a comporre più tardi la dottrina dei costumi. Troviamo qui il primo progetto; terminate le esposizioni frammentarie della sua visione della vita, nell’estate o nell’autunno del 1798, cominciò a lavorare al Saggio sul buon modo di vivere, naturalmente tra la più attiva partecipazione della sua amica Henriette, esperta del tema. Schleiermacher utilizzò i tre volumi di Knigge Sul modo di rapportarsi agli uomini, per mostrare, grazie a essi, un esempio illuminante di cattivo stile di vita. L’arte di vivere tipica della moralità superficiale, che segue la propria strada, secondo le regole dell’educazione, in vista del soddisfacimento dei propri desideri, e l’arte di vivere legata alla nuova visione del mondo dovevano contrapporsi. La socievolezza è la rappresentazione della condizione morale: con una sua lode doveva in tal senso iniziare il saggio. La socievolezza non è un’istituzione temporanea, che annienta se stessa, quando gli uomini sono abbastanza intelligenti e amici: essa esiste per amore di se stessa ed è salda. «Il suo scopo è proprio la condizione domestica e borghese»44. Commisurata a questo genuino concetto di socievolezza, emerge la povertà dell’arte di vivere di Knigge. «Non appena», con questa concezione, «si utilizza la società solo come mezzo per interessi egoistici, tutto deve
40
Cfr. Fragmente, ivi, p. 146. Gedanken I, ivi, n. 51, p. 17. 42 Fragmente, ivi, p. 148. 43 Adolph von Knigge, Über den Umgang mit Menschen, 1788. 44 Gedanken I, KGA I, 2, n. 156, p. 36. 41
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
diventare ambiguo e malvagio»45. Nel libro di Knigge, tanto per il suo contenuto meschino quanto per il suo tono misantropico, domina proprio la cattiva maniera di vivere46. Knigge si è comportato come un cattivo ospite e ha portato «il poco di conveniente presente nel suo libro nella peggior società»47. Seguendo lo sviluppo della vera teoria, scopriamo anche i punti in cui si originano le teorie sbagliate. Nell’azione reciproca delle individualità, che costituisce l’essenza della socialità stessa, nascono nel singolo individuo opposti atteggiamenti; egli si comporta come scopo e insieme come mezzo all’interno della società; si relaziona ad un singolo e tuttavia anche all’intero; egli stesso deve produrre liberamente e attivamente in sé la legge di questa azione reciproca, mentre essa lo circonda come costume; ciascuno si trova qui in un’azione reciproca e nessuno tuttavia deve sentire limiti. Il cattivo modo di vivere nasce quando questi opposti non vengono bilanciati, bensì vengono seguiti in modo unilaterale. «Dimostro, infine, che non c’è alcuna cattiva maniera di vivere, bensì che tutto è solo una parte di quella buona, e in ciò sta molto buon modo di vivere»48. Valutiamo le relazioni opposte nelle quali la socievolezza pone il singolo. Ciascuno è insieme scopo e mezzo nell’azione reciproca della società. In essa il mio scopo deve essere solo un’attività (Tätigkeit), la mia attività solo un piacere (Genuss): perciò questo gioco della bella socievolezza diventerà tanto più perfetto se non avrà altro scopo che se stesso49. Tutte le grandi società sono senza gusto e assolutamente offensive, poiché l’ospite utilizza la socievolezza solo come mezzo per un altro scopo. Ma, d’altra parte, posso utilizzare quelli che sono presenti anche come mezzo, cioè come oggetto di intrattenimento? Si tratta della massima sfrontata, secondo la quale ciascuno deve accettare di diventare mezzo per il divertimento della società. È la massima vile quella secondo la quale non posso considerare oggetto nessun presente, e alcuni la esercitano in senso così esteso che fingono anche l’assente come presente50. Questa difficoltà morale si scioglie solo se colui che utilizzo come mezzo per il divertimento della società è allo stesso tempo scopo, cioè se lui stesso, attraverso lo scherzo, «viene divertito e ani-
45
Ivi, n. 102, p. 28. Cfr. ivi, n. 113, p. 30. 47 Ivi, n. 119, p. 31. 48 Ivi, n. 149, p. 35. 49 Cfr. ivi, n. 168, p. 38. 50 Ivi, n. 160, p. 37. 46
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PRIMA MANIFESTAZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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mato»51. Senza questo diritto allo scherzo si deve arrivare all’insopportabile principio di Knigge, «che si devono far annoiare gli uomini pazientemente» e si perdono così i mezzi per difendersi52. All’interno della società mi rivolgo al singolo e tuttavia parlo per la totalità. Non è facile neppure realizzare questa doppia relazione. Così ogni racconto deve essere rivolto ad un’unica persona e il dialogo a tutti53. Perciò la lusinga di massa nella società è altrettanto spiacevole che il rimprovero di massa e, per evitare la monotonia di una tale lode generale, «si deve, in tutti i casi, nascondere la sua natura»54: sembra di sentire il tono in cui Schleiermacher affermava ciò. Nella socievolezza deve verificarsi un’azione reciproca secondo leggi precise, e tuttavia ci si deve sentire liberi. Nasce così un ulteriore contrasto, quello tra ciò che è naturale e ciò che è convenzionale. Ogni volta deve essere messo in luce da capo il concetto di decoro, e tuttavia la società deve presupporlo. «La fede nella sua preesistenza è l’aristocraticismo del buon modo di vivere». L’arte di vivere di Knigge va molto oltre; il suo principio è il principio del convenzionale, che suona così: tu devi far capire in tutti i modi che la struttura sociale presente è la migliore55. Nell’azione reciproca che avviene nella socialità non si devono sentire i propri limiti, tuttavia si è dipendenti dalla reazione degli altri. Lo spirito del compito morale che qui nasce sta nello sforzo di istituire ovunque in essa una libera azione reciproca; al contrario, il semplice senso letterale di tale spirito si manifesta in una penosa diminuzione di se stessi e questo senso letterale domina proprio nella massima di Knigge: «dai agli altri la possibilità di brillare»56. Ciascuno, attraverso la propria libera attività, deve diventare cosciente della propria umanità (Humanität) e, insieme, dell’umanità degli altri grazie al loro influsso: ne nasce un conflitto tra l’essere e l’apparire. Il benessere deve apparire sempre, nella società, la manifestazione del libero esternarsi dell’umanità. Il tendere a tale manifestazione con qualsiasi mezzo è l’apparenza e il principio dell’apparenza: anche questo principio si rinviene di nuovo, nel modo più chiaro, in Knigge: «tutti gli uomini vogliono divertirsi»57. 51
Ivi, Ivi, 53 Ivi, 54 Ivi, 55 Ivi, 56 Ivi, 57 Ivi, 52
n. n. n. n. n. n. n.
151, p. 35. 103, p. 28. 150, p. 35. 142, p. 33. 118, p. 31; n. 198, p. 29; n. 166, p. 38; n. 188, p. 43: cfr. Knigge, n. 111, 112. 95, p. 26; n. 117, p. 31: cfr. Knigge, 1, 45. 92, p. 26; 98, p. 27; 116, p. 30: cfr. Knigge, 1, 64.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
Nella pienezza di così opposte relazioni si forma la vera socievolezza, che non è mai del tutto realizzata e viene rinnovata in chiunque parli e ascolti. La perfetta unità di una società rimane appunto un ideale. In ogni sua parte gli uomini devono essere stimolati; in ogni iniziativa deve esserci uno scambio reciproco; l’ascoltare stesso deve essere attivo. Chi parla deve porre l’ascoltatore nella condizione di non poter né voler ascoltare niente altro; attraverso la forma semplice deve incatenare l’attenzione, attraverso lo spirito (Witz) deve coinvolgere (Mitleidenschaft) gli ascoltatori. In questo modo il semplice udire dell’ascoltatore diventa attività e agisce a sua volta su colui che parla; questa azione reciproca (Wechselwirkung) deve procedere all’infinto ed è «il muto gioco della società. Più esso si potenzia, più domina il buon modo di vivere»58. Solo attraverso lo sviluppo di una simile teoria si possono ottenere le leggi della socievolezza, addirittura una sua etica. Coloro che hanno un approccio empirico verso la società dovrebbero invece limitarsi ad esporre caratteri e situazioni; ogni loro tentativo di progettare un’arte di vivere è destinato al fallimento59. Il destino venne incontro al più grande dei due maestri dell’arte di vivere, al famoso scrittore e frequentatore della società berlinese, Engel, solo al termine della pubblicazione dell’Athenaeum (1800). Schleiermacher, tuttavia, esprimeva già nell’estate del 1798 il pensiero fondamentale della sua critica distruttiva60. Essa mostra un’inesorabile precisione pur in mezzo al più spavaldo gioco dello spirito (Witz), che costituisce il talento polemico di Schleiermacher. Goethe esaltava l’arguzia in essa presente; a Berlino però la sua inesorabilità suscitava terrore. «Conosce la vecchia leggenda dei dormienti? Non c’è nulla di ideato fantasticamente che non sia, infine, vero. A me ha dato almeno l’impressione che Engel, Dio sa per quanti anni, abbia dormito, e che ora prosegua a parlare senza essersi prima lavato gli occhi e senza aver guardato un po’ il mondo tutt’intorno. Le giuro, ho ben studiato come esporgli, nel modo migliore, tutti i miseri fatti di cui, prima o poi, deve avere notizia»61. Tutta la vuotezza e l’arroganza della vecchia scuola, che credeva di poter mettere da parte la nuova letteratura, viene rappresentata in questo “filosofo per il mondo”62. La critica di Schleiermacher rivela, per 58
Ivi, n. 190, p. 43; n. 164, p. 37; n. 165, p. 38; n. 146-148, pp. 34-35; n. 158, pp. 36-37. Ivi, n. 193, p. 44. 60 KGA V, 2, Lettera di Friedrich Schlegel, 17 agosto 1798, n. 512, p. 395: «Per quanto concerne Engel, sono felice che tu abbia finalmente riconosciuto il suo merito. Io non lo ho mai cercato in niente altro che nel decoro con il quale egli sa trattare e ornare il nulla». 61 Rezension von Engel, KGA I, 3, p. 228. 62 Engel, Philosoph für die Welt, 1775-1777. 59
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PRIMA MANIFESTAZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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prima cosa, la sproporzione tra il poverissimo contenuto e la più grande messa in scena. «Fino sulla sommità dell’Etna dobbiamo sforzarci per capire che la felicità umana non consiste nel possesso, bensì nello sforzo e nella lotta; Graun, Euler e Mendelssohn vengono richiamati dagli inferi per dirci che la critica non insegna certo a produrre opere d’arte, ma che, ciononostante, possiede valore in sé e per sé e, in aggiunta, è utile anche all’artista; dobbiamo entrare in un manicomio e lì resistere fino ai limiti estremi della nausea per imparare che il vizio – per giunta secondo il concetto comune, per cui esso va a finire nella dissolutezza – è una follia; e per un paio di pezzetti di teodicea, secondo i quali, infine, anche la mancanza di senno favorisce il bene, e il mondo senza la morte non potrebbe sussistere, il buon Las Casas deve convertirsi al deismo del diciottesimo secolo; in conclusione viene offerta una storia commovente». Tutta questa sottospecie di filosofia, che osò dichiarare guerra all’idealismo, viene riassunta, infine, come segue: «La filosofia consiste in ciò, che non deve esistere alcuna filosofia, bensì solo un chiarimento (Aufklärung); il mondo è una riunione di uditori istruiti e informati, che vogliono però soprattutto sedere al tavolo e ascoltare cose belle»63. Questa critica colpiva in modo molto pungente il grande “filosofo della società”, i cui aneddoti allora costituivano parte integrante di un buon pranzo a Berlino. Così Schleiermacher, in questi fogli risalenti al periodo che va dall’autunno del 1797 all’estate del 1798, aveva espresso un nuovo ideale di vita e aveva contemporaneamente intrapreso la battaglia contro la morale e la filosofia della vita dominanti. Non aveva ancora stabilito, pare, il legame tra questa intuizione etica e il compito di creare un sistema di concetti morali. Friedrich interpretava il progetto critico di Schleiermacher nel senso di una difesa dell’umanità in tutti i suoi aspetti contro la filosofia isolata, come se questa creativa mente morale si lasciasse soddisfare dalla libera intuizione, nella quale le era apparsa la piena umanità, come se disprezzasse di partecipare a una costruzione sistematica della morale. Il ruolo del sommo elemento morale nei confronti della speculazione era simile a quello attribuito da Schiller all’arte e da Jacobi alla mistica64. Tuttavia la visione di Schleiermacher già allora non escludeva incondizionatamente ogni forma sistematica. Già nel settembre del 1797, infatti, schizzava il tentativo di un’articolazione; ulteriori 63
Rezension von Engel, KGA I, 3, p. 228. KGA V, 2, Lettera di Friedrich Schlegel, inizio-metà 1798, n. 483, pp. 347-348: fondamento della critica schleiermacheriana è «la costruzione e la costituzione dell’umanità e della moralità complete in opposizione alla filosofia isolata». «Anche se tu non puoi o non vuoi synconstruiren, mi auguro almeno di poter synenthousiazein». 64
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
annotazioni contengono importanti elementi della costruzione, molto più tarda, della sua etica65. Nei Frammenti sono portati a termine solo alcuni chiarimenti concettuali e alcune descrizioni delle virtù, come quelle dell’apertura (Offenheit), della saggezza (Weisheit) e dell’intelligenza (Klugheit), del genio pratico, alle quali rimandiamo il lettore. Allo stesso scopo sono rivolti i due saggi, Sul pudore e Sulla fedeltà, dei quali si era molto parlato tra gli amici nell’estate del 1798. Il progetto Sulla fedeltà nasceva dal cuore della concezione morale schleiermacheriana; in ciò Schleiermacher si sentiva tutt’uno con la Herz, che avrebbe dovuto partecipare alla scrittura di queste rapsodie, e sotto i cui occhi solo poteva lavorare ad essi. Al contrario, entrambi avevano con Friedrich una scherzosa contesa, che mostra la differenza delle loro visioni della vita. A Schlegel sembrava che nella fedeltà verso gli individui Schleiermacher e la Herz andassero più lontano di quanto fosse nella sua natura. Il bel motto del saggio tratto da Aristotele si trova ancora tra le carte di Friedrich: «Solo anime virtuose, che sono costanti verso se stesse, possono esserlo anche verso gli altri»66. Nell’altro saggio, Sul pudore, Schleiermacher affrontava, già allora, una delle più sottili e problematiche questioni di etica: esso fu terminato nel 1799 o nel 1800 e costituisce il punto centrale delle Lettere confidenziali sulla Lucinde. Se si valutano infine i tentativi schleiermacheriani, risalenti a questo periodo, di tratteggiare il concetto delle singole virtù, è evidente ovunque l’importanza che essi rivestono per il successivo penetrante sguardo nella natura e nell’ordine interno della dottrina della virtù. Che questi singoli contributi convergessero alla posteriore costruzione di una morale poteva diventare evidente solo dove essi fossero stati collegati. Qui appaiono ancora come singole idee; sono solo lampi, che non danno la luce del giorno. La forza del genio morale di Schleiermacher si rispecchiò nell’influsso personale su Friedrich Schlegel, prima che emergesse quello letterario. Un impetuoso, violento impulso alla grandezza e a vivere fino in fondo ogni contenuto della vita aveva movimentato la giovinezza di Friedrich; ma presto poesia e storia, nelle loro connessioni ultime, lo assorbirono completamente e fu sufficiente per lui tenere lontano da sé la moralità allora in vigore e dare rilievo a tratti affini ai suoi, quando li incontrava, come in Lessing e Forster. La recensione del Woldemar mostra come, all’epoca, in modo sprezzante rifiutasse di Jacobi ciò che corrispondeva alle idee morali di Schleiermacher; e i frammenti del 1797 nel Lyceum, 65
154. 66
KGA I, 2, n. 15, pp. 9-10; n. 59, p. 19; n. 16, p. 10, n. 24-26, pp. 12-13; Fragmente, p. Gedanken IV, KGA I, 3, p. 132, n. 2.
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PRIMA MANIFESTAZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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dove emerge l’orizzonte dei suoi interessi, contengono solo alcune vivaci parole contro la schiavitù delle donne, a favore del “superiore cinismo”. Già durante la stampa dei Frammenti si vede l’impatto crescente dei pensieri di Schleiermacher. Nacquero quelle rappresentazioni, che erano imitazioni dei “frammenti dell’animo”. «L’animo è la poesia della sublime ragione, e attraverso l’unione con filosofia ed esperienza morale ne nasce l’arte senza nome, capace di afferrare la vita, che confusamente fugge, e formarla ad unità eterna»67. Vi espresse anche l’ideale di amicizia, che era sorto dal suo legame con Schleiermacher e dal modo di pensare di quello. «Sublime è quando due amici scorgono insieme ciò che è loro più sacro, l’uno nell’anima dell’altro, in modo chiaro e perfetto, e felici del loro valore sentono i propri limiti solo attraverso il completamento dell’altro. Questa è la concezione intellettuale dell’amicizia»68. Da questa relazione, dall’atteggiamento di Schleiermacher verso di lui, egli attinse poi la saggia e bella espressione: «la conoscenza dei limiti necessari è la cosa più indispensabile e più rara nell’amicizia»69. «Perché proprio in questo», osserva Schleiermacher, «ha dovuto mostrarsi spesso la forza della mia amicizia»70. Alla fine dei Frammenti ciò che per Schlegel era sorto grazie all’amico si collega evidentemente con la coscienza del proprio ideale di vita. Schlegel riteneva necessario un grande scrittore morale. «Non abbiamo ancora alcuno scrittore morale, che possa essere comparato ai primi in poesia e filosofia»71. E già nell’estate del 1799 a Schlegel pareva di essere stato chiamato a fondare una nuova morale. Nell’Athenaeum doveva preparare un saggio sulla autonomia (Selbstständigkeit), nella quale egli scorgeva l’ideale morale dell’uomo. Affioravano in lui le prime immagini della Lucinde. Si comprende l’origine delle più singolari autoillusioni di Friedrich se si guarda al fermento dell’epoca, alla visione del suo grande contemporaneo, e si comprende, inoltre, quanto diversamente rispetto a un lettore estraneo Schleiermacher doveva guardare più tardi alla Lucinde 72. 67
Ath. 1, II, n. 339, p. 100. Ath. 1, II, n. 342, p. 101. 69 Ath. 1, II, n. 359, p. 106. 70 KGA V, 6, Lettera a Eleonore Grunow, 10 settembre-11 settembre 1802, n. 1336, pp. 135 ss. 71 Ath. 1, II, n. 449, p. 145. 72 Per la prospettiva di Schlegel nel 1796, cfr. anche la recensione al Woldemar di Jacobi, in Charakteristiken und Kritiken, I, 1801, pp. 39 ss.; per quella del 1797, cfr. Lyceum der schönen Künste, a cura di Reichardt, Berlino 1797, I, pp. 32 ss; Lessing, ivi, II, pp. 127 ss., e i Frammenti, n. 161, 162. Inoltre Ath. 1, II, pp. 31, 32, 66, 73, 89; imitazione di Schleiermacher, 101 e Br. III, p. 74; attinto dal metodo di Schleiermacher, p. 106; assunzione autonoma del compito di Schleiermacher, pp. 10, 127, 134, 145 e Br. III, p. 80-82; descrizione del suo ideale di vita 68
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
La giovane generazione era stata scossa in profondità dall’ideale di vita di Goethe; ora iniziava a separarsene. Goethe si era trovato di fronte alla natura e al compito della propria formazione; la sua perfezione personale e la rappresentazione di essa in un regno di forme perennemente serene era stato il suo scopo ultimo. Pensiero e poesia dovevano diventare ora una forza morale. L’eudaimonismo aveva portato la società al limite dell’abisso; bisognava riformarla. Dall’attiva compartecipazione (Mitgefühl) ad essa nacque il compito del pensatore etico. In questa disposizione d’animo Friedrich si legò a Schlegel. Si chiarisce così la parola paradossale di Schleiermacher: «Non amo nessuno per via dello spirito. Schelling e Goethe sono due spiriti potenti, ma non cadrò mai nella tentazione di amarli, né lo pretenderò. Schlegel è invece una nobile natura morale, un uomo che porta l’intero mondo, con amore, nel suo cuore»73. Si spiega inoltre la posizione, assunta dallo stesso Friedrich nella critica al Wilhelm Meister, nei confronti di questa grande opera. Partito da una differente prospettiva, venne loro incontro Hardenberg. E così Schleiermacher, divenuto cosciente del proprio grande compito, indipendente sia dai sistemi morali dell’epoca sia dall’ideale di vita della poesia, già fortemente attivo all’interno della propria cerchia, andava incontro ai nuovi compagni della giovane e inquieta generazione. Come ogni genio era solo in mezzo a loro e tuttavia ne aveva bisogno.
a Dorothea, Ath. 2, p. 23 e del suo compito, influenzato da Schleiermacher, pp. 37-38, Br. III, pp. 81-82. 73 KGA V, 6, Lettera a Eleonore Grunow, 8 luglio-11 luglio 1802, n. 1277, pp. 38 ss.
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I COMPAGNI POETI1
Era un circolo di poeti e critici quello nel quale Schleiermacher fu condotto dall’amicizia con Friedrich e dalla collaborazione con l’ormai avviato Athenaeum. Gli Schlegel, Novalis, Tieck e sua sorella, Bernhardi, Hülsen condividevano con lui il felice compiacimento di questi anni ambiziosi. Schleiermacher stesso aveva ritrovato la giovinezza e l’esuberanza che le appartiene. Alcune delle critiche che si diffondevano provocando il più
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Sono indicate le fonti per l’esposizione della relazione di Schleiermacher con i singoli poeti. Al contrario, sarebbe stato impossibile giustificare le caratterizzazioni, progettate dai poeti, adducendo ciò che è stato stampato e la grande massa di ciò che non è stato pubblicato, dal quale attingo. Per Tieck possediamo una base nell’eccellente libro di Köpke (1855), sebbene, nella trattazione, io debba distanziarmi da lui, e non possa considerare attendibili in molti punti i racconti del poeta pieno di fantasia. L’utilizzo della raccolta di lettere, tratta dal lascito di Tieck, è reso molto difficoltoso dall’imperdonabile manchevolezza dell’edizione. Per Novalis dobbiamo attendere nuovo materiale. Per la vita e l’opera di Wilhelm Schlegel è disponibile un apparato raccolto con incomparabile accuratezza da Böcking. Così, gradualmente, vanno a completarsi le fonti per la comprensione di quest’incredibile epoca. Ho cercato di utilizzare ciò che possedevo, e, dalla mia visione storica di tutto questo sviluppo, a partire da Lessing, Herder e Goethe, si è ottenuta una serie di motivi esplicativi, documentati anche dalle espressioni epistolari. In questo contesto deve essere sufficiente accennare agli elementi più notevoli: una storia precisa sarebbe uno dei contributi più decisivi per il nostro studio dei fenomeni spirituali. Il meritevole lavoro di Hettner, come quello di Cholevius, patiscono per un’errata tendenza alla costruzione storica (Hettner adduce a spiegazione di tutto il fatto che la vita tedesca non offriva alcun nutrimento per una poesia di valore, Die romantische Schule, 1850, pp. 41 ss.; Cholevius, Geschichte der deutschen Poesie, II, 1856, p. 334: «tutto ciò si radica nel disprezzo del reale»). Koberstein (Geschichte der deutschen Nationalliteratur) creò, a partire da ciò che è stato pubblicato, con magistrale precisione, una solida base per lo studio di quest’epoca; sono note poi le importanti trattazioni di Gervinus e Julian Schmidt.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
grande spavento, quelle sull’antropologia di Kant2, su Garve3, su Engel4 erano di suo pugno; relativamente alla letteratura e alla poesia di allora condivideva ostinatamente tutti i pregiudizi degli amici, poiché, non avendo gran talento poetico, non aveva un giudizio autonomo a tale riguardo. A parte Wilhelm Schlegel nessuno dei compagni mostrava un così disinteressato piacere per le invettive, per le alleanze, per gli attacchi combinati, in breve, per tutti quei mezzi del duello letterario che servono più a irritare gli oppositori che a giovare agli amici. Sotto la guida di Wilhelm, Schleiermacher costrinse se stesso a scrivere versi e a pensare a un romanzo tentando di partecipare attivamente, all’interno di questa cerchia, al grande movimento della nostra poesia tedesca. Fu allora decisa la sua relazione con la poesia. Si avvicinavano alle più perfette creazioni di Goethe e Schiller in questi anni le opere di Tieck e Novalis, degli Schlegel, di Hölderlin. Nessun elemento esterno disturbò il più ampio dispiegarsi della nostra poesia; essa attirava a sé tutte le forze migliori e, tuttavia, si consumava in se stessa, come a seguito di una attitudine insita nella propria organizzazione. Qui si riscontra uno dei fatti più paradossali e più spesso dibattuti nella storia dei movimenti spirituali, che si spiega alla luce della connessione istituita nella nostra letteratura. Le inclinazioni a partire dalle quali si forma il genio poetico (dichterisches Genie) sono presenti all’incirca sempre nella medesima misura in ogni nuova generazione. Solo le condizioni sotto le quali si sviluppano tali inclinazioni decidono i divesi percorsi esistenziali. O come si vorrebbe altrimenti spiegare il fatto che, a un movimento poetico in ascesa, non manca mai il genio che porta tutto a compimento? I talenti poetici della giovane generazione di allora si trovarono al cospetto dei vertici della nostra letteratura. La gioventù si trovò coinvolta nelle battaglie per la realizzazione di un più nobile ideale di vita e per la formazione di una visione del mondo appagante. Una maggiore consapevolezza della sua forza poetica, del suo metodo, delle sue direzioni era stata raggiunta in Kant e Schiller. È notevole come le erudite conoscenze di storia letteraria, diffuse a Gottinga e a Berlino, furono trasformate allora dagli Schlegel, da Wackenroeder, da Tieck, alla luce di questo nuovo modo di considerare, in una vera comprensione dell’arte greca, inglese, spagnola, 2
Cfr. Rezension von Immanuel Kant: Anthropologie, KGA I, 2, pp. 363-369. Inizialmente pubblicata in Ath., II, 2, Berlino 1799. 3 Cfr. Garves letzte noch von ihm selbst herausgegebene Schriften (Sammelrezension), KGA I, 3, pp. 63-72. Inizialmente pubblicata in Ath., III, 1, Berlino 1800. 4 Cfr. Rezension von Johann Jakob Engel: Der Philosoph für die Welt, Band 3, KGA I, 3, pp. 225-234. Inizialmente pubblicata in Ath., III, 2, Berlino 1800.
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I COMPAGNI POETI
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che portava a perfezione l’impostazione schilleriana. Ne derivò che questa giovane generazione crebbe nello studio della visione del mondo e della vita, della tecnica estetica, dei mezzi artistici e del modo di poetare dei più grandi poeti. Quella trattazione dei mezzi attraverso i quali la realtà viene sollevata a forma artistica, che Schiller, all’apice del suo creare, sebbene non senza conseguenze negative, pose alla base del suo lavoro, formò il punto di partenza dei giovani poeti. Invece di abbandonarsi con disinvolto senso della vita all’impressione che il mondo esercitava su di essa, la nuova generazione elaborò al proprio interno i diversi modi per contemplare ed esporre poeticamente il mondo stesso. Invece di ricavare, con sana sensibilità, dagli uomini e dai loro destini, un nuovo e pieno contenuto vitale, nel quale soltanto è data la possibilità di un genuino creare poetico, essa formava visioni da altre visioni, sotto le quali ad altri era apparso il mondo. Le conseguenze di questo atteggiamento ne determinarono il carattere. Mondi contrapposti di idee e di visioni poetiche si affollarono presto nella fantasia e nel pensiero dei giovani poeti, giocando per tutta la vita con la loro anima. Ciò si osserva addirittura nel carattere e nella vita di Tieck e conferma in generale, sebbene egli superasse per disinvolto spirito poetico tutti gli altri, l’irresistibile forza delle condizioni sotto le quali si trovava la generazione di allora. Dal momento che il precoce Tieck, per alcuni anni, si dedicò alla poesia seguendo una tendenza naturalistica, si sviluppò in lui, più che in altri, un contenuto poetico reale. In seguito, però, intorno a lui, la letteratura di tutti i popoli e di tutte le epoche dell’umanità, fino nelle ultime raffinatezze della lingua, fu oggetto di studi entusiastici: egli abbandonò allora il proprio sviluppo autonomo e si rivestì direttamente con le forme e con la lingua di Goethe e di Shakespeare. I poeti della giovane generazione non giunsero alla sana pienezza di una considerazione poetica universale non solo perché il mondo tedesco era allora povero di caratteri e di grandi destini sviluppati liberamente, né perché una tendenza sbagliata incatenava le forze poetiche: causa di ciò fu in primo luogo il fatto che vita, destini e mondo non erano portati nella loro anima con ampia abnegazione, con riguardoso silenzio. Le condizioni, sotto le quali essi vissero, li portarono inoltre a fare alcuni significativi progressi nell’elaborazione della visione del mondo progettata da Herder e Goethe, a impossessarsi, in forza di quella ricomprensione (Nachverständnis) dei fenomeni spirituali passati, già iniziata in Winckelmann e Herder, delle più alte creazioni della vita poetica dell’umanità, a formare un’arte di tale comprendere (Verstehen), in grado di rinnovare tutti gli ambiti della ricerca storica, di rendere il più efficace possibile il lavoro vitale di questa nostra grande epoca letteraria e di trasferire i suoi risultati nei più diversi campi
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
della scienza. Le medesime condizioni impedirono loro, però, di raccogliere in sé un contenuto vitale veramente positivo, che avrebbe dovuto esplicitarsi nella fantasia in forme reali e in destini umani dai tratti saldi. Questa era la doppiezza legata alla loro condizione storica. Goethe, nel saggio sull’epoca del talento forzato, dopo una riflessione durata molti anni, affermò: «erano dati dunque, all’arte poetica, entrambi gli estremi: contenuto chiaro all’intelletto, tecnica al gusto. Apparve allora il curioso fenomeno per il quale ognuno credeva di poter riempire questo interspazio ed essere dunque poeta»5. Si spiega a partire da qui una serie di tratti comuni a tutta la giovane generazione. Come ogni generazione che prosegue su binari già imboccati, anch’essa appare immatura. Anche nelle sue più belle poesie c’è qualcosa di dilettantesco; lo spiegarsi regolare di caratteri e destini, che nasce dalla costante e spregiudicata considerazione della vita, non è mai presente nei prodotti della sua fantasia; addirittura manca loro la vera ricchezza che proviene da un’intuizione vitale (lebendige Anschauung), con la quale i veri poeti riempiono le loro forme: al posto di quel genuino esplicarsi subentrava lo sviluppo derivante da un’idea generale (come l’idea del destino) o dalla concezione di un grande poeta o dal capriccio di una fantasia inquieta. Questi giovani facevano poesia a partire dal semplice profumo dei fenomeni, da caratteri tipici, da idee sublimi, da intenzioni a lungo elaborate. Nella stessa misura e per le stesse cause, che avevano impoverito il contenuto poetico, crescono, in estensione e potenza, sentimento, considerazione estetica e gioco astratto della fantasia. Questa generazione era cresciuta in un’atmosfera poetica. Essa comprendeva la natura attraverso l’intuizione poetica e le epoche della storia le si erano schiuse nelle visioni della vita e del mondo dei grandi poeti. La sua essenza era nata dallo spirito dell’arte. Tutto – vita, scienza, filosofia – doveva brillare alla sua luce, la fantasia doveva accogliere ogni cosa nella propria corrente dorata. Ogni poesia appariva solo come un’onda di questa infinita corrente; come poteva ambire a raggiungere da sé la stabilità? Dalle disposizioni d’animo astratte (Stimmungen) fino alla comprensione ideale del mondo, tutto era allora accolto in un unico illimitato regno governato dall’arte; come avrebbero potuto allora le vecchie leggi e le vecchie forme mantenere la loro validità? Ai confini della poesia, in una vita umorale (Stimmungsleben) che si stempera, come una musica, in ritmi, rime, immagini che scorrono veloci, senza forma e senza ordine, in creazioni dominate dalla fantasia e dal suo gioco spavaldo (come sono le commedie e le favole di Tieck), richiamando al 5
Goethe, WA, 42, 2, pp. 442 ss.
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I COMPAGNI POETI
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presente, nella poesia, i modi di sentire del passato e singoli ambiti della vita spirituale (come tentano gli Sfoghi del cuore di un monaco amante dell’arte6 e l’Ofterdingen) questa generazione trovò nuovi toni e nuove forme di espressione. Preghiera, devota fede nei miracoli, coraggio guerresco, chiusura in se stessi, desiderio di ciò che è lontano: l’immergersi nel passato, attraverso una seconda esistenza, richiamava sentimenti che erano estranei al presente. La vita stessa doveva diventare una festa continua: arguzia, spirito, serena considerazione artistica, avvicendarsi delle sensazioni dovevano riempire ogni cosa; né la scienza né le esigenze morali riuscivano a limitare questa nuova esistenza. Siamo perciò debitori alla poesia di questa generazione di toni originari tipici della vita emotiva elementare (Empfindungsleben), che mai si spegneranno, di un rinnovamento delle forme, dei suoni e delle atmosfere di tutte le più grandi epoche della storia del genere umano, di una profondità misteriosa del sentimento della natura, della liberazione della nostra vita sociale, del piacere vario della natura. La vita emotiva (Gemütsleben) di un’epoca sembra trovare solo in determinati generi artistici, quasi come in una lingua materna, un’espressione che scaturisce in pienezza e libertà; mentre questi generi si sviluppano fiorenti, gli altri avvizziscono. La concezione dell’uomo trovò piena espressione nell’arte figurativa durante il Rinascimento italiano, mentre noi, oggi, non abbiamo altra forma espositiva, nella quale essa possa genuinamente riversarsi, se non la parola malleabile, che si adatta ai processi più intimi. La musica, linguaggio caratteristico della disposizione d’animo astratta e della fantasia, era l’arte dell’epoca, nella quale viveva la giovane generazione di poeti. Le canzoni di Tieck appaiono talvolta come un tentativo di collegare le parole in modo puramente musicale; la fiaba divenne la creazione di una capacità immaginativa guidata solo da siffatte disposizioni d’animo; il dramma e il romanzo furono trasformati, rispettivamente da Tieck e da Novalis, in fiaba. Un nuovo mezzo per rafforzare l’elemento musicale nella poesia, che si contrapponeva proprio alla musica senza forma dei versi di Tieck, fu individuato nelle forme romaniche, che sono tutto suono e modulazione. Già Wilhelm Schlegel riconosceva questo tratto fondamentale nella poesia dei suoi amici e nella propria. «Come Goethe, alla sua prima apparizione, e i suoi contemporanei, Klinger, Lenz, riposero la loro totale fiducia nella rappresentazione delle passioni o meglio, più nella rappresentazione della loro irruenza esteriore che della loro interiore profondità, così credo, 6 [Wilhelm Heinrich Wackenroeder, Herzenergiessungen eines kunstliebenden Klosterbruders, 1796].
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
i poeti dell’epoca più recente hanno messo eccessivamente in rilievo, nella loro poesia, la fantasia, e in particolare la fantasia semplicemente giocosa, senza scopo, onirica»7. Siamo debitori a questa giovane generazione soprattutto degli straordinari progressi della ricerca tedesca. Dalla poesia si eleva ora la scienza. Se si confrontano i tentativi di Friedrich Schlegel di penetrare, grazie allo studio delle opere poetiche, nello spirito delle epoche storiche, con ciò che accadeva tutt’intorno a lui, appare chiaro come gli andasse incontro l’intera direzione dei suoi contemporanei, come, da tutte i punti di vista, poesia e ricerca erano impegnate a rivivere (nacherleben) e a risvegliare la più profonda vita emotiva e fantastica dei tempi passati. In questa cerchia si formò il consapevole metodo schleiermacheriano di comprendere (verstehen) l’individualità (Individualität) di un’opera e di uno scrittore e si sviluppò la sua idea che la fantasia (Phantasie) è l’organo di tutta la comprensione (Verständnis), attraverso la quale, soltanto, ci è data l’individualità. Era in perfetta armonia con lo spirito dei contemporanei la geniale esposizione schleiermacheriana del significato della fantasia per la moralità dell’uomo. «Vorrei», scriveva a Eleonore, «che il diavolo prendesse la metà di tutto l’intelletto del mondo; voglio dargli anche la mia quota, sebbene controvoglia; potremmo in compenso ricevere solo la quarta parte della fantasia che ci manca su questa bella terra»8. E quando Schleiermacher, nelle vibrazioni del sentimento (Gefühl), scoprì la prima manifestazione della divinità in noi, ciò avvenne in armonia con la sensibilità degli amici. Schleiermacher si legò allora a una più ristretta cerchia di poeti e critici, riunitasi all’interno di questa giovane generazione. Sono due fatti assolutamente differenti, e da mantenere distinti, l’esistenza di uno spirito comune nella nuova generazione e la formazione, in essa, di una più ristretta cerchia di compagni, non del tutto determinata dal grado di affinità spirituale. Senza dubbio Hölderlin era molto più vicino a Novalis e a Wilhelm Schlegel di quanto questi ultimi due fossero affini tra loro; Tieck aveva pochi punti di contatto con Friedrich Schlegel. Ma già Goethe e Schiller avevano potuto affermarsi nei confronti della letteratura di intrattenimento, sprofondata nella realtà abituale, solo attraverso la loro alleanza e mediante una specie di organizzazione delle loro forze. A loro si legarono i giovani scrittori e formarono un partito: quando poi il disaccordo tra Schiller e Friedrich Schlegel ne provocò la scissione, nacque una fazione che tentò di espandersi e di rendersi indipendente anche da Goethe. Legami giovanili 7 8
Wilhelm Schlegel a Fouqué, Werke 8, pp. 143 ss. KGA V, 6, Lettera a Eleonore Grunow, 30 settembre 1802, n. 1351, pp. 154 ss.
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I COMPAGNI POETI
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e incontri casuali cooperarono in tal senso, insieme a un’interiore affinità e alla pressante necessità di legarsi saldamente l’uno all’altro per affermarsi nelle correnti letterarie. «Se si considera quanto radicalmente diversi nelle loro produzioni e nei loro principi (almeno nel modo in cui vi sono giunti e in cui li considerano) sono, e sempre saranno, Friedrich Schlegel, Tieck e August Wilhelm Schlegel, si deve certo ammettere che qui non ci può essere alcuna tendenza a formare una setta con intenti offensivi, bensì al massimo difensivi; essa non sussisterebbe neppure, se gli altri, che pretendono di formare la vecchia scuola, non li attaccassero»9. Tutto fece sì che, per un periodo, il circolo di amici, che andava formandosi qui, vivesse nel modo più eccitante: la simpatia per i punti di vista più diversi, i talenti critici e poetici, la gioiosa spavalderia tipica della spontaneità giovanile e della fama raggiunta precocemente. Rimasero all’interno di questa cerchia anche i contatti di Schleiermacher con i poeti della giovane generazione. Wilhelm Schlegel era a quel tempo ancora il capo della giovane scuola poetica. Era un anno più vecchio di Schleiermacher quando, nel 1798, giunse a Berlino, per portare il suo incomparabile rifacimento poetico (Nachdichtung) di Shakespeare sulla scena del teatro berlinese: aveva trentuno anni. Si presentava come un uomo di mondo, dalle forme eleganti, pieno del più sicuro amor proprio, dotato di spirito brioso. Non appena lo si guardava più da vicino emergeva il suo temperamento poetico: era un uomo di umore lunatico, delicato, influenzabile quasi come una donna; la felicità lo rendeva mite e armonioso, cosicché tutta la sua amabilità ne emergeva nel modo più palpabile; andava in collera di fronte alle dissonanze. Il favore delle donne lo aveva viziato; aveva bisogno di loro e nelle loro mani era come cera. Era capace del più nobile spirito di sacrificio, come dimostrò nei confronti di Caroline, di Friedrich, della sorella di Tieck. Tuttavia non rendeva facile vivere insieme a lui a coloro che gli dovevano tutto, per via di una sicurezza in se stesso, che lo spingeva ovunque ad ammaestrare gli altri e a sistemare sempre le cose, e per una certa meticolosità nelle piccole cose, che era conseguenza delle sue migliori qualità, cioè della sua precisione e affidabilità. Suo fratello per un periodo fu solito chiamarlo, di fronte a Caroline, il “divino maestro” o anche il maestro dell’universo. Nel lavoro e negli affari non trapelava nulla della sua natura poetica. Qui lo guidavano seria precisione, intelligente abilità, imperturbabile senso dell’ordine. Era uno degli uomini più impegnati e sapeva strappare risultati anche alle ore più sfavorevoli, tanto che Friedrich, quando lo osservava durante questi momenti, sosteneva che il suo lavoro fosse lavorare. In tal modo riuscì a portare a 9
KGA V, 7, Lettera a Brinkmann, 26 novembre 1803, n. 1605, p. 121.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
termine i suoi innumerevoli saggi critici e storici con precisione e puntualità, senza mai dover attendere una più profonda comprensione. Non è difficile notare, nella loro eleganza scrupolosa e un po’ prolissa, questa tecnica. Al contrario, Friedrich partiva sempre da punti di vista ottenuti mediante un lungo lavoro interiore e molte letture, e per lo più, nella scrittura, gli mancavano materiale ordinato e precisione. Accanto a questi lavori nacquero, nelle ore di buon umore, le poesie di Wilhelm, che lo mantennero in una costante ricettività nei confronti di tutto ciò che è poetico, rendendoglielo immediatamente comprensibile. Il significato storico di Wilhelm sta nel fatto che in lui, per la prima volta, una natura poetica si trovò in pieno possesso dei rigorosi mezzi scientifici della storia letteraria. Così crebbero in lui la miglior capacità d’imitazione (Nachbildung), che la letteratura europea abbia conosciuto, e una penetrante concezione storico-estetica, attraverso la quale venne felicemente completata la profondità filosofica di Friedrich. Le poesie di Wilhelm ne riflettono il carattere e l’atteggiamento spirituale. Lo splendore di una raffinata formazione aleggia su di loro, l’armonia della lingua più nobile; in poesie come Rivedere, Dedica di Romeo e Giulietta, Le ore prima della separazione, la sua dolcezza traboccante, quasi femminile, trova la più bella espressione. In generale non si riscontra nei suoi versi la violenza, tipica dei dolori e dei piaceri personali, si potrebbe dire che non vi si trova nessun destino particolare, se non l’orgoglioso amor proprio del poeta e una tenera dedizione che vive nella vita altrui. «Le tue canzoni», così lo celebrava Hardenberg nel 1792 in una poesia giovanile non pubblicata, che mostra come la giovane generazione trovasse in queste poesie un tono nuovo, «le tue canzoni spirano da una cerchia lontana / eco di una folla, / amichevoli, sacre, care e fresche / fino al silenzioso solco del mio sentiero»10. Gli era caratteristica, inoltre, la severità della forma, che influenzò lo stesso Goethe. Proveniva dalla sua vita più intima, risuonando spesso, poi, nella poesia dei contemporanei, anche il fatto che egli accogliesse nell’ambito della poesia la glorificazione di tutta l’arte passata e presente. Il suo straordinario senso delle forme compenetrava, nel bene e nel male, tutto in lui, il suo carattere come il suo aspetto, la sua poesia come la sua ricerca. Un uomo di tale indole e Schleiermacher erano destinati ad attirarsi, per molti motivi, nella periferia della loro natura: per il punto centrale attorno a cui ruotava l’esistenza di Schleiermacher, Wilhelm Schlegel non poteva avere alcuna sensibilità, poteva averne appena una comprensione superficiale. Schleiermacher, a sua volta, cercava sì di capire rettamente e utilizzare 10 Novalis Schriften, I-IV, a cura di Jakob Minor, Jena 1907, qui I, p. 234. Cfr. anche Minor, Studien zu Novalis, 1911, p. 61.
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I COMPAGNI POETI
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l’elemento più intimo dell’attività di Wilhelm, addirittura, come nel saggio sul Macbeth di Schiller11, di sostenerlo, ma era per lui evidentemente poco naturale comprendere e giudicare una concezione poetica del mondo come era questa. Il suo genio etico lo spinse dapprima a cercare, nelle opere dei poeti, solo la comprensione del modo interiore dell’uomo. Quando poi lo occupò lo studio dell’individualità degli scrittori, indagò le creazioni poetiche anche secondo la loro forma interna: e qui si nota come egli sviluppasse, in sostanza, i punti di vista di Wilhelm Schlegel, ma con il rigore del proprio metodo critico. La comune sensibilità di Wilhelm Schlegel e di Schleiermacher per la puntualità negli affari e per il libero gioco di spirito offrì l’occasione per i loro primi contatti. Quando Friedrich, che doveva consegnare il manoscritto per il primo quaderno dell’Athenaeum, non sapeva più come far fronte alle insistenze del fratello, sempre pronto e puntuale nella consegna, Schleiermacher si assunse la mediazione del caso. Scrive: «quanto più spesso e in diversi modi si giocano brutti tiri a suo fratello, tanto più egli produce allora idee originali. Non mi ha oggi nominato di grazia suo segretario di gabinetto e non mi ha scodellato, un po’ alla volta, durante il pranzo, tra minestra e carne, tutto ciò che devo dirLe in suo nome? Unger, che richiede il manoscritto e Lei, Wilhelm, che scrive del manoscritto e che, come Friedrich mi ha assicurato, non ha gridato meno di Unger, avete fatto sì che egli non trovi il tempo di scriverLe. Deve quindi rassegnarsi: a causa della Sua lettera tempestosa, che del resto non gli ha per niente nuociuto e che mi ha dato il piacere di ridere di gusto di lui, Friedrich sta sdraiato sul letto gesticolando come un matto»12. «La confusione dei decreti, come la loro quantità», aggiunge alla sua comunicazione degli incarichi affidatigli da Friedrich, «dimostrano bene che Friedrich pensa giorno e notte al giornale e che non è ancora giunto a seconda potenza, cioè a riflettere di nuovo su ciò su cui ha già riflettuto». Wilhelm rispose subito, il 22 gennaio13. «La Sua lettera mi avrebbe fatto un vero piacere, se non mi avesse suscitato la viva preoccupazione che Lei vizi eccessivamente mio fratello. Come potrebbe altrimenti essergli venuto in mente di utilizzare una penna così arguta come la Sua in questo modo? Capirei se egli La avesse esortata semplicemente a fare conoscenza per iscritto con me, senza prestarsi a un determinato affare, bensì a scrivere senza 11
KGA V, 5, Lettera a G.E.A. Mehmel, metà luglio 1801, n. 1079, p. 173. Cfr. Rezension von William Shakespeare: Macbeth. Ein Trauerspiel, zur Vorstellung auf dem Hoftheater zu Weimar eingerichtet von Friedrich Schiller, KGA, I, 3, pp. 377-398. Inizialmente apparso in LitteraturZeitung, 6, Nr. 148-149, Erlangen 1801. 12 KGA V, 2, Lettera ad August Wilhelm Schlegel, 15 gennaio 1798, n. 437, p. 249. 13 Ivi, Lettera di August Wilhelm Schlegel, 22 gennaio 1798, n. 440, p. 260.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
un fine con assoluta finalità». «A questo riguardo ho da saldare un conto con Lei: Lei chiama mio fratello semplicemente Schlegel, considerandomi, perciò, assolutamente inesistente, per quanto La concerne. Se uno di noi è Schlegel, quello sono io di sicuro. Non ero in origine il più vecchio, ma il rozzo Esaù ha venduto a me, il mite Giacobbe, la sua primogenitura per un piatto di lenticchie». «Per quanto», gli replica Schleiermacher il 17 febbraio14, «per dovere del mio ufficio e per mia inclinazione, io viva nella mancanza di scopi di ogni tipo, con Lei non posso tuttavia arrivare alla assoluta finalità senza scopo. Questa volta, però, non ho da trattare nessun affare per Suo fratello, bensì molti per me!». Egli sosteneva, inoltre, di essere molto lontano dal viziare Friedrich. «Guardo al circolo vizioso, nel quale egli già da tempo si trova, con la più dura indifferenza». «Alla Sua seconda accusa, che io, per quanto mi riguarda, La anniento, non voglio ribattere. Deve accettare tali offese fino a quando Lei e Friedrich non vi fonderete completamente in un unico individuo, cosa per la quale c’è molta speranza. Si lasci però spiegare dal mistico Hardenberg come iniziare a liberarsi volontariamente di uno dei due corpi: per la qual cosa consiglio in modo non autorevole quello di Friedrich Schlegel». Friedrich seguiva con piacere “i giochi olimpici di spirito e arguzia” che fratello e amico facevano a sue spese. Schleiermacher presagiva però giustamente che Wilhelm non avrebbe avuto alcuna sensibilità per la sua vera essenza. In maggio questi giunse a Berlino e andò ad abitare nella casa del libraio Unger. Su quest’ultimo e su sua moglie Schleiermacher e Friedrich erano soliti gareggiare in battute spiritose. «Wilhelm Schlegel», trovò Schleiermacher, «non ha né la profondità né la passione di quello di qui: è un uomo fine ed elegante, ha moltissime conoscenze e talento artistico e trabocca di spirito, ma questo è tutto»15. Nel frattempo i due rimasero in legame epistolare e Wilhelm riconobbe presto che Schleiermacher era l’alleato più importante e più fidato per i piani di campagna militare critica dei fratelli. Schleiermacher, da parte sua, studiava molto seriamente il metodo del famoso critico. Le sue recensioni apparvero allora, una dopo l’altra, nell’Athenaeum. Del dialogo su Klopstock16, con il quale fu aperto l’Athenaeum – lo stesso che Jakob Grimm, ancora nel 1804, trascrisse per intero dall’Athenaeum, poiché non aveva denaro per comprarsi il volume – Schleiermacher scrisse entusiasta a Wilhelm: «Della materia non
14
Ivi, Lettera ad August Wilhelm Schlegel, 17 febbraio 1798, n. 455, p. 276. KGA V, 2, Lettera alla sorella, 23 maggio-17 giugno 1798, n. 473, p. 322. 16 [Dilthey si riferisce a Wilhelm Schlegel, Le lingue. Dialogo sui dialoghi grammaticali di Klopstock]. 15
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I COMPAGNI POETI
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c’è nulla da dire, con la forma Lei è poi giunto alla perfezione»17. Poi, sull’ineguagliabile critica a Matthisson, Voss e Schmidt18, che apparve accanto alla sua recensione di Garve, scrive: «Mille grazie per la sua invenzione diabolica, che sopravanza di gran lunga tutte le altre. Lei è circondato e rifulge di una tale aura di fuoco infernale che non si può più pensare di adorare altro diavolo all’infuori di Lei. Che profondità in questa critica e che vitalità! E per la Gara di canto19, Le giuro, sono del tutto fuori di me. Se non si ottengono effetti, bisogna rinunciare. Al mio Garve Lei deve concedere allora la precedenza, affinché egli conservi almeno la breve vita finché si giunga ai poeti»20. E quando, più tardi, accanto alla sua caratterizzazione di Engel, arrivò la critica alla Guerra degli dei di Parny21, scrisse: «Le sue critiche hanno qualcosa di divino e inimitabile; esse illuminano tutte le parti della teoria e gettano così di nuovo luce, in modo leggero e naturale, sul proprio oggetto; è una vera delizia studiarle. Chi le accosta ne sarà senz’altro schiacciato, per quanto abbia fatto del suo meglio; ma non fa niente»22. Era l’epoca più felice dell’attività critica di Wilhelm Schlegel. Allora apparvero anche le sue poesie, e Schleiermacher mise in risalto, con grande finezza, la perfezione della loro forma. «Ho studiato e studio ancora con grande zelo e voglia le sue poesie, ma non posso dire che mi abbiano incoraggiato a poetare; è infinitamente difficile riuscire in ciò e non è concesso non volerlo. Sarebbe inutile fare una scelta di ciò che più mi ha colpito; potrei al massimo citare alcuni pezzi, che mi hanno colpito di meno. All’inizio credevo di poter ammirare l’arte solo nei sonetti, che perciò ho letto per primi; poi la ho trovata in tutto il resto quasi altrettanto perfetta, mentre nei sonetti, oltre all’arte, ho ritrovato molto che è per me di gran valore. Ancor oggi ho letto con infinita gioia Nikon e Heliodora chiedendomi se mi potrà mai essere concesso scrivere un romanzo, se non imparo a fare una tal cosa. Se mai ci riuscirò, di ciò dubito umilmente»23. È chiaro che Schleiermacher considerava queste poesie come esercizi artistici; trovò più tardi che esse gli sembravano quasi risalire 17
KGA V, 2, Lettera ad August Wilhem Schlegel, 27 febbraio 1798, n. 457, p. 288. Notizen, Ath. 5. [Nelle Notizen sono raccolte prima le pagine di Schleiermacher su Garve, come Schleiermacher stesso sottolinea, poi quelle di Wilhelm Schlegel su Matthisson, Voss e Schmidt: a questi si riferisce, probabilmente, Schleiermacher con “i poeti”]. 19 [Si tratta del Wettgesang, contenuto nelle Notizen, in cui si cimentano i tre poeti sopra citati]. 20 Ath., 3, pp. 179 ss.; KGA V, 3, Lettera ad August Wilhelm Schlegel, 18 gennaio 1800, n. 777, pp. 354 ss. e 29 marzo 1800, n. 825, Ivi, pp. 444-445. 21 [Évarist Parny, Guerre des Dieux, Vander Berghe, Bruxelles 1799]. 22 Ath., 3, 2, p. 252. KGA V, 4, Lettera ad August Wilhelm Schlegel, 28 giugno 1800, n. 898, p. 114. 23 KGA V, 4, Lettera ad August Wilhelm Schlegel, 27 maggio 1800, n. 868, p. 47. 18
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
all’epoca alessandrina, ma che, in questo genere, erano assai riuscite24. Egli stesso si rivolse a Wilhelm con tentativi metrici, era d’accordo con lui sulla metrica di Voss e sul problema del trocheo nell’esametro: si divertiva all’idea, una volta terminato il Platone, di tradurre insieme a lui gli antichi poeti. In Ludwig Tieck, nello stesso periodo, il più ricco talento poetico di questa giovane generazione si presentò alla cerchia che si andava formando. La natura gli diede in dote una predisposizione non comune a vivere ogni umore fino alla profonda commozione di tutte le forze dell’animo (Gemütskräfte) e a trarne figure, in virtù di una fantasia produttiva (bildende Phantasie) facile e spontanea. Accade spesso che una tale straordinaria forza consumi come materia tutti gli elementi vitali che le si avvicinano, e che, pur nella maturità esistenziale e intellettuale, lo sviluppo personale veritiero e intimo, che costituisce la grandezza del poeta e del pensatore, non si realizzi. Se non erro, era questo il caso di Tieck. Tieck era un figlio di quella giovane Berlino, nella cui società dovevano diventare realtà concreta le visioni della vita contenute nella poesia di Goethe. Al famoso ginnasio di Gedike, i giovani insegnanti, che appartenevano alla nuova epoca, davano da comporre esercizi, poesie, interi drammi; la passione per il teatro era un’epidemia. In remoti angoli del Tiergarten gli allievi misero in scena l’Ugolino [di Gerstenberg] e drammi simili; più tardi spostarono la loro scena nella casa di Reichardt, uno dei primi luoghi d’incontro della giovane Berlino; qui si recitava davanti e dietro le quinte. Ovunque Ludwig, in questa attività, era il migliore. Non c’è dubbio che fosse in grado di diventare il più grande attore tedesco; una figura nobile, slanciata, una voce ricca, piena di sonorità e un viso molto espressivo erano a disposizione del suo geniale talento di rivivere (nacherleben) e ridare forma (nachgestalten) a umori e a situazioni. Allora iniziò la sua passione, che durò tutta la vita, per la scena e per Shakespeare: passione misteriosa, se si pensa all’incapacità di Tieck per le creazioni drammatiche, ma ben comprensibile se si prende in considerazione il talento mimico del tutto particolare tipico dell’attore. I giovani insegnanti, Rambach, Bernhardi, stavano da pari con il genio, ed erano abbastanza incoscienti da prendere questo talento a servizio dei loro lavori letterari a pagamento. Egli stesso, da bambino, aveva nutrito la sua fantasia con il Goetz di Berlichingen, con Ugolino e con le più cupe tragedie di Shakespeare. Prima ancora di aver iniziato a vivere, imparava a sentire a modo proprio (nachempfinden) le cose più terribili e a restituirle a tinte forti. Egli apprese ciò come una cosa normale, quasi come una fiaba che si racconta ai bambini, e fu una 24
KGA V, 3, Lettera a Brinkmann, 19 aprile-22 aprile 1800, n. 847, pp. 482 ss.
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I COMPAGNI POETI
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giusta ritorsione che egli dovesse, anche in tempi successivi, rappresentarla non diversamente che in uno stile da favola. Come lavoro scolastico aveva passato a un amico un po’ sempliciotto, di nome Schmohl, il terribile racconto Abdallah e ora lavorava, nello stesso modo, al servizio di Rambach. Si consideri la particolarità di questo sviluppo giovanile, questa precocità capace di anticipare compiti e piaceri che si vivono di solito in una mezza vita; si pensi che Goetz e i Masnadieri furono le sue prime letture e che Tieck possedeva una fantasia ancora quasi infantile, piena di storie di paura e di briganti, uno sviluppo libero, addirittura una sovreccitazione della capacità immaginativa, prima che si fossero formati in lui seri studi, un costante progetto di vita e una volontà salda: allora, in questa concatenazione di cause, si deve vedere determinato in anticipo il futuro corso di quella straordinaria capacità che gli era stata data in dote. Era naturale, visto tutto questo, che egli diventasse schiavo dell’avvicendarsi di umore incontrollato e di profonda malinconia, e che si formasse in lui qualcosa di tipico dell’attore, che sfrutta a suo uso e consumo tutti gli umori umani, le scosse del sentimento, i materiali vitali, senza esserne formato in modo genuino e coerente. Questa prevalenza della vita umorale e fantastica logorò inevitabilmente, quando era ancora nel pieno della forza giovanile, il sistema nervoso e la salute di Tieck. Questa violenza demonica della fantasia era il nocciolo più profondo del suo poetare. Si può dire tutto questo, se si guarda l’intero sviluppo poetico di Tieck, che cominciò proprio allora, nei primi anni Novanta del secolo passato, per concludersi solo alcuni decenni fa. Egli parve dominare la poesia della sua epoca, perché il suo genio umorale e fantasioso fecondava ogni grande elemento vitale e culturale, che emergeva nel corso del tempo: dapprima Tieck accolse il senso per il meraviglioso e per lo spaventoso, poi l’infinita arte goethiana dell’intuizione e della formazione poetica contenuta nella prosa del Wilhelm Meister e nella lirica, più tardi la filosofia della natura, il movimento religioso; durante la vecchiaia, infine, i problemi sociali e la nuova forma della novella. Ma tutto questo non incideva realmente nella sua formazione; nessuna di quelle correnti fu accolta all’interno di un verace sviluppo personale. Le poesie di Tieck rivelano ovunque l’imitatore in grande stile. Anche nel più alto volo della sua immaginazione si mescola un’invincibile inclinazione alla sciocchezza; il destino più terribile, nelle sue opere, non appare tragico; dalle più raffinate, si potrebbe dire, penetranti e astute osservazioni dell’uomo, non nasce in lui nessuna figura in grado di raggiungere la compiutezza interiore di un carattere rilevante, e dagli incessanti studi formali non emerge quella genuina forma interiore, che solamente è l’espressione di un positivo contenuto poetico.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
Tieck cominciò con poesie naturalistiche. La prima cosa che pubblicò fu la conclusione della storia del famoso masnadiero Matthias Klostermeier, nella quale Rambach aveva rappresentato un uomo a cui solo l’imperfetta organizzazione del mondo impedì di diventare un Alessandro o un Cesare. Tieck subentrò ancora una volta al maestro e amico, quando a questi mancò la forza inventiva, e corredò La maschera di ferro con una conclusione che superò l’opera di Rambach con nuovi tormenti morali e con l’atrocità della fine. Tutto questo riempiva la sua mente quando compose Abdallah (1793) e quando progettò il Lovell (1792). Lo schema di entrambe le poesie è contenuta ne Il visionario25: una natura focosa, nobile, dominata dalle passioni e guidata dalla fantasia cade vittima di un seduttore, che estende sopra di lei una rete di arti raffinate. Tutto è pervaso da una selvaggia filosofia panteistica che, a partire dal Werther, albergava nelle menti dei giovani. «Il mondo è una canzone, dove un tono consuma l’altro ed è consumato dal successivo». Le forme e gli umori del William Lovell pesarono per quattro anni sulla sua anima e le descrizioni che diede delle sue condizioni psichiche e fisiche di quest’epoca, che quasi minacciavano la sua vita, sono confermate dalle lettere di Wackenroeder. «Quando guarirai da quest’infelice malattia! Incessantemente ti scagli contro la salute del tuo corpo e della tua anima: come puoi sentire altro che dispiacere?». Una notte, dopo una lettura di dieci ore del Genius di Grosse, una storia di fantasmi appena pubblicata, balzò dal letto svegliando i suoi compagni al grido «sto impazzendo!» e si abbandonò a farneticazioni. In tale sovreccitazione nacque l’orribile sentimento della completa estraneità del mondo intero, al quale egli più tardi, in particolare nelle poesie, diede una così meravigliosa espressione. Gradualmente si fece sentire sul giovane poeta tutta quella serie di impressioni letterarie, che aveva indirizzato anche la giovinezza dei due Schlegel. Anche Tieck studiò letteratura a Gottinga, si occupò di Shakespeare e dei suoi contemporanei, come era di moda allora grazie ai critici inglesi e fu condotto alla letteratura spagnola. A ciò si collegava un’ulteriore linea di lavoro, allora ancora sconosciuta agli Schlegel. Il suo amico di gioventù Wackenroeder era stato introdotto da Erduin Julius Koch ai dotti lavori sulla nostra antica letteratura tedesca; anche in questo caso uno studio fino a quel momento curato nel silenzio, nella precisione e nell’aridità tipiche dell’erudizione era stato innalzato, grazie alla ricettività poetica della giovane generazione, a libera ricomprensione (Wiederverständnis); nelle biblioteche di Gottinga, Kassel e Wolfenbüttel, davanti alle case di Albrecht Dürer e Hans Sachs, si sollevò di nuovo, davanti all’occhio spirituale del nobile Wacken25
Schiller, Der Geisterseher, 1788.
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I COMPAGNI POETI
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roeder e del suo amico, da lui gradualmente conquistato alla nuova epoca, il mondo tramontato di quei giorni, e la loro fantasia popolava naturalmente con i suoi fantasmi le strade di Norimberga, che richiamavano tempi antichi. A tutto questo si aggiunse l’impressione decisiva che il Wilhelm Meister esercitò sull’arte di Tieck: la meditazione serena e l’arte della rappresentazione in esso contenuta, a partire da allora, assoggettarono tutti i materiali e gli umori delle sue opere durature. Si formò così, mentre queste impressioni agivano sulla individualità poetica già consolidata di Tieck, la sua peculiare modalità drammatica e narrativa. Ciò che Tieck poteva accogliere in sé della forma drammatica di Shakespeare è mostrato dal saggio sulla Tempesta (1793). Egli vi sostiene che Shakespeare forse ha osservato nelle immagini oniriche il procedimento della fantasia: sottolinea, inoltre, il mescolarsi di riso e di pianto, l’inserimento di canzoni e musica nel corso dell’azione. Non a caso la forma del Locrin, che egli considerava come un genuino pezzo di Shakespeare, lo incantava più di ogni altra26. Così l’entusiasta shakespeariano poteva realizzare quella strana forma teatrale, nella quale sono scritte le favole drammatiche, come Genoveva e Ottaviano27, influenzate però anche da modelli spagnoli. Molto più intimamente si fondeva con questa individualità poetica la prosa goethiana. Una specie di lavoro letterario su commissione, ancora una volta, gli procurò il primo materiale per queste forme teatrali e narrative, e nulla illustra meglio il raro talento e il carattere indeterminato di Tieck. Aveva accettato per Nicolai la prosecuzione di una raccolta di racconti, che era stata iniziata da Musäus, l’autore delle Favole popolari28. L’editore aveva fatto recapitare nella sua abitazione interi cesti delle storie francesi come materiale per questo lavoro. Così erano nati i racconti psicologici sulla società, precursori delle successive novelle, e le favole; ma essi obbedivano, innanzitutto, al gusto comune e non meritano di essere rilette al giorno d’oggi. Non raramente si ha l’impressione di trovarsi tra le figure di Kotzebue; ma una cosa contraddistingue specificamente Tieck anche in questo caso: queste nature volubili non prendono le loro decisioni in modo indifferente, bensì soggiacciono a un 26 A una successiva esternazione sull’influsso di quest’opera teatrale su di lui, si aggiunge una testimonianza epistolare che consente di guardare nei suoi lavori shakespeariani di allora: Lettera di Tieck a Wilhelm Schlegel, non datata, 1797: «considera veri, Lei, i cosiddetti sette pezzi falsi di Shakespeare? Io ne sono ora veramente convinto. Probabilmente il Locrin di Shakespeare è stato il primo prodotto drammatico e già, in questo senso, infinitamente interessante». 27 [Ludwig Tieck, Leben und Tod der heiligen Genoveva, 1800; Kaiser Oktavianus, 18011802]. 28 [Johann Karl August Musäus, Volksmärchen der Deutschen, 1782-1786].
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
indicibile orrore per la propria interiore schiavitù. Il contributo significativo di Tieck iniziò solo quando egli riempì il materiale fiabesco con la sua vita umorale demonica, ed estese su questo mondo il tranquillo splendore della più bella prosa goethiana o ricoprì anch’essa con le fantastiche forme della sua commedia. L’intera generazione poetica di Tieck non ha prodotto niente di più perfetto dei racconti fiabeschi che nacquero così ed emersero a partire dal 1796, come Eckbert, gli Elfi, La montagna runica29. Ai più grandi progetti manca invece la perfezione interiore o esteriore. La poesia della natura, il più profondo carattere di quest’epoca, gli umori di un panteismo onirico trovano qui la forma più riuscita. Come l’immaginazione eccitata di un viandante solitario nel bosco di notte è occupata a formare immagini di fantasmi dalle ombre che cadono sul suo sentiero, così si innalzavano in queste fiabe, dal profondo della natura, le forme che, pur modificandosi sotto il nostro sguardo, ci fissano insistentemente con gli stessi occhi misteriosi, gli occhi di Pan, che porta in sé tutto il terrore e tutto il desiderio del mondo. La natura, come appare in Tieck, è una fantasia demonica. Sotto la sua stella sono nati gli uomini rappresentati da Tieck, la sua anima è un gioco di umori elementari. Preghiera e terrore, desiderio di girovagare e mancanza di patria, una malinconia senza limite e senza oggetto: queste oscure forze formano il suo nocciolo interiore. Lontano stanno le forze morali e storiche, volontà e intelletto universale. Questi uomini non sono mossi dalla volontà: è la natura che si agita in loro. Tieck era già al culmine della sua capacità artistica, senza che nessuno, al di fuori del pubblico abituale dei lettori e della stretta cerchia di amici, lo avesse notato. Sua sorella Sofia, Wackenroeder, Bernhardi formavano questa cerchia entusiasta, che gli faceva presentire la sua futura fama. A questo periodo risale un rilievo fatto da suo fratello, nel quale sono uniti molto elegantemente i profili dei due fratelli, Ludwig e Sofia; Ludwig guarda con viso aperto, con lineamenti delicati, con l’espressione di chi contempla il mondo in modo poeticamente libero e quasi infantile. Anche nel caso di Tieck si fa notare la casualità delle prime relazioni. Friedrich Schlegel, proprio quello della nuova cerchia che per tutta la vita nutrì una profonda antipatia contro Tieck, nell’interesse del giornale di Reichardt, il Lyceum, strinse la prima relazione con lui30. Si trattava del 29
[Si tratta di: Der blonde Eckberth, 1796; Die Elfen, 1811, Der Runenberg, 1804]. Briefe an Ludwig Tieck, III, p. 311, non datata. Prima delle Critiche di Wilhelm sussisteva questa relazione; di queste la prima è apparsa il 19 ottobre 1797. La risposta negativa di Friedrich a Reichardt però è datata 28 novembre 1797 (Walzel, p. 319). «Mio fratello», aggiunge, 30
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famoso saggio su Shakespeare, che è stato annunciato ogni anno per una nuova rivista e che non fu mai scritto. Friedrich notò subito che, all’epoca, Tieck era isolato. «Qui», diceva alla fine del 1797, «è tutto contro di lui e tutti sono unanimi nel trovare addirittura cattive le sue cose». Miseramente pagato dagli editori, fece allora l’errore di chiedere soldi anche a Friedrich, recandosi proprio «dall’uomo sbagliato»31. Fu di decisiva importanza per Tieck che Wilhelm Schlegel, il famoso critico, lo tirasse fuori dall’oscurità e, prima nella Jaener Literaturzeitung, poi nell’Athenaeum, salutasse felicemente in lui il vero poeta. «Venero l’arte», rispose, nel tono di un modesto principiante, alla lettera di Wilhelm, il 23 dicembre 1797, «e la adoro; è la divinità in cui credo e perciò desidero produrre finalmente qualcosa di veramente buono. Fino ad ora ho troppo disprezzato i miei lavori, o come li devo chiamare, e mi meraviglio e mi rallegro, nello stesso tempo, che Le siano piaciuti in tale misura. Il Barbablù lo ho scritto quasi in una sola sera, così il Gatto. Non ho trovato, fino ad ora, nessuno, escluso Suo fratello, che mi avrebbe potuto dire qualcosa e dal momento che ora mi è riuscito, credo che potrò migliorare»32. Se una voce altrettanto forte avesse sollevato il nobile e solitario Hölderlin! Il genio critico di Wilhelm riconosceva la forza di Tieck nella prosa e nelle canzoni; vi trovava un profondo e felice studio di Goethe, fondato su un’originaria affinità, una direzione poetica nella quale la fantasia dominava libera e senza riflessioni morali. Ma il suo occhio acuto per la forma poetica vi scorgeva, altrettanto bene, l’incapacità di raccogliersi ed esercitare un’efficacia decisiva. «[Tieck] non deve dimenticare che tutto l’effetto dell’arte è come un punto focale, al di qua e al di là del quale non si accende nulla, e deve curare il suo bel talento, per non produrre nulla di meno del meglio di cui è capace». Questa debolezza era purtroppo intrinsecamente legata al metodo poetico di Tieck; egli non portava mai sulla carta ciò che era maturo in lui, in modo costante e calmo, come un vero artista, bensì a intervalli e in modo tale che non poteva andare oltre a questo primo schizzo e non poteva rielaborarlo. Vent’anni dopo, Wilhelm doveva suggellare il suo definitivo giudizio su di «La saluta cordialmente, si rallegra per le Sue opere e per le notizie che io ho potuto dare di lei». Ci fu allora la recensione di Wilhelm al Barbablù e al Gatto con gli stivali, il 19 ottobre 1797, nella Jaener Literaturzeitung. A ciò seguirono l’invio delle Poesie popolari e una lettera di Tieck. «Carissimo amico, mi perdoni se la chiamo così, poiché ora non mi auguro nient’altro che fare la sua conoscenza ed entrare in amicizia con Lei» (Tieck a Wilhelm Schlegel, non datata). La lettera di Wilhelm Schlegel è da datare 11 dicembre 1797 e la risposta di Tieck è riportata di seguito nel testo. 31 Walzel, p. 311. 32 Walzel, pp. 311 ss.
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lui con lo stesso rimprovero iniziale: «l’artista molto dotato non si può mai decidere a dipingere diversamente che alla prima», così Tieck trascurava la forma drammatica e metrica, trascinando in lungo e in largo la pienezza e la leggerezza del primo schizzo33. Quanto questa mancanza di forma interiore fosse profondamente radicata nell’individualità di Tieck, Wilhlem non lo voleva vedere, ma gli altri due componenti di questa nuova cerchia se ne rendevano conto molto chiaramente. Proprio il confronto con Schleiermacher rendeva visibile a Friedrich Schlegel la assoluta debolezza della formazione morale di Tieck34. Friedrich non trovava un granello di carattere in lui. Alludendo al fatto che il vecchio Nicolai aveva indicato Wilhelm come «un giovane pieno di speranze», era solito chiamare Tieck «il giovane senza speranze della letteratura tedesca», ed era incontenibile nell’irriderlo. D’accordo con Friedrich, Schleiermacher scriveva a Wilhelm: «Suo fratello ritiene di aver già pienamente trovato la Sua forma per Tieck come Lei la forma di Tieck. Lei infatti ha sempre scritto, riguardo Tieck, di cose eccellenti e di due Luigi d’oro: per quanto riguarda l’eccellenza, bisognerebbe sempre aspettare un po’ [prima di definire qualcosa eccellente]; per quanto riguarda i due Luigi d’oro, credo che questa strada passi sempre per un ininterrotto appoggio»35. In così aspri giudizi sulla persona di Tieck è contenuta una non piccola parte di verità. Il suo più intimo amico in questo periodo era Bernhardi; la maligna descrizione che questi ha schizzato in Sei ore della vita di Fink36, che siamo ben lontani da ritenere veritiera, illustra certo, come in uno specchio deformante, ciò che anche Friedrich osservava. «Lasciatemi», diceva H., «voi mi rovinate ogni piacere con questa dannata trascuratezza». «Non rovino nulla», diceva freddo Fink, «chiedo solo ciò che do, tolleranza»37. «È un costante errore, in Voi, guardare ogni cosa da un solo lato»38. «Tutta la nostra vita è così insulsa, così prosaica, che non potremmo vivere senza finzione poetica»39. Questo era Tieck: così si era dipinto nella figura di Ludwig Wandel e molto di sé aveva posto nel Lovell. D’altra parte, Schleiermacher amava «l’incredibile talento» di Tieck. Nutriva una certa simpatia per le creazioni di questa immaginazione senza 33
Wilhelm Schlegel, Kritische Schriften, I-II, Reimer, Berlino 1828, qui I, pp. 318 ss.; cfr. Rudolf Köpke, Nachgelassene Schriften Tiecks, 1, Brockhaus, Lipsia, p. 8. 34 Walzel, p. 322. 35 KGA V, 2, Lettera ad August Wilhelm Schlegel, 15 gennaio 1798, n. 437, p. 253. 36 [Sechs Stunden aus Finks Leben, 1796]. 37 In Bernhardi, Bambocciaden, I-III, Berlino 1797-1800, I, p. 147. 38 Ivi, p. 156. 39 Ivi, p. 198.
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limiti, che noi oggi difficilmente condividiamo. Così trovava molto spiritoso il Mondo a rovescio40: «ho dovuto ridere terribilmente; Tieck è certo unico nella sua arte». Difendeva l’originalità di questa commedia contro Henriette Herz: «che nel Mondo a rovescio Le sia spesso venuto in mente il Gatto, è dovuto certo solo alla novità e all’identità della forma: ma la riflessione delle persone sulla confusione del pezzo, e simili cose, appartengono essenzialmente alla forma, mentre nel materiale Lei non avrà trovato alcuna ripetizione»41. Diede infine il giudizio generale a cui si è poi sempre attenuto: «sono convito che Tieck sia importantissimo per la letteratura tedesca, cosa che né Goethe né Schiller né Richter potranno essere e che forse, al di fuori di lui, nessuno può essere»42. Deplorava soltanto che Tieck, come Friedrich, dovesse affrettarsi nel lavoro e prevedeva chiaramente che, nella superiore critica poetica, creata dai due Schlegel, Tieck sarebbe stato difficilmente in grado di fare qualcosa di uguale, nonostante tutte le promesse sulla nuova comprensione di Shakespeare43. Tieck, da parte sua, ricevette da quello Schleiermacher per lo più taciturno in società, grazie ai Discorsi sulla religione, un impulso che fu allora tanto più forte. Quanto fu riconoscente a Schleiermacher per la sua partecipazione entusiastica alle poesie di questi anni lo esprime la dedica di alcune delle sue più belle fiabe nel Phantasus, che è scritto a ricordo di quell’epoca44. A questi compagni si aggiunse il cognato di Tieck, Bernhardi. Egli era più vecchio degli altri amici, di carnagione scura e di tratti meridionali, dai quali parlavano intelligenza, spirito e ruvidezza. La sua natura era analitica, predominavano in lui acume, osservazione e spirito (Witz). I suoi lavori sulla linguistica, che sono stati riconosciuti più tardi da Humboldt con tutti gli onori, erano allora appena agli albori; al contrario egli gettava ovunque le sue osservazioni critiche sul teatro, di cui beffeggiava l’organizzazione, nel mondo erudito, molto volentieri anche tra i suoi amici. Si percepiva in Bernhardi il nuovo spirito berlinese anche nei suoi lati più preoccupanti. Non conosco 40
[Die verkehrte Welt, 1798]. KGA V, 3, Lettera a Henriette Herz, 20 aprile 1799, n. 636, p. 98. 42 Ivi, Lettera a Henriette Herz, 1 luglio 1799, n. 668, p. 136. 43 Per i giudizi di Schleiermacher su Tieck: cfr. seguenti lettere a Henriette Herz: KGA V, 3, 16 aprile 1799, n. 633, p. 94; ivi, 20 aprile 1799, n. 636, p. 98; ivi, 1 luglio 1799, n. 668, p. 136; KGA V, 4, 6 luglio 1799, n. 906, p. 130; KGA V, 7, 17 dicembre 1803, n. 1618, p. 165. Cfr. inoltre, KGA V, 4, Lettera di August Wilhelm Schlegel, 16 giugno 1800, n. 890, pp. 97 ss.; ivi, Lettera a Friedrich Schlegel, 10 luglio-11 luglio 1800, n. 910, p. 148. Sul futuro di Tieck nella critica poetica cfr. Walzel, p. 303: «Per quanto riguarda Tieck, mi riservo di considerare come si mostra in campo critico. Mi attendo da lui alcune cose buone sulla caratterizzazione del tono individuale di alcuni pezzi di Shakespeare, ma non molto altro». 44 Tieck, Gesammelte Schriften, I-XXVIII, Reimer, Berlino 1828-1854 (qui IV). 41
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nessuna parola più adatta a indicare il suo atteggiamento scettico nei confronti del mondo morale che l’annotazione nel racconto dell’uomo che aveva le idee chiare: «In breve, l’intera città non conosceva nulla di male di lui, l’intera città lo stimava e si serviva del suo consiglio e del suo aiuto, e l’intera città non poteva soffrirlo. Si vede che era un uomo di principi». Questa è l’idea delle Bambocciate, che schizzavano descrizioni della società a partire da una scaltra osservazione dell’uomo, non limitata dal senso della verità o da altri principi morali. Schleiermacher trattava Bernhardi con non dissimulata antipatia; «Dio volesse che Tieck», scrive, «non si fosse legato a Bernhardi»45. Wilhelm, al contrario, era in stretta relazione con lui attraverso la sua profonda amicizia con la sorella di Tieck, che era sposata con Bernhardi. Nessuno, in tutta questa cerchia, sarebbe stato affine a Schleiermacher quanto Wackenroeder, che morì allora, nella primavera del 1798, a 25 anni. La sua anima semplice, seria, profonda respirava in un entusiasmo religioso che era il tono fondamentale del suo creare e del suo comprendere artistico. Egli presagiva così le verità che Schleiermacher doveva scoprire e, attraverso di lui, l’atmosfera poetica della giovane generazione si avvicinava alle idee del ricercatore religioso. «I saggi, spinti da un amore per la verità in sé degno di lode, si sono sbagliati; hanno voluto rivelare i segreti del cielo e porli tra le cose terrestri, alla luce terrestre e cacciare via dal loro cuore gli oscuri sentimenti provenienti da quelli, difendendo audacemente i loro diritti. Può il debole uomo chiarire i segreti del cielo? Crede di poter sfacciatamente portare alla luce ciò che Dio tiene coperto con le sue mani? Può respingere da sé in modo arrogante gli oscuri sentimenti che, come angeli velati, scendono verso di noi?»46. Invaso da questi sentimenti, Wackenroeder si trovava più a casa propria nei tempi della fede religiosa, in particolare nell’epoca della Riforma, nella quale la religione circondava e consacrava l’intera vita, che nel presente. «Nei tempi passati c’era, infatti, il costume di considerare la vita come un bel mestiere o un’attività, alla quale tutti gli uomini si dedicano. Dio era visto come capomastro, il battesimo come il certificato di apprendistato, il nostro peregrinare sulla terra come un viaggio. La religione era per gli uomini il bel libro, attraverso il quale soltanto essi potevano imparare a comprendere e a guardare veramente la vita, per capire a cosa essa fosse volta e secondo quali leggi e regole essi potevano realizzare, nel modo più sicuro e giusto, il loro compito. Senza religione la vita sembrava loro solo un confuso gioco selvaggio»47. Anche l’arte, che 45
KGA V, 3, Lettera a Henriette Herz, 16 aprile 1799, n. 633, p. 94. Herzenergiessungen, cit., p. 179. 47 Phantasien über die Kunst, für Freunde der Kunst, 1799.
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riempiva la sua anima e quella dei suoi contemporanei, era stata un tempo sorretta e consacrata dalla fede religiosa; essa era, a quell’epoca, una lingua divina, non un gioco della sensibilità (Sinnlichkeit). Imminente gli appariva il tempo in cui, di nuovo, l’arte avrebbe espresso, attraverso le proprie immagini, la cosa più alta, grazie alla forza divina che essa esercita sull’animo umano. Erano poche, semplici ma profonde intuizioni a formare l’orizzonte di Wackenroeder. Questa uniformità domina anche la sua capacità inventiva, ma, entro questi limiti, egli era il più originale tra tutti i suoi contemporanei. «Wackenroeder è il mio preferito in tutta questa scuola poetica», giudicava Friedrich. «Ha più genio di Tieck, ma questi possiede più intelletto»48. Da parte di Schleiermacher non trovo né un giudizio né un accenno che faccia pensare che egli abbia incontrato personalmente Wackenroeder o che si sia occupato delle sue opere. La poesia della giovane generazione sviluppava qui un nuovo ramo, che doveva diventare forse più ricco di fiori di qualsiasi altro. La sua relazione con la rinnovata comprensione (Wiederverständnis), che avvenne allora, di epoche e individualità poetiche e la sua preferenza per i caratteri dominati dalla fantasia fecero sì che essa scegliesse di preferenza, come suoi eroi, nature artistiche. Quando Wackenroeder, con il suo amico, visitò a Norimberga la tomba di Dürer, quando fu circondato, in tutte le strade e presso i monumenti della meravigliosa città, dal senso di questi grandi tempi della storia tedesca e dei suoi artisti, prese forma nella sua anima la storia di un pittore di Norimberga, un allievo di Dürer, che, per l’angustia della vita artistica tedesca, si sentì spinto ad andare in Italia. Nessun altro progetto avrebbe potuto mettere meglio in luce la contrapposizione tra lo spirito della vita borghese tedesca, dalla quale nasceva la nostra arte, e la società italiana e il suo sviluppo artistico. Questo soggetto fu poi alla base dello Sternbald di Tieck, fatto che mi sembra emergere dalla considerazione di tutte le esternazioni di Tieck e dei suoi amici. Come le lettere di Wackenroeder a Tieck dimostrano che quest’ultimo, solo lentamente, fu coinvolto nell’entusiasmo per il carattere e l’arte dell’antica Germania, così, anche in seguito, il suo significativo influsso in questa direzione rimase, per profondità ed erudizione, dietro a quello dell’amico. Dal nobile animo di Wackenroeder provenne il tono semplice e intimo delle Fantasie, che risuona nello Sternbald; e così l’invenzione che collega queste visioni storiche e questi toni sentimentali sembra sua proprietà49. 48
Walzel p. 307. Walzel, p. 385: «Tieck può ben aver avuto parte al Klosterbruder, ma non nella misura in cui afferma. Credo che faresti meglio a non tenerne conto, perché certo il cuore nel 49
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L’influsso di Wackenroeder confluì nello Sternbald con quello, molto più forte, del Wilhelm Meister. Prese qui origine un’importante corrente della nostra nuova letteratura. Florentin, l’Ofterdingen, buona parte della Lucinda, un profluvio di romanzi dell’artista (Künstlerromane) appartiene ad essa; perfino nelle novelle poetiche di Tieck, nel Pittore Nolten di Mörike50 dominano le stesse forme e gli stessi destini, le stesse maniere di trattazione e un analogo stile espositivo. La fantasia di alcune epoche è completamente dominata da immagini già formate poeticamente, da precise concezioni artistiche della natura, della vita e dell’uomo, che si riproducono. Solo il Wilhelm Meister, di tutte le creazioni di Lessing, Goethe, Schiller, ottenne tale influsso sulla giovane generazione di poeti di allora, e addirittura fino a oggi nessun’altra creazione, risalente a questa nostra grande epoca, ha agito sulla fantasia poetica della nostra nazione così profondamente come questo romanzo. Vorrei chiamare i romanzi che costituiscono la scuola di Wilhelm Meister (poiché l’affine forma artistica di Rousseau non la ha influenzata), romanzi di formazione (Bildungsromane). L’opera di Goethe mostra la formazione umana in differenti gradi, figure, epoche della vita. Essa riempie di piacere, perché non descrive il mondo con le sue mostruosità e con la lotta per l’esistenza di passioni negative: il ruvido materiale della vita ne è escluso. Al di là delle figure rappresentate l’occhio si innalza a chi rappresenta, poiché ancor più intensamente di qualsiasi oggetto, agisce questa forma artistica della vita e del mondo. Ma non solo il procedimento della fantasia ebbe l’effetto di poetizzare il mondo reale: questo romanzo determinò anche, fino nelle singole figure e nello schema generale, le opere successive. Già ciò che nello Sternbald si ricollega all’invenzione di Wackenroeder appare solo come rifacimento delle figure goethiane. Anche qui il filo è la storia della formazione (Bildungsgeschichte) del figlio di un commerciante, che si Klosterbruder è di Wackenroeder». Ci si chiede allora come giudicare l’espressione di Tieck sull’autore di quella lettera di un pittore tedesco a Roma, che contiene il piano dello Sternbald. Nell’edizione speciale delle parti delle Herzensgießungen e delle Phantasien di mano di Wackenroeder, Tieck nota espressamente: in questa versione egli avrebbe «solo rielaborato e trascritto alcune cose». Dunque questa lettera è essenzialmente di Wackenroeder. La dichiarazione di Tieck, nella Postfazione dello Sternbald (1798, p. 374), che quella lettera è di sua mano può riferirsi dunque solo alla sua rielaborazione scritta. Questo è confermato dall’affermazione di Tieck nella stessa Postfazione: «Dopo quel libro ci eravamo proposti di scrivere la storia di un artista, e nacque così il progetto del presente romanzo. In un certo senso appartiene al mio amico una parte dell’opera, sebbene la malattia gli impedì di portare a termine i passi che si era assunto». Oltre a questa lettera è importante, per la nascita dello Sternbald nelle Herzensgießungen, il ricordo di Albrecht Dürer, pp. 109 ss. 50 [Eduard Mörike, Maler Nolten. Novelle in zwei Teilen, 1832].
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fa strada in virtù dell’arte e, dopo diverse avventure, arriva nella società esclusiva. Questo schema ottiene anche qui la sua unità attraverso la bella invenzione goethiana: all’inizio l’immagine sfuggente di una ragazza si intesse nei sogni giovanili del protagonista e, dopo i più vari accadimenti, siamo condotti al ritrovamento e alla riconciliazione; per perfezionare la somiglianza con Goethe, anche qui il legame viene mediato da una sorella dell’amata, una principessa, nella cui bellezza viene già ammirata, come in un presagio, l’amata stessa. Questo fortunato motivo, tema classico della storia di formazione (Bildungsgeschichte), ottiene, attraverso l’apparire anticipato dell’amata all’inizio della narrazione, unità; attraverso la sua sparizione, concede libertà per le più disparate relazioni, creando attesa; infine, nel ritrovamento, offre, per così dire, una conclusione provvidenziale. Per quanto poco inedito fosse questo motivo, a partire dal Wilhelm Meister esso si è profondamente impresso nella fantasia dei poeti romantici, come se conducesse a esso la natura stessa. Anche l’invenzione del Titano, l’unico romanzo lavorato con intento artistico da Jean Paul, si riallaccia a questo motivo. Così iniziò a dispiegarsi il romanzo dell’artista (Künstlerroman) nei giovani poeti, che si erano trovati insieme. Lo stesso sentiero lo avrebbe senza dubbio intrapreso Wilhelm Schlegel, se avesse portato a compimento il romanzo che progettava. Nell’estate del 1798 si aggiungeva alla cerchia un giovane poeta, che era legato da amicizia giovanile a Friedrich ma che, per il tratto più interiore della sua natura, era affine a Schleiermacher come nessun altro dei contemporanei; egli raggiunse la perfezione nel genere del romanzo dell’artista. Friedrich von Hardenberg era nato nello stesso anno di Friedrich Schlegel, ma in condizioni del tutto diverse. Queste, come la sua poesia, sono un’eco, in una sfera più semplice e più silenziosa, di quelle di Goethe. Era cresciuto a Weissenfels, dove suo padre sedeva nel collegio superiore delle miniere, e nei possedimenti dei genitori e dello zio. Immagini di una salda, felice, significativa esistenza lo circondavano ovunque, e il corso della sua vita ne era presegnato. Sembrava ovvio, secondo le abitudini patriarcali di questa aristocrazia di funzionari della Turingia, che si dedicasse a un qualche ramo dell’amministrazione, con tutto l’agio per la propria formazione personale, con la tranquilla aspettativa di una posizione degna delle sue capacità e dei suoi legami familiari. La sua vita interiore appariva determinata dalla semplice religiosità herrnhutiana della famiglia. Così egli arrivò, diciottenne, nel pieno del fermento filosofico-poetico di Jena. Solo per poco tempo lo prese il vortice che, lì a Jena, trascinava molti giovani a dedicarsi alla letteratura: subito tornò a prepararsi, attraverso studi di giurisprudenza,
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di matematica, di chimica, per un futuro posto nell’amministrazione, senza con questo rinunciare a dedicarsi alla filosofia e alla poesia. Nel 1792 si incontrò a Lipsia con Friedrich Schlegel, che aveva letto in precedenza alcune sue cose già in stampa, mentre altre gli furono comunicate di persona in quell’occasione. Già allora Schlegel gli predisse un importante, forse grande, futuro poetico. «Irruento fino ad essere selvaggio, sempre pieno di gioia attiva e inquieta», «lunatico, impetuoso, fedele» definiva il nuovo compagno, che era per lui, in effetti, consigliere fidato per i suoi errori51. Dalla loro vita insieme crebbe, pur tra qualche screzio, un’intima amicizia giovanile. Nello stesso anno ci fu un fugace incontro con Schelling a Lipsia, presagio dei tempi futuri. Hardenberg non era entrato da molto tempo nell’amministrazione dell’elettorato di Sassonia a Tennstadt, quando, nel 1795, vide, nel podere confinante, a Grüningen, Sophie di Kühn. Sophie aveva solo tredici anni, ma l’impressione suscitata dalla sua figura rapiva tutti quelli che la vedevano. Sophie acconsentì ad appartenergli: una serena felicità sembrava dischiudersi a Hardenberg. Nell’estate del 1796, però, la colpì un terribile male e quando, nel marzo del 1797, Sophie morì, il destino di Hardenberg fu segnato. «Se ho vissuto fino ad ora nel presente e nella speranza di una felicità terrena, devo ora vivere nel vero futuro e nella fede in Dio e nell’immortalità»52. Quando si mostrarono le prime tracce del male di Sophie, alla fine del luglio del 1796, Friedrich Schlegel fece visita all’amico dalla vicina dimora estiva di Reichardt a Giebichenstein. Già allora lo trovò completamente trasformato, completamente sprofondato «in un’atmosfera herrnhutiana», «in un assoluto entusiasmo (Schwärmerei)». «Subito dopo il primo giorno Hardenberg con il suo herrnutianesimo mi ha condotto al punto che avrei voluto proseguire subito il viaggio»; ma Schlegel dovette poi averlo nuovamente a cuore, nonostante l’insensatezza nella quale era sprofondato senza rimedio53. Le convinzioni religiose della sua famiglia avevano ottenuto di nuovo il predominio su Hardenberg, prima ancora che lo travolgesse la tragedia che segnò la sua vita. La fede religiosa lo aveva spinto a volgere lo sguardo all’eternità, prima che la morte dell’amata lo straniasse dalla terra. Una decisione straordinaria, simile a quella di Ottilia nelle Affinità elettive, si fece strada nella sua anima: voleva morire, ma per mano di nessun’altra forza che non fosse quella del suo desiderio, in virtù della potenza della propria volontà che desiderava la morte. Il fascino idillico del mondo in cui viveva 51
Walzel, p. 43. Novalis Schriften, cit., III, p. 19. 53 Waitz, I, p. 393. 52
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sviò mille volte questa volontà che dominava nella sua anima sconvolta: dall’atmosfera che stava al fondo di essa, però, si sviluppò una vita fantastica che si muoveva nel mondo dell’aldilà. Volontariamente, con sforzo che si ripeteva ogni giorno, egli nutriva in sé, come una volta facevano i santi, queste immagini. Il legame di tutti i suoi sentimenti con il mondo dell’aldilà, con l’amata defunta, consumò la sua vita. Credo che dallo sprofondare nel dolore di questo primo periodo nacque il progetto degli Inni alla notte. In ogni caso essi sono il frutto e la genuina immagine di questo dolore54. Hanno qualcosa che potrebbe suscitare un terrore superiore a quello della storia più orrenda. Come un lamento misterioso, trascinato a lungo, che viene sentito nel mezzo della notte, questa espressione della ricerca della morte sembra prorompere dal cuore oppresso di colui che è rimasto solo. Gli Inni introducono un nuovo elemento nella poesia della giovane generazione. Della nullità e del dolore dell’esistenza parlano gli scritti di tutte le epoche. I dolori che pesano su ogni essere vivente imprimono al volto del mondo un carattere che ce lo rende del tutto misterioso. Perciò la fantasia umana è instancabile nel progettare una forma futura differente per la nostra esistenza. L’eternità, nella quale guardano gli Inni, è una creazione di quel fervore panteistico verso la natura, nel quale si mescolano meravigliosamente desiderio della morte e pensiero cristiano della riunificazione. Dall’altra parte della terra, dove la luce dimora in eterna inquietudine, si dilata senza tempo e senza spazio il regno di quella notte, le cui ombre crepuscolari si estendono in tenebra e sonno sugli uomini. La sua onda cristallina sgorga nelle profondità dell’agire umano, impercettibile al senso comune. Chi si è abbeverato alla sua fonte è eternamente proprietà della notte; vi sarà per lui l’oblio di tutti i dolori, unione con i cari, inesprimibile entusiasmo. Al poeta giunse un giorno dall’azzurra lontananza, dalle altezze della sua antica felicità, nel tempo del suo indicibile dolore, il sonno leggero del cielo, l’entusiasmo della notte; stava sul tumulo dell’amata, il tumulo era una nube di polvere e attraverso la nube egli vedeva i suoi lineamenti trasfigurati. «Nei suoi occhi riposava l’eternità; presi le sue mani». 54
Tieck (Prefazione a Novalis Schriften, p. 18) fa risalire gli Inni, sebbene con le espressioni oscillanti, che così volentieri utilizza, all’autunno dell’anno in cui morì Sophie, il 1797. Just, che cerca di essere più preciso, li fa risalire all’anno successivo. Se mi affido al mio senso per lo stile di Novalis, ritengo che questa volta Tieck abbia ragione per ciò che riguarda il primo progetto degli Inni: molti segni interni all’opera rendono verosimile che il progetto non possa risalire all’epoca indicata da Just. Al contrario, mi sembra di sentire nello stile un rifacimento in tono schleiermacheriano, e l’ultima poesia appare come un’aggiunta estranea risalente all’epoca dei Canti spirituali.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
Molti influssi salutari lo legarono di nuovo, con più stretti lacci, alla vita. Nell’estate del 1797 Friedrich Schlegel si trovava presso suo fratello a Jena ed ebbe così luogo qui, sembra subito prima della partenza di Friedrich, il primo incontro tra Wilhelm Schlegel e Hardenberg. Questi si trovava bene nella casa di Wilhelm Schlegel; «la cosa a me più gradita», scrive Friedrich all’inizio di agosto, «in tutte le vostre lettere, è che voi abbiate avuto così a cuore Hardenberg. Forse vi spedisco, con la prossima lettera, la sua su di voi»55. Entusiasmarono straordinariamente Hardenberg gli importanti lavori sul galvanismo di Ritter, di cui venne a conoscenza allora a Jena. E quando, verso la fine dell’anno, andò a Friburgo a proseguire la sua formazione sotto la guida di Werner, iniziò per lui, grazie agli studi di mineralogia e geologia e alle speculazioni di filosofia della natura che si collegavano ad essi, una vita completamente nuova. Così nacque il progetto dei Discepoli di Sais. Qui Hardenberg toccò un tono nuovo, che dovette poi risuonare spesso nella poesia della giovane generazione. Egli intraprese ad esprimere poeticamente le idee della sua epoca sulla totalità della natura. In questo tentativo si incontrò con Schelling. Che entrambi rinunciassero a questa impresa era dovuto all’impossibilità per la poesia di risolvere tale compito. Il frammento di Hardenberg, oggi disponibile, permette di scoprirne il pensiero fondamentale56: esso consiste in una arguta ricapitolazione della concezione della natura di Fichte, al quale Hardenberg collegò il proprio pensiero, dopo che lo ebbe sentito a Jena. Come nell’Ofterdingen, anche qui l’idea centrale è rappresentata in una fiaba inserita nel racconto. Non si può leggere niente di più grazioso della fiaba di Fiorellin di Rosa e Giacinto, di come si amarono senza saperlo, di come violette e fragole e i piccoli animali del giardino vedevano la loro gioia e ne spettegolavano. Lo stravagante Giacinto, però, si abbandonò a cose strane: quando un giorno, da terre straniere, giunse un uomo, che divise la sua lunga barba bianca e prese a raccontare fino a notte fonda, tutta la pace passò. Giacinto si mise in cammino per contemplare, nel tempio di Iside, il volto della natura stessa. Vi giunse dopo un lungo peregrinare; stava di fronte alla vergine celeste; alzò il velo e Fiorellin di Rosa cadde nelle sue braccia. Nella delicatissima fiaba è espresso, in forma lievemente parodistica, il contenuto della poesia. Il suo sfondo è il tempio di Sais con l’immagine velata, i suoi eroi sono i discepoli della scuola del tempio. Nel professore è celebrato Werner, la sua forza intuitiva, l’acutezza e l’esercizio dei suoi sensi, la chiarezza del suo empirismo, il suo ricco 55
Walzel, p. 295. Il progetto presente nel Nachlass (Novalis Werke, III, p. 125) non dà a tale riguardo alcun chiarimento. 56
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spirito classificatorio. Tra i discepoli si innalzava la lotta tra le concezioni della natura. Che cosa è la natura? Si incrociano molteplici risposte: una straordinaria disposizione d’animo che si svela solo al poeta, una totalità che procede contro l’ordine, una terribile forza divoratrice, quasi una belva orribile, una ragione che sboccia. In mezzo ai contendenti sta raccolto in se stesso l’eroe del romanzo, il discepolo che è deciso a svelare il grande prodigio dopo la morte del maestro. Si tratta dello stesso Novalis. «A me non è mai accaduto come al maestro. Tutto mi conduce di nuovo in me stesso. Mi rallegrano gli originali gruppi di figure nelle sale, ma per me è come se fossero solo immagini, custodie, decorazioni, raccolte intorno a una divina immagine miracolosa, che è sempre nei miei pensieri. Non le cerco, ma in loro cerco spesso. È come se dovessero mostrarmi la via dove sta, immersa in un sonno profondo, la vergine che il mio spirito cerca». «E se nessun mortale, secondo quell’iscrizione posta lì, solleva il velo, dobbiamo cercare di diventare immortali; chi non vuole sollevarlo non è un genuino discepolo di Sais»57. Questa è la soluzione. Al discepolo di Fichte l’Io appare come natura svelata, l’Io nel suo carattere immortale, cioè come volontà razionale. Un distico di Hardenberg dice chiaramente: «Uno vi riuscì: egli sollevò il velo della dea di Sais. Ma cosa vide dunque? Egli vide, meraviglia delle meraviglie, se stesso!»58. Tra una tale natura e Schleiermacher doveva realizzarsi una profonda comprensione, un’influenza reciproca maggiore che tra lui e Wilhelm Schlegel o Tieck. Ciò che i Discorsi sulla religione esprimevano, e le conseguenze che Friedrich Schlegel trasse da quelli, si sono profondamente impressi nell’Enrico di Ofterdingen, il prodotto migliore della poesia di questa giovane generazione: questo romanzo, i Canti spirituali, tutta la personalità di Hardenberg retroagirono poi fortemente su Schleiermacher. Ma non possiamo anticipare il racconto. Abbiamo visto la ricchezza dell’individualità e della forma poetica, che circondava Schleiermacher nella cerchia dei suoi compagni. La figura, nella quale la poesia si avvicinò a lui, determinò quella concezione fondamentale alla luce della quale ha inquadrato l’arte nella connessione della sua visione del mondo. L’arte nasce da un impulso formativo (Bildungstrieb) eternamente vivo in noi. Già dove il nostro occhio distingue le forme più semplici l’una dall’altra, è attivo tale impulso creativo; ma la realtà che ci circonda costantemente, la cui comprensione ci occupa senza sosta, lo tiene incatenato. Quando il 57 58
Die Lehrlinge zu Sais. Novalis Schriften, I, Stoccarda 1960. Paralipomeni zu Die Lehrlinge zu Sais, ivi, p. 110.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
mondo esterno (qui si noti l’affinità con la teoria di Tieck), davanti a noi, si inabissa nel sonno, allora questa facoltà formativa, come sogno, secondo la propria legge, dà forma a figure variopinte e avvenimenti vari. La poesia sembra affine al sogno, poiché in entrambi è attiva la forza produttiva (bildende Kraft) della nostra anima, libera dalla necessità di comprendere il reale. Qui però termina quest’affinità interiore. Gli antichi dicevano che nel sogno ciascuno ha il proprio mondo, la condizione di veglia si differenzia per il fatto che tutti vivono in un mondo comune. Ma proprio gli elementi che formano il concetto di mondo, cioè connessione, ordine e massa, vengono meno nel sogno; poiché in esso non possiamo né fissare né ordinare le immagini che si librano passeggere. La forza produttiva (bildende Kraft) del sogno è dunque comparabile solo a quel costante formare interiore che non abbandona mai il genio artistico, dal quale però solo un più grande dispendio di forze consente di formare opere durature. In questo senso Schleiermacher definisce bene tale produrre interiore (inneres Bilden) come «il sognare dell’artista nella veglia»59. Noi tutti siamo artisti, poiché il medesimo impulso produttivo è vivo in ciascuno di noi; esso appare tanto nell’ordine dei nostri pensieri quanto nell’ordine della nostra vita. L’arte crea in tutti; la scienza e la vita devono esserne compenetrate. Essa raggiunge il sommo sviluppo nell’opera artistica formata liberamente60. L’opera d’arte è la rappresentazione del mondo attraverso un mezzo particolare. «La tendenza propria dell’arte non è mai la pura oggettività, bensì la singolare combinazione della fantasia». L’oggetto dell’arte non è la pura oggettività, bensì «il riflettersi dell’individualità nell’elemento oggettivo». Questa individualità ha la sua esistenza in un fluttuante mondo di sentimenti, e il nesso delle intuizioni, derivate da questo fondamento, che non si rivolge alla riproduzione del mondo reale come tale, è la fantasia artistica. Non è questa la teoria dell’arte poetica di un Novalis e di un Tieck? E vi si trova anche quanto segue: il contenuto dell’arte, questo mondo infinito che sorge nel profondo dell’individuo, è religione in senso lato. «L’arte si collega alla religione come la lingua al sapere»61. Questo è il confronto con Wackenroeder e Novalis. L’opera d’arte, che emerge dalla profondità del microcosmo, esprime il macrocosmo, in virtù della connessione metafisica della natura. In tale microcosmo culmina la serie crescente delle creature della terra; nella coscienza, che le concepisce tutte, si realizza la vita della natura: la forma del 59
SW III, 7, pp. 81, 99, 100 ss. SW III, 5, p. 249. 61 Ivi, p. 247. 60
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I COMPAGNI POETI
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mondo inabita già lo spirito, in un modo che non può essere ulteriormente espresso e che egli appare accogliere solo dall’esterno come un elemento a lui del tutto estraneo. Rifacendosi alla visione di Platone si può dire: le immagini originarie delle cose, che rimangono oscure dove dominano i sensi, vengono fuori poi quando l’anima forma a partire da se stessa. Così nascono gli ideali che l’arte poi rappresenta62. In quest’ultimo argomento della teoria schleiermacheriana si scorge la visione poetica dalla quale è nato l’Enrico di Ofterdingen, poiché anche qui l’intero contenuto del mondo appare già presente nell’animo di colui che vi ha appena fatto ingresso. Ritroviamo il modo goethiano di concepire, in connessione a Kant, l’essenza dell’arte. Anche nell’estetica l’elaborazione di questa intuizione fondamentale lavora, in gran parte, con materiale attinto dagli studi che Schleiermacher conduceva in relazione alle poesie e alle ricerche degli amici, e con le idee che vennero concepite allora. Il significato di questo ramo del sistema di Schleiermacher sta perciò nei punti, intorno ai quali si raccoglievano le ricerche sue e quelle dei suoi amici: cioè nella teoria generale della fantasia artistica, per la quale era fruttuosa anche la teoria fichtiana dell’immaginazione produttiva, e nei ragionamenti sulla poesia. Schleiermacher non possedeva nessuna particolare dote fisica. La sua vista, debole di natura (era estremamente miope e soffriva molto per la debolezza dei suoi occhi), era inoltre completamente mancante di formazione artistica. Al suo orecchio, che era assai sensibile alla magia del discorso, del ritmo e della musica, mancavano esercizio e metodo, che soltanto sono in grado di produrre quella chiara limpidezza del suono, sulla quale si basa il piacere per le sue forme. Al contrario, egli possedeva una così profonda, accorta, ampia visione dell’uomo e del suo destino all’interno della società progredita che in questo aspetto dell’inclinazione poetica nessuno lo ha superato. Questi fattori condizionavano la sua relazione all’arte. La particolare capacità creativa nella poesia è legata ad un’organizzazione sensoriale63, che produce immagini del mondo esterno forti, chiare, indelebili, occupa l’anima continuamente con questo mondo di immagini intuitive e dà concretezza alle immagini di forme ed eventi, che così nascono, come se esse si muovessero davanti agli occhi del poeta, come se egli vivesse con loro. Era 62
SW III, 7, pp. 101-108 (si noti qui anche la esplicita contrapposizione alla teoria di Schiller). Cfr. Gedanken III, KGA I, 2, n. 46, p. 129: «l’arte è la rappresentazione di un ideale» e SW III, 4,2, pp. 104 ss. 63 [Organisation, tradotto con “organizzazione” o “costituzione”, indica la struttura psicofisica che presiede e condiziona una determinata inclinazione spirituale: Dilthey sviluppa questo concetto soprattutto nei già citati scritti di poetica. Cfr. GS VI, XXV, XXVI]
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
dunque impossibile per Schleiermacher produrre genuine opere poetiche, e al contempo venivano posti precisi limiti anche alla sua comprensione scientifica delle opere d’arte. Egli non possedeva nessuna originale capacità di comprensione per l’arte figurativa. Come tutti gli uomini dal sentimento molto eccitabile, amava la musica, addirittura ne aveva bisogno; ma anche la parte dell’estetica dedicata alla musica non possiede valore autonomo, per la mancanza di appropriato esercizio artistico, di conoscenza tecnica, di studi fisiologici. Nell’ambito della poesia, al contrario, egli mostra una comprensione, certo limitata, ma molto particolare. La più accurata concezione della composizione, della tecnica, del sentimento, del contenuto psichico si incontravano qui con un’innata mancanza di sensibilità per la vita materiale. In Schleiermacher erano riuniti, in modo bizzarro, una comprensione eccellente e un giudizio molto insicuro o unilaterale. Un uomo siffatto era predisposto (o si deve dire condannato?) dalla natura stessa alla simpatia, all’accurata interpretazione, alla difesa, talvolta brillante, talaltra ridicola, delle creazioni “nebulose” dei suoi amici. Ci apparirà d’ora in poi un audace sostenitore della nuova scuola, il più onesto di tutti gli ammiratori di Schlegel e di tutti gli oppositori di Schiller e Jean Paul, e, dal momento che gli mancava sicuramente, più d’ogni altra cosa, l’istinto per la forza sensibile (sinnliche Kraft) della poesia, il più conseguente dei suoi teorici. Per un periodo vide nel romanzo l’unica vera poesia dei moderni, in quanto «rappresentazione dell’interiorità umana»64. In un altro momento trovava necessaria l’introduzione di canzoni nel dramma. Per comprendere giustamente le idee contenute nei diari e nelle critiche bisogna esporle in connessione con la temporanea situazione della nostra poesia, all’interno della quale esse nacquero. Si chiariscono così alcune contraddizioni presenti in loro e, nello stesso tempo, il notevole progresso compiuto nella matura teoria della fantasia e della poesia, progettata quasi due decenni dopo, lontano dalle lotte di quel tempo. La gloria di aver fondato una filosofia dell’arte sui presupposti delle ricerche dei due Schlegel e dei loro amici la trasse un altro di loro, Schelling. Questi possedeva, nella sua potente complessione fisica, ciò che a Schleiermacher mancava, cioè un talento artistico che confinava con una singolare genialità creativa. Nuove pubblicazioni rendono possibile determinare più da vicino il posto eminente che egli occupa nella storia dell’estetica. Esse consentono di riconoscere ora con precisione in quale proporzione i lavori e le idee dei due Schlegel, insieme a quelle dei ricercatori positivi, sono state alla base della costruzione filosofica. E dimostrano inoltre che le geniali linee 64
Gedanken III, KGA I, 2, n. 23, p. 124.
