La filosofia di Robert Wyatt. Dadaismo e voce: unlimited 8857524108, 9788857524108

Una voce unica, in apparenza triste, anche se Wyatt non si considera affatto una persona triste. La voce di un elfo, che

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La filosofia di Robert Wyatt. Dadaismo e voce: unlimited
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MUSICA CONTEMPORANEA

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n. 8

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Leonardo Vittorio Arena

LA FILOSOFIA DI ROBERT WYATT Dadaismo e voce: Unlimited

MUSICA CONTEMPORANEA

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MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Musica contemporanea, n. 8 Isbn: 9788857524108 © 2014 – mim edizioni srl Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone +39 02 24861657 / 24416383

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“Posso dire con certezza, non con orgoglio ma con disprezzo, che alla fin fine non ho mai fatto un disco rock in tutta la mia vita”. Robert Wyatt “Non faccio mai niente due volte, allo stesso modo, in studio”. Robert Wyatt “Il mio tipo di arte preferita ha quella tensione tra geometria e caos”. Robert Wyatt

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“Dicono che la classe operaia è morta, che ora siamo tutti consumatori”: questo l’incipit di The Age Of Self, manifesto programmatico di Robert Wyatt negli ’80 dall’album Old Rottenhat, di cui si disse che imponeva la propria atmosfera all’ascoltatore, piuttosto che l’inverso. È che il marxismo di Wyatt stenta a trovare una collocazione nel tormentato marasma di quegli anni, e del nostro presente. Come se l’analisi del materialismo storico avesse fatto il suo tempo, non così per Robert… I conflitti di classe per lui sono più che mai attuali e volerli ridimensionare, o peggio negarli, è reazionario, contrario alla dialettica che Marx insieme a Engels seppe estrarre da Hegel, e smentirne le basi idealistiche per confrontarsi con il corpo, la materia, foss’anche “il corpo senza organi”, come più tardi ne avrebbe detto Deleuze (con Guattari).1 Certo, l’era del consumo è una realtà, e Robert lo sa, anche se meno di tanti divi del rock, che non è mai stato. Si prende atto della volontà di seppellire il marxismo e ciò appare deplorevole agli 1

G. Deleuze, F. Guattari, L’Antiedipo, Einaudi, Torino 1972.

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occhi di questo working class hero, cantore della rivolta permanente. “Dicono che stiamo andando avanti – che adesso siamo tutti quanti gente (people)”; perché distinguere il proletario dal capitalista, dal borghese? Wyatt sembra ignorare, forse perché dissente, che già con Marcuse certi conflitti erano stati ridimensionati, e non si riteneva più la classe operaia idonea a fare la rivoluzione.2 La visione dell’“uomo a una dimensione” sembra incline alla non differenza, che non vuol dire indiscriminazione, e osa rivedere le categorie marxiane, cui Wyatt inclina, a costo di sembrare anacronistico. “Questa è l’età del sé” – un assunto che, comunque lo si intenda, riporta a una consapevolezza del processo storico che Robert, dall’alto delle sue tastiere e del suo drumming, non ha mai perso di vista. Dentro la Storia, e fuori. Nel tentativo problematico, molto problematico, di conciliare Marx con una nuova coscienza che dovrà scontrarsi con le pretese dell’individualismo che si intona con il capitalismo e, nel contempo, si pone come suo epifenomeno, richiedendo attenzione. L’egocentrismo di un Sé che annaspa in cerca di una nuova identità, e che è qualcosa che l’analisi marxiana non seppe o non poté anticipare, nella seconda metà del XIX secolo che poneva altri problemi. O si potrebbe dire che il rappresentante dell’epoca, quel Max Stirner irriso da Marx ed Engels,3 aveva anticipato troppo; si potrebbe suggerire 2 3

H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967. Cfr. l’opera di Stirner, epocale quanto misconosciuta, L’unico e la sua proprietà (Adelphi, Milano 1979) e per una collocazione filosofica attuale: L. V. Arena, Note ai margini del nulla, ebook, 2013. Riguardo alla “critica” di Marx ed Engels si veda, di entrambi,

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a Robert di volgersi in quella direzione, ma lui se la vieterebbe: l’Unico di Stirner gli parrebbe intriso di seità (selfhood). Troppo facile fraintendere Stirner, e la sua dimensione iperanarchica, riconducendola all’egoismo, all’egocentrismo. Dopotutto, è ciò che fece Marx, parlando di un San Max che andava negato, cancellato, e che insieme a Engels egli vedeva come il suo acerrimo nemico con cui fare i conti, e che doveva esporre al ludibrio, perché fautore di una posizione più rivoluzionaria, ancora più a sinistra… “Dicono che c’è bisogno di nuove icone per far crescere il Movimento” – Robert procede nella sua filippica contro le frange rivoluzionarie che non vorrebbero limitarsi a Marx, che hanno oltrepassato Mao, e sentono l’esigenza di nuovi miti… Che strano, proprio Wyatt, ribelle musicale per antonomasia, è conservatore su altri piani, dove l’omaggio a un marxismo primigenio, originario, sembra imporsi su tutto. Il dadaista Wyatt, che nei Soft Machine prima maniera cantava con il suo accento scat l’alfabeto inglese4 e scuoteva lo scenario del rock dei ’60, osando l’impensabile; i Soft debuttarono come gruppo ribelle, ostile alle convenzioni. “Ci dicono che la vita è più vasta, come se non lo sapessimo” – una polemica, neanche velata, contro le

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L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 2000, opera purtroppo sottratta al meritato oblio della Storia. Una sorta di seguito ideale di quest’attitudine sarà Foreign Accents, nell’album Cuckooland, dove Robert snocciola parole giapponesi e arabe, peraltro comuni (Hiroshima, Nagasaki, Arigato, Muhammad…), con lo stesso spirito artistico, ma con differente propensione. Hiroshima e Nagasaki sono luoghi della bomba, moderne Sodoma e Gomorra: la loro menzione evoca l’inaudita crudeltà dell’uomo, non sono termini insignificanti.

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aperture del Movimento a ideologie spiritualiste, new age, per Robert nefaste, polemica che continuerà e che rappresenta un suo cavallo di battaglia. Il valore più ampio della vita va inteso in chiave marxiana: la realtà non è come la vediamo alla luce dell’ideologia borghese, ma sottende i conflitti di cui sopra. Non c’è dimensione trascendente per Robert, quantunque il binomio realtà/illusione possa mostrarsi agli occhi dello spettatore non prevenuto, in una logica non mistificatoria. E poi l’altra parte della vita, gli accenni al fatto che la classe operaia continua a lottare in tutto il mondo, una obiezione forte a quanto è stato affermato dai reazionari o i rivoluzionari “in buona fede”, qualunque cosa ciò significhi, i quali si lasciano sedurre dalle esortazioni subliminali alla ricerca del Sé. La morte degli operai sul lavoro incita a che il Movimento non perda le sue radici e non si disintegri “come castelli edificati sulla sabbia” (like castles built on sand). Questo è il Robert che tornò sulla scena negli ’80, e la canzone, a complicare la ricezione del messaggio, è la più orecchiabile dell’album, quella che si ricorda al primo ascolto e più si presta a una cover. L’appello a un altruismo materialistico-storico cadrà nel vuoto? Lo si confronti con un’altra song dallo stesso album, dal titolo emblematico, memore dei calembour cui Wyatt ci ha abituato: The United States Of Amnesia, anti-americana per essenza, e scritta affinché nulla delle azioni di questa grande potenza, proprio nulla, cada nell’oblio. Ci sono vari livelli di amnesia, modi di dimenticare, modi di ricordare tutto il bene che si è fatto, 10

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ma se non trovate un testimone rammentate a voi stessi che nessuno è perfettamente buono a tempo pieno.

Il mondo dimentica i crimini di cui gli USA si sono macchiati, ammonisce Wyatt, magari i testimoni oculari sono morti, e poi, cosa sono il bene e il male? Non guardate il mondo con la lente dell’etica: si tratta di una esortazione ironica, con buona pace degli estimatori USA. Certo, avete ucciso tutti quei pellerossa, ma è stato molto tempo fa, incalza Robert, e ora sarebbero morti lo stesso, in qualche modo, in qualche modo (anyway). L’ingenuità delle asserzioni è controbilanciata dalla potenza evocatrice della denuncia, e sembra proprio di vedere in controluce, man mano che le armonie procedono, gli audaci Cherokee cui il buon Dio ha concesso una piccola, graziosa lapide (a nice little headstone). L’ateismo di Robert non fa sconti, e imputa al Creatore lo stesso difetto dell’oblio imputabile agli USA, acronimo da rileggere nel titolo della song. Perché continuare a tormentarsi, a dubitare di certe azioni? Un colpo di spugna, ecco ciò di cui si ha bisogno per spianare la strada al paese degli uomini liberi (the land of the free); parlate ancora di civilizzazione (civilisation), allora, gente degli USA, e “costruite in santa pace il vostro impero ariano” (build your aryan empire in peace). Questo anacronista, politicamente ma non musicalmente, le due anime di Robert, conosce la portata manipolatoria dell’ideologia, e che la libertà non può essere concessa a parole, che in nome del progresso si compiono genocidi, quindi non può apprezzare la corsa disperata a una maggiore civilizzazione, la cultura in secondo piano, negletta. E sa anche che gli imperi han11

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no bisogno della schiavitù per prosperare, in qualsiasi modo la si chiami; e allora permettiamoci di dimenticare, è l’invito ironico di Robert ad apprezzare ciò che non ci garba, riscriviamo i libri di storia, i quali forse, un giorno, osanneranno gli USA, legittimandone ogni gesto, ogni guerra; non è forse questo che fa l’ideologia, in qualsiasi campo e qualsiasi fronte? L’attitudine antiamericana travalica il marxismo, è un bersaglio più ampio per Robert, segno di una violenza che egli sente mondiale, come nell’altra song, al di là di ciò che il materialismo storico poté mai prevedere. Si accede a una geofilosofia, a una geopolitica, dove l’identità delle minoranze è compromessa attraverso l’eliminazione fisica: Robert delinea il panorama di un pianeta che s’avvia alla catastrofe, sia pure presagendo una terapia, il marxismo; chi è avverso al progresso si arrocca su posizioni del passato, come fa Robert, almeno in politica, nella filosofia della storia, mentre il suo alter ego in musica presagisce costrutti e paesaggi immaginari ricchi e imprevedibili. A questa schizofrenia lucida, il termine non ha valenza clinica, è dedicato questo libro, con cui voglio scavare nella mente di Robert Wyatt e sondarne il pensiero, per ciò che se ne può intuire dalla musica, dal non detto che traspare in ogni song. La voce come mezzo espressivo primario di Robert, ancora più della batteria, anche quantitativamente, se si pensa al breve periodo del drumming tra i Soft Machine o i Matching Mole e la successiva carriera solista. Una voce unica, in apparenza triste, anche se Wyatt non si considera affatto una persona triste. La voce di un elfo, che proviene da spazi siderali, medioevali, in ossequio 12

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alle folk songs che ascoltava da bambino, da ragazzo.5 Una voce senza tempo, che può sembrare anziana o antica, con i suoi falsetti straordinari, di recente più versata sul registro medio-basso: “Ho perso quasi la metà delle mie note alte, ma sembra che ne abbia guadagnate altrettante sul registro basso”.6 Un percorso che lo avrebbe portato da un’iniziale adesione al modello stilistico di cantanti come Dionne Warwick a quello di cantanti come Johnny Cash, un percorso improbabile, che comunque è il suo!7 Una voce che gli ha permesso di intonare alla perfezione l’assolo di Charlie Parker in Donna Lee o altri brani bop, di cui va giustamente fiero. Oppure una voce che gli fa discernere la nota sbagliata da quella giusta anche in un veloce assolo in stile bebop.8 Questa potrebbe 5

“Le prime canzoni che abbia mai cantato erano adattamenti vittoriani di canzoni folk, il che non è lo stesso delle canzoni folk in se stesse, ma è ciò con cui sono cresciuto. Avevamo un amico, James Reeves, che collezionava questo genere di canzoni e c’era in esse un elemento politico, relativo alla prima parte del XX secolo, che reclamava la cultura del popolo e questo genere di cose. Non era tanto apertamente politico, però, bensì più incline al fatto di prendere seriamente questa cultura” (J. Mugwump, Robert Wyatt Interviewed: The Quietus Salutes An English Treasure, in «The Quietus», 19.12.2008, http://thequietus.com/ articles/00909-robert-wyatt). 6 S. Trouss, Robert Wyatt, in “The Pitchfork Review”, 29.10.2007, http://pitchfork.com/features/interviews/6718-robert-wyatt. 7 �������������������������������������������������������� “I dischi sui quali cantavo sopra erano perlopiù di cantanti donne: Billie Holiday, Dionne Warwick, Abbey Lincoln” (M. Shanley, Blurting With Robert Wyatt Of Soft Machine, in “Blurt”, 4.12.2013, http://blurtonline.com/features/ blurting-robert-wyatt-soft-machines). 8 A. Reynolds, The Birth Of The Cool, The Stop Smiling Interview With Robert Wyatt, in “Stop Smiling Magazine”, n. 26, 2006.

