La divinazione nell'antichità
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Esi/Che so? Collana enciclopedica 38

Raymond Bloch

LA DIVINAZIONE NELL'ANTICHITÀ

Edizioai Scieatificbe ltaliaòe

Collana diretta da Luigi Labruna

I edizione italiana, 1995 Traduzione di Patrizio O'Connor Revisione di Marinella Pomarici Titolo originale: La divination dans l'antiquité

BLOcH, Raymond La divinazione nell'antichità

Collana: Esi che so?, 38 Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1995 pp. 120; 17 cm. ISBN 88-8114-109-4 © 1984 by Presses Universitaires de France «Que sais-je?,. n. 2135 © 1995 by Edizioni Scientifiche Italiane s.p.a. 80121 Napoli, via Chiatamone 7 00185 Roma, via dei Taurini 27 82100 Benevento, via Porta Rettori 19 20129 Milano, via Fratelli Bronzetti 11

I diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale

e con qualsiasi mezzo (compresi i microfilms e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi

Indice

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Introduzione

Capitolo primo

11 Il mondo greco e la divinazione Osservazioni generali, p. 1 1; Divinazione e pensiero greco, p. 12; Prefigurazione e determinazione dell'avvenire, p. 14; La di­ vinazione ispirata in Grecia. L'oniromanzia, p. 19; I grandi ora­ coli ellenici. L'oracolo di Delfi, p. 22; Il funzionamento degli oracoli, p. 24; Divinità profetiche del mare, p. 29; La divinazio­ ne induttiva in Grecia, p. 32.

Capitolo secondo

39 La divinazione etrusca Presagi e destino, p. 39; I tre ambiti della divinazione etrusca, p. 45; L'estispicina, p. 48; La scienza dei fulmini, p. 58; I prodi­ gi, p. 65.

Capitolo terzo

73 La divinazione romana Osservazioni generali, p. 73; I libri sibillini, p. 75; I presagi. Gli omina, p. 77; Gli auspicia, p. 79; I prodigi, p. 84; Crisi e trasfor­ mazioni. La divinazione alla fine della Repubblica, p. 98; La di­ vinazione durante l'Impero, p. 105.

117 Bibliogra fza sommaria

Introduzione

Certamente mai come nel nostro tempo i progressi della scienza sono sembrati in grado di far scomparire le antiche credenze nei presagi, negli oracoli e nelle profezie; in tutti i mezzi cioè attraverso i quali i diversi popoli hanno creduto di poter penetrare i misteri del presente e squarciare il velo del fu turo. Eppure, in verità, la situazione non è cambiata molto. Dovunque assistiamo al moltiplicarsi di esegesi divi­ natorie che paiono restituire il loro antico vigore a cre­ denze antiquate. È il caso di stupirsene? Certamente sì, se si considera che, nella maggior parte della letteratura divina­ toria, nessuno - e giustamente - è mai stato capace di tro­ vare una sola predizione esatta nel confuso delirio delle pre­ dizioni ambigue. No, se si considera che l'arte della divina­ zione corrisponde ad uno dei bisogni più profondi - e più vani - della natura umana: il bisogno che la spinge a tentare di sapere quello che può riservare l'avvenire. Perduto nel­ l'immensità di un mondo che non è fatto a sua misura, l'uomo cerca di moltiplicare i punti di appoggio ai quali ag­ grapparsi. La divinazione, la mantica, pare proprio offrirgli solide conoscenze sul suo destino, conoscenze che egli cerca continuamente e che sempre gli sfuggono. Da questo punto di vista, l'antichità classica offre uno spettacolo che illu­ mina un po' quello che accade oggi. Pensatori e filosofi della Grecia si sono assai presto soffermati sul problema della possibilità di un'arte divinatoria. E alcuni grandi spi­ riti e alcune scuole, come vedremo più avanti, hanno con­ cluso con l'affermare la realtà di questa tecnica e il valore di questo modo privilegiato di entrare in contatto tra l'uomo e la divinità. 7

Ma ciò che caratterizza la divinazione antica è che essa co­ stituisce parte integrante del mondo della religione, e ne è anzi una parte importante. Esistono, in verità, due modi fondamentali della divinazione, l'uno o l'altro dei quali viene privilegiato a seconda delle civiltà; si tratta da una parte, della divinazione detta « ispirata» , dall'altra della divi­ nazione detta « induttiva», cioè realizzata attraverso « i se­ gni». Si tratta di due modi estremamente diversi di pene­ trare i segreti del mondo e prevedere l'avvenire. Nel primo caso il fedele, il sacerdote o il suo rappresentante riceve l'in­ flusso divino, dopo essersi messo in condizione di ottenerlo osservando regole ferree, diverse secondo le località e le epo­ che. Una divinazione del genere, che è estranea al comune mortale, ha molta più importanza in alcune civiltà, come quelle dell'antica Israele o della Grecia. L'altra forma, infini­ tamente varia, di mantica - che si fonda sull'interpretazione dei segni - regna invece nella civiltà babilonese e, per quel che qui ci interessa, presso gli Etruschi e i Romani. Implica che la divinità abbia inscritto la sua volontà e annunciato il futuro in questo o quell'ordine della natura, e la simbolica dei segni, spesso molto complessa, è il tema della ricerca che viene proposta all'indovino o anche al semplice privato. Nel mondo dell'antichità classica, i due atteggiamenti sono rappresentati in tutta la loro purezza. I Greci hanno adottato un atteggiamento piuttosto circospetto rispetto alla divinazione attraverso i segni, ma hanno accordato sem­ pre alla divinazione ispirata, soprattutto a quella ispirata da Apollo e in particolare a quella delfica, un interesse che non è mai stato smentito. I Romani al contrario, hanno sempre diffidato di tutti coloro, uomini o donne, che pretendevano di entrare in contatto diretto con la divinità e si dicevano ca­ paci di comunicarne il volere. Lo studio sistematico di certi segni ha invece permesso loro di approntare un sistema divi­ natorio istituzionalizzato, fondato su regole chiare e sicure, al di fuori di qualsiasi fantasia o variazione individuale. Un'ultima notazione è importante. Come in tutto l'àm8

bito della ricerca religiosa, lo studio della divinazione ri­ chiede il ricorso costante al metodo comparativo. Perché, se il ruolo e la collocazione dell'indovino e del profeta va­ riano a seconda dei casi e le tecniche della divinazione sono numerose, la vita divinatoria è nata dovunque dalle stesse tendenze, dagli stessi bisogni, e poiché l'immaginazione de­ gli uomini, è in fondo, limitata, vi sono molte somiglianze nelle forme dell'interrogazi�ne e della risposta osservate ai quattro angoli del mondo. E perciò un bene che opere di più autori affrontino il problema nel suo insieme, come quella diretta da Caquot e Leibovici, intitolata La divina­ tion, e l'altra intitolata Divination et rationalité, apparsa di recente nelle edizioni Le Seuil1• La cosa migliore che io possa fare, al principio di un'o­ pera sulla divinazione per mostrare la permanenza delle più antiche credenze nello spirito umano, è riproporre una pa­ gina di Goethe, che evoca nel suo libro intitolato Dichtung und Wahrheit, un episodo della sua gioventù. Egli costeg­ giava, durante una passeggiata, la riva di un fiume caro al suo cuore, il Lahn. « Si risvegliò allora in me - egli dice - il mio ardente desiderio di dipingere degnamente simili og­ getti. Tenevo per caso, nella mano sinistra, un bel coltello da tasca e sentii echeggiare dal fondo dell'animo mio l'or­ dine imperioso di lanciare subito il coltello nel fiume. Se lo avessi visto cadere, la mia speranza d'artista sarebbe stata 1 La divination. É tudes recueillies par André 9!'fuot et Marcel Leibo· vici, 2 vol. (Paris 1968) e Divinazione e razionalita, a cura di J.P. Ver­ nant (Torino 1982). Per quanto mi riguarda, nel 1963, avevo affron­ tato nella collana «Mythes et Religions� della Presses Universitaires de France, Les Prodiges dans l'Antiquité classique, trattando successiva­ mente del problema in Grecia, in Etruria, a Roma e nel mondo ro­ mano ( trad. i t. Prodigi e divinazione nel mondo antico [Newton Compton ed. per il Club del Libro f.lli Melita, La Spezia]); in quest'o­ pera, che considera lo stesso quadro geografico, mi accadrà dunque di riferirmi a questo ultimo volume. Una notevole sintesi della divina­ zione ellenica è nel volume •Que sais-je?,., del compianto R. Flace­ lière, Oracles et devins grecs. -

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esaudita; se la caduta del coltello fosse stata nascosta dai rami che lambivano il fiume, avrei dovuto rinunciare alle mie speranze e ai miei sforzi. Seguii questo impulso appena concepitolo e, con la sinistra, lanciai con tutte le mie forze il coltello nel fiume. Sfortunatamente, anche in questa oc­ casione, ebbi modo di provare l'ingannevole ambiguità de­ gli oracoli... La caduta del coltello mi fu nascosta dagli ul­ timi rami dei salici ma l'acqua schizzò come una fontana per il colpo e lo vidi perfettamente. Non spiegai l'avveni­ mento a mio vantaggio, e il dubbio risvegliato nel mio spi­ rito ebbe la spiacevole conseguenza che mi dedicai allo stu­ dio del disegno in maniera più incoerente e trascurata; e diedi io stesso occasione al presagio di avverarsi . ». Chi è stato più equilibrato e saggio di Goethe? Tuttavia non v'era niente di razionale nella prova-presagio da lui immaginata, spinto da una sorta di istinto oscuro e ancestrale, che giocò nella sua vita un ruolo non trascurabile. ..

lO

Capitolo primo IL MONDO GRECO E LA DIVINAZIONE

OssERVAZIONI GENERALI

La divinazione è chiamata in Grecia mantiké téchne, arte profetica, e il nome dell'indovino, del profeta, di chiunque predica l'avvenire, m dntis, deriva dalla stessa radice maino ­ mai, essere afferrato dal delirio e, in particolare, esser trasci­ nato fuori di sé dalla divinità. Lo stesso senso lo si ritrova in enthousidzein (derivato dalla radice the6s), esser posseduto da un dio, esser preso dall'entusiasmo. L'importanza e la ricchezza semantica di questo vocabolario esprimono bene il ruolo assunto presso i Greci dalla divinazione ispirata. In­ dovini, profeti, sibille e oracoli hanno sempre avuto un ruolo centrale nella vita religiosa ellenica. E la celebrità del­ l'oracolo delfico di Apollo non ha avuto pari nel mondo antico. I termini che hanno indicato il presagio fondato sull'os­ servazione sono differenti e istruttivi. Il segno divinatorio, quale che fosse, poteva esser chiamato semeion, cioè , lette­ ralmente, il segno, la cui interpretazione richiedeva cono­ scenze e tecniche da parte dell'individuo. In Grecia, come altrove, la divinazione induttiva si fonda sull'osservazione attenta di fenomeni che la divinità ha suscitato per indicare l'avvenire. La parola che indica l'uccello (oionos) è servita ad indicare tutti i segni offerti dal volo o dal grido dell'uc­ cello, poi ogni sorta di presagio. Certo, in ogni civiltà, l'uc­ cello che attraversa rapido lo spazio celeste ha potuto natu­ ralmente esser considerato il messaggero degli dei. Tuttavia la divinazione attraverso gli uccelli ha un'importanza parti­ colare presso i popoli di origine indoeuropea e questo con11

ferma la sua lontana origine. Più avanti vedremo l'estrema importanza assunta a Roma dagli auspici (auspicia viene da avis, uccello, e specio osservo) e il ruolo importante svolto da questo tipo di divinazione si ritrova presso altri popoli d'origine indoeuropea come i Celti e i Germani. Per i fenomeni metereologici, si usa, preferendolo ad al­ tri, il termine phasma (da pha ino, apparire). Infine, il presa­ gio terrificante, il mostro, il prodigio riceve il nome di té­ ras, il cui campo semantico è lo stesso del termine arcaico pè/Or, la cui origine è sconosciuta. Poiché gli accostamenti supposti in indoeuropeo dagli eruditi sono molto incerti se­ condo Pierre Chantraine 1, si può pensare, senza però es­ serne certi, che il termine che indica un essere o un feno­ meno contro natura, parddoxon, parà phjsin, sia una parola presa in prestito e provenga forse da una civiltà orientale in cui le figure di esseri mostruosi, poi passate sul suolo greco, sono legioni.

DIVINAZIONE E PENSIERO GRECO

Se c'è un popolo che ha preso coscienza sia della natura mantica sia delle condizioni che la rendevano possibile e le­ gittima, questo è il popolo ellenico. E non v'è ragione di stupirsi, se tanto precoce è stata la presa di coscienza greca dei grandi problemi posti dai rapporti tra gli uomini, l'uni­ verso e gli dei. Alcuni filosofi e scrittori greci hanno avuto, riguardo alla divinazione, posizioni diverse e sfumate, tutti però si rendevano conto che la conoscenza del futuro pre­ supponeva necessariamente la sua preesistenza. Passato, presente, futuro dovevano essere determinati dal destino perché la visione dell'indovino, grazie alla benevo­ lenza degli dei, potesse esercitarsi nei confronti del Fatum. l

Dictionnaire étymologique de la langue grecque, s.v . Téras.

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Figlie di Zeus e di Temi, le tre Moire (personificazioni della moira, da m eiromai, dividere: la moira è la parte di vita ac­ cordata a ciascuno) regolavano la vita di ogni mortale dalla nascita alla morte, e le tre sorelle A tropo, Cloto e Lachesi condividevano questa cura filando, avvolgendo e tagliando il filo sottile della sua esistenza terrestre. Si tratta di allegorie che traducono in una forma sedu­ cente e immaginosa, cara allo spirito ellenico, l'immutabi­ lità del destino. Le tre Parche romane prenderanno, in Ita­ lia, il posto e il ruolo delle Moire. Il dio supremo Zeus pos­ siede certamente una prescienza universale, ma neppure lui può cambiare il corso del destino. L'epopea omerica ha già ben illustrato l'immagine dell'ananke, questa necessità ine­ sorabile che, al di là dei desideri e della volontà degli dei, ha regolato il destino degli eroi. E lo stesso figlio di Zeus, Sar­ pedonte, malgrado la volontà del suo augusto padre, non sfuggirà alla morte che lo aspetta. Tuttavia, lo spirito greco, che non tanto si compiace delle astrazioni e delle allegorie, ha voluto, come ha scritto il compianto Defradas2 , risollevare il prestigio di Zeus e l'ha considerato come colui che conduce le Moire, il Moiragita, diventando così il dispensatore del destino. Ma, in verità, l'espressione è eccessiva, e il destino inesorabile è più forte di lui. Un recente studio di J. Heurgon 3 ha riunito testi e docu­ menti figurati in cui Zeus sembrava dedicarsi alla psicosta­ sia, o pesata delle anime, ovvero, più esattamente, alla kero­ stasia, pesata delle divinità della morte, le Kére. Vengono così pesate, su una bilancia tenuta dal signore degli dei, le Kére di Achille e di Memnone in presenza delle loro madri angosciate, Teti ed Eos, o anche le Kére di Achille e di Et­ tore, impegnati in un combattimento all'ultimo sangue. Il 2 In La divination en Grèce, in La Divination cit.

3 J. Heurgon, De la Balance aux foudres (À propos du miroir étrusque Gerhard, ES IV 196), in Mélanges Pierr e Wuilleumier (Paris 1980).

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piatto, dove la Kéra di colui che doveva morire era stata col­ locata dalla mano di Zeus, si abbassava e segnava il destino dell'eroe, irrimediabilmente condannato in anticipo. Detto questo, in un mondo così determinato dalla neces­ sità, esistono pur sempre gli dei, e l'uomo può rivolgersi alla loro visione infinitamente più precisa e lungimirante della sua per sapere cosa lo aspetta. In questo modo gli dei consentono di superare le leggi della conoscenza scientifica, che stabilisce tra fatti correttamente osservati relazioni co­ stanti. Essi introducono nell'universo quell'irrazionale del quale il classico libro di E.R. Dodds4 ha dimostrato tutta l'importanza, importanza spesso misconosciuta in terra greca. Sopprimendo gli dei, si provoca la scomparsa della divi­ nazione? Si, secondo alcuni scienziati; io però non ne sono tanto sicuro. Che vi siano o meno figure divine, che domi­ nano con tutta la loro statura la società umana, la credenza universalmente diffusa, all'alba delle civiltà, nell'esistenza di rapporti intimi, stretti, di corrispondenze sottili tra i di­ versi elementi del mondo, ha suscitato e continua a far vi­ vere pratiche divinatorie le più diverse e talvolta le più as­ surde. Detto questo, chi nega l'esistenza degli dei è certa­ mente meno disposto di un altro a vedersi cadere addosso la densa pioggia dei presagi e dei segni.

PREFIGURAZIONE E DETERMINAZIONE DELL ' AVVENIRE

Tutti gli ordini della natura erano suscettibili di offrire dei segni ed effettivamente, secondo gli Antichi, ne forni­ vano in abbondanza. Nelle tre civiltà considerate nel pre­ sente volume, ricompaiono gli stessi tipi di presagi, che poi figurano nelle credenze di molti altri paesi. E quindi più in4 E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale (Parigi 1974). 14

teressante, qui, considerare l'attitudine specifica dei Greci, degli Etruschi e dei Romani, piuttosto che enumerare a più riprese le grandi linee della divinazione induttiva in voga presso gli Antichi. Si pone immediatamente un problema per il presagio in Grecia, e lo vedremo riproporsi quando parleremo di Roma. Spesso prefigurante, simbolicamente rappresentante ciò che accadrà, può lo stesso presagio susci­ tare in qualche modo questo accadimento, o, almeno, aiu­ tarlo a prodursi? In altri termini, secondo l'espressione di Jean Bayet, esistono nella Grecia antica presagi prefiguranti determinanti? 5 Mi sembra di dover dare una risposta affermativa, e que­ sto tipo di presagio si ritrova in civiltà di livelli assai diffe­ renti. L'uccello augurale è, presso i primitivi, efficace di per se stesso. O ra, come scriveva L. Lévy-Bruhl6, l'analisi dei fatti raccolti presso i primitivi può gettare nuova luce sui presagi nelle società classiche e aiutare a capirle meglio. Negli Uccelli di Aristofane, questa deliziosa commedia rappresentata ad Atene durante le grandi celebrazioni dio­ nisiache del 414, la spigliata fantasia dell'autore mette in luce, qua e là, antiche realtà. Vi leggiamo che il nibbio, uc­ cello che annuncia la primavera, era adorato dai Greci. E il tema dell'uccello-dio ci fa passare così dal campo dell'ironia e della caricatura a quello dei ricordi che affondano nella notte dei tempi. « Se è così, la commedia di Aristofane è più vera di quanto non si potesse supporre: gli uccelli hanno preceduto gli dei; essi non sono gli intermediari, ma i crea­ tori; assicurano l'avvenire nel momento stesso in cui lo an­ nunciano. Anzi, si adoprano ad assicurarlo ciascuno nel proprio senso. L'attribuzione di una determinata specie animale a un dio determinato riflette un individualismo analogo a quello del clan. . . La civetta è di buon augurio solo

5 J. Bayet, Présages figuratifi déterminants dam l'Antiquité gréco·la· tine, in Mélanges Fr. Cumont (Paris 1971). 6 L. Lévi-Bruhl, La mentalità primitiva (Torino 1981). 15

per gli A teniesi,. 7 • Mi sembra che queste penetranti rifles­ sioni permettano di capire meglio, in profondità, una serie di segni che preannunciano il futuro. Lo stesso si può dire per il presagio-prova, il presagio-or­ dalia. Un episodio particolarmente significativo sotto que­ sto aspetto è raccontato da A pollonia di Rodi negli Argo­ nauti (III 317 e seg.). Gli Argonauti arrivano davanti alle Simplegadi, rocce dall'impatto mortale, scogli mobili che sbarrano l'ingresso del Bosforo: per :sapere se potranno at­ traversare il pericoloso passaggio, seguendo il consiglio del­ l'indovino cieco Fineo, liberano una colomba. Se riuscirà a passare, passeranno anche loro. Q uesta prova provocata, questo presagio-ordalia è senza appello. Né scongiuri né preghiere potranno alterarlo. La sorte degli uomini è scritta in quella della colomba, che la prefigura e la determina. In effetti, il passaggio della nave ripete esattamente il volo del­ l'uccello. Q uesto riesce a superare lo sbarramento, ma le rocce si richiudono e trattengono le piume più lunghe della coda. Ugualmente, la nave che si è lanciata tra gli scogli quando questi si erano riaperti riesce a passare, ma la poppa viene danneggiata, come era accaduto alla coda della co­ lomba. Il volo dell'uccello aveva quindi prefigurato e anche determinato il destino degli uomini. Vi è un legame di ca­ sualità primitiva che è messo in ombra dagli autori classici e naturalmente nella nostra visione, ma che lo studio compa­ rativo permette di individuare con chiarezza. Allo stesso modo, gli oracoli greci determinavano e creavano l'avve­ nire che avevano predetto8• In maniera simile, nella divinazione ispirata, in cui il dio si esprime senza ricorrere ad alcun segno esteriore (questo sarà oggetto di uno studio successivo), si trova questo stesso tipo di presagio prefigurante nella forma del segno, e questa 7 J. Bayet, art. cit. p. 30 - Croyances et rites, p. 47. 8 P.M. Schuhl, Essai sur la jormation de la pensée grecque (Parigi

193 1).

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forma di presagio ha sempre impressionato vivamente l'a­ nimo degli uomini. In questo caso, in effetti, vi è una sorta di intima unione tra la nozione del passato e del futuro. In­ contreremo santuari e oracoli che ricorrono alla divina­ zione attraverso i sogni nelle pagine dedicate alla mantica naturale, ispirata (p. 20). Qui basti ricordare, ancora rifa­ cendosi a J. Bayet, l'efficacia e il carattere prefigurante del sogno in uno degli episodi più conosciuti dell'epopea ome­ rica. Nel canto XIX, vv. 5 46-550 dell'Odissea, Penelope ha un sogno singolare, ella vede « piombando dal monte una grande aquila» massacrare le venti oche che teneva in casa. E allora grida. L'aquila ricompare, si posa sul tetto e le dice: « Coraggio, figlia del glorioso !cario; non sogno, questa è vi­ sione reale che si avvererà: le oche i tuoi pretendenti e io t'ero aquila prima, ma ora torno e sono il tuo sposo legit­ timo, e ai pretendenti tutti darò una morte ignobile». Al suo risveglio, Penelope si stupisce di ritrovare le sue oche intorno a lei, perché aveva creduto nella realtà materiale di quanto aveva sognato. Il sogno-presagio aveva tuttavia esat­ tamente prefigurato il massacro dei proci. E si noti che l'a­ quila dice di essere Ulisse stesso senza che l'eroe sembri stu­ pirsi di questa rappresentazione animale della sua persona. Si potrebbero moltiplicare gli esempi dei segni stupefa­ centi il cui compimento appare fatale e sfugge a qualsiasi in­ tervento dell'indovino e delle sue tecniche. A Tebe, dopo la sconfitta dei Sette, Tiresia non riesce a spiegarsi il senso della guerra che gli uccelli « con furore selvaggio» scatenano tra loro9• Certo, prevede la morte di uno dei parenti di Creonte, la cui crudeltà troverà così un castigo. Ma, in ve­ rità, il presagio è più complesso, e si realizzerà più compiu­ tamente. Creonte uccide la nipote Antigone ed Emone, suo figlio, prima di morire vuole ucciderlo; Euridice, sua mo­ glie, si suicida e a Creonte non resta che augurarsi la pro­ pria morte. La guerra intestina degli uccelli è così « proiet9 Sofocle, A ntigone 100 1-1016. 17

tata integralmente nel mondo degli uomini». Molto più tardi si ritroveranno, a Roma, fatti dello stesso gene re, ve­ stigia di una mentalità antica e realizzazione fatale, nel mondo umano, dei presagi o dei sogni prefiguranti 10• Al principio del se colo G. Glotz, nella sua tesi rimasta classica sull'Ordalia nella Grecia primitiva, ha riunito e de­ scritto numerosi episodi drammatici derivati dalla mitolo­ gia o dalla storia più antica della Grecia, nel corso dei quali ogni sorta di prove servivano a stabilire il diritto alla vita o il de stino infelice di questo o que ll'altro, bambino o adulto, oppure, se questo era accusato di una cattiva azione , di un crimine , a stabilire la sua innocenza o la sua colpevole zza. Prova magica, sanzione divina ma anche presagio di morte , di sopravvivenza o di grandezza, le ordalie si incon­ trano numerose nei racconti mitologici elle nici prima di di­ ventare alcuni tra gli elementi informatori del diritto pe­ nale romano. Vedremo un po' più avanti (p. 2 9) che gli dei o i ge ni del mare avevano spesso, ne l paganesimo antico, qualità profe­ tiche. A questo bisogna aggiunge re, se si vuole risalire all'o­ rigine delle credenze, che all'alba della civiltà era sufficiente esporre sul mare un esse re umano pe rché la sua sorte ve­ nisse annunciata e poi diventasse de finitiva. Il paziente po­ teva essere rinchiuso in una cassa, in greco una larnax, o messo su una barca e abbandonato ai flutti; poteva gettarsi spontaneamente nelle acque profonde del mare. Gli de i, nell'epoca classica Poseidone o Nettuno, potevano, se lo volevano, conservare per sé la vittima o lasciare il batte llino alla deriva nei paraggi dove si aggiravano le imbarcazioni dei morti. Se, invece, rinunciavano all'anima che era stata loro votata, il bambino salvato dalle acque o la donna scaIO Nel suo libro L 'homme romain des origines au I siècle de notre ère (Paris 1978), M. Meslin crede, per quel che concerne Roma, a un si· mile determinismo dei signa, p. 86 e seg.

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gionata portava sempre il segno di una consacraziOne divina. Oracoli, sentenze divine, decisioni di clemenza o di con­ danna sono impossibili a separarsi gli uni dagli altri in epo­ che in cui la giustizia non era separabile dalla religione, quando, come scrive G.Glotz, « gli dei venivano consultati sulle questioni di colpevolezza come su tutte le altre, dove i criminali e rano sempre le vittime designate per i sacrifici espiatori, resi necessari dai loro delitti, dove compito della magia era tanto pronunciare oracoli che emettere sentenze » . L'esposizione sull'acqua fu, purtroppo, un costume fre­ quente presso i popoli più divèrsi. I racconti leggendari moltiplicano gli esempi, ma anche la realtà storica li cono­ sce bene. Presso questo o quel popolo, il pater familias aveva il diritto e il dovere di chiudere una figlia giudicata indegna di restare ne l nucle o familiare, o il bastardo che non aveva il diritto di entrarvi, in una cassa che poi gettava nelle acque di un fiume o de l mare . La leggenda delle ori­ gini di Roma ha reso cele bre un episodio di questo tipo. Romolo e Remo sono collocati in una ce sta abbandonata alle acque del Tevere e prendono terra, sani e salvi, su un terreno pianeggiante dove la lupa miracolosamente li allat­ terà. Così, strumento della prova o espressione della giusti­ zia patriarcale , l'ordalia, nei racconti degli Antichi, si trova intimamente legata ai temi familiari della vita divinatoria.