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I COMPAGNI POETI
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fondamentali di tale costruzione filosofica già erano debitrici a Schelling, molto prima dell’entrata in scena di Hegel. La collaborazione degli amici e il carattere poetico dell’epoca allettavano Schleiermacher a cimentarsi nelle opere poetiche. Lo strano spettacolo offerto da una natura così nobile e riflessiva in questo campo conferma in modo convincente la forza della corrente poetica del tempo. I Discorsi sulla religione e i Monologhi mostrano chiaramente che genuine creazioni artistiche erano precluse alla sua natura, ma testimoniano anche notevoli errori di valutazione riguardo ai motivi di questa preclusione. «Desidero», dicono i Discorsi sulla religione, «se non fosse empio desiderare qualcosa che va oltre se stessi, poter vedere chiaramente come il senso artistico per sé solo si trasforma in religione. Perché quelli che hanno potuto percorrere questa strada sono nature così taciturne? Io non la conosco, questo è il mio limite più duro, è il vuoto che sento profondamente nella mia essenza, ma che considero con attenzione»65. Acutamente Schleiermacher osserva nei Monologhi: «La vocazione duplice dell’uomo sulla terra mi pare accennare a una netta linea di demarcazione delle diverse nature umane. Sono due cose radicalmente differenti sviluppare in sé l’umanità fino a una forma determinata ed esporla in molteplici azioni, o rappresentarla esteriormente attraverso la realizzazione di un’opera d’arte, cosicché ciascuno debba scorgervi tutto ciò che un artista vuole mostrare. Come potrei nutrire dubbi su quale delle due scegliere? Con assoluta decisione ho evitato di cercare ciò che rende artisti. L’artista va a caccia di tutto ciò che può diventare segno e simbolo dell’umanità: egli rovista il tesoro delle lingue, trasforma il caos dei toni in un mondo ordinato; cerca il senso segreto e l’armonia nel ben gioco di colori della natura. In ogni opera, che gli si espone, indaga l’impressione delle singole parti, la connessione e la legge del tutto, e si rallegra del contenitore così ricco d’arte più che del prezioso contenuto, che esso offre. Si formano in lui, poi, nuovi pensieri per nuove opere, vivono segretamente nell’animo e crescono accuditi in silenziosa segretezza. Sempre lo incalza l’impegno, si alternano progetto e realizzazione, migliora gradualmente l’esercizio instancabile, il giudizio più maturo tiene a freno e doma la fantasia: così la natura produttiva va incontro alla perfezione. Tutto questo, però, lo ha colto per me la sensibilità, poiché è estraneo al mio pensiero. Da ogni opera d’arte riluce per me l’umanità, che vi è rappresentata, molto più chiaramente che l’arte dell’artista; solo con fatica la afferro in una riflessione posteriore e riconosco un po’ della sua essenza. Non tendo al perfezionamento del materiale nel 65
Reden, KGA I, 2, p. 262.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
quale imprimo il mio pensiero: evito l’esercizio. Non posso creare, come l’artista, in solitudine»66. Se questa visione non impedì a Schleiermacher di schizzare, nello stesso periodo, alcuni progetti poetici, ciò, mi sembra, fu dovuto al fatto che egli possedeva, in forza straordinaria, alcune delle proprietà che contraddistinguono il poeta, come eccitabilità del sentimento e ampia intuizione dell’uomo e della vita, e che allora il corso illustrato della nostra poesia favoriva i progetti fondati su queste inclinazioni. A ciò lo spinsero i tentativi dei compagni. Il suo senso per la vitalità dell’opera d’arte non era abbastanza forte da fargli giudicare un’opera nel suo vero valore, mentre la sua comprensione delle condizioni della facoltà poetica non era abbastanza profonda da fargli riconoscere chiaramente i limiti che gli erano innati. La genialità della intuizione schleiermacheriana dell’uomo, del corso del mondo e del destino, avrebbe potuto trovare la sua piena e libera espressione solo nell’opera d’arte, nel romanzo filosofico: Rousseau, Jacobi, Goethe dovevano indirizzarlo su questa strada. L’epoca poetica e gli incoraggiamenti degli amici dovevano rinforzarlo in tal senso. Se alcune inclinazioni poetiche gli avessero reso possibile una tale creazione, non si può dubitare che la sua genialità morale avrebbe trovato nel romanzo filosofico un’espressione assai peculiare, non sostituibile da nessun altra forma espositiva, altrettanto adeguata ad essa quanto una forma sistematica. Così Schleiermacher si domandava se sarebbe mai stato in grado di creare una tale opera. Guardando nei laboratori dei suoi amici, sentiva mancare in sé, prima di tutto, la costante considerazione dell’opera artistica altrui, l’incessante esercizio: ma questo non era irraggiungibile. «Mi potrà essere concesso», chiedeva a Wilhelm Schlegel, con sincera ammirazione della sua forma perfetta, «di scrivere un romanzo, se non imparo a fare qualcosa di simile?». A ciò replicava Wilhelm: «Se Lei è intenzionato a rivolgersi alla poesia e sente in sé fede e devozione per ciò, l’inesperienza nella tecnica esteriore è certo il minimo impedimento»67. Sono conservati nel suo lascito vari tentativi di abile traduzione metrica, l’elaborazione di pensieri in concise forme poetiche. A essi si aggiunge lo studio della composizione dei grandi poeti. Da tale inclinazione, dall’incessante esercizio e della partecipazione ai tentativi degli amici nacquero ulteriori progetti poetici. Nell’estate del 1799 egli appuntò nel suo diario la bella idea di un racconto filosofico, nel quale doveva essere rappresentato un uomo che chiede sempre: «ma perché devo 66
Monologen, KGA I, 3, pp. 19-21. KGA V, 4, Lettera ad August Wilhelm Schlegel, 27 maggio 1800, n. 868, p. 47 e ivi, Lettera di August Wilhelm Schlegel, 9 giugno 1800, n. 882, p. 74. 67
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essere felice?»: si tratta di una satira sull’eudaimonismo, in quella forma che Voltaire e Diderot trattarono così genialmente e che Tieck, nel suo Peter Leberecht e in altri racconti, ha così male imitato. Immediatamente accanto a questa indicazione sta il progetto per il romanzo «di una favola spirituale»: l’eroe è un cacciatore di piaceri, sul tipo di Woldemar, che oscilla sempre tra amicizia e amore, dividendo le sue sensazioni tra una mezza dozzina di esseri femminili; un’immagine contrapposta alla capacità, cosciente e solida, di distinguere chiaramente tra i diversi sentimenti che egli aveva maturato. Si trovano annotate in un’epoca successiva (1802) anche un paio di idee per delle novelle: «Il medico costretto a salvare la vita del suo (presunto) rivale. 2. la modista che deve abbellire la sposa del suo amato. 3. l’acconciatore come servitore di intrighi. Comico. 4. Il viaggio con la posta». Appuntò addirittura due progetti di tragedie. Un progetto del 1800 trova il materiale del conflitto tragico nel contrasto delle sfere vitali e delle loro diverse esigenze. «Il padre e il futuro genero in circostanze rivoluzionarie sono contrapposti per opinioni politiche. Il padre è il più intelligente e gli offre amicizia intima nonostante siano nemici. Il giovane ammira ciò e vuole soccombere. Entrambi hanno amici confusi e parziali, che provocano la catastrofe. La ragazza non ha senso politico e perciò è sempre elegiaca; ma non sentimentale». Sotto l’influsso dell’Alarkos Schleiermacher tracciò poi, nel 1802 o 1803, un materiale tragico, «antico-tedesco, meridionale», con un coro di crociati, una genuina tragedia del destino, nella quale il padre, con la spada avvelenata, uccide il figlio senza riconoscerlo e una morte comune pone fine alla confusione generale68. Presento, per chiudere, un’ulteriore conferma della mia analisi delle relazioni di Schleiermacher con l’arte. Si trovano nelle sue carte alcune poesie risalenti all’epoca della più profonda solitudine e della più dolorosa disperazione a Stolp. La prima poesia, che riporto qui, esprime questa sensazione in un’immagine toccante. In tutte una forte eccitabilità del sentimento e un’abile tecnica sono unite alla mancanza di immediata, naturale capacità di dare forma al materiale poetico. L’abbandonato: «Dove è mia madre? Dove può essere la fedele madre? / Ah, deve abbandonare il suo bambino, / e percorrere tra il pianto altre strade. / Non pensare alla madre / conduciti da solo. / Dove è mia figlia? Dove si attarda così a lungo? / Ah, è serva in una terra straniera / sospira, lontana, in duri legami / il tempo le pesa / e nel cuore ha paura. / Dove si trattiene la sposa? Ho così nostalgia! / Ah, non può vivere con te / deve darsi al tuo nemico. / Misero, piangi / non 68 Gedanken I, KGA I, 2, n. 187, p. 42; Gedanken III, ivi, n. 45, p. 129; Gedanken V, KGA I, 3, n. 324, n. 180, p. 327.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
la rivedrai mai più. / Dove è la mia gioia? Dove è tutta la mia felicità? / Ah, la gioia è sprofondata nella notte, / la felicità è affogata nell’afflizione, / nessuna gioia, nessuna felicità / tornano da te. / Dove cercare la morte? Chi mi scava la tomba? / ovunque cerchi, la troverai / nella terra o nel mare. / Rapida si scava una tomba / vuoi semplicemente scendervi»69. Al mare: «Qui si alzano onde / si increspa la schiuma scintillante / sotto è tutto fermo / trema appena una goccia! / Non scintillare aria! / Il petto / rimane cosciente del dolore. / Allora il sole sgombra il cielo / Il fuoco si tuffa nel mare: / splende il brulicare delle stelle / nuovamente all’antico male. / Abbagliami luce! / D’improvviso non più / Mi ferisce il tuo raggio. / Uccellini svolazzano e cantano / Li guida la gioia d’amore: / sotto nulla può risuonare, / indisturbata è la tristezza. / Profondità, tu solo / Serri gli occhi / Per la quiete». Da tali esercizi, dall’incessante studio della composizione di grandi opere nacque la maestria artistica che contraddistingue l’articolazione dei suoi migliori scritti e lo svolgimento intenzionale, spesso artificioso della prosa. Forti oscillazioni della vita emotiva, collegate con una capacità di riflessione in grado di dominarle grazie alla potenza logica, fanno il carattere dell’oratore. La sua arte sta al confine con il creare poetico. In questo ambito Schleiermacher, in virtù della propria caratteristica complessione psico-fisica, era del tutto originale e geniale. E il suo senso artistico così esercitato inventò, nei Discorsi sulla religione e nei Monologhi, forme letterarie per esprimere la propria interiorità, con la forza e l’universalità che è propria altrimenti solo delle opere d’arte. Come il linguaggio al sapere così, secondo l’etica, l’arte si lega alla religione. La predica era, per Schleiermacher, un’opera d’arte oratoria. Secondo tutte le testimonianze la sua apparizione sul pulpito era la più alta espressione della sua individualità e della vita emotiva ad essa legata. Una potente corrente emotiva, portata a forma tranquilla attraverso la riflessione, una personalità e un’opera d’arte di antico, puro e grande stile, un discorso sostenuto da lunghe, tranquille ondate di sentimento, di espressione naturale, di struttura completa, che si istituisce quasi senza intenzione, senza il falso trucco della sovrabbondanza di immagini ricercate, sviluppandosi in periodi, come se essa formasse veramente da sé, parlando, il movimento dell’anima: chi può ridare alla parola scritta, che ci è rimasta, la forza dell’intonazione più naturale, della personalità nella sua completezza, l’intensità del sentimento solenne? 69
Conservata in due versioni: una spedita alla Herz nel giugno del 1804, l’altra raccolta in un quaderno di poesie. Riporto la seconda versione, eccetto gli ultimi due versi. [Oggi sono entrambe disponibili in KGA, I, 4, Gedichten und Charaden, pp. 12-14].
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I COMPAGNI POETI
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«Si sa con certezza che gli antichi preferivano, tra i discorsi di Demostene, rispetto agli altri suoi capolavori, quelli che egli, pieno di nobile intenzione politica, teneva senza preparazione secondo le circostanze, e che non sono giunti a noi, in quanto opere momentanee: così anch’io desidero affermare che non è stato detto nulla di eguale o di simile da quando Schleiermacher parlò in quell’epoca» (della dominazione straniera in Germania), «quando egli, il profondo spirito, di fronte ai suoi fratelli era colto dalla gioia per la vittoria del Vangelo sul sacrilegio che ride beffardamente in faccia al più grande sviluppo storico; al posto di molte prediche che mi sovvengono alla memoria, la maggioranza di voi, presenti con me, ricorderanno una predica, che egli tenne il primo gennaio 1813, Cristo il re, dove apparve sgorgare fuori tutto ciò che era in lui divino e sacro»70. Gli effetti di gran lunga più importanti esercitati dal movimento poetico e dagli amici su Schleiermacher giunsero fino al cuore della sua visione della vita e del mondo, della sua ricerca scientifica. Qui alcune delle straordinarie conquiste dei compagni si incontrano con la vera capacità creativa di Schleiermacher. All’atmosfera poetica generale sono legati la libera intuizione e il sentimento dell’universo. Dalla nuova libertà nelle relazioni sociali e nella loro rappresentazione nasce in Schleiermacher il serio studio dell’etica dell’amore, dell’amicizia e della socievolezza. Alla nuova comprensione delle opere artistiche e del comune passato poetico si collega la sua ermeneutica, il suo studio della composizione delle opere letterarie, la sua attualizzazione di Platone, il suo tentativo di una prosecuzione organica della filosofia a partire dalla comprensione e dalla critica del suo intero passato. Dalla relazione di Schleiermacher con gli amici poeti ci volgiamo alla sua posizione all’interno del movimento filosofico.
70 Cfr. Albert Schweizer, Schleiermachers Wirksamkeit als Prediger, 1834; Thiel, Schleiermacher, die Darstellung der Idee eines sittliche Ganzen, 1835.
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LA VISIONE DEL MONDO E DELLA VITA DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE E DEI MONOLOGHI, CHIARITA E SPIEGATA A PARTIRE DALLA SUA RELAZIONE CON I SISTEMI FILOSOFICI
Si chiude la catena di influssi sotto i quali nacquero Discorsi sulla religione e Monologhi, che costituiscono la forma intuitiva (anschauuliche Form) della visione del mondo di Schleiermacher. I principali rappresentanti della filosofia giunta a dominio in Germania dopo Fichte, cioè Schelling, Friedrich Schlegel, Schleiermacher, Hegel stavano in strette relazioni personali con i poeti e con i critici, che per primi hanno compreso nuovamente (wiederverstehen) la poesia greca, italiana, inglese, spagnola e quella tedesca delle origini nella loro connessione, portandole a rinnovata efficacia artistica. In virtù di una trasmissione di compiti, metodi e idee fondamentali, che verrà esposta in seguito, fu iniziata anche la nuova comprensione (Wiederverständnis) del passato filosofico. È un proficuo carattere di questa tendenza della filosofia tedesca, e non da ultimo su di esso riposò fin dall’inizio il suo influsso, il fatto che essa riprese il passato storico del pensiero, tentò di coglierne l’intera ampiezza di compiti e la verità dei punti di vista, incitando così ricerche storiche di crescente precisione e istituendo la continuità del pensiero. D’altra parte, questo improvviso affluire di masse di pensieri estranei doveva rallentare necessariamente, per un certo periodo, l’originale e conseguente formazione delle idee legate alla condizione intellettuale dell’epoca. Si tratta della stessa relazione che abbiamo osservato, in grado minore, presso i poeti. Pochi cambiamenti spirituali sono comparabili con quello che giunse a compimento in Germania in questa generazione: ad esso siamo debitori del
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LA VISIONE DEL MONDO E DELLA VITA DEI DISCORSI E DEI MONOLOGHI
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fatto che i limiti del presente per noi sono eliminati, che l’intero passato poetico è diventato la nostra poesia e l’intero passato del pensiero la nostra filosofia. Alla forza di questa generazione corrispose però anche il suo limite. I geniali contributi di Schleiermacher alla comprensione (Verständnis) e alla critica (Kritik) dei sistemi passati occupano sicuramente un posto di primo piano nella sua epoca. Nello stesso tempo è impresso nel suo pensiero nel modo più evidente, se si prescinde dalle tracce del suo amico, il carattere dell’eclettismo1. La dimostrazione più chiara di ciò è l’accettazione da parte di Schleiermacher di teoremi che restano inconciliabili con il suo pensiero fondamentale; cito semplicemente, a titolo d’esempio, l’opposizione, derivata da Platone e Aristotele, di concetto (Begriff) e giudizio (Urteil), come forme fondamentali della dottrina speculativa delle idee, e d’empiria, e l’articolazione, presa a prestito a Schelling, in opposizioni quantitative. Già verso il 1800 i pensatori, i cui risultati sono utilizzati nel suo sistema, Platone, Aristotele, Spinoza, Leibniz, Kant, Jacobi, Fichte, Friedrich Schlegel, Schelling, hanno iniziato ad esercitare tutti insieme il loro influsso su di lui. È visibile già qui il fatto che, in virtù della salda direzione delle sue idee, fin dall’inizio egli non accolse il grande movimento dell’empirismo, sviluppatosi in Inghilterra e Francia: nella altrimenti così fruttuosa varietà della sua critica filosofica e del suo sistema ciò fu una limitazione fatale. Ci incalza ora l’esigenza di abbracciare in una visione d’insieme il peso e l’azione combinata di effetti così dispersi e di valutare il loro ruolo nella nascita della visione del mondo dei Discorsi sulla religione e dei Monologhi. Dal momento che, su questo punto della storia dello sviluppo di Schleiermacher rimangono alcune lacune e alcuni dubbi, appare più opportuno, per una ricerca scrupolosa, procedere a un’esposizione analitica.a Si misura, per così dire, lo spazio che separa la visione del mondo raggiunta da Schleiermacher intorno al 1796 da quella del 1800, si misura la via che lo sviluppo di Schleiermacher doveva percorrere per passare da una all’altra se, ponendole vicine, si lascia correre lo sguardo su entrambe.
I. La visione del mondo e della vita dell’epoca precedente (fino al 1796) La visione del mondo e della vita dell’epoca che arriva fino al 1796 appare, se si elimina, con accortezza, ciò che era espressamente accettato nella Espo-
1 Cfr. il bel saggio di Eduard Zeller su Schleiermacher in Vorträge und Abhandlungen, 1865, p. 185.
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sizione del sistema spinoziano e la sua connessione con i risultati degli scritti etici, come una combinazione di Kant e Spinoza, con l’utilizzo contestuale di Platone, Aristotele, Shaftesbury, Leibniz e Hemsterhuis2. Riassumo. 1. Dalle cose come sono date nella percezione (Wahrnehmung), ossia dal mondo sensibile, dobbiamo tornare ad un’esistenza di esse che stia al di fuori dalla nostra percezione (Wahrnehmung), cioè a un noumeno3. Perciò l’affermazione “ex nihilo nihil fit” esclude il sorgere di un cambiamento in ciò che è eterno e immutabile. Rimangono solo due possibilità: o le cose finite sussistono per sé dall’eternità o sono eternamente condizionate nell’incondizionato e ineriscono dunque ad esso. Se eliminiamo la prima supposizione, l’instabilità delle singole cose, a ciascuna delle quali non spetta alcuna esistenza per sé, ci spinge verso l’incondizionato, nel quale esse sono eternamente condizionate. Schleiermacher accoglie qui da Spinoza, per così dire, il risultato della prova cosmologica, che conduce al pensiero di ciò che condiziona e che è, a sua volta, incondizionato4. 2. Torniamo così, per un verso, dalla molteplicità (Vielheit), dalla divisibilità (Teilbarkeit) e dall’individualizzazione (Individualisation) in questo mondo della percezione (Wahrnehmung) al noumeno, che sta a suo fondamento. La conclusione che da questo carattere dei fenomeni deduce una molteplicità di noumeni, di monadi e cose in sé è infondata. Poiché, in quanto deduzione dalla molteplicità, che costituisce il mondo sensibile, essa non vede l’assoluta eterogeneità della composizione e dell’analisi fisica rispetto a quella metafisica: il fondamento dell’individualità nell’ordine fisico sta nella riunificazione delle forze di una certa massa in un punto, sta dunque solo in un elemento rappresentabile, non nelle cose in sé. Addirittura la relazione di questa coordinazione fisica delle cose ad una metafisica dovrebbe condurre all’assurdità di un possibile aumento di noumeni attraverso la divisione 2 Platonica, tra le altre cose, è l’introduzione della dottrina del “flusso delle cose finite” (Geschichte der Philosophie, SW III, 4, 1, p. 287). Tratti aristotelici mostrano i saggi Sul sommo bene e Sul valore della vita. Hemsterhuis viene nominato in SW III, 4, 1 p. 301, tuttavia insieme a un teorema che si trova nello Spinoza di Jacobi. L’influsso di quest’uomo sulla nostra filosofia è stato decisivo e tuttavia nelle storie della filosofia viene troppo poco considerato come d’altronde quello di Spinoza: potrebbe essere ben dimostrato da una ricerca specialistica; per un più ampio influsso delle sue opere su Schleiermacher non trovo nessun documento diretto semplicemente da citare. 3 SW III, 4, 1, pp. 294, 298; per il noumeno, «La materia assoluta», p. 300. 4 La trattazione alle pp. 285-303 deve essere considerata nella sua totalità. Cfr. infra, punto 4 con le singole citazioni. Sulla sua posizione nei confronti della prova cosmologica cfr. Adolf Trendelenburg, Logische Untersuchungen, 1840, 2, p. 432.
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dei fenomeni. In quanto ovvia deduzione a partire dalla molteplicità degli individui rappresentanti questa argomentazione non si accorge che proprio la coscienza individualizzante (individualisierendes Bewusstsein) riposa sulla ricettività (Receptivität) e perciò si relaziona solo al fenomeno (Erscheinung); «proprio ciò che è collegato nel modo più stretto con quello che esiste in noi veramente, cioè la ragione, ci individualizza meno e la sua considerazione ci allontana piuttosto dall’illusione dell’individualità»5. Altrettanto poco può essere dedotta una positiva unità del noumeno. Spinoza, Leibniz, lo stesso Kant non sono compiutamente critici. Perciò possiamo solo affermare: il mondo come noumeno deve contenere il fondamento esplicativo dell’individuazione nei fenomeni; ma rimane da dibattere la grande questione: «quale è l’origine dell’idea di un individuo e su cosa si basa?»6. 3. Torniamo, per un altro verso, mediante l’opposizione della coscienza rappresentante e del mondo sensibile che appare ad essa, ai noumeni che stanno alla base di entrambi. È dogmatico neutralizzare quest’opposizione del mondo fenomenico attraverso un noumeno, la cui essenza sarebbe il rappresentare. Possiamo solo constatare che, in tale noumeno, deve risiedere il fondamento per il doppio modo nel quale ci è dato il mondo fenomenico: possiamo indicare questo fondamento, prendendo le espressioni in senso critico, come capacità di rappresentazione (Vorstellungsfähigkeit) e di estensione (Ausdehnungsfähigkeit)7. In tal modo, dal punto di vista kantiano, eliminiamo le monadi rappresentanti (vorstellende Monaden) di Leibniz ed entrambe le proprietà o attributi della sostanza infinita di Spinoza. Ma questo punto di vista porta oltre. Un anonimo trasse da Spinoza la seguente conseguenza: ogni cosa finita dovrebbe rivelare tutte le innumerevoli proprietà di Dio. Se poniamo questa giusta conseguenza sotto il punto di vista di Kant, conformemente al quale il rappresentare (Vorstellen) e l’estensione (Ausdehung) sono da considerare non come proprietà di Dio, bensì come peculiarità di chi guarda, nasce la formula: «la materia assoluta è capace di prendere la forma di una qualsiasi capacità di rappresentazione, essa possiede, pur nella perfetta e immediata non rappresentabilità, un’infinita mediata rappresentabilità (unendliche mittelbare Vorstellbarkeit)»8.
5
SW III, 4,1, p. 299. Ivi, p. 300. 7 Ivi, pp. 297 ss.; cfr. pp. 301, 310 ss. 8 Ivi, pp. 300 ss.; cfr. Lettera di Spinoza a L. Meyer, 20 aprile 1663, in Spinoza’s Briefwechsel, p. 65. 6
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4. Questo ricaviamo sul noumeno a partire dal mondo variegato e movimentato degli individui rappresentanti (vorstellende Individuen) e delle cose fenomeniche (erscheinende Dinge). Procediamo fino alla questione della relazione metafisica reale del noumeno e degli individui, o meglio, in generale, dei fenomeni. Spinoza (naturalmente secondo la visione schleiermacheriana di allora) lega il principio ex nihilo nihi fit, dal quale seguirebbe l’alternativa di singole cose eterne o di un infinto, al quale inerisce la totalità delle singole cose, al principio del flusso delle cose finite, della instabilità di ciascuna di esse, dal quale deriva l’esclusione della prima possibilità: in questo modo egli deduce la visione metafisica dell’inerenza di tutte le cose finite nell’infinito. Verosimilmente Schleiermacher, fino a questo punto, aderì all’argomentazione di Spinoza, per come egli la concepiva9. Non dubito quindi che risolvesse allora le note difficoltà di questa dottrina dell’inerenza attraverso il teorema kantiano di spazio e tempo. Se intendiamo il semplice senso delle sue parole, in modo rigoroso, come meditata convinzione, possiamo affermare che egli si collegò espressamente, in quest’epoca, alla “visione” di Kant, secondo la quale «spazio e tempo costituiscono l’elemento caratteristico del nostro modo di rappresentare»10. Se «Spinoza, per chiarire la relazione dell’apparenza mutevole all’essenza costante», non ha posseduto nessun altro schema «che quello di sostanza e accidente», si apre invece, all’apice della visione di Kant, la nuova possibilità di scoprire, proprio in colui che rappresenta e nella sua forma intuitiva spazio-temporale (räumlich-zeitliche Anschauungsform), l’origine dell’apparenza mutevole11. Fin qui conduce l’interpretazione verosimile di questo difficile passo. Ma la teoria, che riconduce il cambiamento nei fenomeni alle proprietà della nostra facoltà rappresentativa, che era stata a sua volta ricondotta a un noumeno, alla base tanto della facoltà stessa quanto dei fenomeni, corre il pericolo di cadere in un circolo. 5. Al di là dei risultati negativi di una filosofia critica coerente, e indipendentemente da essi, sta la vita emotiva religiosa (Gemütsleben), che si muove liberamente nel proprio territorio. Nessun documento storico, neppure se si trovasse una spiegazione così chiara in Schleiermacher, potrebbe spiegarci veramente l’origine di questa sua tendenza a separare i due territori e a ren9 Ivi, pp. 295-303. Il concetto di una «inerenza immediata» (p. 298) appartiene solo alla sua interpretazione di Spinoza, non alla sua teoria. 10 Il modo in cui Schleiermacher risolve le difficoltà del pensiero di Spinoza (ivi, pp. 300302) attraverso il teorema di Kant, l’espressione alle pp. 300 e 302 e ciò che è stato sopra esposto (p. 299): tutto questo rende assai plausibile che egli condividesse in questo periodo il teorema kantiano. 11 Cfr. ivi, pp. 301-302.
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derli liberi in questo modo all’interno dei loro confini. Questa tendenza gli si era avvicinata attraverso le intuizioni dell’azione libera e forte dell’animo cristiano quando viveva tra i Fratelli herrnhutiani e fu d’altra parte favorita dal suo spirito d’indipendenza scientifica. Svincolando i pensieri di Jacobi dalla loro unilaterale avversione contro la scienza, Schleiermacher poteva sviluppare, riallacciandosene, la propria tendenza. E come, dai tempi dell’università, riformò coerentemente il sistema kantiano, così dovette sentirsi spinto allo stesso risultato. Anche Kant aveva trovato al di là della filosofia teoretica il punto di appoggio di un più alto ordine universale. Se si fossero dimostrate insostenibili le sue conclusioni a tale riguardo, in particolare la deduzione della libertà della volontà, una natura religiosa avrebbe sentito il compito di fondare la propria vita devota senza queste mediazioni di tipo deduttivo. Conseguentemente già a Drossen questa tendenza schleiermacheriana si manifestò nell’avversione contro i “cristiani filosofi” e contro le menti religiose, un’avversione nella quale lo aveva preceduto Lessing. Già in questo periodo gli apparivano come momenti sublimi della vita religiosa quelli in cui vi è «l’espressione del sommo sentimento in tutto il vostro essere»12. 6. L’importanza della ricerca schleiermacheriana stava nelle indagini etiche. Poiché esse nacquero prima della fondazione metafisica, la loro impostazione psicologica, come mostrano gli scritti Sulla libertà e Sul valore della vita, non è in accordo con tale fondazione. Tuttavia, nell’idea antropologica dell’unità dei nostri desideri con la ragione, esse preparano il pensiero metafisico dell’animazione della natura attraverso la ragione e scoprono il vero concetto del sommo bene inteso come totalità delle azioni che sono fissate nell’idea morale13. Tutti questi sono come pezzi grezzi e disordinati per la successiva costruzione dei pensieri di Schleiermacher: il riferimento costante del rappresentante (l’ideale) e del mondo sensibile rappresentato (il reale) al fondamento comune di entrambi; la concezione di questo fondamento come presupposto immediatamente non rappresentabile, ma necessario, di entrambi, con il rifiuto di ogni sopravvalutazione di uno di questi due aspetti, di ogni riduzione dell’uno all’altro, che è la più antica espressione del punto di vista della filosofia dell’identità (Identitätsphilosophie); l’interesse per la relazione di inerenza del finito all’infinito; il completamento del criticismo scientifico attraverso la vita emotiva religiosa (Gemütsleben); la concezione della ragione 12
KGA V, 1, Lettera a Brinkmann, 28 settembre 1789, n. 123, p. 153. Quello che è qui solo accennato viene sviluppato dettagliatamente nei saggi giovanili (KGA I, 1). 13
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singola come di qualcosa di significativo dal punto di vista intellettuale e morale; l’armonia in essa presente delle forze viventi come idea del bene; a partire da essa il sommo bene come totalità di ciò che è possibile all’interno di questa idea morale. Con questi elementi, che preparano la strada al futuro sistema, si incrociano due pensieri ancora confusi in Kant: il teorema di spazio e tempo come nostre caratteristiche forme di rappresentazione e il presupposto che la ragione ci individualizzi poco, che ci allontani quasi dall’illusione dell’individualità14. Proprio il loro superamento, le ricerche dedicate alla loro confutazione furono i compiti fondamentali della filosofia di Schleiermacher.
II. La visione del mondo e della vita dei Discorsi e dei Monologhi Già il punto di vista schleiermacheriano del 1800 rompeva completamente con entrambi i presupposti kantiani; Discorsi e Monologhi presentavano con geniale sicurezza le intuizioni centrali dalle quali si è formato in seguito il sistema. Quando Schelling, nel 1801, lesse i Discorsi nella loro connessione, scoprì in essi, non senza tardiva meraviglia e sincero entusiasmo, «uno spirito che si può considerare sulla stessa linea dei primi filosofi originali», che «ha penetrato la profondità della speculazione, senza tralasciare anche solo una traccia dei gradi che si devono attraversare». Riconosceva che una tale opera era stata possibile solamente «sulla base dei più profondi studi filosofici» o «grazie a una cieca ispirazione divina»15. Se considero le due opere all’interno dello sviluppo avvenuto fino ad allora, se le metto in relazione con le coeve pagine di diario, con le lettere, con le critiche, mi sembra che il superamento di tutti gli altri punti di vista, la sicura concezione e limitazione del proprio siano fondati su una ricerca filosofica rigorosa. Al contrario, l’autore di questi scritti non possedeva ancora gli elementi essenziali della sua semplice visione del mondo e della vita in una connessione di concetti metafisici ed etici: piuttosto la esprimeva in forma intuitiva, come mistica. I Discorsi descrivono, a partire da un fenomeno basilare, che non viene discusso né dal punto di vista psicologico né da quello metafisico, la cerchia di intuizioni e sentimenti religiosi (religiöse Anschauungen und Gefühle), del loro sviluppo, della loro forza socializzante,
14
WW III, 4, 1, p. 299. Aus Schellings Leben, I-III, a cura di Plitt, Lipsia 1869-1870, qui I, p. 345, cfr. Waitz, II, 1913, pp. 163, 169. 15
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delle loro forme16. I Monologhi lasciano che si compia, per così dire, davanti all’occhio spirituale di un lettore, il percorso morale, l’intuizione di sé (Selbstanschauung). Dal fatto che Schleiermacher possiede veramente le sue idee solo in questa forma, cioè nella forma dell’intuizione di sé e del mondo, si spiega la cauta, non raramente intenzionale indeterminatezza e l’oscurità presenti in entrambe le opere, le loro contraddizioni, la concezione incerta dei compiti della metafisica e della morale, dei concetti di facoltà, senso, intuizione, etc. E dal punto di vista del contenuto si spiega il fatto che egli non riconoscesse ancora la relazione della filosofia con l’intuizione religiosa e di conseguenza non possedesse ancora il fondamento scientifico per la costruzione dell’etica. Fissare in una spiegazione coerente questo punto di vista ancora intuitivo, risalente al 1800, è perciò un rischio, al quale non si può però sottrarre una storia evolutiva. Essa deve dare un’esposizione documentata della coerenza dei Discorsi e, più limitatamente, dei Monologhi. Ma se bisogna porre in chiara luce il loro punto cruciale e decisivo nello sviluppo di Schleiermacher, nella misura in cui è possibile trarre conclusioni a partire dai documenti, è necessario, con chiara coscienza di non poter evitare pienamente l’ipotetico, ritornare ai presupposti di entrambe le opere, nel blanc de l’ouvrage, sul quale Schleiermacher stesso, in riferimento ai Monologhi, richiama l’attenzione come sulla cosa in essi più degna di valore. La mistica ossia la religione come forma nella quale l’universo si manifesta all’uomo A partire dall’Io, inteso come un elemento incondizionatamente attivo e creativo, la filosofia trascendentale forma la propria visione del mondo; la fisica speculativa, invece, forma la propria visione del mondo a partire dal proprio oggetto, ossia dalla natura. Nessuno dei due punti di vista porta all’infinito (das Unendliche)17. Solamente nel processo religioso viene colto l’infinito. La base psicologica di tale processo è il senso (Sinn). Questo si rivolge, astraendo dalla concatenazione causale e teleologica dei fenomeni, al loro sorgere e svanire, al cosa e al come, all’impressione armoniosa di una totalità in ciascuno di 16 [Nei capitoli VII-X i termini Anschauung, “intuizione”, e Gefühl, “sentimento”, si riferiscono alla concezione della religione esposta da Schleiermacher nei Discorsi sulla religione. Selbstanschauung, “intuizione di sé” è invece parola chiave dei Monologhi]. 17 Reden, KGA I, 2, pp. 207 ss., 263 ss.
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essi. Esso è poi, cosa che Schleiermacher stesso sottolinea, affine alla facoltà estetica, poiché è soddisfatto al massimo grado nell’intuizione dell’opera artistica o della natura, nella misura in cui essa può essere pensata come creatrice d’arte. Qui, nell’intuizione artistica in quanto incremento del senso (Sinn), lo sguardo riposa in un tutto, prescindendo completamente dalla concatenazione causale, come se fosse eterno, volto semplicemente al “che cosa”. I Monologhi mettono in evidenza un caso straordinario per illustrare il significato del senso (Sinn). Nel mondo morale il senso universale è la suprema condizione della propria realizzazione in una cerchia determinata; questo sguardo universale, per così dire, si libra continuamente sui fenomeni, nei quali l’umanità si rappresenta in modo vario. Se il senso è volto all’infinito, nasce la religione. In essa l’occhio dello spirito si immerge nell’infinito, nell’uno, nell’eterno, senza volontà e senza riflessione18. Si deve cercare di comprendere come, nel contatto col fenomeno finito, si sviluppa il processo religioso. Si parta da un caso semplice. Noi troviamo i nostri organi in continuo contatto con le cose, il cui agire indipendente viene assunto e compreso nella nostra anima. In questo contatto c’è un primo attimo misterioso, nel quale «il senso e il suo oggetto sono, per così dire, intessuti insieme, divenendo un’unica cosa, prima di tornare entrambi al loro posto originario». Questo attimo sta, per così dire, ai confini della nostra coscienza. E il fatto che in esso appare si scompone in due elementi contrapposti, non appena inizi un suo innalzamento a più chiara coscienza: «gli uni si riuniscono nell’immagine di un oggetto, gli altri penetrano fino al punto centrale del nostro essere, fermentano lì con i nostri impulsi originari e sviluppano un sentimento passeggero». Così nascono continuamente, nel contatto con le cose, intuizioni, che rivelano ciò che agisce al di fuori di noi, e sentimenti, che annunciano ciò che questo agire significa per la nostra essenza più intima e per i suoi impulsi originari. Se si aggiunge la tendenza dell’animo all’infinito, «il suo impulso a cogliere l’infinito», tale per cui qualsiasi agire su di noi viene compreso come agire dell’universo stesso, allora il corso di questo contatto con l’infinito è lo stesso di quello dei nostri contatti con le cose, che è stato esposto. C’è un momento in cui la mia essenza, per così dire, confluisce nell’agire dell’infinito: «sto in seno al mondo infinito, sono, in questo momento, la sua anima, poiché sento tutte le sue forze e la sua vita interiore». Da questo fatto, che sta al confine della coscienza, si sviluppano subito un’intuizione dell’infinito (Anschauung des Unendlichen) in un fenomeno finito come “forma particolare” e un potente sentimento, che necessariamente trabocca verso l’infinito: entrambi, 18
Ivi, pp. 252-255; Monologen, KGA I, 3, pp. 21-25.
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insieme, costituiscono la religione, come essa si manifesta dall’azione originaria dell’animo19. La relazione di senso (Sinn) e intuizione, sebbene mai espressa da Schleiermacher in questa esposizione, è evidente. Ritroviamo nuovamente il senso «nell’impulso a intuire», possiamo dunque spiegare l’essenza dell’intuizione a partire dalla precedente esposizione del senso. La religione viene infatti indicata anche come «impulso a intuire, quando questo è volto all’infinito». E il processo dell’intuizione religiosa viene descritto come «immediata esperienza dell’esistenza e dell’agire dell’universo», nella quale l’animo si abbandona privo di volontà: ciascuno dei risultati di questa intuizione, sussistendo per sé, è un’immagine particolare dell’universo, prelevata dalla connessione esplicativa, collegabile in unità con altre intuizioni di esso solo in virtù dell’astrazione. Il significato di tale intuizione religiosa è una rivelazione dell’attività dell’universo nel fenomeno finito, proprio come nella percezione sensibile si rivela l’azione di un elemento finito. Se lo chiariamo per negazione, possiamo dire: nella percezione finita non si manifesta la natura delle cose, bensì il loro agire su di noi; così nella religione non si manifestano essenza e natura dell’universo, bensì l’agire dell’universo stesso. Poiché in ciascuna forma, in ciascun individuo, in ciascun evento viene intuita l’attività ininterrotta dell’universo, tutto ciò che è finito viene compreso di conseguenza come espressione (Ausdruck), rappresentazione dell’infinito (cioè un agire che si realizza nel finito e, dunque, è visibile e intuibile in questo)20. Ecco il nostro risultato. Nella religione, nell’intuizione mistica, compenetrata dal sentimento, è manifesto l’agire dell’universo. La scienza non conduce ad esso; tanto meno l’agire morale come tale può innalzarsi all’universo. Dunque, solo all’intuizione religiosa in modo originario è manifesto l’universo, che è ovunque altrimenti solo indirettamente oggetto di comunicazione. E così si apre nell’intuizione religiosa «un più alto realismo» (höherer Realismus), nel quale devono essere fondate la filosofia come la prassi compiute21.
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Reden, KGA I, 2, pp. 213-222. Ho cercato di restituire in modo completo la spiegazione psicologica di Schleiermacher, a parte il tentativo passeggero di collegare il processo dell’analisi nell’intuizione e nel sentimento alla distinzione di attività organizzatrice e simbolizzatrice. Cfr. p. 221: «Il fatto si mescola con la coscienza originaria della nostra doppia attività, quella che domina e che agisce verso l’esterno e quella semplicemente rappresentativa e ricostruttiva, e subito a questo contatto la materia più semplice si scompone in due elementi opposti». 20 Ivi, pp. 213-215, 217, 219. 21 Ivi, p. 213.
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L’immanenza dell’infinito nel finito come contenuto generale della visione religiosa del mondo Il legame metafisico fondamentale, la cui intuizione sta sullo sfondo dei Discorsi, è l’immanenza o presenza dell’infinito, dell’eterno nel finito. La portata di questa intuizione basilare risalente a quest’epoca della vita di Schleiermacher, cioè dell’espressione metafisica di ciò che è psicologicamente espresso nella teoria di senso (Sinn), intuizione e sentimento (Gefühl) dell’infinito, può essere spiegata solo tentandone un’analisi. Questa immanenza dell’infinito nel finito deve essere, innanzitutto, nettamente differenziata dal pensiero decisivo che Schleiermacher aveva individuato in Spinoza, e che era il punto centrale della sua precedente interpretazione, volta a collegare Kant e Spinoza. Il pensiero di Spinoza, l’inerenza di tutte le cose finite nell’infinito, è l’acosmismo ossia, trasformando la negazione in affermazione, il panteismo. La concezione dei Discorsi, cioè la presenza dell’infinto nel finito, portava in sé a una ricchezza di sviluppi, ai quali possiamo ascrivere tanto le successive concezioni del mondo di Schleiermacher, Schelling, Krause, Solger quanto quelle dei Discorsi o dello Schelling del 1800. Mi sia concessa una spiegazione: l’intuizione (Anschauung), nella quale sprofonda qui la filosofia, è la stessa che riempie l’animo religioso e che, nell’artista, fa nascere il desiderio della forma; presenza di un mondo infinto, libero, significativo, ideale nel susseguirsi dei fenomeni, sotto la dura legge di nascita e morte, agire e patire, di determinazione di ciascuna esistenza, addirittura di ogni attimo. Qui questa intuizione cerca una formulazione e una spiegazione filosofiche. Il mondo non deve solo essere spiegato nelle sue relazioni finite e causali: esso deve essere compreso come opera d’arte universale nella sua eterna armonia, che si specchia nello spirito volto all’intuizione e al sentimento della totalità, dell’Uno e Tutto. Un passo del diario del 1802 mostra come Schleiermacher riconoscesse, in questa apprensione dell’infinito in mezzo alla finitezza, il fondamento generale di una vita superiore, e come esso fosse per lui, mediante l’accorto collegamento con l’indagine del finito, base della filosofia. «La vita superiore è relazione, che procede ininterrotta, del finito all’infinto. Questa, posta in collegamento con la relazione delle cose finite le une alle altre, è il vero filosofare. Eliminare queste ultime relazioni per amore di quella, è ciò che si può chiamare, in cattivo senso, mistica»22.
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Gedanken V (1800-1803), n. 154, KGA I, 3, p. 322.
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Inversamente proporzionale all’importanza dell’intuizione metafisica di Schleiermacher è purtroppo la chiarezza degli scritti di questo periodo. Schleiermacher trova le espressioni “il finito”, “l’infinito”, “l’eterno”, “l’universo”, in Spinoza, [Shaftesbury], Hemsterhuys, Jacobi. Ma il loro senso originale all’interno della connessione intuitiva della sua personale visione del mondo deve essere indovinata mediante un collegamento non raramente audace di diversi passi. Indichiamo come “finito” ciò che è determinato in spazio, tempo e azione reciproca, ciò che ha destinazione definita, che è posto tra nascita e morte, agire e patire. Schleiermacher concede, senza riserve, realtà al finito, all’ordine causale spazio-temporale, attraverso il quale il finito appare determinato. È passata ormai, a questo riguardo, la titubanza dell’epoca precedente, che stava sotto il potente influsso di Kant. «Non voglio in verità rinunciare al mondo reale»23. Schleiermacher raggiunge così il punto di vista a partire dal quale le ricerche della dialettica intraprendono la loro fruttuosa strada andando oltre Kant. All’interno di questo realismo, quando è riconosciuta la piena realtà del finito, del suo sviluppo temporale e del suo cambiamento, della sua successione spaziale, il pensiero della presenza dell’infinito, dell’eterno, dell’uno all’interno del finito mostra tutto il suo significato metafisico e insieme tutta la sua difficoltà. Poiché la presenza dell’infinito deve essere scorta in mezzo al divenire e al perire, alla limitazione continua, al patire e al mutare di tutte le cose finite, intesi come loro vero destino, non come semplice apparenza ingannevole dei sensi, come processi reali. Spieghiamo tale compito attraverso l’analisi delle concezioni dell’eterno e dell’infinito. La concezione più vicina a noi è quella dell’eterno (Ewige). In essa neghiamo il corso temporale. Ma il corso temporale è come un divenire interiore di cambiamenti, e ogni volta che nella coscienza subentrano cambiamenti, la successione temporale è presente in essa. Dunque, nel pensiero dell’eterno (Ewige), è pensato qualcosa di persistente, al di fuori del gioco delle azioni reciproche e del corso temporale ad esso collegato. Possiamo dunque accogliere, in questa intuizione dell’eterno, per così dire, l’intero contenuto del mondo e dell’individualizzazione che avviene in esso, ma al di fuori del corso temporale causale. Questa intuizione è positiva. Più tardi, quando l’accettazione della dottrina platonica delle idee glielo rese possibile, Schleiermacher ha considerato una totalità di forme sostanziali, alla quale
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KGA V, 3, Lettera a Brinkmann, 23 dicembre 1799-4 gennaio 1800, n. 758, p. 316.
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egli aggiunse anche le individualità umane, come il contenuto eterno del mondo in mezzo al cambiamento dell’ordine temporale-causale. La negazione nell’intuizione dell’infinito ha ulteriori effetti. Abbiamo denominato “finito” ciò che è determinato secondo spazio, tempo, azione reciproca, ciò che, in generale, è determinato e limitato da un altro finito. Nel pensiero dell’infinito mettiamo perciò, in primo luogo, il nostro impulso ad andare oltre tutti i limiti della determinazione delle cose finite. Questa espressione dice di più dell’espressione “incondizionato” (Unbedingte). Dal momento che nega anche la determinazione secondo spazio e tempo, essa è in generale la completa negazione di tutte le determinazioni o di tutti i limiti. Con ciò è determinato chiaramente il compito di pensare l’infinito (Unendliche). Dei possibili tentativi di soluzione Schleiermacher ne esclude due. Se il pensiero dell’infinito deve essere pensato veramente insieme a quello della piena realtà del finito (Endliche), allora finito e infinito non possono essere visti come la medesima cosa, semplicemente compresa in un duplice modo, o nelle sue relazioni o in virtù di una conoscenza, per la quale spazio, tempo, azione reciproca e determinazione non esistono: in tal modo o il finito o l’infinito diventerebbe necessariamente apparenza. E se deve essere intuita veramente la presenza di questo infinito nel finito, allora dovrebbe essere spezzata l’astratta opposizione dei due, l’omnis determinatio est negatio dovrebbe essere ricondotta ai suoi veri limiti; a tal fine sarebbe necessario un originale pensiero metafisico. Nella mistica intuizione schleiermacheriana dell’infinito e dell’eterno, in conformità al compito chiarito, è da notare una doppia tendenza. Essa cerca di separare l’infinito, l’eterno, l’uno dal flusso delle cose finite, affinché esso non si inabissi nelle sue onde, affinché non diventi il semplice corso ininterrotto di queste onde, che solo l’unità dello sguardo mette in connessione. Essa pretende d’altra parte di cogliere la presenza dell’infinito, dell’eterno, dell’uno nelle cose finite, e dunque di risolvere, attraverso l’originale determinazione dell’infinito, il suo contrasto con il finito24. Questa duplice tendenza propria di ogni mistica, di ogni visione del mondo e della vita fondate sulla religione, passa nella Dialettica e nella Dogmatica di Schleiermacher. Come perseguono dunque i Discorsi questa tendenza a sollevare l’infinito al di là del flusso delle cose finite?
24 La prospettiva, che si apre a partire da questa esposizione al successivo sistema di Schleiermacher, avrebbe potuto essere facilmente comunicata attraverso citazioni dalla dialettica, dalla dogmatica e dall’etica. Tuttavia lo sviluppo della questione stessa non deve essere anticipato.
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L’infinito viene colto nel finito in molteplici intuizioni. Ma anche le ultime e le più alte di queste intuizioni, come quelle della natura eterna e dell’umanità eterna, sono solo tappe sulla strada verso il vero infinito. In confronto a quello, esse rimangono attaccate alla finitezza. Solo il presentimento, che supera i limiti di ciò che è dato nella nostra intuizione, ci porta verso l’infinito. Solo attraverso lo sforzo di annientare la propria individualità, arriviamo fino a vivere nell’infinito, nell’uno e tutto25. La polemica contro l’angusto arbitrio di una visione, che pone l’uomo e il mondo dato all’esperienza umana al centro dell’universo, pervade tutti i Discorsi. Forse la spiegazione, accolta e sviluppata da Jacobi, relativa agli attributi o proprietà della sostanza infinita, stimolò in Schleiermacher, in un primo momento, questa serie di pensieri. I Discorsi rimandano dalla legge naturale alle relazioni, che si dispiegano accanto alla tendenza generale all’armonia, non del tutto comprensibili alla luce dalla connessione data, intese come tracce di una connessione più vasta. «Anche il mondo è un’opera, della quale voi comprendete solo una parte, e se questa fosse completamente ordinata e compiuta in sé, voi non potreste farvi un superiore concetto dell’intero»26. Perciò i Discorsi considerano esplicitamente l’umanità come «una singola forma passeggera» dell’universo. Su questa base essi rigettano ogni concezione dell’infinito elaborata secondo l’immagine originaria dell’uomo, inteso, per così dire, come un genio dell’umanità. Secondo quanto riportato in una pagina di diario del 1801, Schleiermacher aveva intenzione di materializzare più tardi questo suo libero sguardo nei mutamenti dell’universo attraverso un bel mito. A questo proposito scrive: i corpi organici non si formano dunque per primi «quando un corpo celeste muta la sua relazione al suo sistema? Ciò sarebbe forse da utilizzare come mito in un dialogo»27. Così si ottiene (cosa che, per un altro verso, è fondata nell’individualità dell’intuizione religiosa), che l’intuizione dell’infinito si perde nel presentimento che, in tal modo, in ciascuno, l’essenza di questa intuizione si forma da capo e in modo differente28. Questa direzione del pensiero, che insegue l’infinito al di là di tutto il finito e delle sue contraddizioni, fino a dove i suoi contorni si perdono completamente, contrasta però con l’altra, che vuole vedere l’infinito presente nel
25
Reden, KGA I, 2, pp. 208-214, 223-235, 245-247. Ivi, p. 226. 27 Ivi, p. 226, 243; Gedanken V, KGA I,3, n. 60, p. 297. 28 Reden, KGA I, 2, pp. 215 ss. 26
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mondo finito dato. Dalla religione nascono insieme, in un tutt’uno, «amore e disprezzo di ogni cosa finita e limitata»29. «La religione vive tutta la sua vita nella natura infinita dell’intero, dell’Uno e Tutto; essa vuole osservare e presagire, in silenziosa dedizione, nel particolare, ciò che nella natura vale ogni singolo, e quindi anche l’uomo, e dove tutto, quindi anche l’uomo, vuole agire e rimanere in questo eterno fermento di forme ed essenze singole»30. «L’universo è in attività ininterrotta». I suoi modi di agire sono eventi, forme, fenomeni. Immagini cangianti, che cercano di esprimere modi di pensare molto diversi, come inerenza, emanazione, creazione, talvolta quasi intenzionalmente ammucchiate in modo contraddittorio, illustrano nei Discorsi questo punto enigmatico, nel quale l’infinito si individualizza31. L’infinto, scorto nella totalità dei suoi modi di agire, delle sue espressioni, delle sue forme, è l’universo, in altre parole, “l’intero”, “l’Uno e Tutto”. Se la religione è intuizione dell’infinito nel finito, allora, di conseguenza, l’oggetto della religione è l’universo così compreso. Allo stesso modo in cui si relazionano l’uno con l’altro il rappresentare e il suo oggetto, si relazionano anche l’intuizione religiosa e l’universo. Questa è dunque l’espressione preferita dei Discorsi32. Armonia e individualità nell’universo come espressione dell’infinito nel finito Procediamo ulteriormente nella concezione schleiermacheriana di questa presenza dell’infinto nelle cose finite. Bisogna comprendere in che modo, conformemente a questa concezione, si lascino determinare l’infinito e l’eterno. Visto a partire dall’infinito, quasi, per così dire, ritagliato fuori da esso, (un’espressione che richiama molto Spinoza), in quanto parte dell’universo, «il finito è esso stesso infinito». È “impronta”, “rappresentazione dell’infinito”. Questa affermazione corrisponde a quella precedente, che l’intuizione religiosa “vede l’infinito in tutto il finito”. L’infinita rappresentabilità dell’infinito nel 29
Ivi, p. 261. Ivi, p. 212. 31 Ivi, pp. 211-214. 32 Ed è anche l’espressione preferita di Hemsterhuis, ad esempio in Aristée (Oeuvres, 1825, I, pp. 197 ss.), già nota attraverso lo scritto di Jacobi su Spinoza. L’universo si identifica con “l’intero” e con l’espressione “uno e tutto”. Per quanto concerne la terminologia, si noti che l’espressione “Dio” viene usata per la concezione dell’infinito come libertà e persona. Già per questo non si può cercare qui la successiva distinzione dell’idea di Dio e dell’idea di mondo. 30
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finito costituisce lo sfondo metafisico di entrambe le affermazioni. È solo un suo ulteriore perfezionamento, se l’universo viene visto come “eterna opera d’arte”, come “armonia”, e il genio dell’umanità come un artista. È possibile qui vedere il nesso di una forma di apprensione dell’universo, che scorge nel “cosa” e “come” dei fenomeni l’espressione dell’infinito, e di un pensiero fondamentale, che pensa l’universo come armonia o come opera d’arte33. Chiariamo con Schleiermacher questo carattere universale dell’intuizione religiosa attraverso i casi che essa comprende in sé. Cosa appare nell’universo come una siffatta espressione dell’infinito? Appaiono la legge naturale, intesa come la rappresentazione «dell’unità divina e dell’immutabilità eterna del mondo»34; le anomalie e gli enigmi dell’ordine naturale che, connessi con la tendenza generale all’armonia nell’universo, alludono ad una più originale e più grande connessione dell’universo stesso; la tendenza più generale, che si realizza nella legge e nell’anomalia, di come, nella pienezza traboccante delle esistenze, ciascun singolo possiede i mezzi per seguire il proprio corso, in virtù di un intreccio sempre nuovo dei medesimi elementi; dietro a ogni esistenza singolare, poi, appare l’unità nell’antagonismo di forze viventi, che semplicemente si legano in modi sempre nuovi a un’esistenza particolare, così che, sotto questo punto di vista, l’individualità sembra una parola vuota, nella quale si nasconde sempre l’identico. Se guardiamo all’interiorità, troviamo la rivelazione dell’umanità infinita in ciascuno, anche nell’individuo più povero, a modo suo, in virtù dello stesso collegamento di opposizioni, e la scoperta dell’infinità, del microcosmo nel proprio intimo; l’unità e l’armonia nell’azione reciproca di tutti gli individui; l’inarrestabile sviluppo nell’umanità di tutto ciò che è barbaro, crudele, privo di forma fino alla formazione organica individuale. Dove queste intuizioni cessano, inizia un presentimento, davanti al quale stanno ancora ulteriori formazioni, nelle quali si espone l’infinito. Questo è il contenuto dell’intuizione religiosa dell’universo, che conferma e porta a realizzazione l’intuizione formulata in modo generico anche dai Discorsi: «il simbolo dell’universo», inteso come «natura infinita e vivente», è «molteplicità e individualità»35. Più precisamente l’espressione “individualità” indica, nei Discorsi, ogni esistenza singola, nella misura in cui essa è interpretata religiosamente dall’animo, cioè come espressione finita dell’infinito. Questa intuizione generale non è poi eliminata, bensì solo completata, dall’altra, per la quale l’occhio religioso vede, dietro ogni individualità, sempre lo stesso eterno gioco delle medesime forze e delle 33
Reden, KGA I, 2, pp. 211-213, 231. Ivi, p. 225. 35 Ivi, pp. 212-213. 34
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medesime leggi. Il reale (das Wirkliche) è individuale. Tutto ciò che è individuale è la particolare formazione delle stesse forze viventi nell’universo. Con queste affermazioni viene dunque infranta, grazie a un’intuizione originale, la barriera della metafisica spinoziana [e del concetto kantiano di ragione]. L’individualità non è semplice determinazione, limitazione dell’infinito. È piuttosto espressione, specchio dell’infinito, infinita essa stessa36. L’individualità in senso superiore, l’individualità umana, nasce da «quel matrimonio dell’infinito con il finito», che avviene quando, (secondo la rappresentazione mitica di Schleiermacher), «una parte della coscienza infinita si stacca e si collega, in quanto finita, ad un determinato momento nella serie delle evoluzioni organiche. Così nasce un nuovo uomo»37. Ogni uomo è individualità. Se uno volesse resistere dal fare ingresso nel mondo nella forma di questo o quel determinato uomo, e volesse essere, piuttosto, un uomo in generale, allora dovrebbe resistere alla vita stessa. Poiché però l’individualità è semplicemente un legame delle stesse forze che costituiscono l’essenza dell’umanità, allora l’uomo deve concepire se stesso come «un compendio dell’umanità». «L’intera natura umana, in tutte le sue rappresentazioni, non è niente altro che il vostro proprio Io, moltiplicato, determinato più chiaramente e reso eterno in tutti i suoi mutamenti. La religione, sotto questo punto di vista, è perfetta in colui presso il quale essa è tornata di nuovo a lavorare nell’interiorità, ritrovandovi l’infinito»38. Così nelle individualità umane l’infinito appare nell’espressione più eccellente a noi concessa. «Il raggio, sul quale noi usciamo dall’infinito e veniamo posti come essenze singole e particolari», è «la voce della coscienza, che dà a ciascuno la sua particolare vocazione, e attraverso la quale la volontà infinita affluisce nel finito». Questo processo di nascita viene visto anche come atto volontario, come un’opera della volontà. Quando cogliamo questa determinata individualità in noi, essa è un “pensiero”, in virtù del quale ci separiamo per «un’opera della divinità», «che deve rallegrarsi di una figura e di una forma particolari». Così (qui Schleiermacher non dice di più) l’individualità sembra comparabile, prima di tutto, a un atto volontario o a un pensiero nell’universo39. Come dicono i Discorsi, il genio dell’umanità “pensa” infinite forme. L’infinito regno di queste forme comprende ogni possibilità data dal cooperare delle due forze vitali dell’umanità, quella che si appropria del mondo esterno e quella che propaga il Sé. Il legame di questi due impulsi 36
Ivi, pp. 223-235; per il concetto di individualità cfr. pp. 211-213, 226-227, 232. Ivi, p. 306. 38 Ivi, p. 232. 39 Ath., 3, pp. 294 ss., SW III, 1, p. 534; Monologen, KGA I, 3, pp. 18, 42. 37
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originari nell’individualità corrisponde al posto che, più tardi, nella psicologia, occupano recettività (Rezeptivität) e spontaneità (Spontaneität). Nella vita di ogni membro di questo regno infinito c’è un momento, quasi un lampo argenteo, nel quale esso raggiunge la sua destinazione (Bestimmung). In questo momento egli è ciò che può essere. L’intuizione di sé (Selbstanschauung), l’organo della formazione morale, si sprofonda in questo pensiero dell’universo, in questo Sé tenace, per non perderlo mai più. Essa è così una salda vita eterna. Poiché in questa intuizione, nella quale il Sé persistente è al contempo facoltà comprendente e oggetto, non c’è alcun cambiamento; non c’è alcuna coscienza di un mutamento, quindi nessun corso temporale: poiché, «per l’oggetto che rimane, la considerazione non sparisce, né l’oggetto muore a fronte della considerazione che sopravvive»40. Addirittura, occupati in questa intuizione di noi stessi, siamo eterni nel singolo momento. Poiché, in quanto del tutto svincolato da qualsiasi attimo precedente o successivo, questo momento non è in alcun modo una parte del tempo. La relazione immediata all’eterno e all’infinito è l’intero contenuto dell’attimo che si realizza completamente. Noi siamo perciò «eterni in un attimo»41. In tal modo l’individualità entra nel regno dell’eternità, al quale l’umanità appartiene con l’articolazione dei suoi scopi. «Ogni volta che rivolgo lo sguardo alla mia interiorità, mi ritrovo al contempo nel regno dell’eternità; contemplo l’agire dello spirito, che nessun mondo può mutare e nessun tempo può distruggere, poiché esso solo crea mondo e tempo»42. Così comprendiamo l’unità eterna di «tutti gli scopi, che sono posti all’umanità dalla sua essenza, di tutti i doveri dello spirito»43. Bisogna tuttavia considerare anche che l’umanità, secondo la sua determinazione spazio-temporale, è tuttavia solo una forma passeggera dell’universo. Lascio formulare al lettore a suo modo (non riesco a esprimere oggettivamente, infatti, questa precisa intuizione di Schleiermacher) come in questo pensiero dell’eterno si prepari già l’articolazione dei fini che riposano nell’essenza dell’umanità, tra i quali anche le idee individuali, progettata dall’etica. A tale scopo alcune espressioni possano solo fare da guida. La religione contempla cosa vale tutto ciò che è singolo in questa «infinita natura del tutto», e quindi anche l’uomo. Comprendendo “il doppio senso” dell’esistenza individuale in relazione alla totalità (individualità, intesa come l’infinito che si rappresenta in sé e come mezzo per aiutare la vita e lo spirito 40
Ivi, p. 14. Reden, KGA I, 2, p. 247. 42 Monologen, KGA I, 3, p. 13. 43 Ivi, op. cit., p. 44; Reden, KGA I, 2, pp. 229-230.
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a ottenere la signoria nella totalità), la religione si riempie con «l’armonia eterna dell’universo». «Nell’infinito tutti gli elementi finiti stanno indisturbati gli uni accanto agli altri, tutto è uno e tutto è vero»44. Questo infinito, nel quale l’umanità sa di affermarsi nel proprio valore eterno, l’universo, Schleiermacher lo chiama anche «spirito del mondo» (Weltgeist). Ed egli descrive la giusta disposizione d’animo nei suoi confronti come segue: «amare lo spirito del mondo e guardare felici il suo agire è lo scopo della nostra religione». In un’unica intuizione è concentrato il carattere originale di questa visione dell’infinito45.
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Intuizione di sé e intuizione dell’universo: Monologhi e Discorsi «Intuizione di sé e intuizione dell’universo sono concetti interscambiabili», osserva Schleiermacher nei primi appunti per i Monologhi 46. Solo dall’intuizione di sé nasce la piena e vera intuizione dell’universo; e solo dal punto di vista dell’universo il Sé viene compreso nel suo vero valore come un pensiero eterno. Come dicono i Discorsi: «solo attraverso la vita interiore diventa comprensibile quella esteriore; anche l’animo (Gemüt), se deve produrre e dare nutrimento alla religione, deve essere intuito all’interno di un mondo». Si tratta solo di differenti aspetti del medesimo processo, che indichiamo come intuizione di sé e intuizione dell’universo47. L’intuizione di sé permette di scorgere nell’individualità l’espressione e lo specchio dell’infinito. L’intuizione dell’universo, invece, vorrebbe «far tramontare i contorni della nostra personalità nell’infinito», e così «annientare l’individualità». È questa la doppia tendenza insita nell’intuizione dell’infinito che si realizza in questi due lati del processo intuitivo. A tale proposito il diario del 1801 dice: «Che non si possa avere individualità senza personalità è il materiale elegiaco della vera mistica»48. Nell’intuizione di sé e mediante essa si realizza il processo morale. Nell’intuizione dell’universo consiste invece il processo religioso. Quello, per così dire, emerge davanti allo sguardo del lettore nei Monologhi, questo nei Discorsi. In entrambi i processi viene esperita, nell’intuizione, la relazione metafisica fondamentale dell’universo e dell’individualità. Con più precisione: 44
Ivi, pp. 211-212, 217, 230-232. Ivi, p. 224. 46 Gedanken III, KGA I, 2, n. 34, p. 127. 47 Reden, KGA I, 2, pp. 227-228; cfr. Monologen, KGA I, 3, p. 12. 48 Reden, KGA I, 2, pp. 246-247; Gedanken V, KGA I, 3, n. 3, p. 283. 45
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il processo religioso percorre l’universo, per così dire, a partire dal finito, verso intuizione e sentimento dell’infinito; il processo morale, al contrario, a partire dall’universo, procede verso intuizione e formazione (Bildung) dell’individualità umana. Entrambi i processi comprendono in sé, dunque, un’intuizione del misterioso punto di contatto nel quale infinito e individuo, nel medesimo tempo, sono tutt’uno e si separano, punto nel quale nasce l’individualità umana. Questo punto deve mostrarsi all’intuizione in modo completamente diverso nell’uno e nell’altro processo. L’opposizione di questi due processi è già chiaramente espressa nei Discorsi, dove viene toccato il limite del processo religioso e la sua differenza da quello morale. La religione coglie l’uomo al di là della sua personalità, «lo vede a partire dal punto di vista dal quale egli deve essere ciò che è, lo voglia o no»49. Essa vede nell’uomo una necessaria espressione dell’infinito, per essa ogni finito è propriamente solo «un’azione dell’universo», un prodotto, un’individualizzazione, un’emanazione della sua «attività ininterrotta»: si tratta di intuizioni, accostate l’una all’altra, per indicare questo inizio misterioso della molteplicità nell’Uno50. Il processo morale parte invece dalla libertà. Per esso l’origine dell’individualità sta in un primo atto metafisico della libertà, in una prima opera metafisica della volontà. Questo primo atto, per parlare con Fichte, questo atto originario della libertà è un processo all’interno di quell’«agire dello spirito, che solo crea mondo e tempo»51; l’«umanità eterna», dicono i Discorsi usando la stessa personificazione kantiano-fichtiana, «è instancabilmente occupata a creare se stessa»52. Questo atto è la condizione dell’esistenza singola: in esso l’esistenza singola decide ciò che vuole diventare, limitando così se stessa in una determinata natura. L’individuo ha il compito morale di comprendere e di affermare, nell’intuizione di sé (Selbstanschauung) e nell’azione (Handlung), questa decisione metafisica della volontà. «Ogni azione è un particolare sviluppo di questa volontà unica»53. 49
Reden, KGA I, 2, p. 212. Ivi, pp. 214 ss. Cfr. la chiara teoria della causalità divina assolutamente libera da spazio e tempo: Der christliche Glaube, KGA I, 7. 1, pp. 195 ss.; KGA I, 13.1, pp. 312 ss. 51 Monologen, KGA I, 3, p. 13. 52 Reden, KGA I, 2, p. 229. 53 Monologen, KGA I, 3, p. 42; cfr. anche Reden, KGA I, 2, pp. 229, 306. Questi passi mostrano chiaramente che questo duplice pensiero metafisico non è una contraddizione tra Discorsi e Monologhi, bensì una consapevole esposizione del doppio punto di vista sotto il quale appare la relazione metafisica fondamentale, che rimane appunto «un fatto inafferrabile». Nei Monologhi trovo espresso senza dubbio il pensiero di un atto metafisico volontario come origine della nostra individualità, p. 42: «L’impossibilità sta solo nella limitazione della mia natura attraverso il primo atto della mia libertà: soltanto ciò a cui ho rinunciato, quando ho deciso chi volevo diventare, solo questo non posso»; poi, a p. 18, dove l’individualità viene indicata 50
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Le due intuizioni di questo punto enigmatico, nel quale l’infinito e l’individuo umano sono un’unica cosa e, al contempo, si separano, non parevano a Schleiermacher la soluzione di questo problema di tutti i problemi. Così dice la critica a Fichte: «ora l’Io sa che non c’è merito né colpa nel particolare, bensì solo nel fatto che si è ciò che si è; sa che anche con l’utilizzo di tale concetto esso cade nell’assolutamente inafferrabile e si acquieta in ciò»54. La filosofia trascendentale, così mi sembra l’idea di Schleiermacher, tocca, nell’intuizione di un atto primo, di un atto volontario dello spirito puro, il suo limite critico: la mediazione di questa intuizione con quella più ampia delle azioni dell’universo, che potrebbe essere completata solo tramite concetti, sta al di là di ogni conoscenza concettuale: l’unione di infinito e finito nell’individuo spirituale è un «fatto inafferrabile»55. La nuova visione del mondo e della vita e il futuro sistema Nell’intuizione, nell’amore dell’universo, nella presenza dell’infinito nel finito, che riempie tutto l’animo, Schleiermacher vede la vera condizione per un nuovo realismo (neuer Realismus). La descrizione della filosofia che sussiste già accanto alla religione è presa a prestito ora da questo ora da quel sistema [filosofico] contemporaneo; la vera filosofia, il sistema del futuro, il cui modello è Spinoza, è il realismo, fondato sull’intuizione religiosa. Sull’intuizione riposa la saldezza del concetto, sulle intuizioni dell’infinito la verità del pensiero filosofico. L’intuizione religiosa dell’infinito nel finito deve essere separata da ogni arzigogolare «sulla natura e sulla sostanza del tutto», «su un’esistenza di Dio prima del mondo e fuori di esso». Non vi è alcuna dogmatica religiosa. I dogmi, o principi dottrinari, sono solo «espressioni astratte di intuizioni religiose» o «libera riflessione sui doveri originari del senso religioso» o «risultati di una comparazione della visione religiosa con quella generale». Conformemente a ciò questi principi, compresi critica-
come «la natura che decide da sé la libertà». Al contrario lo strano passo a p. 18 può essere interpretato in maniera duplice, metafisica o fenomenica: cfr. anche Monologhi, pp. 12-13; Discorsi, p. 229. Una conferma del fatto che nei Monologhi non viene meno la concezione dei Discorsi, sta in Discorsi, p. 306 e nella conclusione della critica alla Destinazione dell’uomo di Fichte, Ath., 3, p. 294, ora in KGA I, 3, p. 247, composta nell’estate del 1800 dopo i Monologhi, con linguaggio fichtiano: «ora l’Io sa che la voce della coscienza, che gli prescrive la sua particolare vocazione e attraverso la quale la volontà infinita si immerge nel finito, è il raggio nel quale noi proveniamo dall’infinito e veniamo posti come esseri singoli e particolari». 54 Ath., 3, p. 294, ora in KGA I, 3, p. 247. 55 Reden, KGA I, 2, p. 306.
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mente in concetti come semplici rappresentazioni del processo religioso, non contraddicono la scienza reale né possono essere da essa fondati 56. Si cerca invano, cioè, l’accenno a una scienza fondata nella riflessione sul processo religioso: i concetti che emergono attraverso questa riflessione vengono attribuiti alla religione57. Così Schleiermacher, fatta salva la radicale differenza nella relazione della religione con la filosofia e in quella successiva della religione con la dogmatica, sembra non aver ancora dato alla dogmatica, in questo periodo, il suo significativo posto tra la mistica religiosa e il sistema filosofico; egli non era, infatti, allora, così critico come fu in seguito, né così teso a salvaguardare una relativa indipendenza della speculazione, e perciò, per lui, la speculazione era fondata sull’intuizione mistica dell’infinito. Il pensiero metafisico fondamentale dell’intera famiglia di filosofie, alla quale appartiene anche quella di Schleiermacher, cioè il pensiero dell’identità, emerge in modo occasionale, ma con la forza di una verità evidente. «[Gli uomini] conoscono certo», dicono le Lettere sulla Lucinda, «il corpo e lo spirito e l’identità di entrambi, e questo è l’intero segreto»58. I Monologhi rappresentano la relazione del mondo spirituale con il mondo dei corpi attraverso l’immagine della relazione di corpo e anima59. Solo nel 1801 e nel 1802 si trovano inizi, pur ancora incerti, di un’articolazione della filosofia a partire da questo punto di vista. Dopo il 1802 Schleiermacher rinviene il fondamento della visione filosofica del mondo nella connessione della filosofia trascendentale di Fichte con il proprio realismo religioso. «L’uomo sa dell’attività dell’Io e della sua ricettività apparente come prodotto di questa attività. Egli crede che questa attività sia in armonia con l’elemento impenetrabile del mondo esterno. Questo sapere e questo credere
56 Ivi, pp. 214 ss., 239 ss., 252 ss. A p. 214 il trasferimento dell’analisi della natura e della sostanza del tutto dalla dogmatica alla filosofia sarà una forma retorica. Cfr. p. 213: «perciò tutto deve derivare dall’intuizione, e chi non ha il desiderio di intuire l’infinito non possiede nessuna pietra di paragone e non ne ha neppure bisogno, per sapere se a tale riguardo ha pensato qualcosa di giusto». 57 Ivi, pp. 239-240. 58 Vertraute Briefe über Friedrich Schlegels Lucinde, KGA I, 3, p. 193. 59 Non intendo comunque unire i passi dei Monologhi alle pagine 9-11, 25, 29 e di Ath., p. 240, con quelli delle Lettere sulla Lucinda. Già le semplici parole dei Monologhi a p. 10, «l’agire procede sempre da me verso il mondo dei corpi, esso non è qualcosa di diverso da me, che mi si opponga», contengono per me già una contraddizione. Sebbene singoli passi dei Monologhi siano interpretabili nel senso dell’idealismo fichtiano, lascio aperta la questione. Altrettanto poco dell’idealismo di Fichte deve essere presupposta necessariamente in qualche passo l’identità nel senso di Spinoza, secondo la quale spirito e corpo sono la medesima cosa, espressa in differenti attributi.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
si impongono nel divinare del mondo, che è la somma filosofia»60. Ma in questo periodo Schleiermacher andava ormai sviluppando, in relazione alla critica di Schelling, la propria concezione della fisica e dell’etica, intese come le due scienze reali (reale Wissenschaften) basate sulla filosofia elementare61. Nel più ristretto ambito dell’etica si mostra la medesima concezione. Le intuizioni reali creative sono già a disposizione. Il secondo monologo anticipa l’opposizione dell’agire morale identico (identisches sittliches Handeln), uguale in ogni cosa, e di quello individuale (individuelles Handeln). I Discorsi parlano già «dell’originaria coscienza della nostra doppia attività, quella che domina e agisce verso l’esterno e quella che rappresenta e semplicemente riproduce (zeichnende, nachbildende Tätigkeit)». Addirittura l’intero ideale di cultura esposto nell’etica appare già nelle parole dei Monologhi: «le masse di materia corporea» sono per me «solo il corpo comune dell’umanità: a essa spetta dominarlo, annunciarsi per suo tramite. Il libero agire dell’umanità è volto ad esso, per sentirne tutte le pulsazioni, per formarlo, per trasformare ogni cosa in organo e per contrassegnare (zeichnen) tutte le sue parti con la presenza dello spirito sovrano e vivificarle». Mentre, in tal modo, sono preparate le intuizioni reali per l’articolazione della teoria dei beni, i primi tentativi di progettarla emergono non prima del 180062.
III. Spiegazione e chiarificazione di questa visione del mondo a partire da Spinoza, Leibniz e Platone Analisi dello spinozismo dei Discorsi sulla religione Se dalla precedente visione schleiermacheriana (nella misura in cui sia possibile considerarla unitaria) si volge lo sguardo a questa [dei Discorsi e dei Monologhi], risulta evidente che in quella l’approfondimento concettuale trovava molti ostacoli. Alla teoria del determinismo aderiva ancora la polvere della scuola leibniziana, il pregiudizio della teoria della rappresentazione di Wolff; Spinoza si ingarbugliava nelle difficoltà dei concetti di sostanza e inerenza; Kant si metteva in difficoltà attraverso i suoi teoremi di spazio e tempo e di uniforme ragion pratica. Qui invece, nei Discorsi e nei Monologhi, è presentata in forma intuitiva, con l’originale sicurezza della maturità, una 60
Gedanken V, KGA I, 3, n. 72, p. 300. Ivi, n. 58, p. 296; n. 71, 72, p. 300; n. 107, p. 310. Da Reden, KGA I, 2, pp. 263 ss. non oso ricavare un’articolazione della filosofia basata sulla mistica. 62 Monologen, KGA I, 3, pp. 9-10; Reden, KGA I, 2, pp. 220-221; Gedanken V, KGA I, 3, n. 132, p. 316. 61
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LA VISIONE DEL MONDO E DELLA VITA DEI DISCORSI E DEI MONOLOGHI
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visione fondamentale relativamente semplice. Lì si vede una straordinaria perspicacia lottare con un problema dopo l’altro, senza che, per quanto testimoniano le nostre fonti, i risultati concorrano a un’intuizione unitaria; il sommo bene (das höchste Gut) è la totalità delle azioni che sono stabilite nell’idea morale; la facoltà morale, che giace al fondo di questa realizzazione dell’idea morale, sottostà a una legge psicologica; il suo ideale è l’armonia di conoscere e desiderare, il segno di quest’armonia è il piacere (Lust). Con tutto ciò è negata l’edificazione di un mondo sovrasensibile sui fatti morali, che era stata invece intrapresa dal sistema di Kant; l’idea della felicità, per Schleiermacher, va esclusa da quella del sommo bene (das höchste Gut), la libertà come arbitrio non è un postulato morale, le stesse deduzioni kantiane sono insostenibili. In primo luogo, al posto della costruzione del mondo sovrasensibile a partire dai fatti morali, subentra il risultato della critica della ragione, purificato con l’aiuto di Spinoza: ritorno dall’individuo rappresentante e dai fenomeni come suoi oggetti a un assoluto, che in una perfetta immediata non rappresentabilità, possiede un’infinita rappresentabilità mediata, cioè possiede capacità di rappresentazione e di estensione: ad esso, in qualche modo, inerisce il mondo degli individui e dei fenomeni finiti. In secondo luogo, si fa strada la libera vita emotiva (Gemütsleben) della religione. Qui però, nei Discorsi e nei Monologhi, tutto ciò è astratto dal compito di realizzare questa connessione di concetti scientifici in un sistema in sé chiuso e fondato su concetti. Sulla base del lavoro svolto fino al 1796 e di un successivo approfondimento, che ricorse anche all’opera di Spinoza, di Leibniz, e al sistema di Fichte, in mezzo agli stimoli più liberi esercitati dalla vita, dalla poesia, dalla società, in connessione con lo sforzo comune di giovani compagni, derivò a Schleiermacher una concezione intuitiva della sua visione del mondo e della vita: essa si presenta come se fosse svincolata dal passato e la sua esposizione fluttua nel chiaroscuro artistico. Da ciò consegue che la visione del mondo nei Discorsi e nei Monologhi ottiene una spiegazione decisiva, se si tenta di chiarire le sue relazioni al passato e di guardare in tal modo alla sua nascita. Le relazioni storiche con il passato. Eclettismo e originalità Le relazioni storiche all’interno delle quali nacquero i lavori giovanili di Scheleiermacher si svilupparono in forma più matura. La relazione con Kant fu riformata essenzialmente tramite la comparsa di Fichte. Al periodo tra il 1796 e il 1799 risale l’incontro con l’etica di Spinoza. Friedrich Schlegel, che aveva lasciato Berlino nell’estate del 1799, si fece spedire da Schleiermacher,
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
nel settembre del 1800, lo Spinoza che apparteneva a questi, per ricordarsi dell’amico leggendo l’esemplare schleiermacheriano dell’opera postuma di Spinoza63. Dunque Schleiermacher non solo ha conosciuto il vero Spinoza prima dell’elaborazione dei Discorsi, bensì se ne era già procurato un’edizione (cosa non facile prima dell’edizione Paulus). Proprio Friedrich Schlegel allude all’intenzione di Schleiermacher «di fare qualcosa per Spinoza»64. L’effetto che Spinoza esercitava su di lui doveva essere quindi entrato in un nuovo stadio. Anche il suo studio di Leibniz ritornava in questi anni, in vasta misura, alle fonti; Schleiermacher lavorava, tra l’altro, attingendo all’edizione di Dutens, alla biografia del Joucourt, alle lettere a Bourget; e con Friedrich elaborò, nel 1797 o nel 1798, il progetto di uno scritto su e contro Leibniz65. Le annotazioni per questo progetto, che ho ordinato e ricomposto, testimoniano una profonda acutezza storica, ma anche mancanza di congenialità e intenzioni da polemista66. Esse mostrano inoltre dove l’influsso di Leibniz comincia ad essere positivamente fruttuoso. Sempre più importante diventava la relazione di Schleiermacher con Platone, che in futuro fu decisiva. Mentre, a partire dal 1800, diminuì l’influsso di Spinoza, fino al confronto, quasi ostile, svolto nella Storia della filosofia, crebbe costantemente da allora quello di Platone. Fin dai primi anni di studio, a Barby e a Halle, era emerso entusiasticamente il sentimento di un’affinità elettiva: «ho capito così poco Platone, quando lo ho letto per la prima volta, che spesso mi aleggiava davanti agli occhi soltanto un oscuro barlume, e, tuttavia, già allora lo ho ammirato e amato»67. Durante la scrittura dei Discorsi Schleiermacher cercava di accordarsi con lo stile di Platone68 e allora, nell’aprile del 1799, Friedrich Schlegel concepì l’idea di tradurre insieme a lui Platone. Lo schema della nuova visione schleiermacheriana è, per così dire, formato a partire da Spinoza. Ma per comprendere correttamente l’intera relazione dei fattori storici, un lettore dei Discorsi e dei Monologhi deve considerare che rimangono sullo sfondo, in queste opere, il punto di vista critico e il compito di un’articolazione della scienza a partire da esso, in particolare dell’etica. Ogni ipotesi di un passaggio di Schleiermacher allo spinozismo o al fichtismo si ferma all’apparenza esteriore.
63
Cfr. KGA V, 3, Lettera di Friedrich Schlegel, 20 settembre 1800, n. 952, pp. 265-266. KGA V, 3, Lettera di Friedrich Schlegel, 10 marzo 1800, n. 808, p. 413; KGA V, 3, Lettera di Friedrich Schlegel, 28 marzo 1800, n. 824, p. 443. 65 Leibniz I, KGA I, 2, pp. 77 ss. 66 Ivi, pp. 78 ss. 67 KGA V, 6, Lettera a Henriette Herz, 10 agosto 1802, KGA V, 6, n. 1294, p. 70. 68 KGA V, 3, Lettera a Henriette Herz, 1 aprile 1799, n. 606, pp. 60-61. 64
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LA VISIONE DEL MONDO E DELLA VITA DEI DISCORSI E DEI MONOLOGHI
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Al concorso delle relazioni storiche si aggiungono due intuizioni schleiermacheriane originali e veramente creative, attinte dalla vita stessa e dalla sua osservazione incessante. Solo grazie al loro influsso nasce la concezione del mondo di Schleiermacher. Su questo punto si innesta l’esposizione della vita che abbiamo condotto fino ad ora. Dalla sua predisposizione religiosa, dalla sua vita interiore, fin dall’epoca passata nella comunità dei Fratelli, dalla sua vocazione, dal legame della sua genialità religiosa con la rigorosa grandezza raggiunta nella scienza e nell’arte, derivò il fatto che Schleiermacher riconoscesse di nuovo il significato e l’essenza della religione, naturalmente all’interno di precisi limiti. La storia della sua formazione morale, le condizioni della società, le intuizioni dei poeti e il modo in cui tutto ciò fu afferrato dal suo sguardo penetrante e riflessivo, fecero sì che egli riconoscesse subito il posto dell’individualità nel mondo, nella vita, nel sistema, senza che io sottovaluti i limiti in cui ciò avvenne. È proprio del genuino filosofo saper esporre condizioni, sentimenti, impulsi scientifici dell’epoca con sicura chiarezza concettuale, come se essi, catturando i contemporanei, giungessero per la prima volta a salda coscienza. «Il mio modo di pensare», così spiegò Schleiermacher una volta a Sack riguardo alla visione dei Discorsi e dei Monologhi, «non ha altro fondamento che il mio carattere, la mia mistica innata, la mia formazione proveniente dall’interiorità»69. Non che egli volesse escludere con ciò gli effetti provenienti dall’esterno: egli indica piuttosto la legge interiore della sua essenza, conformemente alla quale egli rifiutava, accoglieva, trasformava ciò che entrava nel suo orizzonte.b Relazione con Spinoza. Lo spinozismo dei Discorsi Spinoza è a tal punto fuso nella visione del mondo di Schleiermacher, che avrei potuto documentare come la maggior parte delle intuizioni esposte nei Discorsi sono presenti nell’Etica di Spinoza e tuttavia non avrei potuto chiarirne nessuna semplicemente a partire da essa. Se le grandi correnti spirituali continuano ad agire nella memoria grandiosa, bisognosa tuttavia di concentrazione, della scienza creativa, attraverso una specie di rappresentazione, proprio come le immagini singole continuano ad agire nelle rappresentazioni generali di una cosa o nei concetti, così l’intera mistica e la filosofia del panteismo, per Schleiermacher, erano presenti nella forma che Spinoza aveva dato loro, allo stesso modo in cui Platone rappresentava per lui la visione artistica del mondo nell’antichità. 69
Br. III, p. 285. Lettera di Schleiermacher a Sack, senza data.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
Nell’universo un infinito indifferenziato è causa immanente di tutte le cose particolari, che appaiono in spazio, tempo, mutamento, nella concatenazione di cause ed effetti ed esprimono nella loro molteplicità infinita l’essenza di Dio, la sua interiore realtà e perfezione70: questa connessione di concetti metafisici spinoziani si ritrova nelle corrispondenti intuizioni schleiermacheriane di un universo nel quale l’infinito, l’uno, l’eterno viene concepito come causa immanente di tutte le singole cose finite (quasi come loro modo di agire), che appaiono in spazio, tempo, nel concatenarsi di cause ed effetti, ed esprime l’infinito nella sua pienezza e fecondità71. Seguiamo, a partire da qui, l’accordo tra Schleiermacher e Spinoza. Spinoza distingue tra la concezione della singola cosa finita nel suo nesso causale finito e della durata da esso determinata, e la concezione della singola cosa come effetto immanente della sostanza divina, che la sostiene e la determina come essenza ed esistenza72. Schleiermacher distingue tra la concezione del finito, come qualcosa che sta in azione reciproca con la nostra facoltà intuitiva e con l’altro finito, e la concezione del finito come di un’azione, di un atto dell’universo, di cui esso stesso è espressione73. Spinoza indica questa seconda concezione come intuitiva (intuitiv), cioè volta al singolare, e il suo risultato come comprensione sub specie aeternitatis74; egli distingue però questa eternità dalla semplice durata priva di inizio e di fine, così come distingue l’infinità dalla mera mancanza di fine o, come si è indicato successivamente, dal “cattivo infinito”. Perciò, secondo lui, concepiamo le cose particolari sotto la forma dell’eternità, quando le comprendiamo a partire dalla loro causa immanente, dall’essenza eterna e infinta di Dio, nella quale è contenuta l’essenza propria delle cose finite75. Schleiermacher indica la corrispondente facoltà superiore, contrapposta alla conoscenza delle relazioni del finito, come intuizione; anche per lui essa è il risultato della stessa intuizione dell’infinito, dell’eterno nel finito; anche per lui l’eternità non è durata senza inizio e senza fine, l’infinito non è esteriore mancanza di limite: l’uomo può essere eterno nel singolo momento. È inevitabile interpretare l’intuizione del70
Cfr. Spinoza, ep. 29; Eth., 1 prop. 17, scholion. Prop. 18, 25, corollarium; prop. 28; Appendix del primo libro, conclusione. 71 Reden, KGA I, 2, pp. 202, 211-215, 225-226. L’espressione “causa immanente” non è uguale a quella dei Discorsi, ma riassume il senso preciso di ciò che è lì sviluppato alle pp. 213-215; si può osservare che l’espressione sopra usata “comprensione dell’infinito nel finito come sua causa immanente” non dice nulla sulla questione se l’infinito sia solo causa immanente o abbia un’esistenza particolare riferita a se stessa. 72 Spinoza, Eth., 1, 28-25 corollarium 26, 27, 29 scholion. 73 Reden, KGA I, 2, pp. 211-214. 74 Spinoza, Eth. 2, 40 scholion 2. – Eth. 5, 24, 36 scholion. 75 Spinoza, Eth., 5, 28 ss.
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LA VISIONE DEL MONDO E DELLA VITA DEI DISCORSI E DEI MONOLOGHI
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l’eterno e dell’infinito in Schleiermacher, che non può essere del tutto chiarita dai Discorsi e dai Monologhi, a partire dai concetti di Spinoza: egli la attinse, infatti, da questa fonte76. Ciononostante non si può parlare dell’affinità tra le due prospettive, senza mettere in luce, con maggior decisione, la differenza. Presentiamo dapprima l’ultimo punto di tale affinità. La conoscenza intuitiva dell’universo è, secondo Spinoza, nello stesso tempo, amore gioioso per esso, che non necessita di alcun contraccambio né di alcun guadagno, che non conosce paura; esso è detto anche pietas o religio77. L’intuizione dell’universo è, secondo Schleiermacher, anche e sempre sentimento; «amare lo spirito del mondo e contemplare felicemente il suo agire, questo è lo scopo della nostra religione, e nell’amore non vi è paura»78. Così riassumeva Schleiermacher la mistica comune, che lo vincolava a Spinoza: «Spinoza era pervaso dall’alto spirito del mondo, l’infinito era suo principio e sua fine, l’universo il suo unico ed eterno amore»79. Tutti i concetti fondamentali di Spinoza furono però trasformati a partire dai pensieri originali di Schleiermacher.c Trendelenburg ha dimostrato che l’elemento caratteristico, sul quale si basa la specificità del sistema spinoziano rispetto agli altri, è la concezione degli attributi o proprietà di Dio80. Secondo l’originale concezione di Spinoza, in virtù dei due attributi del pensiero e dell’estensione, la medesima essenzialità della sostanza e la medesima essenzialità del modo vengono semplicemente espresse in differenti maniere81. Da qui segue che l’estensione è un attributo di Dio, un’espressione della sua essenza. La concezione schleiermacheriana diverge in due punti decisivi da questa teoria degli attributi. Solo nel fondamento trascendente sta per Schleiermacher la reale identità delle opposizioni di spirito e natura presenti nell’esistenza finita. Queste opposizioni sono perciò, secondo lui, esse stesse reali (real), ma si relazionano le une alle altre, in ogni esistenza particolare, in differenti combinazioni82. In questa relazione delle opposizioni, in modo nettamente diverso rispetto al sistema spinoziano, è fondata la possibilità di una crescente signoria dello spirito sulla natura, e con ciò di un’etica reale (wirkliche Ethik). Anche nei Discorsi e nei Monologhi anima e corpo non si relazionano come pensiero ed estensione, come differenti espressioni del medesimo modo di un’unica sostanza, senza relazione 76
Monologen, KGA I, 3, pp. 13, 18; Reden, KGA I, 2, pp. 229-230. Eth., 5, 27 ss.; cfr. scholion 41. 78 Reden, KGA I, 2, pp. 218 ss., 224. 79 Ivi, p. 213. 80 Trendelenburg, Historische Beiträge, II, pp. 1 ss.; III, pp. 362 ss. 81 Spinoza, Eth., 1, 10, scholion, Ep. 27. 82 Schleiermacher, Dialektik, WW III, 4, 2, pp. 75-77, 397. 77
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
causale l’uno all’altra, come avviene in Spinoza. Piuttosto, anima e corpo vengono pensati nella loro vivente relazione reciproca e questa relazione viene trasposta nel legame di spirito e materia presente nell’universo. Dunque la visione del mondo di Schleiermacher condivide con quella di Spinoza la collocazione dell’infinito al di là dell’opposizione di pensiero e mondo dei corpi. Essa nega, allora come in seguito, insieme a Spinoza, ogni riduzione di uno dei due membri di questa opposizione all’altro, ma rifiuta la versione di questo pensiero contenuta nella dottrina degli attributi di Spinoza. E il primato del pensiero, che si nasconde al fondo della sua etica, è espresso in questo periodo in modo chiaro e forte83. Si configurava in una più salda forma, già allora, l’opposizione schleiermacheriana contro la relazione dell’infinito alle proprie modificazioni come la pensava Spinoza. Spinoza deduce dall’infinito, ottenendo così un infinito. L’essenza infinita di Dio e delle sue proprietà viene espressa in affezioni, in forme e modi di questa. La totalità di queste affezioni, nella misura in cui esse vengono concepite a partire dalla causa immanente che le sostiene, quindi sotto la forma dell’eternità, è infinita. La causa immanente è, per sua natura, infinita, mentre l’essenza delle sue affezioni lo è in virtù di questa causa. Per il modo di considerare dell’immaginazione (Imagination) questa essenza va in pezzi84. Vi è qui un limite nel sistema spinoziano, la cui eliminazione è il punto cruciale del suo ripensamento da parte di Schleiermacher. L’infinità è affermazione incondizionata. Perciò la sostanza è infinita85. La determinazione esprime dunque un non essere, è una negazione86. Essa produce imperfezione; poiché l’essere è perfezione, il non essere è imperfezione87. Da ciò deriva una tale opposizione tra infinito e determinazione, in virtù della quale le singole cose avanzano le une accanto alle altre, che solo l’inadeguata intuizione dell’immaginazione (Imagination) sembra poter portare determinazione, durata, tempo, massa spaziale, nascita e morte all’interno della totalità infinita di affezioni di quella causa immanente 88. La differenziazione dell’essenza eterna delle cose in Dio e della loro esistenza nella limitazione reciproca delle cose passeggere non risolve la tensione, all’interno del sistema, di questa tendenza
83 Monologen, KGA I, 3, p. 10; cfr. Rezension von Johann Gottlieb Fichte: Die Bestimmung des Menschen, KGA I, 3, pp. 235 ss. 84 Spinoza, Eth., 1, 25. 85 Ivi, 1, 8 scholion 1. 86 Ep. 50. 87 Ep. 41. 88 Ep. 29; Eth., 2, 44 corollarium 1.
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LA VISIONE DEL MONDO E DELLA VITA DEI DISCORSI E DEI MONOLOGHI
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con l’altra, che esige la realtà delle singole cose. Dall’insolubilità del problema nascono ovunque contraddizioni. La visione schleiermacheriana differenzia allo stesso modo l’infinto in sé da ciò che è infinito in quanto espressione e rappresentazione dell’infinito, dell’infinito nel finito (per dirla con Spinoza: in virtù della sua causa). Anch’essa differenzia l’essenza delle cose fondate nella causa immanente, nella misura in cui esse sono in lei, dalla loro esistenza nell’azione reciproca. «Nella misura in cui il singolo viene a sua volta relazionato a qualcosa di singolo e finito, l’uno può certo distruggere l’altro attraverso la sua esistenza; nell’infinito invece ogni finito sta accanto all’altro indisturbato, tutto è uno e tutto è vero»89. La mistica di Schleiermacher evita il tentativo infruttuoso della deduzione. E il suo più profondo concetto di individualità lo libera dal pensiero fatale di questa deduzione presente invece in Spinoza, cioè dal pensiero che ogni determinazione sia esclusivamente negazione. Se questa liberazione fosse stata veramente radicale, dalla grandezza della sua visione del mondo e della vita sarebbe nato un sistema, che ci avrebbe risparmiato innumerevoli errori. Ciò non doveva accadere. Le linee cabalistiche di Spinoza rimangono, infatti, incise nel pensiero di Schleiermacher. Ma l’idea dell’individualità almeno lo portò così lontano, che egli vi rinvenne l’espressione positiva, lo specchio dell’universo. In questa relazione emerse per Schleiermacher, al posto del legame della causa immanente, in sé infinita, con la totalità delle sue affezioni, concepita da Spinoza come unità, il legame dell’universo con l’individualità. Ciò che era morto in questo sistema veniva così superato. A ciò lo condusse specialmente lo schema dell’arte e della considerazione artistica, che proprio nella forma individuale imprime il contenuto dell’infinito. Schleiermacher scorse il limite di Spinoza soprattutto nel fatto che gli mancavano intuizione poetica e senso artistico. A tutto questo si aggiunse, infine, il sentimento orgoglioso dell’autonomia della persona, fondato nella parte pratica della filosofia critica di Kant e nel pensiero di Fichte. Così questa concezione della relazione metafisica fondamentale sfocia provvisoriamente nell’equilibrio della dedizione religiosa all’universo e del sentimento morale della libertà. Aggiunta degli influssi di Leibniz e Platone Questo drastico allontanamento di Schleiermacher da Spinoza fu causato dall’influsso di Leibniz e Platone. 89
Reden, KGA I, 2, p. 217.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
Il secondo quaderno di studi su Leibniz si conclude con alcuni dei frammenti nei quali Schleiermacher espresse per la prima volta la sua concezione dell’individualità. Allo studio di Leibniz si collegò, in ordine di tempo, la stesura delle Rapsodie etiche, che furono appunto la prima esposizione della dottrina dell’individualità. Secondo alcune annotazioni che ci sono conservate, Schleiermacher lesse in questo periodo l’epistolario con Bourget, la lettera ad Arnauld, i Principes de la nature et de la grâce, dai quali solamente avrebbe potuto ricevere lo stimolo a trasformare la dottrina spinoziana dei modi della sostanza. Spinoza avrebbe ragione, spiegava Leibniz, se non esistessero monadi. Leibniz fa spazio alle monadi eliminando l’errata premessa spinoziana. L’individuo è un ens positivum che non può essere costituito per negazione. Il principio dell’individualizzazione non sta nella negazione. Viene in tal modo eliminata l’antitesi spinoziana dell’infinito senza differenziazioni e dell’individuo finito. Conformemente a ciò la monade, come un universo concentrato, come uno specchio dell’universo, può esporre in sé l’infinito, in modo finito, a partire da un determinato punto di vista90. Schleiermacher ascriveva il concetto metafisico di monade alla poesia, al “regno degli elfi”. Tuttavia, sulla base di questo concetto formava anche la propria idea dell’individualità. Di Leibniz lo respingeva il fatto che questi dimenticasse, scoperte le monadi, “l’unità dinamica”, che egli cercava. Nel confronto critico con Leibniz, scriveva: «senza misticismo non è possibile essere conseguenti, poiché non è possibile seguire il pensiero fino all’incondizionato e non se ne possono vedere le contraddizioni»91. Si vede quanto egli misurasse Leibniz su Spinoza. Il pensiero leibniziano dell’armonia dell’universo, ereditato dall’antichità, agisce insieme alla visione artistica del mondo di Platone, per idealizzare e vivificare l’universo di Spinoza. Platone era, per Schleiermacher, il modello per la trasfigurazione e la formazione artistica della mistica. I miti dei Discorsi si collegano a lui. Accanto al famoso sacrificio funebre dedicato a Spinoza, emerge, nei Discorsi, l’omaggio allo spirito artistico dell’antichità vivente in Platone. Mai il senso artistico si è avvicinato «a entrambi quei tipi di religione», senza colmarli di nuova bellezza e sacralità e senza attenuarne amichevolmente l’originaria limitatezza. «Così il divino Platone portò la sacra mistica all’apice della divinità e dell’umanità: lasciami rendere omaggio alla dea a me sconosciuta, che si è presa cura di lui e della sua religione in modo così attento e disinteressato. Il più bell’oblio di sé ammirai in tutto ciò che egli 90
Leibniz de principio individui, Lettres à Bourget, a cura di Erdmann, Berlino 1840, p. 720, à Bayle, p. 187. 91 Leibniz I, KGA I, 2, n. 25, p. 83; n. 22, p. 82; n. 51, p. 90.
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LA VISIONE DEL MONDO E DELLA VITA DEI DISCORSI E DEI MONOLOGHI
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dice contro di lei con fervore sacro, come un re giusto, che non ha riguardo neanche della madre di cuore troppo tenero; poiché tutto aveva valore solo per il servizio volontario che ella rendeva all’imperfetta religione naturale. Ora ella non serve nessuno, e tutto è diverso e peggiore»92. Schleiermacher avrebbe dovuto trovare solo più tardi il punto di connessione tra la propria visione del mondo e la dottrina platonica delle idee. A partire da un’altra impostazione di pensiero, dall’idea dell’Io autonomo e spontaneo, interviene Fichte. Così penetrarono nella mistica di Spinoza le idee dell’individualità, della libertà, della volontà e il pensiero, suscitato in quelle, della piena realtà e relativa autonomia del mondo. Alla trasformazione dei concetti degli attributi, o proprietà di Dio, e delle sue affezioni, o modi, corrisponde la trasformazione della conoscenza intuitiva di Spinoza, del suo metodo, e la netta limitazione del suo risultato. Schleiermacher abbandona la deduzione del finito dall’infinito, che era l’insolubile compito di Spinoza. L’idea che ciò che è dato alla nostra intuizione sia un frammento dell’universo smisurato, un’idea che fa uscire il nostro conoscere dal punto centrale del mondo, e l’ulteriore conoscenza che, ad ogni individualità come tale, è dato un universo differente, determinarono, a prescindere da tutti i risultati della filosofia critica, che solo nell’intuizione inadeguata, frammentaria, individuale ci è dato l’universo. I modi in cui l’universo, secondo la diversità del punto di vista, appare in modalità infinitamente varie, formano un’unica totalità; in quanto totalità stretta da questo legame unitario, tali modi sono l’unica intuizione infinita dell’universo infinito. La semplice, univoca, in sé adeguata intuizione infinita non potrebbe esistere, non potrebbe essere percepita. È presente però, in questa concezione, un principio di individualizzazione; una singola intuizione viene resa arbitrariamente punto centrale dell’intera concezione e tutto viene riferito ad essa. Così nasce un individuo per la religione: nell’universo di questi individui, in quanto forme infinitamente molteplici, si rappresenta la religione infinita. L’universo è l’opera dello spirito del mondo (Weltgeist) che procede all’infinito. Ed è perciò, esso stesso, oggetto della religione. Quindi l’intuizione, alla quale l’universo è completamente presente, non è, in ultima istanza, la religione singola, bensì l’intuizione religiosa dell’universo delle religioni stesse, che intuiscono l’universo sotto il punto di vista delle individualità. Si realizza in tal modo la conseguenza della filosofia dell’individualità, e, aggiungiamo noi, anche così essa non può sfuggire al suo destino (o meglio, essa non vuole), cioè che tanto l’universo stesso quanto 92
Reden, ivi, 262 ss.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
(per esempio attraverso un potenziamento) l’universo delle intuizioni si rispecchiano solo nella mediazione dell’individualità. Tutte queste intuizioni sono vere, ma tutte rimangono singolari. La loro relazione non è unanimità, bensì armonia. Si potrebbe così procedere a spiegare le intuizioni schleiermacheriane attraverso quelle di Leibniz, che comparava le monadi, intese come specchi viventi dell’universo, con gli specchi che sono posti intorno ad una grande piazza, ciascuno dei quali ne mostra un’immagine diversa, non potendo nessuno rispecchiarla del tutto93.d Termino questa ricerca sullo spinozismo dei Discorsi, che è sempre oggetto di nuove discussioni e che non è mai stato sufficientemente indagato, con la spiegazione datane da Schleiermacher stesso, che si può collegare ai miei risultati. «Come potevo aspettarmi ciò che poi accadde, cioè che, dal momento che ho ascritto a Spinoza la religiosità, sono stato ritenuto uno spinoziano, nonostante non abbia mai difeso, in nessun modo, il suo sistema? Se c’è qualcosa di filosofico nel mio libro, non è per niente accordabile con le peculiarità della sua concezione, che ha cardini completamente differenti, attorno ai quali si muove, come l’unità della sostanza comune a molti. Addirittura Jacobi, nella sua critica, ha colpito meno ciò che è più caratteristico»94.