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essere l’unica traccia di virtuosismo, se così si può dire, nelle incisioni di Robert, a parte l’esuberanza del suo drumming nei primi Soft Machine, tutt’altro che contenuto, anzi protagonista; lo stesso che oggi fa sembrare datati i primi due dischi del gruppo, un drumming che divenne più moderato, meno presenzialista, in Third, se si pensa a Moon In June. Un drumming che eludeva le asperità dei tempi dispari non portando il tempo, smentendo il compito primario di ogni batterista “rispettabile”… Questa voce che, durante i ’60, nelle prime band di Robert, prima dei Soft, inclinava ai contorcimenti di un Van Morrison, preso a modello delle cover nei locali da ballo, voce acerba, che Robert non ama riascoltare nei nastri. Una voce con cui non si identifica, e che è sempre cambiata, dal momento in cui ha scritto lui stesso le canzoni; il lavoro di Robert nelle cover resta ancora oggi appassionante e sentito, come nella sua struggente versione di What A Wonderful World, dove predomina questa voce malinconica, e anche gaia a tratti, dove il miscuglio tra i due sentimenti è talmente forte da non poterli distinguere.9 Come ricorda Nietzsche nella Gaia scienza, dove c’è un grande piacere c’è un grande dolore, e viceversa, non potendo mai darsi la loro assoluta separazione. Una voce che, anche nelle occasionali stonature live, nelle prime esecuzioni dei Soft Machine, è sempre convincente e incisiva. Mi piace sapere come suonano le note, come sono le parole di una canzone e il modo più efficace per accostarvisi. È determinante che io non aspiri a una per9

La canzone si trova nell’album For The Ghosts Within (2010), accreditato a Robert Wyatt, Gilad Atzmon e Ros Stephen.

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formance di tipo attoriale (in an actor kind of way), e ovviamente alcuni musicisti lo trovano un modo facile con cui lavorare.10

Il rifiuto dello stereotipo, del cliché, del suonare facendo sentire che lo si sta facendo è un punto di forza, un tratto ricorrente dello stile di Robert, che suoni la batteria, la tromba o canti. “Provo a fare un passo indietro, a ritrarmi come persona (as a character) e quasi a sparire dietro alla nota e alla parola, anziché pormi in primo piano cercando di ammiccare a tutti”.11 Anche sulla scena rock, perfino qui, ci sono personaggi che non amano le luci della ribalta, e Robert, come il suo grande amico Brian Eno, è tra questi.12 Può sembrare un atteggiamento taoista, laddove, memori dell’assunto di Laozi, chi vuol brillare sarà oscurato, ma Robert si spinge oltre, e forse non sarebbe lusingato da questo accostamento al presunto autore del Daodejing.13 Anche perché Laozi suggella una strategia, con la quale chi si pone all’ultimo posto ambisce a essere il primo, mentre Robert asseconda, come Eno, una esigenza di riservatezza che gli è congeniale. Rimane il fatto che solo così si può evitare di essere risucchiati dall’atteggiamento da rock star sul piano umano ed esistenziale. Anche il rifiuto della tecnica si inquadra su questo piano. Robert dice che ha provato a studiare la teoria 10 J. Mugwamp, op.cit. 11 Ibidem. 12 Si veda: L. V. Arena, Brian Eno, filosofia per non musicisti, Mimesis, Milano 2014. 13 Cfr., per una traduzione e commento filosofico dell’opera, L. V. Arena (a cura di), Il tao della meditazione, Rizzoli, Milano 2007.

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musicale, le scale e gli accordi, ma poi ha desistito, nel circolo vizioso tra il tentativo e la frustrazione, e poi da capo, ad libitum.14 In sintonia con la mentalità di chi non mira a essere apprezzato come virtuoso ma per ben altro, e che non vuole abbagliare il pubblico. Il passaggio dalla batteria alla voce, in seguito all’incidente, può essere una compensazione di altissimo livello, l’opposto di un meccanismo difensivo, e così quello da una voce altissima all’uso non tecnico della tromba, sempre più presente nelle incisioni. Sembra che adesso ci sia, per così dire, quest’altra cosa, questo alter ego, che è la tromba. Non sono un trombettista molto originale. In realtà, non sono affatto un vero trombettista. Tuttavia, suonarla mi permette di raggiungere le note che non riesco più a cantare.15

Bello muoversi in un orizzonte musicale dove non ci si vieta nulla, e anche la sequenza più semplice di accordi può suscitare l’entusiasmo del compositore, per poi trasmetterlo all’ascoltatore. Lo stato di meraviglia del neofita, per il quale ogni sequenza, anche la più trita, svela sonorità inusitate, perché familiare e abusata. Una contraddizione che nella musica si rivela palpitante, e si realizza. Ai musicisti che storcono il naso a certe progressioni armoniche Robert replica come un filosofo, il quale non voglia rinunciare alla semplicità in favore di una tortuosità sterile.

14 15

“E poi, non sa leggere le note, di cui sa solo i nomi! Egli vanta un approccio istintivo, naturale alla musica, lo stesso che gli consente di goderne come ascoltatore” (A. Reynolds, op. cit.). S. Trouss, op. cit.

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Amo gli accordi maggiori. Potrei andare avanti all’infinito, a suonare do/mi/sol su un organo e restare lì. Amo davvero l’alfabeto del linguaggio musicale comune, così come ciò che è stato fatto con esso, ecco perché non l’ho mai abbandonato per diventare un esploratore di nuove forme di musica fini a se stesse.16

Altrove Robert dirà che è facile comporre su schemi complicati, mentre recuperare la bellezza della semplicità, di progressioni comuni e ordinarie rappresenta la vera sfida per il compositore. Il tutto nella coerenza di chi si astiene dal virtuosismo, dall’esibizione tecnica che avrebbe il solo fine di sbalordire l’ascoltatore, di provocarne l’ammirazione e l’invidia per il musicista. Ciò comporta che un musicista non dovrebbe inclinare verso un particolare genere, a esclusione degli altri, cioè specializzarsi. Ciò è particolarmente stridente con la nostra epoca, dove la creatività è affossata in favore di una musica unilaterale, sempre meno votata alla contaminazione, il che può sembrare paradossale ma è in linea con la specializzazione estrema che si pretende in ogni settore. Certo, collocare Robert in un genere ben definito è azzardato, impossibile, e anche questo ne fa un personaggio eccezionale, dotato di una apertura mentale che oggi sta diventando merce pregiata, introvabile; naturalmente, non mi riferisco ai grandi musicisti, gli apripista, quanto a coloro che annaspano sul pentagramma, da acrobati e funamboli… So che Evan Parker, come molti musicisti, è un ascoltatore dalla mente completamente aperta. Evan mi ha 16

B. Kopf, Local Hero, in “Wire”, n. 163, gennaio 2011.

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aiutato a riempire i buchi della mia collezione di dischi di Dionne Warwick, per esempio. Ma altri musicisti sono come i gesuiti o i sufi della loro particolare corrente di pensiero, i quali non trasgrediranno le leggi non scritte che hanno stabilito per se stessi.17

Evan Parker è uno dei massimi musicisti al mondo che hanno deciso di avvalersi dell’improvvisazione, elevandola a canone stilistico predominante: molti dei suoi fans potrebbero essere disgustati dal fatto che sia un ascoltatore della Warwick, perché le loro chiusure li svantaggiano, e nei loro schemi il pop, anche quello superraffinato delle canzoni di Burt Bacharach, di cui la Warwick fu interprete straordinaria, è incompatibile con l’improvvisazione estrema. Il riferimento di Robert alle religioni non è casuale: secondo la sua mentalità, pur non bandendo per principio la spiritualità, è indubbio che il fanatismo del fedele paralizza la dimensione critica, la spiritualità stessa. Lo stesso atteggiamento può essere coltivato dai musicisti che si rifiutino di suonare con chi non si sia formato al Conservatorio, poniamo, o manchi di una tecnica strumentale basilare: essi smarriscono il senso di meraviglia e l’entusiasmo. La stessa apertura si può mostrare in politica, in filosofia… Può sembrare strano notare in Robert Wyatt nessuna preclusione nei confronti di musicisti che non siano sulla sua stessa linea politica, o dissentano dalle sue idee. Che tutto ciò sia possibile depone a favore dell’apertura di Robert, più ancora della sua coerenza. Si consideri il suo parere su John Tavener, compositore 17 Ibidem.

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influenzato dall’Hinduismo e dall’Islam, il cui mentore era il filosofo Frithjof Schuon, fautore della philosophia perennis e dell’unità delle religioni.

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Un compositore inglese che posso senza alcun dubbio ammirare è John Tavener, anche se filosoficamente parlando sarebbe difficile immaginare qualcuno da cui io mi senta più distante, ma rimane il fatto che sembra incline a un modo di fare musica con cui mi trovo del tutto in sintonia.18

Per Robert la musica deve essere in primo piano, e per chi vota il musicista, o la sua religione, è secondario;19 come per Tavener, può esserci uno iato tra le idee musicali e filosofiche, ma ciò non preoccupa Robert. Il problema è fino a che punto il rispecchiamento di certe idee trovi spazio nell’opera musicale, e se sia possibile separare di netto i due ambiti. Si dirà che riguardo alla musica, linguaggio astratto, il problema non si pone, mentre un filosofo rischia sempre di far combaciare le sue convinzioni politiche con la sua visione teorica, come nel caso di Heidegger, il più emblematico. La questione resta in sospeso, ma non per Robert. Quanto dell’ammirazione di Heidegger per il contenuto filosofico della lingua tedesca dipende da o si sposa con la convinzione nazista della superiorità del18 Ibidem. 19 “Sono molto interessato a provare a vedere il mondo da un punto di vista arabo o musulmano, non certo perché sono un arabo e ancora meno perché musulmano: io non ho alcuna religione” (R. Dombal, Robert Wyatt. The 67-Year-Old Art-Rock Godhead On The Music And Stories Of His Life, in “The Pitchfork Review”, 21.2.2012, http://pitchfork.com/features/5-10-15-20/8776-robert-wyatt).

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la Germania? Si può dire che l’Essere sia l’espressione di un concetto totalitario, o che l’antiumanismo della Lettera sull’umanismo scalzi i diritti civili20 dal piedistallo in cui i moderni li collocarono?21 È difficile dare una risposta univoca, con un sì o un no. È già molto che Wyatt, nonostante le sue preclusioni politiche, possa apprezzare Tavener, senza boicottarne la linea filosofica. È la stessa attitudine che lo spinge a dire che Charlie Haden, contrabbassista dall’impegno militante, può essere apprezzato anche da chi non lo condivida, o ne sappia. There again it is always music first, afferma Robert.22 Quale attitudine in musica deve trovarsi in primo piano? Non certo quella della musica classica, che detesta sbavature e imperfezioni. C’è in Wyatt una forte propensione alla spontaneità, che diverge dalla ricerca della perfezione. Altrimenti, non si capirebbe il suo uso della tromba e delle tastiere giocattolo, dal suono insolito, non compatibile con l’industria discografica che privilegia i sintetizzatori analogici dal suono accattivante, sulla scia del revival. L’uso della tecnologia non deve farci perdere di vista l’impulso naturale, per cui la musica acquista la freschezza di qualcosa che non è deturpato dalle mode industriali.

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A riguardo, si veda: M. Heidegger, Abendgespraech in einem Krieggefangenenlager in Russland zwischen einem Juengeren und einem Aelteren, in Gesamtausgabe, band 77, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1995, pp. 203-245. L’opera citata si trova in: M. Heidegger, Segnavia, Adelphi, Milano 1987. B. Kopf, op.cit.

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Anche se ho registrato nello studio di Phil Manzanera (chitarrista dei Roxy Music, NB), gli album sono stati fatti in casa (homemade); non sono confezionati in base alle macchine al punto da essere astrazioni meccaniche (mechanical abstracts). Amo la pittura e mi piace vedere macchie di colore sul dipinto, cosicché si possa percepire la realtà fisica che sta dietro alla tela. Questo può essere un enorme problema nell’ambito della musica classica, con il suo ideale asettico di perfezione.23

Le macchie di colore riconducono al vissuto, al sudore dell’artista o, per traslazione, a quello dei musicisti in sala d’incisione; ora che molti posseggono uno studio casalingo l’impressione di Robert di trovarsi in un ambiente non artefatto è più marcata, legittima. La sbavatura depone a favore dell’uso dello strumento, presenta un ambiente sporco nel senso migliore del termine, l’influsso del passato, l’intervento umano alla creazione dell’opera d’arte. C’è tutto un mondo dietro, in un disco recante tracce di una svista, di una sonorità impropria, ma vitale. Le concezioni di Robert in politica sono ardue da vagliare, e non presuppongono un background costante, tranne l’impronta marxista più o meno salda. Alcune vanno contestualizzate in un’ottica più ampia. Sono sempre stato politicamente motivato, ma nei ’70 ho scoperto una perfida virata a destra nella stampa e in politica. Visto che le cose hanno virato a destra, ho virato ancora di più a sinistra.24 23 J. Mugwump, op. cit. 24 Ibidem.

