La disciplina generale del contratto [2 ed.] 9788892109650

Il diritto dei contratti attraversa da tempo una stagione di interessanti, significative, trasformazioni. A segnarla, il

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Italian Pages XVIII,585 [609] Year 2017

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Indice
Presentazione
Capitolo I Nozioni
Capitolo II Le fonti
Capitolo III Disciplina generale e regole particolari. Le discipline di fonte europea
Capitolo IV I requisiti del contratto
Capitolo V Il regolamento contrattuale e la sua attuazione
Capitolo VI Gli effetti del contratto
Capitolo VII Il controllo sull'atto e il regime delle invalidità
Capitolo VIII Le vicende del rapporto: cause di scioglimento e poteri privati
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La disciplina generale del contratto [2 ed.]
 9788892109650

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La didattica del diritto civile a cura di Salvatore Mazzamuto e Enrico Moscati

Strumenti – 9

Rosalba Alessi

La disciplina generale del contratto Seconda edizione

G. Giappichelli Editore – Torino

© Copyright 2017 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-0965-0

Composizione: Voxel Informatica s.a.s. - Chieri (TO) Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/ fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

Indice

V

INDICE

pag. Presentazione

XV

CAPITOLO PRIMO NOZIONI 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13.

Il contratto: natura e funzione La patrimonialità del rapporto giuridico regolato I contratti collegati. Rinvio Il contratto come atto e come rapporto Le clausole Atti unilaterali a contenuto patrimoniale Il contratto tra autonomia privata e legge (Segue). Contratti tipici e atipici Il contratto misto Volontà delle parti, disciplina legale e ruolo del giudice I negozi giuridici preparatori e il contratto preliminare. Rinvio Il contratto quadro Contratto collettivo: autonomia collettiva e autonomia assistita

1 2 6 6 7 8 9 15 20 24 26 27 29

CAPITOLO SECONDO LE FONTI 1.

La legge applicabile al contratto. I c.d. contratti transfrontalieri

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La disciplina generale del contratto

pag. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18.

Le fonti normative Autonomia contrattuale e garanzie costituzionali Le fonti sovranazionali Il diritto dell’Unione europea (Segue). “L’armonizzazione” del diritto dei contratti: basi legali e obiettivi (Segue). La funzione del diritto europeo di armonizzazione dei diritti interni (Segue). Armonizzazione, acquis comunitario e trasformazione dei diritti interni. Il ruolo della Corte di giustizia Armonizzazione versus unificazione: l’idea della elaborazione di un Quadro comune di riferimento e l’abbandono dell’obiettivo di un codice civile europeo Autonomia contrattuale e diritti fondamentali nella CEDU (Segue). I rapporti tra norme CEDU e diritto interno. Le diverse ricostruzioni e la posizione della nostra Corte costituzionale (Segue). Norme CEDU e norme interne dopo il Trattato di Lisbona La legge ordinaria. Il codice civile (Segue). Il codice del consumo Legislazione regionale e diritto privato I regolamenti e le fonti secondarie (Segue). Il contratto tra disciplina dei rapporti privati e interventi di regolazione dei mercati La c.d. lex mercatoria e i suoi compendi

34 35 38 38 41 44 46

48 51 53 58 63 63 67 69 70 74

CAPITOLO TERZO DISCIPLINA GENERALE E REGOLE PARTICOLARI. LE DISCIPLINE DI FONTE EUROPEA 1. 2. 3. 4. 5.

Il contratto e i contratti nel codice e nelle leggi speciali Le fattispecie regolate dal diritto di fonte europea: premessa Contratti a distanza e contratti negoziati fuori dei locali commerciali. Rinvio La multiproprietà e i contratti affini I contratti per la prestazione di servizi turistici

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Indice

VII pag.

6. 7. 8.

I contratti bancari I contratti con causa creditizia: il credito ai consumatori I contratti per la prestazione di servizi di investimento e il collocamento dei prodotti finanziari 9. I contratti di vendita e in generale i contratti per la fornitura di beni da fabbricare o produrre 10. I c.d. contratti dell’impresa debole: la subfornitura 11. (Segue). I termini di pagamento nelle transazioni commerciali e la tutela delle piccole e medie imprese 12. Le regole particolari e la loro rilevanza nella disciplina generale del contratto

91 93 95 96 98 101 103

CAPITOLO QUARTO I REQUISITI DEL CONTRATTO

I.

Le parti

1. 2. 3.

La qualità delle parti Consumatore e professionista Consumatore e utente. Fornitura di beni da parte di prestatori pubblici e utenza di servizi pubblici Il turista Il cliente al dettaglio e l’investitore non qualificato, persona fisica o giuridica L’acquirente di immobili da costruire destinati ad abitazione La c.d. impresa debole e la microimpresa I contratti della Pubblica Amministrazione Il contratto con più di due parti con scopo comune Identificazione della parte, intermediazione e sostituzione nel contratto La rappresentanza Il conflitto d’interessi nella intermediazione finanziaria Il contratto per persona da nominare e il contratto per conto di chi spetta Parte in senso formale, parte in senso sostanziale e disciplina dei contratti di consumo

4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14.

106 111 124 127 130 134 135 136 138 139 143 154 158 163

VIII

La disciplina generale del contratto

pag. 15. Modificazioni soggettive e circolazione del contratto. La successione nel contratto

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II. L’accordo e la formazione del contratto 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23.

L’accordo delle parti, il procedimento di formazione del contratto e le sue varianti Proposta e accettazione I modi alternativi di conclusione del contratto nel codice civile: l’art. 1327 e l’art. 1333 Il silenzio L’offerta al pubblico (Segue). Offerta al pubblico di strumenti finanziari Il contratto “aperto” I modi alternativi di conclusione del contratto nella società dei consumi. La predisposizione unilaterale delle condizioni generali di contratto I modi ordinari di formazione dell’accordo. Il prima del contratto e le trattative Trattative e responsabilità precontrattuale tra art. 1337 e art. 1338 c.c. Responsabilità precontrattuale e informazione negli artt. 1337 e 1338 Violazione della buona fede nelle trattative e dolo Libertà contrattuale, trattative, negozi preparatori (Segue). Il contratto preliminare Contratto quadro. Rinvio Il prima del contratto nell’incontro professionista-consumatore L’incontro professionista-consumatore sul mercato: la pubblicità (Segue). Le pratiche commerciali scorrette e il problema degli effetti sul contratto La sollecitazione a contrarre e la contrattazione aggressiva: i contratti a distanza e il commercio elettronico (Segue). Il contratto negoziato fuori dei locali commerciali (Segue). L’offerta fuori sede Fase precontrattuale e conclusione del contratto professionistaconsumatore: le regole particolari (Segue). Il principio di trasparenza

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Indice

IX pag.

24. La diversa rilevanza degli obblighi di informazione 25. (Segue). L’informazione minima in tutti i contratti professionista/consumatore 26. (Segue). L’informazione/comunicazione, parte integrante del contratto, nelle discipline settoriali 27. (Segue). L’informazione sulla sostenibilità o sulla convenienza dell’operazione 28. (Segue). Inadempimento degli obblighi di informazione e responsabilità del professionista 29. (Segue). L’informazione nell’offerta al pubblico di strumenti finanziari e il problema della “responsabilità da prospetto” 30. La trasparenza contrattuale e la determinazione legale del contenuto del contratto 31. Formazione progressiva del contratto a tutela del consumatore

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III. La serietà dell’accordo e la protezione della volontà 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Il contratto come espressione di un consenso pieno e consapevole La simulazione Capacità di agire e capacità di intendere o di volere I vizi della volontà: errore (Segue). Violenza (Segue). Dolo Protezione del consumatore e protezione della volontà contrattuale: il punto di vista del diritto europeo Assistenza alla negoziazione Gli elementi accidentali. Rinvio

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IV. La causa e l’oggetto 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Nozione e funzione della “causa” del contratto Il controllo causale nei contratti tipici e nei contratti atipici I contratti misti e i contratti collegati (Segue). Il collegamento negoziale nei contratti di consumo Il contratto in frode alla legge Le classificazioni dei contratti riguardo alla causa Controllo causale, adeguatezza del corrispettivo e controllo sulla convenienza economica del contratto L’oggetto

321 327 333 336 340 341 346 353

X

La disciplina generale del contratto

pag.

V. La forma 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

9.

Il sistema delineato nell’art. 1325, n. 4 e la più recente evoluzione La forma documentale: atto pubblico e scrittura privata (Segue). Il documento informatico Gli atti a forma vincolata nell’art. 1350 c.c. e la (tradizionale) funzione del formalismo Il neoformalismo e la sua funzione (Segue). Il vincolo della forma scritta del contratto e i suoi effetti (Segue). Dal documento cartaceo al supporto durevole Il formalismo a fini di trasparenza e le sue varianti: le prescrizioni formali “di comunicazione” all’interno del contratto e nella fase dell’informazione precontrattuale Le prescrizioni di forma-contenuto

356 358 361 362 363 365 368

369 372

CAPITOLO QUINTO IL REGOLAMENTO CONTRATTUALE E LA SUA ATTUAZIONE 1. 2. 3.

Il contenuto del contratto L’interpretazione del contratto Il controllo “esterno” del regolamento contrattuale: le norme imperative e l’inserzione automatica di clausole e prezzi 4. Controllo sul contenuto e disciplina delle clausole vessatorie 5. (Segue). Caducazione della clausola vessatoria, mantenimento del contratto e applicazione della disciplina legale. Il paradigma della nullità di protezione 6. Il controllo sul regolamento contrattuale nei contratti c.d. dell’impresa debole 7. (Segue). Il (generale) divieto di abuso di dipendenza economica e il controllo sulle condizioni contrattuali “ingiustificatamente gravose o discriminatorie” 8. Il controllo sulle clausole “squilibrate” tra disciplina del contratto e regolazione del mercato 9. Il problema del controllo sul contenuto economico 10. Il ruolo della buona fede nel contratto e la sua funzione integratrice

377 378 386 387

400 406

409 414 416 417

Indice

XI pag.

11. (Segue). Il canone della buona fede tra obiettivi di contemperamento degli opposti interessi e funzionalizzazione del contratto in senso solidaristico 12. Il tema della giustizia contrattuale e della correzione del regolamento contrattuale per via giudiziale

420 423

CAPITOLO SESTO GLI EFFETTI DEL CONTRATTO 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Il regolamento contrattuale e gli effetti del contratto Autonomia privata e integrazione degli effetti del contratto La funzione dell’equità La classificazione dei contratti sotto il profilo degli effetti Gli effetti del contratto e i terzi (Segue). Vicende del contratto, caducazione degli effetti e diritti acquistati dai terzi 7. Autonomia privata e governo degli effetti 8. I poteri delle parti sul vincolo contrattuale: il mutuo dissenso e il recesso nel codice civile 9. Il governo unilaterale del vincolo nei contratti di consumo: il recesso di pentimento 10. Elementi accidentali e governo degli effetti del contratto: il termine e la condizione 11. La presupposizione

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CAPITOLO SETTIMO IL CONTROLLO SULL’ATTO E IL REGIME DELLE INVALIDITÀ 1. 2. 3. 4. 5.

Sanzioni e rimedi Invalidità e inefficacia La nullità: la funzione e le cause La nullità (virtuale) del contratto contrario a norme imperative La nullità strutturale

469 473 474 475 482

XII

La disciplina generale del contratto

pag. 6. 7. 8. 9. 10.

11. 12. 13. 14.

La nullità testuale Il regime generale della nullità La (o le) nullità di protezione: il paradigma dell’art. 36 cod. cons. e le sue varianti La nullità di protezione quale strumento di controllo e di conformazione dell’assetto di interessi L’unitarietà dell’istituto della nullità e il (falso) problema della compatibilità tra dichiarazione ex officio e interesse della parte protetta L’annullabilità: le cause e la funzione Il regime dell’annullabilità La rescissione (Segue). Contratto rescindibile e contratto usurario

484 487 493 498

501 503 504 507 513

CAPITOLO OTTAVO LE VICENDE DEL RAPPORTO: CAUSE DI SCIOGLIMENTO E POTERI PRIVATI 1. 2.

Il contratto come rapporto e la sua esecuzione Le possibili “reazioni” all’inadempimento all’interno della vicenda contrattuale: le eccezioni sospensive e/o dilatorie 3. L’inadempimento e la sorte del contratto 4. L’azione di adempimento 5. Il rapporto tra risoluzione per inadempimento e risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione. “Imputabilità” dell’inadempimento e ruolo della diligenza 6. La “non scarsa importanza” dell’inadempimento causa di risoluzione 7. Predeterminazione legale dell’importanza dell’inadempimento e tecniche di “recupero” della corretta esecuzione del contratto 8. La priorità, ex lege, del recupero del contratto mediante esatto adempimento nella vendita di beni di consumo 9. Autonomia privata e “governo” degli effetti dell’inadempimento 10. Gli obblighi restitutori e il risarcimento del danno 11. (Segue). Il danno non patrimoniale da inadempimento

517 521 524 529

530 534 538 540 547 552 556

Indice

XIII pag.

12. La quantificazione in via convenzionale del danno da inadempimento del contratto: la diversa funzione della caparra confirmatoria e della clausola penale 13. Tutela risarcitoria collettiva dei consumatori: l’azione di classe 14. Risoluzione per impossibilità sopravvenuta 15. Impossibilità della prestazione pattuita e responsabilità del professionista nel contratto di vendita di pacchetti turistici 16. Il perimento della cosa nei contratti ad effetti traslativi e la regola speciale nella vendita di beni di consumo 17. Risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta

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La disciplina generale del contratto

Presentazione

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PRESENTAZIONE

Il diritto dei contratti attraversa da tempo una stagione di interessanti, significative, trasformazioni. A ragione, la causa principale di queste può essere rintracciata nell’innesto, nell’ordinamento interno, delle discipline di fonte europea, a patto però di cogliere, di tale innesto, tutte le implicazioni. Vale a dire il processo che ha visto prima consolidare, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, le discipline settoriali di fonte europea; poi manifestarsi via via la capacità espansiva delle nuove regole, trasferite dal legislatore interno (anche se talora con una certa approssimazione) fuori dalle fattispecie oggetto dell’intervento europeo di armonizzazione; e, infine, dispiegarsi appieno quello che abbiamo chiamato effetto “di contaminazione”, che ha imposto un ripensamento di istituti e categorie del diritto interno. Lungo questo percorso l’«incontro» tra regole diverse e di diversa tradizione (quella di civil law e quella di common law sovente ispiratrice delle normative europee) si è inevitabilmente tramutato in confronto tra valori, tra “idee” di contratto, meglio tra approcci non sempre convergenti al rapporto autonomia privata-legge. Nella dialettica, già ampiamente sperimentata a partire dagli anni ’60, tra l’impostazione liberale comunque sottesa alla disciplina generale del contratto consegnata al nostro codice civile del 1942 e le revisioni di tale disciplina in chiave costituzionale, specie per mano del legislatore, e proprio in una fase in cui, esauritosi il boom economico, anche la stagione del diritto contrattuale “diseguale” a beneficio dei soggetti deboli (e lo stesso ruolo dello Stato sociale) apparivano in declino, si è inserito l’approccio pragmatico del diritto europeo, dove l’attenzione alle aree di contrattazione “asimmetrica” o “squilibrata” in cui si confrontano soggetti di diverso potere (economico e) contrattuale manifesta un segno sicuramente diverso e non nasconde la precipua preoccupazione, di stampo neoliberista, per il fluido e regolare svolgimento degli scambi in un mercato unico e concorrenziale. Da qui, e non a ca-

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La disciplina generale del contratto

so, il tentativo di recupero di istanze solidaristiche, in seno alla disciplina dei rapporti patrimoniali, venuto da parte della nostra giurisprudenza e specie della Corte di Cassazione, tornata ad una interessante funzione di supplenza del legislatore, ma soprattutto dimostratasi capace di intercettare e interpretare la nuova complessità del quadro normativo e sensibile al dialogo a distanza con la Corte di Giustizia Europea. Dopo un trentennio dall’avvio di questo percorso – il cui inizio può fondatamente rintracciarsi nell’emanazione della prima Direttiva sui contratti di consumo negoziati fuori dei locali commerciali 85/577/CEE – il volume che presentiamo si propone di offrire una visione d’insieme della disciplina generale del contratto, che di questi processi è figlia; una visione nella quale i dati normativi, così come rivisitati dal legislatore o riletti dai giudici, non sono semplicemente esposti, seppure nella consueta sequenza aderente all’impostazione del codice, ma ricondotti ad una sintesi che ne vuole prospettare, esplicitamente o anche solo nell’andamento espositivo ed argomentativo, tutte le forti implicazioni di ordine sistematico. L’effetto di “contaminazione” è colto nelle sue premesse (la contaminazione delle fonti, con particolare attenzione a quelle sovranazionali, nel capitolo II) ed altresì nei suoi esiti; sicché, salva la necessaria presentazione delle fattispecie che ne sono oggetto (cui è dedicato il capitolo III), la specificità del “diritto di fonte europea” ne risulta in qualche modo neutralizzata, apprezzandosi invece le relative regole quali componenti, a pieno titolo, di una disciplina generale del contratto profondamente trasformata. Trasformazione nella quale si registrano luci ed ombre che la trattazione non manca di segnalare, proponendosi anzi di rappresentare, di quella dialettica e di quel confronto cui abbiamo fatto cenno, tutti i profili irrisolti. Il libro si rivolge a studenti degli ultimi anni dei corsi di studi giuridici ma altresì a studenti dei corsi postlaurea. Si propone infatti di offrire non una mera illustrazione ma una chiave di lettura del diritto dei contratti attuale, corroborata dagli ampi riferimenti alle più significative e recenti prese di posizione della giurisprudenza sulle questioni ancora aperte, e specie quelle che tornano a interrogarci sul rapporto tra legge (e ruolo del giudice) e autonomia dei privati. In ragione di questi obiettivi, il volume presuppone un costante aggiornamento, volto tuttavia non a catturare l’ultimo dato normativo o la

Presentazione

XVII

più recente presa di posizione dei giudici (interni ed europei), bensì a tentare di trarre da questi, ove rintracciabili, elementi significativi, di continuità o di rottura, in chiave sistematica. Ed è quanto si propone, ora, la nuova edizione, attenta ad offrire al lettore non una pur apprezzabile informazione up to date, quanto i profili di più solido impatto delle “novità” con il diritto interno dei contratti in trasformazione.

Palermo, luglio 2017

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La disciplina generale del contratto

Capitolo Primo – Nozioni

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CAPITOLO PRIMO

NOZIONI

SOMMARIO 1. Il contratto: natura e funzione. – 2. La patrimonialità del rapporto giuridico regolato. – 3. I contratti collegati. Rinvio. – 4. Il contratto come atto e come rapporto. – 5. Le clausole. – 6. Atti unilaterali a contenuto patrimoniale. – 7. Il contratto tra autonomia privata e legge. – 8. (Segue). Contratti tipici e atipici. – 9. Il contratto misto. – 10. Volontà delle parti, disciplina legale e ruolo del giudice. – 11. I negozi giuridici preparatori e il contratto preliminare. Rinvio. – 12. Il contratto quadro. – 13. Contratto collettivo: autonomia collettiva e autonomia assistita.

1. Il contratto: natura e funzione L’ordinamento giuridico riconosce ai privati, seppure a certe condizioni ed entro certi limiti, il potere di autoregolare i propri interessi economici, attraverso lo strumento del contratto. Trattasi di una scelta comune a tutti gli ordinamenti degli Stati moderni la cui economia si basa sulla libera iniziativa dei privati e sul libero mercato, e nei quali, appunto, il contratto serve a sancire e regolare l’incontro tra domanda ed offerta e lo svolgimento delle attività economiche sul mercato. Sia che si tratti di soddisfare bisogni della vita quotidiana o esigenze del tempo libero (procurarsi beni alimentari di prima necessità, avere il godimento di un appartamento per viverci, abbonarsi a un periodico o ad una stagione teatrale, ecc.), sia che si tratti di conservare o incrementare il proprio patrimonio o procurarsi i beni di produzione per lo svolgimento di un’impresa (ottenere un prestito in denaro dalla banca, assumere lavoratori, procurarsi la fornitura di energia elettrica, vendere la propria automobile), gli individui e gli enti devono entrare in relazione

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La disciplina generale del contratto

tra loro, al fine di scambiare beni e servizi o cooperare per la realizzazione di un obiettivo comune. L’incontro delle loro volontà e le loro determinazioni di carattere economico producono effetti rilevanti per il diritto (il trasferimento della proprietà di un bene da A a B, la fissazione di regole, rilevanti per il diritto, che governeranno per un periodo più o meno lungo il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, banca e cliente, ovvero la vita della società, ecc.). Lo strumento ad essi apprestato è appunto il contratto. Il contratto, secondo il disposto dell’art. 1173 c.c. è una delle fonti delle obbligazioni: da esso (dalla sua valida stipulazione) trarrà origine il vincolo giuridico che legherà le parti, obbligando entrambe o una di esse ad un comportamento (dare, fare, non fare) a vantaggio dell’altra parte che vanterà al riguardo una pretesa (secondo il rapporto creditore-debitore proprio dell’obbligazione). Il contratto è anche l’atto mediante il quale circolano i diritti: idoneo cioè a produrre, quale effetto ad esso riconosciuto dall’ordinamento giuridico, il trasferimento dei diritti (art. 1376 c.c.). La funzione del contratto, nei termini che abbiamo ricordato, è ben esplicitata dalla nozione fornita dall’art. 1321 c.c.: «Il contratto è l’accordo di due o più parti diretto a costituire, modificare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale».

2. La patrimonialità del rapporto giuridico regolato La presenza di due o più parti e la patrimonialità del rapporto giuridico che ne è oggetto delineano la distinzione tra contratto e negozio giuridico. L’elaborazione teorica che ha portato alla costruzione della categoria del negozio giuridico – priva di riscontro nei dati normativi – individua nel contratto, unica figura conosciuta e regolata dal diritto positivo, il prototipo del negozio. Del negozio giuridico il contratto presenta la caratteristica essenziale di essere espressione della volontà di chi ne è autore, alla quale l’ordinamento riconosce l’attitudine a produrre effetti giuridici; caratterizzandosi però, intanto, per la necessaria presenza di almeno due parti. Il contratto è così negozio necessariamente bilaterale (es. la compravendita, la locazione, il mutuo, ecc. ove sono presenti due parti, venditore e compratore, locatore e conduttore, mutuante e mutuatario) o plurilaterale (il contratto di società, di cui possono essere parte due o più so-

Capitolo Primo – Nozioni

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ci). Per aversi un contratto occorre che vi sia l’incontro di volontà di due o più parti, intendendosi con tale termine non i soggetti ma i centri di interesse a cui risale il regolamento contrattuale, che potrebbero essere costituiti anche da più soggetti (esempio: più comproprietari che vendono un appartamento sono un’unica parte, venditrice, che ha come dirimpettaia l’altra parte, acquirente). Il secondo elemento che connota il contratto nell’ambito della categoria del negozio è che l’accordo sarà considerato e disciplinato come contratto solo se rivolto a far nascere, modificare, o estinguere un rapporto giuridico di natura patrimoniale. La patrimonialità non deve necessariamente caratterizzare l’interesse della o delle parti, ma attiene al contenuto del rapporto: devono essere suscettibili di valutazione economica gli impegni così assunti e le conseguenze prodotte nella sfera giuridica delle parti. Come abbiamo ricordato il contratto è una delle fonti dell’obbligazione; e il requisito della patrimonialità si atteggia nel contratto come nell’art. 1174 c.c. L’interesse della parte del contratto – al pari di quello del creditore – può essere di varia natura, ma non così la sua pretesa e l’impegno assunto dalla sua controparte (o in generale i diritti ed obblighi delle parti), che devono avere carattere patrimoniale. Assistere ad una rappresentazione teatrale, ad una partita di calcio o all’esibizione del cantante preferito, risponde ad una esigenza squisitamente ricreativa, di piacere, il cui valore del tutto soggettivo difficilmente potrebbe esprimersi attraverso un “prezzo”. Tuttavia, se per procurarmi tale piacere devo acquistare un biglietto di ingresso al teatro o allo stadio, il fine ricreativo entra a far parte di uno “scambio” economicamente apprezzabile tra me e l’organizzatore dell’evento, il cui contenuto patrimoniale è espresso dal prezzo del biglietto pagato in cambio del servizio: valore economicamente determinato di cui avrò diritto, ad esempio, di ottenere la restituzione ove l’evento sia annullato anche per cause di forza maggiore. In concreto, la verifica sarà agevole nei casi in cui una valutazione economica sia espressamente concordata tra le parti o, all’opposto, sia impossibile o addirittura ripugni alla coscienza sociale: se mi accordo col vicino di casa perché dia di tanto in tanto un’occhiata al mio appartamento mentre sono in vacanza, o se presto assistenza e compagnia ad un amico infermo non potrà parlarsi di contratto, essendo difficilmente rintracciabile un apprezzamento economico, secondo la logica di mercato, dell’attività prestata. E non lo sarà certamente l’im-

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La disciplina generale del contratto

pegno di due amici a scambiarsi i libri da leggere o il motorino. Ma non sempre la distinzione è agevole. Anche nel caso abbastanza semplice – che viene di solito portato come esempio – dell’accordo secondo cui A chiede al vicino di casa B, che accetta, di non suonare il piano dopo una certa ora di notte, la risposta potrebbe essere più articolata, poiché comunque le parti potrebbero avere previsto un compenso per una prestazione che consente pur sempre un apprezzamento economico per quanto non desumibile da relazioni di mercato, sia del sacrificio di uno che del vantaggio dell’altro, e siffatta “patrimonializzazione” permetterebbe di rintracciare in questo accordo un contratto. In realtà quando si tratta di rapporti caratterizzati dalla cortesia (come ad esempio proprio i rapporti di vicinato) o da amicizia, affetto, solidarietà, potrebbe mancare spesso, ancor prima della patrimonialità, la stessa giuridicità del vincolo: le parti potrebbero aver inteso mantenere l’impegno nell’ambito, appunto, dei meri rapporti di cortesia o amicizia o dei c.d. accordi tra gentiluomini. Per tracciare il confine tra ciò che è destinato a rimanere fuori del diritto e ciò che invece cade nell’ambito di questo (la giuridicità, appunto, del vincolo), l’indagine deve appuntarsi sulla volontà delle parti e sull’affidamento che l’una abbia fatto sull’impegno dell’altra, potendo non essere decisiva la presenza o meno di un corrispettivo. Mettere a disposizione di un amico, gratuitamente, la casa al mare per alcune settimane può essere un atto di mera cortesia; ma può dare luogo ad un vincolo giuridico ove le parti intendessero dar vita ad un comodato, cioè ad un contratto, seppure essenzialmente gratuito (come recita l’art. 1803, ult. co., c.c.), da cui derivano per il comodatario sia il diritto di godimento del bene seppur per un tempo determinato o a titolo precario (fino a che il comodante non chieda a suo piacimento la restituzione) sia le obbligazioni di cui agli artt. 1804 ss. Altro esempio ricorrente è quello del trasporto e della distinzione tra trasporto amichevole o gratuito. Se di tanto in tanto passo a prelevare a casa il collega di lavoro per recarci insieme in ufficio si potrà ritenere che ciò avvenga per semplice cortesia e amicizia, in modo del tutto spontaneo e per nulla vincolante. Dunque non rintracceremo un contratto e un rapporto giuridico da esso creato. Il collega, così, non potrà pretendere di essere risarcito, lamentando da parte mia il mancato rispetto di un vincolo, se non sarò costante nell’offrirgli tale passaggio. Ma se il mio comportamento assumesse un carattere costante, sì da determinare una consuetudine, creando un legittimo affidamento nel collega di lavoro, potrebbe

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essere difficile per me contestare che dal trasporto di cortesia si sia passati ad un vero e proprio accordo, dunque ad un contratto di trasporto, ancorché gratuito, dal quale nasce a mio carico il vincolo di fornire la prestazione e la responsabilità per la mancata esecuzione. La gratuità – cioè la mancata previsione di un corrispettivo per la prestazione effettuata, in questo caso il trasporto – non esclude la giuridicità del vincolo, ma è al contrario connotato di taluni contratti per i quali l’ordinamento ammette (come il trasporto) o addirittura richiede come requisito essenziale e distintivo (il comodato) il carattere della gratuità. E d’altra parte la gratuità attiene al contenuto del vincolo e delle prestazioni a carico delle parti, ma non esclude la patrimonialità, intesa nel senso sopra chiarito, quale suscettibilità di valutazione economica. Fuori dal campo dei rapporti patrimoniali non può parlarsi di contratto. Non è contratto ma negozio giuridico bilaterale il matrimonio, destinato a produrre effetti nella sfera giuridica personale oltre che patrimoniale dei coniugi. L’ordinamento assegna in questo caso ai privati ambiti più ristretti di autoregolamentazione dei propri interessi rispetto a quelli consentiti quando è in gioco l’autonomia contrattuale, come delineata nell’art. 1322 c.c. È generalmente esclusa la qualificazione come contratti anche delle convenzioni matrimoniali, accordi che pur avendo ad oggetto esclusivamente il regime patrimoniale tra i coniugi incontrano, quanto a contenuto ed effetti, rigorosi vincoli posti dagli artt. 210 e 211 c.c. in considerazione dello stretto nesso con rapporti e diritti di natura personale. La l. 20-52016, n. 76, che contiene Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, ha previsto che i conviventi di fatto – cioè due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile, secondo la definizione di cui all’art. 1, co. 36 – possono «disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza» (co. 50). Il nuovo «contratto di convivenza», che deve avere forma scritta a pena di nullità, può contenere, oltre che l’indicazione della residenza della coppia, le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alle capacità di lavoro professionale e casalingo, e il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui agli artt. 177 ss. c.c. Malgrado esso sia configurato dal legislatore come precipuamente rivolto a stabilire e regolare esclusivamente gli aspetti patrimoniali della

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convivenza, dando vita in via convenzionale al regime di comunione che è invece previsto come legale per i coniugi, tale atto intercetta o può intercettare comunque aspetti di carattere personale del rapporto di fatto tra i conviventi e loro interessi di natura personale oltre che patrimoniale: si pensi a disposizioni volte a regolare l’apporto di ciascuno al mantenimento di figli, la cui presenza in tale contratto non si esclude in principio. Il richiamo alla figura del contratto lascia qui dunque perplessi, tanto più, come non hanno mancato di osservare i primi commentatori della legge, alla luce della relativa disciplina che si discosta visibilmente da quella generale, confermando la consapevolezza dello stesso legislatore della peculiarità dell’accordo: gli impedimenti alla stipula, la regola della sospensione degli effetti in pendenza del procedimento di interdizione o del processo penale per il delitto di cui all’art. 88 c.c.; il divieto di apporre condizioni o termini; il regime delle invalidità, (si tratta sempre di nullità assoluta ed insanabile), riecheggiano regole dettate in tema di matrimonio, anche se si ammettono poi cause di risoluzione proprie del contratto e cioè, oltre ai rimedi risolutivi ordinari sicuramente applicabili ad esempio in caso di inadempimento, anche il recesso o l’accordo delle parti (vedi art. 1, co. 56, 57, 58, 59 della legge). 

3. I contratti collegati. Rinvio Sovente, in ragione della complessità dei rapporti da regolare e delle finalità da raggiungere, le parti affidano il regolamento dei propri interessi a due o più contratti: essi vengono in concreto programmati per realizzare un’unica operazione economica e dunque ricondotti ad una causa (IV, IV, 3) unitaria. In questi casi – per espressa volontà delle parti o per l’atteggiarsi del regolamento contrattuale (che sarà compito del giudice ricostruire) – un contratto è ragione dell’altro. Il fenomeno è quello del collegamento negoziale (su cui torneremo) e comporta che le vicende di un contratto (inadempimento, risoluzione), si riverseranno sull’altro.

4. Il contratto come atto e come rapporto Contratto e patto sono (quasi sempre) usati come sinonimi. Il legislatore usa sovente il termine patto (es.: il patto commissorio vietato ai sensi

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dell’art. 2744 c.c.; il patto di famiglia, di cui all’art. 768-bis c.c.). Esso è da intendersi, in generale, come sinonimo di contratto: «il patto di famiglia è un contratto ...» recita, appunto, l’art. 768-bis. Parlando di “patto” la legge intende però riferirsi, talvolta, ad una pattuizione su un profilo specifico del rapporto tra le parti, suscettibile di rientrare in un più ampio accordo e dunque far parte di un contratto: nel caso dell’art. 1500 c.c., il patto di riscatto non può che accedere, completandone il contenuto, al contratto di compravendita. Si usa il termine patto, ad esempio, con riferimento a manifestazioni di volontà successive al contratto con cui le parti ne chiariscono, specificano o modificano un profilo: l’inserimento nel contesto di un accordo più ampio e dunque di un contratto-base lo rende partecipe della vicenda di quest’ultimo (invalidità, risoluzione, ecc.). Ricordiamo comunque che nel linguaggio comune, ma talvolta anche nelle espressioni usate dal legislatore, il termine contratto si presta ad indicare sia l’atto di autonomia privata, cioè l’accordo; sia il testo del documento contrattuale, ove esistente, nel quale è versato tale accordo; sia il regolamento contrattuale che da quell’accordo discende e dunque il rapporto giuridico su cui l’accordo interviene. Malgrado il codice usi anche a questo riguardo il termine contratto (v. ad es. artt. 1375, 1453, 1469), quando si parla dell’esecuzione del contratto e degli effetti giuridici da esso prodotti appare più corretto riferirsi al rapporto contrattuale: nelle norme citate l’ordinamento prende in considerazione non l’accordo ma l’attuazione di esso e dunque dei diritti ed obblighi che ne discendono ovvero le vicende del rapporto giuridico di cui l’accordo è fonte. Come vedremo, caratteristica precipua dell’intervento dell’Unione europea nella materia del contratto (tra professionisti e consumatori (IV, I, 2) è proprio quella di assumere come punto di riferimento il rapporto giuridico che lega le parti, dunque il contenuto del vincolo e i diritti ed obblighi nascenti dal contratto, piuttosto che il contratto come atto. Ma il significato di questa affermazione risulterà chiaro a suo tempo.

5. Le clausole Le singole previsioni nelle quali si articola e si specifica l’accordo costituiscono invece le clausole del contratto. Esse di regola vanno considerate unitariamente e nel loro complesso, essendo in gioco la ricostru-

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zione, per il loro tramite, della volontà delle parti: da qui la regola secondo cui esse si interpretano le une per mezzo delle altre (art. 1363 c.c.). Sono tuttavia suscettibili di una considerazione separata: la nullità di una singola clausola o di più clausole non travolge l’intero contratto quando risulta che i contraenti lo avrebbero concluso anche senza questa parte o quando sia possibile sostituire di diritto la clausola pattizia nulla con altra prevista da norma imperativa (art. 1419, co. 1 e 2); ovvero quando tale effetto conservativo è espressamente previsto dalla legge. È questo il caso delle clausole vessatorie nulle nei contratti dei consumatori (art. 33 cod. cons.: V, 4) la cui invalidità non travolge l’intero contratto; ma anche la clausola compromissoria (con cui le parti convengono di devolvere ad arbitri le controversie derivanti dal contratto), è considerata dalla legge come autonoma, e dunque non viene travolta dall’eventuale invalidità del contratto che la ospita (art. 808, co. 2, c.p.c.) e non conduce se nulla alla caducazione di questo.

6. Atti unilaterali a contenuto patrimoniale La maggior parte dei rapporti giuridici patrimoniali tra vivi si costituisce, modifica o estingue per contratto; la legge tuttavia non esclude che anche una manifestazione unilaterale di volontà possa produrre effetti giuridici di natura patrimoniale: si pensi alla remissione del debito da parte del creditore, ma anche all’accettazione dell’eredità, al recesso da un contratto o da una società. Agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale fa espresso riferimento l’art. 1324 c.c., al fine di estendervi, in quanto compatibile e fatte salve diverse disposizioni di legge (si pensi alla particolare disciplina del negozio unilaterale mortis causa, qual è il testamento) la disciplina del contratto. L’ordinamento tuttavia guarda con una certa cautela al negozio giuridico unilaterale a contenuto patrimoniale quale fonte di obbligazioni: la dottrina ha tradizionalmente difeso una interpretazione dell’art. 1987 c.c. nel senso della necessaria tipicità dei negozi unilaterali con cui il soggetto assume un’obbligazione (promesse unilaterali); in generale, l’atto unilaterale può produrre effetti nella sfera giuridica altrui solo nei casi previsti dalla legge o dal contratto. Tali effetti peraltro, come precisa l’art. 1334 per tutti gli atti unilaterali, si producono dal momento in cui vengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati (recettizietà). All’atto unilaterale a con-

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tenuto patrimoniale si applicherà la disciplina dei requisiti (soprattutto causa ed oggetto) o dell’invalidità e quella della forma, previsti per il contratto. Ma anche quella sull’interpretazione, avuto riguardo ovviamente al comportamento del solo autore del negozio; il criterio della buona fede soccorrerà ai fini dell’interpretazione, avuto riguardo all’affidamento riposto dal destinatario della promessa. Le norme sull’interpretazione, ricorda ancora di recente la S.C. «si applicano anche ai negozi unilaterali ... nei limiti della compatibilità dei criteri stabiliti dagli artt. 1362 c.c. e ss. con la particolare natura e struttura della predetta categoria di negozi ... per cui, ad esempio, nei negozi unilaterali non può aversi riguardo alla comune intenzione delle parti, ma si deve indagare soltanto quale sia stato l’intento proprio dei soggetto che ha posto in essere il negozio (senza poter far ricorso, per determinarlo, alla valutazione del comportamento dei destinatari del negozio stesso) ... Parimenti resta ferma l’applicabilità, atteso il rinvio operato dall’art. 1324 cod. civ., del criterio dell’interpretazione complessiva dell’atto». (Cass. 6-5-2015, n. 9127)

7. Il contratto tra autonomia privata e legge Il principio che sta a base della disciplina del contratto, nel nostro sistema giuridico, è quello dell’autonomia contrattuale: cioè della libertà dei privati, salvi i limiti previsti dalla legge, di autoregolare i propri rapporti economici per il tramite, appunto, dello strumento del contratto. L’art. 1322 c.c. vi fa espresso riferimento nella sua rubrica (autonomia contrattuale) e ne sancisce gli aspetti più rilevanti: le parti, recita il co. 1, possono determinare liberamente il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge. Ai privati è consentito anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, cioè contratti atipici (infra, 8), purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela (IV, IV, 2) secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322, co. 2). A chiarire, rafforzare e completare la portata del principio sancito nell’art. 1322 sta l’art. 1372 c.c. circa l’efficacia del contratto. «Il contratto ha forza di legge tra le parti» recita il co. 1 dell’art. 1372 c.c., a sottolineare che l’ordinamento giuridico riconosce ai privati (sep-

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pur entro i limiti che di volta in volta possono intervenire) un potere di “autonormazione”, cioè il potere di darsi da sé, esercitando la propria autonoma determinazione, regole vincolanti, di forza pari a quella della legge. Conseguenza di ciò è il principio che gli anglosassoni ben esprimono con il concetto di “privity” del contratto e che trova sanzione nel co. 2 dell’art. 1372: salvi i casi previsti dalla legge, «il contratto non produce effetto rispetto ai terzi». Il vincolo di fonte privata non può che valere per le parti che lo hanno voluto. Sugli effetti del contratto torneremo (VI). Fermandoci a considerare il concetto di autonomia contrattuale, dobbiamo subito sottolineare che essa si manifesta in molteplici direzioni. I privati sono intanto liberi – sempre che la legge non preveda limitazioni al riguardo – di decidere se stipulare un contratto, quando, come e con chi; anche se la maggiore espressione dell’autonomia contrattuale è ovviamente la scelta del tipo (o di schemi diversi da quelli tipizzati dall’ordinamento) e soprattutto quella del contenuto, cioè del concreto regolamento di interessi. È l’accordo delle parti, in generale, che determina il corrispettivo, le modalità e i tempi di esecuzione delle prestazioni, le garanzie, il termine di durata; ancora, le parti possono individuare e regolare i loro diritti ed obblighi, purché compatibili con la causa del contratto, e decidere anche sulle cause di scioglimento (ad esempio la clausola risolutiva espressa che prevede la risoluzione in via stragiudiziale per un inadempimento anche non grave contrattualmente previsto: art. 1456 c.c., VIII, 9) o sulle conseguenze dell’inadempimento (esempio la clausola penale con cui esse predeterminano l’ammontare del danno da risarcire in caso di inadempimento: art. 1382 c.c.). La disciplina dei contratti è affidata, almeno in linea generale, a norme dispositive, che possono essere cioè derogate dalle parti e che svolgono una funzione di supplenza (c.d. norme suppletive) nel caso in cui un aspetto del regolamento contrattuale non sia stato determinato dall’accordo delle parti. Quando sono in gioco interessi generali e princìpi fondamentali che la legge non consente ai privati di mettere in discussione, l’autonomia contrattuale trova invece limiti in norme inderogabili (o imperative). Alcuni accordi, proprio per le conseguenze che producono, sono vietati dalla legge. Un esempio. La pretesa del creditore è garantita dal patrimonio del debitore, nel senso che egli potrà rivalersi sui beni del proprio debitore ove questi non adempia l’obbligazione (art. 2740 c.c.). Ma

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l’aggressione ai beni del debitore avverrà a seguito di provvedimenti del giudice, dopo che sia stata accertata l’inadempienza del debitore, il valore della prestazione inadempiuta e dell’eventuale risarcimento spettante al creditore, e parimenti effettuata, secondo le regole giuridiche, la c.d. procedura esecutiva (di individuazione e vendita dei beni e di assegnazione al creditore delle somme che gli spettano). Tutto ciò non si ritiene “delegabile” all’autonomia privata, perché un eventuale accordo sarebbe inficiato dalla posizione di debolezza di chi si indebita o è obbligato ad adempiere e si trova magari in una situazione di difficoltà; così il nostro ordinamento vieta l’accordo che consenta al creditore di divenire proprietario del bene offerto in garanzia dal debitore, nel caso di inadempimento. Il relativo accordo, cioè un tale contratto, è nullo: art. 2744 c.c. nullità del patto commissorio. Si ritiene invece lecito il c.d. patto marciano, cioè il contratto con cui creditore e debitore si accordano nel senso che, in caso di inadempimento del debitore, il creditore acquisterà parimenti la proprietà del bene oggetto di garanzia, ma dovrà versare al debitore l’eventuale eccedenza tra il valore del proprio credito e quello del bene, che dunque dovrà essere stimato. La distinzione tra le due fattispecie può essere in concreto assai labile e per questo ha suscitato critiche l’espressa ammissibilità della stipula del patto marciano tra finanziatore e cliente nella recente disciplina del credito immobiliare ai consumatori introdotta nel testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 385, t.u.b.) agli artt. 120 quinquies ss. a seguito del recepimento della dir. 2014/17/UE: vedi in particolare l’art. 120 quinquiesdecies co. da 3 a 6. In generale, come vedremo, il controllo più penetrante sulla meritevolezza dell’atto di autonomia privata si realizza da parte dell’ordinamento per il tramite della verifica sulla esistenza e liceità della causa (IV, IV, 1). Quanto al contenuto e ai limiti della libera determinazione lasciata ai contraenti, le parti potranno poi inserire nel contratto clausole limitative della responsabilità di una o ciascuna di esse per violazione delle obbligazioni nascenti dal contratto; ma non fino al punto di escludere anche la responsabilità per dolo o colpa grave, e clausole siffatte saranno nulle (art. 1229, co. 1, c.c.). Clausole o prezzi previsti da norme imperative saranno inseriti di diritto nel contratto e sostituiranno pattuizioni difformi eventualmente previste dalle parti, che sono colpite da nullità (artt. 1339 e 1419, co. 2). Nei contratti dei consumatori, le clausole vessatorie – che determinino cioè un eccessivo squilibrio tra i diritti ed