LA DIVINAZIONE ISPIRATA IN GRECIA. L'ONIROMANZIA L'oniromanzia di cui si parlava prima era il modo più corrente e più semplice di contatto tra la divinità e l'uomo. Certo, qua e là in Grecia si sono levati dei dubbi sulla vera­ cità del sogno, ma non hanno intaccato le antiche credenze . 19

Nel mondo greco sono apparsi molti santuari in cui la divi­ nità dava il responso oracolare al richiedente mentre que sti dormiva. È quanto accade va nell'oracolo di Anfiarao, a Oropo in Beozia, o in quello di Trofonio, a Lebadeia, altra località be ota. In entrambi i casi, il devoto doveva purificarsi se­ condo riti ben definiti. Ad Oropo, sacrificava un arie te , dormiva dopo essersi avvolto nella pelle dell'animale e ve­ deva in sogno quello che i sacerdoti del tempio interpreta­ vano poi, al risveglio 11• A Lebadeia, dopo una serie di riti sacrificali e purificatori, il devoto doveva scendere in una grotta dove lo aspettavano prove e visioni spe ttacolari. Al termine di un complicato itinerario, veniva afferrato da un vortice che gli face va perde re conoscenza. Nell'iniziazione dionisiaca, una messinscena simile aspettava l'iniziato e gli faceva compiere un cammino dove gli sembrava, come Dio­ niso, di pene trare nel mondo dei morti per poi rinascere alla vita 12• Comunque sia, anche il fedele di Trofonio ri­ prendeva conoscenza dopo la prova e i sacerdoti interpreta­ vano, come avre bbero fatto per un sogno, il racconto che lui face va della sua avventura sotterranea. Q uesto tipo di consultazione oracolare con il rito dell'in­ cubatio ha spesso conse ntito di guarire il malato o, almeno, di indicargli la via da seguire per liberarsi del suo male. La iatromantica ha avuto in Grecia una collocazione di rilievo, e la ve diamo operare con costanza ne l tempio di Esculapio, dio medico, figlio di Apollo. Testi epigrafici e lette rari ci danno sufficienti informazioni circa la grande popolarità de i suoi santuari, il più conosciuto ed importante dei quali era quello di Epidauro. Anche lì il rito della consultazione consisteva in una preparazione accurata con purificazione e preghie re. Poi il malato passava la notte nell'abaton, dormiIl

L. Deubner, De incubatione (1900). Ce que nous apprend Tite·Live sur les mystères de Dionysos, MEFR (1954) p. 79-99.

t2 R.P. Festugière,

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torio interdetto, e vedeva in sogno il dio che gli insegnava una cosa o un'altra da fare oppure, sic et simpliciter, lo gua­ riva miracolosamente. Q uesto genere di guarigioni miracolose trovano riscon­ tro nelle più diverse civiltà. Bisogna tuttavia notare che in Grecia e rano spesso legate ad un contatto tra paziente e dio, contatto ottenuto attraverso riti precisi e purificatori nei santuari oracolari. L'apparizione miracolosa e salvatrice di Esculapio o di altre figure divine o e roiche, che si presen­ tano nella notte al malato dormiente, è servita da tema a molti bassorilievi votivi e qui l'archeologia completa la co­ noscenza dei testi. In un celebre bassorilievo del museo del Pire o, datato intorno al 400 a.C., Esculapio tende la mano sul devoto disteso. L'imposizione delle mani - in questo caso divine , altrimenti re gali - è sufficiente a produrre la desiderata guarigione . Sogno e realtà sono indissolubil­ mente uniti. Numerose sono le iscrizioni, giunte fino a noi, che Pausania aveva già decifrato nell'Asclépeion di Epi­ dauro. Riferiscono di una serie di guarigioni miracolose, as­ solutamente inesplicabili, che, scolpite nella pietra, espri­ mono una fede ingenua nel dio guaritore. Così un cieco ha recupe rato la vista e un altro malato viene istantaneamente liberato dall'affezione di cui soffre. Due notazioni per terminare questo succinto quadro di una realtà religiosa che durò quanto il paganesimo. In Gre­ cia, la devozione della gente, ansiosa di premunirsi contro i mali e le epidemie che i progressi de lla medicina e rano inca­ paci di sradicare, si rivolgeva alle grandi divinità; Apollo, che mandava la peste ma sapeva anche arrestarla, suo figlio Esculapio, gran dio me dico dell'Ellade, poi Serapide, divi­ nità egiziana che si ellenizzò e si affiancò ad Esculapio. Roma accolse queste divinità salvatrici e si sa che nel 293 a.C. 1 3 il culto di Asclepios, divenuto in latino .tEsculapius, e bbe la sua sede latina nell'isola Tiberina, dopo un viaggio 1 3 M. Besmier, L'Ue tibérine dans l'Antiquité, in BEFAR 87 {1902).

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che condusse il dio di Epidauro nell'Urbe, viaggio che fu se­ gnato da prodigi. Come Asclépios nei suoi santuari di Epi­ dauro, di Lebenna, di Cos, Esculapio a Roma operò per se­ coli le sanationes, guarigioni miracolose delle quali qualche iscrizione ha conservato il ricordo. A Roma, in Italia, e in alcune province occidentali del­ l'Impero, quali la Gallia, il fervore popolare si rivolge va, ce rto, a queste divinità, ma anche a numerosissime divinità locali femminili che erano materne, protettrici delle fonti, delle acque e della fecondità. Da cui il gran numero difavis­ sae, fosse votive dove si accumulava una quantità di ex-voto diversi e raramente studiati. Q ueste divinità mate rne , vi­ cine al popolino delle campagne che accanto a loro trovava protezione e conforto, non scomparirono nemmeno quando si estinse il paganesimo. In secondo luogo, le conoscenze mediche dei sacerdoti d'Esculapio si svilupparono col tempo e l'esperienza e, nel periodo e llenistico, la guarigione miracolosa occupava meno posto della rivelazione del dio circa la cura da se­ guire. Un sofista del II secolo d. C. , Elio Aristide, ci descrive le risposte date dal dio a numerosi interrogativi postigli. Erano dei trattamenti che i sacerdod dovevano a loro volta analizzare e specificare 14•

I GRANDI ORACOLI ELLENICI. L' oRACOLO DI DELFI Il contatto tra fede e dio attrave rso l'oniromanzia ha quindi avuto nell'antica Grecia un'importanza che non si è mai smentita. A conside rare il complesso dei grandi oracoli ellenici, alcuni dei quali hanno saputo conservare la loro ce14 A. Boulanger, Aelius Aristide et la sophistique du II siècle de notre ère, in BEFAR 126 (1923).

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lebrità dall'età arcaica fino all'epoca imperiale, si vede che la loro fisionomia varia a seconda dei casi. Q uasi dovunque, le divinità che vi erano onorate rimasero le stesse fin dalle origini e conservarono le caratteristiche iniziali, come Zeus Naios a Dodona, in Epiro. Q ualche volta, invece, evolvono col tempo, come Esculapio, dio oracolare che diventa dio guaritore e medico. Il più celebre degli dei oracolari, cioè Apollo, a Delfi, dove ha il suo tempio più importante, va a sostituire anti­ che divinità, la più importante delle quali era certo la Terra stessa, la prima profetessa, Gaia Protomantis. Apollo, gio­ vane dio olimpio, si insedia nel suo santuario dopo aver uc­ ciso il serpente Pitone ed aver preso in carico il vecchio ora­ colo ctonio 15 • Q uesta presa di possesso e questo trapasso di poteri spiegano perché Apollo, dio celeste, profeta di suo padre Z eus, sappia ispirare la sua sacerdotessa, la Pizia, se­ condo gli Antichi, solo quando questa è penetrata dallo pneuma delfico, soffio ctonio che emana dal chasma gès, fen­ ditura aperta nella terra. Occorre aggiungere che, da un'epoca antica, forse dall'e­ poca micenea, Dioniso fu un grande dio delfico. Era lui, per i tre mesi invernali, a restare sul posto in assenza di A pollo, partito per il paese degli Iperborei, ed a diventare il signore del santuario. Aveva il suo sarcofago nell'adyton e forse, come asseriva una tradizione, gli giungeva una parte dell'« entusiasmo» che si impadroniva della Pizia appol­ laiata sul suo treppiedi. Zeus, il signore dell'O limpo, aveva in epoca classica molti oracoli di primaria importanza, a Dodona, O limpia e Ammone. Q uello di Dodona attira l'attenzione per la sua grande an­ tichità e per l'estensione del suo ruolo 16• Lo amministrava una vera casta sacerdotale, i Sélloi, più tardi detti Hélloi.

15 G. Roux, Delphes, son oracle et sesdieux (Paris 1976} p. 29-59. 16

H. W. Parke, Tbe oracles ofZeus (Oxford 1967).

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L'oracolo era in qualche modo naturale, e si trovava legato alla vita de lla natura ve getale e animale. Una venerabile quercia ospitava nidi di colombi e lo stormire delle dense fronde, unito al cinguettio degli uccelli, era considerato il messaggio del signore degli dei, Zeus Naios, accompagnato dalla dea Dione . I più antichi testi oracolari di Dodona che ci siano perve­ nuti risalgono al VI secolo a.C. Più di 15 0 testi, incisi su ta­ volette di piombo, recano le domande indirizzate dai fedeli al loro dio. Per la maggior parte, sono dell'età ellenistica. Però una sola lamina, oltre alla domanda, porta la risposta dell'oracolo, incisa sul retro, mentre le altre recano pe r la maggior parte, sempre sul retro, diverse indicazioni: l'og­ ge tto della domanda, il nome abbreviato de l fe dele o nomi di numeri. Vi compaiono, come in altre sedi oracolari, con­ sultazioni pubbliche, ma più spesso le domande inte re ssano l'individuo che si rivolge al dio per illuminare il suo de­ stino. Viene da sorridere, leggendo questa domanda posta nel II secolo a.C. da un ce rto Lisania: « Lisania domanda a Zeus Naios e a Dione se il bambino che Annila porta in seno è il suo» .

IL FUNZIONAMENTO DEGLI ORACOLI. PROBLEMI RIGUARDANTI L ' ORACOLO DI APOLLO A DELFI

Che si trattasse di oracoli ispirati da Apollo o meno, la consultazione degli dei obbediva a certe re gole, che senza dubbio vennero elaborate molto anticamente e diedero re­ golarità ed efficacia alla vita divinatoria e llenica. All'inizio, a Delfi, Apollo dava i suoi responsi solo una volta l'anno. Poi le sue consultazioni divennero mensili. Pure alcuni ri­ tengono che i responsi oracolari si interrompesse ro durante i tre mesi invernali in cui abbandonava i suoi fedeli. Le domande pote vano esse re poste da una comunità, da 24

una città, o anche da un solo individuo. Preliminarmente erano richieste severe regole di purificazione . Nessuno po­ teva presentarsi davanti alla divinità senza aver lavato le sue colpe. A Delfi, nei giorni di consultazione, v'e ra grande af­ fluenza. Bisognava incanalare la folla e determinare l'ordine di presentazione. L'applicazione di certe regole facilitava le operazioni. I greci passavano davanti ai Barbari. Primi fra i Greci, naturalmente, gli abitanti di Delfi e i membri della lega Anfizionica. Questi semplici principi dovevano conci­ liarsi con un privilegio, la pro rruintis, che la città di Delfi poteva conferire a tutti coloro che avesser ben meritato da lei, semplici privati o intere città. Era un onore molto ricercato, che, come testimoniano le iscrizioni, inorgogliva chi l'aveva ottenuto. Il funzionamento di qualsiasi oracolo richiedeva un per­ sonale più o meno nume roso. I sacerdoti assegnati ai diversi templi dell'Ellade non potevano da soli far fronte ad un compito vario e molto impegnativo. Era questo il caso di Delfi, in e tà e llenistica. Un colle gio di sacerdoti controllava l'insieme del culto e adempiva ai compiti, che conosciamo grazie a fonti dive rse, in particolare Plutarco, che nel II se­ colo svolse questa funzione. Due gruppi specializzati colla­ boravano con loro: i profeti, assistenti del culto, che però non erano affatto gli intermediari diretti tra gli dei e gli uo­ mini come potrebbe far credere il loro nome, e gli H6sioi, persone di acce rtata purezza che, al tempo di Plutarco, erano in cinque e aiutavano i profeti a sorvegliare i riti pra­ ticati prima e durante le consultazioni della Pizia. Essi pre­ siedevano, accanto ai sacerdoti d'Apollo, ai sacrifici preli­ minari, che solo se riusciti consentivano il normale svolgi­ mento della consultazione. Prima di poter porre qualunque interrogazione all'ora­ colo, il consultante doveva compiere un certo numero di uffici, offerte e sacrifici. A Delfi, l' offerta era originaria­ mente in natura e si chiamava pélanos; successivamente si trasformò in offerta in danaro a tariffa variabile. Si doveva 25

poi sapere se il dio era disposto a rispondere e, per garan­ tirsi i suoi favori, era necessario un sacrificio. La vittima più frequente era una capra, che doveva tre­ mare al contatto con l'acqua fredda delle aspersioni rituali; in assenza di tremito non si poteva procedere alla consulta­ zione del dio. Erano ancora necessari altri doni ed offe rte, e queste molteplici richieste facevano tacciare di rapacità quelli di Delfi. Per non aver rispettato le re gole dell'ordine, il giovane Neottolemo, figlio di Achille , se condo la leg­ genda, sare bbe stato messo a morte dai Delfici nel tempio di Apollo, sull'altare di Estia 17• Accanto a tutti questi dati positivi, rimane un problema, o, meglio, un problema è stato giustamente posto una tren­ tina d'anni fa con la tesi di P. A mandry, La mantique apolli· nienne à Delphes 18 • Come si deve concepire la divinazione praticata a De lfi e ci si può fidare dei diversi testi letterari che riguardano il delirio della profetessa posseduta dal dio che parla a suo nome in modo oscuro e incoerente? Da que­ sto vaticinio gli esegeti del santuario traevano, in forma dotta e versificata, i re sponsi profe tici, i veridici oracoli apollinei. Ecco quanto ci dice Plutarco della Pizia 19 : « La Pi­ zia proviene da una de lle famiglie più oneste e rispettabili de l posto ed ha sempre condotto una vita irreprensibile. Ma, alle vata in casa di poveri contadini, non porta con sé, giungendo al luogo profetico, alcun talento artistico, né co­ nosce nza o capacità. Come la giovane sposa, secondo Seno­ fonte , non deve aver visto né sentito niente fino a quando entra ne lla casa del marito, così l'inesperienza e l'ignoranza della Pizia sono pressoché totali, ed ella si accosta al dio con anima veramente vergine>> . Quando si tratta di prendere contatto con un dio oraco­ lare e di essere in qualche modo penetrate dalla sua pre17 J. Pouilloux, lA mort de Néoptolème à Delphes, in J. Pouilloux e G. Roux, Enigmes à Delphes (1963), p. 102·122. 18 (Paris 1950). 19 Plutarco, De Pyth. orac. 405 C.

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senza, le donne in diverse civiltà si presentano come esseri particolarmente ricettivi e le profetesse, almeno nel mondo greco, occupano un posto privile giato. Pensiamo alle sibille di venerabile antichità e, per l'epoca omerica, alla sfortu­ nata Cassandra, figlia di Priamo amata da Apollo che, furi­ bondo per non essere riuscito a sedurla, le offrì il dono della profezia, ma nel contempo le negò alcun cre dito tra gli uomini. Nell'Agamennone di Eschilo, il delirio profe­ tico di Cassandra è raffigurato come una specie di crisi du­ rante la quale la profetessa soffre profondamente e vede suo malgrado il destino terribile che attende coloro che le sono vicini e lei stessa. Il percorso seguito dalla Pizia, che fin dal mattino si puri­ ficava alla fonte Castalia, e dal suo corteo all'interno del santuario di Apollo, lo conosciamo molto bene. Ella traver­ sava il pr6naos, poi la grande sala della cella. Infine, coi sa­ cerdoti e i devoti, si dirigeva verso la località oracolare, il mantefon, detto anche adyton o chrestérion, dove A pollo avrebbe parlato per bocca sua. Se condo i testi, si trattava di una sala sotterranea piena di oggetti preziosi e mistici come la statua d'oro di A pollo, la tomba di Dioniso, l'omphal6s, il treppie di. A voler credere a certe antiche scritture, il treppiedi era collocato su un'a­ pertura nella terra, un chasma, da cui usciva una sorta di soffio soprannaturale, lo pneuma delfico. La Pizia, istallata sul suo treppiedi, era circondata dai vapori ed e ntrava in una sorta di trance. Dalle sue labbra sfuggivano allora suoni, parole e grida che poi venivano tradotte in oracolo comprensibile dagli esegeti. È più o meno quanto scrive Strabone, geografo greco del I secolo a.C. (IX 3,5 ): « Si dice che il mantefon sia un antro, una profonda cavità con una stretta apertura. Di lì si alza il soffio ispiratore. Sull'aper­ tura è collocato un treppie di sul quale sta la Pizia per rice­ vere il soffio e pronunciare gli oracoli, in versi o in prosa» . Ma le accurate ricerche condotte sul posto sono state de­ ludenti e non hanno rivelato niente di simile . Nel 1943, E. 27

Will scriveva: « Q ue l che apparentemente rende il pro­ blema insolubile è lo stadio attuale dello scavo. Non solo l'ddyton in quanto costruzione, sistemazione architetto­ nica, all'inte rno del na6s, è completamente scomparso (sul posto non resta che un buco aperto), ma invano si cerche­ rebbe il chdsma gès ed in ogni caso non v'è traccia di e sala­ zioni o emanazioni di qualsiasi natura» 20• In queste condizioni, veniva la tentazione di mettere in dubbio il valore del racconto tradizionale sul delirio della Pizia. P. Amandry, parlando dei documenti archeologici e d epigrafici, ha posto l'accento sulla divinazione cleroman­ tica (estrazione a sorte guidata da Apollo e effettuata dalla Pizia) che, ben documentata dai testi, e ra secondo lui un procedimento oracolare costantemente in uso a Delfi. L'e­ strazione aveva luogo con due fave, la fava bianca dava una risposta favorevole, la fava nera una risposta sfavorevole quando il consultante poneva una domanda cui si poteva ri­ spondere con un sì o un no. Talvolta invece si sceglievano tre tavolette recanti questo o quel nome. Ma questa divinazione con le sortes non poteva essere la sola praticata, come testimonia l'insieme della letteratura sull'oracolo di Delfi e la possessione della Pizia da parte del dio; il suo e ntusiasmo, il suo delirio, !ungi dall'essere un'in­ venzione dovuta ad ese geti trascinati dalla fantasia, dev'es­ sere considerato come l'esempio di quella divinazione ispi­ rata che consentiva al dio di parlare per bocca del suo inter­ prete . L'assenza di fenditura, di faglia nell'ddyton, pone qualche problema, ma, come è stato recentemente scritto21: « O gni cavità del suolo e ra per i Greci una porta di comuni­ cazione con l'aldilà. Per questo i santuari con oracoli e rano vicini a crepacci, antri o ad una fonte. L'antro di Delfi non è che un ese mpio tra gli altri antri oracolari e le virtù del 20 E. Will, Sur la nature du pndlma delphique, BCH (1942-1943) 161-175. 21 G. Roux, Delphes cit., p. 154. 28

p.

suo pneuma in se stesse non hanno niente di eccezionale ». Lo stesso autore prosegue: « Il problema a proposito del pneuma delfico è nato il giorno in cui i filosofi de lla tarda Antichità, seguiti dagli studiosi mode rni, hanno trasportato questo fenomeno dall'ambito del soprannaturale che gli è proprio a quello della fisica e della ge ologia che gli è radical­ mente estraneo». Dobbiamo quindi attenerci aJ. Bayet, co­ noscitore senza pari delle realtà religiose antiche, quando studia gli episodi per metà poetici per metà storici relativi alla vita dell'oracolo e quando analizza nella Farsaglia di Lucano la descrizione della morte della giovane Pizia Feni­ moe, che paga con una morte prematura la temibile posses­ sione divina22•

DIVINITÀ PROFETICHE DEL MARE

Accanto ai grandi dei oracolari della Grecia c'è un certo numero di divinità marine profetiche, delle quali il mondo egeo aveva popolato il Me dite rraneo ben prima che Posei­ done, il dio ctonio che fa tremare la terra, fosse diventato, grazie al pote re sismico sottomarino che gli permetteva di sollevare il mare e inghiottire città e campagne, il sovrano incontestato delle distese marine 2 3• Proteo e Nereo, chia­ mati i ve gliardi del mare , erano dei benefattori, che ave­ vano il potere di mutarsi in ogni sorta di animali, di esse ri e di eleme nti, e ave vano anche il dono di predire l'avvenire. Tratti simili si ritrovano presso molti geni dell'acqua cor­ rente, familiari al folclore europeo. Gli dei dei fiumi e gli spiriti delle acque hanno spesso il dono di trasformarsi a loro piacimento e di predire l'avvenire. Una cre de nza si22 J. Bayet, La mort de la Pythie; Lucain, Plutarque et la chronologie delphique, in Mélanges F. Grat I (1949} p. 53-76. 23 Cfr. R. Bloch, Quelques remarques sur Poséidon, Neptune et Ne­ thuns, in CRA/ (aprile-giugno 1981} p. 341-352. 29

mile, largamente diffusa, si ritrova in Grecia, coi miti rela­ tivi ai ve gliardi del mare, i più conosciuti dei quali sono Prote o e Nereo. I loro doni profetici venivano rive lati solo sotto costri­ zione , e questa resistenza dell'indovino che rifiuta di rive­ lare i suoi segre ti a meno di e sse rvi forzato è un tratto fre­ quente, illustrato da molti episodi nati dalle più diverse tra­ dizioni. Tutto accade come se la conoscenza privile giata e rara del futuro dovesse restare appannaggio de gli esseri ai quali apparteneva per dono divino, e come se solo la forza potesse indurii a condividere con certi eroi o semplici mor­ tali la prescienza che era loro propria. Un famoso episodio, mirabile passo dell'Odissea, rimase vivo nella memoria degli Antichi. Nel IV canto dell'Odis­ sea, Mene lao, bloccato nell'isola di Faro dall'assenza di venti favorevoli e disperando di poter proseguire il viaggio di ritorno, tocca il cuore di una ninfa, Eidotea, figlia di Pro­ teo. Ed e cco la proposta che la ninfa fece all'eroe greco (verso 382 e seg-)24: « Si aggira qui il Vecchio ve race del mare, immortale Proteo egizio, il quale del mare sa tutti gli abissi, servo di Pose idone; que sti è mio padre, dicono, e m'ha generata. Se tu, tendendogli insidie, potrai impadro­ nirtene, lui ti dirà il cammino e la durata del viaggio, e il ri­ torno, come potrai navigare sul mare pescoso. Anche ti sa­ prà dire , alunno di Zeus, se tu vuoi, che male e che bene nel tuo palazzo è avvenuto, mentre tu erri lontano in lunga, difficile via». Poi Eidotea istruisce Mene lao circa que llo che deve fare per ottenere le risposte che desidera: « Q uando il sole rag­ giungerà il me zzo del cielo, allora esce dal mare il Vecchio marino ve race , nascosto nel brivido bruno, sotto il soffio di Zefiro, e, uscito, dorme nelle cave spelonche; intorno a lui le foche piedi natanti de lla be lla Figlia del mare dormono strette uscite dal mare schiumoso, l'acuto odore de l mare 24 Trad. Rosa Calzecchi Onesti (Torino 1989). 30

ricco d'abissi e manando. Là conducendoti all'apparire del sole , ti farò stendere in fila; tu scegli beni i compagni, tre , i più forti che hai nelle navi dai buoni scalmi. E ti dirò anche tutte le malizie del Vecchio: prima riconte rà le foche, le passerà in rassegna, e poi quando tutte le avrà numerate e vedute, si stenderà in mezzo a loro come pastore fra greggie di pecore. A ppena dunque l'avrete visto dormire, forza e violenza allora nel cuore e tenetelo fermo benché si dibatta e si slanci a fuggire. Tenterà allora di divenire ogni cosa che in terra si muove, e acqua e fuoco che prodigioso fiammeg­ gia, ma voi tanto più tenete lo fermo e stringe te lo. Q uando infine lui stesso t'interrogherà con parole, con l'aspetto con cui l'avrete visto dormire, lascia allora la forza, libera il Vecchio, o guerriero, e chiedi chi degli dei ti perseguita, chie di il ritorno, come potrai navigare sul mare pescoso» . Tutto si svolge come Eidotea aveva previsto. Ma l'in­ ganno perpe trato contro suo padre comporta anche un tra­ vestimento di Menelao e dei suoi compagni: « Ed ecco lei, che s'immerge ne l vasto seno del mare, e quattro pelli di fo­ che portò fuori dal fondo. Tutte e rano appena scuoiate: al padre così preparava l'inganno. Scavati poi nella sabbia ma­ rina giacigli, sedette aspettando; e noi le arrivammo vicini. Ci fece allora stendere in fila e gettò su ciascuno una pelle. E quello e ra un agguato tremendo, tremendame nte ango­ sciava il puzzo micidiale delle foche marine ; chi potrebbe dormire vicino a un mostro del mare? » . Ma l'ambrosia por­ tata da Eidotea consente ai Greci di superare la prova. Verso mezzogiorno, « A mezzogiorno dal mare uscì il Vec­ chio, trovò le foche grasse, le passò tutte in rassegna e le ri­ contò ; e contò noi per primi fra i mostri, e nel cuore non sospettò inganno; poi si stese anche lui. E noi gridando bal­ zammo e gli gettammo le mani addosso; ma il Vecchio non scordò la sua arte ingannevole , prima di tutto divenne chio­ mato le one, e poi serpente e pantera e immane cinghiale ; li­ quida acqua si fece poi, albero d'alto fogliame: ma noi tene­ vamo forte con cuore costante . Q uando alla fine fu stanco 31

il Vecchio maestro d'astuzie, allora interrogandomi con pa­ role diceva... ». Segue poi l'annuncio del destino di Menelao. Ci si è proposti di ritrovare l'origine di questo sorpren­ dente episodio, che accade nell'isola di Faro, nei racconti egiziani di magia e d'avventura alcuni dei quali ci sono noti attraverso dei papiri del XIII secolo a.C. È in effetti proba­ bile, e racconti analoghi si ritroveranno nei Contes populai­ res de l'Egypte ancienne (pubblicati da Maspero [Paris 1911]). Dal canto suo, la figura di Nereo, anch'egli importante divinità del mare presso i Greci, ha recentemente attirato l'attenzione di molti studiosi. Nel suo libro Maestri di verità nella Grecia arcaica (Mi­ lano 1992), M. Détienne analizza, sulle orme di J.-P. Ver­ nant (REG, 76 [luglio-dicembre 1963], p. XVII-XVIII), la fi­ gura di Nereo sulla base del brano della Teogonia di Esiodo (233-2 37). Nereo è detto apseu dès, incapace di menzogna, che dice la verità, aléthès, e non dimentica la giustizia. Ne­ reo si avvicina cosl alla figura del buon re, maestro di giusti­ zia e rappresenterebbe un modello della sovranità che di­ verse tradizioni mitiche e leggendarie confermerebbero. Dietro di lui, come dietro Minosse, si scopre il personaggio regale dotato di chiaroveggenza. ·