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Wyatt si è definito un reazionario, non nel senso marxiano del termine, perché notando che un fenomeno inclinava troppo in una certa direzione si è spostato per controbilanciarne gli effetti.25 Ciò fa pensare che anche se il processo storico volgesse a sinistra, ci sarebbe pur sempre una coscienza critica à la Robert Wyatt che lo analizza in altra ottica per smussarne le asperità. Anche l’adesione generica a un’ideologia di sinistra potrebbe essere messa in questione, o perfino scavalcata. Il rapporto dell’artista con l’industria discografica risente di questi atteggiamenti: Wyatt ha sempre cercato di non essere fagocitato in alcuna direzione e meno che mai in quella divistica, ruolo che avrebbe potuto assumere. Non sono per natura un ribelle o un attivista o qualcosa del genere, sono davvero auto indulgente, ma il business mi ha impedito di godere di me stesso, ha completamente invaso e distrutto il mio mondo, e ho dovuto esorcizzarne gli effetti come meglio ho potuto. La gente dice che si predica solo a chi ne sia già convinto, convertito a una causa. Be’, ciò sarebbe già abbastanza, per me. La conferma da parte di spiriti affini mi fa andare avanti.26

Sembra che neanche la rivolta permanente sia un obiettivo, né Wyatt si fa portavoce del proselitismo. Sa che solo la vicinanza di persone sulla stessa lunghezza d’onda è stimolante e creativa: non si lotta contro i mulini a vento, il dialogo è possibile solo con chi sia predisposto, grazie a una sorta di preintesa. Questa convinzione impedisce a Robert di cadere nella trappola del 25 B. Kopf, op.cit. 26 Ibidem.

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dogmatismo, di quanti si credano in possesso della verità e si sforzino di imporla ad altri. Il massimo sarebbe entrare in dialogo con chi la pensa in parte come noi ed è pronto ad arricchire la nostra visione del mondo senza contraddirla troppo. Un altro aspetto a favore dell’apertura mentale di Robert. Il suo anti-americanismo è lampante, e si è evidenziato nell’analisi del brano sugli USA da Old Rottenhat (1985), ma ha radici più profonde, ed è spesso ribadito nelle interviste. Tuttavia, non è coltivato a oltranza, e ammette zone franche o eccezioni nella musica. Ovviamente. Robert ha in mente l’influsso della musica nera, afro-americana, sugli USA, cui egli stesso si è abbeverato.27 E che lo spinge ad affermazioni in apparenza paradossali, ma che sono sempre in linea con le sue convinzioni estetiche. Non fosse stato per l’esperienza culturale dei neri, che va dal gospel al blues e al jazz, l’America non sarebbe più famosa, che so io, della Nuova Zelanda.28

E ancora: “Non accetto che esista qualcosa come il popolo americano”.29 Un’asserzione che ammette varie precisazioni, una fondamentale, secondo cui molti grandi compositori e parolieri americani furono anticapitalisti o perfino schierati a sinistra, e suscitano perciò il plauso di Robert.30 27

“Descrivo me stesso come la quintessenza dell’anti-americano, ma poi sono costretto a precisare, dicendo: ‘Ah, ma Chomsky, Charlie Parker, Thelonious Monk!’” (A. Reynolds, op. cit.). 28 S. Trouss, op.cit. 29 A. Reynolds, op. cit. 30 Tra questi: Joseph Kosma, che ha scritto il testo americano di

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La sua consapevolezza che l’America del Nord operi alla formazione di un nuovo concetto di imperialismo non può essere sottaciuta o ridimensionata. Che altro potrebbe essere la svolta a destra, se non qualcosa che poggia su certi pilastri, e che anche la reazione ai fatti dell’11/9 ha alimentato? Nelle interviste è esplicitato ciò che nelle canzoni è solo suggerito, sia pure con chiarezza a chiunque sappia coglierlo: gli spiriti affini, di nuovo… Un certo tipo di imperialismo finanziario ha cominciato a rimpiazzare quello militare. È guidato dagli Stati Uniti. Comporta un approccio economico spietatamente predatore e rapace. E gli americani sono divenuti il popolo più potente del mondo, ruolo modello per qualsiasi altro.31

Certe posizioni hanno spinto qualcuno a strattonare Robert dalla parte di certi intellettuali e filosofi marxisti come Antonio Gramsci, e parlare di “pessimismo dell’intelletto” e “ottimismo della volontà”, slogan o frasi-chiave che per Robert non hanno senso. Egli non si dichiara né pessimista né ottimista, per tacere del fatto che il marxismo di Gramsci gli appare venato di componenti religiose, come le dottrine di pensiero italiane (sic).32 Al di là del giudizio lapidario, è interessante che Robert prenda le distanze dalle concezioni politiche che

31 32

Autumn Leaves, Yip Harburg, alla cui penna si devono Brother, Can You Spare a Dime? e Over The Rainbow, nonché il paroliere di Strange Fruit, cioè Abel Meeropol, la celebre canzone contro il razzismo musicata e cantata da Billie Holiday, di cui Robert ha inciso una magistrale cover nell’album Nothing Can Stop Us. S. Trouss, op.cit. Ibidem.

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rischiano di trasformarsi in culti, quindi il marxismo stesso, qualora oltrepassasse certi limiti politici. Anche questo è un rifiuto del trascendente, del dogmatismo. E che il marxismo possa rischiare capitomboli teologici è tutt’altro da escludere… Come concepisce Robert Wyatt il rapporto tra l’Io e l’Altro, se stesso e il mondo esterno, oppure, tra lui e i componenti dei suoi gruppi, da quelli stabili ai collaboratori sporadici in sala d’incisione? La questione mette in discussione la singolarità di questo marxista introverso, non incline al collettivo, o a certe degenerazioni del medesimo. Il giudizio di Robert sul periodo dei Soft Machine è sbrigativo, impietoso; più che insincero, sembra dettato da un risentimento ancora attivo. “Trovo difficile immaginare che non sarei stato più felice altrove, con qualcun altro, riguardo all’andamento delle tendenze musicali”.33 Robert dichiara che non è mai stato un musicista d’insieme, e che fu l’incidente che lo ha reso paraplegico a liberarlo dalla schiavitù del gruppo.34 Andrebbero soppesati, per rendere conto di questo parere, da un lato, il vantaggio della carriera solista, per cui un musicista come Robert tende a sentirsi più libero in solitudine o nella prospettiva delle sovraincisioni; si pensi che il suo capolavoro, Moon In June, lo registrò da solo all’organo e agli altri strumenti, e che solo grazie all’ overdubbing si inserirono nella registrazione gli altri componenti dei 33 B. Kopf, op.cit. 34 Ibidem.

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Soft Machine; alcune versioni del brano ne esaltano la dimensione primigenia, con Robert tutto solo. D’altro lato, va considerato il piacere di ogni musicista, anche suo, di potersi confrontare con altri, di regalare prestazioni speciali dietro alle sollecitazioni altrui, altrimenti inconcepibili, per il differente tipo di entusiasmo relativo alla dimensione collettiva. A Robert il merito di aver soppesato i pro e i contro della relazione musicale tra l’Io e l’Altro. Quando suoni per conto tuo, e non in gruppo, né in tour, puoi diventare un po’… astratto, e perdere la presa su, l’aggancio con, quella musica di tipo viscerale, con il fenomeno fisico di fare musica, il momento di lavorare con altre persone.35

Il flirt di Robert Wyatt con la politica è di vecchia data, non c’è stato sempre, ma è una costante, anche quando tale dimensione non è evidente, è difficile liquidarlo sbrigativamente o trattarne in modo esaustivo. In senso lato, si può dire che Robert abbia maturato una consapevolezza sociale grazie all’ascolto della musica nera afro-americana, specie nelle sue matrici jazz. L’espansione di fenomeni come l’apartheid l’ha maturata e perfezionata.36 Anche la presenza della moglie Alfreda Bengie, Alfie, è stata determinante: in lei si era formata una forte coscienza politica molto prima dell’incontro con Robert, il quale riferisce della sua capacità critica, di acuta indagatrice dei fenomeni sociali. La stessa di-

35 Ibidem. 36 S. Mansour, Robert Wyatt, in “Bomb”, n.115, 2011.

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visione tra sociale e politico, pubblico e privato, non è granché avvertita da Robert. “Non se ne può parlare in termini di una alternativa: o l’una o l’altra: la musica e la politica si sono fuse insieme in una stessa corrente lungo l’arco della mia vita”.37 Per politica s’intende un notevole impegno nei confronti dei movimenti di sinistra, che ha spinto Robert a un’adesione incrollabile talora fideistica verso una filosofia ben precisa e le sue implicazioni, quantunque le sue simpatie non siano direttamente traducibili in canzoni di protesta, che pure ha cantato, come Guantanamera, L’internazionale o Red Flag (“Bandiera rossa”), per citare alcuni esempi. In fondo… Morirò con un saldo imprinting marxista-leninista marcato sulla schiena (…) Non è questione di ciò che io faccia o dica; la cosa riguarda come sento il mondo. Non vedo ancora nessun’altra analisi seria del mondo.38

Un creazionista, aggiunge Robert, non può aderire a Darwin, e lui non può abbandonare Marx. Il che non si traduce tanto in una lettura testuale, da Marx ed Engels,39 poniamo, quanto piuttosto nell’applicare i principi che le opere filosofiche espongono, in primis come cantan37 Ibidem. 38 P. Johnson, Robert Wyatt, the Only Way Is Up When You’ve Hit Rock Bottom, in “The Indipendent”, 30.9.1997. 39 Una inclinazione che non si finirà mai di apprezzare! Ricordo, purtroppo, i tempi dell’università, a filosofia, specie da studente, quando la mancata lettura dei Grundrisse o della Critica al programma di Gotha ti faceva apparire decentrato, perfino reazionario.

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te, con testi e canzoni politiche. Un impegno che si fece sentire nei ’70, e che da allora accompagna Wyatt. Oltre a suggerirgli analisi sociologiche a posteriori di eventi giovanili cui ha partecipato, molto critiche e tutt’altro che nostalgiche, come la seguente sulla cultura hippie dei ’60.

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Fu un narcisismo di massa, che permise alla gente di dimenticare i veri problemi. Il personale è politico.40

Può darsi che Robert spoetizzi un periodo della sua vita che lo ha visto protagonista e in tour con i Soft Machine; in ogni caso, la sua propensione alla nostalgia investe soprattutto i ’70, periodo dell’incidente, che però ha visto anche il suo matrimonio con Alfie e l’uscita di Rock Bottom (1974), il vero esordio della sua carriera solista, con la scoperta di uno stile e la virata verso altri strumenti al posto della batteria, relegata in secondo piano. A posteriori, Robert ammette che fu quella la primavera della sua vita, quando il mondo gli apparve un luogo accogliente ed eccitante. In quel periodo, prima dell’incidente, Robert aveva accompagnato Alfie sul set del film Don’t Look Now a Venezia, e forse la liquidità insolita della città gli aveva suggerito le atmosfere acquatiche di Rock Bottom, allora in gestazione. Si procurò una tastiera, forse amatoriale, e iniziò la composizione dell’album con la scarna attrezzatura che poteva permettersi in trasferta. Robert tende a sottolineare che l’atmosfera struggente e malinconica dell’album non è correlata all’incidente, ma era già presente e prese solo forma 40

S. Mansour, op. cit.

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nel periodo veneziano. Ma aggiunge che i ricordi potrebbero tradirlo e che, in qualche misura, è difficile capire quanto dell’album sia stato composto prima o dopo la circostanza tragica.41 Questa gli impedì di continuare a usare lo hi-hat (e ovviamente la cassa), la parte della batteria che preferiva, e il cui uso considerava un tratto caratteristico del suo stile. L’incidente ridefinì i contorni della sua vita e del fare musica, ma il suo influsso rischia di essere sopravvalutato, come emerge dalle sue dichiarazioni. Questa la più emblematica: Ovviamente, dovetti abituarmi alla sedia a rotelle e al resto; d’altro canto, però, non ho mai permesso che la cosa prendesse il sopravvento su di me.42

L’incidente era consistito in una caduta dal quarto piano di un edificio, che Robert fosse in trip o ubriaco, o niente di tutto ciò, e lo rese paraplegico, da cui le limitazioni succitate. Per lui i Soft Machine erano già il passato e i Matching Mole il presente, un presente incerto, sperimentale, alla ricerca di orizzonti ben più ruvidi di quanto i Soft Machine avessero esplorato, grazie all’avanguardia di certi brani di The End Of An Ear. L’elfo vocalist finalmente poteva osare, al di là dei confini che i suoi compagni di un tempo, Mike Ratledge e Hugh Hopper, gli avevano tracciato. Mentre con Third, l’album migliore del gruppo, giungeva al culmine un’era, la sua, accanto a loro, mentre questi avrebbero imboccato con grande slancio la strada del 41 J. Mugwump, op. cit. 42 Ibidem.