IV. Relazione personale e scientifica con i filosofi viventi Ai pensatori che agivano dal passato si uniscono i contemporanei, il cui influsso era, per così dire, più invadente, e che furono accolti, quindi, da Schleiermacher, non senza antipatia: alcuni emersero solo a quell’epoca, come Fichte e Schelling: l’influsso di altri, come Jacobi, può essere compreso solo ora. Per terminare la spiegazione e la classificazione della visione del mondo e della vita di Schleiermacher del 1800, è necessario comprendere, nella sua interezza, la relazione personale e scientifica di questi uomini con lui, per come essa si mostra nel 1800. Essi appartengono a due diverse generazioni, cosa che è determinante per comprendere la loro direzione spirituale. In Jacobi e Fichte si osserva ancora il dominio di un punto di vista teologico. Entrambi si tengono
93
Ivi, pp. 296 ss. Cfr. Leibniz, Principes de vie, a cura di Erdmann, p. 432; Theodicee, p. 537, Monadol., p. 709. 94 Secondo discorso, Nota 3. Cfr.: nella lettera di Schleiermacher del 1826, comunicata da Delbrück, viene evidenziata la sua specifica differenza da Spinoza, che conferma ciò che ho detto, cioè che nel suo sistema Dio non è “sostanza estesa”.
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lontani, a causa di una limitazione arbitraria, dai problemi dispensati dalla natura. Senza analizzare la questione, essi partono dal presupposto della sottomissione della natura all’intelligenza. Come se giovasse alla caducità delle visioni fondate in modo personale, rifiutare alla grande connessione dei fatti naturali, che tuttavia persistono, la considerazione e il riconoscimento che essi legittimamente esigono. La vera capacità di persuasione e il potere esercitato sulle convinzioni altrui si basavano sulla capacità di Jacobi di dominare il sentimento, e su quella di Fichte di dominare la volontà degli altri. Privi della sicurezza e della ampia conoscenza garantite da studi rigorosi, la scienza era per loro un mezzo per dare fondamento a convinzioni irremovibili.e Relazione con Friedrich Heinrich Jacobi95 A nessuno dei contemporanei Schleiermacher si sentiva più affine che all’instancabile oppositore del movimento del pensiero tedesco che si sviluppava in Fichte, Schelling e Hegel, cioè Friedrich Heinrich Jacobi96. Schleiermacher sottolineava il paradosso che un gran numero di coloro che erano 95
Schleiermacher è stato rappresentato come prosecutore di Jacobi per la prima volta nel famoso saggio di Hegel, Fede e sapere, nel Kritisches Journal. Lì Schleiermacher viene indicato come Jacobi alla somma potenza. Riporto brevemente la motivazione: «Nei Discorsi sulla religione avviene questo potenziamento; nella filosofia di Jacobi la ragione è intesa solo come istinto e sentimento, l’eticità solo nella casualità empirica, il sapere solo come coscienza di particolarità e di peculiarità, sia esteriore sia interiore; al contrario in questi Discorsi viene eliminata la natura come raccolta di realtà finite, l’universo viene riconosciuto, dal fuggire oltre la realtà il desiderio viene riportato al mondo eterno dell’al di là, viene soddisfatta nell’intuizione la tensione senza fine. Ma questa oggettività soggettiva dell’intuizione dell’universo deve tuttavia restare a sua volta un elemento particolare e soggettivo. La virtuosità dell’artista religioso deve poter mescolare la propria soggettività nella tragica serietà della religione; l’arte non può diventare eterna senza l’opera; a una caratteristica soggettiva dell’intuizione (idiota è uno in cui domina la peculiarità), invece di eliminarla o almeno non riconoscerla, non deve essere concesso così tanto che essa formi il principio di una propria comunità». È indicativo che Schleiermacher lesse molto freddamente questa invettiva e che lo scosse profondamente solo il modo in cui essa considerava Jacobi. «Mi ha colpito che Jacobi nelle lettere dove sembra enumerare tutte le ingiustizie recategli da Hegel e Schelling, non menziona intenzionalmente il fatto che lo abbiano messo in mia compagnia e che mi abbiano considerato suo prosecutore e suo potenziamento. Naturalmente, dal momento che è convinto del mio ateismo e dunque della nostra radicale differenza, deve aver considerato come una grave ingiustizia che la sua filosofia, se portata avanti, conduca a me e il silenzio su questo punto mi appare come il disprezzo più illimitato. Questo mi dispiace, perché amo molto Jacobi» (KGA V, 7, Lettera a Brinkmann, 19 ottobre 1803, n. 1547, p. 55). 96 KGA V, 4, Lettera a Brinkmann, 19 luglio 1800, n. 916, pp. 168 ss.
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definiti fichtiani, Hülsen, Berger, lui stesso e, nonostante tutta la apparente avversione, anche Schlegel, si avvicinavano molto allo spirito di Jacobi. Questa simpatia si basava su un’interiore affinità con la nobile individualità di quest’uomo, nel quale un intelletto acuto e profondo era collegato con una vita emotiva vivace, di raffinata sensibilità morale, non messa in difficoltà da alcun argomento, con una necessità insaziabile di riflettere sulla propria individualità e di comprendere quella altrui. A questa affinità elettiva conduceva un’inclinazione risalente all’epoca della prima felice aspirazione giovanile. Brinkmann pensava con riconoscenza al fatto che un tempo «l’entusiasmo profetico» di Jacobi aveva invitato «precocemente il giovane di audace entusiasmo ai bei segreti del bosco interiore»97, e Schleiermacher condivideva tali ricordi. Quando, nell’estate del 1800, Brinkmann era sul punto di conoscere personalmente Jacobi, Schleiermacher, riferendosi ai Discorsi, scrisse all’amico: «posso sperare di essere compreso solo da pochissimi, posto che essi vengano letti; faccio ancor meno conto sul plauso; ma sopra ogni altra cosa sarebbe importante e sacro per me un giudizio di Jacobi. Tu conosci la mia ammirazione per questo pensatore dotato di così grande umanità e non ti nego che lo ho sempre considerato come mio giudice, quando mi pareva di essere riuscito a fare qualcosa di migliore. Non devi nascondermi nulla delle sue osservazioni. Anche la sua lode più condizionata mi renderebbe orgoglioso, ma il suo rimprovero certo non mi toglierebbe il coraggio. È il mio primo tentativo letterario; non può essere perfetto, ma certo non rinuncerei alla speranza di produrre qualcosa di buono»98. Jacobi non provò alcuna simpatia per i Discorsi. Più tardi Schleiermacher ne comprese bene il motivo. Nel 1818 gli scrisse: «che motivo avevate per escludermi dalla massa di quella gioventù filosofica freddamente contestatrice, beffarda, nella quale tuttavia anche io ero cresciuto»99. Già nel 1800 percepiva ciò che li separava dal punto di vista personale. Quando Brinkmann portò a Jacobi i Discorsi e questi inorridì davanti al fichtismo che credeva di rintracciarvi, Schleiermacher gli fece pervenire, attraverso l’amico, una chiarificazione della differenza tra il suo pensiero e la filosofia di Fichte. Vi aggiungeva, ancora una volta, l’espressione della sua simpatia personale. «Desidero che l’amabile uomo possa amarmi un po’ con il tempo; egli è l’unico dei nostri famosi filosofi dal quale desidero questo. Reinhold mi è 97
Brinkmann, Gedichte, 1804, p. 269. Lettera di Schleiermacher a Brinkmann, citata in una lettera di Brinkmann a Jacobi. Fine maggio 1800. In Zöppritz, dal Nachlass di Jacobi, 1869, p. 260. 99 KGA V, 4, Lettera a Brinkmann, 19 luglio 1800, cit., pp. 168 ss. 98
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completamente indifferente, e Fichte lo devo certo stimare, ma non mi è mai sembrato degno di amore. Come sai, ci vuole per noi qualcosa di più che essere uno, foss’anche il più grande, filosofo speculativo». Dei tentativi di Jacobi «di porre l’umanità, come essa è, comprensibile o meno, nel modo più scrupoloso davanti agli occhi»100, si era nutrita la necessità di intuire la vita, l’uomo, il mondo, quando Schleiermacher sedeva ancora tra i suoi libri a Barby e a Halle. «Il vecchio amore e l’accordo con il suo pensiero sull’umanità in generale», scriveva al compagno dei vecchi tempi, «li conosci già a partire dai nostri»101. Si incontrava allora con Jacobi nel comune compito di difendere, contro ogni legge morale astratta, le motivazioni effettive che spingono a fare il bene. «Il gusto per il bene», dice Jacobi, «viene formato, come il gusto per il bello, attraverso modelli eccellenti; e gli illustri originali sono sempre opere del genio. Attraverso il genio la natura dà regola all’arte, sia all’arte del buono sia all’arte del bello. Entrambe sono libere arti e non si piegano sotto regole tecniche»102. La cosa più importante, non dubito, fu che Schleiermacher ricevette da Jacobi un primo impulso – uno tra gli altri – a elaborare il pensiero dell’indipendenza della coscienza religiosa nei confronti di tutte le dimostrazioni scientifiche. Entrambi, con la pienezza della loro vita interiore, della loro “mistica”, erano in contrasto con tutta la scienza che li circondava; la profondità e la libertà della loro vita emotiva, l’acutezza del loro pensiero, non permetteva loro alcun accondiscendente confronto. Entrambi rimasero coscienti della connessione della loro mistica e della loro individualità e vedevano fondato, in questa mistica contrapposta ai diversi rami dell’idealismo, un più alto realismo (höherer Realismus)103. Qui però termina la loro affinità. La mistica di Schleiermacher era diversa da quella di Jacobi; il loro atteggiamento nei confronti della scienza filosofica era differente, diversamente da quanto Schleiermacher si immaginava. La mistica di Jacobi era vicina alla filosofia pratica di Kant, che Schleiermacher aveva invece presto abbandonato. Essa riposava sulla coscienza della libera scelta; dal punto di vista del contenuto, faceva tutt’uno con i postulati kantiani, ed era infine fondata su un’ingiustificata ignoranza dei fatti della natura a favore dei fatti della coscienza. Al contrario, la visione mistica di 100
Jacobi, Werke, I, p. 364. KGA V, 4, Lettera a Brinkmann, 19 luglio 1800, cit. L’influsso di Jacobi è stato già illustrato: seguirlo nei particolari sarebbe qui puntiglioso e problematico. 102 Jacobi, Werke, V, p. 78. 103 Cfr. Jacobi, David Hume über den Glauben oder Idealismus und Realismus, Werke, II, pp. 127 ss. e Reden, KGA I, 2, pp. 213 ss. 101
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Schleiermacher si era sviluppata direttamente su Spinoza, per sfuggire al quale Jacobi si gettò nella propria concezione. Il concetto jacobiano di scienza filosofica, come Schleiermacher vedeva bene, era stato determinato una volta per tutte dalla filosofia precritica, cosicché il suo animo era in opposizione costante non solo a una forma particolare della filosofia, bensì alla filosofia stessa. Nell’affermazione di un’opposizione irresolubile tra il pensiero filosofico e la vera mistica Schleiermacher riconosceva l’errore fondamentale di Jacobi. Egli vedeva, cioè, questa accettazione a tal punto legata alla mancanza, in Jacobi, di forza creativa e formatrice, che non sapeva decidere quale di questi due fatti fosse la causa e quale l’effetto104. «L’apparente contesa della nuova filosofia popolare contro il misticismo ha prodotto in lui l’errata opinione che si possa dare effettivamente un contrasto tra filosofia e mistica, mentre, al contrario, ogni filosofia conduce colui che è in grado di vedere così lontano, e voglia andare così lontano, a una mistica. Se Jacobi se ne fosse reso conto, avrebbe polemizzato solo contro quella filosofia che non conduce alla sua mistica; egli polemizza invece contro ogni filosofia, in qualsiasi luogo essa si presenti»105. Da questo errore derivano le infelici argomentazioni di Jacobi contro tutta la filosofia e la sua inclinazione a considerare i lavori dei pensatori come prodotti naturali caratterizzati da infallibile consequenzialità. Così dapprima circondò Spinoza con l’errata apparenza logica della conseguenza irrefutabile, poi Fichte fu per lui «il messia della ragione speculativa»106, e infine sostenne che «il criticismo, portato a compimento con severa consequenzialità, doveva portare necessariamente alla dottrina della scienza (Wissenschaftslehre), e questa, a sua volta, rigorosamente sviluppata, doveva condurre alla dottrina della unità assoluta (Alleinheitslehre), cioè a uno spinozismo capovolto o trasfigurato, un idealmaterialismo»107. Jacobi presentava già, in questo modo, quella visione priva di creatività del corso storico della filosofia moderna, che uccideva la libera forza del pensiero, e che ancor oggi non è del tutto superata. Schleiermacher, al contrario, fin dall’inizio era andato incontro a tutti i lavori dei pensatori passati con quella perspicacia creativa, che vede ovunque, nei filosofi, capaci di apportare soluzioni a problemi che ci toccano da vicino, dei collaboratori, che vede il modo in cui questi problemi li hanno turbati e che, sempre, separa gli errori dalle ragioni conseguite. 104
In modo simile giudica anche Herbart nella sua magistrale descrizione, G.W. III, pp. 262 ss. 105 KGA V, 4, Lettera a Brinkmann, 19 luglio 1800, cit., pp. 168 ss. 106 Jacobi, Werke, III, p. 9. 107 Ivi, p. 354.
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Schleiermacher per primo ha riconosciuto la positiva e intima relazione tra la mistica e la scienza filosofica e la esprime già in questi anni. «Ogni filosofia conduce colui che è in grado di vedere così lontano, e voglia andare così lontano, a una mistica»108. Perché, si chiede, Jacobi polemizza contro ogni filosofia? «Poiché egli postula che la sua mistica debba farsi dedurre da una qualsiasi filosofia e debba formare con lei un tutto, cosa che a me appare invece impossibile per ogni mistica, e dunque anche per la sua»109. Perciò egli per primo vide fino in fondo l’indipendenza della concezione religiosa dalla dimostrazione filosofica e la sua relazione al sistema speculativo. Lo distinse perciò da Jacobi tanto il contenuto della sua mistica quanto la posizione che essa assumeva nei confronti del pensiero filosofico. Il grande rispetto di Schleiermacher per la vera profondità della vita emotiva fece sì, comunque, che egli giudicasse il nobile pensatore, a dispetto di tutte le contrapposizioni, in modo nettamente diverso da quanto ha fatto Friedrich Schlegel110. Schleiermacher rifiutava il caustico giudizio di Schlegel, secondo il quale «l’essenza di Jacobi sta in un inestrirpabile odio verso tutta la filosofia». «Se Jacobi volesse solo decretare che filosofia e mistica sono del tutto separate, e che l’intera apparenza della loro connessione deriva solo dal fatto che esse si toccano in un punto, allora cesserebbe di polemizzare inutilmente contro la filosofia e inizierebbe a scoprire la sua bella essenza in un modo più positivo e profondo» (come Schleiermacher stesso ha fatto nei Monologhi) «di quanto ha fatto fino ad ora; in caso contrario forse cesserebbe di essere scrittore». Addirittura Schleiermacher si sentiva così affine a Jacobi, che provò un profondo dolore per il freddo atteggiamento di questi verso i suoi scritti, quasi come se, unico esempio nella sua vita, il suo amore non fosse contraccambiato111. Non c’è testimonianza più bella di come fosse veramente presente in lui il libero e nobile riconoscimento dell’individualità altrui e della sua religione come del peculiare punto di vista sotto il quale essa doveva scorgere l’universo. Erano passati quindici anni da questi fatti, quando Schleiermacher e Jacobi si incontrarono di persona, per la prima ed unica volta, durante un 108
KGA V, 4, Lettera a Brinkmann, 19 luglio, cit., pp. 168 ss. Ibid. 110 Oltre alla recensione di questi al Woldemar cfr. Über Jacobi, nelle Vorlesungen, a cura di Windischmann, 2, pp. 418 ss. «Jacobi è caduto tra la filosofia assoluta e quella sistematica, e il suo spirito ne è rimasto schiacciato». «Jacobi voleva sapere in modo assoluto qualcosa di determinato. Per sapere qualcosa, bisogna voler sapere tutto». Quest’ultima frase coglie il nucleo della questione. 111 Lettera di Schleiermacher a Brinkmann, 19 luglio, 1800, cit. KGA V, 7, Lettera di Schleiermacher a Brinkmann, 19 ottobre 1803, n. 1547, p. 56. 109
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viaggio di Schleiermacher nel 1818. «Il vecchio Jacobi era commosso dalla gioia. Abbiamo cercato di comprenderci. In ciò non siamo andati però molto più in là che nel trovare in cosa consiste propriamente la nostra diversità: egli mi ha sempre ascoltato con la più grande gentilezza quando gli dicevo che il suo errore di base mi sembrava il fatto che egli confondeva questa differenza con un’altra e ne cercava il fondamento nella disposizione d’animo (Gesinnung). Ho conquistato l’uomo e mi sono riservato anche di scrivere»112. Stavano insieme ogni giorno: la lettera nella quale Schleiermacher tentava di spiegare la loro relazione, dal momento che risale ad un’epoca molto più tarda, può essere apprezzata solo nel contesto di tale epoca. Relazione con Johann Gottlieb Fichte113 Quanto diverso era il suo atteggiamento verso Fichte! Schleiermacher era di soli sei anni più giovane; ma l’influsso di Fichte sul mondo filosofico fu, fin dall’inizio, così compatto e penetrante che si presentò subito a Schleiermacher come signore di una grande cerchia a lui prossima. Qui si sviluppò un legame, per giudicare il quale è necessario esaminare anche il carattere personale e scientifico di Fichte. Ne accenniamo qui soltanto: il reciproco atteggiamento scientifico si chiarì solo nell’epoca sistematica dello sviluppo di Schleiermacher e può essere presentato soltanto nella esposizione di quella. Era Fichte a stimolare tutto il movimento filosofico. Era una natura eroica. Fondamenti della sua organizzazione erano un corpo capace di sopportare ogni fatica fisica, un’inquieta fantasia tendente a grandi immagini, intelletto e volontà di rara forza. Fichte era figlio di una famiglia di tessitori: fu trasferito a otto anni in una casa signorile per essere educato; ma dopo la morte del suo protettore, cadde nuovamente nell’incertezza sul futuro. In 112
Br. II, p. 347. Lettera di Schleiermacher alla moglie, 2 ottobre 1818. Lo studio di Fichte, indipendente dai pregiudizi di Schelling e Hegel, cominciò con i lavori biografici a lui dedicati dal figlio (Fichtes Leben, 1830; edizione delle opere dal 1845) e con il penetrante scritto di Friedrich Harms, Der Anthropologismus, 1845; grazie a queste ricerche fu completata nell’essenziale l’esposizione presente nell’opera di Erdmann, approfondita ma dominata dal punto di vista hegeliano (cfr. Erdmann, Grundriss, 2, p. 245); sulla base dei risultati di Harms uscì nel 1862 l’esatta e metodica monografia di Joh. Heinrich Löwe, Die Philosophie Fichtes. A questi lavori si aggiungono gli apprezzamenti di Fichte, schizzati nel corso della ricerca filosofica: Herbart, Metaphysik, 3, pp. 265 ss., capolavoro di questa caratterizzazione filosofica, ravvivato dalla relazione personale di Herbart con Fichte e dalla relazione del problema fondamentale di Fichte con quello della psicologia di Herbart; Trendelenburg, Geschichte der Kategorienlehre, pp. 297 ss. (Zur Erinnerung an Fichte, 1862). 113
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tale frangente la sua natura possente trovò presto gli stimoli più forti per conquistarsi condizioni migliori, alle quali egli era stato così vicino, o morire. Così divennero tratti dominanti del suo carattere il coraggio morale, al quale egli dovette le più eccellenti azioni della sua vita, e una disposizione esclusiva agli impulsi che potevano soddisfare il suo orgoglio e il suo desiderio di agire. Incapace di quell’amore, il cui culto entusiasta riempiva la sua epoca, privo, addirittura nell’amicizia, non solo di un po’ di delicata sensibilità, ma anche di quella dedizione personale che nasce dal cuore, condotto dall’interesse per le cose e per le idee, egli poteva solo dominare o destare avversione. Usava gli uomini allo scopo di creare alleanze per diffondere le verità da lui scoperte. Non imparò mai a comprendere e rispettare un carattere avverso. Bella e pura sembrava la sua relazione con i giovani, che egli entusiasmava grazie alla potenza della sua personalità, della sua dialettica e di un’eloquenza non agile, ma capace di imprimere immediatamente la propria forza all’esercito dei suoi pensieri. Per il resto viveva, pensava, lavorava, soffriva per le sue convinzioni del migliore dei mondi possibili. Dall’età di ventinove anni cominciò a formarsi in lui una connessione cogente di verità, attraverso la quale sembrava potesse essere riformato il mondo. Questa severa connessione di verità dimostrate si innalzò davanti a Fichte a partire dalle ricerche di Kant. Fichte si era formato attraverso studi teologici, aveva modellato il suo stile ed esercitato la forza non comune del suo intelletto dialettico dapprima sugli scritti polemici di Lessing. Aveva poi trascorso la giovinezza in mezzo ai progetti avventurosi dettati dal suo sfrenato orgoglio: voleva diventare uomo di corte, educatore di principi, maestro di eloquenza; poi cercò l’indipendenza nella relazione con la nobile donna, con la quale più tardi si sposò. In quest’epoca era persuaso da Spinoza, nella forma in cui lo aveva rinnovato Jacobi dal 1786. Poi, nel 1791, nella disposizione d’animo accennata, si imbatté negli scritti di Kant. Grazie ad essi si trovò liberato dal peso di Spinoza e, moralmente riformato, trovò una giustificazione all’orgogliosa tendenza all’attività, presente nella sua anima, grazie a una concezione della destinazione (Bestimmung) dell’uomo fondata dalla critica più geniale. Si schiuse improvvisamente, inoltre, al suo impulso attivo, il nobile scopo di riformare il mondo attraverso questi scritti, come prima, grazie a essi, aveva riformato se stesso. Accadde che una circostanza fortunata del tutto particolare, senza alcun merito dello scritto in questione, lo avvicinò a Kant. La sua chiamata all’università di Jena gli aprì allora una sfera d’azione personale molto importante. Sotto l’impressione di tutto questo egli progettò, a partire dalle analisi kantiane, che erano state condotte a coerente trasformazione dagli oppositori e dai liberi discepoli del grande pensatore, Schulze, Maimon, Reinhold e Beck, la Dottrina della
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scienza. A partire dai suoi risultati filosofici, Fichte tentò una riforma dello Stato, della religione, dell’educazione, della moralità. Il suo sistema non era perciò nato dal lavoro autonomo sui concetti ultimi e sulle acquisizioni delle scienze positive, sui misteri della vita e dell’animo: era piuttosto una filosofia sulla filosofia di Kant. La grandezza storica di Fichte è costituita dal fatto che egli comprese il vero problema che le analisi di Kant consegnavano ai successivi ricercatori; dal fatto che, non soddisfatto da nessuno dei suoi tentativi di soluzione, ogni volta si sentiva di nuovo come all’inizio dei suoi viaggi di esplorazione scientifica, e che la sua incalzante volontà trascinò in questa impresa tutte le più significative menti filosofiche. Tuttavia, non solo le ipotesi dalle quali partiva erano insostenibili, bensì gli mancavano anche i mezzi per realizzare il suo compito. Dimostrava un genio dialettico straordinario, ma nessuno studio accurato delle scienze positive né quella erudizione filosofica che, mediante la conoscenza dell’entità del compito e della serie delle sue soluzioni, può preservare dal porre domande unilaterali e dal rifare errori già fatti. Bisogna ora mettere in relazione quest’uomo con lo spirito di Schleiermacher. Entrambi hanno formato il loro carattere personale e scientifico alla scuola dell’idealismo. Ma all’interno di questa scuola, che plasmava carattere e pensiero, essi formano la più decisa opposizione: essi mostrano, per così dire all’interno dello stesso tipo di famiglia (Familientypus), tratti assai marcati della più grande differenza. A ciò, oltre al fatto che anche qui giocavano gli umori bizzarri del destino, si deve che Schleiermacher e Fichte si incontravano ovunque e ovunque si allontanavano. Per un certo periodo lottarono insieme, all’interno della nuova scuola, contro i vecchi partiti letterari; per un periodo ancora più lungo, poi, lottarono per la rigenerazione e la liberazione dello Stato prussiano. In entrambe queste epoche si incontrarono a Berlino frequentando le stesse cerchie. Quanto più le circostanze li spingevano l’uno verso l’altro, tanto più si sviluppava tra loro una crescente antipatia. Al contrasto personale ne corrispondeva uno scientifico, dal momento che la loro visione del mondo era la piena espressione del loro carattere. Anche il decorso del loro rapporto scientifico è stato determinato dalla familiarità e insieme dal contrasto della loro natura. Fichte dominava, grazie al suo carattere e alla compattezza dei suoi pensieri, nella cerchia della nuova scuola. Tanto schiacciante era la forza della sua personalità e della sua dialettica che anche nature per nulla filosofiche, come Wilhelm Schlegel, non riuscirono a difendersi da questo influsso. Schleiermacher, da parte sua, occupato con questioni religiose e morali, fu per lungo tempo spettatore dell’appassionante dramma del movimento filosofico tedesco. Ma mentre il movimento rivoluzionario, nel quale finì la filosofia per mano di
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Fichte, spaventò Jacobi, Fries e presto anche Reinhold, suscitando la loro opposizione, lo spirito di Schleiermacher, più audace e più conseguente, si sentiva a proprio agio in questo incalzante fermento ed era, come gli amici, pieno di speranza. Discorsi e Monologhi riconoscono la filosofia trascendentale, fondata da Kant e proseguita da Fichte, e vogliono completarla, i Discorsi mediante il realismo dell’intuizione religiosa, i Monologhi mediante il pensiero dell’individualità. Il 4 gennaio del 1800 Schleiermacher fa notare a Brinkmann che, sulla filosofia di Fichte, «non ha nulla da ridire»114. Un’altra lettera a Brinkmann del 19 luglio del 1800 mostra però i limiti di questa sorprendente annotazione: «ho finito da poco una nota alla Destinazione dell’uomo di Fichte per l’Athenaeum, per la quale mi attirerò probabilmente la sua ira. Se ci avessi pensato prima, o se mi si fosse venuto in mente durante la scrittura, forse avrei adottato uno stile differente, ma non avrei taciuto in ogni caso la mia opinione. La dottrina della virtù merita comunque di essere studiata: ma ciò non esclude che non ci sarebbe molto da dire contro essa. Vedi che, se non mi minaccia nessuna più grande sfortuna che la tendenza al fichtismo (Verfichten), non mi va poi così male»115. La sua differenza da Fichte non emerse completamente se non quando la filosofia della natura si innalzò tra i suoi contemporanei e la sua propria filosofia dello spirito (Geistesphilosophie) si avvicinò alla maturità; solo allora cominciò a confrontarsi veramente con Fichte. La pungente critica schleiermacheriana, da questo momento in poi, incise sempre più a fondo nella serie dei concetti fichtiani; il suo lavoro sistematico cominciò a utilizzare solo allora i risultati ottenuti da questo grande artista della filosofia per la costruzione della dialettica e dell’etica. f Ci sono solo pochi e oscuri tratti nei quali si mostrano affinità e opposizione di questi due uomini all’epoca dei Discorsi e dei Monologhi: ne mettiamo in luce i più importanti. Il punto di partenza di Kant era comune a entrambi. Non perché Schleiermacher seguisse le tracce di Fichte sembravano così affini; prima che Fichte emergesse, infatti, erano già poste le linee fondamentali del pensiero schleiermacheriano. Piuttosto entrambi erano avvinti dalla dottrina kantiana, per la quale nell’Io deve essere riconosciuta una facoltà creativa, che rispecchia la sua essenza nell’immagine del mondo. L’orgoglioso sentimento della dignità umana sta al fondo di questa visione: solo per averne dato un’espressione intensificata Fichte precedette i Monologhi. Schleiermacher trovò lo stesso pensiero in Platone, l’antico rappresentante di tutti gli idea114 115
KGA V, 3, Lettera a Brinkmann, 23 dicembre 1799-4 gennaio 1800, cit., p. 314. KGA V, 4, Lettera a Brinkmann, 19 luglio 1800, cit., pp. 170-171.
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listi, il pensatore che fin dalla giovinezza gli era affine più d’ogni altro, come egli stesso ha spesso dichiarato. «Per me», dicono i Monologhi riguardo allo spirito del mondo, «lo spirito è la prima e unica cosa: poiché ciò che io riconosco come mondo è la sua opera più bella, il suo specchio autocreatore». Solo l’agire dello spirito crea da sé mondo e tempo116. Schleiermacher ha mantenuto questa convinzione della capacità creativa dell’Io, illustrata nei Monologhi, anche nella sua epoca sistematica. L’affinità tra Kant-Fichte e Schleiermacher va oltre. Hegel, nel saggio Fede e sapere o la filosofia della riflessione della soggettività, li pose tutti tre l’uno accanto all’altro, considerando Schleiermacher come potenziamento sommo di Jacobi, poiché la loro ricerca filosofica ha nel soggetto il suo punto di partenza, e a partire da esso guarda indietro e avanti, invece di dedurre il mondo dall’assoluto. Per Fichte, purtroppo, all’Io si sostituisce sempre più l’assoluto, all’attività dell’assoluto la forma dell’Io, cosicché il suo punto di vista va incontro a quello hegeliano. La prima visione del mondo di Schleiermacher aveva trovato, in modo genuinamente critico, il proprio punto saldo nel rappresentare e nel suo oggetto. E la sua dialettica si è attenuta ad esso. L’affinità tocca anche l’elemento caratteristico di Fichte. La relazione con Jacobi, che abbiamo illustrato, ha chiarito la distinzione schleiermacheriana di filosofia trascendentale e mistica. La relazione con Fichte illumina invece ciò che egli intendeva con filosofia trascendentale. Schleiermacher aveva studiato incessantemente la Dottrina dei costumi di Fichte e la considerava espressamente, e a pieno diritto, come fece anche Herbart, lo scritto di Fichte che più meritava un tale studio117. Nelle prime, provvisorie affermazioni della fichtiana Dottrina dei costumi si mostra, dunque, l’elemento centrale che connette l’impostazione della sua filosofia trascendentale, nella versione del 1795, con quella presente nella sua Dialettica. Lì egli era risalito, da un lato, dal fatto del rappresentare, dall’altro, da quello dei fenomeni dati in esso, al loro identico e ampio fondamento. Fichte trovò il punto di partenza unitario del nostro pensiero nel fatto che dobbiamo pensare il soggettivo come procedente dall’oggettivo, il primo rivolto all’ultimo, ossia nel dato di fatto della conoscenza: su questo si fonda la filosofia teoretica. L’altro punto di partenza sta per Fichte nel fatto che pensiamo l’oggettivo come proveniente dal soggettivo, cioè troviamo un essere proveniente dai nostri concetti soggettivi di fine, ossia nel dato di fatto del nostro agire: su questo si basa la filosofia pratica. E così egli 116 117
Monologen, KGA I, 3, pp. 9, 13. KGA V, 4, Lettera a Brinkmann, 19 luglio 1800, cit.
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deduce dall’idea di un’armonia di soggetto e oggetto, data in modo duplice, l’assoluta identità118. La dialettica di Schleiermacher riprende questa strada. Essa cerca un fondamento trascendentale per la nostra certezza del sapere, cioè per la convinzione che al pensare corrisponda un essere e per la nostra certezza del volere, cioè per la convinzione che l’essere sia accessibile al pensiero e omogeneo ad esso, e lo trova nell’identità di ideale e reale. Anche la realizzazione schleiermacheriana della scienza fondamentale, cioè la costruzione dell’etica, avviene in costante confronto con Fichte. Invece di esporre qui i singoli influssi fichtiani, che si manifestano già in quest’epoca, preferisco stabilire in seguito il loro posto nella costruzione del sistema stesso119. Mi limito qui a menzionare alcuni dei singoli e forti impulsi che Fichte esercitò sulla vita intellettuale di Schleiermacher in questi anni: essi consistevano nello spirito genetico del sistema, nell’idea che il nucleo dello spirito finito sta nella volontà, nella conoscenza del significato dell’immaginazione per la costruzione del mondo che appare allo spirito. I migliori ricercatori, anche Herbart e Schopenhauer, sono debitori di importanti pensieri all’incessante e tormentato lavoro fichtiano al problema di come nascano l’Io finito e, da esso, gli oggetti. Schleiermacher si oppose subito, per un certo aspetto, al nuovo progetto di Fichte; per un altro, si contrapponeva da tempo tanto a Kant quanto a Fichte. Schleiermacher era deciso a non rinunciare al “mondo reale”, né, tanto meno, all’idealismo120. Era convinto che quell’Io, per quanto profondamente lo si immergesse nei predicati dell’uno, dell’incondizionato, dell’assoluto, non potesse tuttavia mai elevare le sue “azioni effettive” fino al pensiero creatore dell’infinito; riteneva perciò che la filosofia trascendentale, tessendo a partire da se stessa «la realtà del mondo e le sue leggi», sminuiva l’universo «a semplice allegoria, a futile ombra della nostra limitatezza»121. In questo modo egli coglieva il punto centrale di tutti gli errori di Fichte: diversamente da quest’ultimo, si mantenne fedele al genuino senso della critica kantiana, non 118
Fichte, Gesammelte Werke, cit., IV, pp. 1 ss. Nei diari emergono pochi espliciti riferimenti a Fichte. Gli Studi sul diritto naturale si basano per lo più su scritti della scuola kantiana. Quando Schleiermacher contrappone la sensibilità geniale a quella corretta, si nota quanto egli faccia riferimento a Fichte andando oltre Kant. Anche il fatto che egli trova l’Io in Fichte orgoglioso, e in Kant solo vanitoso mostra il prevalere della Dottrina dei costumi di Fichte. Se si confrontano i primi schizzi etici schleiermacheriani con la Dottrina di costumi, si nota quanto dell’etica del teologo fosse già contenuto nella teoria fichtiana, per la quale lo scopo finale di tutte le azioni di un essere libero era la realizzazione della ragione, mentre la sua forma era la dedizione alla comunità. 120 KGA V, 3, Lettera a Brinkmann, 23 dicembre 1799-4 gennaio 1800, n. 758, p. 316. 121 Reden, KGA I, 2, pp. 208, 211-213. 119
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partendo da un io trascendentale, bensì dall’analisi dell’io vero e reale. Così fece nei Discorsi e nei Monologhi. E con ciò si annunciava già in quest’epoca il fatto che egli dovesse far valere, nei confronti della ricerca trascendentale kantiana sulle forme dell’intelletto e sull’essenza della volontà, il limite dell’esame critico della capacità conoscitiva. Schleiermacher non poteva trovare nella visione del mondo e della vita così elaborata da Fichte niente altro che ciò che egli aveva combattuto fin dall’inizio nella Critica della ragion pratica di Kant: cioè la libertà della volontà posta al di là della connessione naturale, una legge morale completamente astratta, incapace di riconoscere i motivi effettivi del nostro agire morale. La sua critica, fin dal 1798, si rivolse, a più riprese, contro la Dottrina dei costumi di Fichte. Schleiermacher aspirava a un idealismo che dominasse e penetrasse tutta la vita, e non tollerava accanto a sé, a differenza di Fichte, il punto di vista comune. La totale negazione del punto di vista comune è, secondo lui, il «vero vello d’oro della nobiltà morale»122. Schleiermacher si innalzò veramente sopra Kant e Fichte, in virtù del suo caratteristico pensiero fondamentale. Alcuni ricercatori hanno tentato di dedurre da Fichte proprio questo elemento peculiare della visione schleiermacheriana di allora, cioè la posizione dell’individualità nell’universo nonché il significato e la natura dell’intuizione religiosa, accompagnata dal sentimento, connessa a tale posizione. Questa lettura è possibile solo a chi abbia frainteso o Fichte o Schleiermacher123. Anche il tentativo di ricondurre tale visione al collegamento di Spinoza e Fichte deve fallire. Il pensiero caratteristico di Schleiermacher va infatti ben al di là di entrambi.
122
KGA V, 7, Lettera a Brinkmann, 26 novembre 1803, n. 1605, p. 121. Il figlio di Fichte, nella prima parte dei suoi Vermischte Schriften, 1869, pp. 341 ss., nel saggio su Fichte e Schleiermacher, ha riportato una lettera di Calybäus, alla cui esposizione si richiama. «Ci si è rivolti in tempi più recenti in vari modi a Schleiermacher, per sfuggire al panteismo di Hegel, poiché – a prescindere dal differente contenuto – si spera e si crede di trovare in Schleiermacher ancora un appiglio per il principio di individualità. Per quanto questo possa essere rinvenuto in Schleiermacher, egli lo ha sicuramente ripreso da Fichte e bisogna perciò ritornare a quella fonte» (ivi, p. 344). J.H. Fichte ha accompagnato a questa affermazione una curiosa giustificazione. Dapprima riporta affermazioni tratte dai Rückerinnerungen del Nachlass, poi dalla Destinazione dell’uomo e prosegue: «Da qui, dalla Destinazione dell’uomo, secondo noi, ha preso avvio Schleiermacher, in particolare come teologo, cioè in ciò che gli è più proprio e più importante, la sua dottrina dell’origine della religione dal sentimento, in particolare nella forma del sentimento di dipendenza». (p. 354). J.H. Fichte non vede il fatto che i Discorsi sono apparsi prima della Destinazione dell’uomo e i Monologhi contemporaneamente a essa. Ciò non esclude un interiore accordo tra la Destinazione di Fichte e i Monologhi di Schleiermacher sotto diversi punti di vista. 123
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Con la forza costante del suo spirito Fichte lavorava a chiarire il punto nel quale l’individuo finito e l’infinito, che egli considerava come Io puro, sono tutt’uno e si separano. Sullo stesso punto vediamo concentrato lo sguardo di Schleiermacher. Al posto della causa immanente (immanente Ursache) di Spinoza, subentrava in Fichte la volontà. La morta relazione di sostanza e modo diveniva processo vivente, comprensibile attraverso l’analogia (Analogie) con il nostro essere. La visione metafisica fondamentale di Schleiermacher nega, in conformità alla sua originaria forma spinoziana, la determinazione fichtiana dell’infinito come elemento puramente spirituale. Tuttavia anche Schleiermacher descrive volentieri l’attività dell’infinito come agire dello spirito sul mondo, e altrettanto volentieri si rifà alla rappresentazione fichtiana, secondo la quale la voce della coscienza è il raggio, sul quale noi, come volontà finita, proveniamo dalla volontà infinita. La genesi dell’individuo è per lui un atto della libertà, della volontà124. Ora però nel punto decisivo, dove è necessario determinare la relazione dell’infinito a questa individuazione, Fichte rimane legato a Spinoza ed emerge, invece, il pensiero creativo di Schleiermacher, grazie al quale, se anche ogni altro suo merito cadesse nell’oblio, egli occuperà un posto intramontabile nella storia del pensiero filosofico. L’individuazione è, per Fichte come per Spinoza, una semplice limitazione dell’assoluto. Il Fondamento della dottrina generale della scienza riassume come segue la visione di questo punto: «è esaurito con ciò l’intero essere delle nature razionali finite. Idea originaria del nostro essere assoluto: tendere alla riflessione su noi stessi secondo questa idea: limitazione non di questo tendere, ma della nostra esistenza effettiva, posta solo attraverso questa limitazione, tramite un principio opposto, un non-Io o, in generale, tramite la nostra finitezza»125. Dallo stesso tratto fondamentale è poi progettata la profonda spiegazione fichtiana della coscienza (Gewissen); il punto centrale dei Monologhi è in evidente e dichiarata opposizione ad essa. Il puro impulso (Trieb) nasce quando «l’Io intuisce interiormente la propria possibilità assoluta» (cioè il medesimo assoluto in ogni io finito). «Non si può dire che questo impulso» (in tutti uguale, assoluto) «sia, come quello proveniente dall’impulso naturale, un desiderare (Sehnen); poiché esso non si rivolge a qualcosa che sarebbe atteso dalla natura, e che non dipende da noi. Esso è, piuttosto, un 124
Ath., 3, p. 294; SW III, 1, p. 533; Monologen, KGA I, 3, p. 42. Fichte, Gesammelte Werke, I, p. 279. Molto diversamente Schleiermacher in Monologen, KGA I, 3, pp. 15 ss. 125
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
chiedere assoluto ed emerge, mi esprimo così, con più forza nella coscienza (Bewusstsein), perché non si fonda su un semplice sentimento (Gefühl), ma su un’intuizione (Anschauung)». Si tratta, come dicono i Monologhi, di «trovare l’umanità», la «coscienza ininterrotta» o l’«intuizione interiore» di essa, che è in tutti sempre la medesima. Questo impulso originario in noi conduce all’accordo tra io originario e io empirico. Tale concordanza produce sì piacere (Lust), ma il piacere che riposa sull’appagamento dell’io più profondo e più interiore, cioè «soddisfazione» (Zufriedenheit). Sussiste qui, per così dire, una facoltà emotiva superiore, la coscienza (Gewissen). La tensione tra la richiesta di un Io assoluto, uguale in ogni cosa, e i sentimenti e gli impulsi della nostra natura radicati nei nostri limiti, è eliminata nella più elaborata dottrina della coscienza presente nei Monologhi: in essa inizia la vera etica, l’etica produttiva (bildende Ethik)126. Riassumiamo l’evidente risultato con le parole di Fichte. «Già prima sono stati separati drasticamente l’uno dall’altro l’elemento puro presente nell’essere razionale e l’individualità. L’esternazione e l’esposizione dell’elemento puro è la legge morale (Sittengesetz), l’individuale è ciò in cui ciascuno si differenzia dagli altri individui. L’elemento unificatore del puro e dell’empirico sta nel fatto che un essere razionale deve essere per eccellenza un individuo, ma non questo o quel determinato individuo; che uno sia questo o quell’individuo è casuale, perciò ha origine empirica. L’elemento empirico è costituito dalla volontà, dall’intelletto e dal corpo. L’oggetto della legge morale non è assolutamente alcunché di individuale, bensì è la ragione in generale»127. La portata di questa teoria si mostra nell’intuizione fichtiana del fine dell’uomo. «Il totale annientamento dell’individuo e il suo fondersi nella forma assolutamente pura della ragione o in Dio è certo lo scopo ultimo della ragione finita, tuttavia non è in alcun tempo possibile». L’errore dei mistici sta semplicemente nel considerarlo raggiungibile nel tempo. Forse Schleiermacher aveva di mira questa affermazione quando nei suoi diari scriveva: «che non si possa avere individualità senza personalità è l’elemento elegiaco della vera mistica»128. Il contrasto si accentua nel modo più evidente, quando Fichte dice, a proposito del singolo individuo: «egli è fine in quanto è mezzo per realizzare la ragione»129. L’ultima prova della portata e del vero significato di questa teoria fu il suo successivo sviluppo 126
Fichte, Gesammelte Werke, IV, pp. 142-147; Monologen, KGA I, 3, pp. 16-17. Fichte, Gesammelte Werke, IV, pp. 254, 256. 128 Gedanken V, KGA I, 3, n. 3, p. 283. 129 Fichte, Gesammelte Werke, IV, pp. 255.
127
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che, dal comune punto di partenza spinoziano, sfociava nel medesimo risultato metafisico di Spinoza. Soltanto l’unico, assolutamente invisibile, è vero, l’individuo è invece solo qualcosa di pensato, un’immagine, come ogni apparenza in questo mondo di immagini, un’ombra dell’ombra130. Da questa serie di pensieri deriva l’effettiva relazione tra l’Io fichtiano e il pensiero schleiermacheriano dell’individualità, nel quale stava la forza di superare il pathos dell’universale inteso come ciò che soltanto, in ultima istanza, è veramente reale, al quale tutto ritorna a partire dalla limitazione del singolo. E che anche Schleiermacher comprenda questa relazione nel senso esposto lo dimostra la Critica della dottrina dei costumi131. Da questo punto centrale dell’opposizione tra Schleiermacher e Fichte prende inizio il loro confronto nelle prime opere, nei Discorsi e nei Monologhi. La piena realtà del mondo fenomenico (sviluppata nei Discorsi), la positiva relazione dell’individualità all’infinito (espressa nei Discorsi e sviluppata nei Monologhi nelle sue conseguenze etiche) sono i punti da cui inizia Schleiermacher. Con piena consapevolezza egli si è dedicato all’esposizione scientifica del presupposto dei Monologhi, cioè del principiuum individui, come nucleo della sua visione mistica del mondo. «Ti prego», scrive a Brinkmann il 22 marzo del 1800, «non solo di guardare a quello che c’è qui [nei Monologhi], ma soprattutto al blanc de l’ouvrage, ai presupposti dai quali è derivato, e che io, se Dio vuole, penso di esporre, in un paio d’anni, in una critica della morale e in una morale vera e propria, in altro modo e secondo i crismi di scuola. Il principiuum individui è l’elemento più mistico nel terreno della filosofia e, dove tutto si lega immediatamente a ciò, l’intero ha dovuto ricevere senza dubbio un aspetto mistico»132. La magistrale critica, risalente all’estate del 1800, alla Destinazione dell’uomo di Fichte esprime in modo ancor più circostanziato la radicale opposizione tra i due pensatori. Essa individua come oggetto dell’opera la relazione dell’essere razionale finito all’infinito: il problema dello scritto era dunque, in questo senso, il punto centrale della mistica propria di Schleiermacher. Il corso nel quale Fichte intraprende a risolvere tale problema è costituito dalla esposizione e dalla risoluzione del sistema della necessità naturale, dalla fondazione del punto di vista critico, e, infine, dall’edificazione su questo terreno dell’idealismo etico. La sua esposizione procede così 130
Fichte, Gesammelte Werke, VII, pp. 375-377. Schleiermacher, Grundlinien einer Kritik der bisherigen Sittenlehre, KGA I, 4, pp. 53 ss., 91 ss. 132 KGA V, 3, Lettera a Brinkmann, 22 marzo 1800, n. 817, p. 434. 131
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dall’intuizione dell’infinito a quella dell’io, e queste due intuizioni sono i due punti focali della linea che descrive anche la visione del mondo di Schleiermacher. Il profondo contrasto delle due prospettive sul medesimo problema veniva in tal modo percepito ancor più acutamente. La critica schleiermacheriana è, per così dire, in lotta con l’elemento affine e al contempo estraneo del libro di Fichte. È tipica di Schleiermacher un’ironia oggettiva, che riassume le debolezze di un’opera in un unico punto di vista, a partire dal quale esse sono chiarite apparentemente con grande benevolenza, mentre, in realtà, vengono illuminate in modo impietoso. Questa scoperta di un immaginario punto centrale è lo scherzo di un pensatore che, in realtà, procede incalzante fino al nucleo di ogni fenomeno. Le critiche di Engel e dell’antropologia di Kant sono strutturate allo stesso modo. Il capolavoro di questo metodo è proprio la critica della Destinazione dell’uomo, che contiene il risultato di un confronto molto approfondito. Schleiermacher scrive il 2 luglio del 1800: «questo si chiama ora recensire. Con il Fichte, al contrario, recensire è per me molto faticoso. Ieri non ho fatto quasi niente, il giorno mi è volato, e oggi ho di nuovo rielaborato tutto ciò che avevo fatto. Però ora sono sicuro che ho ragione, mentre prima non lo ero». Due giorni dopo: «Trionfo! In questo momento è pronto il Fichte – e l’empio libro, che non posso sufficientemente maledire, è già tornato al suo vecchio posto»133. La critica fece giustificato scandalo. Friedrich scrisse: «mi ha interessato al di là di quanto posso spiegare. La rileggerò spesso». «In effetti, non ho mai visto né sentito qualcosa del genere, cioè una recensione filosofica»134. Wilhelm: «Quello sopra la Destinazione dell’uomo è un capolavoro di finezza per ironia, parodia e rispettosa delicata arcidiavoleria»135. Giunse notizia della reazione di Schelling: «anche Schelling ha avuto una grande gioia per la recensione sulla Destinazione e la ha trovata eccellente, mentre non è solito rendere giustizia ai Suoi lavori»136. Gli amici erano molto ansiosi di vedere come Fichte avrebbe preso questa prima voce critica proveniente dalla loro cerchia. «In effetti», scriveva Schleiermacher a Wilhelm Schlegel il 29 agosto del 1800, «mi aveva preoccupato che Lei e Friedrich poteste ritenere che non mi ero comportato con Fichte in modo sufficientemente prudente, anche a prescindere dal fatto che non saprei fare di meglio. Quando vidi Fichte per 133
KGA V, 4, Lettera a Henriette Herz, 2 luglio 1800, n. 901, p. 119. Br. III, Lettera di Friedrich Schlegel, senza data, p. 209. 135 KGA V, 4, Lettera di August Wilhelm Schlegel, 20 agosto 1800, n. 933, p. 207. 136 Ivi, Lettera di August Wilhelm Schlegel, 8 settembre 1800, n. 947, p. 254. 134
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la prima volta dopo la pubblicazione della mia recensione nell’Athenaeum, egli disse solo di non averla ancora letta con attenzione; ieri l’altro, quando me ne volevo andare, mi disse che doveva parlarmene ancora diffusamente, ma non avevo in quel momento abbastanza tempo: tornerò comunque al più presto da lui. Ha detto a Bernhardi che io lo ho voluto canzonare, ma sfortunatamente ho canzonato me stesso. Forse ha detto di più, ma Bernhardi non me lo ha riportato. Cercherò di eliminare entrambi questi giudizi e di parlargli in modo veramente franco della cosa». Questo dialogo non apportò nulla, come d’altronde accadde in ogni successivo confronto tra Fichte e Schleiermacher sulle loro divergenze. Certo trapelava che Fichte era molto ferito. Nelle settimane seguenti Fichte osservava, in una lettera a Schelling: «so da molto tempo dove alberga il motivo di questa diversità tra noi: proprio lì dove sta anche il motivo del disappunto degli altri con l’idealismo trascendentale; e so perché Schlegel e Schleiermacher chiacchierano del loro errato idealismo e l’ancor più confusionario Reinhold del suo bardilianismo137. Il motivo è che io non sono ancora riuscito a edificare il mio sistema del mondo intelligibile»138. Si sbagliava. La forma ironica della recensione la rende particolarmente difficile. Essa è suggerita dal dispiacere per la nuova fase “popolare” di Fichte, condiviso notoriamente anche da Herbart. Schleiermacher chiarisce lo sviluppo e il risultato dell’opera a partire dall’interesse pedagogico dello scrittore popolare, che magnanimamente si immagina le strade errate imboccate da un Io che, mal preparato, si mette a leggere; addirittura si identifica con esso, al punto che, alla fine, il critico deve portare aiuto a questo Io, cosciente del proprio risultato solo a metà. Di questo percorso artificioso mettiamo in luce solo alcune tracce delle differenze tra Fichte e Schleiermacher, che concernono tre aspetti. 1. Fichte accoglie il sistema della necessità naturale all’interno dell’idealismo critico ed etico. In questo sistema della necessità, secondo lui, l’infinito è concepito come semplice natura. Schleiermacher, da parte sua, attacca questa polemica di Fichte. I motivi che stanno alla base di questa polemica sono, secondo lui, l’erronea apparenza «pratica, alla quale 137 [Christoph Gottfried Bardili (1761-1808), studioso di teologia, filosofia e scienze naturali, studiò allo Stift di Tubinga. Interprete della filosofia kantiana, nel famoso Grundlage der ersten Logik, gereinigt von der Irrtümer der bisherigen Logiken überhaupt, der kantischen insbesondere. Keine Kritik, sondern eine medicina mentis, brauchbar hauptsächlich für Deutschlands kritische Philosophie, 1800, illustrò la propria filosofia dell’identità che poi, attraverso Reinhold, ha avuto ampia diffusione]. 138 Lebens Fichte, 2, p. 321.
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l’uomo si attacca nel modo più saldo», «l’interesse per la personalità come essenza finita», il bisogno di «responsabilità, merito e colpa nel suo sviluppo e nel suo agire nel mondo». Invece, secondo Schleiermacher, tale apparenza pratica doveva essere superata e doveva essere sintetizzata la verità presente in entrambi i sistemi. Poi, e solo poi – così si può riprodurre il corso dei pensieri di Schleiermacher – sarebbe stata riconosciuta la connessione di ciò che rimane nello spinozismo e di ciò che rimane nell’idealismo morale. Questa connessione, nella forma in cui essa stava di fronte a Schleiermacher, è espressa, anche se con terminologia fichtiana, nelle seguenti parole: «ora l’Io sa che la voce della coscienza (Gewissen), che impone a ciascuno la sua particolare vocazione, e attraverso la quale la volontà infinita si riversa nel finito, è il raggio, sul quale noi proveniamo dall’infinito e veniamo istituiti come esseri singoli e particolari»139. 2. Dopo aver superato la visione spinozista del mondo, Fichte deduce la destinazione dell’uomo da una volontà divina a lui esterna e dal suo progetto universale. L’infinito viene inaspettatamente rappresentato come una volontà. «Come può», giudica Schleiermacher, «uno che vuole credere alla libertà e alla autonomia, interrogarsi su una destinazione dell’uomo? E cosa può significare poi questa domanda, dopo che è stata preceduta dall’altra: cosa sono io?»140. 3. Fichte prosegue quella errata opposizione tra natura e spirito, e, all’interno dell’etica, questa sbagliata teologia. La questione fondamentale dell’etica è quella della natura dell’uomo (qui l’etica di Schleiermacher si innesta nel suo primo progetto), del sommo bene141. La relazione tra i due uomini, di cui abbiamo dato conto, si rispecchia nell’impressione che Schleiermacher provò nel suo rapporto personale con Fichte da quando si incontrarono a Berlino. Si videro la prima volta e si frequentarono, con vicinanza solo esteriore, quando Fichte venne a Berlino cercando protezione. Subito dopo il suo arrivo, il mattino del 4 luglio del 1799, Dorothea lo condusse da Friedrich Schlegel e da Schleiermacher, che abitavano ancora insieme. Passarono insieme quasi l’intera giornata. Era il tempo in cui Fichte aspettava ogni giorno di essere espulso. Mangiò per un lungo periodo quotidianamente da Dorothea con Friedrich e Schleiermacher. Menzionò alla moglie il “pre139
Rezension von Fichte, Bestimmung des Menschen, KGA I, 3, p. 247. Ivi, pp. 240-241. 141 Secondo un quaderno di Böck a mia disposizione della prima lezione a Halle. 140
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dicatore riformato” il 20 luglio presentandolo come amico di Friedrich e commensale, senza farne il nome. La prima impressione non deve essere stata significativa. Schleiermacher, da parte sua, metteva meglio a fuoco il famoso uomo. Lo definiva «il primo filosofo speculativo dell’epoca», il più grande dialettico che aveva mai sentito parlare, e ammirava il suo grandioso talento di spiegarsi. Ma non trovava, in Fichte, dettagliate conoscenze in relazione alle singole scienze né alla filosofia stessa, nella misura in cui, in quella, sono contenute conoscenze particolari; non vi incontrava né visioni né combinazioni originali e scoprì addirittura una mancanza generale di spirito e di fantasia. Non era per lui né istruttivo né degno d’amore, non si sentiva in alcun modo attratto dalla sua persona. «Filosofia e vita sono per lui, come d’altronde egli stesso teorizza, del tutto separate, il suo naturale modo di pensare non ha nulla di straordinario e così gli manca, fintantoché si trova su un punto di vista comune, tutto ciò che può renderlo per me un oggetto interessante. Prima che arrivasse, coltivavo l’idea di parlare con lui della sua filosofia, e di dirgli la mia opinione, cioè che non mi pare corretto il suo metodo di separare il punto di vista comune da quello filosofico. Ma ho subito ammainato questa vela»142. L’incontro personale, le discussioni in molte occasioni comuni, lo sviluppo scientifico di entrambi non fecero altro che accentuare in Schleiermacher questa impressione. La nuova generazione. L’intuizione intellettuale. Questa era la relazione di Schleiermacher con la più vecchia generazione di filosofi. Accanto ad essa iniziarono a diventare significativi, negli anni 1797 e 1798, i lavori dei filosofi contemporanei più giovani, affini a Schleiermacher. Si formò una cerchia consapevole del proprio legame, anche se tutt’altro che unanime, nella quale spiccavano Schelling, Friedrich Schlegel, Novalis, Hülsen, Steffens, Schleiermacher. C’è una profonda differenza tra lo sviluppo poetico e quello scientifico della giovane generazione. Le medesime condizioni che condannarono la poesia a un brillante epigonismo diedero al movimento scientifico una forza crescente e ricca di futuro. Gli impulsi ideali, che abbiamo riassunto, concessero a questa generazione un ruolo originale nei confronti della tradizionale erudizione tedesca e dei nuovi progressi avvenuti in Europa nelle scienze naturali, nella storia e nella critica. Uno sguardo universale e l’influsso di alcune idee dominanti nelle loro ricerche caratterizzano la 142
KGA V, 4, Lettera ad August Wilhelm Schlegel, 19 luglio 1800, n. 915, pp. 166 ss.
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maggior parte dei ricercatori tedeschi più importanti di questa e della successiva generazione. Ma tutta la ricchezza di risultati analoghi, provenienti dalla filosofia e dalla poesia tedesche precedenti, si raccolse nella cerchia dei filosofi idealisti. I metodi che si formarono qui non sono affatto semplici riformulazioni della dialettica elaborata da Fichte in vista del proprio compito. Essi si basano anche sull’essenza di quella intuizione intellettuale (denkende Anschauung) che l’epoca poetica cercava di sviluppare per le scienze. Essa è caratterizzata dallo sforzo di comprendere i fenomeni a partire dalla totalità che non può essere espressa in alcuno concetto143. Poiché, però, noi scendiamo metodicamente da un elemento generale a un gruppo particolare di fenomeni sempre solo attraverso una suddivisione, che articola l’estensione di quell’elemento generale, nell’intuizione intellettuale (denkende Anschauung) stessa è presente ovunque una tendenza al metodo deduttivo che procede per suddivisione, dunque una tendenza alla speculazione, alla dialettica e all’articolazione sistematica. Passa attraverso i lavori scientifici di Goethe l’inclinazione a materializzare i suoi risultati. Goethe stesso ne ha chiariti alcuni tramite tavole, quasi fosse possibile elaborare tali illustrazioni per tutti i casi. Egli ricorda volentieri di aver realizzato, insieme a Schiller, alcuni «schemi simbolici». La stessa intuizione intellettuale presente in lui, che avvicina la poesia, negli ultimi anni della sua vita, al simbolico, diede ai suoi lavori scientifici un’inclinazione al tipico, alla classificazione schematica dei fenomeni. Goethe stesso sentiva qui (ma non solo qui) di essere legato alla filosofia della natura. Così diceva a Steffens, ricollegandosi ai contributi di questo sulla storia naturale della terra: «ai francesi l’intuizione manca completamente», sosteneva, e profetizzava da ciò il destino che la filosofia della natura avrebbe incontrato in Francia144. D’altra parte, anche la filosofia della natura era consapevole del proprio spirito poetico. È degno di menzione che Schelling, nel 1799, lavorasse a un grande poema sulla natura, e che un «epos del tutto» aleggiasse davanti agli occhi di Steffens, come l’unica materia in armonia con la sua intuizione poetica, per quanto essa oltrepassasse ogni forza poetica145. La tendenza dinamica della ricerca naturale era affine al
143 Goethe, Analyse und Synthese: «Un secolo, che ricorre solo all’analisi e teme per così dire la sintesi, non è sulla giusta via: poiché solo entrambe insieme, come inspirazione ed espirazione, costituiscono la vita della scienza» (WA, Naturwissenschaftliche Schriften, 11, 1893, pp. 70-71). «La cosa principale è che nella natura ogni analisi presuppone una sintesi», cfr. HA, 13, p. 51. 144 Steffens, Was ich erlebte, cit., IV, pp. 416 ss. 145 Br III, p. 146. Steffens, Was ich erlebte, IV, pp. 402 ss.
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pensiero intuitivo (anschauuendes Denken); il significato reale dell’opposizione (Gegensatz) emerse nella deduzione kantiana della materia, nello studio del magnetismo e dell’elettricità che impegnò molti ricercatori durante gli anni Novanta. Lo stesso Goethe, in un’espressione risalente ad anni successivi, spiega che la polarità (Polarität) è come una delle due grandi ruote motrici dell’intera natura, in quanto materia146. Anche le visioni del mondo si svilupparono nella giovane scuola sotto l’influsso dominante di quei due tipi di intuizione, che costituiscono la base di tutto il nostro racconto. Il tipo di intuizione di Goethe e Herder si diffuse in modo vario in un panteismo poetico: come passando per infinite vene, esso si riversò, attraverso la letteratura poetica, nella speculazione e nella ricerca scientifica. Schiller, meno autonomo di Goethe nel pensiero filosofico, ma ugualmente impegnato nella formazione di una visione filosofica del mondo, ripercorse i gradi storici della filosofia moderna, il punto di vista di Spinoza, di Leibniz, di Kant. Le Lettere filosofiche segnano il punto di passaggio del suo percorso attraverso il panteismo. «Dio e natura sono due grandezze che si uguagliano completamente»; «la natura è un Dio infinitamente suddiviso»147. Nello Stift di Tubinga Hölderlin scrisse, nel diario di Hegel, quel “en kai pan” che, per mano di Lessing, sta scritto al Gartenhaus di Gleim; la medesima espressione attraversa tutti i fogli del Lovell di Tieck. Ovunque l’uomo vi appare come il supremo prodotto della natura creatrice. Lo straordinario contributo di questa intuizione poetica goethiano-herderiana alla formazione dei sistemi filosofici di questa nuova generazione verrà dimostrata con precisione a suo tempo: si tratta di un elemento la cui portata fino ad ora non è stata per nulla scientificamente riconosciuta. L’orizzonte concettuale kantiano contrapponeva la volontà razionale all’intera natura. Tuttavia la giovane generazione trovò in Kant idee che si lasciavano connettere in un’unica totalità con quelle di Goethe e Herder. Kant aveva postulato l’unità di natura e libertà: è noto come Schiller e Wilhelm von Humboldt, all’interno dei confini del criticismo, usarono l’idea di un’originaria unità di natura e spirito come filo conduttore per le loro ricerche. Kant aveva posto il fondamento per la concezione dinamica della totalità naturale, e nel genio artistico aveva ritrovato la stessa unità di libertà e natura che gli era apparsa già nel mondo organico. La riformulazione fichtiana della dottrina di Kant offrì alla gioventù filosofica i pensieri che condussero al panteismo. 146 147
Cfr. Goethe, HA, XIII, p. 48. Theosophie des Julius, in Schiller, Philosophische Briefe, 1786.
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Quando i risultati della ricerca naturale e degli studi storici si aggiunsero alle idee poetiche e filosofiche della nostra epoca classica, si formarono i sistemi che hanno conseguito un così profondo e duraturo influsso sulla formazione tedesca. Tali sistemi, prima di tutto quelli di Schelling, Steffens e Hegel, sono i più vicini alla visione schleiermacheriana sviluppata in forma filosofica. In particolare, la filosofia di Schleiermacher, progettata a Halle nel 1804, secondo le esplicite dichiarazioni di Schleiermacher e di Steffens in questi anni, è vicinissima alla forma ottenuta dal sistema di Schelling grazie alla mediazione di Steffens148. Perciò il fondamento scientifico per la comprensione del sistema di Schleiermacher, cioè per lo sviluppo e il perfezionamento della sua visione etico-religiosa del mondo e della vita in una connessione di concetti saldamente fondata dal punto di vista scientifico, sta in uno studio comparativo di questo intero gruppo di sistemi, che esponga la loro genesi, la legge generale del loro sviluppo, fondata nel loro atteggiamento comune, e il punto di partenza della loro differente formazione. Un tale studio apporta, nello stesso tempo, un completamento essenziale alla trattazione che essi hanno avuto fino ad ora. Questa trattazione non si è ancora pienamente liberata, cosa abbastanza strana, del punto di vista sotto il quale questi sistemi sono apparsi a Hegel come semplici gradi di sviluppo verso la sua filosofia. E così è accaduto che non sono stati riconosciuti fino in fondo né la vera storia degli effetti contemporanei ai quali essi sottostanno (per esempio quelli della dottrina platonica delle idee, che da soli formerebbero un capitolo importantissimo) né il vero corso dei singoli sviluppi. Se l’ultima forma assunta dal sistema schellinghiano viene considerata come una degenerazione, i maturi esiti di Schelling, di Steffens, di Schleiermacher, di Friedrich Schlegel (per molti aspetti anche quello di Hegel) sono stati spiegati a partire da motivi particolari, egoistici, in breve, non sono stati veramente interpretati. D’altra parte Schopenhauer ha saputo nascondere la connessione del suo sistema con questo gruppo di filosofie, all’interno del quale esso è cresciuto insieme con la sua dottrina della volontà e con la sua dottrina delle idee. 148
Dal punto di vista del contenuto questa concezione può essere fondata sul confronto della visione schleiermacheriana del mondo qui sviluppata e delle comunicazioni tratte dal primo progetto dell’etica del 1804, nell’edizione di Schweizer (completabile con i quaderni di appunti di Böckh) con il saggio di Steffens Durch die ganze Organisation sucht die Natur nichts als die individuelle Bildung, nei Beiträge zur inneren Naturgeschichte der Erde (1801), pp. 275, in particolare con Grundzügen der philosophischen Naturwissenschaft. Grazie a questi ultimi è possibile aggiungere, alle spiegazioni di Schleiermacher, quelle di Steffens (Vorrede, pp. 15-22) sulla sua relazione con Schelling e con Schleiermacher.
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A questo punto bisogna rispondere solo alla domanda, in quali limiti questa generazione può aver agito sulla nascita della visione del mondo e della vita di Schleiermacher del 1800.
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Relazione con Friedrich Schelling Schelling, Eschenmeyer, Ritter, Steffens intrapresero a elaborare, a partire dai risultati della ricerca naturale, la nuova visione del mondo. La chimica era al suo primo fiorire, le scoperte sul galvanismo sembravano illuminare il mistero del processo vitale; Werner poneva la base per una storia della terra; le leggi che Kielmeyer, sebbene prematuramente, costruì, sulla base delle relazioni delle forze organiche l’una con l’altra, nella serie di diversi organismi, apparvero chiarire la successione dei gradi del mondo organico. Non sussisteva in questo periodo una relazione personale di Schleiermacher con Schelling. Che Schleiermacher abbia letto fin da giovane gli scritti di filosofia della natura di Schelling lo testimoniano i diari149. Egli stesso, allora, non trascurava la matematica e la chimica. Tuttavia è evidente una profonda relazione solo con le idee generali del principale rappresentante della filosofia della natura. In un’epoca successiva Schelling ha rivendicato il merito, «specialmente per la filosofia della natura», del fatto che, in questo gruppo di filosofi contemporanei, fosse tentata una spiegazione del mondo sotto il presupposto della vera realtà (Realität) del mondo esteriore, ordinato in spazio, tempo e movimento. Egli paragona scherzosamente il metodo di colui che inizia la spiegazione del mondo, «considerando una notevole parte del mondo come non esistente», con il metodo di un chirurgo «che taglia più volentieri una parte che dovrebbe curare, perché questa è certo la strada più breve per liberare qualcuno dal fastidio che essa gli causa»150. La visione del mondo di Schleiermacher contiene, nella fondazione religiosa del realismo (Realismus), 149 Che già nel 1798 si parlasse dell’anima del mondo in questa cerchia è testimoniato da Br. III, p. 78. 150 Schelling, Darstellung des philosophischen Empirismus, Sämtliche Werke, I-XIV, a cura di K.F.A. Schelling, Stoccarda-Augusta, 1856-1861, I, 10, p. 234. Su una tendenza fondamentale della sua filosofia, cioè l’intuizione dell’infinito nel finito, comune a Schleiermacher, cfr. Schelling, I, 10, p. 397, nella Premessa agli scritti postumi di Steffens, e 2, 2, pp. 39, 40. Questa tendenza fondamentale si vede anche negli scritti giovanili. Cfr. I,1, pp. 366 ss.; 1,2, pp. 3 ss. Per Hegel, cfr. Rosenkranz, Leben, pp. 98 ss.; Haym, Leben, p. 88, dove si trova una rettifica dei manoscritti hegeliani.
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un punto di partenza per questa congettura indipendente dalla filosofia della natura. Schleiermacher andò molto vicino alla concezione del problema della presenza dell’infinto nelle cose finite, contenuto nei primi scritti di Schelling, in quanto, come Schelling, partiva dal collegamento di Spinoza, Leibniz e Fichte. Non esiste, neppure secondo Schelling, un passaggio dall’infinito al finito. Inutilmente Spinoza si sforzava di sfuggire a questa difficoltà. La soluzione di questa difficoltà sta in Leibniz e la filosofia deve quindi rinnovarne il punto di vista. Essa si basa sul concetto di individualità, nel quale è presente, nello stesso tempo e in modo immediato, un’originaria unione di finito e infinito. «Leibniz non passò né dall’infinito al finito, né da questo a quello, bensì entrambi erano per lui resi reali, in una volta sola e contemporaneamente, attraverso l’unico e medesimo sviluppo della nostra natura, attraverso l’unico e medesimo sviluppo dello spirito»151. Schelling tenta una “prova apagogica” di questa affermazione. «O siamo originariamente infiniti, e allora non comprendiamo come siano nate in noi rappresentazioni finite e il succedersi di rappresentazioni finite; o siamo originariamente finiti, e così è inspiegabile come sia giunta in noi un’idea di infinito, insieme alla capacità di astrarre dal finito»152. Nella successiva trattazione si mostra senza dubbio l’influsso di Schelling, in particolare del suo scritto Dell’anima del mondo153, sulla concezione schleiermacheriana del 1800. I Discorsi deducono tutte le esistenze particolari dai molteplici mescolamenti delle opposizioni reali (reale Gegensätze). Essi accolgono da Schelling «entrambe le forze della natura materiale» e seguono nello spirituale la deduzione di ogni singola esistenza dai vari legami di forze opposte. Così essi contengono già l’intera impostazione del sistema più maturo. Appare difficile, invece, giudicare il legame di Schleiermacher e Schelling in relazione alla forma della concezione nella quale, per essi, era dato l’universo. L’affinità e la profonda differenza di tutto questo gruppo di sistemi contemporanei si esporrà infatti in due modi, secondo il contenuto e secondo la forma. Al centro dell’evoluzione della forma stanno il concetto di intuizione intellettuale e le singole forme della articolazione sistematica date in esso. Ho già esposto la prima elaborazione di questa forma in Spinoza, Goethe e Kant. Nell’intuizione intellettuale sono affini e comprendono la loro affinità la poesia, che rappresenta il generale nel particolare, e la 151
Schelling, Sämtliche Werke, II, 1, p. 37. Schelling, Sämtliche Werke, I, 1, p. 368. 153 Von der Weltseele, 1798. 152
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speculazione, che riconosce il generale nel particolare. Di fronte alla vera natura di ogni visione del mondo, se tentiamo di formulare la legge dello sviluppo di questo gruppo di filosofie, emergerà così il decisivo problema del significato perenne di questa intuizione intellettuale. Ma in questo periodo, fino al 1799, la filosofia della natura non ha ancora sviluppato tale concetto. Esso si lega, invece, a un altro punto di partenza. Anche Fichte aveva chiamato in causa l’intuizione intellettuale. Il concetto di Fichte si collega alla appercezione trascendentale di Kant. Fichte stesso ha esposto questa connessione contro Kant e Schulze. Intuizione intellettuale è per Fichte la coscienza che l’Io ha della sua originaria attività: «una coscienza immediata si chiama intuizione; e poiché qui l’intelligenza come tale, e solo essa, viene intuita immediatamente, questa intuizione si chiama, a buon diritto, intuizione intellettuale. Essa è però anche l’unica, a suo modo, che si trova originariamente ed effettivamente, senza la libertà dell’astrazione filosofica, in ogni uomo». Nello stesso senso Schelling si serve di questo concetto nei primi scritti. Precisamente lo scritto Sull’Io come principio della filosofia154 mostra che l’intuizione intellettuale sta al di là della coscienza come presupposto della coscienza stessa. L’ottava lettera su Dogmatismo e criticismo spiega che questa intuizione intellettuale di sé (intellektuelle Selbstanschauung) in Spinoza e nei mistici è stata obiettivata come intuizione dell’universo (Anschuung des Universums). Anche in tale contesto si nota che, in quest’epoca, Schleiermacher aveva già fatto un passo che altri filosofi fecero solo più tardi e in altro modo: egli collega nella connessione originale del suo sistema l’intuizione fichtiana di sé e la spinoziana intuizione dell’universo155. Relazione con Friedrich Schlegel e Novalis. Le tracce di una trattazione filosofica della storia nei Frammenti di Friedrich Schlegel. Completamente diversa fu la relazione di Schleiermacher con coloro che si occupavano del mondo umano, del mondo storico. Prima che fosse tentato un sistema universale, accanto ai filosofi della natura un gran numero di pensatori lavorava alla formazione di una filosofia dello spirito (Geistesphilosophie), di una filosofia della storia. È merito di Friedrich Schle-
154
[Über Ich als Prinzip der Philosophie, 1785]. La spiegazione schellinghiana della storia di questo concetto si trova in WW I, 10, pp. 147 ss. Per il concetto di intuizione intellettuale cfr. Fichte, Werke, IV, pp. 45 ss. Per le relazioni con la appercezione trascendentale cfr. Fichte I, p. 471 ss. Per l’uso del concetto nel primo Schelling, cfr. I, 1, pp. 181, 316 ss., 168 ss., 401 ss. 155
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gel essere stato la mente direttiva per questo secondo, e di gran lunga più fruttuoso, gruppo di studi; i Frammenti nell’Athenaeum contenevano il seme della sua filosofia dello spirito (Geistesphilosophie). Ancora nell’anno della loro pubblicazione Schelling tentò di dimostrare, nel Philosophisches Journal, che era impossibile una filosofia della storia; la storia gli appariva, infatti, come lo spazio dell’arbitrio imprevedibile, che nessuna teoria poteva dominare. Friedrich Schlegel si espresse a buon diritto in modo molto sprezzante sui sofismi contenuti in questo saggio156. I Frammenti di Friedrich nacquero nel tempo della più felice comunità spirituale con Schleiermacher, durante l’inverno e la primavera del 1798. Perciò l’amico sapeva bene che la maggior parte di questi frammenti non erano capricci paradossali di una mente ricca di spirito, come fino ad ora sono stati considerati, bensì comunicazioni di idee filosofiche a lungo coltivate. «Sono convinto», scriveva a Wilhelm, «che Friedrich non possa esporre diversamente la sua filosofia e che, anche se potesse, ciò non gioverebbe a nulla, mentre essa al contrario può in tale forma esercitare un grande effetto»157. Vedeva tuttavia giustamente ciò che colpiva l’immatura concezione di questa filosofia dello spirito; il suo spirito acuto si dimostrava però prevenuto dalla simpatia, quando sperava che la comunicazione di questa filosofia in tale forma ottenesse un grande effetto, quando attendeva di veder maturare i frutti di questo entusiasmo. Due anni più tardi giudicava già diversamente: Schlegel «con il suo grande sistema, con la sua visione generale dello spirito umano, delle sue funzioni, dei suoi prodotti e delle sue condizioni non è ancora giunto a chiarezza». «È un vero peccato e un’infinita sfortuna che egli debba far sempre stampare i lavori frammentari, che nascono in lui da questo interiore impulso e che sono comprensibili e interpretabili solo a partire da esso. Ciò farà sì che egli, ancora a lungo, rimarrà misconosciuto e forse anche in seguito, quando si sarà perfezionato, non potrà farsi valere come merita»158. Erano necessari ancora molti anni e molte esperienze dolorose per rendere chiara a Schleiermacher la curiosa sproporzione che rendeva impossibile a questa natura giungere a piena maturità. I grandi progressi nella comprensione storica, avvenuti in questa nuova epoca, riposano da un lato su una critica penetrante e, dall’altro, su un approfondito studio della natura umana e delle sue relazioni con il mondo. In nessun luogo la conoscenza filosofica è stata più strettamente connessa con la ricerca storica che in Germania. Si dovrà riconoscere a Friedrich Schlegel 156
Walzel p. 393. Schelling, Werke, I,1, pp. 465 ss. KGA V, 2, Lettera ad August Wilhelm Schlegel, 6 marzo 1798, n. 459, pp. 289 ss. 158 KGA V, 3, Lettera a Brinkmann, 23 dicembre 1799-4 gennaio 1800, cit., p. 315. 157
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di aver colto il fondamentale processo spirituale sul quale riposano le scienze storiche, quando (non so se sollecitato da Schleiermacher o autonomamente) risalì alla natura del comprendere (Verstehen) e del ricostruire (Nachkonstruieren). Egli riconobbe lo scopo ultimo che è posto in queste scienze, quando volle scoprire le leggi di formazione (Bildungsgesetze) dei singoli sistemi di cultura in virtù dello studio dei fenomeni storici. Così Schlegel espresse ciò che in quest’epoca cominciava a farsi strada nei poeti, nei filosofi, negli storici. Ma qui era anche il suo limite. Schlegel non era uno spirito analitico; cosciente di questa debolezza, affermava volentieri che il genio si muove ovunque in modo puramente sintetico. Gli mancava perciò il grande strumento necessario per scoprire le vere leggi di formazione, cioè l’analisi dei fenomeni. Il suo metodo non andò oltre il concentrare i fatti, per così dire, in visioni generali, e strutturarli tra loro. Solo questo diede a Schlegel un vantaggio rispetto a Hegel: egli, non impedito dai presupposti della dialettica, era dedito all’intuizione storica (geschichtliche Anschauung); gli mancava, invece, la chiarezza logica, l’interiore saldezza di concetti elaborati una volta per tutte. Anche di questo Schleiermacher si accorgeva; mai si è parlato in modo più sprezzante dei mezzi di un rigoroso metodo scientifico che nei Frammenti: tali mezzi erano per Schlegel come necessarie formalità della filosofia dell’arte; richiedeva nei loro confronti lo stile categorico delle 12 tavole, che fu poi effettivamente introdotto da Oken159. Nacquero quei «cari concetti ipostatizzati», come Wilhelm li chiamò più tardi, canzonando già allora il fratello, così che alla fine tutto il suo genio si limitava alla terminologia mistica160. Si sviluppava senza freno il curioso metodo ora di raccogliere quei concetti in antitesi, ora di completarli, mediante cerchie parallele di fenomeni: in breve, di abbandonarli ad una combinazione senza pace. Relazioni, analogie, antitesi dovevano, in un tale spirito, moltiplicarsi, proliferando così sontuosamente, che nulla appariva più impossibile. Se la forma frammentaria raddoppiava l’apparenza di pienezza, poteva nascere la strana impressione suscitata dalle tre raccolte di frammenti di Schlegel e dalle sue introduzioni a Lessing. Per quanto l’armonia stilistica, come accadde nei suoi lavori più tardi, nascondesse questa incompiutezza, la vuota apparenza di unità, più ancora dell’aperta mancanza di regole, feriva chi guardava con maggior attenzione: tutte le punte sono smussate, la struttura dei pensieri assomiglia a un corpo senza ossatura. Nei Frammenti, di cui ora esponiamo il contenuto, viene indicato come imperativo categorico di ogni teoria l’intuizione intellettuale. Questa ha il 159 160
Ath., 1, II, pp. 21-22. Wilhelm Schlegel a Windischmann, Werke, VIII, p. 291. Br. III, p. 71.
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compito di comprendere (verstehen) e caratterizzare (charakterisieren) gli individui come sistemi, i sistemi come individui; nazioni ed epoche diventano individui storici (nei quali poi nascono, come monadi centrali, certi modi di rappresentazione, classificazioni etc.); addirittura la poesia e la filosofia, intese entrambe come una totalità, appaiono in forma individuale. A questa intuizione intellettuale (intellektuelle Anschauung) lo scritto di Friedrich su Lessing affida il compito di una costruzione storica della totalità dell’arte e della poesia: inoltre, le lezioni del 1804 cercano nell’idea della totalità infinita, nella connessione organica di tutte le cose, le categorie della nostra concezione del mondo161. Questo “comprendere” (Verstehen) a partire dalla totalità è l’elemento caratteristico del pensiero di Friedrich Schlegel. «Porsi arbitrariamente ora in questa ora in quella sfera, come in un altro mondo, non semplicemente con l’intelletto e con l’immaginazione, bensì con l’intera anima; rinunciare liberamente ora a questa ora a quella parte della sua essenza, limitandosi a un’altra; cercare ora in questo ora in quell’individuo il suo “uno e tutto”; trovare e dimenticare intenzionalmente tutto il resto: ciò può farlo solo uno spirito che contiene in sé, per così dire, una molteplicità di spiriti e un sistema completo di persone, e nella cui interiorità l’universo che, come si dice, deve germinare in ogni monade, è cresciuto e diventato maturo»162. Per quanto egli trovi qui fondato il più alto significato della filologia, essa deve essere messa in contatto con la filosofia163. Su questa strada viene preparato quell’importante concetto di enciclopedia, che l’opera su Lessing determinò in seguito più da vicino. Lo sviluppo della totalità del mondo spirituale è determinato dalla necessità delle leggi storiche. «L’apparenza di mancanza di regole nella storia dell’umanità nasce solo dai casi di collisione di sfere eterogenee della natura, che qui si incontrano e si intrecciano tutte». A questo punto Friedrich sottolinea l’idea elaborata da Condorcet di una dinamica storica (historische Dynamik). Il più importante gruppo di fenomeni era, per lui e per la sua epoca, quello della poesia. Egli esprime la conformità a leggi di tutti i fenomeni storici in questo contesto attraverso la formula: la perfetta comprensione del sistema universale della poesia dovrebbe riuscire un giorno a prevedere in esso addirittura il ritorno delle comete. Trovare la struttura di questo sistema universale era stato lo scopo dei suoi primi tentativi. Al posto della 161 Ath., 1, II, pp. 20, 31, 32, 66, 74, 127. Philosophische Vorlesungen, I, 1804, pp. 88 ss. Cfr. Charakteristiken I (1801) pp. 257 ss.; Lessings Geist (18102), pp. 39 ss. 162 Ath., 1, II, p. 32 (n. 121). 163 Ivi, pp. 24, 124.
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contrapposizione di poesia oggettiva e interessante subentrò l’opposizione di poesia classica e romantica. La poesia moderna trovò la sua espressione in tre sistemi dell’arte. Vi è un’epoca della poesia trascendentale, che ha come suo oggetto la relazione di reale e ideale e il cui più grande poeta è Dante; la poesia romantica, in senso più stretto, ha in Shakespeare il suo apice; si forma, infine, una poesia della poesia, che in ogni rappresentazione ha come oggetto sempre se stessa, lo spirito umano ideale e creativo: essa ha preso inizio con Goethe. Universalità e piena coscienza di sé sono i tratti fondamentali di questo nuovo ideale poetico. È evidente l’analogia tra questa poesia che rappresenta se stessa e la filosofia che comprende se stessa. Questa poesia del futuro sarà, al contempo, scienza, il poeta diventerà filosofo; «quanto più la poesia sarà scienza tanto più sarà anche arte». Tutti i sogni della giovane generazione vengono qui tradotti in formule164. Schlegel si occupa di preferenza, come Novalis e, come vedremo, anche Schleiermacher, del romanzo. Chi caratterizzò a dovere il Wilhelm Meister, pensava, poteva tranquillamente riposarsi nel ramo della critica165. Qui si legano ai Frammenti la Caratterizzazione di Wilhelm Meister e i dialoghi sulla poesia, con la loro esposizione di Goethe e con la loro teoria del romanzo. Alla poesia si contrappone la prassi e la sua eticità (Sittlichkeit). Schlegel ritiene che fino a quel momento l’eticità era stata ovunque oppressa; essa soccombeva sotto il peso eccessivo degli «economisti della morale», oneste e piacevoli persone, che «considerano e parlano degli uomini e della vita come se parlassero del miglior allevamento di pecore». Contro questa concezione egli pretende, dalla genuina eticità, una specifica paradossalità: è noto che alcune delle sue osservazioni nei Frammenti, come quello sulla vita matrimoniale à quatre, non facevano proprio mancare nulla a tale scopo. Il nucleo della vera moralità è, secondo lui, nello spirito di Fichte, quella autonomia nei confronti del mondo, che egli aveva entusiasticamente lodato già in precedenza “come il superiore cinismo”, come l’atteggiamento di Lessing166. Se queste forze del mondo spirituale, poesia e prassi, che sono in conflitto, si compenetrano e si fondono in una cosa sola, nasce la filosofia; così, un tempo, si formava dalla poesia e dalla legge la saggezza greca. L’essenza della filosofia non sta in qualche metodo, bensì nel punto di vista dell’assoluto; essa è mistica. «La vecchia bella parola è indispensabile per la filosofia 164
Ivi, pp. 36, 64, 68, 71. Già nei Frammenti del Lyceum, II, 1797, p. 166. 166 Ivi, pp. 120, 11 (n. 390, 34). Cfr. inoltre pp. 5, 6, 10, 11, 22, 73-75, 89, 114, 127, 145. Sull’ideale di un cinismo superiore cfr. Lyceum, II, p. 127, dove viene attinto con sguardo profondo dal Nathan. 165
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
assoluta, dal cui punto di vista lo spirito considera tutto come mistero e come miracolo». Questa «genuina mistica è morale in sommo grado», cioè è filosofia, attraverso la quale solamente la moralità diviene completa. Per natura essa non è mai chiusa. «Si può solo diventare filosofi, non esserlo. Appena si crede di esserlo, si smette di diventarlo». «È ugualmente mortale per lo spirito avere un sistema e non averne nessuno. Lo spirito dovrà dunque decidersi a collegare le due cose». Ci avviciniamo sempre di più, con questo pensiero, alla visione del mondo di Schleiermacher. Ciò che qui viene detto della mistica, vale, secondo Schlegel, anche per la religione; questo odio contro qualsiasi sistema, che voglia essere filosofia perfetta, arse in Schlegel per tutta la vita167. Il posto significativo che Schlegel accordò allora alla religione non derivava dall’inclinazione originaria del suo pensiero. Cerchiamo inutilmente nei Frammenti del Lyceum o nel saggio su Lessing il nucleo del suo successivo apprezzamento della religione. I passi in cui toccava la religione, invece, sono ancor più espliciti di questo silenzio. Derideva il Woldemar di Jacobi come «un’opera d’arte teologica». Faceva valere, nella recensione del giornale di Niethammer, contro il concetto di una religione fondata sulla legge morale, la natura universale del Cristianesimo, che soddisfa tutti i gradi dello sviluppo dell’umanità: questa concezione di Lessing, tuttavia, resta, per così dire, estranea al suo orizzonte di pensiero; egli non voleva abbandonare i presupposti kantiano-fichtiani del concetto di religione. Nel progetto di una filosofia dello spirito (Geistesphilosophie) sono presenti i seguenti pensieri sul quarto grande sistema del mondo spirituale, la religione. La mitologia nasce da un’inspiegabile duplicità innata nell’uomo. L’istinto di formare comparazioni e opposizioni crea un secondo mondo, un’immagine di quello umano che appare trasformato mediante astrazione. Così il mondo omerico degli dei è la semplice moltiplicazione del mondo omerico degli uomini. La mitologia si contrappone al Cristianesimo. Già lo scritto Sullo studio della poesia greca mostrava la presenza, nel carattere progressivo e universale del Cristianesimo, di un forte impulso alla cultura moderna. «Il rivoluzionario desiderio di realizzare il regno di Dio è il punto elastico della progressiva formazione e l’inizio della storia moderna». Da ciò deriva il fatto che non può essere stabilito nessun concetto conclusivo di Cristianesimo, bensì che l’essenza del Cristianesimo si espone in quello 167 Ath, 1, II, pp. 32, 73, 15. Sulla filosofia: Ath. 1, II, pp. 3, 10, 13, 19, 20, 21, 22, 24, 25, 146; su Kant e i kantiani: pp. 3, 4, 7, 13, 17, 26, 89, 90, 105, 119. Su Fichte: pp. 56, 77, 106. Su Schelling, pp. 26, 83. Già nel Lyceum, II, p. 155, «lo spirito è filosofia della natura». Su Hülsen, p. 80.
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LA VISIONE DEL MONDO E DELLA VITA DEI DISCORSI E DEI MONOLOGHI
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che i cristiani, in quanto tali, fanno o vogliono fare a partire dal Settecento. In questo senso il Cristianesimo, come Schlegel acutamente riconosce, era anche uno dei fondamenti storici della filosofia critica. «I misteri del Cristianesimo dovevano condurre, attraverso la contesa incessante nella quale essi sviluppavano ragione e fede, alla rassegnazione scettica riguardo a ogni sapere non empirico o all’idealismo critico» 168. Nella cooperazione di questi grandi sistemi si genera sempre da capo la vita del mondo spirituale. La parte attiva, che il singolo assume in essa, appare in molteplici forme. Chiamiamo formazione (Bildung) la facoltà di vivere fino in fondo e di accogliere in sé tutte le forme di questa cerchia; in essa non domina però ancora una forza creativa. Lo spirito arguto è occupato a separare di nuovo ciò che essa ha raccolto. «Un’arguzia è una decomposizione di materiali spirituali, che devono essere mescolati nel modo più intimo, prima dell’improvvisa separazione. L’immaginazione deve essere riempita di ogni tipo di vita fino alla saturazione»169. L’arguzia è perciò scopo in sé, come la virtù, l’amore, l’arte: è quel che rimane costante e si rinnova in tutto ciò che è spirituale. Una formazione (Bildung) che cresce fino a diventare creazione (Schaffen) è genialità (Genialität). Questo elemento creatore è qualcosa di morale; in tal senso si deve pretendere da ciascun individuo genialità. Ciò che l’arguzia costituiva per la formazione (Bildung), nell’ambito del genio creatore è costituito dall’ironia. Essa è il segno della forza dell’infinito che si estende su ogni idea, su ogni opera d’arte, su ogni forma di pensiero nello spirito. Essa è l’espressione della profonda consapevolezza che tra quell’infinito e la sua comunicazione, anche nella creazione migliore, rimane una frattura insormontabile. «L’ironia socratica è l’unica rappresentazione assolutamente involontaria e assolutamente ponderata». «Essa contiene e suscita un sentimento di opposizione incessante dell’incondizionato e del condizionato, dell’impossibilità e della necessità di una comunicazione completa». «Ci sono vecchi e nuovi poemi che respirano, sempre e ovunque, il soffio divino dell’ironia». In loro vive «l’atmosfera che domina tutto e che si innalza infinitamente al di sopra di tutte le cose condizionate, anche al di sopra della propria arte, virtù o genialità»170. 168
Ath., 1, II, pp. 60, 62 (n. 130). Cfr. anche Ath. 1, II, pp. 6, 59, 63, 73, 125, 126. Una trasposizione che si riflette a p. 62: «Il cattolicesimo è il cristianesimo naiv; il protestantesimo è più sentimentale». 169 Lyceum, II, pp. 139 ss. 170 Lyceum, II, pp. 161, 144.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
L’ironia, come disposizione d’animo dell’uomo creativo, si rivela, nell’azione, come limitazione, addirittura come negazione di sé. La limitazione di sé, «per l’artista e per l’uomo, è la prima e ultima cosa, la più necessaria e la più alta. La più necessaria, poiché dove qualcuno non si limita da se stesso, il mondo lo limita, cosicché egli diventa servo; la più alta, poiché ci si può limitare solo nei punti e negli aspetti dove si ha forza infinita, autocreazione e autoannientamento»171. Con l’intuizione intellettuale, che progetta a partire dalla totalità, iniziò l’insieme dei Frammenti. Esso si chiude, poi, con la disposizione dello spirito creatore, al quale il tutto, l’infinito, è presente e che si solleva così sopra tutto il finito, sopra la propria opera, addirittura sopra la propria persona. Derivano perciò in questo punto, dalla connessione dei Frammenti, il concetto di ironia, che Schlegel introdusse nell’estetica, i concetti di autolimitazione e addirittura di autoannientamento, nei quali egli impresse la sensibilità morale dell’epoca, che fu vitale fino a Schopenhauer. Questi concetti abbracciano la concezione estetica e morale della visione panteistica del mondo e sono affini a ciò che Goethe definisce «rassegnazione» e Schleiermacher, nei Discorsi, «malinconia» (Wehmut). Gli stessi problemi hanno occupato, oltre a Schlegel, il più profondo e il più nobile dei poeti di questa generazione, Novalis. Anch’egli vide lo scopo di una scienza dello spirito (Geisteswissenschaft), e la via per raggiungerlo, nella connessione di fenomeni psicologici e storici. Ma anche in Novalis tutto rimase frammentario, un tentare pieno di contraddizioni. Fino ad allora non c’era stato né un fondamento scientifico della psicologia né un materiale storico criticamente esaminato e veramente compreso. Così Schlegel e Novalis hanno elaborato una profonda comprensione delle scienze storiche, hanno partecipato alla fondazione delle salde concezioni di Schelling, Hegel, Schleiermacher, ma nella confusione del loro pensiero erano vittime della visione scientifica della loro epoca. In questo senso Novalis concepì l’idea di un’ampia scienza della natura umana, che chiamò psicologia realistica (Realpsychologie) o antropologia, e sperava di aver trovato in essa l’ambito della ricerca scientifica a lui consono. Se l’etica, la filosofia della religione, l’estetica, la filosofia della storia conside171 Lyceum, II, p. 141. Anche Lotze, nella sua importante Geschichte der Aesthetik, p. 371, misconosce il senso dell’ironia di Friedrich Schlegel. Bisogna cercare questo senso nei frammenti del Lyceum: sulla serie di concetti esposti cfr. in particolare Lyceum, 147, 139, 140, 136, 161, 163, 138. A questi si ricollega Polline di Novalis, p. 79: «ciò che Schlegel caratterizza come ironia non mi sembra altro che la conseguenza, il carattere della riflessività, della vera presenza dello spirito». Egli la indica come “umore”. Su questo, Friedrich, p. 83 e Wilhelm, che definisce l’umore come «spirito della sensazione».
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LA VISIONE DEL MONDO E DELLA VITA DEI DISCORSI E DEI MONOLOGHI
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rano lo stesso smisurato tessuto di fenomeni da lati diversi, egli desiderava guardare l’intera connessione della vita spirituale, senza essere ostacolato da suddivisioni artificiali. Le sue osservazioni sono talvolta di una generosa imparzialità, di un’acutezza e libertà di vedute uniche in questo periodo, talvolta tuttavia appaiono morbose e incoerenti. Così sfiorava l’importante idea di quanto poco soddisfacente è l’opposizione di piacere e dispiacere per ciò che è specifico del nostro mondo emotivo, quando nota: «esiste la possibilità di un dolore che si eccita infinitamente». Perciò considera molto profondamente e senza alcuna conclusione pessimistica il significato dell’illusione per la storia della nostra volontà. Come più tardi Hegel, anche Novalis vedeva nella storia della filosofia e della letteratura lo sviluppo dell’autocoscienza dello spirito umano. E trova, come Schleiermacher, che «il più alto compito della formazione è impadronirsi del proprio Sé trascendentale»172. Cresciuto nella fede herrnhutiana della Comunità dei Fratelli, tornato a essa dopo un breve tentennare, egli comprese la realtà del Cristianesimo. Provenendo da esso, Novalis individua nel pensiero dell’esistenza di un mediatore tra noi e la divinità il tratto comune a tutte le religioni. Perciò il rifiuto di stare in connessione con l’essere divino grazie a un qualsiasi elemento mediatore gli appariva semplicemente irreligioso. E in conformità al medesimo pensiero egli distingue le religioni, secondo il significato che questa mediazione ha per esse, in due forme fondamentali. Panteismo è l’idea che «tutto può essere organo della divinità, suo mediatore, se io lo innalzo a ciò». «Monoteismo è la fede secondo la quale esiste per noi, nel mondo, solo un organo siffatto». Entrambi i modi di considerare sono unilaterali e devono essere conciliati tra loro. Era questa la concezione religiosa, che egli esponeva nei suoi primi frammenti173. Tale concezione influì sullo spirito inquieto di Friedrich Schlegel. Erano probabilmente frammenti di natura religiosa quelli che egli trasferì dalla raccolta di Novalis nella propria. «È molto unilaterale», si dice allora nei Frammenti, «che debba esistere solo un mediatore. Per il perfetto cristiano, al quale si potrebbe avvicinare al massimo, retrospettivamente, il solo Spinoza, tutto dovrebbe essere mediazione». In relazione ad alcune esternazioni della religiosità di Schlegel nei Frammenti si può dubitare se esse siano più frivole o più radicali: ad esempio, quando vede nella Madonna un ideale
172 Così Novalis, Blütenstaub, Ath. 1, I, p. 78. Le Rapsodie schleiermacheriane erano indipendenti da Novalis: anche in questo caso si tratta di un risultato affine sulla base di presupposti filosofici generali. 173 Ath., 1, I, pp. 91 ss.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
eterno, necessario e, in ogni morte, una morte riconciliatrice174. La sua natura, poco formata dal punto di vista religioso, da quel momento in poi doveva superare se stessa nel produrre fantasie religiose sotto l’influsso di Schleiermacher e Hardenberg. L’immagine globale della cultura umana, cioè delle «funzioni e dei prodotti dello spirito umano», progettata da Friedrich, stava sicuramente davanti a Schleiermacher, quando egli decise la collocazione della religione, una di queste funzioni, tra le altre. D’altra parte in essa c’è il primo inizio di ciò che ha poi condotto all’etica di Schleiermacher. Accanto a Schlegel anche i Frammenti di Novalis agirono con singoli incisivi pensieri. Credo invece di dovere ricondurre la visione metafisico-religiosa di Friedrich, che è affidata alla Lettera sulla filosofia175, anticipazione della concezione fondamentale di Schleiermacher, agli influssi di quest’ultimo. Sono al termine dell’esposizione delle relazioni di Schleiermacher con il grandioso movimento poetico e filosofico, nel quale lo ha posto il suo destino. L’estensione e i limiti della sua formazione stanno ormai davanti a noi. Che in essa lo studio storico del Cristianesimo, o meglio, lo studio storico in generale, passasse completamente in secondo piano, fu il suo limite più pericoloso. Dalla esposizione generale e dalla spiegazione della sua visione del 1800 andiamo ora nello specifico dei lavori creativi che risalgono a quest’epoca. Abbiamo compreso il centro unitario della sua vita interiore, la concezione dell’individualità, dove esso si rivela per la prima volta. Disparati elementi furono assorbiti, eliminati, mescolati in quel tessere misterioso della vita interiore, che nessuno sguardo storico penetra del tutto finché non si rapprendono, come chiari cristalli, i grandi gruppi di intuizioni che ottennero forma in quest’epoca. Tre di loro emergono visibilmente in primo piano. Il primo giunse a completa esposizione nei Discorsi, il secondo nei Monologhi; lì fu sviluppato il fondamento ultimo della sua visione del mondo, qui, invece l’ideale di vita che riposa in esso. Si apriva, allora, al suo tipico modo di considerare, un ambito di applicazioni, nel quale egli si muoveva con particolare virtuosismo e gioia: si tratta della ricomprensione (Wiederverständnis) delle più alte creazioni spirituali, ciò che egli chiamava una filologia superiore, e legata a questa, l’interpretazione e la critica delle opere filosofiche. Qui Schleiermacher era in accordo con Friedrich Schlegel. Essi progettarono insieme il piano di una ricomprensione 174
Ath., 1, II, pp. 63, 78. Così sulla Madonna, p. 64. Anche il frammento a p. 52 si riferisce a quello di Novalis sul mediatore. 175 Ath. 2, I, pp. 1-38.
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LA VISIONE DEL MONDO E DELLA VITA DEI DISCORSI E DEI MONOLOGHI
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(Wiederverständnis) dell’uomo che era a Schleiermacher più affine, e la cui opera tramandata stava lì di fronte, tuttavia, come un grande enigma: Platone. Iniziarono a lavorare insieme a questo progetto. Durante questa impresa si sviluppò la radicale opposizione del carattere dei due uomini, e iniziò la loro separazione. Schleiermacher si impegnò ad assolvere questo compito in tempi successivi. Nello stesso periodo era gradualmente maturato in lui il progetto di sottoporre a critica, dal punto di vista della forma scientifica, i sistemi morali di tutte le epoche. Anche quest’opera condivise il destino di Platone. Quella terza cerchia di tentativi, che si sviluppò in questo periodo, potrà essere esposta solo nella considerazione dell’epoca successiva: poiché ad essa appartengono le opere complete che ne derivarono. Così è indicata la via che la storia di quest’epoca di Schleiermacher deve ancora attraversare.
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LA NASCITA DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
I Discorsi sulla religione nacquero all’apice di quest’epoca giovanile di Schleiermacher. C’è un momento, troppo fugace, nel quale le relazioni che ci siamo formati nel primo maturare della nostra vita sembrano capaci di infinito sviluppo e tutti gli ostacoli che esse presentano appaiono superabili. Questa è l’epoca della più pura felicità. Da quando era iniziata la vita in comune con Friedrich Schlegel, da quando i rapporti con la giovane generazione cominciarono a diventare più stretti, estendendosi anche oltre Berlino, da quando ai progetti letterari si collegarono le relazioni personali, iniziò per Schleiermacher questo periodo. «Non devi meravigliarti», scrive alla sorella il 30 maggio del 1798, «che io proceda nella scrittura così vistosamente male: dietro a ciò non si celano nient’altro che il più reale benessere e piacere della vita. L’estate mi tiene stretto in mille lacci e non mi lascia libero; arrivo a fare appena la metà di tutto ciò che mi propongo e tuttavia non posso essere scontento di me. Vivo, rendo agli altri ore piacevoli, e così sono loro utile – cosa si può fare di più a questo mondo?». Trascorreva almeno un giorno alla settimana presso la sua amica, che abitava con la famiglia in una piccola casa nel Tiergarten; lì si esercitavano l’italiano, Shakespeare, la fisica: «inoltre nelle ore più belle andiamo a passeggiare e parliamo, dal profondo dell’animo, delle cose più importanti; la Herz mi stima e mi ama, nonostante la nostra grande diversità. Le sorelle della Herz, due care ragazze, si rallegrano tutte le volte che vengo e addirittura sua madre, una donna spiacevole e severa, mi ha preso in simpatia»1.
1
KGA V, 2, Lettera alla sorella, 23 maggio-17 giugno 1798, n. 473, p. 321.