LA DIVINAZIONE INDUTIIVA IN

GRECIA

La divinazione induttiva, basata sull'interpretazione dei presagi e dei prodigi, ebbe, come abbiamo detto, minore importanza della divinazione oracolare nel mondo elle­ nico. Non per questo è trascurabile. Il rapido sviluppo, fin dal VI secolo a.C., del pensiero razionale greco scalfi solo parzialmente le credenze e i timori della gente25• Il mondo 25 Cfr. R. Bloch, Prodigi e divinità cit. 32

rimase quindi popolato di segni, e la letteratura greca è piena di questi segni illusori e dell'interpretazione del loro valore. I fenomeni divinatori erano intimamente legati alla vita quotidiana, e, in Grecia, la loro interpretazione era addi­ data all'iniziativa individuale e gli indovini avevano solo, per insegnamenti ricevuti o esperienze acquisite, cono­ scenze molto superiori a quelle dei comuni mortali. Senza costituire, come in Etruria e successivamente a Roma, col­ legi sacerdotali circondati dal rispetto popolare, venivano consultati negli affari privati e pubblici, dai generali impe­ gnati in operazioni di guerra e dai fondatori di colonie. Gli indovini dell'età eroica, come Melampo, Tiresia, Calcante e qualche altro, si diceva avessero stabilito le regole dell'ese­ gesi e dei segni e che le avessero trasmesse ai loro successori e discepoli. Si sarebbe così formata una sorta di scienza dalle regole definite, applicabili da specialisti. Costoro cer­ carono di limitarsi preferibilmente a questa o quella branca divinatoria, occupandosi vuoi dei prodigi, vuoi dell'inter­ pretazione delle interiora delle vittime, per citare anche qualche esempio; e i loro nomi derivarono dalla loro spe­ cializzazione. Detto questo, aggiungiamo che il ruolo e l'in­ fluenza dell'indovino greco rimasero sempre molto infe­ riori a quelli dell'aruspice etrusco, dell'augure romano, per non parlare poi dell'indovino babilonese. Tutti gli ordini della natura, il mondo inanimato, quello degli animali e quello degli uomini offrivano segni di di­ verso significato. Ma, come gli altri popolì, i Greci hanno privilegiato alcune categorie di segni e, sulla scorta di Bou­ ché-Leclercq, la cui opera conserva ancor oggi molta parte del suo valore, considereremo rapidamente le diverse cate­ gorie di fatti significativi. Il volo e le grida, l'attitudine e il comportamento degli uccelli offrivano molti importanti presagi presso i diversi popoli di origine indo-europea. È accaduto così per i Greci, che ritenevano che alcuni dei avessero come messaggero 33

una particolare specie di uccello, di preferenza uccelli ra­ paci, i più forti e i più rapidi, come l' aquila di Zeus, così spesso presente già in O mero. A pollo si esprimeva attra­ verso l' astore e il corvo, Atena con l' airone, la cornacchia, la taccola e il gabbiano. A Roma, si pensava che solo Giove potesse inviare gli auspici. D' altra parte, alcuni uccelli pos­ sono essere di buon augurio, altri di cattivo. L'arte augurale greca era tuttavia più libera, in un certo senso, di quella de­ gli Etruschi e dei Romani, presso i quali, lo vedremo, gli spazi dell'osservazione e l' orientamento assumevano un ruolo fondamentale. Altri uccelli erano portatori di presagi con la loro apparizione e i loro comportamenti, natural­ mente soprattutto al momento del sacrificio, quando il dio onorato esprimeva la sua accettazione o il suo rifiuto. L'uomo stesso, con le sue parole o il suo atteggiamento, poteva diventare fonte di presagi, e una sua parola pronun­ ciata in una situazione più o meno naturale, portava in sé una buona o temibile indicazione, della quale egli sapeva es­ sere un buon interprete. Si tratta del cledon dei Greci e del­ l'omen dei Romani. Alcuni nomi erano per loro natura di buono o cattivo au­ gurio, da cui la cura che si metteva, da parte degli Antichi, nel moltiplicare i primi ed evitare i secondi. Come la pa­ rola, qualsiasi atto apparentemente del tutto naturale po­ teva essere gravido di significati reconditi. Alete, esiliato da Corinto, domandò un giorno del pane ad un contadino. Questi gli porse una zolla di terra e l' esule vi lesse la cer­ tezza di un prossimo ritorno in patria. I movimenti, le azioni involontarie, il ronzio nell' orecchio e lo sternuto { pensiamo al nostro « Che Dio vi benedica» ) erano ricchi di significato. Q uesta consultazione era largamente utilizzata, e da un semplice sternuto nasceva tutta una serie di presagi, secondo il momento e l' età della persona. Tanto radicata era negli Antichi la convinzione che tutto ciò che sfugge alla nostra volontà abbia una causa soprannaturale. Se ne riparlerà più diffusamente a proposito della « disci34

plina etrusca» dell'esame delle interiora delle vittime, o aru­ spicina. Q uesta tecnica, largamente diffusa nella storia delle civiltà, era conosciuta dai Greci e da essi applicata, perché l'animale offerto agli dei, nel momento del sacrificio è in un certo senso posseduto da essi e trasmette all'uomo, che sa decifrare il suo messaggio, preziosissime indicazioni sull'av­ venire. Tra le viscere delle vittime, è il fegato a fornire i se­ gni più chiari e più importanti. L'aruspice greco era un pre­ zioso collaboratore dei generali durante le operazioni di guerra, che dalla sua risposta attendevano il beneplacito ai loro progetti. Sfortuna a colui che trascurasse il minaccioso presagio di una consultazione nefasta. Gli elementi naturali, il fuoco o l'acqua, il cammino degli astri potevano servire a guidare l'agire dell'uomo. Nella pi­ romanzia, il legame con la divinità era immediato, perché la combustione delle offerte nel fuoco dell'altare si rivelava ricca di significati. Il fumo e le lingue di fuoco che si leva­ vano dall'altare sul quale erano poste le libagioni, e dove si consumavano le carni delle vittime, il crepitio e lo sfrigolio che accompagnava questa combustione venivano osservati con cura, così come tutto quanto riguardava il momento centrale del sacrificio e il suo seguito immediato. L'acqua che serve a lavare le sozzure e le impurità ha avuto anch'essa un ruolo importante nella mantica. Nume­ rosi sono gli oracoli nati presso una fonte e la Pizia si recava alla fonte Castalia per purificarsi prima di prestare la voce all'ispirazione del suo dio. Nella divinazione induttiva l'ac­ qua svolge un ruolo ugualmente importante e l'idromanzia assume aspetti diversi secondo le regioni e i tempi. Eppure il principio dei differenti presagi offerti dalle fonti è co­ stante. Vi si gettavano degli oggetti e il loro comporta­ mento prefigurava l'avvenire, a seconda che sprofondassero subito nell'acqua o galleggiassero un po', si sciogliessero ra­ pidamente o meno, se si trattava di prodotti alimentari. Mescolata all'olio in una bacinella, l'acqua si presta alla lecanomanzia, divinazione fondata sull'osservazione dei ri35

flessi formati in superficie, bolle o immagini che si offri­ vano all' osservatore. Forse una delle mirabili scene dipinte sulle pareti della villa dei Miste ri a Pompei rappresenta la rivelazione del futuro attraverso l'immagine, riflessa nel­ l' acqua di un bacile, di una maschera di Sileno, sospesa so­ pra di esso. Un procedimento simile si basa sull' utilizza­ zione di uno specchio metallico ( catottromanzia) e l' osser­ vazione delle immagini che vi si disegnano. Bisogna osservare che in epoca moderna i veggenti non si comportano diversamente con le sfere di cristallo. A bbiamo già fatto allusione, a proposito dell'oracolo di Delfi, alla divinazione per me zzo delle sortes, alla cleroman­ zia. Si tratta in fondo dell'estrazione a sorte, ese guita in sva­ riati modi, tra oggetti della stessa natura ma leggermente di­ versi. Come molti altri popoli, i Greci pensavano che il movimento provocato dall' uomo e diretto dal caso (kair6s) fosse rivelatore ed esprimesse concretamente la volontà di­ vina. Gli oggetti utilizzati potevano essere sassi, fave bian­ che o nere, bastoncini, frecce, dadi, che davano tutti re­ sponsi positivi o negativi. Potevano venir agitati in un'urna, poi gettati su un tavolo o lanciati in una fonte o una vasca o semplicemente scelti. Così alto era il valore reli­ gioso dell'estrazione a sorte che, secolarizzandosi, è rimasto nel costume. Anche i Latini conoscevano la divinazione con le sortes. Poiché la parola scritta era fonte di presagio, la parola scritta sce lta a caso annunciava il destino. In verità, poteva trattarsi tanto di lettere isolate , che di parole o di frasi. La cleromanzia e ra posta in Grecia sotto la protezione della Tyche, in Italia della Fortuna, l' una e l'altra signore della sorte. Sottoposto ai capricci del mondo, l'uomo si ri­ mette va alla più volubile delle divinità. O vviamente i fenomeni celesti colpivano l'immagina­ zione dei Greci, ma la divinazione metereologica è rimasta molto primitiva presso di loro fino a quando non è stata in­ trodotta in O ccidente l' astrologia di origine orientale. Zeus, signore del tuono e della folgore, esprimeva una vo36

lontà che gli indovini interpretavano senza difficoltà. Gli Etruschi e i Romani diedero ai segni del cielo significati più vari e complessi. Ma in terra greca, dal periodo ellenistico, si fece ampiamente sentire l' influenza dell'astrologia caldea ed egiziana. Le influenze astrali sembravano allora guidare le sorti delle città e il destino degli indovini e, secondo un' i­ dea che il progresso della scienza e il discredito dell'astrolo­ gia non hanno ancora sradicato, la personalità dell' uomo era determinata una volta per tutte, e così il bene e il male che lo aspettavano, dal momento della sua nascita e dal suo oroscopo, punto dello zodiaco che in quel momento si le­ vava sul piano dell' orizzonte.

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Capitolo secondo LA DIVINAZ IONE ETRUSCA

PRESAGI E DESTINO

Spostandoci dalla Grecia all'Etruria, e malgrado la sicura influenza esercitata dalla prima sulla seconda, si penetra in un mondo religioso del tutto diverso, nel quale la divina­ zione occupa un posto essenziale. La religione etrusca è, in effetti, una religione rivelata, codificata e, sembra, mal­ grado la sua lunga esistenza, restia ad ogni modificazione profonda. Ci si può interrogare sulla ragione di un' ossa­ tura così rigida, così opposta alla scioltezza delle credenze greche e romane, e certamente ciò si spiega con l'alta con­ siderazione degli Etruschi nei confronti del sacro e degli dei, attitudine particolare ed originale in O ccidente, della quale si trova un parallelo solo nell'antico vicino Oriente. In Grecia, e successivamente a Roma, è sempre un dia­ logo quello che si istaura tra gli dei e gli uomini. In Etru­ ria, questi tacciono, e paiono ascoltare con timore il mo­ nologo del dio. Il problema va comunque esaminato da vi­ cino. Attraverso lo studio del fulmine, delle interiora delle vittime e dei prodigi, il sacerdote etrusco, l' aruspice, riu­ sciva, grazie alla sua scienza, a decifrare la condizione del mondo e la volontà degli dei. Ma restava allo Stato o agli individui qualche probabilità di sfuggire alla sorte così pre­ figurata nei segni divini? O ppure, invece, il destino che così si era rivelato era ineluttabile e ci si doveva limitare ad attenderlo passivamente rassegnati? Quale fosse la parte di libertà umana, fin dove si estendesse il dominio del Fatum, questo è l' interrogativo che qui ci poniamo a proposito de­ gli Etruschi, e che merita di essere sollevato per tutti i po39

poli 1 • Per rispondere, ci mancano i testi originali etruschi, testi che offrirebbero d'altronde gravi difficoltà d'interpre­ tazione; disponiamo, però, di numerose consultazioni di aruspici nella letteratura romana per un'epoca, è vero, al­ quanto tardiva, ma niente sta ad indicare che la loro dot­ trina si sia profondamente modificata nel tempo. Si tratta delle risposte fornite dai sacerdoti etruschi agli interrogativi posti dalle autorità romane quando prodigi terrificanti ave­ vano spaventato la Città. Due diversi esempi concreti ci permetteranno di capire il loro atteggiamento riguardo ai diversi segni inviati dagli dei. In un discorso pronunciato da Cicerone contro Clodio, nel 56 a.C., intitolato De haruspicum responso, l'oratore ci fa il seguente racconto: nel Lazio si era sentito un brontolio sotterraneo, certamente di origine vulcanica, e a Roma que­ sto fenomeno era stato considerato gravido di minaccia. Il Senato si rivolse quindi agli aruspici, e questa fu la loro ri­ sposta: il prodigio rivelava la collera di un certo numero di dei, Giove, Saturno, Tellus, gli dei celesti. Venivano poi chiaramente indicate le cause di questo corruccio. Si trat­ tava della trascuratezza degli uomini, nel compimento dei riti religiosi, e di recenti empi assassinii. Q uale avvenire ve­ niva prospettato? Naturalmente un avvenire oscuro, come oscuro e sordo era il brontolio giunto dal seno della terra. Si doveva temere la discordia. Pericoli minacciavano i mi­ gliori tra i cittadini e si rischiava di vedere i poteri concen­ trati nelle mani di uno solo, individui indegni aumentare di prestigio, lo Stato indebolirsi ed essere travolto da una rivo­ luzione. Per il passato e il presente, le indicazioni sono quindi pre­ cise e indicano fatti determinati. Gli dei corrucciati sono designati per nome e non bisogna meravigliarsi di trovare t Si ritroveranno qui le riflessioni che ho già presentato in Liberté et determinisme chez /es Etrusques, in Studi in onore di Luisa Banti (Roma 1965) p. 63-58.

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tra loro divinità ctonie. Invece, per il futuro, si parla di pe­ ricoli, non c'è l'annuncio preciso di un qualche fatto inelut­ tabile. Si tratta nella maggior parte dei casi di avvertimenti, come il testo mostra chiaramente. p carattere vago di que­ ste predicazioni non deve stupire. E piuttosto da accostare alla voluta oscurità e all'ambiguità sistematica di tutti gli oracoli e profezie, che hanno tanto minori probabilità di essere smentiti dai fatti quanto più la loro formulazione è generale, vaga e confusa. E contro questi pericoli che si mostrano all'orizzonte forse non si può fare nulla? Certamente no. È vero, il testo di Cicerone non ci dice nulla delle misure espiatorie che gli aruspici consigliano in quell'occasione. Ma in molti altri passi di autori greci e latini queste misure vengono minu­ ziosamente descritte. Gli aruspici erano ritenuti grandi maestri nelle espiazioni. Erano in grado di trovare le ceri­ monie capaci di lavare le lordure, di calmare e pacificare gli dei. Era proprio questo aspetto positivo della loro scienza, lo vedremo più avanti, che li rendeva così graditi allo Stato romano, sempre attento a mantenere l'antica intesa, la pax deum, della città con le divinità. Un altro intervento degli aruspici nella città romana, molto vicino nel tempo a quello che abbiamo appena nar­ rato, dà un'impressione simile. È ancora Cicerone a raccon­ tarcelo2 . Nel 65 a.C., in occasione del consolato di Cotta e Torquato, furono mandati a chiamare degli aruspici dall'E­ truria, in seguito all'apparizione di prodigi particolarmente terrificanti. Gli indovini annunciarono i peggiori disastri ma accompagnarono le loro funeste predizioni con la se­ guente limitazione: nisi dii immortales, Orf!ni ratione pla­ cati, suo nomine prope fata ipsa jlexissent, almenoché non fossero stati placati, a qualsiasi costo, gli dei immortali, la cui intercessione forse avrebbe potuto piegare le decisioni 2 Cic. Cat. III 19. 41

del destino. Così, aggiunge l'oratore, lo Stato romano non trascurò alcuna delle misure capaci di placare gli dei. Si evidenzia qui con chiarezza il procedimento grazie al quale anche un popolo che lo crede onnipotente può ten­ tare di modificare i decreti del destino. Gli dei possono in­ tercedere tra gli uomini e il destino. Perché ciò accada oc­ corre, beninteso, avvalersi di tutte le cerimonie suscettibili di placarli e renderli propizi. Questa è la scappatoia attra­ verso cui l' interpretazione dell'avvenire permette, nello stesso tempo, di renderlo più favorevole. Resta un problema delicato, in ogni caso, quantizzare questa parte di libertà umana nell'Etruria indipendente. In­ fatti i responsi degli aruspici giunti fino a noi si inquadrano nell'ambito della città e delle preoccupazioni dei Romani negli ultimi tempi della repubblica, e gli indovini etruschi sono stati certamente indotti ad adattare, almeno in parte, i loro responsi alle caratteristiche specifiche della divina­ zione romana. Ora questa, più di qualsiasi altra, è imper­ niata sull'efficacia del comportamento umano3• Ed i diversi aspetti della loro procedura religiosa consentivano ai Ro­ mani di restare padroni di sé davanti ai propri dei. Bisogna tener presente questa riserva, e d'altra parte, altri antichi testi offrono, a proposito degli Etruschi, un punto � i vista diverso da quello che abbiamo appena considerato. E il caso del calendario brontoscopico che nel suo trattato dei prodigi ci ha conservato l' autore bizantino Lido. Si tratta della traduzione greca di un testo latino dovuto a Ni­ gidio Figulo, contemporaneo di Cicerone, testo a sua volta tradotto dall'etrusco. Q uesto calendario spiega il significato del tuonare per i diversi giorni dei diversi mesi; un feno­ meno particolarmente frequente in terra vulcanica e molto temuto. O ra, nelle formule impiegate, si esprime una sorta di correlazione necessaria tra il fatto osservato e le conse­ guenze che ne risultano. 3 Cfr. infra p. 73. 42

Q ueste sono indicate, nel futuro, come ineluttabili. Se tuona il 16 novembre, il re correrà un pericolo. Se tuona il 19 agosto, le donne e gli schiavi oseranno commettere cri­ mini. Emerologie e menologie babilonesi contengono que­ sto genere di presagi4• A lcune risposte di aruspici a Roma hanno lo stesso signi­ ficato. Nel 1 52 a.C.5 un terrore panico si impadronisce dei magistrati romani. Una colonna dorata che sosteneva una statua è abbattuta dal fu lmine davanti al tempio di Giove e, secondo gli aruspici, il fenomeno annuncia la morte dei ma­ gistrati e dei sacerdoti di Roma. I magistrati romani si di­ mettono in tutta fretta dalla loro carica. In questa occasione il destino pare implacabile ed ineludibili i suoi colpi. Si deve perciò rendere meno definitiva la visione dell' ine­ luttabilità del destino, espressa con un determinato presa­ gio. Talvolta, ma solo talvolta, gli dei, intercedendo, sem­ brano poter modificare il Fatum. Inoltre, in certi casi, esiste la possibilità di agire sul segno divinatorio operando, in qualche modo, il suo trasferi­ mento e cambiando il suo campo di applicazione. Alcuni testi, di grande chiarezza, ci mostrano qualche esempio di queste pratiche magiche, assai semplici e utilizzate presso gli Etruschi per scopi nazionali. Mentre Tarquinia il Su­ perbo faceva scavare le fondamenta del tempio di Giove Capitolino, venne alla luce una testa d'uomo dai lineamenti intatti, ed ecco il racconto che Dionigi d' Alicarnasso ci fa di quest'apparizione miracolosa 6• Fu inviata una missione in Etruria per consultare un aru­ spice di grande reputazione. Q uesti tentò allora di trasferire sul proprio paese il presagio di grandezza che tale segno im4 Ciò è stato giustamente rilevato da A. Piganiol nel suo articolo Sur le calendrier brontoscopique di Nigidius Figulus, in Studies in ro· man, economie and social history in honour ofA llan Chester {Princeton 1951) p. 79 e seg. 5 Obsequens 18. 6 Dion. d'Al. IV 59-6 1.

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plicava: perché, con un trasparente simbolismo, la testa sco­ perta mostrava che il luogo dove era stata scoperta sarebbe stato alla guida del mondo. L'aruspice consultato tracciò, in una località che non viene precisata, ma che è diversa da Roma e sicuramente in Toscana, linee curve e linee rette, che determinavano set­ tori orientati, rappresentanti le diverse parti del Campido­ glio ma nello stesso tempo raffiguranti, nelle intenzioni del­ l'aruspice, le diverse regioni del proprio paese. Indicando ogni settore così tracciato col bastone do­ mandò ai Romani: la testa è stata trovata qui o lì? Se i Ro­ mani avessero risposto positivamente ad una qualsiasi di queste domande insidiose, l'aruspice si sarebbe impadro­ nito del presagio, proclamando che la regione che sarebbe diventata signora del mondo era quella che, pur indicata dai Romani, rappresentava di fatto una parte della Toscana. Ma questi ultimi, avvertiti dell'inganno dai figli dell'aru­ spice, si guardarono bene dal rispondere altro che: la testa è stata trovata sul Campidoglio. Sconfitto, l'indovino rinun­ ciò, scrive Dionigi d'Alicarnasso, ad impadronirsi del presa­ gio. Comprendendo che non poteva cambiare un avvenire necessario, disse ai Romani di andare e annunciare ai loro concittadini che, per volere del Fatum, la loro città sarebbe stata a capo di tutta l'Italia. Così il tentativo fallì perché la fortuna di Roma e la scomparsa dell'Etruria erano scritte nei libri del destino e la scienza degli aruspici, vinta dalla fortuna e dalla tenacia ro­ mana, non era riuscita a piegarlo. In altre circostanze il ten­ tativo sarebbe potuto riuscire. È un tratto comune a molte civiltà la possibilità di trasferire su un altro individuo, un'altra città, questo o quel presagio. Anche per i popoli più religiosi o, per meglio dire, più fatalisti, il Destino con­ serva un carattere ambiguo prima che l'uomo non l'abbia in un certo senso reso autentico e nello stesso tempo reso ineluttabile il cammino degli eventi con la sua parola. La modalità del transfert, o piuttosto del tentativo di 44

transfert considerato, merita un esame. Essa si fonda sul principio di orientamento. L'aruspice ha disegnato sul ter­ reno come un mondo in scala ridotta e, con domande abili, ha tentato di far passare su una parte determinata del mondo - la sua patria - il segno che inizialmente riguardava il punto dell'universo in cui era apparso. Questo concorda perfettamente con uno degli aspetti fondamentali del pen­ siero religioso etrusco. Nello spirito degli Etruschi, le di­ verse parti del mondo, terra, cielo e inferni, erano unite tra loro da corrispondenze sottili ovvero da rapporti segreti. Queste corrispondenze si fondavano sul principio dell'o­ rientamento. Come attesta, lo vedremo più avanti, il fegato di Piacenza, il fegato della vittima al momento del sacrificio era come lo specchio del mondo, e gli dei vi avevano la loro sede in punti corrispondenti alle loro dimore negli spazi ce­ lesti. Rigorosi principi d'orientamento informavano, ugual­ mente, la costruzione dei templi e delle città. Non v'è niente di stupefacente quindi se un'idea-forza della civiltà etrusca serviva da fondamento a tecniche divinatorie che miravano a impadronirsi dei presagi. Q ueste sono le conclusioni a cui conduce questa ricerca. In Etruria, il destino appare inflessibile e il presagio determi­ nante. Ma l'indovino può, con la scienza del rito, indurre gli dei a piegare il Fatum. Può anche, giocando sui principi fon­ damentali della sua disciplina, tentare di appropriarsi del presagio di cui spesso è il solo a penetrare il segreto. Ve­ dremo più avanti che può anche arrogarsi il potere di creare lui stesso, per magia, fenomeni temuti. Nelle religioni più costrittive l'indovino si rivela anche mago e taumaturgo.