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jazz-rock o della fusion, lui non li seguì, malgrado l’amore per Charlie Parker o Thelonious Monk…43 È probabile che con certi brani dei suoi anni da solo Robert si fosse sentito più vicino al jazz di loro, senza nulla togliere alle grandi capacità dei Soft di creare atmosfere mirabili attraverso influssi musicali eterogenei, anche minimalisti e della musica elettronica. Basti pensare alla ripetitività à la Riley44 di brani come The Soft Weed Factor in Six, o al solo elettronico di Mike Ratledge all’organo Lowrey con tanto di distorsore fuzzbox e pedale eco binson, che inaugura Facelift, prima facciata di Third… Che Robert possa sentirsi affine a Monk, che egli chiama my jazz hero, non stupisce: in entrambi c’è la ricerca della naturalezza, della spontaneità, il rifiuto della tecnica fine a se stessa e l’esaltazione della semplicità, che li spinse a comporre linee melodiche sghembe ma riconoscibili, a privilegiare la dissonanza, senza concepirla come tale.45 Nella mia mente il ricordo del primo incontro con Robert Wyatt, da ragazzo in cerca di dischi, allora non così facile come oggi. A Firenze e Bologna in negozi specializzati, Third si trova senza problemi. Nell’interno cover i protagonisti, un Wyatt dall’aria assente, tormentata, gli altri più presenti, sembrava… Poi un ritorno d’interesse dopo anni, inframmezzato dai dischi dei Matching Mole, pronuncia francese di Soft Machine, a 43 44 45

Robert incise anche Fourth e una parte di Fifth con i Soft Machine, restando in secondo piano. Un preannuncio in questa direzione c’era stato in Third con l’apertura (ripresa in chiusura) del brano Out-Bloody-Rageous. S. Mansour, op. cit.

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indicare un legame con il passato che Robert non aveva esorcizzato, né assimilato, la ripresa con Rock Bottom, copertina dalla grafica impeccabile, quella di Alfie Benge, più evocativa, in seguito, alla ristampa. E poi, quando credevo che Robert Wyatt, come i Soft Machine fosse per me sepolto nel passato, e la sua carriera solista non rimarchevole, fino allora, o mi ero allontanato io dalla musica, non so… ecco Old Rottenhat, araldo di una nuova era, suoni di tastiere imberbi, acerbe, forse giocattolo ma sapientemente mixate, echi e riverberi che le trasfigurano, Robert che fa tutto da solo, alle tastiere, alla voce, al drumming o intervento percussivo che ancora può concedersi… Sono segnali più che positivi, i quali si concretizzeranno anni dopo, con Shleep, cui partecipano artisti del calibro di Brian Eno, Paul Weller, e così via, e che segna la fine della depressione dell’artista, una patologia dichiarata, lucida, per uno che sente i ’70 come il periodo migliore, lontano. Da Shleep in poi è la mia ricerca frenetica degli altri dischi solo, Dondestan, in primis, e Nothing Can Stop Us, questo non molto entusiasmante, con un Robert iperpolitico musicalmente in secondo piano. Talvolta riascolto con piacere i primi due dischi dei Soft Machine, oggi accorpati, Robert nella parte del leone, vocalist e drummer d’eccezione. E avverto, godendone, quanto fosse rimarchevole la sua presenza nel gruppo… Superfluo dire che la sua song più entusiasmante è per me Moon In June,46 compiuta summa di ciò che i Soft 46

L’incipit della canzone: “Nel dilemma tra ciò di cui ho bisogno e ciò che voglio soltanto / tra le tue cosce provo una sensazione / quanto posso resistere alla tentazione? / Ho il mio uccello, e tu il tuo uomo / così, che altro ci serve, davvero?”.

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Machine fecero fino a Third, il culmine dell’era Wyatt… La decretai canzone del secolo nel referendum tra i redattori di una delle tante fanzine musicali cui ho collaborato; con scarsa coerenza, ci si richiese l’anno dopo di indicare ancora la canzone del secolo e la mia scelta cadde su Like A Rolling Stone! Come una meteora, ma ben avvertibile, era passata O Caroline con i Matching Mole, dove l’impressione più che positiva di déjà ouï è evidente, dimostrativa, se ce ne fosse bisogno, dell’abilità di Robert al songwriting, dove anche la sequenza di accordi più prevedibile, e neanche tanto!, dà l’avvio a un ascolto godibilissimo; Max Gazzè ne farà una cover nel disco italiano di tributo a Robert.47 Da Shleep in poi è per me un appuntamento costante con i nuovi dischi di Robert, fino a oggi, con esperienze che mostrano la sua versatilità e uno stile che negli anni continua a stupire pur ripetendosi… Nel mio libro sulla musica dello spirito, Orient Pop,48 accomuno Robert a Fabrizio de André e Tom Waits sotto la sigla “lontani dal Paradiso”, coloro che si seppero outsider fino in fondo, senza mai perdere l’ispirazione malinconica, struggente, talora ricca di humour in un miscuglio originale, pur avendo assaporato tutti e tre il successo, la fama; Robert sempre riluttante ad assumere i panni del divo che non fu mai…

47 48

The Different You – Robert Wyatt e noi (CPI, 1998), inciso da vari artisti, tra cui gli Area e Mauro Pagani. Il brano Del mondo è cantato da Robert Wyatt in italiano. L. V. Arena, Orient Pop, la musica dello spirito, Castelvecchi, Roma 2008.

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E prima o poi si dovrà affrontare la questione dei Soft Machine e Robert…La debolezza umana, che attecchisce nei grandi, non risparmia Robert Wyatt, ed è un bene, un dono concesso ai mortali perché in tal modo se ne noti il carisma, la qualità. Ogni volta che Robert affronta il tema nelle interviste si nota una caduta di tono, un risentimento che sfida il tempo e osa presentare gli eventi come accaduti ieri e ancora freschi nella mente. È arduo discuterne, perché è come parlare del matrimonio dopo un brutto divorzio. Se c’è stato un brutto divorzio, ciò rovina l’intera questione nella memoria. In effetti, adesso non ho affatto ricordi felici di quella band, per l’umiliazione di essere stato espulso. Da allora non ho più riacquistato fiducia in me.49

Robert, il quale ha dato prova di un equilibrio mentale e una serenità non comuni, si altera quando parla del vecchio gruppo, che gli ha dato il successo negli anni giovanili. Da ciò la sua mancata nostalgia per i ’60, mentre il decennio successivo, che lo ha visto solista, lo inquadra in toni molto differenti. Certo, egli non può misconoscere il talento dei suoi compagni, Mike Ratledge e Hugh Hopper, né di Elton Dean, con cui si creò Third, il capolavoro, e ammette che la loro grandezza consisteva nel non cercare di emulare nessuno, di voler creare uno stile personale,50 il che, detto tra le righe, 49 50

Si veda: R. Unterberger, Robert Wyatt, in Unknown Legend Of Rock‘n Roll, Miller Freeman, San Francisco 1998. Disponibile on line su Perfect Sound Forever (www.furious.com/perfect/wyatt.html). M. Paytress, The Mojo Interview. Robert Wyatt, in “Mojo”, n. 144, 2005.

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gli sembra vero fino a Third, considerando la successiva svolta al jazz-rock come una perdita di quella identità fugace, elusiva, che il gruppo, e lui per primo, aveva solo iniziato a coltivare.51 La questione ha un seguito, in quanto Robert chiamò la prima e unica band di cui fu leader indiscusso Matching Mole, dove è evidente il nesso con l’espressione “Soft Machine”, attraverso la pronuncia francese del nome del nuovo gruppo; molti giornalisti gli fanno notare che è come se si attaccasse al vecchio gruppo o qualcosa che non è stato, direi, integrato nell’inconscio. Ciò che si odia è nel contempo ammirato, conservato e perpetrato. Robert si difende dall’accusa nel modo più spontaneo, dicendo che aveva ancora in mente la sua band di un tempo, per cui voleva chiamare la nuova Soft Machine: aveva finalmente trovato un suo spazio e la riteneva l’espressione più autentica di ciò che egli fu nei primi anni ’70. C’è da aggiungere che Robert riconosce il suo rancore, non celato, riguardo a chi lo allontanò dal gruppo per divergenze musicali inconciliabili.52 Moon In June non fu la causa di ciò, solo la miccia che diede fuoco all’esplosione, che avvenne nell’arco di quasi due LP. Nell’unica monografia a tutt’oggi dedicata ai Soft Machine se ne dibatte ampiamente, dando voce a Hugh Hopper, che parte da una constatazione:

51 In Third c’erano più che i prodromi della svolta, ma poi il jazz-rock divenne la bandiera del gruppo, la direzione più marcata. 52 L’altra grande espulsione, nel rock, parimenti significativa fu quella di Brian Jones dagli Stones, cui seguì la strana morte del chitarrista. Difficile dire chi fosse più rilevante tra i due reietti, dal punto di vista dei gruppi di appartenenza.

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“Non eravamo musicisti amiconi o compagnoni (matey musicians)”.53 Robert ne chiarisce i risvolti:

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Qualcuno di noi scriveva un brano che si pensava bello, poi lo arrangiava e assegnava l’assolo alla persona sbagliata.54

Il risultato, di questo e atteggiamenti simili, era che il prodotto finito si presentava come una sorta di patchwork, piuttosto che un insieme amalgamato. Moon In June, a detta di Robert, rientrava in questo genere di composizioni, o lo rappresentava. Era frutto di un cutup di song già composte e registrate, cui Robert aveva dato un senso differente, assemblandole.55 Fu un punto di svolta nell’assetto della band. Moon In June fu per me l’ultima occasione che avevo di usare tutto ciò che avevamo fatto senza essere una jazz band, diversamente da ciò che si stava sviluppando. Pensavo che prima di questo avessimo fatto qualcosa di speciale, che non aveva nulla a che fare con una jazz band, e volevo una ventina di minuti affinché questa inclinazione lasciasse un segno da qualche parte (…) Ero davvero entrato in ciò che Mike e Hugh avevano fatto e provai ad assemblarlo, invece loro odiarono Moon In June e si rifiutarono di suonarla, dovetti farlo da solo – a eccezione di un loro intervento in cui c’era un breve assolo d’organo

G. Bennett, Soft Machine: Out-Bloody-Rageous, Saf Publishing, London 2005, p. 206. 54 Ibidem. 55 L’operazione ebbe un precedente in alcune song di Hopper, che Wyatt ricucì e assemblò nel secondo LP dei Soft Machine. 53

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accompagnato dal basso – mi sentii davvero isolato e respinto (lonely and rejected).56

Ciò preludeva a un sentimento che Robert avrebbe riprovato, amplificato, ai tempi della sua cacciata. Moon In June era tutto ciò da cui Ratledge e Hopper si allontanavano, il periodo più rock o dadaista, sperimentale in senso pop;57 di fatto, oltre a mescolare brani del passato, che furono pubblicati dopo lo scioglimento del gruppo, lo spirito della song rievocava le loro origini, costituendo nel contempo una evoluzione, in quella direzione personalissima che Robert avrebbe perseguito nella carriera solista. Quanto al cantato, Wyatt è pronto a ridimensionare perfino i suoi eccezionali interventi con la band – certo non a negarlo: come potrebbe? Affermazioni da non prendere alla lettera, ma alla luce del ressentiment, che si giustificano in vista di una maggiore rilevanza dei testi nella sua carriera solista, d’una più alta considerazione della voce.58 56 G. Bennett, op. cit. 57 E non come, poniamo, il brano 1984 di Hugh Hopper, inserito nell’album Six, pienamente compatibile con la nuova direzione del gruppo. 58 Il testo di Moon In June fu modificato in modo estemporaneo da Robert, durante un’esibizione dei Soft Machine alla BBC: “Posso ancora ricordare / l’ultima volta che suonammo a Top Gear / e benché ogni canzoncina / non durasse più di tre minuti / Mike (Ratledge, NB) condensò l’assolo, comunque / E anche se amiamo i nostri brani più lunghi / ci parve cortese accorciarli/farli a pezzettini – potevano essere degli hit (…) Suonare ora è piacevole / qui alla BBC / siamo liberi di suonare quasi tanto a lungo e forte quanto vorremmo / come un gruppo jazz o un’orchestra di Radio Tre”.

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(Nel periodo dei Soft Machine) ero interessato al suono, la voce era soltanto un’altra fonte sonora.59

La portata filosofico-esistenziale dell’incidente, della caduta, non può essere sottaciuta; che Robert la consideri benefica, musicalmente parlando, è un aspetto del problema. Certo, ci fu una metamorfosi radicale:

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Prima ero un batterista che cantava un po’, poi divenni un cantante che suonava un po’ le percussioni.60

Gli si schiuse davanti un altro mondo: Robert disse che Rock Bottom era stato in gran parte composto prima dell’incidente, quindi non era una reazione o una risposta a esso; tuttavia, il passaggio da una prospettiva musicale all’altra non può che essere rapportato alla caduta, anche soltanto per la diversa opzione riguardo agli strumenti musicali o mezzi d’espressione. Robert ammette che dovette reimparare a vivere o a coltivare un diverso stile di vita, e che provò la strana sensazione “di essere nello stesso posto di sempre, ma di non essere più in grado di parteciparvi allo stesso modo di prima”.61 Difficile fraintendere o sottostimare certe dichiarazioni. Anche sul piano politico, mentre la sua coscienza di classe prendeva corpo nei primi anni ’70, l’incidente poté avere un impatto, magari indiretto, non in una relazione meccanica di causa/effetto. La condizione del disabile può averlo reso più consapevole dei diritti 59 M. Shanley, op. cit. 60 R. Unterberger, op. cit. 61 M. Paytress, op. cit.