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LA NASCITA DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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Certo, non mancavano le incomprensioni, che si risolvevano però in armonia. Tra Henriette Herz e Friedrich sussisteva sempre il più radicale contrasto di caratteri. Henriette, con la sua conoscenza esatta e un po’ fredda dell’umanità, vedeva molte cose in Friedrich, riguardo alle quali Schleiermacher si ingannava, e la preoccupazione per la sua amica Dorothea acuiva ulteriormente il suo sguardo. Friedrich, da parte sua, era un amico geloso e si lamentava di possedere solo l’intelletto di Schleiermacher, mentre Henriette possedeva il suo animo; in un periodo di tensione era addirittura sorta in Dorothea e in Friedrich la preoccupazione che Schleiermacher si ingannasse su se stesso, e che, al fondo della sua amicizia verso la Herz, ci fosse invece una passione e che questa scoperta prima o poi lo avrebbe reso infelice. «Questo era il colmo, e ne ho riso per ore a crepapelle». «La povera Herz rimase abbattuta per un paio di giorni a causa di questa incomprensione. Sia ringraziato il cielo, però, che tutto è si è aggiustato e che proseguiamo indisturbati sulla nostra strada» 2. Ci furono anche parecchi cambiamenti esteriori durante quest’estate e nell’autunno seguente. Già a marzo Schleiermacher era con Wilhelm Dohna a Madlitz, presso la famiglia Finckenstein, imparentata con i Dohna, e si rallegrava per l’antico canto di chiesa che vi veniva coltivato: Schleiermacher amava la musica come rivelazione della vita emotiva e, anche a questo proposito, provava le stesse sensazioni di sua sorella Charlotte, che nel silenzio della Casa delle Sorelle non aveva gioia più alta. Al ritorno, aveva poi dovuto dividere il tempo tra il fratello, che era venuto in visita, e l’amica Veit, malata, presso la quale egli vegliò per alcune notti. A maggio, quando Wilhelm Schlegel, lungamente atteso, finalmente apparve, ci furono nuove distrazioni. Una volta Schleiermacher mangiò con gli Schlegel presso Iffland3, che più tardi, con amaro scherno, si scagliò contro la nuova scuola. «Proprio lì», racconta Schleiermacher, «mi sono molto divertito. Il talento comico di quest’uomo è veramente notevole, è pieno di aneddoti spiritosi e divertenti, e li rappresenta così squisitamente che ci si può divertire molto di più con la sua arte che a teatro. Malgrado ciò è molto bonario, cosa che la gente di siffatto talento è raramente, e la consapevolezza di riscuotere rispetto per le sue opinioni, che però non ostenta, rende piacevole la sua compagnia»4. Dopo un mese Wilhelm condusse il fratello a Dresda; questo stato di mo2
Ibid. [August Wilhelm Iffland (1759-1814), attore, dapprima al teatro di Gotha, sotto la guida di Conrad Eckhof, poi, dal 1796 al 1813, direttore del Teatro Nazionale di Berlino. Molto influenzato dagli studi psicologici, Iffland si dedicò soprattutto allo studio dei caratteri e all’influsso da essi esercitato sul pubblico]. 4 Ivi, pp. 323 ss. 3
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
mentanea vedovanza fu per Schleiermacher ancora più spiacevole a causa di un malessere; a luglio lo ricompensò un soggiorno di cura a Freienwalde con Herz e signora. «Lì abitavo in una casa dove, al piano inferiore, stava un folle, dove, alla sera, ricevevo un mozzicone di luce, su uno sporchissimo lume da cucina, e dove i maiali salivano a frotte fino al secondo piano e si mettevano davanti alla mia porta»5. Schleiermacher seppe adattarsi a questa situazione e trascorse giorni felici nella graziosa regione. Questo era il momento di meditare “sul buon modo di vivere” e mettersi alla ricerca di nuovi frammenti. Schleiermacher pensava ad una seconda serie di frammenti, che voleva elaborare con Friedrich, e affinché essa non finisse coll’interrompersi, si impegnava a consegnare settimanalmente un preciso numero dei suoi pensieri a Henriette Herz. Scrisse quelle annotazioni sulla socievolezza (Geselligkeit), di cui ho tentato di esporre la connessione: anche in questo caso era per lui la gioia più grande comunicarli all’amica, che si intendeva molto bene, molto meglio di lui, di questo tema. Progettò con Henriette un saggio sulla fedeltà e Friedrich augurò loro di «voler dare una caratterizzazione della fedeltà, cioè di distruggerla anatomicamente»6: a prescindere dalla sua personale avversione morale per la fedeltà (verso l’individuo invece che verso l’universo), la fedeltà di Schleiermacher verso la Herz era per lui particolarmente sgradevole. Schleiermacher portò più tardi il pensiero centrale di questo saggio, contenuto in un motto tratto da Aristotele, nel distico: «se sai tenere fede all’immagine originaria alla quale tendi, allora, dove ami, ciò accade sicuramente con eterna fedeltà»7. Rifletteva inoltre su quel saggio sul pudore (Schamhaftigkeit), che poi fu inserito nelle Lettere sulla Lucinde; nei suoi diari scriveva a tale proposito: «innocenza è la mancanza di consapevolezza dell’azione reciproca di elemento animale e morale. Si ritorna ai medesimi elementi annientando questa azione reciproca»8. E quando finalmente, subito dopo la partenza di Schlegel, cominciò a sprofondarsi in Kant e Fichte, per terminare la sua Critica alla dottrina dei costumi, dovette subito osservare che non era ancora giunto il tempo per un tale compito. Ha un particolare fascino guardare, attraverso le lettere di Friedrich Schlegel, risalenti all’estate del 1798, nei moti più segreti del circolo berlinese di quell’epoca: si vedono una allegra disinvoltura, che non teme di vivere in ostilità con il mondo, una comunità intima, che rende comprensibile ogni 5
KGA V, 2, Lettera alla sorella, 25 luglio-6 agosto 1798, n. 496, pp. 366-367. Br. III, p. 79. Lettera di Friedrich Schlegel, senza data. 7 Gedanken IV, KGA I, 3, n. 2, p. 131. 8 Ivi, n. 10, p. 134. 6
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LA NASCITA DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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mezza parola, una chiara, orgogliosa gioia per la socievolezza, per i dialoghi, condotti per giorni interi, per le intime relazioni sentimentali. In tutti i membri della piccola cerchia è vivo il sentimento che la vita in comune sia meglio di qualsiasi cosa uno possa scrivere. Incombeva il tempo nel quale oscure ombre dovevano minacciare tutto questo; ma a quell’epoca essi ne godevano senza avere idea della loro felicità. Durante questa prima separazione da Schlegel, Schleiermacher sentì la necessità di analizzare la loro relazione. «Ci sono cose troppo belle», replicava Friedrich, «nella tua lettera, perché io possa rispondere. Temo di cadere nel ditirambico […] inoltre […] rifletti su come possiamo godere, nel modo più puro, più pieno e più grande. Faccio lo stesso; la giovinezza è fuggevole»9. Schleiermacher gli rispose con il suo famoso motto sulla eterna giovinezza. Nello stesso periodo, a Dresda, si serrò ancor più strettamente quella più grande compagnia, che si era riunita, con Schleiermacher, intorno all’Athenaeum. In maggio, Gries, il traduttore dei poeti romantici, aveva condotto a Dresda, presso la sorella degli Schlegel lì maritata, la moglie di Wilhelm Schlegel e la sua amata figlia, Auguste Böhmer. Passando per Berlino giunse allora Wilhelm insieme a Friedrich. Era l’epoca in cui alla giovane generazione, negli Sfoghi del cuore di un monaco amante dell’arte e nello Sternbald, veniva schiuso per la prima volta il senso per l’arte figurativa. Nelle sale della galleria di Dresda, Wilhelm e Caroline scrissero, per l’Athenaeum, il grazioso e arguto dialogo I dipinti. Friedrich si sentiva naturalmente obbligato a fare «gli onori della costruzione comune (Synconstruktion)»10. Era venuto per scrivere una lettera a Dorothea sulla filosofia, un saggio sulla spontaneità, che doveva sviluppare il suo pensiero morale fondamentale, e molto altro. Ma poiché «l’aria e lui stesso erano pieni del germe di tutte le cose»11, egli non poteva fare a meno di parlare con Wilhelm di pittura, con Hardenberg, che comparve proprio allora, del galvanismo, e di oziare con sua sorella e la figlia di lei, come fossero le uniche ad avere per ciò la giusta sensibilità. Fu portata a termine con prevista fatica la lettera a Dorothea. Schleiermacher fu doppiamente rimpianto, quando a metà agosto anche Schelling si presentò a Dresda. «Dunque», gli scrisse Friedrich, «sarà per così dire un convento filosofico. Se tu fossi qui!»12. Schleiermacher stesso, alla fine di agosto, ancor prima che Friedrich tornasse, era andato a Landsberg, a rivedere i vecchi amici. Fu per lui una 9
KGA V, 2, Lettera di Friedrich Schlegel, inizio agosto 1798, n. 500, p. 379. Ivi, Lettera di Friedrich Schlegel, luglio 1798, n. 482, p. 345. 11 Ibid. 12 Ivi, Lettera di Friedrich Schlegel, metà agosto 1798, n. 510, p. 391. 10
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
strana impressione trovarsi di nuovo sul suo vecchio pulpito, per metà gioia, per metà paura; gli sembrava che fossero scomparsi, in un colpo solo, i due anni che stavano tra quest’epoca e l’abitudine del tempo passato: eppure quanto di bello e di buono c’era stato in questi due anni! «Qui», scriveva all’amica, «dove ho ricevuto così tante cose belle e buone, sento vivo, come non mai, cosa sono diventato grazie a Lei»13. Allora lesse alcune cose, elaborate nel frattempo, alla cugina, che si rivelò una ammiratrice entusiasta, in particolare, del Catechismo per nobili signore. Il 3 settembre festeggiarono il compleanno del vecchio zio: «per sessantuno anni ha visto il mondo, gli deve apparire proprio vecchio. Per quanto, diversamente dal solito, lo abbia trovato vispo, non si può certo dire che abbia ricevuto il dono dell’eterna giovinezza; ma imperturbabilità, pace e una natura caritatevole – di ciò ne possiede in gran quantità – sono certo un buon sostituto di quella»14. Tuttavia aveva la cupa impressione che la cugina patisse molto, e di nuovo, in quest’occasione, dovette esercitare il suo talento di curare i malati; il bizzarro figlio dello zio, ancora senza lavoro, viveva insieme al padre15. Mai si sente più profondamente come durante una breve separazione ciò che si possiede. «Cara», scriveva il 6 settembre a Henriette Herz, «la mia semina è così bella, le mie stanze sono tutte così tranquille e accoglienti, che mi mette ansia la più piccola nuvoletta»16. Quasi dovesse misurare ancora una volta, all’indietro, di persona, tutte le cerchie in cui egli, poco a poco, era entrato, rivide, dopo il ritorno a casa da Landsberg, Louis Dohna, l’antico, amato discepolo. «Sì, sì, ho ricevuto una visita di Louis», racconta alla sorella il 15 ottobre, «la grande e brillante manovra d’autunno ha condotto qui anche lui. È rimasto quasi tre settimane, e, come puoi facilmente immaginare, ho passato tutto questo tempo esclusivamente con lui e con i suoi fratelli: sono stato molto felice della sua presenza e della sua amicizia nei miei confronti. Fin dal mattino ero da lui e lo assistevo nella visita alle meraviglie di Berlino: quanto e di cosa abbiamo parlato durante i nostri giri per la città lo puoi facilmente immaginare. A mezzogiorno mangiavo sempre con loro e le sere le passavamo per la maggior parte tutti quanti dagli Herz. Wilhelm tornò dal suo viaggio durante il soggiorno del fratello, così che si trovarono qui i tre di Schlobitten, e io ho potuto completamente trasportarmi nel passato, tanto più perché tutti, più o meno, portano in sé il tono e i modi della casa paterna. Louis 13
Ivi, Lettera a Henriette Herz, 3-6 settembre 1798, n. 516, p. 401. Ivi, p. 402. 15 Br. I, p. 191. 16 KGA V, 2, Lettera a Henriette Herz, 6 settembre 1798, n. 522, p. 408. 14
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LA NASCITA DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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è diventato, come potevo aspettarmi, un uomo eccellente, mite e saldo, allegro e piacevole. Ha dato nutrimento in me alla mia vecchia amicizia e al mio vecchio amore, e mi ha reso molto felice constatare che anche i suoi sentimenti non si sono affievoliti. Per fortuna durante la sua permanenza ricevemmo notizie molto tranquillizzanti dalla buona e nobile Friederike»17. La sorella veniva informata su tutti i componenti della numerosa famiglia: da queste lettere si evince che i figli della casa Dohna non avevano quasi segreti davanti a lui. Così trascorsero primavera, estate e autunno del 1798, ma già i primi segni annunciavano la tempesta vicina. Al ritorno dalle ferie a Freienwalde, il 21 luglio, Schleiermacher trovò un messaggio urgente di Sack, risalente al giorno prima: riguardava la domanda per un posto di predicatore a Schwedt. «La comunità», scriveva alla sorella, «non è irrilevante e lo stipendio è dei migliori»18 (ammontava a 600 talleri). Naturalmente Schleiermacher si decise subito a rifiutare, ma Sack insisteva perchè ci riflettesse ancora e Alexander Dohna gli consigliò seriamente di andare. «Mi sono passati molti amari pensieri per la testa», scriveva all’amica. «Quando ci si trova a un bivio così importante, riguardo al quale si viene costretti dall’esterno a riflettere, non si può evitare di guardare alla vita con tutte le sue incertezze. Tutto può accadere! Se a Berlino Schlegel fosse infedele o se Lei potesse abbandonarmi una volta per tutte! Vede, ho dovuto pensare anche a questo, ma non sono riuscito. Basta con questa storia fatale»19. Ma sentiva chiaramente che questa storia non era conclusa nonostante, un paio di giorni dopo, egli avesse di nuovo rifiutato il posto a Schwedt. Sack aveva ulteriori motivi per incalzarlo, che vennerro espressi pochi giorni dopo. Sembra che le Lettere di una dama in viaggio attraverso Berlino20, che apparvero allora nei Preussische Jahrbücher e che, per il loro indiscreto e troppo colorito commento delle condizioni sociali, fecero molto scalpore, suscitassero il nuovo dialogo. L’autrice era la moglie del libraio Unger, nella cui casa ospitale andavano e venivano spesso gli Schlegel, che però era descritta, soprattutto da Schleiermacher, con espressioni poco lusinghiere e, per quanto possibile, era evitata. Sack, il padre e il suocero del quale avevano avuto spesso a che fare con Moses Mendelssohn, sottolineava di non essere assolutamente così pedante da dichiararsi contrario alla frequentazione de17
Ivi, Lettera alla sorella, 15 ottobre-11 novembre 1798, n. 530, pp. 414 ss. Ivi, Lettera alla sorella, 25 luglio-16 agosto 1798, n. 496, p. 367. 19 Ivi, Lettera a Henriette Herz, 23 luglio 1798, n. 493, p. 359. 20 Briefe einer reisenden Dame über Berlin. 18
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
gli ebrei; egli non aveva tuttavia alcuna simpatia per la società descritta da Madame Unger. Sack temeva che avrebbe fatto un’impressione negativa su molte persone se si fosse venuti a sapere che Schleiermacher frequentava sovente queste persone; addirittura riteneva preoccupante che il tono adottato in questa società, con il tempo, avrebbe potuto ispirargli indifferenza e ostilità verso il proprio lavoro. Allora Sack confessò apertamente che desiderava il trasferimento di Schleiermacher a Schwedt, affinché un paio d’anni di assenza cambiassero questa situazione, che altrimenti forse non si sarebbe lasciata mutare21. La difesa di Schleiermacher non fu in grado di eliminare gli scrupoli del rispettabile uomo. Sack, riteneva Schleiermacher, non voleva assolutamente vedere come stavano le cose22. Questo fu l’inizio di una diversità di opinioni con Sack che danneggiò molto la carriera di Schleiermacher e che lo afflisse profondamente. Essa terminò solo quando egli si decise ad abbandonare Berlino: allora, tutto d’un tratto, gli divenne evidente quali pungenti giudizi, provenienti dalla parte più illustre e benestante della società, colpissero la cerchia nella quale egli si muoveva. L’andamento delle cose produsse inoltre nuove preoccupazioni in sua sorella. «Mi fa molto piacere», confessa Charlotte23, «che Sack abbia osato più di me; egli ti ha esposto ciò che alberga nel più profondo del mio cuore: anch’io, dopo la tua ultima lettera, mi sono preoccupata per le tue frequentazioni e, nonostante veda alcune cose per te spiacevoli, non sono contenta che tu rifiuti il posto che ti è stato offerto». Ci è pervenuta la giustificazione di Schleiermacher: «credi alla mia semplice assicurazione, che nel mio legame con le donne non c’è la minima cosa che potrebbe essere mal interpretata anche solo con una semplice parvenza di ragione; in tutto ciò che ti ho detto di loro non avrai trovato neppure una traccia di passione e ti assicuro che sono molto lontano da ogni mutamento a questo riguardo. Che la Herz sia un’ebrea, non sembrava all’inizio aver alcune effetto negativo su di te e credevo che anche tu, come me, fossi convinta che dove si tratta dell’amicizia, dove si è trovato un animo simile al proprio, si potrebbe, e si dovrebbe, passar sopra a tali questioni. Non mi sono pentito neppure per un attimo di aver rifiutato il posto a Schwedt; non sono in gioco solo i miei legami di amicizia in questa città, bensì tutta la mia aspirazione letteraria, che è certo una cosa importante. Se si accettano o si scambiano posti per denaro o per potersi sposare, si trova ciò normale e nell’ordine delle cose: se qualcuno invece fa, non del borsellino o del matrimonio, bensì della 21
Cfr. KGA V, 2, Lettera alla sorella, 25 luglio-16 agosto 1798, pp. 370 ss. KGA V, 3, Lettera alla sorella, 23 marzo 1799, n. 587, pp. 44 ss. 23 KGA V, 2, Lettera della sorella, 12 agosto-10 settembre 1798, n. 504, p. 387. 22
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LA NASCITA DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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propria intelligenza la seconda considerazione fondamentale, ciò viene mal interpretato. Mi consolo tuttavia e ogni nuova occasione che mi si offre per imparare qualcosa, ogni ora che trascorro in conversazioni, nelle quali l’animo sente se stesso, si tranquillizza e si determina, mi fanno pensare con gioia alla mia ostinazione»24. Aveva fatto esperienza di quanto difficilmente sfugge a una distorta interpretazione un uomo che modella, a partire dalla profondità di un ideale etico personale, un proprio libero stile di vita: la sua volontà era tuttavia decisa a non evitare la battaglia. Aveva esperito inoltre come, proprio presso gli uomini di chiesa, emergesse la pretesa che egli non desse adito ad alcun pregiudizio: ma era altrettanto deciso, con la rinuncia alla propria brillante carriera esteriore, a realizzare e a imporre al mondo il modello del vero uomo religioso, che coltivava in sé, proprio contro questo pregiudizio. La necessità del più libero sviluppo, che era per lui essenziale, un aspro orgoglio nei confronti del mondo e delle condizioni esteriori, che abitava in lui dai tempi della fanciullezza, lo spinsero, consapevole della purezza della sua volontà e della sua vita, ad opporsi all’apparenza esteriore e a spingersi fino ai limiti, seppur equivoci, di ciò che secondo lui era lecito, dal punto di vista sociale, alla sua condizione di predicatore. Nei primi capitoli ho esposto nel dettaglio la situazione scientifica nella quale nacquero i Discorsi sulla religione. Questa era invece la sua situazione personale: tutte le relazioni vitali dell’epoca giovanile erano al loro apice e un sentimento di traboccante ricchezza stava nel cuore di Schleiermacher; emergevano, d’altra parte, i primi segnali che la posizione da lui assunta in mezzo alla società berlinese avrebbe compromesso il suo futuro. In queste condizioni cominciò a scrivere un’opera che, con un’audacia straordinaria anche al tempo di Fichte, attaccava i presupposti di tutti i partiti di allora in materia di religione, cristianesimo, chiesa. Essa poneva in questione tutto ciò che era più sacro per il razionalismo moderato, dominante nella chiesa, e rendeva manifesta al mondo la sua interiore vita religiosa, che era distante da ciò che, nella chiesa di allora, passava abitualmente per religione. Siamo molto poco informati sui particolari della nascita dei Discorsi sulla religione. È un fatto singolare che il progetto dello scritto più significativo di quest’epoca non venga menzionato in alcun luogo dell’epistolario schleiermacheriano. Altri piani, che dovevano innestarsi nei progetti dei compagni, furono discussi con precisione per poi non essere realizzati: questo progetto, invece, nasceva dalla profondità più intima del suo essere, era cresciuto con lui come una necessità di cui, forse, per lungo tempo, rimase inconsapevole. 24
KGA V, 3, Lettera alla sorella, 23 marzo 1799, p. 47.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
Lo sviluppo della sua vita morale, gli influssi di poeti e filosofi lo fecero allora maturare improvvisamente. L’intuizione fondamentale dei Discorsi emerse in un processo creativo che risale all’anno 1798. Alcune settimane dopo aver terminato i Discorsi scrisse nel suo diario, a proposito dell’improvvisa consapevolezza con cui si presenta l’idea di un’opera geniale: «la nascita di Minerva è una bella allegoria del modo in cui nascono supreme opere spirituali»25. Con Friedrich, sicuramente anche con Henriette Herz, dovevano aver avuto luogo, già dalla primavera del 1798, approfondite conversazioni sul grande tema della religione26. Sotto l’influsso dei primi lavori di Scheleiermacher, apparve chiaro a Schlegel che il proprio compito era la fondazione di una morale. Nella lettera a Dorothea, nata durante l’estate del 1798, Schlegel, evidentemente eccitato dal nuovo corso di idee dell’amico, che toccava così da vicino le osservazioni e le riflessioni religiose di Hardenberg, spiegava: «il pensiero dell’universo e della sua armonia è per me uno e tutto; in questo germe vedo un’infinità di buoni pensieri, portare alla luce e formare i quali sento essere la destinazione propria della mia vita». «Uno scambio regolare tra individualità e universalità» gli sembra costituire «il battito distintivo della vita superiore». «Quanto più pienamente si può amare o educare un individuo, tanta più armonia si trova nel mondo; quanto più si comprende dell’organizzazione dell’universo, tanto più ricco, più infinito e rassomigliante al mondo ci diviene ogni oggetto». Così si forma una vita più nobile; in mezzo ad essa vi è religione «se si pensa o si fa poesia o si vive divinamente, se un soffio di preghiera ed entusiasmo si spande sopra tutto il nostro essere»27. Si tratta evidentemente solo di un riflesso dei sentimenti religiosi di Schleiermacher se, il 20 ottobre del 1798, Friedrich scrive: «mi sembra come se cominciasse di nuovo la storia moderna, come se tutti gli uomini si dividessero da capo in spirituali e mondani. Voi siete figli del mondo, Wilhelm, Henriette e anche Auguste. Noi siamo esseri spirituali, Hardenberg, Dorothea e io»28. E subito dopo: «Hülsen, Hardenberg, Schleiermacher: tutti noi apparteniamo a un unico sole centrale». Nello stesso periodo appaiono, nel diario scientifico di Schleiermacher, quei pensieri che contengono il nocciolo dei Discorsi sulla religione. Posso considerare come risultato sicuro della mia ricerca il fatto che essi non 25
Gedanken I, KGA I, 2, n. 183, p. 41. KGA V, 2, Lettera di Friedrich Schlegel, metà luglio 1798, n. 485, p. 350: «A proposito di divinità, il tuo spirito sulle acque è davvero solo un vigliacco, che deve immergersi nell’acqua fredda e non vuole». Questo luogo si riferisce forse a un precedente studio del progetto. 27 Ath. 2, I, pp. 14-16; cfr. 2 ss. 28 Waitz I, pp. 465 e 481. 26
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LA NASCITA DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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furono messi per iscritto prima dell’agosto del 1798. Da ciò segue inoltre, considerato il loro carattere, che il progetto dei Discorsi si fece strada allora per la prima volta nello spirito di Schleiermacher. Non ci si aspetti di ottenere, attraverso tali annotazioni, una visione esaustiva del modo in cui ciò accadde. Si annota un singolo pensiero solo nel caso si possa dimenticarlo, o dimenticarlo almeno nella forma in cui lo si ha pensato. Così non si cercherà qui la grande intuizione schleiermacheriana della religione. Schleiermacher stabilisce subito, nelle prime note, il punto di partenza della sua opera: «ciò che deve essere difeso, deve essere difeso a partire da se stesso, non come mezzo per altro, e ciò vale anche per la religione». Si trova poi la più importante conseguenza della sua intuizione fondamentale: «i dogmi, persino quello originario, nascono solo nei momenti di sviluppo del senso religioso, dopodiché ne rimane di solito solo il caput mortuum». A questo si aggiunge, in annotazioni di poco successive, un altro risultato: «tutta la ricerca della verità nella religione è cieca fede». Egli nota che la storia costituisce una parte notevole dell’ambito dell’intuizione religiosa e che anche la vita morale si realizza solo sulla base della religione. Talvolta esprime la relazione di religione e morale in una formula più chiara, senza ne che derivi tuttavia una visione pura. Così la storia dell’origine dei Discorsi mostra come, della sua idea della religione, proprio la parte che noi troveremo meno conseguente e conservabile non era ancora diventata effettivamente matura in lui. In mezzo ad alcune affermazioni sul Cristianesimo, sulla relatività del suo concetto, sul suo carattere polemico salta agli occhi anche la strana affermazione, che l’Ebraismo non sia mai stato una religione, bensì un ordine costruito sulla storia di una famiglia; essa indica meglio di ogni critica quanto poco anche le opinioni storiche sulle singole religioni, contenute nei Discorsi, provengano da uno studio approfondito29. Il profondo raccoglimento nel quale era iniziata l’elaborazione dei Discorsi si specchia nel fatto che, dall’8 novembre del 1798 fino al 15 febbraio dell’anno successivo, a quanto vedo, non troviamo nessuna lettera di Schleiermacher. Al 5 febbraio risale la prima menzione a tale riguardo da parte di Friedrich, che afferma di essere venuto a conoscenza dell’opera dell’amico30. A metà febbraio, improvvisamente, Schleiermacher fu inviato per alcuni mesi a Potsdam, per assumere gli incarichi del vecchio predicatore di corte Bamberger, fino a quando il re, che assegnava direttamente quel posto, non ne avesse nominato il successore. Schleiermacher si avvicinava alla 29
Gedanken I, KGA I, 2, n. 139, p. 33: dell’affermazione sul Giudaismo viene ripetuta la prima metà in Discorsi p. 314, la seconda è ripresa a p. 315. 30 Walzel, p. 40: «la religione di Schleiermacher viene molto bene».
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
conclusione del secondo discorso quando sopraggiunse questa interruzione. Mi pare che le conseguenze di questo sgradito cambiamento siano molto evidenti nell’opera. I primi due discorsi appassionano senza dubbio ogni lettore; la loro costruzione è ben riuscita, la loro eloquenza è schiacciante; a loro modo trattano esaurientemente l’oggetto. Lo stile retorico dei Discorsi avrebbe richiesto sicuramente un accrescimento in contenuto ed eloquenza, per non stancare troppo il lettore e per mantenere l’effetto alla medesima altezza. Questo accrescimento, forse, sarebbe stato in ogni caso impossibile per Schleiermacher. L’intuizione che lo entusiasmava è espressa nei primi due discorsi: ha il valore di forte autocritica, in tal senso, il fatto che egli assicurasse a Sack, che non avrebbe trovato nulla nei successivi discorsi, che non fosse più o meno già presente nei primi due. Anche il violento movimento nel quale emerse, impetuosamente, la prima esposizione della sua interiore vita religiosa, era passato. Al contempo si vedeva strappato dalla comunità intima che lo sosteneva, in particolare quella con Henriette Herz. Entrò in affari che lo impegnarono molto. Trovò a Potsdam una chiesa affollata e predicò davanti al re: per il resto c’erano da sbrigare nel lavoro molte questioni lasciate in sospeso. Nella casa di Bamberger, dove abitava, lo occupò la vita in comune con persone che tuttavia non lo interessavano immediatamente. Era naturale, perciò, che in questa condizione si dedicasse al “fare”. L’occhio critico di Friedrich vide subito che nel terzo discorso lo stile peggiorava, e lo pregò, con diverse locuzioni diplomatiche, di non essere affrettato e di non forzarsi a nulla. Schleiermacher stesso notava di essere sempre meno soddisfatto. Anche nell’ultimo discorso, come nei primi due, disturba il fatto che egli cercasse di adattarsi, nella scrittura, a Platone. La lingua e la dialettica platonizzanti non raramente sono manieristiche fino all’insopportabile. Tuttavia, nel quarto discorso, si nota di nuovo un più libero flusso dell’eloquenza. Fino alla conclusione dell’opera Schleiermacher passò mesi di profondissima eccitazione interiore. «Non considerate questo come un cattivo tipo di inquietudine e non predicatemi alcuna rassegnazione. Che cosa è poi questo elemento sconosciuto in me che mi deve poter impedire di fare ciò che voglio e che devo fare? E perché devo lasciarlo in pace al di là del mio arbitrio? Si deve tentare in ogni modo di ottenere il dominio su tutto ciò e questo è forse l’unico reale vantaggio morale che può avere per me “il fare”»31. 31
KGA V, 3, Lettera a Henriette Herz, 1 aprile 1799, n. 606, p. 61. Cfr. l’interessante lettera di Friedrich Schlegel, KGA V, 3, prima del 28 marzo 1799, n. 592, pp. 53 ss. Cfr. inoltre KGA V, 3, Lettera a Henriette Herz, 28 marzo 1799, n. 593, p. 56: «è notevole che nel primo e
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LA NASCITA DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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Mentre lo incalzavano così serie difficoltà legate al suo debutto letterario, le brevi lettere, che quasi ogni giorno prendevano la strada per Berlino, erano piene di una profonda tranquillità. Nulla, forse, come questi fogli esprime così chiaramente il nobile tratto di questa natura: l’ammirazione, l’influsso sulla letteratura, addirittura la fama postuma, che di solito infiammano il genio, nulla valevano a confronto con il silenzioso e profondo influsso dell’anima sull’anima, a confronto con la comunità spirituale. Ogni giorno che Schleiermacher non condivideva con gli amici, per quanto lo soddisfacesse in altra maniera, gli sembrava perso. Ogni pensiero gli pareva valere solo se rallegrava gli amici. Trova che lo scrivere gli costa troppa vita. Deve iniziare il suo giorno di lavoro con le lettere da Berlino e suddivide il suo tempo secondo gli appuntamenti, nei quali la lenta diligenza lo porta a Berlino a rivedere gli amici, «a contemplare l’universo» in un animo affine. «Il mio ultimo pensiero», scrive scherzando dopo l’arrivo a Potsdam all’amica, «quando Lei mi disse addio e mi restiuì, con poche parole, un così profondo sentimento della Sua amicizia, fu che il viaggiare lontano è anche qualcosa di bello; era un pensiero molto empio, ma anche molto religioso: certo, solo se si può tornare!»32. Poi, quando vide con quanta fatica l’amica sopportava la sua mancanza, le invia le belle parole: «Non faccia sì che guardiamo a ciò che accadrà o può accadere: preoccupiamoci piuttosto di sollevarci e di mantenerci più in alto possibile, affinché possiamo vedere tutto il resto veramente rimpicciolito. Noi tutti siamo vittime del nostro tempo e ciò vale per ogni uomo in qualche maniera: che viviamo ed esistiamo e amiamo, solo questo è fondamentale. Pensi che la volontà è qualcosa nel mondo»33. E nel traboccare della commozione al pensiero che avrebbe potuto perderla scrive: «Ma non temo questo, perché non è in mio potere: se Lei mi muore, io non mi ucciderò nel corpo, bensì nello spirito, e continuerò a vivere senza essere me stesso e la mia epigrafe mortuaria starà sulla mia fronte»34. Poi le lettere diventano più tranquille; racconta del lavoro, delle ore del tè a casa propria e presso la famiglia. Racconta anche del suo primo bizzarro incontro con il re, con il quale egli doveva in seguito, per affari politici ed nel secondo discorso ancor oggi non saprei migliorare né aggiungere nulla, nel terzo e nel quarto però potrei migliorare varie cose. Ciò è in generale una dimostrazione contro il “fare”». Quando egli ricevette le bozze del secondo discorso, si accorse che contrastava così tanto con ciò che era stato elaborato dal quinto discorso, che egli decise subito di rielaborarlo. Cfr. KGA V, 3, Lettera a Henriette Herz, 3 marzo 1799, n. 575, p. 30: «Seriamente noto che qui un po’ alla volta tutto diventa peggiore». 32 KGA V, 3, Lettera a Henriette Herz, 15 febbraio 1799. n. 559, pp. 10-11. 33 Ivi, Lettera a Henriette Herz, 25 febbraio 1799, n. 569, p. 17. 34 Ivi, p. 18.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
ecclesiastici, entrare in un’importante relazione. «Verso sera facevo una breve passeggiata e al ritorno, presso la porta [Nauener Tor], mi sono visto d’un tratto davanti a una truppa di ufficiali a piedi; quando alzai gli occhi quello proprio accanto a me, al quale ero appena passato molto vicino, portava una stella: avevo appena sfiorato il re senza togliermi il cappello e ormai era troppo tardi! Può immaginare che le guardie, e tutti quelli che erano presso la porta, con lo sguardo avevano seguito il re, ma può a stento immaginare come la mia sgarbatezza fu uno scandalo per la gente; la patriottica sentinella mi ha chiesto seriamente se “avevo così poco rispetto per il re da non levarmi neppure il cappello”. Tenni un breve discorso su quanto crudele sarebbe se si fosse puniti da Dio con cecità e con pensiero, ma i più sembrano considerare ciò solo una scusa sfacciata»35. Si vede quanto poco fosse adatto a diventare successore di Bamberger. «La mia religione [i Discorsi sulla religione]», scrisse quando si avviava alla conclusione, «mi sembra come un breve corso di scrittura, come un tempo ne avevo desiderato uno di femminilità: vi si trova tutto ciò che di solito suole accadere»36. Tensione continua, successive ispirazioni, oscillare tra dubbio e orgogliosa autostima. Giunse finalmente la piacevole sensazione di aver conluso. «Ora, il 15 del mese di aprile, alle nove e trenta del mattino, ho chiuso con la religione. Vada pure per il mondo a vedere cosa le accadrà»37. Nella notte precedente alla conclusione riuscì a stento a dormire. «Non si trattava di eccitazione per il lavoro: infatti questo era proceduto molto lento, tranquillo e facile»38; lo turbava invece fortemente il pensiero che sarebbe stato un peccato se, in quella notte, fosse morto. Come in un lungo giorno si erano accalcate le fila dei mesi nei quali era nata la sua opera.
35
Ivi, Lettera a Henriette Herz, 20-21 marzo 1799, n. 585, pp. 41-42. Ivi, Lettera a Henriette Herz, 8 aprile 1799, n. 73. 37 Ivi, Lettera a Henriette Herz, 14 aprile 1799, n. 629, p. 90. 38 Ibid. 36
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CONTENUTO E SIGNIFICATO DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE1
Uno spirito volto non alla conoscenza per se stessa, bensì alla vita, alla formazione delle più nobili relazioni umane, un oratore, un annunciatore della religione, in lotta per una riforma morale, dotato, nello stesso tempo, di un’acutezza di pensiero di primo rango, si trovò a vivere in mezzo al movimento poetico-filosofico che abbiamo esposto. Diventò compagno di quei poeti, critici e filosofi che promettevano di raccogliere ciò che è stato raggiunto in questo movimento in un’unica imponente totalità di scienza, arte e vita. Però la sua critica, nutritasi attraverso Kant, non condivide le entusiastiche speranze di fondare una scienza assoluta (absolute Wissenschaft). Il suo intenso carattere religioso, proveniente dalla Comunità dei Fratelli, respinge la divinizzazione dell’io e della natura, e non vuole rinunciare a quella pienezza del divino che è al di là di ogni ragione. Schleiermacher comprendeva mondo, scienza e arte sotto il punto di vista religioso a lui caratteristico. Deriva dall’herrnhutianesimo il fatto che la religiosità penetri per lui vita familiare, comunità, istituzioni, tutta l’arte e tutto il pensiero. Schleiermacher ha definito se stesso “un herrnhutiano di ordine superiore”. Egli aveva trasgredito, infatti, i limiti della comunità herrnhutiana, con geniale capacità si era appagato dell’integrale ricchezza dell’esistenza umana, della vera cultura: ma il punto di vista religioso, sotto il quale tutto questo veniva compreso, era rimasto lo stesso. Tutto ciò che il suo spirito afferrava era religione. La religione diventava in lui, d’altra parte, visione del mondo. E così egli vedeva oggettivamente che ogni genuina 1
Tento innanzitutto di esporre in breve l’ordine interno dei Discorsi e il loro contenuto (senza pregiudizi a tale riguardo). Il confronto con l’esposizione del concetto schleiermacheriano di religione, che occupa un’intera letteratura, verrà trattato altrove.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
visione del mondo e della vita, qualsiasi forma essa assuma, riposa sul sacro fondamento della religione e ne prende a prestito l’armonia. Qui si innesta il risultato della ricerca che abbiamo condotto finora sulla visione del mondo e della vita di Schleiermacher. Schleiermacher ha colto con profondità originale la relazione che sta alla base della religione, cioè la relazione dell’infinito (Unendliche) al finito (Endliche), intendendola come un elemento vissuto (Erlebte) da parte dell’uomo nella propria autocoscienza. Egli ha compreso veramente per la prima volta, a partire da tale relazione, il duplice tratto, misteriosamente presente in ogni religione: in essa si trova, da un lato, l’innalzamento dell’individuo all’infinito, insieme al dovere che la vita individuale ha nei confronti di esso; dall’altro vi è la presa di coscienza della presenza dell’infinito (Unendliche) nel finito (Endliche), e del significato più profondo acquisito in tal modo dall’individuo stesso. Egli ha scoperto la forma psicologica fondamentale, corrispondente all’esperienza personale del legame religioso, nell’immediata autocoscienza (Selbstbewusstsein). Schleiermacher necessitava, perciò, solo di esprimere ciò che si era fatto strada in lui, per aprire un vero sguardo nel nucleo profondo di ogni religione e rendere in tal modo visibile il suo vero valore. È indicativo che non si trovi nessuna traccia di influssi di un qualsiasi teologo su questo processo interiore2. Giunto alla conclusione di questo processo, Schleiermacher trovò, piuttosto, che la sua nuova visione era in contrasto con tutte le altre tendenze contemporanee. E, predicatore non per caso, ma per vocazione interiore, si vide sempre esortato a riflettere sulla situazione della religione e della chiesa nel suo tempo. Egli scorgeva a questo proposito, intorno a sé, la più profonda decadenza. Schleiermacher trovò la chiesa divisa tra naturalismo e soprannaturalismo. Il presupposto di entrambe queste direzioni era che, nella religione, fosse in gioco o la fede in una connessione di dogmi o un modo di agire, forse entrambi nello stesso tempo; la loro concezione fondamentale era una divisione meccanica di Dio e mondo. Schleiermacher trovò entrambe queste direzioni in rotta con la cultura e con la filosofia dell’epoca. Poiché esse assumevano la religione per come essa si dava, e le contrapponevano, nella misura in cui essa si presentava come fede, la visione del mondo scientifica che si formava sulla base della ricerca naturale e della critica storica; nella misura in cui la religione, invece, appariva come un modo di agire, le contrapponevano il sentimento di indipendenza di una moralità fondata in se stessa, sostenuta dall’ideale classico, satura della nuova formazione. Questa 2 Non è rintracciabile un influsso della concezione religiosa di Lessing, alla quale pure appare affine quella di Schleiermacher.
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CONTENUTO E SIGNIFICATO DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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divisione tra naturalismo e soprannaturalismo era diventata in Germania più pericolosa per la Chiesa che in qualsiasi altro paese, poiché i poeti e i pensatori di questa nazione avevano elaborato visioni del mondo che nascevano da una grande nobiltà d’animo e la soddisfacevano: non c’era posto, presso di loro, per la religione. Goethe aveva rappresentato, un paio d’anni prima, nel Wilhelm Meister, la vita di una cristiana come la storia della malattia di una costituzione psichica troppo fragile. Il nobile ed eccelente spirito di Schiller, traboccante dell’ideale classico, non mostrava nessuna esplicita relazione con il Cristianesimo. Una pienezza di felicità e di nobile sentire si era sviluppata nella vita tedesca, volgendo le spalle al Cristianesimo, come se esso non esistesse. «So che adorate nel silenzio la sacra divinità tanto poco quanto poco visitate i templi abbandonati, so che non c’è nelle vostre abitazioni piene di gusto nessun’altra divinità domestica che le sentenze dei saggi e i canti dei poeti, e che umanità e patria, arte e scienza, poiché voi credete di poter comprendere tutto questo, hanno preso possesso così assoluto dei vostri sentimenti, che non rimane nulla per l’Essere eterno e sacro, che sta per Voi al di là del mondo: non avete alcun sentimento per lui né da condividere con lui. Siete riusciti a rendere la vostra vita terrena così ricca e varia che non avete più bisogno dell’eternità»3. Schleiermacher intraprese a risollevare la vita religiosa al di sopra di tale situazione attraverso la comprensione, divenuta sempre più intensa in lui, di religione e Cristianesimo, riallacciandosi inconsciamente all’elemento più profondo della storia del Cristianesimo, cioè alla mistica tedesca. Il contenuto delle successive rielaborazioni dei Discorsi dovrà essere inquadrato in parte nei successivi sviluppi, in parte nella esposizione del sistema compiuto, in funzione del quale furono condotte tali rielaborazioni. Qui l’opera ci si presenta come apice di quest’epoca della vita di Schleiermacher e come portatrice di precisi effetti storici, con tutte le debolezze tipiche di un’opera giovanile, ma anche con la forza della sua compatta unità. Nella prima edizione dei Discorsi viene inoltre sviluppata la forma psicologica della relazione religiosa fondamentale in modo più compiuto ed esatto che in tutte le esposizioni successive. L’idea qui dominante dell’esperienza vissuta di tipo religioso (religiöses Erlebnis) sembra più tardi pregiudicata per molti aspetti dai presupposti sistematici.
3
Reden, KGA I, 2, p. 189.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
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1. Il compito dell’apologia 1. Con grande sincerità Schleiermacher esprime la coscienza della propria missione religiosa. «Come uomo vi parlo dei misteri sacri dell’umanità, di quello che era in me quando ancora, nell’entusiasmo giovanile, cercavo l’ignoto, di quello che, da quando penso e vivo, è il più profondo impulso della mia esistenza, e che rimarrà in eterno la cosa più alta, in qualsiasi modo mi possano scuotere i mutamenti del tempo e dell’umanità. Che io parli, non deriva da una decisione razionale, e neppure dalla speranza e dalla paura, né accade in vista di uno scopo, o sulla base di motivi arbitrari o casuali: è l’interiore, irresistibile necessità della mia natura, è una vocazione divina, è ciò che decide il mio posto nell’universo e che mi porta ad essere ciò che sono»4. Esiste un sacerdozio universale per vocazione divina ed essa ne necessita. L’anima umana è da comparare alla natura (come chiariva allora la filosofia della natura di Schelling costruita sulla base dell’idealismo dinamico di Kant): essa è il prodotto di due impulsi fondamentali costantemente attivi, la ricettività (Rezeptivität) e la forza spontanea (spontane Kraft) che si indirizza verso l’esterno. Se domina unilateralmente l’una o l’altra di queste forze fondamentali, nascono i due estremi di un insaziabile egoismo e di un irrequieto entusiasmo che sorvola i propri limiti. Inviati dalla divinità a fare da mediatori per coloro che si sono persi in queste contrapposizioni, sorgono in tutti i tempi uomini, nei quali i due impulsi fondamentali della natura umana sono collegati in modo fruttuoso e sono sostenuti da forza creativa. Si presentano come poeti o profeti, come oratori o artisti, e sono i veri mediatori tra l’umanità limitata e l’umanità infinita; sono i messaggeri di Dio, i genuini sacerdoti. Separati gli uni dagli altri da ampi spazi, sono mossi dal desiderio di crearsi, con la comunicazione, compagni per la loro vita superiore5. «Proprio a questa forza sono sottomesso, proprio questa natura è anche la mia vocazione. Mi sia concesso parlare di me stesso. Voi sapete: parlare di religione non può mai essere una questione di orgoglio, poiché essa è sempre piena di umiltà. La religione è stata il corpo materno, nella cui sacra oscurità la mia giovane vita fu nutrita e fu preparata per il mondo che ancora le era chiuso, in essa respirava il mio spirito, prima di trovare oggetti 4
Ivi, pp. 190-191. Ivi, pp. 190 ss. Sull’opposizione (anche se modificata) posta qui a fondamento dell’attività recettiva e di quella espansiva Schleiermacher ha successivamente costruito la sua psicologia. 5
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esterni, esperienza e scienza. Essa mi aiutò, quando iniziai a esaminare la fede paterna e a purificare il cuore dalle rovine dei tempi passati; rimase in me, quando Dio e l’immortalità sparirono davanti all’occhio dubbioso; essa mi ha diretto nella vita attiva, mi ha insegnato a ritenere sacro me stesso, con le mie virtù e i miei errori, nell’unità della mia esistenza, e solo attraverso essa ho conosciuto l’amicizia e l’amore»6. Solo chi ha esperito in sé la religione può diventare suo intermediario per la generazione presente. Poiché, di tutto ciò che egli ha da esprimere, inutilmente cerca intorno a sé, nelle osservazioni o nelle descrizioni di altri, una testimonianza, e anche ciò che si trova a questo proposito nei libri sacri, per colui che non lo ha esperito per sé, è solo uno scandalo o una follia7. 2. Il difensore della religione si rivolge alla nazione tedesca. Poiché in essa solamente egli trova universalità, saggia moderazione, lo spirito di una contemplazione silenziosa. Schleiermacher parla agli intellettuali della nazione: egli non vuole suscitare singoli sentimenti religiosi, bensì condurre nelle più interiori profondità dalle quali nasce la religione stessa. «Desidero mostrarvi da quali predisposizioni dell’uomo essa emerge e come essa appartiene a ciò che è per voi la cosa più alta e più preziosa»8. Dopo aver paradossalmente affermato che la sua apologia non poteva trovare presso gli intellettuali della nazione tedesca, ai quali si appuntava il suo interesse, alcun aggancio se non il disprezzo stesso da essi nutrito contro la religione, si rivolge direttamente ai “dispregiatori della religione” chiedendo solo che il loro disprezzo sia preciso e fondato, cioè che si basi sulla seria comprensione della religione9. Poiché proprio dall’incomprensione della religione, dovuta ora a concetti immaginari, ora a insufficiente conoscenza empirica, è nato un tale disprezzo. A partire da meri concetti immaginari si è soliti indicare come essenza della religione il timore di fronte all’Essere eterno e il fare affidamento sull’esistenza di un altro mondo. Ma un grande fenomeno spirituale come la religione ha invece, verosimilmente, il suo punto di partenza e il suo nucleo centrale nel profondo della natura umana, e si radica in un modo di agire ad essa necessario: bisogna quindi scoprire il suo concetto e, dietro a tutti i travisamenti e tutti gli errori, far emergere un elemento vero e necessario. Se 6
Ivi, p. 195. Ibid. 8 Ivi, p. 197. 9 Ivi, pp. 195-198. 7
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si vuole affermare, invece, che la religione è solo una formazione casuale, nata dal cooperare di modi di agire originari dello spirito, che va e viene come una determinata costellazione, sarebbe necessario dimostrare questa tesi a partire dallo studio di tutti i fenomeni religiosi. In primo luogo bisogna dare ascolto e confutare effettivamente il difensore della religione, che richiama l’attenzione su un elemento che la palesa come modo di agire originario e intramontabile dello spirito umano10. Ci sono dispregiatori della religione più scrupolosi che procedono dallo studio empirico dei suoi fenomeni. Essi traggono conclusioni dall’esame di quella successione di sistemi che attraversa i tempi, dalle favole senza senso dei selvaggi fino alle forme ultime della sistematica religiosa, da quei «frammenti di metafisica e morale mal cuciti insieme, che si suole chiamare cristianesimo razionale», da «quel perfetto giocattolo, con il quale il nostro secolo passa il tempo». Ma questi sistemi non sono la religione: essa deve essere cercata da qualche altra parte e bisogna scendere più scrupolosamente nei particolari, fino a coglierne gli elementi stessi. La filosofia tende alla sistematizzazione tanto quanto la religione se ne allontana. Tuttavia i difensori del grande corpo della filosofia non sono sempre anche scopritori filosofici. E dovrebbero esserlo nella religione? Nemmeno uno degli eroi della religione fu fondatore di una dottrina religiosa. «Solo singoli elevati pensieri attraversavano fulmineamente la loro anima accesa da un fuoco etereo, e il tuono magico di un meraviglioso discorso accompagnava la nobile apparizione e annunciava al mortale in preghiera che la divinità aveva parlato»11. 3. Solamente attraverso questa nuova comprensione, attraverso la scoperta della sua essenza, la religione può essere difesa come una cosa in sé piena di valore e non come un semplice mezzo a sostegno della moralità o dell’ordine sociale. Poiché, dove la religione si fa valere solo come un sostegno a tale ordine, diritto ed eticità, in quanto bisognosi dell’aiuto di qualcosa a loro estraneo, vengono svalutati. Uno Stato di diritto fondato sulla religione non è più tale. Un’eticità fondata sulla religione perde la propria indipendenza. Il pensiero di una futura beatitudine può determinare così poco la volontà morale quanto quello di un benessere presente, e il timore dell’eternità non può essere, per essa, un motivo più forte del timore di fronte ad un uomo saggio. In primo luogo, la religione viene derubata della propria dignità, se la si valorizza solo 10 11
Ivi, pp. 198-199. Ivi, pp. 199, 201.
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per il servizio che essa presta a un altro scopo. «Che coloro i quali partono dall’utile e per i quali, alla fine, anche eticità e diritto esistono a vantaggio di altro, periscano in questo ciclo eterno dell’utilità universale, nel quale essi lasciano perire ogni bene!»12. «Che la religione nasca necessariamente in modo spontaneo dall’interiorità di ogni anima migliore, che ad essa appartenga una specifica regione dell’anima, nella quale domina senza limitazioni, che essa sia degna di muovere, attraverso la sua forza più intima, i più nobili e i più eccellenti: questo è ciò che sostengo»13. E questo deve essere dunque dimostrato.
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2. L’essenza della religione 1. La religione non è né metafisica né morale né un miscuglio di esse; che essa non appaia mai, nelle religioni storiche, se non legata con questi elementi è il motivo del suo misconoscimento. Perciò una nuova, vera comprensione di essa deve prendere come punto di partenza la differenza della religione da ogni morale e da ogni metafisica. Metafisica, morale, religione hanno il medesimo oggetto: «l’universo e la relazione dell’uomo con esso». Esse si distinguono, tuttavia, per il loro metodo. La religione non deduce: non deduce fenomeni come la metafisica né deduce doveri come la morale. Perciò il concetto comune che si ha della religione in quest’epoca, secondo il quale, (dal momento che sembra impossibile comprenderla semplicemente come metafisica o come morale), essa è considerata come un mescolamento di entrambe, deve essere respinto. «Prendete l’idea del Bene e la portate nella metafisica come legge naturale di un Essere illimitato e indipendente, e prendete l’idea di un Essere originario dalla metafisica e la portate nella morale, affinché questa grande opera non rimanga anonima»14. La religione non è compilazione di elementi differenti, bensì è un’individualità dotata di propria origine e di propria forza. Se tutti gli elementi di questa individualità appartenessero anche alla metafisica e alla morale, la forza che dà loro unità rimarrebbe, tuttavia, qualcosa di superiore rispetto agli elementi stessi: la religione indipendente15. A torto poi si tenta di ottenere dalle testimonianze della vita religiosa un risultato sulla sua natura. È vero che nei documenti appaiono ovunque 12
Ivi, p. 204. Ibid. 14 Ivi, pp. 208-209. 15 Ibid. 13
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elementi metafisici e morali, ma questi elementi non sono la religione. Essa, piuttosto, non appare mai pura: è compito dell’arte analitica scioglierla dapprima da questo mescolamento in cui essa si presenta. Anzi, questo non è solo il suo destino inevitabile, bensì è il suo alto scopo: cioè condurre silenziosamente da ciò per cui c’è già sensibilità a ciò che è superiore, per il quale la sensibilità deve essere risvegliata16. 2. La religione è intuizione (Anschauung) e sentimento (Gefühl) dell’universo. La religione ha quindi il proprio territorio, separato da quello della morale e della metafisica. Nell’essenza finita dell’uomo le ultime due hanno il loro punto centrale; la religione, al contrario, in tutto il finito, vede l’infinito, la sua impronta, le sue espressioni e le sue azioni. A partire dalla natura finita dell’uomo, la metafisica determina in che modo egli deve vedere l’universo e cosa esso può essere. La religione, invece, ha la sua vita nella natura infinta del tutto e vede l’individuo solo all’interno di essa. Dalla coscienza della libertà deriva la morale, che sottomette tutto all’uomo; la religione comprende l’uomo al di là della personalità, nel luogo dove la libertà è diventata di nuovo natura e, dunque, da un punto di vista per il quale egli deve essere ciò che è17. La religione è necessaria e inevitabile per tutta questa superiore vita dello spirito, per la completezza della prassi e della metafisica: «voler avere speculazione e prassi senza religione è insolente arroganza». Dove questo sentimento dell’infinità e della somiglianza a Dio non sia fondato sulla religione, è preso a prestito da essa e travisato con avversione sacrilega: esso, infatti, non è completato dal sentimento della nostra limitatezza, della casualità della nostra forma, dello svanire silenzioso della nostra essenza nell’incommensurabile. La prassi e la metafisica, separate dalla religione, perdono la loro libertà e il loro realismo. Una prassi, che non ha ricevuto l’uomo come una cosa sacra dalla mano della religione, dovette perdere il sentimento fondamentale dell’infinta natura vivente: perciò essa declinò fino alla misera uniformità di un ideale astratto e dovette rinunciare a formare veramente l’uomo. Una speculazione, che non era animata dalla tensione verso l’infinità reale, ha prodotto sempre e solo nuove formule vuote e ha perso, con l’intuizione, la pietra di paragone del pensiero. Addirittura lo stesso trionfo della speculazione, l’idealismo compiuto, deve annientare l’universo, sminuirlo a semplice allegoria, a una futile ombra della nostra pe16 17
Ivi, pp. 210-211. Ivi, pp. 211-212.
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culiare limitatezza, se la religione non gli fa presagire un superiore realismo. Al compimento dell’idealismo avvenuto in Fichte (Schleiermacher evita di citarne il nome) si contrappone, come verità superiore, la visione del mondo del pensatore che prendeva le mosse dall’universo (Spinoza)18. 3. L’intuizione, in virtù della quale nel singolo processo viene colto l’agire dell’universo su di noi, è veramente infinita, perfetta, in sé compiuta e «pone perciò l’animo in illimitata libertà»19. Da un influsso di ciò che è intuito, dal suo agire originario e indipendente su colui che lo accoglie, nasce ogni intuizione. Luce, suono, pressione sono gli effetti dell’agire del mondo esterno su di noi. Convinzioni sulla loro natura stanno al di là di questo terreno dell’intuizione. L’intuizione religiosa, o intuizione dell’universo, nasce dall’agire dell’universo su di noi. Ogni forma che esso produce, ogni essenza, alla quale esso dà esistenza, ogni evento che fa nascere, costituiscono il suo agire. Quando consideriamo il singolo in questo modo, cioè come una parte dell’intero, come una rappresentazione dell’infinito, intuiamo religiosamente20. L’intuizione religiosa non dice dunque nulla sulla sostanza e sulla natura del tutto. Dove essa si abbandona a questo errato desiderio, nasce una vuota mitologia. Così era una volta la religione, «quando gli antichi, annientando i limiti del tempo e dello spazio, contemplavano ogni tipo particolare di vita nel mondo inteso come il regno di un Essere onnipresente»: ma la loro cronaca sull’origine di questi dei era vuota mitologia. Così oggi è religione rappresentare tutti gli eventi che accadono nel mondo come azioni di un unico Dio: ma quando la religione inizia a scervellarsi «sull’essere di questo Dio prima del mondo e fuori del mondo», essa diventa «vuota mitologia»21. Già il tentativo di comporre le singole intuizioni religiose in una totalità è un lavoro del pensiero astratto, non è un fare di tipo religioso. Poiché per la religione ogni singola intuizione è immediatamente, per sé, vera; nessuna è originaria, nessuna è derivata. Da qualsiasi punto di vista l’intuizione è sempre nuova, quindi è nuova per ogni individuo; emergono sempre inediti ordinamenti, sempre nuovi mondi di oggetti. Ogni apparente connessione è da subordinare all’individualità: proprio per questa individualità autonoma il terreno dell’intuizione è infinito. Lo sguardo al cielo stellato, che comprende 18
Ivi, Ivi, 20 Ivi, 21 Ivi, 19
pp. 212-213. p. 218. pp. 213-214. pp. 214-215.
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e ordina in sempre nuovi profili il caos di questi mondi, è «la più semplice e la più elevata immagine sensibile» dell’intuizione religiosa22. Solo la religione è dunque veramente infinita. La speculazione è infinita nella misura in cui muta senza fine il rapporto di azione e reazione tra il medesimo materiale limitato e l’animo. La morale è infinita nella misura in cui ciò a cui essa tende non è realizzabile compiutamente nell’interiorità. La religione, invece, è da tutti i lati un’infinità; infinità «della materia e della forma, dell’essere e del sapere»23. La religione è veramente tollerante. L’accusa contro la sua tendenza persecutoria deve essere rivolta a coloro che la hanno mescolata con la filosofia, poiché nello spirito sistematico nasce la volontà di sottomettere tutti a un unico ordine di pensieri. Nell’infinità della religione, invece, tutte le intuizioni stanno originariamente l’una accanto all’altra, «tutto è uno e tutto è vero». «I veri contemplatori dell’eterno furono sempre anime tranquille, sole con se stesse e con l’infinito; se si guardavano intorno, concedevano volentieri a chiunque avesse compreso la grande parola, di concepirla a proprio modo»24. La religione, ed essa sola, pone l’animo in una libertà illimitata, lo salva dalle catene oltraggiose delle opinioni e dei desideri, lo solleva alla più illimitata varietà di prospettive. Ogni altro contenuto spirituale, addirittura l’eticità e la filosofia, tracciano uno stretto cerchio intorno all’uomo, all’interno del quale è rinchiusa la sua prefazione. Solo l’impulso a intuire, volto all’infinito, vede la necessità presente in tutto, addirittura in ciò che non è sacro e in ciò che è comune25. 4. L’intuizione religiosa è costantemente collegata con un’eccitazione del sentimento; però, come l’intuizione non deve esprimere la natura dell’universo, così l’eccitazione del sentimento non deve diventare il motivo della vita attiva. Per sua natura ogni azione è collegata con un’eccitazione del sentimento. Lo stesso influsso sui nostri organi, che manifesta un’esistenza, deve eccitarli in modo vario e produrre così, nella coscienza, un mutamento. Allo stesso modo, le azioni dell’universo eccitano il nostro animo. «Nella religione ha luogo un legame tra intuizione e sentimento differente e più saldo» rispetto a quello che c’è nei nostri contatti con i singoli oggetti come tali. Nella 22
Ivi, pp. 214-216. Ivi, p. 216. 24 Ivi, p. 217. 25 Ivi, pp. 217-218. 23
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religione l’intuizione non prevale mai sul sentimento al punto che questo quasi si dissolva26. Il modo particolare in cui l’universo si espone nell’intuizione costituisce il carattere della religione individuale, «mentre la forza dei sentimenti determina il grado della religiosità»27. Per quanto violenta possa essere questa eccitazione, essa non deve tuttavia mai determinare le nostre azioni. È un travisamento fatale lasciare che i sentimenti violenti e passionali, legati a questa eccitazione, assumano la guida delle azioni umane: ciò può accadere solo contro natura. I sentimenti religiosi invitano l’uomo al piacere silenzioso, pieno di abnegazione e bloccano la sua forza attiva. Proprio nature esclusivamente religiose, che non erano determinate per nulla da altri impulsi, hanno abbandonato il mondo e si sono votate del tutto alla contemplazione inattiva. Perciò i sentimenti religiosi devono accompagnare l’agire dell’uomo solo come una musica sacra. Egli deve fare tutto con religione, non a causa della religione: in caso contrario, egli perderebbe la sua dignità, tanto dal punto di vista della morale, dal momento che seguirebbe motivazioni estranee, quanto dal punto di vista della religione, perché smetterebbe di essere ciò che solamente gli concede un valore esclusivo, cioè una libera parte della totalità, attiva in virtù della propria forza. «Solo spiriti malvagi, mai spiriti benigni, possiedono l’uomo e lo incalzano, e le legioni di angeli, delle quali il padre celeste aveva dotato il figlio, non erano in lui, bensì intorno a lui; esse non lo aiutavano in tutto ciò che faceva, e neppure dovevano farlo: esse instillavano invece serenità e calma nell’anima affaticata dall’agire e dal pensare»28. 5. La comprensione si spinge fino al punto più profondo che è possibile concepire della religione. Il processo nel quale nasce la religione, cioè il contatto dell’animo con l’infinito, in virtù di un’azione dell’universo su di noi, è originariamente semplice. Tutti i contatti del nostro animo col mondo esterno sono costituiti da tali processi elementari. Solo nell’innalzamento a più chiara coscienza avviene una scomposizione della semplice materia in due opposti elementi. Alcuni elementi si riuniscono nell’immagine di un oggetto, altri penetrano fino al punto centrale del nostro essere, lì vengono riferiti ai nostri impulsi originari (ursprüngliche Triebe), sviluppando così un sentimento. Il medesimo processo produce nella religione intuizione e sentimento dell’universo. 26
Ivi, pp. 218-219. Ivi, p. 219. 28 Ivi, pp. 219-220. 27
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Intuizione e sentimento: questo era, secondo l’esposizione condotta fin qui, la religione. Non diversamente che in questa doppia forma possiamo contemplare in noi stessi l’azione dell’animo, che è, secondo la sua essenza, religione. Anche l’azione interiore è semplice; solo una riflessione la scompone. Allora il materiale nato nel processo semplice si riunisce con la duplice funzione della nostra anima. L’una forma, a partire da questo materiale, una singola intuizione dell’universo. L’altra, ponendo questo materiale in relazione agli impulsi originari (ursprüngliche Triebe), sviluppa un sentimento dell’infinito. «So quanto è indescrivibile e quanto velocemente scompare quel primo misterioso attimo, che si presenta in ogni percezione sensibile, prima che intuizione e sentimento si separino, dove il senso e il suo oggetto sono, per così dire, mescolati e divenuti tutt’uno, prima che ciascuno di loro ritorni al suo posto originario: vorrei, però, che voi poteste trattenere e riconoscere questo attimo anche nella superiore e divina attività religiosa dell’animo. Esso è fuggevole e trasparente, come il primo profumo, con il quale la rugiada si spande sui fiori risvegliati, pudico e delicato come un bacio virginale, sacro e fecondo come un abbraccio nuziale; addirittura, esso non è come queste cose, bensì è tutte queste cose. Velocemente e d’incanto, un fenomeno, un fatto diventa un’immagine dell’universo. Non appena si forma l’immagine amata e sempre cercata, la mia anima le fugge incontro; io non la abbraccio come un’ombra, bensì come lo stesso Essere sacro. Mi trovo nel seno del mondo infinito: in questo attimo sono la sua anima, poiché sento tutte le sue forze e sento la sua vita infinita come se fosse la mia vita; alla più piccola scossa si disperde l’abbraccio sacro: solo allora l’intuizione sta davanti a me come una forma isolata»29. Dove il ricordo di questo attimo non agisce più, le intuizioni e i sentimenti della religione sono solo morta tradizione. Come è impossibile ricreare nuovamente il sangue dagli umori scomposti, così è impossibile comporre di nuovo la religione a partire da concetti ed emozioni30. 6. Scendiamo nei particolari di queste intuizioni e di questi sentimenti. Né il timore delle forze della natura, né i brividi di fronte alla loro infinita quantità, né il piacere gioioso dello splendore dei suoi fenomeni sono sentimenti religiosi. Un tempo questi sentimenti preparavano alla religione, 29
Ivi, pp. 220-222. È degna di nota la menzione di una «coscienza originaria della nostra doppia attività, quella che domina e agisce verso l’esterno e quella semplicemente rappresentativa e riproduttiva». Schleiermacher possedeva dunque già allora questa concezione decisiva per l’elaborazione della sua etica. 30 Ivi, pp. 222-223.
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ma non costituivano essi stessi la religione. Il timore delle forze della natura diminuisce con il dominio su esse: dovrebbe, perciò, anche la religione essere condannata all’annientamento? Lo splendore dei colori è una parvenza casuale tra le cose e il nostro occhio; ma costituisce qualcosa nel e per l’universo? Infine, la mancanza di limiti quantitativi del mondo è fondata nell’incapacità dei nostri sensi. L’intuizione religiosa del mondo esterno non si lega alle masse presenti in esso, bensì alle sue leggi. Nella sua vasta signoria vediamo l’unità divina e l’eterna immutabilità del mondo. Per l’intuizione religiosa, nell’universo si svela ancora di più che questa uniformità. Come le perturbazioni nelle traiettorie celesti alludono a una più alta connessione, come le anomalie del mondo organico alludono all’arbitrio, per così dire, alla fantasia della natura, così, in generale, proprio l’irregolarità nel cuore dell’uniformità amplia lo sguardo dell’intuizione religiosa dell’infinito. Essa riconosce, allora, come questa connessione produca e mantenga ovunque una forma individuale. Ancora più a fondo giunge la considerazione dei processi chimici, che riconduce tutta l’esistenza particolare al gioco delle medesime forze contrapposte: attrazione (Neigung) e repulsione (Widerstreben) dominano ovunque. Non vi è alcun elemento semplice, tutto è intrecciato insieme: questo è lo spirito del mondo31. Ma dall’interiorità dell’animo derivano tutti quei concetti di amore e avversione, di individualità e unità, attraverso i quali, a partire dalla natura, si innalza l’intuizione del mondo. Il mondo esterno diviene comprensibile solo mediante quello interiore. Tuttavia l’animo necessita in primo luogo, per produrre l’intuizione religiosa, di un mondo esterno. Tutta la nostra storia è narrata nel racconto sacro di come al primo uomo il mondo apparve, per la prima volta, in un altro animo. Solo attraverso l’amore l’uomo trova l’umanità e solo dove la ha trovata intuisce il mondo. Perciò ciascuno abbraccia più calorosamente colui nel quale egli si rispecchia nel modo più chiaro. Così troviamo solo nell’umanità il vero materiale della religione, non ancora presente nella natura32. Alla religione, e solo a essa, appartiene la vera considerazione dell’umanità. Sotto il punto di vista morale l’uomo appare in contraddizione con l’ideale, e questo contrasto può riempire fino alla nausea l’animo degli uo31 Ivi, pp. 223-226; p. 223: «tutti i presentimenti dell’invisibile, che nascono in questo modo nell’uomo» (paura di fronte alle forze della natura e gioia per la sua bellezza) «non erano religiosi, bensì filosofici, non erano intuizioni del mondo e del suo spirito, bensì ricerca ed esame di causa e forza prima». Qui è perciò già posta l’opposizione decisiva per la parte trascendentale della dialettica della coscienza reale di Dio e dei limiti concettuali e di giudizio dello spirito filosofico (forza somma e causa somma). 32 Ivi, pp. 226-228.
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mini morali. La religione completa questo punto di vista. Per essa il genio dell’umanità è, per così dire, l’artista completo e universale, che non può dare forma a nulla che non abbia un’esistenza particolare, e perciò produce un’infinita molteplicità, nella quale ogni fenomeno ha qualcosa di caratteristico. Così la religione considera l’uomo, anche il più povero e il più ordinario: poiché nella vita di ciascun uomo c’è un momento, comparabile al riflesso argenteo proveniente dal nobile metallo, nel quale egli raggiunge il punto più alto che gli è concesso e per il quale è stato creato33. La religione contempla poi l’intrecciarsi di questi individui. Proprio sulla suddivisione dei diversi aspetti della natura umana è fondato il progresso della totalità. La forza cieca della grande massa deve farsi condurre dall’intelletto. Il magico cerchio delle opinioni dominanti e dei sentimenti epidemici mette in attivo contatto anche le cose più distanti: è ovunque presente una meravigliosa e grande unità, come quella che si trova in un’opera d’arte34. Da questo viaggio nell’intero territorio dell’umanità la religione torna nel proprio Io e trova qui intrecciati i tratti fondamentali di ciò che è più bello e di ciò che è più umile, di ciò che è più nobile e di ciò che è più spregevole, che all’esterno percepiva come separati. Il singolo si riconosce come un «compendio dell’umanità»35. La religione comprende dunque l’intera esistenza dell’umanità. Il suo oggetto più alto, tuttavia, è il divenire di questa, la via del progresso che essa velocemente percorre. Dalle idee religiose è provenuta tutta la storia. Generazioni e popoli appaiono alla religione come individui. Essa vede lo spirito del mondo allontanarsi, ridendo, sopra tutto ciò che gli si oppone. Davanti ad essa si svela il carattere particolare dei mutamenti storici: tutta «la morta massa» deve «essere trasformata in una formazione organica», in una vita intrecciata in modi sempre differenti36. Giunti qui al confine di natura e umanità, non siamo però ancora al confine della religione. Poiché l’umanità stessa è solo una singola forma tra le altre, una modificazione dell’universo, perchè ogni religione tende a un’intuizione di «qualcosa al di fuori e oltre l’umanità». Questo è il punto nel quale i suoi profili si perdono per l’occhio comune e solo un presentimento (Ahnung) può condurre oltre. È così raggiunto il confine dell’essenza dell’intuizione religiosa, che però la religione dell’epoca arbitrariamente limita. Non si vuole lasciare valere nessun’altra religione se non quella 33
Ivi, Ivi, 35 Ivi, 36 Ivi, 34
p. 228-230. p. 231. pp. 231-232. pp. 232-234.
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basata sulle idee di ricompensa e di progresso infinito, in breve, sulle idee morali. Ma non si rovina solo la religione, se la si rende un’insignificante appendice della morale, bensì anche la morale stessa. «Suona molto bello dire: quando si perisce in una azione morale, è per volontà dell’Essere eterno, e ciò che non viene realizzato da noi, verrà realizzato in un’altra circostanza; ma neanche questa nobile consolazione spetta alla moralità; nessuna goccia di religione può essere mescolata con essa senza derubarla della sua purezza»37. 7. In quest’ambito della religione trova la sua vera collocazione una serie di sentimenti, che, attribuiti alla morale, a buon diritto ne vengono esclusi. Dall’intuizione dell’infinito guardiamo di nuovo al nostro Io; così nasce in noi la «vera e semplice modestia». Rivediamo in noi i nostri fratelli, essi sono ciò che noi siamo, ognuno è rappresentazione dell’umanità e mediatore di essa per noi; così nascono amore sincero e amicizia. Noi li vediamo abbandonati dal loro essere passeggero e dallo sforzo di ampliarlo, per conservare il nostro, e dobbiamo onorarli come coloro che si sono già uniti con il tutto; così nasce la vera riconoscenza (Dankbarkeit). Opposti a costoro consideriamo quelli che desiderano mantenere la loro esistenza particolare con violenza, mentre la corrente del mondo li trascina via: ne nasce la sincera compassione (Mitleid) per il dolore e per la sofferenza, che questa lotta impari produce. E se dalla legge eterna, che decide che cosa va conservato nel corso dell’umanità, guardiamo al nostro agire nel mondo, ci assale allora il pentimento (Reue) per ciò che in noi è estraneo al «genio dell’umanità», «come umile desiderio di conciliarci con la divinità, di convertirci e di metterci in salvo, con tutto ciò che ci appartiene, nel suo territorio sacro»38. «Tutti questi sentimenti sono religione»; gli antichi la chiamavano pietà (Frömmigkeit) e la onoravano come la parte più nobile della vita religiosa. La morale, al contrario, non ha per questi sentimenti alcuno spazio. Essa non vuole amore, bensì attività, non vuole alcun rispetto se non quello della legge; essa disprezza l’umiltà, considera il pentimento come tempo perso e «maledice come impuro ed egoista ciò che può accadere per pietà e riconoscenza». «Anche il vostro sentimento più intimo deve concordare con lei in ciò, che, con tutte queste sensazioni, non si prende di mira l’agire: esse nascono piuttosto per se stesse e terminano in se stesse come funzioni della vostra vita più intima e più alta». Alla religione solamente 37 38
Ivi, pp. 234-236. Ivi, pp. 236-237.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
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«appartiene questo tesoro, e come sua padrona non è ancella della moralità, bensì sua amica indispensabile, sua perfetta interprete e mediatrice presso l’umanità»39. A questo punto può essere chiarito, in generale, come la religione solamente conceda all’uomo universalità. Tutto l’agire attivo dell’uomo è volto a qualcosa di particolare. La religione, in quanto istinto per l’universo, completa l’agire particolare attraverso l’intuizione del tutto e ci fa acquisire, mediante tale intuizione, ciò che sta al di fuori del raggio particolare della nostra attività40. 8. I dogmi non sono religione, bensì forme di astrazione da quella, riflessioni su di essa. «Alcuni dogmi sono solo astratte espressioni delle intuizioni religiose, altri sono libera riflessione su originari compiti della sensibilità religiosa, risultati di una comparazione della visione religiosa con quella comune». Come tali essi sono necessari, inevitabili, ma non sono la religione. I moralisti e i metafisici della religione si sforzano di determinare cosa sia un miracolo (Wunder), quanto della rivelazione (Offenbarung) possa essere accettato, su cosa si basi la fede in entrambi. Essi suppongono di fare un servizio alla ragione se, con scrupolo e rispetto, la liberano da entrambi. In realtà, essi confondono punti di vista radicalmente diversi e accusano così la religione di contraddire l’insieme dei giudizi scientifici e della conoscenza naturale. La religione reclama questi concetti diffamati, lasciando tuttavia intoccati i risultati delle scienze41. «Cosa è allora un miracolo (Wunder)?». Un evento che in relazione immediata all’infinito può essere visto come un modo di agire dell’universo. Tanto più religioso uno è, tanti più miracoli vedrà. «Tutto per me è miracolo». Cosa significa rivelazione (Offenbarung)? Ogni originaria e nuova intuizione dell’universo è tale. Cosa significa ispirazione (Eingebung)? Libera azione, che diviene un gesto religioso; espressione di un sentimento religioso, che si comunica. Cosa è profezia (Weissagung)? «Ogni anticipazione dell’altra metà di un fatto religioso, quando ne sia data una». «Cosa sono gli effetti della grazia?». «Tutti i sentimenti religiosi sono soprannaturali», poiché essi sono prodotti immediatamente dall’infinito, dunque tutti sono effetti della grazia42. 39
Ivi, Ivi, 41 Ivi, 42 Ivi, 40
pp. pp. pp. pp.
237-238. 238-239. 239-240. 240-241.
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CONTENUTO E SIGNIFICATO DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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Tutti questi concetti non descrivono perciò solo fatti avvenuti una volta, bensì la coscienza che l’uomo religioso ha di ciò che accade in lui, solo nel caso in cui egli sia veramente religioso. Colui che non vede un vero miracolo e colui nel cui animo non emergono particolari rivelazioni, «chi non sente qua e là, con la più viva convinzione, di essere spinto da uno spirito divino», «di parlare e agire per sacra illuminazione», «costui non ha religione». Voler pensare e sentire ciò che un altro ha pensato e sentito è un duro e servile ufficio. La necessità di un mediatore deve essere solo una condizione passeggera. Ogni scritto sacro è «solo una testimonianza del fatto che esisteva un grande spirito che non c’è più»43. 9. La fede in Dio e in una prosecuzione della vita personale dopo la morte viene vista attualmente, di regola, come l’essenza costitutiva della religione; essa in realtà non è per nulla suo elemento necessario. «Avere religione significa intuire l’universo nel modo in cui voi lo intuite e, nel principio che trovate nelle sue azioni, sta il valore della vostra religione»44. A ogni livello di questa intuizione può formarsi il pensiero di Dio; al livello più alto può mancare: ne deriva che può essere pensata una religione priva del pensiero di Dio e, tuttavia, superiore a un’altra religione che invece lo possiede. L’intuizione feticistica dell’universo come di un caos e quella politeistica che lo intende come una molteplicità senza unità stanno più in basso rispetto all’intuizione dell’universo come di una totalità, formi o meno quest’ultima il pensiero di Dio. Il fatto che essa lo formi, dipende solo dalla fantasia. L’universo appare all’uomo, nel grado più basso, come un caos confuso; a un ulteriore grado di formazione esso appare «come una molteplicità indeterminata di forze eterogenee»; al grado sommo soltanto «come totalità, ossia come unità nella molteplicità». Ognuna di queste prospettive può essere in sé sufficiente, oppure può procedere fino a una personificazione dello spirito dell’universo, a seconda del modo in cui concepisce l’universo. La direzione della fantasia, l’«elemento più nobile e più originario nell’uomo», che costruisce per noi il mondo e la divinità, decide che venga o meno realizzato questo ulteriore passo. «Se la vostra fantasia rimane legata alla coscienza della vostra libertà, così che essa può pensare ciò che agisce in origine solo nella forma di un Essere libero, personificherà lo spirito dell’universo, e voi avrete un Dio; se essa rimane dipendente dall’intelletto, così che vi è sempre chiaro davanti agli occhi che la libertà ha senso solo
43 44
Ivi, pp. 240-242. Ivi, p. 244.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
nel singolo e per il singolo, allora voi avrete un mondo e nessun Dio»45. L’intuizione della libera cosciente essenza divina e l’intuizione dell’universo stanno l’una accanto all’altra a ogni grado della religione; e il valore di un tipo di intuizione religiosa viene determinato dal grado, non dalla direzione della fantasia al suo interno. «Non dovrebbe Spinoza stare al di sopra di un romano devoto tanto quanto Lucrezio sta al di sopra di un idolatra?». Gli uomini veramente religiosi hanno visto serenamente accanto a sé ciò che si chiama ateismo e c’è sempre stato qualcosa che apparve loro più irreligioso di questo. Il vivere e l’agire divini ci rimangono certi e anche il Dio attivo della religione non può garantirci la felicità né stimolarci alla moralità46. Veramente irreligioso è invece il desiderio di immortalità della maggioranza degli uomini. La religione desidera il dissolvimento nell’infinito; essi invece si oppongono a ciò e non vogliono essere altro che se stessi. La religione è volta a «un universo al di là e al di sopra dell’umanità»; essi desiderano invece portare la propria umanità al di là di questo mondo, e tutt’al più cercano occhi più penetranti e membra migliori. «Avidi di un’immortalità che non è tale, essi perdono quella che potrebbero conquistare, e dissipano anche la vita mortale in pensieri che li impauriscono e li torturano inutilmente». «Se vi siete uniti con l’universo, per quanto qui ne potete trovare, e se un più grande e più sacro desiderio è nato in voi, allora potremmo parlare ancora delle speranze che la morte ci dà e dell’infinità che noi, attraverso di lei, raggiungiamo infallibilmente». «Diventare tutt’uno con l’infinito in mezzo alla finitezza ed essere eterni in un istante è l’immortalità della religione»47.
3. L’educazione alla religione 1. L’epoca attuale ostacola con la violenza la formazione dell’inclinazione religiosa. Essa soffoca il senso, cioè la visione dell’intero, del particolare, del cosa e del come dei fenomeni. Dal contatto del senso (Sinn) con l’universo 45
Ivi, p. 245. Sottolineo qui la relazione polemica con Jacobi. Ivi, pp. 243-246. 47 Ivi, pp. 246-247. Più chiaramente che in questo passo la durata della vita individuale dopo la morte viene negata nel seguente: «L’uomo ruba il sentimento della sua infinitezza e somiglianza a Dio, se non diviene cosciente anche della propria limitatezza, della casualità della sua forma, dello svanire silenzioso di tutta la sua esistenza nell’incommensurabile» (ivi, p. 212). Nei Monologhi (KGA I, 3, p. 27): «Suona l’ora di restituire se stessi all’infinità e di ritornare dal mondo nel suo grembo». (Mondo, però, nella prima edizione dei Monologhi, indica la sfera della azione reciproca, dell’agire e patire degli spiriti individuali). 46
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CONTENUTO E SIGNIFICATO DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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nasce la religione. E quest’epoca tiene lontana la sensibilità dalle grandi vedute sull’infinito, quali sono la mancanza di limiti materiali, nascita e morte. La formazione della predisposizione religiosa, impedita dallo sconvolgimento attuale delle condizioni mondiali, è comunque difficile e rara anche nelle epoche più felici. Si possono sicuramente comunicare delle rappresentazioni, non si può far sì, tuttavia, che qualcuno produca quelle che noi vogliamo. Si può ben agire sul meccanismo (Mechanismus) dello spirito; ma non si può intervenire nella sua organizzazione (Organisation), questa «consacrata officina dell’universo». Tuttavia da essa nasce ciò che deve dominare come un impulso persistente nello spirito umano. Per questo la religione, a differenza del sentimento artistico o della morale, non è insegnabile48. La predisposizione religiosa è innata. I due elementi della religione sono senso (Sinn) e contatto di questo con l’universo. L’epoca attuale impedisce a entrambi gli elementi di svilupparsi. «Il senso tende a comprendere l’impressione indivisa di una totalità; vuole vedere il cosa e il come, vuole riconoscere ogni cosa nel suo carattere particolare. Ebbene, la noiosa questione delle cause e degli scopi disturba ovunque lo spiegarsi dell’intuizione. L’occhio viene tenuto ancorato a un elemento finito, a un piccolo punto di esso. E così accade che non siano di contrappeso alla religione, nella condizione attuale, «i dubbiosi, i derisori», coloro che non hanno morale, bensì «gli uomini d’intelletto e gli uomini pratici»49. Il senso (Sinn) appare come desiderio del meraviglioso e del soprannaturale in animi giovanili; essi cercano qualcosa che oltrepassa i fenomeni esteriori e le loro leggi. «Per quanto i loro sensi vengano riempiti con oggetti terreni, è come se essi avessero, oltre a questi, altri oggetti ancora che, non alimentati, morirebbero». Essi cercano questo elemento che oltrepassa il fenomeno sensibile nelle «immagini poetiche di esseri ultraterreni» e in eventi inspiegabili. Qui sta un’illusione naturale, condivisa da tutti i popoli e da tutte le scuole di saggezza: l’infinito viene cercato al di là del finito. Questa illusione fu un tempo tranquillamente sopportata, addirittura alimentata. La religione crebbe insieme a un errore metafisico, che era, in realtà, facilmente corregibile. Oggi questa inclinazione viene violentemente soffocata. Racconti morali, concetti di quelle cose comuni, che sono note da lungo ai bambini, sostituiscono quelle immagini poetiche. Non si tollera in loro «nessuna tranquilla, devota contemplazione». Ogni momento deve essere riempito con un’occupazione volta a scopi precisi50. 48
Ivi, pp. 248-251. Ivi, pp. 252-254. 50 Ibid. 49
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
La religione nasce nel contatto del senso con l’universo. Nella misura in cui, nonostante tutti i maltrattamenti, il senso si conserva, viene distratto dall’intuizione dell’universo e trattenuto nei limiti della vita comune. «Nella relazione dell’uomo con questo mondo ci sono punti di passaggio verso l’infinito», prospettive che consentono a ciascuno di trovare la via verso l’infinito. Nascere e morire sono i momenti «nella cui percezione non ci può sfuggire che il nostro Io è ovunque circondato dall’infinito», ed essi suscitano in noi «una silenziosa nostalgia (Sehnsucht) e un sacro timore». «L’elemento incommensurabile dell’intuizione sensibile è un’allusione quanto meno a una differente e superiore infinità». Queste vedute che aprono all’infinito vengono camuffate attraverso le cattive caricature filosofiche. Addirittura la morte offre l’occasione per conquistare alcuni giovani all’Hufeland51. 2. A partire da questa situazione si chiarisce l’attuale forma della vita religiosa, e il fatto che non ci sia più tra noi nessun grande rappresentante della religione. Siamo tutti cresciuti nella «paterna politica eudaimonistica» che segue al brutale dispotismo. Lo sviluppo dell’inclinazione religiosa presso di noi è rimasto indietro rispetto a tutte le altre inclinazioni e, dal culto servile dell’utile, è nata una nuova barbarie; la generazione cresciuta secondo i principi utilitaristici ha ottenuto l’influsso dominante nello Stato e, attraverso la falsa apparenza del filantropismo, anche nell’opinione pubblica52. Così la religione non potè mai formarsi pienamente: dovette invece ovunque farsi strada con il più forte spirito di opposizione contro la tendenza dominante. Conformemente a ciò l’epoca mostra due forme di sensibilità religiosa. Nature inclini alla fantasia riconobbero nella religione un alleato nel loro odio contro l’intellettualismo illuministico, ma cercarono in essa solo l’infinitezza e l’universalità del bell’apparire, e la loro leggerezza aveva solo «accessi di religione», come aveva anche accessi di arte e di filosofia. Il profondo senso religioso si rivolgeva, invece, al mondo interiore, nel quale, dapprima, l’illuminismo intellettualistico e la psicologia razionale, da esso derivata, dovevano far posto all’intuizione, e apparve rivolto completamente in se stesso. Così la sua mistica non è quella grande, potente, «di semplicità eroica e orgoglioso disprezzo del mondo», che per libera decisione chiude gli occhi di fronte al mondo, perché scopre in sé stessa il compendio del 51
Ivi, pp. 254-256. Christoph Wilhelm Hufeland, Makrobiotik oder die Kunst, das menschliche Leben zu verlängern, 1798. 52 Reden, KGA I, 2, pp. 256-257.
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CONTENUTO E SIGNIFICATO DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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tutto. Questa mistica, piuttosto, si chiude di fronte al mondo perché non lo conosce, perchè è incapace di penetrare questa antica oscurità; essa è adirata con l’epoca. Nel caso in cui essa si volga con maggior energia al mondo, resa incapace dalla sua limitatezza di interpretarne il senso, deve annientare se stessa abbandonandosi a fantasie sfrenate. Perciò anche questo superiore carattere religioso in mezzo alle nostre condizioni è «solo una vittima, non un eroe»53. Così la religione è come fatta a pezzi, dispersa. Molti che espirano il più fresco alito della giovane vita nel desiderio dell’eterno, solo tardi, o forse mai, vengono dominati dal mondo. Non c’è nessuno, al quale, almeno una volta, «il nobile spirito del mondo non abbia gettato una di quelle occhiate penetranti che anche l’occhio abbassato sente, pur senza vederle». Ma sono scomparsi gli eroi della religione, «le anime sacre, che si vedevano allora, per le quali essa è tutto»54. 3. Tuttavia proprio la situazione della cultura contemporanea, che ha prodotto questo profondo dissesto, renderà possibile anche una riedificazione dello spirito religioso. L’educazione intellettualistica e pratica, seguita a quella meccanica, è divenuta a sua volta meccanica, e così farà posto a un’idea più pura «della santità dell’età fanciullesca»; «la forza intuitiva prenderà di nuovo possesso dell’intero suo regno»; e allora il risultato della precedente tendenza collaborerà in modo salutare con ciò che è nuovamente ambito. Poiché se quell’educazione, «stanca di un infruttuoso girovagare enciclopedico», ha fatto sì che ciascuno voglia qualcosa di determinato con tutta l’anima, allora, nel caso in cui la forza intuitiva non venga distrutta, proprio ciò deve favorire la necessità di una libera intuizione e il tollerante riconoscimento di tutte le restanti direzioni, preparando così la religione55. L’intuizione si volge a se stessa o al mondo esterno; dove essa collega entrambi questi aspetti diventa artisticamente creativa. A partire da ciascuna di queste direzioni c’è una via specifica alla religione. Sembra particolarmente difficile riconoscere come il senso artistico per sé solo si muti in religione. Anche il passato non offre nessun chiarimento a questa domanda. Sulla via della «intuizione di sé più astratta», «l’originario misticismo orientale» cerca l’universo. Dall’intuizione del mondo derivò poi ogni religione, il cui schematismo era costituito dal cielo o dalla natura organica. Ma di una religione 53
Ivi, pp. 257-259. Ivi, p. 260. 55 Ivi, pp. 259-261. 54
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
artistica (Kunstreligion) dominante non c’è notizia. Quando, al contrario, il senso artistico si avvicinò a quei due tipi di religione, li colmò ogni volta di nuova bellezza e santità. «Così attraverso i più antichi poeti e saggi greci la religione naturale venne trasformata in una forma più felice». Il divino Platone sollevò la mistica sacra alla più alta vetta della divinità e dell’umanità. Oggi «religione e arte stanno l’una accanto all’altra come due anime amiche», sulle cui labbra aleggia sempre uno scambio amichevole, e che non capiscono tuttavia la loro profonda affinità. L’intuizione di sé (Selbstanschauung) e l’intuizione dell’universo (Anschauung des Universums), i due grandi punti di partenza di tutte le religioni, appaiono inoltre confuse dall’intellettualismo illuministico. Il compito è collegarle l’una con l’altra: allora inizierà una nuova epoca per la religione, annunciata dal progresso delle scienze, tanto della filosofia quanto della fisica. «Già vedo alcune figure importanti, iniziate a questi segreti, tornare dal santuario, purificarsi e adornarsi per apparire in veste sacerdotale»56.
4. Chiesa e sacerdozio Il centro nascosto di questo discorso sta nei ricordi schleiermacheriani della Comunità dei Fratelli: questi stanno alla base del suo ideale di chiesa. Entra così nei Discorsi un nuovo elemento. Si potrebbe dedurre, a partire dall’essenza della religione che Schleiermacher ha sviluppato, anche il pensiero del sacerdozio universale del poeta e del veggente, dell’oratore e dell’artista, il cui ideale sta in apertura dei Discorsi. La sua profonda vita religiosa, la sua professione, il suo genio pratico, i ricordi del tempo passato nella Comunità dei Fratelli determinano l’altro ideale, l’ideale del sacerdozio e della chiesa, che viene sviluppato in questo discorso. Esso è sommamente spirituale, dal momento che misconosce la natura delle potenze storiche: si tratta dell’ideale di un mistico. Lo attendeva ancora una lunga esperienza all’interno della chiesa, destinata a trasformare questo ideale. Ma il suo tratto fondamentale rimase saldo. 1. Dall’essenza delle intuizioni e dei sentimenti religiosi segue la necessità della socialità religiosa e di una comunità che abbraccia l’intero mondo religioso come un tutto indivisibile: cioè la chiesa trionfante, i cui compagni sono legati in piccole, ripudiate comunità in uno spazio limitato, vivendo per il resto in un’invisibile comunità. 56
Ivi, pp. 261-265.
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CONTENUTO E SIGNIFICATO DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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L’antipatia dell’illuminismo verso la religione culmina nel suo odio contro la chiesa. In essa viene diffusa la materia malata della religione, che l’illuminismo teme, in essa vengono fissate, in un meccanismo senza spirito, le stranezze della religione, che esso disprezza. Così l’illuminismo ama incolpare le chiese di una grande parte dei tristi destini dell’umanità. Lasciamo in sospeso tutte le sue accuse; dall’essenza della religione creiamo ex-novo il concetto di comunità religiosa57. Ciò che l’uomo ha prodotto in sé, deve comunicarlo, per giustificare di fronte a se stesso, che non gli è capitato niente che non sia umano. È difficile distinguere questo bisogno dal desiderio di rendere ciascuno simile a noi stessi e dal volergli imporre le nostre esperienze. Ciò riguarda tutte le nostre intuzioni e tutti i nostri sentimenti, ed è addirittura irresistibile quando si tratta delle sensazioni in assoluto più forti, quelle religiose. Qui ciascuno desidera propagare le vibrazioni del proprio animo negli altri; al bisogno di comunicare si fa incontro qui un bisogno, altrettanto potente, di apprendere; poiché l’infinitezza dell’oggetto riempie ciascuno con il sentimento dell’impossibilità di esaurirlo in solitudine, e con il bisogno di cercare un completamento58. Ma la comunicazione religiosa non può essere cercata, come quella scientifica, nei libri. I segni uniformi non racchiudono in sé l’intero sentimento. Perciò la religione si rifugia nella lettera morta solo quando viene cacciata dalla vita. Ed è un giusto istinto quello che esclude queste comunicazioni di Dio e delle cose divine dal colloquio abituale, anche da quello tra amici. Esse non accettano di farsi accompagnare da scherzo e arguzia, non si fanno lanciare come briciole dall’uno e dall’altro, non si lasciano esaurire nel veloce scambio di domande e risposte: esse necessitano piuttosto del grande stile. E così nasce una società dedicata in modo specifico a questa comunicazione: in essa tale comunicazione, dotata della pienezza e della forza del discorso umano, che le si addice, si presenta accompagnata da tutte le arti, che possono aiutare il discorso59. «Vorrei potervi dare un’immagine della vita ricca e fastosa che si svolge in questa città di Dio, quando i suoi cittadini si riuniscono, ognuno pieno della propria energia, che vuole sgorgare liberamente; se uno si fa avanti rispetto agli altri non è per un dovere o per un accordo che lo autorizza, non sono l’orgoglio o la presunzione che infondono in lui ardimento: si tratta, invece, di un libero impulso dello spirito, del sentimento della più 57
Ivi, pp. 266-267. Ivi, pp. 267-268. 59 Ivi, pp. 268-269. 58
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
sincera unità di ciascuno con tutti e della perfetta uguaglianza, della generale eliminazione di ogni gerarchia e di ogni ordine terreno». «Vengono così scoperti e onorati misteri sacri, non solo come significativi emblemi, bensì come allusioni naturali genuinamente intuite, di una determinata coscienza e di determinate sensazioni; come una specie di coro superiore, che risponde, nella propria elevata lingua, alla voce che lo esorta. Così c’è anche tra i santi una musica, che diviene discorso senza parole, l’espressione determinata e comprensibile dell’interiorità. Così si sostengono e si scambiano i toni del pensiero e della sensazione, finché tutto è saturo e pieno del Sacro e dell’Infinito»60. Questa comunità non viene toccata da nessuno dei rimproveri che si è soliti rivolgere contro la chiesa. In essa non c’è nessuna contrapposizione di sacerdoti e laici: c’è solo una «differenza di condizione e di doveri», non c’è nessuna tirannide aristocratica, nessuno spirito di discordia e di divisione. In essa non crescono sette di diversi gradi, con modi di pensare e tendenze religiose differenti: poiché le differenze dell’intuizione religiosa trapassano qui le une nelle altre in così silenziosi passaggi che nessun individuo singolo, nessuna forma particolare della religione può isolarsi; molti dei gradini più bassi sono collegati con gli altri dal presentimento di qualcosa di migliore; molti di coloro che hanno un determinato modo di sentire comprendono anche quello degli altri. La religione riempie ogni cosa con l’universalità illimitata del senso, alla quale l’intero mondo religioso appare come un tutto indivisibile. Non si trova qui un violento desiderio di conversione, poiché questa comunità religiosa si basa sulla comunicazione reciproca di forme di religione del tutto diverse, e la genuina religione si fa valere accanto ad ogni altra forma. Quando un singolo, strappato da questa comunità, si sente spinto a diffondere la religione nel suo ambiente, emerge un’operosità religiosa che esprime la devota nostalgia della patria61. Questa comunità religiosa non è un semplice ideale, bensì una realtà. Tuttavia essa non sussiste né in una delle chiese esistenti né, in generale, in forma visibile. Essa è la chiesa trionfante. Pochi si sono sollevati, grazie all’educazione e alla forza, fino a esserne membri. Essi sono separati da ampi spazi e non sono riuniti in nessuna chiesa. «Forse, addirittura, si può trovare solo in singole comunità separate, escluse, per così dire, dalla grande chiesa, qualcosa di simile concentrato in un determinato spazio»62. Tutti gli uomini genuinamente religiosi, che hanno vissuto in questa comunità, sapevano ben 60
Ivi, pp. 268-270. Ivi, pp. 269-273. 62 Ivi, p. 273. 61
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CONTENUTO E SIGNIFICATO DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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apprezzare ciò che si chiama abitualmente chiesa, secondo il suo valore, cioè non troppo alto. 2. Da questa comunità distinguiamo la chiesa presente. Essa nacque dal concreto bisogno di educare alla religione. Ma questo bisogno avrebbe dovuto condurre alla fondazione di piccole comunità. L’intromissione dello Stato ha ostacolato questa forma naturale delle comunità educative di tipo religioso, disturbando così lo sviluppo della chiesa. La chiesa esistente è un’unione di quelli che ancora cercano la religione e di conseguenza è opposta a quella perfetta comunità in quasi tutti gli aspetti. Qui tutti vogliono ricevere, solo uno deve dare. In essa anche i migliori non portano con sé la religione, bensì solo un qualche senso per essa. Se la vita risveglia un più debole senso religioso, facendo emerge il desiderio di religione, coloro ai quali ciò accade, incapaci da soli di considerare in modo tranquillo e preciso ciò che li muove, poiché ciò stimola sempre anche il loro impulso pratico, si presentano in chiesa e cercano aiuto. Accade di solito che essi trovino soddisfatto il loro bisogno dall’impressione qui ricevuta, che tuttavia è, a sua volta, soltanto una fuggevole apparenza. Se venisse veramente suscitata in loro una religione spontanea, essi dovrebbero abbandonare questa chiesa, nella quale sono solo passivi laici, per cercare una cerchia nella quale possano esercitare un influsso sull’esterno. Si persevera all’interno della chiesa, solo perché non si possiede veramente religione, e finchè non se ne possiede nessuna. Essi desidererebbero proprio l’intuizione religiosa individuale di chi deve comunicare loro la religione, e non, come è loro abitudine, uniformi astrazioni. Essi vedrebbero le azioni simboliche della religione come coro finale a piene voci, nel quale si ritira la singola rappresentazione artistica, e non come un atto autonomo63. Tuttavia la chiesa, proprio per come essa è, è necessaria. Come ogni faccenda umana la religione ha bisogno di organizzazioni per gli studenti e gli apprendisti. Sarebbe impossibile espellere del tutto da questa società lo spirito settario: esso deve dominare là dove le opinioni religiose vengono utilizzate come metodi per giungere alla religione, dove, di conseguenza, i sistemi vengono accettati sulla base dell’autorità, e ciò accade in modo più forte proprio nella religione sistematica. Sarebbe impossibile allontanare del tutto da essa una fede che sta ai limiti della superstizione, l’adesione alle abitudini, la differenza di sacerdoti e laici. Anzi, proprio a tale proposito rimarrà irraggiungibile l’ideale che i membri della vera chiesa annuncino 63
Ivi, pp. 274-276.
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e governino in quella esteriore. Si tratta qui ancora di un male particolare, che non proviene dalla natura della chiesa stessa64. L’immischiarsi dello Stato ha corrotto questa chiesa esteriore. Ogni nuova rivelazione conquista animi genuinamente religiosi, ma il fuoco vivente comunica a molti anche l’errata, superficiale apparenza della fiamma interiore. Qui inizia la rovina. Dopo la prima ebbrezza dell’entusiasmo questi ripiegano; quelli che sono stati veramente conquistati dalla religione si comportano pietosamente verso di loro, e così la religione e la comunità religiosa assumono una forma imperfetta. Lasciata a se stessa, questa situazione avrebbe condotto a una separazione della vera chiesa; i suoi membri avrebbero allora raccolto intorno a sé coloro che comprendono per libera scelta. Sarebbe nato un grande numero di piccole comunità dai confini indeterminati e in esse avrebbe preso inizio l’epoca d’oro della religione. Ma l’immischiarsi dello Stato fu la rovina della chiesa. I capi di Stato e i politici portarono la loro vanità nelle assemblee religiose, e riportarono con sè, nei loro palazzi, il timore reverenziale di fronte ai servitori dei santuari. «Avete ragione di augurarvi che mai l’orlo di una veste sacerdotale voglia aver toccato il suolo di una camera regale: ma lasciateci anche desiderare che mai la porpora voglia aver baciato la polvere ai piedi dell’altare; se non fosse accaduto questo secondo fatto, non sarebbe avvenuto neppure il primo». Ogni volta che un principe dotò la chiesa di diritti di corporazione, ebbe inizio la rovina. Questa tattica incatenò indissolubilmente elementi estranei l’uno all’altro, fissò articoli di fede e regole, escludendo i membri della vera chiesa dalla guida di una totalità che necessitava di talenti diversi rispetto a quelli che caratterizzano l’animo religioso. Uomini indegni entrarono al posto di questi entusiasti, e sotto la loro guida si insinuò ciò che massimamente contraddice lo spirito della religione. Lo Stato infeudò allora la chiesa così formata affidandole il controllo dell’educazione, affinchè insegnasse le opinioni di cui esso necessitava per il mantenimento delle sue leggi. Per questo la chiesa, come se fosse un’istituzione inventata e istituita dallo Stato, fu sottomessa alla sua guida e oppressa con i compiti assegnatile da quello all’interno della regolamentazione dell’ordine civile65. 3. Fino alla separazione della chiesa dallo Stato, il sacerdote deve agire incorporando il vero sacerdozio nella sua persona, il laico d’indole religiosa deve essere sacerdote nella propria casa; una volta terminata la schiavitù
64 65
Ivi, pp. 276-279. Ivi, pp. 279-284.
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del lavoro materiale, questo è infatti lo scopo ultimo di tutto lo sviluppo religioso. La situazione presente è insostenibile: bisogna determinare la vera forma della chiesa esteriore attraverso il suo scopo. Esso consiste nel mostrare, a tutti quelli che hanno sensibilità adatta, così tanta religione che si svilupperà in loro la predisposizione a essa. Affinché ciò sia possibile, lo Stato non può scegliere secondo i propri punti di vista gli insegnanti di religione: le comunità non possono essere assegnate a costoro, come le case, che stanno semplicemente l’una accanto all’altra, e secondo le liste di polizia, bensì secondo una certa affinità della capacità religiosa e del modo di sentire. La vocazione religiosa e il compito di un predicatore morale che sta a servizio dello Stato devono essere separati: il caso che entrambi si uniscano nella stessa persona non può diventare legge. In breve: l’attuale legame di Stato e chiesa deve essere sciolto. «Basta con questa connessione di chiesa e Stato! Questo rimane il mio monito catoniano fino alla fine o finché non vedrò questa connessione veramente distrutta». Tra insegnanti non deve esserci nessuna confraternita, nessuna organizzazione, tra insegnante e comunità non deve sussistere nessun legame fisso; la missione del religioso deve essere un affare privato; il tempio, nel quale il suo discorso viene ascoltato, deve essere una camera privata, davanti a lui deve trovarsi un’assemblea, ma non una comunità66. Questa sarebbe la soluzione, che sempre nuove suddivisioni della chiesa impediscono. La chiesa ha infatti la natura del polipo, e da ogni suo pezzo cresce di nuovo il medesimo intero. Un gran numero di queste chiese individuali non è affatto da preferire a un piccolo numero: i netti confini delle singole chiese devono al contrario essere eliminati. I mezzi, attraverso i quali si realizzerà questa eliminazione della chiesa di Stato, sono in balia del futuro. Forse accadrà dopo un «grande sconvolgimento», come quello che ci fu in Francia, o mediante un «amichevole accordo»; forse lo Stato tollererà un giorno nuove istituzioni67. Finchè ciò non accade, tutte le anime sante rimarranno sotto l’oppressione della situazione attuale. Potranno agire poco mediante il discorso, poiché si attende in questo la realizzazione del loro compito morale. Dovranno annunciare prima di tutto, attraverso una vita sacerdotale, lo spirito della religione. «Se tutta la loro vita, e ogni movimento della loro figura interiore ed esteriore, è un’opera d’arte sacerdotale, forse, attraverso questa lingua muta, germoglierà per alcuni il senso per ciò che abita in loro». 66 67
Ivi, pp. 284-287. Ivi, pp. 287-288.
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«Cosa devo dire a quelli ai quali voi negate la veste sacerdotale, perché essi non hanno percorso una determinata cerchia di vane scienze? Si accontentino del servizio sacerdotale per i lari domestici! Questo sacerdozio fu il primo nel sacro e infantile mondo primitivo, e sarà l’ultimo, quando nessun altro sarà più necessario. Sì, noi attendiamo, alla fine della nostra educazione artificiosa, un’epoca, dove non ci sarà bisogno di nessun’altra società preparatoria per la religione che quella della devozione domestica. Oggi milioni di uomini di entrambi i sessi e di tutte le condizioni sospirano sotto il peso di lavori meccanici e indegni». «Questo è il motivo per il quale essi non possono avere lo sguardo libero e aperto, grazie al quale, solamente, si trova l’universo. Non c’è nessun più grande impedimento per la religione del fatto che dobbiamo essere schiavi di noi stessi: è schiavo, infatti, chiunque debba sopportare qualcosa che potrebbe essere fatto da forze inanimate. Auspichiamo, dal perfezionamento delle scienze e delle arti, che allora ogni uomo sarà un libero di nascita, che su nessuno si solleverà il bastone del guardiano, e ciascuno avrà pace e agio per contemplare in sé il mondo. Solo per gli infelici, ai quali manca tutto questo, ai cui organi sono sottratte le forze, e che devono utilizzare incessantemente, nel loro lavoro, i muscoli, era necessario che singoli uomini felici sorgessero e si riunissero, per essere come i loro occhi e per comunicare loro, in pochi fuggevoli attimi, le intuizioni di una vita»68. Solo allora la nobile comunità di spiriti genuinamente religiosi si estenderà ovunque: essi costituiscono un’accademia di sacerdoti, poiché la religione è per loro un’arte e uno studio; un coro di amici, poiché ciascuno sa di essere anche una parte e un’opera dell’universo; un circolo di fratelli, poiché la loro sensibilità e il loro comprendere sono fusi nel modo più profondo. «Se avete trovato qualcosa di più elevato su un altro terreno della vita umana o in un’altra scuola di saggezza, comunicatelo: io vi ho dato ciò che è per me più elevato»69.
5. Le religioni Bisogna scoprire nelle religioni la religione, i tratti della sua bellezza celestiale in ciò che appare finito, terreno, corrotto e, spesso, in forma misera. 1. La religione infinita si individualizza nelle singole forme religiose, cioè 68 69
Ivi, pp. 288-292. Ivi, pp. 290-291.
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le religioni positive, proprio come l’universo infinito, suo oggetto, si manifesta in singole esistenze particolari, determinate in modi differenti. Perciò la religione deve essere vista in queste forme positive, non nella cosiddetta religione naturale (natürliche Religion), nella quale essa è derubata dei suoi forti e genuini caratteri peculiari. Queste singole forme devono, come d’altronde l’universo stesso, essere intuite con religione, affinché, in mezzo alla degenerazione, venga scorta la sua vera essenza. Apparentemente oggi la separazione delle chiese e la separazione delle religioni coincidono. La prima separazione è stata condannata ed è stato concepito il pensiero di una totalità indivisa della comunità religiosa, nella quale tutti i limiti determinati si perdono: da ciò non deve essere dedotta l’ampia unità senza distinzioni delle religioni stesse. Piuttosto, la vera chiesa deve essere una comunità che abbraccia tutte le possibili religioni, affinché in essa ciascuno veda forme di religione prima sconosciute e trovi quella a lui corrispondente. «La religione è infinita». Essa perciò, come ogni forza infinita, esiste solo nella molteplicità di forme particolari e distinte. Come un qualcosa di infinito essa possiede esistenza solo nell’individualizzazione. Nessuno possiede per intero la religione, e quella dell’uno non può essere pensata come prosecuzione di quella dell’altro. Non volere la propria forma particolare di religione, bensì vedere le forme cangianti, è considerare religiosamente la religione70. Queste forme individuali, intese come religioni positive, vengono odiate; al contrario la cosiddetta religione naturale viene tollerata. È comprensibile che coloro, ai quali la religione in generale è antipatica, amino qualcosa che non è appunto più religione e che non ne porta più i tratti caratteristici. Se essi rimproverano le religioni positive perchè esse sono piene di ciò che non è religione, perchè ciascuna vuole far passare la propria particolarità per la cosa sommma, perchè «apportano dimostrazioni, contraddicono, litigano contro la natura della vera religione», allora la più grande parte di questa rovina va ascritta a quelli che «hanno strappato la religione dall’interiorità del cuore per portarla nel mondo civile». Lo sguardo religioso afferra l’eterno stesso in mezzo alla corruzione e qui si mostra che anche «le ceneri morte una volta erano sfoghi incandescenti del fuoco interiore»71. 2. Conformemente a ciò ogni vera religione è un’individualità. Come tale essa non può essere dedotta dal concetto di religione tramite una enunciazione di tipi o di modi di rappresentazione della religione stessa. Essa 70 71
Ivi, pp. 293-296. Ivi, pp. 296-299.