I TRE AMBITI DELLA DIVINAZIONE ETRUSCA Un insieme di libri sacri, di redazione tardiva ma certa­ mente di antica origine, conteneva insegnamenti che erano stati donati da esseri ispirati, un bel giorno miracolosamente 45

apparsi in Toscana. Ogni religione rivelata presuppone l'e­ sistenza di uno o più profeti. Il genio Tagete, la ninfa Begoé si diceva fossero gli autori di questa rivelazione fondamentale. L'estrema importanza della divinazione in Etruria nasce dalla struttura stessa di questi libri. Un primo gruppo trattava, in effetti, dell'esame e dello studio delle viscere delle vittime, gli exta. Questa tecnica diede il nome ai sacerdoti specializzati in quest'arte, gli aruspici 7 • Un secondo gruppo riguardava i fulmini, la loro origine, il loro valore, la loro espiazione. Un terzo, in­ fine, riuniva i precetti più diversi circa la vita degli indivi­ dui e degli Stati. E neanche la divinazione era assente per­ ché vi si trovavano gli ostentaria, relativi ai fenomeni rari e significativi, i prodigi o ostenta. Appare così l'importanza capitale dell'arte divinatoria nella vita religiosa degli Etruschi. Le diverse dottrine rela­ tive alle viscere della vittima, ai fulmini e ai prodigi permet­ tono di determinare in ogni momento la volontà degli dei, di conoscere le cerimonie cui adempiere in ogni momento della vita, infine, di sapere quale avvenire prossimo o lon­ tano fosse riservato all'Etruria e al suo popolo. Non sembra che sia esistita una dottrina unitaria in me­ rito agli esseri profetici che insegnano agli Etruschi le re­ gole della religione e delle tecniche divinatorie. Le storie leggendarie di queste antichissime rivelazioni cambiano a seconda delle città. Tagete, miracolosamente comparso nella terra di Tarquinia, era comunque ritenuto il più im­ portante di questi messaggeri degli dei. Uscito da un solco tracciato in profondità dall'aratro di un contadino di Tar­ quinia, Tagete aveva la corporatura e l'aspetto di un giovi­ netto, ma possedeva tutti i segreti della saggezza divina. La gente accorse ad ascoltare le sue parole e a tramandarle per 7 La parola latina ham spex sembra racchiudere un elemento d'ori­ gine etrusca ham·. La parola è sinonimo di extispex, che pure si adat­ tava a coloro che ispezionavano le viscere delle vittime per scoprire l'avvenire. 46

iscritto, perché ognuno capì che per bocca sua parlava un dio. I segreti dell'aruspicina, dell'interpretazione dei ful­ mini e dei brontolii del tuono furono così condivisi dagli uomini. In particolare, essi gli dovevano la conoscenza del calendario brontoscopico, che Nigidio Figulo, un contem­ poraneo di Cicerone, tradusse in latino 8 • La popolarità dei libri tagetici, libri sacri attribuiti a queste rivelazioni, non cessò con la scomparsa dell'indipendenza dell'Etruria. I Ro­ mani attribuirono a loro volta molto valore alla loro let­ tura e alla loro esegesi, e i filosofi, sotto l'Impero, pensa­ rono di trovarvi le armi per contrastare la crescita del cri­ stianesimo. Tutto ciò ci induce a rimpiangere ancor di più la loro scomparsa. A Chiusi, l'antica Clusium, una ninfa chiamata Vegoia si era rivolta ad Arunnio Veltunnio, del quale conosceva la saggezza, per comunicargli le decisioni di Giove e della Giustizia, cioè di Tinia e di una divinità che simbolizzava in Etruria la nozione di equità, della quale però nulla sap­ piamo. È ancora un contemporaneo di Cicerone, Tarqui­ zico Prisco ( Tarquitius Priscus), che tradusse in latino i libri vegoici; questi furono piamente conservati, insieme ai libri sibillini, nel tempio di Apollo Palatino. Ce ne è giunto un frammento. Il loro insegnamento non riguardava la divina­ zione, bensì le regole del diritto agrario in Etruria. I cippi che segnavano le proprietà avevano carattere sacro e chi avesse osato spostarli sarebbe incorso nella collera degli dei; indubbiamente tali principi risalivano molto indietro nel tempo e segnalavano l'attaccamento degli Etruschi all'in­ violabilità della proprietà. Pure è stato proposto di attri­ buire la redazione del frammento pervenutoci ad un'età tardiva, forse all'epoca in cui le riforme dei Gracchi mette­ vano in pericolo l'integrità della proprietà fondiaria. Forse si deve risalire più indietro e collegare le profezie e le mi­ nacce di Vegoia ai moti che, intorno al 280 a.C., turbarono 8 Cfr. supra p. 42. 47

Volsini, la città considerata la più ricca dell'Etruria, poco prima della sua conquista da parte dei Romani. In ogni caso, si noterà che in queste fosche predizioni, lo sposta­ mento dei confini che limitano le proprietà e la rottura della pace economica e sociale saranno seguiti da innumere­ voli sventure, specialmente dai prodigi più temuti, lo scate­ narsi degli elementi e i cataclismi 9 •

L'ESTISPICINA Lo studio delle viscere delle vittime da parte degli aru­ spici è stato oggetto di numerosi studi dedicati a questa di­ sciplina, che ha reso famosi i sacerdoti toscani ed è stata da loro portata ad un alto livello di perfezione. Testi Greci, etruschi e romani e documenti illustrati di origine diversa ci danno sufficienti informazioni su questa importantis­ sima parte della scienza divinatoria etrusca. La consacrazione di una vittima alla divinità, il sacrificio, costituisce un momento privilegiato nella vita religiosa dei diversi popoli. In questo momento, il dio che così si vede onorato esprime chiaramente la sua disposizione nei con­ fronti del fedele attraverso lo stesso comportamento della vittima che va all'altare e poi vi riceve il colpo mortale, col crepitÌo delle sue carni sul braciere, il colore della fiamma, la rapidità con cui il fumo sale al cielo. Ma le parti interne dell'animale, le sue viscere, offrivano all'osservazione dei sacerdoti informazioni ancor più specifiche e precise. L'e­ stispicina aveva il compito di raccogliere metodicamente e interpretare questi dati preziosi e l'arte dell'aruspice etru-

9 Per lo sviluppo di queste due ipotesi si farà riferimento agli arti­ coli di J. Heurgon, Tarquinius Priscus et l'organisation de l'ordre des ha­ ruspices sous l'empereur Claude, in Latomus 12 ( 1953) p. 302 seg., e di R. Turcan, Encore la prophétie de Végoia, in Mélanges f. Heurgon (Paris 1976) p. 1009 seg. 48

sco era, sotto questo aspetto, altrettanto avanzata di quanto lo era stata, nel secondo millennio a.C., quella del baru, del sacerdote babilonese, i cui complicati e assurdi se­ greti sono stati completamente chiariti solo da una tren­ tina d'anni. L'aruspice, come il sacerdote di Babilonia, aveva messo a punto una vera e propria scienza, ovviamente scienza del falso, ma, come hanno fatto notare gli specialisti nella divi­ nazione del Vicino Oriente, dotata di criteri precisi nel­ l' osservazione, caratteristici di qualsiasi ricerca scientifica. In ogni caso, era indispensabile un linguaggio tecnico, perché la lingua d'uso corrente poteva offrire solo termini generici, incapaci di tradurre la complessità di un'osserva­ zione minuziosa. Facendo ricorso alla denominazione di oggetti o esseri ben conosciuti, il sacerdote babilonese si serviva di parole d'uso comune per indicare questa o quella parte delle viscere. Queste creazioni verbali sono state de­ cifrate in questi ultimi anni dagli specialisti della scrittura cuneiforme babilonese. Oltre a simili mezzi comuni a tutti i linguaggi specializzati, l'aruspice babilonese usava larga­ mente vocabolari che possiamo rispettivamente chiamare topografico e funzionale. Il primo, in un certo senso, assi­ milava il fegato della vittima, e in via accessoria i polmoni, a una pianta di città, alle strade, alle porte, ai palazzi o an­ che ai parchi. Deriva questo uso da una concezione del mi­ crocosmo? Gli orientamenti sono prudenti e si limitano a constatare che i Mesopotamici tendevano a considerare il mondo come un incastro di strutture parallele. Il vocabola­ rio degli aruspici sembra testimoniarlo. Quanto al vocabolario funzionale, consisteva nel desi­ gnare certe parti del fegato o dei polmoni con termini astratti col valore di presagi, per esempio « presenza di­ vina », o anche « acquietamento », o ancora « buona pa­ rola », « Sconfitta del nemico ». Qui il presagio serve ad in­ dicare una parte specifica delle viscere e la funzione nomi­ nale diventa un termine tecnico. Vi è denominazione per 49

trasferimento, in cui ogni parte del fegato fornisce una classe particolare di presagi. Ma ci troviamo in una situazione ben diversa per quanto riguarda la lingua dell'aruspice etrusco, perché questa rimane in gran parte sconosciuta, e per la scarsità degli scritti etruschi pervenutici e per le difficoltà incon­ trate dal linguista nell'ermeneutica etrusca. Detto questo, sappiamo bene però che, come l'indo­ vino babilonese, l'aruspice deduceva ogni osservazione da un certo presagio. « Se si constatava un tale fatto (forma, colore, presenza o assenza di una tal parte delle viscere), si sarebbe prodotto un certo evento ». Così prediceva l'in­ dovino, sicuro della sua scienza e del suo potere. Molti dati concreti giunti fino a noi ci consentono di seguire l'attività aruspicinale nel Vicino Oriente. In Etru­ ria simili dati sono trascurabili. Certo niente di simile ai numerosi fegati di terracotta, con la menzione dei presagi relativi alle loro caratteristiche, modelli che sono stati trovati in Mesopotamia dopo il secondo millennio, ed anche in Anatolia (a Boghaz-Keui) e in Siria, per esempio ad Ugarit. Questi interessantissimi reperti sono piccoli oggetti d'argilla, normalmente a tutto tondo, che rappre­ sentano schematicamente gli organi del montone sacri­ ficato. Il fegato, i polmoni, il colon avevano tutti un signifi­ cato per l'indovino. Simili modelli, raramente anepigra­ fici, recavano una o più iscrizioni, che analizzavano l'a­ nomalia segnalata plasticamente e menzionavano il presa­ gio che se ne traeva. Gli specialisti distinguono i modelli d'archivio, che commemoravano oracoli importanti o certi presagi storici, e modelli di scuola, che avevano lo scopo di istruire gli allievi sul valore preciso di termini sconosciuti al profano. Anche i medici contemporanei conoscono e usano a fini didattici modelli anatomici che rappresentano la struttura complessa di organi diversi. Il mondo etrusco ci ha lasciato pochissimi documenti 50

simili. Ma è pur vero, come vedremo, che uno di loro è di capitale importanza. Un fegato di terracotta che ha giustamente attirato l'at­ tenzione degli assirologi come degli specialisti dell'Etruria è stato trovato a Faleria ed è conservato nel museo romano di Villa Giulia. Non reca alcuna iscrizione, e sul lobo sinistro presenta un leggero solco che, sui modelli babilonesi, indica e materializza la presenza del dio. Quando questo segno non compariva il dio era assente 10• Ma l'oggetto più importante sul quale non si è ancora fi­ nito di discutere è stato trovato nel 1877, durante un lavoro di aratura, sette chilometri a sud della città di Piacenza. Si tratta di un modello in bronzo massiccio, che rappresenta un fegato di montone, e pesa 635 grammi. Nel 1 880, un noto erudito, W. Deecke, ne ha dato pubblicamente notizia per la prima volta 1 1 • Da allora si sono susseguiti numerosi studi, l'ultimo in ordine di tempo, del resto molto interes­ sante, è quello di V an der Meer, che verte sui principi d'o­ rientamento sui quali si fondava l'aruspicina etrusca 12• La faccia convessa del fegato di Piacenza - così chiamato dal nome della località in cui è stato scoperto, ma certa­ mente proveniente da una città propriamente etrusca è di­ visa in due. I due lobi sono separati l'uno dall'altro dal su· spensorium hepaticum e recano rispettivamente il nome, vi­ cino a quella che viene chiamata porta hepatica, del sole {Usil) e della luna (Tiur). L'altra faccia è piatta e divisa in un gran numero di pic­ cole caselle che formano le figure che si vedono sulla fig. 1 . -

IO Cfr. J. Nouga rol, Les rapports des haruspicines étrusque et assyro· y babylonienne et le joie d'argile de Falerii Veteres (Villa Giulia 3786), in CRA/ ( 1955) p. 509 e seg. Il W. Deecke, Das Templum von Piacenza, Etruskische Forschungen (1880). 12 L.B. Van der Meer, lecur placentinum and the orientation of the etruscan haruspex, in Babesch, Annua! Papers on classica! Archaeology 54 (1979) p. 49-54.

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In queste caselle si leggono quarantadue iscrizioni col nome di ventisette divinità. Il contorno forma un nastro compo­ sto da sedici caselle successive. Su questo stesso lato si trova la rappresentazione della cistifellea e le due escrescenze chiamate processus papillaris e processus pyramidalis. No­ tiamo che nel ventre del montone la parte convessa del fe­ gato è collocata verso l'alto, la parte concava verso il basso. Per ragioni di concisione ci limitiamo ad indicare i pro­ blemi essenziali sollevati da quest'oggetto, in verità unico nella nostra documentazione. Esso si distingue da tutti i modelli conosciuti nei diversi paesi e nelle varie epoche. Qual' è la sua data e il suo luogo d'origine? Il fegato di Pia­ cenza è stato per molto tempo attribuito al III secolo a.C. In ogni caso è di età ellenistica, come è provato dalla grafia delle iscrizioni che reca. Secondo l'ipotesi di P. Ducati, sa­ rebbe stato perduto da un aruspice nel corso della battaglia della Trebbia, che vide contrapporsi Annibale e i Romani nel 2 1 8 a.C. Ma più recentemente J acques Heurgon, per la forma par­ ticolare che ha la lettera m, ha proposto di collocare l' og­ getto in un'epoca più recente. Proverrebbe dalla regione di Chiusi e di Cortona {dove la stessa forma di m è attestata in età tarda) e daterebbe intorno al 150 a.C. 1 3 • Ma potrebbe es­ sere di data ancor più recente {I secolo a.C.). La divisione in sedici parti della fascia esterna del modello di Piacenza corrisponde alle divisione del cielo in altret­ tante regioni, divisione che si ritrova nella dottrina aruspi­ cinale dei fulmini 1 4 • Quello che arricchisce e complica la questione è che un tardo autore latino, del V secolo d.C., Martianus Capella, sembra perpetuare il ricordo di questa divisione degli dei familiare alla scienza aruspicina e folgo­ rale degli Etruschi. In un trattato intitolato De nuptiis Phi·

1 3 Jacques Heurgon, Note sur la lettre A dans les inscriptions étru· sques, in Studi in onore di Luisa Banti ci t . , p. 183 e seg. 1 4 Cfr. infra, p. 58. 52

Fig.

l.

Il fegato di Piacenza.

lologiae et Mercuri, Martianus Capella immagina che Giove inviti gli dei a riunirsi per celebrare le nozze di Mercurio e della Filologia. Anche qui gli dei sono divisi in sedici di­ stinte regioni del cielo dalle quali Giove li convoca per la riunione in programma 15• Il rapporto tra il testo e le iscrit5 Studi accurati sui rapporti tra la parte scritta e il fegato di Pia­ cenza ed anche sulla teoria delle folgori sono stati compiuti da C.O. Thulin, in Die Gemer des Martianus Cape/la und der Bronzleber von

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zioni del bronzo è garantito da vari parallelismi; nei due casi si trovano sedici compartimenti divini e, inoltre, Giove appare in tre riprese; infine, certi rapporti tra gli dei del cielo nell'uno e nell'altro documento sono espliciti. Ugual­ mente le divisioni del cielo si ritrovano in quelle del fegato e questo è un elemento proprio del pensiero divinatorio etrusco. Questo pensiero nel suo insieme è guidato dalla teoria del tempio che si ritroverà viva nel pensiero religioso romano. Lo spazio, quale che sia, in cui compaiono i segni divini deve essere preventivamente diviso in compartimenti di­ stinti. Questo spazio divino è il tempio. Gli aruspici, come più tardi gli auguri romani, dividono lo spazio visibile in quattro parti o quadranti, poi il loro tempio si complica e, in Etruria, assume una configurazione a sedici caselle. Qui la nozione di orientamento è capitale e si ritrova a tutti i li­ velli delle tecniche divinatorie aruspicinali, poi augurali, come attestano diversi testi latini. Il tracciato del tempio in origine è molto semplice. L'aruspice traccia due linee per­ pendicolari l'una all'altra, una secondo l'asse nord-sud, l'al­ tra secondo l'asse est-ovest, assi chiamati dai Romani rispet­ tivamente cardo e decumanus. Queste linee si intersecavano naturalmente nel punto in cui si poneva l'osservatore 1 6 • Per quanto riguarda l' estispicina, non è facile determi­ nare la posizione che assumeva l'aruspice quando teneva il fegato in mano. M. Pallottino, in uno studio intitolato Deo­ rum sedes 1 7, pensa che l'aruspice fosse rivolto a nord, nord­ ovest, stando rivolto così verso il frontale del tempio, sePiacenza, in Religiongeschichtliche Versuche und Vorarbeiten m l (Gie­ szen 1906). Cfr. anche Stefan Weinstock, Martianus Cape/la and the co· smic system ofthe Etruscans, ]RS 36 (1946) p. 101-129. 16 Cfr. H. Bouché-Leclerq, an. Haruspice nel Dictionnaire des anti­ quités grecques et romaines de Daremberg, Saglio e Pottier. 17 M. Pallottino, Deorum sedes, in Studi in onore di A. Calderini e R. Paribeni m (Milano 1956) p. 232 e seg. - Saggi di A ntichità m (Roma 1979) p. 779.

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Fig. 2. Calcante mentre esamina il fegato di una vittima.

condo lui normalmente orientato in direzione sud-est. Molto recentemente è stato proposto un orientamento diverso, in seguito ad una nuova analisi dell'orientamento dei templi etruschi portati finora alla luce dallo studio in­ tenso delle fonti scritte e dei documenti figurativi 1 8 • Limitiamoci qui a riprodurre e analizzare succinta­ mente due specchi etruschi di alta qualità e grande inte­ resse che illustrano entrambi una scena di aruspicina. Il più antico dei due risale al 400 a.C. circa, è originario di 18

L.B. Van der Meer, art. cit.

p.

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53.

Vulci e si trova al Museo etrusco gregonano del Vati­ cano 19 • L'indovino Calcante (il cui nome è scritto da sinistra a de­ stra) ha un fegato nella mano sinistra. Ha le ali. La gamba sinistra piegata, si appoggia ad un masso; su di una lastra collocata davanti a lui sono poggiate altre parti di viscere. L'aruspice etrusco le cui ali dovevano simboleggiare la rapi­ dità dello spirito, riceve qui il nome di uno dei più illustri indovini greci dell'età eroica. Un altro specchio in bronzo inciso proveniente da Tuscania, che si trova al Museo ar­ cheologico di Firenze e risale più o meno al 300 a.C. 20 , rap­ presenta, in una scena complessa, un aruspice chiamato con un nome etrusco, Pavatarchies, che, come Calcante, con­ sulta un fegato, la gamba sinistra poggiata ad una pietra. Al di sopra della spalla sinistra di Pavatarchies si vede il sole. In evidenza, una figura femminile, certamente l'Aurora, guida un tiro di quattro cavalli. Cosa significa che il sole si levi sulla scena? Se ne discute ancora. Pavatarchies è circon­ dato da quattro personaggi i cui nomi figurano sulla cor­ nice dello specchio. Segnaliamo solo un uomo barbuto che a destra, nudo, si chiama Veltuno, cioè il dio Voltunno, Vertumnus in latino. Il penultimo personaggio a sinistra è certamente, secondo la fine dell'iscrizione che lo designa, Tarchunus, cioè Tarchon. In basso, un giovane genio alato sembra reggere con le braccia l'intera scena. Molti pro­ blemi, e di grande interesse, vengono posti da questa scena complessa. Ma quello che qui ci interessa è l'operazione che compie Pavatarchies, che suscita l'interesse dei suoi vicini. Con un copricapo circolare, sormontato da un elemento ci­ lindrico che si ritrova su altri documenti figurati che rap­ presentano gli aruspici, regge nelle mani un fegato di mon­ tone. Con l'indice e il medio della mano destra, palpa il pro-

19 E. Gerhard, Etruskische Spiegel II 223, figura 2. 2 0 M. Pallottino, Uno specchio di Tuscania e la leggenda etrusca di

Tarchon, Rend. Accad. Lincei, S. VI, fase. 3-4 (1930) p. 49-87 - Saggi di Antichità II ( 1979) p. 679-709; figura 3 .

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cessus pyramidalis mentre i due lobi dell'organo sono pen­ denti. Si distinguono agevolmente tutte le parti del fegato che gli aruspici avevano il compito di esaminare. Deve trat­ tarsi di un episodio importante della tradizione leggendaria etrusca perché l'aruspice opera in presenza di dei e dell'eroe Tarchon, mitico fondatore di Tarquinia, che ricevè i segreti

Fig. 3. Scena di aruspicina.

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della saggezza dal genio Tagete. E forse l'aruspice di questa scena non è altri che Tagete stesso.

LA SCIENZA DEI FULMINI

La scienza dei fulmini 2 1, della loro osservazione, della loro esegesi, della loro espiazione in Etruria è altrettanto avanzata e celebre dell'epatoscopia. « La cheraunoscopia de­ gli Etruschi, scrive Diodoro, è stimata in quasi tutto il mondo ,. 22 • Questa forma della divinazione toscana, che oc­ cupa buona parte dei libri sacri etruschi, ha tanto colpito gli Antichi che questi ci hanno lasciato numerose testimo­ nianze che la riguardano. Plinio il Vecchio e Seneca ci of­ frono dati preziosi su questo argomento 23 • Secondù Seneca, la posizione degli Etruschi al riguardo è originale: « Ecco dove non siamo d'accordo con i Toscani, espertissimi nel­ l'interpretazione del fulmini. Secondo noi, il fulmine esplode perché v'è collisione tra le nuvole. Secondo loro, la collisione ha luogo solo perché produca l'esplosione. Poi­ ché riferiscono tutto alla divinità, essi sono convinti non che i fulmini annuncino l'avvenire perché sono esplosi, ma che esplodono per annunciarlo ». Molti studiosi hanno esaminato questo aspetto fonda­ mentale della « disciplina etrusca » e hanno puntualizzato molti suoi lati con misura e prudenza 24 . Si noterà che la di­ vinazione babilonese, che accorda all'estispicina, come ab2 1 In greco, keraun6s indica la folgore, come sottolinea P. Chan­ traine nel suo Dictionaire étymologique, s. v., Asteropé il lampo e bronte il tuono. 22 Diod. V 40 2. 23 Plinio, NH , II 137-148; Seneca, Qaest. nat. II 32-50. 24 Citiamo solo l'opuscolo, eccellente malgrado la data, di C.O. Thulin, Die etruskische Disciplin I Die Blitzlehre {Goteborg 1906), e lo studio più recente di Stefan Weinstock, Libri Fulgurales, in Papers of the British School at Rome, 19 [new ser. IV] {1951) p. 122 e seg. 58

biamo visto, un interesse almeno eguale a quello degli Etru­ schi, è molto meno preoccupata del valore del fulmine o, perlomeno, integra questo fenomeno nell'insieme dei fatti celesti e nella sua astrologia. In questo campo la posizione toscana è particolare, ed è molto difficile non metterla in rapporto con la frequenza e la violenza dei temporali in questa regione vulcanica e, quindi, con la costante inquietu­ dine che la caduta del fulmine suscitava nell'uomo. Nove persone divine avevano il diritto e il potere di usare quell'arma brutale che è il fulmine. Ma solo Giove (o piut­ tosto il suo omologo etrusco Tinia) disponeva di tre manu­ biae, tre possibilità di lanciare il fulmine 25 • I Romani invece riconobbero solo due dei folgoranti, Giove e Summano, i cui fulmini non si distinguevano per il luogo di provenienza, ma perché apparivano rispettiva­ mente di giorno (fulgur dium) o di notte (fulgur summanum). Ciò detto: presso gli Etruschi, Tinia-Giove era conside­ rato il dio folgorante per eccellenza, per quanto noi cono­ sciamo male le regioni celesti che erano sotto l'autorità di altri dei e il loro tipo di folgore. Anche sul fegato di Pia­ cenza Tinia appare tre volte. Era un fulmine che il dio po­ teva lanciare da ogni parte del cielo, senza consultare nessu­ n'altra potenza, era un fulmine benigno che si limitava ad avvertire e a consigliare praesagum o consiliarum fulmen 26 o anche placatae manubiae. Lo si riconosce dall'esilità della fiamma,Jlammae tenuitas. Aristotele, nella sua opera Meteo­ rologica III , I 9, usa in questo caso la parola leptotès. Il secondo fulmine di Giove è quello lanciato su consiglio dei dodici dei consentes (o anche complices o, ancora, consi­ liarit). Più potente del primo, è seguito dal rombo possente 25 Plinio, Hits. nat. II 138: « lovem enim tria iaculari». Manubiae si­ gnifica ciò che si tiene in mano, cioè, per gli dei folgoranti, la folgore. 26 Seneca, Qaest. nat. II 39: " Consiliarum cum aliquid in animo versantibus aut suadetur fulminis ictu aut dissuadetur. ·

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del tuono e terrorizza gli uomini, quo terror incutitur27• Ep­ pure, qualche volta, il pericolo che annuncia può dissol­ versi. Il terzo, che Giove lancia solo d'accordo con un mi­ sterioso consiglio degli dei superiores et inuoluti è il fuoco devastante (genus quod urit) che sconvolge la vita dell'indi­ viduo e quella dello Stato. Quando uccide, è chiamato ful­ men peremptorium. Non si conosceva né il nome né il nu­ mero di questi dei superiores, misteriosi quanto il destino stesso. La teologia che ci è tramandata solo dai testi tardo­ latini è tutta impregnata di dati astrologici, ricorrenti nel mondo ellenistico. Al di là di Giove-Tinia, le informazioni sugli dei etruschi cha lanciano il fulmine sono scarse. Giunone e Minerva (che con Giove formavano la triade capitolina, onorata dopo i Tarquini sul Campidoglio) avevano questo potere. Lo attestano molti testi che, per esempio, citano le manu­ biae minervales. E si devono anche menzionare gli omolo­ ghi etruschi di Vulcano, Marte, Saturno, Summano ed Ercole. Le rappresentazioni del fulmine sono frequenti nell'arte etrusca come, certamente, nell'arte greca 28 e sono state stu­ diate nuovamente in una recente ricerca di J. Heurgon che abbiamo già citato 29 • Questa ricerca assume come punto di partenza la rappresentazione, su di uno specchio etrusco del secondo quarto del V secolo a.C. 30 , di una psicostasia o pesata delle anime fatta da Zeus in persona (fig. 4). Molti documenti illustrati greci rappresentano Zeus che pesa con una bilancia le anime, o piuttosto le Keres, cioè le dee della morte di due celebri guerrieri: Achille e Mem-

27 Fest. 129. 28 P. Jacobsthal, Der Blitz in

der orient, und griech. Kunst (Berlin 1906). 29 Cfr. supra, p. 13. 30 Gerhard, Etruskische Spiegel IV 396 e G. Pfister-Roesgen, Die etrusckischen Spiegel des 5. ]hs v. Chr. (Berna-Francoforte 1975) p. 1 181 19, tav. 19.