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delle minoranze, degli emarginati, e averlo avvicinato a posizioni di sinistra, più attente alle problematiche di chi si renda conto di non poter esercitare un completo controllo della situazione, del suo ambiente: lo confessa lui stesso nella succitata intervista alla rivista Mojo. Il percorso formativo di Robert è proteso in tante direzioni, in una estetica che lo spinse a rivendicare un rovesciamento comportamentale, rispetto a tanti musicisti del suo tempo. Molti di loro nei ’60 presero l’avvio da rifacimenti più o meni creativi, poniamo, dei Beatles o di Bob Dylan, per poi sentirsi coinvolti in una concezione più complessa della musica, attraverso il virtuosismo o l’approccio ai numi dell’elettronica o della musica classica contemporanea, come Stockhausen, per esempio. La strada inversa di Robert è partita dal difficile per poi giungere al semplice, o alla complessità del semplice. Webern e l’avanguardia, anche in pittura, furono sue fonti ispiratrici già nei ’50 e ben prima dell’avvento del beat, i cui poeti egli aveva già scoperto.62 Il suo iter lo ha portato a rivalutare la bellezza di certe song di Ray Charles, uno dei suoi modelli favoriti, la grandiosa semplicità, l’efficacia, di certi brani pop, che i puristi tendono a disprezzare, nel jazz come altrove. Robert dice di aver ammirato personaggi come Picasso o Mirò, i quali furono creativi anche in età avanzata, mentre prende le distanze da quella musica rock che si 62

A coloro che s’ispiravano ai Rolling Stones, nel periodo dell’iniziale grande successo del beat, Robert replicava sdegnato: “Fuck your Brian Jones: I’ve got my Mingus records” (G. Bennett, op. cit., p. 49).

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basa sull’adorazione della giovinezza, della frivolezza: lui si volge a una musica senza tempo, non destinata a un periodo speciale della vita. Si può notare che la sua voce, pur cambiata, non ha perso negli anni la sua matrice atemporale, o antica, non è una contraddizione, che possedeva negli anni giovanili, a ribadire la simpatia di Robert per l’eternità, per ciò che resta a prescindere dalle mode, le evoluzioni o involuzioni del gusto. È questo che lo spinge a ripetersi, incurante del fatto che nuove tendenze si affaccino sulla scena pop, o riscuotano un notevole successo commerciale. Egli afferma di non avvertire il senso della spaccatura tra successo e fallimento, su cui si basa l’industria discografica, di essere sordo a certi richiami o illusioni. “Essere considerati grandi e famosi non vi dà più libertà, anzi ve ne dà meno, sapete cosa intendo? Anche nella musica è così”.63 Certo, anche nella musica, e non è strano che questo artista schivo, tutt’altro che un divo, si esprima come un samurai, ignorando la distinzione tra grandezza e declino, fama e anonimato, realizzazione e scacco, e non in nome di un’etica in abstracto, bensì perché intuisce gli svantaggi di uno dei due poli, quello che in genere è ritenuto positivo e desiderabile, propendendo per l’altro, secondo cui il musicista si mantiene nell’ombra, misconosciuto o seguito da pochi aficionados. Robert prende a modello figure solitarie, i poeti o i pittori, non le rock star; quelli vissero, in genere, della loro ispirazione, dell’interiorità, senza lasciarsi travolgere dall’ultima moda di turno. All’avvento del beat, Robert si diceva interessato a Eric Dolphy o al movimento 63 R. Unterberger, op. cit.

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dada, non alla frenesia e al tumulto delle miriadi di gruppi nati come funghi. Ciò ricorda il percorso di un altro grande, Van Morrison, cui Robert si ispirò agli inizi. Su questa pista ci si volge alla reiterazione dei propri tratti caratteristici, del proprio stile, e questo non è un rischio, né un difetto. “Io provo a fare sempre la stessa cosa”, dice Robert, “e tento solo di farla bene”.64 In questa logica, si segue il proprio istinto estetico, l’ispirazione o l’interiorità, e tanto basta. Anche la cover, con questo spirito, è ben accetta, e Robert si volse in questa direzione mentre si staccava dai Matching Mole e s’incamminava sul sentiero solista. Una di queste, la cover di I’m A Believer dei Monkees, scritta da Neil Diamond,65 fu il suo unico hit nelle classifiche. Nella esibizione a Top Of The Pops, dalla sua sedia a rotelle Robert svela il potenziale mistico della canzone, come uno sciamano, con una semplice sostituzione dell’accordo che precede il chorus, il quale esorta gli spettatori a un atto di fede: il brano si evolve attraverso la magnificazione della parola believer, il che, a opera di un non credente, assume un tono speciale, stridente forse, ma sublime. Certo, la cover deve avere un suo spirito, un senso proprio, come in questo caso; l’altro esempio probante è la versione di Joe Cocker di With A Little Help Of My Friends dei Beatles. Robert ha buone ragioni nell’argomentare la propria posizione.

64 Ibidem. 65 “Non lo dico con malevolenza, ma ho una vera avversione per Neil Diamond e mi dispiace di aver cantato una sua canzone” (ibidem).

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La gente rimane sconcertata, quando le si ricorda che Elvis Presley e Frank Sinatra non hanno mai scritto una canzone che poi abbiano inciso nella loro vita, per quanto ne so. (…) Non penso sia necessario che un pittore inventi le cose che dipinge, se capite ciò che voglio dire. Se dipingete un albero, esso è il vostro dipinto dell’albero, la vostra scelta dei colori, ciò che vi mettete dentro o ne lasciate fuori.66

Il grande artista è tale in base al suo livello di apertura mentale, non alla sua abilità tecnica, in qualsiasi sfera. Robert non fa eccezione, e la sua disponibilità riguardo ai vari generi musicali di cui si è occupato lo dimostra. Anche qui è determinante la vocazione intima, la direzione che si sceglie di seguire con naturalezza. Robert coltiva molti generi, non uno in particolare, ed è perciò difficile etichettarlo, incasellarlo. Suona in uno stile inimitabile, che è il suo, al di là di ciò che sembra un truismo, un’ovvietà. Chi non si vincola a un genere può ascoltarne molteplici e mantenere la sua mente ricettiva, capace di elaborare le informazioni e rivestirle di un nuovo contenuto. Sarebbe meglio agire all’opposto, fossilizzandosi in uno stile o genere e vietandosi ogni evoluzione? La posizione di Robert Wyatt è netta. In fin dei conti, si tratta sempre di note e intervalli, accordi e ritmi. Non c’è un campo della musica in cui non ci siano buone idee. Perciò, chiunque abbia avuto una buona idea musicale e io sappia elaborarla mi va bene.67

66 Ibidem. 67 Ibidem.

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Robert riconduce questa sua apertura musicale alla sua infanzia, al fatto che il padre, psicologo industriale e pianista, gli suonasse brani di Mozart e Debussy, adattamenti di musica folk, canzoni dei giganti del jazz, come Duke Ellington o Fats Waller. Un gusto eterogeneo e multiforme che gli permise, sul piano dell’arte, di interessarsi fin da ragazzo e in virtù di un influsso familiare a pittori molto diversi, come Cézanne e Picasso, Chagall e Paul Klee (la madre68 era giornalista della BBC).69 Robert ricorda che la sua Alfie si rivelò determinante a riguardo, in quanto ascoltava flamenco, musica bulgara e altre musiche folk.70 Il che è indubbiamente vero, ma anche che lei trovò in Robert un terreno fertile per condividere i suoi gusti. I puristi o i dogmatici ne saranno turbati, ma questa polivalenza d’interessi permette a Robert affermazioni come la seguente, altrimenti azzardate o semplicistiche, che invece rivelano la sua grande sensibilità. Non vedo barriere tra i generi in quanto tali. Se confrontate John Lennon e Mendelssohn, è molto semplice notare che Lennon è un compositore migliore, infatti lo amo di più. Non importa che uno sia classico e l’altro pop.71

Ciò può sbalordire, ma neanche tanto, visto che oggi alla Scala si eseguono musiche dei Deep Purple o dei Led Zeppelin, dei Queen o dei Pink Floyd… Ciò che de68 69 70 71

Robert è nato nel 1945, il cognome del padre era Ellidge, ma per la sua carriera artistica assunse quello della madre (Wyatt). S. Mansour, op. cit. M. Paytress, op. cit. J. Mugwump, op. cit.

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termina l’apprezzamento di una composizione è il gusto e quello, oltre che soggettivo, è dettato da esigenze interiori, personali. Gli ottusi storceranno il naso, ma, come si afferma nella filosofia cinese, se non si trattasse del Tao lo sciocco non lo deriderebbe. Al di là della distinzione tra i generi e la possibilità di classificarla, illuminante è il parere dell’amico Brian Eno sulla musica di Robert Wyatt: essa si presenta in maniera semplice per poi rivelare, ai successivi ascolti, la sua complessità strutturale.72 Forse perché ne traspare, ma non subito, l’adesione sincera a tanti generi e stili in una mistura originale che invalida le distinzioni: facile/difficile, orecchiabile/ostico, d’avanguardia/rétro e così via. “Dato il libero arbitrio, ma entro certi limiti…” è l’incipit di Free Will And Testament, contenuto in Shleep, l’album della rinascita di Robert dopo un periodo critico nel 1997. Il testo è visionario e allude a una presa di coscienza di sé o meglio a far capire che il libero arbitrio ha un margine di applicazione molto circoscritto e il senso di identità ci appesantisce l’esistenza. “Non posso volere il mio concedermi a mutazioni infinite (…) Se non fossi io, potrei soltanto suppormi”. L’Io è in balia delle sensazioni del momento, quindi la possibilità di un testamento o del volere è evanescente e arbitraria, soggetta alle mutazioni dell’istante. “Perciò, quando dico di conoscermi / come posso farlo, quale tipo di ragni / capisce l’aracnofobia?”. È il paradosso dell’autocoscienza: la si può ammettere, in un universo dove tutti 72

Si veda il film Robert Wyatt Story: Free Will And Testament, BBC, 2001.

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noi siamo fantasmi esangui delle nostre allucinazioni? Capire se stessi presupporrebbe una postazione privilegiata, esterna, dalla quale contemplarsi, e Robert ne indica la vaghezza, l’impossibilità. Uno strale contro tutte le filosofie dell’autorealizzazione, da Socrate in poi, per le quali il Sé potrebbe e dovrebbe divenire oggetto di conoscenza. “Ho i miei sensi e il mio senso / di avere sensi / sono io a guidarli o è l’inverso?”. Cartesio attinge alla sensazione e la scopre carente quanto al senso di identità, alla certezza assoluta che dovrebbe guidarci nei processi cognitivi a scoprire noi stessi. Robert nega all’esperienza sensoriale la stessa prerogativa: noi pensiamo di avere il controllo dei sensi, ma forse sono loro a determinare la nostra essenza, semmai la possediamo. “Cosa può significare / una gravità cui manchi un centro?”. Talvolta, come ne avrebbero pensato Hume o i buddhisti, sembra trapelare per un attimo l’illusione di un focus della personalità, qualcosa cui attaccarsi, come l’ego cogito cartesiano, ma poi si intuisce che questo tipo di gravità, di ancora, di gruccia, svanisce, oppure non si sviluppa intorno a un asse, una struttura: dietro a questa scoperta, il fragile io dell’essere umano rischia di sgretolarsi. “C’è qui la speranza di non essere (to un-be)? / c’è qui la speranza di voler essere (will to be)?”. Discostandosi dall’essere, una vuota astrazione, si coglie forse il suo contrario? Memore dell’alternativa che agli inizi del pensiero occidentale, come lo conosciamo, fu parmenidea, Robert Wyatt si trova davanti al contrario dell’essere, supposto che non essere ed essere siano polarità, ma nasce il dubbio che esso sia possibile, e si resta in sospeso. Forse l’Io fragile vuole soltanto essere, senza 44

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riuscirvi: è un altro dubbio che coltiva questo musicista insolito, che condensa in una song i presupposti della sua visione del mondo, come un filosofo che si chieda a cosa possiamo ancorarci. Ci si addentri nei corollari della questione, nel più spinoso: da dove arriva l’impulso all’azione, in questo cosmo disordinato, privo di punti d’appoggio? “Il nudo momento (sheer momentum) ci fa agire / in questo o quel modo, inventiamo soltanto / o assumiamo soltanto una motivazione (motivation)”. Certo, siamo bravi a individuare la causa dei nostri atti, ma non è detto che sia quella giusta o quella indicata. La nostra mente sembra funzionare in base a un rigoroso meccanismo di causa/ effetto; ancora Hume, il quale sostiene che il post hoc non sia il propter hoc: vediamo che un evento si sussegue a un altro, ma come dimostrare, attraverso le limitazioni dei sensi, che uno ne sia la causa e quello l’effetto? La disillusione, il disorientamento ne sono la conseguenza: “Mi disperderei, sarei disconnesso / è possibile? / Cosa sono mai i soldati senza il nemico?”. Come se un principio estraneo, forse la coscienza-deposito, un magazzino di dati cosmici, o l’Idea di Hegel dettassero le ragioni e le modalità del nostro comportamento? Eppure ci si potrebbe separare da loro: la disconnessione è la realtà, anche se l’essere umano torna ben presto ad alimentare le sue certezze, in cerca di sostegni e indicazioni direttive. Ci si espone a un conflitto interiore; tuttavia, se il nemico siamo noi stessi, è possibile lottare? “Sii nell’aria, ma non aria / sii nella non aria, sii libero, sciolto (loose) / non compatto né in sospensione / né nato né lasciato a morire”. L’essere umano va alla deriva, eppure non si fonde con l’atmosfera, l’unica realtà in 45

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cui è avvolto: non c’è quiete, processo di integrazione in questo stato cangiante, il che fa dubitare di una libertà del volere, di ogni egocentrismo. Alcuni versi fanno pensare al principio buddhista “né nato / né morto” con cui si caratterizza l’essere. Robert non è buddhista, ma sembra anche lui dubitare che la nascita e la morte siano concetti utili a decodificare una realtà fuggevole, elusiva. Un dubbio cruciale riporta il nostro fragile elemento che chiamiamo io alla sua origine, la insegue, annaspa “Ero mai stato libero? / Avrei potuto scegliere di non essere io / forze demenziali mi spingono selvaggiamente in un mulinello (round a treadmill)”. Con grande pathos, Robert intona i versi relativi alla questione centrale, cui rinvia il problema teologico del volere, l’esistenza stessa in toto: se fossimo liberi di autodeterminarci, cosa che Marx nega, e Robert lo sa, si verificherebbe la possibilità estrema: essere altro da sé, diversi, mentre sembriamo imprigionati in questo nocciolo che chiamiamo “noi stessi”. Robert preferisce non risolvere la questione, eppure questo sembra essere il suo punto di vista: egli non considera, a differenza di Kant, il libero arbitrio come un postulato morale, e vira verso Marx, pur non chiamandolo in causa. L’ascoltatore che conosce la sua Weltanschauung non ha dubbi, e comprende la posizione di Robert, ancorché nel non detto. La canzone si conclude con un accorato appello a quella parte di noi o dell’altro che insiste a lanciarci in una esistenza tormentata: “Lasciami andare, ti prego, sono tanto stanco / Lasciami andare, ti prego, sono davvero stanchissimo”.