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nasce quando la volontà produce, dall’infinità delle intuizioni, una intuizione singola dell’universo come punto centrale e si particolarizza nelle singole personalità religiose. In contrapposizione a questa sua natura individuale la religione naturale desidera esistere come un elemento universale, cosa in sé contraddittoria. Una determinata forma di religione nasce quando un’intuizione singola dell’infinito viene resa, per libera scelta, punto centrale dell’intera religione. Essa è allora una vera individualità72. Il carattere singolare di una religione non viene determinato da una «certa somma di materiale religioso» o da una certa somma di intuizioni e sentimenti religiosi. Di ogni intuizione della religione sono possibili diverse concezioni, sulla cui scelta non può essere stabilito nulla mediante l’eliminazione del materiale. In generale fenomeni individuali non possono essere compresi negativamente per semplice esclusione. Proprio la somma determinata di materiale religioso è casuale in ogni individuo ed è impossibile che possa definire l’essenza delle grandi forme religiose individuali. Ciò viene confermato dall’eterna disputa su cosa appartiene essenzialmente ad una religione. Se ci immaginiamo un frammento dell’infinitità dell’intuizione religiosa, una connessione, che colleghi proprio queste intuizioni e sentimenti ed escluda gli altri, non si tratterebbe di una religione, ma di una setta, «il concetto più irreligioso che si può volere realizzare nell’ambito della religione»73. Il carattere singolare di una religione può altrettanto poco essere determinato attraverso i tre modi (tipi o gradi) di intuire l’universo, cioè come caos o come molteplicità elementare o come sistema. Queste classi dell’intuizione religiosa non ne determinano neppure la singola forma. Anche la contrapposizione di tipi di rappresentazione, come panteismo e personalismo, non spiega la specifica relazione delle intuizioni l’una all’altra, in una forma religiosa individuale. Non si giunge certo all’individuo mediante l’articolazione di un concetto74. Una forma individuale di religione nasce quando tutto ciò che è presente in essa viene relazionato ad una singola intuizione dell’universo. Essa è allora disponibile completamente solo nella totalità, dunque nella successione delle forme che possono essere concepite a partire da questo punto centrale e mette in relazione a sé tutti i tipi di considerazione dell’universo a partire dalla propria intuizione fondamentale. È perciò un’eresia nel senso proprio 72
Ivi, p. 299. Ivi, p. 301. 74 Ivi, pp. 299-303. 73
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della parola: è cioè causa del suo nascere il fatto che la volontà concepisca un’intuizione come punto centrale della sua religione75. Si forma così un universo di religioni. Anche se la prima idea religiosa, che ha catturato un uomo, rimane la sua “intuizione fondamentale”, egli può, procedendo da tale intuizione, dare forma individuale alla propria vita religiosa. Si tratta di un processo simile a quello che avviene «quando una parte della coscienza infinita si stacca» e «nasce un uomo nuovo». In chiunque possa indicare l’ora della nascita della propria religione e possa ricondurre l’origine di essa a un immediato influsso della divinità, è presente anche una religione personale e genuina. L’osservatore della vita religiosa viene sorpreso dalla molteplicità inesauribile di queste forme, dall’isolato sviluppo della religiosità nell’uomo, dalla potente eccitazione che si solleva talvolta in un animo altrimenti tranquillo76. Quanto monotona, senza palpito proprio e senza reale organizzazione, e quindi anche senza senso per la libertà, appare invece la religione naturale! Ogni volta che si fa passare un potente carattere religioso per uno dei suoi affiliati, una considerazione più profonda riconosce, invece, nella sua pretesa ragione [religione razionale] tratti particolari, volitivi e positivi. La vera religione naturale non proviene da alcuna intuizione vivente: essa preferisce possedere la fede in Dio per dimostrazione. Tutto in essa è astratto: essa ha una provvidenza in generale, una giustizia in generale, una educazione divina in generale. Assomiglia perciò «a quella sostanza, sottile e frammentata, che deve fluttuare tra gli astri». Essa attende la propria esistenza. Perciò la religione naturale ha la propria forza nella negazione di tutto ciò che è positivo e caratteristico, e quindi di ciò che in essa è reale. È come un’anima che «vuole resistere con forza al venire al mondo, perché non desidera essere questo o quell’uomo, ma un uomo in generale»77. 3. L’intuizione fondamentale del Cristianesimo è l’opposizione di infinito e finito e la loro mediazione e la sua stabilità è perciò collegata all’eterno bisogno di questa mediazione. Proprio in virtù del suo sguardo sulla serie delle mediazioni, il Cristianesimo è interessato a veder nascere sempre nuove forme di religione accanto a sé. Rivolgiamoci alle singole religioni. L’osservatore non deve considerare solo le religioni storiche più grandi: quelle condivise solo da pochi furono spesso non meno notevoli. Egli deve cogliere il divino presente in tutte, a 75
Ivi, pp. 303-304. Ivi, pp. 304-309. 77 Ivi, pp. 308-311. 76
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
prescindere dalla corruzione subita da esse a causa delle condizioni concrete e deve individuarne le intuizioni fondamentali. In considerazione a quanto detto fino ad ora sono da evitare due errori. L’intuizione fondamentale non può esser scambiata con il misterioso processo nel quale è nata la religione. La costante menzione di questo processo accompagna tutte le espressioni religiose e dà loro un colore caratteristico: i veri religiosi cercano di celebrare tale processo in tutti i modi, come il miracolo più benefico dell’Altissimo. Ma l’essenza della religione non sta in esso. Non si può, inoltre, considerare tout court religione ciò che si trova in documenti religiosi; questi contengono altrettanta saggezza pratica e morale, altrettanta metafisica e poesia. Infine, non può essere visto come contenuto esclusivamente religioso ciò che si lascia costringere in determinate tesi, nè può essere screditato proprio ciò che gli è caratteristico come lettera morta78. Giunto a coscienza della vera essenza delle formazioni religiose (poiché la religione può essere compresa solo mediante se stessa), il religioso può intraprendere a esaminare tali forme. Questo è il compito di un’intera vita. A tale scopo appare necessario stabilire i punti di vista dominanti delle religioni sistematiche, di ciò che è più santo nella religione79. Il Giudaismo è da lungo una religione morta. Il suo significato non sta nel fatto che esso sia stato il precursore del Cristianesimo. «Io odio nella religione questo tipo di relazioni storiche; la necessità della religione è di ordine superiore ed eterno, e ogni inizio in essa è originario». L’Ebraismo era un’individualità di carattere fanciullesco, bello e particolare, completamente tramontata nella corruzione. La sua idea fondamentale era quella di una ricompensa universale immediata, di una «vera e propria reazione dell’infinito contro ogni singolo finito che nasca dall’arbitrio, attraverso un altro finito che non viene visto come proveniente dall’arbitrio». Dunque la divinità viene vista come ricompensatrice, punitrice, castigatrice e la storia come un immediato «dialogo tra Dio e l’uomo mediante parole e azioni». E poiché questa idea infantile era misurata solo su un piccolo teatro senza complicazioni, nel contatto crescente con altri popoli doveva essere chiamata in aiuto la profezia, per mostrare come si realizzasse, in mezzo a mille impedimenti, questo pensiero provvidenziale. Nacque così l’ultima grande rappresentazione di questa religione, la fede nel Messia. Il limitato orizzonte del Giudaismo ne determinò la breve durata. «Esso morì quando furono chiusi i suoi libri sacri; allora il dialogo di Jahvè con il suo popolo fu considerato concluso»80. 78
Ivi, pp. 312-314. Ivi, p. 314. 80 Ivi, pp. 314-316. 79
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L’intuizione originaria del Cristianesimo è «quella dell’universale contrapposizione del finito all’unità del tutto e del modo in cui la divinità considera questa contrapposizione, di come essa media l’ostilità contro di sé, ponendo limiti alla distanza, che va aumentando, tramite singoli punti, disseminati ovunque, che sono insieme qualcosa di finito e infinito, umano e divino»81. I due lati, inseparabilmente connessi, di questa intuizione sono la perdizione (Verderben) e la redenzione (Erlösung). Tramite questa opposizione viene determinata la formazione di tutto il materiale religioso nel Cristianesimo: il mondo fisico come quello morale avanzano verso il peggio; dall’egoistico tendere della natura individuale, che vuole essere qualcosa di completo per se stessa, sono derivati la morte e ogni male. La provvidenza si sforza di porre rimedio, attraverso segni e miracoli, grazia e forze divine, alla perdizione: essa invia a tal fine mediatori sempre più nobili tra sè e l’uomo. Perciò, in questa intuizione di un effetto religioso che va progredendo, la religione diviene oggetto a se stessa, così che il Cristianesimo è, per così dire, «la religione alla somma potenza». Si spiega, in tal modo, il suo carattere polemico: il Cristianesimo accenna ovunque alla distanza del divino, che necessita di un mediatore. Si spiega anche la sua storia: esso dovrà perseguitare il principio irreligioso nelle sue forme tipiche; è questa la guerra santa, che il cristianesimo è venuto a portare; esso dovrà pretendere di penetrare e dominare la vita intera, «di porre sentimenti e idee religiose» accanto a tutte le azioni82. Il sentimento fondamentale di siffatta religione deve essere il desiderio insoddisfatto volto a un grande oggetto e cosciente della propria infinità. Essa è eccitata da quanto profondamente il sacro è mescolato con il profano, il sublime con il futile. «Non solo di tanto in tanto questa sacra malinconia (Wehmut) afferra il cristiano: essa è piuttosto il tono dominante di tutti i suoi sentimenti religiosi». «Se uno scrittore, che ha lasciato dietro di sé solo pochi fogli in una lingua semplice, non è troppo meschino per voi da rivolgergli la vostra attenzione, allora da ogni parola conservataci del suo amico del cuore83, vi interpellerà questo tono; e se mai un cristiano vi ha lasciato guardare nella parte più sacra del suo animo, è stato proprio costui»84. Se si considera, nelle frammentarie descrizioni di questa vita, l’immagine sacra del nobile fondatore di ciò che di più alto c’è stato, fino ad ora, nella 81
Ivi, p. 316. Ivi, pp. 317-320. 83 Giovanni Evangelista, indicato come Busenfreund, amico del cuore. 84 Ivi, p. 320. 82
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religione, emerge, al di là della purezza di questa dottrina morale, al di là della singolare «unione, nel suo carattere, di una forza superiore con una toccante mitezza», un ulteriore elemento: «il vero elemento divino» in lui è «la magnifica chiarezza, alla quale era giunta nella sua anima la grande idea, che egli era venuto a esporre, che tutto il finito necessita di superiori mediazioni, per congiungersi con la divinità. Vana audacia è volere togliere il velo che nasconde, e deve nascondere, la sua origine, poiché ogni inizio nella religione è misterioso. L’impertinente sacrilegio, che ha osato ciò, poteva solo travisare il divino, come se Cristo fosse provenuto dalla antica idea del suo popolo, del cui annientamento egli invece voleva parlare, e che di fatto ha espresso in una forma gloriosa, pensando di essere proprio colui che gli ebrei attendevano»85. Il mediatore deve essere allo stesso tempo partecipe della natura divina e di quella finita. La coscienza dell’unicità della sua religiosità, dell’originarietà e della forza della propria visione, era perciò in lui anche coscienza del suo ufficio di mediatore e della sua divinità. Non voglio dire che Cristo «fu messo di fronte alla cruda violenza dei suoi nemici, senza speranza di poter sopravvivere: dire ciò è indicibilmente meschino. Abbandonato, sul punto di tacere per sempre, Cristo non potè vedere fondata tra i suoi una qualsiasi istituzione che sostenesse la comunità; contrario al lusso festoso dell’antica religione corrotta, che appariva forte e potente, era circondato da tutto quello che infonde timore e può esigere sottomissione, da tutto ciò che egli stesso era stato educato fin dall’infanzia a onorare. Quando, solo, non sostenuto da nulla se non da questo sentimento, senza esitare, disse quel sì, la più grande parola che mai un mortale abbia detto, questa fu la più splendida apoteosi e nessuna divinità può essere più certa di quella che afferma così se stessa»86. Ma Cristo non sostenne mai «di essere l’unico mediatore, e mai ha scambiato il suo insegnamento con la religione»87. Perciò, chi pone a fondamento della religione la stessa intuizione, è un cristiano, sia che deduca la sua religione, dal punto di vista storico, da se stesso o da qualcun altro. Mai Cristo ha creduto di aver esaurito l’intero ambito della religione nelle intuizioni e nei sentimenti, che aveva comunicato; egli, invece, «ha sempre indicato la verità che sarebbe venuta dopo di lui», come fecero «anche i suoi discepoli». Solo coloro che ritennero la sua morte il sonno dello spirito racchiusero illecitamente nelle Sacre Scritture un codice della religione. Queste 85
Ivi, pp. 320-321. Ivi, pp. 321-322. 87 Ivi, p. 322. 86
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sono diventate Bibbia in virtù della propria forza e «non vietano a nessun altro libro di essere o di diventare anch’esso una Bibbia»88. Dall’essenza del Cristianesimo deriva la sua storia. «L’idea principale del Cristianesimo, cioè quella delle forze mediatrici divine», si è formata in vari modi, e «tutte le intuizioni e i sentimenti dell’inabitare della natura divina in quella finita sono state portate a realizzazione all’interno di esso. Così molto presto la Sacra Scrittura, nella quale abitava a suo modo anche la natura divina, è stata considerata un logico mediatore per comunicare la conoscenza della divinità alla natura finita e corrotta dell’intelletto, e lo Spirito Santo, in una successiva accezione della parola, fu considerato un mediatore etico per avvicinarsi ad essa praticamente. Una numerosa parte di cristiani ritiene ancor oggi un essere mediatore e divino chi possa provare di essere stato, attraverso una vita divina o una qualche altra impressione della divinità, anche solo per una piccola cerchia di persone, punto di connessione con l’infinito. Per altri Cristo è rimasto “uno e tutto”, ed altri ancora hanno dichiarato «se stessi, o qualcun altro, come mediatori». Così sono emersi intuizioni e sentimenti, «dei quali in Cristo e nei libri sacri non vi è traccia». Ancor oggi non sono maturi per il Cristianesimo grandi ambiti della religione, perciò altre inutizioni verranno ancora alla luce89. Il Cristianesimo avrà ancora una lunga storia. «Come potrebbe tramontare? L’intuizione fondamentale di ogni religione positiva è in sé eterna». Che però questa intuizione sia vista proprio come punto centrale della religione, dipende sempre da una determinata situazione dell’umanità. Quando essa trapassa, di conseguenza, neppure la religione può più esistere in quella forma. Così è passata una lunga serie di religioni. Verrà anche per il Cristianesimo il tramonto come per quelle? «Il Cristianesimo, superiore a tutte loro, più storico e più umile nella sua magnificenza, ha riconosciuto espressamente questa caducità della propria natura: verrà un tempo, esso dice, in cui non si parlerà più di nessun mediatore, bensì il Padre sarà tutto in tutto. Ma quando verrà questo tempo? Temo che esso stia al di là di tutti i tempi. La corruttibilità di tutto ciò che è grande e divino nelle cose umane e finite è la prima metà dell’intuizione originaria del Cristianesimo: dovrebbe veramente venire un tempo dove questa non si imporrà più?». «Lo vorrei, e volentieri starei sulle rovine della religione che venero». L’altra metà di questa intuizione del Cristianesimo è che, da singoli punti divini, proviene la salvezza dalla corruzione. E certo la forza religiosa non sarà mai distribuita in modo così equo nella grande massa dell’umanità da far sì che essa non 88 89
Ivi, pp. 322-324. Ibid.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
necessiti più del mediatore. Ogni altra uguaglianza è più facile di questa, perciò ci saranno sempre cristiani90. Ma il Cristianesimo non vuole dominare da solo, come unica forma religiosa. Vedrebbe volentieri altre e più giovani forme di religione emergere accanto a sé. Come “religione delle religioni” non può raccogliere abbastanza materiale per la propria intuizione dello sviluppo religioso. Perciò si augura che l’infinito venga intuito e pregato in ogni modo. Devono essere rari i grandi momenti nei quali tutto concorre ad assicurare a una tale intuizione una vita più articolata e duratura. Ma tutto ci si può aspettare da un’epoca che così chiaramente è confine tra due diversi ordini di cose. «Un’anima capace di presentire, volta al genio creatore, potrebbe già ora indicare il punto che deve diventare, per le generazioni future, centro per intuire l’universo». Intanto devono emergere, anche solo come fuggevole apparizione, nuove forme religiose. «Passi il tempo del riserbo e della vergogna. La religione odia la solitudine, e soprattutto nella sua giovinezza, che è per tutti il tempo dell’amore, si strugge in un desiderio che la consuma. Se essa si sviluppa in voi, se voi diventate coscienti delle prime tracce della sua vita, allora entrate subito nella comunità unica e indivisibile di santi, che accetta tutte le religioni e che consente a ciascuna di svilupparsi. Ritenete, dal momento che essa è frantumata e lontana, di doverne parlare a orecchi profani? Domandate quale lingua sia sufficientemente misteriosa a questo scopo: il discorso, lo scritto, l’azione, la silenziosa mimica dello spirito? Tutte, rispondo io, e voi vedete che non mi sono vergognato neppure della più diretta. In ciascuna il sacro rimane segreto e nascosto ai profani. Lasciateli rodere la buccia, come possono; ma non negateci di pregare il Dio, che sarà in voi»91. Valutazione storica Mettiamo in relazione con la visione del mondo e della vita di Schleiermacher esposta in precedenza questi Discorsi, che lo portarono a elaborare il proprio punto di vista sul problema della religione, della comunità religiosa, del Cristianesimo, e domandiamoci quanto lontano lo condusse questo punto di vista. Separiamo il contenuto negativo dei Discorsi da quello positivo. La negazione è sempre più comprensibile e più radicale; ma essa ha nel pensiero creativo, che la produce, il suo fondamento e la misura della sua portata. 90 91
Ibid. Ivi, pp. 324-326.
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CONTENUTO E SIGNIFICATO DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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1. Attraverso tutte le pagine dei Discorsi viene condotta, con passione e certezza della vittoria, una battaglia: la battaglia contro l’intellettualismo in materia religiosa, cioè contro una tendenza spirituale per la quale la religione è una connessione di verità fondata allo stesso modo delle verità scientifiche. Dal primo sviluppo del Cristianesimo nella chiesa greca questa tendenza era profondamente penetrata in esso. Già allora era stata sviluppata una connessione di dogmi che aveva il suo fondamento nei sistemi dottrinari. Il profondo spirito religioso dei popoli germanici si era messo fin dall’inizio a combattere contro questa tendenza. L’intellettualismo aveva respinto l’elemento essenziale della fede religiosa, aveva prodotto un conflitto, apparentemente inconciliabile, tra la religione e la nuova cultura. La connessione della dottrina cristiana, tramandata come una totalità rigorosamente strutturata, contraddiceva la nuova immagine del mondo che si era formata con la fondazione della scienza della natura. Proprio nel pensiero riformatore della giustificazione per sola fede (Rechtfertigung) era posta la base per una riconciliazione (Versöhnung). La grande sensibilità di Lutero aveva già osato sottomettere a esame il valore dei libri biblici alla luce di questo pensiero. Dopo di lui rimase irrisolto, però, l’ulteriore compito della teologia, quello di codificare la religione cristiana a partire dalle tradizioni. La critica biblica poteva realizzare solo a metà il proprio compito fondativo, se non le giungeva in aiuto un altro elemento. Nel lascito di Lessing si trovava una richiesta a Semler, il fondatore della critica biblica tedesca: egli doveva venire in chiaro di ciò che è casuale e ciò che è essenziale alla costruzione del Cristianesimo, cosa che aveva fatto riguardo alla Bibbia. Questo punto indica il limite della critica biblica storica. Il suo necessario completamento stava nella comprensione positiva della religione e del Cristianesimo. Kant ha gettato le basi per rispondere a questa domanda, alla quale dovette attenersi la critica storica. Egli dimostrò dapprima che il mondo della scienza e la sua evidenza arrivavano tanto lontano quanto il fenomeno, e che perciò il mondo eterno, nel quale è fondata la nostra vita, non viene raggiunto da nessuna ricerca: esso ci è presente solo nell’incondizionato, che costituisce il nucleo della nostra persona. È stato dimostrato che egli vide questo incondizionato, in modo unilaterale, nella volontà morale (sittlicher Wille) e che, in seguito a ciò, la religione divenne di nuovo, anche per lui, una connessione di verità derivate, basata su deduzioni. Schleiermacher per primo fondò nei Discorsi la concezione in grado di completare la conoscenza kantiana dei limiti della scienza: tutte le genuine convinzioni religiose sono immediate, sono un’intuizione interiore (innere Anschauung) del divino presente nell’animo ed appartengono all’interiorità della nostra persona, nella quale riposa la loro evidenza.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
Così Schleiermacher separò per la prima volta rigorosamente la scienza dalla religione. Egli poneva in tal modo il fondamento per una futura conciliazione della religione con la cultura intellettuale dell’Occidente e produceva, nello stesso tempo, un approfondimento di ciò che è essenziale nella religione. La linea di separazione che egli tirò tra scienza e religione era condizionata dalla sua positiva visione della religione, ne ha vissuto i medesimi cambiamenti e soggiace perciò alla medesima critica. Tale separazione è il compito costante della profonda teologia che ha preso inizio con Schleiermacher. Più insicura, più dubbiosa, circondata da ancor maggiori difficoltà fu una seconda linea di demarcazione. Era necessario chiarire l’intima relazione di religione e moralità, dal momento che la vita religiosa appare non solo come un modo di pensare (Denkweise), bensì anche come un modo di agire (Handlungsweise). La moralità dell’Occidente era stata allevata dalla chiesa cristiana. Una usanza consacrata delimitò il modo di vivere dei popoli moderni. Rispetto al dato di fatto dell’emancipazione della scienza di rado si apprezza, come meriterebbe, l’altro dato di fatto: cioè che, per l’intera storia moderna, procede anche la lotta per una moralità autonoma, basata in particolare sull’ideale classico e sul suo significato nella nostra vita culturale. La filosofia del diciottesimo secolo traboccava di questa aspirazione. Kant le diede l’espressione più penetrante nella sua dottrina dell’autonomia della volontà morale sulla quale si fondò l’orgoglioso sentimento di autonomia di Fichte. Questa tendenza della filosofia si fondava nel fatto che si erano formati un costume e una moralità mondani, che bisognava riconoscere e spiegare. La spiegazione di Kant e della sua scuola, tuttavia, si aggrovigliò anche a questo riguardo in insolubili difficoltà, che Schleiermacher, come si è illustrato, ha presto riconosciuto, e che i Discorsi pongono nella luce più viva. Attraverso il ruolo che Kant ascrive alla religione nei confronti della moralità, vengono distrutti, in un colpo, l’indipendenza della morale e il valore autonomo della religione. Anche in questo caso il punto di partenza, dal quale Schleiermacher tira la sua linea critica, è giusto. Devono essere infatti salvaguardati sia l’indipendenza della moralità sia il valore autonomo della religione. C’è una moralità che, in quanto volontà retta, è intoccabile, ed è tuttavia indipendente da ogni religione. Eppure soltanto la religione è in grado di dare alla moralità nobile motivazione, compiutezza, libertà e armonia. Ciononostante l’argomentazione schleiermacheriana non è né matura né conseguente. Ho richiamato l’attenzione su quanto Schleiermacher fosse ancora insicuro quando progettò il piano dell’opera. Per quanto concerne
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CONTENUTO E SIGNIFICATO DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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l’indipendenza della moralità, egli appare ancora troppo influenzata da Kant e Fichte; è dunque solo il rovescio della medaglia di questo fatto, se la sua intuizione della religione, accordandosi con il culto degli stati d’animo (Stimmungen), in voga presso i contemporanei, non è ancora in grado di apprezzare gli elementi attivi presenti in ogni vera religione. Nacque, in tal modo, la sua singolare concezione, secondo la quale la religione dovrebbe semplicemente accompagnare il nostro agire etico con la sua eterna armonia: perciò noi dovremmo fare tutto con religione, non a causa della religione. Solo in seguito potremo mostrare dove stanno verità ed errore di questa concezione. Già nei Discorsi, tuttavia, questa concezione non è compensata da quella, assai più profonda, per la quale la prassi deve ricevere l’umanità come una cosa sacra dalle mani della religione, al fine di comprendere il vero compito di questa, cioè il compito di formare l’uomo stesso e di rispettare la sua individualità92. Schleiermacher esprime in questa idea la profonda relazione di religione e moralità presente nella sua vita religiosa di allora. Essa è, in realtà, solo una piccola parte delle ampie relazioni che dominano qui. Ma le sue prediche risalenti al medesimo periodo dimostrano come egli avesse ottenuto già allora un libero sguardo per esse, che lo sviluppo successivo delle sue idee rafforzò. In questo approccio veniva preparato qualcosa di decisivo: la comprensione dell’elemento incondizionato nella formazione della volontà morale e nella sua attività pratica; la liberazione della religione dalla opposizione tra sentimento di indipendenza morale del mondo moderno e pretese di una chiesa, che non riconosceva nessun’altra moralità se non quella cresciuta al proprio interno, e insieme, tuttavia, una compensazione tra l’ideale di vita autonomo e il fatto che sulla religione si basa tutto il costume nazionale. 2. Così Schleiermacher ottenne, mediante l’esclusione di ciò che è estraneo alla religione, un risultato liberatorio e conciliante. Nei Discorsi iniziò la distinzione delle legittime pretese di fattori culturali variamente aggrovigliati l’uno con l’altro e, con ciò, l’accomodamento di una disputa durata quasi duemila anni. La storia del Cristianesimo mostra il destino mutevole del dominio della religione sulla filosofia e sull’agire terreno, e la sua servitù. Kant, nell’analisi della conoscenza, ha scoperto l’esatto punto di vista per la mediazione della controversia filosofica: Schleiermacher, genuino discepolo di Kant, ha trovato nella nuova comprensione (Wiederverständnis) della religione, nella coscienza scientifica che questa ha di se stessa, il saldo punto a partire dal quale la battaglia dei partiti religiosi e la battaglia, ancor più 92
Ivi, pp. 212-213, 263-264.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
pericolosa, tra religione e scienza, tra religione e ideali morali di vita, può concludersi una volta per tutte. Per risolvere questo compito c’era bisogno del genio religioso (religöses Genius). Come tale Schleiermacher si trovò in relazione con tutti gli uomini religiosi che, all’esclusiva signoria delle astrazioni scientifiche, contrapponevano l’immediatezza della loro esperienza religiosa. Ma se in ciò egli era affine a Hamann, Jacobi, Claudius, Wizenmann, non poteva accogliere la parola risolutiva che proveniva da tali nature: alcune di esse si arrendevano, nella disputa insolubile tra religione e scienza, considerandole come fattori di pari peso, altre salvavano la loro religione solo mediante la totale rottura con la scienza. Schleiermacher ha espresso, nei Discorsi, il destino della mistica, che si consuma nell’opposizione contro le forze legittime della cultura, in un’entusiasmante esposizione93. Questi limiti non lo fermarono. Schleiermacher collegò nella sua persona elementi apparentemente ostili gli uni agli altri. Colpì i contemporanei che uno scritto, pervaso dalla prima fino all’ultima parola dal respiro vivificatore della religione, riconoscesse il diritto della scienza e della moralità autonoma, e che, d’altra parte, uno spirito convinto di questo diritto, mosso da originale moralità e da creativa attività scientifica, fosse orgoglioso di essere un annunciatore della religione. Schleiermacher diede inizio alla conciliazione nel pensiero scientifico. E fece ciò non attraverso una ricerca induttiva, bensì mediante la presentificazione vivente del processo religioso stesso. Egli spiegò chiaramente come lo studio induttivo delle singole religioni esigesse per sé una vita intera. E allora, quando non possedevamo né i Veda né lo Zend-Avesta o i Tripitaka, gli scritti basilari della religione brahminica, parsica e buddistica, che felici e imprevisti eventi degli ultmi cinquant’anni ci hanno reso accessibili per la prima volta, quando anche per lo studio delle intuizioni mitologiche delle nazioni europee non c’era alcun fondamento scientifico, neppure il lavoro di una vita avrebbe potuto dare alcun sicuro risultato. Così Schleiermacher intraprese un’altra via, la via concessa a una natura religiosa, che ha formato un proprio orizzonte di intuizioni e in virtù di queste ovunque presagisce, comprende, sente la religione. «Ho considerato con cura i pochi uomini religiosi, mi do da fare a cercarli e li osservo con tutta la meticolosità sacra che voi rivolgete alle rarità della natura»94. Egli descrisse ciò che aveva vissuto in sé (erlebte) e ciò che aveva riconosciuto in altri. Dove prima si erano viste agire solo filosofia e moralità, forze terrene, egli scorse gli effetti della religione. Le condizioni dell’epoca, nella quale 93 94
Ivi, pp. 256 ss. Ivi, p. 307.
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CONTENUTO E SIGNIFICATO DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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viveva, lo condussero a portare a coscienza l’elementare processo religioso. Quest’epoca respingeva i dogmi, la tradizione storica, la Bibbia. Pertanto una natura religiosa, dedita con tutta l’anima alla scienza del tempo, doveva ricondurre la religione ai suoi elementi primissimi, inafferrabili, generali, in una sacra vita emotiva, nella quale nulla è dura forma storica, fede chiusa, tradizione dominante. La forza e i limiti del metodo schleiermacheriano si toccano in questo punto. Schleiermacher scuoteva in profondità l’intera vita religiosa, non solo la comprensione e la ricerca. Non poteva escludere, tuttavia, nella sua comprensione della religione, l’elemento soggettivo. Non poteva, visti i limiti della propria religiosità, apprezzare la esclusiva sicurezza di sé delle religioni etiche storiche. La sua metafisica fondava la comprensione della religione mediante una più profonda idea della relazione dell’infinito al finito, di Dio al mondo. Al suo senso religioso si schiudeva giustamente il processo elementare della religione nel suo significato essenziale. Il risultato più straordinario di ciò fu che la religione venne compresa anche nella sua relazione positiva con la filosofia e con la moralità autonoma. In questa immediata sicurezza dell’eterna armonia dell’universo è fondata tutta la vera filosofia, senza che ciò elimini l’autonomia della scienza, ed è fondata tutta la perfetta moralità, senza che venga posta in questione l’origine autonoma dell’elemento morale. Proprio i Discorsi del 1799 mettono in risalto questa relazione positiva nel modo più forte e più chiaro. Ma anche la Dialettica non vede nella religione solo intuizione vivente e pieno possesso dell’idea di Dio, e nella filosofia solo uno schema astratto, senza effetto: no, nel corso della ricerca filosofica la Dialettica accentua espressamente il punto a partire dal quale procedono la disposizione d’animo, la volontà dell’armonia universale, la volontà di tenere saldi se stessi, e questo è il punto sul quale è fondata la giusta concezione dell’idea di Dio95. Nella specifica forma della visione del mondo e della vita di Schleiermacher erano basate importanti idee sulla religione e sulla comunità religiosa, ma erano anche impliciti limiti molto precisi. Qui accenniamo a un elemento che può essere sviluppato pienamente solo in seguito. L’idea dell’individualità sta per Schleiermacher al centro del processo religioso. La più bella espressione di questo elemento tipico della sua visione religiosa è l’immagine da lui schizzata del sacerdote, la cui vita è intesa come opera d’arte religiosa. Il sacerdote deve rappresentare, in ogni atto, l’essenza della religione; nell’annientamento di sé, nello spirito di serena tranquillità, con il 95
Dialektik, SW III, 4.2, p. 76.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
quale egli ignora ogni «traccia della caducità», deve diventare manifesto a tutti come egli viva «oltre il tempo e oltre il mondo»; non deve però badare alla «sacra calunnia»96. Questo ideale del sacerdote ebbe un potente influsso su molti nobili animi. Dalla particolare forma della visione schleiermacheriana del mondo nacquero poi alcune importanti visioni teoretiche. La determinatezza individuale dell’intuizione religiosa spiega il carattere positivo e storico di ogni religione superiore: a partire da essa vengono progettate le linee base di una più profonda intuizione del Cristianesimo e viene compresa la necessità della comunità. Tuttavia essa sottolinea anche la volontà della religione di cogliere, nella obiettiva e immediata conoscenza di Dio, l’essenza di Dio stesso. Non sta in essa la ragione della coscienza oggettiva delle religioni etiche, che sono certe di aver compreso la volontà di Dio e di averne ricevuto l’impulso a sottomettere il mondo a questo volere. Nel fondatore di una religione universale c’è un ulteriore elemento rispetto a quello che Schleiermacher, in virtù della sua misitca personale e della devozione di animi a lui affini, ha scoperto. Per risolvere il problema posto dai Discorsi, oltre alla capacità di scorgere il divino nel profondo dell’individualità, sarebbe stata necessaria, infatti, nell’intuizione della vita, la comprensione delle passioni e del loro dominio, e, al di là di essa, l’intelletto storico. Solo gradualmente la dura realtà della vita e dei suoi compiti doveva avvicinarsi a Schleiermacher, ma in quel tempo erano già posti i limiti intrinseci alla sua personalità e alla sua visione del mondo. Con questo punto di vista andiamo incontro al suo lavoro, per approfondire e confermare il risultato dei Discorsi, cosicché ci potrà divenir chiaro il pieno apprezzamento storico del suo pensiero e dei suoi risultati. Con lo sviluppo di Schleiermacher cresce e agisce gradualmente anche la sua opera. Quando emerse Lutero, la Germania non possedeva ancora alcuna autonoma cultura spirituale. Per profondità del carattere religioso, per capacità di immergersi nella potenza storica della religione, il riformatore della chiesa tedesca fu incomparabilmente superiore a Schleiermacher. La relazione della religione con le forze della cultura spirituale non era, però, ancora nell’orizzonte della sua epoca. Questa relazione riempì i secoli successivi con battaglie appassionate, con una radicale e intima tensione degli animi religiosi. Al culmine della nostra cultura spirituale emerse con Schleiermacher una natura religiosa di grande stile, arricchita dalla nuova formazione, che si pose il compito, in virtù di una interiore necessità, di conciliare questa educazione con la religione. Perciò i Discorsi si rivolsero agli intellettuali che disprezzavano la religione. Si è rimproverato a Schleiermacher di aver sostenuto, in 96
Reden, KGA I, 2, pp. 288 ss.
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CONTENUTO E SIGNIFICATO DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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tal modo, l’aristocrazia dello spirito. Di fronte ai Discorsi questo rimprovero è quasi malevolo. Essi, anzi, traboccano del sentimento che l’idea divina sia da onorare, da liberare, da formare in ogni anima, anche nella più povera e più storpia. Essi sono pieni del pensiero del sacerdozio universale, dell’idea che nella religione si apra un regno nel quale, del tutto indipendentemente da ogni idea scientifica, è concesso, alla profondità dell’animo, scorgere la verità. Essi traboccano del desiderio (Sehnsucht) genuinamente religioso che arrivi il tempo in cui avrà fine la schiavitù della classe inferiore, in cui non si solleverà più su nessuno il bastone del guardiano, in cui ciascuno, anche il più povero, potrà formare in sé l’intuizione religiosa di un mondo eterno, in grado di liberare l’anima e dare valore alla vita. Nel frattempo Schleiermacher intraprese a conciliare l’intuizione religiosa con le forze della cultura spirituale, anche a beneficio dei poveri di spirito. Legame interno con lavori contemporanei affini Le prime prediche di Schleiermacher e le sue Lettere sulla missiva dei padri di famiglia ebrei trattavano, nello stesso periodo, del medesimo oggetto dei Discorsi. Questi scritti contribusicono a chiarire i Discorsi: in particolare la raccolta di prediche getta una luce ulteriore sul concetto di religione in essi espresso, la Missiva illustra le conseguenze pratiche della sua concezione della chiesa. Prediche. Prima raccolta. 1801 Sembra che furono proprio i numerosi fraintendimenti provocati dai Discorsi a spingere Schleiermacher a pubblicare le dodici prediche tenute a Landsberg, in diverse chiese di Berlino e a Potsdam. O per lo meno egli indica alla sorella come motivo della loro pubblicazione le diverse opinioni diffuse sul suo conto97. Schleiermacher scelse le prediche che erano state tenute di fronte ad un pubblico colto. Escluse quindi quelle tenute nella chiesa del Charitè, poiché era sua convinzione, come aveva già argomentato nei Discorsi, che la vera predica presuppone da parte dell’uditorio un grado di educazione simile. Da quando, nell’autunno del 1800, ebbe preso la decisione di pubblicarle, le mise per iscritto, secondo schizzi precisi delle prediche orali, e le dedicò con «amorevole rispetto filiale» allo zio di Landsberg, che 97
KGA V, 4, Lettera alla sorella, 20-29 dicembre 1800, n. 997, pp. 366 ss.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
aveva esercitato un così decisivo influsso sulla sua preparazione al mestiere di predicatore. Erano, per così dire, prediche destinate a cristiani colti98. Si tratta a questo punto di chiarire la relazione del contenuto di queste prediche con quello dei Discorsi: a tale riguardo esse offrono un singolare enigma. Sebbene la maggior parte di esse sia contemporanea ai Discorsi, la loro concezione religiosa appare nell’essenziale allontanarsene. Proprio la connessione della disposizione morale (sittliche Gesinnung) con quella religiosa (religiöse Gesinnung) costituisce il loro punto centrale. Esse sono interamente pervase dall’entusiasmo per la seria volontà morale, che agisce instancabilmente entro limiti stabiliti. A questo proposito è particolarmente indicativa la predica I pregi dello spirito non hanno alcun valore senza principi morali99. Wilhelm Schlegel spiegò l’altra, sul testo Il pigro muore per i suoi desideri100, come un’evidente critica a Tieck e aveva una gran voglia di leggergliela; essa sembra, piuttosto, una dichiarazione ostile verso tutti i suoi compagni. Schleiermacher vi dimostra come uomini di talenti mediocri, ma di buona volontà, contribuiscano di più alla conservazione di una condizione terrena veramente soddisfacente rispetto a menti eccellenti, che non sono però guidate da un’aspirazione morale e sottolinea come il mantenimento della totalità etica (sittliches Ganze) si fondi in prima linea sull’affidabilità morale. In connessione con tale idea due di queste prediche sviluppano una concezione della religione che pare contraddire proprio quella dei Discorsi. La predica La comunità dell’uomo con Dio101 può valere come esposizione della concezione kantiana della religione, nella forma in cui Schleiermacher l’aveva rielaborata nell’epoca precedente. La devozione nasce dove un cuore puro e un animo incline alla riflessione si riuniscono, cioè dove la volontà morale (sittlicher Wille) necessita di formarsi un ordine universale. Dalla coscienza (Gewissen) si solleva allora la comprensione della volontà divina. Il fedele non crede di poter rinvenire, grazie a elucubrazioni teoriche, particolari conoscenze sulla natura di Dio: tra l’intelletto limitato e l’oggetto infinito vi è, infatti, un abisso eterno e insormontabile. Nella volontà di Dio, invece, gli si aprono le deliberazioni divine, la certezza che la fede dominerà il mondo e che regneranno sovrane verità e giustizia, la certezza della legge, per la quale solo attraverso azioni conformi al dovere viene raggiunto il fine, la sicurezza del regno di Dio, cioè del cooperare di tutto ciò che è buono a un unico scopo. L’altra predica, Sulla giustizia di Dio, rinnova nei particolari 98
SW, II, 1, pp. 3-181. Cfr. ivi, Dass Vorzüge des Geistes ohne sittliche Gesinnungen keinen Werth haben, pp. 50-63. 100 Cfr. ivi, Das Leben und Ende der Trägen, pp. 109-123. 101 Cfr. ivi, Die Gemeinschaft des Menschen mit Gott, pp. 151-166. 99
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un pensiero centrale dello scritto Sul valore della vita, cioè quello di come la fede concepisce il progetto divino universale. A tutti è data la medesima possibilità di essere felici; tale possibilità è presente in ogni condizione e perciò è il nostro carattere a determinare il nostro destino. Schleiermacher esprime ciò nella pregnante formula: «La fede nella giustizia divina e la fede nella forza e nell’indipendenza della volontà umana» sono a tal punto in relazione l’una con l’altra che «una è, per così dire, solo l’altra faccia dell’altra»102. La giustizia di Dio non è però una ricompensa proporzionale, come quella esercitata dal diritto, bensì è l’assegnazione di ciò che è meglio per ciascuno.a Tentiamo di chiarire l’enigma della contraddizione tra le prediche e i Discorsi. Sarebbe un grande errore voler considerare il contenuto delle prediche come propedeutico, preparatorio alla superiore concezione religiosa dei Discorsi. Esse procedono piuttosto dalla convinzione, espressamente affermata nella prefazione, «che ci siano ancora comunità di fedeli e una chiesa cristiana e che la religione sia ancora un legame, che unisce i cristiani in un modo peculiare. Pare che le cose non siano così: ma non vedo come possiamo fare a meno di presupporre ciò. Se le nostre riunioni religiose dovessero essere un ufficio missionario, per fare degli uomini dei cristiani, allora dovremmo procedere del tutto diversamente»103. E così si considererebbero a maggior diritto i discorsi rivolti ai dispregiatori della religione come propedeutici, mentre quelli rivolti ai cristiani come espressione immutata della sua vita più inima. In realtà, le prediche collegano le intuizioni religiose con tutte le circostanze della vita morale e della formazione delle idee, che nei Discorsi vengono intenzionalmente escluse, allo scopo di concepire l’essenza della religione nel modo più puro possibile. Esse si muovono libere in quella socievolezza delle nostre forze più nobili, dalla cui scomposizione prendono le mosse i Discorsi. «Considero», spiegò Schleiermacher a Sack, «la nostra istituzione ecclesiastica come un’istituzione duplice, volta in parte alla religione, in parte alla morale», «e dunque non credo né di fare qualcosa di contrario alla mia convinzione né qualcosa di insignificante, se parlo della religione a uomini che devono essere morali, e di morale a quelli che sostengono di essere al contempo religiosi»104. La religione propria di Schleiermacher era cresciuta in stretta comunione con la moralità e perciò queste prediche procedono semplicemente nella formazione di ciò che quelle precedenti 102
Cfr. ivi, Die Gerechtigkeit Gottes, p. 106. Ivi, p. 6 ss. 104 Br. III, p. 284. Lettera di Sack, senza data. 103
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
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e i suoi primi lavori scientifici già contenevano: esse preparano ciò che ci apparirà perfezionato nel suo sistema. Mentre Schleiermacher parlava, il suo genio pratico stava nella più vivace azione reciproca con ciò che viveva nei suoi uditori. E questo, non quello sviluppato nei Discorsi, in modo sì caratteristico ma mediante una astrazione artificiosa, era il sentimento della religione cristiana che fu presente nella più tarda caratterizzazione del Cristianesimo come religione etica o teleologica105. Le intuizioni religiose delle prediche sono da considerare, ad ogni modo, superiori a quelle dei Discorsi, poiché non hanno carattere generale e isolato da tutti gli altri importanti aspetti della vita, piuttosto, esse sono atteggiamento cristiano (christliche Gesinnung).
Lettere in occasione del compito politico-teologico e della Missiva dei padri di famiglia ebrei. 1799 Dal fatto che Schleiermacher riconobbe l’essenza propria della religione più profondamente e la limitò in modo più chiaro, derivarono, anche per la formazione pratica della sua vita nelle comunità ecclesiastiche, risultati di portata incalcolabile. Sulle sue definizioni si basano tutti i tentativi odierni di formare la vita della chiesa e di metterla a confronto con lo Stato. Le conseguenze dei Discorsi per il ruolo della chiesa ricevettero una singolare spiegazione attraverso le Lettere in occasione del compito politico-teologico e della Missiva dei padri di famiglia ebrei che apparvero nel luglio del 1799106. Si tratta di uno scritto in difesa del Cristianesimo contro le errate pretese dello Stato e degli ebrei illuminati. Contemporaneamente all’apparire dei Discorsi era emersa una nuova proposta per regolamentare la posizione dell’ebraismo nei confronti dello Stato e della chiesa, nello spirito della nuova cultura: tale proposta proveniva dalla scuola di Mendelssohn. Il più grande merito di quest’uomo eccellente non furono né il Fedone né Aurora, epilogo postumo della filosofia dogmatica a confronto con Kant, bensì il suo instancabile sforzo di accordare la fede dei suoi padri e l’educazione dei suoi compagni di fede e di sofferenza con le richieste dello Stato moderno e della moderna educazione. Così iniziò la riforma dell’Ebraismo. E Mendelssohn stesso perseguì tenacemente la via di assicurare ai suoi compagni di fede, attraverso la riforma dello stesso 105
Der christliche Glaube, KGA 1, 7.1, pp. 54 ss.; KGA 1, 13.1, pp. 74 ss. Briefe bei Gelegenheit der politischen-theologischen Aufgabe und des Sendschreibens jüdischer Hausväter, von einem Prediger ausserhalb Berlin, KGA I, 2, pp. 327-361. 106
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CONTENUTO E SIGNIFICATO DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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Ebraismo, l’entrata nella società civile e i diritti ad essa connessi. Nel frattempo le condizioni erano mutate. Gli ebrei avevano ottenuto una posizione di rilievo nella società berlinese. D’altra parte, l’illuminismo sembrò voler eliminare tutto ciò che distingueva il Cristianesimo da una astratta religione razionale. Così poteva nascere, anche nei circoli ebraici, lo stesso pensiero: cioè se non potesse ormai cadere ogni limite, che li separava da quelli con i quali vivevano. Friedländer, il più importante discepolo di Mendelssohn, si rivolse con la sua Missiva di alcuni capifamiglia della nazione ebraica al prevosto Teller, principale rappresentante della teologia illuministica di Berlino; i padri di famiglia chiedevano, sulla base di verità morali e razionali, di essere accettati nella comunità del Cristianesimo in quanto religione dei perfetti, e di accedere a tutti i diritti borghesi a questo legati, senza battesimo e confessione di fede, dunque senza di fatto entrare nella chiesa cristiana con i suoi dogmi positivi. Si trattava chiaramente della fondazione, all’interno del Cristianesimo, di una comunità basata sulla pura fede razionale. La cosa fece grandissimo scalpore. Le cerchie della vecchia Berlino, che ho precedentemente descritto, si trovarono qui sul loro terreno preferito. La Allgemeine Bibliothek di Nicolai contava 19 brochures sulla questione. La risposta di Teller fu evasiva. Se i padri di famiglia volevano rinunciare al culto cerimoniale ebraico, senza prendere la confessione cristiana, egli faceva notare che non si trattava di «cose del tutto diverse»; faceva notare che, se essi volevano aderire alla religione «schietta e non velata», essa necessitava tuttavia di assumere in diversi luoghi una differente forma positiva. Egli invitava in fondo all’entrata in una chiesa che fosse così pronta a interpretare i suoi dogmi nel modo più liberale. Eluse la questione del legame dei diritti civili con la confessione religiosa. Ciò che egli esprimeva con distinta finezza, un’altra brochure ecclesiastica lo diceva apertamente. Ad essa sembrava un vezzo il fatto che gli ebrei, con pretesa scrupolosità, volessero diventare o per nulla o solo in un certo modo cristiani, sostenendo che la religione è ovunque la medesima, mentre tutto ciò che è positivo è “mero culto”. Doveva far arrossire di vergogna un vero religioso sentire parlare così del Cristianesimo, della verità, dell’alleanza. In questa situazione si fece avanti Schleiermacher con le sue lettere, che apparvero nel luglio del 1799107. Lo stato d’animo con cui affrontò la questione si desume da quello che egli scrisse allora a tale riguardo nel suo diario scientifico. Tutto lo feriva in questa polemica: la Missiva, l’atteggiamento della teologia illuministica, 107
Già a marzo Herz si era augurato che Schleiermacher esprimesse la sua opinione nello Archiv der Zeit. Conclusi i Discorsi Schleiermacher si mise a scrivere la brochure. Le Lettere, anonime, sono datate 17 aprile 1799.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
l’indifferenza dello Stato nell’intera questione. Egli non temeva che la strana offerta di una «quasi conversione» – «la trama di un dramma», la chiamava – venisse accettata. Piuttosto, riteneva che bisognasse rendere veramente chiaro come «un tale “mezzo passaggio” sia il massimo che può essere preteso da un uomo ragionevole ed educato», e come lo Stato perciò «non deve piuttosto pretendere nulla». Lo indignava la “trattenuta amarezza” con la quale si era parlato qui del Cristianesimo, e il modo in cui erano stati trattati i dogmi. «Ditemi: sanno poi tutti gli illuminati e colti ebrei – che pretendono che noi sappiamo qualcosa dell’Ebraismo, e che troviamo gusto nella saggezza e nella bellezza caldea, per quanto contraria essa sia al nostro spirito europeo – così poco del Cristianesimo? Mi sembrano proprio – certo in uno stile ben più grande – come i Francesi, che vivono già da dieci anni tra di noi e non vogliono imparare nessuna parola di tedesco»108. Temeva d’altronde che sarebbe stato senza successo un movimento, volto contro una condizione che era effettivamente intollerabile. L’esclusione degli ebrei dai diritti civili gli appariva non solo riprovevole dal punto di vista dello Stato, bensì anche funesta per la chiesa, in nome della quale egli agiva. La chiesa non poteva sopportare più a lungo la dannosa docilità dei governanti, che collegavano il diritto civile alla confessione cristiana; essa pagava, di fatto, troppo a caro prezzo questa cortesia, con la totale rovina. Essa doveva quindi liberarsi dal sospetto di una tale macchinazione di proselitismo e pregare lo Stato di porre fine a questo atteggiamento così oppressivo. Doveva proteggersi dall’entrata di quelli che le si avvicinano per motivi impuri, senza fede religiosa. Schleiermacher ricorda le lamentele di suo zio e di suo padre su coloro che si presentavano per la conversione. «C’erano – oltre ai fidanzati, se devo escluderli – soggetti notoriamente pessimi, dei quali le comunità ebraiche si sbarazzavano molto volentieri; uomini rovinati e disperati». «La maggior parte di questi toccarono subito alle nostre casse per i poveri o alla beneficenza dei loro nuovi correligionari, dal momento che essi, come avevano progettato, andavano a mendicare grazie al certificato di battesimo come se fosse un permesso di accattonaggio regolarmente acquisito. Altri avevano puntato sulla saccenteria di anime bonarie, che volevano studiare, per amor di Dio, un cattivo ebraico a buon mercato»109. Questa era una sventura ancora sopportabile. Ora incombeva qualcos’altro. «Uomini del tutto diversi sono quelli che ora meditano il passaggio al Cristianesimo: colti, benestanti, persone a loro agio in tutte le cose mondane, vogliono ottenere i diritti e diventare cittadini; 108 109
Briefe bei Gelegenheit, KGA I, 2, p. 337. Ivi, pp. 344-345.
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CONTENUTO E SIGNIFICATO DEI DISCORSI SULLA RELIGIONE
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proprio questi diritti, oggetto importante e a lungo desiderato, vengono loro indicati da lungi come ricompensa per la conversione». La loro conversione non è un danno per lo Stato, «ma lo è per la chiesa e per il Cristianesimo»110. Ci sono purtoppo, tra i vecchi cristiani, molti che, «solo per amore del necessario atto di battesimo, della leva e simili cose, o per amore della pace di Westfalia, si convertono a qualunque chiesa e sono del resto del tutto ingenui per quanto concerne la religione». Schleiermacher si augurava che ci si potesse liberare con le buone di tutti, compresi alcuni suoi amici. Ora lo Stato spingeva in questo modo persone riluttanti nella comunità cristiana. «Non si usa conservare una piccola quantità di un materiale prezioso e spirituale in un contenitore esageratamente grande, poiché esso perde del tutto la sua forza e viene consumato dall’aria che lo circonda. Allo stesso modo è molto pericoloso se, in una comunità religiosa eccessivamente grande, riposa o circola solo una piccola massa di religione»111. Come dispersi in uno spazio vuoto, i veri devoti non possono infatti accorgersi l’un dell’altro né influenzarsi a vicenda. In nome della chiesa Schleiermacher chiedeva perciò l’indipendenza dei diritti civili dalla confessione cristiana. Se per lo Stato la legge cerimoniale e la fede nel Messia che verrà non appare conciliabile con i doveri civili, Schleiermacher vede in ciò una questione tra lo Stato e i suoi cittadini ebrei, nella quale il Cristianesimo non ha necessità di immischiarsi. A questo primo tentativo di rendere influente la sua concezione della comunità religiosa sulla riforma delle esistenti istituzioni ecclesiastiche, seguirono subito più ampi consigli, su come fosse da vivificare il senso religioso che stava morendo. Con essi iniziò la sua influenza sulla chiesa.
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Ivi, p. 345. Ivi, pp. 345-346.
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PRIMO EFFETTO STORICO DEI DISCORSI La forza vitale di opere significative può essere misurata sulle epoche del loro influsso, attraverso la loro estensione e profondità. La storia certo non esprime il giudizio definitivo sul valore delle imprese spirituali, ma sulla capacità che esse hanno di conservarsi in mezzo agli elementi conflittuali del mondo spirituale. È dunque normale che un’opera non venga accolta subito nel suo specifico significato dai contemporanei, che fanno lo stesso sforzo, senza pregiudizi: essi, piuttosto, la mescolano a idee già formate, o se ne sentono respinti; solo una generazione successiva ha nei confronti di un’opera importante una pura ricettività. Così i Discorsi provocarono tra i compagni di Schleiermacher un’agitazione vivace, un cambiamento nel modo di pensare e di fare poesia; ma questi primi effetti corrispondevano molto poco allo spirito del loro creatore e, oltre la cerchia più prossima, incontrarono quasi ovunque indifferenza od ostilità. È significativo che i due primi lettori dei Discorsi furono Friedrich Schlegel e Sack: essi suscitarono in Schlegel un fermento religioso malato, e in Sack un rifiuto quasi ostile verso il giovane amico. Interessi poetici ed estetici occupavano, prima di tutto, la stretta cerchia dei compagni e la nuova opera retroagiva su questi interessi. Essa aveva sollevato la questione di un’arte religiosa. La conclusione del terzo discorso aveva indicato una via che doveva condurre dall’arte alla religione, in analogia con quella attraverso cui l’osservazione di sé e l’intuizione del mondo conducevano alla religione. Lo stesso passo aveva certo messo in luce che non si origina dallo spirito artistico una precisa forma storica della religione, che gli effetti di questo si limitano sempre «a colmare la religione con nuova bellezza e santità e a temperare amichevolmente la sua limitatezza originaria». Chiaramente consapevole della propria natura non artistica, Schleiermacher si era limitato a prevedere la soluzione dell’enigma nello sviluppo futuro dell’arte.
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PRIMO EFFETTO STORICO DEI DISCORSI
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Non dubito del fatto che egli portò alla luce il vero limite delle relazioni di arte e religione. L’osservazione di sé e l’intuizione del mondo conducono necessariamente, dove esse non siano troppo presto interrotte, alla religione. Al contrario, l’intuizione artistica basta a se stessa, essa dà alla materia religiosa la forma perfetta, ma non diviene a sua volta religiosamente creativa. Fu perciò un errore quando l’arte, come avvenne da quel momento in poi, iniziò a voler creare, dal sentito bisogno del contenuto religioso, una religione. Questo errore nasceva, però, inevitabilmente, dall’entusiasmo per la religione risvegliato in mezzo ad un’epoca, che ne aveva smarrito ogni contenuto. Trasformando, secondo la propria sensibilità, l’orizzonte concettuale dei Discorsi, Schlegel fu causa di questo errore. L’impressione che il manoscritto dei Discorsi fece su Schlegel appare nelle lettere a Caroline del tutto diversa da quella che si evince dalle lettere a Schleiermacher. Proprio allora tanto la svolta che aveva preso la sua relazione con Dorothea Veit quanto il contenuto della Lucinda furono causa di una prima tensione tra lui e Schleiermacher. L’amarezza per il giudizio di Schleiermacher sulla Lucinda si ripercosse chiaramente nel suo giudizio sui Discorsi. Si ricordi qui ciò che Caroline disse di Schlegel, cioè che egli diffamava i suoi amici, e che risparmiava solo le persone che gli stavano di volta in volta vicino1. Ma al di là di questa impressione personale i primi giudizi mostrano l’effettivo contrasto tra le due prospettive. Egli trova nei Discorsi, fatta eccezione che nel pensiero dell’annientamento della morte e del ritratto di Dio in ciascun uomo, poca religione. Nei deboli saggi di Hülsen egli voleva percepire più nerbo e vigore religiosi: «Schleiermacher striscia tutt’intorno come un tasso per odorare in tutti i soggetti l’universo». Le sue invettive sulla soggettività del libro diventano sempre più amare2. L’unica obiezione sulla quale egli poggia questo rimprovero, in verità, riguarda l’arte religiosa; egli sottolinea in particolare «la massiccia presenza di religione» nelle antiche tragedie, nei misteri, nella poesia da Dante a Cervantes. È abbastanza amichevole da comparare i Discorsi con il suo scritto sullo studio della poesia greca: «rivoluzionario, un primo sguardo in un nuovo mondo». Mentre gli ultimi fogli dei Discorsi erano ancora in stampa, Schlegel ne scrisse una nota nell’Athenaeum, che fu la causa della prima animata discussione tra i due amici. Si sente, nel tono eccessivo della lode, che essa non viene dal cuore, e dalle allusioni contorte della critica si comprende che molto viene taciuto. I Discorsi vengono esaltati come un segno inaspettato «dell’Oriente che 1 2
Waitz I, p. 531. Waitz, I, pp. 501 ss., 516.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
da lontano si avvicina»3, come i primi veri discorsi nello stile degli antichi; il loro punto centrale viene esaltato come testimonianza a favore della religione contro lo spirito dell’epoca, la cosa più grande in loro è l’esposizione dell’elemento eterno presente nel Cristianesimo. Il loro significato viene giustamente misurato sugli affini pensieri di Jacobi. Proprio questa critica, proveniente dalla più intima relazione con l’amico, conferma la nostra interpretazione del ruolo che Schleiermacher stesso si era riservato rispetto a Jacobi. Anche Jacobi, secondo il confronto fatto da Friedrich, voleva rivelare l’esistenza della religione; egli però la isolò completamente dalla filosofia, che gli appariva irreligiosa per natura. Tutti gli accenni a questo suo più caratteristico elemento, la sua religione, fanno tuttavia solo dedurre, dalla debole impronta di questa debole epoca, una mistica povera e mediocre. Il limite dei Discorsi sta nel loro carattere assolutamente soggettivo: in essi Schleiermacher assume un atteggiamento unilaterale nei confronti delle restanti forze del mondo spirituale. Qui, dove stava la propria forza, Schlegel individua la debolezza dell’amico. I Discorsi non comprendono «la vivente armonia delle diverse parti della formazione, delle diverse inclinazioni dell’umanità»4. In loro la religione si limita arbitrariamente, come altrimenti fanno la poesia o la filosofia; essa aspira dalla poesia, dalla filosofia, dalla morale il suo spirito più intimo e deve di conseguenza trovare di poco valore ciò che resta di esse. Altrettanto soggettivo, e perciò illegittimamente limitato, è il contenuto della religione esposto nei Discorsi. Così essa si isola arbitrariamente dalla natura e dalle sue intuizioni e tira, tra sé e la morale, confini discutibili. Questo limite dei Discorsi è dovuto alla mancanza di studio storico, che solo avrebbe mediato l’energia religiosa soggettiva di Schleiermacher con la vita religiosa dell’umanità. Tanto fini sono le obiezioni critiche quanto immatura e confusa è la concezione religiosa, che Schlegel contrappose allora, nelle Idee, a Schleiermacher. Era stato un vecchio progetto dell’amico scrivere insieme nuovi frammenti, e Schleiermacher, già nell’estate del 1798, aveva raccolto a tal fine le annotazioni piene di spirito su questioni morali e sociali, che abbiamo esposto. I nuovi frammenti, scritti dal solo Friedrich a Jena, in un’epoca di costante tensione tra i due, apparvero allora come un attacco contro l’amico. Essi sono dedicati a Novalis: «Il tuo spirito mi sta vicinissimo in queste immagini di inafferrabile verità»5. Essi sviluppano l’idea che religione «è l’onnipresente anima della formazione»6: essa è invisibile, e ottiene forma solo 3
Ath., p. 287; M II; p. 312. Ath. p. 298, M II, p. 313. 5 Minor II, p. 307. 6 Ivi, p. 289. 4
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PRIMO EFFETTO STORICO DEI DISCORSI
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nella poesia, nella filosofia, nell’azione. Perciò può essere artista, in primo luogo, colui che ha una propria religione, una propria visione dell’infinito. Una confusione senza limiti domina in queste esposizioni; l’opposizione contro Schleiermacher può sembrare talvolta basata solo su un fraintendimento dei Discorsi; in altri momenti, invece, si vedono veramente la fantasia poetica e l’animo religioso scambiarsi i ruoli, si vede la forza immaginativa accingersi a portare alla luce un nuovo contenuto religioso. Schleiermacher descriveva le Idee di Friedrich giustamente come «un prodotto, speriamo l’ultimo, della sua immaturità interiore, sempre più smarrita, e di un eccesso disordinato di pensieri e stimoli»7. Friedrich espresse il suo entusiasmo e la sua critica, secondo il costume di questa cerchia, in un sonetto che esalta i Discorsi: «L’amico delle Muse vede la porta aperta / Del grande tempio ergersi le colonne / E dove poggiano pilastri e cupole tendono al cielo / si avvicina consolato al luogo consacrato all’arte. / Dentro risuona una musica, magiche parole per chi chiede / di sentire, salvato, la vita eterna, / e eternamente oscillare nella bella cerchia, / dimentico di domande e di povere parole. / Poi, improvvisamente, sembra che gli spiriti / Vogliano mostrare agli iniziati una consacrazione superiore, / Lasciando delusi gli estranei. / La tenda si strappa e la musica deve tacere / Anche il tempio scompare e in lontananza / Si mostra l’antica sfinge nella sua gigantesca statura»8. Lo spirito dei Discorsi penetrava però già nella poesia. Ciò accadde in quell’epoca straordinaria, nell’estate del 1799, che ebbe come conseguenza la breve e bella fioritura di questa generazione di poeti. Due nuovi orizzonti agirono allora sulla poesia. Uno era quello della filosofia della natura, la cui intuizione centrale era di carattere poetico. Essa era la costruzione speculativa di ciò che Goethe coltivava nella sua anima come integrale intuizione della natura9. Quando, nel 1798, Steffens passò alcuni giorni presso Goethe, fu riempito dall’entusiasmo di rinvenire qui quella unitaria, vivente intuizione della natura trattata coscientemente, teoreticamente, come fondamento della genuina arte poetica, che sosteneva anche lui e i suoi amici nei lavori filosofici10. Quando poi, pieno di entusiasmo, comunicò a Schelling a Jena cosa credeva di aver scoperto, trovò questi già a conoscenza di tutto più di quanto lo fosse lui stesso. Spesso, di fronte alle annotazioni di Novalis, 7
KGA V, 3, Lettera a Brinkmann, 22 marzo 1800, n. 817, p. 436. Ath., III, 2, p. 234. 9 Goethe, Tag- und Jahreshefte, 1799, HA, X, p. 450: «in ogni cosa c’è una grande poesia naturale, che oscilla, sullo sfondo, davanti alla mia anima». 10 Steffens, Was ich erlebte, IV, pp. 102 ss. 8
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
non si sa decidere se esse siano state riportate come idee per le sue poesie o come possibili verità scientifiche! L’altra cerchia di intuizioni, che ebbe grande influsso sulla poesia, fu quella religiosa. La giovane generazione dei poeti era condotta, anche nella sua ricerca della religione, nel suo immergersi nelle disposizioni d’animo cristiane, da quel dominio della fantasia, dell’atmosfera sfumata, del sentire artistico (Nachempfinden), che costituisce il suo tratto fondamentale. Già prima che apparissero i Discorsi, essa aveva richiamato l’attenzione, in tal senso, sulla religione. Preso dal desiderio di un’arte più profonda, Wackenroeder aveva festeggiato la potenza dell’animo cristiano nei tempi antichi, sebbene in lui risuonassero talvolta corde più serie. Lo Sternbald di Tieck, nel quale riecheggiava, in modo leggero e fantastico, ciò che muoveva Wackenroeder così intimamente, premiava la religione del Cristianesimo cattolico, «che sta davanti a noi come un poema meraviglioso». I dialoghi di Wilhelm Schlegel sull’arte, ambientati a Dresda, celebravano il Cristianesimo della rispettabile epoca primitiva, il cui sacerdote è Raffaello, che «come libera bella poesia» è la base della nostra arte moderna. Non manca qui neppure il tono frivolo, nel quale scade inevitabilmente l’interesse puramente estetico per la religione. In questa cerchia soltanto Novalis, al quale l’educazione herrnhutiana, la profonda natura, il destino diedero un’altra impronta, era condotto alla religione per motivi diversi da quelli estetici. Come disse nel 1798 ad un amico, la religione gli si era avvicinata «con fervida fantasia», nella quale egli riconobbe con certezza «il tratto forse più pronunciato della sua particolare essenza»11. La sua fede appariva già allora affine a quella di Schleiermacher, e non a caso anche Novalis proveniva dalla Comunità dei Fratelli. «Tutte le teologie si basano, più o meno felicemente, su rivelazioni concettuali»; «nella storia e nelle dottrine della religione cristiana c’è il tratto simbolico di una religione universale, capace di ogni forma: essa è, in assoluto, il più puro modello di religione come fenomeno storico»12. Ma che opposizione vi è tra Novalis e la virile energia dei Discorsi, apparsi allora, che riposa su un chiaro pensiero13! Così la giovane generazione dimostrò tanto verso i Discorsi quanto verso la filosofia della natura una simpatia che derivava dal proprio entusiasmo poetico. Tutto era pronto per una appropriazione, certo unilaterale, ma 11
Novalis Schriften, Teil 3, a cura di v. Tieck e v. Bülow, Berlino 1846, p. 37. Ivi, p. 39. 13 KGA V, 2, Lettera di Friedrich e Caroline Schlegel, metà novembre 1799, n. 725, p. 244: «Schelling ha ricevuto, al momento opportuno, dalla un po’ rilassata natura di Hardenberg un grande attacco di rispetto per l’energia virile presente nei tuoi Discorsi». 12
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PRIMO EFFETTO STORICO DEI DISCORSI
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pronta e vivace, di quest’opera. A Jena, nell’estate del 1799, si era addirittura riunita una cerchia di uomini, forti della prima maturità, la cui vita in comune, appena agli inizi, pareva promettere uno sviluppo infinito, il cui scambio socievole e il cui lavoro solitario furono sostenuti da nuove amicizie e relazioni più passionali. Jena era, accanto a Weimar, la seconda capitale dello spirito tedesco. Qui dominava la filosofia. Più volte all’anno Goethe cercava nel suo silenzioso castello una pace laboriosa, lontano dalla vita di corte e dalle confusioni domestiche. Qui la nuova scuola si incontrava su un terreno neutrale, senza toccarsi con la cerchia goethiana di Weimar, con il suo capo, «il luogotenente della poesia sulla terra». Wilhelm Schlegel e sua moglie formavano il punto centrale della nuova società jenese, Caroline faceva la padrona di casa con il suo leggiadro decoro e con la sua capacità di godere l’attimo, che la rendevano così affascinante. Schelling, «che andava molto d’accordo con Caroline», era ospite quotidiano e commensale della casa. Hardenberg, che si tratteneva allora a Weissenfels, andava spesso a Jena. A metà estate Tieck, entrato in amicizia, dal tempo dell’incontro a Berlino, con Wilhelm, giunse qui da Giebichenstein, per dare un’occhiata a questo mondo. Friedrich Schlegel, un anno prima, gli aveva annunciato che le Favole popolari gli avrebbero procurato due nuovi amici, Novalis e Schelling. Ora li incontrava entrambi. Schelling, una natura appassionata e in sommo grado esclusiva, trovò poco piacere in Tieck. Al contrario per Tieck e per Novalis l’incontro fu tanto più importante. Per le sue idee Novalis si era già avvicinato a Friedrich Schlegel: si sentì ora affine a Tieck per fantasia poetica. Subito, la prima sera, si aprirono l’uno all’altro, al suono dei bicchieri brindarono alla nuova fratellanza. Era giunta mezzanotte; gli amici uscirono. Di nuovo la luna piena, vecchia amica del poeta, riposava nel suo magico splendore, sulle alture di Jena. Tieck e Novalis salirono sul vicino Hausberg e camminarono nella notte estiva. In quelle ore si deve essere innalzata a piena coscienza, in entrambi, lo spirito della poesia romantica, che rimase da allora comune alle loro anime. Quando si congedarono, all’avvicinarsi del mattino, Tieck disse: «ora porterò a termine Il fedele Eckart»14, e già nello stesso giorno lo diede agli amici. Ritengo che alcune righe del Phantasus, scritte molti anni dopo, siano dedicate al ricordo di questa serata. Nella tranquilla solitudine del giardino, dove una stella, brillante nel cielo, stava sopra la campagna, gli amici passeggiavano all’aria aperta ed Ernst disse: «questa seria e santa tranquillità risveglia nel cuore tutti i dolori sopiti, che diventano gioie silenziose, e così ora mi guarda, generoso e mite, con il suo volto umano, il nobile Novalis e mi rammenta quella notte quando, dopo una allegra festa, vagai nei bei 14
Tieck, Der getreue Eckart, 1799.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
dintorni insieme a lui per le montagne e, non presentendo una separazione così imminente, parlavamo della natura, della sua bellezza e della divinità dell’amicizia. Forse, poiché mi ricordo così intensamente di lui, il suo cuore mi circonda con tanto amore come questo ardente cielo stellato»15. Dall’autunno di quest’anno fino all’estate del 1800 Tieck rimase stabilmente a Jena. Ad agosto, o all’inizio di settembre, Friedrich Schlegel giunse dal fratello, per una lunga visita; subito dopo, arrivò la sua futura moglie Dorothea Veit. Come desideravano gli amici che fosse presente anche Schleiermacher in questa attività «così varia, ricca di spirito, di filosofia, di dialoghi artistici e di critica»16. Egli fu presente lì almeno attraverso i Discorsi. Si comprende il potente ma unilaterale effetto che i Discorsi ebbero in questa cerchia. Fu allora riscoperto, sotto l’impressione dei Discorsi, il significato della religione per la creativa fantasia artistica, per la comprensione storica e per il creare poetico. Come fatto empirico nessuno avrebbe potuto sfuggirle: essa veniva rivissuta (nacherlebt) qui, compresa interiormente, e con ciò soltanto resa di nuovo utile per la storia. Proprio come tutte le altre idee di questa giovane generazione relative alle connessioni spirituali, anche questa era però imprecisa e mescolata con esagerazioni. Ma proprio perciò scosse così potentemente gli animi. Friedrich Schlegel portò i Discorsi con sé a Jena. Più di tutti ne fu conquistato Novalis. Li aveva fatti arrivare con una lettera espressa a Weissenfels e ne era «conquistato, penetrato, entusiasmato e incantato». Grazie a lui e a Friedrich «il Cristianesimo divenne ordine del giorno» nella cerchia di Jena. Di Tieck, che era travolto da questo entusiasmo, Dorothea riteneva divertita, che trattasse la religione come Schiller trattava il destino17. I suoi lavori successivi dimostrano come i segreti della vita e dei caratteri religiosi lo abbiano occupato nel modo più intenso accanto alle meraviglie della fantasia artistica. Insieme a lui Novalis progettò canzoni e prediche cristiane, un nuovo scritto sacro nel senso auspicato dai Discorsi; questa raccolta doveva essere dedicata a Schleiermacher. Alcune annotazioni di Novalis chiariscono questo progetto18. Le stesse canzoni di Lavater gli appaiono contenere ancora troppa morale e ascesi; «le canzoni dovrebbero essere molto più vivaci, intime, universali e misti-
15
Tieck, Phantasus, 1844, p. 126. KGA, V, 3 Lettera di Dorothea, 28 ottobre 1799, n. 714, p. 224. 17 Ivi, Lettera di Dorothea, 15 novembre 1799, n. 724, p. 237. 18 Cfr. raccolta postuma di Bülow nella terza parte delle opere di Novalis, pp. 171, 194, 267, 317; 2, 263. Per ulteriori analogie con i Discorsi, cfr. p. 100: «Storia in senso stretto è l’oggetto sommo della religione». 16
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PRIMO EFFETTO STORICO DEI DISCORSI
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che»19. Si immaginava delle prediche assolutamente non dogmatiche, bensì immediate, capaci di stimolare il sacro senso intuitivo, di vivificare l’attività del cuore. Si tratta di un ideale che si realizza, passo dopo passo, a partire dai Discorsi di Schleiermacher, e anche “le vere leggende”, che Novalis voleva tessere dentro le canzoni e le prediche, erano ispirate ai Discorsi. Tutto questo pensiero appare affine alle visioni che Schleiermacher concepì dopo i Discorsi. Non fu un caso, bensì era nella natura della cosa, che tutti i progetti di questo tipo, volti a dare alla più intima vita religiosa un’espressione completamente libera, si potrebbe dire, addirittura, letteraria, si inabissarono di nuovo. Le prediche di Schleiermacher e i canti spirituali di Novalis furono gli unici progetti veramente vitali, perché riposavano su un legame interiore con la comunità cristiana. Nacque così la serie dei Canti spirituali di Novalis. Li differenziano dalle opere dei grandi poeti lirici del sedicesimo e del diciassettesimo secolo una semplificazione e un’interiorizzazione lirica del materiale, dovute alla mutata relazione con questo materiale stesso. Quegli antichi canti spirituali, che per primi emersero, come confessioni, nell’impulso dello zelo religioso della Riforma, erano molto affini alla predica: ammonizione, storia, confessione si incontravano in loro ed essi erano l’espressione di una coscienza collettiva. I canti di Hardenberg esprimono la vita emotiva religiosa di un solitario, e il loro contenuto non è quello ricco e solido di quei tempi passati, bensì è una intuizione disegnata dalla fantasia in tratti oscuri, in modo evanescente, come se l’umore li avesse portati su, e poi dovessero sprofondare di nuovo, insieme a esso, come una visione. Ora la più dolce pace è presente nella visione del Redentore: «infine scende dai cieli sulla terra il fanciullo benedetto»20; ora vi è un sentimento malinconicamente celato, come quando il poeta lo segue su sentieri solitari, lontano dalla folla: «pervaso solo dall’amore, hai fatto così tanto, e tuttavia sei svanito e nessuno ci pensa»21. Di nuovo, poi, troviamo la più toccante compassione, che viene meravigliosamente espressa nelle antiche immagini nelle quali si vede Maria far scorrere le proprie lacrime piegata sul Redentore: esse involontariamente ci penetrano negli occhi, poiché guardiamo in questo viso distrutto dall’angoscia: «eternamente lo vedo solo soffrire, eternamente pregando lo vedo morire. Che questo cuore non si spezzi!»22. E che incanto, proveniente del più semplice e puro sentire, è diffuso sul Canto a Maria: egli la supplica di fargli semplicemente un cenno 19
Novalis Schriften, a cura di P. Klichhohn, I, 1960, p. 178. Ivi, p. 161. 21 Ivi, p. 166. 22 Ivi, p. 168. 20
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
felice; spesso, nei sogni, gli era apparsa, nell’infanzia: «Infinite volte sei stata presso di me, / ti guardavo con gioia infantile, / il tuo bambino mi porgeva le mani, / un giorno mi ritroverà! / Sorridevi piena di tenerezza / E mi baciavi: tempi divini! / Lontano è questo mondo beato»23. Pare che anche gli Inni alla notte allora, o forse in seguito, furono rielaborati, per trasformare il significato di questo sprofondamento panteistico in una mistica cristiana. E prese forma allora il progetto dell’Ofterdingen. Questo romanzo intraprende non solo a illuminare esteticamente il frammento della connessione universale offerto dai fenomeni vitali, bensì a istituire un ordine metafisico universale, che spieghi la singola esistenza. È raggiunto in esso il punto più estremo della tendenza insita nella nostra poesia a creare una visione del mondo: ne costituisce lo sfondo una mitologia, l’immagine sensibile di una visione del mondo. Questa rischiosa impresa di Novalis ha a sua volta influenzato Goethe24. Il romanzo di Novalis rivela una duplice intenzione: quella di rappresentare lo sviluppo del vero poeta, e di sollevare il velo che nasconde la connessione metafisica della nostra esistenza. Lo sviluppo del poeta conduce dalla pienezza della vita giovanile, attraverso il dolore, la morte e il ripiegamento solitario nel proprio intimo ad un’altezza, sulla quale si apre lo sguardo nel mondo metafisico, il cui apparire frammentario è costituito dalla realtà: in questo modo si collegano i due compiti del romanzo. L’intuizione religiosa, che comprende il destino dell’individuo nell’universo, è perciò il suo punto centrale. In particolare, nella presentazione di questo destino è intessuta un’ipotesi, alla quale si attenne volentieri anche lo spirito sobrio di Lessing, e che Schleiermacher, nei Discorsi sulla religione, ha indicato come espressione metaforica di una delle più sublimi verità religiose25: si tratta della fede in una individualità determinata, che si sviluppa di nuovo nel ciclo del tempo e della sua legge di nascita e morte, della fede in un ordine nelle relazioni delle anime le une alle altre, deciso dal passato e in sempre nuove forme di esistenza. È ciò che viene indicato, con un’antichissima e imprecisa espressione, come trasmigrazione delle anime. Presto questo pensiero si era avvicinato a Novalis. Un tempo si era appuntato, a proposito di Matilde, che ella credeva nella trasmigrazione delle anime e nei colloqui con lei lo aveva occupato questo pensiero. Così può averlo allettato con un fascino segreto interpretare il destino di lei e il proprio in questa immagine. 23
Ivi, p. 176. Ho tentato una ricostruzione del nesso di questo romanzo nel mio saggio su Novalis. 25 Reden, KGA I, 2, pp. 232-233. Sulla teoria di Lessing cfr. il mio saggio in Das Erlebnis und die Dichtung. 24
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PRIMO EFFETTO STORICO DEI DISCORSI
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Sprofondarsi mistico in un mondo eterno e mantenimento dell’individualità: tra questi due punti estremi oscilla costantemente anche la vita emotiva di Novalis, come una corda che risuona. Una magica melodia linguistica, nella sua opera, circonda con indicibile fascino la malinconia di un’anima solitaria, nobile, dedita seriamente alla grandezza. Schleiermacher amava l’Ofterdingen, la cui nascita era legata agli effetti della propria opera, più di ogni altra opera della nuova poesia. La sua ammirazione «non andava solo all’amore e alla mistica, bensì anche alla grande pienezza della volontà che sta alla base del tutto, al profondo rispetto, così raro presso tali uomini, per il sapere, alla relazione immediata di questo con ciò che è più alto e all’intuizione del mondo e della divinità. Certo, Hardenberg, tra l’altro, sarebbe diventato un eccellente artista, se ci fosse stato concesso più a lungo»26. I Discorsi sulla religione istituirono un profondo legame tra questi due uomini, che non si incontrarono di persona: dopo la prematura morte del poeta Schleiermacher aggiunse nei Discorsi, accanto al sacrificio funebre per Spinoza, le belle parole: «Perché devo mostrarvi che la stessa cosa vale per l’arte? Non trovate anche qui, per la stessa causa, mille ombre e opere illusorie ed errori? Solo in silenzio, perché il recente e profondo dolore non ha parole, voglio richiamare la vostra attenzione su un eccellente esempio, che tutti Voi dovete conoscere altrettanto bene, sul divino giovane, troppo presto scomparso, per il quale era poesia tutto ciò che il suo spirito toccava, tutta la sua contemplazione del mondo era immediatamente un unico grande poema e che Voi, per quanto egli ne abbia espresso effettivamente solo le prime parole, dovete associare ai più ricchi poeti, a quei pochi che sono stati altrettanto penetranti, chiari e vividi. Ammirate in lui la forza dell’entusiasmo e della riflessione di un animo religioso e ammettete: se i filosofi diventeranno religiosi e cercheranno Dio come Spinoza, e gli artisti diventeranno devoti e ameranno Cristo come Novalis, allora verrà celebrata la grandiosa resurrezione per entrambi i mondi»27. Novalis cercò inoltre, a partire dal punto di vista religioso nuovamente conquistato, di schizzare le linee fondamentali per una più appropriata comprensione del Medioevo. Immediatamente sotto l’influsso dei Discorsi scrisse il saggio La cristianità o l’Europa. Se non mi sbaglio, esso si richiamava espressamente all’opera di Schleiermacher, intendendola come avvio di tale nuova comprensione28. Qui emerse per la prima volta la spesso citata concezione 26
KGA V, 6, Lettera a Eleonore Grunow, 29 luglio 1802, n. 1286, p. 54. Reden, seconda edizione, KGA I, 12, p. 58. 28 Il saggio giunse solo alla quarta edizione grazie a Friedrich Schlegel; fu tralasciato da
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
“romantica” del Medioevo, che fu poi alla base di non poche opere storiche e poetiche di quest’epoca. Le affinità storiche con un’epoca aprono lo sguardo nella sua intima essenza, dal momento che l’ideale di vita di questa cerca di chiarirsi attraverso le forme del passato, nelle quali risente (nachfühlt) un contenuto simile. L’apoteosi dell’antichità accompagnò i nostri grandi poeti; ora, nella più giovane generazione, si innalza la glorificazione del Medioevo. Di nuovo fu Friedrich Schlegel per primo a trovare l’espressione teorica per ciò che allora muoveva la sua cerchia nel Dialogo sulla poesia, scritto durante gli ultimi mesi del 1799. A Schleiermacher esso apparve «pieno di idee molto belle e, sicuramente, come la cosa più chiara che Friedrich aveva scritto». Sperava perciò che l’effervescente immaturità dell’amico finalmente si chiarisse29. La forza produttiva (bildende Kraft) della fantasia in ambito poetico, le sue epoche, purtroppo anche riflessioni sui mezzi per accrescere artificiosamente la fioritura della poesia tedesca, iniziata in Goethe, sono l’oggetto di questi arguti dialoghi. L’elemento più significativo presente in essi era la comprensione, che vi emergeva in modo veramente particolare e acuto, per il dominio della fantasia nelle poesie romantiche. Ciò che di essi più colpisce è il pensiero che la poesia moderna poteva trovare la base di un costante sviluppo, di una connessione interiore solo in una mitologia, simile a quella posseduta dalla poesia antica. È solo il risultato conseguente dell’intero nostro sviluppo poetico se è stato messo in evidenza l’elemento simbolico in tutta la poesia, cioè il fatto che attraverso intuizioni singole viene espresso un elemento universale. «Tutta la bellezza è allegoria. Si può esprimere ciò che è sommo, proprio perché è indicibile, solo in modo allegorico». «L’essenza della poesia è la sublime visione ideale delle cose»30. Ma tutta la nostra poesia spingeva a esprimere una specie di metafisica della vita. L’errore stava nel fatto che l’esprimere intenzionale e cosciente di un elemento universale posseduto in precedenza, l’allegoria, emergeva al posto della forza che produce insieme, in modo inconscio, il particolare e l’universale. È dunque una prospettiva importante, che spiega i grandi processi della storia della cultura, quella che riconosce la capacità dello spirito religioso di riassumere in un elemento intuitivo l’ideale supremo, di creare per la poesia tipi immutabili. Già Herder aveva detto: «Se volete dunque produrre una nuova Grecia in immagini divine, Tieck. Il passo «voglio condurvi a un fratello, che deve parlare con Voi, perché i vostri cuori si aprano. Questo fratello è il battito della nuova epoca, chi lo ha sentito entra nella nuova schiera dei giovani. Egli ha fatto un nuovo velo per i santi, che svela, adattandosi, la loro forma divina». 29 KGA V, 3, Lettera a Brinkmann, 22 marzo 1800, n. 817, p. 436. 30 Ath., 3, 106.
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PRIMO EFFETTO STORICO DEI DISCORSI
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restituite a un popolo questa superstizione mitologica di natura poetica, insieme a tutto ciò che le appartiene, in tutta la sua semplicità naturale»31. Ma proprio il fiorire della poesia romantica in Cervantes e Shakespeare dimostra che questo elemento universale nell’intuizione, queste forme tipiche, possono nascere anche su un terreno diverso da quello religioso. E Schlegel mal si accordò con questo fatto, riconosciuto anche da lui, quando sottolineò solo la somiglianza tra la mitologia e «quella grande ironia della poesia romantica, che non si rivela in singoli casi, bensì nella costruzione dell’intero». Il più curioso errore fu tuttavia sostenere che una tale mitologia doveva essere creata arbitrariamente. Esso nasceva da quella presunzione idealistica della nuova scuola, che non solo riteneva di poter comprendere, attraverso la fantasia filosofica, tutti i più alti processi della storia, bensì di poterli produttivamente ricreare (nachschaffen)32, e che poteva sfociare solo nel ritorno al mondo sovrasensibile del cattolicesimo, glorificato in tutte le arti. Schelling, che se ne stava silenzioso in mezzo a questa società piena di spirito, ma era ben capace di prestare ascolto, ne tirò la conclusione filosofica nella sezione conclusiva del Sistema dell’idealismo trascendentale. L’infinita armonia presente nell’assoluto ottiene la sua espressione nelle creazioni dell’artista. Esse costituiscono il lavoro costante dello spirito volto a produrre, a partire dal sentimento di una contraddizione apparentemente irresolubile, l’armonia dell’universo. Perciò «l’arte è l’unica ed eterna manifestazione che esiste ed è il miracolo che, se anche si desse una sola volta, ci dovrebbe convincere dell’assoluta realtà di quell’elemento sublime». Ciò che al filosofo è dato solo soggettivamente, come intuizione intellettuale, nella poesia ottiene forma e vita autonoma. Essa diventa così organo di ciò che di più alto è dato allo spirito. Nell’oceano universale della poesia devono perciò rifluire tutte le scienze. «Quale sarà però l’elemento mediatore del ritorno della scienza alla poesia, non è difficile da dire in generale, poiché un tale elemento è esistito nella mitologia prima che avvenisse, questa, come pare oggi, insolubile separazione». Questa mitologia non sarà l’invenzione di un singolo artista, bensì «di una nuova generazione, che si presenta, per così dire, come un unico poeta»33. 31
Herder, Werke, Zur Geschichte, VI, p. 142. Anche qui nella trattazione sul nuovo realismo (Ath. 3, p. 99), che Friedrich a lungo meditò e che doveva esporsi in una nuova mitologia, «ossia nel poema infinito, che nasconde i semi di tutta l’altra poesia», si nota l’influsso di Schleiermacher e, insieme, nel richiamo a Spinoza come padre di questo realismo, il rifiuto di questo influsso. 33 Schelling, Gesammelte Werke 1, 3, pp. 618-619. Una nota a p. 629 richiama in «un saggio sulla mitologia elaborato già da alcuni anni» la priorità di questo pensiero. 32
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
Come uno che veglia tra dei sognatori appare, in mezzo a queste aspirazioni e a queste speranze, l’uomo che aveva dato il più forte impulso a tale entusiasmo religioso e all’eccitazione intellettuale da esso prodotta. Schleiermacher fece valere, contro Hardenberg, la fredda verità storica che il Papato non è stato l’apice del cattolicesimo, bensì la sua rovina34. Egli oppose a Friedrich Schlegel e a quelli che la pensavano allo stesso modo, l’altra, altrettanto evidente verità etica, che nessuna mitologia poteva essere creata e prodotta arbitrariamente35. Schleiermacher, per quanto riguarda i pensieri religiosi ed etici a lui tipici, rimase del tutto autonomo. Una posizione molto diversa assumono i Discorsi nei confronti dello sviluppo filosofico di allora. All’interno di questo secondo gruppo, quello dei filosofi, Schleiermacher trovò dapprima solo opposizione, a eccezione dell’amico e di Hülsen. Solo quando Schelling fece autonomi progressi, riconobbe la profondità dell’opera di Schleiermacher. Nessuno però, e questo Schleiermacher lo ha sentito molto chiaramente, comprese e sviluppò la sua originale visione. Il motivo di ciò sta nel carattere dei Discorsi, che, pur avendo come presupposto un’approfondita ricerca filosofica, esponevano solo il processo religioso. Quando lo si esortava, in questi anni, a intervenire in campo filosofico, egli rifiutava, poiché fino a quel momento nessuno aveva voluto accogliere ciò che egli, nei Discorsi, aveva offerto ai filosofi. Cade qui una luce sulla relazione di Schleiermacher con lo Schelling di allora e con il Goethe studioso della natura. Entrambi prendevano le mosse, come Schleiermacher, dall’intuizione dell’universo (Anschauung des Universums). Questa intuizione era per loro, però, l’organo della scienza e il suo oggetto era la natura. Entrambi furono perciò respinti dai Discorsi. Goethe si fece dare da Friedrich Schlegel il suo prezioso esemplare e, dopo la prima avida lettura di due o tre discorsi, non poteva elogiare abbastanza con Wilhelm Schlegel la loro forma e varietà. «Quanto più trascurato divenne lo stile e quanto più cristiana la religione, tanto più questo effetto si trasformava nel suo opposto, e, alla fine, tutto terminò in una sana e felice avversione»36. Quando i Discorsi suscitarono intorno a lui un così vivace entusiasmo, Schelling progettò la Confessione di fede epicurea di Heinz Widerporsten del tipo di Hans Sachs37, che sarebbe dovuta apparire, accanto al saggio di Novalis sulla cristianità, nell’Athenaeum. Wilhelm Schlegel, invece, 34
KGA V, 3, Lettera di Friedrich Schlegel, intorno al 9 dicembre 1799, n. 751, p. 292. Ivi, Lettera a Brinkmann, 22 marzo 1800, p. 436. 36 Br. III, p. 125. Lettera di Friedrich Schlegel, senza data. 37 Aus Schellings Leben, I, p. 282; cfr. KGA V, 3, Lettera di Friedrich Schlegel con un’aggiunta di Caroline, metà novembre 1799, n. 725, p. 240. 35
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PRIMO EFFETTO STORICO DEI DISCORSI
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era dubbioso, e pretese per lo meno una nota: ma poiché Schelling non era d’accordo, si prese Goethe come arbitro. Questi entrò volentieri nella questione e si oppose, in un ampio e preciso confronto, all’accettazione del saggio e della poesia. Wilhelm Schlegel scrisse a Schleiermacher: «Magari Lei avesse potuto sentire i bei discorsi che, in questa e in altre occasioni, egli mi ha tenuto: l’avrebbero entusiasmata. Goethe si è comportato, in quest’occasione, in modo così amichevole e paterno verso di noi, che il suo consiglio merita tutto il rispetto, in particolare perché egli ha una grande esperienza in questo campo, dal momento che, come dice, si trova – Dio sia lodato! – quasi da trent’anni all’opposizione»38. Trovo la poesia di Schelling tra le carte di Schleiermacher, in una copia che gli era stata inviata allora dagli amici. Essa illustra, nel modo più evidente, l’affinità di Schelling con Goethe e la sua opposizione a Schleiermacher. L’infinito descritto nei Discorsi è presente solo nell’animo religioso; nessun concetto, nessuna intuizione lo possono comprendere. Attraverso questo concetto Schleiermacher è collegato, dal punto di vista critico e religioso, con Kant. La natura divina di Goethe e di Schelling viene afferrata dall’intuizione; i suoi segreti sono evidenti al ricercatore naturale e al poeta. «Non so come potrei avere paura del mondo, dal momento che lo conosco da dentro e da fuori». Le parole di Schelling esprimono il modo di sentire del giovane Goethe, contrapposto a Jacobi ed emerso nel saggio Sulla natura: i versi del filosofo della natura sembrano solo rinnovare la prosa del poeta. «Uno spirito gigantesco vi si nasconde / È però pietrificato con i suoi sensi / Non può liberarsi della corazza / Non può forzare il duro carcere / Sì, muove le ali, / Si apre e si muove violento / Nelle cose morte e vive / Può lottare forte e cosciente. / Lo sforzo non si lascia irritare / Ora si precipita verso l’alto / Allunga articolazioni e organi / Ora di nuovo si accorciano e si restringono. / Impara ad avere spazio nel piccolo / Lì arriva prima a coscienza. / Chiuso in un nano, / Così dice la lingua infantile, / Lo spirito gigantesco trova se stesso». «Vedi dunque», scrisse Schlegel all’amico, «che tu non puoi entrare in rapporto con i filosofi, in senso stretto, attraverso i Discorsi (poiché anche Fichte li ha rifiutati in quanto per lui “di ardua comprensione” e li ha descritti, in una lettera a Schelling, come “errato spinozismo”39). Non fa niente: ma dal momento che lo vorrai sapere, sarebbe questo un motivo per scrivere immediatamente su Spinoza o anche sui limiti della filosofia»40. Si nota che 38
KGA V, 3, Lettera di August Wilhelm Schlegel, 16 dicembre 1799, n. 754, p. 303. Leben Fichte’s, 2, p. 231. 40 Br. III, p. 126. 39
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
Schleiermacher vedeva i punti critici che lo distinguevano dall’errata scuola idealistica e pensava di esporli. Nel frattempo Schelling, giunto a un ulteriore punto del suo paradossale sviluppo, si sentì, con stupore, fortemente attratto dai Discorsi. Scrisse a Wilhelm Schlegel il 3 luglio del 1801: «Devo scriverLe inoltre che sono diventato un lettore molto solerte e un ammiratore dei Discorsi sulla religione. Lei sa cosa era accaduto per imperdonabile trascuratezza o pigrizia a riguardo. Venero ora l’autore come uno spirito che può essere considerato sullo stesso livello dei primi filosofi originali. Senza questa originalità non è possibile aver penetrato l’intimo della speculazione, senza aver tralasciato anche uno solo dei gradi che essa deve attraversare. L’opera, per come essa è, mi appare semplicemente originata da se stessa e perciò non è solo la più bella rappresentazione, bensì è addirittura l’immagine dell’universo; e nondimeno, chi voglia produrre qualcosa del genere, deve aver fatto i più approfonditi studi filosofici, oppure ha scritto per cieca ispirazione divina»41. Nello stesso tempo, nel 1801, Hegel, nel suo scritto La differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, metteva in evidenza i Discorsi sulla religione come un fenomeno che, contro Fichte, «mostra l’incalzare dello spirito migliore, in particolare nel mondo ancora giovane e spregiudicato. Questi [Discorsi] e la loro accoglienza alludono alla necessità di una filosofia dalla quale la natura viene conciliata, dopo i maltrattamenti che essa patisce nel sistema kantiano e fichtiano, e la ragione stessa viene accordata con la natura»42. Presso un terzo gruppo di protagonisti, quello della vecchia scuola filosofica, alla quale era legata allora la teologia, non troviamo null’altro che un rozzo rifiuto dei Discorsi. Dall’immediata cerchia di Kant il giudizio di Scheffner arrivò a Schleiermacher. Questi subodorava le idee herrnhutiane nei Discorsi. Schiller scrisse a Körner, nel settembre del 1799, che i Discorsi erano un «prodotto berlinese della civetteria». Trovava lo scritto, «in tutto il suo preteso calore e in tutta la sua pretesa intimità, nel complesso, molto arido e spesso composto in modo pretenzioso; esso contiene inoltre pochi risultati innovativi». In occasione delle canzoni di Schlegel e Novalis, Körner notava: «Non si può amare né rappresentare l’universo, mentre in questa setta si mira proprio a ciò»43. Non era migliore il giudizio della filosofia e della teologia berlinesi. Friedrich scrisse a suo fratello su Schleiermacher: «I suoi Discorsi provocano qui 41
Aus Schellings Leben, 1, p. 345. Hegels Werke, 1, p. 165. 43 KGA V, 3, Lettera a Brinkmann, 22 marzo 1799, n. 817, pp. 433 ss.; Briefwechsel zwischen Schiller und Körner, IV, pp. 151 ss. 42
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PRIMO EFFETTO STORICO DEI DISCORSI
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un’irritazione che quasi tiene il passo a quella provocata dalla Lucinde. Vi si ritrova il più evidente ateismo, come è naturale, dal momento che esso partecipa dell’idea di divinità»44. Sack, il vecchio protettore di Schleiermacher, aveva ricevuto i Discorsi dalla censura, poiché la libertà di stampa era allora, in questi argomenti, assai limitata. Schleiermacher, in passato, aveva appreso direttamente da lui che avrebbe rifiutato la stampa di un libro ateistico, e sapeva bene che a Sack i Discorsi sarebbero apparsi ugualmente ateistici. Perciò Schleiermacher aveva tutte le ragioni per essere preoccupato del destino del proprio scritto. Non appena Sack ebbe presentito chi fosse l’autore, Schleiermacher fece la cosa più onorevole, e insieme più intelligente, prendendo le difese del proprio lavoro. Il censore lo dichiarò troppo “originale”, ma lo lasciò passare. Accaddero allora alcuni fatti che rovinarono la relazione tra i due uomini. Quando finalmente si giunse a un chiarimento, Sack si espresse anche riguardo ai Discorsi. Egli aveva sperato «che lo scritto di un uomo di spirito avrebbe conquistato alla religione amici e ammiratori tra coloro che semplicemente la disprezzavano e che questa fosse l’unica intenzione con la quale lo scritto era stato composto»: con tale aspettativa aveva gioiosamente atteso i Discorsi. Dopo averli letti con attenzione, poteva spiegarli purtroppo solo come una raffinata apologia del panteismo, un’esposizione eloquente del sistema spinozistico. Questo sistema, che scorge la divinità nell’universo, che non riconosce alcuna connessione tra religiosità e moralità, che disprezza tutti i motivi, attinti dalla religione, per essere buoni, gli sembra porre fine alla religione stessa. Un predicatore, che si affilia ad esso, non è pensabile per lui senza ipocrisia. «Mi spieghi l’enigma: come può ancora piacerLe un’occupazione che deve apparirLe necessaria come frutto e sostegno della stupidità e della superstizione, e come può Lei armonizzare il Suo perseverare per convenienza in questa occupazione con il Suo sentimento di giustizia?»45. La lettera di Sack contiene indubbie verità. In particolare, egli riconobbe l’errore fondamentale della concezione religiosa dei Discorsi nel fatto che in essi non era colto, nella sua verità e nel suo significato, il legame tra religiosità e moralità. Ma Sack mostrava al contempo una purtroppo comprensibile incapacità di penetrare nelle verità dei Discorsi. Quanto desiderava Schleiermacher ricordarsi di suo padre, la cui immagine gli stava sempre innanzi, quando scriveva i Discorsi! Sarebbe stato il vero mediatore tra gli uomini che egli più rispettava e amava e la propria vita interiore46. 44
Walzel, p. 424. Br. III, p. 277. Lettera di Sack, senza data. 46 KGA V, 3, Lettera alla sorella, 23 maggio 1799, n. 657, p. 121. 45
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
La sua risposta a Sack è piena del più nobile orgoglio. Essa respinge seriamente le insinuazioni che nella lettera di Sack devono indignare ogni equo lettore; e tratta in particolare dell’intenzione dei Discorsi e del rapporto di questi con il suo lavoro ecclesiastico e con le sue prediche. «Il mio scopo ultimo è stato esporre e fondare rettamente, nella attuale tempesta delle opinioni filosofiche, l’indipendenza della religione da ogni metafisica. Non è mai sorto dunque in me il pensiero, per amore di una qualsiasi idea filosofica, di un conflitto tra la mia religione e il cristianesimo, e mai mi è venuto in mente di considerarmi come il servitore di una superstizione per me disprezzabile: piuttosto, sono convinto di possedere veramente la religione che devo annunciare, anche se ho una filosofia completamente differente rispetto a quella della maggior parte di coloro che mi ascoltano. Altrettanto poco è presente in me un’indegna furbizia o reservatio mentalis: bensì io do alle parole esattamente il significato che l’uomo dà loro, quando è preso dalla considerazione religiosa, e nessun altro. Proprio lo scopo ultimo mi stava davanti agli occhi, quando ho comunicato la mia opinione sulla relazione della religione con la morale. Ho detto molto chiaramente, per non doverlo ripetere, che non ritengo per questo la religione un contenitore vuoto, dal momento che dichiaro che essa non sta necessariamente a servizio della morale; ho detto molto chiaramente anche che ritengo la nostra istituzione ecclesiastica, per come essa è ora, una istituzione dal doppio significato, in parte volto alla religione in parte alla morale: credo dunque di non fare qualcosa di contrario alla mia convinzione né qualcosa di insignificante quando parlo della religione a uomini che devono essere anche morali e della morale a quelli che affermano di essere anche religiosi. Di entrambe le cose parlo secondo la relazione che ogni volta trovo appropriata. Ritengo il ruolo di predicatore il più nobile, che solo un animo devoto, virtuoso e serio può soddisfare e non lo cambierò per mia volontà con nessun altro»47. Apparve così l’opera che segna un’epoca della storia della teologia e che rimase all’inizio estranea ai teologi stessi. L’espressione usata da Sack per definirla, cioè “troppo originale”, contraddistingue l’atteggiamento difensivo di chi comprende solo a metà, atteggiamento che dominò la teologia e che anche Schleiermacher ritrovò nelle recensioni teologiche mescolata con un vario apprezzamento. La colpa stava da entrambe le parti. La fondazione filosofica e la trattazione storica di Schleiermacher erano ancora insufficienti. D’altra parte, per la teologia era andata completamente persa buona parte del mondo di sentimenti religiosi, nel quale Schleiermacher era di casa fin dal tempo della Comunità dei Fratelli herrnhutiani: la teologia si atteneva, 47
Br. III, p. 284. Lettera a Sack, senza data.
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PRIMO EFFETTO STORICO DEI DISCORSI
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piuttosto, a molti pregiudizi tipici della filosofia, ai quali Schleiermacher aveva invece rinunciato. Erano necessari tempo e progresso da entrambe le parti perché l’autore dei Discorsi e la teologia tedesca si incontrassero. Solo una nuova generazione dimostrò una comprensione pura e imparziale nei confronti del contenuto religioso, filosofico e teologico dei Discorsi. Una gran quantità di testimonianze parlerà, nel corso di questo racconto, dei potenti effetti esercitati da essi. Qui riportiamo solo la testimonianza riassuntiva di Neander. L’acuto ricercatore del contenuto religioso presente nelle individualità di ogni secolo racconta: «Chi ripensa ai movimenti religiosi che iniziarono agli albori del secolo diciannovesimo e ne prese parte, riconoscerà come un entusiasmo panteistico poteva formare, per alcuni animi più riflessivi e profondi, un punto di partenza per la fede nel Vangelo. Particolarmente importante fu in questo senso, come punto di passaggio a un nuovo sviluppo teologico e religioso, la pubblicazione di un libro che diede avvio a una grande svolta e a una violenta eccitazione spirituale: i Discorsi sulla religione del defunto Schleiermacher. Uomini di una generazione precedente, che si attenevano ancora al vecchio soprannaturalismo cristiano, o presso i quali era rimasto, pur nel loro severo e formato razionalismo, ancora un effetto della prima fede vivente in un Dio ultramondano e in una vita nell’aldilà, dovevano rifiutare l’elemento panteistico, che si presentava loro in quel libro, con sdegno e orrore. Quelli che appartenevano allora alla generazione più giovane che stava crescendo si ricorderanno con quale forza questo libro, che dava testimonianza con entusiasmo giovanile del misconosciuto elemento religioso presente nella natura umana, agì sugli animi. Fu di grandissimo significato il fatto che, contro l’unilaterale intellettualismo, fosse richiamata l’attenzione sulla forza del sentimento religioso e sulla presenza della religione nell’animo. Fu un importante impulso per la scienza che, da quell’essenza astratta e composta in modo arbitrario, chiamata religione razionale (Vernunftreligion), fosse portata l’attenzione sull’essenza propria della religione, e quindi anche del Cristianesimo nel suo concreto significato storico. Ciò si incontra con il nuovo crescente interesse e senso per la ricerca storica»48.
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Neander, Zeitschrift für christliche Wissenschaft, 1850, p. 1 ss.