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Fig. 4. Zeus-Tinia e la kerostasia.

none. Il piatto su cui si trovava la Kere di Memnone si ab­ bassava, e il guerriero era così precipitato verso l'Ade. L'aspetto stupefacente e caratteristico dello specchio etru­ sco risiede nel fatto che la bilancia è sostituita, nelle mani del sovrano degli dei, Zeus-Tinia, dal fascio di fulmini col quale può folgorare uomini e città. Vi è qui una sostitu­ zione del massimo interesse e l'artista etrusco si è richia­ mato ai dati fondamentali della fulguratura etrusca per mo-

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dificare, in senso regionale, un tema assunto, pari pari, dalla mitologia ellenica. Per passare dagli dei folgoranti ai diversi aspetti e valori del fulmine in sé, si incontra una complessa dottrina che, secondo Seneca, lo stoico Attalo ha tentato di chiarire ed ordinare. In verità, solo un sacerdote dalle vaste conoscenze poteva determinare il valore del presagio dal colore del ful­ mine, dall'ora in cui si verificava, dall'oggetto o dall'essere colpito, dal successivo tuono e seguendo tutte le modalità del suo effetto materiale. Alcuni fulmini trapassavano gli oggetti senza frantumarli (terebrare), altri li frantumavano e li facevano esplodere (discutere), altri infine li bruciavano più o meno integralmente. E intervenivano ancora molte­ plici distinzioni interne che davano alla dottrina etrusca la parvenza di una casistica impenetrabile per il non iniziato. Ma l'attività degli aruspici non si fermava qui. Essi dove­ vano anche procedere all'espiazione dei fulmini. Dovevano

Fig.

S.

Diverse forme di folgori secondo P. Jacobstal.

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eseguire tutte le cerimonie rituali adatte a purificare la terra contaminata dal fulmine. Dovevano tentare con tutti i mezzi di placare gli dei. Notiamo che in Etruria, contraria­ mente a quanto accadrà nella Roma dei primi tempi, i ful­ mini potevano essere propizi e in questo caso la loro espia­ zione non era necessaria. Tuttavia, come in Grecia anche a Roma, il luogo colpito si doveva considerare interdetto, sa­ cro. Tenuto conto di queste limitazioni, diversi testi latini ci dipingono in modo molto colorito il cerimoniale al quale l'aruspice continuerà ad attenersi, in epoca romana, per la salvezza di Roma. Egli procede al seppellimento del ful­ mine (julmen condere), cancella tutte le tracce materiali del suo passaggio e sacrifica pecore (bidentes) agli dei, donde il nome, in epoca romana, di bidentalia dato a questi pozzi dove si seppellivano i fulmini. Leggiamo questi pochi versi della Farsaglia di Lucano (I 589 e seg.): A rruns dispersos fulminis ignes

Colligit et terrae maesto cum murmure condit Datque locis numen. « Arunte raccoglie i fuochi dispersi del fulmine, li na­ sconde sotto terra mormorando formule tenebrose e pone il luogo sotto la protezione divina ». La scienza dell'aruspice aveva infine, al cospetto dei ful­ mini, un potere paragonabile a quello del mago. In effetti, egli era in grado, grazie a preghiere e riti particolari, tanto di allontanare il fulmine quanto di attrarlo e suscitarlo. Molti testi lo confermano. Secondo Columella 3t, Tagete avrebbe insegnato il si­ stema per proteggere i campi dai temporali, ponendo nei punti di confine la testa di un asino, e Tarconte avrebbe personalmente posto la sua casa al riparo dal fulmine cir-

3 1 Columella X 338. 63

conciandola di uva bianca. Ancor oggi si riscontrano proce­ dimenti di questo tipo nelle abitudini di questa o quella re­ gione particolarmente minacciata dal temporale e dal ful­ mine. Si asseriva che i fondatori della religione etrusca li avessero inculcati nel loro popolo insieme ai sacrifici e alle preghiere in grado di farne valere l'efficacia. In questo qua­ dro non può stupire che, tra le rare espressioni etrusche delle quali gli Antichi ci hanno tramandato il senso, figuri arse verse, che significava averte ignem {tienti lontano dal fuoco). Quest'arte magica consentiva all'aruspice di attirare il ful­ mine sulla terra, contro un essere o un gruppo di uomini che così indicava alla collera degli dei. Già il re Porsenna, intorno al 500 a.C., aveva potuto, secondo Plinio il Vec­ chio 32 , valendosi di un'antica tradizione, colpire un mostro chiamato Volta, che devastava il territorio della potente città etrusca di Volsini. Si trattava in quel caso di fulmina detti auxiliaria, perché venivano in soccorso contro un ne­ mico. Ma appropriati sacrifici potevano anche produrre ful­ mina detti hospitalia, testimoni della presen�a di Giove, ospite benvenuto in particolari circostanze (hospes) e so­ prattutto in occasione di una cerimonia religiosa. Per que­ sta ragione, nei testi, fulgurator assume un senso duplice. Il termine indica, se applicato agli aruspici, o fulgurum inter· pres, l'interprete dei fulmini, oppure colui che è in grado di lanciarli o di provocarli. Nel primo senso compare nell'e­ lencazione che leggiamo nel De divinatione di Cicerone II 109, et haruspices et fulguratores et interpretes ostentorum, enumerazione che ricorda la tripartizione della divinazione toscana con la sua arte di interpretare le interiora delle vit­ time, i fulmini e i prodigi. Il secondo senso, colui che lancia il fulmine, corrisponde meglio al valore del suffisso e si trova, accanto a fulgurator fulminator, il primo termine ap­ plicato propriamente al lampo, il secondo al fulmine. Ma 32 Plinio Hist. nat. II 140. 64

spesso la distinzione viene meno. Si può valutare il presti­ gio che lungo tutta la storia di Roma conservò l'haruspex fulgurator, quando lo vediamo, nel 408 d.C., farsi forte della sua capacità di attirare l'arma terrificante del fulmine su Alarico e le sue orde 33 •

I PRODIGI Come abbiamo detto in precedenza 3\ il terzo gruppo di libri sacri etruschi era il più vasto, e abbracciava i più di­ versi precetti: comprendeva i libri acherontici, libri dei morti e, ciò che qui più ci interessa, gli ostentaria, relativi agli ostenta, ai prodigi. Come molti altri popoli, gli Etru­ schi vedevano manifestazioni di particolare importanza della volontà divina negli accadimenti eccezionali, che sfug­ givano a qualsiasi spiegazione razionale e nel contempo te­ mibili, nonché nei prodigi. Anche in questo caso la sotti­ gliezza degli aruspici faceva meraviglie, e lo Stato romano non mancò di servirsi della loro scienza. Molti responsi di aruspici ci sono stati tramandati dagli scrittori romani e ci offrono l'esegesi etrusca dei prodigi che in sommo grado in­ teressavano le autorità di Roma. Detto questo, per gli Etruschi come per i Greci, e diversa­ mente dalle concezioni propriamente romane che esamine­ remo più avanti, il prodigio può assumere un valore pro­ fondamente diverso, talvolta propizio e buono, più spesso cattivo o addirittura funesto. Si manifesta in tutti gli ordini della natura, inanimata e animata. Sia il cielo che la terra e il mondo sotterraneo sono fre­ quente teatro di prodigi che, in Etruria, annunciano eventi importanti per la città e per gli uomini. Una cometa, una meteora che solca il cielo, il suono di una tromba, che com33 Zosimo V 4 1 . 34 Cfr. supra p . 46.

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paiono improvvisi in un cielo sereno, possono costituire se­ gni premonitori di quei saecula che fanno la storia del po­ polo etrusco. Nel 44 a.C., l'apparizione di una cometa se­ gnò la fine dell'ultimo secolo dell'Etruria 35 • I fenomeni sismici, frequenti nella vulcanica regione To­ scana, hanno sempre spaventato gli uomini. Gli aruspici vi leggevano foschi presagi e, secondo Cicerone, sapevano in­ dicare con precisione i gravi pericoli che allora minaccia­ vano lo Stato. « E non potrei convincermi, scrive l'oratore romano, che l'Etruria tutta ... interpreti falsamente i pro­ digi, quando spesso tremiti, rombi sotterranei, movimenti della terra hanno annunciato al nostro Stato e ad altre città numerosi veri e gravi avvenimenti » 36 • Ma i prodigi, che comparissero nel cielo o sulla terra, per gli Etruschi potevano anche venir considerati molto pro­ pizi e presagire un grande avvenire, un destino importante per l'individuo designato. Moltissimi sono i segni del cari­ sma monarchico nel mondo greco del periodo ellenistico. La religione etrusca, a voler credere alla tradizione, li avrebbe sempre conosciuti. Due prodigi, rimasti famosi nella storia della: Roma pri­ mitiva, segnavano la predestinazione dei due primi re etru­ schi dell' Urbs. Quando Lucumone, originario di Tarquinia e figlio di un greco di Corinto immigrato, venne a stabilirsi a Roma, accompagnato dalla moglie Tanaquil che era di an­ tica famiglia etrusca, un fatto meraviglioso segnalò il loro destino. Un'aquila scese planando a togliergli il cappello mentre la coppia, sul carro, arrivava al Gianicolo. Poi, dopo aver volteggiato su di loro lanciando alti stridi, de­ pose nuovamente il cappello sul capo di Lucumone e ri­ prese il volo. Tanaquil che, scrive Tito Livio, conosceva l'arte di interpretare i prodigi celesti, non ebbe alcuna diffi­ coltà a decifrare questo prodigio, il cui simbolismo, in ef35 Serv. Bue. IX 46. 36 Cic. De Div. I 35. 66

fetti era trasparente. Il marito poteva aspettarsi molto « dal­ l'uccello che è giunto, dalla regione del cielo da cui pro­ viene e dal dio del quale è messaggero. Ha portato il suo presagio sulla parte più importante del corpo, ha tolto l'or­ namento dalla testa di un uomo, ve lo ha ricollocato per or­ dine di un dio ». Un aruspice non avrebbe dato diversa spie­ gazione. I caratteri del prodigio hanno precisa corrispon­ denza nel loro significato morale. Non diversamente accade per il prodigio che segnò l'in­ fanzia del giovane Servio Tullio, cresciuto alla corte di Lu­ cumone, diventato Tarquinio Prisco, e di Tanaquil. Delle fiamme circondarono la sua testa mentre riposava. La re­ gina vietò che si intervenisse e, al risveglio del bambino, il prodigio cessò. Altrettanto facile fu per Tanaquil interpre­ tarlo, come per l'aquila del Gianicolo. « Questo bimbo, disse al marito, sarà un giorno per noi un raggio di luce e il sostegno del nostro trono malfermo ». Come si vede, non si tratta più del fulmine, ma del fuoco miracoloso che in que­ sto caso costituisce il fondamento della divinazione toscana. Alcuni prodigi, collocati dall'annalistica immediatamente dopo i regni dei Tarquini, vengono raccontati in forme di­ verse dagli autori antichi, prodigi che annunciano in ma­ niera simbolica ma chiara la futura grandezza di Roma e del suo santuario sul Campidoglio. Essi derivano dalla stessa concezione dei fatti miracolosi che abbiamo ora evocato e che, senza ambiguità, preannunciavano che Tarquinio Pri­ sco e Servio Tullio dovevano accedere al rango supremo; anche questi provengono da un orizzonte di pensiero pro­ prio dei Toscani. Questo tipo di presagio e di prodigio si in­ contra spesso nel periodo ellenistico e si è giunti a chiedersi se nel quadro dei primi secoli di Roma non ci fosse la proie­ zione nel passato di temi religiosi di data molto più recente. Per quanto mi riguarda sono più propenso a credere ad una corrispondenza, ad un'affinità di pensiero esistente tra periodi e civiltà molto diverse, perché la predestinazione di 67

un eroe o di una città in molti luoghi e molti tempi si esprime con premonizioni simili. Se l'annalistica colloca al principio della Repubblica i prodigi di cui ora ci occuperemo, mi pare che ciò accada per via di un'opposizione anti-etrusca, caratteristica di sto­ rici che, in qualche modo, preferivano latinizzare le evi­ denti precognizioni del futuro impero di Roma. Sebbene questi prodigi siano strettamente correlati al miracolo della testa ritrovata intatta in occasione della costruzione del Campidoglio (cfr. supra, p. 43). Rileggiamo così un famoso passo di Plutarco, nella vita di Publicola, al capitolo 13 37• Vi sono riferiti gli stupefacenti avvenimenti che nuovamente segnalarono, agli occhi di tutti, il crescente interesse degli dei per il tempio di Giove capitolino e la loro volontà di conferirgli tutti i segni che potessero dare smalto e prestigio all'inizio del suo destino. Tarquinio il Superbo, in occasione del completamento del santuario, aveva ordinato ad alcuni artisti etruschi di Veio un carro di terracotta destinato a ornarne il displuvio. All'origine di questa decisione doveva esserci una rivela­ zione aruspicinale. Ma il suo regno crollò e fu çostretto ad abbandonare il potere e fuggire da Roma. Mentre il tiranno esiliato fomentava in Etruria una seconda guerra contro Roma, accadde uno stupefacente prodigio. Una volta che i coroplasti di Veio ebbero modellato la quadriga, la misero nel forno. Ma, invece di ridursi, come normalmente accade all'argilla posta a cuocere, l'opera crebbe e si gonfiò a dismisura. Bisognò demolire il forno per estrarla faticosamente. Gli aruspici vi lessero un segno di potenza e di dominazione per i proprietari della miraco­ losa quadriglia. Gli abitanti di Veio si rifiutarono di conse­ gnare il capolavoro, forse uscito dalle mani del famoso arti­ sta Vulca, che era allora molto conosciuto. Per giustificare

37 Con qualche variante, lo stesso racconto si trova in Plinio il Vec­ chio, NH. VIII 16. 68

il loro rifiuto, dichiararono che il carro apparteneva a Tar­ quinia e ai suoi e non a coloro che li avevano scacciati. Un secondo prodigio intervenne a risolvere la questione a favore di Roma. Poco dopo, a Veio, ebbero luogo delle corse di carri e, con la fronte incoronata, l'auriga vincitore stava facendo uscire la sua quadriga dall'ippodromo. I ca­ valli si immobilizzarono e, contro tutti gli sforzi del loro auriga, lo trascinarono fino a Roma e lo rovesciarono vi­ cino alla porta Ratumena, secondo il racconto di Plinio. Edotti e intimoriti da tali avvenimenti, i Veienti permisero ai lavoranti di consegnare la quadriga ai magistrati di Roma. Secondo una notizia di Festo (ed. Lindsay, p. 340) fu proprio il nome dell'auriga, chiamato Ratumena, che venne dato alla porta dove aveva trovato la morte. Sempre secondo Festo, i cavalli si fermarono solo una volta arrivati al Campidoglio, dinanzi al santuario. La diversità dei racconti non può evidentemente alterare il senso evidente di una tale successione di avvenimenti mi­ racolosi. Roma, non V eio, era destinata a comandare in Ita­ lia, poi nel mondo. Era quindi necessario che ricevesse di­ versi segni della sua grandezza. Ed in effetti ottenne questi oggetti-talismano, che vennero conservati nel santuario di Vest a. In evidenza tra gli altri figurava la quadriga di terra­ cotta proveniente da Veio 38• Prodigi funesti e prodigi fausti non si ritrovano solo nel­ l'ambito dell'umano, ma anche in quello animale e vege­ tale. Generalmente, gli animali selvaggi erano portatori di presagi funesti, gli animali domestici di presagi fausti. Tut­ tavia, lo stesso animale poteva essere all'origine di presagi di opposto valore. Macrobio ci ha conservato qualche riga della traduzione latina degli ostentaria etruschi sulle pecore e gli arieti 39 • « Se il vello di una pecora o di un ariete è mac­ chiato di porpora o d'oro, è presagio e garanzia di felicità, 3 8 Cfr. J. Hubaux, Rome et Veies (Parigi 1958) p. 202 e seg. 39 Macrobio, Sat. III 7,2. 69

gloria e potenza per il principe, per l'ordine da lui istituito, per i suoi discendenti ». L'approssimarsi dell'età dell'oro, cantata da Virgilio nella quarta egloga, verrà segnalato pro­ prio da un simile prodigio. Quando nascerà il bimbo prede­ stinato « né a mentire la lana imparerà vari colori, ma il montone da sé nei prati il vello or cangerà di porpora soave, or di gialla resèda, e vestirà spontaneo il minio al pa­ scolo l'agnello » (trad. E. de Michelis, Milano 1968). Di alcuni prodigi del mondo vegetale è giunta notizia fino a noi. Gli eruditi romani li hanno citati nella tradu­ zione latina degli ostentaria arboraria che ne aveva fatto Tarquinio Prisco. Gli arbores infelices erano portatori di prodigi funesti, gli arbores felices, di prodigi fausti. Il fol­ clore di molti paesi conosce il tema degli alberi malefici, nella maggior parte dei casi quelli che hanno bacche o frutti neri, o la cui linfa è rossa. Gli alberi di buon augurio hanno invece frutti commestibili e la loro linfa è bianca. Ancora una volta, l'Etruria manifestava la sua originalità, non in questo tipo di credenze, largamente diffuse nei più diversi paesi, ma negli stretti legami che stabiliva tra la vita degli al­ beri e quella delle città. Lo stesso sentimento dell'unità e dell'ordine cosmico ha caricato di un senso di orrore i mostri animali · o anche umani. Tutti gli sfortunati esseri anormali, nati dagli scherzi crudeli della natura, erano dagli Etruschi conside­ rati come prodigi molto seri, che attentavano al ritmo e alle leggi dell'universo e manifestavano la collera divina. Gli aruspici interpretavano sinistramente la nascita di tutti gli esseri mostruosi e ponevano una cura particolare nell'espia­ zione della loro presenza. Bisognava cancellarli dalla faccia della terra col fuoco o per annegamento, secondo rigidi ri­ tuali che verranno trasmessi ai Romani. Una teratomanzia simile si ritrova altrove e la divinazione babilonese le asse­ gna uno spazio non indifferente. Poiché le raccolte babilo­ nesi ci sono pervenute numerose, possiamo constatare che contengono sia fatti reali provocati da accidenti biologici, 70

sia fatti assolutamente immaginari indotti da testimonianze false alle quali si credeva con leggerezza. In questa seconda categoria rientrano i presagi del seguente tipo: « Se una ca­ pra partorisce un lupo, ci sarà carestia nel paese. Se una donna partorisce e il piccolo nasce con una faccia da leone, ci sarà un re morto nel paese ... >> . Per quanto ne sappiamo, gli aruspici notavano solo le mostruosità reali della natura, ma dalla nascita di esseri che erano frutto di accidenti biolo­ gici rari, ma reali, come gli ermafroditi, traevano conclu­ sioni assurde quanto quelle dei sacerdoti babilonesi.

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Capitolo terzo LA DIVINAZIONE ROMANA

O ssERVAZIONI GENERALI L'atteggiamento dei Romani nei confronti della divina­ zione è stato originale, anche se da questo punto di vista, come si ritiene sia avvenuto per tanti altri campi, l'influenza dell'Etruria, e soprattutto quella della Grecia, sono state par­ ticolarmente sensibili. Da un lato, in effetti, i Romani, sempre ansiosi di conser­ vare la loro antica alleanza con gli dei, di preservare quella pax deum senza la quale la città non avrebbe potuto compiere il proprio destino, hanno sviluppato un sistema divinatorio preciso, che ordinava tutta la loro vita. Sono rimasti, sempre, estremamente diffidenti verso gli oracoli e le profezie ed hanno badato, grazie ad un atteggiamento morbido verso i segni venuti dall'alto, a conservare la loro libertà d'azione. Questi dati fondamentali non devono far dimenticare che la religione romana, molto aperta verso l'esterno, ha cono­ sciuto nei mille anni della sua esistenza, notevoli trasforma­ zioni. L'azione dell'ellenismo, poi quella delle religioni orientali durante l'Impero, hanno avuto il loro effetto sulla credenza nella mantica e sulle modalità della stessa. In uno studio d'insieme è opportuno tener conto di questa evo­ luzione. Contrariamente alla Grecia, Roma non ha mostrato inte­ resse alcuno per la divinazione ispirata, intuitiva, e sembra che il dono della profezia, dell'ispirazione dell'uomo da parte del dio fosse considerato dai Romani come un fatto poco normale, difficilmente ammissibile e, insomma, spesso pericoloso per la città. 73

Un atteggiamento così diffidente nei riguardi di una man­ tica che sfuggiva alle più alte autorità dello Stato, ha provo­ cato l'assenza di santuari oracolari all'interno di Roma. Sotto questo aspetto, il resto d'Italia si comporta affatto di­ versamente. Presso gli Italici, invece, alcune divinità hanno avuto oracoli di grande rinomanza. L'opposizione tra il tempio della Fortuna Primigenia di Preneste ed i templi della Fortuna nella città di Roma è, sotto questo aspetto, rivelatrice. A Preneste, a sud-est della regione dei Latini, la dea Fortuna aveva un tempio di antica data e alta reputazione. Questo culto è abbastanza ben co­ nosciuto grazie a scavi archeologici condotti con cura dopo l'ultima guerra. Il luogo consente di raccogliere un numero cospicuo di testi epigrafici. Gli è stato recentemente dedi­ cato uno studio importante 1 • L'oracolo di Preneste era de­ romantico e la Fortuna rispondeva alle domande che le ve­ nivano poste per mezzo di sortes, tavolette di legno sulle quali erano incisi oracoli di carattere vago che poi anda­ vano interpretati. I sacerdoti che si occupavano del santuario facevano sce­ gliere, a caso, da un bambino, una di queste sortes e si assu­ mevano il compito di trarne il senso recondito. Rimangono ancora belle vestigia del tempio che aveva subito gravi danni nel corso della guerra tra Mario e Silla. Ma quest'ul­ timo lo fece restaurare in modo fastoso, seguendo un piano di tipo ellenistico. Una serie di gradinate e di portici deter­ minavano varie terrazze sui fianchi della collina, l'antro delle sortes era situato ad un livello inferiore e recava una bella decorazione parzialmente ritrovata. Pochi altri ora­ coli, di minore importanza, si trovavano nell'Italia non greca. Roma, da parte sua, non conosce niente di simile, sebbene Servio Tullio, il secondo re etrusco di Roma, abbia

1 Sulla Fortuna di Preneste, cfr. G. Gullini e F. Fasolo, Il santuario della Fortuna Primigenia di Preneste (Roma 1958). La tesi alla quale si fa allusione è dovuta a J. Champeaux e verte sul culto della Fortuna dalle origini ad Augusto. 74

fatto costruire nella Città molti templi dedicati alla For­ tuna, che era la sua dea favorita, la sua protettrice. Ma in nessuno di questi luoghi di culto romani, la Fortuna pre­ sentò caratteri oracolari, limitandosi ad essere la valente protettrice di diverse classi di età che le valevano diversi epiteti (Fortuna virilis, Fortuna virgo... ) .

I LIBRI SIBILLINI Il caso dei libri sibillini sembra apparentemente un'ecce­ zione rispetto all'atteggiamento romano quale l'abbiamo appena definito. In una religione che non conosce rivela­ zione ed è sistematicamente ostile alle profezie, la raccolta detta sibillina occupa un posto che bisogna definire in partenza. Il racconto tradizionale circa la loro origine è il seguente. Sotto il regno di uno dei due Tarquini 2, una donna anziana, dall'incedere pieno di mistero, avrebbe proposto al re di vendergli nove libri di profezie. Si sarebbe trattato della Si­ billa cumana. Le Sibille erano profetesse greche indipen­ denti e semi-mitologiche. Conducevano una vita errante, a differenza della Pizia, che era legata al santuario di Apollo delfico. Il loro numero varierà secondo le epoche. Il re etrusco avrebbe dapprima rifiutato di pagare alla Si­ billa cumana l'alto prezzo da lei richiesto per la sua raccolta profetica. Ella bruciò allora tre di questi libri, poi ancora tre, chiedendo sempre lo stesso prezzo per gli oracoli che restavano. Impressionato da questa selvaggia ostinazione, e per di più consigliato dagli auguri romani, il sovrano finì col comprare gli ultimi tre libri e la vecchia scomparve per sempre. Gli oracoli furono collocati in un cofano di pietra, collo-

2 Tarquinio Prisco secondo Lattanzio, Div. lnst. I 6, Tarquinio il Superbo secondo Dionigi d'Alicarnasso IV 62. 75

cato a sua volta in un sotterraneo del tempio di Giove capi­ tolino e una commissione di due membri, i duoviri sacrisfa­ ciundis, venne creata per garantirne la custodia e consul­ tarli quando l'ordinasse il Senato, nel caso di un prodigio particolarmente minaccioso. Nel 367 a.C., il loro numero fu portato a dieci e ne fecero parte anche i plebei, mentre Silla li portò poi a quindici. Nell'85 a.C., la raccolta bruciò con l'incendio del Campidoglio, e furono inviate missioni in diverse località d'Italia, Grecia e Asia Minore che si di­ ceva possedessero profezie sibilline. Venne così costituita, dopo un serio controllo, una nuova raccolta che Augusto fece conservare nel tempio di Apollo palatino. Al principio del VI libro dell'Eneide, Virgilio immortalerà l'immagine della Sibilla cumana che profetizza, in un linguaggio sacro e ambiguo, gli alti destini di Roma: « Con tali parole dall'a­ dito la Sibilla Cumana canta enigmi paurosi e rimbomba ne!l' antro, il vero avvolgendo di tenebre » 3• E molto difficile precisare oggi l'esatta provenienza e la natura originale di questi libri sybillini, apparsi nel VI se­ colo a.C. e preziosamente conservati fino alla fine del paga­ nesimo, perché si diceva contenessero segreti grazie ai quali poteva svilupparsi la potenza romana. Lunghe discussioni delle quali è qui impossibile riassumere la sostanza hanno diviso gli eruditi circa l'origine di questi libri sacri. Certo, Cuma ha giocato un ruolo importante nell'Italia centrale dell'età arcaica. Perché allora non accettare la let­ tera della tradizione e non vedere, nel racconto dai toni alti che gli antichi storici ci hanno tramandato, il riflesso di un processo reale? Ci troveremmo in questo caso al cospetto di un apporto oracolare venuto dalla Magna Grecia e giunto alla corte dei Tarquini, largamente aperta, è risaputo, a tutte le influenze elleniche. Ciò non è affatto impossibile. Tuttavia le prime prescri­ zioni contenute nella raccolta e delle quali l'annalistica ci 3 Eneide VI 98 e seg. trad. Rosa Calsecchi Onesti (Torino 1967).

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ha conservato il ricordo sono le misure espiatorie, i remedia che si dovevano immediatamente applicare quando spaven­ tevoli prodigi, taetra prodigia, parevano minacciare l'esi­ stenza di Roma. Solo in epoca ellenistica veri oracoli di tipo greco 4 possono legittimamente passare per rivelazioni sibil­ line. I decemviri diventano allora come dei sacerdoti di ri­ velazione apollinea. È indubbio che una progressiva evoluzione abbia modifi­ cato la natura stessa di una raccolta che ha sempre occupato un posto eminente nella vita religiosa di Roma; forse al­ meno parzialmente di origine cumana in principio, sembra che i libri siano stati integrati, fin dalla loro apparizione, al sistema di espiazione dei prodigi, ben conosciuto sotto il nome di procuratio prodigiorum, sul quale torneremo più avanti. Rituali efficaci contro lordure prodotte nella città da fenomeni anormali e terribili, essi contengono le prescri­ zioni più diverse, dai caratteri di volta in volta greci, etru­ schi e latini. A partire dalle guerre puniche, si ellenizzarono più profondamente, ma furono sempre consultati con pre­ cauzione e tenuti segreti dai loro guardiani. Così, la divina­ zione ispirata rimase a Roma un fenomeno estraneo, che non doveva utilizzarsi con leggerezza.