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obblighi delle parti in danno del consumatore – sono nulle (V, 4). L’apposizione di un termine alla durata del contratto talvolta (in particolare nel contratto di lavoro) è subordinata a determinati presupposti e formalità, mentre in alcuni casi il termine minimo di durata del contratto è previsto dalla legge con norma inderogabile (es. affitti agrari), con la conseguenza che una eventuale clausola pattizia che preveda un termine inferiore a quello minimo sarà nulla e sostituita di diritto dalla regola di fonte legale. In questo caso siamo in presenza di una integrazione cogente della volontà dei privati, poiché l’espressione delle loro scelte, cioè la clausola contrattuale, non solo è espunta dal contratto per effetto della nullità comminata dalla legge, ma è sostituita di diritto da quella prevista (con norma imperativa). È questo il meccanismo delineato nell’art. 1339 c.c. (IV, V, 9). Diverso è il regime delle c.d. clausole d’uso. Ai sensi dell’art. 1340 c.c. «le clausole d’uso si intendono inserite nel contratto se non risulta che non sono state volute dalle parti». Non si tratta di una integrazione cogente, e cioè dell’inserimento nel contratto di clausole imposte, malgrado o anche contro il volere delle parti, come accade invece per le clausole previste da norme imperative la cui inserzione nel contratto è disposta dall’art. 1339 sopra citato. Il riferimento è qui alle consuetudini del commercio, che, a meno di una espressa volontà contraria delle parti, possono aiutare a completare il regolamento di interessi per taluni aspetti non previsti dai contraenti. Ma l’ordinamento lascia libere le parti di concordarne espressamente la non applicazione. Così, malgrado le parti non abbiano previsto nulla al riguardo, e proprio per colmare tale lacuna, il termine entro il quale dovrà effettuarsi il pagamento del canone mensile di locazione potrà individuarsi con riferimento a quello consueto nella prassi commerciale del luogo (esempio entro i primi cinque giorni del mese). Le clausole d’uso intervengono dunque a completare il contenuto del contratto, a supporto della compiutezza del regolamento contrattuale, a meno che le parti non abbiano espresso una volontà contraria. In qualche modo opposto il modo di operare delle c.d. clausole di stile, vale a dire clausole che sono state sì inserite nell’accordo dalle parti, ma che non esprimono una effettiva, specifica volontà delle parti, ma solo un modo consueto e “formale” di completare l’atto nella sua veste stilistica: vale a dire

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«quelle espressioni generiche, frequentemente contenute nei contratti o negli atti notarili, che per la loro eccessiva ampiezza e indeterminatezza rivelano la funzione di semplice completamento formale». (Cass. 29-9-2011, n. 19876) Per esempio, che il bene è trasferito “nello stato di fatto sussistente” o, “con accessori e pertinenze”, formule generiche che non consentono di identificare la situazione di fatto e di diritto oggetto di quello specifico contratto e dunque non danno nessun contributo a ricostruire la volontà delle parti in sede di interpretazione del contratto. È proprio l’accentuata genericità a caratterizzare, sul piano obiettivo, tali clausole, sì da rendere impossibile attribuire ad esse un qualche significato ai fini della determinazione del contenuto del contratto o comunque rintracciarvi una manifestazione consapevole di volontà dei contraenti. Esse sono pertanto inefficaci, o, secondo parte della dottrina, nulle per indeterminatezza dell’oggetto. Tornando ai limiti alla libertà contrattuale, soprattutto nella disciplina del contratto di lavoro e, più di recente, dei contratti tra professionisti e consumatori, si fa più intenso l’intervento legislativo volto a ridurre i margini di autonomia privata nella determinazione del regolamento contrattuale, a tutela della minore forza contrattuale di una delle parti (lavoratore, consumatore): dunque, la disciplina si caratterizza per essere per lo più inderogabile o ammette deroghe solo se più favorevoli al lavoratore o al consumatore. Siamo qui nel campo dei limiti di legge alla libertà delle parti di determinare il contenuto del contratto: espressione più significativa, come accennato e come vedremo a suo tempo, è quella che attiene al controllo sulla distribuzione tra le parti del contratto di consumo dei rispettivi diritti ed obblighi, onde intercettare e fare dichiarare nulle quelle clausole che comportino un significativo squilibrio in danno del consumatore (clausole vessatorie, V, 4). Intervengono in qualche modo a limitare l’autonomia delle parti, ma da un profilo diverso e con diversa e minore intensità, le norme che, essenzialmente nei contratti dei consumatori, predeterminano gli aspetti del regolamento contrattuale che devono comunque essere previsti nel contratto. Quando indica analiticamente quali elementi, cioè aspetti e condizioni del regolamento contrattuale (es. prezzo, spese accessorie, durata, diritti ed obblighi delle parti, clausole di responsabilità, ecc.) devono es-

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sere chiaramente enunciati al momento dell’accordo e nel testo del contratto, la legge non intende sottrarre alle parti – e in questo caso al professionista che predispone il testo contrattuale da sottoporre ai suoi partners consumatori – la libertà di determinare tali elementi, ma persegue un obiettivo di trasparenza, e vuole dunque che tali elementi e condizioni siano compiutamente definiti e resi noti al consumatore. Non è la legge ma l’autonomia privata a determinare le condizioni contrattuali, ma quelle essenziali a delineare i contenuti complessivi del vincolo contrattuale e i relativi costi, così come proposte dal professionista e accettate dal consumatore nell’ambito delle loro scelte contrattuali, devono comunque essere da subito chiare e definite. La legge detta in questo caso una sorta di schema, di “modello” al quale le parti devono attenersi, riempiendolo dei contenuti frutto delle scelte private. Più intenso – e per questo eccezionale – il limite che si sostanzia nel divieto legale di stipulare taluni contratti atipici. L’obiettivo di unificare e razionalizzare le regole che presiedono alla concessione in godimento di fondi rustici per finalità produttive ha condotto il nostro legislatore, prima più timidamente (l. n. 756/1965, divieto di stipulare contratti di mezzadria) e poi decisamente (l. n. 203/1982) a vietare la stipula di contratti agrari che non assecondino lo schema dell’affitto. Il contratto “atipico” eventualmente stipulato dalle parti sarà comunque ricondotto alla disciplina di questo (unico) tipo legale. A fronte della generale libertà di forma (IV, V, 1) la legge può imporre invece che il contratto sia stipulato con una determinata forma, a pena di nullità. Quanto poi, a monte, alla libertà di contrarre, non è libero di rifiutare il contratto l’imprenditore che svolge la sua attività in regime di monopolio legale: la legge (art. 2597 c.c.) pone a suo carico un obbligo di contrarre con chiunque lo richieda e di osservare la parità di trattamento dei suoi partners. La scelta dell’altro contraente, poi, non è libera nei casi di prelazione legale (IV, II, 13): il coerede è libero di decidere se alienare o meno la sua quota di eredità o parte di essa, ma se decide di alienarla deve prima offrirla in vendita agli altri coeredi cui spetta, appunto, un diritto di prelazione previsto dalla legge (art. 732 c.c.). Non può ricondursi all’ambito dei limiti posti dalla legge all’autonomia privata l’integrazione degli effetti del contratto di cui all’art. 1374 c.c. (VI, 2) A differenza della c.d. integrazione cogente di cui abbiamo parlato sopra (a seguito della quale la regola di fonte legale prevista da

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una norma imperativa, ad es. sulla durata del rapporto, o sulla misura del corrispettivo, si inserisce automaticamente nel contratto in luogo di quella pattizia nulla perché contraria alla norma imperativa), l’integrazione di cui all’art. 1374 (c.d. suppletiva), interviene a completare gli effetti del contratto per la parte non regolata dall’autonomia privata. Prevedendo l’integrazione degli effetti del contratto la legge in questo caso non intende limitare lo spazio lasciato alle scelte dei privati o sostituirsi a queste, ma regolare il modo con cui debba completarsi il regolamento contrattuale per quei profili che le parti abbiano trascurato. Come meglio vedremo a suo tempo, il regolamento contrattuale, (e dunque gli obblighi a carico delle parti e i corrispondenti diritti), per tutto quanto non abbia trovato espressa previsione nell’accordo, troveranno la loro fonte nella legge o, in mancanza, negli usi (la consuetudine) e nell’equità.

8. (Segue). Contratti tipici e atipici Come abbiamo ricordato, l’art. 1322 precisa, quale aspetto significativo dell’autonomia contrattuale, che ai privati è consentito anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, cioè contratti atipici, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322, co. 2). È bene chiarire subito che prevedendo e disciplinando un tipo contrattuale la legge prende in considerazioni operazioni economiche di solito più diffuse e consolidate nella prassi, le identifica per taluni elementi caratterizzanti – ad esempio l’idoneità a regolare il trasferimento a titolo oneroso di un diritto, o la cessione in godimento di un bene o la soluzione bonaria di controversie, o, ancora, per la particolare natura del bene oggetto di scambio, quale un bene produttivo – e in ragione di ciò disciplina in modo coerente i diritti ed obblighi tra le parti. Negli esempi sopra richiamati, avremo così la disciplina del tipo compravendita o locazione o transazione o, ancora, del tipo affitto, quale locazione di bene produttivo. La previsione del tipo indirizza ed in qualche misura condiziona l’espressione dell’autonomia privata. Non nel senso di irrigidire il contenuto dell’accordo entro regole predeterminate dalla legge sì da ridurre l’ambito di autonomia privata alla sola scelta del tipo, normativamente e compiutamente definito: la disciplina dei contratti tipici è affidata

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come già detto, almeno in linea generale, a norme dispositive, che possono essere cioè derogate dalle parti e che svolgono una funzione di supplenza (c.d. norme suppletive) nel caso in cui un aspetto del regolamento contrattuale non sia stato determinato dall’accordo delle parti. Solo quando sono in gioco interessi generali e princìpi fondamentali che la legge non consente ai privati di mettere in discussione, l’autonomia contrattuale incontra invece limiti in norme inderogabili (o imperative). È vero però che una volta scelta una operazione economica che per taluni significativi elementi rientra in un tipo contrattuale, le parti non potrebbero eliminarne o snaturarne gli elementi identificativi, pena l’adozione di un contratto diverso da quel tipo: la concessione in godimento di un bene senza previsione di corrispettivo non potrà più essere regolata come locazione, essendo tale scambio previo corrispettivo elemento identificativo dello schema contrattuale, ed essendo invece la cessione in godimento di un bene a titolo gratuito operazione che rientra nel diverso tipo contrattuale del comodato. L’identificazione del tipo contrattuale è affidata in particolare alla funzione che quello schema contrattuale è idoneo a realizzare in astratto: per questo, come vedremo a suo tempo, viene in gioco la causa del contratto (IV, IV) dovendosi però mantenere distinti causa e tipo. Perché si sia in presenza di un tipo (legale) non basta che il codice o altre leggi facciano menzione di uno schema contrattuale o vi dedichino qualche regola che lo disciplina. Rimane un tipo sociale, cioè ben definito nella sua funzione e nell’assetto di interessi che esso di volta in volta regola il contratto di leasing: si tratta di un contratto atipico, perché più volte menzionato nelle fonti normative, ma mai oggetto in queste di una compiuta disciplina. Leasing (o locazione finanziaria) è il contratto con il quale una parte – locatore o concedente – concede all’altra – utilizzatore – il diritto di utilizzare un determinato bene dietro il pagamento di un canone periodico; con la previsione però (e qui sta la distinzione dal contratto tipico di locazione) di una opzione di acquisto a favore dell’utilizzatore, il quale alla scadenza del contratto avrà la facoltà di acquistare il bene stesso, esercitando il riscatto, dietro pagamento di un prezzo. L’inquadramento entro lo schema della locazione o comunque del contratto finalizzato ad uno scopo di godimento ovvero entro quello della vendita (con riserva di proprietà) dipenderà dal concreto atteggiarsi dell’operazione. La distinzione tra leasing di godimento – nel quale, in caso di risoluzione per inadempimento, dovrà applicarsi l’art. 1453 e la regola di non ripetibilità delle prestazioni eseguite nei contratti di dura-

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ta (in questo caso i canoni) – e leasing traslativo, con applicazione analogica dell’art. 1525 c.c., conseguirà ad un accertamento nel merito con particolare riferimento al valore residuo del bene che ne forma oggetto alla scadenza del contratto, che, se rilevante, metterà in evidenza come le parti non abbiano perseguito uno scopo di mero godimento: il contratto di leasing preordinato a dilazionare per l’utilizzatore il costo dell’acquisto garantendogli da subito l’uso del bene (spesso strumentale all’attività economica svolta), si caratterizza infatti per la determinazione di un canone periodico pagato durante il periodo di utilizzazione che non rispecchia il mero valore della cessione in godimento del bene, bensì del costo di acquisto, del tasso riferito al periodo di utilizzazione e del numero di canoni; e si accompagna di regola al versamento, all’inizio del rapporto, di una maxirata iniziale. Ulteriore variante di leasing finanziario vede coinvolti tre soggetti, poiché il bene viene acquistato dal fornitore da parte di un finanziatore o intermediario finanziario e dato in godimento all’utilizzatore (realizzandosi in tal caso una ipotesi di collegamento negoziale IV, IV, 3). Il contratto di factoring è il contratto con il quale un imprenditore (cedente) si obbliga a cedere ad un altro imprenditore (factor), che si obbliga a rendersi cessionario, la titolarità dei crediti derivanti o derivandi dall’esercizio della sua impresa. Si tratta dunque di un contratto che regola la cessione di crediti (d’impresa) anche futuri. È di tutta evidenza che viene qui in causa l’istituto della cessione dei crediti come disciplinato negli artt. 1260 ss. c.c. Tuttavia l’assetto di interessi tra le parti regolato dal contratto di factoring varierà in concreto a seconda della operazione economica che essi intendono realizzare ed entro cui intendono inquadrare la cessione: la cessione dei crediti potrà avvenire a fronte di un corrispettivo forfettariamente definito ed a prescindere dalla effettiva riscossione dei crediti ceduti (il cui rischio graverebbe sul cessionario factor-cessione pro soluto) e dunque per realizzare le finalità di una vendita; ovvero al solo fine di incaricare il factor delle lunghe e complesse procedure di riscossione dei crediti, il cui effettivo ricavato sarà poi trasferito al cedente, secondo una schema che rimanda al mandato, ecc. Ebbene, la l. 21-2-1991, n. 52 ha dettato una disciplina della cessione dei crediti d’impresa, che consente la cessione anche di crediti futuri o di crediti in massa (art. 3), mantiene, almeno di regola e salvo patto contrario, sul cedente l’obbligo di garantire la solvenza nei limiti del corrispettivo ricevuto (art. 4), disciplina i limiti di opponibilità della cessione

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ai terzi (art. 5) nonché gli effetti sulla cessione del fallimento del cedente (art. 7) e dell’azione revocatoria del pagamento del debitore ceduto (ove proponibile: art. 6). Ciononostante, e proprio per la ravvisabilità in concreto di diverse finalità cui può essere piegato lo schema, di per sé neutro, della cessione, la giurisprudenza di legittimità (come del resto la dottrina) continua a ribadire che il factoring è contratto atipico, non potendosi rintracciare nelle regole di cui alla l. n. 52/1991 la disciplina di un tipo. Dunque «Il contratto di factoring, pur potendosi presentare nella prassi commerciale con varianti e clausole finalizzate alle esigenze dei contraenti, si caratterizza come convenzione, il cui nucleo essenziale è l’obbligo assunto da un imprenditore (cedente o fornitore) di cedere ad un altro imprenditore (factor) la titolarità dei crediti derivati o derivandi dall’esercizio della sua impresa. Anche dopo l’entrata in vigore della L. 52/1991 sulla cessione dei crediti di impresa il contratto di factoring rimane un contratto atipico, il cui elemento costante è la gestione dei crediti di un’impresa attuata mediante lo strumento formale della cessione del credito con le possibili varianti del finanziamento in favore dell’impresa e dell’assunzione del rischio dell’insolvenza del debitore. La qualificazione del contratto dipende dagli effetti giuridici e non da quelli pratico-economici, sicché è il contratto o meglio l’intento negoziale delle parti a palesare il risultato concreto perseguito e, in particolare, se le parti hanno optato per la causa vendendi, per quella mandati o per altra ancora». (Cass. 24-6-2003, n. 10004)

«La struttura del factoring può essere di cessione unica e globale dei crediti presenti e futuri oppure di operazione che si attua attraverso una sequenza contrattuale articolata in una convenzione iniziale ed in una o più cessioni di credito attuative; in ogni caso la disciplina della cessione è integrativa di quella delle singole fattispecie contrattuali». (Cass. 8-2-2007, n. 2746)

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Principio ribadito anche di recente «Il contratto di factoring, anche dopo l’entrata in vigore della disciplina contenuta nella L. 21 febbraio 1991, n. 52, è una convenzione atipica – la cui disciplina, integrativa dell’autonomia negoziale, è contenuta nell’art. 1260 c.c. e segg. – attuata mediante la cessione, pro solvendo o pro soluto, della titolarità dei crediti di un imprenditore, derivanti dall’esercizio della sua impresa, ad un altro imprenditore (factor), con effetto traslativo al momento dello scambio dei consensi tra i medesimi se la cessione è globale e i crediti sono esistenti, ovvero differito al momento in cui vengano ad esistenza, se i crediti sono futuri». (Cass. 31-10-2014, n. 23175) Il contratto atipico pone essenzialmente due ordini di problemi. Il primo, evocato dall’art. 1322 c.c., attiene al controllo sui limiti entro cui è consentito ai privati di organizzare liberamente i propri interessi fuori dagli schemi riconosciuti dall’ordinamento. La differenza da questo profilo tra contratti tipici e contratti atipici sembra enfatizzata dall’art. 1322 quando subordina l’ammissibilità di questi ultimi alla circostanza che essi siano «diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico» (art. 1322, co. 2). Ci si è chiesti se in questi casi la legge non riservi all’ordinamento anche una giudizio di “approvazione” delle finalità così perseguite dai privati, che dovrebbero meritare apprezzamento sul piano sociale, etico, economico, in quanto in linea con obiettivi condivisi e favoriti: giudizio che inevitabilmente condizionerebbe le espressioni pur lecite di autonomia privata. Come meglio si vedrà quando parleremo della causa del contratto, il controllo dell’ordinamento sulla presenza nel contratto di una causa e di una causa lecita, in quanto non contraria a norme imperative, ordine pubblico e buon costume, subordina in generale la validità di tutti i contratti – tipici o atipici che siano – alla rintracciabilità di concreti obiettivi dell’operazione economica regolata che siano coerenti e non in contrasto sia con interessi generali presidiati da norme inderogabili, sia con principi politici, economici, sociali su cui si regge l’organizzazione della comunità e dello Stato (ordine pubblico) sia con i valori etico-sociali condivisi da quella comunità (buon costume). Non si ravvisa dunque un diverso, ulteriore e più pregnante controllo sulle espressioni di autonomia privata che si concretano in contratti atipici (IV, IV, 2).

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Superato il primo problema, rimane invece sempre attuale il secondo: che attiene alla puntuale ricostruzione dell’assetto di interessi voluto dalle parti di un contratto atipico, in vista di individuare le regole che possano disciplinarlo. Il contratto atipico (o che comunque non rientra compiutamente entro uno schema tipico) pone dunque un problema di qualificazione, che è questione di diritto rimessa al giudice, il quale non sarà condizionato, ripete la giurisprudenza, dalla qualificazione o dal nome che le parti hanno inteso dare al loro assetto di interessi, ma dovrà cercare di ricostruire cosa le parti hanno in concreto voluto e da qui verificare se è possibile o meno risalire ad un tipo contrattuale. Agli effetti della qualificazione del contratto, è necessario ricostruire gli interessi comuni e personali, che le parti avevano inteso regolare con il negozio. Ribadisce la S.C. in una non lontana sentenza a Sezioni Unite

«Il privato non è padrone delle conseguenze giuridiche dei negozi che compie, le quali si producono vi legis e non vi voluntatis. La cosiddetta libertà contrattuale dei privati comincia e termina con la creazione dell’elemento di fatto del negozio e cioè con la manifestazione di un determinato intento empirico. L’effetto giuridico è indipendente dalla rappresentazione che se ne faccia l’agente, il quale nessuna diretta influenza potrà esercitare su di esso. Quando perciò si propone di far richiamo alla volontà delle parti per qualificare il negozio, per volontà delle parti si deve intendere il dato dell’intento empirico che le parti hanno dimostrato di voler conseguire». (Cass. s.u. 12-5-2008, n. 11656)

9. Il contratto misto Il contratto atipico, sovente, è il risultato della combinazione di più schemi o tipi contrattuali: siamo in questo caso in presenza di un contratto misto; qui l’assetto di interessi voluto dalle parti e l’operazione in concreto voluta e regolata danno vita ad un contratto unico che tuttavia combina in qualche modo elementi di tipi contrattuali diversi. Il contratto è unico ed ha un’unica causa (IV, IV, 1), ma essa non rimanda ad una delle fattispecie tipiche bensì ad elementi di diversi tipi

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contrattuali tra loro combinati. La “combinazione” può rintracciarsi anche in contratti disciplinati dalla legge e dunque avremo un contratto misto tipico: nel contratto di “servizio bancario delle cassette di sicurezza”, di cui all’art. 1839 c.c., rintracciamo la prestazione di un servizio di custodia da parte della banca con riferimento ad un bene locato al cliente, cioè la cassetta di sicurezza. Più spesso il contratto misto, proprio per le sue caratteristiche, è contratto atipico, del quale occorrerà rintracciare la disciplina. I criteri che si prospettano al riguardo sono quello della combinazione, in base al quale al contratto si applicherà, tenuto conto dei suoi contenuti, la disciplina di tutti i tipi contrattuali che vi risultano combinati; ovvero il criterio dell’assorbimento, ove sia rintracciabile un tipo di riferimento comunque prevalente. Individuato il tipo prevalente, il contratto si riterrà da questo e dalla relativa disciplina “assorbito”. Una fattispecie che per la sua diffusione è venuta più di frequente all’attenzione dei giudici è quella del contratto con cui viene trasferita la proprietà di un’area edificabile in cambio non di un corrispettivo sotto forma di prezzo, bensì della cessione di un fabbricato o di alcune parti di un fabbricato da costruire sulla stessa superficie a cura e con i mezzi del cessionario. Impegnati a qualificare tale fattispecie, i nostri giudici hanno fatto uso in passato della figura del contratto misto. Tale contratto, si è rilevato, potrebbe integrare sia una permuta (di un bene esistente contro bene futuro), se le parti trasferiscono già la proprietà attuale del bene esistente e del bene futuro (pur prevedendosi un conguaglio di prezzo) e relegano l’obbligo di costruzione su un piano accessorio e strumentale, sia invece un contratto misto di vendita e appalto, quando l’intento delle parti si rivolge precipuamente a prevedere e regolare la costruzione del fabbricato e la cessione della superficie è strumentale a tale risultato. Problema analogo di qualificazione pone il contratto con il quale viene ceduto un fabbricato non ancora realizzato, prevedendosi l’obbligo del cedente, proprietario del suolo nel quale deve sorgere il fabbricato, di eseguire i lavori necessari al completamento: anche qui si è prospettata l’alternativa tra un contratto (tipico) di vendita di cosa futura (il fabbricato) e un contratto atipico, misto, di vendita (del suolo) e di appalto. E ciò a seconda che nel contratto – e nella determinazione delle prestazioni corrispettive – assuma rilievo centrale il conseguimento della proprietà attuale del suolo e l’attività per la realizzazione dell’opera ovvero il conseguimento della proprietà dell’im-

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mobile completato rispetto al quale appaia strumentale l’opera di costruzione. In questo caso ricorrerà una vendita (obbligatoria) di cosa futura; nel primo caso, invece, ci si troverà di fronte ad una vendita con effetti reali del suolo e appalto di costruzione, da regolare come contratto misto. «In quest’ultima ipotesi si verserà in ipotesi di contratto misto (di vendita e di appalto), la cui disciplina giuridica va individuata, in base alla teoria dell’assorbimento, che privilegia la disciplina dell’elemento in concreto prevalente, in quella risultante dalle norme del contratto atipico nel cui schema sono riconducibili gli elementi prevalenti (cosiddetta teoria dell’assorbimento o della prevalenza), senza escludere ogni rilevanza giuridica degli altri elementi, che sono voluti dalle parti e concorrono a fissare il contenuto e l’ampiezza del vincolo contrattuale, elementi ai quali si applicano le norme proprie del contratto cui essi appartengono, in quanto compatibili con quelle del contratto prevalente». (Cass. s.u. 12-5-2008, n. 11656, cit.) Più di recente, ritenendo di superare l’impostazione tradizionale ed il ricorso alla teoria dell’assorbimento, la S.C., al fine di qualificare un contratto traslativo della proprietà in cui la controprestazione abbia ad oggetto una cosa in natura e una somma di denaro, e dunque di risolvere l’annosa questione della distinzione tra vendita con integrazione di prezzo e permuta con conguaglio in denaro, ha prospettato la riconducibilità in sé dell’operazione ad un unico tipo contrattuale, da ricercare e qualificare alla stregua della volontà delle parti piuttosto che di indici di prevalenza – anche economici – di uno tra i più tipi di riferimento (la prevalenza economica del valore del bene in natura ovvero della somma di denaro). «Un contratto traslativo della proprietà, nel quale la controprestazione abbia cumulativamente ad oggetto una cosa in natura ed una somma di denaro (ove venga superata la ravvisabilità di una duplicità di negozi, di cui uno di adempimento mediante datio in solutum, o, in virtù del criterio dell’assorbimento, l’ipotesi di un unico negozio a causa mista), può realizzare tanto la fattispecie di una compravendita con integrazione del prezzo in na-

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tura, quanto quella di permuta con supplemento in denaro e, in tale ultimo caso, la questione dell’individuazione del negozio in concreto voluto e posto in essere dalle parti non può essere risolta con il mero richiamo all’equivalenza (o anche prevalenza) economica del valore del bene in natura o della somma di denaro che unitamente costituiscono la controprestazione, dovendo invece essere determinata in ragione della prevalenza giuridica dell’una o dell’altra prestazione. Agli effetti della qualificazione del contratto, è necessario ricostruire gli interessi comuni e personali, che le parti avevano inteso regolare con il negozio, ed accertare se i contraenti avessero voluto cedere un bene in natura contro una somma di denaro, che, per ragioni di opportunità, avevano parzialmente commutata in un altro bene, ovvero avessero concordato lo scambio tra loro di due beni in natura e fossero ricorsi all’integrazione in denaro, soltanto per colmare la differenza di valore tra i beni stessi». (Cass. 11-3-2014, n. 5605) La soluzione in verità non sembra sottrarsi al consueto rilievo che parte della dottrina muove alle operazioni di qualificazione dei contratti atipici condotte dai giudici, e cioè di forzare comunque l’intento e l’assetto di interessi delle parti con la riconduzione ad ogni costo entro la disciplina di un unico tipo contrattuale di un programma e di una operazione che i privati hanno invece voluto organizzare proprio mediante la combinazione di più schemi. In linea con un approccio più moderno che tende ad assecondare, nella disciplina del contratto atipico, la volontà delle parti di non inquadrare il proprio assetto di interessi entro uno schema tipico, ancorché prevalente, ma di discostarsene combinando elementi di più tipi, il contratto misto viene regolato alla luce del diverso criterio della combinazione, individuando, a seconda dei profili e del contenuto dei rispettivi diritti ed obblighi, le corrispondenti regole appartenenti a diversi tipi contrattuali di riferimento. Così, ad esempio, il contratto con il quale lascio la mia autovettura in officina perché sia riparata, è di sicuro un contratto atipico, misto, con il quale intendo sì procurarmi l’opera del riparatore ma per implicito pretendendo che egli custodisca l’auto affidatagli per poi restituirmela. La disciplina del rapporto instauratosi, nel quale è certamente centrale la prestazione d’opera dell’autoriparatore, non si sottrae così all’applicazio-

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ne degli artt. 1768 e 1780 c.c. e ai princìpi in tema di obbligo di custodia e di diligenza del depositario, il quale non si libererà dall’obbligo di restituzione se non provando di avere usato in concreto la diligenza del buon padre di famiglia nel custodire il bene. Il contratto di leasing, sopra ricordato, viene regolato facendo riferimento alle regole degli schemi che vi risultano combinati, della vendita con patto di riservato dominio (ex art. 1523 c.c.) e del contratto di locazione di cui all’art. 1571 c.c. Il contratto di ormeggio è un contratto atipico, avente ad oggetto principale l’attività propria dell’ormeggiatore, che può estendersi alla custodia dell’imbarcazione e può accompagnarsi o meno alla locazione del necessario spazio acqueo; la giurisprudenza vi ravvisa «una struttura minima essenziale (in mancanza della quale non può dirsi realizzata la detta convenzione negoziale), consistente nella semplice messa a disposizione ed utilizzazione delle strutture portuali con conseguente assegnazione di un delimitato e protetto spazio acqueo», ma che non implica sempre obbligo di custodia. Si precisa anzi che il contenuto del contratto può variare, e dunque estendersi o meno ad altre prestazioni (es. la custodia del natante o dei beni che vi si trovino): la presenza di tale più ampio contenuto dovrà essere oggetto di prova e sarà rimessa all’accertamento nel merito del giudice.

10. Volontà delle parti, disciplina legale e ruolo del giudice Come abbiamo ricordato, ai fini della qualificazione del contratto non può essere decisivo il nome che le parti hanno inteso dare a questo, dovendosi piuttosto ricostruire l’assetto di interessi da essi in concreto voluto e delineato e da qui verificare se è possibile o meno risalire ad un tipo contrattuale o se ci si trova di fronte ad un contratto atipico. Il problema della ricostruzione dell’assetto di interessi in concreto consegnato al contratto è problema generale che riguarda peraltro tutte le manifestazioni dell’autonomia contrattuale, anche quando le parti abbiano chiaramente scelto un contratto tipico, non potendo il giudice fermarsi al nome assegnato. Dobbiamo qui richiamare la distinzione cui abbiamo già fatto cenno sopra tra il contratto come atto e il contratto come rapporto. Il termine contratto, ripetiamo, si presta ad indicare sia l’atto di autonomia privata, cioè l’accordo; sia il testo del documento contrattuale, ove esistente, nel quale è versato tale accordo; sia il regolamento contrattuale che da

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quell’accordo discende (le clausole e le relative previsioni e prescrizioni circa diritti ed obblighi delle parti) e il rapporto giuridico che l’accordo fa sorgere, modifica, estingue. Quando si parla dell’esecuzione del contratto e degli effetti giuridici prodotti dal contratto appare più corretto riferirsi al rapporto contrattuale, poiché viene in evidenza il regolamento di interessi che l’accordo ha inteso creare: debbono dunque individuarsi i diritti ed obblighi che ne discendono, anche per trarne tutte le conseguenze che attengono alle vicende del rapporto giuridico di cui l’accordo è fonte (durata, sopravvivenza e cause di scioglimento, adempimento/inadempimento). La volontà delle parti consegnata all’accordo difficilmente potrà essere tanto completa e lungimirante da regolare ogni possibile aspetto e conflitto che si paleserà nella concreta attuazione del rapporto giuridico cui le parti danno vita: e ciò sia nei contratti c.d. ad esecuzione istantanea sia, tanto più, nei casi in cui il rapporto sia destinato a protrarsi nel tempo (i contratti di durata: VI, 4). D’altra parte, anche nei contratti in forma scritta, la volontà dei contraenti risulterà esteriorizzata e consegnata alla formulazione delle singole clausole dell’accordo; difficilmente, in caso di dubbi o di conflitti, la singola parte vi si riconoscerà pienamente. Il regolamento contrattuale è frutto di una volontà obiettivata, consegnata all’intendimento dell’altra parte nei contratti verbali e, più spesso, ad un testo nei contratti scritti. Al significato delle espressioni usate, al senso delle singole pattuizioni e alla portata complessiva dell’accordo occorrerà fare riferimento tutte le volte in cui, in sede di attuazione del rapporto obbligatorio nato dal contratto, sorgano incertezze e conflitti tra le parti. Non sempre la risposta proveniente da quanto dichiarato sarà chiara e netta. Dovrà procedersi insomma alla interpretazione del contratto (V, 2); operazione affidata al giudice e da compiersi come diremo a suo tempo secondo un ordine di criteri che privilegia l’indagine soggettiva sul comportamento delle parti ma in subordine, quando ciò non basti, chiama in causa parametri oggettivi (per esempio l’interpretazione secondo buona fede). Riservandoci di illustrare a suo tempo le regole in tema di interpretazione del contratto, dobbiamo qui sottolineare che l’attività ermeneutica, affidata al giudice, è rivolta, e deve essere rivolta, a identificare la volontà contrattuale. Nell’interpretare il contratto, anche quando si giova di criteri oggettivi, il giudice non ricostruisce il regolamento contrattuale secondo il suo convincimento o secondo quanto gli appaia più corretto o giusto; egli deve comunque individuare la volontà contrattuale e l’in-

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tenzione delle parti, utilizzando i criteri previsti dalla legge (artt. 1362 ss.) e fornendo una argomentazione corretta del suo percorso logico. Il regolamento contrattuale, lo sappiamo, non trova la sua fonte esclusiva nella volontà delle parti: ma ciò accade quando le scelte dell’autonomia privata si siano poste in contrasto con norme imperative e tale violazione non determini la nullità dell’intero contratto bensì la nullità delle sole clausole illecite che vengono sostituite da quelle previste dalla legge con norma inderogabile. In questo caso, che sopra abbiamo denominato di integrazione cogente, il regolamento contrattuale sarà figlio della volontà delle parti ma con le correzioni determinate dall’innesto delle regole legali. E sarà ancora agevolmente rintracciabile un combinarsi di autonomia privata e fonte legale nel caso della integrazione c.d. suppletiva di cui all’art. 1374 (gli effetti del contratto, per quanto non previsto dalle parti, sono quelli derivanti dalla legge, dagli usi, dall’equità). Discorso più articolato merita il tema della buona fede (particolarmente della buona fede nella esecuzione del contratto, di cui all’art. 1375 c.c.) da intendere non già come semplice parametro di valutazione della correttezza delle parti nella fase di attuazione del rapporto e della conformità dell’esecuzione all’assetto di interessi delineato nell’accordo, bensì – secondo un orientamento che trova consenso in dottrina e in giurisprudenza – veicolo attraverso cui ricondurre il contratto al rispetto di valori fondamentali dell’ordinamento, in primo luogo la solidarietà: in quest’ottica la buona fede interverrebbe inevitabilmente a integrare e completare, talora anche a correggere, il regolamento contrattuale, divenendo anch’essa fonte di integrazione del contratto. Ma sul punto torneremo (V, 10).

11. I negozi giuridici preparatori e il contratto preliminare. Rinvio La libertà di contrarre può essere limitata anche per effetto di pattuizioni private: studieremo più avanti le figure del patto di prelazione, del patto di opzione, del contratto preliminare (IV, II, 13 e 14). Si usa riferirsi a tale figure come, genericamente, a negozi giuridici preparatori: ma va messo in evidenza che in questi casi non siamo fuori dal campo di manifestazione dei poteri privati di autoregolare i propri interessi. Nei casi ora menzionati, infatti, la limitazione alla libertà contrattuale non proviene dalla legge ma dalla stessa volontà del soggetto che si “auto-

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limita” stipulando uno degli accordi di cui sopra. Diversamente, dunque, da quanto avviene nel caso di limiti imposti dalla legge, qui la libertà contrattuale, per un determinato contratto, è (auto)limitata dal suo stesso autore mediante un proprio atto di autonomia privata, consegnato, appunto, al contratto “preparatorio”. Ne consegue che da tali accordi (contratti) discende un vincolo obbligatorio, che lega, come di consueto, le (sole) parti: come vedremo, l’obbligo di prelazione nascente da un accordo produrrà i suoi effetti tra i contraenti e non pregiudicherà l’acquisto del diritto eventualmente avvenuto in capo al terzo per effetto della violazione di tale accordo da parte dell’obbligato. A differenza dell’obbligo di prelazione nascente dalla legge (di cui sopra), che è invece opponibile ai terzi e si configura per questo quale prelazione reale (IV, II, 13). La natura del vincolo, nelle tre figure di origine pattizia sopra richiamate, è, come si vedrà in seguito, diversa. Basti per ora ricordare che il vincolo più forte, anche per i rimedi apprestati dall’ordinamento, è quello nascente dal contratto preliminare (IV, II, 14) con il quale le parti si obbligano a concludere un futuro contratto del quale individuano già gli elementi essenziali.

12. Il contratto quadro Diversi gli effetti del contratto-quadro o contratto normativo, cioè il contratto nel quale vengono determinate le regole (pattizie) che disciplineranno un futuro assetto contrattuale. Le parti del contratto-quadro (o contratto normativo, per il suo contenuto) intendono accordarsi e vincolarsi sulle regole di rapporti contrattuali futuri ed eventuali, che tra di esse dovessero sorgere per effetto di singoli, ulteriori, futuri, accordi esecutivi ed attuativi dell’accordo quadro. Tale figura trova oggi una puntuale definizione nell’art. 1, co. 1, n. 7, lett. i), d.lgs. 27-1-2010, n. 11, di attuazione della dir. 2007/64/CE relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno. Contratto quadro è, recita la norma, «il contratto che disciplina la futura esecuzione di operazioni di pagamento singole e ricorrenti e che può dettare gli obblighi e le condizioni che le parti devono rispettare per l’apertura e la gestione di un conto di pagamento». La disciplina richiamata si riferisce ai contratti mediante i quali un “prestatore di servizi di pagamento” (istituti di moneta elettronica, ban-

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che, poste) si impegna a eseguire per conto di un soggetto (pagatore) “operazioni di pagamento”, cioè a versare, trasferire, prelevare fondi da un “conto di pagamento” nel quale il pagatore abbia depositato contante. Si tratta di operazioni di uso abituale: si pensi ai pagamenti che ormai abitualmente si effettuano nella prassi mediante l’uso di carte di pagamento (a valere sul proprio conto corrente bancario), ordini di esecuzione di bonifici o ordini di addebito sempre legati ad un conto, per il pagamento di servizi acquisiti con carattere di continuità (fornitura elettrica, ad esempio). Il contratto quadro disciplinerà gli obblighi e le condizioni dei singoli negozi successivi, vale a dire le “operazioni di pagamento”. Pur nella varietà delle posizioni assunte al riguardo dalla dottrina, si rintraccia in genere un contratto-quadro anche nel contratto “relativo alla prestazione dei servizi d’investimento” di cui all’art. 23 del Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (t.u.f., d.lgs. 26-2-1998, n. 58), per cui è prescritta la forma scritta: contratto volto dunque a disciplinare le singole attività di investimento e i singoli servizi (aventi ad oggetto strumenti finanziari, ad esempio azioni, obbligazioni, titoli, ecc.) nonché a stabilire le modalità per impartire gli ordini, la durata del rapporto, la sua legittimazione, ecc. dalla cui validità dipende quella dei singoli ordini di investimento (III, 8). È ancora riconducibile alla figura del contratto-quadro, secondo un orientamento consolidato della nostra S.C., il contratto (atipico) denominato “concessione di vendita”, attraverso il quale sono regolati i rapporti tra imprenditori (denominati tecnicamente concedente e concessionario), che professionalmente si dedicano alla produzione e/o al commercio di beni, e grazie al quale il concedente si assicura un mercato di sbocco per i propri prodotti con un certo grado di stabilità nel tempo, mediante l’opera di concessionari che assumono a certe condizioni l’obbligo di acquistare determinati quantitativi di merce per rivenderli, con l’ulteriore onere (eventuale) di raggiungere dei minimi di vendita e a proprio rischio. «La concessione di vendita, pur presentando aspetti che, per qualche verso, l’avvicinano al contratto di somministrazione, non consente, tuttavia, di essere inquadrata in uno schema contrattuale tipico, trattandosi, invece, di un contratto innominato, che si caratterizza per una complessa funzione di scambio e di collaborazione e consiste, sul piano strutturale, in un contratto-

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quadro o contratto-normativo, dal quale deriva l’obbligo di stipulare singoli contratti di compravendita ovvero l’obbligo di concludere contratti di puro trasferimento dei prodotti, alle condizioni fissate nell’accordo iniziale». (Cass. 11-6-2009, n. 13568) L’obbligo nascente dal contratto si attuerà mediante la stipulazione di singoli contratti di acquisto, alle condizioni fissate nell’accordo iniziale. In tali figure non si rintraccia un vincolo che obblighi entrambe le parti alla stipula dei futuri contratti regolati nel contratto-quadro. Il “pagatore” non sarà obbligato a chiedere operazioni future di pagamento, rimanendo invece obbligato solo il prestatore di servizi, che a quel servizio si è appunto obbligato con l’accordo-quadro; lo stesso dicasi per l’investitore, libero di impartire o meno ordini di investimento che l’intermediario si è obbligato ad eseguire. Il concessionario, nella concessione di vendita, è poi obbligato a promuovere le vendite e a stipulare i relativi contratti (con i terzi) alle condizioni prefissate. Si parla in questo caso di contratto normativo esterno, poiché fissa le regole di futuri contratti che la parte del contratto quadro dovrà stipulare con terzi. Il contratto-quadro detta le regole dei futuri contratti che saranno stipulati tra le parti in esecuzione della prestazione di servizio cui, con il medesimo contratto quadro, si obbliga il “soggetto pagatore” ovvero l’intermediario finanziario. Dunque, i futuri contratti tra le parti saranno stipulati in esecuzione di tale obbligo, e dovranno rispettare la cornice di regole dettata, una volta e per tutte, dal contratto-quadro. L’effetto obbligatorio nascente dal contratto-quadro attiene alla prestazione del servizio e al rispetto di tali regole generali per i futuri contratti, ma non si identifica con l’obbligo (per entrambe le parti) di stipulare un determinato contratto, di cui siano stabiliti già tutti gli elementi essenziali come nel caso del contratto preliminare. Per questo il contratto-quadro si differenzia dal contratto preliminare e non ripropone negli stessi termini una sequenza preliminare-definitivo.

13. Contratto collettivo: autonomia collettiva e autonomia assistita Il contratto collettivo è un contratto perfettamente aderente alla nozione di cui all’art. 1321 c.c., e si connota solo perché una o entrambe le

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parti sono costituite da una organizzazione di categoria: a stipulare un contratto collettivo può essere una organizzazione sindacale dei lavoratori che abbia come controparte una organizzazione degli imprenditori (di un determinato settore) ovvero una organizzazione sindacale dei lavoratori che contragga con un singolo imprenditore. La natura della o delle parti porta con sé che il contratto non regola un rapporto giuridico intercorrente tra di esse ma è destinato a dettare la disciplina (o alcuni aspetti di disciplina) dei futuri contratti che saranno stipulati tra lavoratori e datori di lavoro appartenenti alle categorie rappresentate dalla organizzazione collettiva firmataria (ovvero tra i lavoratori aderenti alla organizzazione firmataria e l’imprenditore singolo). Il contratto collettivo ha dunque insita una natura di contratto normativo. Per quanto chiami in causa comunque il ruolo di “garanzia” che si riconosce alle organizzazioni sindacali quando sono in gioco diritti del prestatore di lavoro, delinea una fattispecie del tutto distinta quella che si suole indicare con il termine di autonomia assistita. Ci si riferisce alle fattispecie in cui la legge richiede, per la validità di taluni contratti, che una delle parti ritenuta “debole” sia assistita nella stipulazione del contratto da rappresentanti dell’associazione di categoria cui appartiene. Originariamente prevista anche per la stipula di “patti in deroga” tra inquilini di case di abitazione e locatori dal d.l. 11-7-1992, n. 333 convertito nella l. n. 359/1992, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 11, co. 2 di tale legge, tale tecnica di protezione della parte debole sopravvive solo in materia di contratti agrari: a mente dell’art. 23, co. 3, l. 11-2-1971, n. 11, come sostituito dall’art. 45 della l. 3-5-1982, n. 203, gli accordi in deroga alle disposizioni di tale legge sono validi purché stipulati «con l’assistenza delle rispettive organizzazioni professionali agricole maggiormente rappresentative a livello nazionale, tramite le loro organizzazioni provinciali». Qui il contratto è comunque atto di autonomia individuale ed è destinato a regolare il rapporto tra concedente e concessionario del fondo rustico; d’altra parte la partecipazione fattiva all’accordo, in veste di consulenti, che la S.C. richiede ai fini della validità dei patti in deroga, non sembra possa mai tramutare i rappresentanti di categoria in partecipi del procedimento di formazione della volontà contrattuale, che rimane da imputare (anche e soprattutto in termini di verifica della pienezza e libertà del consenso prestato) alla parte privata.