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I MONOLOGHI COME COMPIUTA ESPOSIZIONE INTUITIVA DEL SUO IDEALE DI VITA
La genesi esteriore Nel maggio del 1799 Schleiermacher era tornato da Potsdam sofferente, sovraccaricato di lavoro. Come è solito accadere dopo la concentrazione forzata, di cui necessita un’importante opera, per molto tempo egli apparve distratto, i suoi interessi sembravano dispersi. I pensieri rimanevano ancora attaccati ai Discorsi e ai loro effetti. I due progetti di questo periodo, cioè scrivere su Spinoza e sui limiti della filosofia, sono orientati alla fondazione scientifica del punto di vista dei Discorsi, e forse, se la direzione filosofica intrapresa nella sua opera fosse diventata un importante fermento nella storia dell’idealismo, allora Schleiermacher avrebbe posseduto la maturità scientifica per portare a termine entrambi i progetti. Una notevole conseguenza pratica veniva tratta nelle sue Lettere sulle questioni degli ebrei, che egli terminò all’inizio di giugno. In quel periodo si formava, intorno alla Lucinda, una nuova sfera di interessi. Ancora durante la convivenza degli amici a Berlino veniva discussa tra loro l’idea di uno scritto polemico su questo romanzo. Quando però, in agosto, Friedrich lasciò Berlino per trasferirsi a Jena, questa intenzione doveva passare in secondo piano di fronte alla preoccupazione per l’Athenaeum, che cadde sulle spalle di Schleiermacher. Alla critica dell’antropologia di Kant, che venne scritta a giugno, seguì una valutazione degli ultimi scritti di Garve. Quest’ultima, a due anni dalla morte di Garve, provocò un violento sdegno: essa rimane l’unica magistrale e assolutamente ragionevole caratterizzazione del filosofo della socievolezza. Al contrario, la critica all’antropologia di Kant appare come un delitto contro il più grande pensatore tedesco, che non può essere in alcun modo perdonato: essa mescola, infatti, allusioni personali a un giudizio scientifico
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I MONOLOGHI COME ESPOSIZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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infondato. In autunno, poi, furono stesi i progetti dello scritto polemico per Friedrich e di un altro sulla situazione della letteratura tedesca. La compagnia in cui viveva e l’interesse contingente gli imponevano progetti che lo spingevano, oltre i limiti della sua effettiva capacità creativa, a un infruttuoso dilettantismo. L’interesse di Schleiermacher per tutti questi lavori e progetti appare superficiale comparato con quello per i destini che lo circondavano. In questo periodo la vita degli amici più intimi cominciò a cadere preda della confusione. Si vedono costantemente al lavoro in lui pensieri e domande di carattere etico, di cui i destini degli amici erano esempi evidenti e molto penetranti. Così nacque l’idea di un romanzo nel quale egli, come aveva fatto Jacobi nell’Allwill e nel Woldemar, pensava di esporre le sue “visioni religiose” sull’amore, sul matrimonio, sull’amicizia. In questa forma artistica creata da Rousseau, Jacobi e Goethe, doveva emergere la sua filosofia dell’eticità, e i Monologhi annunciano un tale romanzo come il compito della sua vita. «È la cosa più importante, per una natura come la mia, che la formazione interiore (innere Bildung) trapassi anche nella rappresentazione esteriore». «Il pensiero di lasciare in un’opera d’arte la mia essenza interiore, e con essa tutta la visione che l’umanità mi ha concesso, è per me un presentimento di morte. Esso germogliò non appena cominciai a diventare cosciente del pieno fiorire della vita, e ora cresce in me ogni giorno e giunge a chiarezza. Prematuramente, lo so, lo staccherò dalla mia interiorità per libera decisione, prima che il fuoco della vita sia consumato: se lo lasciassi maturare e diventare un’opera compiuta, la mia essenza stessa, all’apparire nel mondo del fedele ritratto, morirebbe»1. Proprio in questo romanzo intendeva comunicare la sua natura più intima e con essa l’intera visione che l’umanità gli aveva concesso. L’oggetto della sua rappresentazione, perciò, non era solo, come indicava Jacobi, «l’umanità come essa è», bensì la sua particolare prospettiva etica. Trovo occasionalmente menzionato il fatto che doveva essere esposta in quest’opera anche la vita tra i Fratelli herrnhutiani. Così non appare troppo audace l’ipotesi che essa dovesse prendere inizio nelle comunità della Slesia, con le più genuine confessioni di un’anima bella. Sarebbe diventato, in tal modo, il romanzo della sua vita. Da questo suo ideale poetico trae luce la concezione della poesia che abbiamo esposto, secondo la quale l’opera d’arte è la rappresentazione del mondo nella mediazione particolare di un’individualità. Questo pensiero nasceva coerentemente, come la sua visione del cosmo delle religioni, dalla sua idea fondamentale, e con uguale necessità derivava da essa la collocazione del romanzo all’apice della 1
Monologen, KGA I, 3, p. 52.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
poesia. «Il romanzo punta all’esposizione dell’interiorità umana e della sua unità nella serie cangiante delle relazioni esteriori»2. Così in quest’epoca portava nella sua anima le immagini della sua vita passata e presente sognando e poetando, per portare a forma artistica ciò che aveva vissuto. Ma non era ancora giunto il tempo di scrivere il romanzo della sua vita e forse mai sarebbe arrivato: Schleiermacher sentiva in alcuni momenti, con evidente chiarezza, come gli mancasse del tutto la capacità di formare un mondo che si esponesse in figure e vicende. La sua stessa vita solo allora era sul punto di ottenere una forma salda. Ma la volontà ideale, che ne costituiva il punto centrale, si era completamente chiusa in sé. Il pensiero di rappresentare questa volontà era il risultato necessario della sua direzione morale originaria e da esso derivarono i Monologhi. Il progetto di questa rappresentazione di un carattere, filosoficamente cosciente di se stesso e moralmente compiuto, era maturato insieme al peculiare sviluppo morale di Schleiermacher. La sua più antica forma era il frammento di Schlobitten, nel quale egli aveva iniziato a sviluppare, davanti a se stesso, in forma di monologo, la sua «opinione ultima sulla vita»3. Quando, poi, il suo ideale di vita si realizzò veramente, furono scritte, nell’inverno 1797/1798, le Rapsodie etiche e fu concepito il progetto delle Osservazioni di sé. La prima menzione di questo progetto risale all’estate del 1798. Quello scritto giovanile di Schleiermacher deve essere di nuovo apparso molto vivacemente nella sua anima: egli rivisse nell’atmosfera dell’epoca di Schlobitten, quando in settembre e ottobre la famiglia Dohna si trovava a Berlino e la contessa Friederike era, insieme ai fratelli, in rinnovata salute e voglia di vivere: «mi sentivo», scrive alla sorella, «di nuovo completamente familiare con il loro bell’animo»4. L’inizio dei Monologhi dimostra che, durante la loro composizione, egli ha avuto tra le mani il vecchio manoscritto. Nelle settimane dopo la partenza dei Dohna il destino di Friedrich ed Eleonore gravò in modo particolarmente pesante sulla sua anima fino a farlo ammalare anche nel corpo. Così arrivò il suo trentunesimo compleanno. In questi giorni diede inizio ai Monologhi. Erano trascorsi sette anni da quel 21 novembre 1792, nel quale aveva iniziato il frammento più vecchio. Fu per lui un atto di liberazione e di purificazione sprofondarsi completamente nella volontà ideale, che era dominante in lui su ogni destino. «Desidererei», scrisse in questo giorno alla sorella, «che tu potessi veramente renderti conto della tranquilla pace che è nella mia anima. Mi rallegro del passato e del presente e guardo serenamente venirmi incontro 2
Gedanken III, KGA I, 2, n. 23, p. 124. KGA, I, 1, pp. 391 ss. 4 KGA V, 3, Lettera alla sorella, 20 novembre-3 dicembre 1799, n. 726, p. 249. 3
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I MONOLOGHI COME ESPOSIZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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il futuro, con tutto ciò che vuole portarmi. Con una certa consapevolezza posso ben dire che questo sarà il mio stato d’animo dominante per quanto mi resta da vivere, poiché esso si radica nel profondo del mio essere»5. Allora scrisse nel suo diario: «abbandono solo ciò che è mortale e imperfetto alla giovinezza, e sorrido ai capelli bianchi»6. Un processo dell’animo, e non un’intenzione letteraria, diede ai pensieri, ormai maturati nell’interiorità, la forma definitiva. «Si tratta di un desiderio irrefrenabile di esprimermi, anche se completamente privo di scopo e libero dal pensiero di ottenere un effetto»7. «Nulla è nato a me in modo così inatteso. Quando ne concepii l’idea, volevo in verità fare qualcosa di pienamente obiettivo, non senza una buona dose di polemica: l’elemento soggettivo doveva essere soltanto la veste esteriore. Ma nello schizzo del progetto l’elemento soggettivo si è molto accentuato, così che d’un colpo la cosa, nella forma in cui è ora, stava davanti a me. La polemica è rimasta solo qua e là come stato d’animo e l’elemento oggettivo è rinvenibile, abbastanza nascosto, solo per chi lo conosce»8. Schleiermacher scrisse questa piccola opera in neanche quattro settimane, o, meglio, la dettò al tipografo: anche questa volta, infatti, come nel caso dei Discorsi, la stampa era già iniziata, mentre egli ancora rielaborava i pochi fogli. Da ciò deriva l’evidente imperfezione stilistica dei Monologhi nei particolari, ma anche la loro compatta unità e la loro energia; sembrano nati con un proposito bellicoso. Nei primi giorni del 1800 i Monologhi erano pronti per venire al mondo. Tra il 1700 e il 1800 apparvero contemporaneamente due opere, che espongono l’ideale di vita nato dalla filosofia e dalla poesia tedesche, la disposizione dell’animo (Gesinnung) con la quale questa giovane generazione entrava nel nuovo secolo: la Destinazione dell’uomo di Fichte e i Monologhi di Schleiermacher. Come piena manifestazione dei due più grandi caratteri morali che quest’epoca poetico-filosofica produsse, essi formano una pietra miliare della nostra storia spirituale. L’idealismo morale si rivolge in loro, ancora una volta in tono collerico e accusatorio, ad una società snervata dall’eudaimonismo e dalla sua misera caccia alla felicità, spingendola alla liberazione e alla riforma. Il pensiero non possedeva, come sempre accade, la forza di fermare l’imminente rovina: esso poteva solo temprare e fortificare gli animi, all’interno di una cerchia più ristretta, alla quale fu poi debitrice la rinascita. 5
Ivi, p. 251. Gedanken III, KGA I, 2, n. 40, p. 128. 7 Br. I, p. 290. Lettera a Ehrenfried von Willich, senza data. 8 KGA V, 6, Lettera a Henriette Herz, 16 settembre 1802, n. 1346, pp. 151-152.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
Come opera letteraria i Monologhi hanno dimostrato una maggiore forza vitale rispetto alla Destinazione dell’uomo. Ciò può stupire. L’opera di Fichte è indiscutibilmente superiore ai Monologhi per maturità e chiarezza di pensiero, per semplice forza della lingua. Due aspetti, in particolare, garantirono ai Monologhi questa superiorità: essi sono l’espressione di un carattere originale, educato alla bellezza morale e alla mitezza, e contengono il risultato di una visione del mondo e della vita che non limita l’animo con discutibili supposizioni filosofiche, ma che, piuttosto, lo libera veramente. Tale visione, infatti, deve formarsi in modo simile in ogni anima nobile a partire dalla riflessione (Besinnung) sulla vita stessa. Perciò tra tutti gli scritti morali di pensatori moderni, solo i Monologhi agiscono ancor oggi in ampie cerchie. Essi esercitano proprio negli anni decisivi dello sviluppo, se vengono a contatto con nature profonde, quasi infallibilmente un influsso decisivo. Chi vi presti attenzione incontrerà un numero non piccolo di uomini che devono ai Monologhi l’occasione per una consapevole e più alta vita morale. Il compito scientifico dei Monologhi e la sua soluzione nell’opera d’arte I Monologhi sono il risultato dell’interiore e autocosciente sviluppo di un grande carattere. Visti da un’altra prospettiva, sono l’apporto della sua visione scientifica del mondo alla questione morale. Essi conducono tale visione all’interno dei reali problemi della vita morale. L’infinito, conformemente a questa visione del mondo, si espone, in generale, attraverso il legame delle stesse forze fondamentali, in un’infinita molteplicità di esistenze particolari o individualità. «La perfezione del mondo intellettuale consiste nel fatto che tutte le possibili connessioni delle due originarie funzioni della natura spirituale non solo stanno effettivamente a disposizione degli uomini: piuttosto un legame universale della coscienza li abbraccia tutti, cosicché ciascuno, nonostante non possa essere null’altro rispetto a ciò che deve essere, tuttavia altrettanto chiaramente riconosce ogni altro e comprende perfettamente tutte le singole rappresentazioni dell’umanità»9. Così ogni individualità umana è espressione e specchio eterno dell’universo. Perciò il punto centrale del processo etico è l’intuizione e l’affermazione del sé eterno in mezzo al flusso dell’agire e del patire passeggeri. «Ogni azione è uno sviluppo particolare di questa unica volontà»10. Così l’intuizione di sé 9
Reden, KGA I, 2, p. 192. Monologen, KGA I, 3, p. 42.
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è la coscienza (Gewissen) dell’uomo libero, poiché, attraverso essa, il carattere universale dell’umanità gli è presente costantemente nella forma individuale che dà a ciascuno il suo significato. L’occhio di questa coscienza non si abbassa mai. Essa non è niente altro che la consapevolezza dell’ideale, per realizzare il quale noi siamo nati all’interno di questo mondo finito, nell’agire e nel patire, nell’amore e nell’odio, nella gioia e nel dolore. Da questa concezione scientifica segue che l’individuo necessita dell’opera d’arte per esporsi completamente. Infatti, espressione di questo nostro vero Sé superiore sono la vita, nella quale l’uomo deve dare a esso compiuta realtà, e l’opera d’arte, che anticipa questa compiutezza e che la rappresenta nella forma intuitiva del carattere, cosa che altrimenti non può mai diventare realtà. È soprattutto il romanzo a poter esporre questa particolare forma dell’“umanità interiore” in uno sviluppo, «nella serie cangiante delle relazioni esteriori»11. Se il carattere, però, deve manifestarsi come una compiuta immagine ideale, deve essere trovata una forma artistica che lo inserisca all’interno della realtà come accade all’eroe di un dramma, o al Socrate di Platone. Dobbiamo considerare i Monologhi come una creazione artistica di tal genere, per quanto essi non soddisfino in pieno tale intenzione. Questa rappresentazione intuitiva del suo Sé ideale fu possibile a Schleiermacher solo dopo che era giunto a piena chiarezza sulla propria particolare natura. Proprio le dolorose battaglie con Friedrich Schlegel, addirittura l’indiscreta polemica condotta da questi nella Lucinda contro il carattere di Schleiermacher, lo avevano spinto, nella primavera e nell’estate del 1799, di nuovo nella propria interiorità. Le sue riflessioni appaiono, quasi contemporaneamente alla nascita dei Monologhi, su un isolato foglio di diario. In esso è sviluppata l’opposizione tra le nature volte alla propria formazione morale e le altre, a cui preme invece produrre opere esteriori. Queste ultime creano una filosofia, mentre quelle fanno filosofia (philosophieren); un motto che ben caratterizza la concezione di Schleiermacher. Come lo zio nel Wilhelm Meister, queste nature considerano anche la prassi come arte di formare opere dalla materia della vita; quelle invece trattano se stesse come essere organico, al quale si può dare solamente nutrimento e aiuto; esse non agiscono per amore di ciò che nasce dalla loro attività, e affidano, invece, al genio dell’epoca ciò che deve accadere, nel mondo e per il mondo, a partire dalle loro azioni12. Da questa stessa opposizione, o da una molto affine, nascono i Monologhi: la grande linea di separazione delle diverse nature sta, secondo i Monologhi, nella duplice vocazione dell’uomo sulla terra: la vocazione «a 11 12
Gedanken III, KGA I, 2, n. 23, p. 124. Gedanken IV, KGA I, 3, n. 1, p. 133.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
formare l’umanità in sé fino a forma chiara e rappresentarla in molteplice agire, o a riprodurla esteriormente, in opere artistiche, cosicché ciascuno debba vedere ciò che uno vuole mostrare»13. Dall’intenzione artistica dei Monologhi derivarono forma e stile del singolo monologo. La forma, nella quale deve pervenire a intuizione vivente il carattere completo nella sua piena interiorità, è la stessa nella quale l’opera d’arte drammatica, in modo esplicito, non condizionato da alcuna relazione con un altro carattere, svela allo spettatore la profondità delle motivazioni: il monologo. Dall’essenza del monologo si ricavano una determinata scelta e un preciso ordine del materiale, come anche un tono e uno stile caratteristici. «Per quanto riguarda il primo, mi fu subito chiaro che non si sarebbe mai potuto presentare uno sviluppo di principi; poiché mentre si cercano i principi, non si può parlare coerentemente con se stessi, e un monologo mi sembra, invece, poter consistere solo nel fatto che in esso ci si interroga sulla relazione dei principi al singolo, e si diviene coscienti della visione del singolo secondo i principi»14. E come il monologo esclude, dal punto di vista del contenuto, l’esposizione dei principi, così esclude, dal punto di vista stilistico, la trattazione retorica. «Ho creduto che lo stile non potesse andare in cerca di nulla, bensì potesse semplicemente testimoniare ovunque l’interesse alla riflessione e la profondità dell’impressione, poiché queste sono le due uniche possibili fonti di un monologo». La prosa vivace del monologo, che si avvicina alla lirica, può e deve perciò rievocare determinati ritmi. Schleiermacher riproduce perciò la ritmica giambica del famoso monologo di Egmont, il suono ritmato di alcune parti della Lucinda, e di alcuni saggi di Hülsen. «Voglio far risuonare ovunque un determinato metro; nel secondo e nel quarto monologo solo il giambo; nel quinto il dattilo e l’anapesto; per il primo e per il terzo ho pensato a qualcosa di più complesso». «Ti confesso volentieri che il giambo è stato più forte di me e che si è sviluppato nel secondo e nel quarto monologo in modo quasi indomabile. Pensa solo che presso di noi qualcosa del genere deve essere caricato di tinte forti, affinché la gente se ne possa accorgere»15. Si noti qui l’errata intenzionalità con la quale Schleiermacher ha formato il suo stile, mentre, nel genuino artista, lo stile si forma istintivamente. Si chiarisce così il contrasto tra la profonda genuinità del contenuto e l’artificiosità, addirittura l’affettazione della forma. Schleiermacher stesso percepì più tardi le debolezze stilistiche dei Monologhi e auspicava di intraprenderne, per suo uso privato, una rielaborazione. 13
Monologen, KGA I, 3, p. 20. Ivi, p. 51. 15 KGA V, 4, Lettera a Brinkmann, 27 maggio 1800, n. 869, pp. 50 ss. 14
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I MONOLOGHI COME ESPOSIZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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Tuttavia al di là di questi limiti c’è una singolare forza nello stile dei Monologhi, che è la cosciente espressione artistica del pensiero dell’individualità. Schleiermacher stesso sottolineava l’importanza di un passo dei Monologhi sulla lingua, che esprime questa connessione. «Ciascuno faccia della sua lingua un possesso personale e una totalità artistica, così che deduzione e passaggio, connessione e successione corrispondano precisamente allo stile del suo spirito, e l’armonia del discorso restituisca il tono fondamentale del suo modo di pensare, l’accento del cuore. Nel linguaggio comune c’è poi anche una lingua sacra e segreta, che chi non è consacrato non può interpretare né imitare, poiché solo nell’interiorità dell’anima sta la chiave per i suoi caratteri»16. Così la coerenza della concezione schleiermacheriana agisce fino nella particolarità della sua forma, aspra ed elaborata dalla volontà. Schleiermacher tratta la lingua come una materia, sulla quale la volontà individuale deve imprimere, dominando, la propria forma. In tal modo lo stile ottiene il suo tratto caratteristico. Gli mancano completamente l’ingenuità e la naturale vivacità espressiva, il dominio sui mezzi più appropriati del repertorio lessicale e dei collegamenti, che rendono maestro della lingua chi flessibilmente si sottomette al suo genio. La rappresentazione artistica del Sé ideale così nata va considerata nella successiva trattazione sotto un duplice punto di vista. Schleiermacher descrive la sua intenzione subito dopo aver concluso i Monologhi: «è un tentativo di trasferire il punto di vista filosofico, come lo chiamano gli idealisti, nella vita, e di esporre il carattere che, secondo me, corrisponde a questa filosofia»17. Scrive più tardi a un’amica: «un genio favorevole mi spinse a esporre così me stesso, o piuttosto a esporre il mio sforzo, la legge più interiore della mia vita». Egli riassumeva entrambi i punti di vista nelle parole poetiche: «un’immagine sacra aleggia davanti agli occhi di ogni migliore, nei cui tratti egli cerca di formarsi»18. Una visione scientifica del mondo e della vita costituisce la base dei Monologhi: la loro forma è artistica, il loro scopo è etico. La filosofia idealistica raggiungeva in essi uno dei punti nei quali appariva il suo effetto morale popolare. Ricerche sugli elementi etici non esercitano alcun effetto sulla vita stessa: in ogni più profondo sguardo nel significato della vita è, invece, innata la suprema forza dell’effetto morale. Il pensiero filosofico aveva lasciato in Kant e Fichte una profonda spaccatura tra ideale etico e motivazioni dell’uomo. L’intuizione poetica aveva ideato, nel libero gioco, 16
Monologen, KGA I, 3, p. 38. KGA V, 3, Lettera a Brinkmann, 2 dicembre 1799-4 gennaio 1800, n. 758, p. 316. 18 KGA V, 6, Lettera a Charlotte von Kathen, 10 agosto 1803, n. 1526, p. 441. 17
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
un mondo di perfezione estetica assai remoto: tra la libera tranquillità, con la quale i poeti lavoravano creativamente alle loro forme, e la vita confusa degli uomini mancava il vincolo connettivo. L’idealismo sembrava nella filosofia negare la realtà comune, nella poesia sembrava dimenticarla, mentre era suo vero compito produrla e darle nuova forma. Dove poeti e filosofi si arrestarono, iniziò il lavoro del pensatore etico, dell’oratore etico-religioso. In ognuno riposa un pensiero divino, ed era necessario fare spazio affinché esso arrivasse in ciascuno a compiuta elaborazione e forma. Sensibilità, intuizione, fantasia non devono essere ostacolate, bensì eticizzate al servizio di questo ideale; l’impulso morale sarà così formativo e non semplicemente limitante, e il mondo diventerà una libera armonia di individualità sviluppate autonomamente. Pretesa di ogni uomo è che questo ideale, presente in lui, ottenga libero spazio e felice sostegno, e che sensibilità e amore gli vadano incontro e lo incoraggino. Questo è il nocciolo dei Monologhi. Essi vogliono risvegliare il Sé in ciascuno, aiutarlo a giungere a libero sviluppo, a completarlo con lo sguardo ampio e pieno di amore nel cosmo delle individualità, affinché ogni forza etica si soddisfi del suo scopo particolare. L’intuizione del Sé eterno in mezzo all’agire temporale La coscienza Primo Monologo Dalla visione del mondo e della vita di Schleiermacher segue, come processo etico fondamentale, l’intuizione e l’affermazione del nostro vero Sé, che poi viene sviluppato e affermato con la lotta solo nel decorso temporale dell’intera vita dell’individuo. Il primo monologo presenta questo processo lasciandosi alle spalle la connessione sistematica. I Monologhi si inseriscono in una successione storica che si connette a Kant. Il genere umano rinnova sempre il pensiero religioso-morale, in virtù del quale la volontà diviene libera nei confronti del destino e del mondo esterno. Dalle più profonde necessità della nostra vita, che cresce tra nascita e morte, tra terribili mutamenti e opposizioni del destino, si origina questa volontà di essere indipendenti nei confronti della sorte. Attraverso il mare di nebbia e il fluttuare cangiante della vita l’uomo forte cerca un sentiero che proceda in linea retta. Il pensiero liberatorio di Schleiermacher è la rielaborazione del pensiero di Kant: siamo qui per formare in noi stessi una volontà
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I MONOLOGHI COME ESPOSIZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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buona e autonoma, poiché, nella connessione totale del mondo umano, in essa soltanto è posto qualcosa di saldo. Perciò lo scopo finale di tutte le nostre azioni non è un qualsiasi successo esteriore né l’incerta felicità, bensì è il costante dominio del movente etico. In tal modo il vero significato della nostra esistenza è completamente indipendente da ogni destino. A questa effettiva relazione tra la visione morale di Kant e quella di Schleiermacher corrisponde l’esplicita dichiarazione dell’ultimo, che i Monologhi «dovevano esporre solo il carattere, che corrispondeva, [secondo lui], alla filosofia idealistica»19. Affrontiamo ora il pensiero di Schleiermacher. L’uomo si trova nel mutare del tempo; la sua esistenza è un saliscendi fino alla notte dell’annientamento; la sua vita interiore è un avvicendarsi, più o meno ricco, di rappresentazioni e sensazioni, che non sono in suo potere. Se egli esce da questo corso per un istante, per farne l’oggetto della sua considerazione, comprende solo il punto di contatto tra se stesso e il mondo. Se veramente pretende di guardare in se stesso e riconoscersi, si considera alla stregua di un estraneo, compara azioni e ne trae conseguenze, al massimo osserva di nascosto la decisione ultima e i motivi ancora visibili di essa, dietro ai quali possono esserne nascosti altri completamente diversi. L’autocoscienza, che deve costantemente osservare l’Io agente, è così tramontata nell’uomo. Il suo filo è strappato. Questa vera coscienza (Gewissen), che mai sbaglia né tace, è divenuta un severo educatore, il cui giudizio punitivo si impone di tanto in tanto. E, vivendo solo nel mondo sensibile, l’uomo trova che questo suo sé, oscillante tra le gigantesche masse corporee, è insignificante, insicuro, oppresso20. L’idealismo libera l’uomo dal peso di questa visione del mondo, poiché insegna che lo spirito è la prima cosa, che solo esso è libero e incondizionato, e scopre che anche i sentimenti e le immagini, che sembrano provenire dal mondo dei corpi, sono fondate nel libero creare dello spirito. La necessità inizia per l’idealismo solo dove libertà si scontra con libertà, dove le volontà si incontrano21. Questa visione dell’idealismo è liberatoria, in particolare se connessa con quella del valore incondizionato della volontà buona. Destino, felicità, tutte le conseguenze del mio agire non mi costituiscono, piuttosto appartengono al mondo; intuizione e realizzazione del mio vero essere sono indipendenti da loro. Che provengano dalle mie azioni felicità o dolore, in entrambi si 19
KGA V, 3, Lettera a Brinkmann, 23 dicembre 1799-4 gennaio 1800, p. 316. Monologen, KGA I, 3, pp. 6-9, cfr. pp. 15-16. «Un piccolo frammento della riflessione divina lo possiedono tutti e, sminuendolo a pedante, lo chiamano “coscienza”». 21 Ivi, pp. 9-11. 20
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
manifesta, in ogni caso, la mia vita interiore. Abbia o meno una mia azione successo esteriore, una cosa è sicura, che io sono diventato più determinato e più padrone di me. Così, separando chiaramente, per la mia vita autentica, interno ed esterno, mondo e io, mi libero dalla schiavitù della necessità, alla quale è abbandonato chi vive nel mondo sensibile22. In virtù di questa intuizione del mio Sé eterno, faccio ingresso in una vasta connessione, in un regno dell’eternità, poiché questo Sé appartiene a un mondo sottratto al tempo e al suo cambiamento. La considerazione di Sé è dunque inseparabile dalla vita nell’eternità e nell’infinitezza, dalla religione. In mezzo al corso del tempo, in mezzo alla vita attiva, essa è presente come costante consapevolezza (Besonnenheit) della mia essenza superiore. E così, grazie a essa, siamo eterni in mezzo al tempo. «Comincia perciò già ora la tua vita eterna, nella costante considerazione di te stesso; non preoccuparti di ciò che verrà, non piangere per ciò che è passato: bensì preoccupati di non perdere te stesso e piangi se sei sospinto a ciò dalla corrente del tempo, senza portare il cielo dentro di te»23. Sia concesso far risaltare più chiaramente un pensiero in questa trattazione schleiermacheriana. Dove, dal punto centrale di una volontà autocosciente, salda pur nel cambiare di tutti i motivi, e del suo ideale, viene formata la vita, dove, dunque, questa superiore salda autocoscienza è presente in un uomo, lì l’uomo non è più teatro di motivi che si combattono l’un l’altro, lì termina il gioco a nascondino dei moventi, il ripararsi di due motivi semicoscienti dietro al primo cosciente, che rende così disgustosa, alla considerazione etica, l’interiorità della maggior parte degli uomini; da un unico getto, chiaro a se stesso e agli altri, si forma il carattere. L’ideale di vita cosciente forma in modo sintetico la connessione dei nostri moventi. Ogni altra unità sintetica di questi moventi è un dono del destino, che concede al fortunato compiti morali, un progetto di vita, principi che si accordano con la famiglia e con la società. La libera e più alta opera della persona, su qualsiasi idea della religione o della scienza essa possa essere fondata, è questa. La volontà individuale Secondo Monologo La liberazione dello spirito mediante il suo allontanamento dall’interesse per il destino e per le conseguenze che la volontà può avere sul mon22 23
Ivi, pp. 10-12. Ivi, pp. 11-14.
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I MONOLOGHI COME ESPOSIZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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do, costituiva una verità sempre di nuovo analizzata dalle grandi nature etiche sulla base di sistemi differenti. Tipica di Schleiermacher è però la coscienza che il Sé eterno presente in noi, liberato da tutto ciò che è casuale, empirico, nato nel tempo e in balia di questo, si mostra non come una volontà etica indifferenziata, come unica coscienza in ogni cosa, bensì come forma individuale dell’umanità, data una sola volta: proprio in quanto tale essa ha il proprio significato eterno nell’universo. Il sommo bene del mondo umano sta, per Schleiermacher, nel fatto che tutto ciò che porta volto umano si sviluppa fino a divenire una personalità etica individuale, nel fatto che si realizzano anche più estese forme individuali della volontà generale, in grado di sostenere le volontà singolari, come la famiglia, lo Stato, la comunità religiosa e che, infine, intuizione e amore collegano tutto in una rappresentazione dello spirito infinito attraverso il vincolo della coscienza comune. Inizierebbe allora il «tempo felice» della perfetta rappresentazione dello spirito infinito nella vita finita dell’uomo24. L’ideale schleiermacheriano è dunque radicalmente diverso dall’egoismo della formazione personale: esso, infatti, indirizza la volontà a un bene sommo che comprende l’intero mondo umano. Questa genuina connessione della visione del mondo e della vita rimane però sullo sfondo dei Monologhi e questo è il motivo per il quale essi furono soggetti a svariati fraintendimenti. Il secondo monologo illustra questo nuovo pensiero dell’individualità in una storia evolutiva che si suddivide in due processi volontari. Attraverso il primo processo diviene dominante, nel singolo, l’idea di umanità; attraverso il secondo, invece, diviene dominante la coscienza dell’individualità. Non mi arrischio a distinguere quanto, in questa descrizione, appartenga veramente allo sviluppo dell’uomo, nel quale dapprima si sollevò, sulla base dell’idealismo, l’idea etica dell’individualità, che dovette formarsi in un secondo, particolare processo, e quanto, in essa, sia solo forma espositiva, quasi un mito platonico. Dall’interno, attraverso una “superiore rivelazione”, indipendente da tutti i sistemi, si schiude per Schleiermacher, dopo una lunga ricerca, in primo luogo, l’intuizione dell’umanità. «Considerare l’umanità in sé stessi e, quando finalmente la si trova, non distogliere mai lo sguardo da essa, è l’unico mezzo sicuro per non allontanarsi mai dal suo sacro terreno. Questa è la stretta e necessaria connessione tra fare e contemplare, che solo ai folli e agli uomini di indole pigra appare oscura e misteriosa. Un agire genuinamente umano
24
Reden, KGA I, 2, p. 192; Monologen, KGA I, 3, p. 30.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
suscita la chiara coscienza dell’umanità in me, e questa coscienza non ammette nessun altro agire che quello degno dell’umanità stessa»25. A lungo, così racconta, fu soddisfatto da questa visione morale. La ragion pratica gli appariva come il medesimo agire in tutti, per ciascun caso egli accettava solo un unico modo giusto di agire, e perciò ai suoi occhi il fare morale dell’uno si distingueva da quello dell’altro solo nella misura in cui a ciascuno è data la propria specifica condizione, il proprio specifico luogo. Ma la personalità, l’unità della coscienza singola, dovrebbe apparire inutile e senza senso per il compito etico di una siffatta ragione universale, se non ci fosse qualcosa di moralmente più alto, di cui essa sarebbe significato. Così gli divenne chiaro «che ogni uomo deve rappresentare l’umanità a suo modo, in una singolare mescolanza dei suoi elementi, affinché essa si manifesti in ogni maniera, e dia luogo veramente, nella pienezza dell’infinito, a tutto ciò che può derivare dal suo grembo». Un pensiero e una libera azione che lo accompagna collegano in ciascuno gli elementi della natura umana in un’esistenza particolare26. A questo punto dei Monologhi emerge la prima delle due differenziazioni, sulle quali è fondata l’etica di Schleiermacher intesa come dottrina dei beni. «Ciascun essere morale posto per sé», così dice l’etica, «e ciascun agire particolare della ragione sono posti con un duplice carattere; sono in sé sempre e ovunque uguali, nella misura in cui si relazionano direttamente alla ragione, che ovunque è una e uguale; sono sempre qualcosa di differente, dal momento che la ragione è ovunque data in qualcosa di differente». Anche la fondazione del pensiero morale dell’individualità contenuta in questo passo dell’etica è già presente nelle parole dei Monologhi 27. Così l’osservazione di sé si realizza nell’affermazione e nella formazione della propria individualità. Qui i Monologhi raccolgono, in pochi pregnanti tratti, ciò che questa storia evolutiva lascia intravedere. Con chiara coscienza Schleiermacher determina come sua vocazione quella di «modellare l’umanità in una forma decisa e rappresentarla nel suo agire complesso». Una tale natura doveva rivolgersi a tutto ciò che sosteneva la propria formazione: doveva quindi scorgere subito, anche nelle opere d’arte, l’elemento etico, e nella natura niente altro che segni capaci di risvegliare sensazioni e pensieri. Essa necessita di libero ozio, affinché il pensiero fondi la sua forza, e del contatto con i più diversi tipi di comunità, affinché nulla di ciò che è umano le rimanga sconosciuto e la propria essenza si determini 25
Ivi, p. 16. Ivi, pp. 17-19. 27 Entwurf eines Systems der Sittenlehre, WW III, 5, p. 94. 26
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I MONOLOGHI COME ESPOSIZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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nel dare e nel ricevere. In tale sete inappagata di procedere nella formazione del proprio essere, essa lascerà dietro di sé, incompleti, azione e discorso: in tal senso essa è il perfetto opposto di una natura artistica. Completano questa natura l’impulso a una formazione personale, una sensibilità universale, che desidera comprendere tutto ciò che è umano, e l’amore, che apre gli occhi e mantiene la libertà dell’animo di fronte a ogni fenomeno. Nessun ammonimento dei compagni può limitare un tale sforzo. A questo punto Schleiermacher si ricorda che proprio un’impressione opposta aveva ferito alcuni amici, Friedrich prima di tutti, l’impressione che egli riuscisse a passare indifferente davanti a cose sacre e ottenebrasse con vana polemica il profondo, imparziale sguardo. Contro gli aspri rimproveri di Friedrich nella Lucinda28 egli cerca, soprattutto in questo monologo, con apertura nobile e prudente, di chiarire la propria natura all’amico. Stava effettivamente al fondo del suo carattere qualcosa di difensivo, di polemico. Schleiermacher lo spiega a partire dal timore dello spirito svegliatosi tardi, che per lungo tempo ha portato un giogo estraneo, di poter ricadere di nuovo nel dominio dell’opinione altrui29. Questo spirito si corazza, non appena un nuovo oggetto gli annuncia una nuova vita, lo aspetta con le armi in mano, per conservare la libertà finalmente raggiunta: si tutela interiormente, affinché il suo più profondo bisogno di una libera intuizione domini in modo naturale e non prevenuto. Era tipico, inoltre, del carattere di Schleiermacher, e anche di questo Friedrich lo rimproverava, che egli, in apparente contraddizione con la sua sensibilità universale, passasse tranquillamente, senza partecipazione, accanto alle molte cose che catturavano con trasporto, addirittura con passione, gli amici. Egli chiarisce anche questo tratto all’amico. Se era naturale per Friedrich darsi subito, senza risparmiarsi, a un nuovo fenomeno con passione violenta, per possederlo completamente in un unico slancio, dall’armoniosa compostezza della natura di Schleiermacher dipendeva il fatto che egli collegasse ogni novità, in una costante e tranquilla acquisizione, con ciò che possedeva, procedendo lentamente, ma lasciando, su tutto ciò che accoglieva, la sua impronta, e fondendolo con tutto il suo essere. Schleiermacher era cosciente che la timidezza, anche verso le richieste dell’amicizia, era percepita spesso in modo doloroso, e a tale riguardo si era espressa nel modo più aspro la Lucinda. Questa riservatezza nasceva dalla sua incapacità di lasciar scrutare un qualsiasi occhio estraneo nei pensieri in divenire, nella sua indifferenza verso il destino esteriore, verso quello proprio come verso quello degli amici. Schleierma28 29
Cfr. Luzinde, pp. 272 ss. Monologen, KGA I, 3, p. 23.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
cher, tuttavia, poteva, al contempo, dire di se stesso che il suo amore e la sua amicizia erano della più nobile origine; essi non erano mai mescolati a sentimenti comuni, non erano l’effetto di abitudine o di debole sensibilità, di gratitudine o di pietà; essi erano volti solo all’essenza dell’uomo, alla sua particolarità che si sviluppa, alla sua relazione all’umanità. Qui nasceva un impulso del cuore, che egli considerava il più forte nella sua natura, a esprimersi, a essere conosciuto e amato. Poiché la vita dell’individualità, che non è mai sazia di formare se stessa e di osservare l’essere altrui, si realizza nell’amore e nell’amicizia30. Sia qui concesso fondare il pensiero morale di Schleiermacher attraverso una più forte accentuazione di uno specifico punto di vista. Il secondo monologo sviluppa la connessione tra l’intuizione di sé (Selbstanschauung) e lo sviluppo della personalità individuale. L’analisi storica conferma questa connessione. Riflessione morale e intuizione poetica di sé sostennero, in Grecia, l’emergere della personalità individuale. Jakob Burckhardt ha dimostrato per l’epoca rinascimentale la medesima concatenazione storica di questi due fatti psicologici. «Lo sviluppo della personalità», così riassume l’idea qui nata, «è essenzialmente legata al fatto che la si riconosce in se stessi e negli altri»31. Da condizioni sociali analoghe emerse, nel Rinascimento italiano e nell’epoca da noi descritta, questa duplice tendenza all’intuizione ideale dell’individualità e al suo più alto sviluppo personale. La volontà individuale e la comunità umana Terzo Monologo Il sommo bene della volontà morale si realizza solo nella comune «opera dell’umanità». Quest’opera sembra duplice e, in effetti, la differenza introdotta dal terzo monologo è affine a quella che sta alla base del sistema etico di Schleiermacher, in quanto sistema del sommo bene, insieme con quella sviluppata nel secondo monologo. La nuova distinzione è quella tra il dominio esterno sulla natura e la formazione interiore32. Qui Schleiermacher non parla con la tranquilla visione d’insieme del sistematico. Piuttosto, in questo monologo, parla la persona colma di entusiasmo per la propria particolare vocazione: grazie a quanto compreso nel precedente monologo, sa favorire in sé e negli altri intuizione e rappre30
Ivi, pp. 22 ss. Burckhardt, Geschichte der Renaissance, p. 304. 32 Entwurf eines Systems der Sittenlehre, SW III, 5, pp. 88 ss. 31
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I MONOLOGHI COME ESPOSIZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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sentazione di ciò che è morale come vocazione, e trova questa superiore opera dell’umanità atrofizzata, repressa dal lavoro rumoroso e vanaglorioso all’altra vocazione, quella che spinge al dominio dell’uomo sulla terra, alla civilizzazione. L’aspro tono di questo monologo è stato percepito allora immediatamente dagli amici. Non voglio assolutamente rinunciare a nessuna delle parole di quegli uomini coraggiosi e colti che contrappongono alla corrente degli interessi dominanti, che tutto travolge, il significato della formazione personale. La parola così amara che Schleiermacher proferì era giusta e profetica. È l’opera propria dell’umanità, un lato del suo sommo bene, «che l’uomo domini il mondo dei corpi, che tutto rimanga sotto il comando del pensiero, che ogni nuda materia appaia animata e, nel sentimento di un tale dominio sui corpi, l’umanità si rallegri della propria vita»33. Ci fu un tempo nel quale il rozzo schiavo della natura avrebbe ritenuto tale dominio impossibile. Oggi è fondata questa signoria, e qui lavora veramente un meccanismo artificiale che abbraccia la terra intera, che fa di ogni cosa un proprio elemento, che collega tutto in una ampia comunità. Ma «è dunque l’uomo un essere solo sensibile, cosicché il sommo sentimento della vita, della salute e della forza possa costituire il suo sommo bene?». Invano coloro che lodano questa civilizzazione – e qui il monologo si serve della famosa immagine platonica – si comportano «come se la musica della loro saggezza avesse trasformato il nudo, rapace egoismo in un mansueto socievole animale domestico e gli avesse insegnato le arti»34. Esistono un’altra opera e un’altra comunità umana, in virtù delle quali l’umanità si rappresenta nella educazione morale, nella famiglia, nella socievolezza, nelle opere artistiche e scientifiche. Qui, proprio riguardo a ciò «che per l’uomo è più importante», gli si nega ogni comunità che lo possa favorire. È impressionante trovare espresso, al culmine della nostra cultura spirituale, questo forte sentimento di solitudine e di oppressione, che oggi pesa su coloro che lavorano alle scienze dello spirito (Geisteswissenschaften). «Ciascuno deve stare solo e intraprendere ciò che non può riuscirgli [in solitudine]! Alla rappresentazione dell’umanità e alla creazione di opere belle manca la comunità dei talenti, che già da lungo tempo è stata istituita al servizio di ciò che è terreno»35. «Ciò che esiste della comunità spirituale è deprezzato al servizio di ciò che è terreno». Nell’amicizia si deve sostenere e portare liberamente ogni individualità particolare, con le sue 33
Monologen, KGA I, 3, p. 29. Ivi, pp. 28-30. 35 Ivi, p. 31. 34
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
caratteristiche differenti: al suo posto si introduce, invece, l’odio contro la particolarità dell’altro. Nel matrimonio, dall’armonia di due nature si deve formare «una nuova volontà comune», che trova espressione nella casa e nel suo ordine: invece questo, che è il legame più bello, è profanato dal conflitto delle volontà, ognuna delle quali vuole dominare l’altra, in una battaglia nella quale, infine, l’uno diviene destino fatale del compagno. La muta uniformità, che rende ogni casa uguale alle altre, mostra che in tutte loro sono perite libertà e vera vita. Nello Stato la volontà generale deve svilupparsi in un unico carattere, la convivenza in questo potente essere vivente deve garantire al singolo il miglior livello di esistenza, e l’essere generale che ne nasce deve avere per lui un valore superiore alla sua stessa vita. «Questa bellissima opera d’arte dell’umanità», attraverso la quale essa raggiunge il suo grado più alto, viene oggi considerata come un male necessario, una limitazione inevitabile, come una macchina che deve nascondere e rendere inoffensive le debolezze dei singoli. Il meccanismo sta ovunque al posto della libera formazione vivente. Ma il regno sublime dell’educazione e della moralità inizierà. Ogni uomo appartiene al mondo che ha contribuito a creare. «Così io sono uno straniero per il modo di pensare e per la vita dell’attuale generazione, un profetico cittadino di un mondo che verrà, attirato a esso da una fantasia vivace e da una fede forte: ad esso appartengono ogni azione e ogni pensiero. E fino a che questo tempo non inizierà, i cospiratori che lavorano per un’epoca migliore, dispersi nel mondo, si riconoscono l’un l’altro dalla forma particolare della loro lingua e del loro costume»36. La volontà e il destino Quarto Monologo La conseguenza liberatoria della grande dottrina kantiana, nella forma datale da Schleiermacher, emerge nell’idea, esposta nel quarto monologo, che non esiste per la vera volontà alcun destino. Insegnare a credere nella volontà è il contenuto di questo monologo37. Di fronte all’idea di volontà sviluppata fino ad ora, sparisce il concetto di destino. Schleiermacher illustra questa verità attraverso la storia della sua vita fino ad allora, e sarebbe infruttuoso ripetere ciò che è noto di questa vita stessa, cioè come egli spezzò «l’opera sacrilega dell’educazione» e di 36 37
Ivi, p. 35. Ivi, p. 43.
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come si formò il proprio specifico mondo spirituale38. Di una cosa necessitava questa volontà: della comunità. Se in un uomo i desideri sensuali e l’avidità tacciono, se egli diventa così indipendente dal vantaggio esterno, allora non c’è per lui alcuna costrizione a rinunciare alla comunità che si è formato. Il destino gli può negare solo un tipo di comunità, la più alta, che consiste nelle diverse relazioni della vita familiare. Ma la forza del destino può solo «impedire la rappresentazione esteriore»: il potere magico della fantasia supera anche questo limite, e la vita interiore della volontà non è legata ad alcuna rappresentazione esteriore. «Ma la morte?». Con la morte degli amici termina il nostro effetto su di loro, e così muore con essi una parte della nostra vita. Perciò la morte degli amici, in un certo senso, ci uccide. «Necessaria è dunque la morte, e portarmi più vicino a questa necessità deve essere compito della libertà; e il mio scopo supremo deve essere poter desiderare di morire»39. È tra i meriti particolari di Schleiermacher l’aver esposto per primo, in questo contesto, il significato etico della fantasia. L’attività inquieta della fantasia, che non può essere scacciata dall’anima, disturba l’azione della legge morale attraverso immagini del futuro, che vagano tutt’intorno, instillando desiderio e timore. Essa viene sollevata a forza morale quando la volontà individuale libera si presenta attiva nella sua specificità, in differenti condizioni, formandosi in tal modo, con l’aiuto del suo dono meraviglioso, anche là, dove la condizione esteriore ne ostacola la realizzazione o dove essa sta in attesa del lento futuro. È un pensiero profondo e vero che la forma individuale della nostra volontà deve riempire la fantasia, che la sua costante formazione deve essere messa al suo servizio; solo così ciò che altrimenti sarebbe un impedimento alla pura e tranquilla formazione morale diventa il suo potente mezzo. In questa idea sta un significativo contributo alla teoria della formazione morale. Il contenuto di questo monologo si riassume nel motto eroico: «se raggiungo ciò, che mi importa essere felice!»40. Qui per la prima volta emerge la significativa relazione di Schleiermacher con la mentalità eudaimonistica. In passato, nella prima giovinezza, Schleiermacher aveva riflettuto sul problema della felicità, nel tempo in cui, sicuri della vittoria, si attende dal futuro la soluzione di questo grande enigma. Coloro che nel corso della vita vanno a caccia della felicità, sono come trascinati in una ruota incande38
Ivi, p. 44. Ivi, pp. 51, 52. 40 Ivi, p. 45. 39
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
scente di pensieri inquieti: di speranza e timore, di rimorso e considerazioni tormentose; essi riflettono sul passato, sul fatto che tutto sarebbe potuto essere diverso, sul futuro, sul fatto che nessun calcolo ci guida con sicurezza. Non c’è uomo che, con questo animo, non sia schiavo del destino. Non c’è situazione che non possa volgersi al peggio. L’uomo deve dunque rendersi perfettamente libero dall’interpretazione sbagliata di ciò che lo incalza, come se, per natura e immutabilmente, cercasse la più grande somma di felicità, come se tutti gli alti ideali nascondessero, in un sublime travestimento, questa tensione incancellabile. La vera interpretazione di questo impulso, però, è che, viste le forze che vivono in noi, noi tendiamo a uno sviluppo libero, senza contraddizioni, e desideriamo dare alla nostra esistenza tutto il valore che è posto in noi. Schleiermacher ha accolto questa pretesa, la ha elaborata nel pensiero della libera volontà spirituale e ha riconosciuto ciò che, nell’impulso vitale oscuro e indomabile, dal quale si vedeva circondato nella società di ogni epoca, costituisce la verità della nostra esistenza. Tuttavia egli ha sciolto questa verità dai lacci dell’egoismo e della schiavitù del destino. Tutto il destino esteriore deve essere riferito al compimento della libera volontà individuale. «Diventare sempre più ciò che sono, questa è la mia unica volontà; ogni azione è uno sviluppo particolare di questa unica volontà». «Accada quel che accada»41. Davanti al pensiero di una siffatta volontà scompare il concetto di destino, così che «sofferenza e gioia e ciò che altrimenti il mondo indica come bene e male devono essermi ugualmente benvenuti, poiché ciascuno di essi realizza a proprio modo questo scopo»42. Un esito fortunato dapprima fa emergere, in modo energico e vario, tutto ciò che è in noi di valore, poi però delude e appiattisce l’uomo: se noi, invece, vogliamo il dolore stesso, ci solleviamo oltre l’impulso vitale eudaimonistico. Solo allora comprendiamo la relazione di persona e destino. La volontà e il corso della vita Quinto Monologo Il risultato ultimo della concezione del mondo legata ai sensi è l’illusione della dipendenza dello spirito dal corpo, la rassegnazione dello spirito all’oppressione del corpo che invecchia. Il risultato ultimo del vero idealismo è l’idea che «la coscienza dei grandi, sacri pensieri che lo spirito produce 41 42
Ivi, p. 42. Ivi, p. 44.
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I MONOLOGHI COME ESPOSIZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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da se stesso» non dipende dal corpo, «che il senso per il vero mondo» non «dipende da elementi esteriori»43. Nasce da queste riflessioni il bel pensiero, caratteristico di Schleiermacher, dell’eterna giovinezza44. Giovinezza, come costituzione dello spirito, significa accogliere vivente, che si guarda attorno, spirito attivo, sovrano, serenità senza preoccupazioni. Vecchiaia, al contrario, significa esperienza matura, avvedutezza, calma perfezione. L’ideale morale è la loro unità nello spirito. «Umilia se stesso chi prima vuole essere giovane e poi vecchio, chi prima lascia dominare solo ciò che chiamiamo il senso della giovinezza e poi ne fa semplicemente seguire ciò che gli appare lo spirito della vecchiaia»45. «Un doppio agire dello spirito è ciò che deve essere riunificato in ogni momento»46. La giovinezza è eterna perché l’impulso dello spirito alla conoscenza e al possesso è infinito. «Mai mi parrà di essere vecchio, fino a che non sarò perfetto e non sarò mai perfetto, perché conosco e voglio ciò che devo»47. «Sia già ora nell’animo forte del vecchio la forza che ti permette di mantenere la giovinezza, affinché più tardi la giovinezza ti protegga contro le debolezze della vecchiaia»48. Questo ideale riposava sul particolare carattere di Schleiermacher, e vi trovava la più completa realizzazione. Il suo spirito, armonioso e avveduto, era vecchio negli anni della giovinezza, giovane nella vecchiaia. La canzone della libera volontà individuale termina in questo pieno accordo: «Per la coscienza della libertà interiore e del suo agire germogliano eterna giovinezza e felicità. Questo lo ho appreso e non lo abbandono, così vedo sorridendo scomparire la luce dagli occhi e spuntare i capelli bianchi tra i riccioli biondi. Nulla di ciò che può accadere può opprimermi il cuore; fresco rimane il pulsare della vita interiore fino alla morte»49. Primi effetti dei Monologhi I Monologhi non hanno influenzato le ricerche etiche. La forma nella quale essi esprimevano i pensieri di ampia portata tipici dell’etica produttiva (bildende Ethik) non era adatta a procurare loro un influsso scientifico. Perciò, né le importanti verità presenti in loro incoraggiarono alcun etico dell’epoca, 43 44 45 46 47 48 49
Ivi, p. Ivi, p. Ivi, p. Ibid. Ivi, p. Ibid. Ivi, p.
55. 56. 58. 58. 61.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
né l’unilaterialità, scientificamente insostenibile ed eticamente pericolosa, del loro punto di vista fu sottoposta a un avveduto esame, dal quale Schleiermacher stesso sarebbe stato in grado di trarre insegnamento. È un peccato soprattutto che Herbart, la mente scientifica più acuta e sana tra i filosofi di questo periodo, la cui visione morale è di bellissima originalità, non entrò in rapporto spirituale con Schleiermacher, in un’epoca in cui entrambi erano ancora malleabili. I Monologhi ebbero però presa direttamente nella vita, dapprima in cerchie molto strette, poi sempre più ampie. Per forma ed effetto sono comparabili con l’Enchiridion di Epitteto e le Conversazioni con me stesso di Marco Aurelio, o con quella letteratura di meditazione che è stata, per la storia spirituale del Medioevo, di grandissimo, e non ancora apprezzato, significato. Sono simili agli scritti filosofici di edificazione dell’epoca imperiale romana anche per il fatto che il declino della vita politica e la crisi della società in entrambe le epoche costrinsero l’individuo a basarsi su se stesso e spinsero a cercare nel pensiero morale la liberazione, che uomini di epoche più felici conquistarono nella dedizione alla totalità. Il primo effetto dei Monologhi fu che essi resero maggiormente comprensibile agli amici l’individualità di Schleiermacher. Si dissolsero i contrasti tra lui e Friedrich. Per tre volte di seguito questi lesse il piccolo libro, che per mesi aveva ignorato, nella sua anonimità. Schlegel sollevò un dubbio solo sul punto in cui già aveva già richiamato l’attenzione la sua critica ai Discorsi: l’intuizione etico-religiosa e il creare artistico erano, secondo Schlegel, anche in questo testo, tenuti troppo distanti. La sua critica stilistica non si scandalizzava del suono ritmico, di cui si lamentava Brinkmann, ma insisteva su una maggiore semplicità e naturalezza espressiva, cosicché il rimprovero di Brinkmann alla “artificiosità” dei Monologhi si incontrò con il suo. È indicativo che per il resto, nel circolo degli amici, solo il fisico Ritter accolse l’opera con entusiasmo. Jean Paul «parlò in modo non irragionevole e addirittura affettuoso, in particolare riguardo al passo sulla morte degli amici»; «quello è certo il passo a lui più affine», pensava Schleiermacher, «e quando lo ho scritto pensavo al fatto che lo avrebbe amato»50. Egli fiutava tuttavia, anche in Schleiermacher, il fichtismo contro il quale, proprio allora, conduceva un’appassionata battaglia e si lamentava che nei Monologhi questa tendenza fosse nascosta dietro una lingua che risuonava 50 Cfr. in successione: KGA V, 3, Lettera di Friedrich Schlegel con un’aggiunta di Dorothea Veit, inizio aprile 1800, n. 833, pp. 456 ss.; Br. IV, p. 66: Lettera di Friedrich Schlegel, senza data; Lettera di Friedrich Schlegel, 5 maggio 1800, KGA V, 4, n. 861, p. 20; Lettera a Brinkmann, 27 maggio 1800, KGA V, 4, n. 869, p. 51.
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I MONOLOGHI COME ESPOSIZIONE DEL SUO IDEALE DI VITA
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diversamente. Si vede che non aveva compreso Schleiermacher. Fu una particolare gioia, per Schleiermacher, che la sorella Charlotte si affezionasse ai Monologhi e, attraverso la loro mediazione, divenisse di nuovo e più profondamente cosciente dell’accordo con il fratello. «Ciò che talvolta [nei Monologhi] ti sarà spiacevole è l’orgoglio; solo chi è così orgoglioso può anche essere veramente umile; e penso che questo lo capirai, anche se non è esplicitamente detto». Tra le amiche a Gnadefrei Schleiermacher ottenne allora l’appellativo di “sublime”. Henriette Herz ne ebbe un’indimenticabile impressione, quando Schleiermacher glieli lesse: egli definiva questa lettura una predica rivolta a lei. L’opera consentì di intessere anche nuovi legami, prima di tutto con il giovane predicatore Ehrenfried von Willich e con la cerchia che si formava intorno a questi nell’isola di Rügen. L’effetto dei Monologhi che più doveva onorare Schleiermacher fu il fatto che essi «resero più facile ad alcuni contemplare l’interiorità propria e altrui». «Una gioia può essere, certo, anche se non un guadagno. Poiché ogni uomo trova se stesso attraverso se stesso, tutto il resto è solo un impulso, e, in un momento fortunato, qualsiasi altra persona sarebbe stata d’aiuto»51. Non appena il loro effetto si estese, nacquero però dei fraintendimenti che era necessario allontanare. Schleiermacher scriveva da Halle: «quanto devo ringraziare l’istinto fortunato, che mi ha strappato questa esposizione: il consenso si accresce ancora. Ne derivano, però, anche alcune conseguenze dolorose, ma le voglio sopportare con pazienza. Il libretto, non so come, qui si è propagato tra gli studenti e a ciò posso pensare non senza sofferenza; poiché essi lo attribuiranno alla vuota filosofia delle parole e al misticismo senza contenuto, che iniziano a diventare di moda tra le migliori menti e contro i quali, per quanto posso, lavoro: ma serve a poco». Il fraintendimento più diffuso fu che Schleiermacher si facesse passare per un uomo del tutto compiuto, e che perciò questa opera fosse l’espressione di una specie di culto dell’eticità bella. Con colui che non istruiscono né le spiegazioni proprie di Schleiermacher né la connessione del mondo e della vita, nella quale, in questa esposizione, è stata determinata la posizione dei Monologhi, non si può certo discutere ancora. Il pensiero scientifico fondamentale in essi contenuto fu infine così poco compreso, che l’autore dei Monologhi fu considerato come un semplice seguace della Dottrina dei costumi di Fichte; le recensioni che apparvero potevano solo far ridere Schleiermacher. I limiti di questo pensiero scientifico, a causa dei quali in esso non è accolta l’intera verità dei costumi 51
KGA V, 6, Lettera a Charlotte von Kathen, 10 agosto 1803, n. 1526, pp. 438-439.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
religiosi e della fondazione filosofica della morale e della società, apparvero a Schleiermacher solo con il tempo, attraverso esperienza e studio. Nessun contemporaneo avrebbe potuto aiutarlo52. Venne il tempo in cui a Schleiermacher, che, rimasto solo, sembrava aver salvato solo se stesso dal naufragio di tutti i suoi desideri, questa opera, risalente a giorni felici, restituì l’ideale di vita che aveva allora portato a coscienza, rinforzando nuovamente la sua volontà. «Lei mi ha spinto, dopo lungo tempo», scriveva da Stolp nel 1803 a Charlotte von Kathen, «a considerare di nuovo me stesso in questo specchio, e sono spaventato di trovarmi così indebolito e sfigurato dal dolore per il breve tempo in cui ho sentito la mancanza di tutti gli amici. Ho avuto il coraggio di non perdermi del tutto». Allora nacque il sonetto che può esprimere una volta ancora l’intuizione dei Monologhi: «Un’immagine sacra aleggia per ogni migliore / Nei suoi tratti cerca di formarsi / Solo chi spiega deciso le forze / si solleva alla moralità. / Ecco, mostro ciò che mi appartiene agli amici, / che vedano e giudichino / Come mantenere tale direzione dello spirito / E di tali toni emotivi fare un coro / Spero di giungere vicino al bel fine / Con coraggio audace presi l’amore per mano / Per sollevarmi con lui alle pure altezze / Ora il cuore è afflitto da amara pena, / In duro esilio nel deserto senza amore / Poco mi riuscirà tra le lacrime».
52
KGA V, 4, Lettera a Brinkmann, 27 maggio 1800, n. 869, pp. 50 ss.
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IL DESTINO DEI NUOVI IDEALI MORALI NELLA VITA
Spinto dalla felicità, Schleiermacher aveva iniziato i Discorsi. Era ancora occupato con questi quando si svilupparono, dalla libera pienezza della vita che lo circondava, passioni e conflitti fatali, che dovevano gradualmente distruggere questa felicità, e determinare, insieme agli effetti immediati dei Discorsi, il suo futuro. Il fermento nelle concezioni morali della nostra nazione, che verso la fine del secolo raggiunse l’apice, e la trasformazione della società berlinese da esso provocata sono stati già esposti. Le relazioni che ne nacquero, fondate sui diritti della passione e del genio, fecero aumentare, per un certo periodo, il sentimento vitale e la forza creativa della giovane generazione: in essi erano presenti, però, mille semi di effetti distruttivi, che vediamo spuntare proprio allora. A chi è concesso abbracciare con lo sguardo almeno una cospicua parte dei decisivi scambi epistolari di quest’epoca nella loro forma originaria, non censurata, può scorgere, nei diversi gruppi che componevano la società berlinese, gli stessi effetti negativi prodotti da una soggettività senza vincoli. Io sono contrario a pubblicare notizie e a dare giudizi sulle relazioni personali che stavano allora nascendo. Sarebbe altrimenti facile schizzare immagini penose, addirittura impressionanti, della cerchia di Rahel, di quella di Bernhardi, di Sophie e Ludwig Tieck, di quella di Wilhelm, Caroline Schlegel, Schelling. Tuttavia, uno di questi episodi svolge un ruolo di primo piano nella nostra storia e non può rimanere nascosto: si tratta della relazione di Friedrich Schlegel con Dorothea Veit. Proprio questo episodio è stato dato in pasto al pubblico, e ciò che si è diffuso su di esso va molto oltre la realtà dei fatti stessi. In esso, agli occhi di Schleiermacher, giunse a compimento il destino di questo modo di pensare, che insiste sui diritti del genio e della passione; nello svolgersi di questa vicenda Schleiermacher iniziò la battaglia
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
con l’opinione pubblica, con la conseguenza di queste situazioni, con l’elemento fatale presente nell’anima del suo amico, senza poter impedirne l’esito tragico; e nelle condizioni che così si formarono, la sua grande concezione morale dell’amicizia superò vittoriosa la prova più difficile. Un secondo episodio è costituito dalle peripezie della sua vita, dalla sua relazione con Eleonore Grunow, nella quale veniva combattuta la battaglia tra il nobile, libero ideale di vita, che egli aveva creato, e le grandi massime della religione e della società. La vita stessa decise contro la validità incondizionata del suo pensiero morale riformatore, e da quando Schleiermacher cominciò a valutare l’esito di questa battaglia, che emerse solo molto più tardi, nacque per lui il compito di scoprire la vera relazione di questo pensiero con le massime vigenti del mondo morale. Queste due vicende condussero alla svolta della sua vita e segnarono, per così dire, il suo destino interiore. Henriette Herz racconta come, nella cerchia delle giovani donne nella quale era cresciuta, una fosse superiore a tutte le altre per spirito, conoscenza, immaginazione impetuosa: Dorothea, la figlia di Moses Mendelssohn. Ordine rigoroso, pensiero chiaro e sobrio, una bella vita familiare, la più nobile ospitalità e un’importante e colta cerchia sociale la circondavano nella casa di suo padre, in schiette relazioni, in mezzo ai cinque fratelli. Tutte le forze della sua ricca natura furono incitate, in questo ambiente, a svilupparsi, ma Dorothea, pur in questa atmosfera illuminata, era spinta di nuovo in se stessa: presero forma in lei entusiasmo e una decisa indipendenza, che trovarono tra le sue amiche sufficiente nutrimento. «Il mio destino», esclamava più tardi con dolore, «fu, da sempre, quello di dovermi torturare nella disarmonia, che mi è innata e che mai mi abbandonerà»1. Suo padre deve aver avuto ben poca conoscenza di questa vita interiore, dal momento che, senza chiedere il suo parere, la sposò con il banchiere Veit, il cui carattere aristocratico non si era ancora formato e la cui educazione limitata e l’essenza insulsa ripugnavano Dorothea. Apparentemente circondata dalla felicità, ella si consumava, in realtà, in questa relazione. Tuttavia quando Henriette Herz le parlò della possibilità di separarsi dal marito, Dorothea rifiutò con decisione questo pensiero per amore del padre. Allora incontrò Friedrich Schlegel, proprio dopo il suo arrivo a Berlino nell’estate del 1797. Si poteva ben vedere che il legame spirituale, che nacque subito tra i due, avrebbe preso una piega più passionale di quello tra Schleiermacher e Henriette Herz, tra Schiller e Caroline Wolzogen. Dorothea si diede, con l’esclusiva e tempestosa intensità che le era propria, alla speranza di dare pace a questa natura inquieta, mai soddisfatta di nessuna condizione e mai 1
KGA V, 6, Lettera di Dorothea Veit, prima del 5 maggio 1803, n. 1488, pp. 359-360.
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IL DESTINO DEI NUOVI IDEALI MORALI NELLA VITA
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appagata: il miraggio di tale possibilità illude sempre proprio le donne più nobili! Schlegel, da parte sua, trovò qui, dopo il logoramento degli anni giovanili, per la prima volta nella sua vita, una donna nobile, di animo profondo, spiritualmente molto dotata, che gli si concedeva con tutta l’anima. Di questo necessitava una natura come quella di Schlegel, tanto bisognosa d’amore quanto incapace di una vera dedizione; il suo desiderio – è triste da ammettere – addirittura la sua ambizione avrebbero trovato soddisfazione se questa donna si fosse decisa a unire il proprio destino al suo. Accadde ciò che sorprese dolorosamente anche gli amici più intimi. Quando, già nell’autunno del 1798, incombeva la separazione da Veit, anche Caroline Schlegel si era adoperata con zelo per evitare la rottura. Henriette Herz e Schleiermacher, profondamente presi da questi avvenimenti e d’accordo con il giudizio di Caroline, avevano tentato, con tutte le forze, di trovare un compromesso e riportare un po’ d’ordine. Tutto invano. A metà dicembre del 1798 Dorothea lasciò la casa del marito. Dorothea si era messa così nella situazione più penosa, che ledeva gravemente i costumi. Viste le relazioni e le leggi sull’unione tra ebrei e cristiani, non c’era per il momento da pensare al matrimonio. Dorothea avrebbe dovuto convertirsi al Cristianesimo, ma ripugnava alla figlia di Mendelssohn fare un tale passo contro la propria coscienza. Inoltre era ancora in vita sua madre, che ne avrebbe avuto un grandissimo dolore. Si sarebbe dovuta separare da un figlio, Philippe Veit, il futuro famoso pittore, che Veit le lasciò, e avrebbe dovuto rinunciare a ogni influsso sull’altro: e ciò lo desiderava ancor meno. Così andò ad abitare in un’abitazione isolata in una parte allora molto lontana della città, in Ziegelstrasse, mentre veniva chiusa la pratica di separazione. Il fatto provocò naturalmente a Berlino il più grande scalpore. Pochi amici le rimasero vicino; non potevano approvare ciò che aveva fatto, ma conoscevano le sue motivazioni e la sostennero. Henriette Herz chiarì a suo marito, che spingeva per interrompere la sua frequentazione con Dorothea, di non poter abbandonare la sua vecchia, cara amica in questa condizione. Anche Rahel si mostrò fedele. Schleiermacher fu disponibile, per quanti dubbi ciò dovesse suscitare, vista la sua condizione di predicatore. Ogni giorno mangiava con Schlegel dall’amica, e così faceva Fichte, da quando si era trasferito a Berlino. Quando la possibilità di un matrimonio fu rinviata, Dorothea accettò l’invito di Caroline Schlegel a Jena. Le motivazioni che guidarono Friedrich e Dorothea nel corso di questa faccenda erano molto diverse: il ricordo di Dorothea e la partecipazione di Schleiermacher richiedono di esporli chiaramente. I motivi di Friedrich Schlegel devono sottostare a un’incondizionata, severa condanna. Viene alla luce, in questo frangente, la doppiezza del suo
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
carattere, che fin dagli anni giovanili, in modo irrefrenabile, nutriva solo gran desiderio di riconoscimento, di gloria, del pieno spiegamento e godimento di tutte le forze e, sempre in conflitto con la vita, era pronto a utilizzare tutto e tutti come mezzi per raggiungere questi scopi. Per un periodo Schleiermacher e Fichte videro solo i suoi scopi oggettivi e la sua lotta per raggiungerli, e così egli strappò all’uno l’amicizia e all’altro stima e partecipazione. «Schlegel», scrisse Fichte a Reinhold dopo lunga e intima frequentazione, «è un uomo profondamente serio, instancabile nel tendere al meglio»2. Ma in quest’occasione, soprattutto nelle sue lettere a Caroline, alla quale egli si dava per lo più senza pudore vista la somiglianza dei caratteri, riemergono improvvisamente, lampanti, la disonestà e l’egoismo di questa natura, celati dietro questi grandi scopi oggettivi, ed è spaventoso ritrovare immutato, non scalfito dall’occupazione con idee più alte, né dall’amicizia con gli uomini più nobili, il medesimo carattere dal quale, in gioventù, era provenuto quell’intrico di passioni che abbiamo visto. In una lettera del 27 novembre, poco prima della separazione di Dorothea da Veit, emerge lo stato d’animo nel quale egli accetta il grandissimo sacrificio che una moglie può portare. «Unirci civilmente non è mai stata veramente nostra intenzione, benché io da lungo tempo non ritenga possibile che ci separi null’altro che la morte. Si oppone del tutto al mio sentimento bilanciare e calcolare presente e futuro e se l’odiata cerimonia fosse l’unica condizione per tale inseparabilità, io agirei secondo l’imperativo del momento e annienterei le mie idee più care. A prescindere da tutto ciò, la differenza di età sarebbe per me un motivo sufficiente per essere contrario al matrimonio. Ora che siamo entrambi giovani non importa che Dorothea sia sette anni più vecchia di me»3. Mi ripugna guardare più a fondo in questo mescolarsi di ridicolo odio contro il matrimonio religioso e di misero egoismo della sensualità. Schlegel vuole possedere senza limitare se stesso. Dalla fama, dall’onore, dalla pace interiore della donna che ama, vuole costruirsi una felicità che crede di poter poi utilizzare per scrivere i suoi libri. «Si rallegri», scrive a Caroline quando tutto era compiuto, «del fatto che la mia vita ora ha fondamenta e terreno, centro e forma. Adesso possono accadere cose straordinarie»4. Una giusta ricompensa distrusse, come per gioco, le sue illusioni; proprio dopo aver fatto questo passo la sua vita dovette diventare instabile. È un compito insolubile conciliare, nel modo di comportarsi di Dorothea, mentalità e costumi di quest’epoca e di questa cerchia, moralità indi2
K.L. Reinholds Leben und literarische Werke, a cura di Ernst Reinhold, 1825, p. 220. Waitz I, pp. 478 ss. 4 Waitz I, p. 483. 3
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IL DESTINO DEI NUOVI IDEALI MORALI NELLA VITA
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viduale e inviolabile imperativo dell’ordine morale superiore a ogni destino personale. Non c’erano sicuramente allora giudici delle motivazioni morali di rigore più severo di Fichte. Nei confronti della natura appassionatamente aperta di Dorothea era sicuramente impossibile un errore che ebbe luogo invece nei confronti di Schlegel. E Fichte affidò Dorothea, quando questa andò a Jena, a sua moglie con le seguenti parole: «la lode di un’ebrea può risuonare singolare nella mia bocca. Ma questa donna mi ha tolto l’idea che da questa nazione non possa venire nulla di buono. Ella possiede molto spirito e conoscenza, con poco, o addirittura nessun ornamento esteriore, è assolutamente senza pretenziosità ed è molto generosa. Lentamente la si apprezza, ma poi la si ama di cuore. Non è sposata con Friedrich Schlegel e non lo sarà mai, ma ella si prende cura di lui con una toccante dolcezza e ritengo questa scelta la più grande fortuna per Schlegel»5. Proprio così ci appare Dorothea, anche oggi, dalle lettere, che rispecchiano, con grande espressività, la sua vita interiore. I rilassati costumi del tempo ripugnavano al suo animo serio, sviluppato in una bella vita familiare. Non sarebbe stata capace di alcun inganno. Durante il matrimonio si era mantenuta fedele al marito. Quando, nella cerchia in cui viveva, imparò a considerare come un pregiudizio anche l’intangibilità dell’ordine sociale, nel quale la moralità individuale ha la sua esistenza oggettiva e vera, quando i suoi solidi concetti morali si confusero nonostante la sua nobile volontà (una fatalità, in cui si sono facilmente smarrite, in una società decaduta, proprio le nature genuine e curiose: all’uomo, insieme alla forza di accrescere la condizione morale della società attraverso una giustificata convinzione personale, è dato anche il destino di poterla distruggere fatalmente attraverso i suoi errori), quando ella osò seguire soltanto il suo cuore che la conduceva all’errore, allora sacrificò, consapevolmente, fama, benessere, serenità, addirittura la tranquillità interiore, al sogno ingannevole di dare pace all’uomo che amava. E ciò non accadde senza che il suo sentimento femminile ne soffrisse profondamente e nel modo più doloroso. «Ancora», scriveva dopo che conobbe Fichte, «ho una certa paura di lui [Fichte], ma non dipende da lui, bensì dalla mia relazione con Friedrich – temo –, ma forse mi sbaglio»6. Viveva una strana contraddizione, che però, ai suoi occhi, non era tale: mentre trasgrediva i costumi, le sue parole esprimono il più bel senso della famiglia. Si avvicinava a Wilhelm e Caroline con la serietà dell’amicizia fraterna e vedeva spiritualmente unita, in un’unica famiglia, la cerchia che coltivava idee simili. Credeva che da queste ferite si sarebbe sviluppato un superiore 5 6
Fichtes Leben, I, 18622, p. 322. Waitz, I, p. 545.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
ordine morale. E anche in questo aspetto si differenziava da tutte le altre donne molto discusse di quest’epoca, e ancor di più da Friedrich stesso! Che privazioni e fatiche fossero inevitabili sulla strada che aveva scelto, la rendeva sicura e serena. Scriveva per guadagnare soldi per Friedrich, e mai è più degna di amore di quando parla di questi lavori. Essa compose così traduzioni, descrizioni di dipinti, la prima parte del romanzo Florentin, che non riuscì proseguire a causa della sua salute cagionevole. È stato giustamente sottolineato che questo racconto appartiene al meglio «prodotto dal romanticismo nel campo della novellistica»7. Circondata da preoccupazioni, seppe ornare questo racconto con lo spirito della più chiara, della più bella gioia di vivere. Natura di inclinazione artistica molto più immediata di Friedrich, Dorothea si sentiva in confronto a lui solo una “artigiana”. «Ciò che so fare sta in questi limiti: dargli pace e, con umiltà, procurargli il pane come un’artigiana, fino a che egli non ne sarà in grado. Mi sono onestamente decisa a ciò»8. Così da Berlino, da Parigi, da lì a Colonia, da Colonia a Vienna, dalle convinzioni della giovane scuola a quelle del cattolicesimo, Dorothea ha condiviso con Schlegel necessità, delusioni e lotta incessante; di fronte al giudizio del mondo ebbe presto, però, la sensazione che il suo sacrificio fosse inutile, sensazione accompagnata dal profondo dolore per la natura di Friedrich, che gradualmente le si svelò. C’era qualcosa di eroico in lei. Quando tutto falliva, non trovava in Schlegel la causa, no: piuttosto, affermava, «si è saldata in me la convinzione che io lo impedisco nel progredire; credo che dopo la mia morte per Friedrich andrà tutto bene»9. Se si guarda il comportamento di Schleiermacher in queste complicate faccende, si rimane stupiti del suo nobile e coerente carattere. Ogni sua concezione morale non è mai solo pensiero, bensì anche sempre azione; ogni parola e ogni azione sono compenetrate e, per così dire, saziate dalle idee che lo sostenevano. Schleiermacher è veramente un pensatore pratico al modo degli antichi, in lui pensiero e azione prendono un’unica forma dai contorni netti. Perciò è una gioia vederlo agire. Anche le debolezze insite nelle sue virtù si attenuano, senza quell’astuzia della natura, che di solito nasconde il lato debole di un carattere a spese della sua grande connessione. Già le persone che frequentava allora si stupivano talvolta, e si spaventavano, per l’audacia e la cecità del suo idealismo. Questo accadde in primo luogo in relazione al suo atteggiamento verso Friedrich Schlegel, 7
Julian Schmidt, Literaturgeschichte, 2, p. 222. KGA V, 3, Lettera di Dorothea, 14 febbraio 1800, n. 795, p. 390. 9 KGAV, 6, Lettera di Dorothea, prima del 5 maggio 1803, cit., p. 360. 8
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che è in effetti l’espressione cosciente del suo generoso e unilaterale modo di accogliere gli uomini. Egli disapprovò e deplorò fin dall’inizio ciò che era accaduto. Per un periodo, in seguito a questi fatti, fu di «umore così oppresso» che non era in grado di scrivere nessuna parola sensata alla sorella. Inutilmente cercò, insieme a Henriette Herz, di aggiustare la situazione e di evitarla. È sicuro che Friedrich non gli espose mai chiaramente i propri motivi, come aveva fatto con Caroline. Friedrich Schlegel apparteneva agli uomini che hanno molte facce diverse per i diversi amici. In queste circostanze, però, le differenze tra loro furono così radicali che, per tutto quell’inverno fatale, vissero insieme solo esteriormente, parlandosi in modo superficiale. Con altrettanta decisione e schiettezza, Schleiermacher deplorò l’ulteriore passo che Friedrich faceva su questa strada che scivolava verso il basso, quando questi iniziò ad esporre nella sua Lucinda, nella trasparente veste della poesia, la sua relazione con Dorothea. Con una pungente ma appropriata espressione egli la definì, di fronte a Schlegel, una «esposizione pubblica»10. Quando né il romanzo dissoluto né la sua ancor più dissoluta esposizione erano più salvabili dalla sventura, Schleiermacher spinse con risolutezza all’unica decisione che rimaneva: il matrimonio tra Friedrich e Dorothea. Friedrich stesso aveva ripreso, nel frattempo, un atteggiamento più nobile e più saldo, e desiderava urgentemente sposarsi. Dorothea si rivolse con questo desiderio all’amico, presso il quale cercava così volentieri consolazione e consiglio per le sue «importantissime vicende»11. «Lei ritiene», gli scrive l’11 aprile del 1800, che «non avrebbe nessun riguardo per i miei motivi di non farmi battezzare e sposare. Perchè? Se anche l’intenzione di avere almeno ancora un mediato influsso sull’educazione dei miei bambini non meritasse nessuna considerazione, non so in che altro modo potrei ottenerla altrimenti da Lei, in particolare poiché io nego a me stessa una tale felicità, semplicemente per questa intenzione. Anche con Lei e con i nostri migliori amici saremmo probabilmente più uniti se ciò accadesse; sono tutti favorevoli. Se dunque Lei ritiene ciò la cosa giusta e, nella nostra condizione, la migliore, allora che accada. Ma solo a patto che Lei sbrighi entrambe le faccende, perché è necessario in ciò il più stretto segreto, che deve essere svelato solo a suo tempo. Fichte e Alexander Dohna li considero, insieme a Lei, come i miei migliori amici, e a loro può raccontare tutto e riflettere con loro su come ciò possa essere organizzato al meglio. Voi tutti vi trovereste certo meglio con noi, se noi fossimo sposati; anche Hardenberg e 10 11
KGA V, 3, Lettera di Friedrich Schlegel e Dorothea Veit, 14 aprile 1799, n. 628, p. 88. KGA V, 4, Lettera di Dorothea, 28 aprile 1800, n. 854, p. 9.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
Charlotte; chi non farà, per amore di tali amici, ciò che forse, altrimenti, non avrebbe fatto?»12. «I suoi motivi contro la segretezza», scrive subito dopo, «sono convincenti; essa fu subito anche per me paurosa, e solo per paura ci pensavo»13. In seguito non si trova più nessuna parola sulla questione. Anche in questo caso Schleiermacher dovette rinunciare in silenzio a vedere i suoi amici comportarsi secondo le sue convinzioni. La vita cominciò a dare il suo ammaestramento. Schleiermacher esperì la totale mancanza di forza dell’idealismo e delle sue pretese nei confronti delle passioni e della loro dialettica, quando esso si separa dai grandi principi della religione e della società e contrappone agli affetti la propria personale visione. Sono necessarie massime semplici, generali, radicali per dominare la vita; principi che si rivolgono a principi, attendendo da quelli la decisione, sono, nei confronti degli errori degli uomini e all’impulso irrefrenabile della loro volontà, come la parola di un filosofo in mezzo alla massa infuriata del popolo. Può inabitare questo idealismo un mirabile potere di trasformare e rendere profondo il singolo animo, e dopo Socrate nessun pensatore, nemmeno Spinoza o Kant, ha esercitato nel proprio ambiente una forza simile a quella che Schleiermacher esercitò sui suoi amici. Egli esperì proprio allora che la sua visione era insufficiente a regolare la vita secondo le nuove necessità. Ciononostante Schleiermacher non voltò le spalle agli amici, per quanto il loro comportamento si allontanasse dalle sue idee morali. In queste idee, nel suo carattere formato su di esse, era radicato piuttosto il fatto che egli, una volta convinto del nucleo puro del loro volere, difendesse le azioni degli amici dagli attacchi del mondo con la sua persona e con il suo valore morale, che egli cercasse di dare al loro destino, attraverso qualsiasi sacrificio fosse in suo potere, una svolta positiva. A Schleiermacher, con il suo piccolo guadagno, che in parte andava alla sorella, si rivolgeva Dorothea piena di fiducia, con la richiesta di aiutare insieme a lei Friedrich ancora per qualche anno, finché non si fosse trovato in un’altra condizione. Solo Schleiermacher, tra tutti gli amici di Schlegel, dei quali alcuni erano effettivamente vicini alla concezione etica della Lucinda, a differenza di Schleiermacher, si assunse il compito, nelle Lettere sulla Lucinda, di interpretare il pensiero dell’amico e di comunicarlo al mondo. Facendo questo, metteva a repentaglio la propria esistenza. Per le sue mani passarono le numerose, spiacevoli occupazioni da sbrigare per i due amici quando questi lasciarono Berlino. È indicibilmente penoso vedere, anche solo nello scambio epistolare, tutte le miserie nelle 12 13
KGA V, 3, Lettera di Dorothea, 11 aprile 1800, n. 840, pp. 467 ss. KGA V, 4, Lettera di Dorothea, 28 aprile 1800, n. 854, p. 9.
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IL DESTINO DEI NUOVI IDEALI MORALI NELLA VITA
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quali egli fu coinvolto. «Amico mio», gli scrive una volta Dorothea, «mi vergogno di darLe così tanto da fare e da pensare per me, in che modo potrò ripagarla? Quando potrò darle una pura gioia con le mie lettere? Senza incarichi, commissioni, preoccupazioni? Cosa dirà di questa lettera così lunga e piena di chiacchiere? Oggi, con queste preoccupazioni concrete, non potevo in nessun modo aggirarmi libera e spavalda nel romanzo, così mi sono decisa, per non cadere nella sciocca malinconia, di scriverLe molto, di chiacchierare con Lei, si può dire. Siedo ora sul Suo sofà giallo, con i piedi comodamente sollevati, Lei siede vicino a me e scherziamo e ridiamo delle mie preoccupazioni e del mio viso afflitto! Friedrich ci guarda e pensa a ciò che diciamo, ma con un’espressione così profonda che si potrebbe giurare che pensi alla nuova mitologia»14. Cosa più difficile di tutte, egli mantenne fede alla sua amicizia verso Friedrich, pur nella differenza così profonda di opinioni e nei dolorosi attriti a essa dovuti. Questa amicizia ottenne allora un carattere completamente diverso. Il comportamento di Friedrich distrusse radicalmente l’antico perfetto accordo. Già nell’estate del 1799 si profilava una rottura. Era la seconda metà di giugno; avevano mangiato insieme da Dorothea, passeggiavano per Bellevue e lì ebbero un «mirabile colloquio», nel quale, come suole accadere in tali colloqui, «probabilmente non si capirono»15. Friedrich cercava, per la sua critica ai Discorsi, il «punto centrale» della natura di Schleiermacher e su questo non potevano naturalmente andare d’accordo. Per quanto poco significativa fosse, quest’occasione portò alla reciproca dichiarazione che non si comprendevano più. Schleiermacher scrisse alla Herz: «egli non comprende neppure il mio legame con lui e non interpreta correttamente la mia remissività e la mia rispettosa indulgenza, per la quale mi privo di molte cose»16. Mentre ancora attendeva il momento favorevole per parlare all’amico, già preoccupato che l’irruenza e l’impazienza di quello ingarbugliassero tutto, giunse da questi un «addio, che gli aleggiava già da mesi sulle labbra»17. Proprio in questo periodo iniziò la stretta amicizia di Friedrich con Fichte e l’illusione che egli si fece sul loro rapporto, e ciò lo dovette allontanare ancor di più da Schleiermacher18. Così si separarono, senza più chiarirsi, quando Friedrich si trasferì a Jena. Al tentativo da parte di Schleiermacher, in una delle prime lettere, di avere un confronto conciliatorio, Schlegel 14
KGA V, 3, Lettera di Dorothea, 14 febbraio 1800, n. 795, p. 392. Ivi, Lettera a Henriette Herz, 18 giugno 1799, n. 661, p. 124. 16 Ivi, Lettera a Henriette Herz, 1 luglio 1799, n. 668, pp. 135-136. 17 Ivi, Lettera di Friedrich Schlegel, senza data (prima del 3 luglio), n. 670, p. 139. 18 Nel Fichte’s Leben, del figlio di Fichte, e nello scambio epistolare con Reinhold, si trova la serie di giudizi di Fichte su Friedrich Schlegel, che non possiamo qui valutare. 15
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
scrisse molto amaramente: «credi che i fiori spezzati ricrescano attraverso la dialettica?»19. Una natura meno riflessiva e nobile avrebbe, a quel punto, abbandonato sicuramente Friedrich al suo destino. La stessa cosa avrebbe fatto una natura più dedita al proprio volere e incline a valutare in modo oggettivo i caratteri. La visione ideale del mondo morale tipica di Schleiermacher, che amava custodire l’immagine originaria che ogni uomo è destinato a realizzare, superò la prova. Egli vide quanto di questo comportamento irruento e scortese di Friedrich fosse radicato nelle battaglie dolorose e nelle delusioni di quell’epoca. Confessava Friedrich allora a Caroline: «sono finito in una situazione completamente rivoluzionaria. Tutti i piani sono per me naufragati»20. Perciò Schleiermacher lo perdonò. L’aperta fiducia di Dorothea, anche riguardo a Friedrich, mediò tra di loro. «Caro amico», gli scriveva il 28 ottobre del 1799 da Jena, «siate buono verso Friedrich; poiché nessuno è torturato come lui dal proprio insuccesso. Non ne posso parlare molto; non so neppure cosa succederà». «È terribile che le preoccupazioni lo impediscano nel lavoro invece di spronarlo»21. Dorothea vede chiaramente che non era nato per diventare scrittore e sogna il tempo in cui troverà un’altra strada. «Subito, subito, cielo! prima che sia per noi troppo tardi!». Nei sentimenti di Schleiermacher per il vecchio compagno e amico cominciarono a dominare da allora una profonda compassione, un dolore per la corruzione, dovuta alle condizioni, della sua ricca e dotata natura, il presentimento di una fine tragica. Ci sono nature di così profonda forza di sentimenti, di una tale irruenza espressiva, che assorbono in un certo modo coloro che si trovano dappresso, trascinandoli per così dire nel loro destino e nelle loro passioni, come se fossero del tutto senza volontà; una siffatta natura era quella di Friedrich. Nessuno, che gli si avvicinasse, poteva difendersi del tutto da queste violente pretese della sua natura, occupata senza tregua con se stessa. Sicuramente stava proprio in ciò, per la natura calma di Schleiermacher, un fascino che lo teneva legato a Friedrich. Ma, vista la sua grandiosa concezione morale, il destino dell’amico non lo toccava solo per la violenza naturale della compassione. Egli amava in Schlegel l’ideale, e lo vedeva, con profondo dolore, rovinato e spezzato dal destino. Considerava compito della sua amicizia l’essere “mediatore” tra Friedrich e il mondo, con il quale questi era ormai così profondamente in rotta. L’indole fedele di Schleiermacher onorava inoltre il loro passato comune. Scrisse allora nel suo diario: «la fedeltà storica che solo si relaziona al passato è elegiaca e 19
KGA V, 3, Lettera di Friedrich Schlgel, prima del 6 ottobre 1799, n. 708, p. 208. Waitz, I, p. 538. 21 KGA V, 3, Lettera di Dorothea, 28 ottobre 1799, n. 714, p. 222. 20
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IL DESTINO DEI NUOVI IDEALI MORALI NELLA VITA
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con il tempo possibile non senza sforzi eroici. Ne esiste anche una profetica, che è più pratica». Di questo tipo era la sua fedeltà; egli combatteva con il destino e con il futuro, affinché concedessero all’amico la perfezione dell’ideale, che vedeva già di fronte a sé spiritualmente. «Nature genuinamente poetiche», aggiungeva con ironia, «si costruiscono come oggetto della fedeltà un’immagine sostitutiva»: Schleiermacher si sentiva sicuro di fronte al pericolo del suo idealismo, nel quale gli amici lo credevano caduto. A Eleonore riassumeva così la sua relazione con Friedrich: «ho riconosciuto il punto centrale dell’intera sua essenza, del suo intero poetare e sforzarsi come qualcosa di molto grande, raro e in senso stretto bello. So come si connette in modo molto naturale a ciò e al suo conflitto con il mondo, che non muta senza distruzione di una parte, tutto ciò che appare in lui manchevole, contraddittorio e ingiusto; devo e posso dunque, nei confronti di queste cose, essere molto più paziente di altri, poiché le comprendo meglio; non posso che amare l’ideale che sta in lui, anche se ancora non so se esso non sarà distrutto prima che egli lo abbia portato a una certa armonica rappresentazione nella propria vita e nelle proprie opere; mi oscilla sempre davanti, però, la grande e sublime immagine della sua serena realizzazione. Come potrei dunque avere per lui altro se non l’amicizia che ho? Se posso, leverò ogni pietra dal suo cammino, comprenderò tutti i suoi progetti con amore e partecipazione, gli darò tutte le mie forze per la loro realizzazione, nella misura in cui ne ha bisogno, e lo lascerò specchiare talvolta, con prudenza, nell’immagine di lui che è schizzata dentro di me»22. Che contrasto tra la relazione di Schleiermacher con Eleonore Grunow, la sua storia e il suo esito e quella di Schlegel e Dorothea! Eppure, anche in questa relazione, si rispecchiavano, in una forma di gran lunga più pura e più profonda, le nuove idee morali e la loro battaglia contro i principi dominanti sostenuti dalla religione, dalla società, dall’opinione pubblica. Ma il teatro di questa battaglia non era costituito dalle condizioni che si contrapponevano al diritto della passione, bensì da un animo che valutava in sé il nuovo e il vecchio. Il suo epilogo è la rassegnazione. Eleonore Grunow era la moglie di un predicatore berlinese. Così Schleiermacher racconta alla sorella la storia di questo matrimonio: «è un amore nato ancora nell’infanzia, quando Eleonore aveva dodici anni e lui quindici. Quando lui tornò dall’università, ella vide quanto poco fosse adatto a lei, quanto poco amore e quanta poca gioia avrebbe potuto attendersi da lui, ma credette di non dovervi prestare attenzione a causa di concetti esagerati 22 KGA V, 6, Lettera a Eleonore Grunow, 10 settembre-11 settembre 1802, n. 1336, pp. 138-139.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
di ciò che è la fedeltà. Già allora, come oggi, Grunow la torturava con la sua mancanza di amore, con i suoi umori insopportabili e con la sua totale mancanza di carattere, addirittura di ordine e regolarità nelle cose esteriori. Tuttavia Eleonore lo sposò, appena egli fu sistemato, poiché egli non voleva riconoscere che non era il caso, e crede ancora adesso che sia un dovere di Eleonore sopportare, finché è possibile sopportare. Non va certo in rovina, in questa situazione, il suo animo, che ha troppa energia, ma il suo corpo; tutto il dolore si consuma nell’intimo e la sua salute peggiora ogni anno. Questa è una donna che potrebbe fare così felice l’uomo intelligente che la sapesse apprezzare, che ne conosco appena un paio. Non esco quasi mai dalla loro casa senza trattenere le lacrime»23. Ho appreso dalla bocca di una donna sincera, di pensiero serio e nobile, la conferma che Grunow era moralmente e intellettualmente indegno della moglie e che la sorte di Eleonore era difficilmente sopportabile. Schleiermacher l’aveva conosciuta già durante il primo periodo del suo soggiorno berlinese, proprio tramite le relazioni dei suoi parenti con la famiglia. La trovò circondata da uomini mediocri, dei quali si accontentava, per la sua grande necessità di esprimersi, esattamente come accadeva allora. Il calore della sua natura, la sua allegria erompevano anche nella situazione più opprimente, in umori mutevoli. Non era facile riconoscere la sua vera essenza. Schleiermacher le ricordava più tardi come si erano trovati: «sa con cosa vorrei paragonarla? Con un magnete, che è completamente ricoperto di una limatura di ferro, poiché non ha trovato nessun saldo pezzo di ferro. Se gliene si avvicina uno, non lo può riconoscere, così circondato come è, bensì al massimo lo può presentire: è necessaria allora una presa vigorosa che lo ripulisca della limatura. Quando pensai: “bisogna fare qualcosa di questa donna”, non avevo ancora trovato la Sua più intima essenza, poiché questa semplicemente è e non ha bisogno di null’altro perché ne sia fatto qualcosa: avevo invece trovato solo il Suo intelletto, e Lei sa che l’intelletto da solo non mi appassiona molto dal punto di vista personale. Non potevo trovarla diversamente da come la ho trovata, cioè mediante una rivelazione dell’amore. E cosa avrebbe fatto poi senza quella con la mia fiducia? Non ha trovato anche Lei la mia interiorità solo dopo questa rivelazione e attraverso essa? Non si atteneva, prima di questa rivelazione, anche Lei solo al mio intelletto o al mio spirito, se vuole, e, diciamo, al mio modo di vedere il mondo? E saremmo andati su questa strada molto più in là delle comunicazioni del nostro intelletto?»24. Grazie all’amicizia di Schleiermacher 23 24
KGA V, 4, Lettera alla sorella, 28 luglio 1800, n. 917, p. 172. KGA V, 6, Lettera a Eleonore Grunow, 21 giugno 1802, n. 1260, p. 17.
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IL DESTINO DEI NUOVI IDEALI MORALI NELLA VITA
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nasceva per Eleonore una nuova vita. Ella confessò che la cosa più bella che possedeva, la sua pace interiore, era opera di lui; egli però, simile anche in questo al Socrate platonico e alla sua semplice arte maieutica, desiderava anche nei confronti di Eleonore un’unica gloria, quella di averla aiutata a vedere più profondamente in se stessa e ad aver portato a coscienza il suo contenuto indipendente dal mondo. Null’altro che le lettere di Schleiermacher rivolte alla Grunow e le poche parole della stessa Eleonore ci sono rimaste per comprendere come si sviluppava allora la sua natura. Tuttavia queste poche testimonianze ci offrono la più alta comprensione di Eleonore. Queste sono le uniche lettere di Schleiermacher a una donna, nelle quali egli si esprime del tutto senza condiscendenza, in un libero, potente movimento della sua intera natura. Il velo del sentimentalismo e il tratto della donna di mondo che molto sa e molto vede, presenti nella Herz, danno alle sue lettere a Henriette una certa colorazione e un certo limite che non gli appartengono. Nelle lettere alla sua futura moglie si sente la barriera che la differenza di educazione impone alla comunicazione. Dalle poche lettere a Eleonore si potrebbe sviluppare l’idea globale di tutta la sua aspirazione. A questi fatti segue la sua confessione: «tra tutte le anime che mi hanno entusiasmato e hanno contribuito al mio sviluppo nessuna è comparabile con Lei, con il Suo influsso sul mio animo, sulla più pura rappresentazione della mia interiorità»25. Se si confrontano, ad esempio, le donne della cerchia di Goethe e Schiller con Dorothea, Rahel, Henriette Herz, Eleonore Grunow, emergono con grande evidenza certi tratti che marcarono la Berlino dell’epoca più tarda e la nuova scuola da cui erano influenzate. Libere dalla gelosia provinciale che nasceva dove, in uno spazio ristretto, si accalcavano molte grandi personalità spirituali, hanno un cuore aperto interessato a tutto, cosa che testimoniava una forza capace di sollevarsi al di sopra della miseria della società di allora, ed erano dotate di vivace entusiasmo per la nuova vita e per i nuovi pensieri che le circondavano. Non si può negare che esse, non di rado, superassero i limiti della femminilità, ma apparivano anche libere da quelle debolezze spirituali che si è soliti riscontrare altrimenti nelle donne, ed erano vere compagne delle imprese degli uomini che amavano. Eleonore condivideva tutte queste caratteristiche con le altre donne della cerchia ma, dal momento che rimase isolata, combatté in solitudine fino in fondo il suo conflitto interiore; il suo carattere mostra anche un’impronta particolare, che lo allontana di molto da quello delle altre. Eleonore proveniva dalle cerchie dei predicatori protestanti. Nelle poche parole che ci sono rimaste di lei nulla 25
Ivi, Lettera a Eleonore Grunow, 27 novembre 1802, n. 1392, p. 220.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
emerge così chiaramente che la peculiare semplicità della sua natura e la più profonda fede religiosa. «Lo comprendo a stento», scriveva dell’amore di Schleiermacher per lei, «ma pregando in silenzio lo accolgo dalla mano della provvidenza, che mi vuole dare tregua dopo i dolori della giovinezza». Un forte sentimento del dovere la aveva salvaguardata. Queste basi del suo carattere furono rafforzate dal tempo e dal destino, quando tardi, tra mille intoppi, il suo spirito significativo si sviluppò più liberamente. Eleonore era una natura ricchissima. Appartenevano alla sua natura una forte ondata di sensazioni, impulso e capacità di comunicare, serenità, una ricca vita interiore, che si rispecchiava costantemente nel suo aspetto, altrimenti non propriamente bello. Dalla sua anima forte i pensieri emergevano in modo appropriato, potente e chiaro. Scrive a Schleiermacher sull’educazione: gli uomini abitualmente con animo fanciullesco lasciano il cielo vuoto; sul comprendere: ci sarebbe un comprendere più alto di quello dell’intelletto, quello con il cuore e con la fantasia; sul loro destino, quando erano separati: tutto sarebbe andato bene, cosa che solo i figli dell’Altissimo possono aspettarsi. La cosa più bella nelle Lettere sulla Lucinda, le lettere di Eleonore e i suoi diari, secondo quanto scrive Schleiermacher a Willich, riportano «ciò che lei stessa ha pensato, anzi in gran parte proprio le sue parole»26. Il suo rimuginare si sprofondava più volentieri nei segreti dell’animo umano. Eleonore non solo riceveva da Schleiermacher, ma anche donava. Egli rammentava volentieri come si erano svolte, per lo più, le loro conversazioni: egli aveva dovuto dare solo i primi toni, poi, non raramente, era rimasto seduto là ad ascoltarla, con gioia silenziosa. Certo il destino aveva negato a questa ricca natura il dono più alto per la donna, un semplice, chiaro, equilibrato sviluppo. È indicativo che lei amasse l’humour, nel quale si dissolvono per un istante le dissonanze di una natura significativa. Quando si parlava della sua allegria, Schleiermacher sapeva bene che ciò che si intendeva con questo nome non nasceva certo da serenità d’animo. Si vede una natura gettata fuori dal binario di un sereno, bello sviluppo, quando Schleiermacher scri26
Br. I, p. 247, Lettera a Ehrenfried von Willich, senza data. Cfr. KGA V, 6, Lettera a Eleonore Grunow, 12 agosto 1802, n. 1297, pp. 71-72; Ivi, Lettera a Eleonore Grunow, 10 settembre-11 settembre 1802, n. 1336, pp. 135 ss. La dichiarazione a Willich è del resto esatta solo in senso stretto: la relazione e il tono della lettera da essa derivato è poetico, ma anche per quanto riguarda il contenuto alcune cose possono appartenere solo a Schleiermacher. Voglio però riportare una parola che rappresenta l’animo entusiastico di Eleonore: «Friedrich, diventa tutto ciò che puoi essere, oltre a essere mio, degli amici, del mondo. Ma abbandonata? No, devo avere tutto ciò che dai loro in modo più completo, poiché io possiedo la totalità: devo comprenderti ovunque, anche se talvolta non comprendo i singoli pensieri. E anche questo deve terminare, e non deve esserci una guerra tra l’amore e la vita più eroica o più scientifica». Dai diari di Eleonore.
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IL DESTINO DEI NUOVI IDEALI MORALI NELLA VITA
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ve: «quanto ci vuole però, cara amica, per vedere bene un uomo, e cosa ci vuole! Infatti, l’uomo deve conoscere se stesso, e non solo: egli deve anche avere trovato tutto in sé. La vera semplicità e innocenza non spettano a una tale conoscenza dell’uomo. Chi ha scoperto in sé anche un solo elemento di tutto ciò che è traviato e corrotto, nel quale sta certo tutto l’essenziale, e poi anche una traccia di tutto ciò che è grande e puro, è sufficientemente vanitoso da immaginare, a partire da questo traccia, l’intera forma perfetta: vedete, costui è fatto per la conoscenza dell’uomo27. E quanto è importante per me avere il Suo permesso di considerare anche Lei così». Così il destino aveva sviluppato in quest’anima forze che potevano renderla compagna affine a Schleiermacher: e non poteva Schleiermacher sognare che una vita al suo fianco avrebbe concesso anche a lei la tranquilla armonia che era presente in lui stesso? La relazione di Schleiermacher con questa donna, il suo atteggiamento nei confronti della situazione in cui la trovò, devono essere giudicati a partire dalle sue idee morali sul diritto inalienabile dell’individualità, anche di fronte all’esistenza di un legame coniugale. Schleiermacher era molto lontano da quella selvaggia insistenza sul diritto della passione nei confronti delle relazioni già esistenti, che si concedeva la giovane generazione. La sua concezione dell’idea divina, presente in tutte le individualità, e della sua realizzazione nello sviluppo universale era lontana dal credere alla libertà incondizionata dell’uomo geniale. Ma per Schleiermacher, conformemente a quella dottrina, un matrimonio, in cui questa idea divina, destinata ed esplicarsi in un essere umano, sembrava annientata dall’indegnità morale di una delle parti, non era più un matrimonio, non era sacro, ed era quindi contrario al dovere. Giudicato nei limiti di questa convinzione, il suo comportamento era ispirato dalla più severa coscienziosità. A questa convinzione si faceva incontro il sacrificio volontario di un’anima della più tenera scrupolosità come era quella di Eleonore: quasi si trovasse su una postazione militare, ella sentiva la forza di poter perseverare e l’obbligo morale di dover perseverare. Era un risultato del tempo più doloroso della sua vita, se egli conciliava la visione religiosa dell’inviolabilità del matrimonio, anche nei confronti del destino del singolo individuo, con il suo modo di pensare. A questa sua più tarda visione le due famose prediche sul matrimonio e sul suo scioglimento hanno dato rilievo e riconoscimento pubblico. La Dottrina cristiana dei costumi contiene la precisa formula di questa concezione: il matrimonio è indissolubile dal punto di vista della chiesa. Dove un matrimonio è contratto nella colpa, non può essere risparmiata la penitenza dal punto di vista del Cristianesimo; dove lo Stato 27
KGA V, 6, Lettera a Eleonore Grunow, 30 settembre 1802, 1351, p. 156.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
ha sciolto un matrimonio, cosa che la chiesa non potrebbe mai decidere di fare, quest’ultima può solo consacrare un nuovo legame con un profondo sentimento di dolore per l’imperfezione della chiesa nella sua concretezza, che rende possibile un tale fatto28. Per molti anni Schleiermacher fu solo il più fedele amico di Eleonore, sul quale lei poteva trovare appoggio sia per questioni intime sia per problemi concreti e che la proteggeva dalla rovina. Rimproverò vivacemente a se stesso, nel 1799 mentre andava a Potsdam, la passionale espressione di un momento: mantenne poi fede incrollabilmente alla regola di condotta, che si prescrisse allora. La famiglia di lei lo rispettava e lo amava. Suo marito sentiva amaramente che la posizione di amico di Schleiermacher nella famiglia e nella casa poneva alcuni limiti. Ma Schleiermacher si manteneva così seriamente entro i limiti leciti di questa posizione che egli doveva tollerarlo. Tutto rimase così fino all’estate del 1801. Quando parlava con Henriette Herz di come avrebbe difficilmente trovato una moglie in grado di soddisfarlo, nonostante avesse molte poche pretese sotto diversi punti di vista, nominava proprio la Grunow; ma ciò accadeva, assicurava alla sorella, senza il minimo mescolamento di un desiderio. Così soffrì con lei in silenzio nel corso degli anni. Solo nell’estate del 1801 gli avvenimenti portarono una svolta non voluta, per lui addirittura del tutto inattesa. Giunti a questo punto critico del nostro racconto la veridicità richiede di riportare delle comunicazioni di Schleiermacher29, sebbene contengano alcune parole pungenti, riguardanti qualcuno che sarebbe potuto rimanere tranquillamente nel buio dell’oblio. Per il suo caratteristico modo di comportarsi, anche in questo frangente la luce più chiara è la cosa più adeguata. «Devo raccontarti un evento romantico che è accaduto proprio a me, sebbene so che mi rimprovererai, come io ho rimproverato me stesso; se potessi anche solo comunicarti la mia ammirazione per la Grunow, come merita! In occasione di un episodio in cui Grunow si era comportato in modo molto scostante con lei, le parlai spontaneamente di ciò e lei mi lasciò guardare, senza rendersene conto, più profondamente, in alcuni aspetti della sua relazione con lui, di cui prima non ero a conoscenza, così che ho potuto calorosamente consigliarle di separarsi da lui - tanto prima tanto meglio -, di non sacrificare più a lungo per nessun motivo il suo animo e di non lasciare inutilizzate le sue bellissime forze. Lei mi assicurò che sentiva molto bene l’importanza di queste motivazioni, ma la sua vita sarebbe andata in rovina e per lui non ne avrebbe ottenuto nulla; 28 29
SW II, 1, pp. 567 ss.; Christliche Sitte, SW I, 12, p. 349 ss. KGA V, 5, Lettera alla sorella, 11 giugno-1 luglio 1801, n. 1072, pp. 143 ss.
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IL DESTINO DEI NUOVI IDEALI MORALI NELLA VITA
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mi assicurò che nessun consiglio e nessun esempio avrebbe potuto mutare i suoi sentimenti né allontanare, con tutti gli sforzi esteriori e l’impegno, l’infelicità di lui. Aveva mille delle preoccupazioni che provengono dal mondo esteriore e dalle condizioni che esso ci impone, che io confutavo a partire dai nostri principi comuni. Finalmente disse: “e cosa otterrei se rinunciassi a lui? Per lungo tempo egli sarebbe ancora più infelice e io non ritornerei da mia madre per mille motivi, che Lei sa bene; vivrei sola del lavoro delle mie mani e perciò le mie forze non potrebbero svilupparsi meglio e la mia vita interiore non otterrebbe molto più del fatto che sarei finalmente libera dalla costante contraddizione tra interno ed esterno”. “Ah”, dissi, “Lei potrebbe diventare mia moglie e saremmo molto felici”. Mi spaventai quando glielo dissi e anche lei si spaventò. Fu l’involontario sfogo di un desiderio, che si era formato, in realtà, solo allora in queste parole. Dopo una piccola pausa aggiunsi: “Cara amica, mi perdoni, è stata una terribile avventatezza, che ci può porre in una penosissima situazione. Mi creda, io, quando è iniziato il colloquio, non intendevo dire questo, e se anche non possiamo dimenticare che mi è sfuggito, tuttavia ciò non deve avere il più piccolo influsso sul nostro comportamento; questo è l’unico modo perché Lei possa mantenere la Sua pace interiore e, se possibile, la Sua naturalezza”. “Certo, se fosse possibile”, disse lei, “tornare alla naturalezza, una volta accaduto ciò. Non dovrò in ogni occasione, anche nel più evidente diritto da parte mia, temere me stessa, temere che il Suo desiderio di oggi abbia influito sul mio comportamento?”. E così, da quando ciò è accaduto, ella si tortura con questo sospetto contro se stessa e pazienta nei confronti di Grunow, anche in occasioni nelle quali, altrimenti, non avrebbe mai pazientato». Dopo ulteriori comunicazioni qui non necessarie, Schleiermacher racconta ancora una volta l’accaduto, il cambiamento che ne seguì, le massime a cui si atteneva da quando era accaduto ciò che ormai non si poteva più cambiare. «Alla Grunow non poteva certo essere rimasta celata da lungo la nostra reciproca attenzione e la nostra amicizia affettuosa, e neppure il nostro raro accordo nelle cose morali e nell’intero modo di trattare gli uomini e la vita; quelle piccole agitazioni ella le considerava giustamente solo come tali e non le era mai venuto in mente che io potessi aver un motivo di accoglierla tra i miei. Anche a me non sarebbe mai venuto in mente finché in quel colloquio la necessità morale che lei si dovesse separare da Grunow non mi emerse così chiara davanti agli occhi che glielo dissi. Mi dispiace di questo, come detto, tuttavia lo trovavo molto naturale; la Grunow credeva inoltre, in seguito ad una generale diceria, che io avessi un’altra inclinazione. Cosa nascerà da ciò, può saperlo solo Dio; io so solo che in me non nascerà nessun’altra simpatia e che io mi comporterò così, pur soffrendo, fino a quando emergeranno condizioni nelle quali
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
sono cosciente che, anche senza una tale relazione, sentirei, come amico, il dovere di fare qualcosa. Nel nostro atteggiamento reciproco, inoltre, questa occasione del tutto straordinaria non ha prodotto il minimo cambiamento. Noi precediamo sempre in completo accordo come prima». Era del tutto commisurato a quest’anima eroica chiusa in un corpo modesto il fatto che contasse di riscattare, attraverso le proprie forze, da condizioni indegne, la donna dalla quale si attendeva la felicità, non temendo la rottura con l’opinione pubblica, con il mondo, addirittura con le opinioni condivise riguardo alla sua amata professione. Ma in questo modo Schleiermacher faceva cadere su questa donna, senza volerlo, un nuovo pesante destino, sotto il quale ella soffrì: egli instillò, infatti, nell’anima di Eleonore il contrasto dei propri pensieri morali con i principi in vigore. Cominciarono allora sofferenze e battaglie, che da quel momento, per cinque anni, sconvolsero in profondità l’animo e la vita di entrambi; fecero sbandare, per un certo periodo, lo stesso Schleiermacher e determinarono il destino della sua vita. Tocco, senza anticipare il racconto, l’esito di queste lotte. Poiché solo tale esito e i motivi che condussero Eleonore consentono la piena visione nell’anima di lei. Ella sentì il dovere religioso di perseverare, sebbene avesse la sensazione che le sarebbe costato la vita. «Mi ha fatto male», scrive Schleiermacher al suo amico Reimer, dopo che Eleonore ebbe preso la decisione di separarsi da lui, «che tu taccia così di lei. La debolezza che la ha presa», poiché così gli appariva allora il comportamento di Eleonore, «è quella di un’anima pura, umile, che si strugge nella mitezza e merita che chiunque conosca il suo destino e il suo comportamento guardi a lei con amore e dolore, ma soprattutto con amore»30.
30
KGA V, 6, Lettera a Georg Reimer, 20 aprile 1803, n. 1476, p. 348.