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In questi giorni giungono notizie di avvistamenti ufo anche nel nostro Paese, ma talvolta l’alieno è una presenza diversa, interiore, o come ci si sente di fronte agli altri, nel rapporto con loro. È il caso di Robert, il quale si dipinge come un alieno nella canzone eponima (Alien) da Shleep, sottolineata da un moto ostinato al pianoforte, che è opera sua. “Dormo sull’ala / sopra nubi piovane / sospinto dal vento / (niente radici sulla terra)”. Alieno può essere, più che l’abitante di altri pianeti o galassie, colui che avverta di non far presa sul terreno (no ground below), che manchi di fondamento, e vada alla deriva (drifting) o rovini (just ruins) in una dimensione atemporale (timeless). Lo stesso Robert con la sua musica, non incasellabile e al di fuori del tempo. “Vengo forse da Venere?”, si chiede, probabilmente per la sua empatia con tante donne creative, come Alfreda Bengie, e musiciste, come la trombonista Annie Whitehead che lo accompagna da anni. È che questo tipo di alieno, lontano dai gusti musicali, dalle tendenze della sua era, si sente perfino non umano, smarrito nel suo desiderio senza oggetto, e non appartiene mai a qualcosa – neppure al marxismo? Non si osi tanto, a proposito di Robert… Egli confessa di essere sradicato, senza patria, homeless e senza arti (limbless), il che non è soltanto una metafora. La canzone si dipana su uno sfondo etereo, mentre il coro scandisce parole evanescenti, che si perdono nel nulla: “più in alto, più in alto” è l’incitazione. Versi che si ripetono, a dire di un ritmo senza tempo, dell’alieno Robert, estraneo al mondo discografico, ai gusti dell’uomo comune, alle tendenze del momento… Anche questa canzone scalfisce, descrive l’esperienza esistenziale di

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Robert, la quale sembra privata più che politica, o al di là della distinzione. Tutto ciò che faccio è completamente personale. Non ho davvero molto controllo su ciò che scrivo mentre lo scrivo.73 La vita dell’extraterrestre è fluttuante, sospesa tra le nubi, slegata da punti fermi o certezze, penzolante nel vuoto. La canzone si conclude con un lungo accordo tenuto alle tastiere, mostrando una dimensione statica all’interno di un moto ripetitivo, in divenire, la quiete nel tumulto o nel vagare. Alieno può essere anche l’inattuale, il quale è arroccato su posizioni marxiane, smentite dalla Storia, anacronistiche…74

Sea Song, da Rock Bottom, è forse la canzone più caratteristica del repertorio solista di Robert, quella che, al pari di quelle analizzate, si presterebbe a una cover. Essa dà il la all’atmosfera liquida dell’intero album, a una Venezia idealizzata che fu teatro della prima stesura dell’album o di gran parte di esso. “Sembri diversa ogni volta che irrompi / dall’acqua salmastra incrostata di schiuma / la tua pelle soffice splende al chiaro di luna / in parte pesce, in parte focena, in parte piccolo bianco di balena”. Un dialogo tra due creature ibride, anfibie, o molto di più; qui gli alieni si presentano in questa forma, Robert si immerge in un immaginario Mar dei Sargassi, dove alcuni situano, con qualche ragione, la patria dei nostri progenitori acquatici, Atlantide forse, sul fondo dell’o73 R. Unterberger, op. cit. 74 “Politicamente, sono uno degli ultimi superstiti di una guerra perduta” (A. Reynolds, op. cit.).

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ceano… Difficile attribuire un sesso a queste creature, nell’originale il richiamo è vago, indistinto. “Sei tremenda quando bevi / ti amo perlopiù a tarda notte, stai proprio bene / ma non riesco a capire l’altra te stessa al mattino (the different you in the morning)”. La visione di una sirena ebbra stride con la totalità dell’acqua, si trascina in distese sterminate, dove il dialogo è difficile, e alterato dagli umori del momento, una concezione antropomorfica spostata sugli animali – come altro dirne? – dell’abisso. Anche qui, come più tardi in Shleep, Robert è attento ai cambiamenti degli stati d’animo, a quel different you che ravvisa nell’Altro, il quale gli appare prodigioso e sconcertante.75 Questi esseri per gioco si atteggiano a umani, e vi riuscirebbero, suggerisce Robert, se solo sorridessero un po’ di più, loro mutano in primavera: “Sei una bestia stagionale come la stella di mare che fluttua con la marea / è così finché il tuo sangue va a sposarsi con la prossima luna piena”. Nel gioco di metafore, è difficile precisare se si stia parlando di pesci o uomini, forse di entrambi… Si può accennare al femminile in questo sangue che si mescola ai ritmi lunari, ma forse le mestruazioni pertengono anche a queste creature subacquee, chissà.

75

La biografia autorizzata di Robert, a opera di Marcus O’Dair, si intitola, e mai scelta fu più pertinente, Different Every Time (Serpent’s Tail, 2014). Per altre opere su Robert Wyatt suggerisco: M. King, Robert Wyatt: Wrong Movements, Saf Publishing, Wembley 1994 (tr it. A. Achilli, Falsi movimenti: una storia di Robert Wyatt, Arcana, Milano 1994 – con alcune varianti); J.-F. Dréan / P. Thieyre, Robert Wyatt, Editions des Accords 2009; Robert Wyatt: dalla viva voce, Auditorium, Milano 2009.

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La canzone devia sul finale in tonalità maggiori, più ampie, schiude uno squarcio di ottimismo, rispetto all’apparente nostalgia precedente, il rimpianto per un mondo liquido perduto: “La tua pazzia si combina bene con la mia / la tua instabilità (lunacy) si combina perfettamente con la mia, davvero con la mia / non siamo soli”. Il verso conclusivo consacra le possibilità di un nuovo orizzonte oceanico, da viversi sul fondale, è lì che l’accordo introduce ad altri timbri e umori. We’re not alone è il canto di una nuova consapevolezza, che fece rimpiangere a Robert i ’70, i quali gli diedero una nuova speranza, malgrado la caduta, nel rapporto con Alfie76 appena inaugurato, e con se stesso, la sua parte solista, la quale stava incamminandosi verso una nuova carriera e nuove possibilità espressive, come tutti noi, con piacere, abbiamo constatato. Dondestan (1991) può essere l’espressione di una rinnovata quiete, come suggerisce la copertina: Robert è in cuffia intento ad ascoltare musica e intanto osserva Alfie con amore, lo sguardo di lei vola alla finestra, mentre la mano regge una matita e un foglio, una breve pausa nel disegno. Alcuni versi di Lisp Service indicano perfino l’uscita dall’affanno ossessivo per i destini del mondo, problemi sociali insolubili o vocazioni anarchiche – non so se l’interpretazione soddisferebbe Robert…

76

Chiamata Alifib nella canzone eponima, e ivi definita my larder (la mia dispensa di risorse). E così nell’altra, Alife, dove l’anagramma del nome è promettente, da prendere alla lettera: un nuovo stile o tenore di vita (a life).

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Non c’era un tempo Amnesty International, nessuno ti controllava, non datemi più la polis, quella ‘norma di legge’.

L’incipit della song sembrava incedere nella stessa direzione: “Preoccupazione non è il mio secondo nome”… Mentre The Sight Of The Wind, nello stesso album, la voce di Robert che emula il fruscio delle onde in sottofondo, invita a non estrarre messaggi reconditi dai moti della natura (“una foglia morta, che a zigzag / traccia un messaggio urgente in sanscrito”), o disegni esoterici dalla sabbia, tanto le impronte di ieri svaniranno, rimpiazzate da nuove increspature lievi, altre onde in gestazione. Un appello a una ermeneutica che non si perda nel senso nascosto delle cose,77 che è inesistente, ma si limiti a contemplare un bozzetto nudo della realtà, laddove “nessuno si muove / neanche i cani / un giorno perfetto per la spazzatura danzante”. Infine, la voce-onda sembra arrestarsi e sussurrare qualche parola, ultima esortazione a diffidare dell’illusione interpretativa, del significato trascendente. Dondestan seguita a essere una mera descrizione del reale senza pretesa di decodificarlo in Shrinkrap, dal ritmo altalenante, come basso continuo od ostinato e il pianoforte verboso, onnipresente, a puntellare la voce e inframmezzarla. “È lavoro lavoro lavoro / dall’alba al tramonto / la mia carta d’identità è consunta, il mio io spezzato / da mesi e mesi di fatica / trascorsi a scevera77

Per un approfondimento filosofico di questa tematica, contro un’ermeneutica siffatta, si veda: L. V. Arena, Nonsense o il senso della vita, ebook, 2013.

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re il mio vero io / dal suo guscio”. Un adeguato ritratto dell’artista, il quale si concede una divagazione sulla questione che più gli preme in questo tipo di song: il rapporto tra io e l’Altro, dove i contorni si cancellano appena tratteggiati: “Tutti mi amano / chiunque, tranne me”. Che è il dramma della condizione umana, uno spunto di riflessione che fa pensare, perché coincide con la conclusione del brano e del ritmo pianistico ossessivo, perché ribadisce che ognuno di noi è nemico di se stesso, a prescindere dalla vetusta distinzione personale / politico, la quale meno che mai, a queste condizioni, ha ragione di essere. Left on man, nello stesso album, ha una connotazione politica. “Ciò che chiamiamo libertà qui a nord / significa la nostra libertà di usarvi / e se non coopererete / vi taglieremo i rifornimenti”: evidente il riferimento agli USA, poco dopo esplicitato (attraverso il motto Pentagon ueber alles); sono loro i fautori della politica del “tutto o niente”, senza mezze misure (their simply is no middle ground), di fronte ai quali, data la forza delle armi, non ci si può che inchinare. “Sarete liberi di riconnettervi / purché ci chiediate perdono”. La formacanzone non è un trattato, un saggio, è evidente il suo potere di semplificazione, le parole possono diventare uno slogan e alterare il messaggio: Robert lo sa, e lo sottolinea in questo brano, uno dei più amati da lui ed eseguiti dal vivo: “Dite che io semplifico troppo / ebbene sì, così fece anche Albert Einstein”. D’altra parte, la posizione di un cantante, la semplificazione, è compatibile con gli opposti schieramenti in cui il mondo si divide: “Non c’è un luogo intermedio / o a sinistra o a destra dell’equatore.” Robert ribadisce la sua convinzione, e 52

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che in certi ambiti le distinzioni sono nette, trancianti e inconciliabili: di nuovo il suo marxismo, in una song perfino orecchiabile, che rammenta le atmosfere della bossa nova. Il concetto di libertà, talvolta, non è che una concessione alla potenza bellica soverchiante, che si arroga il diritto di trattare i subordinati come vuole. Dondestan è, dal punto di vista dei testi, un’opera composita dove il personale e il politico si danno ancora una volta la mano; nella stessa linea la title-track, ad attestare una unità compositiva, tematica, di fondo, che esordisce con questi versi: “La Palestina è un Paese (country) / o almeno soleva esserlo”. E conclude con i seguenti, altrettanto evocativi, nel lirismo e la sinteticità che la forma-canzone si consente, e che Robert sa adoperare: Felahin, profughi (deportati, e simili) hanno bisogno di qualcosa su cui costruire come tutti quanti noi.