Capitolo Secondo – Le fonti

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CAPITOLO SECONDO

LE FONTI

SOMMARIO 1. La legge applicabile al contratto. I c.d. contratti transfrontalieri. – 2. Le fonti normative. – 3. Autonomia contrattuale e garanzie costituzionali. – 4. Le fonti sovranazionali. – 5. Il diritto dell’Unione europea. – 6. (Segue). “L’armonizzazione” del diritto dei contratti: basi legali e obiettivi. – 7. (Segue). La funzione del diritto europeo di armonizzazione dei diritti interni. – 8. (Segue). Armonizzazione, acquis comunitario e trasformazione dei diritti interni. Il ruolo della Corte di giustizia. – 9. Armonizzazione versus unificazione: l’idea della elaborazione di un Quadro comune di riferimento e l’abbandono dell’obiettivo di un codice civile europeo. – 10. Autonomia contrattuale e diritti fondamentali nella CEDU. – 11. (Segue). I rapporti tra norme CEDU e diritto interno. Le diverse ricostruzioni e la posizione della nostra Corte costituzionale. – 12. (Segue). Norme CEDU e norme interne dopo il Trattato di Lisbona. – 13. La legge ordinaria. Il codice civile. – 14. (Segue). Il codice del consumo. – 15. Legislazione regionale e diritto privato. – 16. I regolamenti e le fonti secondarie. – 17. (Segue). Il contratto tra disciplina dei rapporti privati e interventi di regolazione dei mercati. – 18. La c.d. lex mercatoria e i suoi compendi.

1. La legge applicabile al contratto. I c.d. contratti transfrontalieri Il contratto, pur espressione precipua dell’autonomia dei privati, non vive dunque fuori dalla legge e a prescindere da essa. E non solo perché, come detto, quando sono in gioco interessi generali e princìpi fondamentali che la legge non consente ai privati di mettere in discussione l’autonomia contrattuale trova limiti in norme inderogabili (i limiti cui allude l’art. 1322 c.c.). Più in generale, se l’accordo di due o più parti può produrre gli effetti giuridici sopra indicati – far nascere un vincolo obbligatorio del

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quale si potrà pretendere il rispetto dinanzi al giudice, consentire il trasferimento di un diritto da un soggetto ad un altro – è perché la legge riconosce ad esso tale effetto (art. 1372 c.c.). È pur sempre l’ordinamento giuridico, secondo le sue regole – che possono variare da uno Stato all’altro – che determina i presupposti e le condizioni affinché l’atto di autonomia privata possa produrre effetti giuridici, rilevanti dunque per l’ordinamento e da questo riconosciuti. Lo rende esplicito l’art. 1325 c.c. che indica quali requisiti debba avere l’atto di autonomia per definirsi contratto; o, ancora, la regola dettata dall’art. 1376 c.c., senza la quale l’effetto del trasferimento del diritto non potrebbe determinarsi in conseguenza del semplice consenso delle parti, ma richiederebbe altri atti di volontà o comportamenti, come avviene in altri ordinamenti. In ciascun ordinamento i limiti all’autonomia privata possono essere diversamente individuati; così come possono variare le regole che presiedono alla espressione di autonomia privata nei rapporti patrimoniali, cioè le regole che dettano la c.d. disciplina generale del contratto. Per questo è necessario stabilire quale legge si applica al contratto. Un dubbio in tal senso non avrebbe motivo di porsi se i contratti e dunque in generale gli scambi economici avvenissero sempre e soltanto tra soggetti che appartengono al medesimo Stato (e dunque al medesimo ordinamento giuridico) e si riferissero a beni situati nel medesimo Stato. I cittadini sono soggetti alla legge dello Stato cui appartengono. Sicché il contratto concluso da due italiani, destinato a produrre effetti nel medesimo ordinamento (ove ad esempio siano situati i beni trasferiti o ceduti in godimento) sarà regolato dalla legge italiana e, per la disciplina generale, dagli artt. 1321 ss. c.c. Il problema della ricerca della legge applicabile al contratto si pone però quando le parti contraenti hanno diversa nazionalità (i c.d. contratti transfrontalieri), sicché occorrerà decidere a quale dei due ordinamenti giuridici, cui rispettivamente appartengono i contraenti, occorrerà fare riferimento; oppure quando il contratto è destinato a produrre effetti (per esempio il trasferimento della proprietà) su beni che si trovano collocati altrove e sottoposti a particolari regimi giuridici da altro ordinamento. È questo il c.d. “conflitto” di leggi, che viene risolto attraverso le regole che ciascuno Stato si dà al riguardo, all’interno di quel settore dell’ordinamento che prende il nome di diritto internazionale privato. In Italia, occorre fare riferimento alla l. 31-5-1995, n. 218. Nel caso di “obbligazioni contrattuali”, l’art. 57 della legge rinvia alle regole conte-

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nute in una fonte internazionale, vale a dire la Convenzione di Roma del 19-6-1980, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, resa esecutiva in Italia con la l. 18-12-1984, n. 975. Tale rinvio deve oggi inquadrarsi nel contesto normativo determinatosi a seguito della emanazione del regolamento comunitario, reg. CE 17-6-2008, n. 593 “Sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali”, denominato “Roma I”. Ai sensi del suo art. 24 il “regolamento sostituisce la convenzione di Roma negli Stati membri”. Entrambe le fonti normative menzionate, nel caso delle obbligazioni contrattuali (escluse dunque quelle relative a rapporti familiari, rapporti patrimoniali tra coniugi, successioni mortis causa, rapporti societari) si reggono sul principio generale della libertà di scelta: il contratto è disciplinato dalla legge scelta dalle parti. Tale scelta non può essere però rivolta precipuamente ad eludere l’applicazione di norme imperative: «La scelta di una legge straniera ad opera delle parti, accompagnata o non dalla scelta di un tribunale straniero, qualora nel momento della scelta tutti gli altri dati di fatto si riferiscano a un unico paese, non può recare pregiudizio alle norme alle quali la legge di tale paese non consente di derogare per contratto, qui di seguito denominate “disposizioni imperative”». Così l’art. 3, co. 3 della Convenzione di Roma (e negli stessi termini il co. 3 dell’art. 3 del reg. CE n. 593/2008). Se nessuna scelta viene (validamente) espressa dalle parti, la legge che regola il contratto sarà individuata secondo i “criteri di collegamento” indicati, cioè in base ad uno o più elementi della fattispecie ritenuti più significativi dal regolamento. In questo caso il contratto sarà sottoposto alla legge individuata secondo quanto dispone l’art. 4 del regolamento. Quando il contratto ha per oggetto il diritto reale su un bene immobile o la locazione di un immobile, si applicherà la legge del Paese in cui l’immobile è situato (co. 1, lett. c). Decisiva, per la individuazione del Paese la cui legge regolerà il contratto, sarà in questo caso la ubicazione dell’immobile. Si fa invece riferimento alla legge del Paese in cui il venditore ha la residenza abituale nel caso di vendita di beni e alla legge del Paese di residenza abituale del prestatore per il contratto di prestazione di servizi, ecc. Ove non sia rintracciabile uno di tali criteri di collegamento, o, all’opposto, ne ricorrano più d’uno, sarà decisiva la residenza abituale del debitore (“la parte che deve effettuare la prestazione caratteristica del contratto”: co. 2). Quelli sopra ricordati sono, appunto, i diversi “criteri di collegamento” previsti dalla legge, cioè gli elementi della fattispecie contrattuale (lo-

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calizzazione dell’immobile, residenza o sede della parte che deve adempiere) da prendere in considerazione per decidere quale legge (rectius la legge di quale Stato) applicare al contratto. Ma ciò, come abbiamo detto, solo se le parti non hanno invece esercitato il potere che la legge riconosce loro di scegliere liberamente la legge applicabile, che potrà essere anche diversa da quella di uno degli Stati di cui essi sono cittadini. Tale libertà incontra un limite: se tutti i “criteri di collegamento” (cioè gli elementi della fattispecie che secondo il diritto internazionale privato servono ad individuare a quale ordinamento deve farsi riferimento), conducono all’applicazione di un’unica legge, la scelta delle parti di sottoporre il contratto alla disciplina di una legge diversa sarà valida al fine di regolare il contratto ma con un limite e cioè la loro scelta non potrà in ogni caso escludere il rispetto delle norme inderogabili previste nella legge che avrebbe dovuto essere applicata e, se, in contrasto con i criteri di collegamento, viene applicata una legge diversa da quella di uno Stato membro dell’Unione, dovranno comunque essere rispettate le norme inderogabili del diritto dell’Unione. Regole particolari sono previste a garanzia dei consumatori, nei contratti che questi concludono con i professionisti (IV, I, 2). Purché ricorrano determinate condizioni (il professionista vi svolga le sue attività commerciali o diriga verso tale Paese le sue attività), allora, in mancanza di scelta delle parti, il contratto sarà sottoposto «alla legge del paese nel quale il consumatore ha la residenza abituale»; e, anche in caso di scelta, la volontà delle parti non potrà comunque «aver per risultato di privare il consumatore della protezione assicuratagli dalle disposizioni alle quali non è permesso derogare convenzionalmente ai sensi della legge che, in mancanza di tale scelta, sarebbe stata applicabile», art. 6, co. 2, del reg. CE n. 593/2008.

2. Le fonti normative Quando parliamo di “legge” applicabile al contratto usiamo ovviamente un termine (volutamente) generico, intendendo riferirci alle diverse fonti normative che dettano la disciplina del contratto all’interno dell’ordinamento di riferimento. Il sistema delle fonti (di produzione) del diritto privato nel nostro ordinamento, come disegnato dall’art. 1 delle disposizioni di legge in ge-

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nerale che precedono il codice civile, deve essere, come sappiamo, così aggiornato: 1. la Costituzione, le leggi costituzionali, il diritto primario dell’Unione europea e il c.d. diritto derivato; 2. le leggi ordinarie dello Stato; 3. le leggi regionali; 4. i regolamenti; 5. gli usi. Occorre allora considerare brevemente tale sistema, secondo la gerarchia indicata, dal punto di vista del contratto e delle fonti di produzione normativa che vi si riferiscono.

3. Autonomia contrattuale e garanzie costituzionali Malgrado i tentativi di prospettare una diversa lettura del dettato costituzionale si siano costantemente affacciati nella riflessione della dottrina, la giurisprudenza costante della nostra Corte costituzionale esclude la rintracciabilità di una specifica garanzia costituzionale della libertà contrattuale e ribadisce che l’autonomia contrattuale dei singoli è tutelata a livello di Costituzione solo indirettamente, in quanto strumento di esercizio di (altre) libertà costituzionalmente garantite. L’autonomia dei privati è garantita nella misura in cui la stessa risulta funzionale o, per meglio dire, preordinata al perseguimento di altri valori, direttamente tutelati dalla Carta costituzionale, quali l’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) e la proprietà (art. 42 Cost.). L’iniziativa economica e la proprietà privata, a loro volta, non vengono tutelate incondizionatamente: la prima è garantita nella misura in cui è compatibile con l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana, nonché con l’esigenza che l’attività economica sia indirizzata e coordinata a fini sociali; la seconda, del pari, è riconosciuta e tutelata dalla legge, chiamata a determinarne i modi di acquisto, di godimento e i limiti, «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». In particolare, dunque, la tutela dell’autonomia negoziale troverebbe precipuo fondamento nell’art. 41 Cost., in quanto mezzo di esplicazione della libertà di iniziativa economica qui consacrata. Sintetizza efficacemente questa posizione un passo di una delle pronunce che in modo più completo affrontano l’argomento. «II principio dell’autonomia contrattuale ... se ha rilievo assolutamente preminente nel sistema del codice civile del 1942, non lo ha negli stessi

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termini nel sistema delineato dalla Costituzione, che non solo lo tutela in via meramente indiretta, come strumento della libertà di iniziativa economica, ma pone limiti rilevanti a tale libertà. Questa, invero, non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, e deve soggiacere ai controlli necessari perché possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali (art. 41, secondo e terzo comma): e tali vincoli sono fatalmente scavalcati o elusi in un ordinamento che consente l’acquisizione di posizioni di supremazia senza nel contempo prevedere strumenti atti ad evitare un loro esercizio abusivo. L’utilità ed i fini sociali sono in tal modo pretermessi, giacché non solo può essere vanificata o distorta la libertà di concorrenza – che pure è valore basilare della libertà di iniziativa economica, ed è funzionale alla protezione degli interessi della collettività dei consumatori – ma rischiano di essere pregiudicate le esigenze di costoro e dei contraenti più deboli, che di quei fini sono parte essenziale. Ciò ostacola, inoltre, il programma di eliminazione delle diseguaglianze di fatto additato dall’art. 3, secondo comma, Cost., che va attuato anche nei confronti dei poteri privati e richiede tra l’altro controlli sull’economia privata finalizzati ad evitare discriminazioni arbitrarie». (Corte cost. 15-5-1990, n. 241) Diversa, e per certi versi opposta, l’ottica dalla quale la Corte costituzionale (seppure in due sole decisioni) e soprattutto un più recente e copioso filone della nostra giurisprudenza di legittimità, si richiamano ai valori fondamentali della Carta costituzionale quale limite alla libertà contrattuale dei privati. Dall’art. 2 Cost. la Corte costituzionale – nel giudicare la legittimità di leggi statali e regionali che individuavano le ragioni di decadenza dei beneficiari dall’assegnazione di alloggi pubblici a scopo di abitazione – ha tratto l’esistenza «di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie» (Corte cost. n. 149/1992), principio chiarito nel senso che «l’interesse del creditore all’adempimento degli obblighi dedotti in obbligazione deve essere inquadrato nell’ambito della gerarchia dei valori comportata dalle norme, di rango costituzionale e ordinario, che regolano la materia in considerazione. E quando, in relazione a un determinato adempimento, l’interesse del creditore entra in conflitto con un interesse del debitore tutelato dall’ordinamento giuridico o, addirittura, dalla Costitu-

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zione come valore preminente o, comunque, superiore a quello sotteso alla pretesa creditoria, allora l’inadempimento, nella misura e nei limiti in cui sia necessariamente collegato all’interesse di valore preminente, risulta giuridicamente giustificato». (Corte cost. 3-2-1994, n. 19) Il tramonto del mito ottocentesco del primato della volontà e dell’intangibilità degli accordi privati e il contesto di intervenuta costituzionalizzazione dei rapporti di diritto privato implicano, afferma la Corte di cassazione, anche un bilanciamento di “valori”, di pari rilevanza costituzionale, stante la riconosciuta confluenza nel rapporto negoziale – accanto al valore costituzionale della «iniziativa economica privata» (sub art. 41) che appunto si esprime attraverso lo strumento contrattuale – di un concorrente “dovere di solidarietà” nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.). E che, entrando (detto dovere di solidarietà) in sinergia con il canone generale di buona fede oggettiva e correttezza (artt. 1175, 1337, 1359, 1366, 1375 c.c.), all’un tempo gli attribuisce una vis normativa e lo arricchisce di contenuti positivi, inglobanti obblighi, anche strumentali, di protezione della persona e delle cose della controparte, funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale, nella misura in cui questa non collida con la tutela dell’interesse proprio dell’obbligato stante la riconosciuta confluenza nel rapporto negoziale – accanto al valore costituzionale della “iniziativa economica privata” (sub art. 41) che appunto si esprime attraverso lo strumento contrattuale – di un concorrente “dovere di solidarietà” nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.)». (Cass. 24-9-1999, n. 10511) Vedremo nel prosieguo le implicazioni nella disciplina del contratto dei principi così affermati (qui a proposito del potere del giudice di ridurre equitativamente l’ammontare manifestamente eccessivo della penale: art. 1384, VIII, 12) e il ruolo assegnato alla buona fede come veicolo dell’ingresso nella vicenda contrattuale e nel rapporto tra le parti del dovere di solidarietà (V, 10, 11, 12).

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4. Le fonti sovranazionali Il quadro delle fonti normative – e della relativa gerarchia – rimarrebbe incompleto ed inattuale ove non si chiarisse l’efficacia delle fonti sovranazionali rispetto all’ordinamento interno e, per quanto ci riguarda qui, nel diritto civile interno. Il rango delle norme internazionali pattizie è, in linea generale, quello stesso del provvedimento di attuazione (legge costituzionale, legge ordinaria, decreto, ecc.), salvo riconoscere ad esse una speciale “resistenza”, atta a farle prevalere su norme successive di pari rango (secondo un principio di specialità sui generis, accolto nell’art. 117, co. 1, Cost., come riformato dalla l. cost. n. 3/2001). La fonte sovranazionale, ove consista in una Convenzione (accordo internazionale tra diversi Stati), entra nell’ordinamento interno di regola per il tramite della legge (ordinaria) di ratifica. Diverso il rapporto tra diritto interno e norme provenienti dalle istituzioni dell’Unione europea delineato, in modo del tutto particolare, nel Trattato dell’Unione.

5. Il diritto dell’Unione europea In forza dell’art. 288, par. 1, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (tr. fue) «Per esercitare le competenze dell’Unione, le istituzioni adottano regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri». Se «le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti» (par. 5) e la decisione, «obbligatoria in tutti i suoi elementi» ha portata particolare e ambito di riferimento circoscritto («se designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi» par. 4), la direttiva «vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi» (par. 3), mentre «il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri» (par. 2). Un problema di rapporto (o conflitto) tra ordinamento interno e fonte normativa esterna (sovranazionale) si pone dunque in verità solo con riguardo al regolamento, che, ferme restando le peculiarità della procedura di adozione (che coinvolge in diverso modo le tre istituzioni, Parlamento, Commissione e Consiglio, non trovando corrispondenza in

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sede europea la presenza di un organo elettivo dotato di competenza legislativa come nelle democrazie occidentali) rappresenta l’atto normativo di portata generale in sede europea, dotato di efficacia pari a quella di una legge dello Stato. La direttiva, per divenire fonte di diritti ed obblighi a carico dei cittadini di uno Stato membro, deve invece, almeno di regola, essere riversata in un atto normativo interno, del singolo Stato membro: occorrerà l’emanazione di una legge, di un atto avente forza di legge, o di un regolamento, essendo fatta salva la libertà del singolo Stato di decidere con che forma e con che mezzi raggiungere gli obiettivi della direttiva cui esso è vincolato (pena la sottoposizione ad una procedura di infrazione). Ma gli obiettivi indicati nella direttiva saranno perseguiti in base a norme giuridiche che trovano la loro fonte nel diritto interno (e v. oggi per le procedure la l. 24-12-2012, n. 234 Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea). Diversamente accade nel caso di emanazione di un regolamento comunitario. Esso infatti è, come abbiamo detto, «obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri»; la Corte di giustizia dell’Unione europea e la nostra Corte costituzionale concordano altresì nel ribadire che le norme del regolamento non possono essere riprodotte o trasformate in corrispondenti disposizioni dell’ordinamento nazionale. L’interposizione di atti normativi nazionali si legittima solo in casi particolari (ove lo stesso regolamento lo richieda, ove si tratti di fornire ai relativi interventi ulteriore copertura finanziaria, ecc.) e soprattutto se le disposizioni del regolamento non sono da ritenere complete ed autosufficienti ai fini della immediata e compiuta applicazione. L’adesione all’Unione europea comporta pertanto, nelle materie di competenza di questa, la compresenza di fonti di diritto interno e di fonti di diritto sovranazionale/comunitario. La presa d’atto di tale compresenza e il pacifico riconoscimento del suo fondamento nell’art. 11 Cost. («l’Italia ... consente ... alle limitazioni di sovranità necessarie ...») non sono stati in sé esaustivi al fine di delineare i termini del rapporto tra i due ordinamenti. Il chiarimento, in questa direzione, si deve ad una travagliata riflessione della nostra Corte costituzionale – non immune da sollecitazioni provenienti dalla Corte di giustizia europea, in particolare nella sentenza 9-3-1978 (caso Simmenthal) – di cui la nota sentenza della Corte cost. 5-6-1984, n. 170 costituisce punto di arrivo fondamentale.

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A distanza di un ventennio, tale pronuncia intervenne a smentire le implicazioni che la sentenza n. 14/1964 riteneva di trarre dalla pretesa equivalenza tra norme comunitarie e norme interne. Dotata di efficacia nel nostro ordinamento in forza di una legge ordinaria, quale quella di ratifica ed esecuzione del Trattato istitutivo della Comunità (l. 14-10-1957, n. 1203), la normativa comunitaria – secondo quella più antica impostazione della Corte costituzionale – non avrebbe potuto rimanere sottratta ai principi che nel nostro sistema giuridico regolano la successione delle leggi nel tempo. Le norme del Trattato e quelle comunitarie da esse derivate (regolamenti), non essendo dotate di particolare resistenza costituzionale, avrebbero dovuto considerarsi equiordinate rispetto agli atti aventi forza di legge prodotti nell’ordinamento interno, potendo essere così modificate derogate o abrogate da successive norme interne, secondo la regola generale di cui all’art. 15 delle preleggi. Una adeguata valorizzazione del principio secondo cui ordinamento comunitario ed ordinamento interno sono “sistemi giuridici autonomi e distinti” impone invece di chiarire – ed è quanto ha fatto successivamente la Corte costituzionale con la sentenza del 1984 – che le norme comunitarie, pur avendo diretta applicazione nel nostro territorio, rimangono estranee al sistema delle fonti interne e alle regole che qui presiedono al rapporto tra fonti di pari grado. Alla stregua di tale fondamentale pronuncia della nostra Corte costituzionale, le cui argomentazioni sono state successivamente confermate e sviluppate, il rapporto tra diritto dell’Unione europea (versato nei regolamenti) e diritto interno, può così riassumersi. Il parziale trasferimento agli organi comunitari dell’esercizio della funzione legislativa, operato dallo Stato italiano con l’adesione al Trattato CEE ed in conformità all’art. 11 Cost., implica che: – le norme del diritto interno devono presumersi conformi alle prescrizioni del Trattato e delle norme di fonte europea e tra le diverse possibili interpretazioni se ne dovrà privilegiare quella che assicuri tale conformità; – nelle materie riconducibili alla sfera di azione della Unione non è stata dismessa in sé la potestà legislativa statale, la quale può dunque validamente esercitarsi in mancanza di interventi del diritto dell’Unione; – le norme dei regolamenti, una volta validamente emanate, prevalgono se incompatibili o difformi su quelle statali sia anteriori che successive. Sicché l’emanazione di norme dell’Unione non impedisce la succes-

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siva produzione di atti normativi interni efficaci, i quali però non potranno abrogare, neppure per implicito, le norme di provenienza europea, appartenendo a distinti ordinamenti; e in caso di conflitto il giudice dovrà disapplicare la norma interna a beneficio di quella sovranazionale, ferma restando l’efficacia della prima per le disposizioni che non tocchino la sfera di intervento del diritto dell’Unione europea o non confliggano con questo; – si tratta di “disapplicazione” affidata al giudice ordinario e non – come ritenuto da precedenti pronunce – di contrasto con l’art. 11 Cost. da sottoporre alla Corte costituzionale; il giudizio di costituzionalità rimane invece impregiudicato ove le norme del Trattato siano sospettate di confliggere con principi fondamentali dell’ordinamento interno o le norme interne sembrino pregiudicare i principi fondamentali del Trattato. Poiché però la «disapplicazione è un modo di risoluzione delle antinomie normative che, oltre a presupporre la contemporanea vigenza delle norme reciprocamente contrastanti, non produce alcun effetto sull’esistenza delle stesse ... resta ferma l’esigenza che gli Stati membri apportino le necessarie modificazioni o abrogazioni del proprio diritto interno al fine di depurarlo da eventuali incompatibilità e disarmonie con le prevalenti norme comunitarie». La Corte lo ha ribadito successivamente (Corte cost. 11-7-1989, n. 389), confermando l’intera impostazione della pronuncia del 1984; con l’occasione ha ricordato che tale adeguamento, rappresentando una garanzia essenziale al principio di prevalenza del diritto dell’Unione sui diritti nazionali, costituisce secondo la Corte di giustizia l’oggetto di un preciso obbligo per gli Stati membri. La definizione dei rapporti tra diritto di fonte europea e diritto interno nei termini sopra ricordati ha trovato costanti e successive conferme nella giurisprudenza della Corte di giustizia Europea, ponendosi a fondamento di indiscussi principi ormai acquisiti al diritto europeo.

6. (Segue). “L’armonizzazione” del diritto dei contratti: basi legali e obiettivi L’attenzione riservata al problema non sembri fuori luogo a proposito della disciplina del contratto. Il diritto dei contratti, negli Stati membri dell’Unione, è stato infatti interessato – e continua ad esserlo – da

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un intenso intervento di norme emanate a livello europeo, particolarmente in quel “segmento” che comunemente denominiamo “contratti dei consumatori”. Le basi legali di tale intervento si rinvengono precipuamente nell’art. 114 tr. fue in base al quale «Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale, adottano le misure relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che hanno per oggetto l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno». A tale norma fa rinvio l’art. 169 del Trattato in materia di Protezione dei consumatori. L’art. 169, invero, individua nel paragrafo 1 gli obiettivi cui deve tendere l’azione dell’Unione e i contenuti dell’intervento («al fine di promuovere gli interessi dei consumatori ed assicurare un livello elevato di protezione dei consumatori, l’Unione contribuisce a tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi economici dei consumatori, nonché a promuovere il loro diritto all’informazione, all’educazione e all’organizzazione per la salvaguardia dei loro interessi») e nel paragrafo 2 gli strumenti per il raggiungimento di tali obiettivi, tra i quali, in primo luogo, «misure adottate a norma dell’art. 114 nel quadro della realizzazione del mercato interno». Dunque, l’intervento in materia di contratti si connota, quanto ai contenuti e ai risultati, di una necessaria flessibilità, dovendo avere di mira non l’unificazione (regole comuni in tutti gli ordinamenti degli Stati membri), bensì il ravvicinamento, o ciò che è lo stesso, l’armonizzazione, vale a dire la presenza di regole simili ed omogenee; quanto agli obiettivi che debbono ispirarlo e che lo giustificano secondo il Trattato, tale intervento è immediatamente strumentale alla instaurazione e al funzionamento del mercato interno, dovendo avere ad oggetto solo le disposizioni che attengono a tale materia. Ciò spiega, per un verso, l’utilizzo pressoché esclusivo della direttiva, destinata a lasciare agli Stati membri margini di autonomia nel percorso di progressivo adattamento dei diritti interni alle regole di fonte europea. L’intervento della Comunità (oggi Unione) europea nella materia contrattuale è stato affidato fin qui allo strumento della direttiva. Strumento flessibile, come abbiamo visto, adottato particolarmente quando l’Unione esercita il suo compito di “ravvicinare” le legislazioni degli Stati membri, puntando cioè non ad una regolazione unica e uniforme ma all’introduzione nei singoli ordinamenti di principi e regole tendenzialmente simili e comunque coeren-

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ti (“armonizzazione”), che possano comunque adattarsi alle singole tradizioni e, in particolare, alle differenze tra sistemi di c.d. civil law e sistemi di common law. La rilevata strumentalità diretta con le politiche di mercato spiega ed evidenzia, per altro verso, le ragioni dell’attenzione che l’intervento in questione rivolge al contratto, quale precipuo strumento giuridico di creazione ed organizzazione degli scambi e dunque destinato a svolgere un ruolo centrale nella organizzazione e nel funzionamento del mercato. In questa veste il contratto entra nell’orizzonte di intervento dell’Unione europea anche quando questa si ponga a realizzare gli obiettivi di cui all’art. 169 (protezione dei consumatori), presentandosi i consumatori, nell’ottica del Trattato e delle politiche dell’Unione europea, quali protagonisti significativi delle relazioni di mercato, in quella vasta e fondamentale area che riguarda i c.d. contratti di massa, vale a dire quei contratti la cui stipulazione, sostanzialmente secondo i medesimi schemi, coinvolge, almeno da una parte, un numero assai ampio e a priori indeterminabile di contraenti. La questione del rapporto diritto dell’Unione europea-diritto interno, come abbiamo visto, attiene alla efficacia dei Regolamenti, e appare pertanto, ad oggi, di scarso rilievo nella materia del contratto. Se è vero però che l’adozione dello strumento del regolamento è stata fin qui riservata ad attuare le competenze dell’Unione europea in tema di politica comune, rimanendone, come detto, immuni le politiche di armonizzazione e ravvicinamento delle legislazioni, per cui sicuramente più adatta è la natura e l’efficacia delle direttive, non può escludersi in un futuro, anche vicino, un qualche ripensamento in sede europea, che affidi al regolamento un (più intenso) intervento di armonizzazione delle legislazioni interne in tema di contratto. È da tempo in discussione infatti – pur se deve registrarsi una situazione di relativo stallo – una Proposta di regolamento relativo a “un diritto comune europeo della vendita”, presentata nell’ottobre del 2011 (Proposta di regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo a un diritto comune europeo della vendita-Bruxelles, 11-10-2011, COM 2011). Va subito sottolineata qui la portata della scelta del regolamento in luogo della consueta adozione di direttive. La tradizionale flessibilità dell’intervento mediante direttiva, cara al diritto europeo quando si tratti di contratti, non viene smentita ma, se così può dirsi, traslata. Il regolamento, invero, se sarà approvato, avrà la forza normativa che gli è propria, e cioè entrerà in vigore

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immediatamente negli ordinamenti interni degli Stati membri con la sua efficacia obbligatoria nei confronti di chiunque; ma esso prevede che la disciplina comune del contratto di vendita qui dettata sia “opzionale”, cioè si applicherà ai contratti solo se le parti la sceglieranno per regolare aspetti del loro accordo non vincolati da norme imperative e dunque in luogo di regole convenzionali o del rinvio a norme suppletive previste dall’ordinamento prescelto come fonte di disciplina del contratto. Dunque si tratta di un regolamento che inserisce direttamente e con efficacia obbligatoria all’interno degli ordinamenti dei singoli Stati una propria disciplina, ma attraverso tale disciplina punta su un regime contrattuale “opzionale” per i privati: i quali potranno non sceglierlo, così preservando l’applicazione al contratto da esse stipulato delle regole del diritto interno di uno Stato membro. In tal caso l’influenza del diritto europeo tornerà ad essere quella affidata alle direttive e dunque “mediata” dal loro recepimento.

7. (Segue). La funzione del diritto europeo di armonizzazione dei diritti interni Il diritto di fonte europea dunque interviene di regola (ed è intervenuto sin qui) nella materia dei contratti attraverso le direttive, adottando misure «relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri», di cui all’art. 114, par. 1, tr. fue (già art. 95 Trattato CE). Destinate come detto a entrare negli ordinamenti degli Stati membri mediante atti normativi interni di recepimento. Se, come si è visto, attraverso le regole interne di diritto internazionale privato e il rinvio, da queste operato, a fonti sovranazionali (la Convenzione di Roma, il regolamento CE), è comunque assicurata la individuazione del paese del quale andrà applicata la legge, e se, in prima battuta, tale individuazione, nel caso di contratti, è rimessa alla libera scelta delle parti, ci si potrebbe chiedere quale sia la ragion d’essere e il fine dell’intervento della Unione europea di armonizzazione dei diritti interni, dai quali è scaturita una produzione normativa ormai cospicua e consolidata di discipline concernenti in particolare i contratti dei consumatori. Il recepimento delle direttive dell’Unione europea in questo settore ha determinato un significativo ravvicinamento fra le legislazioni degli Stati membri.

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È importante sottolineare che l’intervento delle norme di fonte europea non mira (né ne avrebbe il potere) ad escludere l’applicazione delle regole del diritto internazionale privato (di cui abbiamo sopra parlato) ai fini della individuazione della legge applicabile nel caso di contratti c.d. transfrontalieri (cioè tra contraenti che appartengono a diversi Stati o comunque contratti non riconducibili esclusivamente ad un ordinamento). La presenza di regole (tendenzialmente) uniformi – perché coerenti alle discipline elaborate in sede comunitaria e versate nelle direttive – non evita o esclude la ricerca della legge applicabile nel caso di contratti conclusi tra parti di diversa nazionalità, ancorché di una nazionalità europea, secondo le regole e i “criteri di collegamento” di cui al diritto internazionale privato. Tuttavia – e qui stanno premessa ed obiettivo del processo di armonizzazione sancito all’art. 114 tr. fue – la relativa omogeneità delle discipline di ciascuno Stato membro, favorita dagli interventi di armonizzazione, assicura a ciascun contraente (europeo) una maggiore familiarità con le regole cui dovrà attenersi, regole che nell’ordinamento del paese cui le parti (o i criteri di collegamento legali) faranno riferimento non saranno poi così lontane da quelle del proprio paese. E, nel caso in cui una parte sia di nazionalità extraeuropea, offre a questa un quadro abbastanza uniforme quale che sia il paese (europeo) del suo partner di affari. Non dimentichiamo peraltro che, in mancanza di scelta delle parti, il consumatore europeo avrà diritto all’applicazione al contratto da lui concluso dell’ordinamento del paese di residenza: sicché regole simili da rispettare nei diversi Stati membri renderanno più semplice e conveniente ai professionisti, europei ed extraeuropei, operare nel mercato dei Paesi dell’Unione. In sintesi, possiamo dire che l’intervento di “armonizzazione” non risolve il problema del conflitto delle leggi e della individuazione della legge applicabile ai contratti c.d. “transfrontalieri” (cioè conclusi da parti di diversi paesi); ma ne vuole rendere “meno traumatica” nella prassi l’attuazione, rimuovendo un ostacolo significativo all’incremento di tali contratti e, soprattutto, un ostacolo all’incremento degli scambi tra professionisti e consumatori in ambito sovranazionale e nel mercato europeo. L’armonizzazione, creando un “ambiente normativo” tendenzialmente uniforme e dunque “familiare”, corrobora la fiducia di chi deve stipulare un contratto all’interno dell’area dell’Unione, così facilitando gli scambi e la circolazione di merci e servizi.

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8. (Segue). Armonizzazione, acquis comunitario e trasformazione dei diritti interni. Il ruolo della Corte di giustizia Il processo di armonizzazione, su cui ci siamo ampiamente soffermati, si compie dunque innanzitutto e per così dire in via diretta attraverso l’inserimento nei diritti degli Stati membri di regole dettate dalle istituzioni comunitarie e adottate in seno a Regolamenti o più spesso, nel caso dei contratti, in seno a direttive, poi recepite dai singoli Stati. Più in generale, tuttavia, in ambito europeo, avuto riguardo al contenuto sia dei Trattati, sia del c.d. diritto derivato (regolamenti e direttive), sia di atti politici, quali dichiarazioni e risoluzioni, ecc. si esprimono e si consolidano altresì principi che gli ordinamenti interni devono rispettare. D’altra parte, la Corte di giustizia europea, intanto con riferimento ai precetti contenuti nelle direttive, dunque alla loro efficacia prima del recepimento e agli obblighi che da questa derivano per gli Stati membri ex art. 288 tr.fue, e poi in generale con riferimento a tutte le norme del diritto dell’Unione, ha affermato il principio dell’obbligo di interpretazione conforme il quale impone al giudice di interpretare le disposizioni nazionali in conformità al diritto dell’Unione europea, anche se questo non è direttamente applicabile, dovendo dunque scegliere, fra le possibili interpretazioni del testo normativo che viene in rilievo nel caso concreto, quella conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione europea, nei limiti ovviamente in cui ciò sia consentito (e il giudice nazionale non si trovi invece dinanzi ad una norma interna confliggente con quella di fonte europea e dunque irriducibile ad una interpretazione conforme). L’obbligo di interpretazione conforme diviene così strumento efficacissimo di attuazione del diritto dell’Unione e di armonizzazione dei diritti interni. Supporto fondamentale e diretto dell’adeguamento del diritto interno al diritto dell’Unione e ai suoi principi, per il tramite dell’interpretazione giudiziale, è costituito dal ruolo che il Trattato assegna alla Corte di giustizia europea chiamandola, fra l’altro, anche a pronunciarsi «in via pregiudiziale, su richiesta delle giurisdizioni nazionali, sull’interpretazione del diritto dell’Unione o sulla validità degli atti adottati dalle istituzioni» (art. 19, par. 3, lett. b), Trattato dell’Unione Europea, TUE). La Corte è competente a pronunciarsi su ricorsi per inadempimento, qualora uno Stato non applichi il diritto dell’Unione o violi i Trattati; su ricorsi di annullamento quando si ritenga che sia il diritto dell’Unione a violare i Trattati o i diritti fondamentali dell’Unione europea; in caso di

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inadempimento di uno Stato, su ricorsi per carenza, qualora un’istituzione dell’Unione europea si astenga dall’obbligo di prendere decisioni; su ricorsi diretti, presentati da privati cittadini, imprese od organizzazioni contro le decisioni o le azioni dell’Unione europea. Ma anche su domanda di giudici nazionali i quali, nell’applicare il diritto interno, sottopongono in via pregiudiziale alla Corte questioni di interpretazione del diritto dell’Unione, onde giungere ad una interpretazione conforme delle norme interne. Se dunque regolamenti e direttive (dopo il loro recepimento) arricchiscono i diritti interni di nuove discipline, l’interpretazione conforme richiesta ai giudici nazionali e guidata dalle pronunce pregiudiziali della Corte assicura costantemente un processo di adeguamento al diritto dell’Unione o, più precisamente al c.d. acquis comunitario. Si definisce acquis comunitario l’insieme dei diritti, degli obblighi, dei principi e dei valori, in costante evoluzione, che i Paesi membri dell’Unione europea condividono e nei quali tali Paesi si riconoscono: diritti, princìpi e valori espressi nei Trattati europei; dalla legislazione adottata in applicazione dei Trattati; dalla giurisprudenza della Corte di giustizia; dalle dichiarazioni e dalle risoluzioni adottate nell’ambito dell’Unione; dagli atti che rientrano nella politica estera e di sicurezza comune; dagli atti che rientrano nel contesto della giustizia e degli affari interni; dagli accordi internazionali conclusi dall’Unione e da quelli conclusi dagli Stati membri tra essi nei settori di competenza dell’Unione. Tornando a considerare l’ambito che qui interessa, l’adeguamento dei diritti interni all’acquis comunitario in materia di rapporti e diritti patrimoniali favorisce l’armonizzazione tra ordinamenti degli Stati membri ma al contempo la circolazione di regole e princìpi provenienti dalle tradizioni giuridiche dei diversi Stati membri cui il diritto dell’Unione (e in particolare le direttive) si sono via via ispirati. L’armonizzazione, dunque, reca con sé un processo di trasformazione, all’insegna della contaminazione tra modelli, attraverso il quale il diritto dell’Unione, a partire dalle nuove regole provenienti dai propri atti normativi (per quanto qui interessa, quelle in materia di contratti professionisti/consumatori o di contratti tra imprese di diverso potere contrattuale, che di volta in volta esamineremo) interviene in modo più incisivo sulla disciplina generale del contratto e sui principi su cui essa si fonda nel nostro ordinamento.

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9. Armonizzazione versus unificazione: l’idea della elaborazione di un Quadro comune di riferimento e l’abbandono dell’obiettivo di un codice civile europeo L’intervento di “armonizzazione” presceglie, come detto, un impatto più soft con i diritti degli Stati membri, ai quali lo strumento flessibile della direttiva lascia ampi margini di scelta circa regole e tecniche di disciplina, fermo restando il raggiungimento degli obiettivi indicati a livello sovranazionale. Ciò tanto più quando, come nel caso dell’intervento in materia di contratti, il diritto dell’Unione preferisce fermarsi ad una c.d. armonizzazione minima, che chiama gli ordinamenti interni ad assicurare comunque il livello minimo di protezione garantito ai consumatori dalle direttive, ma li lascia liberi di elevarlo e dunque fa salve norme, anteriori o successive a quelle di recepimento delle direttive, che delineino complessivamente una disciplina rispettosa della tradizione interna ai singoli ordinamenti. L’armonizzazione minima reca con sé, dunque, il vantaggio di un maggior rispetto dell’iniziativa dei singoli Stati ma, al contempo, sconta ovviamente la permanenza di divergenze, anche significative, tra i diritti contrattuali nazionali dell’Unione, come comincia a segnalare non senza preoccupazione già alla fine degli anni ’90 del secolo scorso e poi con la comunicazione del 2001 la Commissione Europea. A livello europeo si mantiene vivo, insomma, il dibattito circa l’alternativa tra la via dell’armonizzazione, peraltro indicata dallo stesso Trattato (tr. fue art. 114), seppur con taluni correttivi, e quella della unificazione, che reca con sé una riflessione anche sulla (diversa) forma giuridica dell’intervento, che dovrebbe assumere forza vincolante. L’idea, in un primo tempo accarezzata ma poi abbandonata, di un codice europeo dei contratti che aveva suggerito l’insediamento di apposita Commissione (la Commissione Lando), la cui elaborazione si era fermata tuttavia alla formulazione di un testo di Princìpi mai versati in atti dell’Unione e dunque mai divenuti fonte normativa. In questo contesto, nel 2003 la Commissione si fa carico di una Comunicazione al Parlamento europeo e al Consiglio, il cui oggetto è “Maggiore coerenza nel diritto contrattuale Europeo – Un piano d’azione (COM/2003/0068 def.)”. Comunicazione che, alla luce dei risultati raggiunti in sede di consultazioni avviate già nel 2001, sintetizza i problemi identificati nel corso delle consultazioni, problemi che riguardano la necessità di un’applicazione uniforme del di-

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ritto contrattuale europeo e del buon funzionamento del mercato interno. Da qui la presentazione di un “Piano d’azione” che suggerisce «una combinazione di misure normative e non normative», volte sia a ad «accrescere la coerenza dell’acquis comunitario nel campo del diritto contrattuale», e «promuovere l’elaborazione di clausole contrattuali standard applicabili nell’insieme dell’Unione», sia ad esplorare eventualmente «soluzioni specifiche non settoriali», quali «uno strumento opzionale». Un mix, dunque, di correttivi da apportare al contenuto delle norme destinate ad entrare all’interno dei singoli ordinamenti – le misure normative da riferire all’incremento di coerenza dell’acquis comunitario o addirittura alla elaborazione di contenuti standard direttamente applicabili nei diritti interni – e di rinnovate tecniche di soft law – misure non normative che si limitino ad offrire alla libera scelta dell’autonomia privata dei testi organici di regole (sul modello dei Principles infra, 18). Sempre nell’ambito di tale Piano d’azione, la Commissione conferma il proprio ruolo propositivo ed in particolare si intesta il compito di «accrescere, ove necessario e possibile, la coerenza tra gli strumenti facenti parte dell’acquis comunitario in materia di diritto contrattuale, nelle varie fasi della redazione, attuazione e applicazione», coerenza da raggiungere anche attraverso il supporto di «un quadro comune di riferimento» che la Commissione intende elaborare. Questo “quadro comune di riferimento”, chiarisce la Commissione «dovrebbe fornire le soluzioni ottimali in termini di norme e terminologia comuni, vale a dire la definizione di concetti fondamentali e di termini astratti come “contratto” o “danno” o le disposizioni applicabili ad esempio in caso di inadempimento del contratto». Dunque, dal primo versante – le misure normative – l’obiettivo individuato è quello di migliorare i contenuti del diritto dei contratti di fonte comunitaria, e dunque, in particolare, semplificare le disposizioni, favorire maggiore aderenza delle regole agli sviluppi dell’economia e del commercio, e «colmare quelle lacune nella legislazione comunitaria che hanno dato luogo a problemi d’applicazione». Dal secondo versante – le misure non normative – l’obiettivo è quello di una elaborazione che cominci a spostare il processo di ravvicinamento, a monte, sul piano delle nozioni, delle regole generali, dei concetti, con la predisposizione di un “quadro comune di riferimento” che prepari l’adozione di uno strumento opzionale nel campo del diritto contrattuale europeo. Il Parlamento europeo condivide preoccupazioni e proposte della Commissione tanto che nella

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sua risoluzione del 7-7-2006, ribadito l’avviso che l’iniziativa in materia di diritto contrattuale europeo sia «la più importante iniziativa in corso nel campo del diritto civile», invita la Commissione a portare a termine il lavoro di elaborazione di un Quadro Comune di Riferimento (Common Frame of Reference – CFR), quale corpo di principi e regole per la disciplina dei contratti in generale e dei contratti più di frequente utilizzati dalle imprese, addirittura non escludendo che alla fine possa giungersi alla adozione di uno strumento vincolante. Una disciplina uniforme della parte generale del contratto. Il percorso così avviato – che le successive comunicazioni della Commissione consentono di monitorare – non raggiungerà tuttavia gli approdi auspicati, perché tornerà a scontrarsi con le – peraltro fondate – perplessità circa l’opportunità e la stessa praticabilità di una unificazione del diritto dei contratti in ambito europeo. Perplessità ovviamente assai più forti in ambienti di common law. L’esito, oggi, appare alquanto deludente: il Quadro Comune di Riferimento è rimasto allo stato di bozza o schema, il cosiddetto Draft Common Frame of Reference esitato nel 2007; tale schema pubblicato nel 2008 non ha ricevuto un deciso imprimatur che ne assicurasse il crisma della definitività e, soprattutto, ne chiarisse la portata. Ancora nel 2007, la Commissione (vedi le Conclusioni della Seconda relazione della Commissione sullo stato di avanzamento relativo al quadro comune di riferimento del 25-7-2007 – COM/2007/0447 def.) ricordava che «Secondo la sua concezione originale, il QCR è concepito per essere un “toolbox” o un manuale che la Commissione e il legislatore europeo potrebbero utilizzare nel corso della revisione della legislazione esistente e dell’elaborazione di nuovi strumenti nel settore del diritto dei contratti». Segnalava tuttavia che, fermo restando l’intendimento della Commissione di «scegliere ... le parti di questo progetto che corrispondono agli obiettivi legislativi comuni», quella della «portata del QCR rappresenta una questione distinta» e sollecitava anzi il Parlamento ad assumere una posizione al riguardo. Ribadendo comunque conclusivamente la propria posizione e cioè che «il QCR dev’essere utilizzato per definire chiaramente i termini giuridici, i principi fondamentali e le norme moderne e coerenti del diritto dei contratti per la revisione della legislazione settoriale esistente e per la preparazione di nuovi testi, nel caso fosse necessario. Non è destinato a garantire un’armonizzazione su vasta scala del diritto privato o a trasformarsi in un codice civile europeo».