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LA BATTAGLIA TEORICA DEI NUOVI IDEALI ETICI CONTRO LE MASSIME MORALI VIGENTI NELLA SOCIETÀ
Le Lettere di Schleiermacher sulla Lucinda Le prospettive e le relazioni di Schleiermacher e Friedrich Schlegel si rispecchiano nella Lucinda, il romanzo di Schlegel, e nelle Lettere di Schleiermacher scritte in sua difesa. Entrambe le opere nacquero dalle condizioni generali, che facevano dei problemi dell’amore e del matrimonio l’oggetto di discussione nella società della metropoli. Furono entrambe nutrite dalle relazioni sentimentali che imponevano queste domande e davano materia alla loro rappresentazione artistica. Inoltre, entrambe si ponevano in contrasto con le massime religiose e sociali vigenti. Ma più profondamente ancora di questo punto di partenza comune si esprime in queste opere il radicale contrasto tra i due amici per quanto concerne opinioni personali, visione della vita, interpretazione dei rapporti umani, che abbiamo già constato nelle loro vicende private. Non ho intenzione di dimostrare che il romanzo di Friedrich Schlegel è tanto amorale quanto poeticamente senza forma e condannabile. Questo giudizio non necessita più di alcuna dimostrazione. Appena terminata la lettura del libro, anche i giudizi più aspri appaiono deboli e quasi indulgenti. Al contrario, non mi posso risparmiare il compito poco gradito di esporre nascita e ruolo di questo romanzo in modo che siano compresi lo straordinario scalpore, che si lega ancor oggi alla Lucinda, e l’atteggiamento favorevole che Schleiermacher assunse nei suoi confronti. Portato dalla passionalità di una gioventù dedita esclusivamente a interessi spirituali, scettica nei confronti dell’esistente, senza guida, in modo contraddittorio, il movimento morale, filosofico e poetico della nostra
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
nazione aveva raggiunto il suo culmine. Esso è stato, a ragione, paragonato alla Rivoluzione francese, ed è indicativo che proprio in questi anni Friedrich Schlegel per primo fece questo parallelismo. I principali rappresentanti di questo movimento, gli Schlegel, Fichte, Schelling, ciascuno dopo un periodo di partecipazione appassionata alle speranze politiche, si sono rivolti ai compiti legati alla nostra formazione puramente spirituale. Essi trasferirono su questo terreno la volontà irruenta, che era cresciuta con gli avvenimenti francesi. Si imbatterono in Germania in un’epoca caratterizzata dal veloce passaggio da stretti legami sociali a relazioni più libere e più complesse, nel periodo di grande influenza di una poesia tempestosa su una seria, salda, onorevole nazione. Il giudizio morale sulla relazione più importante e fondamentale per la società, cioè il matrimonio, non tenne più. In queste condizioni nacque, in un uomo dalla testa e dal cuore sfrenati, un impetuoso attacco alle massime morali eternamente valide. Il nocciolo della vita tedesca era tuttavia così sano che risposero all’attacco solo avversione e derisione.
I. Il romanzo di Friedrich Schlegel L’origine Sono stati sviluppati i motivi che spinsero Friedrich Schlegel, un genio letterario e linguistico di primo rango, al di là delle sue straordinarie capacità, in un generico dilettantismo. Era maturato in lui, dallo studio di diverse epoche poetiche, l’ampio progetto di comprendere, attraverso il collegamento di ricerca storica e filosofica, le funzioni e i prodotti dello spirito umano nella loro connessione. Per Schlegel questa grande connessione della cultura si differenziava in due ambiti. L’enigma di libertà e necessità, al quale lavorava di nuovo, a quel tempo, anche Schleiermacher, si risolse per lui, grazie al fatto che intraprese a ricercare, nelle arti e nelle scienze, una connessione regolare e una necessità di sviluppo, mentre, sul terreno dell’etica, formò il pensiero della libertà nella sua forma più estrema. Schlegel portò nel pensiero fondamentale di Fichte l’arbitrio mutevole e sregolato che derivava del suo carattere personale. A partire dal pensiero della libertà egli si propose di «fondare una morale»1. 1
Br. III, p. 80. Lettera di Friedrich Schlegel, senza data (marzo 1798?).
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LA BATTAGLIA TEORICA DEI NUOVI IDEALI ETICI
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Bilanciarono questo impulso, a partire dall’estate del 1798, le inclinazioni poetiche nutrite a Jena e a Dresda; poiché Schlegel sentiva in sé una decisa disposizione a spiegare passioni e sensazioni in un linguaggio spiccatamente personale. Già nel 1797, quando lavorava ancora alla storia della poesia greca, sognava l’epoca in cui sarebbe stato in grado di scrivere il suo romanzo. Il soggiorno estivo a Dresda (1798) rianimò tutti i progetti poetici. Un uomo, che aveva una conoscenza così ampia dei romanzi famosi di quegli anni, che aveva guardato così in profondità nella tecnica di Goethe, si poteva facilmente illudere di ottenere, intraprendendo la carriera di romanziere, il denaro, di cui sempre necessitava, un immediato e forte effetto, come piaceva al suo carattere, e un posto glorioso nella nostra poesia accanto a Goethe, Hardenberg, Tieck. Così si innalzò, dalla nebbia confusa dei suoi piani, che sempre si ammassava in nuove forme per poi dissolversi, nell’autunno del 1798, l’impresa di fondare, in un colpo solo, nuovo romanzo e nuova morale, e di esporre così il suo ideale rivoluzionario in un’immagine poetica. La poesia tedesca, secondo la legge vitale che la caratterizzava, era diventata sempre più rappresentazione di una visione del mondo e della vita. Nell’Ofterdingen di Hardenberg fu raggiunto il punto più estremo di questo processo. Friedrich, di proposito, faceva del romanzo il portavoce di una precisa visione della vita. Esortava di continuo Caroline Schlegel e Schleiermacher ad esporre anche la loro visione del mondo in forma di romanzo, ed egli stesso iniziò la Lucinda nel novembre del 1798. La tendenza etico-sociale Più di qualsiasi altra natura, Friedrich Schlegel mostra le affinità di questa cerchia vitale con il Rinascimento italiano. Anche la sua poesia adorava la bellezza e la genialità, l’amore e la gloria come divinità potenti, tipiche di una vita basata sulla autonomia della propria persona. Fin dai giorni turbolenti della sua giovinezza per Schlegel l’autonomia era l’ideale anche per la donna, in contrasto con tutto ciò che nella vita e nella poesia era onorato e amato come femminilità: egli cercava nella femminilità spirito saldo, educazione ed entusiasmo. Negli anni in cui andava stabilizzandosi il suo carattere, aveva vissuto quasi esclusivamente con gli antichi e confermava in diversi saggi, riferendosi ad alcuni aspetti dei costumi greci, la sua idea di un differente ruolo sociale della donna e la sua opposizione al matrimonio. Allora nella cerchia che lo circondava a Berlino, la libera scelta individuale e l’indipendenza della donna lottavano con la cattiva e ipocrita morale convenzionale,
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
ma anche con un costume genuino e severo; per Schlegel entrambi questi aspetti erano una forma di «schiavitù femminile»2. Così si formò la rivoluzionaria connessione di pensieri che produsse la Lucinda. L’autonomia è il suo ideale. Il carattere fondamentale della volontà è la libera scelta, che in ogni momento ha la facoltà di negare tutto il passato. Questa autonomia si realizza nell’educazione, nel genio e nell’entusiasmo, attraverso i quali l’individuo forma un proprio mondo. In ciò Schlegel si differenzia da Rousseau e dal suo modo di condurre la lotta contro tutte le convenzioni: «la natura solamente venerabile», per i cui diritti egli intraprende la lotta, non è l’innocente senza cultura, bensì l’uomo autonomo per educazione ed entusiasmo; allo stesso modo si intendeva la natura nel Rinascimento. Questa autonomia non può sacrificarsi completamente a nessuno scopo oggettivo, né si fa legare incondizionatamente da nessuna relazione. Essa si solleva, invece, sopra ogni scopo oggettivo attraverso l’“ironia” e cerca di liberarsi dalle potenze oggettive dominanti attraverso “cinismo” e opposizione. Altrettanto poco questa autonomia può abbandonarsi al meccanismo rumoroso, senza sosta, del lavoro dedicato a uno sviluppo senza fine; l’individuo esiste per godere di se stesso. Schlegel festeggia questo piacere nel paradosso della «pigrizia divina». L’influsso della Lucinda è dovuto al fatto che essa esprimeva, a partire da questi pensieri fondamentali, l’esigenza di un ruolo della donna totalmente differente, che si accordava con l’atmosfera dell’epoca. La Lucinda lottava per l’emancipazione delle donne. L’individualismo produce in tutte le epoche, insieme alla più nobile socievolezza, il desiderio delle donne di raggiungere una posizione intellettuale uguale a quella degli uomini, e Schlegel sostenne questa causa. L’ideale di un’autonomia che si realizza con l’educazione e l’entusiasmo è comune, secondo lui, agli uomini e alle donne. Solo una cultura sbagliata ha innalzato il carattere spirituale del genere femminile al noto tipo di femminilità che nasce dall’egoismo maschile; la cultura vera sviluppa l’ideale comune a entrambi i generi. Per natura e condizione le donne sono casalinghe; ma non si deve «in alcun modo esagerare il carattere del genere, che è solo una vocazione naturale innata: bisogna, al contrario, cercare di mitigarlo attraverso forti contrappesi, affinché l’indole individuale trovi uno spazio proprio, per muoversi liberamente come le aggrada nell’intera sfera dell’umanità»3. Tra tali nature individuali l’amore è dunque compagnia, amicizia, attrazione di caratteri autonomi. Il Rinascimento italiano conosce solo la passione per donne sposate, nelle 2 3
Lyceum, KFSA, I, 2, p. 160, n. 106. Über die Philosophie, Ath. II, 1, p. 9; M, II, p. 321.
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LA BATTAGLIA TEORICA DEI NUOVI IDEALI ETICI
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quali è già formata una natura autonoma, e lo stesso carattere permea anche questo ambiente individualistico tedesco. Friedrich Schlegel trae anche a questo proposito l’estrema conseguenza: per questi uomini e queste donne, secondo lui, il matrimonio non è un’istituzione e il suo romanzo mostra come, dalla libera scelta, nasca un amore che lega, senza costrizione, per tutta la vita. Quando poi i due individui legati, sostenuti entrambi dalla medesima educazione libera, vivono senza costrizioni lo sviluppo di tutte le passioni e di tutte le forze, può sollevarsi ardita la sensualità: la repressione della sensualità, richiesta dalla morale illuministica, deve finire; il pudore nelle donne e il sacro rispetto di esso da parte degli uomini, nella realtà e nella rappresentazione poetica, non ha più alcun senso nei confronti di queste donne autonome, che condividono la stessa educazione maschile. Sembra che sulla sensualità spudorata della Lucinda non abbia agito solo l’opposizione contro la spiritualizzazione dominante, principale motivo schlegeliano, bensì anche il modello delle novelle italiane, che egli aveva così diligentemente studiato. In netto contrasto con le espressioni degli scrittori contemporanei affidate alla lirica e al dialogo, l’amore consiste per la novella italiana solo nel piacere. Una contraddizione simile emerge tra la Lucinda di Friedrich Schlegel e le altre sue espressioni. La Lucinda espone l’essenza di queste idee rivoluzionarie nella storia di Julius, che la ricerca della felicità del vero amore fa cadere in mille smarrimenti e che da tutti si solleva, finché gli viene incontro, in Lucinda, la donna moderna, a lui spiritualmente affine, autonoma: i due si legano in un amore indissolubile, libero da convenzioni esterne. Se nella sincerità di un’opera d’arte sta la prima condizione della sua moralità e del suo valore, allora al romanzo di Schlegel deve essere concessa in pieno questa lode. La maggior parte della letteratura poetica non nasce, certo, da un’anima eticamente purificata, bensì piega semplicemente deboli disposizioni d’animo passionali alle leggi tradizionali: essa è, per lo più, l’espressione di quella ipocrisia riguardo alle passioni, che domina nella società. Dopo l’accusa di Platone contro i poeti, ogni serio pensatore si lamenterà sempre di quanto poco una attendibile, conseguente genuinità sia presente nelle opere della letteratura bella. Perciò la veridicità della Lucinda conquistò subito i pensatori etici come Fichte e Schleiermacher. La realizzazione poetica però trascina un pensiero eccentrico e amorale nel fango della volgarità. Poiché per la sua inettitudine poetica e per la sua immaturità etica, il romanzo dice qualcosa di incomparabilmente peggiore di quanto volesse dire.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
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Il materiale di partenza e la sua trasformazione nella fantasia Totale mancanza di invenzione poetica e una teoria estetica arbitraria condussero Schlegel sulla medesima via: egli offrì una confessione. Raccontò la storia del proprio violento impulso vitale, dei sentimenti e delle relazioni nati da quello, iniziando e terminando con inni, riflessioni e dialoghi che festeggiavano l’amore genuino finalmente trovato. Che tutto ciò sia un’elaborazione poetica della sua vita si lascia dimostrare ora con una evidenza che sarebbe degna di un fatto più importante. È possibile inoltre determinare, attraverso la comparazione degli avvenimenti reali con la poesia, le trasformazioni alle quali egli sottopose i fatti. Il risultato getta una luce sfavorevole sull’animo dal quale poteva provenire una tale rielaborazione poetica. Nel primo libro delle sue Confessioni Rousseau ha elaborato poeticamente una storia a partire dal selvaggio tumulto delle passioni, dall’ambizione, che lo sospingeva senza pace, dalle frequentazioni umili e quasi meschine, insomma, da un’intera catena di sforzi irruenti e infruttuosi, in modo vario, dando vita a un quadro di avventura serena e leggera, che riecheggia qua e là dei romanzi francesi di avventura e di quelli picareschi. Una simile leggerezza domina anche nella rappresentazione schlegeliana, eppure qualcosa di indicibilmente disgustoso è mescolato ad essa. Non solo è riprovevole il fatto che Julius rappresenti le peripezie della sua giovinezza dissoluta come una scuola di formazione per il suo vero amore: egli disonora il suo più nobile passato e il presente con questa aggiunta mistura di sensualità. Così la sua prima attrazione per una giovane nobile fanciulla è spudoratamente deformata, e non saprei menzionare un tratto peggiore, nella vita di Schlegel, di quello che gli rese possibile fare ciò. Seguono i tempi di Lipsia; egli racconta di quella bella signora che gli rovinò la vita, di Novalis, del suo incombente tramonto. La storia di Limette, inserita qui, è presa a prestito sicuramente da qualche cattivo romanzo francese. La donna alla quale il romanzo, in disaccordo con ciò che accadde realmente, ascrive la salvezza dell’eroe è Caroline, e di questa troviamo una caratterizzazione felice e aggraziata. Poi viene descritta l’epoca nella quale egli visse con la sorella, immerso nei suoi lavori a Dresda. Finalmente appare Dorothea; infatti Lucinda è Dorothea, come testimoniano anche le spiegazioni contenute nelle lettere. Si è dubitato di questo, perché i tratti sensuali mescolati in questa figura sono in contraddizione con l’aspetto e l’essenza di Dorothea: ma questi tratti nascono proprio da quella trasformazione dei fatti che suscita avversione. A partire da qui il romanzo sfocia in rappresentazioni senza forma della felicità attuale, simile a quelle con cui era iniziato.
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Faccio menzione, in chiusura, di ciò che è significativo in questa narrazione. Per coloro che conoscono il carattere e il percorso di Friedrich, lo sviluppo psicologico di questa vita, per così dire, la sua filosofia è di grande, avvincente forza. Come romanzo la Lucinda doveva annoiare il pubblico, ma come storia dello sviluppo psicologico poteva suscitare grande interesse presso gli amici. «Puoi immaginare», dicono le lettere di Schleiermacher, «quanto abbia compreso questi “anni di apprendistato”. Quanto meravigliosi e trasparenti sono qui il desiderio dell’amore, che deve annientare o realizzare l’animo, e i dolori che un uomo, destinato ad una vita più alta, ha da patire, prima di nascere»4. La composizione poetica Rimane da accennare ai motivi di questa singolare composizione poetica. La Lucinda è considerata, dal punto di vista estetico, un piccolo mostro. Accanto all’elemento più sgradevole, di cui sia concesso tacere, troviamo tratti genuinamente poetici. Steffens e altri contemporanei hanno descritto Schlegel come un sognatore, pigro, silenzioso, sempre intento a rimuginare sul caos dei suoi stati d’animo e delle sue idee. Si ricordi, a questo proposito, che si perde di continuo in quest’opera nei labirinti dei suoi umori e delle sue riflessioni. Una sensibilità, che comprende solo il profumo dei fenomeni, non la loro forma, e una lingua melodica che sfuma in penombra, sono le espressioni di questa tendenza spirituale. Il suo sguardo, volto in se stesso, non vedeva il mondo esterno. Per quanto egli avesse vissuto qualcosa di romanzesco, davanti alla sua fantasia stavano solo stati d’animo e, in un certo senso, il precipitato filosofico di queste esperienze, non i fatti nella salda struttura tipica di un vero fenomeno. A partire da tali elementi egli costruì un’opera che avrebbe dovuto essere fondata sulla capacità di produrre un racconto più complesso e più piacevole. Quando si mise a scrivere, Schlegel esitò a lungo per passare dalla ouverture di stati d’animo e riflessioni al dramma vero e proprio. «Alla mia Lucinda», scrive a Wilhelm il 22 del dicembre 1798, «è stato dato un buon inizio, del quale sono soddisfatto, e Dorothea e Schleiermacher non possono lodarlo a sufficienza». Il 5 febbraio del 1799 poteva comunicare: «Ho appena terminato il primo pezzo, che non è più una sinfonia. Non è tuttavia ancora una storia, bensì un pezzo interamente dialogico»5. Si tratta del dialogo Fe4 5
Vertraute Briefe, KGA I, 3, p. 204. Waitz, I, p. 487; Walzel p. 402.
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deltà e scherzo. Lo sgomento degli amici di Berlino e Jena per la piega presa dal romanzo si mostrò apertamente, e in particolare lo sgradevole dialogo provocò, nonostante tutti i cambiamenti apportati, null’altro che riprovazione. Ma Friedrich aveva appena chiuso il contratto con il suo editore (per due monete d’oro), e non era perciò assolutamente nella condizione di cancellare il lavoro di mesi. Questa fu sempre la sua sfortuna. Cercò di ingannare almeno se stesso, facendo valere ogni lode che veniva da Berlino a Jena, valorizzando, agli occhi di Schleiermacher e Tieck, ogni parola gentile di Caroline. Addirittura, utilizzava i giudizi degli amici a suo modo, intessendoli nella Allegoria dell’impudenza. Così passarono i primi mesi sulla “sinfonia” di apertura, che riempì più di un terzo del volume con le sue rapsodie senza forma, sparse arbitrariamente qua e là. Finalmente giunse agli Anni di apprendistato della virilità, il vero e proprio racconto che costituisce la seconda parte del romanzo. Incapace di esporre in un ampio flusso epico avvenimenti e persone nella pienezza della loro realtà, offrì qui una spiegazione psicologica, una filosofia del suo sviluppo e del suo carattere. Anche persone estranee comparivano nella sua caratterizzazione, spesso molto felice, ma non erano rappresentate nella loro immediata presenza. Subito si rifugiava nel terreno più caratteristico della sua poesia senza forma, che resiste ad ogni arte; egli allineava sempre rappresentazioni dei suoi stati d’animo, delle sue riflessioni, delle sue condizioni. Il filo del racconto scappò del tutto dalle sue mani. Dalle poesie di un amico e dalle sue relazioni con un altro vengono formati due avvenimenti che non hanno né alcuna motivazione nella parte precedente né influsso sul prosieguo del racconto. Rielabora atmosfere e motivi della storia interiore di Novalis e dei suoi inni in una lettera a Lucinda e la sua polemica con Schleiermacher in due lettere ad Antonio. Venne alla luce, in questo modo, la completa bancarotta della sua forza inventiva, che stava di lunga al di sotto del talento di mediocri poeti dozzinali, proprio perché il suo spirito era assorbito da un’altra direzione. Qui si interrompe la prima parte. La seconda doveva mostrare, felicemente conciliati, amore, amicizia, vita familiare, natura, in un podere, il cui acquisto concludeva la prima parte. Al centro doveva stare Lucinda, la rappresentazione della femminilità, e gli stati d’animo dovevano risuonare in poesie liriche, l’unica parte che fu completata. Quando fu soddisfatto di questa prosecuzione, Schlegel fu preso dall’insofferenza verso l’inizio del romanzo, e certo questa avrebbe agito più di qualsiasi difesa a favore della prima parte. Ma Schleiermacher inutilmente gliela rammentava in modo incessante. Le riflessioni estetiche non possono rendere bello il brutto. Troppo rumorosamente esse accompagnano le sue poesie, come i sotterfugi della
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cattiva coscienza accompagnano un’azione vietata. Schleiermacher ha poi schizzato, nella sua difesa, una teoria estetica del romanzo, che si può comparare alle motivazioni molto belle e ingegnose, che qualcuno attribuisce, in seguito, ad azioni che non vogliono, in realtà, accordare con loro.
II. Le Lettere confidenziali di Schleiermacher su questo romanzo
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La decisione Elementi che Schleiermacher condivideva con Schlegel, in relazione ai quali non poteva negare certo la sua considerazione e il suo interesse, erano intrecciati nel romanzo con altri che gli erano estranei e antipatici, e che avrebbe osservato in qualsiasi altra persona con avversione e disgusto: negli amici, però, giustifichiamo, a partire dalla totalità del loro essere, ciò che condanniamo oggettivamente negli estranei, e di questa interpretazione amichevole Schleiermacher era un virtuoso. La reazione di tutti gli amici, che diedero uno sguardo nel manoscritto del romanzo, fu l’avversione. Lo spirito incorruttibile di Wilhelm condannò il contenuto scandaloso, la forma del romanzo del tutto sbagliata e lo stile artificioso, sovraccarico di immagini; Karoline condivideva il giudizio di Wilhelm e riuscì a imporre alcuni cambiamenti; Henriette Herz mostrò una opposizione senza condizioni. Tieck lo giudicò per lo meno sconveniente, o tenne la sua opinione per sé; sembrò quasi che egli avesse rafforzato a perseverare nella direzione intrapresa Friedrich, che era molto ottimista in queste cose. «Se ci vedesse presso e con la Lucinda», scrive Friedrich a Caroline, «Le apparirei come il selvaggio cacciatore, Dorothea come lo spirito buono sulla destra e Tieck come lo spirito malvagio sulla sinistra. Egli ne adora qualcosa e prende perciò tutto sotto la propria protezione, mentre Dorothea è timida e Lei forse se ne lamenterebbe»6. E Dorothea? La delicatezza della donna e le illusioni sull’uomo amato si mescolano in alcune righe a Schleiermacher, risalenti all’8 aprile del 1799. «Per quanto concerne la Lucinda, proprio per quanto concerne la Lucinda, caldo e freddo si alternano nel mio cuore, per il fatto che le cose più intime vengano così esposte, ciò che mi era così sacro, così familiare è in balia ora di tutti i curiosi, di tutti i nemici! Inutilmente Schlegel cerca di confortarmi con il pensiero che Lei sarebbe ancora più audace di lui. Non è l’audacia che mi spaventa! Anche la natura festeggia il culto dell’Altissimo in templi 6
Waitz 1, p. 527.
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aperti e in ogni parte del mondo; ma l’amore? Penso di nuovo che tutti questi dolori passeranno con la mia vita, e anche la vita passerà con loro; e a tutto ciò che passa non si dovrebbe prestare un’attenzione così alta da tralasciare, per questo, un’opera che sarà eterna. Il mondo, anzi, la giudicherà rettamente, solo se cadono tutte queste cose secondarie»7. Il medesimo dubbio morale, ma in modo molto più amaro, lo aveva espresso Schleiermacher già allora in una lettera a Friedrich. Con una espressione annientante aveva definito la Lucinda una «esposizione pubblica», e al contempo ne aveva biasimato il dilettantismo della forma8. In riferimento alle righe di Dorothea, il 10 aprile, osservava in modo deciso: Dorothea aveva ragione, c’era una grande differenza tra l’audacia dei Discorsi e quella della Lucinda. «Per quanto riguarda la religione [i Discorsi sulla religione] ci si può solo meravigliare di come si può dire una cosa simile al mondo, per la Lucinda, forse, anche di come si può dire una cosa simile agli amici, per i quali ha un senso molto più individuale che per il mondo»9. Il suo giudizio minacciava direttamente la relazione con Schlegel. Il primo segno epistolare della loro rottura dell’estate del 1799 è un biglietto di Friedrich del 14 aprile, che rispondeva alle citate considerazioni morali di Schleiermacher. «Sei tornato di umore migliore? Leggo di nuovo la tua lettera e non trovo ci sia niente da ricordare tranne una cosa. Dovrei rimproverarti a questo proposito del fatto che tu, dopo aver vissuto con noi, puoi applicare alla letteratura concetti miseri come esposizione pubblica, dilettantismo e simili. Ma tu stesso, nella tua pelle, dovresti vergognarti del tempo in cui hai scritto un siffatto libro»10. In ogni caso, Schleiermacher voleva trattenersi dall’esprimere qualsiasi giudizio definitivo prima che il romanzo fosse terminato. La voce della sconvenienza della Lucinda corse per tutta Berlino, prima che fosse pubblicata, e la sua pubblicazione fu poi una grande, evidente sciagura per l’intera cerchia degli amici. Critici importanti si erano compromessi, mai stanchi di sfruttare poeti incapaci e critici moralisti. «Lo scandalo», scrisse Schleiermacher nei primi giorni del 1800, «è generale; lo spirito di parte acceca gli uomini fino alla follia»11. Una volta Schleiermacher aveva buttato là di voler scrivere qualcosa sulla moralità della Lucinda. Friedrich colse al volo questa occasione, quando lo 7
KGA, V, 3, Lettera di Dorothea Veit e Friedrich Schlegel, 8 aprile 1799, n. 614, p. 71. Ivi, Lettera di Friedrich Schlegel e Dorothea Veit, 14 aprile 1799, n.628, p. 88. 9 Ivi, Lettera a Henriette Herz, 10 aprile 1799, n. 620, p. 76. 10 Ivi, Lettera di Friedrich Schlegel e Dorothea Veit, 14 aprile 1799, cit., p. 88. 11 Ivi, Lettera a Brinkmann, 23 dicembre 1799-4 gennaio 1800, cit., p. 315. 8
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scandalo, alla fine del 1799, era all’apice, e si appellò alla sua amicizia, affinché venisse in aiuto alla Lucinda. Schleiermacher dimenticò quanto astiosamente proprio la Lucinda avesse provocato il dissidio della primavera davanti al pubblico. Rischiava anche il suo posto di predicatore, che doveva venire seriamente compromesso dalla difesa del malfamato libro, se egli fosse stato riconosciuto come autore. Schleiermacher era consapevole di essere il solo a poter cogliere chiaramente l’elemento genuino e serio nelle intenzioni del romanzo, visti la sua inclinazione spirituale e il suo legame con Friedrich. Perciò, la difesa dell’amico, di cui era minacciata l’intera esistenza, la difesa di idee a lui care, che venivano trascinate nel fango, degli amici, che ne soffrivano, era posta, davanti a tutti, nelle sue mani: egli accettò, nonostante la voce ammonitrice del suo senso morale a lungo recalcitrasse. Così intraprese, nelle Lettere confidenziali sulla Lucinda di Friedrich Schlegel, una difesa di questo romanzo. L’origine delle Lettere Dopo il completamento dei Monologhi Schleiermacher abbozzò il progetto. Come mostra una lettera a sua sorella del 27 dicembre del 1799, lo commuoveva profondamente proprio allora la situazione di Friedrich, sul quale si versavano da tutte le parti indignazione e scherno. «Friedrich mi ha provocato una gioia e un dolore che nessuno avrebbe potuto procurarmi: se le differenze nel nostro modo di pensare, che sono radicate profondamente nella nostra interiorità, si sviluppassero di più e diventassero più lampanti che il nostro accordo, pur altrettanto grande e mirabile in alcuni altri punti, se anche ciò disturbasse il nostro accordo, io lo amerò tuttavia sempre di cuore e riconoscerò con gratitudine il grande influsso che ha avuto su di me. Proprio in questi giorni, due anni fa, venne ad abitare con me: ti puoi facilmente immaginare quanto ciò mi ha commosso»12. Il 4 gennaio del 1800 parlava a Brinkmann dello «spirito caratteristico», ma certo grande, della Lucinda, difendendola dalle selvagge grida che le si alzavano contro13. In questo stato d’animo elaborò il progetto. Al primo schizzo, di cui disponiamo14, manca completamente la concentrazione artistica del progetto più maturo. Si vede inoltre emergere in esso l’intenzione di scrivere un dialogo sul decoro, che fu iniziato immediatamente dopo il completamento 12
Ivi, Lettera alla sorella, 21-27 dicembre 1799, n. 757, pp. 309 ss. Lettera a Brinkmann, 23 dicembre 1799-4 gennaio 1800, cit., p. 318. 14 Gedanken III , KGA I, 2, n. 60, pp. 133-134. 13
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
della Lucinda, e realizzato nel maggio del 180015. Quando, nella primavera del 1801, Schleiermacher progettò una connessione di dialoghi etici, si annotò i mutamenti necessari del dialogo. Alla difesa della Lucinda si legarono, perciò, gli affini lavori etici. Non venne proseguita, invece, l’idea di sviluppare ulteriormente anche il punto di vista estetico in uno scritto sulla letteratura tedesca. Di questo secondo progetto Friedrich fu informato già il 6 gennaio; ottenne poi l’ulteriore notizia che l’amico, in quell’epoca, rifletteva, «molto seriamente e nel dettaglio», sulla poesia e in particolare sul romanzo16. Anche nel diario dell’epoca precedente e di quella successiva ai Monologhi si trova una lunga serie di annotazioni, in particolare sul romanzo e sul dramma. La traduzione di Shakespeare fatta da Wilhelm Schlegel, di cui era apparsa in questi anni la terza parte, spingeva nel medesimo periodo a questi paragoni. Alcune idee concepite in questo contesto furono utilizzate in una recensione della Lucinda, che fu pubblicata nel luglio del 1800 nell’Archiv der Zeit17. Le Lettere sulla Lucinda furono scritte in poche settimane, grazie all’impegno del tipografo. Friedrich Schlegel le vendette a Bohn, che le pagò un federico d’oro a foglio, e furono stampate a Jena presso Frommann in 750 esemplari, in gran segreto. La prima lettera, rivolta ad Ernestine, sembra essere arrivata a Jena all’inizio di aprile, e il 5 maggio Friedrich aveva già in mano l’ultimo foglio. Quanto differente era il sentimento con il quale Schleiermacher guardava al lavoro terminato, rispetto a quello che lo aveva riempito al termine dei Discorsi! A ragione si sentiva insoddisfatto, e invano Friedrich tentava di eliminare questo sentimento. Il pensiero filosofico nella sua connessione con le Rapsodie etiche e con i Monologhi Le lettere di Schleiermacher schizzano una filosofia della vita (Lebensphilosophie) in linee chiare e salde, che devono stabilire l’essenza della donna, del matrimonio e dell’amicizia, del pudore e della rappresentazione artistica dell’amore nella nuova società. Nella loro evidenza e chiarezza concettuale esse dimostrano, nel modo migliore, che sul pensiero dell’individualità è impossibile plasmare effettivamente le reali condizioni sociali. Questo pensiero
15
Cfr. Ivi, n. 60, 67, p. 135; Gedanken V, KGA I, 3,n. 43, 45, pp. 292-293. Br. III, p. 153. Lettera di Friedrich Schlegel, senza data. 17 Rezension von Friedrich Schlegel: Lucinde (Berlinisches Archiv der Zeit und ihres Geschmacks, 6, 2, 1800), KGA I, 3, pp. 217-223. Br. III, pp. 209 ss. Lettera di Friedrich Schlegel, senza data; Br. IV, p. 537. 16
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è vero, ma parziale. E da presupposti che sono veri ma non sufficienti né completi seguono, nell’applicazione alle situazioni reali, ideali sbagliati. Il pensiero di Kant, che era proseguito attraverso Schleiermacher, riconosce, in tutto il chiasso della storia, nelle forme politiche e nelle visioni del mondo che nascono e che tramontano, come incondizionatamente pieno di valore solo lo sviluppo di ciò che è eterno nella persona. Da questo pensiero deriva che la donna condivide l’altissimo compito formativo dell’uomo. La questione è, allora, quanto sia collegata alla differenza tra i sessi, non in modo storicamente casuale, bensì essenzialmente, una differenza dell’ideale personale. Ha un decisivo influsso su questa risposta, viste le difficoltà di sicure deduzioni dai fatti, l’atteggiamento formatosi nel costume della propria cerchia. La cerchia vitale di Schleiermacher, la sua opposizione contro la svalutazione della donna e del matrimonio a elemento dell’istituzione economica, che egli spesso vedeva intorno a sé, il suo ideale dell’individualità completa e sostenuta dall’educazione e dall’entusiasmo, tutto questo dominava l’inclinazione, in essa predominante, ad avvicinare la formazione intellettuale e morale della donna a quella dell’uomo. Solo i lavori dei suoi anni più tardi, ad esempio le lezioni di psicologia, hanno modificato questa tendenza18. Lo sfondo etico delle lettere è concentrato in poche frasi nel Catechismo per nobili signore, progettato nel 1798, che è, per così dire, il programma di questa tendenza generale: la donna deve imparare a credere all’umanità eterna, di cui virilità e femminilità sono semplici rivestimenti, «alla forza della volontà e della educazione», attraverso le quali lei stessa si rende indipendente dai limiti legati al suo sesso, ai beni superiori, che in futuro non dovrà considerare, con invidia o pigrizia, come esclusiva proprietà degli uomini: entusiasmo e amore per la patria, scienza e arte19. Un tale ideale femminile mutava necessariamente anche l’ideale dell’amore e del matrimonio. Qui si innestano i Monologhi. Essi combattono il matrimonio meschino, il concatenarsi di due volontà, di cui una deve sacrificarsi all’altra, per renderla felice, di cui una diviene così la sventura dell’altra; un legame siffatto è la tomba della libertà e della vera vita. Essi sviluppano l’ideale del matrimonio come armonia di due nature, nella quale nasce una volontà nuova, comune, concorde, l’individualità di una casa dotata di forma e caratteri propri. Ciò che costituisce la somma felicità, ma anche il maggior pericolo, per nature formate in modo individuale e superiore, diventa, nei Monologhi e nelle Lettere, la quintessenza di una grande istituzione umana. 18 19
Psychologie, WW III, 6, pp. 290-301. Ath., I, 1, pp. 109 ss.
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Questa concezione richiedeva un completamento. Nella magistrale sezione dell’etica dedicata a queste relazioni è messa in risalto la necessità morale del matrimonio: si contrappone quindi, allo scrupolo arrogante, per il quale «nulla è sufficientemente perfetto per decidersi ad esso», la considerazione che «nella condizione naturale di un essere umano deve esserci sempre la possibilità di raggiungere la propria destinazione morale». «L’ideale dell’amore romantico», il pensiero della «assoluta unicità» costituisce, alla luce di questo successivo punto di vista, un superamento della realtà, poiché riposa «sulla perfezione di ciò che è individuale»20. Da questa differenza nella concezione schleiermacheriana del matrimonio segue la contraddizione tra le prime convinzioni e quelle successive circa i presupposti della sua soluzione. Il famoso passo dei Monologhi si basa sull’ideale “romantico” dell’unicità dell’amore: «dove può abitare colei alla quale mi conviene legare la mia vita? Chi può dirmi dove devo andare per cercarla? Poiché, per ottenere un bene così alto, nessun sacrificio è troppo caro, nessuna fatica troppo grande. E se la trovassi sotto una legge straniera, che me la nega, potrò liberarla?»21. Il confronto tra le differenti epoche, in cui si è fatto valere lo sviluppo individuale, conferma questa connessione tra formazione spirituale dell’individualità e “ideale romantico”. Nell’epoca della somma finezza della cultura attica, Platone schizzò il mito dell’unità soprasensibile di due nature, della loro violenta separazione e della nostalgia che le consuma per tutta la vita. Gli scrittori di dialoghi e i lirici del Rinascimento italiano proseguirono a formare il pensiero antico dell’unità originaria delle anime nell’essenza divina. La forma artistica Le Lettere sulla Lucinda sviluppano pensieri etici in una forma artistica, la cui realizzazione, ora superficiale ora pesante, rimane, a dire il vero, molto indietro rispetto all’intenzione. Donne e uomini di sublime educazione si intrattengono con tutta la libertà caratteristica di una tale società, non indietreggiando spaventati davanti a nessun mistero; ci sono riferimenti evidenti a persone della cerchia di Schleiermacher e ai loro sentimenti; e in mezzo a loro stanno Eleonora e Friedrich, nei cui personaggi l’autore ha dato corpo al suo ideale e, insieme, al sogno del suo futuro. «In particolare colei che dà più nell’occhio, Leonore, è proprio una donna reale. Ciò che viene detto sotto questo nome è proprio il suo pensiero e in grande parte anche le sue 20 21
Entwurf eines Systems der Sittenlehre, SW III 5, pp. 257-263. Monologen, KGA I, 3, pp. 115 ss.
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LA BATTAGLIA TEORICA DEI NUOVI IDEALI ETICI
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parole»22. Solo che l’autore ha dato all’ideale del suo amore, che entrambi portavano in sé segretamente, un’espressione passionale che è nei diritti della poesia. Intorno ai due personaggi principali se ne raggruppano altri, ai quali invece non so sollevare le maschere: il filologo Spalding è rappresentato certo come Eduard; su Ernestine e Caroline ho solo ipotesi. L’ordine delle lettere è organizzato per distruggere, passo dopo passo, le perplessità contro il romanzo di Friedrich. Viene fissato il punto di vista, sotto il quale spariscono le obiezioni estetiche contro il romanzo (lettera 1); vengono combattuti i dubbi che nascono dalla rappresentazione manifesta dell’amore nell’opera d’arte (lettere 2 e 3 sul pudore); poi viene difesa e approfondita la concezione, esposta nel romanzo, dell’educazione all’amore e della sua essenza (lettere 4, 5, 6). Quindi è raggiunto il culmine dell’opera: l’amore stesso viene introdotto eloquentemente nello scambio epistolare di Eleonore e Friedrich e nei diari di Eleonore. All’ultima lettera rimane solo il compito di ricomporre i fili della critica e della difesa, tessuti in questa rappresentazione dell’amore: c’è qui un errore nella composizione che attenua molto l’impressione globale. L’ordine dato da Schleiermacher deve essere invertito, la serie dei pensieri deve essere ricostruita nel suo vero sviluppo genetico, procedendo sulla base dei pensieri dei Monologhi.
1. Amore e matrimonio Dalla quarta all’ottava lettera. Caratterizzazione di Eleonore Il misconoscimento dei reali fondamenti del matrimonio conduce lo spirito serio e conseguente di Schleiermacher in errori morali sempre più profondi. Ogni volta che, nelle epoche individualistiche, l’amore viene percepito come una attrazione individuale basata sulla scelta, esso entra in conflitto con il matrimonio, a causa delle reali condizioni, che abbandonano una tale attrazione in balia del caso imprevedibile e, con essa, anche la formazione della più nobile, più salda relazione morale, sulla quale tutte le altre devono riposare sicure. Per il mutamento delle relazioni sociali questo conflitto assume una diversa forma. All’epoca di Platone e della suprema fioritura della società greca, poiché le donne di buona famiglia non condividevano l’educazione degli uomini, il matrimonio e la donna rimanevano nell’ombra di fronte all’amore spirituale per i giovinetti e alle relazioni con 22
Br. I, p. 274. Lettera a Ehrenfried von Willich, senza data.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
donne di malaffare: nei tragici e nei comici ci sono indizi del fatto che, tra le stesse donne di buona famiglia, si risvegliò la tendenza a cambiare la propria condizione intellettuale e sociale. Nel Rinascimento italiano le donne parteciparono alla formazione maschile: tuttavia, per la rigida ed errata concezione, che teneva lontane le ragazze dalla società, il matrimonio era convenzionale, cosicché emerse, accanto a esso, nell’arbitrio peccaminoso, l’attrazione elettiva tra uomini e donne dei ceti sociali superiori. Il costume germanico, garantendo maggior libertà alle giovani donne, ha reso possibile il mantenimento di un matrimonio genuino e morale all’interno di una società altamente progredita. Schleiermacher esagera questo punto di partenza effettivamente presente nel nostro costume, per salvaguardare, nonostante i suoi presupposti individualistici unilaterali, la fede nel vero matrimonio e nella sua santità. Tali riflessioni ci consentono di chiarire, innanzitutto, in qualche modo, le argomentazioni presenti nella lettera a Caroline, che feriscono nel modo più profondo il semplice sentimento. Mi accontento di comunicarne il pensiero centrale, che disprezza, senza alcun riguardo, ciò che è più delicato nel genuino sentimento. «Anche nell’amore devono esserci tentativi provvisori, dai quali non nasce nulla di duraturo, ciascuno dei quali, però, contribuisce a rendere il sentimento più determinato e la prospettiva sull’amore più grande e più splendida». «Qui esigere fedeltà e voler creare una relazione duratura è un’idea tanto nociva quanto vuota. Ricorda questo, cara bambina, ti servirà per diventare tutt’uno con te stessa, al di là dei tuoi primi importanti impeti di passione e amore: non farti assurde idee sulla santità di una prima sensazione»23. Qui emerge in modo particolarmente spiacevole l’intenzione di difendere, attraverso una teoria etica, il romanzo di Schlegel. Schleiermacher sviluppa ulteriormente l’ideale del matrimonio genuino e dell’amore. Qui la Lucinda lo incalzava però con un importante problema, quello della relazione tra ciò che è spirituale e ciò che è sensibile. Egli trova la soluzione di questo problema nel pensiero etico di una moralità produttiva (bildende Sittlichkeit), che non limita, cioè, sensibilità, fantasia, passione attraverso la semplice imposizione della legge, ma le nobilita attraverso lo spirito. L’ultimo presupposto metafisico per questo principio etico è espresso nelle parole della lettera: «[Gli uomini] conoscono già certo corpo e spirito e l’identità di entrambi, e questo è proprio l’intero segreto»24. Da questa identità segue allora, come ideale etico dell’amore, la completa unità di tutto ciò che è sensibile e spirituale; in ogni espressione, in ogni tratto, ciascun 23 24
Vertraute Briefe, KGA I, 3, p. 186. Ivi, p. 193.
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elemento deve essere compenetrato nel modo più profondo dall’altro, e già la loro separazione nella parola appare un’empietà. In questo pensiero l’antica visione, per la quale l’amore, inteso come pienezza della forza vitale e fioritura della sensualità, era qualcosa di divino, viene conciliata con la visione intellettuale e mistica di esso, che è il prodotto più alto della cultura moderna. Le nuove divinità non possono cacciare le antiche. «Piuttosto solo ora siamo in dovere di comprendere rettamente la santità della natura e della sensualità»: perciò ci sono stati conservati i bei monumenti degli antichi, poiché proprio questo deve essere riedificato in un senso molto più alto di prima, degno di tempi nuovi e più belli»25. La forza dominante e produttiva dell’animo (Gesinnung) nei confronti degli affetti sensibili sarebbe emersa in modo più evidente se Schleiermacher, al posto di questa oscura identità, avesse posto il chiaro pensiero teleologico di una compenetrazione, di un’animazione e formazione della natura attraverso la ragione. A prescindere da ciò, questo risultato è passato nella Critica della dottrina dei costumi e nell’Etica come una verità duratura, il cui limite non è però stato visto da Schleiermacher. Il vero matrimonio non è la fine dello sviluppo per gli individui. «L’uomo, attraverso l’amore, guadagna in unità, poiché collega tutto ciò che è presente in lui al vero e sublime centro della sua esistenza: brevemente guadagna in chiarezza di carattere; la donna, al contrario, guadagna in autostima, in accrescimento e sviluppo di tutti i semi spirituali, a contatto con l’intero mondo»26. «Sull’enigma dell’amicizia, secondo il mio più intimo sentimento, non posso dare una spiegazione diversa dalla tua. È proprio così: voi trovate con l’amore, e solo attraverso esso, tutto il resto, e l’amicizia appartiene agli ampliamenti e agli arricchimenti, per i quali, solo da quel momento in poi, siete capaci»27. «Ci siamo formati un grande libero stile di pensare e di vivere e gli Dei ci hanno dato un delicato cuore inquieto. Perciò agiamo come fino ad ora abbiamo fatto, per esporre la bella riunificazione di indipendenza e amore»28. In opposizione all’angusto, «asmatico»29 amore del romanzo, occupato con se stesso, nasce così solo dal matrimonio la vita attiva più ricca di forza. L’importanza di tutta questa teoria delle Lettere è che in essa sono presenti l’inizio, certo ancora unilaterale, della geniale esposizione schleiermacheriana 25
Ivi, p. 194. Ivi, p. 203. 27 Ivi, p. 207. 28 Ivi, p. 203, 207, 211-212. Cfr. la bella esposizione in Entwurf eines Systems der Sittenlehre, WW III 5, par. 259. 29 Vertraute Briefe, KGA I, 3, p. 164. 26
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dell’etica e singole belle trattazioni, che la spiegano. Fu fatale il fatto che essa iniziasse a incidere nei costumi a partire da presupposti così incompleti. In essa, infatti, la sensibilità per la semplice norma delle relazioni umane si ritira eccessivamente dietro a più raffinati sviluppi. Significa tuttavia disconoscere del tutto la forza delle passioni umane, se si desidera sospendere la severità dei costumi e l’inviolabilità sacra delle istituzioni, che sono il saldo argine contro le passioni, per concedere libero gioco alle individualità etiche. Lo spazio, che l’etico idealista ha voluto riservare a queste, sarebbe stato presto sommerso davanti ai suoi occhi dalle passioni sfrenate, la cui forza reale è incomparabilmente più grande delle differenze spirituali individuali.
2. La rappresentazione dell’amore nell’opera d’arte Dalla prima alla terza lettera. Sul pudore. Dialogo sul decoro Dai presupposti di una diversa educazione della donna e di una spiritualizzazione della sensibilità si otteneva, secondo Schleiermacher, una concezione dei limiti della rappresentazione sociale e artistica di ciò che concerne i sensi, che si discosta dal nostro sentimento etico. L’ideale dell’amore è un’intuizione. «Si giunge qui ad una sintesi, che non si lascia dimostrare. Bisogna produrla ed esporla»30. Perciò l’espressione adeguata di questo ideale è possibile solo nell’opera d’arte che rappresenta l’amore come un tutto non divisibile. Da qui consegue in che senso si può parlare della moralità e dell’immoralità di un’opera d’arte. La rappresentazione artistica dell’ideale dell’amore è un bisogno del genere umano. Ogni opera d’arte, animata dalla medesima idea genuinamente morale, ha dunque diritto all’esistenza, e solo il legame tra il carattere dell’opera d’arte e questa idea morale nell’artista decide della moralità della sua poesia. Al contrario, non può essere posto arbitrariamente limite al materiale della rappresentazione, né si può pretendere che una giustizia poetica o un giudizio, aggiunto espressamente in ogni caso all’interno dell’opera stessa, esercitino il loro compito punitivo. I limiti posti da Schleiermacher superano quelli che il decoro e il pudore impongono ai nostri costumi. Perciò Schleiermacher nel Dialogo sul decoro, che doveva essere originariamente aggiunto alle Lettere sulla Lucinda, e nel saggio Sul pudore, che si trova lì, ha cercato di rimuovere lo scandalo. Twesten, nella sua bella introduzione all’etica, che ha un particolare valore, vista la stretta relazione di quest’uomo con Schleiermacher, considera 30
Ivi, p. 193.
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il saggio Sul pudore come «un modello di discussione pungente e libera di difficili concetti morali» e gli assicura un «duraturo significato»31. Non posso condividere questa visione. Il saggio Sul pudore intende sviluppare, a partire dalla critica alla concezione comune del pudore, come sua vera essenza l’«attenzione per lo stato d’animo di un altro, che ci deve impedire di interromperlo, per così dire, violentemente»32. Il procedimento con il quale si ottiene questo concetto si basa su due elementi. La vergogna (Scham) si volge, con la sua condanna di una qualche estrinsecazione della nostra natura, a questa natura, al processo emotivo, nel quale nasce l’esternazione. Il pudore (Schamhaftigkeit) investe, con la sua condanna, solo la comunicazione, non il processo emotivo stesso. La Critica della dottrina dei costumi scopre la contraddizione in questo concetto: in esso viene condannata una comunicazione, che porta tuttavia alla luce per chi ascolta ciò che, in chi comunica, non è stato per nulla rifiutato come immorale. Il saggio Sul pudore dà come soluzione positiva di questa contraddizione che la ferita del pudore è fondata solo nel turbamento violento della vita interiore di un altro. Così questo concetto morale viene concepito in modo universale e si relaziona, ad esempio, a ogni errato tentativo di interrompere, per così dire, l’atmosfera di uno che sogna, ad ogni parola spiritosa inopportuna, che disturba uno stato d’animo serio33. Il secondo elemento di questa argomentazione è attinto dalla forma dell’etica. Il concetto universale ottenuto libera l’etica dall’anomalia di una virtù che veniva determinata dalla relazione ad un oggetto. Questi motivi non reggono. Sottolineo che il secondo motivo esprime, per la prima volta, un pensiero centrale dell’etica successiva, relativo alla formazione della dottrina della virtù, ma non posso esaminarlo in questa sede. Ad ogni modo ci sono impulsi morali che si relazionano esclusivamente a una determinata cerchia vitale. Un tale impulso è la radice delle diverse estrinsecazioni del pudore. Tra i nostri impulsi superiori e il destino dei nostri corpi, dall’entrata nel mondo, dalla formazione del corpo fino al suo annientamento, sussistono quei contrasti di grandezza e nobiltà, che Pascal mise in luce, quando confrontò la nostra situazione con quella di un re deposto. Il pudore si estende quanto questo contrasto tra la grandezza della nostra destinazione e il comune destino del corpo, così che anche il dolore per l’impotenza dell’anima nell’agonia della morte è una forma di pudore. Perciò, tutto quello che ha a che fare oltremisura con il destino corporeo e 31
Twesten, Schleiermachers Grundriss der philosophischen Ethik, 1841, p. LXXXI. Vertraute Briefe, KGA I, 3, p. 172. 33 Ibid. 32
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ottunde così la coscienza della grandezza morale, come ad esempio malattia e vecchiaia, rende facilmente cinico l’uomo. Dall’esame di questo impulso oggettivo segue però, nell’etica, una concezione delle relazioni qui discusse differente rispetto a quella delle lettere. I concetti di decoro in vigore pongono ulteriori limiti, che il Dialogo sul decoro inizia a rimuovere. Tutta la lode, che Twesten conferisce a quel saggio Sul pudore, può spettare di diritto a questo geniale schizzo. Dai concetti errati del decoro è sviluppato, con sano senso morale, quello vero. Il volere del momento determinato non assorbe l’intero nostro animo; ci sono rappresentazioni, che sussistono e agiscono indipendentemente da questo volere; esse si impadroniscono di ciò che, né attraverso la moralità né attraverso l’abilità, può essere determinato e così formano e stabiliscono nelle azioni ciò che chiamiamo decoroso. Così nasce, ad esempio, in mezzo al disaccordo, il carattere tranquillo dei gesti o il tono moderato della voce. Queste rappresentazioni illustrano il passato morale di chi agisce: «ciò che, se appartiene all’intenzionale e all’espressamente voluto, era morale, diventa, se appare non voluto, decoroso». «Nel decoro scopro le tracce di un lungo perseverante esercizio, principi e concetti sempre presenti»34. A questa bella teoria schleiermacheriana deve essere tolto l’individualismo, affinché essa esprima esaurientemente l’oggetto. Il decoro riposa non solo sul lavoro morale dell’individuo, bensì sui più lunghi e più ampi sforzi della comunità. Considerando ciò, la teoria evita la radicale conseguenza, che concentra il decoro nel compito di rappresentare esteriormente la moralità personale e annienta ogni dovere di rispettare la consuetudine. Essa termina invece nel compito di conciliare l’espressione dell’ethos personale con l’eredità del lavoro etico del passato, della totalità.
3. Lucinda come rappresentazione artistica dell’amore nel romanzo Prima e ultima lettera. Critica della Lucinda nell’Archiv La giustificazione estetica della Lucinda ha un interessante punto di partenza negli studi di schleiermacheriani sul romanzo. L’oggetto del romanzo è la «rappresentazione dell’umanità interiore» e della sua unità nella serie cangiante delle situazioni esteriori, in opposizione alla novella, che comprende le relazioni sociali esteriori nei processi interiori. La sua unità sta nella saldezza del temperamento e dei principi in diverse condizioni, in opposizione al dramma, la cui unità è posta nell’azione. In quanto rappresentazione del mondo 34
Über das Anständige, KGA I, 3, pp. 73-99.
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interiore in caratteri unitari il romanzo è inoltre l’unica poesia dei moderni, nonché apice e tendenza di tutta la poesia in generale: un giudizio estetico, che svela il pensatore morale in mezzo ad un’epoca contemplativa. È in realtà un sofisma l’applicazione di questa teoria alla Lucinda, al fine di lodarne la fede nel fatto che l’amore soltanto, nella sua maestà, senza alcun allestimento esteriore, può dare vita ad un grande poema. Non c’è qui altro che la povertà, che non è capace di presentare, con l’evidenza della realtà, «la serie cangiante delle situazioni esteriori», richiesta anche dalla teoria schleiermacheriana. È inutile trasformare in lode la parola di scherno di Caroline: «Troppo amore e troppa poca poesia». Altrettanto sofistico è quando le rapsodie informi della Lucinda vengono chiarite a partire da un presunto bisogno di rappresentare l’interiorità libera dal materiale delle relazioni esteriori. La debole lamentela finale contro le immagini sconnesse, contro l’eccessiva teorizzazione si perde in un entusiasmo per questa composizione, nella quale amicizia e mancanza di giudizio estetico hanno avuto la stessa parte. La giustificazione morale della Lucinda è mescolata con una polemica esoterica più evidente che quella estetica. Chiaramente, alla luce del pensiero morale di Schleiermacher, la più dura condanna avrebbe dovuto investire il romanzo di Schlegel. Scheiermacher, effettivamente, osserva e mette in risalto ogni esagerazione: l’incapacità di comprendere l’unità di sensibile e spirituale, l’esagerato piacere del piacere, un dubbio peccaminoso sull’eternità dell’amore e un odio folle contro il matrimonio, infine la mancanza del sentimento che il genuino amore emerge nel vivere e nell’agire. Ma il richiamare qua e là i principi schlegeliani nelle Lettere, il tono pieno della lode e quello allusivo del rimprovero nascondono il vero risultato, che il confronto dei pensieri etici nell’opera di Schelgel e nell’opera di Schleiermacher, qui presentato, ha cercato di porre in risalto. Apprezzamento. Primi effetti. Ci si chiede ancora una volta, per concludere, come potesse nascere un libro che, nonostante alcune trattazioni straordinariamente belle e profonde, non era degno di Schleiermacher. Si consideri l’insieme dei fatti. Egli scrisse per un amico minacciato, nel giustificato disgusto di fronte alla moralità presuntuosa dei suoi oppositori. Il suo spirito esteticamente poco formato gli fece vedere profonde intenzioni in un libro debole. La sua affinità con Friedrich in relazione a importanti idee morali lo obbligava a non lasciar calunniare, con l’opera dell’amico, anche il proprio ideale. Da profondi, ma
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incompleti principi, Schleiermacher tirò precipitosamente conseguenze, che ferivano le motivazioni genuine della vita morale, ma che promettevano di procurare al romanzo dell’amico la protezione di una teoria pensata fino in fondo. Perciò là dove la sensibilità morale viene ferita nel modo più forte, si riscontra che Schleiermacher copre una parte debole della poesia con la teoria. Compose lo scritto polemico in poche settimane. In esso l’intenzione di agire sul momento gli suggerì parole temerarie, che impauriscono il lettore di oggi, al quale non sono destinate. In questo scritto, l’amarezza per i trucchi degli oppositori gli imponeva il punto di vista unilaterale dell’avvocato. Raramente qualcuno che, in simili condizioni, anche solo con mezzo cuore, sentisse il dovere di difendere una causa persa, è sfuggito alla maledizione dell’esagerazione e della sofistica. Bisogna considerare tutto questo per separare le espressioni semplicemente apologetiche dalle intuizioni morali fondate nella connessione della visione della vita, e per chiarire l’errore di base dello scritto, cioè l’applicazione precipitosa di un pensiero morale unilaterale alla vita, che ferisce potenti e sacri interessi morali: definirei questo pensiero una forma di radicalismo morale. Certo si deve qui menzionare anche un motivo più profondo, cioè l’incontro di un’epoca, volta alla ricerca di nuovi fondamenti morali, un’epoca scettica, piena di passioni e sofismi, con un tale carattere. Ci sono scrittori che, dopo i primi tentativi giovanili, non hanno più fatto nessuna mossa falsa, come Lessing, Kant e Schiller. Un potente intelletto limitò le loro fatiche ad un terreno che essi avevano completamente nelle loro mani. Al contrario si perdoneranno i lavori di Goethe, come Il generale cittadino, sempre solo intendendoli come il superamento del proprio limite, e si troverà in Herder questa contrasto ancora più stridente. Questi uomini avevano un’incredibile ricettività, ed attiravano nel loro terreno anche fatti che non erano loro congeniali. La grande volontà schleiermacheriana di comprendere tutto ciò che è umano era legata a una individualità formata in modo molto personale, che teneva lontano da lui non pochi fenomeni. Il suo enorme intelletto era in ogni momento pronto a riempire i vuoti di genuina esperienza attraverso la teoria. E proprio la cerchia delle sue esperienze mostra, oltre alla mancanza di studio storico, un altro limite evidente. La sua organizzazione fisica non forte, il suo carattere pacato, dominato facilmente dal precoce esercizio, non hanno mai sperimentato la forza delle passioni né il più difficile di tutti i processi morali, nel quale esse vengono dominate e nobilitate dall’animo. Perciò continuamente, nei suoi lavori di etica, prevale il grande colpo d’occhio dell’ideale della cultura sulla comprensione delle battaglie morali che si svolgono nella storia e nella vita del singolo uomo.
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Lo scopo dello scritto polemico era del tutto fallito. Nemmeno nella più ristretta cerchia esso riuscì a conciliare gli animi con la Lucinda. Solo di Ritter Friedrich sa raccontare qualcosa di preciso, altrimenti Schleiermacher si doveva lasciar accontentare dall’entusiasmo, fin troppo ovvio, dell’amico e di Dorothea. La maschera dell’anonimità era troppo trasparente, editore e tipografo non potevano essere stati completamente taciuti. Così Tieck venne subito a conoscenza dell’autore, ma espresse non meno apertamente la sua antipatia per questo scritto. Anche la lode di Wilhelm era mescolata a un giusto rimprovero35. Le lettere ebbero, all’esterno, un effetto ancora meno felice. Al pubblico rimasero poco conosciute; questo addolorò Schleiermacher, poiché, alla fine, le aveva pur scritte. Tanto più abbondante uso facevano di quelle gli oppositori letterari della nuova scuola. Schleiermacher venne offeso in modo meschino, e divenne sospetto anche nel suo ufficio di predicatore. Una particolare sfortuna fu il fatto che le lettere di Vermehren sulla Lucinda uscirono nel medesimo anno, dopo le Lettere e le note di Schleiermacher, in estate36. Dopo «una considerazione artistica solitaria di otto giorni» della Lucinda questo pedante entusiasta scrisse una brochure, che è una buffonesca caricatura dello scritto di Schleiermacher. Essa suscitò il definitivo disgusto del pubblico per questo dibattito. Così queste Lettere schleiermacheriane acuirono solo il contrasto nato con la Lucinda; agli occhi del pubblico esse aggiunsero un nuovo peccato a quello vecchio. Dopo l’apparizione della Lucinda si formò un partito serrato e ben organizzato contro i compagni.
35
KGA V, 4, Lettera di August Wilhelm Schlegel, 16 giugno 1800, n. 890, pp. 97 ss. Johann Bernhard Vermehren, Briefe über Friedrich Schlegels Lucinda, zur richtigen Würdigung derselben, Jena 1800. 36
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SEPARAZIONI1
«Come è certo», scriveva Steffens tredici anni dopo i fatti di questo 1800 a Tieck, «che l’epoca nella quale Goethe, Fichte, Schelling e gli Schlegel, [tu], Novalis, Ritter e io ci sentivamo tutti riuniti, era ricca di semi di diversi tipi, altrettanto certo è, tuttavia, che nell’insieme c’era qualcosa di empio. Doveva essere eretta una torre di Babele spirituale, che tutti gli spiriti dovevano riconoscere da lontano. Ma la confusione delle lingue seppellì questa opera della superbia sotto le proprie macerie. “Sei tu quello con il quale ho sognato di unirmi?”, ci si domandava l’uno l’altro. Non riconosco più i lineamenti del tuo viso, le tue parole mi sono incomprensibili. E ciascuno si separava andando in opposte regioni del mondo: i più con la follia di costruire, nonostante tutto, la torre di Babele a modo proprio»2. Sono qui ben indicati un importante tratto storico-culturale di questo movimento e il suo destino. In questa cerchia sussisteva una consapevole e appassionata volontà di realizzare in un lavoro comune la visione filosofica del mondo, di procurarle una toccante espressione nella poesia, di assicurarle realizzazione concreta, nonché dominio sulla nazione in ambito letterario, in mezzo ad una stampa e ad una letteratura degenerate, fosse anche attraverso una polemica violenta, che soffocava ogni opposizione. Questa volontà nasceva, in prima linea, non da particolari motivazioni egoistiche, legate all’ambizione e alla lotta per l’esistenza, per quanto forti fossero tali motivi 1 Delle molte fonti per questo capitolo cito solo alcuni manoscritti che si sono aggiunti di recente. Ringrazio il professor Waitz di Gottinga per la comunicazione delle lettere e di alcuni passi delle lettere possedute dalla famiglia Schelling. Ringrazio il professor Stark per avermi reso accessibile un’importante lettera di Schleiermacher su Platone. Le annotazioni anonime spesso utilizzate, tratte dalla Vita di Gries sono state raccolte, grazie alla generosa comunicazione del consigliere Ratjen, da Elise Campe. 2 Briefe an Ludwick Tieck, a cura di Holtei, IV (1864), pp. 65 ss.
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SEPARAZIONI
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da entrambe le parti, nel fermento letterario di questi giorni, abbondante di talenti, ma povero di mezzi: essa derivava, invece, dalle condizioni concrete e dal carattere del movimento stesso. Schleiermacher e Fichte furono tra i più zelanti nel formare una fazione e nel non risparmiare alcuna violenza. In un popolo senza Stato, non più animato da alcun credo comune, uomini eccellenti ed entusiasmati dai propri pensieri, intrapresero a imprimere, nella vita vuota e povera di idee, un nuovo idealismo. Genuini discepoli di Kant, essi intendevano richiamare dal profondo dell’anima umana la legge morale, che in tempi più felici è sacra come legge di Dio e come volontà unificatrice di un grande popolo e darle nuova forma. Per questo bramavano il dominio. Un ulteriore elemento li collegò alla fazione. Le stesse persone, che in questo periodo erano implicate nel modo più appassionato in queste consorterie, più tardi, durante il dominio straniero, sono state in prima fila a combattere per la liberazione del nostro popolo. Quando lo Stato crollò e, in modo debole e fiacco, i falsi moralisti, coloro che ammonivano alla moderazione e alla temperanza, i guardiani della moralità, molto stimati dalla brava classe media, si dispersero, gli Schleiermacher e i Fichte hanno dedicato la loro vita allo Stato, pronti a farsi seppellire nella sua rovina, e anche uomini come i due Schlegel ebbero una parte non ingloriosa in questi avvenimenti. Era l’ombra di una comunità, era, per così dire, uno Stato del pensiero, ciò che essi cercavano di realizzare con questa attività partigiana. C’è un bisogno, nelle nature grandiose, di condividere, con molti compagni, un’unica volontà e un unico sentimento, sotto la spinta di una potente ondata della vita interiore. Il più nobile, appagante entusiasmo e dannose fazioni nascevano da questo bisogno. Schleiermacher, nei Discorsi, ha espresso il desiderio (Sehnsucht) di una comunità ecclesiastica, nella quale un unico sentimento religioso colleghi con forza gli animi. Nei Monologhi, poi, lasciando molto dietro di sé le teorie politiche kantiane, seguì le tracce di Platone, “l’antica favola dei saggi”: Schleiermacher esigeva uno Stato, dedicarsi al quale garantisce all’uomo la forza più alta e l’esistenza più nobile. Aspirava a un senso dello Stato per il quale è meglio «mettere a rischio la vita piuttosto che la patria venga assassinata»3. È comprensibile che una tale natura e quelle ad essa affini, non avendo un punto d’appoggio per questi sentimenti virili, cercassero di fondare una patria spirituale, uno Stato del pensiero. Non può esser ignorato il motivo storico che ha contribuito a questa situazione: lo spettacolo della Rivoluzione francese. Fichte, Friedrich Schlegel, Schleiermacher guardavano con un forte interesse cosmopolitico a questi avvenimenti. Gli oppositori sottolinearono ovunque, ora in modo accusa3
Monologen, KGA I, 3, p. 33.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
torio ora lamentoso, questo legame. Su questo tema ritorna spesso Herder. «I tempi della rivoluzione», scrive a Knebel il 30 giugno del 1800, «hanno agito in modo folle sulle nostre menti e sui nostri cuori. Da ciò dipendono i generali disaccordi e le incomprensioni, l’arroganza moderna e l’impertinenza, che dovrebbe imitare, si diis placet, l’atmosfera libertaria francese». Con orrore l’uomo di corte apprende che questi modernissimi scrittori di giornali portavano le fedine fino al mento4. Quando Dorothea, nel 1799, ebbe visto l’attività di Berlino e poi quella di Jena, scrisse a Schleiermacher: «Voi uomini rivoluzionari dovreste dapprima duellare fino all’ultimo; poi, per riposare, potreste scrivere, proprio come Götz di Berlichingen scrisse la storia della sua vita. Il vostro essere e la vostra volontà sono adatti alla letteratura, alla critica e a tutta questa roba come un gigante a un letto per bambini»5. «La critica», spiegava Wilhelm a Schleiermacher, è «un organo indispensabile per la grande rivoluzione, e noi dobbiamo dapprima crearci i tempi felici, in cui ci si potrà dedicare completamente ad esercitare un effetto positivo»6. Sta nel metodo sbagliato di questa direzione dei Fichte e degli Schelling, che disprezzava la sicura e ampia base delle scienze empiriche (Erfahrungswissenschaften), il fatto che l’intenzione pienamente legittima di agire, a partire da ampi principi, in modo unanime, sulle scienze singole, sulla vita e sull’arte, sia fallita. Inoltre, nella ricchezza confusa dei motivi ideali di quest’epoca, emerse dal breve accordo un lungo esacerbato conflitto. Lacerazione individualistica e scatenarsi delle passioni all’interno di questa cerchia fecero sì che antipatia e avversione crebbero in essa, che i contrasti intellettuali si acuirono, lasciando ai comodi moralisti prendere il sopravvento, di fronte al pubblico, sulle aspirazioni portate avanti da questa cerchia con sforzi e sacrifici di ogni tipo. Dalla primavera del 1800 fino al 1802 Schleiermacher si trovò a vivere in prima persona la distruzione del sodalizio, fino ad allora felice, l’allentamento delle relazioni di amicizia più strette, la vittoria della mediocrità; fu poi oppresso, nella vita privata, da così tanta preoccupazione, sospetto e pericolo di uno scandalo pubblico che infine, quasi ritiratosi nella sua volontà più intima, andò in una lontana parrocchia della costa, per attendervi la decisione sul suo destino. Già quando i Monologhi e le Lettere sulla Lucinda giunsero a Jena, la cerchia che lì si era raccolta intorno a Wilhelm Schlegel e a sua moglie, era in dissoluzione. Friedrich e Dorothea erano stati ricevuti benevolmente 4
Böttiger, Literarische Zustände und Zeitgenossen, II (1838), p. 225. KGA V, 3, Lettera di Dorothea, 28 ottobre 1799, n. 714, p. 223. 6 KGA V, 4, Lettera di August Wilhelm Schlegel, 9 giugno 1800, n. 882, p. 75. 5
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ancora nell’autunno del 1799 e si trovarono incantevolmente «circondati da un eterno concerto di arguzia e poesia»7. Si progettava di andare a vivere insieme in unica casa, se possibile, a Berlino nell’inverno seguente. La passione che stava allora nascendo tra Caroline Schlegel e Schelling fece venire alla luce tutte le antipatie che erano rimaste sopite. L’entrata in scena del geniale fondatore della filosofia della natura, che teneva lezione a Jena nel terzo semestre, corrispondeva in pieno al carattere del poema che egli allora scagliò contro i Discorsi di Schleiermacher. Nel suo aspetto c’era qualcosa di molto determinato, addirittura ostinato: gli zigomi erano ampi, le tempie molto distanti l’una dall’altra, la fronte era alta, il viso energicamente concentrato, il naso era rivolto all’insù, la figura era piuttosto piccola, ma possente; nei grandi occhi chiari c’era una dominante forza spirituale. L’intero suo aspetto era quello di un uomo dotato di originale potenza intuitiva, un uomo forte, ostinato e nobile. “Granito” era il suo soprannome nel gruppo di Jena8. Un allegro costume della Jena di allora, conformemente al quale anche Schiller e, in seguito, Fichte vedevano riunita presso di loro quotidianamente una cerchia più grande di commensali, raccoglieva, intorno al tavolo di Caroline, Friedrich e Dorothea, Tieck e sua moglie, Schelling. Così Schelling si avvicinò a Caroline. Ritroviamo ancora una volta l’idea dell’attrazione basata esclusivamente sulla affinità, a cui diede espressione Platone. Per il Natale del 1799 Schelling portò a Caroline la bella dedica del suo poema sulla natura: «Quando nelle prime ore consacrate/Con libero impulso attingo il sacro/Come un dio ha in eterno il bel legame/In eterno ti sposerò con il mio spirito./Se al mondo futuro/nessuna tenera canzone darà/il dolce annuncio del nostro amore/Dalle oscure lettere del poema/Decifrerà il suo segreto».9 Ancora una volta questa incantatrice si era impossessata di un grande uomo. Il più lieve decoro, una delicata eleganza, i più bei doni di una socievolezza ricca di spirito e di un intelletto entusiasta erano legati in Caroline con gli imprevedibili impulsi di un cuore insaziabile, che avrebbe desiderato possedere e tenere insieme tutto, un cuore non abituato a negarsi alcun desiderio. Rapidamente e con entusiasmo penetrava nel mondo spirituale di coloro che amava, ma con il suo amore mutava anche l’interesse oggettivo per le cose. Possediamo una annotazione su Romeo e Giulietta spedita a 7
Dorothea a Rahel, 23 gennaio 1800, in Wilhelm Dorows Aufzeichnungen Denkschriften und Briefe, Lipsia 1845, IV, p. 109. 8 Corrisponde alla sua descrizione in Steffes, Was ich erlebte, IV, 1841, p. 75. Aus dem Leben von Gries, cit., p. 28; Waitz, I, p. 497. 9 Aus Schellings Leben, 1869, p. 292.
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Wilhelm, dalla quale questi attinse i più bei pensieri per la sua caratterizzazione, letta allora con così grande apprezzamento; ella prendeva parte ai suoi lavori nel giornale letterario. Ora si getta con la medesima duttilità sulle idee di Schelling. Caroline non usava lusinghe, ma se la sua natura, che allontanava da sé con durezza e senza riguardo ciò che le riusciva sgradito, si abbandonava all’entusiasmo, era doppiamente attraente. «Tu sai», scriveva il 9 giugno del 1800 a Schelling, «che ti seguirò dove vuoi, perché il tuo vivere e il tuo agire mi sono sacri, e servire un santuario, il santuario di Dio, significa dominare sulla terra»10. Quando a Friedrich, all’inizio del 1800, si aprirono gli occhi su questa relazione, Caroline gli dichiarò l’intenzione di sciogliere il suo matrimonio e di legarsi a Schelling. Non voglio penetrare nei misteri di tale natura, meno ancora ripetere l’opinione di Friedrich, dettata dall’odio. Durante la sua relazione con l’uomo più giovane ella concepì il progetto di unire sua figlia Auguste, alla quale era legata da tenero amore, con Schelling. Iniziarono terribili turbamenti11. All’arrivo di Dorothea a Jena, le due donne non si erano dispiaciute. Poiché Friedrich ritenne di dovere parlare con Wilhelm della questione, nacque un’inimicizia dissimulata, che poi proruppe con violenza, nella medesima casa, al medesimo tavolo. Si giunse al punto che Friedrich e i Tieck non parlarono più con Schelling ed egli perciò abbandonò la compagnia; il modo, sicuramente molto indiscreto, in cui Friedrich si immischiò in questa vicenda, ferì Wilhelm; in queste relazioni non c’era più nulla di sacro e confortante. Incalzavano Schleiermacher appassionate e prevenute descrizioni dei fatti accaduti: egli non poteva approvare nessuna delle due parti ed espresse la sua opinione a riguardo. Come poteva questo partito, in tali condizioni, condurre la guerra con la coalizione in continua crescita che sosteneva le vecchie tendenze? Composta di vari elementi mescolati, tenuta insieme solo da rifiuto e necessità, emerse in particolare nei centri dell’attività letteraria, a Berlino e a Weimar, un’attiva opposizione contro la nuova scuola. Rappresentanti della vecchia tendenza dell’epoca di Friedrich, come Nicolai, detto “la creatura sospirante” o “il vecchio californiano” (così lo chiamavano Fichte e Schelling), e come Engel e Jenisch; poi tutti quelli che si appoggiavano, con invida e fastidio, su quelli che erano stati respinti, Wieland, Herder, Jacobi, come Falk, Merkel, Böttiger - un gruppo che malvolentieri si vede frequentare così 10
Waitz, I, p. 603. Per un giudizio differente da quello presente in Aus Schellings Leben, mi riferisco, senza volere giudicare, alle lettere di Friedrich Schlegel a Schleiermacher: cfr. Waitz, I, pp. XV ss. 11
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intimamente un Herder; infine gli scrittori, che commuovevano la classe media, come Kotzebue e Iffland, e la convincevano così, nel modo più comodo, della loro superiore moralità, o la portavano a coscienza, come Huber, lamentandosi per ogni stravaganza. Quelli che odiavano l’intero movimento, e quelli che volevano arrestarlo, in qualsiasi punto del suo corso, fosse Lessing o Kant o Schiller, facevano sentire tutti confusamente le loro voci caotiche. C’era però un’altra e più importante opposizione. Le appartenevano scrittori eccellenti, come Schiller, Jean Paul, Herder, Jacobi, come i rappresentanti delle scienze esatte e dei severi metodi empirici, infine uomini che, in posizioni privilegiate, avevano formato un sano senso morale fino a farne una genuina comprensione del mondo. Questa silenziosa opposizione era quella che costrinse la Jaener Literaturzeitung ad arrestarsi davanti alle conclusioni di Schelling e Friedrich Schlegel, al fine di mantenere il contatto con lei; era quella che represse l’Athenaeum e la Erlangen Literaturzeitung. Ma raramente un suo membro si immischiava nella polemica, e sulla scena delle lotte di fazione contro la nuova scuola scorrazzavano la triviale nullità, che ha la sua forza nell’annientamento, la pigrizia, che ha, in più, nei confronti dei grandi sforzi spirituali, la disinvoltura dello spettatore imparziale, gli uomini senza volontà, senza intelligenza e senza passione, che si drappeggiano con le vesti delle scienze basate sull’esperienza o della morale fondata sulla vita. Il primo sul campo di battaglia fu il vecchio lanzichenecco Friedrich Nicolai, che duellava da tempo contro Kant, Goethe, Fichte e che, di fronte alla necessità pressante di istruire questi uomini, non giunse ad apprendere nulla. La sua Allgemeine Bibliothek, la più grande rivista tedesca accanto alla Jaener Literaturzeitung, parlava in nome delle scienze positive; ma inutilmente si cerca nei suoi grossi volumi notizia sul loro grandioso sviluppo; curiosa e polemica, essa si faceva avanti dove venivano condotte finte guerre letterarie o venivano spacciati fermenti dell’illuminismo. La sua carta economica arrivò nelle cittadine di campagna della bassa Germania, che altrimenti solo di rado vedevano dei libri. Anche l’onesto zio di Landsberg, ormai molto anziano, stava evidentemente sotto il suo influsso e Schleiermacher dovette sentire da parte sua espressioni che erano l’eco di quella. Sugli Inni di Novalis notava Stubenrauch: «Lì vi sono passi che per lungo tempo si sono letti in Porst e Schmolke con sdegno e siffatte rappresentazioni devono essere allora portate attraverso una così amata rivista di nuovo in auge. Questo mi intristisce»12. Poi, nel settembre del 1799, emerse Kotzebue con il suo Asino iperboreico. Si vedevano, nel romanzo e sulla scena, individui che, utilizzando le affermazioni di Friedrich Schlegel e Schleiermacher tratte dall’Athenaeum, si rendevano 12
KGA V, 4, Lettera di Stubenrauch, 1 settembre-20 settembre 1800, n. 941, p. 240.
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a tal punto insensati, che alla fine venivano guariti da una dama di mondo o, dopo diverse maligne follie, venivano tradotti in manicomio. Con raffinato piacere Friedrich assisteva, al teatro di Lipsia, alla caricatura del suo amato Sé, e anche Schleiermacher aveva la sua gioia per la parte che la bontà di Nicolai gli aveva concesso nell’eroe del suo Adelheid. Contemporaneamente iniziò a muoversi anche la schiuma della letteratura berlinese, la libellistica autoctona. Nel 1799 apparve la Lanterna di Diogene, che oltraggiava la nobile Dorothea. Fichte insisteva per una denuncia penale, e si pensò di averne scoperto l’autore nella persona del predicatore Jenisch di Berlino, che aveva così insistentemente calunniato Schleiermacher, e sul quale poi questi tenne infine la cruda autopsia nella Literaturzeitung13, con l’antica inflessibilità che lo caratterizzava, che non conosceva pietà quando si trattava della riflessione morale, neanche il debole de mortuis nil nisi bene14. Ma Jenisch negava, e si sapeva troppo bene con quali mezzi era sfuggito al confronto con la giustizia in un caso precedente. Fu per gli amici di Dorothea un episodio molto doloroso. Nell’inverno 1799/1800 il Literaturzeitung passò dalla parte degli oppositori. Successa agli Acta Eruditorum della scuola di Leibniz, fondata con una mossa felice, nel 1785, all’ambiziosa università di Jena, questa rivista curata in grande stile collegò gli interessi crescenti della filosofia di Kant, della poesia di Schiller e Goethe, della filologia di Friedrich August Wolf con l’accurata informazione sullo sviluppo dell’erudito lavoro specialistico. Essa si basava, per così dire, su un contratto tra le forze dominanti. Ma questa posizione, grazie alla quale si era così velocemente sviluppata, iniziò a procurarle grandi difficoltà alla fine degli anni Novanta. Essa si era lasciata portare dapprima dalla più tranquilla ondata del movimento. Nel 1788 aveva spiegato che Reinhold, attraverso la sua teoria della facoltà rappresentativa, aveva portato a compimento la filosofia; poi, con gli studenti di Jena, era avanzata da Reinhold a Fichte e aveva concesso a Wilhelm Schlegel il dominio sulla critica estetica. Fu questo il punto più estremo al quale si lasciò trascinare. Conosceva i suoi collaboratori eruditi e il suo pubblico: si fermò, quindi, davanti a Schelling e a Friedrich Schlegel. Allora cominciò a diventarle sgradevole anche la grande casa di Jena, a partire dalla quale essa esercitava la sua signoria. La città universitaria si riempì di giovani geni; “un nido di serpenti” lo chiamava allora il giurista Feuerbach e Nicolai descriveva con ricercata cattiveria l’accalcarsi l’uno sull’altro dei grandi spiriti nella piccola città. All’intelligenza berlinese era certo reso più facile ripiegare. Così vicini 13 14
Br. IV, p. 615. Jenaer Literaturzeitung, 1806, 101.Br. IV, pp. 615 ss.
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l’uno all’altro e in contatto personale molto stretto, la Literaturzeitung e la nuova scuola non potevano evitare la rottura. Giunse agli Schlegel la diceria, che nella casa del redattore ci si era divertiti con una commedia, il cui eroe parlava con le sentenze dell’Athenaeum e dichiarava che Garve era un filosofo mediocre. Tra Schelling e i redattori si giunse a spiacevoli discussioni; proprio nei confronti della filosofia della natura i rappresentanti delle scienze empiriche erano particolarmente sensibili, e qui perciò, per motivi oggettivi, si sciolse necessariamente il contratto sul quale si era basata fino ad allora la stabilità della Literaturzeitung. A ciò si aggiunse che allora non era facile trattare personalmente con Schelling. Così la nuova scuola ruppe la collaborazione con la Literaturzeitung e il 13 novembre apparve il congedo di Schlegel nell’Intelligenzblatt. Subito Huber intraprese nella Literaturzeitung la battaglia contro la nuova scuola, con l’atteggiamento teatrale a lui consueto, di nobile indignazione morale. L’abbellimento, attraverso il quale Therese Huber ha rielaborato poeticamente, in un innocente idillio, la vita di suo marito, non deve illudere su questo uomo, il cui vero atteggiamento, nelle relazioni personali, era la volubilità, nella scrittura la pigrizia o comunque l’incapacità di un vero lavoro. Dopo lo sterile gioco della sua giovinezza con la genialità, la sua mente povera di conoscenze si gettò nella critica estetica; era sospinto, qua e là, tra il leggere e il giudicare cattivi romanzi, tra la scrittura occasionale nello stile di Kotzebue e un’imitazione dello stile e del pensiero di Schiller, Forster, Wilhelm Schlegel. Questa era la natura dello scrittore che allora, nella rivista tedesca più stimata, sottoponeva le fatiche degli Schlegel e di Schleiermacher al suo esame in una serie di saggi. Huber iniziò con una critica dell’Athenaeum e credette di dover manifestare contemporaneamente per lettera, a Wilhelm e a sua moglie, i motivi del suo attacco. Possediamo una risposta di Caroline, nella quale questa vecchia amica, con la sua inesorabile mancanza di tatto, rinfrescava la sua debole memoria sul fatto che egli non conosceva né la filosofia né il greco e che quindi non era proprio nella condizione di giudicare saggi che trattavano di filosofia e letteratura greca. Wilhelm, in modo nobile e mordace, ricacciava entro limiti appropriati il pathos morale nei confronti di questioni d’arte e di scienza. Quando le copie della lettera di Huber e le relative risposte furono spedite a Schleiermacher a Berlino, egli scrisse a Wilhelm ciò che segue. «Gli Huberiana mi hanno molto divertito; il sospirare della creatura è per noi sempre una visione molto comica. La Sua risposta, tuttavia, se così posso dire, è per me per un verso troppo buona e, per un altro, non buona abbastanza: c’è troppo di Lei in ciò e troppo poco per Huber. Lei è, persino nella terribile cattiveria, ancora incredibilmente indulgente; il suo credo soi-disant nella possibilità di
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una critica migliore, attraverso Lei stesso, La ha spinta giustamente a dire qualcosa di personale, e perciò non ha potuto trattenersi dal dire che egli non avrebbe potuto capirlo. Ciò deve avergli fatto necessariamente il sangue cattivo: perché bisogna fare questo ad un uomo che non ha altro che il suo buon sangue?». «Se dovesse accadere una volta di impegolarsi con tali poveri di spirito, allora il mio atteggiamento sarebbe solo quello di combattere la moralità del dover-essere a partire da se stessi. Il principio di contraddizione è l’unico stimolante per tali nature, e su questa strada Lei avrebbe potuto ben logorarlo con grandissima devozione e amichevolezza, un’operazione che avrebbe potuto forse aiutarlo in qualcosa. Certo Lei vedrà – se verrà realizzata la mia idea di un libretto sulla letteratura tedesca – come farò, se prendo un rappresentante di questo modo di pensare coram: spero che Lei dovrà poi concedermi che io sono proprio fatto per parlare a queste anime dal cuore ingenuo»15. Questa era la situazione quando Schleiermacher concluse, all’inizio del 1800, i Monologhi e le Lettere sulla Lucinda. L’anno che seguì fu molto triste, aumentò le difficoltà interne alla sua cerchia e mostrò chiaramente come fosse impossibile un’azione comune dei compagni. Dalla primavera del 1800 lo perseguitarono poi circostanze avverse in un succedersi capricciosissimo. Attacchi di colica, che sono stati la piaga dei suoi ultimi anni, sopraggiunsero allora più violenti che mai e lo costrinsero a limitare i suoi lavori e a pensare alla sua salute, cosa che questa volontà schiva sentì sempre come una sconfitta. Durante un viaggio impostogli da Herz, che era il suo medico, alla volta di un podere confinante, fece l’«interessante conoscenza del generale Bischoffswerder, l’allora reggente della monarchia prussiana», il cui influsso fatale sul successore di Federico il Grande era ancora fresco nella sua memoria, dagli anni in cui era candidato. «L’uomo sembra per lo meno non provare alcuna noia per il cambiamento della sua condizione; mentre non ho ancora trovato in lui nulla che susciti rispetto. Parlava del re, di cui ha così tanto approfittato, senza amore, e parlava molto di filosofia e di morale con la raffinatissima ipocrisia, che non pone nessun particolare accento su ciò che è simulato. Con me ha discusso molto di educazione, nel tono abituale del nobile, che ostenta di voler sollevare i suoi figli al di là dei costumi e dei pregiudizi della sua classe sociale»16. Nel corso dell’estate si accumularono tutte le difficoltà della sua sistemazione al Charité. Sua sorella aveva bisogno talvolta, nelle ristrette condizioni in cui viveva presso la comunità di Gnadefrei, del suo aiuto e lo preoccupò molto 15 16
KGA V, 3, Lettera ad August Wilhelm Schlegel, 18 gennaio 1800, n. 777, pp. 355-356. KGA V, 4, Lettera alla sorella, 5 maggio-7 giugno 1800, n. 862, pp. 28-29.
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che il suo lavoro, che fruttava, oltre all’alloggio gratuito, alla legna, al pranzo ecc. sempre e solo 300 talleri, gli impedì per due volte di aiutarla in modo tempestivo e nella misura in cui avrebbe desiderato. Dovette rinunciare a vedere gli amici a Jena, sebbene le imprese comuni richiedessero urgentemente un dialogo. Nacquero situazioni spiacevoli quando egli, in autunno, dovette trasferirsi nel Charité finalmente ristrutturato. Fu costretto a fare reclami al Direttorio dei poveri per la sua abitazione, a minacciare addirittura un’azione legale, e da quando vi andò ad abitare, preoccupanti segni di malattia mostrarono quanto poco questo alloggio fosse indicato per la sua salute. Un nuovo collega aumentò i fatali impegni lavorativi. Nella sala di preghiera del Charité, senza lezioni per i confirmandi, senza un circolo di uditori degno del suo straordinario talento, gli fu ancora una volta preclusa quella profonda azione religiosa, di cui sarebbe stato capace. Il modo magnanimo in cui Schleiermacher rifletteva sulla fortuna e sul successo esteriore lo innalzò oltre queste miserie. Lo circondava ancora una cerchia di uomini amati, sebbene egli sentisse fortemente la mancanza del potente movimento spirituale dei vecchi tempi. In una lettera a Charlotte descrive la condizione esteriore della sua vita di allora: «Faccio visita a ogni amico preferibilmente in un momento preciso della giornata: al mattino faccio un salto per un’oretta dalla Grunow»; «inoltre, una volta alla settimana vi trascorro la serata. Vado da Eichmann di preferenza a pranzo, perché i bambini dopo mangiato vanno a scuola, e si può chiacchierare tranquillamente ancora un’ora». «Vedo la Herz più volentieri tra il pranzo e l’ora del tè, poiché in quel momento, di solito, non viene nessun intimo amico della casa; nel caso in cui mi sorprendano degli estranei, rimango anche un’oretta, se mi piacciono, oppure prendo subito congedo; mi lascio raramente invitare in gruppi più estesi. Faccio visita al professor Spalding sempre di sera, come a un altro più giovane linguista», (si tratta di Heindorf17), «che mi è molto caro; questo accade però solo una volta al mese». «Poi lavoro a casa dalle sette o dalle otto fino a mezzanotte o all’una»18. Una nuova interessante apparizione in questa cerchia fu Jean Paul: Friedrich Schlegel aveva richiamato la sua attenzione su Schleiermacher e Jean Paul amava i Monologhi. Tuttavia, al loro primo incontro in una grande compagnia, i due non si piacquero. Il poeta spiegò che in Schleiermacher, di tutto il bene che aveva sentito su di lui, non c’era da vedere né da udire nulla e Schleiermacher, da parte sua, 17 [Ludwig Friedrich Heindorf (1774-1816), filologo, vicerettore al Köllnische Gymnasium di Berlino, fu professore dal 1811 all’università di Breslavia. Collaborò all’edizione di un commentario a dialoghi scelti di Platone]. 18 KGA V, 4, Lettera alla sorella, 20-29 dicembre 1800, n. 997, p. 377.
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non trovò in Jean Paul l’espressione del sentimento e dell’ingenuità che si attendeva. Non si avvicinarono neppure in seguito. Jean Paul fu molto attratto dagli scritti di Schleiermacher; per lo spirito severo di Schleiermacher, formato in modo classico e maschile, invece, l’unilateralità della confusa vita emotiva nel poeta già da anni era a stento sopportabile19. Anche in quest’epoca Schleiermacher si sentiva unito con i fratelli, Charlotte e Karl, nella vecchia interiorità che li accomunava; il legame con la matrigna e con i fratellastri, che stavano crescendo, nati dal secondo matrimonio del padre, si raffreddò allora, per un periodo, poiché le ristrette condizioni da entrambe le parti rendevano impossibile la conoscenza reciproca. Quanto più conciso soleva essere il fratello nelle sue lettere, tanto più grande fu la gioia di vederlo a Berlino durante il viaggio da Stettino verso la Slesia, dove egli, risoluto come era, intraprese subito un’attività e fondò una famiglia. Charlotte, affine di spirito, sotto l’influsso silenzioso del fratello maggiore, divenne sempre più sicura, al di là delle ristrettezze della Casa delle Sorelle di Herrnhut. «La cosa su cui sarei volentieri il più preciso possibile», le scrive Schleiermacher alla fine del 1800, «non è questa o quella singola cosa, bensì la mia grande gioia per la tua interiorità, per come essa ora ha ottenuto la sua forma definitiva, e per come si esprime. Non fuggi più, ora, sentimenti di diversa specie come facevi di solito; e ciò che vi è ancora in te di questo atteggiamento, non è più lo stesso. Quella situazione era in certo modo qualcosa di necessario e di naturale in te, ma è anche altrettanto necessario e naturale che si sia stemperata in questo nuovo atteggiamento. Tu e io, noi siamo come due esempi selezionati del diverso modo in cui i cuori umani vengono condotti, per così dire, da un clima opposto nella comunità e nel mondo. Tu hai ottenuto, con la moderazione del cuore, questa forza, che ti ha dato fiducia in te stessa, io, al contrario, vi sono arrivato attraverso inquietudini incessanti e strapazzi del cuore. Nella comunità avete tutti, per così dire, una costituzione femminile, che si santifica e si rinforza, anche nel corpo, attraverso pace e silenzio; al contrario, chi possiede una costituzione maschile e necessita di un forte movimento, deve uscire nel mondo e giungere, con il suo animo, percorrendo il cammino opposto, allo stesso punto»20. «L’intero mio carattere», risponde la sorella d’accordo con lui, «come già riconosceva la mia cara madre, erompe sempre più seguendo i diversi mutamenti delle mie idee, e, di ogni altra cosa trattenuta per anni con tutte le sue fantasie di contorno, rimane solo ciò che mi è veramente necessario. Se tu mi avessi osservato durante l’intero mio soggiorno qui, in 19 20
Br. I, pp. 253 ss., 245; KGA V, 4, Lettera a Brinkmann, 9 giugno 1800, n. 883, p. 80. KGA V, 4, Lettera alla sorella, 20-29 dicembre 1800, n. 997, pp. 373-374.
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tutte le relazioni ed espressioni, saresti maggiormente cosciente di questi mutamenti graduali e talvolta anche dell’arrestarsi del processo delle mie idee». Anche dal punto di vista materiale Schleiermacher poteva procurare a Lotte una situazione più tranquilla rispetto a quella a cui era abituata tra le sorelle del collegio. Ella aveva bisogno di questo aiuto; il suo cuore mite e il suo spirito contemplativo la indussero ad alcuni errori di calcolo. È toccante come dia conto al fratello della sua piccola entrata e aggiunga: «Attraverso l’esempio dei nostri cari ho ricevuto il desiderio di rendere felici o rallegrare altri, per così dire». Promette che in futuro si vuole «accontentare delle piccole gioie della beneficenza e aspettare quel grande infinito spazio della mia attività, dove né la debolezza del corpo né le altre circostanze convenzionali mi impediranno di essere attiva»21. Egli la pose nella condizione di poter continuare a vivere con maggior sicurezza rispetto a come aveva vissuto fino ad allora. Lotte venne a diretto contatto con importanti relazioni del fratello, quando la famiglia Dohna, durante un viaggio in Slesia, le fece visita a Gnadefrei. Anche Friederike era con la famiglia, sebbene fosse già molto colpita dalle difficili battaglie nelle quali aveva rotto un fidanzamento. «Sono molto felice», aveva scritto Schleiermacher il 17 febbraio del 1800 a questo proposito, «puoi facilmente immaginare quanto mi avrebbe addolorato, se la nobile ragazza fosse stata svenduta ad un uomo incapace di comprenderne la bontà e la bellezza, e se avesse dovuto passare la sua vita in un ordinario matrimonio signorile. Non c’è per me visione più terribile né cosa che mi ferisce più profondamente, che un cattivo matrimonio, dove le persone passano la loro vita l’una accanto all’altra senza amore»22. Una domenica mattina, prima dell’ora comune, la famiglia Dohna giunse nel collegio di Gnadefrei. «Mi affrettavo», racconta Charlotte, «sul grande passaggio che conduce alle scale, che loro stavano proprio allora salendo. Mi attendeva un uomo, accanto al fratello che lo accompagnava. Immaginavo fosse il conte Louis ed era lui, infatti, che con cortese riservatezza e gentilezza si rallegrava di fare la mia conoscenza e menzionava la tua con una gratitudine, che mi toccò profondamente. L’anziana contessa mi venne incontro per alcuni gradini e fu molto garbata e gentile. Il conte è proprio come me lo ero immaginato. Solo allora vidi le contesse, riconobbi immediatamente Friederike, che però non volle subito avvicinarsi a me. Christiane ed Auguste parlarono cordialmente di te, e io chiesi, infine, se quella fosse la contessa Friederike. Nella mia stanza, che visitammo di passaggio, dimostrai loro, con poche parole, la mia gioia, 21 22
Ivi, Lettera della sorella, 14 luglio-4 agosto 1800, n. 914, p. 157 ss. KGA V, 3, Lettera alla sorella, 17 febbraio-8 marzo 1800, n. 798, p. 397.
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ma non potevo veramente cogliere l’immagine di Friederike, per la grande paura che si potesse indovinare la mia partecipazione. Quando giungemmo nella sala comune, la nobile mi prese per mano ed espresse il desiderio di sedere accanto a me, dall’altra parte si dispose la madre. La accompagnai, come era suo desiderio, al cimitero, ma anche qui ero senza parole e dissi a Friederike, che lei avrebbe compreso l’essenza degli Schleiermacher anche senza parole. Ella rispose con uno sguardo che sentii profondamente. Ciascuno prese un congedo del tutto particolare. Augurai a Friederike una felicità duratura, cosa disse lei, non lo so, però che io, in quanto Lotte, non le fossi indifferente, me lo fece capire. Louis lasciò passare tutti, parlò con profonda commozione di te e di me, in breve era unico»23. Si vede nel racconto l’herrnhutiana in vestito da suora, con le sue sensazioni traboccanti, a fatica trattenute. La malattia di Friederike, che scoppiò inaspettata, interruppe lo scambio epistolare che iniziò allora tra Friederike e Charlotte. Le relazioni di amicizia e la sua condizione economica costringevano sempre Schleiermacher a dedicarsi a lavori che si sovrapponevano ai suoi compiti scientifici. Per gli amici di Jena si occupò dell’Athenaeum: si trattava di una cosa non di poco conto, in un’epoca in cui la posta si trascinava lentamente tra Berlino e Jena in sei giorni, e con collaboratori come Friedrich. Con Henriette Herz egli proseguì la vecchia, infelice opera di traduzione. La Herz aveva intrapreso la traduzione dei Viaggi all’interno dell’Africa degli anni 1795-1797 di Muno Park, per sostenere con i proventi la dote di una parente prossima, e Schleiermacher realizzò una cospicua parte del faticoso lavoro24. Pare aver collaborato anche alla traduzione di Henriette dei viaggi di Weld negli Stati Uniti, che apparve nel 1800. Dal libraio Spener gli fu fatta allora, nel febbraio del 1799, la proposta di lavorare a un almanacco storico. Su consiglio di Cook, nel 1788, sulla costa orientale del continente australiano, a Port Jackson, era stato realizzato un interessante tentativo di colonia criminale. La storia di questa colonia offriva alla considerazione morale alcuni fatti che dovettero accendere l’interesse di Schleiermacher. Spener cominciò a fornirgli «un apparato molto esaustivo». Così egli si decise a scrivere un’esposizione di questi fatti, sebbene non lo spingesse al momento alcuna necessità di denaro. Nell’estate del 1800 era occupato principalmente con questi studi storico-morali: doveva essere abbastanza avanti in questo studio quando, nell’autunno del 1800, la mancanza di materiali indispensabili e, forse, anche l’urgenza di dedicarsi a un altro lavoro fecero rimandare all’anno seguente questo racconto, che poi non è stato completato. Le in23 24
KGA V, 4, Lettera della sorella, 14 luglio-4 agosto 1800, n. 914, pp. 158-160. Ivi, Lettera alla sorella, 25 luglio-inizi settembre 1800, n. 917, p. 172.
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comprensioni, che erano state provocate dai Discorsi, lo spinsero a pubblicare la prima raccolta delle sue prediche, che sono incomparabili per profondità e finezza della caratterizzazione etica. Schleiermacher passò gli ultimi mesi del 1800 dedicandosi a questi lavori. Nella più vasta cerchia dei compagni le vecchie relazioni si dissolvevano sempre di più. Schelling lasciò Jena a Pasqua del 1800, per lavorare, a Bamberga e a Vienna, sotto la guida di fisiologi e medici di primo piano; nello stesso periodo Caroline Schlegel, dopo una lunga e pesante malattia, si recò con sua figlia a Bad Bocklet. Lì, il 12 luglio del 1800, morì Auguste, nel fiore della salute e della felicità, dopo una malattia di pochi giorni; Schelling era tornato da Bamberga e, negli ultimi giorni della malattia, la aveva trattata con l’oppio. Questo avvenimento in sé terribile, che scosse nel profondo Friedrich, Tieck, Steffens, tutti quelli che erano stati vicino a questa natura vivace, fu, per quelli che ne vennero più direttamente colpiti, una sciagura. Con lei scomparve dalla vita di Wilhelm Schlegel, che era allora devastata e oltraggiata, a ricompensa del sacrificio incredibile di una tenera natura, l’unica cosa che egli poteva proteggere e amare senza amarezza. Wilhelm scrisse a Tieck: «è come se avessi fin qui risparmiato tutte le mie lacrime; talvolta ho avuto la sensazione di sciogliermi completamente nelle lacrime»25. Diviso tra la compassione per Caroline, che trascorreva le notti tra pianto e sofferenza, e la pressione di Friedrich per porre fine a relazioni che lo distruggevano interiormente, non aveva altro desiderio che la pace. «Ciò che tu mi scrivi», gli disse Friedrich il 18 maggio del 1801, «il modo e l’animo con cui me lo scrivi, mi hanno interiormente toccato, e tutto mi ha riempito di dolore e tristezza. Sì, credo che la rappresentazione del tuo destino deve scuotere con profondissima commozione anche un osservatore sereno»26. È stato ben dimostrato che vanità e fredda piattezza emersero in seguito nella sua personalità. Questo era ciò che la vita aveva lasciato alla sua natura tenera e nobile, non accessibile però alle grandi motivazioni della vita virile. Le forze morali oggettive si sono vendicate in modo terribile di Wilhelm, distruggendogli la vita, disgustosamente rovinata da miseri pettegolezzi e sarcasmo. Schelling fu costretto in ospedale, e il suo corpo forte soffrì a lungo sotto gli effetti angosciosi di questo avvenimento, che ancora dopo anni ricordava come «il fatto più doloroso della mia vita»27. Ebbe inizio quel richiudersi 25
Briefe an Ludwig Tieck, a cura di Holtei, III, 1864, p. 232. Walzel, p. 484. 27 Aus Schellings Leben, I, p. 392. 26
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solitario dell’interiorità sofferente, che caratterizza i suoi anni successivi e le sue opere. «Perché sei così triste?», scriveva Caroline alcuni mesi dopo questo avvenimento, «voglio dirti molto candidamente questo: io non lo sono. Non lo sono diversamente da come devo esserlo in eterno e la tua consolazione è la mia. La nostra bambina non mi abbandona nemmeno un attimo»28. Circolò una voce sciocca, stupida e disonesta sul fatto che Schelling non aveva trovato la cura giusta e sulle sue prescrizioni al capezzale di Auguste29. Questa voce non avrebbe potuto, comunque, spingere lui e Wilhelm Schlegel a difendersi e a ritornare, dopo anni, davanti al pubblico, sui giorni di questa malattia. Anche in questa circostanza, la Literaturzeitung aveva aperto le sue colonne, sempre disponibili, agli oppositori della scuola, e i compagni purtroppo avevano abituato il pubblico a non lasciare senza risposta neanche gli oppositori più spregevoli. Tutti gli avvenimenti di questo periodo sembravano quasi avere lo scopo di distruggere psicologicamente Wilhelm e dissolvere la cerchia di amici di Jena. Il primo ottobre del 1800, Schlegel, sua moglie e Schelling lasciarono Bamberga, dove erano rimasti dalla morte di Auguste; a Coburgo le loro strade si separarono: Schlegel, con la moglie, andò a Braunschweig, Schelling ritornò a Jena. Un motivo determinante del ritorno di Schelling a Jena fu che Friedrich aveva preso l’infelice decisione, inutilmente combattuta da Schleiermacher, di prendere su di sé la “abbandonata scienza trascendentale”. Schelling nutriva una profonda antipatia per Friedrich, da quando questi aveva spinto Wilhelm alla separazione da Caroline e disapprovato l’ultima decisione. Odiava inoltre «il suo dilettantismo poetico e filosofico», e subito dopo alcune lezioni, poteva annunciare a Fichte che Schlegel era già «colpito a morte» e «sepolto»: Friedrich non tenne altre lezioni dopo questo mezzo anno. Ancora più amare diventarono le relazioni quando Caroline, nella primavera del 1801, tornò da Braunschweig a Jena, mentre Wilhelm si trasferì a Berlino. Allora anche la relazione dei fratelli iniziò a patire. Schleiermacher ammoniva molto seriamente Friedrich e Dorothea a non dimenticare la discrezione e a non immischiarsi nelle relazioni del fratello. Solo nella primavera del 1803 ebbe luogo la separazione e, subito dopo questa, il legame di Schelling con Caroline. È indicativo del carattere di Wilhelm Schlegel, nel bene e nel male, che in tutto questo tempo egli rimase con Schelling in relazione di amicizia. Anche la relazione di Schleiermacher con Fichte era diventata sempre più tesa dopo la sua critica [alla Destinazione dell’uomo]. Era tipico dell’essen28 29
Ivi, p. 251. Ivi, pp. 388 ss. Br. III, p. 210. Lettera di Friedrich Schlegel, senza data.
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za e del sistema di Fichte, ossia del suo carattere, che egli non sopportasse accanto a sé alcuna ricerca autonoma, che, in qualche punto, ottenesse risultati non concordi con i suoi. Così anche a Berlino si circondava di persone come Bernhardi, che non coltivavano per sé altre pretese che l’applicazione delle idee di Friedrich alle scienze reali, o come Woltmann e Fessler, che egli poteva considerare come semplici arnesi dei suoi piani. Era naturale che questi arnesi, simili al corpo e alle passioni descritte nella sua etica, talvolta seguissero i loro scopi secondari e che gli causassero forti delusioni. «Fichte», scriveva Schleiermacher a Wilhelm il 29 agosto del 1800, «ha da poco fatto qui una triste esperienza di cosa succede quando si entra a forza in qualcosa che è malamente avviato da cattivi uomini, e ha dovuto lasciarsi prendere in giro da pessimi soggetti. Di nuovo voleva», (progettando una rivista), «utilizzare un’occasione con Woltmann, per quanto riconoscesse, anche apertamente, che era un cattivo scrittore: ma gli paralizzerà le ali e farà di lui ciò che vuole. Non dovrebbe essere applicato ulteriormente questo principio monarchico?»30. Una chiara e perspicace allusione a come Fichte considerava anche gli Schlegel. Non aveva, d’altronde, scritto a Reinhold, ancora a febbraio, che era sì legato agli Schlegel nel progetto di un giornale letterario, ma che egli «avrebbe saputo tenere distante da sé l’arrogante e scialbo Wilhelm», e che Friedrich «avrebbe accettato la disciplina»? Schleiermacher stesso sapeva bene che posizione Fichte avesse nei suoi confronti. A poco a poco evitò, considerandolo invadente, di fare visita a Fichte, poiché questi né lo aveva mai visitato né lo aveva invitato31. Il suo orgoglio comprese questa silenziosa dichiarazione e si incontrarono solo quando un preciso ordine di Wilhelm li costrinse a ciò. Queste relazioni personali determinarono fin dall’inizio il destino del progetto di un giornale letterario, anzi di ogni futura azione comune. Un’ampia corrispondenza tra Wilhelm e Schleiermacher mostra con quale reale passione entrambi perseguivano questo progetto, come questo difficile compito avvicinò i due uomini pratici di affari, precisi, puntuali e abili, per quali circostanze, infine, il loro progetto fallì. Il primo motivo che spinse a quest’impresa stava nelle difficoltà fatte dall’editore dell’Athenaeum; si pensò solo a proseguire la temuta rivista della scuola con un altro nome, sotto la direzione di Wilhelm, con il sostegno di pochi collaboratori. Solo quando Wilhelm e Schelling entrarono in trattative con Cotta, nacque un progetto per dei Kritische Jahrbücher der Literatur pensato nello stile dei grandi giornali letterari, il cui programma fu spedito a Schleiermacher il 7 30 31
KGA V, 4, Lettera ad August Wilhelm Schlegel, 29 agosto 1800, n. 940, p. 233. Ivi, Lettera a Friedrich Schlegel, 20 ottobre 1800, n. 968, p. 302.