I PRESAGI. Gu « OMINA >> Le forme della mantica induttiva, attraverso i segni, sono numerose e diverse e, secondo le civiltà, hanno conosciuto nel corso della storia favore alterno. Presso i Babilonesi e gli Etruschi, si è visto, l'epatoscopia ha avuto un ruolo di primo piano nella vita privata e nella vita pubblica. I Ro­ mani, reftattari all'ispirazione profetica, sono invece molto sensibili ai segni infinitamente numerosi della loro pre­ senza e della loro volontà che gli dei inviano. La loro lette4 Cfr. Infra, p. 99. 77

ratura è ricca di racconti di ogni sorta circa i presagi e i pro­ digi che sempre hanno scandito i principali episodi delle loro leggende e della loro storia. Qui si deve fare una classi­ ficazione. È tanto più facile farla in quanto la divinazione di Roma, come il complesso della sua religione, reca l'im­ pronta di uno spirito pratico, organizzatore, preoccupato di garantire la vita dell'individuo e della città e di conser­ vare il favore divino, senza compromettere il normale e ne­ cessario svolgimento delle iniziative e delle azioni. L' omen è, in senso stretto, il presagio in forma di parola che annuncia. Interessa l'individuo e la vita di tutti i giorni. Secondo le osservazioni di Cicerone, per esempio, qual­ siasi frase pronunciata da un terzo con un senso specifico ma suscettibile di applicarsi alle preoccupazioni e alla con­ dotta del soggetto interessato, costituisce un presagio che può ispirare timore o fiducia 5 • L'avvenire, oscuro o luminoso, si disegna quindi in base al semplice ascolto di una parola detta per caso, da chiun­ que. Un simile atteggiamento sconfina, bisogna dirlo, con la superstizione. L' omen, avvertimento inviato dagli dei per guidare gli uomini, conferma costoro nelle loro iniziative o li distoglie. E bisogna prestarvi attenzione, l'intelligenza dell'individuo coinvolto gioca la sua parte; perché si può ri­ maner sordi all'avvertimento divino. Si deve ricordare l'e­ sempio famoso dell'omen dato a Crasso, in partenza per una spedizione contro i Parti, da un mercante di fichi che strillava Cauneas (sottinteso ficos), cioè (comprate) i miei fi­ chi di Caunos, città della Caria. E lì era un avvertimento che il generale romano non comprese, perché il grido si do­ veva intendere Cave ne eas, attento, non andarci 6 • Rimane il fatto che il Romano non deve rigidamente atte­ nersi al presagio. Preoccupato, in ogni istante della sua vita, di conservare la sua libertà d'azione, concilia questa co-

5 Cic. De Div. II 40. 6 Ibid. I 30. 78

stante preoccupazione con il rispetto per i suoi dei, grazie a tutta una procedura religiosa della quale detiene il segreto. È quanto accade con i presagi, la cui frequenza avrebbe po­ tuto paralizzarne l'azione. Egli può allora dare parola e vita alla parola annunciatrice dichiarando che la accetta: omen accipere. Ma può anche togliere ogni valore al presagio fu­ nesto dichiarando che lo rifiuta, omen exsecrari, o ancora trasformarne il senso con le parole atte a modificarne il va­ lore. Così il secondo re di Roma, il pio Numa, riuscì ad elu­ dere un terribile ordine di Giove in persona, che gli chie­ deva vite umane per espiare la macchia provocata dalla ca­ duta di un fulmine. Egli trasformò il senso delle parole che il signore degli dei gli indirizzava giocando sul senso delle parole temi bili 7• Cicerone fornisce un'eccellente definizione di un tale at­ teggiamento quando scrive: " Segni funesti, auspici, omina, tutto ciò annuncia l'avvenire quando non si siano prese le precauzioni necessarie, nuntiant nisi provideris8•

Gu « AUSPICIA » Gli omina si rivolgono all'udito, gli auspicia alla vista. Questi ultimi sono di primaria importanza nel mondo ro­ mano perché non sono più soltanto guide della condotta in­ dividuale, ma anche del normale svolgimento della vita dello Stato. Niente di simile è mai apparso altrove. Il ri­ spetto del diritto augurale è qui condizione fondamentale di ogni iniziativa politica, in pace come in guerra. La parola auspici 9 significa, alla lettera, i segni forniti dal­ l'osservazione degli uccelli, dal loro volo e dalle loro strida, 7 Ovidio, Fasti III 339 e seg. s Cic. De Div. I 29. 9 Cfr. supra p. 12.

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ma, come la parola greca oionos, si applica a diversi presagi visivi, lampi, fulmini, appetito di galletti sacri, segni casuali. L'ornitomanzia, mantica basata sugli uccelli, rimane tut­ tavia basilare e non è il caso di stupirsene perché, presso i popoli di origine indoeuroP.ea, questo tipo di divinazione ha una grande importanza. È perciò doveroso riconoscerle un'origine antica, che si trova confermata, se ce ne fosse stato bisogno, dalla frequente rappresentazione dell'uccello (ad esempio mentre tira il carro del sole) al principio del I0 millennio, nell'arte dell'Europa centrale e dell'Italia del Nord, arte che pure, in quell'epoca, non aveva tendenze fi­ gurative. Nella penisola italica, i Romani non erano i soli ad accor­ dare un posto preminente all'ornitomanzia. Egualmente accadeva presso Marsi e Sabini e gli Antichi vantavano la qualità della loro scienza augurale 1 0• Ma le testimonianze dirette sono di valore diseguale e noi abbiamo la fortuna di disporre di un documento di importanza assoluta sulla divi­ nazione umbra, le Tavole di Gubbio. Si tratta di sette ta­ vole di bronzo, scoperte nel 1444 nella pittoresca città um­ bra di Gubbio, l'antica Iguvium, dove sono conservate an­ cor oggi. Redatto in umbro, lingua parente dell'osco, che oggi si decifra facilmente, questo testo di offre la descri­ zione dettagliata delle cerimonie tenute ogni anno da un collegio sacerdotale, i Fratelli Attiedii, sia per la purifica­ zione della cittadella, che per la lustrazione (cerimonie di espiazione e purificazione) del popolo e della città 1 1 • Ora, tutti gli atti di queste cerimonie sono preceduti da una presa degli auspicia che ricorda da vicino la pratica romana. Il diritto augurale umbro e romano presentano, in verità, caratteri molto simili. In entrambi è presente lo stesso for­ malismo, la stessa minuzia nello svolgimento dei riti, lo IO

H

Bouché-Leclercq, Histoire de la divination cit. IV p. 165.

1 1 La bibliografia su questo testo è consistente. Citiamo solo G. De·

voto, Le tavole di Gubbio (Firenze 1948) e J. Wilson Poultney, The bronze tables oflguvium (Baltimora e Oxford 1959).

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stesso silenzio, lo stesso spazio viene utilizzato come campo di osservazione. Una simile preoccupazione di sem­ plificazione e pragmatismo guida la procedura seguita dai Fratelli Attiedii e dagli auguri romani. Le domande poste agli dei sono semplici, si chiede loro se sono d'accordo o meno con l'iniziativa progettata, con la cerimonia che sta per cominciare. Il problema divinatorio è ridotto all'osso: si o no, questa è la risposta sollecitata. Il sacerdote, in entrambi i casi, conserva il suo margine di libertà. Il minimo rumore nel corso della presa degli auspici comporta la nullità della cerimonia. E, come si è già osser­ vato, l'ornitomanzia stessa comporta una non trascurabile parte di libertà per l'officiante. Perché l'osservazione del canto e del volo di categorie di uccelli ben definite è ben lontana dal presentare gli stessi aspetti di sicurezza dello studio del fegato di una vittima, tenuto in mano da un aru­ spice che lo studia a volontà. Roma che ha saputo organizzare precocemente e solida­ mente la sua vita religiosa, ha avuto a disposizione, fin dalle origini, un importante collegio di sacerdoti, incaricati di conservare, applicare e adattare a tutti i casi che potevano presentarsi le regole relative agli auspici: si tratta degli « au­ guri pubblici del popolo romanO >>. Tra i numerosi collegi sacerdotali, l'augurato era certamente quello di valore più eminente e più sacro. Sue insegne erano la capis, l'acquama­ nile, e il lituus, bastone ricurvo col quale si prendevano gli auspici. Si conservava religiosamente sul Palatino, nella Cu· ria Saliorum, il lituus di Romolo, col quale l'eroe fondatore aveva preso gli auspici iniziali, che lo designavano, contro il gemello Remo, fondatore di Roma, scelto dagli dei. Questo lituus era uno dei talismani dell' Urbs che vi trovava fonte e garanzia della propria grandezza. Sia l'oggetto che la parola sono di probabile origine etrusca. La leggenda delle origini di Roma è, per il punto di vista che qui ci interessa, molto istruttiva. Per molti aspetti, lo

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schema che essa presenta ha radici indo-europee e G. Du­ mézil non ha incontrato difficoltà nel dimostrare l'anti­ chità del tipo dei « gemelli ,., eroi o dei, nel quadro della terza funzione indo-europea che è quella dell'abbondanza e della prosperità 12 • La gemellarità è un segno naturale di ric­ chezza e di fecondità e, nel quadro della storia leggendaria della nascita di Roma, questo motivo si unisce a quello del­ l'origine divina di Romolo e Remo, nati dall'unione di una mortale e di un dio, della loro esposizione e dell'intervento miracoloso della lupa che li prende sotto la sua protezione e li salva. Ma se una simile trama ha molti paralleli, lo schema leg­ gendario sfocia, a Roma, nel momento essenziale della fon­ dazione della città. La volontà degli dei che si esprime attra­ verso il volo degli uccelli rivela la missione di Romolo. Il racconto di Tito Livio è lucido e conciso: « Poiché erano ge­ melli non vi era diritto dell'età che potesse stabilire, egli scrive (T. Livio, trad. L. Perelli, Torino 1979), una distin­ zione, affinché gli dei protettori di questi luoghi per mezzo dei segni augurali scegliessero chi doveva dare il nome alla nuova città, e una volta fondata tenerne il governo, occupa­ rono Romolo il Palatino e Remo l'Aventino come sede per l'osservazione degli auspici. Si dice che a Remo, per primo, si sia presentato l'augurio, sei avvoltoi e quando questo già era stato annunciato essendo apparso a Romolo un numero doppio . . . ». Dopo una disputa che spinse i due fratelli a combattere e, nella confusione, portò alla morte di Remo, « Romolo ri­ manse solo padrone del potere e la nuova città prese il nome del fondatore >>. Conosciamo assai bene la scienza augurale grazie agli sto1 2 Cfr. La religion romaine archai"que p. 263 e seg. D. Briquel ha ri­ preso e sviluppato l'analisi di questo tema in uno studio intitolato Les jumeaux à la louve et !es jumeaux à la chèvre, à la jument, à la chienne, à la vache, in Recherches sur !es religions de l'Italie antique, a cura di R. Bloch e coli. (Ginevra 1976) p. 73-97.

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rici e ai grammatici romani che in tutta naturalezza hanno rivolto la loro attenzione verso i rituali e i formulari con­ servati negli archivi del collegio degli auguri. I libri augura/es attestano lo spirito giuridico del quale i Romani hanno sempre dato prova nel diritto sacro e, in ve­ rità, in tutte le forme del diritto; è uno dei loro lasciti fon­ damentali al mondo moderno. Essi raggruppavano regole, regolamenti, formulari, decisioni già date, commenti dei più saggi tra i sacerdoti. Tutto questo complesso di dati con�entiva di organizzare le cerimonie della presa degli au­ spici fin nei minimi particolari e di risolvere, nell'interesse di Roma, tutte le difficoltà che potevano prodursi nel loro svolgimento. Il principio della presa degli auspici è il seguente: col suo lituus l'augure tracciava un templum, spazio celeste deter­ minato da due linee perpendicolari tra loro, all'interno del quale si potevano osservare i segni, inviati dagli dei. L'a­ zione del sacerdote era accompagnata da preghiere che evo­ cavano i luoghi (effari !oca) e da parole certe che delimita­ vano lo spazio (templum concipere). Gesti e parole si rinfor­ zavano reciprocamente, indispensabili gli uni quanto gli al­ tri, e mettevano l'augure in relazione diretta con gli dei. Le costruzioni che erano loro consacrate sulla terra, i templi, avevano il perimetro determinato dagli auguri che, soli, sa­ pevano liberare i luoghi terrestri da qualsiasi servitù pro­ fana. Si può dire che Roma stessa era come un vasto tempio il cui perimetro era determinato dalla linea sacra del po­ moenum. Prendere gli auspici era il più alto privilegio accordato ai magistrati romani che, secondo la loro dignità e il loro rango, disponevano di auspicia maiora o minora. In principio, la presa degli auspici era urbana ma, per de­ lega o trasferimento, gli auspici militari si prendevano fuori della città. Le violente lotte politiche della fine della Repub­ blica non mancarono di turbare, in diverse riprese e in cir­ costanze importanti, la normale presa degli auspici. Infatti, 83

l'annuncio di un cattivo presagio fatto dall'augure e dal ma­ gistrato durante l'operazione augurale, l' obnuntiatio, an­ nullava tutta la procedura religiosa iniziata. Quando la fede diminuì, quando si fece più vivo il conflitto tra i potenti sempre più ambiziosi, l'obnuntiatio divenne un'arma co­ moda, abilmente usata a vantaggio degli interessi personali. Allo stesso modo, non era difficile graduare l'appetito dei galletti sacri, conservati in una gabbia.

I PRODIGI Una terza serie di segni divinatori è rappresentata, a Roma, dai prodigi, fenomeni rari, eccezionali, che svol­ gono un ruolo di primo piano nella vita religiosa dell' Urbs. Per la mentalità latina, il prodigio non è un segno che prefi­ gura, più o meno precisamente, un avvenire prossimo o lontano, avvenire che sarebbe del resto possibile modificare con tutti i mezzi rituali a disposizione del sacerdote e del cittadino. È un avvenimento imprevisto, terribile, contro natura che esprime la rottura della pace fra la città e gli dei. Troviamo qui un atteggiamento psicologico diverso da quello dei Greci e degli Etruschi. E ciò non deve stupire, poiché tutta la vita divinatoria romana mostra caratteristi­ che che le sono proprie. In Grecia e in Etruria, presagi e prodigi differiscono tra loro solo per la potenza premoni­ trice. Gli uni e gli altri possono essere sottoposti ad un'ese­ gesi che offre dati preziosi circa il futuro. A Roma, il presagio è un avvertimento che bisogna inter­ pretare, certo, ma che indica solo al cittadino o al rappre­ sentante dello Stato che possono o meno proseguire nell'i­ niziativa progettata. Il prodigio invece è diverso dal presa­ gio, in origine, perché manifesta la collera degli dei, che va placata ad ogni costo. Per questo complesso di ragioni, a di­ sposizione delle autorità superiori dello Stato c'è tutto un

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arsenale di misure propiziatorie ed espiatorie, ed esse si ri­ volgono ai custodi delle tradizioni religiose per agire senza aspettare, e tentare di ristabilire la calma in un mondo mi­ nacciato in quel momento nella sua esistenza. Alla fine della Repubblica, l'influenza crescente dell'elle­ nismo modificherà queste concezioni iniziali, come, biso­ gna dirlo, molti altri aspetti della religione romana. Se ne parlerà più avanti (p. 99). Resta il fatto che, contrariamente a quanto accade in Gre­ cia e in Etruria, per lungo tempo, a Roma, se si esclude il periodo del regno etrusco, non ci sono prodigi fausti. Ogni prodigio è un venir meno delle leggi naturali, che conta­ mina la società umana, esprime la collera degli dei ed esige una procuratio appropriata. La procuratio prodigiorum è una delle maggiori preoccupazioni dei Romani e costituisce una procedura complessa, la sola atta a garantire la salvezza dello Stato. Avrà una considerevole influenza sullo stesso evolversi della religione romana, e infatti comporterà nu­ merose trasformazioni nel culto. I nomi del prodigio in latino sono numerosi e rivelatori. Viene chiamato di volta in volta prodigium, ostentum, por· tentum, monstrum, miraculum. Questi ultimi due termini si applicano a qualche particolarità degli esseri viventi. Nes­ suno di essi implica l'idea di presagio. L'etimologia di prodi· gium è incerta, ostentum e portentum significano segno, monstrum avvertimento e miraculum fatto che suscita me­ raviglia. Nel VI secolo a.C., durante il regno etrusco, i prodigi che ci vengono raccontati dalla tradizione (cfr. supra, p. 65) esprimono il gusto per la divinazione che caratterizza la re­ ligione toscana. Si manifestano con tutti i caratteri che ave­ vano in Etruria. La casistica degli aruspici si esercitava al­ lora in piena libertà sulle rive del Tevere e traeva dall'ana­ lisi dei prodigi conclusioni favorevoli o funeste. Ma, dopo la scomparsa della dinastia etrusca, gli aruspici ridiventano stranieri, talvolta dei nemici per Roma che farà

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ricorso alla loro scienza con precauzione. Il prodigio torna ad essere collocato in un ambito propriamente latino, per­ ché l'ellenismo eserciterà la sua influenza sull' Urbs solo dopo le guerre puniche. Ogni anno, nel breve periodo che va dal 295 al 293, cioè quando termina la prima decade della sua opera, Tito Livio riferisce con precisione tutti i prodigi che avevano turbato la coscienza dei Romani e le diverse modalità della loro espiazione. Il suo racconto deriva dalla T avola del Pontefice che, a partire dal principio del II se­ colo a.C., il Gran Pontefice fece affiggere annualmente sui muri della Regia e che, accanto ad altri dati importanti sulla vita della città, elencava i prodigi avvenuti nel corso del­ l' anno precedente. A leggere le pagine classiche della storia di Livio, per un verso si è colpiti dalla grande credulità dei Romani verso fe­ nomeni considerati soprannaturali, per l'altro dalla solida armatura della procuratio, che purifica dalle contamina­ zioni e tende ad evitare i pericoli. I Romani dei primi secoli della Repubblica ci sembrano spiriti superstiziosi, ma senza alcun gusto né talento per l'esegesi divinatoria, e, al contra­ rio, esperti in diritto sacro. Sarebbe troppo lungo enumerare i fenomeni che i Ro­ mani consideravano prodigi. I più numerosi si osservavano nella natura inanimata. Tra quelli che si osservavano nel cielo citiamo le eclissi di luna e di sole, i fenomeni di rifra­ zione chiamati parelio e paraselenio, che fanno comparire, attorno al disco del sole o della luna, dei cerchi che recano una o più immagini dell'astro così moltiplicato, le comete, le meteore, il fulmine quando è portatore di morte, il tuono quando tuona nel cielo sereno, le tempeste quando si scatenano al di là di ogni limite e danneggiano edifici sacri, infine le piogge di materiali insoliti, pietra, gesso, sangue. La spiegazione di queste piogge miracolose, che si possono ancora osservare ai giorni nostri, non è difficile da trovare, perché l'illusione proviene da getti di pietre o cenere che, nelle regioni vulcaniche, si mescolano all'acqua della piog86

gia. Le piogge di sangue, invece, si spiegano con la presenza nelle gocce d'acqua di particelle infinitesimali, vegetali o animali, che danno alla pioggia un colore rossastro. Passando dal cielo alla terra, il numero dei fatti annove­ rati come prodigi a Roma non diminuisce. L'acqua dei fiumi è sanguinante, le statue si coprono di sudore o ver­ sano lacrime, illusione dovuta alla condensazione di aria umida e calda sul marmo o sul bronzo freddo delle statue. Le scosse telluriche, che hanno sempre spaventato l'uomo, erano un prodigio particolarmente grave, come il brontolio sotterraneo che le accompagna, il movimento, apparente­ mente spontaneo di oggetti sacri, come le lance di Marte o le porte dei templi. Per i Greci, era Poseidone, il dio che scuoteva la terra, ad essere autore dei sismi terrestri e subac­ quei. Ma i Romani, che non avevano alcuna mitologia, vi vedevano solo l'effetto della collera divina. Vegetali, animali ed uomini non producevano con il loro comportamento o con la loro natura minori anomalie, in­ frangendo le leggi della natura, interpretando il disordine dell'universo e annunciando i più gravi pericoli per la città. L'apparizione di animali insoliti, uccelli o roditori, nei luoghi sacri era molto temuta e venivano accolte con or­ rore le malformazioni di animali, vere o anche inventate, dovute ad errori della natura o alla credulità della folla, alla quale si annunciava che era nato un agnello con la testa di porco, un porco con la testa umana. Non si legge altro nelle teratologie babilonesi. Non man­ cano, beninteso, in questo quadro penoso, animali che par­ lano, le cui dichiarazioni sono state raccolte con inquietu­ dine e con cura. Si deve infine citare la massa di prodigi che riguardano gli uomini, individui o comunità. Le malformazioni dei nasci­ turi sono fonte di spavento, sia che si tratti di ermafroditi che di bambini mostruosi. E le epidemie, le pesti, le carestie si riteneva significassero la frattura dell'intesa con le forze divine.

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A questa lista di prodigi di tipo romano si devono aggiun­ gere alcuni fenomeni miracolosi, provenienti da tradizioni diverse e da popoli coi quali Roma si è trovata in contatto pacifico o bellico. Si tratta in questo caso di una sorta di ap­ propriazione di credenze venute dall'esterno e che Roma non esita a far proprie per sua maggior gloria. Le guerre che ha condotto contro i Celti in terra d'Italia contengono un episodio famoso fra tutti, che testimonia con chiarezza que­ sta peculiare tendenza della psicologia romana 13• Nel 349 a.C., nel corso delle incursioni dei Galli nel cuore dell'Italia, un singolare combattimento oppose un tribuno militare nato dalla celebre gente dei Valerii, M. Va­ lerus, a un capo gallo, di taglia e armamento notevoli. Già questo tipo di combattimento ci porta molto al di fuori delle abitudini dell'esercito romano, la cui forza risiede nelle manovre collettive, e non nelle imprese individuali. Per i Celti, al contrario, erano soprattutto queste ad aver valore. È indubbio che i Romani abbiano conservato il ri­ cordo dei duelli ai quali i più valenti di loro erano stati co­ stretti, dopo aver chiesto l'autorizzazione dei capi - dovere disciplinare - e implorato l'aiuto degli dei. In effetti il combattimento di M. Valerius non si svolse su un piano puramente umano, si produsse invece un inter­ vento divino che fu decisivo. Un corvo venne ad aggrap­ parsi all'elmo del duellante romano e, lungi dal restare im­ mobile, partecipò alla tenzone. Sollevandosi sulle ali, at­ taccò col becco e con gli artigli il Gallo, agli occhi e al viso, e da quel momento non ci furono più dubbi circa l'esito del combattimento. Il povero Gallo, con gli occhi e lo spirito turbati da un tale prodigio, venne trafitto da M. Valerius. Il corvo s'in­ volò allora verso oriente. M. Valerius, per questa vittoria tra tutte mirabile, ricevette il soprannome di Corvus o, se-

13 Tito Livio VII 26. Cfr. il mio commento a questo proposito nel­ l'edizione del libro VII di Tito Livio (Belles-Lettres). 88

condo alcuni autori, di Corvinus. Portò sempre sull'elmo un corvo, quale emblema, e coloro che successivamente lo ritrassero, sulla sua testa raffigurarono sempre il miraco­ loso uccello. L'origine di un tale racconto è certa e proviene dalle epo­ pee celtiche, nelle quali il corvo incarna sul campo di batta­ glia la dea del combattimento. Certo, il corvo è un uccello augurale nella religione romana e presso molti popoli, in particolare presso i Greci dove i suoi legami con Apollo sono stretti. Ma qui si tratta di ben altro che di un presagio, e se, in verità, il corvo sceso dal cielo viene accolto come un presagio favorevole, questo si mette poi a combattere e di­ venta attore di un vero e proprio prodigio. Un simile tipo di prodigio però è del tutto estraneo a Roma. Lo si com­ prende molto bene, al contrario, nel quadro della mitologia celtica dove, generalmente, i legami tra l'animale e gli dei sono rimasti intimi e il corvo o la cornacchia svolgono un ruolo importante. La cornacchia è l'incarnazione della dea irlandese delle battaglie, la Badb Catha che sotto questo aspetto viene a gettare lo spavento tra gli uomini, e il corvo dà anche il suo nome, bran, ai guerrieri galli, che paiono così diventare tutt'uno con lui e con la divinità. Allo stesso modo, il giovane Valerius, dopo la sua vittoria, prende il nome di Corvus. Per spiegare l'apparizione nella tradizione romana di un prodigio proveniente molto chiaramente da credenze celti­ che non rimane che ricercare come sono state tramandate da una religione all'altra. Senza dubbio la presenza, confer­ mata dall'archeologia e dai testi, di uccelli, certamente corvi, sugli elmi dei Galli, ha dovuto colpire l'immagina­ zione e lo spirito dei Romani e indurii a conoscere i miti concernenti questo animale sacro. L'ipotesi sembra confer­ mata dalla scoperta fatta in una necropoli celtica del III se­ colo a.C. recentemente portata alla luce a Ciumesti, piccola città rumena della Transilvania. In una tomba di guerriero è apparso, in effetti, un elmo di ferro sormontato da un uc-

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cello di bronzo, certamente un corvo, dalle ali articolate. Il guerriero che portava quest'elmo doveva sentirsi protetto dalla divinità, come lo fu M. Valerius nel suo memorabile combattimento 14• L'apparizione dei prodigi ha come conseguenza necessa­ ria l'avvio di cerimonie rituali di ogni genere, vere medi­ cine religiose capaci di restituire la calma nel mondo e l'in­ tesa con gli dei. La procuratio dei prodigi appare come uno dei tratti caratteristici della Roma repubblicana. Suo primo scopo ed effetto è purificare la terra, letteralmente sporcata dal fenomeno inspiegabile e pericoloso. Vi sono tuttavia dei casi, in verità eccezionali, in cui la contaminazione è così profonda e indelebile che nessun ge­ sto, nessun rito, nessuna cerimonia riesce ad eliminarla. Un episodio drammatico del III libro dell'Eneide (vv. 26 e seg.) illustra il caso avvincente di una macchia che niente può far scomparire. Enea, proseguendo il racconto del suo recente passato, narra come, dopo aver lasciato le coste della sua pa­ tria, nel suo errare sia finito con lo sbarcare sul litorale trace. Pensa di potervi fondare una nuova città e ne getta le prime fondamenta. Offre quindi agli dei un sacrificio di au­ spici e per coprire di fogliame il suo altare vuole strappare da un poggio vicino i verdi rami di un mirto e di un cor­ niolo. Si verifica allora uno spaventevole prodigio: Horrendum et dictu et video mirabile monstrum

Dal primo ramo spezzato cadono gocce di sangue nero che macchiano la terra. Malgrado lo sgomento che si impa­ dronisce di lui, Enea ricomincia, ma il sangue cola ancora. Enea, naturalmente, si spaventa, supplica le ninfe degli spazi solitari e Marte, il pericoloso dio della guerra, di ren-

14 Cfr. i miei articoli Traditions celtiques dans l'histoire des premiers siècles de Rome, Mélanges J. Carcopino (Parigi 1966) p. 125-1 89, e' Un casque celtique au corbeau et le combat muthique de Valerius Coruus, in Mélanges Durry[- REL 47 ( 1970) p. 167-172]. 90

dere, se possibile, questo funesto presagio favorevole a lui e ai suoi. Al suo terzo tentativo, una voce lamentevole si leva da sotto il tumulo: è quella di Polidoro, figlio di Priamo, che suo padre, avvertendo la prossima fine di Troia e del suo regno, aveva inviato, per salvarlo, con una gran quan­ tità d'oro, presso il re trace. Alla caduta di Troia, questo re indegno, rompendo e violando le sacre leggi dell'ospitalità, fa uccidere Polidoro e si impadronisce delle sue ricchezze. Senza neppure dargli sepoltura, i Traci abbandonarono il corpo dell'infelice giovane, pieno di frecce, e lo spinsero nella macchia di arbusti che aveva attratto l'attenzione di Enea. J. Bayet, in un articolo che risale a quasi mezzo secolo fa 15 , ha validamente dimostrato il valore folcloristico del racconto e la natura reale del prodigio. L'albero della tomba, l'albero che sanguina dopo un assassinio si ritrova in numerose tradizioni popolari. Il tema è qui brillante­ mente presentato, carico di senso religioso e magico. Il senso dell'episodio è perfettamente chiaro e il prodigio si spiega senza problema. L'infelice Polidoro, assassinato nelle condizioni più empie, poiché era ospite dei Traci e fu abbandonato sul posto senza sepoltura, costituisce una macchia profonda per la terra che lo ospita che diventa così una terra maledetta. Niente sarà più come prima. Gli steli degli arbusti nati dalle frecce che trapassavano il suo corpo, fanno letteralmente parte del cadavere e, una volta spez­ zate, lasciano colare non la linfa, ma il sangue corrotto del morto che infetta il suolo e coloro che lo occupano. In questo episodio, è particolarmente significativo vedere Enea, l'eroe pio per eccellenza, l'incarnazione della pietas, virtù cardinale sia del cittadino romano sia del capo, essere egli stesso colpito dall'ignominia. Anzi questa colpa terri-

t5 J. Bayet, Le rite du fécial et le cornouiller magique, MEFR 52 1935 29-76 Croyances et rites dans la Rome antique (Parigi 1971) p. 943 .