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Per quanto fermo allo stadio di “Draft”, il Quadro Comune di Riferimento, dunque, oggi si offre, come negli auspici della Commissione, quale cornice alla quale dovrebbe attingere il legislatore a livello europeo per una normazione che valorizzi ove possibile i tratti comuni o comunque meglio compatibili dei singoli ordinamenti interni nella materia del contratto; ma al tempo stesso, essendosi spinto, come voluto dal Parlamento, al di là del settore della tutela dei consumatori, e presentandosi dunque come progetto “ampliato”, riguardante anche “questioni generali di diritto dei contratti” si offre all’interprete, sia esso studioso o giudice, che opera a partire dal diritto positivo interno, quale importantissima sintesi di una disciplina generale del contratto via via delineatasi in ambito europeo inevitabilmente destinata a interferire, per effetto dell’intervento del diritto dell’Unione, con quella interna ed anzi in qualche modo a “mescolarsi” con essa, modificandola. Dall’altro versante, che doveva preludere ad uno strumento normativo seppur non vincolante (c.d. “strumento opzionale”) abbiamo sopra ricordato la Proposta di regolamento relativo a un diritto comune europeo della vendita esitata l’11-10-2011 – COM(2011)635 def. ancora in discussione.

10. Autonomia contrattuale e diritti fondamentali nella CEDU Escludendo il rapporto tra diritto interno e diritto dell’Unione europea, che si atteggia come abbiamo visto in modo del tutto peculiare, in generale la relazione tra regole interne e regole contenute in Convenzioni internazionali, come accennato, dovrebbe non sollevare alcun dubbio, dal momento che queste ultime vincolano lo Stato che vi ha aderito, obbligandolo a ratificarle con propria legge, sicché è solo per il tramite della fonte normativa interna (la legge di ratifica) che quelle regole diventano parte del diritto nazionale. Ci troviamo dunque, alla fine, di fronte ad una fonte normativa interna, cioè la legge dello Stato. La Convenzione internazionale è però fonte di obblighi per lo Stato, che le leggi interne devono rispettare, pena la violazione del precetto costituzionale di cui all’art. 117 Cost. «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Il condizionale che abbiamo ritenuto di usare non è però fuor di

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luogo ove si abbia riguardo alle norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (o CEDU) del 1950 e alle questioni che solleva l’individuazione del suo rapporto con il diritto interno. La Convenzione è un Trattato internazionale redatto dal Consiglio d’Europa, firmato a Roma il 4-11-1950 dai 12 Stati al tempo membri del Consiglio d’Europa (Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito, Svezia, Turchia) ed è entrata in vigore il 3-7-1953, ma per l’Italia solo il 10-10-1955 (legge di ratifica 4-8-1955, n. 848). Successivamente è stata ratificata (o ha avuto l’adesione) da parte di tutti gli altri 47 Stati divenuti membri (al 22-6-2007) del Consiglio d’Europa ed arricchita da numerosi Protocolli aggiuntivi. La Convenzione ha una posizione del tutto peculiare al fine di delineare la cornice normativa entro cui si muovono gli ordinamenti degli Stati che vi hanno aderito, e ciò sia per la natura dei diritti qui tutelati, sia per il meccanismo di tutela che consente il ricorso individuale del cittadino dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo, sia per il forte richiamo alla Convenzione operato di recente dal Trattato dell’Unione Europea. Premettiamo che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non contiene disposizioni specificamente dedicate alla tutela dell’autonomia privata; al pari di quanto avviene a livello costituzionale interno, la libertà contrattuale (come del resto la iniziativa economica privata) non trova tutela diretta nella Convenzione, ma vi trova garanzia in via indiretta, quale esplicazione del diritto di proprietà come riconosciuto e protetto in forza del Protocollo addizionale alla Convenzione, firmato a Parigi il 20-3-1952 (art. 1 – Protezione della proprietà – par. 1: «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale»). Valgono per la libertà contrattuale a livello CEDU – precisa la nostra Corte costituzionale nell’ordinanza 18/22-5-2009, n. 162 – gli stessi principi enunciati in tema di proprietà e cioè che gli Stati membri rispettano gli obblighi derivanti dalla Convenzione allorché non introducono limitazioni all’autonomia contrattuale se non quando queste siano strettamente connesse alla tutela di un interesse generale. La nostra Corte costituzionale ripropone a proposito dei poteri del legislatore rispetto alla

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tutela dell’autonomia contrattuale quanto la Corte di Strasburgo ribadisce per la proprietà privata: «La decisione di adottare una legislazione restrittiva della proprietà di solito comporta valutazioni di ordine politico, economico e sociale. Considerando normale che il legislatore disponga di un’ampia libertà di condurre una politica economica e sociale, la Corte deve rispettare il modo in cui egli concepisce gli imperativi di “pubblica utilità” a meno che la sua decisione sia manifestamente priva di ragionevole fondamento». (CEDU Pressos Compania Naviera S.A. e altri c. Belgio, 20-11-1995, e Broniowski c. Polonia 22-6-2004) Può dunque palesarsi un contrasto tra norme interne e garanzie dei diritti fondamentali come sancite nella CEDU; e tale contrasto potrà rilevare particolarmente allorché la Corte europea dei diritti dell’uomo sia chiamata a pronunciarsi a seguito di ricorso individuale di chi invochi tale violazione e questa sia accertata con sentenza della Corte europea: è quanto avvenuto, con la sentenza 29-3-2006 nel noto caso Scordino (nel quale la Corte europea ha dichiarato che con l’applicazione dei criteri di quantificazione dell’indennizzo per espropriazione per pubblica utilità come previsti dall’art. 5-bis della nostra l. n. 359/1992 vi era stata violazione dell’art. 1, prot. 1, e dunque del diritto di proprietà ivi garantito, in ragione del carattere inadeguato dell’indennità versata ai ricorrenti). Occorre allora fare chiarezza sulla posizione della CEDU e delle sue norme (anche secondo l’interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo) rispetto agli ordinamenti degli Stati che hanno aderito alla Convenzione.

11. (Segue). I rapporti tra norme CEDU e diritto interno. Le diverse ricostruzioni e la posizione della nostra Corte costituzionale In principio, come detto, poiché l’inserimento delle norme internazionali pattizie nel sistema delle fonti del diritto italiano avviene per il tramite di una legge (di ratifica) avente normalmente rango di legge ordinaria, quindi potenzialmente modificabile da altre leggi ordinarie successive, dovrebbe concludersi che le norme CEDU non potrebbero es-

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sere assunte quali parametri di rango sovraordinato o addirittura di livello costituzionale nel nostro ordinamento, se non nei limiti del rinvio di cui all’art. 117 Cost. Tale conclusione ha sollevato tuttavia comprensibili perplessità: ed invero, le norme CEDU si muovono nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali della persona, e quindi integrano l’attuazione di valori e principi fondamentali di rango costituzionale, facendo apparire inadeguata, per esse, la veste formale di semplici fonti di grado primario. Molti giudici di merito e persino la nostra S.C. si sono spinti in passato a ritenere che, in caso di contrasto con le norme CEDU, le norme interne successive dovessero essere disapplicate, affermando così la primazia delle norme CEDU in luogo delle regole generali in tema di rapporto tra le fonti (interne) del medesimo rango. Va precisato che, quando entrano in gioco le norme della Convenzione, non si verte nella diversa ipotesi di necessario “adattamento” del diritto interno a principi unanimemente riconosciuti ed affermatisi nella comunità internazionale, secondo il meccanismo delineato nell’art. 10, co. 1, Cost. (“L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”). Questa disposizione infatti si riferisce esclusivamente alle norme internazionali consuetudinarie, cioè a regole di condotta non scritte, che si originano da comportamenti costantemente seguiti nel tempo e accettati dalla Comunità internazionale, e che hanno per destinatari tutti i soggetti della comunità internazionale: regole per le quali opera un procedimento di adattamento automatico e permanente, implicante che l’ordinamento, nella sua interezza, si conforma costantemente al diritto internazionale generale e alle sue modificazioni. Per esse si ritiene peraltro che l’incorporazione mediante l’art. 10, par. 1, Cost., le doti di garanzia costituzionale. La questione attiene piuttosto, in sintesi, al dubbio se per le norme CEDU, in forza fra l’altro del loro richiamo all’interno del Trattato dell’Unione Europea, si sia determinata una “comunitarizzazione” e cioè se in riferimento ad esse sia ravvisabile «un meccanismo idoneo a stabilire la sottordinazione della fonte del diritto nazionale rispetto a quella internazionale, assimilabile alle limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost., derivanti dalle fonti normative dell’ordinamento comunitario». Le norme della Convenzione, insomma, non entrerebbero nell’ordinamento interno per il tramite della legge (ordinaria) di ratifica, così soggiacendo alla regola generale del rapporto tra le norme e della loro successione nel tempo, applicabili a tutte le norme del diritto interno – ri-

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manendo demandato alla Corte Costituzionale l’eventuale conflitto tra norme interne e norme della Convenzione vincolanti per lo Stato italiano – ma dovrebbero essere trattate al pari delle norme provenienti da organi della Unione europea. La nostra Corte costituzionale, nella fondamentale pronuncia 24-102007, n. 348 (da cui abbiamo tratto i passi sopra virgolettati), ha escluso tale assimilazione, rimarcando come, (almeno) nel vigore del Trattato di Maastricht (del 7-2-1992) ai sensi dell’art. 6, par. 2 del medesimo Trattato, il rispetto dei diritti fondamentali, riconosciuti dalla Convenzione, doveva ritenersi costituire «una direttiva per le istituzioni comunitarie» e «non una norma comunitaria rivolta agli Stati membri», come del resto chiarito anche dalla Corte di giustizia nel parere 28-3-1996, n. 2/94 allorché era stata prospettata l’adesione della Comunità europea alla CEDU. La Corte di giustizia europea (sentenza 29-5-1998, causa C-299/95) si è dichiarata incompetente a svolgere una funzione interpretativa per la valutazione da parte del giudice nazionale della conformità della normativa interna ai diritti fondamentali, quali risultano dalla CEDU, e ciò «in quanto tale normativa riguarda una situazione che non rientra nel campo di applicazione del diritto comunitario». Dal canto suo, la Corte costituzionale, nella pronuncia del 2007 sopra citata, ha messo in chiaro che le norme CEDU integrano quelle che (con una nozione non esente da critiche) vengono chiamate “norme interposte”, cui rimanda l’art. 117 Cost. (nella formulazione successiva alla riforma del titolo V e dunque nel testo di cui all’art. 3 della l. cost. 18-10-2001, n. 3); l’art. 117 Cost. al co. 1, invero, come ricordato, sancisce che «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali», così ponendo a limite della potestà legislativa, statale e regionale, anche i vincoli che derivano all’Italia dagli “obblighi internazionali”, per effetto della adesione a Convenzioni o Trattati internazionali. Escluso che l’art. 117, co. 1, Cost., sia da considerarsi operante soltanto nell’ambito dei rapporti tra lo Stato e le Regioni («Il dovere di rispettare gli obblighi internazionali incide globalmente e univocamente sul contenuto della legge statale; la validità di quest’ultima non può mutare a seconda che la si consideri ai fini della delimitazione delle sfere di competenza legislativa di Stato e Regioni o che invece la si prenda in esame nella sua potenzialità normativa generale», osserva la Corte), tale

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norma «si presenta simile a quella di altre norme costituzionali, che sviluppano la loro concreta operatività solo se poste in stretto collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale, destinate a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere. Le norme necessarie a tale scopo sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria». Il parametro costituito dall’art. 117, co. 1, Cost. diventa concretamente operativo solo se vengono determinati quali siano gli “obblighi internazionali” che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. Il parametro può essere integrato e reso operativo dalle norme della CEDU, la cui funzione è quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato (norme di rango subcostituzionale o interposte, appunto). «La CEDU presenta, rispetto agli altri Trattati internazionali» – continua la Corte – «la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte europea per i diritti dell’uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa» (art. 32, par. 1). Ne deriva che tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale Trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione. Tuttavia, prosegue la nostra Corte costituzionale, «non si può parlare di una competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano, ma di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con ciò a precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia». In sintesi, la Corte, nella pronuncia n. 348/2007, pone i seguenti punti fermi: a) ogni argomentazione atta ad introdurre nella pratica, anche in modo indiretto, una sorta di “adattamento automatico”, del diritto interno alle norme della CEDU, sul modello dell’art. 10, co. 1, Cost. (“L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”) si porrebbe comunque in contrasto con il sistema delineato dalla Costituzione italiana, e più volte ribadito dalla Corte, secondo cui l’effetto previsto nella citata norma costituzionale non riguarda le norme pattizie (quali sono le norme della CEDU) ma solo, come detto, quelle consuetudinarie;

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b) il nuovo testo dell’art. 117, co. 1, Cost., se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall’altra attrae le stesse nella sfera di competenza della Corte costituzionale, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale; c) il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, co. 1, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi; d) le norme della CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, non acquistano la forza delle norme costituzionali e non sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione. La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le “norme interposte” e quelle costituzionali; e) nell’ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale la Corte dovrà dichiarare l’inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall’ordinamento giuridico italiano; e la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell’interpretazione da parte della Corte di Strasburgo, non la disposizione in sé e per sé considerata; f) ma le pronunce della Corte di Strasburgo non sono incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, co. 1, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.

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12. (Segue). Norme CEDU e norme interne dopo il Trattato di Lisbona La ricostruzione dei rapporti tra norme (e giurisprudenza) CEDU e diritto interno, reiteratamente confermata (vedi anche Corte cost. 5-12011, n. 1) “resiste”, ad avviso della stessa Corte costituzionale anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13-12-2007, ratificato e reso esecutivo con l. 2-8-2008, n. 130, che modifica il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea. L’art. 6 del t.u.e. è stato incisivamente modificato dal Trattato di Lisbona, in una inequivoca prospettiva di rafforzamento dei meccanismi di protezione dei diritti fondamentali. Ai sensi del par. 1, (nuovo) art. 6, «L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati». Il par. 2 sancisce: «l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»; e, infine, ai sensi del par. 3: «i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione ... e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali». La tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’Unione europea trova così ora fondamento in tre fonti distinte, ivi richiamate: in primo luogo, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (cosiddetta Carta di Nizza del 2007), che l’Unione “riconosce” e che «ha lo stesso valore giuridico dei trattati»; in secondo luogo, la CEDU, come conseguenza dell’adesione ad essa dell’Unione; infine, i “principi generali”, che – secondo lo schema già del previgente art. 6, paragrafo 2, del Trattato – comprendono sia i diritti sanciti dalla stessa CEDU che quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. La Corte costituzionale – nell’ampia argomentazione svolta con la pronuncia 11-3-2011, n. 80 – ha riconosciuto che siamo ora di fronte ad «un sistema di protezione assai più complesso e articolato del precedente, nel quale ciascuna delle componenti è chiamata ad assolvere a una propria funzione». «Il riconoscimento alla Carta di Nizza di un valore giuridico uguale a quello dei Trattati ... mira, in specie, a migliorare la tutela dei diritti fondamentali nell’ambito del sistema dell’Unione, ancorandola a un testo scritto,

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preciso e articolato. Sebbene la Carta “riafferm[i]”, come si legge nel quinto punto del relativo preambolo, i diritti derivanti (anche e proprio) dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dalla CEDU, il mantenimento di un autonomo richiamo ai “principi generali” e, indirettamente, a dette tradizioni costituzionali comuni e alla CEDU, si giustifica – oltre che a fronte dell’incompleta accettazione della Carta da parte di alcuni degli Stati membri (si veda, in particolare, il Protocollo al Trattato di Lisbona sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea alla Polonia e al Regno Unito) – anche al fine di garantire un certo grado di elasticità al sistema. Si tratta, cioè, di evitare che la Carta “cristallizzi” i diritti fondamentali, impedendo alla Corte di giustizia di individuarne di nuovi, in rapporto all’evoluzione delle fonti indirettamente richiamate. A sua volta, la prevista adesione dell’Unione europea alla CEDU rafforza la protezione dei diritti umani, autorizzando l’Unione, in quanto tale, a sottoporsi a un sistema internazionale di controllo in ordine al rispetto di tali diritti». Tuttavia, la Corte costituzionale esclude che alla luce di tale nuovo sistema, e soprattutto del modo in cui il Trattato si rapporta alla CEDU, debba riconoscersi un “effetto diretto”, e cioè che le norme della Convenzione siano divenute parte integrante del diritto dell’Unione, con le note conseguenze in tema di rapporti con le norme del diritto interno, volute dall’art. 11 Cost. e ormai acquisite ai sensi della giurisprudenza della Corte di giustizia e della nostra Corte costituzionale (in particolare, il dovere del giudice interno di disapplicare le norme interne in contrasto con quelle CEDU). «Nessun argomento in tale direzione può essere tratto, anzitutto, dalla prevista adesione dell’Unione europea alla CEDU, per l’assorbente ragione che l’adesione non è ancora avvenuta. A prescindere da ogni altro possibile rilievo, la statuizione del paragrafo 2 del nuovo art. 6 del Trattato resta, dunque, allo stato, ancora improduttiva di effetti. La puntuale identificazione di essi dipenderà ovviamente dalle specifiche modalità con cui l’adesione stessa verrà realizzata. Quanto, poi, al richiamo alla CEDU contenuto nel paragrafo 3 del medesimo art. 6 – secondo cui i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione “e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali” – si tratta

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di una disposizione che riprende, come già accennato, lo schema del previgente paragrafo 2 dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea: evocando, con ciò, una forma di protezione preesistente al Trattato di Lisbona. Restano, quindi, tuttora valide le considerazioni svolte da questa Corte in rapporto alla disciplina anteriore, riguardo all’impossibilità, nelle materie cui non sia applicabile il diritto dell’Unione ... di far derivare la riferibilità alla CEDU dell’art. 11 Cost. dalla qualificazione dei diritti fondamentali in essa riconosciuti come “principi generali” del diritto comunitario (oggi, del diritto dell’Unione). Le variazioni apportate al dettato normativo – e, in particolare, la sostituzione della locuzione “rispetta” (presente nel vecchio testo dell’art. 6 del Trattato) con l’espressione “fanno parte” – non sono, in effetti, tali da intaccare la validità di tale conclusione. Come sottolineato nella citata sentenza n. 349 del 2007, difatti, già la precedente giurisprudenza della Corte di giustizia – che la statuizione in esame è volta a recepire – era costante nel ritenere che i diritti fondamentali, enucleabili dalla CEDU e dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, facessero “parte integrante” dei principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario era chiamato a garantire il rispetto (ex plurimis, sentenza 26 giugno 2007, C-305/05, Ordini avvocati contro Consiglio, punto 29). Rimane, perciò, tuttora valida la considerazione per cui i principi in questione rilevano unicamente in rapporto alle fattispecie cui il diritto comunitario (oggi, il diritto dell’Unione) è applicabile, e non anche alle fattispecie regolate dalla sola normativa nazionale». Va esclusa in definitiva una sorta di “trattatizzazione” indiretta della CEDU, sicché i diritti previsti dalla CEDU che trovino un “corrispondente” all’interno della Carta di Nizza dovrebbero ritenersi ormai tutelati anche a livello di diritto dell’Unione europea e, ove il Trattato contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi dovrebbero ritenersi uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione, (ferma restando la possibilità «che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa»). «A prescindere da ogni ulteriore considerazione, occorre peraltro osservare come – analogamente a quanto è avvenuto in rapporto alla prefigurata adesione dell’Unione alla CEDU (art. 6, paragrafo 2, secondo periodo,

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del Trattato sull’Unione europea; art. 2 del Protocollo al Trattato di Lisbona relativo a detta adesione) – in sede di modifica del Trattato si sia inteso evitare nel modo più netto che l’attribuzione alla Carta di Nizza dello “stesso valore giuridico dei trattati” abbia effetti sul riparto delle competenze fra Stati membri e istituzioni dell’Unione. L’art. 6, paragrafo 1, primo alinea, del Trattato stabilisce, infatti, che “le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati”. A tale previsione fa eco la Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona, ove si ribadisce che “la Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi dell’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati”. Omissis. Ciò esclude, con ogni evidenza, che la Carta costituisca uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell’Unione europea, come, del resto, ha reiteratamente affermato la Corte di giustizia, sia prima (tra le più recenti, ordinanza 17 marzo 2009, C-217/08, Mariano) che dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU, McB; ordinanza 12 novembre 2010, C-399/10, Krasimir e altri). Presupposto di applicabilità della Carta di Nizza è, dunque, che la fattispecie sottoposta all’esame del giudice sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto». (Corte cost. 11-3-2011, n. 80) Ribadisce da ultimo la Corte di giustizia, che «l’articolo 6, paragrafo 3, TUE non disciplina il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale convenzione ed una norma di diritto nazionale». Ne consegue che

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«il rinvio operato dall’articolo 6, paragrafo 3, TUE alla CEDU non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta Convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa». (Corte giust. 24-4-2012, C-571/10, Kamberaj) Conclusivamente, ed almeno secondo l’impostazione ad oggi prevalente: – le norme CEDU non entrano a far parte del nostro ordinamento (come invece quelle di fonte europea) e possono essere sottoposte ad uno scrutinio di legittimità costituzionale in doppia direzione: a) per verificare se effettivamente vi sia contrasto non risolvibile in via interpretativa tra la norma censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea, assunte come fonti integratrici del parametro di costituzionalità di cui all’art. 117, co. 1, Cost.; b) per verificare altresì se le norme della CEDU invocate come integrazione del parametro, nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte di Strasburgo, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano; – il giudice non deve disapplicare le norme interne ritenute in contrasto con le norme CEDU ma sottoporre il contrasto alla Corte costituzionale; ha però il compito di interpretare le norme interne, quando le applica, in modo conforme ai principi fondamentali sanciti nella CEDU. Allorché poi, a seguito di ricorso individuale, la Corte di Strasburgo riconosca che dall’applicazione dei diritto interno di uno Stato è derivata una violazione dei diritti garantiti dalla CEDU, lo Stato è obbligato a dare esecuzione alla eventuale sentenza, seppur limitatamente al caso concreto oggetto del giudizio. Secondo quanto dispone l’art. 46 CEDU (Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze) «1. Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti». Ma ciò – almeno secondo l’impostazione sopra ampiamente riferita – non comporta in generale un obbligo dello Stato di modifica in senso di adeguamento della normativa interna, se è vero che, ai sensi dell’art. 41 della CEDU (Equa soddisfazione), «Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se

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non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa». Dunque, anche a fronte di sentenza che accerti il contrasto di norme interne con le norme e i diritti garantiti dalla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, l’ordinamento interno non deve in principio “arretrare”, eliminando la propria normativa, rimanendo lo Stato obbligato (solo) a indennizzare la parte lesa ma non a modificare le proprie norme. Il che non esclude – ma si tratta di un percorso diverso che non altera il rango delle fonti – un processo di adeguamento (spontaneo) dei legislatori interni, che autonomamente riformino la disciplina interna che sia stata oggetto di reiterate censure della Corte di Strasburgo. Così come non esclude – ed è quanto accaduto nel citato caso Scordino – che, alla luce della lettura delle norme prospettata in sede di Corte europea, la Corte costituzionale rintracci un contrasto tra le norme interne (responsabili secondo la Corte di Strasburgo della violazione del diritto fondamentale del ricorrente) e le norme della Convenzione e, ai sensi dell’art. 117, co. 1, ne dichiari la incostituzionalità (vedi Corte cost. nn. 348349/2007, cui è seguita la riscrittura dell’art. 37 t.u. espropriazioni in materia di indennità di esproprio, ad opera della l. n. 244/2007).

13. La legge ordinaria. Il codice civile Seguendo la gerarchia delle fonti, nella sua versione attuale, si rinviene la fonte precipua di regolazione del contratto, purché costituzionalmente legittima, vale a dire la legge (dello Stato). Ci si riferisce ovviamente a tutti gli atti formati secondo norme di cui agli artt. 70 ss. Cost., dotati di forza di legge. È legge ordinaria il nostro codice civile, approvato con r.d. 16-3-1942, n. 262, il cui libro IV contiene il nucleo fondamentale della disciplina del contratto, e, segnatamente, la disciplina generale del contratto (artt. 1321-1469-bis) e le regole riferite ai “singoli contratti” tipici (artt. 1470-1986).

14. (Segue). Il codice del consumo Il termine “codice”, nel suo significato proprio e originario, indica una raccolta sistematica e organica di norme che disciplina, in modo ten-

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denzialmente completo e stabile, un intero settore dell’ordinamento: nel nostro caso i rapporti giuridici privati. Più di recente, si è diffuso l’utilizzo, in verità improprio, del termine “codice” per indicare quelli che correttamente vanno denominati “testi unici”, vale a dire raccolte di norme già in vigore, via via emanate con leggi o atti aventi forza di legge succedutisi nel tempo e destinate a regolare un’unica materia o materie tra loro connesse, che vengono successivamente versate in un unico compendio al fine di coordinarle tra loro. È questo il caso, che qui più interessa, del codice del consumo, emanato con d.lgs. 6-7-2005, n. 206; ma anche del codice del turismo, emanato quale Allegato 1 con il d.lgs. 23-5-2011, n. 79. Nel caso delle norme versate nelle direttive europee, il recepimento nel nostro ordinamento avviene abitualmente per il tramite del meccanismo di cui all’art. 76 Cost. e cioè per il tramite di una delega (funziona da legge delega in questo caso la legge di delegazione europea con la quale, su iniziativa del Governo e dopo consultazione con le Regioni, entro il 28 febbraio di ogni anno si provvede a delegare il Governo al recepimento, in via legislativa o anche regolamentare, delle direttive europee o delle decisioni quadro, nonché ad eventuali conseguenti modifiche di provvedimenti già vigenti, ovvero all’adeguamento dell’ordinamento interno ad eventuali provvedimenti sanzionatori dell’Unione europea: vedi artt. 29 e 30, co. 2 della l. 24-12-2012, n. 234), cui segue dunque l’emanazione (art. 77 co. 1) di decreti delegati. È invece eventuale e può essere presentata anche disgiuntamente in qualsiasi momento la legge europea (artt. 29 e 30, co. 3, l. n. 234/2012), destinata anch’essa all’adeguamento del diritto interno al diritto europeo ma ove si renda necessario varare disposizioni modificative o abrogative di norme interne che siano state oggetto di procedure di infrazione o di sentenze della Corte di giustizia, o che si rendano necessarie per dare attuazione agli atti dell’Unione europea ed ai Trattati internazionali conclusi dall’Unione, o che lo Stato debba emanare esercitando il potere sostituivo a fronte dell’inerzia delle Regioni. Sull’esempio di altri ordinamenti (innanzitutto quello francese ove già nel 1993 la l. 26-7-1993, n. 949, rivedendo disposizioni in materia di informazione del consumatore risalenti addirittura al 1978, dettò un corpo organico di regole denominato Code de la consommation, nel corso degli anni aggiornato), il nostro legislatore ha varato, con d.lgs. n. 206/2005, il codice del consumo, nel quale sono state raccolte ed ordinate le discipline di derivazione europea in materia di tutela del consu-

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matore succedutesi nel corso degli anni ed in un primo tempo dettate con separati decreti legislativi o, in alcuni casi, inserite nel corpo del codice civile (artt. 1469 da bis a sexies in materia di clausole vessatorie e artt. 1519 da bis a nonies concernenti la garanzia nella vendita di beni di consumo), disposizioni, queste, tutte ora abrogate. Il codice del consumo – che ha continuato ad essere aggiornato con l’inserimento di ulteriori norme sempre dettate da direttive in materia di contratti di consumo – rappresenta dunque un tentativo di riorganizzare i diversi “segmenti” di disciplina settoriale succedutisi nel tempo, ma non interviene, o interviene solo marginalmente e non sempre con successo, sull’impianto dei singoli provvedimenti (che vengono invece sostanzialmente riproposti in sequenza nel testo originario), mancando così l’obiettivo di sistemazione. Al di là della denominazione adottata, come detto, non siamo di fronte ad un “codice”, cioè ad un corpo unitario ed organico di norme, entro il quale si delinei un sistema compiuto di disciplina di un’ampia materia del diritto. Ma ad una sorta di testo unico, entro il quale si trovano raccolte, secondo un preciso ordine concettuale, discipline prima contenute in fonti diverse, con un’opera di coordinamento minimo di carattere formale, che non elimina alcune delle incoerenze inevitabili in una produzione normativa a carattere stratificato ed in via di consolidamento. Il codice del consumo raccoglie le norme che, in sequenza, dovrebbero “accompagnare” il consumatore lungo l’intero “processo di acquisto e consumo” (vedi art. 1), e perciò il suo intervento non è circoscritto al solo momento puntuale dello scambio, e dunque al contratto, ma ha piuttosto ad oggetto il periodo, più o meno lungo a seconda della specifica operazione negoziale, in cui si ritiene che il consumatore inizi a maturare la decisione negoziale fino alla fase successiva della integrale esecuzione del contratto. Da qui una partizione che intende seguire, nella naturale scansione fisiologica, le singole tappe del più ampio processo di consumo. All’enunciazione dei “diritti fondamentali dei consumatori” e alle consuete definizioni (parte prima), segue una parte seconda che raccoglie le disposizioni in materia di educazione, informazioni al pubblico dei consumatori, pratiche commerciali, comunicazioni commerciali e pubblicitarie, compresa la televendita; dopo la parte terza, esplicitamente dedicata al “rapporto di consumo” (su cui ci soffermeremo), la parte quarta attiene alla sicurezza e qualità dei prodotti, e contiene, accanto a norme volte a vigilare sugli standards qualitativi di produzione (titolo I), la disciplina della respon-

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sabilità del produttore per i danni cagionati da prodotti difettosi (titolo II), e la disciplina della garanzia, legale e convenzionale, nella vendita di beni di consumo (titolo III). La parte quinta è dedicata alle associazioni dei consumatori ed alle modalità di accesso alla giustizia, nonché alle regole per la composizione giudiziale e stragiudiziale delle controversie, ivi compresa la disciplina dell’azione collettiva risarcitoria, (introdotta dalla l. n. 244/2007, e radicalmente modificata dalla l. 23-7-2009, n. 99 che ha riscritto il testo dell’art. 140-bis cod. cons., ulteriormente modificato dal d.l. 24-1-2012, n. 1 convertito nella l. 24-3-2012, n. 27); la parte sesta raccoglie alcune disposizioni finali, fra cui merita di essere segnalata quella di cui all’art. 143, secondo la quale «i diritti attribuiti al consumatore dal codice sono irrinunciabili. È nulla ogni pattuizione in contrasto con le disposizioni del codice». Le disposizioni (generali) sui «contratti dei consumatori in generale» si esauriscono nelle regole in tema di clausole vessatorie, mentre la disciplina dei contratti dei consumatori continua a delinearsi per “segmenti”, cioè secondo le normative settoriali di provenienza comunitaria. Così, dopo alcune norme riferite al credito al consumo (che non ne esaurivano la disciplina, mantenendo il rinvio alle relative disposizioni del testo unico bancario), ed oggi una sola norma di rinvio alla disciplina contenuta nel t.u.b., il titolo III della parte IV (“Modalità contrattuali”) raccoglie le regole che si applicano in ragione delle «particolari modalità di conclusione del contratto», segnatamente ai contratti negoziati fuori dei locali commerciali, ai contratti a distanza, alla commercializzazione a distanza dei servizi finanziari, preferendo rinviare poi, quanto al commercio elettronico, alla relativa disciplina, dettata dal d.lgs. n. 70/2003, di attuazione della dir. 2000/31/CE dell’8-6-2000, che rimane pertanto fuori dal codice. Il titolo IV contiene disposizioni relative ai singoli contratti “dei consumatori”, originariamente multiproprietà e servizi turistici, presi in considerazione dalle direttive comunitarie: dopo l’abrogazione del capo II, ad opera del d.lgs. 23-5-2011, n. 79, sono qui disciplinati solo i “contratti di multiproprietà”, contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine, contratti di rivendita e di scambio, mentre le norme concernenti i “pacchetti turistici” sono state trasferite all’interno del capo I (contratti del turismo organizzato) del titolo VI del codice del turismo (allegato al citato d.lgs. n. 79/2011). Fuori dalla parte dedicata al rapporto di consumo è poi collocata la disciplina della garanzia nella vendita di beni di consumo (artt. 128 ss.).

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I tratti comuni alla disciplina dei contratti dei consumatori – che pure, come vedremo, emergono ormai nitidamente dal quadro normativo – rimangono così messi in ombra da disposizioni sparse e non sempre del tutto sovrapponibili. Inoltre, il codice non costituisce il testo destinato a raccogliere tutta la materia del contratto (o rapporto) di consumo, come evidenziano gli ampi rinvii ad altre discipline settoriali, riferite anch’esse a rapporti professionista/consumatore (o cliente), che ne rimangono fuori. Rinvii ad altre fonti normative ora arricchitesi, come detto, anche a seguito della scelta compiuta con l’emanazione del codice del turismo (e vedi, ampiamente, III).

15. Legislazione regionale e diritto privato Di nessun rilievo nella materia dei contratti è la fonte normativa subordinata (alla legge statale) costituita dalla legge regionale. Il tema del rapporto tra legislazione regionale e legislazione statale si è diversamente prospettato in ragione dei profondi mutamenti intervenuti nell’assetto delineato dalla Costituzione, al titolo V, e del progressivo ampliamento degli ambiti di competenza legislativa attribuiti alle Regioni. Sempre problematica è apparsa tuttavia l’ammissibilità di una piena parificazione della legge regionale alla legge statale – fermi restando i rispettivi ambiti di competenza – quando si tratti di disciplinare i rapporti privati. La legislazione regionale, stando all’orientamento prevalente della nostra Corte costituzionale, non può mai porsi quale fonte del diritto privato (o, meglio, di un diritto privato regionale). La questione è antica e si pose originariamente con riguardo all’esercizio della (più ampia) potestà legislativa esclusiva delle Regioni a Statuto speciale, nel vigore di norme costituzionali – gli artt. 116 e 117 vecchio testo – che nulla prevedevano al riguardo. Solo l’art. 14, co. 1, dello Statuto della Regione siciliana fa salva la “disciplina dei rapporti privati” (ma a proposito della competenza esclusiva nella materia dell’industria e commercio: lett. d). Il limite della salvaguardia della disciplina dei rapporti privati, da lasciare alle leggi statali, doveva comunque ritenersi implicito. La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul punto già in anni molto lontani, si è attestata su un orientamento restrittivo (inaugurato con la sentenza 14-7-1972, n.154), secondo il quale la salvaguardia delle

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primarie esigenze di uguaglianza dei cittadini, postulata dall’art. 3 Cost., impone una uniformità di disciplina dei rapporti privati, che può essere garantita solo assicurando allo Stato, quale vertice esponenziale dell’intera collettività nazionale, il monopolio normativo in materia di diritto privato. Posizione sostanzialmente mai abbandonata come confermano le pronunce richiamate nella più recente sentenza n. 295/2009, e che ha oggi l’avallo del dettato costituzionale. L’art. 117 Cost., nel testo vigente introdotto dall’art. 3 della l. cost. 18-10-2001, n. 3, espressamente riserva allo Stato, quale materia di legislazione esclusiva, anche l’ordinamento civile e penale (lett. l). Una rigorosa applicazione del principio su cui si è attestata la Corte costituzionale – ed ora della riserva di legge di cui all’art. 117 Cost. – si scontra, specie in un contesto che vede significativamente ampliarsi gli ambiti di competenza regionale, con la difficoltà di identificare in modo certo i confini della materia del “diritto privato”, che si vorrebbe assumere come area compatta e agevolmente “separabile” dell’ordinamento giuridico, idonea a rimanere impermeabile rispetto ad interventi normativi di livello regionale, che pure toccano l’ambito delle relazioni socioeconomiche e dunque, ad esempio, l’attività d’impresa, la prestazione di servizi, ecc.; o, ancora, l’uso del beni anche privati (vedi edilizia residenziale, urbanistica, governo del territorio e protezione dell’ambiente, ecc.). In generale, dunque, al fine di tracciare con certezza il limite oltre cui non può spingersi la legislazione regionale, deve aversi riguardo all’ordinamento del diritto privato, inteso come «un’area riservata alla competenza esclusiva della legislazione statale e comprendente i rapporti tradizionalmente oggetto di codificazione», come ribadisce la sentenza citata del 2009, richiamandosi anche da questo profilo alla sentenza n. 352/2001. Dunque «la normativa regionale deve ... applicare le norme del codice civile o, in generale, la disciplina introdotta dallo Stato per detti rapporti … sono ammissibili le deroghe alla legislazione di diritto privato nell’area dei rapporti che intercorrono tra la società privata e l’amministrazione regionale, ma è necessario che esse non rechino violazione dei principi civilistici, ancorché indiretta, e non risultino manifestamente irragionevoli». (Corte cost. 13-11-2009, n. 295)

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Nell’applicazione di tale principio, tuttavia, la Corte non potrà sottrarsi ad una verifica circa la (sicura) riconducibilità della materia regolata in sede regionale entro l’ambito del diritto privato come sopra definito. L’orientamento, sul quale la Corte sembra solidamente attestata, si arricchirà semmai di ulteriori puntualizzazioni con riguardo ai differenti istituti del diritto privato di volta in volta implicati: come quella, ai nostri fini rilevante, che ribadisce la riserva alla competenza dello Stato della disciplina dei rapporti contrattuali: «Questa Corte ha più volte affermato che “l’ordinamento del diritto privato si pone quale limite alla legislazione regionale, in quanto fondato sull’esigenza, sottesa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire nel territorio nazionale l’uniformità della disciplina dettata per i rapporti fra privati”. Esso, quindi, identifica “un’area riservata alla competenza esclusiva della legislazione statale e comprendente i rapporti tradizionalmente oggetto di codificazione” (sentenza n. 352 del 2001). Questa Corte ha precisato che detto limite consente comunque un qualche adattamento in ambito regionale, “ove questo risulti in stretta connessione con la materia di competenza regionale e risponda al criterio di ragionevolezza, che vale a soddisfare il rispetto del richiamato principio di eguaglianza” (sentenza n. 352 del 2001). Peraltro, sin dalle prime pronunce, questa Corte ha avuto modo di decidere che “la disciplina dei rapporti contrattuali (...) va riservata alla legislazione statale” (sentenza n. 6 del 1958; cfr. anche le sentenze n. 82 del 1998 e n. 60 del 1968)». (Corte cost. 13-11-2009, n. 295, cit.)

16. I regolamenti e le fonti secondarie La gerarchia delle fonti pone in posizione subordinata alla legge, i regolamenti, cioè gli atti normativi emanati in base ad una potestà attribuita dalla Costituzione o dalla legge, da parte del governo o di altre istituzioni dotate di potestà regolamentare (enti pubblici territoriali o no). Nella materia di cui ci occupiamo rileva in particolare il potere regolamentare attribuito alle autorità amministrative indipendenti, quali la Consob (Commissione Nazionale per le Società e la Borsa istituita con d.l. n. 95/1974 convertito nella l. 7-6-1974, n. 216), o l’Autorità ga-

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rante della Concorrenza e del mercato (Antitrust o AGCM, istituita con la l. n. 287/1990). Come vedremo, il testo unico in materia di intermediazione finanziaria (t.u.f., d.lgs. 24-2-1998, n. 58), delega alla Consob il potere di emanare norme secondarie destinate a specificare sotto molti e decisivi profili la disciplina dei contratti tra intermediari finanziari e investitori. Il testo unico bancario (t.u.b., d.lgs. 1-7-1993, n. 385) affida poi al Comitato Interministeriale per il Credito e il risparmio (CICR) e alla Banca d’Italia (vedi in particolare art. 117 t.u.b.) compiti di particolare rilievo al fine di specificare, in sede regolamentare, la disciplina dei contratti tra banche e clienti.