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luglio del 1800, affinché desse la sua adesione e lo spedisse poi a Bernhardi e Tieck. C’era però un problema in relazione a Fichte. Si venne a sapere che questi, già a Jena, aveva steso, con la medesima intenzione, un progetto simile, ma del tutto inaccettabile dal punto di vista organizzativo. Si decise dunque di comunicargli tutto solo a cose fatte, dopo il contratto con Cotta. Allora, mentre erano in corso le trattative tra Cotta e i compagni, ad agosto improvvisamente fu pubblicato l’annuncio degli Jahrbücher der Kunst und Wissenschaft, presso l’editore Unger, per mano di Fichte, che aveva ripreso un progetto di Woltmann e lo aveva rielaborato secondo il proprio spirito. La relazione tra i due progetti, quello di Wilhelm e Schleiermacher e quello di Fichte è, in piccolo, simile a quella che più tardi si instaurò tra il progetto fichtiano per la fondazione dell’università di Berlino e quello di Schleiermacher. Il progetto di Fichte era, per così dire, monarchico: in un’unica mano doveva essere concentrato il lavoro dipendente di molte persone. Dall’esposizione di tale progetto risulta che un redattore e quattordici sottoredattori avevano il compito di formare, a partire dai saggi di altri collaboratori, visioni generali, eliminando o cancellando, a tal fine, ciò che volevano, a loro arbitrio, senza alcun obbligo di renderne conto. Nessun paragrafo e nessun nome doveva lasciare trapelare dove iniziasse e dove finisse un certo contributo; al redattore spettava il diritto di disporre a suo piacimento dei sommari approntati dai curatori di sezione, come questi, a loro volta, disponevano senza limiti dei saggi dei collaboratori. Sarebbe stata una specie di prigione per scrittori dal carattere ostinato e indipendente. Wilhelm Schlegel e Schleiermacher, al contrario, non volevano altra unità tra i collaboratori se quella dello spirito e dell’aspirazione, volevano congiungere in vista dello scopo comune la libera attività di chi aspirava alle medesime cose, e le loro imprese erano progettate in questo senso in modo straordinariamente conforme a tal fine. All’invito rivolto da Fichte agli Jenesi di aderire alla sua impresa, Schelling rispose, in una lettera del 18 agosto del 1800, dichiarandosi già vincolato; due giorni dopo, seguì una lettera di Wilhelm a Fichte, che tentava di «farlo passare da questa parte, con tutte le corde dell’amore e della forza»32. Schleiermacher fu pregato di portare questa lettera a Fichte insieme al progetto, concordato dall’amico e da lui stesso, e tentare un accordo. Il 29 agosto Schleiermacher riferisce: «Il giorno stesso, al pomeriggio, sono andato da Fichte. Egli mi venne incontro dicendo che gli era molto gradito che giungessi da lui proprio allora: aveva ricevuto una lettera che lo irritava 32
211.
KGA V, 4, Lettera di August Wilhelm Schlegel, 20 agosto-21 agosto 1800, n. 933, p.
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terribilmente e sul cui contenuto voleva discutere con me. Si trattava della lettera di Schelling: Lei può immaginare che [Fichte] non mise mano alla Sua lettera nello stato d’animo migliore. Me la lesse in parte e me la commentò». Chiamava il suo piano “un piano d’emergenza”. Diceva di aver trovato un progetto presso Unger e di volerlo realizzare: Unger si era gettato nelle sue braccia, ed egli gli aveva promesso anche voi tutti». Schleiermacher replicò che Fichte, in tali circostanze, aveva ancora le mani completamente libere. «A ciò seguì la confessione, che mise il mio povero cuore in una disposizione particolarmente docile, che Woltmann aveva fatto il primo progetto, e che egli dunque aveva già trovato un collaboratore. Lei vede che Fichte non mi ha fatto pervenire alcun invito. Siamo in cordiali rapporti, ma certo non in perfetto accordo: egli non ha mai trovato di proprio gusto i miei tentativi critici, anche prima della Destinazione dell’uomo e del tutto indipendentemente da essa, né gli altri miei lavori: anche a proposito del passo della Sua lettera, in cui Lei gli indica le Notizie dell’Athenaeum come modello per i lavori futuri, diceva di non avere nulla da ridire contro queste, che trova molto approfondite, soprattutto le Sue». Seguì una spiacevole discussione sul progetto. «In questa inquieta disposizione d’animo credevo allora che le corde dell’amore avrebbero strangolato lo sklerànchena invece che attirarlo, e dunque lo pregai di riflettere bene su cosa fosse da fare, dopo che lo avevo condotto, così delicatamente e con riguardo, al fatto che egli non poteva promettervi certo, così a priori, a Unger». «Il giorno seguente gli ho inviato Bernhardi»33. Fichte non rinunciò al suo piano, neppure quando gli alleati si decisero ad offrirgli la direzione della sezione scientifica negli Jahrbücher di Cotta. Anzi, una lettera di Fichte del 13 settembre del 1800, spinse Schelling ad andarsene: «Fichte gli ha fatto delle rivelazioni che lo spinsero definitivamente a ritirarsi». L’impresa si infranse a causa dei problemi personali tra Schelling, Friedrich e Wilhelm. «In cosa consistono queste rivelazioni», scrive Wilhelm, «su ciò non ha voluto dilungarsi: probabilmente, però, Fichte gli ha ricordato le vecchie promesse e poi ha suscitato diffidenza in lui contro le idee dell’intera nostra cerchia. Come ipotizzo, soprattutto contro Friedrich; che ci sia stata anche una lamentela contro di Lei e una finalità canzonatoria, non ho motivo di ipotizzarlo»34. «Mi ha molto stupito», rispose Schleiermacher, «la notizia del comportamento di Schelling». Anche Fichte non è «da assolvere da ingiustizia e falsità, e mi pare che, dopo un tale comportamento, non sia pensabile nessuna futura collaborazione per questo progetto. L’idea di Fichte 33 34
Ivi, Lettera ad August Wilhelm Schlegel, 29 agosto 1800, n. 940, pp. 231 ss. Ivi, Lettera ad August Wilhelm Schlegel, 5 ottobre 1800, n. 962, p. 285.
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è molto chiara: vuole far saltare in aria la nostra associazione un pezzo per volta». «Per ciò che mi riguarda, caro amico, io, con tutto ciò che posso apportare, sono del tutto dei nostri e mai cesserò di esserlo»35. Sembra proprio che Schelling, in contrasto con Friedrich, abbia agito allora, fin da quando era a Jena, contro questa impresa; una sua lettera spinse Cotta a tirarsi indietro36. Non se ne fece nulla. Presso Unger apparve, a partire dal 1801, la Zeitschrift für Geschichte und Politik di Woltmann; presso Cotta, invece, il Kritische Journal der Philosophie del solo Schelling (e Hegel a partire dal 1802), poiché alcuni mesi dopo questa trattativa, iniziarono a dissolversi anche le vecchie relazioni tra Fichte e Schelling: nel Kritische Journal si trova il famoso attacco al sistema di Fichte inteso come una forma di «filosofia della riflessione della soggettività». Così, al posto di un effetto coerente sul pubblico, emerse un disordinato baccano letterario. C’erano meschini oppositori: Kotzebue con “i divertimenti da osteria” del suo Asino iperboreico; Merkel, un libellista, che è caratterizzato a sufficienza della sua seria dichiarazione che Kant avrebbe scritto la Critica della ragion pura solo perché il suo stomaco gli impediva di partecipare più a lungo agli incontri serali nella ricca città commerciale; Falk, il satirico di professione, di cui Tieck racconta in modo puntuale: «andava in cerca di follie: cercò dapprima di ridicolizzare i teologi, che stavano allora in una considerazione molto limitata: ogni tanto si riferì direttamente a qualche scrittore e ne ricavò una rozza risposta; si espresse in modo tale su spargimenti di sangue e reggenti che i suoi scritti, in alcune regioni, furono vietati». Infine, Falk sperò di fare scandalo scagliandosi contro la nuova scuola. Questi oppositori, accanto ad altri ancor più miseri, furono vezzeggiati a Weimar, presso Herder e sua moglie così come presso Wieland, i grandi misconosciuti; la Jaener Literaturzeitung, anche se rossa di vergogna, e talvolta sotto la maschera di seri ammonimenti, diede ai loro attacchi una ulteriore e più grande pubblicità. Alcune delle risposte provenienti dalla cerchia dei compagni dovettero suscitare dubbi anche in Schleiermacher: così avrebbe volentieri cancellato l’intero Nicolai di Fichte. Lo scritto polemico di Tieck, non completato, di cui questi gli aveva fatto avere l’inizio, gli piacque per il «tranquillo e profondo disprezzo» che vi dominava. Lo mandò in visibilio, però, l’Ehrenpforte di Wilhelm Schlegel, nel quale riconobbe subito un poema di valore duraturo, che sovrastava tutto quel misero schiamazzo. «Lo abbiamo letto», racconta a Wilhelm, «la sera stessa», (il 23 dicembre, quando arrivò), «presso Tieck, tra risa irrefrenabili e 35 36
Ivi, Lettera ad August Wilhelm Schlegel, 14 ottobre 1800, n. 964, p. 289. Ivi, Lettera ad August Wilhelm Schlegel, 5 ottobre 1800, n. 962, p. 285.
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una altrettanto continua ammirazione, e mi ha procurato, in seguito, la notte più piacevolmente inquieta che io ricordi. Certo questo Le è riuscito al di là di ogni immaginazione, e se anche solo pochi uomini sono nella condizione di apprezzare giustamente l’intero, non sarà certo fallito il suo scopo obiettivo: c’è da sperare che alcuni pezzi non possano essere dati senza che si pensi alla Sua divina parodia e si riempia tutta la casa di rumorose risate». Doveva al contempo annunciare che addirittura un uomo come Herz era stupito per «la malvagità di fare oggetto di scherno la sfortuna del povero Kotzebue». Per tali debolezze non virili verso un uomo, che lavorava da anni con misere calunnie alla rovina dei suoi oppositori letterari, Schleiermacher non ha mai avuto comprensione. Allora accadde un fatto che era da aspettarsi da tali oppositori. Il nome di Schleiermacher, nel bene e nel male sconosciuto fino ad allora al pubblico, fu trascinato nella polemica. Dapprima era accaduto nella Lanterna di Diogene del 1799. Lì era annunciato come scritto futuro «la prova dimostrativa che Fichte e Schlegel sono i più grandi uomini del diciottesimo secolo». «Consigliamo al pubblico in anticipo questo scritto del predicatore del Charitè Schleiermacher, che egli stesso ha letto nella società letteraria, tra il fragoroso applauso delle ebree che vi si trovavano». Nella Gigantomachia del 1800 il titano Friedrich Schlegel, coperto da un velo, prende parte all’assalto all’Olimpo. Alla fine del 1800 apparve il Tascabile per amici dello scherzo e della satira di Falk, sul cui frontespizio si vedeva inciso, tra gli altri, Schleiermacher, come una figura piccola, deforme, con i Discorsi sulla religione che spuntano dalla tasca, al braccio di Henriette Herz. I versi e la prosa di Falk, dello stesso livello di quest’immagine, insultavano i Discorsi, le Lettere sulla Lucinda e la persona di Schleiermacher. La Literaturzeitung, però, applaudì e citò uno spregevole verso sul “Dio di Schleiermacher”. Un mese dopo, nella recensione delle Lettere sulla Lucinda di Vermehren, ci fu una denuncia di Schleiermacher come autore della critica nell’Archiv e una allusione a lui come autore delle Lettere confidenziali, immediatamente dopo una cinica critica delle Lettere stesse. Schleiermacher fu l’unico a opporre, a questo seguito di libellisti, un assoluto e sprezzante silenzio. Ma si può immaginare con quale dolore egli si vide frenato e minacciato nella sua professione di predicatore, che gli era più cara di ogni altra relazione, da tali attacchi meschini. Un segno evidente delle imminenti difficoltà fu che il magistrato non lo prese in considerazione nella scelta di un posto per nulla importante, che gli avrebbe reso finalmente possibile un altro tipo di attività37. 37
KGA V, 5, Lettera a Friedrich Schlegel, 7 febbraio 1801, n. 1019, p. 44.
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L’anno 1800 finì quindi per lui in modo poco piacevole: «turbamenti nella salute, turbamenti nelle finanze, nelle relazioni e Dio sa dove ancora»38. Un leggero abbattimento pesava su di lui, che egli superò solo attraverso la sua salda volontà. Schleiermacher era solito passare la vigilia di Natale dagli amici, quest’anno rimase solo. Nella notte in cui iniziò il nuovo secolo, mentre a Weimar gli amici festeggiavano sfrenatamente l’irrompere del nuovo tempo, i suoi pensieri andavano in particolare alla lontana Casa delle Sorelle e alla comunità, le cui feste, benedette dal profondo e unanime sentimento religioso, affioravano, davanti alla sua anima, dai ricordi dell’infanzia. Ogni volta che le cattive passioni del mondo, che gli era estraneo fino all’incomprensione, lo atterrivano, si è sollevato, in Schleiermacher, l’herrnhutiano, con il desiderio di ritrovare la pace delle comunità isolate dal mondo. Iniziò, per così dire, l’ultimo atto del tragico sviluppo di queste relazioni: separazioni, morte e fuga dalle relazioni esistenti fino ad allora distrussero la cerchia dei compagni. A metà marzo del 1801 Friedrich Schlegel fu chiamato a Weissenfels da Hardenberg, che la morte sorprese alle soglie della felicità. «Ieri», racconta Friedrich a suo fratello, il 27 marzo del 1801, «sono tornato da Weissenfels, dove ieri l’altro, il 25, al mattino ho visto Hardenberg morire. È certo che non aveva idea di morire, e soprattutto è quasi impossibile credere a una morte così tranquilla e bella. Per tutto il tempo in cui lo ho visto, fu di un’indescrivibile serenità». Così se ne andava, nel crepuscolo della giovinezza, con l’anima colma di progetti di felicità e di poesia, come se, uguale al suo eroe, camminasse semplicemente su una scena più ampia. Chi può dire cosa gli sarebbe riuscito ancora? Schleiermacher perse con lui l’uomo che, tra tutti, meglio lo comprendeva dal punto di vista religioso. Per il destino esteriore di Friedrich Schlegel venne meno un grande supporto. In questo periodo Fichte, presentendo l’esito, iniziò una discussione con Schelling sui punti di dissidio tra loro, che si concluse con la totale rottura e con la più dura condanna reciproca dei caratteri e dei sistemi. Al contrario Schelling riconobbe, dopo aver letto scrupolosamente i Discorsi, l’affinità del suo punto di vista con quello di Schleiermacher, e desiderava vivamente la sua approvazione e la sua amicizia. «Portaci», scrive Caroline da Jena a Wilhelm il 7 giugno del 1801, «quello Schleiermacher, dal quale si sono improvvisamente dischiusi una nuova luce e un nuovo interesse. Schelling ti scriverà a questo riguardo entro sei settimane una lettera; dice volentieri che vorrebbe che accadesse nei prossimi sei giorni»: Poi il 12 giugno: «Poiché sicuramente oggi Schelling non riuscirà a scrivere, voglio dirti che solo adesso 38
Ivi, Lettera a Friedrich Schlegel, 10 gennaio 1801, n. 1008, p. 8.
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ha letto i Discorsi sulla religione, che allora aveva guardato di sfuggita, e che forse lo catturano più che chiunque di voi (non è ancora arrivato all’ultimo) e che li considera come qualcosa di perfettamente formato e compiuto, fino a esserne estasiato». Schelling indicava Schleiermacher come il primo uomo religioso che gli fosse mai comparso davanti39. Lui e Caroline lo invitarono urgentemente a Jena e gli fu recapitato, inoltre, un invito, attraverso Wilhelm Schlegel, a collaborare al Kritisches Journal. Schleiermacher, da parte sua, era poco incline a ricambiare questa corte appassionata. Divenuto più sicuro e più virile nelle lotte di quest’epoca, iniziò a diventare cosciente della completa opposizione che lo separava da questi caratteri, da tutti senza eccezione, che costituivano la cerchia dei contemporanei. Non abbandona mai chi deve lavorare su queste corrispondenze la mirabile impressione suscitata dall’epistolario di Schleiermacher: in mezzo a questa società piena di talenti, gli Schlegel, Tieck, Fichte, Schelling, Bernhardi, dei quali nessuno, lo scrivo a ragion veduta, è libero da ipocrisia, da arbitraria durezza e mutevole giudizio, questa riflessiva natura etico-religiosa non mostra mai un eccesso di momentanea passionale ingiustizia e ancor meno doppio gioco, ed è del tutto libera dalla considerazione egoistica degli altri per il proprio interesse, dalla volontà di utilizzarli, addirittura dall’inquietudine del carattere, che esagera e falsifica il giudizio. Così Schleiermacher si manteneva saldo nella confusione, nella quale era precipitata la sua cerchia. Il destino di Wilhelm Schlegel, che ora viveva a Berlino, lo riempiva di profonda compassione: «Mi dispiace infinitamente», scrive a Charlotte, «vedere Wilhelm in questa situazione, non riesco neppure a esprimertelo». Ma il suo spirito maschile disapprovava «l’eccessiva indulgenza», a causa della quale questi non si separava da Caroline, e addirittura rimaneva in amicizia con Schelling. Schleiermacher riconosceva fin troppo bene il genio di Schelling e l’affinità dei loro punti di vista; tuttavia aveva trovato ambiguo il suo comportamento nella comune faccenda della rivista. La violenza del carattere di Schelling gli era sgradevole, e giudicava severamente ciò che da poco era accaduto40. Con un’interna necessità, che l’amicizia più disinteressata poteva solo ritardare ma non arrestare, si sciolse anche il suo legame con Friedrich Schlegel. 39 Pressanti si susseguono le richieste: Waitz, II, pp. 192, 189, 163, 168. Dopo il rifiuto da parte di Schleiermacher di partecipare alla rivista, Caroline scrisse, il 18 dicembre 1802: «che Schelling non veda nel modo corretto il rifiuto di Schleiermacher, lo hai potuto dedurre dalle sue stesse parole, e noi abbiamo pensato perciò a un immediato influsso di Friedrich. Uno mediato è molto peggio, Schleiermacher dovrebbe evitarlo! Non è veramente più degno di ciò!». 40 KGA V, 5, Lettera alla sorella, 10 novembre 1801, n. 1120, p. 248.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
I caratteri si divisero. Incosciente delle sue forze, estraneo al mondo, ritirato in se stesso coltivando sentimenti personali e concetti astratti, così Schleiermacher era stato, per così dire, scoperto da Friedrich Schlegel. Era iniziata un’amicizia tra persone molto diverse, nella quale egli si sottomise all’amico. La sua natura si era sviluppata nel mondo libero, in cui lo conduceva Friedrich, fino a una chiara connessione. Schleiermacher, con il suo bellissimo idealismo dimentico di sé, vedeva e curava la nobiltà presente nel carattere e nel piano di vita dell’amico; con sacrifici di ogni tipo si era sforzato di migliorare, fin dal primo progetto, l’infelice relazione di Friedrich con il mondo: ciononostante il carattere dell’amico non progrediva verso la maturità, il suo progetto scientifico non procedeva in una attuazione conseguente, la sua vita non si sviluppava in un corso compassato, la sua relazione con il mondo non trovava pace. Schleiermacher non riuscì a trattenerlo da nessuno dei passi fatali sulla sdrucciolevole strada che faceva deviare il corso della sua vita. Sempre più amara emergeva «la sua essenza irruente, incalzante, la sua infinita eccitabilità e la sua profonda e ineliminabile predisposizione al sospetto»41. Costantemente impegnato con se stesso, giudicava gli uomini con amore e odio, a seconda di come essi si disponevano nei confronti dei suoi momentanei sforzi, sospettoso dove la sincerità lo affrontava disturbandolo, ingenuo, dove, l’apparenza del franco interessamento nei suoi confronti soddisfaceva il suo orgoglio: rendeva impossibile a Schleiermacher, con profondo dolore di questi, essere veramente sincero con lui. Dall’estate del 1801 Schleiermacher aveva raggiunto una chiara consapevolezza di questo atteggiamento nei confronti del vecchio amico. In questo periodo si dissolse anche il loro sodalizio scientifico. Come accade facilmente presso nature eterogenee, proprio il tentativo di un lavoro comune rese manifesta e sviluppò l’interiore contrapposizione. Non è ancora il momento di esporre la storia delle loro comuni ricerche platoniche; accenno solo al suo corso esteriore, per mostrare come esso fu fatale alla loro amicizia. Nella primavera del 1799, quando Schleiermacher lavorava ai Discorsi, Friedrich gli scrisse dapprima di questo «grande coup», che aveva ancora intenzione di realizzare in collaborazione con lui. «Non è niente meno che la traduzione di Platone. Ah, è un’idea divina! credo che pochi potrebbero realizzarla meglio di noi: non oso però intraprendere questo progetto che in alcuni anni; deve essere infatti iniziato solo quando si è liberi da ogni dipendenza esteriore come mai accadde per alcun altra opera e non bisognerà badare agli anni, che intanto passeranno»42. Tutto ciò che avvenne 41 42
Br. I, p. 277, Lettera a Ehrenfried von Willich, senza data. KGA V, 3, Lettera a Henriette Herz, 29 aprile 1799, n. 640, p. 101.
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fu esattamente il contrario di quanto lo spirito scrupoloso di Schleiermacher doveva esigere. All’inizio del 1800 giunse l’annuncio da parte di Friedrich di essere in trattative con Frommann; a questo seguì, il 10 marzo, l’ulteriore annuncio che il contratto era chiuso: il primo volume doveva apparire entro il termine di un anno e Friedrich riceveva, cosa principale, subito il denaro. Passò l’intero anno 1800 senza che Friedrich andasse oltre i preparativi del lavoro; lesse e fece annotazioni, con genialità critica fuori dal comune, ma senza alcun metodo (e la mancanza di educazione ordinata gli pesò per tutta la vita) e perciò senza un risultato maturo. Schleiermacher, da parte sua, si sprofondò, non appena ebbe terminato le prediche, in Platone: cominciò a essere diligente come non si ricordava di essere mai stato prima; limitò le sue relazioni sociali; più volte nel corso della settimana, con grande precisione grammaticale e filologica, leggeva Platone insieme a Heindorf, che era allora impegnato a farne un’edizione critica. Il Fedro venne terminato il 14 marzo del 1801 e spedito a Friedrich, affinché egli lo esaminasse e ci si mettesse d’accordo sui principi della traduzione. Da Friedrich non giunse nulla più che la misera spiegazione che aveva cambiato ovunque Greci con Elleni, ma che non avrebbe saputo cambiare niente altro, e che Schleiermacher, entro tre settimane, doveva mandare in stampa anche il Protagora. Allora, nell’aprile del 1801, Schleiermacher contrappose a questa forzatura le sue meditate spiegazioni. Invano! Ottenne da Friedrich solo insufficienti rassicurazioni, e il rimprovero di rovesciare le sue lamentele su amici e nemici. Più tardi, quando l’editore ebbe posto un termine ultimo, anch’esso di molto superato, ottenne due superficiali introduzioni, nuove ipotesi di una critica (prive di base metodica e perciò sempre in fieri) ma nulla della traduzione. Così finì la loro collaborazione; la precisione scrupolosa di Schleiermacher si creò allora da sola metodo e fondamento per le future grandi imprese filologiche e filosofiche: dalla capacità geniale di Friedrich Schlegel di offrire nuovi sguardi e significativi impulsi alla ricerca, divergeva la forza raccolta di Schleiermacher, capace di elaborare un ricco materiale in modo originale e scrupoloso. I due uomini si rividero alla fine del 1801, dopo una lunga separazione. Friedrich andò a Berlino e abitò da Schleiermacher dal 2 dicembre fino al 7 gennaio del 1802; aveva annunciato a Schleiermacher che veniva solo per amor suo, ma si cacciò, invece, in una esistenza molto dispersiva, nella quale fallì del tutto lo scopo scientifico fondamentale. «Mi ricordo», così spiega Schleiermacher in un successivo racconto a Böckh, «solo di un unico proficuo colloquio su Platone»43. Schleiermacher ritrovò, nel carattere di 43
Lettera a Böckh, 18 giugno 1808.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
Friedrich, «tutto ciò che amava in lui e tutto ciò che gli era estraneo e lo allontanava, ancora più violento, più forte e più evidente di prima»44; «nel suo pensiero e nella sua comprensione della conoscenza umana, nell’arte e nella scienza» gli apparve «aver fatto progressi ancora maggiori»45. Nel suo diario si trova un’esternazione sullo stato d’animo nel quale prese congedo da lui. «Non sono mai andato attraverso la città morta con tale riluttanza come alla partenza di Friedrich. Era come se fossi solo; tutti i sogni venivano svolazzando verso di me con sguardi molto malvagi, come se tutti i cattivi sentimenti di chi dorme volessero entrare in me, l’unico vivente. Quando, sulla strada del ritorno, vidi persone che venivano dal ballo in maschera, tutto ciò mi fu ancora più insopportabile»46. Il sentimento della totale solitudine pesava molto su Schleiermacher. Immaginava forse che non avrebbe mai rivisto Friedrich? Ciò che da lungo minacciava era accaduto. La situazione di Friedrich era così insopportabile, le complicazioni erano diventate così insolubili, che il suo forte spirito pensava di liberarsi da tali legami con uno scossone. Lasciò la patria, e con un viaggio a Parigi iniziò le avventurose peregrinazioni che lo portarono, infine, a Roma. Ancora una volta, l’ultima volta, Schleiermacher lo ammoniva; la risposta fu l’arrogante parola di Friedrich: «io posso solo vivere due vite contraddittorie oppure nessuna!»47. In queste parole era racchiuso il suo destino e dichiarata la sua separazione dall’amico. La morte strappò un altro legame. La sera del 25 agosto del 1801 morì, a Finckenstein, Friederike Dohna. Nelle carte di Schleiermacher si trovano copie delle ultime lettere di Friederike ad Alexander e dei racconti sui suoi ultimi giorni, in cui soffrì terribilmente. «La compostezza con cui parla della sua fine probabilmente vicina», scrive il 18 agosto Alexander a Schleiermacher, «farebbe onore al più grande saggio; mai vidi un ideale più perfetto della vera sublime religiosità. Parla di tutto questo con una superiorità quasi sovrumana, con tranquillità, serietà e controllo, senza alcun turbamento e irruenza, e poi la prende di nuovo il bellissimo desiderio, genuinamente umano, di vivere, che è per lei certo più bello e più venerabile che presso milioni di altri uomini». «Una vera consolazione», scriveva, dopo la sua morte, il padre, «fu per noi che Lei ci abbia scritto, poiché la partecipazione di onesti amici cristiani lo è sempre, in particolare di un vero cristiano, un uomo nobile, così affettuoso, un amico di vecchia data come è Lei. Le sue 44
KGA V, 5, Lettera alla sorella, 29 gennaio-8 febbraio 1802, n. 1148, pp. 302 ss. KGA V, 5, Lettera a Ehrenfried von Willich, 13 dicembre 1801, n. 1135, p. 282. 46 Gedanken V, KGA I, 3, n. 69, p. 299. 47 KGA V, 2, Lettera di Friedrich Schlegel, 8 febbraio 1802, n. 1157, p. 322. 45
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prediche e la bella rappresentazione di maturi motivi di consolazione in uomini più volte provati dal dolore ci rinfrancano»48. In mezzo alla disgregazione delle vecchie relazioni si preparava, nell’amicizia che prendeva inizio allora con Ehrenfried von Willich, Georg Reimer49, Heindorf, la vita futura di Schleiermacher. Accadde l’ultimo evento: anche la sua posizione nel lavoro diventava sempre più disperante. Era in amicizia, fin dai tempi di suo padre e di suo zio, con Sack, il capo della chiesa riformata, nella cui casa era stato ospite ben visto. Un’affermazione di Sack su Friedrich Schlegel lo spinse a non frequentarne più la casa. «Non la franchezza di questa espressione mi ha allontanato dalla Sua casa, bensì il particolare modo di questa: espressioni che, sulla bocca di un uomo così fine e accorto, sembravano proprio studiate per far sì che io non voglia espormi al pericolo di sentirle ripetute»50. Così dall’inizio dell’anno 1800 non si videro più: Schleiermacher colse inoltre evidenti segni che Sack aveva tentato «di prestargli un cattivo servizio presso il ministro, o almeno, aveva detto e fatto molte cose in modo avventato, cosa che mi avrebbe potuto danneggiare»51. Solo l’invio delle prediche, nell’estate del 1801, suscitò una precisa spiegazione di Sack. L’accusa di Sack riguardava due punti. Egli trovava il gusto di Schleiermacher «per legami intimi con persone di principi e costumi sospetti» inconciliabile con «ciò che è doveroso per un predicatore e per le sue condizioni». Considerava, inoltre, i Discorsi come «un’esposizione oratoria del sistema panteistico [spinozistico]», che eliminava la connessione con l’Essere supremo, i motivi della virtù che nascono dalla religione, i sentimenti di riconoscenza e obbedienza, in completa contraddizione con il compito del predicatore cristiano. Certamente Sack aveva ragione a proposito di entrambe le considerazioni. Nessuna autorità ecclesiastica potrà giudicare diversamente da lui. Fu l’errore fondamentale dei Discorsi il fatto che non veniva in essi riconosciuto il legame tra la religione e la moralità, e, in seguito a ciò, non erano apprezzati né gli effetti della religione sulla vita morale né il significato dei fatti morali per la costruzione della visione religiosa del mondo. Se Sack fosse stato in grado di seguire ricerche di tale raffinatezza, proprio le prediche, che 48
KGA V, 5, Lettera alla sorella, 10 novembre 1801, n. 1120, pp. 240 ss. [Georg Andreas Reimer (1776-1842) famoso editore berlinese, che, nel 1749, rilevò la Buchhandlung der Königlichen Realschule, dandole, 1819, il proprio nome. Dal 1822 acquistò anche la Weidmannsche Buchhandlung di Lipsia. Editore degli autori romantici, fu in stretta amicizia con la maggior parte di loro]. 50 Br. III, p. 281. Lettera a Sack, senza data. 51 KGA V, 5, Lettera alla sorella, 21 giugno-1 luglio 1801, n. 1072, p. 152. 49
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
stabiliscono questo legame, gli avrebbero mostrato come l’errore teoretico, che si trovava effettivamente nei Discorsi, non escludesse il collegamento dei motivi religiosi e morali nell’animo. Gli avrebbero inoltre mostrato che nei Discorsi una natura religiosa di grandissima energia combatteva con le reali difficoltà della situazione scientifica, che minacciavano la stabilità della vita religiosa. Qui stava l’errore di Sack: egli non era in grado di vedere le incredibili difficoltà, nelle quali lo sviluppo della scienza e della morale laica aveva messo le concezioni del Cristianesimo valide fino ad allora, e di giudicare la profondità religiosa che lottava con le forze dell’epoca in seri sforzi per prolungare la vita della religione. Anche la seconda riflessione di Sack, così come egli la espresse, era giusta, ma la sua conoscenza dei fatti in questione era incompleta. Schlegel era più che un uomo «di principi e costumi sospetti». «Mai», gli replicò Schleiermacher, «sarò l’amico intimo di un uomo di sentimenti condannabili; però non rifiuterò mai la consolazione dell’amicizia ad un proscritto innocente per paura degli uomini, mai, per il mio stato, mi lascerò condurre da un’apparenza, che aleggia davanti agli altri, invece di agire secondo la vera natura della cosa»52. La risposta di Sack alle spiegazioni di Schleiermacher fu un’urgente richiesta di accettare il posto di predicatore vacante a Stolp. Era una specie di esilio. Schleiermacher vi andò per amore di Eleonore. Già alla fine del 1801 ebbe davanti a sé la svolta della sua vita. «Tutto», così spiega alla sorella il 10 novembre del 1801, «è per me nulla di fronte alla prospettiva, già quasi spacciata, di una vita domestica tranquilla e felice, e non mi sarebbe per nulla pesante, se non ci fosse alternativa, per godere di questa, pormi in una situazione che mi tenga lontano dalla scena, dove potrei avere una grande efficacia, e che sia di forte impedimento ai miei progressi scientifici. Certo tutto nel mondo è per la maggior parte vanità e illusione, sia ciò di cui si può godere sia ciò che si può fare: solo la vita domestica non lo è. Ciò che si fa di buono, su questa strada silenziosa, rimane. Per poche anime si può veramente essere qualcosa e fare qualcosa di importante. Se ancora il mio destino fosse ornare il resto della vita di questa donna eccellente e degna d’amore – a lungo mi sarà difficile, perché è molto debole – , portare a ulteriore sviluppo e attività ciò che di buono e di bello è in lei, che purtroppo è dovuto rimanere sopito, ed essere per lei, per così dire, una compensazione per tutto ciò che ha sprecato per un uomo indegno, non potrei avere una sorte più bella. Che io non possa astenermi da questi pensieri, lo troverai naturale; ma esamino ogni volta da capo se non ci sia in ciò qualcosa di 52
Br. III, p. 282. Lettera a Sack, senza data.
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non vero. Sento che, se Grunow d’un colpo si trasformasse – non voglio dire al punto da diventare degno di lei, bensì in modo che i sacrifici di Eleonore gli fossero utili e che la vita insieme a lui le diventasse sopportabile –, allora io rinuncerei molto serenamente a tutti i miei desideri: sono cosciente che essi non provengono dall’egoismo e dal desiderio di favorire il mio benessere, bensì solo dal pensiero che è peccato dissipare così una tale vita, e che io desidero darle un’esistenza non solo più piacevole, ma anche più dignitosa»53. All’inizio di marzo si decise ad accettare la parrocchia, miseramente pagata, sulla lontana costa del Mar Baltico; nella seconda metà di aprile, Schleiermacher era già in viaggio per rivedere la sorella dopo lunghi anni e per assumere poi il suo ufficio. Non so esprimere meglio lo stato d’animo in cui lui ed Eleonore si separarono che rendendo nota una lettera, scritta a Eleonore da Gnadefrei, alla quale questa allegò alcune righe di sua mano – le uniche conservate – quando la spedì a Charlotte. La lettera di Schleiermacher risale al 3 maggio del 1802, le parole di Eleonore provengono da Berlino, il 4 giugno. «Lasciami parlare», così scrive Schleiermacher ad Eleonore, «di una mezz’ora solitaria che ho avuto questa sera. Lotte mi ha lasciato verso le sette, per partecipare ad un’altra riunione religiosa; io sono uscito per godermi ancora la bella serata. Un piccolo monte, solo una collina, proprio dietro Gnadefrei, la cima ricoperta di una modesta boscaglia, nella quale sono segnati sentieri, era la mia meta. Era la più vicina alla pianura, e permetteva dunque una magnifica vista sulle montagne. Non ti descrivo i dintorni, perché voglio parlarti solo delle mie sensazioni. Solo questo: vidi fino alla valle di Schweidnitz, vicinissima a Reichenbach, dove devo essere domani sera, e poi, ancora quattro miglia della mia strada di ritorno, poiché vedevo molto oltre le torri di Schweidnitz. Sullo sfondo, più lontano, vidi a occhio nudo, tanto chiara era la sera, la Schneekoppe, la chiave di volta della patria, davanti a me; dall’altra parte della valle di Peiler, vidi il Fischerberg, dove mio padre, alcuni anni prima della mia nascita, fu in pericolo di vita; le schegge di una palla di cannone nemica fracassarono il tamburo dietro al quale egli teneva la preghiera mattutina prima della battaglia. Il sole stava per andare dietro il promontorio dell’Eule e io mi sedetti sotto una betulla, che sussurrava mossa dal vento serale, per guardare questo bello spettacolo. Quando il bordo inferiore del disco toccò appena la schiena delle montagne, scomparvero tutti i raggi, e io potevo, senza impedimenti, vedere chiaramente delimitata la luminosa sfera di fuoco. Essa tramontò, poi, silenziosa e tranquilla. Pensavo 53
KGA V, 5, Lettera alla sorella, 10 novembre 1801, n. 1120, pp. 245-246.
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
a questa illusione e credevo allora di veder la terra rigirarsi e di sentire il fruscio dei monti, che a poco a poco si scurivano e si univano insieme, dove prima avevo potuto quasi distinguerne ogni voragine. Immediatamente dopo il tramonto del sole, si sollevò qua e là un usignolo. Allora mi passarono mille pensieri per la testa. I monti mi ricordano sempre la storia del mondo. Mi immaginai i primi arrivati in questo paradiso, la desolazione di allora, la beatitudine di oggi, i più differenti secoli e tempi mi balenarono davanti: e cosa altro potevo fare che desiderarti vicino a me, per comunicarti tutto ciò che scuoteva la mia anima? Poi accadde improvvisamente che tutto si concentrò in due sentimenti: pregavo e amavo, avrei desiderato consumarmi in preghiera e in tenerezza. Desideravo avere vicino te e la cara, buona Lotte, desideravo che ciascuna di voi portasse la propria religiosità nel cuore, e che tutti fossimo riuniti e avvinti nell’amore. La preghiera e l’amore rimasero; ma la storia del mondo aveva fatto spazio alla storia della mia anima, dagli anni dell’infanzia fino al mio sacro e santificante amore per te. Così mi alzai e mi affrettai sotto il canto degli usignoli e il tenue luccichio di un delicato tramonto, senza strada né sentiero, attraverso la macchia di arbusti, verso la cima della collina, dove alcuni gradini di pietra facilitavano la vista oltre la boscaglia. Lì avevo ai miei piedi, oltre alle cose già dette, la silenziosa serena Gnadefrei, e dietro a me la fortezza di Silberberg. Solo una volta rabbrividii alla vista di quest’ultima. Mi fece gelare il sangue nelle vene, come fanno certi suoni spiacevoli, che non hanno altrimenti alcun significato. E, in effetti, tutto il fare e brigare del mondo non significava nulla per me in quel momento. Avevo solo un desiderio: concedere a me stesso di godere l’intero mio essere, come lo sentivo in quell’attimo. Esso mi penetrava al punto che sentivo che sarebbe stato eterno, e che ne avresti goduto, ma non pensavo a scriverlo, cosa che faccio solo ora. Credo di non aver saputo in quel momento nessuna parola. Nemmeno il tuo nome, poiché vedevo la tua immagine e la tua intera anima. Scesi attraverso la boscaglia, passando vicino all’orlo di una cava di pietra esaurita, vagai ancora un paio di minuti sulla maggese, fino a che mi scacciarono un paio di fanciulli della comunità di Gnadefrei, che erano stati condotti qui a passeggiare. Presi la via verso il cimitero e, voltato lo sguardo a Gnadefrei, pensai a ciò che ti scrissi di recente, cioè che, se io potessi idealizzare questa società, in nessun luogo potrei mai vivere più volentieri con te. Mi dipingevo tutte le attrattive del gran mondo, e, poiché vi era in me così tanta verità, tutto ciò che lusinga la mia vanità, sentivo che non avrei potuto mentire a me e a te. Pensavo a Jette e mi sembrava che anche voi doveste stare bene in tale vita. Il cimitero stava sul pendio di una collina, cinto da una siepe di faggi, e alberato con più file di alberi, che però non avevano il cuore di prosperare tra le
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ossa umane. Da una parte stavano le sorelle, dall’altra i fratelli, quasi come sedessero in una sala di preghiera. Ogni tomba ha una lapide, che però non contiene alcun commento, solo un’indicazione. Dovetti ridere delle più grandi lapidi nobiliari. Non mi idealizzai gli uomini, rozzi, limitati, poco istruiti sull’universo, e, nella ricerca di ciò che è divino e ciò che non lo è, dediti solo al più piccolo dettaglio dell’anima umana. Essi sono stati i più: ma certo portavano l’eternità nel cuore, possedevano la sensibilità che tiene insieme il mondo, e se anche non avessero conosciuto molto di buono o se lo avessero forse timidamente rigettato, non avrebbero tuttavia amato il male. La pace sia con loro, pensavo; possano ora sapere di più ed essere migliori, e così passai attraverso le tombe. Dal cimitero una bella via di tigli mi condusse al paese fino quasi nel mio appartamento. Batterono le 20, mi sedetti su una panchina lungo la strada e sapevo che Lotte celebrava allora, con le sorelle, il lavaggio dei piedi. Pensavo che il bel simbolo non potrebbe mancare nella mia chiesa, pensavo all’umiltà e a te. Voglio lavare anche a te i piedi e tu devi chinarti e baciare la mia fronte. Non pensare che io abbia scritto tutto questo immediatamente dopo il mio ritorno. Prima ho letto i giornali. Poi venne Lotte, dopo che avevo scritto le prime righe, per dirmi ancora buona notte; la ho accompagnata di nuovo a casa e poi ho fatto come tu vedi. Sono stati per me tutti giorni di ansia quelli in cui tu non mi hai scritto e in cui neanche da Jette sapevo nulla di te». «Qui hai, mia cara buona sorella, ciò che mi chiedevi», così termina la copia di Eleonora e iniziano le sue parole a Charlotte, «leggendolo, ti scuoterà lo spirito della placida sacra commozione, che è venuto su di me. Anche tu puoi capire, come me, questo animo santo e amarlo come lo amo io. Egli è separato da me, il benevolo angelo custode della mia migliore vita superiore, ma il suo spirito è trapassato in me. Sento, mia cara Lotte, che tu mi ami come una sorella, mi sento oggetto di un tale amore, posso appena comprenderlo, ma pregando in silenzio lo accetto dalla mano della provvidenza, che mi vuole far riposare dai dolori della mia giovinezza, che mi vuole dare un compenso, di mille volte superiore, per tutto l’amore una volta rifiutatomi, per tutti i dolori della vita. Una bella tranquillità silenziosa è salita in me dall’ora della separazione, seguo con calma la via sulla quale alcune spine mi feriranno, ma un tenue sorriso interiore asciugherà le mie lacrime: ognuna delle spine fa nascere una rosa per la sua futura, eterna vita più bella. Lasciamo la vita esteriore, lo sento e lo dico profeticamente, in preda al mondo: il mondo la prenda pure, a me non è mai bastata; diversamente ferirei la mia anima. Povero Friedrich, proprio così deve trovare la donna del suo cuore: perché questo sono io!
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LA VITA DI SCHLEIERMACHER
Ma Dio conosce le forze dei suoi figli: egli concede così tanto dove non ha mai ottenuto nulla come presso di me; sono consolata, tutti i dubbi della mia anima sono spariti, e quale bel mondo ci rimane ancora, se non noi stessi. Voi, nostri cari, chiamo anche miei quelli che appartengono a lui, gioirete con noi. Mi hai promesso di inviarmi presto una lettera dettagliata: la riceverò, e come? Il tuo buon fratello non mi ha detto nulla, ho avuto il tuo indirizzo, quando lui era presso di te; immagino che mi risponderai tramite Jette; la ho vista e ti saluta caramente. Devo parlarti certo di lui, se no mi si spezza il cuore. Dio sia con te, mio bene, cara, addio»54. Così terminò quest’epoca. Lo Stato del pensiero era distrutto, la cerchia dei compagni frantumata. Il sentimento però rimase; la sua unità è inconfondibile nella genuina connessione della vita di Schleiermacher. I Monologhi sono pieni del dolore per il fatto che mai la vita esteriore gli offrì una grande relazione, «dove la mia azione decide il bene e il dolore di mille» e può mettere alla prova concretamente, come tutto è niente per lui di fronte a uno solo degli alti e sacri ideali della ragione55; dal dolore per il fatto che la dedizione allo Stato, che non inventa forme costituzionali nuove, bensì si sottomette al suo carattere reale ed è pronto a sacrificarsi per la sua esistenza, è sparita dalla coscienza della società. Allora un destino benigno concesse a Schleiermacher di impegnarsi direttamente, nel corso delle occasioni pubbliche, per l’esistenza dello Stato e della realizzazione dei suoi ideali in esso. Solo in tal modo la sua vita ricevette un saldo terreno, il suo sentimento ottenne il raggio d’azione che gli confaceva, la sua anima maschile trovò il mondo nel quale poteva respirare libera. Contemporaneamente la sua visione del mondo e della vita si inserisce nella grande connessione storica del pensiero filosofico. I costumi del Cristianesimo e l’etica degli antichi sviluppano in lui la comprensione del mondo morale oggettivo. Si forma una chiara e ben strutturata connessione di pensieri, nella quale ciascun concetto deve consolidarsi e sperimentarsi nel suo nesso, la totalità nel mondo reale e nelle scienze positive: una severa scienza filosofica. Infine la sua vita religiosa interiore si sprofonda nella potenza storica del Cristianesimo. Dalle condizioni culturali, che ci sono diventate oggi estranee, entriamo felicemente con lui nell’agire e nel pensiero scientifico del presente. Possediamo un’immagine del suo aspetto esteriore risalente a questi anni (1804), schizzata da Steffens; possa essa rendere chiara infine l’impressione della sua grande compiuta personalità. «Schleiermacher era notoriamente 54 55
Lettera a Eleonore Grunow, 3 maggio 1802, KGA V, 5, n. 1224, pp. 394 ss. Monologen, KGA I, 3, p. 49.
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(poiché molti lo hanno conosciuto e se lo ricordano) poco cresciuto di statura, un po’ storto, cosa che lo aveva reso leggermente deforme. In tutti i suoi movimenti era vivace, i tratti del suo viso erano molto espressivi. Qualcosa di mordace nel suo sguardo poteva forse respingere. Sembrava, infatti, penetrare con lo sguardo nell’anima di ciascuno». «Il suo viso era allungato, tutti i tratti del volto segnati marcatamente, le labbra severamente chiuse, il mento sporgente, l’occhio vivace e focoso, lo sguardo sempre serio, raccolto e riflessivo. Lo vedevo nelle più varie e mutevoli relazioni vitali, profondamente meditativo e giocoso, scherzoso, mite e adirato, mosso dalla gioia come dal dolore: appariva dominare sempre il suo animo un’impassibile tranquillità, più grande, più forte del turbamento passeggero. E tuttavia non vi era nulla di rigido in questa pace. Una leggera ironia giocava nei suoi tratti, una profonda partecipazione lo muoveva interiormente, e una bontà quasi fanciullesca compenetrava la sua tranquillità sicura. L’accortezza aveva rafforzato i suoi sensi in modo mirabile. Mentre era preso in un vivacissimo colloquio, non gli sfuggiva nulla. Vedeva tutto ciò che lo circondava, sentiva addirittura i silenziosi colloqui degli altri. L’arte ha mirabilmente immortalato i tratti del suo viso. Il busto di Rauch è uno dei più grandi capolavori dell’arte, e chi come me ha vissuto così intimamente con lui può quasi spaventarsi quando lo guarda. Spesso, anche in questo momento, mi sembra che lui sia qui, vicino a me, come se volesse aprire le labbra severamente chiuse per un importante colloquio»56.
56
Steffens, Was ich erlebte, V, cit., pp. 141 ss.
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APPENDICE
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AGGIUNTE DI DILTHEY PER LA SECONDA EDIZIONE Capitolo quarto a
Alla nostra poesia era legata nel modo più stretto la filosofia. L’idealismo di Kant aprì a Friedrich Schlegel lo sguardo nello sviluppo infinito dell’umanità: l’artista otteneva una nuova dignità proprio in quanto interprete dell’umanità stessa. «L’anima della mia dottrina», scrive già nell’ottobre del 1793 a Wilhelm, «è che l’umanità è la cosa più alta, e l’arte esiste solo grazie a lei». Qui, per la prima volta, la nuova critica romantica si separa dal naturalismo, timoroso della ragione, dello Sturm und Drang, che non poteva né creare né comprendere le grandi forme poetiche. E questo già al tempo in cui Bürger, l’ultimo rappresentante di questa corrente, ancora avvinceva il fratello Wilhelm. In Schlegel, però, lo spirito romantico si separava da Schiller, Humboldt, Körner. Egli opponeva alla razionalizzazione e alla moralizzazione della vita una grande intuizione, la realtà dell’anima unitaria: le forme e i ritmi della vita sono inseparabilmente collegati in essa con i suoi contenuti; dal fondamento dell’anima, nella sua pienezza, si innalzano unità e universalità, impulsi e scopi come in un’unica totalità, la ragione come la vita più alta, impulso all’eterno, agli ideali. Egli viveva (erlebt) il nuovo ideale ora in sé, come volontà di indipendenza e grandezza, ora, sotto l’impressione di Hemsterhuis, Novalis e Caroline Böhmer, come amore, armonia, gioia che mettevano le ali all’anima. Schlegel non ha trovato né ora né in seguito il metodo dell’analisi filosofica per l’esperienza vissuta (Erlebnis), ma la ricchezza della sua nuova vita gli fece approfondire la sua arte della comprensione storica (geschichtliches Verständnis). Qui egli tentava di comprendere l’intero mondo spirituale e di penetrare, con Condorcet, fin dentro la legge della storia. Per uno spirito di questo tipo c’era solo un mestiere – quello di scrittore.
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APPENDICE
Capitolo quinto
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a
L’ideale morale, al quale tendeva lo sviluppo di Schleiermacher, è così scoperto: esso è costituito dall’autonomia dello spirito, che si forma dalla coscienza dell’umanità in sé e della sua determinatezza individuale. Il metodo della riflessione (Besinnung) su di essa è allora basato, dopo la rinuncia alla psicologia illuministica tipica dei suoi lavori giovanili, sull’intuizione geniale e sul metodo di Fichte. Secondo Fichte l’Io produttivo sopraindividuale si rende oggettivo nel proprio agire universale. L’essere razionale autonomo si solleva, azione dopo azione, fino alla coscienza di un carattere razionale. Il metodo di Schleiermacher è l’osservazione, nella quale afferriamo il vivere immediato (das Erleben). Il suo soggetto non è la ragione, bensì il sentimento (das Gemüt), e l’intuizione è, al contempo, un’osservazione del proprio vivere immediato (Erleben) e un comprendere (Verstehen) quello degli altri, fondato su sensibilità e amore. «Voi stessi dovete trovare il punto dal quale potete abbracciare con lo sguardo la totalità, e dovete imparare a ricostruire dai fenomeni l’interiorità, secondo salde leggi e sicuri presentimenti. Per uno scopo reale è dunque superflua ogni spiegazione di sé (Selbsterklären). Esso esige, invece, intuizione. Il sentimento viene descritto come la facoltà intuitiva (Anschauungsvermögen) dell’uomo che ha formato la propria interiorità: è la totalità dell’anima ad essere qui attiva, come anche nell’apprendere e nel comprendere se stessi (Verstehen)»1.
Capitolo settimo a
Affrontiamo ora il compito più difficile di quest’opera. Sulla base dello sviluppo avvenuto fino ad ora, ci viene incontro, nei Discorsi e nei Monologhi, una singolare visione della vita e del mondo: si tratta di una inedita forma del panteismo mistico emerso in Europa. Al loro apparire queste due opere sembrarono non essere in alcun modo legate alla filosofia per come essa si era sviluppata fino ad allora. Esse si separavano intenzionalmente dal movimento filosofico dell’epoca. I Discorsi volevano far valere l’indipendenza della religione dalla filosofia, e mostrare, nello stesso tempo, la grande influenza della religione sulla vita, che poi giunse ad espressione nei Monologhi. Essi sono l’espressione di nuove esperienze vissute etico-religiose (religiöse-sittliche Erlebnisse) in un genio nato per esprimerle.
1
Denk. p. 81.
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APPENDICE
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Queste esperienze erano però condizionate dalla situazione delle idee letterarie, filosofiche, teologiche del tempo. I due scritti non sono di grande aiuto nel penetrare in questo mistero. Bisogna cercare di comprendere, da semplici allusioni, la loro connessione con la filosofia, nella forma in cui essa era presente nello spirito di Schleiermacher. Ulteriori ipotesi sono necessarie per definire gli influssi filosofici che si sono aggiunti alla sua grandiosa esperienza personale. All’analisi delle fonti disponibili per la soluzione di questo enigma, si aggiungevano nuove difficoltà. Sul periodo che intercorre tra l’arrivo di Schleiermacher a Berlino e la sua entrata nel circolo romantico, i documenti sono scarsi e difficili da datare. In queste condizioni è necessario imboccare il seguente percorso. Porto il lettore al centro di tutti questi frammenti della conoscenza storica. Dopo aver ancora una volta riassunto per il lettore il risultato dello sviluppo fino al 1796, la visione del mondo e della vita di Schleiermacher nei tempi più antichi, lo pongo di fronte alla visione del mondo e della vita dei Discorsi e dei Monologhi. Schizzo le linee base della sua mistica religiosa. Analizzo poi tutte le espressioni che possono far luce sulla base filosofica di questa mistica e chiarire le sue relazioni con i filosofi contemporanei. Guardiamo Schleiermacher in mezzo al complesso movimento filosofico dell’epoca, sia nella misura in cui lo accoglie sia nella misura in cui lo rifiuta. Vengono così raggiunte le condizioni per la comprensione dei Discorsi e dei Monologhi. L’origine di queste opere, il loro contenuto e il loro significato possono allora essere esposti. b
Se Schleiermacher, in questo periodo del proprio sviluppo, definisce se stesso un mistico, è perché volge indietro il suo sguardo a Herrnhut: anche la religiosità di allora gli appariva di natura mistica. Ma che contrasto! La mistica tipica della sua gioventù herrnhutiana era teistica, il suo oggetto era trascendente, il suo contenuto emotivo era dedotto dalla storia e dal dogma religiosi. Ora giunse a compimento un lungo, per noi quasi sotterraneo, corso del suo sviluppo. Ne abbiamo seguito le tracce, abbiamo riassunto poi la sua visione del mondo e della vita nel periodo fino al 1796. Lo Schleiermacher di quest’epoca è un analitico, e anche la sua religione si muove nell’opposizione di mondo e Dio, quindi in cose finite. Tuttavia anche allora salvava il suo mondo interiore (Gemütswelt). Quando poi entrò nella cerchia romantica, si formò in lui la mistica che abbiamo esposto poco sopra. Essa è panteistica. Egli scopre come suo fondamento l’esperienza vissuta di tipo religioso (das religiöse Erlebnis), nella quale si schiude la realtà del mondo divino.
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APPENDICE
Questa concezione schleiermacheriana è determinata dal grande movimento panteistico che si era sviluppato nei paesi avanzati dell’Europa a partire dal Rinascimento. Non possiamo rendere conto esaustivamente dell’ampiezza delle sue letture. Non conosciamo la successione nella quale i rappresentanti principali di questo movimento gli si avvicinarono e iniziarono a influenzarlo, né siamo in grado di determinare la forza del loro influsso. Perciò possiamo solo citare, in successione temporale, gli uomini che sicuramente hanno agito su di lui, e tentare di comprendere la profonda relazione di Schleiermacher con loro. Dei pensatori che appartengono al primo periodo di questo panteismo solo Spinoza, Leibniz e Shaftesbury hanno esercitato su Schleiermacher un’influenza documentabile: molto è stato discusso riguardo alla relazione dei Discorsi sulla religione con il sistema di Spinoza2. c
La prima differenza si riferisce alla dottrina spinoziana degli attributi. Secondo la concezione originale di questo autore, attraverso i due attributi del pensiero e dell’estensione, gli unici attributi a noi noti degli infiniti attributi di Dio, la stessa essenza della sostanza divina viene espressa semplicemente in modi diversi. Schleiermacher aveva trasformato questa concezione, già nel precedente saggio su Spinoza, a partire dal punto di vista trascendentale di Kant. La filosofia critica concepisce l’estensione soltanto a partire dalla coscienza. Con questa modificazione la filosofia dell’identità (Identitätsphilosophie) accoglierà, in seguito, la dottrina spinoziana dell’unità delle due essenze. Anche la posizione di Schleiermacher nei confronti di tale dottrina è comprensibile solo in connessione con la nuova concezione della coscienza. Sebbene egli non esageri mai la dottrina dell’identità al modo di Fichte e Schelling, fino a dedurre completamente dalla coscienza il mondo corporeo come qualcosa di semplicemente fenomenico (Phänomenal), tuttavia anch’egli esprime già in quest’epoca, in modo chiaro e forte, il primato del pensiero. Il mondo corporeo come tale è solo mondo, cioè mondo in un senso inferiore. L’universo, il mondo in senso superiore, si schiude, per Schleiermacher, solo attraverso la mediazione dello spirito e nel regno spirituale. Grazie a tale mediazione il mondo corporeo esiste come il corpo esiste per lo spirito: solo così si produce la relazione all’infinito. In quanto semplice finitezza, il mondo, dal punto di vista religioso ed etico, è privo di significato. Perciò questa prima opposizione di Schleiermacher a Spinoza
2 [Sullo spinozismo di Schleiermacher Dilthey si era già espresso in GS XIII: cfr. La vita di Schleiermacher, I, pp. 129 ss.].
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può essere sollevata a piena comprensione nel successivo paragrafo solo a partire dalla concezione dello spirito della filosofia trascendentale. Già allora il rifiuto schleiermacheriano della relazione dell’infinito alle sue modificazioni, nella forma in cui la pensava Spinoza, trovava un fondamento più saldo.
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Un ulteriore sviluppo del panteismo si compie in Hemsterhuis, Herder, Goethe, ai quali si lega il movimento filosofico di Schelling, Hegel e spiriti affini. Attraverso l’intero corso di questa storia è possibile rintracciare un’intima relazione tra Herder e Schleiermacher. Prima di Schleiermacher, solo Herder ha intrapreso a collegare le conseguenze di un monismo panteistico (pantheistischer Monismus) con il ruolo ecclesiastico e con l’attività letteraria teologica. La differenza delle epoche e dei caratteri ha fatto sì che Herder cercasse sempre di piegare questo punto di vista panteistico verso il teismo e di collegarlo, in qualche modo, con una dottrina dell’immortalità. Ma non abbiamo nessuna informazione rilevante dei diretti influssi del suo panteismo, né di quello di Hemsterhuis e Goethe, su Schleiermacher. Passiamo quindi subito al secondo gruppo di autori, che costituivano il presente di Schleiermacher: egli stava nella più vivace relazione con questi contemporanei, tra loro avrebbe dovuto raggiungere il suo posto. Così la sua mistica, il fondamento e la costruzione filosofica di quella possono essere comprese solo se riassumiamo qui il movimento generale. e
Paragrafo Il punto di vista della filosofia trascendentale
Ciò che abbiamo chiamato lo “spinozismo” dei Discorsi è, per così dire, lo strato più basso che determina la coscienza di Schleiermacher intorno al 1800. Come un profeta risorto, quel pensatore, risvegliato dalle Lettere su Spinoza di Jacobi, era penetrato nel movimento spirituale del tempo e non solo aveva toccato, per affinità, il panteismo di Goethe e Herder, a sua volta alimentato da Shaftesbury, ma era entrato in collegamento anche con gli influssi kantiani. In questo modo l’influsso spinoziano subì, nella successiva generazione, una trasformazione tale che ci impedisce di parlare ancora di vero e proprio spinozismo. Anche Fichte, Schelling, Hülsen, Steffens, Novalis si sentivano più o meno inseriti nel grande nesso universale e permeati dai suoi respiri. Tuttavia questo universo, dal punto di vista della filosofia trascendentale, ottiene, per così dire, un differente valore di realtà. Estensione (Ausdehnung) e pensiero (Denken) non appaiono più, dogmaticamente, come due equivalenti forme di
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manifestazione di una sostanza infinta (unendliche Substanz): l’universo viene invece compreso, dopo che Kant ha proceduto a partire dalla coscienza (Bewußtsein), come esposizione regolare o spiegamento oggettivo di essa. In questo senso trascendentale Fichte e Schelling ripensano l’universo di Spinoza. La connessione universalmente valida, data nella coscienza, di atti produttivi conformi a leggi, nella realtà viene obiettivata e ritrovata, dalla coscienza che comprende, quasi come sua immagine speculare. Nel profondo dello spirito, dunque, si scopre il principio dell’universo e il mondo dei corpi è solo l’essere divenuto estraneo a se stesso di una coscienza originaria (ursprüngliches Bewußtsein). Anche questa concezione dello spirito ammette una specie di mistica. Infatti il contenuto infinito dell’animo (Gemüt) si ritrova nel corso della realtà, e ciascuna esperienza finita del mondo esterno diventa, infine, un’approfondita esperienza interna (Innenerfahrung). Questa mistica cerca nondimeno ovunque la forma del concetto. Il suo metodo è la costruzione (Konstruktion), cioè l’esposizione speculativa dell’infinito nel finito: essa mira nello stesso tempo, in senso critico, al contenuto universalmente valido, aprioristico, della coscienza, per comprendere l’universo a partire da esso. Solo con cautela si lascia determinare l’atteggiamento di Schleiermacher verso questa filosofia dell’identità (Identitätsphilosophie), nella cui sfera d’azione egli entrò attraverso la mediazione di Friedrich Schlegel. Quando compose i Discorsi e i Monologhi, Schleiermacher aveva appena iniziato a confrontarsi con questi nuovi filosofemi. Ne era scosso e tuttavia non poteva ancora giungere a chiarezza su ciò che si opponeva ad essi a partire dal punto di vista che aveva elaborato fino ad allora. Da qui devono essere valutati i passi dei suoi scritti a riguardo. Certi tratti comuni con la nuova tendenza sono inconfondibili. Schleiermacher parla occasionalmente, nelle Lettere confidenziali sulla Lucinda, della dottrina dell’identità (Identitätslehre), come fosse qualcosa di ovvio3. Nella recensione alla Destinazione dell’uomo di Fichte parte da una comune prospettiva. Più timidamente e in modo più vago parla, invece, nei Discorsi e nei Monologhi. Anche per Schleiermacher lo spirito è la prima e unica cosa, il mondo è solo il suo specchio, da lui stesso creato; soltanto l’agire dello spirito crea mondo e tempo. Il mondo superiore, l’agire dell’universo, si apre solo nel regno spirituale, e ciò che solitamente si chiama “mondo” non è l’universo. Schleiermacher chiarisce questa relazione attraverso quella di corpo e anima: come il corpo esiste solo per e attraverso lo spirito, così il mondo è solo
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SW III, 1, p. 482.
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corpo per l’umanità nel senso spirituale più alto4. E in quell’attimo mistico dell’unione religiosa con l’universo Schleiermacher esclama: «Mi trovo nel seno del mondo infinito: in questo attimo sono la sua anima, poiché sento tutte le sue forze e la sua vita infinita come se fosse la mia vita; in questo attimo esso è il mio corpo; poiché penetro i suoi muscoli e la sua struttura come se fossero i miei, e i suoi nervi più intimi si muovono secondo la mia sensibilità e il mio presentimento, come se fossero i miei»5. Nella misura in cui, per Schleiermacher, solo lo spirito anima il mondo, egli è pervaso dal primato del pensiero, e la concezione schellingiana dell’“anima del mondo” risuona sempre attraverso i Discorsi. Questo modo di pensare è tuttavia limitato da altre espressioni. Schleiermacher non vuole lasciarsi sfuggire il mondo reale. La sua mistica è un realismo superiore (höherer Realismus), e anche se lo spirito riempie il mondo con alito vitale e si specchia, per così dire, in esso, questo mondo, tuttavia, non è una creazione dello spirito, che abbia poi consistenza d’ombra: esso è la vera realtà e agisce su di noi come noi agiamo su di lui6. Si potrebbe dire: la fede di Schleiermacher nell’identità si limita a questa intimità dell’azione reciproca (Wechselwirkung) di Sé e universo. Proprio la religione riposa su questo processo ed entra, come terzo elemento, a mediare tra speculazione e prassi: «ogni intuire va da un influsso dell’intuito su ciò chi intuisce, da un agire originario e indipendente del primo, che è poi accettato, riassunto e compreso dall’ultimo secondo la propria natura»7. Intuizione di sé (Selbstanschauung) e intuizione del mondo (Weltanschauung) confluiscono in un’unica, forte corrente8. Ma dove lo spirito si esaurisce nell’intuizione di sé (Selbstanschauung), lì vi è la parete divisoria, non ancora abbattuta, che separa gli intellettuali dalla religione. E in ciò sta la radicale opposizione di Schleiermacher a Fichte, compreso in verità solo in parte, e ai filosofi trascendentali: «questi ultimi vedono nell’intero universo solo l’uomo come punto centrale di tutte le relazioni, come condizione di tutto l’essere e causa di tutto il divenire»9; la religione è, al contrario, passività solenne, dedizione all’universo, ritrovamento dell’infinito anche nell’uomo. Sotto un altro punto di vista, Schleiermacher mostra una duplice relazione con questa nuova filosofia, i cui seguaci egli vuole formare alla religione. Come astratta speculazione essa pone nella realtà, secondo Schleiermacher, 4
Monologen, KGA I, 3, p. 9 ss. Reden, KGA I, 2, p. 221. 6 Monologen, KGA I, 3, p. 10. 7 Reden, KGA I, 2, p. 213. 8 Ivi, pp. 263 ss. 9 Ivi, pp. 211 ss.
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limiti che non sussistono per l’intuizione religiosa e crea astrazioni che la vita religiosa non conosce: «Cosa fa la vostra filosofia trascendentale? Essa classifica l’universo e lo suddivide in tali e talaltre essenze, cerca i fondamenti di ciò che è, e deduce la necessità del reale, riproduce da se stessa la realtà del mondo e le sue leggi. La religione non può perdersi in questo territorio. Essa non può avere la tendenza a porre essenze e a determinare nature, a perdersi in un’infinità di motivi e deduzioni, a cercare la causa ultima e a esprimere verità eterne»10. La mistica innata di Schleiermacher si indigna contro la costruzione speculativa, e in questo punto, nei confronti di Fichte, egli si atteggia non molto diversamente da Jacobi, che tuttavia sospettava in Schleiermacher stesso una forma di fichtismo. D’altra parte, egli percepiva la tendenza genuinamente mistica di questa filosofia e la chiamava in aiuto per la propria opera, vista la loro affinità: poiché la filosofia innalza l’uomo al concetto della sua azione reciproca (Wechselwirkung) con il mondo, gli insegna a conoscersi come creatura e insieme come creatore, e proprio come il religioso cerca l’universo nella propria interiorità: «Guardate: il fine dei vostri più nobili sforzi attuali è proprio la resurrezione della religione! I vostri sacrifici devono portare questo risultato, e io vi celebro come salvatori e tutori, anche se inconsapevoli, della religione»11. In ciò non c’è solo una svolta tattica. Tutto dipende dal comprendere esattamente questo tratto del suo spirito: la profonda differenza della sua natura da quella di Jacobi, la decisa opposizione dell’idealismo oggettivo contro l’idealismo della libertà si schiude in questo frangente. Il mistico Jacobi trovava in Spinoza e Fichte solo i modelli eterni della dimostrazione razionale. Per il loro tipo di mistica mancava a lui qualsiasi organo. Al contrario, per Schleiermacher la mistica è proprio ciò che lo unisce a entrambi. Il loro tipo di argomentazione gli è estranea, ed egli si è difeso con forza contro il rimprovero che la sua simpatia per il tipo spirituale rappresentato da Spinoza lo rendesse un perfetto spinozista: «come potevo aspettarmi, cosa che accadde, di essere considerato uno spinozista, perché ho ascritto a Spinoza la religiosità, senza aver in alcun modo difeso il suo sistema? Ciò che è filosofico nel mio libro non si lascia evidentemente mettere in rima con l’elemento caratteristico della sua visione filosofica, che ha tutt’altri cardini che la sola unità della sostanza comune a molti. Anche Jacobi, nella sua critica, non ha colpito la cosa più caratteristica»12. Se si vuole rendere conto della differenza puramente filosofica con Spinoza, si può dire che 10
Ivi, pp. 208 ss. Ivi, p. 263. 12 Nota al secondo discorso, terza edizione, SW I, 1, pp. 267. 11
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Schleiermacher, andando oltre il dogmatismo spinoziano, era giunto alla filosofia trascendentale, e la divinità non era per lui una sostanza estesa. Schleiermacher non aderisce all’idealità trascendentale di spazio e tempo, ma alla loro identità mistica, cioè al fatto che entrambi vengono superati nel processo religioso. Perciò un’interiore inclinazione lo trascinava verso il pensatore che sosteneva la libertà della mistica contro ogni forma di filosofia razionale: Jacobi. Si trattava dell’atteggiamento giovanile di chi non si vuole legare, di chi non si vuole impegnare. Proprio come se presagisse il suo sviluppo futuro, credeva, in ultima istanza, a differenza di Jacobi, a una conciliazione di filosofia e mistica. Che egli allora non la avesse ancora realizzata, costituisce il carattere specifico dei Discorsi e dei Monologhi. Il suo oscillare tra Jacobi e la filosofia trascendentale si spiega solo a partire dall’imperfezione della sua prospettiva di allora. f
Anche nello sviluppo di Schleiermacher, negli anni in cui nacquero i Discorsi e i Monologhi, la forma originaria della dottrina kantiana è stata spinta sullo sfondo dalla rielaborazione fattane da Fichte. Ci colleghiamo di nuovo alla nostra esposizione di Kant. Questi aveva ricondotto la universalità e la necessità nel nostro sapere e la legge morale nel nostro agire alla regolarità (Gesetzmäßigkeit) della ragione universale, che è attiva in ciascuno. Questa visione si rifaceva a Leibniz, e dominò, a partire da Kant, in Fichte, Schelling, Schlegel, Baader, Solger, Schopenhauer, Schleiermacher, Hegel. Ancor oggi l’interpretazione di questo principio decide della posizione fondamentale di ogni filosofo. A partire da questo punto di vista la filosofia è intesa come sapere di sapere, cioè come dottrina della scienza (Wissenschaftslehre). Essa spiega l’esperienza che estrapola, dal flusso delle sensazioni e delle immagini nel singolo soggetto, la connessione delle rappresentazioni accompagnate dalla coscienza della necessità. Se Kant, accanto alla conformità a leggi (Gesetzmäßigkeit) della ragione, individuò una seconda condizione dell’esperienza nella molteplicità irregolare indipendente da noi, Fichte riconobbe la determinatezza dell’Io attraverso un Non-Io, la molteplicità delle sensazioni, l’opposizione, esperita nella volontà, solo come un limite, che si fa valere per produrre i fatti della coscienza a partire dalla possibilità creativa della ragione. Il peso di ciò che è indipendente da noi in quanto ulteriore condizione dell’esperienza, che, secondo Kant, pone limiti al sapere, non abbatte il suo pensiero. Fichte inizia un nuovo volo nella terra metafisica, cioè lascia dietro di sé, con Kant, la metafisica come costruzione del mondo oggettivo. Il punto di partenza di Fichte è l’autocoscienza
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(Selbstbewußtsein): in essa egli scopre, penetrando nel punto più profondo della filosofia kantiana, la ragione universale che agisce creativamente in tutti gli individui. A tal fine Fichte necessitava, però, di un metodo che gli permettesse di andare oltre le analisi kantiane, cioè il metodo dell’intuizione intellettuale. L’intelligenza guarda qui al proprio agire; l’Io si volge in se stesso e diviene oggetto a se stesso. Poiché l’intelligenza, e solo essa, è vista immediatamente come tale, questa intuizione è detta intellettuale. Il filosofo ripete in questa intuizione intellettuale semplicemente ciò che ciascuno vive nella propria autocoscienza (Selbstbewußtsein). A chi filosofa con lui sembra solo di compiere questa esperienza (Erlebnis), a prescindere dalla sua concreta determinatezza, come semplice forma di quella concreta intuizione di noi stessi. Questa intuizione intellettuale è l’organo della filosofia. Tutto ciò che noi apprendiamo dalla percezione, dalla rappresentazione, dall’intelletto o dalla ragione, lo conosciamo attraverso di essa; in essa abbiamo la coscienza della legge morale, e solo grazie ad essa diventano possibili i nostri concetti di diritto e di virtù. Attraverso questo metodo dell’intuizione di sé (Selbstanschauung), che Schleiermacher rinvenne in Fichte e formò come metodo per la comprensione delle proprie esperienze vissute (Erlebnisse), l’autore delle Rapsodie etiche, dei Discorsi e dei Monologhi, si distingue da quello dei lavori giovanili da noi discussi e dalla loro psicologia illuministica. Il metodo dell’intuizione intellettuale agisce in diversi modi anche su Schelling, Friedrich Schlegel, Novalis, Baader, Solger e Schopenhauer. L’intuizione intellettuale, e con ciò si innalza lentamente davanti a noi, tratto dopo tratto, l’intuizione creativa di Fichte, conosce solo fare (Tun) e attività (Tätigkeit). Essa non conosce nessuna cosa che stia dietro all’intuizione del fare, dalla quale questa intuizione derivi o che sia prodotta da lei. Perciò la nuova filosofia è nettamente distinta dal dogmatismo, che parte dalle cose e cerca di conoscere la loro connessione necessaria. La filosofia esige qui l’intuizione di sé come di un fare (Tun). Ciò che essa chiede viene realizzato solo da un agire interiore, determinato esclusivamente dalla propria autoattività (Selbsttätigkeit): questo agire è libero e produce l’elemento razionale necessario. Si potrebbe dire, nella nostra lingua: procedendo nel tempo, esso prende con sé, a ogni passo, ciò che trascorre, cresce e diviene produttivo. Questa è l’essenza dello spirito e della storia, in virtù della quale essi sono del tutto separati dalla natura. Fichte ha chiara coscienza dell’opposizione, implicita in questo punto di partenza e in questo metodo, nei confronti della filosofia dominante a partire da Cartesio. L’esperienza, della cui possibilità si occupa la filosofia creata da Kant, nasce nel rivolgersi della coscienza (Bewußtsein) agli oggetti;
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così la filosofia che, in quanto scienza, necessita di un principio unitario, deve far derivare la possibilità dell’esperienza o dalle cose o dalla coscienza (Bewußtsein). Il dogmatismo, che segue la prima via, dedurrà la coscienza dalla connessione necessaria del mondo oggettivo; l’idealismo, invece, tenta di mostrare le cose come prodotto dell’attività cosciente. Fichte presuppone qui il fatto, in realtà problematico, che la filosofia come scienza debba dedurre da un principio unico un sistema chiuso. È certamente vero che dalla connessione delle cose non può mai essere dedotta la coscienza. Ma la fiducia nel fatto che il tentativo di dedurre dall’Io le cose come oggetti della coscienza abbia successo non è mai stata giustificata in nuovi esperimenti dall’instancabile Fichte. Lo stesso Schleiermacher, al tempo dei Discorsi, pare che abbia giudicato non riuscito questo tentativo fichtiano. Anche Schelling doveva andare oltre Fichte. Però in questi suoi viaggi di scoperta, Fichte abbandonò per sempre il metodo della filosofia costruttiva (konstruktive Philosophie), iniziato con Cartesio. Egli gettò uno sguardo innovativo nell’essenza dello spirito, foriero di futuro. Quel metodo costruttivo (konstruktive Methode), che proveniva dal mondo oggettivo, rendeva concreto lo spirito stesso. Esso diventava un modo, una monade, un ente, in breve una cosa nella connessione necessaria delle cose. Fichte, invece, scoprì che la natura dello spirito era del tutto distinta dall’attività e dalla sua connessione temporale, dallo sviluppo, e che ogni connessione della realtà esterna poteva essere compresa solo a partire da qui. Nella misura in cui la generazione che prese avvio con lui, alla quale apparteneva anche Schleiermacher, comprese questa connessione ideale nella realtà esteriore, tutti i suoi protagonisti sono collegati tra loro e con Fichte. Solo allora l’intuizione fichtiana si realizzò nella sua piena portata. Questo Io puro, uguale in tutti gli individui, crea, nelle sue azioni, il mondo, ha in esso i suoi limiti, e proprio trovando in questo mondo il materiale per i suoi doveri e i suoi scopi, e le possibilità di un agire comune, sviluppa nel genere umano il dominio della ragione. Lo spirito scopre, perciò, come sua essenza, il volere e la sua libertà, e nel mondo vede esclusivamente il materiale del dovere. Per la Dottrina dei costumi lo spirito è la prima e la sola verità: a partire da essa, e dopo essa, viene il mondo13. Questo è l’ideale di una nuova epoca, che si relaziona con il mondo sociale esistente in modo sovrano e creativo. Fichte e la Rivoluzione francese sono affini. Schleiermacher cerca di portare a espressione proprio questo ideale nelle Rapsodie etiche, nei Monologhi, nelle Lettere sulla Lucinda. 13
Fichte, Sittenlehre, Werke, cit., IV.
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La realizzazione di questa grande intuizione nella Dottrina della scienza e nella Dottrina dei costumi di Fichte è il fondamento per lo sviluppo della nuova metafisica dello spirito in Schelling e in Hegel. Per la comprensione di Schleiermacher è importante solo la base generale di questa realizzazione. Fichte cerca le condizioni per rendere comprensibile ciò che è dimostrato immediatamente nell’autocoscienza (Selbstbewußtsein), e individua una connessione di attività della ragione, che sole rendono possibile la coscienza empirica. Presuppongo, a questo proposito, che sia noto il modo in cui l’Io pone se stesso in un’azione, come questo porsi è possibile solo a condizione che un Non-Io si opponga e si separi da quello, e come ciò accada, inoltre, a condizione che Io e Non-Io si determinino l’uno contro l’altro nella stessa coscienza. In entrambe le introduzioni alla Dottrina della scienza, che precedono i Discorsi e i Monologhi, Fichte tratta la relazione qui discussa di Io e mondo esterno, e tra i suoi tentativi di risolvere il problema, insolubile, in realtà, a partire dai suoi presupposti, è vicinissimo al modo di pensare di Schleiermacher. All’Io appartiene necessariamente il limite: tutta la nostra conoscenza deriva da un’affezione (Affektion); la determinazione e la limitazione appaiono qui come fattori assolutamente casuali, e offrono il semplice elemento empirico della nostra conoscenza. Come mi trovo indipendente nel mio agire, così mi sento, nello stesso tempo, determinato e limitato. Questa opposizione di attività e determinazione è ciò che regge l’intera costruzione della Dottrina dei costumi, tanto nella parte teoretica che in quella pratica. Proprio da questa opposizione prende le mosse allora, come Novalis, anche Schleiermacher nei Discorsi e nei Monologhi.
Capitolo nono a
Se guardiamo, attraverso questo stile omiletico influenzato dall’illuminismo, nel cuore della sua disposizione d’animo, troviamo, anche nella predica schleiermacheriana, quella forma fondamentale del vivere (Erleben) religioso che, nei Discorsi e nei Monologhi, cerca una nuova espressione nella lingua filosofica dell’epoca. In entrambi la religione sgorga per Schleiermacher dalla profondità dell’animo (Gesinnung), essa è per lui una forza (Kraft), che diffonde equilibrio e fiducia nell’esistenza. Chi ha trovato il Signore, possiede questa silenziosa saldezza14. Da questa concezione della religione come forma superiore dell’esistenza si trasforma, per Schleiermacher, il senso del 14
SW II, 1, p. 158.
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Cristianesimo dogmatico, e tutto in esso viene considerato di valore nella misura in cui contribuisce all’edificazione (Erbauung)15. Se ci si sprofonda in queste prediche, ci si sente toccati dalla stessa concezione di Dio, che nei Discorsi appare apertamente come panteismo. «Non possiamo parlare e pensare a Dio diversamente che in modo umano». Le allegorie di questo inevitabile antropomorfismo sono fondamentalmente sostenute dal «sentimento immediato di Dio», che cerca Dio ovunque e vede tutto in lui. Il Dio unico e buono è in verità l’inindagabile, e solo nelle sue opere si esprime per noi ciò che è immutabile. In lui non può nascere nessun nuovo pensiero, nessuna nuova decisione, bensì l’intero è ordinato in un’unica decisione fin dall’eternità. “Avere religione” significa riferire tutto a Dio, comprendere ogni cosa a partire dalla totalità del progetto divino ed essere convinti che non c’è niente di nuovo sotto il sole per colui che vede al fondo degli avvenimenti terreni16. Si dà così la previsione di un ordine superiore delle cose, che si ripercuote nelle immutabili leggi della natura e della moralità, e la nostra preghiera non può tendere a null’altro che a far accordare la nostra volontà con questo globale ordine superiore. Solo l’animo inquieto cerca l’apparenza del divino in miracoli straordinari, che interrompono magicamente il corso universale; al religioso, l’effetto silenzioso dei normali mezzi della provvidenza è di maggior valore rispetto a ciò che è esteriore, inatteso, maestoso. «Dio non ha posto in noi tanto che i nostri desideri devono essere profezie». Piuttosto la dimostrazione suprema della sua grazia e del suo prestare ascolto alle preghiere sta nel fatto che noi, con distacco, ci abbandoniamo all’essere immutabile e volontariamente concordiamo con il Padre. Questa fede si rivolge non solo al futuro, bensì essa trova il Signore in ogni momento presente, e giunge a una ferma tranquillità, che è superiore alla forma esterna delle cose e a ogni tipo di entusiasmo (Schwärmerei). «Così nasce la fiducia che, per quanto siamo solo una piccola parte, anche noi veniamo presi in considerazione nella totalità; così nasce la pace, poiché qualunque cosa accada, deve venirne qualcosa di buono; e così finalmente il cuore, reso quieto e mansueto, dice: Padre, sia fatta la tua volontà!».17 Solo alla luce di questa superiore connessione si comprende nel suo vero significato il contenuto morale delle prediche, che, a una considerazione superficiale, si impone come elemento decisivo. Certo la morale è possibile senza religione, e Schleiermacher non nega la sua attenzione agli animi 15
Predigtentwurfe Schleiermachers, a cura di Zimmer, Gotha 1887, p. 67. SW II, 1, p. 165, 30 ss., 13 ss. 17 Ivi, pp. 24 ss., particolare p. 29, 31. Zimmer, p. 72. 16
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che si lasciano indirizzare in questo modo. Ma una chiarificazione dell’agire morale e una superiore coscienza morale nascono solo se si impara a collegare, con la coscienza (Gewissen), un’intuizione religiosa dell’universo. Penosa incertezza e irrequieto “fare e disfare” sono il destino di colui che cerca la propria particolare vocazione, i propri particolari doveri attraverso la mera riflessione morale. «Guardate invece colui che considera la sua coscienza esclusivamente come la voce di Dio! Invece di adoperarla qua e là, a seconda delle circostanze, la manterrà salda; invece di dominarla con sofismi, la interrogherà con devozione; invece di analizzarla, la osserverà e la eserciterà soltanto. Presterà attenzione a ciò che è simile nelle sue espressioni, all’interiorità a cui esse si riferiscono: poiché questo cercare e trovare sono la sua costante occupazione, egli raggiungerà un sentimento quieto e ampio»18. Qui comprendiamo il punto più profondo nel quale Discorsi, Monologhi e prediche, nonostante la loro intenzione apparentemente diversa, sono cresciuti insieme in Schleiermacher. Solo nell’intuizione religiosa si realizza la morale, e, viceversa, soltanto la disposizione d’animo religiosa produce, a sua volta, una genuina moralità e una superiore beatitudine: «Il creatore della parola è beato nella sua azione». Risuona sempre, nelle prediche, quella gioia herrnhutiana che contraddistingue l’uomo religioso nel mondo. «Vogliamo rallegrarci con i felici». Poiché la religione non concede solo piacere, bensì, «secondo i suoi principi fondamentali, è una parte necessaria della vita». E nella virtù del religioso sta ancora più vita e gioia che in quella dei moralisti19. La religiosità prende su di sé, quindi, tutto ciò che i Monologhi sviluppano come essenza dell’intuizione morale di sé (sittliche Selbstanschuung): totalità di ogni azione morale, individualità e libertà interiore come genuina essenza dell’identità, impossibilità di un agire moralmente indifferente. Tutti questi pensieri risuonano distintamente anche nelle prediche. Semplicemente qui esse mettono in luce il fatto che tutti collaborano a sostenere il regno di Dio, che viene esperito, con sempre maggior intimità e ampiezza, in tutte le condizioni della vita, dal religioso, e che concede al suo cuore una pace sempre più stabile. Questo regno di Dio si realizza solo mediante una vita religiosa comunitaria nel senso della comunità herrnhutiana. La comunità rinforza desiderio e zelo per la religione, essa serve alla vivificazione e all’innalzamento dei nostri sentimenti religiosi: questi, non istruzione e incoraggiamento, sono il suo
18 19
Ivi, p. 157. Ivi, pp. 62, 17, 19, 66.
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scopo più alto20. Mediante questo esercizio si stringe un legame d’amore e di benevolenza intorno a coloro che sono riuniti in comunità, il loro legame diventa una motivazione a fare il bene, una scuola di amici sinceri e fedeli, che si sentono costantemente responsabili verso ciascuno. In questo libero e ricco agire dello spirito divino sta l’elemento che, nei Discorsi, è chiamato chiesa invisibile. «A cosa serve una riunificazione intenzionale dei figli di Dio? Essi sono uniti dallo spirito, che abita in loro, hanno tutti il medesimo scopo, e sono d’accordo sui mezzi per raggiungerlo, per quanto non si siano affratellati a tale scopo. Il religioso sa che ciò che egli fa è fatto all’interno della comunità; ciò che egli fa, agisce in essa, anche se non è percepito, agisce con essa per attirare a sé coloro che sono chiamati per vocazione. Ogni verità, che viene chiaramente sostenuta, trova animi in cui espandersi; ogni saggio discorso agisce come dottrina e trova i propri discepoli; ogni buona azione, che viene compiuta come buon esempio, ricorda a ciascuno la grazia; ogni estrinsecazione dello spirito divino viene compresa e utilizzata da ciascuno, e Dio ne viene in tale maniera lodato». L’elemento della religiosità schleiermacheriana che agisce in modo misterioso a ogni livello consiste nel fatto che questa comunità di santi è fondata da Cristo. Schleiermacher può chiudere la descrizione di questa comunità dello spirito, che unisce in una totalità tutti i veri adoratori di Dio, con queste parole: «Averla trovata significa aver trovato Cristo, che la ha istituita, significa aver trovato lo spirito di Dio che la conduce e la anima»21. Tutte queste prediche, come già annuncia la prefazione, si basano sul presupposto che ci siano ancora «comunità di fedeli e una chiesa cristiana», e che «la religione sia ancora un legame capace di unire i cristiani in modo peculiare»22. Con una certa ovvietà si corrispondono, per Schleiermacher, religiosità e Cristianesimo, ancor prima che in lui si fosse formata la visione storica, con la quale fu poi in grado di giustificare il carattere universalmente cristiano della comunità religiosa occidentale. La predica schleiermacheriana presuppone già, in questi anni, le intuizioni religiose in tutte quelle connessioni con la vita morale e storica, che erano state intenzionalmente escluse dai Discorsi, al fine di comprendere nel modo più puro possibile l’essenza della religione.
20
Ivi, p. 160. Ibid. 22 Ivi, pp. 6 ss. 21
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INDICE DEI NOMI
Alighieri, Dante, 84, 98 n., 231. 301 Aristofane, 90 Aristotele, 40, 47, 132, 171, 172, 240 Arnauld, Antoine, 200 Arnim, Bettina von, 66 Baader, Franz Xaver, 434, 435 Baer, Karl Ernst von, 48 n. Bamberger, Johann Peter, 247, 248, 250 Bardili, Christoph Gottfried, 219 n. Beck, Jakob Sigesmund, 209 Bendavid, Lazarus, 64 e n. Benecke, Gottlob Wilhelm, 76, 78 Berger, Johann Erich von, 80, 204 Bernhardi, August Ferdinand, 66, 75 n., 126, 135, 146, 150, 152, 153, 154, 219, 341, 397, 398, 399, 403 Biester, Johann Erich, 58 e n., 60, 69 Birkner, Hans-Joachim, 3 n. Bischoffswerder, Johann Rudolf von, 390 Boccaccio, Giovanni, 92 Böckh, August, 53, 92, 220 n., 224 n., 405 Böcking, Eduard, 79 n., 135 n. Böhmer, Auguste, 241, 246, 386, 394, 395, 396 Bopp, Franz, 53 Böttiger, Karl August, 61 n., 386 Bourguet, Louis, 200
Bouterwerk, Friedrich, 82, 83, 84 Brinkmann, Carl August von, 73, 105, 204, 211, 217, 338, 368 Brino, Omar, 13 n. Brunner, Emil, 3 n. Bube, Tobias, 11 n. Buckle, Henry Thomas, 44 Buffon, Georg Louis Leclerc, 33, 40 Bülow, Karl Eduard von, 306 Burckhardt, Jakob, 332 Bürger, Gottfried August, 83, 415 Büsching, Anton Friedrich, 58 e n. Campe, Elise, 382 n. Camper, Petrus, 45, 50 e n. Cervantes, Saavedra Miguel de, 301, 311 Chamisso, Adelbert, 43 n. Cholevius, Karl Leo, 135 n. Ciriello, Giovanni, 11 n. Claudius, Matthias, 290 Cook, James, 394 Cotta, Johann Friedrich, 400 Cuvier, Georges, 46, 48 n. D’Aniello, Giovanna, 13 n. Demostene, 169 Descartes, René, 424, 425. Dohm, Christian Wilhelm, 58 e n., 64, 65 Dohna-Schlobitten, Carl Friedrich Fer-
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dinand Alexander von, 73, 110, 243, 347 Dohna-Schlobitten, Karoline von, 76 Dohna-Schlobitten, Louis Ludwig Moritz Achatius von, 242 Dohna-Schlobitten, Luise Friederike Juliana von, 243, 320, 393, 394, 406 Dohna-Schlobitten, Marianne Helene Dorothea Augustina von, 394 Dohna-Schlobitten, Wilhelm Heinrich Maximilian von, 239 Dohna-Scholbitten, Charlotte Maria Christiana von, 394 Dürer, Albrecht, 148, 155, 156 n. Dusch, Johann Jakob, 28 e n. Dutens, Luis, 194 Eckermann, Johann Peter, 94 n. Eckhof, Conrad, 239 n. Eichmann, Franz Friedrich, 391 Eigensatz, Christel, 66 Engel, Johann Jakob, 28 e n., 29, 60, 61 n., 65, 127, 130, 131, 136, 145, 218, 286. Epitteto, 338. Erdmann, Johann Eduard, 79, 208 n. Ermann, Johann, 70 Eschenmeyer, Carl, 224 Eschilo, 90 n., Euler, Leonhard, 131 Falk, Johannes Daniel, 61, 69 e n., 38, 400, 401 Federico il Grande, 28, 31 e n., 32, 5461, 65, 390 Fessler, Ignaz Aurelius, 105 e n., 397 Feuerbach, Anselm Ritter, 388 Fichte, Johann Gottlieb, 7, 96, 98, 99, 101, 102 e n., 103, 104, 112, 113, 116, 123-125, 160, 161, 170, 171, 189, 190, 191 e n., 193, 198, 201, 202, 203, 204, 205, 206, 208-221, 222, 226, 227, 231, 240, 245, 259, 289, 313, 314, 321,
322, 325, 339, 343, 344, 345, 347, 349, 360, 363, 382, 384, 385, 386, 387, 388, 396-402, 403, 416, 418, 419, 426 Fischer, Johann Karl, 105 Fleck, Ferdinand, 105 Forster, Georg, 132, 389 Forster, Johann Reinhold, 213 Freigang, Eugen Wilhelm, 10 n. Friedländer, David Joachim, 64 e n., 65, 297 Fries, Jakob Friedrich, 211 Garve, Christian, 115, 116 n., 136, 145 e n., 318, 389 Gedike (Gedicke), Friedrich, 58 n., 59, 146 Gentz, Friedrich, 66, 67, 116 n. Gerstenberg (Geistenberg), Heinrich Wilhelm von, 146 Gervinus, Georg, 49 Gesù Cristo, 283, 284, 285, 309, 429 Gleim, Johann Wilhelm Ludwig, 223 Goethe, Johann Wolfgang, 10, 26, 3353, 63, 65, 66, 74, 77, 82, 83 n., 84, 85, 88, 89, 94 n., 96, 97, 98, 99, 101, 104, 111, 113, 117, 130, 134, 135 n., 136, 137, 138, 139, 140, 142, 146, 151, 153, 156, 157, 166, 222, 223, 226, 231, 234, 253, 303, 305, 308, 310, 312, 313, 319, 353, 361, 380, 382, 387, 388, 419 Graun, Carl Heinrich, 131 Gries, Johann Diederich, 83, 241, 382 n. Grimm, Jakob, 53, 144 Grimm, Wilhelm, 53 Grosse, Carl Friedrich August, 148 Grotthuis, Ferdinand Dietrich, 66 Grunow, Eleonore Christiane, 76, 140, 320, 342, 351-358, 372, 373, 391, 408411 Hamann, Johann Georg, 34, 290
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Harms, Friedrich, 208 n. Haym, Rudolf, 15, 102 n., 116 n., 225 n. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 41, 42, 52, 79 n., 80, 97, 100, 103, 104, 165, 170, 203 e n., 208 n., 212, 214 n., 223, 224, 226 n., 229, 234, 235, 314, 400, 419, 423, 426 Heindorf, Ludwig Friedrich, 391,405, 407 Helmholtz, Herrmann von, 46 n. Hemsterhuis, Frans, 88, 172, 184 n., 415, 419 Herbart, Johann Friedrich, 206 n., 208 n., 212, 213, 219, 338 Herder, Johann Gottfried, 33, 35, 37, 44, 47-53, 79 n., 83 e n., 84, 93, 101, 135 n., 137, 223, 310, 380, 384, 386, 387, 400, 419 Herfurth, Thomas, 11 n. Hertzberg, Ewald Friedrich, 57 e n. Herz, Henriette (Henriette De Lemos), 65, 66, 73-77, 105 n., 109, 110, 117, 118, 121, 122, 126, 127, 132, 153, 238, 239, 240, 242, 244, 246, 248, 339, 342, 343, 347, 349, 353, 356, 367, 391, 394, 401 Herz, Markus, 64, 65, 73, 74, 75, 105, 297 n., 390, 401 Hettner, Herrmann Julius Theodor, 135 n. Heyne, Cristian Gottlob, 82, 93, 92 Hölderlin, Johann Christian Friedrich, 82, 93, 136, 140, 151, 223 Horstmann, Kai, 13 n. Huber, Ludwig Ferdinand, 387, 389, 390 Huber, Therese, 389 Hufeland, Christoph Wilhelm, 270 Hülsen, August Ludwig, 80, 135, 204, 221, 232 n., 246, 301, 312, 324, 419 Humboldt, Alexander von, 46, 50, 52, 65, 77, 92 n. Humboldt, Wilhelm von, 53, 65, 75, 77
433
e n., 93, 98, 101, 102, 115, 153, 223, 415 Iffland, August Wilhelm, 62, 239 e n., 387 Jacobi, Friedrich Heinrich, 7, 9, 34, 36, 40, 79 n., 115, 116, 131, 132, 166, 171, 172 n., 175, 181, 183, 184 n., 202, 203-208, 209, 211, 212, 232, 267 n., 290, 302, 313, 319, 386, 387, 419, 422, 423 Jean Paul, v. Johann Paul Friedrich Richter, 77, 78 n., 115, 157, 164, 338, 387, 391, 392 Jenisch, Daniel, 386, 388 Joucourt, Lewis de Chevalier, 194 Justi, Carl, 35 n. Kant, Immanuel, 6, 25, 30, 31, 32, 33, 34, 37, 41, 43, 44, 51 n., 53, 74, 88, 98, 100, 101, 103, 109, 114, 115, 116, 123, 124, 125, 136, 163, 1171-176, 180, 181, 186, 189, 192, 193, 199, 205, 209-214, 218, 223, 226, 232 n., 240, 251, 254, 287, 289, 294, 296, 313, 314, 318, 325, 326, 327, 334, 348, 371, 380, 383, 387, 388, 400, 415, 418, 420, 423, 424 Kathen, Charlotte von, 340 Kleist, Heinrich von, 27 Kliebisch, Udo, 13 n. Klinger, Maximillian, 36, 139 Klopstock, Friedrich Gottlieb, 27, 30, 77 n., 144 Knebel, Karl Ludwig, 384 Knigge, Adolf von, 127-129 Koberstein, August, 79 n., 94 n., 135 n. Koch, Julius Erduin, 148 Körner, Christian Gottfried, 89, 98 e n., 314, 415 Kotzebue, August Friedrich Ferdinand von, 61 n., 62, 149, 387, 389, 400, 401
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Krantz, 61 Krause, Karl Christian, 180 Kühn, Sophie von, 158 Las Casas, Bartolomé de, 131 Lavater, Johann Caspar, 39 n. Leibniz, Gottlieb Wilhelm, 6, 32, 33, 42, 47, 102, 117, 171, 173, 192, 193, 194, 199-202, 223, 226, 388, 418, 423 Lenz, Jakob Michael Reinhold, 36, 139 Lessing, Gotthold Ephraim, 5, 26-36, 39,42, 47, 48, 56, 57, 59, 62, 78 n., 93, 96 n., 105, 132, 135 n., 136, 175, 209, 223, 229, 230, 231, 232, 252 n., 287, 308 e n., 380, 387 Lotze, Rudolf Hermann, 234 Louis Ferdinand, principe di Prussia, 66 Löwe, Johann Heinrich, 208 n. Luther, Martin, 113, 187, 292 Maimon, Salomon, 42, 64, 209 Marco Aurelio, 338 Matthisson, Friedrich von, 77 e n., 145 Meckenstock, Günter, 6 e n. Mendelssohn, Moses, 56, 58 e n., 62, 64 e n., 65, 105, 109, 131, 243, 296, 297, 342, 343 Mengs, Anton Raphael, 81 e n. Merkel, Garlieb, 61 e n., 386, 400 Mezzanzanica, Massimo, 4 n. Michaelis, Johann David, 82 Michelet, Karl Ludwig, 79 n. Mill, John Stuart, 44 Mirabeau, Honnoré Gabriel Riquetti, 54 n., 61, 64 Montesquieu, Charles de Secondat de, 35, 51 Moritz, Karl Philipp, 28, 59, 65, 74, 83 n. Müller, Johannes, 43 n., 46 Müller, Karl Otfried, 92 e n. Musäus, Johann Karl August, 149
Neander, Johann August Wilhelm, 317 n. Nicolai, Christoph Friedrich, 54 n., 5660, 62, 65, 149, 152, 297, 386, 387, 388 Novalis (Friedrich Leopold von Hardenberg), 6, 80, 87, 97, 98 n., 101, 105, 109 n., 112, 117, 134, 135 e n., 136, 139, 140, 142, 144, 157-163, 221, 231, 234, 235, 236, 241, 246, 302, 303-309, 312, 313, 314, 347, 361, 366, 364, 382, 387, 402, 415, 419, 424, 426 Nowak, Kurt, 3 n. Oeser, Adam Friedrich, 82 n. Omero, 33, 91 n. Otto, Rudolf, 2 n. Park, Mungo, 394 Parny, Evariste Desire de Foges, de, 145 Pascal, Blaise, 377 Paulus, Heinrich Eberhard Gottlob, 194 Petrarca, Francesco, 84 Platone, 6, 7, 47, 103,146, 163, 169, 171, 172, 194, 195, 199, 200, 211, 237, 248, 271, 323, 363, 372, 373, 382 n., 383, 385, 391 n., 404, 405 Porst, Johann, 387 Prahmer, Johann Georg Wilhelm, 69 e n. Rabener, Wilhelm Gottlieb, 60 e n. Rambach, Friedrich Eberhard, 146, 147, 148. Ramler, Karl Wilhelm, 56 e n., 60 Ratjen, Henning, 382 n. Rauch, Christian Daniel, 413 Redeker, Martin, 1 Reichardt, Johann Friedrich, 64, 65, 94 n., 146, 150 e n., 158 Reimer, Georg, 358, 407 e n. Reinhold, Karl Leonhard, 204, 209, 211, 219 e n., 344, 349 n., 388, 397
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Reuss, Heinrich XIV, 66 Ritter, Carl, 50, 53 Ritter, Johann Wilhelm, 35, 160, 225, 338, 381, 382 Roscher, Wilhelm, 48 e n. Rosenkranz, Johann, Karl Friedrich, 225 n. Rousseau, Jean-Jacques, 34, 156, 166, 319, 362, 364 Sachs, Hans, 148, 312 Sack, Friedrich Samuel Gottfried, 56 n., 70, 71, 195, 243, 244, 248, 295, 300, 315, 316, 407, 408 Sanzio, Raffaello, 304 Scaliger, Joseph Justus, 90 n. Schadow, Gottfried, 105 Scheffner, Johann Georg, 314 Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, 6, 8, 41, 44, 52, 80, 82, 100, 101, 104, 109 n., 115, 134, 158, 160, 164, 165, 170, 171, 176, 180, 192, 202, 203 e n., 208 n., 218, 219, 221, 222, 224, 225227, 228, 234, 241, 254, 303, 304 n., 305, 311-314, 341, 360, 382, 394-389, 395-400, 402, 403 e n., 418, 419, 420, 421, 423-425 Schiller, Friedrich, 29, 36, 37, 39, 40, 46, 79 n., 83 n., 84, 88, 90, 93-102, 116, 131, 136, 137, 140, 143, 153, 156, 163 n., 164, 222, 223, 253, 306, 314, 342, 353, 380, 385, 387, 388, 389, 415 Schlegel, August Wilhelm, 53, 78 n., 79 n., 81-93, 105 e n., 135 e n., 136, 139146, 151, 152, 154, 157, 160, 161, 166, 210, 218, 219, 228, 229, 234 n., 239, 242, 246, 294, 304, 305, 312-314, 346, 365, 367, 370, 381, 384, 386, 388, 389, 395-403, 415 Schlegel, Caroline (Caroline Böhmer), 82, 83 n., 85, 86, 88, 89, 90, 93, 97, 141, 241, 301, 304, 305, 312 n., 341, 342, 343, 344, 345, 347, 350, 361, 366,
435
367, 374, 379, 385, 386, 387, 395, 396, 402, 403 e n., 415 Schlegel, Friedrich Wilhelm Joseph, 2, 5, 6, 7, 8, 53, 61, 62, 66, 78, 79-111, 112, 114, 115, 117, 118, 121, 122, 123, 125, 126, 132, 133 e n., 134, 135, 136, 140, 141, 144, 148,150, 152, 153, 157, 158, 160, 161, 164, 170, 171, 193, 194, 204, 207, 219, 221, 224, 227-237, 238, 239, 240, 241, 243, 246, 300, 301, 302, 303, 306, 309 n., 310, 311, 312, 314, 323, 338, 341351, 359-370, 374, 379, 382, 383, 386 e n., 387, 388, 389, 391, 397, 401, 402-408, 415, 420, 423, 424 Schlegel, Johann Adolf, 81 Schleiermacher Friederike Charlotte, 77, 78, 106, 107, 110, 117, 122, 123, 238, 239, 242, 243, 244, 293, 320, 339, 347, 348, 351, 356, 369, 391-394, 403, 408, 409, 410, 411 Schleiermacher, Johann Karl, 77, 392 Schmidt, Friedrich Wilhelm August, 145 Schmidt, Julian, 135 n. Schöll, Adolf, 40 n. Scholtz, Gunter, 5 n., 10 n., 13 n. Schopenhauer, Arthur, 115, 213, 224, 234, 423, 424 Schulthess, Johann Georg, 56 e n. Schulze, Gottlob Ernst (detto Enesidemo), 209, 227 Schweizer, Albert, 169 Semler, Johann Salomon, 287 Shaftesbury, Antony Ashley Cooper, 9, 172, 181, 418, 419 Shakespeare, William, 33, 34, 84, 88, 137, 141, 146, 148, 149 e n., 151, 153 e n., 231, 238, 311, 370 Socrate, 323, 348, 353 Solger, Karl Wilhelm Ferdinand, 180, 423, 424 Spalding, Georg Ludwig, 71, 373, 391
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INDICE DEI NOMI
Spalding, Johann Joachim, 222 Spener, Johann Karl Philipp, 394 Spinoza, Baruch, 6, 8, 9, 38, 40, 41, 43, 44, 49, 51, 88, 171-174, 180, 184 e n., 190, 191 n., 192-202, 206, 209, 215, 217, 223, 226, 227, 235, 259, 268, 309, 311 n., 314, 318, 348, 418, 419, 420, 422 Steenstrup, Johannes Japetus Smith, 43 n. Steffens, Heinrik, 107, 109 n., 221, 222, 224 e n., 225 e n., 303, 365, 382, 395, 412, 419 Stubenrauch, David Adam Karl, 78 Stubenrauch, Samuel Ernst Timotheus, 78, 387 Sulzer, Johann Georg, 56 e n. Süssmilch, Johann Peter, 55, 58 e n. Teller, Wilhelm Abraham, 59 e n., 64, 70, 297 Thiel, Karl, 169 n. Tieck, Sofia, 150 Tieck, Ludwig, 6, 61, 66, 82, 105, 112, 114, 126, 135 e n., 136, 137, 138, 139, 140, 141, 146-154, 156 e n., 157 n., 161, 162, 167, 223, 294, 304-306, 310 n., 341, 361, 366, 367, 381, 382, 385, 386, 395, 398, 400, 401, 403 Tomascheck, Karl, 94 n. Trendelenburg, Adolf, 172 n., 197 n., 208 n. Twesten, August Detlev, 376, 378 Ueberweg, Friedrich, 42 n. Unger, Friederike Helene (Friederike Helene von Rothenburg), 54 n., 243, 244 Unger, Johann Friedrich Gottlieb, 143, 144, 243, 398, 399, 400 Varnhagen von Ense, Karl August, 63, 65, 66, 76 n., 79 n., 112 n. Varnhagen von Ense, Rahel (Rahel Le-
vin), 65, 66, 76 n., 77, 104, 114, 353. Veit, Dorothea Friederike (Brendel Mendelssohn), 64, 65, 77, 79 n., 109, 221, 239, 241, 246, 301, 306, 341-351, 353, 364, 365, 367, 368, 381, 384, 385, 386, 388, 396 Veit, Philippe, 343 Veit, Simon, 64 Vermehren, Johann Bernhard, 381, 401 Voltaire, 55, 167 Voss, Johann Einrich, 146, 77 n., 145 e n. Wackenroeder, 6, 136, 148, 150, 154156, 162, 304 Waitz, Georg, 382 n. Weisse, Christian Felix, 28 e n. Werner, Abraham Gottlob, 160 Wieland, Christoph Martin, 27, 61 n., 69 n., 386, 400 Wiesel, Pauline, 66, 114 Willich, Ehrenfried von, 339, 354, 407 Winckelmann, Johann Joachim, 35, 44, 51, 53, 83 e n., 85, 90 e n., 91 n., 94 e n., 95, 96 n., 101, 137 Windischmann, Karl Joseph Hieronymus, 79 n., 103 n. Wizenmann, Thomas, 290 Wolf, Friedrich August, 69 n., 91 e n., 92, 388 Wolff, Christian, 192 Wöllner, Johann Christoph von, 58 n., 62, 71 Woltmann, Karl Ludwig, 397-400 Wolzogen, Karoline, 342 Zedlitz, Karl Abraham, 58 n. Zeller, Eduard, 171 n. Zelter, Karl Friedrich, 65 Zimmermann, 122 Zöllner, Johann Friedrich, 59 e n., 65, 70 Zöppritz, Rudolf, 204 n.
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La Cultura Storica Collana di testi e studi diretta da Giuseppe Cacciatore e Fulvio Tessitore
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