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bile di cui giustamente ha orrore, paradossalmente, è la sua stessa pietà a suscitarla. Perché il dramma, il prodigio, nasce proprio nel corso del sacrificio di auspici offerto ritual­ mente agli dei, evocato dai suoi gesti. La voce dell'ucciso che giunge alle orecchie di Enea e che mormora « Risparmia un infelice, guardati dal contaminare le tue mani pietose », parce pias scelerare manus, ha una risonanza profonda. Pias manus non sono solo le mani pietose per natura bensì, in questo momento stesso, le mani che compiono un atto di pietà. L'opposizione dei termini espressamente accostati è evidente e niente potrebbe altrettanto bene mettere in evi­ denza il carattere fondamentalmente irrazionale dell'espe­ rienza religiosa della contaminazione. Questa è irrimedia­ bile. Tutti i riti purificatori messi in atto, i funerali di Poli­ doro solennemente organizzati da Enea e dai suoi, tutte le offerte e tutti i sacrifici, pur liberando Enea dalle sue colpe e dalla maledizione che potrebbero comportare, non riusci­ ranno a lavare del tutto questa terra maledetta, e il parere dei Troiani è unanime, bisogna lasciarla, scelerata excedere terra. Nella dialettica del sacro i temi della contaminazione da una parte, della purificazione dall'altra, giocano un ruolo fondamentale. L'impuro, che appare come uno dei due opposti del sacro, imprime, col suo contatto, una con­ taminazione estremamente pericolosa per il mondo pro­ fano ed allora tutti gli sforzi dell'uomo devono mirare a la­ vare gli individui e la società, a purificarli con una catharsis rituale adeguata. Ma vi sono dei casi, pur rari, in cui la con­ taminazione provocat � dal prodigio è tale che tutti gli sforzi diventano vani. E esattamente quanto è accaduto nel famoso dramma di Polidoro 16 • Aggiungiamo tuttavia che con i secoli le cose cambiano. I recenti progressi nello studio delle religioni comparate, se hanno messo in luce l'estrema importanza della coppia di 1 6 Queste riflessioni sono nate dal mio articolo A propos de l'Enéide de Virgile, in REL 45 ( 1967) p. 325-342.

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opposti relativamente al loro valore religioso, contamina­ zione e purificazione, hanno anche indicato il cambia­ mento di valore di questi termini secondo le epoche e i li­ velli culturali. Dalla contaminazione puramente materiale e indipendente dalla volontà dell'uomo, si è passati nella maggior parte dei casi al senso di colpa con il meccanismo dell'interiorizzazione della coscienza e la nascita della nuova nozione di responsabilità individuale. Nella Grecia antica il processo era visibile in tutta la sua chiarezza. I cri­ mini vendicatori commessi da Oreste sembrano perderlo per sempre, lui e la sua stirpe, fino al giorno in cui nuove credenze conducono l'infelice, perseguitato dalle Erinni, fino all'omphalos delfico dove la purificazione apollinea lo schiude ad una nuova nascita. Ma il Romano non è natural­ mente portato alla riflessione filosofica né all'inquietudine metafisica, e così non si trova nella religione romana alcuna visione drammatica paragonabile alla fuga infinita dell'infe­ lice Oreste. L'espiazione dei prodigi è qui puramente rituale e con­ forme ad una procedura religiosa rigorosamente deter­ minata. Eccone gli aspetti salienti, che manifestano lo spirito pre­ ciso e giuridico del popolo romano. L'osservazione del pro­ digio avviene, secondo i casi, ad opera di semplici conta­ dini, di magistrati o di sacerdoti. In questi casi si tratta di veri e propri testimoni di fatti osservati, che li annunciano o li fanno annunciare ai consoli e portano così le novità a conoscenza delle supreme autorità di Roma. L'osserva­ zione è dovere di ciascuno ma i suoi risultati devono essere immediatamente comunicati ai rappresentanti della città. Uno dei consoli, all'inizio dell'anno, fa un rapporto al Se­ nato sui prodigi che gli sono stati annunciati. Ciò deve av­ venire prima della partenza dei consoli per la guerra e tal­ volta ritarda questa partenza perché, evidentemente, non è possibile lanciarsi in una spedizione militare prima di accer­ tarsi che la collera degli dei si sia placata. Il console legge un 93

rapporto circostanziato, fa entrare i testimoni nella curia, quando gli è possibile, e consulta il Senato sulla situazione. Il Senato, che è la più alta autorità romana in materia reli­ giosa, lo ascolta, delibera e vota un decreto col quale di­ chiara che si fa carico, in nome dello Stato, dei prodigi an­ nunciati. È vero che può rifiutarsi, se ritiene che i fatti allar­ manti non interessino la città intera e che è sufficiente far fare una procuratio privata dal cittadino o dal gruppo che sembra interessato. Può anche rifiutarsi di riconoscere l'au­ tenticità, la realtà dei prodigi se hanno avuto un solo testi­ mone o se i testimoni non gli paiono degni di fede. Ma biso­ gna riconoscere che nella maggioranza dei casi il Senato ac­ cetta l'importanza dei fenomeni verificatisi, li prende uffi­ cialmente in carico e decide di organizzare quanto necessa­ rio alla loro espiazione. La procedura è diversa secondo i casi, se si tratta di pro­ digi ben conosciuti, frequenti e di media importanza, il Se­ nato può decidere da solo le cerimonie che gli paiono neces­ sarie ed affidarne l'esecuzione ai consoli o ai pontefici. Nel caso di prodigi gravi, si può ancora prendere questa deci­ sione, ma essa si accompagna ad un ricorso agli specialisti delle procurationes, i pontefici, i guardiani dei libri Sibillini, gli aruspici. Quasi sempre, il problema è rinviato davanti ad una di queste tre autorità e nessuna cerimonia è decisa senza il loro parere. La scelta del Senato era motivata da ra­ gioni diverse secondo le epoche e non era raro che venis­ sero consultate due autorità competenti contemporanea­ mente. Ottenuto il parere richiesto, il Senato tiene una se­ conda seduta e ordina, dopo un controllo, di compiere i riti che sono stati raccomandati. Una simile procedura colpisce per la sua precisione, il suo rigore e la sua solidità. Niente di simile era esistito in Grecia. A Roma, lo si è visto, la sfera della divinazione è ridotta al minimo, la profezia è assente e la ricerca del futuro non preoccupa gli animi, mentre i mezzi messi in atto per eliminare le conseguenze del prodi­ gio sono giuridicamente solidi e religiosamente motivabili. 94

Tutto accade come se i segni della collera divina fossero, una volta apparsi, chiusi in una rete attentamente prepa­ rata. Controllo della loro osservazione, rapidità e obbietti­ vità dell'annuncio, responsabilità da parte del Senato, con­ sultazione delle autorità competenti, infine esecuzione mi­ nuziosa e controllata delle misure prescritte; tutte queste fasi si succedono senza interruzioni, tutta la procedura, di grande chiarezza, si svolge rapidamente. La vita politica e militare della città può riprendere così il suo ritmo con­ sueto; l'intervento dello Stato è stato rapido ed efficace. La divisione delle competenze tra pontefici, libri Sibillini e aruspici risponde al carattere di questi diversi organi. Ma le condizioni proprie di ogni periodo, le preoccupazioni che mutano secondo i secoli hanno anch'esse determinato il ricorso all'uno piuttosto che all'altro di loro. Anche in que­ sto caso, la visione non può non essere storica. I pontefici vengono consultati in numerose occasioni e, in verità, il ricorso a queste supreme autorità della religione romana era un fatto assolutamente corrente, talmente abi­ tuale che spesso la tradizione trascura di ricordarlo. Fedeli alle antiche regole del culto nazionale di cui erano i garanti, i pontefici espiavano i prodigi più frequenti con cerimonie ben conosciute, facili ad eseguirsi, quali il sacrificio di vit­ time di diversa importanza agli dei che le richiedevano. La loro scienza sembrava sempre valida e si guardava da qual­ siasi innovazione. Così erano incaricati dell'espiazione dei fulmini, di cui si occupavano anche gli aruspici, ma questi ultimi erano chiamati nei casi più gravi. I pontefici copri­ vano le tracce lasciate sul terreno dal passaggio del fulmen ed offrivano un arcaico sacrificio fatto di cipolle, di capelli e di sardine che, a ragione, gli Antichi consideravano come un sacrificio di sostituzione, in quanto aveva fin dai tempi più antichi sostituito l'uccisione di vittime umane. Il re le­ gislatore, il pio Numa, nella sua discussione con Giove Eli­ cio, che gli chiedeva vite umane per la purificazione dei luo­ ghi toccati dal suo fulmine, aveva saputo dissuaderlo da 95

queste terribili richieste con abili parole che avevano tra­ sformato l'ordine divino. I racconti che ce ne fanno Ovidio (Fasti III 285 e seg.) e Plutarco (Numa 15,4) sono da questo punto di vista significativi. La gestione dei prodigi avvenuti nella regia o nella curia dei Salii, luoghi sacri che risalivano alle origini stesse di Roma, era propria dei pontefici. E que­ sto avveniva quando si verificava un movimento spontaneo delle lance di Marte o degli scudi, fenomeni certamente os­ servati in occasione di leggeri terremoti, passati per il resto inavvertiti. Nel caso di fenomeni particolarmente temibili, pesti, epi­ demie, terremoti, nascita o scoperta di un ermafrodita, i consoli, col parere pontificale, ordinavano la consultazione dei libri Sibillini. I guardiani di questi libri indicavano al­ lora le prescrizioni di diversa origine che vi scoprivano ed i testi ci mostrano quante cerimonie latine siano state rac­ contate da loro, come l'instauratio, cioè la ripetizione di ce­ rimonie sbagliate o incomplete (Tito Livio XXII 9) e il no­ vemdiale sacrum, festa di nove giorni volta, tra l'altro, all'e­ spiazione delle piogge di pietre (Tito Livio XXV 9,5) o, an­ cora, la lustratio Urbis, processione purificatrice di lontana origine italica che è lungamente descritta nel testo umbro delle Tavole Eugubine. La tradizione ne attribuisce l'istitu­ zione al secondo re della dinastia etrusca, Servio Tullio. Ma l'elemento greco diventerà progressivamente domi­ nante nei libri Sibillini, soprattutto negli ultimi secoli della Repubblica, e contribuirà alla formazione della leggenda sulle sue origini. Già nel 437 a.C., una mortale epidemia e spaventosi terremoti furono espiati, su consiglio dei libri, con supplicazioni pubbliche, manifestamente provenienti dal rituale greco. Nella religione ellenica, in effetti, tutto il popolo partecipa a cerimonie che comprendono preghiere, opere buone e sacrifici. Uomini e donne, con una corona d'edera ed in mano un ramo di lauro, andavano a suppli­ care gli dei nei loro templi e ad offrire incenso e vino. In ge­ nere, il culto latino era più costrittivo, meno aperto alla 96

partecipazione di tutto il popolo e le liturgie pubbliche erano sottoposte a regole più strette. Al contrario, nelle supplicazioni ordinate nella raccolta sacra del Campidoglio, si imitava il modello greco e tutta la popolazione partecipava liberamente a preghiere e ad of­ ferte. Altre cerimonie sibilline attestano una simile ispira­ zione ellenica, come i cori e le danze, eseguiti da un gruppo di ventisette giovani fanciulle, che formavano nel con­ tempo sia il coro che il balletto. Una cerimonia del genere serviva ad espiare la comparsa di un ermafrodita e sembra che sia stata celebrata per la prima volta nel 207 a.C. su rac­ comandazione dei libri. Tito Livio ce ne ha lasciato una de­ scrizione dettagliata (XXVII 1 1) ed un oscuro greco Fle­ gone di Tralle, ci ha conservato alcuni oracoli scritti in esa­ metri greci che, illustrando dettagliatamente le cerimonie prescritte nel 125 a.C. per una causa analoga, ci confer­ mano le informazioni di Livio. In diverse occasioni, i libri raccomandavano l'introdu­ zione a Roma di divinità non romane, talvolta elleniche, come Asclepio, il dio della medicina chiamato molto sem­ plicemente da Epidauro nel 296 a.C., quando una violenta epidemia flagellava Roma (Tito Livio X 47,3), e queste con­ tribuirono quindi largamente ad ellenizzare il Pantheon ro­ mano. Contribuirono anche a creare un legame, che diven­ terà indissolubile, tra gli oracoli della Sibilla e Apollo, si­ gnore della divinazione ispirata. I decemviri, così chiamati perché erano dieci, numero che fu successivamente portato a quindici, diventarono i veri sacerdoti del culto apollineo. Il Senato poteva anche, in caso di prodigi particolarmente minacciosi, rivolgersi agli aruspici, grandi maestri, come abbiamo visto, nelle espiazioni. I fondamenti dei loro me­ todi sono stati descritti in precedenza, ma la guerra tra Roma e l'Etruria tenne a lungo gli aruspici lontano dal­ l' Urbs o ve li resi sospetti. L'arte aruspicina che prosperava ampiamente nella Roma etrusca del VI secolo a.C. sembra scomparire nel corso del secolo e manifestarsi solo sporadi97

camente fino all'epoca della seconda guerra punica. In se­ guito, alla fine della Repubblica e durante l'Impero, riprese a prosperare e durò tanto a lungo quanto Roma stessa. Nati da grandi famiglie etrusche, conservatori in politica e ri­ spettosi della tradizione, gli aruspici offrivano consulta­ zioni che, nel complesso, non arrecavano alcun pericolo alla tradizione romana e le espiazioni da loro indicate non contarono alcuna innovazione, contrariamente a quanto abbiamo visto per i libri Sibillini.

CRISI E TRASFORMAZIONI. LA DIVINAZIONE ALLA FINE DELLA REPUBBLICA La sensibilità religiosa latina si modificò notevolmente al momento della seconda guerra punica e molte opere, in­ nanzitutto la storia della religione romana di Jean Bayet, hanno giustamente insistito sulla crisi che la coscienza reli­ giosa romana ha conosciuto nel momento in cui le vittorie di Annibale ponevano i Romani in una condizione di incer­ tezza circa la propria sopravvivenza. È allora che il rituali­ smo troppo spinto della religione romana cede il posto a reazioni emotive tanto più vive in quanto la popolazione era aumentata grazie alla venuta di elementi contadini e stranieri, e il ruolo delle donne si era accresciuto con la guerra. Si fece allora imperiosamente strada il bisogno di riti e culti nuovi, capaci di ristabilire la pace con gli dei non più appagati dalle abituali cerimonie. Si sviluppa allora, sotto l'influenza ellenistica, una sensibilità cosmica che era ignota all'antica Roma. Nel contempo progredisce l'indivi­ dualismo e una nozione destinata ad un grande avvenire con la nascita del Principato, quella della sovrumanità di in­ dividui eccezionali. In origine Roma non conosceva eroi, semidei per nascita e più o meno sottratti alla condizione mortale. Ma ora si moltiplicano i superuomini romani, fa-

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voriti degli dei, eroi provvidenziali, destinati a godere di un vero e proprio culto. In questo capovolgimento di idee, la divinazione stessa, malgrado la resistenza, sempre grande a Roma, della tradi­ zione, si modifica. Nasce una nuova tendenza, la necessità di indovinare un avvenire che forse calmerà le angosce del tempo presente. Profezie e oracoli, chiromanti e indovini si moltiplicano allora come in occasione delle grandi crisi e delle grandi paure. Il mondo della divinazione sembra così trasformarsi e, sotto l'influenza congiunta della Grecia e del mondo orientale, assumere un carattere inedito, estra­ neo alle credenze dei secoli passati. Ma tutto ciò non si svilupperà in totale libertà, infatti il Senato romano vigila, nonostante tutto, in questo proflu­ vio di passioni e di iniziative individuali, sul mantenimento delle antiche regole, e, ostile fin dalle origini alle innova­ zioni radicali di origine straniera, negli ultimi secoli della Repubblica, metterà in atto qualsiasi mezzo per arginare la corrente. Nel 212 a.C., nel bel mezzo della pericolosa crisi religiosa che sconvolgeva l'Italia, il Senato non ebbe paura di pren­ dere contromisure rigorose. Su sua esplicita richiesta, il pre­ tore M. Emilio ordinò a tutti, con un editto, di consegnar­ gli i libri di profezie, le formule di preghiera o le ricette dei sacrifici allora in circolazione ed impedì a chiunque di sacri­ ficare secondo un rito nuovo e straniero (Tito Livio XXV 1, 12). Ma intanto, in seguito all'applicazione delle misure prescritte, l'attenzione si rivolse a due oracoli dovuti ad un indovino di nome Marcio o a due fratelli Marci. Erano scritti in un latino ampolloso e oscuro e certa­ mente erano incisi su corteccia d'albero. Uno annunciava il disastro di Canne, l'altro raccomandava di istituire dei gio­ chi in onore di Apollo. Con stupefacente rapidità, il Senato si attenne a questa prescrizione. Furono offerti ad Apollo giochi annuali, i ludi Apollinares, di carattere assolutamente ellenico, con banchetto all'aria aperta e supplicazioni pub99

bliche. Gli oracoli marciani furono conservati addirittura con i libri Sibillini il che accentuò, da quel momento, il loro carattere greco. Quando nel 205 a.C. numerose piogge di pietre vennero a turbare i Romani, i libri della Sibilla rac­ comandarono di introdurre nella città Cibele, la Grande Madre della città asiatica di Pessinonte. Ciò aprì le porte a un culto orientale che assumerà un ruolo importante nel futuro. Per rispetto verso le antiche fedi, Cibele fu identifi­ cata con Rea Silvia, madre di Romolo e Remo. Ecco quindi che l'evoluzione dei tempi e il cambiamento delle coscienze creano una situazione complessa e in evolu­ zione rispetto alla divinazione. Vengono alla luce nuovi bi­ sogni divinatori. Presagi e prodigi si sovrappongono e or­ mai si distinguono solo per la forza del loro valore signifi­ cante. In ogni caso il problema è cercare di prevedere cosa accadrà in avvenire, e il ricorso alle tecniche degli aruspici e alla consultazione dei libri Sibillini mira non più soltanto ad espiare le contaminazioni e ad eliminare le tracce lasciate dai prodigi sulla terra, ma anche a far conoscere quello che l'avvenire potrebbe riservare. Nello stesso tempo, le vecchie credenze divinatorie di­ ventano un prezioso strumento nelle mani degli ambiziosi. Bisogna dire che le classi colte acquistano un crescente scet­ ticismo nei confronti delle credenze tradizionali. Generali e uomini politici non esitano, in queste condizioni, ad utiliz­ zare ai propri fini le superstizioni e le paure popolari. Tutto è pronto per lo svilupparsi del culto imperiale. Dalla fine del secondo secolo a.C., si assiste al moltipli­ carsi degli esempi di uso politico dei presagi e degli oracoli. Mario, che era console per la quarta volta, tentò con il suo esercito, nella valle del Rodano, di sbarrare la strada agli in­ vasori germanici, pronti a penetrare nella penisola italica; egli giustificò la sua tattica temporeggiatrice con la preoccu­ pazione di ottenere oracoli favorevoli. Plutarco, nella sua Vita di Mario, racconta che questi era sempre accompagnato da una donna siriana chiamata 100

Marta, che si diceva predicesse l'avvenire. Era stata proprio la moglie di Mario, Giulia, che gli aveva mandato da Roma quell'indovina straniera. Questa, nel corso di un combatti­ mento di gladiatori, aveva predetto quale sarebbe stato il vincitore, e da questa profezia, che si era poi verificata, aveva tratto un credito enorme. Così Marta accompagnava Mario in una lettiga e, per i sa­ crifici, ne scendeva sotto un vero e proprio travestimento, coperta di una veste scarlatta e con in mano una lancia or­ nata di nastri e ghirlande. M 'lrio credeva veramente ai doni divinatori della profetessa? E difficile stabilirlo, eppure è probabile perché per tutta la sua vita egli manifestò grande interesse per le profezie oracolari. Comunque sia, la messa in scena utilizzata era perfettamente adatta a colpire l'im­ maginazione della gente. Marta appariva come un soldato parato a festa, quasi una divinità guerriera, perfettamente idonea per consigliare il capo dell'esercito romano 17• Da allora, oracoli, presagi e prodigi contribuivano, a Roma, esattamente come accadeva nel mondo ellenistico, a dimostrare la vocazione dei grandi ambiziosi ad esercitare proprio quel potere che rivendicavano. Dopo Mario, Silla si vide costantemente indicato dai segni del divino. È an­ cora Plutarco a raccontarci come, nel 90 a.C., gli aruspici che lo accompagnavano avessero saputo spiegare a suo van­ taggio l'apparizione di una fiamma che si era levata dalla terra. Questo fuoco, questa fiamma insolita, significava che un uomo dai capelli chiari (Silla era biondo) si sarebbe an­ ch'egli levato sino al cielo (Plutarco, Vita di Si/la 6). Poi i segni così manifesti si moltiplicarono: una corona d'alloro, simbolo della vittoria, apparve sul fegato di una vittima sa­ crificata. Il capo dell'esercito, l'imperator, che aveva un contatto costante con la divinità grazie al suo sacerdozio di­ vinatorio, l'augurato, appariva come un eroe protetto dalla

17 Cfr. F. Chamoux, La prophétesse Martha, in Mélanges W. Seston (Parigi 1974) p. 8 1-87. 1 01

provvidenza, che univa in sé la virtus, il valore militare, e la felicitas, la fortuna che lo innalzava al di sopra dei comuni mortali. Il valore sacro della persona del capo si impone, con forza accresciuta, con la dittatura di Cesare che prepara l'instau­ razione della monarchia su base religiosa. Naturalmente, Cesare fu sempre circondato dai segni del favore celeste. Svetonio racconta che aveva un cavallo straordinario, coi piedi simili a quelli di un uomo. Questo cavallo, che rinno­ vava la leggenda di Bucefalo, era nato nella sua casa e gli aruspici riconobbero in lui l'annuncio dell'impero uni­ versale. Nei momenti importanti della sua vita e del suo destino, appaiono i segni divini, quasi a dettargli la sua condotta, come quando esita a traversare il Rubicone. Un uomo di straordinaria altezza e bellezza appare, afferra una tromba, suona la carica, traversa il fiume. Cesare riconosce l'avverti­ mento divino e il famoso « !acta alea est», il dado è tratto, non deve far dimenticare l'escl àmazione che legittimava l'a­ zione decisiva con il prodigio apparso: « Andiamo, gridò, là dove ci chiamano i prodigi degli dei e l'ingiustizia degli uo­ mini » (Svetonio Divus Julius XXXII). Questa sistematica utilizzazione politica della divina­ zione ha ovviamente contribuito ad allontanare i pensatori dal credere al suo reale valore. Certo, i direttori della scuola stoica continuano ad ammettere la realtà della mantica e a difenderla contro un movimento critico che si allarga, ma ciò non è sufficiente ad impedire un profondo moto di di­ saffezione che si sviluppa nelle classi colte. Nel suo trattato intitolato De Divinatione, Cicerone stesso, malgrado la sua amicizia per lo stoico Poseidonio, manifesta un totale scet­ ticismo nei confronti di procedure divinatorie. Suo fratello Quinto è, sì, incaricato nel dialogo di riportare il punto di vista della tradizione, ma ciò non attenua la severità di Ci­ cerone al cospetto degli abusi ai quali dava luogo l'utilizza­ zione dei presagi e dei prodigi. 102

In quel periodo di crisi e di cambiamento che è la fine della Repubblica e l'inizio dell'Itnpero, bisogna accordare tutto il suo spazio e la sua importanza all'esperienza reli­ giosa di un Virgilio. È stato scritto un libro, eccellente, sulla religione di Virgilio 1 8 • Questa non è facile da definirsi, perché Virgilio, pensatore di genio, ebbe un'esperienza reli­ giosa complessa, nutrita del passato ma aperta verso il fu­ turo. J. Bayet 19 lo definisce così in poche, penetranti righe: « La ricerca dell'equilibrio personale insieme all'antica "pace degli dei", l'inquietudine dei destini, unita al bisogno di un legame storico soprannaturale; la fedeltà al politeismo in un'aspirazione quasi inconsapevole all'unicità del volere divino; il consenso alle forme raffinate dell'ellenismo che fa rinascere, per antitesi, la curiosità e il fresco incantamento degli antichi culti latini ... Perfino la sorda spinta dell'O­ rientalismo che maschera la sua influenza su quella che si è chiamata la sensibilità precristiana del poeta ». In questa estrema sensibilità alle diverse forme della fede, la divinazione gioca un ruolo di primo piano e nessun la­ voro sulla mantica antica potrebbe trascurare di prestarle una particolare attenzione. Nell'Eneide, che segue le pere­ grinazioni del troiano Enea, perseguitato dall'ostilità di Giunone dopo la rovina della patria asiatica fino al suo sta­ bilirsi nel cuore del Lazio, tutto è determinato dalla vo­ lontà degli dei che, in ogni momento del poema epico, mol­ tiplicano presagi e oracoli. Forme latine della divinazione e forme greche si uniscono qui in maniera indissolubile per costituire una trama di avvertimenti ai quali Enea, eroe pio per eccellenza, presta la sua attenzione, e dai quali si lascia guidare. Per rendersi conto di questo processo religioso, è sufficiente ricordare qualcuno dei presagi e dei prodigi che guidarono la sua strada tortuosa. Quando Enea, trascinato dalla tempesta verso la città di 1 8 Di P. Boyancé, nella serie Mythes et Religions (Paris 1963). 19 J. Bayet, Histoire cit., p. 167.