17. (Segue). Il contratto tra disciplina dei rapporti privati e interventi di regolazione dei mercati Come abbiamo ricordato già a proposito della sua nozione, il contratto è lo strumento, “consegnato” ai privati, per regolare tra di essi gli scambi e gli interessi economici. Lo svolgimento delle attività economiche sul mercato non è però lasciato – né potrebbe esserlo – alle sole autonome determinazioni dei privati: l’illusione dei fisiocratici e del liberismo dell’Ottocento, che il mercato fosse capace di “autoregolarsi” secondo le leggi economiche dell’incontro tra domanda ed offerta, fu destinata ben presto a scontrarsi con la realtà di rapporti di forza economica tutt’altro che equilibrati destinati ad originare la concentrazione di talune attività economiche e della produzione di taluni beni o servizi in poche mani (oligopolio) o addirittura in capo ad un solo operatore (monopolista) e dunque ad alterare le condizioni di scambio di tali beni o prodotti in danno di chi intendesse accedervi. La regola del “lasciar fare, lasciar accadere”, secondo cui lo Stato avrebbe dovuto fare da semplice spettatore rispetto all’andamento dei rapporti economici che via via si determinavano sul mercato, fu presto smentita dai fatti. I rapporti di forza economica tra quanti aspiravano ad una occupazione e quanti offrivano lavoro, mai avrebbero condotto “spontaneamente” ad una disciplina del contratto di lavoro idonea ad assicurare al prestatore non solo una adeguata retribuzione ma anche elementari garanzie per la propria salute; l’andamento della produzione, nel rispetto delle regole dell’incontro tra domanda ed offerta di beni, avrebbe determinato un aumento dei prezzi direttamente proporzionale alla riduzione dei volu-

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mi di produzione e dunque mai avrebbe consentito l’accesso a taluni beni primari da parte di tutti. Senza addentrarci su un tema ampio e complesso, basta qui ricordare che, già dagli inizi del secolo scorso, negli Stati moderni nati dalla Rivoluzione francese, si profila e via via si accresce l’intervento dell’ordinamento giuridico in funzione di correzione/regolazione dei rapporti di mercato. Tale intervento, ovviamente con maggiore o minore intensità a seconda dei periodi storici, si rivolge sia, come del resto abbiamo già illustrato, a delimitare l’ambito di autonomia consentito ai privati nella regolazione dei loro rapporti economici, con disposizioni che si riferiscono dunque direttamente al contratto e ai contenuti di taluni contratti; sia a delimitare ed orientare l’ambito di autonomia degli operatori economici nello svolgimento e nella organizzazione della loro attività sul mercato, regolando e controllando dunque, a monte, l’attività economica esercitata. Due esempi chiariscono, già all’interno del nostro codice civile del 1942, il senso dell’intervento da questo secondo profilo. La legge vieta – vedi art. 2598 c.c. – “atti di concorrenza sleale”, come enunciati nella stessa norma: la concorrenza, la competizione tra imprenditori è essenziale in una economia di mercato (nella quale l’iniziativa economica non è appannaggio dello Stato ma lasciata ai privati), ma proprio per questo l’ordinamento deve vigilare ed intervenire affinché non sia alterata in modo scorretto. L’esercizio di una impresa in via esclusiva, cioè in “condizioni di monopolio” è del tutto eccezionale e può essere solo conseguenza di una espressa previsione di legge: e chi agisce in condizioni di monopolio legale «ha l’obbligo di contrarre con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell’impresa, osservando la parità di trattamento» (art. 2597 c.c.). La crescente complessità dei rapporti di scambio, all’interno di quello che oggi si denomina mercato globale, ha richiesto ovviamente l’intensificarsi e l’affinarsi dell’intervento normativo, come dimostra, fra l’altro, la creazione di Autorità indipendenti istituite sia al fine di assicurare il generale rispetto delle regole di concorrenza e contrastare fenomeni di concentrazione e monopolio – Autorità garante della concorrenza e del mercato – sia per la regolazione di singoli settori di mercato (Autorità per l’energia, per le telecomunicazioni, ecc.). Tornando alla disciplina del contratto, è abbastanza evidente – ed è quello che interessa ai nostri fini – che le condizioni di offerta sul mercato di beni o servizi su vasta scala, dunque da parte di imprese dotate

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di maggior forza economica nei confronti di una vasta platea di potenziali contraenti (consumatori), sono esse stesse mezzi attraverso cui gli operatori economici entrano in competizione tra loro per catturare settori sempre più vasti di consumatori: il rispetto della correttezza nei rapporti professionista/consumatore, all’interno del singolo contratto che tra di essi concretamente viene stipulato, vale ad assicurare al contempo non solo l’interesse del consumatore ma anche quello dei competitors del professionista, che sarebbero spiazzati da pratiche commerciali aggressive o scorrette con cui questi si assicurasse una più ampia fetta di mercato. Ciò spiega perché il rispetto delle regole in materia di contratto, e particolarmente dei contratti professionista-consumatore, oltre che essere affidato agli ordinari rimedi che il diritto attribuisce ai privati e dunque al controllo giudiziale sul contenuto, sulla forma, sull’adempimento del singolo contratto, tende altresì ad essere ricondotto entro il più ampio intervento di regolazione del mercato e segnatamente entro l’àmbito di competenza dell’Autorità garante della Concorrenza e del mercato (Antitrust o AGCM). L’esempio ai nostri fini più significativo, su cui ci soffermeremo a suo tempo, (V, 8) è quello del controllo sulle clausole vessatorie nei contratti consumatore/professionista, ora previsto dall’art. 37-bis cod. cons. anche in via amministrativa. Ma il dubbio sui rapporti tra controllo in via amministrativa e rimedi civilistici (segnatamente nell’ambito dei rapporti contrattuali) come vedremo riaffiora a proposito del regime delle pratiche commerciali scorrette (IV, II, 18). Ci occuperemo in particolare a suo tempo dei problemi di raccordo tra il controllo esercitato in via generale sulle clausole vessatorie nei contratti di consumo dall’Autorità Antitrust e quello in concreto affidato al giudice dall’art. 34 (chiamato ad un accertamento in concreto riferito al singolo contratto). Ma qui richiamiamo l’attenzione sul fenomeno di crescente e necessaria interazione tra disciplina del contratto (dunque della relazione tra privati) e governo del mercato. Esempio significativo sono le aperture della giurisprudenza con riguardo al tema, controverso, della diretta incidenza sulle manifestazioni dell’autonomia privata delle regole adottate da tali Autorità nell’esercizio dei poteri di regolazione del mercato loro assegnati dalla legge. Sia i giudici amministrativi, sia la Corte di Cassazione, ancora di recente, hanno riconosciuto l’incidenza della potestà regolamentare attribuita dalla legge all’Autorità indipendente dell’Energia Elettrica e del Gas (AEEG) sull’autonomia contrattuale e in particolare sui contratti di u-

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tenza. La l. 14-11-1995, n. 481, invero, attribuisce all’AEEG un potere di regolazione del mercato dell’energia rivolto a garantire «la promozione della concorrenza e dell’efficienza nel settore dei servizi di pubblica utilità … nonché adeguati livelli di qualità dei servizi medesimi in condizioni di economicità e di redditività, assicurandone la fruibilità e la diffusione in modo omogeneo sull’intero territorio nazionale, definendo un sistema tariffario certo, trasparente e basato su criteri predefiniti, promuovendo la tutela degli interessi di utenti e consumatori». Le delibere dell’Autorità, direttamente riferite al regolamento di servizio degli operatori, non possono dunque non avere ricadute anche nei contratti di utenza tra il soggetto vigilato (operatore) e il cliente finale. Da qui il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione già con la sentenza 30-8-2011, n. 17786 e successivamente ribadito, secondo cui

«Il potere normativo secondario (o, secondo una possibile qualificazione alternativa, di emanazione di atti amministrativi precettivi collettivi) dell’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas ai sensi dell’art. 2, comma 2, lett. h)[l. 481/1995] si può concretare anche nella previsione di prescrizioni che, attraverso l’integrazione del regolamento di servizio … possono in via riflessa integrare, ai sensi dell’art. 1339 c.c., il contenuto dei rapporti di utenza individuali … anche in senso derogatorio di norme di legge, ma alla duplice condizione che queste ultime siano meramente dispositive e, dunque, derogabili dalle stesse parti, e che la deroga venga comunque fatta dall’Autorità a tutela dell’interesse dell’utente o consumatore» (Cass. 2-2-2016, n. 1906) Al Regolamento dell’Autorità viene dunque riconosciuto un potere di integrazione del contenuto del contratto di utenza che non si limita a colmare eventuali lacune dell’autonomia privata (e dunque disciplinare aspetti non regolati dalle parti), ma interviene altresì a sostituire la pattuizione privata difforme. Non sarebbe pertinente un richiamo all’art. 1374 c.c., secondo cui gli effetti del contratto possono essere integrati con riguardo ad aspetti non regolati dalle parti (integrazione suppletiva, VI, 2). Il richiamo è alla integrazione cogente, cui abbiamo fatto cenno (I, 7) e su cui torneremo (V, 3), consentito dall’art. 1339 c.c., in base al quale le clausole, i prezzi di beni o di servizi imposti dalla legge

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sono di diritto inseriti nel contratto, anche in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti. Si tratta nel caso di specie di una applicazione dell’art. 1339, si precisa, perché, nella logica del sistema di cui alla l. n. 481/1995, la previsione della integrazione del contratto di utenza, esercitabile dall’AEEG, “è certamente espressione non di supplenza, ma di imposizione di un regolamento ritenuto autoritativamente dovuto” (così Cass. n. 7786/2011). Attraverso il richiamo all’art. 1339 c.c. – ed è questa la novità rilevante sul piano del rapporto tra le fonti e con riguardo alla rilevanza della fonte regolamentare nella disciplina del contratto – si riconosce tuttavia in questo caso forza di integrazione cogente ad una norma che non proviene dalla legge ma da una fonte regolamentare o c.d. secondaria (regolamenti emanati da una Autorità indipendente). Per questo l’ammissibilità del meccanismo sostitutivo va subordinata, ad avviso della Corte, alla duplice condizione che non si tocchino aspetti del contratto regolati da norme di legge imperative, limitandosi l’integrazione a riguardare aspetti del contratto regolati da norme dispositive, cioè derogabili dalle parti (es. le modalità di pagamento) e che la deroga sia finalizzata alla tutela del consumatore.

18. La c.d. lex mercatoria e i suoi compendi Nei contratti “transfrontalieri” la scelta delle parti contraenti deve comunque fare riferimento alla legge di uno Stato: e non dunque a raccolte di princìpi e regole predisposte da organismi privati. Ci riferiamo innanzitutto all’Unidroit, Istituto internazionale per l’unificazione del diritto privato, organizzazione internazionale (privata) con sede a Roma, istituita nel 1926, il cui obiettivo principale è «quello di predisporre strumenti che consentano agli Stati o a gruppi di Stati l’adozione di legislazioni uniformi di diritto privato. A tal fine provvede all’elaborazione di progetti di legge o convenzioni internazionali di diritto uniforme e all’elaborazione di studi di diritto comparato» (art. 1). In questa sede sono stati elaborati i c.d. Principi Unidroit relativi ai contratti commerciali internazionali, cioè un testo contenente principi e regole generali in materia di contratti commerciali internazionali. Testo elaborato nel 1994 e revisionato nel 2004 e nel 2011. Non si tratta di un testo di legge o avente forza di legge, ma solo di un compendio di regole – elaborate a partire dalle tradizioni dei diversi ordinamenti e, soprattutto, dalla prassi del

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commercio internazionale – che viene offerto ai contraenti, i quali, rimanendo comunque vincolati alle norme imperative previste dalla legge che sarebbe stata applicabile al contratto sulla base delle norme di diritto internazionale privato, possono scegliere di farvi riferimento per tutto ciò che è lasciato alla loro libera determinazione, dunque quali regole sostitutive di quelle convenzionali. I diritti ed obblighi derivanti dal contratto, quando non discendano da norme inderogabili e siano dunque lasciati alle scelte dell’autonomia privata, invece che essere delineati attraverso clausole pattizie da interpretare ed applicare secondo il diritto dello Stato di uno dei due contraenti o comunque secondo l’ordinamento giuridico cui le parti potrebbero liberamente fare riferimento (sopra, 1), saranno regolati dai Princìpi così elaborati, nel presupposto che tale elaborazione meglio risponda alle concrete esigenze degli scambi commerciali. La stessa efficacia e la stessa funzione ha il compendio in materia di Principi di diritto europeo dei contratti, elaborati dalla Commissione Lando, cioè una Commissione costituita tra studiosi a livello europeo, su scelta della Commissione Europea, presieduta dal Prof. Lando. Tali Principi (che si indicano con la sigla italiana PDEC o inglese PECL, Principles of European Contract Law) si offrono parimenti alle parti (in particolare quelle che negoziano nell’ambito dei Paesi dell’Unione europea), affinché se vogliono vi possano fare rinvio a completamento del regolamento contrattuale, sempre con riferimento ai profili che la legge lascia alla libera determinazione dei privati. Quest’ultimo testo riveste particolare interesse scientifico – ed è per questo che lo si trova assai spesso richiamato nei libri o nei saggi di approfondimento del diritto dei contratti di fonte europea – perché l’opera di elaborazione è stata qui compiuta non solo avendo riguardo alle differenti discipline interne di ciascuno degli Stati europei, e non solo con l’occhio attento alle regole consolidate nella prassi commerciale, ma avendo dinanzi anche una sintesi di regole in qualche modo “compatibili” con le diverse tradizioni degli ordinamenti europei, come delineatasi in seno all’Unione europea per il tramite degli interventi di “armonizzazione”. In questo senso i Principles si offrono quale interpretazione sistematica da parte della dottrina del materiale normativo via via prodottosi in ambito europeo per effetto delle direttive sui contratti (dei consumatori). Ma, si ripete, una cosa sono le regole contenute nelle citate direttive, entrate a far parte, con forza di legge, dell’ordinamento dei singoli Stati membri a segui-

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to del recepimento delle direttive; altra cosa sono le regole (eventualmente anche riproposte in modo pedissequo) che fanno parte dei Principles, che, ribadiamo, non hanno in sé forza di legge e sono solo un compendio “offerto” alle parti in sostituzione delle regole (suppletive e derogabili) che esse dovrebbero altrimenti rintracciare in uno degli ordinamenti cui fare riferimento o di quelle pattizie su cui dovrebbero accordarsi.

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CAPITOLO TERZO

DISCIPLINA GENERALE E REGOLE PARTICOLARI. LE DISCIPLINE DI FONTE EUROPEA

SOMMARIO 1. Il contratto e i contratti nel codice e nelle leggi speciali. – 2. Le fattispecie regolate dal diritto di fonte europea: premessa. – 3. Contratti a distanza e contratti negoziati fuori dei locali commerciali. Rinvio. – 4. La multiproprietà e i contratti affini. – 5. I contratti per la prestazione di servizi turistici. – 6. I contratti bancari. – 7. I contratti con causa creditizia: il credito ai consumatori. – 8. I contratti per la prestazione di servizi di investimento e il collocamento dei prodotti finanziari. – 9. I contratti di vendita e in generale i contratti per la fornitura di beni da fabbricare o produrre. – 10. I c.d. contratti dell’impresa debole: la subfornitura. – 11. (Segue). I termini di pagamento nelle transazioni commerciali e la tutela delle piccole e medie imprese. – 12. Le regole particolari e la loro rilevanza nella disciplina generale del contratto.

1. Il contratto e i contratti nel codice e nelle leggi speciali Dalle considerazioni svolte dovrebbe apparire ormai chiaro che, ferma restando la cornice fornita dai principi costituzionali e, per loro tramite, dalle fonti sovranazionali, la fonte normativa principale, in materia di contratto, è costituita dalla legge nazionale. Nel diritto italiano il riferimento precipuo è alla disciplina generale del contratto, come delineata negli artt. 1321-1469 c.c. Diverse puntualizzazioni tuttavia si impongono a questo riguardo. Le domande da porsi sono almeno due. La prima: Poiché nel codice alla disciplina generale seguono regole specificamente riferite a singoli contratti tipici, che rapporto va instaurato tra il primo gruppo di norme e le altre? La seconda: Poiché l’intervento normativo sui contratti si è esplicato ampiamente e continua ad esplicarsi anche attraverso norme contenute

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in leggi diverse e successive al codice civile (le c.d. leggi speciali), deve (o può) ancora riconoscersi agli artt. 1321-1469 c.c. la funzione di dettare una disciplina generale del contratto valida anche per le fattispecie che sono state introdotte o comunque ampiamente rivisitate nella legislazione speciale? La prima domanda potrebbe apparire superflua. Il dubbio a cui essa rimanda sembra infatti dissipato dall’esplicita regola di cui all’art. 1323 c.c., in base alla quale «Tutti i contratti, ancorché non appartengano ai tipi che hanno una disciplina particolare, sono sottoposti alle norme generali contenute in questo titolo». Obiettivo della espressa disposizione è quello di riaffermare l’applicabilità della disciplina generale del contratto ai contratti atipici. Tuttavia essa dà per implicito una conferma della scontata sottoposizione a tale disciplina generale anche (e in primo luogo) dei contratti per i quali il codice detta una “disciplina particolare”, vale a dire i contratti tipici. La regola in parola vale dunque a delineare un rapporto da genus a species, tra le disposizioni riferite a “i contratti in generale” di cui al titolo II del libro IV del codice e quelle “particolari” contenute nel titolo III (Dei singoli contratti), o nelle leggi successive, complementari al codice. All’interno delle discipline particolari, attraverso cui si delinea la fisionomia dei singoli contratti “tipici”, potremo dunque trovare regole ad hoc che tengono conto della funzione e del contenuto del contratto, chiarendo, specificando le regole generali o addirittura derogando per taluni profili ad esse: così il mandato, ai sensi dell’art. 1723 c.c., potrà estinguersi per volontà unilaterale del (solo) mandante (revoca del mandato), in deroga all’art. 1372 c.c. che subordina lo scioglimento al comune accordo delle parti. L’art. 1564, a proposito dell’inadempimento che può causare la risoluzione del contratto di somministrazione, arricchisce di un ulteriore connotato (idoneità a menomare la fiducia nell’esattezza dei successivi adempimenti) la rilevanza dell’inadempimento che, ai sensi della regola generale dettata dall’art. 1455 (VIII, 6), può fondare una sentenza di risoluzione. La banca – secondo quanto prevede l’art. 40 del t.u.b. – può invocare come causa di risoluzione del contratto di credito fondiario (cioè garantito da ipoteca di primo grado su immobili) il ritardato pagamento da parte del mutuatario solo se questo si sia verificato almeno sette volte, anche non consecutive, e non dunque una qualsiasi morosità da sottoporre all’apprezzamento del giudice in ordine alla possibile gravità. Ed è ancora una regola speciale – di nuovo contenuta

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fuori dal codice, nell’art. 5, ult. co., l. n. 203/1982 – a fornire un criterio legale di predeterminazione della “non scarsa importanza” dell’inadempimento come causa di risoluzione del contratto agrario, che potrà ravvisarsi solo allorché la morosità del conduttore si sia concretata nel mancato pagamento del canone per almeno una annualità. Si tratta, negli esempi ricordati, più che di una deroga, di un adattamento, di una specificazione attenta al peculiare contenuto del contratto e agli interessi ivi considerati, della regola generale che pretende un inadempimento di non scarsa importanza “avuto riguardo all’interesse dell’altra” parte affinché il contratto a prestazioni corrispettive possa risolversi. Gli esempi potrebbero continuare e confermano il rapporto genus/ species da cui siamo partiti. Delineare in questi termini il rapporto tra disciplina generale del contratto e discipline particolari significa rimarcare che, al di là di singole deviazioni o specificazioni, e per i profili di disciplina non “specificati” nelle disposizioni particolari, i singoli contratti troveranno comunque nella disciplina generale la principale fonte di regolamentazione; ancora, che è da tali regole generali che andranno desunti i princìpi ispiratori della disciplina del contratto in base ai quali sciogliere i possibili dubbi interpretativi sollevati dalla prassi negoziale o dall’applicazione delle stesse norme particolari. Tale conclusione contiene in sé anche la risposta alla seconda domanda, dovendosi ritenere che il rapporto come sopra delineato tra disciplina generale e regole particolari non subisca eccezioni allorché queste ultime siano contenute in leggi complementari ed anche successive al codice civile. Il dubbio rimanda peraltro ad un dibattito ormai abbastanza lontano nel tempo circa l’avvento di una presunta “decodificazione”, vale a dire di un fenomeno di perdita di rilevanza e/o di centralità del codice civile a causa della forza espansiva e demolitrice della legislazione speciale connotata – secondo questa opinione – da un apprezzabile livello di “autosufficienza”, in quanto retta da princìpi propri e organizzata dunque per “microsistemi” autonomi rispetto a quello codicistico. È sembrato a lungo prospettarsi diversamente, in ragione del combinarsi di fonti e princìpi appartenenti a due ordinamenti distinti (quello dell’Unione europea e quello interno), il rapporto tra disciplina dei contratti di consumo e disciplina (generale) del contratto. Per lungo tempo, invero, anche in ragione del particolare ambito di riferimento – come detto quasi mai trasversale ma focalizzato su taluni contratti o modalità di conclusione dei contratti – l’intervento comunitario si è mosso in mo-

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do dichiaratamente “segmentato”, vale a dire consegnato a singole discipline a contenuto settoriale emanate in fasi successive, che, pur evidenziando via via sicure ed omogenee linee di tendenza, quasi programmaticamente prescindevano (e in parte tuttora prescindono) da obiettivi di coordinamento. Il trend in qualche modo rimarcava ed assecondava la peculiarità delle tecniche di intervento, di certo in larga misura nuove rispetto alla tradizione del diritto interno, così da giustificare un approccio che delle regole di fonte comunitaria accentuava la settorialità, ma altresì la specialità ed eccezionalità, e in buona sostanza una sorta di incomunicabilità rispetto alle nostre regole generali in materia di contratti. Il consolidarsi negli anni di un quadro normativo di fonte europea non solo relativamente stabile ma coerente, affidato cioè a tecniche e modelli di regolazione sempre più definiti e a propri princìpi fondativi, ha inevitabilmente corretto ed anzi in qualche modo capovolto i termini dell’incontro diritto europeo/diritto interno: l’armonizzazione, come già rimarcato, ha recato con sé un processo di trasformazione dei diritti interni all’insegna della contaminazione tra modelli, fenomeni entro cui le regole di fonte europea hanno via via espresso una forte capacità espansiva, proponendosi quale veicolo di cambiamento, o più spesso solo di aggiornamento della disciplina generale del contratto e dei principi su cui essa si fonda nel nostro ordinamento. Il rapporto genus/species, che nei termini sopra descritti riannoda comunque le discipline settoriali alle regole generali, evidenzia in questo caso ancora di più la naturale circolarità che gli è peculiare: la disciplina particolare, che dal quadro sistematico entro cui si inserisce trae coerenza e completamento, a questo apporta a sua volta un significativo arricchimento. Valga, per tutti, l’esempio degli obblighi di informazione precontrattuale, la cui fisionomia si definisce e perfeziona entro il terreno di elezione costituito dai contratti dei consumatori (IV, II, 22). Necessariamente ricondotti, come vedremo, in mancanza di diversa previsione, entro l’ambito di rilevanza della responsabilità precontrattuale come delineata nell’art. 1337 c.c. alla stregua del canone di buona fede nelle trattative, a tale norma hanno portato nuova significativa linfa, se è vero che l’obbligo di trasparenza contrattuale può dirsi oggi quello che connota propriamente il comportamento di buona fede imposto alle parti nella fase precontrattuale (IV, II, 11).

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2. Le fattispecie regolate dal diritto di fonte europea: premessa L’impianto del nostro codice del consumo – anche nella sua scarsa sistematicità – esprime molto bene l’andamento dell’intervento del diritto europeo nella materia del contratto: intervento che è venuto delineandosi essenzialmente attraverso segmenti di disciplina di volta in volta riferiti a settori di mercato o, meglio, a operazioni concernenti lo scambio di beni o servizi di più largo consumo. L’ambito maggiormente interessato è quello dei contratti tra consumatori e professionisti – secondo le nozioni che esamineremo più avanti (IV, I, 2) – cioè tra chi produce ed offre sul mercato beni o servizi e chi tali beni o servizi intende procurarsi per fruirne direttamente e soddisfare bisogni personali, estranei a qualsivoglia attività imprenditoriale eventualmente svolta. Come diremo a suo tempo, ciò che caratterizza tali contratti, e giustifica l’attenzione del diritto europeo, non è tanto la qualità delle parti in sé considerata quanto la finalità di consumo che per il tramite del contratto viene realizzata. Le regole “di armonizzazione” non riguardano peraltro tutti i contratti di consumo ma solo quelli che per le particolari modalità di conclusione o per la complessità del contenuto e delle prestazioni che ne sono oggetto vengono ritenuti più a rischio per il consumatore. Nel primo caso ci riferiamo alle regole in tema di contratti negoziati fuori dei locali commerciali o di contratti a distanza: la disciplina particolare, ferma restando la presenza quali parti di professionista e consumatore, si rivolge qui in modo indifferenziato a tutti i contratti, tipici o atipici, ma solo quando siano stati conclusi a seguito di un contatto tra professionista e consumatore realizzatosi fuori dalle sedi nelle quali il professionista svolge la propria attività (e vedremo perché la fattispecie reclama l’intervento del legislatore europeo) ovvero siano stati conclusi senza la contestuale presenza delle parti e con l’uso di uno dei mezzi di comunicazione a distanza indicati dalla legge. Nel secondo caso si è trattato di discipline settoriali quali quelle in tema di contratti di multiproprietà, di contratti per i servizi turistici, di contratti di credito ai consumatori, di contratti per la prestazione di servizi finanziari e contratti di collocamento di prodotti finanziari, ovvero di garanzia nella vendita di beni di consumo. Esse solo in minima parte, peraltro, sono raccolte nel codice del consumo, ove troviamo le norme dedicate alla commercializzazione a distanza dei servizi finanziari (artt. 67-bis-67-vicies bis), quelle in tema di contratti di multiproprietà e, inspiegabilmente collocate fuori dalla parte dedicata ai contratti, le norme concernenti la di-

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sciplina della garanzia nella vendita di beni di consumo (artt. 128-135, entro la parte IV dedicata alla sicurezza e qualità). La disciplina del contratto per la prestazione di servizi turistici è stata ora trasferita all’interno del codice del turismo, con la conseguente abrogazione degli artt. 82-100 cod. cons., mentre per il credito al consumo il codice ha da sempre fatto rinvio alle norme contenute nel testo unico bancario (vedi la norma di rinvio, art. 43 cod. cons. e, nel t.u.b., gli artt. 121-126, nonché ora gli artt. 120 quinquies ss. sul credito immobiliare ai consumatori). D’altra parte, sempre nel t.u.b. si rinvengono disposizioni in tema di trasparenza contrattuale, di chiara ispirazione se non di diretta derivazione dal diritto europeo (artt. 115-120 bis e 127), riferite in generale ai contratti banca/cliente, nonché come detto la disciplina dei contratti di credito immobiliare ai consumatori e di credito ai consumatori (artt. 120 quinquies-126), mentre le regole contrattuali a tutela dell’investitore (non qualificato) trovano collocazione, insieme all’intera disciplina dell’intermediazione finanziaria dettata dalle direttive europee, nel t.u.f. (d.lgs. 26-2-1998, n. 58). È importante segnalare che tali discipline settoriali, come vedremo, non si riferiscono mai a tipi contrattuali, ma di volta in volta a rapporti patrimoniali che possono trovare fonte in diversi tipi contrattuali (o loro varianti atipiche), e che tuttavia hanno in comune i diritti scambiati e le prestazioni dovute e, in genere, manifestano, sul piano dei diritti ed obblighi ovvero per la natura delle prestazioni, una notevole dose di complessità. Non è dato rintracciare dunque un intervento normativo esclusivamente riferito ad un tipo contrattuale e, per converso, nessuno dei contratti tipici interessati da tale intervento trova qui la sua compiuta disciplina: le regole di fonte europea concernono solo taluni aspetti del contratto (o del rapporto che ne discende), destinati ad essere comunque inquadrati, non sempre agevolmente, nella complessiva disciplina e fisionomia che il tipo riceve nel diritto interno. Emblematico il caso del contratto di compravendita, del quale, se avente ad oggetto beni mobili e se stipulato tra professionista e consumatore, il diritto europeo regola solo il profilo della garanzia. L’unica disciplina trasversale, dunque riferita ai “contratti del consumatore in generale”, come recita il titolo I della parte III del codice del consumo, destinata a regolare qualsiasi «contratto concluso tra consumatore e professionista» a prescindere dal tipo contrattuale e dalla natura della prestazione oggetto del contratto, è rimasta a lungo quella in materia di clausole vessatorie (artt. 33-38 cod. cons.). Solo a seguito

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del recepimento della dir. 2011/83 sui diritti dei consumatori, avvenuto con il d.lgs. 21-2-2014, n. 21, si è aggiunto un ulteriore segmento di disciplina generale, versato nell’art. 48 cod. cons., che però già nel contenuto e nell’individuazione dell’ambito di applicazione non smentisce ed anzi rafforza l’andamento di cui parliamo. L’art. 46 cod. cons. annuncia invero una disciplina generale, quando sancisce che «le disposizioni delle sezioni da I a IV del presente capo si applicano a qualsiasi contratto concluso tra un professionista e un consumatore, inclusi i contratti per la fornitura di acqua, gas, elettricità o teleriscaldamento, anche da parte di prestatori pubblici, nella misura in cui detti prodotti di base sono forniti su base contrattuale». Ma si tratta solo, nell’art. 48, della estensione, come vedremo in versione più limitata e debole, ai contratti «diversi dai contratti a distanza o negoziati fuori dei locali commerciali», degli obblighi di informazione previsti per questi ultimi (sezione I); mentre negli altri casi l’ambito di applicazione è sì generale ma pur sempre delimitato dalle modalità di conclusione del contratto. E non per caso, infatti, la norma ora citata è collocata in autonoma sezione (la sezione I) ma all’interno del titolo (III) dedicato alle Modalità contrattuali, e destinato a raccogliere le più risalenti regole speciali dettate, appunto, in ragione delle modalità di conclusione del contratto (a distanza o fuori dei locali commerciali) ora rivisitate dalla dir. 2011/83.

3. Contratti a distanza e contratti negoziati fuori dei locali commerciali. Rinvio Ai contratti diversi da quelli negoziati fuori dei locali commerciali o a distanza, si applicano ora, come detto, le disposizioni in tema di informazione precontrattuale di cui all’art. 48 cod. cons., su cui avremo modo di tornare (IV, II, 24). Per restare invece alle peculiari fattispecie considerate dal diritto europeo, quanto alle modalità di conclusione, dobbiamo fare riferimento ai contratti negoziati fuori dei locali commerciali e ai contratti a distanza. Occorre sottolineare, come del resto abbiamo già fatto, che in questo caso l’attenzione del legislatore si appunta sulle modalità di conclusione del contratto e non distingue dunque tra tipi contrattuali. Le norme riferite ai contratti negoziati fuori dei locali commerciali o ai contratti a distanza si applicano, come specifica l’art. 46 cod. cons. «a

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qualsiasi contratto tra un professionista e un consumatore, inclusi i contratti per la fornitura di acqua, gas, elettricità o teleriscaldamento, anche da parte di prestatori pubblici, nella misura in cui tali prodotti sono forniti su base contrattuale». Ne sono esclusi quelli espressamente indicati nell’art. 47 in relazione alla particolare natura delle prestazioni (es. servizi sanitari, fornitura con regolarità a domicilio di bevande e alimenti, contratti conclusi tramite distributori automatici, vendite all’asta, ecc.) ovvero perché rientranti in altre discipline settoriali sempre di fonte europea (multiproprietà, vendita di pacchetti turistici, prestazione di servizi finanziari). I contratti negoziati fuori dei locali commerciali sono stati oggetto di uno dei primi interventi (con la dir. 85/577), che tuttavia, in presenza di un contratto stipulato con questa particolare modalità, si limitava ad attribuire al consumatore il diritto di recesso libero (VI, 9) – qui per la prima volta introdotto – ponendo a carico del professionista l’obbligo di fornire al consumatore, nelle forme prescritte, adeguata informazione su tale diritto (vedi ora artt. 52-59 cod. cons.) Una disciplina assai scarna, destinata ad arricchirsi successivamente e, da ultimo con la dir. 2011/83, essenzialmente sul versante degli obblighi di informazione precontrattuale (ora ampiamente disciplinati negli artt. 49-50 cod. cons.), di cui parleremo a suo tempo. A giustificare e delimitare l’ambito di applicazione di tali regole è dunque la modalità di conclusione del contratto, a ragione ritenuta aggressiva e nella quale, quanto meno, domina l’effetto sorpresa. Il contratto infatti non si conclude secondo la consueta sequenza che vede il consumatore recarsi presso il luogo di vendita, sulla base di una scelta autonoma; bensì a seguito di un contatto che avviene fuori di tali locali. Circostanza che la legge ritiene di per sé idonea a far presumere che il consumatore sia stato sollecitato a contrarre o comunque indotto a concludere il contratto senza la necessaria preventiva ponderazione. Così sarà considerato contratto concluso fuori dei locali commerciali (come precisa ora l’art. 45, lett. b), n. 3), anche il contratto che in realtà viene stipulato nei locali del professionista o con mezzo di comunicazione a distanza ma immediatamente dopo che il consumatore è stato avvicinato dal professionista in luogo diverso dai locali di quest’ultimo; ed ancora il contratto concluso nel corso di un viaggio promozionale organizzato dal professionista allo scopo di promuovere e vendere beni o servizi al consumatore. Sui problemi concernenti l’individuazione dell’ambito og-

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gettivo di applicazione della disciplina ci soffermeremo più avanti, quando parleremo delle particolari modalità di conclusione del contratto nella contrattazione di massa professionisti/consumatori (IV, II, 19, 20). Contratto a distanza (IV, II, 19) secondo la definizione fornita dall’art. 45, co. 1, lett. g), cod. cons., è «qualsiasi contratto concluso tra il professionista e il consumatore nel quadro di un regime organizzato di vendita o di prestazione di servizi a distanza senza la presenza fisica e simultanea del professionista e del consumatore, mediante l’uso esclusivo di uno o più mezzi di comunicazione a distanza fino alla conclusione del contratto, compresa la conclusione del contratto stesso». Anche in questo caso, con una direttiva intervenuta circa un decennio dopo di quella dedicata ai contratti negoziati fuori dei locali commerciali (97/7), il legislatore comunitario ha inteso intercettare e in qualche modo neutralizzare con alcune regole di protezione del consumatore modalità di conclusione del contratto via via affermatesi nella prassi, che possono pregiudicare la formazione di un consenso spontaneo e consapevole da parte del contraente meno esperto o più sprovveduto. Qui il rischio di una scelta poco ponderata si annida nel mezzo di comunicazione: la fattispecie del contratto a distanza non coincide invero con quella del contratto concluso tra persone lontane, cui presta attenzione già il codice civile con le regole di cui agli artt. 1326 e 1328, poiché alla mancanza di presenza fisica simultanea delle parti deve accompagnarsi in questo caso l’uso di un mezzo di comunicazione a distanza (comunicazione telefonica, televendita, ecc.), che di per sé riduce i margini di riflessione circa le conseguenze dell’impegno contrattuale e spesso anche, a monte, i margini di comprensione della proposta formulata dal professionista. A tale gap di ponderazione la direttiva (e v. ora gli artt. 49-59 cod. cons.) intende sopperire non solo confermando il diritto di recesso libero per il consumatore ma disciplinando in modo analitico contenuti e modalità dell’informazione precontrattuale che egli deve ricevere dal professionista. Di tali obblighi di informazione, che la dir. 2011/83 ha da ultimo rafforzato, ci occuperemo a suo tempo (IV, II, 26). Regole più puntuali – sempre ai fini di garantire trasparenza contrattuale – sono poi previste quando il contratto a distanza abbia ad oggetto la prestazione di servizi finanziari, cioè qualsiasi servizio di natura bancaria, creditizia, di pagamento, di investimento, di assicurazione o di previdenza individuale (artt. 67-bis ss. cod. cons.).

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4. La multiproprietà e i contratti affini L’espressione contratti di multiproprietà, con riguardo alle fattispecie di cui all’art. 69 cod. cons., non è del tutto corretta, nel senso che il riferimento è solo a taluni dei modi attraverso cui nella prassi i particolari diritti di godimento che denominiamo “multiproprietà” possono nascere e venire regolati. Sappiamo infatti che il fenomeno della multiproprietà, cioè del godimento di un bene, determinato in modo turnario (limitato cioè a determinati periodi dell’anno e dunque con contenuti meno pieni ed “esclusivi” del diritto di proprietà), può trovare fonte e disciplina, nella prassi, sia in contratti che comportano l’acquisto di un vero e proprio diritto reale (c.d. multiproprietà immobiliare) seppure avente ad oggetto un godimento caratterizzato, appunto, da un limite temporale (esempio: una o due settimane nel periodo estivo o natalizio, o della stagione sciistica), sia in contratti di acquisto di partecipazioni azionarie (la c.d. multiproprietà azionaria), allorché le azioni possedute (della categoria delle azioni “privilegiate”, art. 2348, co. 2, c.c.) danno al titolare, oltre ai consueti diritti di socio, anche il diritto di godimento periodico di unità immobiliari in un complesso che rimane però di proprietà della società. La disciplina in esame discende dalla dir. 94/47/CE del 26-101994, con le novità introdotte con la dir. 2008/122/CE. Essa si riferisce precipuamente al modello della c.d. multiproprietà immobiliare: contratto di multiproprietà, ai sensi dell’art. 69, co. 1, lett. a), cod. cons., come modificato dall’art. 2 del d.lgs. 23-5-2011, n. 79, è un contratto «di durata superiore ad un anno tramite il quale il consumatore acquisisce a titolo oneroso il diritto di godimento su uno o più alloggi per il pernottamento per più di un periodo di occupazione». Preso atto dello sviluppo nella prassi di «nuovi prodotti per le vacanze di tipo analogo» nonché dell’esigenza che alcuni aspetti già disciplinati dalla dir. 94/47/CE avessero «bisogno di essere aggiornati o chiariti», Parlamento Europeo e Consiglio, su proposta della Commissione, hanno emanato come si è detto una nuova dir. 2008/122/CE del 14-1-2009 – «sulla tutela dei consumatori per quanto riguarda taluni aspetti dei contratti di multiproprietà, dei contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine e dei contratti di rivendita e di scambio». direttiva da ultimo recepita con il d.lgs. 23-5-2011, n. 79, recante «Codice della normativa statale in tema di ordinamento e mercato del turismo, nonché attuazione della direttiva 2008/122/CE relativa ai con-

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tratti di multiproprietà, ai contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine e ai contratti di rivendita e di scambio». Le novità più significative riguardano, appunto, l’ampliamento delle tipologie contrattuali cui si applica la citata disciplina, cioè contratti con finalità analoghe a quelle dei contratti di multiproprietà, o a questi collegati, definiti contratti relativi ad un prodotto per le vacanze di lungo termine, e contratti di scambio di tali tipologie di servizi oltre che contratti di multiproprietà di durata superiore anche ad un anno. Contratto relativo ad un prodotto per le vacanze di lungo termine, ai sensi dell’art. 69, co. 1, lett. b), cod. cons., è «un contratto di durata superiore ad un anno ai sensi del quale un consumatore acquisisce a titolo oneroso essenzialmente il diritto di ottenere sconti o altri vantaggi relativamente ad un alloggio, separatamente o unitamente al viaggio o ad altri servizi». Contratto di rivendita, è «un contratto ai sensi del quale un operatore assiste a titolo oneroso un consumatore nella vendita o nell’acquisto di una multiproprietà o di un prodotto per le vacanze di lungo termine» (art. 69, co. 1, lett. c). Infine, contratto di scambio, è «un contratto ai sensi del quale un consumatore partecipa a titolo oneroso a un sistema di scambio che gli consente l’accesso all’alloggio per il pernottamento o altri servizi in cambio della concessione ad altri dell’accesso temporaneo ai vantaggi che risultano dai diritti derivanti dal suo contratto di multiproprietà». La legge si preoccupa di attrarre nella disciplina di protezione del consumatore differenti schemi contrattuali, accomunati dall’effetto di regolare lo scambio di un corrispettivo contro la costituzione o il trasferimento di un diritto avente ad oggetto il godimento di un bene immobile (“alloggio”) per un periodo determinato e circoscritto. Non potendosi escludere tuttavia che il godimento abbia ad oggetto un “alloggio” non costituito da un bene immobile, ad es. navi da crociera, roulotte, ecc. Come di consueto, è la peculiarità e complessità delle operazioni mediate da questi contratti a sollecitare regole particolari, essenzialmente volte ad assicurare trasparenza delle condizioni contrattuali e maggior tutela per il consumatore; regole, tuttavia, destinate ad “innestarsi” entro schemi contrattuali differenti, che trovano altrove – in considerazione del tipo cui appartengono o comunque del loro complessivo assetto – la propria disciplina per i profili qui non considerati. In sede di recepimento della prima direttiva, ed in linea con la formu-

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lazione e i contenuti di questa, il nostro legislatore inquadrava espressamente il contratto di multiproprietà nel tipo vendita. Il consumatore in favore del quale si costituisce, trasferisce o promette il diritto di godimento veniva denominato “acquirente” e il professionista definito come “venditore” (vedi art. 69 cod. cons. vecchio testo). Ora, anche qui in aderenza ai contenuti della seconda direttiva del 2008, si fa riferimento, invece, rispettivamente, a “consumatore” e “operatore” (vedi art. 69, co. 1, lett. f), nonché art. 72-bis). Il cambiamento è d’obbligo, ove si consideri che quanto meno i nuovi schemi contrattuali ora accostati al contratto di multiproprietà, cioè i contratti relativi a un prodotto per le vacanze a lungo termine e i contratti di scambio, per i loro contenuti (che sopra abbiamo illustrato) rimandano in molti casi alla prestazione di servizi piuttosto che allo scambio di un bene (o meglio di un diritto reale di godimento sul bene) contro prezzo che definisce la causa della compravendita (tanto più lontani da tale schema sono i contratti di “rivendita”). Pur se sovente può dirsi che tutte le condizioni contrattuali volte a definire quanti e quali servizi il consumatore può pretendere individuano un “prodotto” finale unico scambiato ad un costo predeterminato, così tornando a richiamare lo schema della vendita, occorrerà avere riguardo di volta in volta all’assetto di interessi in concreto regolato per identificare la causa e la disciplina del singolo contratto. La disciplina particolare ripropone invece quelle che, come vedremo, costituiscono ormai regole generali in materia di contratti professionista/consumatore, il cui ambito di applicazione si è anzi via via esteso oltre questa materia. In sintesi: a) gli obblighi di informazione mediante consegna di un formulario informativo (dunque informazione per iscritto o su altro supporto durevole: art. 71, co. 2), i cui contenuti non sono modificabili liberamente dal venditore dopo la semplice consegna; b) la predeterminazione per legge delle indicazioni che il contratto deve contenere: l’art. 72 cod. cons. impropriamente si riferisce ai “requisiti”, ingenerando confusione con l’art. 1325 c.c., mentre si tratta di tutte le indicazioni che rendano chiari i contenuti del contratto, i diritti e gli obblighi delle parti; c) il diritto del consumatore di recedere dal contratto senza penalità in un periodo compreso tra i quattordici giorni e un anno e quattordici giorni, a seconda che il venditore abbia adempiuto o meno ai suoi obblighi di informazione e di trasparenza del contenuto contrattuale; d) il divieto di chiedere acconti al compratore; e) l’obbligo del professionista che non sia s.p.a. con capitale minimo versato, quando abbia sede legale fuori dall’Italia, di garanti-

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re la corretta esecuzione del contratto con fideiussione bancaria o assicurativa. Viene ribadita la regola della forma scritta del contratto a pena di nullità; nonché la natura imperativa delle norme di protezione del consumatore, e la conseguente nullità di clausole contrattuali o patti aggiunti con i quali l’acquirente rinunci ai propri diritti o limiti le responsabilità del venditore (norma in qualche modo ripetitiva, stante la previsione generale dell’art. 143 cod. cons.). L’art. 78, co. 2, cod. cons. disciplina la competenza territoriale inderogabile per le controversie, per le quali è sempre competente il giudice del luogo di residenza o di domicilio dell’acquirente, se ubicati nel territorio dello Stato italiano. La regola del foro del consumatore – che, come vedremo deve ritenersi applicabile a tutti i contratti di consumo, salvo che il consumatore vi rinunci – è in questo caso inderogabile, analogamente a quanto ora previsto (art. 66bis) per tutti i contratti, quando si tratti delle controversie inerenti l’applicazione delle norme di cui alle sezioni da I a IV del capo I, titolo III cod. cons. (obblighi di informazione e altre regole per contratti a distanza e negoziati fuori dei locali commerciali). Con la citata direttiva 2008/122/CE del 14-1-2009, recepita con il d.lgs. 23-5-2011, n. 79, è stato modificato il regime di durata del recesso (VI, 9), spostando in avanti a partire dalla data di effettiva consegna al consumatore dei documenti informativi dovuti l’inizio di decorrenza del (più lungo) termine per il suo esercizio, nel caso in cui il formulario concernente le informazioni sul contratto e sui servizi da fornire al consumatore o il formulario concernente il diritto di recesso stesso non siano stati consegnati prima o all’atto della stipula del contratto come previsto.