Si avverte l’esigenza di un luogo per gli outsider come necessità esistenziale, non meno che collettiva. Un album che presenta un Robert Wyatt alla finestra, il quale però non perde il contatto con il mondo; un cantante solitario che suona tutti gli strumenti, e che solo qualche anno dopo con Shleep si consentirà la dimensione musicale collettiva, incline alle collaborazioni, formando gruppi provvisori che ne supportino l’ispirazione. Imboccata questa via, e stimolato dai collaboratori, Robert incide Cuckooland (2003), che comincia con una 53

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canzone ironica, nella sua linea politica: gli strali, stavolta, si appuntano contro le diverse incarnazioni della new age e similari, nella canzone Just A Bit, dedicata a Richard Dawkins.

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La fede non è poi così malvagia, la speranza può farvi sentire di nuovo bene. Sono matto come qualche cappellaio, mi rassicuro toccando ferro!

Quanto è sottile la linea di confine tra religione e superstizione, supposto che esista? Almeno da Feuerbach in poi, nel pensiero occidentale i sentimenti del culto sono stati smascherati come esigenze dell’essere umano di sentirsi garantito, al riparo dalla bruttezza della morte o della malattia. Un essere umano che si sente limitato e si affida a un dio, dotandolo di tutte le caratteristiche che egli non ha, e vorrebbe. Ma perché toccare ferro dovrebbe farci sentire in salvo e invulnerabili? Robert prende di mira tutti coloro che confidano nella potenza guaritrice delle icone, dei santi, dei totem, tutti accomunati, in una visione che ricorda l’uomo primitivo e che, in fondo, non ne ha mai preso le distanze. I fedeli si abbandonano a canti e inni che dovrebbero rafforzare il legame con il Creatore, con i loro idoli. O lo stesso effetto è determinato dalle parole magiche, le sostanze allucinogene che dovrebbero tutelarci e donarci esperienze trascendentali, l’accesso ad altri stati di coscienza. Condannata è la credenza nel paranormale, dove una statua o un muro in lacrime dovrebbero farci propendere per una manifestazione del soprannaturale, mentre non sono altro che psicosi di massa, allucinazioni bell’e buone (wailing walls induce psychosis). 54

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La religione dell’arte trascendentale pensi che ti migliorerà la mente, ma tutto ciò che riesce a fare (se hai fortuna) è mimetizzare (camouflage) la fatica di ogni giorno.

Nell’ottica marxiana adottata da Robert, la religione, anche quella che promuove l’arte in favore della coscienza cosmica, distoglie dai problemi, non permette di notarli, stordisce come un narcotico, e non ha alcuna conseguenza benefica. Neanche i culti alternativi a quelli istituzionali, più popolari, sono da seguire. L’armonia della natura è disarmonia, se l’ascolti con tutt’e due le orecchie. La povera Gaia non dà che il rumore bianco (white noise), non può mitigare le tue paure.

Le critiche di Robert possono colpire qualsiasi visione del mondo –, il taoismo, lo shintoismo, il culto di Gaia, e così via, – qualora questa miri a enfatizzare l’unità mistica della natura, a conferire un senso al mondo, al di là di ciò che i sensi, con la cooperazione di una mente non ideologica, facciano trasparire. Come in The Sight Of The Wind, Robert sembra suggerire all’ascoltatore di smettere di cercare un significato nascosto negli eventi naturali, anziché guardarli come sono, nudi e vuoti, a prescindere da un codice interpretativo, una scrittura cifrata. La superstizione, si canta nei versi conclusivi, non è che una versione bonsai della religione. Si comprende il motivo della dedica: Dawkins ha sempre negato qualsiasi telos dell’universo, l’ipotesi di un piano ordito da una intelligenza, divina o meno, per contrapporle la metafo-

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ra di un orologiaio cieco, un processo evolutivo che avviene in virtù di se stesso.78 Il taoismo, che sarebbe coinvolto in certe critiche per aver formulato una dottrina del principio unico, il Tao, in rapporto alle sue creature, strutturate in base a una individualità fondante (chiamata de), espulso dalla porta, torna dalla finestra: le osservazioni di Dawkins, che Robert sembra condividere, su un processo cosmico che procede alla cieca sono del tutto compatibili con gli assunti del taoismo, secondo cui la strada che il Tao esprime,79 la quale coinvolge tutti gli esseri, organici e non, non persegue alcun fine, ma sembra soltanto farlo, come se un Signore presiedesse alla creazione, di cui però non si scorgono le tracce. “Devo ammetterlo”, conclude Robert, “toccare ferro è una piccola follia (just a bit mad)”. Un critico ha osservato, a ragione, che “la gente parla spesso della tristezza della tua musica, Robert, ma penso che tenda a sottovalutare il tuo sense of humour”.80 Just A Bit lo mostra. Forest, in Cuckooland, sembra una mera descrizione della natura, ma poi la arricchisce di presagi, grazie alla intrusione dell’uomo. Quasi si desse una corrispondenza perfetta tra le azioni umane e i fenomeni naturali, come ritiene una certa filosofia cinese, specie il confucianesimo.81 Il passaggio di una nuvola che occulta la 78 79 80 81

R. Dawkins, The Blind Watchmaker, W. W. Norton and Company, New York 1986. Tao significa via, via maestra o direzione principale, stile di vita, e così via. S. Trouss, op. cit. Il riferimento classico è a Dong Zhongshu; si veda: L. V. Arena, L’innocenza del tao, Mondadori, Milano 2010, pp. 139 e sgg.

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luna lo lascia intuire – a dispetto di Just A Bit, con la sua critica ironica delle dottrine sull’unitarietà e la teleologia del cosmo. Poi ci si riferisce al campo di concentramento, al canto di una ragazzina zingara (gypsy girl) che si leva, come il sole sulla foresta, dalle ceneri di Auschwitz. Tuttavia, noi sentiamo che tutto procede in apparenza uguale, sempre lo stesso, come se nessuna violenza accadesse, o venisse a turbare l’eterno moto dei processi naturali; si torna a Just A Bit, la discordia nella società umana non altera il ritmo del cosmo. Infatti: Gli alberi crescono alti, benché i venti soffino freddi, alberi alti crescono. Crescono alberi alti, dove il vento freddo soffia, gli alberi crescono alti.

Versi reiterati, ancorché alterati, che ritornano proprio perché mutano: non è questo il ritmo della natura, suggerisce Robert, che prescinde dall’uomo? Certo, le ceneri del forno crematorio inquineranno l’aria, mentre non si darà l’inverso, che l’atmosfera o il clima suscitino la violenza o l’assassinio… La sensibilità di Robert, il suo canto mesto, accorato emerge in Lullaby For Hamza; scenario: la guerra del Golfo, all’inizio, bombardamento su Baghdad; un parto: potrà il neonato sopportare il trauma, non quello della nascita, che lo perturba, ma l’evento di cui è testimone? Fisarmonica e trombone in sottofondo, la ninnananna è un controaltare alla violenza bellica, e non la seda, ma lascia trapelare una speranza che Robert non si lascia sfuggire. 57

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Quando i bombardieri imperversano, ho bisogno della tua ninnananna, i fuochi bruciano, l’incubo è iniziato.

Frattanto il cielo si oscura, e Hamza vuol dormire: niente da stupirsi che non abbia sonno, la notte è lunga, ma forse il canto allevierà la sua angoscia, ne asciugherà le lacrime e porterà un po’ di pace a tutti noi, si augura Robert, mentre la sua voce si incupisce, e sembra sprofondare nell’abisso. Il contrappunto strumentale replica il ritmo dei bombardieri, disturbatori della quiete che si vorrebbe infondere in Hamza, e che poi prende il sopravvento, nella stanza del neonato. Lo spirito di Just A Bit, un punto fermo nella carriera solista di Robert riguardo ai testi, ritorna in una porzione rilevante di A Beautiful Place, nell’album Comicopera (2007), – atto secondo: “Il qui e ora” –, con l’accenno ai metodisti. Robert dice di essere andato a zonzo con piacere, fino a imbattersi in un luogo di culto metodista, il quale si fa notare per la sua atmosfera negativa (“Vietato fumare / niente cani / nella chiesa metodista”), e per le sue contraddizioni: “Sembra abbastanza tetro / nella chiesa metodista / malgrado un poster dica che / ‘Lui è qui per tutti noi’”. Si conclude in tono lapidario: “Oggi è una giornata stupenda / ma non lì”. Si insiste sulle contraddizioni religiose nello stesso album e atto, riguardo ai cristiani, ai musulmani, induisti e seguaci della religione ebraica. Come al solito ironicamente, Robert dice di invidiarne le certezze, che dovrebbero dar loro una gran tranquillità e pace. E li accomuna, notandone le analogie, pur nella diversità del 58

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culto. Tutti loro si volgono a un dio misericordioso, gli Indu a una pluralità, al quale inginocchiarsi e chiedere perdono, mentre Robert non può ricevere questo conforto (e ci ride sopra).

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Già, io non ho nessuno cui rivolgermi, quando sprofondo nella merda, mi sento tanto triste e solo, nessuno a dirmi ciò che devo fare.

Potrebbero confortarlo le parole dei fedeli, le esortazioni pietose a non affliggersi? In fondo tutti hanno i loro alti e bassi, la loro dose di dolore o di piacere; tuttavia, se è al culmine della sopportazione, Robert potrebbe sempre chiedere a Dio una grazia con tatto e devozione… A chi, come lui, non crede al libero arbitrio, al potere della volontà, tali espressioni suonano artificiose, o frodi mascherate: “Come posso esprimere me stesso / se non esiste un me stesso da esprimere?”. Alcuni saggi sufi dicono che non si deve amare Dio per paura dell’Inferno o la brama del Paradiso; Robert sembra procedere sulla stessa linea, malgrado la sua diffidenza per il sufismo: anche la brama di salvezza dell’essere umano cela un forte egoismo, mentre è questo che andrebbe estirpato attraverso la condotta religiosa. Nietzsche aveva individuato il legame inestricabile tra il cristianesimo e la filosofia platonica, proclamando il primo come una versione popolare del platonismo, con la metafisica del dualismo tra i mondi e il rinvio a un retromondo (Hinterwelt) più autentico di quello materiale, fatto della carne e del sangue dell’essere umano. Denunciando la portata consolatoria, mistificante, di questo 59

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rinvio, una ipoteca che appesantisce l’esistenza dell’essere umano, fornendole un sollievo illusorio, inefficace. Robert adotta un atteggiamento simile, intravedendo il nesso tra il cristianesimo e gli USA, laddove la politica di questi ultimi tenderebbe a esaltare questa religione, la quale, di fatto, governerebbe l’America.82 La svolta a destra, che Robert Wyatt ravvisa in primo luogo nel suo Paese, il Regno Unito, è riscontrabile e con più ampia portata, negli USA, anche per effetto del cristianesimo, a proposito del quale Robert non avrebbe difficoltà a segnalarne l’identica portata mistificante e ideologica, al pari di Nietzsche. È come se il cristianesimo avesse infettato con la propria dottrina il platonismo, estraendone il nucleo metafisico e reazionario, il suo dualismo, e poi gli USA, la più grande potenza mondiale: da Nietzsche a Robert, passando per una certa versione di Platone, il cristianesimo e gli USA. La commistione con questi ultimi rappresenta un ulteriore motivo del disprezzo di Robert per un Paese che si appresta a dominare il mondo intero. Born Again Cretin è la canzone che apre Nothing Can Stop Us (1982), l’album più politico di Robert, già dalla copertina, l’operaio che saluta con il pugno chiuso. La canzone è una dura critica, con la consueta ironia mordace di certe composizioni, “allo spudoratamente idiota movimento cristiano nel Nordamerica, il quale, di fatto, gestisce l’America”.83 Almeno non mi spareranno perché canto sono un uomo attivo, libero, posso protestare, 82 A. Reynolds, op. cit. 83 Ibidem.

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deve essere questa la libertà, devo essere felice.

Questo inconsapevole movimento cristiano ha lasciato Mandela a marcire in prigione, illudendolo di aver avuto una sorte fortunata, gli ha letto George Orwell, spiegandogli punto per punto in che consista la vera solidarietà. Esso affossa la cultura, distrugge i nostri cervelli, ma come farglielo capire, dice Robert, se è convinto che “un pagano non abbia anima”? L’appello alla libertà autentica ritorna nella canzone successiva, è sempre presente nell’album, una cover di At Last I’m Free. Per rendere l’atmosfera e il messaggio politico di una canzone talvolta bastano poche parole, una reiterazione persuasiva, stimolante. C’è questo ritornello: “Alla fine sono libero / possono appena guardare davanti a me” (At last I’m free / I can hardly see in front of me). Mi ha colpito come uno dei distici più toccanti che abbia mai udito. Sembra un fantastico distico blues, ma non lo si può capire, a meno che non si sia stati coinvolti per anni in qualche tipo di lotta civile, laddove si abbia desiderato, per intere epoche, di essere liberi.84

Difficile rendere la portata magica di questi versi, solo udendoli ce ne si può fare un’idea, e aver voglia di applicarli alla propria vita. Robert lo sa e se li ripete all’infinito, in quel tono estatico, disilluso, triste e maestoso che conferisce loro un enorme significato. I versi restano gli stessi, ma ogni volta vengono intonati con maggiore convinzione, e l’ascoltatore aspetta di riudirli, 84 Ibidem.