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Cartagine, racconta, nei libri II e III dell'Eneide, a Didone la Fenicia la presa di Troia e la sua perigliosa navigazione fino alla costa africana, egli presenta come causa della caduta della sua città e dell'inizio delle sue disgrazie l'episodio del cavallo. Ora, per quanto ciò non sia chiaramente detto nel racconto virgiliano, l'astuzia dell'esercito greco non sa­ rebbe certo riuscita senza un terribile prodigio, che non solo spiegava l'aberrazione dei Troiani ma nello stesso tempo li aveva spinti a far entrare nella loro città quella strana macchina di legno, piena di nemici in armi. Lao­ coonte, fratello di Anchise, si era opposto con violenza a questo gesto dissennato e aveva anche scagliato un giavel­ lotto nel fianco dell'animale. Ma, designato sacerdote di Nettuno (in effetti Poseidone), mentre stava immolando sulla costa un toro al dio dei mari per placare la sua antica ostilità verso Troia, due mostruosi serpenti escono dalle ac­ que, avvolgono e divorano i due giovani figli del poveretto, poi lo avvolgono a sua volta e lo soffocano nelle enormi spire. V anno poi a rifugiarsi sotto lo scudo di Pallade (II 201-220). Un tale prodigio, che scuote la gente e suscita un terrore religioso pare condannare tutti coloro che si oppon­ gono all'ingresso del cavallo nella città e, quindi, il destino di Troia è segnato. Questo racconto straordinario, che con notevoli varianti era stato illustrato nella poesia greca del V secolo e fu im­ mortalato nel marmo da tre famosi artisti di Rodi, ci tra­ sporta nell'atmosfera del meraviglioso ellenico. Ma la fede dei Romani nell'estrema importanza, nella vita delle città, dei prodigi significativi, era adatta ad accogliere questo stu­ pefacente e terribile racconto venuto dall'Egeo. Segni e oracoli, cari alla divinazione ellenica, si incon­ trano numerosi nell'Eneide e queste forme della divina­ zione naturale attestano quanta grecità permeasse l'animo virgiliano. Sappiamo quante volte Enea vede in sogno amici e parenti che gli prodigano consigli e rivelazioni. E, natu­ ralmente, l'Apollo romano che ad Azio diede ad Ottaviano 104

la vittoria su Antonio, e si vede costruire come pietosa ri­ compensa il nuovo tempio del Palatino, svolge un ruolo importante in tutta l'epopea. Parla per bocca di indovini ispirati, quali Eleno, il re d'Epiro poi, e nel VI canto, ispira la Sibilla cumana, annunciatrice del destino di Enea e di Roma. In un passo grandioso e patetico, la selvaggia sacer­ dotessa, soggiogata dal dio che la ispira, preannuncia l'av­ vento di una voce profetica che riempie l'antro dove esprime i suoi oracoli. In un'atmosfera di orrore sacro, at­ traverso la sua bocca si esprime tutta la divinazione ispirata greca. Quando Enea, nel VII libro, arriva nel Lazio, i segni di­ vini acquistano, mi sembra, un andamento più romano. Non è forse naturale che sulle terre della Grecia e della Ma­ gna Grecia le manifestazioni della mantica abbiano una fi­ gura più ellenica, e che sulle coste d'Italia acquistino un co­ lore più nazionale? Nel palazzo del vecchio re Latino che regna sul paese, due prodigi, tipicamente romani, si verifi­ cano e turbano il re, ma in effetti sono avvertimenti divini che annunciano la venuta di uno straniero che sposerà la fi­ glia Lavinia. L'unione delle due famiglie darà i natali ad un nuovo popolo fatto per governare la terra.

LA DIVINAZIONE DURANTE L ' IMPERO La vita religiosa durante l'Impero romano è di grande complessità, e si modifica naturalmente coi secoli. Dal re­ gno di Augusto comincia a profilarsi il culto imperiale, an­ che se è vero che la divinizzazione dell'imperatore vivente sopraggiungerà più tardi e Augusto, da vivo, rifiutò di es­ sere annoverato tra gli dei. Ma nelle province vengono co­ struiti templi in onore dell'imperatore e della stessa Roma. Alla sua morte, fu divinizzato e nasce così la cerimonia del­ l' apoteosi imperiale. 105

Nello stesso tempo, l'inquietudine morale e religiosa de­ gli individui li guida ora verso tutta una serie di soluzioni nuove che ai loro occhi permettono di trovare una risposta al problema della sopravvivenza personale. Si spiega così la crescente popolarità dei culti dei misteri ellenici e delle reli­ gioni orientali che si dividono i favori della gente fino al tardivo trionfo del monoteismo cristiano. Il mondo nel quale il fedele di queste nuove credenze entra è ben lontano dal paganesimo romano, quale lo abbiamo seguito fin qui attraverso il mondo della divinazione. Il devoto sceglie la sua divinità e, dandosi a lei, si sottomette all'autorità di un clero specializzato che dedica la sua vita al servizio del culto. Il sacerdote diventa ora una guida, che ha la missione di condurre l'iniziato lungo la strada della salvezza perso­ nale e dell'immortalità, facendolo partecipare ai miti della resurrezione. Questa tendenza generale non provoca però la scom­ parsa, come per un colpo di bacchetta magica, delle cre­ denze generali. Preoccupato al più alto grado della tradi­ zione e malgrado l'evoluzione spirituale, Augusto, fonda­ tore dell'Impero, si presenta come il restauratore della reli­ gione nazionale. Egli rimane estremamente sensibile agli avvertimenti che gli prodigano gli dei, che si tratti di au­ spici, di presagi o di prodigi. Secondo Svetonio, i presagi che lo riguardavano ancor prima della sua nascita, poi il giorno stesso in cui nacque e negli anni che seguirono, fe­ cero prevedere e rivelarono la sua futura grandezza e la sua fortuna senza ombre. Sicché il carisma imperiale si fondava parzialmente sulla credenza nella divinazione tradizionale. I legami che Augusto conserva con il passato di Roma si manifestano anche nel suo atteggiamento verso gli oracoli e i libri Sibillini. Le profezie di ogni genere che andavano dif­ fondendosi a quel tempo in Italia e nella stessa Roma gli ispirano una diffidenza tipicamente romana. Divenuto gran pontefice, fece mettere insieme tutto quello che circolava in materia di libelli, libri profetici, scritti sia in greco che in la106

tino, in tutto oltre duemila libri, a credere a Svetonio, ed è un numero enorme, ma non esitò a farli bruciare, conser­ vando solo gli oracoli sibillini dopo averne fatto una cer­ nita. Li pose poi in due comparti collocati sotto la statua di Apollo, nel tempio sul Palatino. Ritroviamo qui un atteg­ giamento che più volte, sotto la Repubblica, aveva pro­ dotto gesti analoghi. Eppure il simbolismo greco-orientale, annunciatore della dignità monarchica, favorisce il nuovo regime; ma l'imperatore continua a diffidare dell'ispira­ zione individuale e la raccolta oracolare della Sibilla viene sempre tenuta sotto sorveglianza. Da molto tempo, il sistema annuale dell'espiazione dei prodigi era scomparso e non si poneva più la possibilità, an­ che per gli imperatori più legati all'antica religione di Roma, quali Augusto, poi Claudio, di far rivivere un ele­ mento del diritto sacro che non trovava più comprensione in un mondo divinatorio ormai profondamente trasfor­ mato. Ciò non impedì che la raccolta sibillina fosse conser­ vata preziosamente fino alla fine del paganesimo e conti­ nuasse ad essere considerata una delle garanzie della soprav­ vivenza di Roma. Certo, la sua consultazione si fece molto più rara. Tuttavia non terminò completamente, e veniamo a sapere che nel 262 d.C., sotto il regno di Gallieno, questi testi furono consultati per conoscere il modo di espiare un prodigio minaccioso. Per parte loro, gli aruspici, malgrado l'antichità del loro ministero già presente sotto i Tarquini, non cadono nell'o­ blio e il prestigio della loro scienza rimane ancora grande. Durò infatti quanto la stessa Roma. L'imperatore Claudio, che volle continuare la politica religiosa di Augusto e di Ti­ berio e opporsi a novità pericolose, organizzò nel 47 d.C. l'ordine degli aruspici. L'imperatore veniva così a disporre di un corpo costituito di indovini professionisti. In un cele­ bre discorso che pronunciò al Senato, e che conosciamo per una famosa pagina di Tacito e per la celebre iscrizione detta « Tavola di Lione », egli fece un vivo elogio di questi sacer107

doti provenienti dali' aristocrazia etrusca che spesso ave­ vano contribuito a salvare l'Italia dai pericoli che la minac­ ciavano e dei quali lo Stato romano continuava ad avere bi­ sogno. Si trattava qui, contro l'avanzata delle superstizioni straniere, di mantenere viva « la più antica disciplina d'Ita­ lia », che era stata tramandata per secoli, di generazione in generazione, in seno alle più importanti famiglie etrusche. Non ci si stupirà quindi, in queste condizioni, che a partire dal regno di Claudio si conti un ordine di sessanta aruspici, vero collegio sacerdotale con sede a Tarquinia, poi a Roma. Il suo presidente era eletto per un anno e un tesoriere am­ ministrava le sue risorse. Era stato così creato quello che J. Heurgon chiama « la scuola autorizzata della disciplina etrusca " la cui sopravvivenza venne così garantita fino alla fine dell'Antichità. Accanto a questa organizzazione statale si moltiplicavano gli aruspici locali, veri indovini di paese che sfruttavano la credulità popolare ed ispiravano solo disprezzo nella classe colta. Già Catone aveva vietato l'ingresso nelle sue pro­ prietà agli indovini di qualsiasi tipo, « agli aruspici, agli au­ guri, ai chiromanti e agli astrologhi " e, secondo un detto ri­ masto celebre, si stupiva di constatare che un aruspice po­ tesse vederne un altro senza ridere. Malgrado questo disde­ gno, che si ritrova presso altri autori, si vede che durante l'Impero gli aruspici sono presenti nei luoghi più disparati, nelle città, accanto ai comandanti delle legioni e ai governa­ tori delle province, perfino alla corte dell'imperatore. An­ che se dovunque si faceva appello alle loro conoscenze, ciò ispirava pur sempre qualche timore e, secondo una legge augustea, fu loro vietato di fornire pronostici circa la morte di chiunque. In effetti, li si accostava a tutti quelli che, du­ rante l'Impero, si erano dedicati alla magia, all'alchimia, alla teurgia, a tutte le forme di pseudoscienza grazie alle quali si immaginava di poter, attraverso una sorte di costri­ zione imposta alle forze divine, realizzare l'impossibile. Ci si ricorda che, dal principio della storia dell'Etruria fino 108

alla fine dell'Impero romano, l'aruspice-mago si diceva ca­ pace di attrarre il fulmine. Simili credenze furono raffor­ zate dalla popolarità dei culti orientali, come il culto egi­ ziano che non faceva distinzione tra rituale cerimoniale e procedimento magico. Non si può nemmeno immaginare l'estrema popolarità di cui beneficiarono certi creatori di prodigi come Apollonio di Tione che viveva all'epoca dei Flavi. Ad un certo Arnuphis, mago egiziano alla corte dell'im­ peratore Marco Aurelio, una tradizione largamente rappre­ sentata attribuisce un'arte magica di un'efficacia tale che, in un momento critico per i Romani, seppe provocare una pioggia miracolosa che li salvò. Questo episodio ampia­ mente commentato 20 celebra l'inattesa salvezza dell'eser­ cito romano, in difficoltà all'interno della Moravia, nel­ l'anno 172 d.C. Le legioni erano stremate dal caldo e dalla sete e rispondevano debolmente agli assalti delle truppe barbare, i Quadi, che erano riusciti a tagliare l' approvvigio­ namento d'acqua agli invasori. Grazie alle preghiere e agli efficaci riti magici di Arnuphis, scoppiò un terribile tempo­ rale, cadde una pioggia torrenziale che rinfrescò i Romani e restituì loro il piacere di combattere, mentre tuoni e ful­ mini spaventarono i Barbari e molti di loro annegarono nel diluvio e vennero trascinati via da torrenti di pioggia. Molte interpretazioni furono date di tale prodigio, e i cri­ stiani, dal canto loro, attribuirono la salvezza della truppa alle preghiere dei soldati cristiani che si trovavano nei suoi ranghi. Da parte loro, i pagani diedero diverse spiegazioni, ma sembra che il mago si sia rivolto a Ermes-Thot per otte­ nere la pioggia provvidenziale. O, almeno, è a questo dio che negli anni seguenti Marco Aurelio rese grazie nelle ma­ nifestazioni ufficiali di riconoscenza. L'avvenimento ebbe 20 Il prodigio della pioggia miracolosa ha suscitato numerosi studi. Ci riferiamo agli articoli di J. Guey, La date de la pluie miraculeuse. . , MEFR. 60 ( 1948) p. 105 e seg., e 61 (1949) p. 93, e Rev. de Phil. 22 (1948) p. 16 e seg. .

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tali ripercussioni che fu commemorato con alcune monete e rappresentato in una buona collocazione sulla colonna Aureliana che fu eretta tra il 175 e il 193. Vi si vede ancora la figura allegorica di un vecchio alato, con la barba e i ca­ pelli grondanti, che fa cadere sulla terra la pioggia provvi­ denziale. Di fatto, lo scultore ha solo voluto rappresentare il ruolo devastatore del temporale inatteso e dell'acqua che, precipitandosi per le gole, trascina, in un impeto irresisti­ bile, l'esercito barbaro, uomini e cavalli. Alcuni Romani as­ sistono stupefatti al prodigio salvatore. Il vecchio della pioggia aveva così assicurato la vittoria ai Romani, e le forze cosmiche, grazie al potere magico di un sacerdote, si erano scatenate a vantaggio di Roma e del suo imperatore. Una simile scena è tanto più interessante in quanto l'arte antica è sempre stata molto discreta nel raffigurare quel fe­ nomeno sacro per �ccellenza che è il prodigio. Non è però unica, perché sulla stessa colonna Aureliana, su un altro bassorilievo, si vede anche il fulmine che cade a colpire una macchina da guerra che si erge contro il campo romano. Marco Aurelio presente alla scena sul fregio scolpito aveva saputo, secondo i testi, suscitare con le sue preghiere questo fulmine benefico 2 1 • Prima, il fregio scolpito, che corre a spirale attorno alla colonna Traiana e racconta dettagliata­ mente delle grandi spedizioni di Traiano nel corso dei primi anni del secondo secolo a.C., aveva pure immortalato un episodio nel corso del quale Giove stesso aveva lanciato il fulmine contro una truppa di Daci che combattevano contro i soldati romani 22 • L'arte romana, che in questi due casi era diventata storica, non poteva evidentemente trala­ sciare di illustrare i momenti in cui gli dei avevano soste­ nuto gli eserciti di Roma. Di questi tre prodigi, quelli che compaiono sulla colonna Aureliana sono prodigi ricercati, 2 1 Cfr. C. Caprino, G. Gatti, M. Pallottino e P. Romanelli, La co­ lonna di Marco A urelio (Roma 1955} tav. VIII, fig. 17 e tav. IX fig. 18. 22 Cfr. C. Cichorius, Die Reliefs der Trajansaule (Berlino 1 896-1900} tav. XVIII 60. 1 10

sia che si tratti del fulmine suscitato dalle preghiere dell'im­ peratore che diventa lui stesso taumaturgo o della pioggia miracolosa che aveva fatto cadere dal cielo il sacerdote egi­ ziano, devoto del grande dio Thot. L'aruspice aveva sempre provocato miracoli. Durante l'Impero, è l'imperatore stesso a svolgere questo ruolo come pure questo o quel mi­ nistro di culti orientali. In questo modo, la figura dell'imperatore, detentore del potere supremo, diventa il centro della vita religiosa e quindi del mondo divinatorio. Certo, le posizioni delle classi colte e quelle degli storici sono diverse sotto questo aspetto e vanno dalla diffidenza costante di un Tacito fino alla suggestionabilità di Svetonio. Ma sembra che la gente adottasse progressivamente le nuove fedi e concepisse la vita dell'imperatore come l'espressione della volontà di­ vina. Ad ogni modo è quel che traspare dall'opera di Sveto­ nio, ed il suo racconto è significativo già per i primi anni dell'impero che egli appunto ci illustra. Leggiamo quello che ci dice sull'atmosfera « meravigliosa » che regnò a Roma prima della nascita di Augusto: « Attia, sua madre, recatasi nel pieno della notte ad una cerimonia solenne in onore di Apollo, fece collocare la lettiga nel tempio e vi si addor­ mentò, mentre le altre matrone rientrarono a casa. Un ser­ pente all'improvviso scivolò vicino a lei e poi subito scom­ parve. Al suo risveglio, si purificò, come se fosse uscita dalle braccia di suo marito. Da quel momento recò sul corpo una macchia a forma di serpente e non riuscì mai a farla sparire, tanto che dovette rinunciare per sempre ai ba­ gni pubblici; e quando, nove mesi dopo, nacque Augusto, lo si considerò figlio di Apollo. Inoltre, prima di partorire, Attia vide in sogno le sue viscere levarsi fino alle stelle e di­ stendersi per la vastità della terra e del cielo. Più tardi, Otta­ vio, che traversava a capo di un esercito le solitudini della Tracia, consultò per suo figlio gli oracoli barbari in un bo­ sco consacrato a Bacco ed i sacerdoti gli resero le stesse di­ chiarazioni (cioè che era nato un signore dell'universo),

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perché il vino versato sull'altare aveva fatto salire la fiamma così in alto che aveva superato la vetta del tempio per al­ zarsi fino al cielo e solo Alessandro aveva ricevuto un si­ mile presagio quando aveva sacrificato sullo stesso altare ,.. Lo stesso Augusto non manifestò minor fiducia dei suoi genitori nei segni di ogni sorta che riguardavano la sua per­ sona e i suoi atti: « Più tardi Augusto ebbe una così forte fi­ ducia nel suo destino che fece pubblicare il suo oroscopo e battere monete d'argento col segno del capricorno sotto il quale era nato ». Bisogna dire che i sacerdoti che lo circon­ davano prendevano molta cura nel volgere a suo vantaggio tutte le manifestazioni divine anche se, di primo acchitto, presentavano un aspetto oscuramente pericoloso: « Davanti a Perugia, poiché i presagi del sacrificio non erano propizi, aveva dato ordine di aumentare il numero delle vittime, quando i nemici, facendo un'improvvisa sortita, portarono via tutto l'apparato per il sacrificio. Gli aruspici si accorda­ rono allora col dire che tutti i pericoli annunciati al sacrifi­ catore sarebbero ricaduti su quelli che avevano prelevato le interiora delle 'fittime. E non accadde diversamente "· In seguito, diversi imperatori, sull'esempio di Augusto, ebbero fede nel proprio destino, e la gente romana stessa visse in qualche modo la loro divinizzazione. La cerimonia dell'apoteosi costituiva infatti un vero e proprio rituale di passaggio dal piano umano e quello divino. Il rituale prese forma alla morte di Augusto e si costituì tutta una proce­ dura che segnò con solennità la fine dell'esistenza terrestre del signore. Si faceva involare un'aquila dal rogo funebre sul quale si era consumata la spoglia del morto e intorno al quale i sacerdoti organizzavano una processione solenne. L'aquila era incaricata di portare con sé l'anima dell'impe­ ratore e un uomo dichiarava sotto giuramento che lui stesso l'aveva visto salire al cielo come, tanti secoli prima, Procolo Giulio aveva affermato per Romolo. Il rogo monu­ mentale era diventato così strumento di divinizzazione e, da questa sorta di sacra piramide, aiutato dall'aquila, l'impe1 12

ratore defunto s'involava verso il cielo. In questo prodigio

di nuovo tipo per Roma, ma ben conosciuto dal mondo el­

lenistico, l'apoteosi costituiva un'ascesa dell'anima al cielo, meravigliosamente resa visibile dal volo rapido dell'uccello miracoloso verso le sfere celesti. La gente doveva immagi­ nare che il divinizzato andava a vivere nell'al di là, in anima e corpo. Sulla terra, la stessa gente vedeva nell'immagine dell'imperatore una sorta di sostituto della sua persona reale, che conservava vita e prestigio magici. Questo è senza dubbio l'uso principale della mantica tra­ dizionale all'epoca dell'Impero romano. Le diverse cre­ denze divinatorie e di vecchia tradizione costituiscono uno dei sostegni del culto imperiale che ha lo scopo religioso di ricreare un'unità religiosa valida nelle province da Ovest a Est. Ma le religioni della salvezza promettevano allora a tutti e non solo all'imperatore un'immortalità appassiona­ tamente desiderata in tutti gli strati sociali. In queste condi­ zioni, i presagi e i miracoli - designamo così i prodigi nelle religioni monoteiste - servirono a rendere autentiche agli occhi ?ella gente le grandi speranze portate dagli dei di re­ surreziOne. Sotto l'Impero, i modi tradizionali della divinazione per­ sero progressivamente la loro popolarità. Anche gli oracoli più celebri videro decrescere rapidamente la loro clientela. Ma a vantaggio di altre forme di fede e di mantica che, si pensava, permettevano di prevedere l'avvenire ed eventual­ mente di agire su di esso. L'astrologia e la magia videro au­ mentare il loro prestigio e il loro favore. Nel cammino verso il monoteismo che, favorito dal suc­ cesso delle religioni della salvezza, doveva sfociare nel trionfo del cristianesimo, si operava una sorta di sincreti­ smo, cioè un processo di sintesi, di unione delle fedi. Negli ultimi secoli del paganesimo, tutto un complesso di movi­ menti filosofico-religiosi, gnosi, ermetismo, contribuirono a sviluppare sistemi miranti a conciliare e ad unire la scienza e la religione. 113

In mezzo al proliferare di queste credenze sincretiche e mistiche, fioriva l'astrologia, forma di divinazione apparen­ temente scientifica di antica origine che allora conobbe un successo senza precedenti. Prendendo le sembianze di una scienza, occupò un posto fino ad allora inimmaginabile nella religione romana. I saggi, dal canto loro, coordinavano i dati dell'osservazione quotidiana dei movimenti regolari dei pianeti, nella zona celeste occupata dai segni fissi dello zodiaco. Per quella via andava imponendosi l'idea di un or­ dine universale che reggeva le diverse parti del mondo. Come gli antichi presagi erano nati dalla fede nel paralleli­ smo dei diversi ordini del mondo, così l'astrologia pareva consentire di prevedere, secondo la congiunzione degli astri, la successione degli avvenimenti e, più specificamente, secondo la disposizione del cielo al momento della nascita, secondo l'oroscopo, il destino dell'uomo, l'avvenire dell'in­ dividuo. L'ipotesi necessaria era quella di un'indissolubile unione tra il mondo terrestre e il cielo che lo domina. Na­ turalmente, un tale sistema geocentrico il cui valore scienti­ fico era solo apparente, beneficiò di tutte le speculazioni caldee ed egizie che l'ellenismo aveva diffuso e che si impo­ sero durante l'Impero. L'antica mitologia greco-latina co­ nobbe allora come un'imprevista rinascita perché gli astri, personificatisi, ricevettero nomi e caratteristiche degli dei olimpici e il mondo moderno raccoglie l'eredità di queste designazioni. È sempre il principio della simpatia universale ad essere all'origine dello sviluppo della magia. Con la conoscenza il­ lusoria di atti o formule capaci di ottenere risultati certi, il mago presume di poter incantare o dominare la natura. An­ che qui l'influenza della Caldea, dell'Egitto e dei loro culti, che impressionano e attraggono la gente, gioca un ruolo centrale. Il sacerdote egizio, con le sue conoscenze segrete ed i suoi riti efficaci, agisce sugli uomini e anche sugli dei. Si passa qui dalla divinazione ad un campo vicino, ma più te­ mibile. Il taumaturgo crea il prodigio - come già preten1 14

deva di poter fare l'aruspice -, riesce ad animare la statua del dio e a farlo apparire. Il negromante fa rivivere per un certo tempo i morti e da loro apprende l'avvenire. Il paga­ nesimo morente sempre di più ricorre a queste pseudo­ scienze, che non erano prossime a scomparire. I testi letterari sono ricchi di descrizioni immaginose dei riti magici. Già nell'epopea storica della Farsaglia, un poeta contemporaneo di Nerone, Lucano, posseduto da un gusto profondo per la violenza e l'orrido, ha saputo comporre scene avvincenti dedicate a strani ed efficaci riti magici. Ecco, per esempio, gli scongiuri di una strega tessala, Eri­ chto, che Sesto, figlio di Pompeo, venne a consultare prima della battaglia di Farsalo per sapere da questa pericolosa maga quale futuro lo attendesse. Questa pensò di poter ria­ nimare per un poco il corpo di un soldato recentemente uc­ ciso e indurlo a rivelare i segreti conosciuti solo dai defunti (IV 719 e seg, trad. L. Canali, Milano 198 1).