5. I contratti per la prestazione di servizi turistici Non può ritenersi un nuovo tipo contrattuale quello che si delinea all’interno dell’altra disciplina di un “singolo contratto”, originariamente contenuta nel capo II, del titolo IV del codice del consumo, dedicato ai “servizi turistici”, ed ora trasferita all’interno del codice del turismo agli artt. 34-51. L’art. 32 cod. tur. (varato come allegato al citato d.lgs. 23-5-2011, n. 79) come del resto l’ormai abrogato art. 82 cod. cons., riferisce l’ambito di applicazione della disciplina ai pacchetti turistici venduti o offerti in vendita. E di contratto di vendita di pacchetti turistici parla, nel prescriverne la forma scritta, il co. 1 dell’art. 35 cod. tur. La

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peculiarità sta qui nell’oggetto del contratto: pacchetto turistico è infatti per la legge la risultante di una “combinazione” per cui il consumatore non stipula un contratto di trasporto o prende in locazione una camera d’albergo, ma acquista, in blocco, un “prodotto” complesso, nel quale più di una di queste prestazioni è presente. I pacchetti turistici, recita la legge (art. 34, co. 1, cod. tur.) sono quelli che hanno ad oggetto i viaggi, le vacanze i circuiti tutto compreso, le crociere turistiche, risultanti dalla combinazione, da chiunque e in qualunque modo realizzata, di almeno due elementi tra trasporto, alloggio, altri servizi turistici non accessori al trasporto o all’alloggio ma parte significativa del pacchetto, che vengono venduti od offerti in vendita quale prodotto unico, ad un prezzo forfettario. Il contratto ha dunque per oggetto un complesso di servizi, che coinvolge diversi operatori (possibilmente sparsi nel mondo e negli Stati in cui si svolgerà la vacanza). L’intervento su questo settore di contrattazione di massa tende qui al contempo ad attrarre nell’ambito di un unico schema contrattuale prestazioni che avrebbero potuto essere ricondotte a differenti tipi malgrado siano offerte sul mercato come prodotto unico e a prezzo “chiuso”; e ad individuare nell’“organizzatore” o nell’“intermediario” i soggetti responsabili degli obblighi contrattuali. L’organizzatore del viaggio è non solo chi si obbliga in nome proprio e verso un corrispettivo forfetario a procurare a terzi pacchetti turistici realizzando la combinazione degli elementi di cui sopra, ma anche chi offre al turista, anche tramite un sistema di comunicazione a distanza, la possibilità di realizzare autonomamente ed acquistare tale combinazione; e intermediario è il soggetto che anche non professionalmente e senza scopo di lucro vende o si obbliga a procurare a terzi pacchetti turistici verso un corrispettivo forfetario o singoli servizi turistici disaggregati. Per questo si sono prospettate diverse nozioni che di volta in volta qualificano il contratto come appalto di servizi, come mandato, o vi individuano una promessa del fatto del terzo (impegno dell’agenzia a garantire al cliente i servizi resi da altri operatori). Senza entrare nel merito di tali ricostruzioni e delle critiche che ciascuna di esse riceve, va detto che in ogni caso le modalità con cui si presenta in concreto la fattispecie possono variare, come del resto si evince dalle stesse nozioni ricordate; il che influirà sulla qualificazione dello schema in concreto adottato. La disciplina speciale tiene conto di tale peculiarità dell’oggetto e delinea un apparato di protezione per l’acquirente ancora una volta affidato a a) obblighi di informazione in forma scritta e carattere vincolante

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delle informazioni ulteriori eventualmente fornite a mezzo opuscolo informativo; b) obbligo di forma scritta del contratto (ancorché, come vedremo, non espressamente sanzionato con l’invalidità del contratto; c) predeterminazione legale degli elementi che il contratto deve contenere; d) limiti alla revisione del prezzo e alle modifiche unilaterali degli elementi del contratto, a fronte delle quali il consumatore ha il diritto di recedere; e) più compiuta disciplina legale della responsabilità per danni alla persona o diversi da quelli alla persona, a carico dell’organizzatore e del venditore per mancato o inesatto adempimento. L’approvazione del citato d.lgs. n. 79/2011 concernente, oltre che l’attuazione della dir. 2008/122/CE in tema di multiproprietà, anche l’adozione del codice della normativa statale in tema di ordinamento e mercato del turismo (c.d. codice del turismo), non ha apportato significativi mutamenti alla disciplina previgente per ciò che riguarda il contratto di prestazione di servizi nell’ambito dei viaggi c.d. tutto compreso, salvo l’espresso riconoscimento del diritto al risarcimento del danno anche in caso di inottemperanza «anche lieve degli standards qualitativi del servizio promessi o pubblicizzati», che viene espressamente qualificata come inesatto adempimento, nonché del diritto al risarcimento del c.d. danno (non patrimoniale) da vacanza rovinata (art. 47 cod. tur.: VIII, 11).

6. I contratti bancari Alcune delle regole che caratterizzano la disciplina “speciale” dei contratti tra consumatori e professionisti – particolarmente quelle che intendono assicurare la trasparenza delle condizioni contrattuali – si applicano anche ai contratti stipulati con soggetti che non possono dirsi consumatori (non rientrando nella nozione generale), ma che tuttavia meritano per l’ordinamento analoga protezione, in quanto clienti e investitori (anche persone giuridiche). È il caso dei contratti stipulati da banche o altri intermediari finanziari, aventi ad oggetto operazioni e servizi bancari e finanziari in forza di disposizioni che sono rimaste fuori dal codice del consumo. Le norme dirette ad assicurare trasparenza contrattuale non sono tutte di diretta derivazione da fonti dell’Unione europea, ed anzi si evidenzia qui la naturale capacità espansiva via via manifestata dalle regole di fonte europea. Nel quadro dell’intervento di generale riforma del nostro sistema bancario reso necessario dall’obbli-

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go di recepire le direttive volte all’armonizzazione dei servizi creditizi in ambito europeo (dalla dir. 77/780/CEE in poi), e in aderenza a quanto previsto per il credito al consumo dalle prime dirr. 87/102/CEE e 90/88/CEE, il nostro legislatore interviene anche, per la prima volta con la l. 17-2-1992, n. 154, a dettare Norme per la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, oggi versate nel t.u.b. Ai contratti relativi ad operazioni e servizi resi dalle banche, si applicano regole di forma e trasparenza identiche o analoghe a quelle di cui diremo a proposito del (contratto di) credito, anche immobiliare, ai consumatori, secondo quanto previsto negli artt. 115 ss. del t.u.b.: in particolare, l’art. 116, come ora sostituito dall’art. 4, co. 2 d.lgs. 13-8-2010, n. 141 e l’art. 117 nel testo sostituito dal medesimo co. 2, art. 4 del d.lgs. n. 141/2010, come modificato dall’art. 3 del d.lgs. 14-12-2010, n. 218. Le regole in tema di trasparenza – e in particolare su pubblicità, informazione precontrattuale, il contenuto e la forma del contratto, i limiti allo ius variandi della banca – tutelano soggetti che non si identificano con la nozione di consumatore, non rilevando a tal fine né che si tratti di persona giuridica né che il contratto con la banca sia concluso nell’ambito e per scopi inerenti l’attività professionale esercitata. Ad essere esclusi sono solo, come diremo più avanti (IV, I, 5) le banche, le società finanziarie, gli istituti di pagamento, le imprese di investimento e le società da questi controllate, ovvero le società che appartengono allo stesso gruppo dell’intermediario o che esercitano il controllo su di esso. I contratti cui si riferisce l’art. 117 t.u.b. sono tutti quelli che le banche e gli intermediari finanziari stipulano nell’esercizio della loro attività, cioè l’attività bancaria come definita dall’art. 10 t.u.b.: costituiscono l’attività bancaria la raccolta del risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito. Si tratterà pertanto, ad esempio, di uno dei contratti bancari di cui agli artt. 1834 ss. c.c. (di deposito, apertura di credito, anticipazione bancaria, operazioni bancarie in conto corrente, ecc.), ovvero di contratti di credito (mutuo). Al credito ai consumatori è poi dedicato un insieme di ulteriori regole ad hoc. Ai contratti per la prestazione di servizi finanziari ai consumatori che siano stipulati con le modalità del contratto a distanza si applicano poi le regole particolari contenuti negli artt. 67-bis ss. cod. cons. E servizio finanziario, ai fini dell’applicazione di questa disciplina, è, ai sensi dell’art. 67-ter, co. 1, lett. b), cod. cons., «qualsiasi servizio di natura bancaria, creditizia, di pagamento, di investimento, di assicurazione o di previdenza individuale».

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7. I contratti con causa creditizia: il credito ai consumatori Al credito al consumo il codice di consumo dedica solo una norma (art. 43) di rinvio alla disciplina contenuta nel testo unico bancario (t.u.b.: d.lgs. n. 385/1993). Il rinvio riguarda direttamente la disciplina di fonte europea, oggetto di due direttive, la seconda delle quali (2008/48/CE del 23-4-2008, recepita con d.lgs. 13-8-2010, n. 141) fa ora riferimento, più correttamente al credito ai consumatori, cui è dedicato il capo II del titolo VI (artt. 121 ss.) del t.u.b. Questa è però ora preceduta dalla disciplina, di più recente emanazione (d.lgs. 21-4-2016, n. 72, di recepimento della dir. 2014/17/UE) riguardante il credito immobiliare ai consumatori, collocata nel nuovo capo 1 bis, del t.u.b. agli artt. da 120 quinquies a 120 noviesdecies. Ai sensi del nuovo art. 121, co. 1, lett. c) del t.u.b. contratto di credito (ai consumatori) indica un contratto con cui un finanziatore concede o si impegna a concedere a un consumatore un credito sotto forma di dilazione di pagamento, di prestito o di altra facilitazione finanziaria. L’operazione regolata come “credito al consumatore” trova dunque la sua possibile fonte in più tipi contrattuali – i contratti di credito comunque denominati secondo la formula adottata dall’art. 122 e salve le esclusioni qui espressamente indicate – accomunati però dalla causa creditizia: ciò che caratterizza il credito al consumo, secondo la nozione fornita dall’art. 121 del t.u.b., è la circostanza che il credito, sotto forma di dilazione di pagamento, di prestito o di altra analoga facilitazione finanziaria, intervenga a favore di un consumatore. Dall’art. 122, co. 1, lett. a), si ricava un elemento ulteriore di delimitazione delle fattispecie interessate dalla disciplina, legato all’entità del credito: sono esclusi i finanziamenti di importo inferiore a € 200 e superiore a € 75.000. La protezione del consumatore è anche qui assicurata attraverso: a) obblighi di pubblicità sugli elementi base del contratto; b) obblighi di informazione precontrattuale; c) forma scritta del contratto a pena di nullità; d) predeterminazione legale delle indicazioni essenziali che il testo contrattuale, a pena di nullità (art. 125-bis, co. 8) deve contenere, con particolare riferimento al tipo di contratto, alle parti, all’importo totale di finanziamento e alle condizioni di prelievo e rimborso. Come meglio si dirà a suo tempo (IV, II, 23; IV, V, 5) particolarmente incisiva è la disciplina volta a garantire trasparenza alle condizioni contrattuali: le clausole del contratto relative a costi a carico del consumatore, non inclusi o inclusi in modo non cor-

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retto nel TAEG (tasso annuo effettivo globale = costo annuo effettivo dell’operazione compresi costi e commissioni oltre gli interessi: v. art. 121, co. 1, lett. e) e co. 2) secondo quanto comunicato in sede di informazione precontrattuale, sono nulle. Credito immobiliare ai consumatori è il credito accordato al consumatore, sempre per il tramite di uno degli schemi contrattuali di cui sopra (dilazione di pagamento, prestito o altra facilitazione finanziaria), “garantito da un’ipoteca sul diritto di proprietà o su altro diritto reale avente ad oggetto beni immobili residenziali” ovvero “finalizzato all’acquisto o alla conservazione del diritto di proprietà su un terreno o su un immobile edificato o progettato” (vedi la definizione di cui all’art. 120 quinquies, co. 1, lett. c). Ancora una volta, con la nuova dir. 2014/17, il legislatore europeo intende intercettare e regolare (per alcuni aspetti) l’operazione economica, a prescindere dallo schema contrattuale che in concreto sarà adottato; altro dato significativo è qui che la natura “immobiliare” del credito, cui si dovrà applicare la nuova disciplina (salvi i limiti alla sua applicabilità nelle operazioni elencate dall’art. 120 sexies), non si lega esclusivamente alla presenza di una garanzia immobiliare su beni “residenziali”, ma più in generale allo scopo del credito (che dovrà tuttavia essere individuabile da altri indici del concreto accordo stipulato dalle parti) di acquisto o conservazione del diritto di proprietà su un terreno o immobile edificato o progettato, da parte del consumatore. Per questo la direttiva in questione viene denominata comunemente “direttiva mutui” e la relativa disciplina si riferisce precipuamente al credito per l’acquisto di immobili residenziali da parte di persone fisiche. Si rinviene qui una ulteriore, importante tappa della “costruzione” di un diritto dei contratti di consumo, che vede farsi più rigorosa ed analitica la disciplina degli obblighi a carico del professionista, particolarmente con riguardo ai contenuti degli annunci pubblicitari e della informazione precontrattuale. Lo scopo del contratto – caratterizzato dalla causa creditizia ma altresì dalla finalizzazione all’acquisto di un immobile residenziale da chi contrae al di fuori dall’esercizio di una attività d’impresa – accentua e in qualche modo modifica l’intervento di protezione a beneficio del consumatore, di cui vengono presi in considerazione, oltre al consueto gap di ponderazione e competenza nel momento in cui contrae e si obbliga, anche situazioni di debolezza economica che, nel corso del rapporto, compromettano il corretto adempimento e il regolare pagamento delle rate, da parte sua. Per un verso dunque si rafforzano

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i contenuti di consulenza che l’informazione resa dal professionista deve assicurare (IV, II, 24, 27), ma per altro verso si profila un inedito coinvolgimento del creditore (il finanziatore, la banca) nel caso di inadempimento del debitore (il consumatore mutuatario), essendo il primo chiamato ad “adottare procedure per gestire i rapporti con i consumatori in difficoltà nei pagamenti”, in conformità a disposizioni attuative adottate dalla Banca d’Italia che tengano conto anche dei “casi di eventuale stato di bisogno o di particolare debolezza del consumatore” (art. 120 quinquiesdecies, co. 1 t.u.b.).

8. I contratti per la prestazione di servizi di investimento e il collocamento dei prodotti finanziari Prescrizioni di forma e di contenuto, e in generale regole a presidio della trasparenza delle condizioni contrattuali e della correttezza del professionista nelle relazioni contrattuali, sono previste per i contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento, e per i contratti per la promozione o il collocamento di strumenti finanziari all’interno del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (t.u.f.), d.lgs. 24-2-1998, n. 58. Ci si riferisce in particolare all’art. 21 t.u.f. che impone ai soggetti abilitati di comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza «per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati», di utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali corrette, chiare e non fuorvianti, di acquisire le informazioni necessarie dai clienti, di organizzare la propria attività con sistemi e procedure di controllo interno «idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attività»; all’art. 23 t.u.f. che prescrive per questi contratti la forma scritta a pena di nullità; all’art. 30 che disciplina le “offerte fuori sede” (IV, II, 21) cioè la promozione e il collocamento di strumenti finanziari in luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze di chi ha emesso il titolo che si colloca o di chi è incaricato della promozione o del collocamento. Qui il riferimento è ai contratti che abbiano per oggetto servizi e attività di investimento, come definiti all’art. 1, co. 5 del t.u.f.: in sintesi, contratti con i quali i professionisti abilitati a questa attività (“imprese di investimento” o intermediari finanziari) negoziano, collocano, acquistano, o per conto del cliente o per poi collocare presso i clienti, “strumenti finanziari”, ovvero semplicemente pre-

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stano consulenza al cliente in materia di investimenti. Entro la nozione o meglio la categoria di “strumenti finanziari” sono ricompresi una varietà di “prodotti”, che vanno dai titoli di stato (esempio buoni del tesoro, denominati “strumenti del mercato monetario”), alle azioni di società, alle obbligazioni; ma anche i contratti finanziari a termine (es. swap o contratti derivati), cioè accordi per scambi futuri connessi al valore di titoli, ecc., scambiati quali “prodotti”. Una nozione più ampia, quella di servizio finanziario, inteso come «qualsiasi servizio di natura bancaria, creditizia, di pagamento, di investimento, di assicurazione o di previdenza individuale» è adottata nell’art. 67-ter, co. 1, lett. b), cod. cons., per identificare l’oggetto di contratti a distanza che, se stipulati con un consumatore, trovano particolare disciplina (in applicazione del generale regime del contratto di consumo a distanza), negli artt. 67-bis ss. cod. cons.

9. I contratti di vendita e in generale i contratti per la fornitura di beni da fabbricare o produrre Il codice del consumo contiene, come anticipato, le regole in tema di «garanzia legale di conformità e garanzie commerciali per i beni di consumo», originariamente inserite nel codice civile. Probabilmente in ragione del carattere dichiaratamente “parziale”, sulla base di una scelta comunque criticabile, la disciplina concernente la vendita di beni di consumo è stata collocata fuori dalla parte dedicata al rapporto di consumo (nella parte IV, sulla sicurezza e qualità). Già la terminologia adottata dal codice – e ancor prima dal codice civile che aveva originariamente ospitato le norme di recepimento della dir. 99/44/CE negli artt. 1519-bis ss., cioè all’interno della disciplina della vendita e di seguito alla vendita di cose mobili – spiega perché la dottrina abbia prospettato la possibilità di individuare in questo caso un (nuovo) “sottotipo”: considerata la presenza della causa della vendita e l’appartenenza al tipo vendita – confermata del resto dall’espresso richiamo alla disciplina generale di questo contratto nell’ultimo comma dell’art. 135 cod. cons. – le regole speciali si giustificherebbero qui in ragione della natura dell’oggetto, sicché la disciplina generale si andrebbe specificando, appunto per “sottotipi”, a seconda che si tratti di bene immobile, di bene mobile e, ora, di bene di consumo. Ma, al di là della

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terminologia adottata, tale normativa non introduce nel nostro ordinamento una nuova categoria di beni, quelli, appunto di consumo. Bene di consumo, recita ora l’art. 128, co. 2, lett. a), cod. cons. – ma già la direttiva comunitaria – è «qualsiasi bene mobile, anche da assemblare», esclusi acqua e gas non confezionati per la vendita in un volume delimitato o in quantità determinata, l’energia elettrica e i beni oggetto di vendita forzata. Ciò che definisce l’ambito di applicazione della disciplina in questione non è dunque la natura del bene e la sua qualificazione in termini economici (di consumo anziché di produzione), bensì, ancora una volta, la circostanza che venditore sia un professionista ed acquirente un consumatore, secondo le nozioni sopra ricordate. Più corretto sarebbe parlare, insomma, di vendita di beni mobili al consumatore. All’idea che si delinei un “sottotipo” di vendita si oppone poi la decisiva considerazione che vengono qui regolate «garanzia legale di conformità e garanzie commerciali per i beni di consumo», avendo riguardo non solo al contratto di compravendita bensì anche a quelli di «permuta e di somministrazione nonché quelli di appalto, di opera e tutti gli altri contratti comunque finalizzati alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre», che alla vendita sono a tal fine equiparati. Dovrebbe parlarsi semmai, come non si è mancato di sottolineare in dottrina, di una disciplina transtipica, che interviene su gruppi di contratti. Il contratto con il consumatore continuerà ad essere regolato secondo la disciplina generale della vendita (o dell’altro tipo contrattuale adottato, tra quelli equiparati, ad esempio appalto) contenuta nel codice civile, tranne che per ciò che riguarda la responsabilità del venditore per vizi della cosa. Questo “segmento” di disciplina, di provenienza europea, introduce, come meglio vedremo a suo tempo (VIII, 8) un particolare regime di responsabilità per il caso in cui il bene (di consumo) risulti “non conforme” a quanto promesso o alle aspettative del consumatore: regime che appare assai distante da quello della garanzia per vizi o mancanza di qualità del bene venduto come delineato negli artt. 1492-1497 c.c., che continua a caratterizzare la disciplina generale della vendita (anche di beni mobili), potendo accostarsi semmai, entro certi limiti, alla disciplina dell’appalto (ove è ammessa una “correzione” dei vizi nel corso del contratto: vedi art. 1668 c.c.). Nel caso di vendita di beni mobili (o anche di fornitura di beni mobili da fabbricare o produrre) ad un acquirente-consumatore, invece, si modifica in modo significativo il regime di responsabilità del venditore e, soprattutto, si rafforza la tutela del com-

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pratore, il quale potrà avvalersi anche della pretesa ad un esatto adempimento, vale a dire alla “correzione” o ripetizione della prestazione del venditore, attraverso interventi di riparazione o la consegna di altro bene. Il regime così introdotto inoltre (e lo si dirà meglio a suo tempo) sposta il passaggio del rischio dal momento del trasferimento della proprietà (res perit domino) a quello dell’inserimento del bene nella sfera di controllo dell’acquirente (consumatore), segnato dalla consegna a lui stesso o per suo incarico al vettore: trasferimento del possesso o del “controllo fisico”, come recita l’art. 18 (Consegna) della direttiva e come ribadisce l’art. 61, co. 2, cod. cons. Principio cui ora dà portata generale l’art. 63 cod. cons. (VIII, 16).

10. I c.d. contratti dell’impresa debole: la subfornitura Nei contratti tra professionisti e consumatori, come abbiamo più volte sottolineato, la disciplina del contratto si arricchisce di regole dichiaratamente volte alla protezione di una parte: la legge abbandona la posizione per così dire neutrale che in principio domina la materia del contratto – lasciata alla determinazione delle parti, libere di autoregolare i propri interessi – e prende atto di una “asimmetria” di potere tra i contraenti. Di fronte a scambi e relazioni contrattuali che evidenziano una posizione non paritaria e dunque squilibrata in danno di uno dei contraenti, si giustifica un “diritto diseguale”, tecniche di protezione dichiaratamente “sbilanciate” a favore di un contraente, volte però a ripristinare proprio quella parità di forza contrattuale che risulti compromessa. Fenomeni di contrattazione “asimmetrica” sono tuttavia frequenti anche fuori dagli scambi professionista/consumatore; ed altresì nei contratti tra imprese ove una di esse sia in posizione meno forte o addirittura economicamente dipendente dall’altra. Tecniche di tutela affermatesi nei contratti di consumo si ripresentano, con gli opportuni adattamenti, anche nella disciplina di questi contratti. Si tratta di una tendenza certamente significativa, che depotenzia il carattere di “specialità” e settorialità originariamente assegnato alle regole in materia di contratti di consumo. Che gli strumenti sperimentati per i contratti consumatori/professionisti abbiano manifestato una forte attitudine espansiva, dimostrandosi idonei ad un utilizzo sempre più di carattere generale è del resto dato abbastanza acquisito, come dimostrano le applicazioni che di tali strumenti va fa-

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cendo anche il nostro legislatore, ben oltre l’ambito interessato da corrispondenti discipline di provenienza europea: si pensi alla protezione dell’acquirente di immobili da costruire (IV, I, 6) ma altresì, come sopra ricordato, alle regole di trasparenza per tutti i contratti bancari. Con riguardo ai rapporti tra imprese di diversa forza economica (e contrattuale), tuttavia, si tratta, allo stato, di indici normativi ancora limitati seppur significativi, non abbastanza, insomma, per parlare, come pure si è fatto da qualche parte in dottrina, di una ulteriore segmentazione della disciplina del contratto: il contratto “tradizionale”, il contratto di consumo e un preteso “terzo contratto” o contratto dell’impresa debole. Regole di protezione in funzione correttiva di un contratto “squilibrato” si rinvengono nella disciplina del contratto di subfornitura. Cioè il contratto con cui «un imprenditore si impegna a effettuare per conto di una impresa committente lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla committente medesima, o si impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi, forniti dall’impresa committente»: art. 1, l. 18-6-1998, n. 192. La definizione rende bene la situazione di “dipendenza economica” in cui l’impresa subfornitrice si trova rispetto all’impresa committente: l’attività produttiva della subfornitrice si organizza e specializza in modo per così dire “dedicato” in tutto al processo produttivo dell’impresa committente, nel quale di fatto va a inserirsi. L’artigiano lavorerà il capo di abbigliamento su stoffa o pelle fornita dal committente e secondo disegni e tecniche di lavorazione talora molto particolari perché distintive dei prodotti di quel marchio; ovvero si specializzerà nella produzione di semilavorati o parti di un prodotto destinato ad essere assemblato nel prodotto della committente (la tappezzeria di un sedile di auto, parti di un divano, ecc.). L’attività del subfornitore si organizza in definitiva come un decentramento o esternalizzazione di una fase della produzione dell’attività del committente; sì da essere difficilmente riconvertibile per essere fornita ad altro produttore. Da qui la concreta e assai frequente possibilità che il contratto tra le parti ricalchi questa situazione, in danno del subfornitore. Per questo, non in diretta derivazione da norme comunitarie, ma sulla base tuttavia dell’attenzione posta al tema ad esempio nella Risolu-

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zione della Consiglio della Comunità Europea del 26-9-1989, ove si sottolineava «l’importanza di promuovere rapporti più equilibrati fra committenti e subfornitori», la legge sopra citata ha previsto per il contratto la forma vincolata, un regime inderogabile (se non in senso più favorevole al creditore) per i termini di pagamento e le conseguenze del ritardo, la nullità di talune clausole e, in particolare, di quelle che realizzino un “abuso di dipendenza economica” (V, 7), vale a dire clausole o l’intero contratto che, ad esempio, impongano «condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie» (art. 9, co. 2, l. n. 192/1998) e la nullità del «patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica» (co. 3). La disciplina della subfornitura costituisce dunque esempio dell’applicazione, fuori dal contratto professionista-consumatore e nel rapporto tra imprese, di regole “di protezione” a beneficio dell’impresa dipendente e di regole volte a sanzionare comportamenti di una parte che, a partire da una posizione di forza sul mercato, si traducono in un uso della propria libertà contrattuale in danno della controparte, mediante l’imposizione di clausole “squilibrate”. È evidente qui, pur se entro una diversa cornice di rapporti economici, l’accostamento con il regime delle clausole vessatorie nei contratti di consumo (di cui diremo oltre): e comunque un intervento del legislatore in funzione di controllo e correzione del regolamento contrattuale, su cui ci soffermeremo a suo tempo (V, 7). Questa tecnica di intervento appare ai nostri fini ancor più significativa ove si consideri che, superate le perplessità manifestate in dottrina e in giurisprudenza – che dalla eccezionalità dell’intervento limitativo dell’autonomia privata facevano discendere una interpretazione restrittiva delle norme in questione – la nostra Corte di cassazione ha ritenuto che alla disciplina in tema di abuso di dipendenza economica contenuta nell’art. 9 della l. n. 192/1998 debba riconoscersi una portata generale, non limitata al rapporto di subfornitura per il quale è dettata ma suscettibile di applicazione in tutte le fattispecie di rapporti verticali tra imprese: «L’abuso di dipendenza economica di cui all’art. 9 della legge n. 192 del 1998 configura una fattispecie di applicazione generale, che può prescindere dall’esistenza di uno specifico rapporto di subfornitura, la quale presuppone, in primo luogo, la situazione di dipendenza economica di un’impresa

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cliente nei confronti di una sua fornitrice, in secondo luogo, l’abuso che di tale situazione venga fatto, determinandosi un significativo squilibrio di diritti e di obblighi, considerato anzitutto il dato letterale della norma, ove si parla di imprese clienti o fornitrici, con uso del termine cliente che non è presente altrove nel testo della L. n. 192 del 1998». (Cass. s.u. 25-11-2011, n. 24906, ord.)

11. (Segue). I termini di pagamento nelle transazioni commerciali e la tutela delle piccole e medie imprese Uno dei modi in cui nella prassi delle transazioni commerciali (cioè nei contratti tra imprenditori) il maggior potere economico di una impresa si manifesta in danno del partner meno forte è la regolamentazione pattizia dei termini di pagamento. L’impresa più forte – la committente di un contratto di subfornitura, ad esempio – si garantisce contrattualmente tempi di pagamento dilazionati a fronte di tassi di interessi moratori bassi, accentuando in tal modo la subalternità dell’impresa subfornitrice, in perenne crisi di liquidità. Per questo, come ricordato, già nel contratto di subfornitura, la nostra l. n. 192/1998 prevede che i termini di pagamento siano fissati nel contratto, e il pagamento avvenga comunque entro un termine non eccedente i sessanta giorni dalla consegna del bene o dalla comunicazione dell’avvenuta esecuzione della prestazione, al contempo sottraendo alla determinazione pattizia il tasso di interessi moratori e fissandolo in misura ben più alta di quella degli interessi legali. Questo aspetto “critico” dei contratti commerciali ha poi sollecitato l’attenzione della Unione europea che, con una prima dir. 2000/35 e una seconda (di modifica) 2011/7, ha varato una disciplina «relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali», recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. 9-10-2002, n. 231 (e successive modificazioni). Esamineremo a suo tempo (V, 6) la tecnica di intervento che, fissata una disciplina legale (ancorché non inderogabile) intercetta le clausole pattizie che se ne discostano vistosamente sanzionandole con la nullità, con significative analogie con le regole dettate in materia di clausole vessatorie nei contratti di consumo. Ciò che va qui segnalato è il dichiara-

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to obiettivo di intervenire prioritariamente sui contratti di cui sia parte una piccola o media impresa, che consente di rintracciare in queste norme un segmento di disciplina tendenzialmente proprio dei c.d. contratti dell’impresa debole. In realtà la disciplina in esame ha in principio carattere generale, poiché il suo ambito di applicazione comprende tutti i contratti “comunque denominati” tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni che comportano «in via esclusiva o prevalente la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo» (art. 2, co. 1, lett. a) d.lgs. n. 231/2002). Chiaro è tuttavia il riferimento a transazioni commerciali connotate da asimmetria di potere (economico e) contrattuale: ne è prova l’attribuzione (solo) alle associazioni di categoria prevalentemente in rappresentanza delle piccole e medie imprese, della tutela inibitoria, volta a far accertare la grave iniquità di condizioni generali di contratto concernenti il termine di pagamento, il saggio di interessi moratori o il risarcimento per i costi di recupero onde ottenere un provvedimento che ne inibisca l’uso (art. 8, d.lgs. n. 231/2002). D’altra parte, il co. 3-bis dell’art. 9, legge subfornitura (nel periodo aggiunto con l’art. 10 della l. n. 180/2011), fa rinvio al decreto sui ritardi di pagamento, allorché sancisce che «La “violazione diffusa e reiterata” della disciplina sui termini di pagamento, posta in essere ai danni delle imprese, con particolare riferimento a quelle piccole e medie», configura un abuso di dipendenza economica, sanzionabile dall’Autorità garante della concorrenza «a prescindere dall’accertamento della dipendenza economica». Non è questa la sede per soffermarci sui problemi di coordinamento tra le due fonti normative a proposito della disciplina dei termini di pagamento. Ci interessa invece sottolineare che il co. 3-bis, art. 9, della l. n. 192/1998 prevede una ipotesi (ex lege) di abuso di dipendenza economica, abuso che prescinde cioè dall’accertamento in concreto della dipendenza economica, essendo questa considerata implicita in ragione della natura dell’impresa svantaggiata (piccola e media) e dei rapporti commerciali con l’impresa “forte” che si presumono di lunga durata, atteso il riferimento a violazioni diffuse e reiterate. Al contempo si conferma qui come la fattispecie di abuso di dipendenza economica e il relativo divieto abbiano portata generale (fuori dunque dal contratto di subfornitura) come ben precisato del resto dalla Suprema Corte nell’ordinanza a Sezioni Unite sopra riportata.

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12. Le regole particolari e la loro rilevanza nella disciplina generale del contratto È apparso necessario illustrare, seppur sinteticamente, le fattispecie oggetto di intervento del diritto di fonte europea, poiché ad esse si farà riferimento per segnalare di volta in volta l’ambito di disciplina entro cui si sono affacciate e poi consolidate regole che ormai – per le ragioni appena sopra dette – possono dirsi a pieno titolo parte della disciplina generale del contratto. Come dimostra, qualora ve ne fosse bisogno, la sempre più frequente e convinta trasposizione di esse fuori dai contratti di consumo ad opera del nostro legislatore. I tratti caratterizzanti di tali discipline sono affidati a tecniche come detto ormai di portata generale, e per questo saranno richiamati a mo’ di esempio all’interno dei profili di disciplina generale del contratto di cui ci occuperemo. È comunque utile qui segnalarli. Ci riferiamo in particolare: – al principio di trasparenza contrattuale, da cui discende innanzitutto l’inedita rilevanza attribuita, come già ricordato, agli obblighi di informazione precontrattuale; ma che comporta altresì la predeterminazione per legge dei contenuti del contratto, vale a dire le prescrizioni che concernono l’analitica indicazione nel contratto scritto o comunque nella comunicazione tra contraenti, all’atto della stipula, degli elementi significativi del regolamento contrattuale; – al peculiare formalismo, vale a dire l’uso – sempre a fini di trasparenza contrattuale e di certezza delle condizioni pattuite – di prescrizioni di forma, talora lontane, per modalità ed effetti, da quelle tradizionalmente proprie del diritto dei contratti interno; – al più penetrante controllo di coerenza interna sotto il profilo funzionale del regolamento contrattuale, cioè dell’equilibrio tra diritti ed obblighi delle parti come desumibile dalle clausole contrattuali, affidato al giudice e supportato dal rimedio della nullità (delle clausole “squilibranti”, cioè vessatorie); – all’intensificarsi del principio di conservazione del contratto, già presente nel nostro diritto dei contratti: principio cui verosimilmente si ispirano tutte le tecniche di correzione in itinere del programma contrattuale, sia allorché questo non appaia più compiutamente realizzabile per cause non imputabili alle parti (impossibilità sopravvenuta della prestazione) sia in caso di inattuazione per cause addossate alla responsabilità di una parte. La “sostituzione” della prestazione non eseguibile, per l’una

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o l’altra delle menzionate ragioni, è rimedio che come vedremo vede ampliarsi l’ambito di applicazione; – all’affermarsi in generale – ed anche nel quadro del principio di conservazione sopra richiamato – di rimedi flessibili, ove le alternative tra nullità, scioglimento, mantenimento, correzione, sono lasciate alla valutazione di una parte (quella “debole”) ovvero del giudice (la nullità di protezione – VIII, 9 – che come vedremo ha guadagnato un campo di applicazione ben più vasto di quello originariamente segnato dalla disciplina europea in tema di clausole vessatorie). Meno dotato di capacità espansiva e dunque destinato almeno finora a rimanere istituto del tutto tipico e particolare dei contratti dei consumatori, è invece il diritto di recesso di pentimento (VI, 9), che indebolisce la forza del vincolo contrattuale, consentendo ad una sola parte di sottrarvisi con scelta del tutto libera (seppure da esercitare entro un termine abbastanza breve).

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CAPITOLO QUARTO

I REQUISITI DEL CONTRATTO

SOMMARIO I. LE PARTI. – 1. La qualità delle parti. – 2. Consumatore e professionista. – 3. Consumatore e utente. Fornitura di beni da parte di prestatori pubblici e utenza di servizi pubblici. – 4. Il turista. – 5. Il cliente al dettaglio e l’investitore non qualificato, persona fisica o giuridica. – 6. L’acquirente di immobili da costruire destinati ad abitazione. – 7. La c.d. impresa debole e la microimpresa. – 8. I contratti della Pubblica Amministrazione. – 9. Il contratto con più di due parti con scopo comune. – 10. Identificazione della parte, intermediazione e sostituzione nel contratto. – 11. La rappresentanza. – 12. Il conflitto d’interessi nella intermediazione finanziaria. – 13. Il contratto per persona da nominare e il contratto per conto di chi spetta. – 14. Parte in senso formale, parte in senso sostanziale e disciplina dei contratti di consumo. – 15. Modificazioni soggettive e circolazione del contratto. La successione nel contratto. – II. L’ACCORDO E LA FORMAZIONE DEL CONTRATTO. – 1. L’accordo delle parti, il procedimento di formazione del contratto e le sue varianti. – 2. Proposta e accettazione. – 3. I modi alternativi di conclusione del contratto nel codice civile: l’art. 1327 e l’art. 1333. – 4. Il silenzio. – 5. L’offerta al pubblico. – 6. (Segue). Offerta al pubblico di strumenti finanziari. – 7. Il contratto “aperto”. – 8. I modi alternativi di conclusione del contratto nella società dei consumi. La predisposizione unilaterale delle condizioni generali di contratto. – 9. I modi ordinari di formazione dell’accordo. Il prima del contratto e le trattative. – 10. Trattative e responsabilità precontrattuale tra art. 1337 e art. 1338 c.c. – 11. Responsabilità precontrattuale e informazione negli artt. 1337 e 1338. – 12. Violazione della buona fede nelle trattative e dolo. – 13. Libertà contrattuale, trattative, negozi preparatori. – 14. (Segue). Il contratto preliminare. – 15. Contratto quadro. Rinvio. – 16. Il prima del contratto nell’incontro professionista-consumatore. – 17. L’incontro professionista-consumatore sul mercato: la pubblicità. – 18. (Segue). Le pratiche commerciali scorrette e il problema degli effetti sul contratto. – 19. La sollecitazione a contrarre e la contrattazione aggressiva: i contratti a distanza e il commercio elettronico. – 20. (Segue). Il contratto negoziato fuori dei locali commerciali. – 21. (Segue). L’offerta fuori sede. – 22. Fase precontrattuale e conclusione del contratto professionista-consumatore: le regole particolari. – 23. (Segue). Il principio di trasparenza. – 24. La diversa rilevanza degli obblighi di informazione. – 25. (Segue). L’informazione minima in tutti i contratti professionista/consumatore. – 26. (Segue). L’informazione/comunicazione, parte integrante del contratto, nelle discipline settoriali. – 27. (Se-

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gue). L’informazione sulla sostenibilità o sulla convenienza dell’operazione. – 28. (Segue). Inadempimento degli obblighi di informazione e responsabilità del professionista. – 29. (Segue). L’informazione nell’offerta al pubblico di strumenti finanziari e il problema della “responsabilità da prospetto”. – 30. La trasparenza contrattuale e la determinazione legale del contenuto del contratto. – 31. Formazione progressiva del contratto a tutela del consumatore. – III. LA SERIETÀ DELL’ACCORDO E LA PROTEZIONE DELLA VOLONTÀ. – 1. Il contratto come espressione di un consenso pieno e consapevole. – 2. La simulazione. – 3. Capacità di agire e capacità di intendere o di volere. – 4. I vizi della volontà: errore. – 5. (Segue). Violenza. – 6. (Segue). Dolo. – 7. Protezione del consumatore e protezione della volontà contrattuale: il punto di vista del diritto europeo. – 8. Assistenza alla negoziazione. – 9. Gli elementi accidentali. Rinvio. – IV. LA CAUSA E L’OGGETTO. – 1. Nozione e funzione della “causa” del contratto. – 2. Il controllo causale nei contratti tipici e nei contratti atipici. – 3. I contratti misti e i contratti collegati. – 4. (Segue). Il collegamento negoziale nei contratti di consumo. – 5. Il contratto in frode alla legge. – 6. Le classificazioni dei contratti riguardo alla causa. – 7. Controllo causale, adeguatezza del corrispettivo e controllo sulla convenienza economica del contratto. – 8. L’oggetto. – V. LA FORMA. – 1. Il sistema delineato nell’art. 1325, n. 4 e la più recente evoluzione. – 2. La forma documentale: atto pubblico e scrittura privata. – 3. (Segue). Il documento informatico. – 4. Gli atti a forma vincolata nell’art. 1350 c.c. e la (tradizionale) funzione del formalismo. – 5. Il neoformalismo e la sua funzione. – 6. (Segue). Il vincolo della forma scritta del contratto e i suoi effetti. – 7. (Segue). Dal documento cartaceo al supporto durevole. – 8. Il formalismo a fini di trasparenza e le sue varianti: le prescrizioni formali “di comunicazione” all’interno del contratto e nella fase dell’informazione precontrattuale. – 9. Le prescrizioni di forma-contenuto.

I.