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con inedito e rinnovato stupore. È come se Robert non avesse cantato altro, o questa fosse la sua prova d’artista più persuasiva, senza la retorica del predicatore. In questa analisi di alcune canzoni di Robert Wyatt mancano i testi dei Soft Machine e le canzoni d’amore, disseminate in tutta la sua carriera. Riguardo ai primi, si può dire che la loro valenza sia solo funzionale, ritmica, talora onomatopeica, dal contenuto irrilevante, come egli stesso ha dichiarato.85 Riguardo alle love songs, esse non sembrano caratteristiche del suo stile; altrettanto insignificanti, sono spesso espressione del già detto, frasi già cantate da altri in mille modi: del resto, Robert non crede al loro potenziale artistico. Lo spessore dei suoi testi si evidenzia altrove, come penso di aver mostrato in questi esempi dalla sua vasta produzione solista.86 C’è una contraddizione essenziale nell’ambito della cultura occidentale, secondo Robert Wyatt: da un lato, regna un marcato individualismo, secondo cui l’affermazione di sé, l’autorealizzazione, in qualsiasi modo 85

86

“I giorni passano, guardo il cielo / i miei occhi vanno sempre alla ricerca / il sole torna, anche se la mia speranza anela / le cose puntano sempre a fermarsi” (Hope For Happiness). “Sei la cosa più dolce che vedo / ti dico che non mento… Se hai qualcosa da cantarmi/alle quattro è il momento migliore per telefonarmi” (Lullabye Letter). “Puoi ridere di me / dire che non merito / tutte le cose che ho avuto” (So Boot If It All). “Giarrettiere e calze / sembrano più sexy delle gambe delle ragazze che le portano / ma anche lì, non era tempo perso/tempo che potevamo trascorrere nudi, scoperti, spogliati?” (Pig). Esempi che si potrebbero moltiplicare e denotano una funzione significante più che significativa dei testi. Per l’analisi di altri testi di Robert, rinvio al mio libro Orient Pop, la musica dello spirito, cit.

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la si intenda, è indicata come la meta ideale; dall’altro, si raccomanda la meta estatica, dove l’individualità si perde, fondendosi con l’Altro. Il modo più semplice di battere questo secondo sentiero consisterebbe nell’atto e nel godimento sessuale. Come uscire dal conflitto? Come altrove, e lo mostra il suo stile di vita pacato e riservato, Robert sceglie la resa, non sul piano politico, ma su quello esistenziale: in musica, fa l’esempio del coro, dove la voce singola si perde nell’insieme, e l’individuo non saprebbe distinguere la propria, focalizzarla, a tutto vantaggio del risultato d’insieme.87 È un esempio che potrebbe estendersi ad altri ambiti, e forse spiega la potenza dell’azione collettiva, della protesta o ribellione politica, come Robert la intende. Si potrebbe accettare una fonte transpersonale come matrice della creatività, qualcosa che deborda l’essere umano, senza rinviare all’occulto o al metafisico, al Tao, sebbene il Tao, entro la cornice di Wyatt, è un termine che, in un senso molto ampio, si potrebbe usare. Non mi piace forzare il processo con cui le melodie vengono a formarsi, il momento precedente a che esse si preparino ad animarsi (before they are ready to come alive). Esse si manifestano bene, se solo si attende che prendano forma.88

Il che fa pensare a una sorta di energia creativa istintuale cui l’artista può attingere all’occorrenza. Il convincersi della sua esistenza ha più volte ha aiutato Robert nella sua carriera a evolversi come musicista, qualsiasi 87 A. Reynolds, op. cit. 88 Ibidem.

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cosa ciò significhi, non in senso tecnico. Che egli sia stato un grande batterista è innegabile, eppure anche lui ha dovuto superare le incertezze iniziali, quando un musicista esperto dubita di sé e delle sue modalità espressive. Robert riferisce che Keith Moon, batterista degli Who, lo ha aiutato a superare certi blocchi espressivi, la paura di dover dipendere dai modelli, di non essere originale. Difficile verbalizzare ciò che gli è stato trasmesso; tuttavia, si può dire che Moon raccomandasse una sorta di slancio sul kit della batteria, aggiungendo un attimo di umana incertezza in merito a ciò che avrebbe potuto suonare dopo.89 I due tratti sono stati parte integrante dello stile di Robert, o meglio gli hanno suggerito la direzione da prendere, affidandosi all’istinto senza programmare troppo, e arrendendosi all’evento anziché tentare di controllarlo – l’atteggiamento opposto gli avrebbe fatto perdere l’immediatezza del momento, la sua forza… “Mi sono ispirato ai batteristi neri, ma la fiducia in me stesso mi è arrivata grazie a Keith Moon”. Flying è un brano dei Beatles, perlopiù strumentale, con qualche intervento del coro che replica una melodia basilare, su un’armonia convenzionale, gli accordi del blues, o del rock. Poi c’è una virata verso l’elettronica, e un falso finale, nastri che sembrano girare al contrario, echi pastorali… Nella sua versione completa, in Magical Mystery Tour (1967), dura quasi 10 minuti; è senz’altro una delle più misconosciute canzoni dei Beatles, ma possiede un suo lirismo, man mano che ci si addentra nel brano e se ne colgono le sfumature, ed è particolar89 Ibidem.

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mente adatta alla meditazione. L’ascolto può perfino catapultare in altri stati di coscienza, anche più di Tomorrow Never Knows, l’intrusione dei Beatles nell’orbita psichedelica, con echi tibetani od orientali.90 Non sembri stupire questo accenno ai massimi rappresentanti della pop music nei ’60, e fino al 1970: contrariamente alle aspettative, Robert Wyatt non denigra affatto i Beatles. Trova che Flying sia una canzone straordinaria, la sua preferita nel repertorio dei Fab Four: il che, più che una traccia di snobismo, indica la sua apertura mentale, pronto a riconoscere il carattere sperimentale di certe composizioni beatlesiane, compatibile con i più focosi slanci verso il beat, il rock, o come si voglia etichettare la musica di quegli anni. Robert avrebbe anche potuto essere stimolato da Revolution Nine, una canzone del cosiddetto album bianco, dove si ravvisano echi di Stockhausen, studiato, come è noto, da Paul Mc Cartney all’epoca. Flying, però, resta più vicina al rock ed è un tentativo di mescolarlo con altre atmosfere, più intimiste, psichedeliche… Pensavo che i Beatles fossero okay. Non avrei mai comprato i loro dischi. Tuttavia, per quanto riguarda i musicisti bianchi, trovo alcuni di loro tra i meno imbarazzanti. All’epoca, ho acquistato Imagine, l’album di Lennon.91

Certo, Robert non può amare Ringo… e perché no? Tra i quattro trova John Lennon il più interessante, a giudicare dal non detto di molte interviste, dove s’è già riferito del paragone con Mendelssohn, da cui 90 L. V. Averna, Orient pop, cit., cap. I. 91 A. Reynolds, op. cit.

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John esce trionfante, il che può sconcertare i dogmatici, amanti della musica classica. Robert può aver trovato John molto corroborante per la sua ruvidezza delle sue composizioni, penso a I’m The Walrus o a Run For Your Life, per tacere di Strawberry Fields Forever… Mentre alcune musiche patinate di Paul Mc Cartney possono averlo lasciato indifferente, il fascino semplice, immediato, di Imagine, il prototipo del mondo di John, ha conquistato Robert. Quanto a Flying… la canzone figura al settimo posto nella Top Ten ideale di Robert, compilata per la rivista Let It Rock (gennaio 1975), un piazzamento più che lusinghiero, se si pensa che a precederla sono artisti del calibro di, nell’ordine, Charles Mingus, Shostakovich, Thelonious Monk (come potrebbe essere altrimenti?), Miroslav Vitous, Gil Evans e Miles Davis, Sly and The Family Stone, con le rispettive composizioni. Robert loda il film Magical Mystery Tour, da cui Flying è tratta, dicendo che è un ottimo prodotto dell’epoca, se si pensa che le facoltà mentali della generazione hippy sono state alterate dal sesso, dalla droga e da impianti di amplificazione inadeguati. E poi passa alla canzone, parlando della sua struttura, e del canto tipicamente “bianco”, in contrasto a un impianto quasi blues. Ne rintraccia perfino un analogo, la seconda parte della Canzone della barca sul Volga…E riesce a non parlarne, constatando i limiti del linguaggio verbale di fronte a opere simili: nel migliore dei casi, le si smonta pezzo per pezzo, e basta. Poi rilascia un post-scriptum eloquente, da intendere cum grano salis, alla luce del ressentiment suddetto, di amicizie o antipatie. 66

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Ho pensato che i Beatles fossero molto più audaci e inventivi della maggior parte di noi, gruppi “progressivi” dei tardi anni ’60 (tranne i Pink Floyd).92

A differenza di quanto scritto altrove, non ricollocherei più Robert Wyatt tra gli outsider, i poeti e cantori maledetti che persero ogni speranza del Paradiso, e non solo perché egli non crede in consolazioni ultraterrene o prospettive edificanti.93 Nietzsche diceva che a Schopenhauer non pesava la solitudine.94 Non è determinante rilevare che parlasse di sé, di come voleva essere lui stesso, più che del maestro. Robert è così: non lo si può dire emarginato, visto che ha scelto lui di restare fuori dalla frenesia del rock business, rifiutando di posare a star.95 È molto ricercato dai suoi collaboratori musicali, 92 93

94 95

R. Wyatt, My Top Ten, in «Let It Rock», gennaio 1975. Manterrei invece la mia interpretazione di fondo, secondo cui il marxismo di Robert Wyatt sarebbe più vicino al Marx dei Manoscritti economico-.filosofici del 1844 o al Manifesto del partito comunista (scritto con Engels), piuttosto che a opere come Il Capitale. Un marxismo “umanistico”, insomma, dove si deplora la drammatica condizione psicologica, esistenziale del proletario, dell’essere umano in generale. Prospettiva che certo non scompare nelle opere più tarde, ma che nei Manoscritti si mette bene in luce, indicando una direzione che Marx non seguirà più, o almeno non più con lo stesso spirito, nella fase “economicista”; nei Manoscritti si avverte molto di più l’influsso di Hegel, dell’alienazione, che Marx vede nel lavoro, anziché nella prospettiva idealistica, edificante, costruttiva e mistificante. F. Nietzsche, Schopenhauer come educatore, a cura di M. Montinari, Adelphi, Milano 1985. “Quando la gente mi chiedeva ‘Cosa ti dà una motivazione? Volevi essere una rock star, una pop star, un artista?’, io dicevo: ‘Voglio soltanto un fottuto modo di guadagnarmi da vivere’” (A. Reynolds, op. cit.).

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sia da quelli di cui ha accettato le offerte,96 numerose, quanto dagli altri, i quali seguitano a importunarlo. Penso, con Nietzsche, che sia determinante come l’individuo si sente, più che le sue apparenti condizioni di vita. O che non basti che questi abbia avuto successo o meno per giudicarne il carattere o fare un bilancio della sua carriera. Robert è perfettamente inserito nel mondo, proprio dalla postazione umbratile, appartata, che ha scelto di mantenere. Ciò non implica una razionalizzazione, una legittimazione acritica della sua condotta, bensì un tentativo di rendere conto delle sue inclinazioni, delle sue scelte esistenziali. Questi tratti lo accomunano a tanti grandi del rock o della pop music, quali Tim Buckley e Nick Drake, a prescindere dalla tragica conclusione delle loro vite. Non bisogna dare per scontato che un artista debba votarsi al successo o alla popolarità, ad accumulare ricchezza; talvolta vorrebbe soltanto essere apprezzato per ciò che è. Se non vi riuscisse, o solo a metà, non dovrebbe necessariamente crucciarsene. Mi pare questo l’esempio, il modello che ci offre Robert Wyatt. 96

Tra le collaborazioni, in un elenco non esaustivo: Kevin Ayers, i Pink Floyd e con Syd Barrett, Fred Firth, ovviamente Brian Eno, Scritti Politti, Elvis Costello, Ultramarine, e così via. Una delle più interessanti, di cui Robert Wyatt ha un ottimo ricordo, quella con Bjork: “Era molto piacevole averla dentro casa, fu qualcosa di magico, davvero, e lei era tutto ciò che avreste potuto desiderare” (J. Mugwump, op. cit.). E anche per un’esperienza particolare: “Lei ha finito per campionare la mia voce anche su un’altra traccia, Oceania, che poi è stata destinata a essere la melodia che ha aperto le Olimpiadi. La mia voce è proprio lì, all’inizio. È stato il mio momento anonimo, che ha inaugurato i giochi olimpici del 2004” (A. Reynolds, op. cit.). Quella con Elvis Costello ha prodotto una delle più toccanti interpretazioni di Robert, la celebre Shipbuilding.

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MUSICA CONTEMPORANEA

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Donato Ferdori, La filosofia degli U2. Il conflitto tra eros e agape Stefano Marino, La filosofia di Frank Zappa. Un’interpretazione adorniana Alberto Nones, Ascoltando i Doors. L’America, l’infinito e le porte della percezione Arrigo Cappelletti, Giacomo Franzoso, La filosofia di Monk o l’incredibile ricchezza del mondo Leonardo Vittorio Arena, La filosofia di David Sylvian. Incursioni nel rock postmoderno Giacomo Fronzi, La filosofia di John Cage. Per una politica dell’ascolto, prefazione di Carlo Serra Leonardo Vittorio Arena, Brian Eno. Filosofia per non musicisti

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Finito di stampare luglio 2014 da Digital Team - Fano (PU)

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