LE PARTI 1. La qualità delle parti Perché si abbia un contratto validamente costituito non basta l’accordo come definito nell’art. 1321 c.c. ma occorre che siano presenti tutti i requisiti indicati dall’art. 1325, che possono dirsi elementi essenziali: l’accordo delle parti; la causa; l’oggetto; la forma, quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità. La mancanza di tali elementi (o anche soltanto di uno di essi), o la loro non conformità ai caratteri che devono per legge rivestire, costituisce causa di nullità del contratto ai sensi dell’art. 1418, co. 2, c.c. (VII, 3). Abbiamo sopra chiarito il concetto di parte del contratto: non ci si ri-

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ferisce ai soggetti coinvolti nella vicenda contrattuale ma ai centri di interesse a cui risale il regolamento contrattuale, che potrebbero essere costituiti anche da più soggetti (esempio: più comproprietari che vendono un appartamento sono un’unica parte, venditrice, che ha come dirimpettaia l’altra parte, acquirente). Può essere parte di un contratto una persona fisica o una persona giuridica (es. società per azioni). Perché il contratto sia valido occorre che chi lo stipula sia in possesso della “capacità legale di contrattare”, cui fa riferimento l’art. 1425 c.c. («Il contratto è annullabile se una delle parti era legalmente incapace di contrattare»). Il riferimento è alla (generale) capacità di agire, che si acquista con la maggior età (o prima, con i limiti all’uopo previsti, nel caso di minore ultrasedicenne emancipato di diritto per avere contratto matrimonio o nel caso di minore emancipato autorizzato all’esercizio dell’impresa ex art. 397 c.c.) e si perde a seguito di interdizione giudiziale o, quanto ai solo atti patrimoniali (quindi i contratti) a seguito di interdizione legale e subisce limitazioni a seguito di inabilitazione o provvedimenti di amministrazione di sostegno (vedi rispettivamente artt. 427, co. 3 e 409 c.c.). La regola che fissa al raggiungimento della maggiore età l’acquisto della capacità di agire manifesta una certa rigidità ove si consideri la gradualità del processo di maturazione e crescita che consente di rintracciare, già nell’adolescenza, una adeguata capacità di discernimento (riconosciuta peraltro dall’ordinamento quando si tratti di indagare su inclinazioni e scelte del minore nella vita personale e familiare), idonea al compimento almeno di atti non particolarmente impegnativi della vita quotidiana. Regole più flessibili sono presenti in molti altri ordinamenti. La nostra dottrina da tempo comunque giustifica la validità degli atti della vita quotidiana posti in essere dai minori richiamando l’art. 1389 c.c. che, ai fini della validità del contratto concluso dal rappresentante, richiede che questi abbia la capacità di intendere e di volere, sempre che però sia legalmente capace il rappresentato: il minore che compie un acquisto, ad esempio di un quotidiano o di un biglietto di trasporto, ecc., sarebbe in questo caso rappresentante o, secondo alcuni, semplice nuncius (infra, 10), del genitore. Come vedremo (IV, III, 3; VII, 11) l’ordinamento dà rilevanza anche alla effettiva capacità di prestare consenso pieno e consapevole al contratto e dunque consente, in presenza di determinati presupposti, l’annullamento dei contratti conclusi da chi (pur legalmente capace di con-

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trattare) si trovi in stato di incapacità naturale, cioè di incapacità di intendere o di volere al momento in cui ha compiuto l’atto (art. 428, co. 2 e art. 1425, co. 2). Regole speciali (si parla infatti di incapacità giuridiche speciali) sono dettate per vietare a determinati soggetti, in ragione delle cariche che rivestono o della mancanza di taluni requisiti, la stipula di determinati contratti: sono incapaci di contrattare con la Pubblica Amministrazione i soggetti colpiti da condanne per i delitti di cui all’art. 32-ter c.p., ma anche quelli privi di requisiti di affidabilità come previsti dalle leggi speciali. Divieti di acquisto sono previsti, e diversamente sanzionati, nell’art. 1471 c.c.: gli amministratori di beni pubblici non possono acquistare i beni loro affidati (e il contratto è nullo); coloro che per legge o per atto di pubblica autorità amministrano beni altrui non possono rendersene acquirenti (e l’atto sarà in questo caso annullabile). La disciplina generale del contratto contenuta nel codice civile indulge assai poco a distinzioni che si appuntino sulla qualità delle parti. In particolare, appaiono assai circoscritte le pur necessarie deroghe riferite ai contratti dell’imprenditore: si vedano ad esempio l’art. 1330 c.c., circa l’efficacia della proposta dell’imprenditore, che permane malgrado la morte o la sopravvenuta incapacità di questi salvo che si tratti di piccoli imprenditori o che diversamente risulti dalla natura dell’affare o da altre circostanze; o ancora la disciplina delle “speciali” forme di rappresentanza nelle imprese agricole e commerciali, cui rinvia l’art. 1400; o talune regole particolari contenute all’interno della disciplina di singoli contratti tipici. Il consolidarsi di regole “speciali” (di derivazione europea) concernenti i contratti tra consumatore e professionista (cui abbiamo accennato e di cui si dirà ampiamente a suo tempo) potrebbero tuttavia far pensare ad una riedizione della distinzione tra contratti civili e contratti del commercio che caratterizzava il nostro ordinamento in vigenza del codice civile del 1865 e del codice di commercio del 1882 e che rimane rintracciabile in altri (esempio quello francese). Tale distinzione, nella nostra esperienza giuridica, trovava fondamento nella scelta, affidata al codice di commercio del 1882, di dettare una disciplina separata dei rapporti patrimoniali in «materia di commercio» (art. 1 cod. comm.). Individuati gli atti qualificati come “atti di commercio”, secondo l’elenco di cui all’art. 3, o comunque “reputati” tali quando «non di natura

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essenzialmente civile» (art. 3), e definiti commercianti coloro che esercitassero “atti di commercio” per professione abituale e le società commerciali (art. 8), il codice dettava per tali contratti e relative obbligazioni una disciplina particolare, così istituendo in alcuni casi un regime distinto e parallelo ad esempio per la vendita civile (di cui agli artt. 1447 ss. c.c. del 1865) e per la vendita commerciale (artt. 59 ss. cod. comm.). Sull’onda degli interventi “correttivi” che il diritto europeo tende ad apprestare ai rapporti di scambio allorché qui si fronteggino soggetti di diverso potere contrattuale – professionista e consumatore, ma anche professionista “forte” e professionista “debole”– non è mancato poi in dottrina chi ha prospettato una moltiplicazione dei regimi contrattuali: sicché dal contratto in generale (rectius il contratto regolato dalla disciplina generale di cui agli artt. 1321 ss. c.c.), si dovrebbe distinguere il contratto del consumatore (un secondo modello di disciplina) e addirittura il c.d. terzo contratto, vale a dire quello retto da talune (in verità scarse) regole speciali quando le parti siano due imprenditori di cui uno in posizione (economicamente) dominante e l’altro in posizione (economicamente) debole o dipendente. Il caso (nel quale in verità la “categoria” sembra esaurirsi) è quello dell’impresa committente e dell’impresa subfornitrice e le regole sarebbero (solo) quelle della l. 18-61998, n. 192 sulla subfornitura e della disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, di fonte europea, di cui al nostro d.lgs. 9-10-2002, n. 231 cui abbiamo già fatto cenno (III, 10, 11). L’ambito circoscritto delle regole speciali, nelle fattispecie da ultimo ricordate, giustifica lo scetticismo con cui è stata accolta la teoria del c.d. terzo contratto. Nel caso invece dei contratti del consumatore, se è indubbia la rilevanza di un segmento di disciplina sicuramente ricco di deroghe a quella generale, non altrettanto convincente è l’idea che a fondare la categoria sia la qualità delle parti. Vero è infatti che per individuare tali contratti dovrà aversi riguardo alla presenza da una parte del professionista, e dall’altra del consumatore, ma sono proprio le definizioni adottate dalla legge a scoraggiare una classificazione “per categorie” di contraenti. Esse, come meglio vedremo, fanno riferimento piuttosto allo scopo per il quale si agisce. Quella di consumatore non è veste che identifichi sempre e comunque una categoria di soggetti sul mercato; ed è anzi noto il rilievo mosso alla normativa europea che di questa disciplina spe-

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ciale è la fonte: e cioè che a beneficiare della protezione assicurata al consumatore potrà essere anche il più esperto della negoziazione di che trattasi, ed anzi abituale produttore e/o distributore del bene di che trattasi, dovendosi anche a lui riconoscere la qualità di consumatore allorché nel singolo concreto contratto egli agisca fuori dall’attività professionale svolta. Le regole speciali di cui parliamo e dunque la categoria dei contratti dei consumatori – di cui ci occuperemo fra poco – non esaltano dunque la specificità di una parte per le qualità che essa presenta o per la categoria cui appartiene, ma solo lo scopo, la finalità di consumo cui il contratto è in concreto rivolto. La qualità della parte continua, riteniamo, a non essere idonea di per sé a comportare significative deviazioni alla disciplina generale del contratto o addirittura a segmentare questa entro differenti modelli. Diversa è l’ottica dalla quale la legge accorda rilevanza alla qualità del soggetto, intesa come possesso di determinati requisiti, al fine di abilitarlo alla stipula di alcuni contratti; o, meglio, all’esercizio di talune attività nell’ambito delle quali stipulare i relativi contratti. Si pensi, per fare gli esempi più significativi, alla qualità di “banca” o di “intermediario finanziario”, o di “assicuratore” che l’ente o (nel secondo caso anche) la persona fisica deve possedere per essere parte di un contratto. È di tutta evidenza che qui non siamo di fronte a limitazioni alla libertà di stipulare contratti o a deviazioni dalla disciplina generale del contratto dipendenti dalla qualità della parte contraente, ma, a monte, ad un necessario regime autorizzatorio riferito a particolari attività economiche nel cui ambito (e nel cui ambito soltanto) sono stipulati quei particolari contratti. Valga per tutti l’esempio dei contratti di credito di cui agli artt. 115 ss. del testo unico bancario (t.u.b.: d.lgs. 1-9-1993, n. 395), in cui il “cliente” può avere come partner la “banca” o l’“intermediario finanziario”, vale a dire, rispettivamente l’impresa autorizzata all’esercizio dell’attività bancaria (art. 1, co. 1, lett. b) e art. 10 t.u.b.) o i soggetti (in forma societaria), iscritti in apposito albo, cui è riservato, previa autorizzazione, l’esercizio dell’attività di «concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma» e le altre attività previste dalla legge (artt. 106 ss. t.u.b.): discipline speciali che governano lo svolgimento dell’attività da parte di soggetti all’uopo autorizzati, individuandone presupposti, limiti, modalità, controlli e sanzioni e che solo in questa cornice si traducono altresì in regole particolari in materia di contratti.

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2. Consumatore e professionista Tornando ai contratti dei consumatori, l’attenzione dell’ordinamento, come si è detto, è qui diversamente rivolta al dato obiettivo determinato dalla finalità di consumo, “intercettata” attraverso la posizione che ciascuna parte assume nel contratto a tale riguardo, posizione che viene a delinearsi per il tramite delle definizioni di professionista e consumatore. Sebbene le fonti comunitarie abbiano tracciato a lungo un quadro normativo abbastanza incerto anche in punto di definizioni, nell’ordinamento italiano possono dirsi ormai consolidate e dotate di portata generale le nozioni di “consumatore” e di “professionista” a suo tempo adottate dall’art. 1469-bis c.c. in tema di clausole abusive ed ora definitivamente sancite nel codice del consumo (art. 3, lett. a) e c). Consumatore o utente è «la persona fisica che agisce per scopi estranei alla attività imprenditoriale, commerciale, artigianale, o professionale eventualmente svolta». Tale nozione sostanzialmente coincide con quella da ultimo riproposta nella dir. 2011/83 sui diritti dei consumatori che all’art. 2 definisce «consumatore»: «qualsiasi persona fisica che, nei contratti oggetto della presente direttiva, agisca per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale». In ragione di tale coincidenza, la definizione di cui all’art. 3, lett. a), cod. cons. è stata ribadita anche in sede di recepimento dell’ultima direttiva europea ora ricordata (vale a dire il d.lgs. 21-2-2014, n. 21), come conferma l’art. 45, co. 1, lett. a), cod. cons., che, nell’introdurre la più recente disciplina di recepimento della dir. n. 2011/83 – essenzialmente riferita ai contratti stipulati a distanza o fuori dei locali commerciali – fa rinvio, appunto, alla definizione generale di cui all’art. 3, lett. a) dello stesso codice. Dunque è consumatore l’individuo (l’associazione, la società o l’ente non potranno in nessun caso essere considerati a questi fini “consumatori”) a patto che “agisca”, cioè entri nella relazione contrattuale, per soddisfare un bisogno di natura personale e non legato all’attività economica che egli eventualmente svolga. Professionista è «la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario». L’ultima direttiva, sopra citata, definisce «professionista» «qualsiasi persona fisica o giuridica che, indipendentemente dal fatto che si tratti di un soggetto pubblico o privato, agisca nel quadro della sua attivi-

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tà commerciale, industriale, artigianale o professionale nei contratti oggetto della presente direttiva, anche tramite qualsiasi altra persona che agisca in suo nome o per suo conto». Un soggetto giuridico dunque (individuo, associazione, società, ente – come si vede anche pubblico –) per il quale l’operazione contrattuale (la cessione del bene o la fornitura del servizio) di cui si tratta rientra nell’ambito della abituale attività economica. La precisazione, da noi sottolineata con l’uso del corsivo, deve ritenersi comunque implicita anche nella nozione adottata nel diritto interno dall’art. 3, co. 1, lett. c), cod. cons., sia perché ampiamente ribadita in sede applicativa dalla giurisprudenza, sia in forza del principio che impone di interpretare il diritto interno in modo conforme a quello dell’Unione europea. A proposito dell’ambito di applicazione della direttiva sulle clausole abusive nei contratti tra consumatori e professionisti, ivi individuati secondo le definizioni sopra ricordate, la Corte di Giustizia ha ribadito del resto ancora di recente che occorre fare riferimento a qualsiasi attività professionale sia essa pubblica o privata e, come enunciato dal Considerando 14 della dir. 93/13, «anche le attività professionali di carattere pubblico». Dunque

«un avvocato che nel quadro della sua attività professionale fornisca a titolo oneroso un servizio di assistenza legale a favore di una persona fisica che agisce per fini privati è un “professionista” ai sensi dell’art. 2, lettera c), della direttiva 93/13. Il contratto relativo alla prestazione di un servizio siffatto è, di conseguenza, assoggettato al regime di detta direttiva». (Corte giust. 15-1-2015, C-537/13, Šiba) È necessario in ogni caso, ai fini dell’applicazione della disciplina speciale, che a fronteggiarsi siano soggetti appartenenti a categorie contrapposte, non rientrando nell’ambito di applicazione delle discipline qui considerate il contratto tra due consumatori ovvero tra due professionisti (c.d. business to business). Con riguardo a quest’ultima fattispecie non mancano tuttavia, come detto, altre discipline speciali pensate a tutela dell’imprenditore debole nel caso di contratto con soggetti che abusino della posizione acquisita sul mercato o comunque abusino del loro maggiore potere contrattuale: la disciplina del contratto di subfor-

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nitura (III, 10) ma anche quella del contratto di franchising (o affiliazione commerciale, l. 6-5-2004, n. 129). Seppure i “consumatori” vengano considerati, nel linguaggio comune ma anche dalla legge, come una “categoria” – rappresentata ad esempio da proprie associazioni – quella di “consumatore”, come si è già rimarcato, non è una qualità propria del soggetto, che egli rivesta stabilmente e attraverso la quale sia riconoscibile nei rapporti sociali ed economici (come invece nel caso della “banca” o dell’“intermediario finanziario”). Il più noto produttore e venditore di computer potrà presentarsi talora come consumatore, e beneficiare in tutto della protezione all’uopo prevista dalla legge, sol che acquisti un pc per uso personale. La legge non presta attenzione ad una intrinseca qualità dei soggetti, o ad una stabile qualificazione e posizione nei rapporti economici (per questo si è detto che la nozione è “neutra”); ma ha riguardo, al contrario, alle relazioni che abbiano finalità estranea a quelle dell’esercizio di una attività economica stabilmente organizzata (imprenditoriale, commerciale, artigianale) che il soggetto possa eventualmente svolgere, cioè alla posizione che ciascuna parte riveste nello specifico contratto, allo scopo per cui contratta ed all’oggettiva destinazione finale del bene acquistato. E tale destinazione è ritenuta implicita ove si accerti però che una parte abbia stipulato il contratto per finalità estranee all’esercizio di una attività economica. Il contratto di compravendita, dal profilo della garanzia accordata all’acquirente, è sottoposto a regole particolari di fonte europea quando si tratti di “vendita di beni di consumo”, intendendosi per beni di consumo qualsiasi bene mobile, purché acquistato da un “consumatore” (art. 128, co. 2, lett. a), cod. cons.); nella disciplina del “credito ai consumatori” la funzionalizzazione del prestito al consumo non si accompagna di regola ad un controllo sulla effettiva destinazione della facilitazione finanziaria ricevuta, bastando che si tratti di contratti con cui un finanziatore concede o si impegna a concedere prestiti, dilazioni di pagamento o altra facilitazione finanziaria a un consumatore (art. 121, co. 1, lett. c), t.u.b.). Solo nel caso del più recente intervento in tema di credito immobiliare a qualificare il contratto, oltre che la presenza del “consumatore” quale beneficiario, rileva anche la concreta destinazione del finanziamento all’acquisto di un bene immobile (art. 120 quinquies, co. 1, lett. c), t.u.b.): la legge richiede infatti che il credito sia finalizzato all’acquisto di un diritto di proprietà su un terreno o bene immobile ovvero garantito da ipoteca sul diritto di proprie-

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tà o altro diritto reale su beni immobili residenziali (fattispecie che lascia presumere comunque la suddetta finalizzazione). La nozione di consumatore rimanda dunque ad un accertamento in concreto, rimesso al giudice di merito, il quale deve valutare gli elementi che comprovino che il contratto è stato stipulato fuori o nel quadro dell’attività professionale eventualmente svolta dalla controparte del professionista. Si considera ad esempio irrilevante la dichiarazione, eventualmente contenuta in una clausola del contratto, di non essere consumatore, dietro la quale potrebbe anzi celarsi una rinuncia del contraente ai propri diritti, nulla ai sensi dell’art. 143 cod. cons. Un banco di prova illuminante, per cogliere appieno il significato di questo approccio oggettivo e concreto prescelto dal diritto europeo, è stato offerto dalla questione, tornata più volte all’attenzione della Corte di Giustizia, concernente l'individuazione dei presupposti per l’applicazione della disciplina dei contratti di consumo al contratto di fideiussione. Chiamata ad interpretare la Direttiva 85/577 sui contratti negoziati fuori dei locali commerciali, onde verificare l’ammissibilità e i limiti di una sua applicazione a beneficio del fideiussore, la Corte, in una prima importante pronuncia, escluse che dal “solo fatto dell’assenza, nella direttiva, di una disposizione che disciplini la sorte del contratto principale in caso di esercizio da parte del fideiussore della facoltà di recesso” debba farsi discendere automaticamente la non applicabilità della direttiva alla fideiussione. Tuttavia, tenuto conto dell’ambito di applicazione della disciplina, subordinò la possibilità di farvi rientrare la fideiussione alla duplice condizione della accessorietà di questa ad un contratto consumatore-professionista e, soprattutto, della estraneità all’attività professionale dello scopo per cui il fideiussore si sia a sua volta obbligato (Corte di Giustizia 17-3-1998, causa C-45/96 Dietzinger). Un contratto di fideiussione non solo accessorio ad un contratto consumatore-professionista, ma esso stesso connotato da una finalità di consumo. Più di recente, tuttavia, la posizione della Corte sulla questione si chiarisce ulteriormente, confermando come l’attenzione debba focalizzarsi sulla finalità perseguita dalla parte del contratto di cui si discute (quello di fideiussione in questo caso). Ne risulta in definitiva svalutato il necessario presupposto della accessorietà della fideiussione ad un contratto (principale) di consumo, in ragione della preminente rilevanza da accordare alla finalità del contratto per il quale la parte invochi la normativa di protezione.

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«Quanto alla questione se una persona fisica che si impegna a garantire le obbligazioni che una società commerciale ha contratto nei confronti di un istituto bancario in base a un contratto di credito possa essere considerata un «consumatore» ai sensi dell’articolo 2, lettera b), della direttiva 93/13, occorre rilevare che un siffatto contratto di garanzia o di fideiussione, sebbene possa essere descritto, in relazione al suo oggetto, come un contratto accessorio rispetto al contratto principale da cui deriva il debito che garantisce [v., nel contesto della direttiva 85/577/CEE del Consiglio, del 20 dicembre 1985, per la tutela dei consumatori in caso di contratti negoziati fuori dei locali commerciali …, sentenza Dietzinger, C-45/96, …], dal punto di vista delle parti contraenti esso si presenta come un contratto distinto quando è stipulato tra soggetti diversi dalle parti del contratto principale. È dunque in capo alle parti del contratto di garanzia o di fideiussione che deve essere valutata la qualità in cui queste hanno agito. A tale proposito è necessario ricordare che la nozione di «consumatore», ai sensi dell’articolo 2, lettera b), della direttiva 93/13, ha un carattere oggettivo … Essa deve essere valutata alla luce di un criterio funzionale volto ad analizzare se il rapporto contrattuale in esame rientri nell’ambito delle attività estranee all’esercizio di una professione. Spetta al giudice nazionale, investito di una controversia relativa a un contratto idoneo a rientrare nell’ambito di applicazione di tale direttiva, verificare, tenendo conto di tutte le circostanze della fattispecie e di tutti gli elementi di prova, se il contraente in questione possa essere qualificato come «consumatore» ai sensi della suddetta direttiva. Nel caso di una persona fisica che abbia garantito l’adempimento delle obbligazioni di una società commerciale, spetta quindi al giudice nazionale determinare se tale persona abbia agito nell’ambito della sua attività professionale o sulla base dei collegamenti funzionali che la legano a tale società, quali l’amministrazione di quest’ultima o una partecipazione non trascurabile al suo capitale sociale, o se abbia agito per scopi di natura privata. Alla luce di tali premesse, occorre rispondere alle questioni poste dichiarando che gli articoli 1, paragrafo 1, e 2, lettera b), della direttiva 93/13 devono essere interpretati nel senso che tale direttiva può essere applicata a un contratto di garanzia immobiliare o di fideiussione stipulato tra una persona fisica e un ente creditizio al fine di garantire le obbligazioni che una società commerciale ha contratto nei confronti di detto ente

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in base a un contratto di credito, quando tale persona fisica ha agito per scopi che esulano dalla sua attività professionale e non ha alcun collegamento di natura funzionale con la suddetta società». (Corte giust. 19-11-2015 (ord.), C-74/15, Tarcău) Come ribadisce la nostra Suprema Corte «la qualifica di consumatore di cui all’art. 3 del d.lgs. 6-9-2005, n. 206» – rilevante ai fini della identificazione del soggetto legittimato ad avvalersi delle tutele ivi previste – «spetta alle sole persone fisiche allorché concludano un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata, dovendosi, invece, considerare professionista il soggetto che stipuli il contratto nell’esercizio di una siffatta attività o per uno scopo a questa connesso». «Ne consegue che non rileva in modo decisivo, al fine di escludere la sussistenza di un rapporto di consumo, la sola circostanza che la parte, nel concludere il contratto con il professionista, si sia qualificata come “avvocato”». (Cass. 12-3-2014, n. 5705)

«Ciò che rileva, ai fini dell’assunzione della veste di “consumatore” non è il “non possesso”, da parte della “persona fisica” che ha contrattato con un “operatore commerciale”, della qualifica di “imprenditore commerciale”, ma ... lo scopo avuto di mira dall’agente, nel momento in cui ha concluso il contratto. Se pertanto, deve ritenersi – ai fini che ora interessano – “consumatore” l’imprenditore commerciale che acquista degli arredi per la propria abitazione (cioè allo scopo, certamente estraneo alla sua attività professionale, di arredare la propria casa), reciprocamente, deve escludersi possa qualificarsi “consumatore” la persona [non importa se, come nella specie, lavoratore dipendente o, pensionato o persona in cerca di prima occupazione] che in vista di intraprendere una attività imprenditoriale (cioè per uno scopo professionale) acquista gli strumenti indispensabili per l’esercizio di tale attività imprenditoriale». (Cass. 14-4-2000, n. 4843)

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Il caso era quello di un soggetto che aveva acquistato dei videogiochi, ma, come osserva la Corte, non per arredare la propria casa (o per farne omaggio a parenti ed amici) ma al fine specifico di concederli in locazione a titolari di esercizi pubblici, con i quali avrebbe diviso il ricavato della loro utilizzazione da parte del pubblico. Poiché, osserva la S.C., è “imprenditore” chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi (cfr. art. 2082 c.c.) non può dubitarsi che l’attività in funzione della quale il Tizio ha acquistato i videogiochi oggetto di controversia debba qualificarsi “imprenditoriale”. Perché ricorra la figura del “professionista”, d’altra parte, non è necessario che il contratto sia posto in essere nell’esercizio dell’attività propria dell’impresa o della professione, essendo sufficiente (come si evince dalla parola “quadro”) che esso venga posto in essere per uno scopo connesso all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale (Cass. 10-7-2008, n. 18863). Così da ultimo, la S.C. ribadisce che va qualificato come professionista la banca che conclude un contratto per la locazione dei locali in cui collocare una sua agenzia, poiché «In tema di contratti del consumatore, ai fini dell’applicabilità del Codice del consumo, approvato con il d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, deve essere considerato “professionista” tanto la persona fisica, quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che utilizzi il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale. Perché ricorra la figura del “professionista” non è, pertanto, necessario che il contratto sia concluso nell’esercizio dell’attività propria dell’impresa o della professione, essendo sufficiente che esso venga posto in essere al fine dello svolgimento o per le esigenze dell’attività imprenditoriale o professionale». (Cass. 15-5-2013, n. 11773) Malgrado la disciplina dei contratti dei consumatori sia rivolta a tutelare un partner che si assume “debole” nell’incontro con il professionista, non può dirsi che essa entri in gioco tutte le volte in cui una parte contrattuale si dichiari o dimostri di essere un “profano” in quella operazione negoziale. Contrariamente a quanto talora prospettato in dottrina e da qualche giudice di merito sull’esempio della giurisprudenza francese (si pensi al noto caso dello scultore ritenuto dal Tribunale di

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Roma un “consumatore” nel contratto con il quale aveva spedito la propria opera per partecipare ad un concorso, sulla base dell’argomento che il contratto con il vettore non rientrava tra le operazioni a lui familiari nell’ambito dell’attività professionale svolta), deve ritenersi che a nulla rilevino le conoscenze e competenze proprie del contraente e che nessun ruolo possa giocare al riguardo una pretesa distinzione tra atti della professione e atti (solo) relativi alla professione. Chi contrae per scopi estranei alla sua attività professionale non potrà essere escluso dalla tutela accordata al consumatore per il solo fatto di essere “esperto” in quel tipo di contrattazione, ad esempio proprio in ragione dell’attività professionale svolta. Così come, all’opposto, il professionista che contrae nell’ambito dell’attività svolta non potrà invocare la protezione accordata al consumatore sostenendo di essere non competente per quella specifica operazione. «La disciplina dettata dal D.Lgs. n. 206 del 2005 (c.d. Codice del consumo), in cui è stata riversata quella dettata al Capo 15 bis del Codice civile è applicabile ai contratti stipulati tra il ‘consumatore’ ed il ‘professionista’ (D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 3, comma 1) a prescindere dal tipo contrattuale dalle parti posto in essere e dalla natura della prestazione oggetto del contratto essendo rilevante, come sottolineato anche in dottrina, il mero fatto che risulti concluso un contratto tra un soggetto (professionista) per il quale lo stesso costituisca atto di esercizio della professione, e cioè dell’attività imprenditoriale o di professionista intellettuale esplicata o che rientri nel quadro della medesima in quanto volto a realizzarne una connessa finalità ed altro soggetto (consumatore) per il quale, pur essendo se del caso il medesimo un professionista, il contratto sia viceversa funzionalizzato a soddisfare esigenze della vita comune di relazione, estranee all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale sua propria». (Cass. 20-8-2010, n. 18785)

«Secondo l’orientamento giurisprudenziale italiano prevalente (Cass. S.U. n. 7444 del 20 marzo 2008) deve essere considerato consumatore e beneficia della disciplina di cui all’art. 1469-bis c.c. e ss., ed attualmente d.lgs. n. 2006 del 2005, artt. 3 e 33 e ss., la persona fisica che, anche se svolge attività imprenditoriale o professionale, conclude un qualche con-

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tratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività; mentre deve essere considerato “professionista” tanto la persona fisica quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che invece utilizza il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale e professionale, ricomprendendosi in tale nozione anche gli atti posti in essere per uno scopo connesso all’esercizio dell’impresa (cfr. anche Cass. 23 febbraio 2007, n. 4208). Non sono mancate critiche a tale orientamento, finalizzate ad un’interpretazione estensiva del concetto di consumatore, fondata sulla distinzione tra atti della professione e atti inerenti alla professione e con la tendenza ad escludere dall’ambito di applicazione della tutela dei consumatori solo quegli atti che presentino una pertinenza specifica con l’attività professionale svolta e non quelli in cui il collegamento sia riconducibile ad un rapporto di pertinenza generica, sul presupposto che in tali situazioni il soggetto vessato, pur agendo per finalità diverse dal puro consumo privato, è sostanzialmente un profano, sfornito di quelle competenze specifiche che possono farlo ritenere in posizione di parità con il contraente forte, con conseguente asimmetria informativa. Sennonché non vi sono ragioni per discostarsi dall’orientamento già espresso da queste S.U. e sopra indicato. Va, anzi, osservato che la tesi è corroborata dalla definizione di consumatore fornita nell’ambito del commercio elettronico (art. 2, lett. e), d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70): questa normativa prevede che anche la mera riferibilità dell’atto all’attività professionale svolta dalla persona fisica impedisce che quest’ultima possa essere qualificata come consumatore». (Cass. 9-6-2011, n. 12685, ord.) In conclusione: «In tema di contratti del consumatore, ai fini della identificazione del soggetto legittimato ad avvalersi della tutela di cui al vecchio testo dell’art. 1469-bis cod. civ. (ora art. 33 del Codice del consumo, approvato con d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206), la qualifica di “consumatore” spetta solo alle persone fisiche e la stessa persona fisica che svolga attività imprenditoriale o professionale potrà essere considerata alla stregua del semplice “consumatore” soltanto allorché concluda un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività; correlativamente deve essere considerato “professionista” tanto la persona fisica, quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che utiliz-

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zi il contratto non necessariamente nell’esercizio dell’attività propria dell’impresa o della professione, ma per uno scopo connesso all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale». (Cass. 23-9-2013, n. 21763, ord.) Del resto, come a suo tempo vedremo, la Corte di giustizia esclude che il consumatore sia protetto solo se ed in quanto ingannato o indotto in errore e dunque solo quando ricorra un concreto perturbamento nella formazione del suo volere. Appare per questo condivisibile l’opinione che, intendendo segnalare il punto di vista oggettivo dal quale parte la normativa in questione, preferisce parlare di contratti con causa di consumo anziché di contratti dei consumatori, restando inteso che i contratti in questione mantengono la propria causa (es. la causa del contratto di vendita di beni o del contratto di somministrazione o di fornitura), che tuttavia si arricchisce e si “colora” della finalità (oggettiva) di consumo, in presenza della quale soltanto sarà applicabile la disciplina di cui discorriamo. Le puntualizzazioni ora ricordate, fatte proprie dai nostri giudici sulla scorta del resto degli orientamenti espressi dalla Corte di giustizia, possono soccorrere in concreto nei casi in cui appaia incerto stabilire se un certo contraente debba qualificarsi consumatore (o professionista): è il caso, su cui il codice del consumo tace, del c.d. acquisto per fini promiscui, vale a dire l’ipotesi in cui un bene sia acquistato per soddisfare tanto bisogni di natura personale quanto esigenze legate alla propria attività professionale (l’acquisto di un personal computer che venga utilizzato tanto per tenere la contabilità dell’impresa quanto per chattare con gli amici). Con un ragionamento complessivamente condivisibile, che conferma l’approccio oggettivo prescelto dal diritto europeo, la Corte di Giustizia della Unione europea ha espresso un orientamento restrittivo, volto a negare la qualifica di consumatore a chiunque agisca per scopi non completamente estranei alla propria attività professionale: chi «conclude un contratto per un uso connesso alla sua attività professionale si deve considerare che agisca su un livello di parità con la controparte», afferma la Corte, quand’anche il bene acquistato soddisfi anche esigenze di carattere privato, a meno che il nesso fra il contratto concluso e l’attività professionale del contraente risulti del tutto marginale e quindi trascurabile nel contesto della complessiva opera-

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zione (Corte di giustizia CE nel caso BayWa, causa C-464/01 del 20-12005). L’indagine si appunta, dunque, ancora una volta, sulla causa (o finalità) di consumo che connota il contratto. La nostra dottrina raccoglie l’indicazione di una simile verifica, ma, riproponendo le argomentazioni in tema di (causa del) contratto misto (I, 9), suggerisce un uso più rigoroso del criterio della “prevalenza” della causa di consumo: al fine di collocare il contratto fuori dalla disciplina di protezione del consumatore non dovrebbe bastare un nesso con l’attività professionale poco meno che trascurabile, come suggerisce la Corte di giustizia, ma, semmai, che la componente di consumo privato non sia prevalente. La citata dir. 2011/83/UE fa riferimento al contratto con scopo misto, ma solo nel Considerando 17, mentre nessuna regola al riguardo segue nel corpo normativo (né nel nostro d.lgs. 21-2-2014, n. 21, di recepimento). Il principio qui enunciato, pur richiamando per implicito l’orientamento espresso dalla Corte di giustizia nella pronuncia sopra citata – lo scopo professionale, per non escludere l’applicazione delle regole speciali dei contratti di consumo, dovrà essere del tutto trascurabile – sembra in realtà riproporre il più consueto criterio dello scopo (o causa) prevalente. «Nel caso di contratti con duplice scopo», recita il Considerando 17, «qualora il contratto sia concluso per fini che parzialmente rientrano nel quadro delle attività commerciali della persona e parzialmente ne restano al di fuori e lo scopo commerciale sia talmente limitato da non risultare predominante nel contesto generale del contratto, la persona in questione dovrebbe altresì essere considerata un consumatore» (corsivo nostro). Concludendo, quando si parla di consumatore (e di professionista) occorre sempre avere presente che il diritto europeo ha optato decisamente per un approccio oggettivo, che guarda esclusivamente alla finalità per cui il contratto è stipulato e il collocarsi di questa al di fuori dell’ambito della eventuale attività economica svolta dal contraente; e per questo ha adottato precise nozioni, che dettano i requisiti sulla cui base soltanto potranno identificarsi consumatore e professionista. È al testo della norma dunque che dovrà farsi riferimento, non risultando praticabili interpretazioni estensive. Così la Corte di giustizia afferma «Risulta quindi in modo chiaro dal testo dell’art. 2 della direttiva che

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una persona diversa da una persona fisica, che stipula un contratto con un professionista, non può essere considerata consumatore ai sensi di detta disposizione. Di conseguenza, occorre risolvere la seconda e la terza questione dichiarando che la nozione di “consumatore”, come definita dall’art. 2, lett. b), della direttiva, dev’essere interpretata nel senso che si riferisce esclusivamente alle persone fisiche». (Corte giust. 22-11-2001, cause riunite C-541/99 e 542/99, Idealservice s.r.l.) La nostra S.C. esclude interpretazioni estensive della nozione di consumatore e la Corte costituzionale, dal canto suo, ha ritenuto inammissibile la questione di costituzionalità sollevata in merito alla nozione di consumatore accolta nell’allora vigente art. 1469-bis c.c. e oggi art. 33, cod. cons. con riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui esclude che possa considerarsi consumatore anche il piccolo commerciante o artigiano. «La preferenza nell’accordare particolare protezione a coloro che agiscono in modo occasionale, saltuario e non professionale si dimostra non irragionevole allorché si consideri che la finalità della norma è proprio quella di tutelare i soggetti che secondo l’id quod plerumque accidit sono presumibilmente privi della necessaria competenza per negoziare; onde la logica conseguenza dell’esclusione dalla disciplina in esame di categorie di soggetti – quali quelle dei professionisti, dei piccoli imprenditori, degli artigiani – che proprio per l’attività abitualmente svolta hanno cognizioni idonee per contrattare su un piano di parità. Una diversa scelta presupporrebbe logicamente che il piccolo imprenditore e l’artigiano, così come il professionista, siano sempre soggetti deboli anche quando contrattano a scopo di lucro in funzione della attività imprenditoriale o artigianale da essi svolta; il che contrasterebbe con lo spirito della direttiva e della conseguente normativa di attuazione». (Corte cost. 22-11-2002, n. 469) È semmai lo stesso legislatore, quando lo ritiene in ragione della ratio delle regole dettate, ad ampliare la platea dei loro destinatari: così accade, ma fuori dalla disciplina del contratto, nell’art. 19 cod.cons, dove, dopo

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la modifica apportata dal d.l. 24-1-2012, n. 1 (convertito nella l. 24-32012, n. 27), l’ambito di applicazione delle norme volte ad intercettare e sanzionare le pratiche commerciali scorrette (IV, II, 18) viene ampliato, includendo, oltre alle pratiche tra professionisti e consumatori, anche quelle tra professionisti e microimprese, cioè imprese che esercitano un’attività economica occupando meno di dieci persone e realizzando un fatturato annuo non superiore a due milioni di euro. Vedremo poi le classificazioni dei clienti nel settore bancario e finanziario, ove la platea dei destinatari di regole “di protezione” si allarga al di là della figura del consumatore come definito nell’art. 3 cod. cons. Come già evidenziato, l’impostazione generale del diritto dei contratti proveniente dalle norme dell’Unione europea, tenuto conto delle discipline fin qui emanate, sembra focalizzarsi sui contratti c.d. business to consumer, vale a dire quelli in cui l’iniziativa o comunque la sollecitazione al contratto provengono dal professionista il quale offre sul mercato beni o servizi al consumatore: le fattispecie regolate nelle direttive europee configurano l’incontro sul mercato tra professionista e consumatore secondo un modello che vede sempre il primo nelle vesti di fornitore o prestatore di servizi ed il secondo di fruitore, e non l’inverso. Esempio classico: la persona fisica che vende la propria auto personale ad un rivenditore, magari con contratto a distanza, sarà garantito come nel caso di contratto a parti invertite? Le discipline fin qui emanate – malgrado se ne discuta a livello europeo e vi siano stati tentativi poi abbandonati di introdurre alcune regole al riguardo (vedi Proposta di direttiva sui diritti dei consumatori nel testo originariamente presentato) – non si applicano ai c.d. contratti consumer to business, in cui sia cioè la persona fisica, che contrae per scopi estranei ad attività d’impresa, a offrire beni o servizi al professionista: si pensi alla vendita di un bene mobile ad una casa d’aste. Il nostro ordinamento, non discostandosi dalle indicazioni provenienti dal diritto europeo, non prende in considerazione (a differenza di quanto avviene altrove, ad esempio nel diritto anglosassone) tali contratti. All’interno delle singole discipline il “professionista”, senza perdere i connotati che lo identificano secondo la nozione generale, assume denominazioni diverse, legate alla specifica operazione economica mediata dal contratto e all’attività imprenditoriale entro cui il contratto si inserisce: troveremo così il fornitore di servizi finanziari (art. 67 ter, lett. c), cod. cons.); l’organizzatore di viaggio e l’intermediario, nell’art. 33 cod.

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tur.; la banca, nei contratti di cui all’art. 117 t..u.b.; il finanziatore e l’intermediario del credito nei contratti di credito ai consumatori – artt. 120 quinquies, lett. e) e g) e 121, lett. f) e h), t.u.b. Ferma restando la fedeltà al modello delineato nella nozione generale, i criteri di identificazione del “consumatore”, o meglio del partner del professionista, invece, si specificano e si adattano alla particolarità della relazione contrattuale. Si delineano così le diverse figure che qui di seguito dobbiamo prendere in considerazione.

3. Consumatore e utente. Fornitura di beni da parte di prestatori pubblici e utenza di servizi pubblici L’art. 3 del nostro codice del consumo sancisce una equiparazione (ex lege) tra consumatore e utente (vedi lett. a), riferendo ad entrambe le figure la definizione di «persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale, o professionale eventualmente svolta». Inoltre, prevede espressamente peculiari garanzie in favore dell’utente. Nell’art. 2, co. 2, lett. g) si riconosce ai consumatori e agli utenti il diritto fondamentale «all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza». L’art. 101 (contenuto nel titolo V del codice del consumo, dedicato alla “erogazione di servizi pubblici”) demanda allo Stato ed alle Regioni, nell’ambito delle rispettive competenze, il compito di garantire «i diritti degli utenti dei servizi pubblici attraverso la concreta e corretta attuazione dei principi e dei criteri previsti dalla normativa vigente in materia». Tale garanzia ricomprende: il rispetto di «standard di qualità predeterminati e adeguatamente resi pubblici» (co. 2); la possibilità, per l’utente, di partecipare alle «procedure di definizione e valutazione degli standard di qualità» (co. 2); l’obbligo, «per determinati erogatori di servizi pubblici, di adottare carte dei servizi» (co. 4). Ora, a seguito del recepimento della dir. 2011/83 sui diritti dei consumatori, l’assimilazione tra consumatore e utente, o meglio la riconduzione ex lege della figura dell’utente entro la definizione di consumatore, appare ancor più chiara ed è sancita nell’art. 46 cod. cons., secondo cui «le disposizioni delle Sezioni da I a IV del presente Capo» – vale a dire le norme dettate per tutti i contratti in materia di informazioni precontrattuali e quelle in materia di informazioni precontrattuali e di di-

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ritto di recesso per i contratti a distanza e negoziati fuori dei locali commerciali – «si applicano a qualsiasi contratto concluso tra un professionista e un consumatore inclusi i contratti per la fornitura di acqua, gas, elettricità o teleriscaldamento anche da parte di prestatori pubblici, nella misura in cui detti prodotti di base sono forniti su base contrattuale». Sulle implicazioni (e i limiti) del riconoscimento dei diritti dell’utente, purché ne sia fonte un contratto, di particolare interesse e sempre attuali appaiono però le puntuali considerazioni svolte dalla nostra Corte di cassazione a proposito del rapporto tra il cittadino-utente e il servizio sanitario pubblico: «In relazione al rapporto fra il cittadino ed il servizio sanitario nazionale (disciplinato in generale dalla L. n. 833 del 1978) in funzione della fruizione di una prestazione sanitaria, in ipotesi ospedaliera, in totale esenzione od anche previo pagamento del c.d. ticket, certamente al cittadino-utente si attaglia la definizione di “utente”, di cui alla lettera a) dell’art. 3. Alla struttura ospedaliera facente capo ai S.S.N., posto che il detto servizio si articola sia attraverso strutture direttamente gestite dalla mano pubblica (e, quindi, da organismi di diritto pubblico, come l’azienda qui resistente), sia attraverso strutture gestite da privati che abbiano ricevuto l’autorizzazione a svolgere il servizio in convenzione, v’è da chiedersi se possa attagliarsi la definizione di “professionista”, di cui all’art. 3, lett. e). La risposta all’interrogativo parrebbe certa nel caso delle seconde, perché esse, sulla base della convenzione, agiscono come soggetti imprenditoriali (che, cioè, perseguono un proprio utile), mentre è dubitativa riguardo alle prime. Anche se l’interprete subisce certamente la suggestione della configurabilità dell’attività delle strutture di mano pubblica pur sempre come attività “professionale”, il che potrebbe giustificare che esse siano comprese nella definizione di “professionista”. La questione all’esame, dunque, non pare poter essere risolta sulla base delle definizioni offerte dall’art. 3, che non sono decisive. Venendo alla disciplina specifica del c.d. foro del consumatore di cui all’art. 33, comma 2, lett. u), una volta ipotizzato (come consente l’equivocità del dato dell’art. 3) che nell’uno e nell’altro caso ricorra la figura del professionista, l’interprete si imbatte in un dato che induce decisamente ad escludere che alla controversia, introdotta dal cittadino-utente (che si sia rivolto alla struttura pubblica o a una struttura convenzionata), per ottenere il risar-

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cimento dei danni sofferti in conseguenza dell’inesecuzione o del non corretto adempimento della prestazione richiesta possa applicarsi la norma de qua. Il dato che viene in rilievo è che, perché la norma della lettera u), citata sopra si applichi, è necessario un presupposto. Lo fanno manifesto sia l’intitolazione del titolo primo della parte terza (intitolata al Rapporto di consumo), che è “Dei contratti del consumatore in generale”, sia la stessa rubrica “Clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore”. Questo presupposto è rappresentato dal “contratto” fra professionista e consumatore. Ebbene, poiché il rapporto fra il cittadino-utente che si rivolga alla struttura sanitaria pubblica per ottenere una prestazione, se del caso ospedaliera, o ad una struttura convenzionata in totale esenzione o previo pagamento di ticket non si può qualificare come contratto, trattandosi soltanto dell’adempimento di un dovere di prestazione direttamente discendente dalla legge, automaticamente attivato dalla richiesta del cittadino-utente, manca il presupposto per l’applicabilità della lett. u). Questa sembra essere la ragione determinante dell’esclusione di tale applicabilità. Mancando il contratto non si può giustificare l’applicazione del foro del consumatore, che il contratto presuppone. Il cittadino che chiede una prestazione in esenzione o con ticket al Servizio Sanitario Nazionale esercita in sostanza un diritto soggettivo pubblico riconosciutogli direttamente dalla legge e che la legge stessa prevede debba essere soddisfatto a richiesta dall’organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale o direttamente o attraverso le strutture in convenzione, imponendo essa stessa la relativa prestazione. Il rapporto che si instaura con la struttura sanitaria pubblica o convenzionata rappresenta l’attuazione (che ha titolo direttamente nella legge) di questo obbligo di prestazione e non suppone la stipula, nemmeno tacita, di un contratto. In altri termini, quando il cittadino-utente si rivolge alla struttura sanitaria pubblica o in convenzione, la ricezione della sua richiesta e la conseguente attivazione della struttura non danno luogo alla conclusione, nemmeno per fatto concludente, di un contratto, ma realizzano soltanto l’attuazione dell’obbligazione della mano pubblica di fornire il servizio. Tale attuazione non avviene mediante la riconduzione del rapporto allo schema del contratto, del quale non solo non vi sono i presupposti giustificativi a livello normativo (atteso che non si prevede alcunché che sia in qualche modo riconducibile alla figura della stipulazione di un accordo contrattuale), ma neppure vi sono i presupposti fattuali che potrebbero comunque fare emergere la figura del contratto, nei contorni seppure sfumati che essa ha nel momento storico attuale. Si potrebbe pensare

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che tali presupposti sussistano sub specie della figura dell’obbligo a contrarre, ma si tratterebbe di prospettiva erronea, perché ciò che la legge direttamente impone non è qui l’obbligo di contrattare, bensì una prestazione, che è l’oggetto del diritto soggettivo del cittadino-utente. In proposito è a questo punto necessaria una precisazione. La conclusione che nega la ricorrenza del contratto non è in alcun modo confliggente con la comune ed ormai acquisita qualificazione come contrattuale della responsabilità della struttura ospedaliera anche pubblica, evocata con insistenza dalla parte istante, e presente da tempo nella giurisprudenza della Corte. Tale affermazione, infatti, non sottende (vedi, peraltro, a quel che consta, Cass. n. 8826 del 2007, in diverso senso) che quando ci si rivolge alla struttura del Servizio Sanitario nazionale o ad una struttura convenzionata si stipuli un contratto, ma vuole significare che la cattiva esecuzione della prestazione da luogo a responsabilità contrattuale nel senso di responsabilità nascente dall’inadempimento di un obbligo preesistente o dalla sua cattiva esecuzione e non nel senso di responsabilità per inadempimento di un contratto o per la sua cattiva esecuzione. Il concetto di responsabilità contrattuale, cioè, viene usato nel senso non già di responsabilità che suppone un contratto, ma nel senso – comune alla dottrina in contrapposizione all’obbligazione da illecito extracontrattuale – di responsabilità che nasce dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente, che nella specie sta a carico della struttura del Servizio Sanitario Nazionale. La lettura delle motivazioni, anche al di là di quanto sembra talvolta suggeriscano le massime, evidenzia che la Corte (salvo appunto la sentenza sopra citata) non ha qualificato il rapporto che sorge dall’accettazione della richiesta da parte della struttura sanitaria del Servizio Sanitario nazionale, direttamente operante o operante in convenzione, come contratto, ma si è sempre soffermata sulla natura della responsabilità, ricorrendo alla figura della responsabilità contrattuale nei sensi indicati. L’art. 33, comma 2, lett. u), appare, dunque, nella specie inapplicabile». (Cass. 2-4-2009, n. 8093)

4. Il turista Il nostro legislatore ha ritenuto di porre mano ad un riordino della disciplina del mercato del turismo, adottando, in attuazione della l. delega 28-11-2005, n. 246, il “Codice della normativa statale in tema di

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ordinamento e mercato del turismo”, quale allegato (1) al d.lgs. 23-52011, n. 79. Con tale decreto legislativo, la dir. 2008/122/CE relativa ai contratti di multiproprietà, contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine, contratti di rivendita e di scambio – che, come abbiamo visto ha apportato importanti modifiche ai fini della individuazione dei contratti di “multiproprietà” e di vendita di “pacchetti turistici” – è stata recepita in parte (con riferimento ai contratti di “multiproprietà”) attraverso la modifica degli artt. 69-81 cod. cons., e in parte (con riferimento ai “servizi turistici”), attraverso l’abrogazione degli artt. 82-100 cod. cons. e l’adozione di una nuova disciplina contenuta ora nel capo I del titolo VI del “Codice del turismo”. Separata dalla cornice del codice del consumo, la nuova disciplina ha dovuto prendere le mosse, come di consueto, da una norma generale contenente le “definizioni”. Tornando ad identificare le parti del contratto, l’art. 33 cod. tur. sostanzialmente ripropone, solo affinandola, la definizione di “organizzatore del viaggio” (si confronti infatti il tenore dell’art. 33, co. 1, lett. a), cod. tur. con quello dell’abrogato art. 83 n. 1 cod. cons.) al fine di farvi rientrare anche il c.d. contratto tailor made, nel quale è il fruitore che realizza autonomamente e acquista la combinazione dei servizi offerti; mentre ha modificato – vedremo quanto significativamente – la nozione di “venditore”, ora definito quale “intermediario” e mutato la denominazione di “consumatore” in quella di “turista”. Intermediario, recita la lett. b) dell’art. 33, è il «soggetto che, anche non professionalmente e senza scopo di lucro, vende o si obbliga a procurare a terzi pacchetti turistici realizzati ai sensi dell’art. 34 verso un corrispettivo forfettario o singoli servizi disaggregati». La novità, che abbiamo evidenziato con il nostro corsivo, chiarisce che può essere considerato venditore (rectius, intermediario) di un pacchetto turistico anche l’ente non profit che si assuma la responsabilità della messa a disposizione del pacchetto turistico; ma anche chi acquista pacchetti turistici tramite internet, allorché quindi l’“intermediario” può non essere un operatore che svolge l’attività relativa ai pacchetti turistici come attività professionale principale, ma si limita a una messa in contatto dell’organizzatore con il turista. Nella nuova norma, come detto, la parte destinataria dei servizi acquistati viene identificata come turista invece che consumatore (come ai sensi della lett. c) comma 1 dell’abrogato art. 83 cod. cons.) La defini-

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zione, tuttavia, non cambia: turista, secondo la definizione di cui ora alla lett. c), co. 1 dell’art. 33 cod. tur., è sempre «l’acquirente, il cessionario di un pacchetto turistico o qualunque persona anche da nominare, purché soddisfi tutte le condizioni richieste per la fruizione del servizio, per conto della quale il contraente principale si impegna ad acquistare senza remunerazione un pacchetto turistico». Si è prospettata in dottrina l’opinione secondo cui la novità sarebbe indice del superamento dei presupposti che identificano la figura del consumatore: la denominazione di turista, si è detto, testimonierebbe qui l’irrilevanza della qualità di persona fisica e del requisito della finalità di acquisto per scopi non professionali. La conclusione appare in verità poco convincente, non foss’altro che per la perfetta identità della (vecchia e nuova) nozione, prima riferita al consumatore ed ora al turista. La lettura che si vorrebbe prospettare sembra smentita dallo stesso tenore letterale della definizione che richiede, ai fini della identificazione della figura del turista (così come del consumatore nella norma abrogata), che il soggetto «soddisfi tutte le condizioni richieste per la fruizione del servizio». A fruire del servizio, o meglio dei servizi come descritti nell’art. 34 cod. tur., non potrebbe che essere una persona fisica; e d’altra parte, a soddisfare tutte le condizioni richieste per la fruizione del servizio non potrà che essere il diretto fruitore del medesimo e non chi intenda disporne per scopi inerenti all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale svolta, scopi che richiederebbero la successiva cessione onerosa del pacchetto o comunque la messa a disposizione di un soggetto diverso, quale fruitore finale (come nel caso dell’acquisto da parte di un “intermediario”). La relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo, poi versato nel d.lgs. n. 79/2011, corrobora una interpretazione che preservi la coerenza tra la nozione di turista e quella di consumatore, allorché, segnalato in generale che l’utilizzo di tale formula si è reso necessario per rendere più aderente la nozione di consumatore al contenuto del rapporto, così specificandola, aggiunge che tale nozione vale altresì a rendere inequivoca la scelta di assicurare solo al fruitore di pacchetti turistici (ai quali fa riferimento la definizione) e non anche al fruitore di singoli servizi disaggregati il diritto al risarcimento del danno da vacanza rovinata di cui all’art. 47 cod. tur. (VIII, 11). Questa puntualizzazione è particolarmente significativa poiché se-

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gnala la vera novità, in tema di contratti di consumo, introdotta con il codice del turismo. La nuova disciplina del contratto “di vendita di pacchetti turistici”, come lo denomina l’art. 35 del codice, esplicita, qualora ve ne fosse bisogno, che il fondamento della tutela, ed anche delle garanzie e diritti che si riferiscono alla fase che precede o accompagna la stipula del contratto, non risiede tanto nella posizione o qualità assunta dal soggetto contraente in quella fase, bensì nella finalità ultima cui il contratto è rivolto e dunque nella posizione o qualità del soggetto cui il bene, o in questo caso la combinazione di servizi, sono destinati. Considerazione che come vedremo tornerà assai utile quando affronteremo il problema della tutela del consumatore (o utente, o turista) che contratta tramite un suo rappresentante (infra, 14).

5. Il cliente al dettaglio e l’investitore non qualificato, persona fisica o giuridica L’adozione del termine “turista”, in luogo di quello di “consumatore”, si legge nella relazione illustrativa al codice del turismo, intende semmai evidenziare la scelta del legislatore di assegnare al codice del consumo il rango di disciplina generale, facendo salva tuttavia la specificità dei subsettori, e dunque rispettando tale criterio di specialità per individuare la relazione tra consumatore in genere da un lato e cliente, investitore, assicurato, turista dall’altro, come del resto suggerito, a proposito di cliente o investitore, dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato nella sua relazione del 19-3-2010 (vedila in www.agcm.it, p. 2). Nel caso del turista, come si è detto, il termine è senz’altro più appropriato al rapporto tra fornitore e fruitore dei servizi turistici pur continuando a rinviare, a nostro avviso, ai connotati propri della figura del consumatore. Ma di una nozione di consumatore che si specifica a seconda della natura del rapporto che intercorre tra professionista e non professionista, e che per questo può anche tollerare alcune varianti, vi è ampia traccia nel nostro diritto interno. La disciplina in tema di “trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti”, di cui al titolo VI del t.u.b. (da ultimo modificato con d.lgs. 13-8-2010, n. 141) adotta il termine “cliente”: e cliente, come precisa la Banca d’Italia nelle disposizioni sulla “Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari. Correttezza delle relazio-

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ni tra intermediari e clienti” (da ultimo aggiornate il 30-9-2016), è «qualsiasi soggetto, persona fisica o giuridica, che ha in essere un rapporto contrattuale o che intenda entrare in relazione con l’intermediario». Le regole in tema di trasparenza – e in particolare sulla informazione precontrattuale, il contenuto e la forma del contratto, i limiti allo ius variandi della banca, cioè il diritto di modificare unilateralmente le condizioni nel corso del rapporto – tutelano pertanto soggetti che non si identificano con la nozione di consumatore, non rilevando a tal fine né che si tratti di persona giuridica (e non solo di persona fisica come nella nozione generale) né che il contratto con la banca sia concluso nell’ambito e per scopi inerenti l’attività professionale esercitata. Ad essere esclusi sono solo, ovviamente, le banche, le società finanziarie, gli istituti di pagamento, le imprese di investimento e le società da questi controllate, ovvero le società che appartengono allo stesso gruppo dell’intermediario o che esercitano il controllo su di esso. Solo al fine di individuare i destinatari di alcune disposizioni di maggior tutela, come specificate all’interno della normazione secondaria proveniente dalla Banca d’Italia, torna a prospettarsi una distinzione tra cliente e consumatore, figura, quest’ultima che viene qui ridefinita secondo una nozione più ampia di quella generale di cui al codice del consumo, ovvero tra clienti e clienti al dettaglio, questi ultimi identificati come «i consumatori; le persone fisiche che svolgono attività professionale o artigianale; gli enti senza finalità di lucro; le micro-imprese» (microimpresa è l’impresa che possiede i requisiti previsti dalla raccomandazione della Commissione Europea 2003/361/CE del 6-5-2003, cioè occupa meno di 10 dipendenti, realizza un fatturato annuo o, in alternativa, un totale attivo dello stato patrimoniale che non supera i 2 milioni di euro). Nel caso di prestazione di servizi ed attività di investimento, poi, se si esclude la disciplina sulla commercializzazione a distanza dei servizi finanziari contenuta negli artt. 67-bis ss. cod. cons., che è appunto riservata ai “consumatori” in senso stretto, le norme di protezione, sempre in materia di informazione precontrattuale, contenuti e forma del contratto, diritto di recesso, ecc., sono rivolte al cliente identificato – già nella dir. 2004/39/CE del 21-4-2004, c.d. “MiFID” (abbreviazione di Markets in Financial Instruments Directive), e poi nell’attuazione datane dalla Consob, con il regolamento intermediari (regolamento recante

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norme di attuazione del d.lgs. 24-2-1998, n. 58 in materia di intermediari adottato dalla Consob con delibera 29-10-2007, n. 16190 e successive modifiche) – come la persona non solo fisica ma anche giuridica cui vengono prestati servizi di investimento o accessori (lett. c) dell’art. 26, co. 1, regolamento intermediari), purché cliente al dettaglio, cioè diverso dal “cliente professionale”, inteso come chi è in possesso di esperienze, conoscenze e competenze tali da far ritenere che le decisioni di investimento che egli compie siano prese consapevolmente e che egli sia in grado di valutare correttamente i rischi che con esse assume (vedi All. n. 3, reg. Consob n. 16190/2007: in sintesi, si tratta di altri intermediari finanziari, grandi imprese e investitori istituzionali: lett. d) dell’art. 26, co. 1). Il reg. Consob n. 16190/2007 consente agli intermediari di graduare le regole di condotta in funzione della categoria di clientela nei confronti della quale la Banca presta il servizio di investimento, come individuati nell’art. 26 e nell’All. 3. Infatti, uno degli obiettivi primari della MiFID è quello di assicurare la tutela della clientela, adottando misure destinate a proteggere l’investitore in funzione delle specificità di ciascuna categoria o status ad esso attribuito e previsto dalla norma. Il regolamento distingue così i clienti professionali (“di diritto” o “su richiesta”) e le c.d. controparti qualificate, dagli altri clienti “al dettaglio”. Un cliente professionale, recita in apertura l’All. 3 al citato reg. Consob, è «un cliente che possiede l’esperienza, le conoscenze e la competenza necessarie per prendere consapevolmente le proprie decisioni in materia di investimenti e per valutare correttamente i rischi che assume». Sono clienti professionali (privati) di diritto ad esempio, le banche, le imprese di assicurazione, i soggetti autorizzati o regolamentati per operare nei mercati finanziari sia italiani che esteri; le imprese di grandi dimensioni individuate in relazione ai dati di bilancio: gli investitori istituzionali la cui attività principale è costituita dall’investimento in strumenti finanziari, ecc.; altri soggetti possono invece richiedere tale classificazione (clienti professionali “su richiesta”), a seguito di una valutazione di carattere sostanziale, operata con riferimento alle caratteristiche del cliente e alla sua idoneità ad essere inserito tra i “clienti professionali”. Compete alla Consob, sentita la Banca d’Italia, l’individuazione di clienti professionali privati (“di diritto” e “su richiesta”); compete al Ministero Economia e Finanze l’individuazione dei clienti professionali pubblici (“di diritto” e “su richiesta”). Sono definite “contro-

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parti qualificate” i clienti professionali che, al fine di ricevere taluni servizi, chiedano tale classificazione accettandone la minore tutela, fra gli altri, le imprese di investimento, le banche, le imprese di assicurazioni, i fondi pensione, le imprese la cui attività principale consista nel negoziare per conto proprio merci e strumenti finanziari derivati su merci; le imprese la cui attività esclusiva consista nel negoziare per conto proprio nei mercati strumenti finanziari derivati. I clienti al dettaglio (e dunque, potremmo dire, gli investitori/risparmiatori non professionali) vengono individuati mediante un approccio di tipo residuale, in quanto sono rappresentati da tutti coloro che non sono clienti professionali, né controparti qualificate (art. 26, co. 1, lett. e) del regolamento citato, “cliente al dettaglio”: il cliente che non sia cliente professionale o controparte qualificata); ad essi si applica il regime ordinario di tutela stabilito dagli artt. 19 ss. della MiFID. La novità rispetto alla nozione generale di consumatore è che qui non rileva la distinzione tra persona fisica e persona giuridica. Lo scopo “di consumo” è qui soddisfatto nella veste più acconcia all’operazione: l’investimento potrà ben essere effettuato per realizzare il miglior rendimento delle risorse finanziarie dell’impresa dell’investitore, ma non dovrà essere operazione che si inserisca tra quelle proprie dell’attività d’impresa svolta, come nel caso delle imprese di investimento e di negoziazione di prodotti finanziari. In modo sostanzialmente analogo avviene l’identificazione delle diverse figure di investitori, quando l’investimento non si inquadra nell’ambito di una concreta relazione contrattuale con la banca (nell’ambito di un contratto per la prestazione di servizi di investimento, di cui sopra), ma il risparmiatore/investitore viene sollecitato da una offerta sul mercato. Chi acquista prodotti finanziari immessi sul mercato tramite offerta al pubblico (IV, II, 6), beneficerà di particolari norme di tutela, che prevedono garanzie e diritti, purché non sia “investitore qualificato”: l’art. 100 t.u. sulla finanza, e poi 34-ter, co. 1, lett. b), del reg. Consob n. 11971/1999, modificato con delibera 17-7-2013, n. 18612 (per cui v. ora il testo adottato con delibera 8-1-2015, n. 19094), prevedono infatti la non applicabilità della disciplina sull’offerta al pubblico – contenuta nel capo I del titolo II della parte IV del t.u.f. e nel titolo I della parte II del reg. Consob n. 11971/1999 – alle offerte rivolte agli investitori qualificati, intendendosi per operatori qualificati, di nuovo, quelli individuati nella delibera Consob n. 16190/2007, vale a dire gli

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intermediari autorizzati, le società di gestione del risparmio, le SICAV, i fondi pensione, le compagnie di assicurazione, i soggetti esteri che svolgono in forza della normativa in vigore nel proprio Stato d’origine le attività svolte dai soggetti di cui sopra, le società e gli enti emittenti strumenti finanziari negoziati in mercati regolamentati, le società iscritte negli elenchi di cui agli artt. 106, 107 e 113 del d.lgs. 1-9-1993, n. 385, i promotori finanziari, le persone fisiche che documentino il possesso dei requisiti di professionalità stabiliti dal testo unico per i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso società di intermediazione mobiliare, le fondazioni bancarie, nonché ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentante. Si delinea qui, ancora una volta per esclusione, la figura dell’investitore non qualificato, entro la quale la figura del consumatore si specifica in relazione al contenuto del rapporto di cui è parte e si differenzia da quella generale, essenzialmente, per la riferibilità anche a persone giuridiche. Torna invece a rilevare una figura di “risparmiatore/consumatore”, cioè di “acquirente” di prodotti finanziari persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale, nell’art. 100bis, co. 3, t.u.f.: il cui contratto di acquisto di prodotti finanziari sarà nullo se non accompagnato da un prospetto informativo, anche qualora egli non acquisti sulla base di una offerta al pubblico, ma si tratti di titoli acquistati nei dodici mesi precedenti da investitori professionali e poi rivenduti (IV, II, 29).

6. L’acquirente di immobili da costruire destinati ad abitazione Le tecniche di protezione del contraente ritenuto più debole nel quadro della particolare finalità del contratto, consolidatesi nel diritto europeo, hanno manifestato nel tempo, come più volte ricordato, una decisa capacità espansiva, rivelandosi idonee ad applicazioni interessanti anche fuori dall’ambito dei contratti di consumo e dunque capaci di attingere ad una portata generale. A conferma di ciò merita ai nostri fini di segnalare come il nostro legislatore abbia sostanzialmente assimilato, almeno ad alcuni fini, al consumatore la persona fisica che stipuli un preliminare o un contratto definitivo di acquisto di immobile da co-

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struire o altro contratto che comporti comunque l’acquisto o il trasferimento non immediato, per sé o per un proprio parente in primo grado della proprietà o della titolarità di un diritto reale di godimento su un immobile da costruire (o anche chi lo stesso fine raggiunga quale socio di cooperativa edilizia). Con una tecnica in tutto analoga a quella propria degli interventi del diritto europeo, la normativa interna qui citata – vale a dire il d.lgs. 20-6-2005, n. 122 – non prende in considerazione un (solo) tipo contrattuale (es. compravendita), ma si appunta su contenuti ed effetti di una operazione che può avere titolo in differenti schemi contrattuali e, impregiudicata la disciplina del contratto di volta in volta in questione, vi introduce alcune regole di tutela (del soggetto ritenuto debole, in questo caso l’acquirente persona fisica) chiaramente importate dal diritto europeo (dei consumatori). Così è per la regola di trasparenza di cui all’art. 6, ove si prevedono analiticamente le indicazioni che il contratto deve contenere; così è per l’uso del rimedio della nullità (dell’intero contratto), modulata all’art. 2 come nullità “di protezione” (VII, 9), non solo perché nullità che può essere invocata solo dall’acquirente, ma perché nullità a presidio dell’adempimento di un obbligo a carico del costruttore, di rilascio e consegna, all’atto della stipula, di una fideiussione di importo corrispondente alle somme che il costruttore ha riscosso o dovrà riscuotere prima del trasferimento del diritto.

7. La c.d. impresa debole e la microimpresa Pur non potendosi a nostro avviso ritenere (come sopra chiarito) che vi siano allo stato indici significativi della presenza, nel nostro diritto di derivazione europea, di una disciplina speciale riferita alla categoria dei contratti tra imprese di diverso potere contrattuale (il c.d. terzo contratto, contratto dell’impresa debole) non v’è dubbio che le discipline già sopra richiamate – in tema di subfornitura e di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (III, 10 e 11) – segnalano la rilevanza che a particolari fini riveste la natura di impresa debole, in determinati settori di mercato, di una parte contraente. Anche a questo riguardo giova ribadire che a venire in rilievo, reclamando e giustificando regole di protezione, non è in sé la qualità della parte ma la posizione con la quale essa si pone in relazione a quel partner e nell’ambito di quella operazione economica.

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All’interno di discipline a carattere generale ma rivolte alla protezione dei consumatori nei confronti dei professionisti, anche fuori e solo in vista di futuri contratti – come la disciplina delle pratiche commerciali sleali di cui diremo – ma anche entro discipline settoriali come quella dei contratti banca-cliente, si profila l’assimilazione, quali soggetti meritevoli di protezione, tra consumatori e microimprese. L’art. 19 cod. cons., delimitando l’ambito di applicazione della relativa disciplina, fa riferimento alle pratiche commerciali scorrette (IV, II, 18) non solo tra professionisti e consumatori, ma altresì tra professionisti e microimprese. Al fine di individuare i destinatari di alcune disposizioni di maggior tutela nei contratti banca/cliente, come specificate all’interno della normazione secondaria proveniente dalla Banca d’Italia, si profila, come già detto, una distinzione, oltre che tra cliente e consumatore, definito secondo la nozione generale di cui al codice del consumo, anche tra clienti e clienti al dettaglio, definizione che include «i consumatori; le persone fisiche che svolgono attività professionale o artigianale; gli enti senza finalità di lucro; le micro-imprese». In entrambi i casi il riferimento è alla microimpresa come definita a livello europeo: l’impresa che possiede i requisiti previsti dalla raccomandazione della Commissione Europea 2003/361/CE del 6-5-2003, cioè occupa meno di 10 dipendenti, realizza un fatturato annuo o, in alternativa, un totale attivo dello stato patrimoniale che non supera i 2 milioni di euro.

8. I contratti della Pubblica Amministrazione La circostanza che una parte contraente sia la Pubblica Amministrazione (o un ente pubblico) – e salve le norme che disciplinano la fase di determinazione della scelta di contrarre e di scelta del contraente con procedure c.d. ad evidenza pubblica, siano esse asta pubblica, licitazione privata, trattativa privata, appalto concorso, ecc. – non comporta di per sé la sottrazione del contratto alla disciplina generale, che costituisce da questo punto di vista diritto comune ai soggetti pubblici e privati: «la Pubblica Amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente», recita l’art. 1, co. 1-bis, l. n. 241/1990 (introdotto dalla l. n. 15/2005). Ma ciò, appunto, quando la Pubblica Ammini-

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strazione agisce sullo stesso piano di un soggetto privato (iure privatorum). Negli altri casi, quando trattasi di contratti ad oggetto pubblico o accessori o sostituti di un provvedimento amministrativo (esempio concessione dell’uso di un bene demaniale, espropriazione, ecc.) il regime dell’atto dell’amministrazione sarà squisitamente pubblicistico ed anche la disciplina di aspetti propri della attuazione della relazione contrattuale (es. inadempimento) saranno governati da regole speciali. Il d.lgs. 124-2006, n. 163 (codice dei contratti pubblici in attuazione delle dirr. 2004/17/ CE e 2004/18/CE), riguarda, appunto, i contratti pubblici, cioè «i contratti d’appalto o di concessione aventi per oggetto l’acquisizione di servizi, o di forniture, ovvero l’esecuzione di opere o lavori, posti in essere dalle stazioni appaltanti, dagli enti aggiudicatori, dai soggetti aggiudicatori», secondo la definizione dell’art. 3, co. 3; contratti sottoposti ad una disciplina speciale di stampo pubblicistico, dove troviamo ad esempio regole speciali anche per l’inadempimento causa di risoluzione, il recesso della Pubblica Amministrazione in autotutela, ecc., oltre che l’analitica disciplina delle procedure di appalto pubblico. La giurisprudenza è ormai pacificamente orientata nel ritenere che la Pubblica Amministrazione, quando agisce in posizione di parità con i privati e stipula cioè contratti di diritto comune, non sia sottratta alle regole e dunque agli obblighi previsti a carico di ciascun privato: anche ad esempio, pur con gli adattamenti derivanti dalle procedure di tipo pubblicistico che precedono la stipula del contratto, gli obblighi che danno luogo a responsabilità precontrattuale. La ricordata disciplina su i termini di pagamento nelle transazioni commerciali, dopo una prima fase di incerta interpretazione, nella formulazione rivista in sede di emanazione della seconda direttiva (2011/7), include ora esplicitamente fra i propri destinatari la Pubblica Amministrazione, sottoposta dunque al medesimo trattamento degli imprenditori privati. Abbiamo visto sopra come, in principio, la nozione di professionista, adottata ai fini dell’applicazione della disciplina dei contratti di consumo non esclude il soggetto pubblico: ai fini dell’applicazione delle norme a tutela del consumatore, oltre alle disposizioni generali in tema di erogazione di servizi pubblici contenute nel codice del consumo e sopra richiamate, decisivo è ora l’espresso riferimento di carattere generale contenuto nell’art. 46 cod. cons. che tra i contratti inclusi nell’ambito di applicazione della disciplina dei contratti di consumo menziona i contratti per la fornitura di acqua, gas, elettricità o teleriscaldamento anche

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da parte di prestatori pubblici, nella misura in cui detti prodotti di base sono forniti su base contrattuale. In forza di risalenti disposizioni, (r.d. 18-11-1923, n. 2440. artt. 16, 17, 18) la cui piena e generale applicabilità viene ribadita dalla S.C., tutti i contratti stipulati dalla Pubblica Amministrazione, anche quando quest’ultima agisce iure privatorum, richiedono la forma scritta ad substantiam (IV, V, 1).

9. Il contratto con più di due parti con scopo comune Il contratto rimane perfettamente aderente alla nozione di cui all’art. 1321 – e sottoposto pertanto alle regole generali che stiamo esaminando – anche quando le parti siano più di due. La presenza di più di due parti contraenti è presa in considerazione già nell’art. 1321 c.c., è dunque insita nella stessa nozione di contratto, conseguentemente comportando la piena applicazione, anche in questo caso, della disciplina generale. Il contratto plurilaterale è caratterizzato dalla presenza di più parti, vale a dire, come abbiamo più volte ricordato, da più centri di interesse e di imputazione degli effetti del contratto: e dunque, ferma l’applicazione della disciplina generale, talune regole dovranno adattarsi alla fattispecie, specie quando si tratti di decidere sulla sopravvivenza o meno del contratto in presenza di cause di invalidità che riguardino una sola parte ovvero di un rapporto contrattuale non eseguito o non eseguibile da una delle molteplici parti. La legge segue un medesimo criterio che è quello della essenzialità o meno della partecipazione della parte al contratto. Così la nullità che colpisce il vincolo di una sola delle parti non importa la nullità del contratto «salvo che la partecipazione di essa debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale» (art. 1420); e lo stesso è previsto per l’annullabilità dall’art. 1446. L’art. 1459, seguendo lo stesso criterio, si occupa delle conseguenze, nel contratto plurilaterale, qualora una parte si renda inadempiente; e l’art. 1466 risolve allo stesso modo il problema della sopravvivenza del contratto ove divenga impossibile la prestazione di una parte. Le norme appena citate fanno tutte riferimento all’ambito di applicazione delimitato dall’art. 1420 e che ha riguardo ai contratti con più di due parti «in cui le prestazioni di ciascuna sono dirette al consegui-

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mento di uno scopo comune». Dunque l’ordinamento sembra identificare i contratti plurilaterali con i contratti con comunione di scopo. Quando si parla di contratto con più parti rivolto ad uno scopo comune si pensa immediatamente alla categoria più rappresentativa, vale a dire quella dei contratti associativi, ove più parti intendono svolgere insieme – dando vita ad una struttura comune più o meno complessa – una attività, che può avere finalità ricreativa e comunque non di lucro (associazione culturale, sportiva, di beneficenza) o anche di lucro (esercizio di una attività d’impresa). Ma, in generale, la presenza di più parti anche fuori di questi casi – si pensi alla transazione con cui più coeredi mettano fine o prevengano un conflitto redistribuendosi l’asse ereditario – fa sì che la posizione di una parte non può dirsi contrapposta a quella delle altre o di alcune di esse come è invece nei contratti bilaterali (non associativi; non sono ovviamente contrapposte le parti di una società con due soci) in cui viene regolato uno scambio e comunque posizioni “dirimpettaie”.

10. Identificazione della parte, intermediazione e sostituzione nel contratto La nozione di contratto, e, specularmente, il principio di relatività degli effetti di cui all’art. 1372 c.c., rimandano alla fattispecie consueta – e potremmo dire all’ipotesi “normale” – nella quale il vincolo nascente dal contratto e comunque le conseguenze patrimoniali da questo prodotte interessano la sfera giuridica dei soggetti che hanno dato vita all’accordo: dall’accordo delle parti, sancisce l’art. 1321 c.c., discendono conseguenze, in termini di nascita, regolamentazione, estinzione di un rapporto giuridico patrimoniale, “tra loro”, cioè tra le medesime parti dell’accordo, anche perché – fa eco l’art. 1372 – il contratto non produce effetto rispetto ai terzi, intendendosi per terzi quanti non ne siano parte. La S.C. ribadisce che «Salve ipotesi particolari appositamente disciplinate, le parti sostanziali del contratto devono essere determinate o determinabili, al momento della conclusione del contratto; cioè, in tale momento, deve essere possibile l’identificazione del soggetto che sarà parte sostanziale del rapporto. L’identificazione presuppone che sia conosciuta (o ... conoscibile) l’identità

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giuridica del soggetto contraente sostanziale. Di norma, questo soggetto è anche l’autore formale del contratto, cioè colui che emette la dichiarazione contrattuale, il quale si identifica nel momento in cui la rende. Nei contratti formali, ed in specie quelli stipulati per atto pubblico, l’identificazione dei contraenti, cioè l’accertamento della loro identità, è fatta necessariamente in atto, da parte del pubblico ufficiale rogante. Tuttavia, nei contratti per i quali non vi è onere di forma, può darsi che il contraente non sia identificato al momento della stipulazione del contratto, ma sia identificabile, anche in un momento successivo». (Cass. 14-2-2014, n. 3433) Un problema di identificazione della parte contraente può porsi anche nel caso, in verità non molto frequente, in cui nella stipula del contratto entri in scena un (semplice) “portavoce”, cioè la figura del nuncius. «La figura del nuncius prescinde dall’esistenza di un qualsiasi potere di rappresentanza, limitandosi egli a trasmettere una dichiarazione altrui, già completa nei suoi elementi, cosicché è necessario solo che egli sia in grado di riferire quella dichiarazione e non anche che egli rappresenti alcuna delle parti interessate ... Nel caso in cui la dichiarazione contrattuale non sia resa personalmente, ma venga comunicata per il tramite di un nuncio rileva che questi faccia presente che la dichiarazione che rende non è espressione della sua volontà, ma della volontà di un’altra persona; ciò evidentemente presuppone che il dichiarante effettivo, cioè l’autore formale della dichiarazione contrattuale, già in tale momento, sia, se non identificato, quanto meno identificabile. Per pervenire a tale identificazione, è necessario che il nuncius indichi alla controparte contrattuale, cui comunica la dichiarazione del contraente effettivo, elementi idonei alla individuazione dello stesso, anche ai fini dell’esecuzione del contratto ... Il nuncius non assume la qualifica di parte contrattuale, né in senso formale né in senso sostanziale, quando faccia presente al proponente che l’accettazione della proposta proviene da altro soggetto, così trasmettendone la dichiarazione, anche se non indichi le generalità del contraente effettivo, purché fornisca alla controparte elementi idonei alla sua identificazione». (Cass. 14-2-2014, n. 3433 cit.)

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Nella prassi, però, la necessità di rendere più veloci gli scambi, l’ampliarsi degli spazi di mercato, cioè degli ambiti territoriali nei quali un soggetto giuridico, specie se imprenditore, intende distribuire i propri prodotti, spingono verso il ricorso a strumenti che consentano di “delegare”, in forma come vedremo più o meno piena, le attività e financo gli atti giuridici che conducono alla conclusione dei contratti. L’imprenditore si può avvalere stabilmente di un incaricato che, all’uopo retribuito, promuova la conclusione di contratti in una zona determinata, per conto dell’imprenditore medesimo; o può semplicemente giovarsi di qualcuno che, sempre su suo incarico, gli procuri contatti o “ordinazioni” (proposte contrattuali) in vista della stipula di contratti che lo stesso imprenditore poi stipulerà. Può direttamente incaricare qualcuno della stipula di alcuni contratti (già determinati) ovvero di acquistare o vendere beni individuati (esempio di propria produzione), fissandone o meno anche il prezzo. Con questi esempi abbiamo evocato figure diverse, quali, nell’ordine, l’agente (e il relativo contratto di agenzia di cui agli artt. 1742 ss.), il c.d. procacciatore d’affari che da quello si distingue se e in quanto non autorizzato anche alla stipula dei contratti; il commissionario, di cui agli artt. 1731 ss. Le differenze peraltro possono attenuarsi, poiché lo schema dell’agenzia non esclude che all’agente siano conferiti poteri speciali che gli consentono di concludere direttamente il contratto (il c.d. agente rappresentante di commercio di cui all’art. 1752 c.c.). Così, ai sensi dell’art. 1754 c.c. viene considerato mediatore colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, in difetto di qualsiasi vincolo di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza rispetto alle medesime: dunque egli ha una spiccata autonomia che lo distingue dall’agente e dallo stesso commissionario. Malgrado lo si espliciti solo riguardo al commissionario (il contratto di commissione è un mandato), in realtà tutti i rapporti qui ricordati rimandano al fenomeno della interposizione gestoria, che trova nel mandato lo schema contrattuale di riferimento. Il fenomeno sopra illustrato viene evocato nelle fonti normative più recenti, su input delle norme contenute nelle direttive europee, con il termine, in verità tanto generico quanto ambiguo, di intermediazione. Sempre più spesso, invero, tali fonti hanno fatto riferimento alla figura del professionista e/o del suo intermediario: e il riferimento all’intermediario (del professionista) è ora espressamente presente nella nozione

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generale di professionista adottata dall’art. 3, co. 1, lett. c), cod. cons. Diversa, e da non confondere, è la figura del tutto particolare dell’intermediario finanziario: la legge, nell’istituirne l’albo, lo identifica in ragione dell’esercizio (stabilmente organizzato e in forma di impresa) «nei confronti del pubblico dell’attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma» (art. 106 t.u.b.), attività che può variamente atteggiarsi ai fini della partecipazione (quale parte o meno) ai singoli contratti. Il tratto distintivo risiede nella posizione che l’attività svolta occupa nel mercato (finanziario), che è quella di “intermediare” nei mercati finanziari; ma senza che ciò abbia nulla a che fare poi, con la posizione di tali soggetti nell’ambito dei singoli contratti, che ben possono stipulare in proprio e senza riferimento alcuno alla posizione, all’interesse o all’attività di altro professionista. L’intermediazione è qui considerata sotto il profilo economico e delle relazioni di mercato, e poi ricondotta ad una nozione giuridica che serve ad identificare l’attività svolta e non il ruolo svolto nel contratto. Il termine intermediario (del professionista), invece, adottato a proposito dei contratti professionista/consumatore si caratterizza per la sua (forse voluta) genericità e coglie nel segno finché intende segnalare il tratto comune alle varie figure sopra ricordate: non v’è dubbio che nella prassi e, avuto riguardo al ruolo svolto nelle relazioni di scambio, elemento comune alle figure ricordate è proprio la funzione di porsi come intermediari tra offerta e domanda nel processo produttivo e distributivo dei beni e servizi, sollecitando e favorendo l’incontro, cioè, tra chi tali beni e servizi produce (il professionista) e comunque offre sul mercato e chi vi vuole accedere (il consumatore). Quella di “intermediario”, nei termini qui spiegati, è però nozione essenzialmente descrittiva, inidonea ad esplicitare le molteplici varianti giuridiche e dunque ad evocare con puntualità il differente regime dei contratti conclusi con l’intervento, a diverso titolo, dell’intermediario. Come precisa la Banca d’Italia, in conformità alla nozione di cui all’art. 121 t.u.b., «L’intermediario del credito è l’agente in attività finanziaria, il mediatore creditizio o altro soggetto (ad esempio il fornitore stesso di merci o servizi) – diverso dal finanziatore – che, nell’esercizio della propria attività commerciale o professionale, conclude contratti di credito per conto del finanziatore ovvero svolge attività di presentazione o proposta di contratti di credito o altre attività preparatorie in vista della conclusione di tali contratti». Analoga nozione si rintraccia ora nell’art. 120 quinquies, lett. g), t.u.b., con riguardo ai contratti di credito immo-

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biliare ai consumatori. Nei casi sopra richiamati, tutti di “intermediazione”, è possibile dunque che l’incarico attribuito riguardi la (sola) promozione di contratti che saranno stipulati dall’imprenditore; ovvero consenta la stipula direttamente da parte dell’incaricato di contratti nell’interesse (per conto) dell’imprenditore; o, ancora, consenta la stipula da parte dell’incaricato di contratti in nome oltre che per conto dell’imprenditore. In quest’ultimo caso – e solo in questo caso – si verifica un vero e proprio fenomeno di sostituzione, in presenza del quale, in generale, chi conclude il contratto non lo fa per regolare propri rapporti giuridici, ma al contrario impegna in vario modo la sfera giuridica di un altro soggetto (che sarà vincolato all’obbligazione nascente dal contratto, acquisterà un diritto o lo perderà). Solo qui dunque siamo di fronte all’istituto della rappresentanza, nella sua versione propria, vale a dire di rappresentanza diretta. L’incaricato (rappresentante) potrà impegnare la sfera giuridica altrui (del rappresentato) e dunque concludere un contratto non solo nell’interesse ma altresì in nome del rappresentato, in quanto ne abbia ricevuto il potere e tale potere abbia reso noto alla sua controparte.

11. La rappresentanza L’art. 1387 c.c. indica le possibili fonti della rappresentanza: «Il potere di rappresentanza è conferito dalla legge ovvero dall’interessato». Si profila la distinzione tra rappresentanza legale e rappresentanza volontaria. La prima è imposta dalla legge per il compimento di atti giuridici di soggetti privi della capacità di agire (minori, interdetti); ed è la legge a regolarla, definendo ambiti del potere e responsabilità. Parzialmente diverso il regime della rappresentanza organica: qui persone fisiche, organi dell’ente, compiono atti giuridici in nome e per conto delle organizzazioni o enti. Il potere di rappresentanza è in buona parte definito nei contenuti dalla volontà dell’ente rappresentato (es. organo assembleare); regole particolari in materia di responsabilità, conflitto di interessi, specificano il regime generale di cui diremo, qui in relazione anche al modello organizzativo dell’ente (es. società di capitali). La rappresentanza che trova fonte nell’autonomia privata (rappresentanza volontaria) si iscriverà di solito in un rapporto giuridico tra

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rappresentante e rappresentato da cui trae origine l’incarico, la remunerazione, la durata, ecc., i cui termini possono però non interessare l’altra parte contraente. Non è questo rapporto interno a rilevare. Ciò che rileva è che il contratto potrà essere validamente stipulato in nome del rappresentato solo se il rappresentante ne avrà ricevuto il potere dal rappresentato mediante il negozio di procura e avrà reso noto tale potere, il contenuto e i possibili limiti, alla controparte, dunque in nome di chi contratta (c.d. spendita del nome). Il terzo che contratta con il rappresentante, recita l’art. 1393 c.c., può sempre esigere che questi giustifichi i suoi poteri e, se la rappresentanza risulta da atto scritto, che gliene dia una copia da lui firmata. Le modificazioni e la revoca della procura devono essere portate a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, poiché, in mancanza, esse non sono opponibili ai terzi, se non si prova che questi le conoscevano al momento della conclusione del contratto (art. 1396 c.c.). La rappresentanza, come detto, può avere fonte nella legge – ad esempio quella che spetta ai genitori ex art. 320 c.c. per i figli minori – e sarà questa dunque a determinarne i contenuti. Negli altri casi sopra menzionati, ove l’intermediario non ha il potere di spendere il nome dell’interessato si parla di “rappresentanza indiretta”, pur se in verità siamo fuori dall’istituto della rappresentanza e non ha luogo alcun fenomeno di sostituzione. La circostanza che taluno sia stato incaricato in vario modo e a diverso titolo di gestire i rapporti giuridici nell’interesse di un altro avrà certamente conseguenze nel rapporto tra di loro (all’interno del contratto con il quale sia stato conferito l’incarico, mandato, agenzia, ecc.), ma non nei confronti di chi stipulerà contratti con l’incaricato. Ed infatti, l’incaricato non potrà che stipulare contratti a proprio nome, che produrranno dunque effetti esclusivamente nella sua sfera giuridica. Sarà in conseguenza di altro contratto – quello con cui gli è stato conferito l’incarico di agire nell’interesse altrui – che potrà e dovrà verificarsi se egli ha rispettato l’interesse del suo mandante e sempre da tale contratto deriverà il suo obbligo di “ritrasferire” nella sfera giuridica del mandante gli effetti del contratto che egli ha stipulato in proprio. Illuminanti, ai fini della distinzione, gli artt. 1704 e 1705 c.c.: il primo, per il mandato con rappresentanza, rimanda agli artt. 1387 ss. in tema di rappresentanza; il secondo, per il mandato senza rappresentanza, ribadisce che il mandatario il quale agisca in proprio nome «acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se questi hanno avuto conoscenza del man-

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dato», e che (co. 2) «i terzi non hanno alcun rapporto col mandante». Dovendosi dunque applicare il successivo regime degli “acquisti del mandatario” come delineato nell’art. 1706. Solo nel caso della rappresentanza vera e propria (c.d. diretta) si determina dunque una divaricazione tra parte in senso formale e parte in senso sostanziale: dovendosi avere riguardo da un lato a chi “formalmente” stipula il contratto e dunque manifesta la volontà che darà luogo all’accordo e dall’altro a chi “sostanzialmente” sarà vincolato dagli obblighi nascenti dal contratto stipulato a suo nome o ne acquisterà i diritti. A questi due distinti punti di osservazione rimandano le norme del codice allorché distinguono tra la capacità richiesta in capo al rappresentante e quella del rappresentato (art. 1389, co. 2, c.c.); ovvero disciplinano la rilevanza dei vizi della volontà (art. 1390). «Il rappresentante indiretto è parte in senso formale e in senso sostanziale, sia pure, quanto a questo secondo aspetto, con talune limitazioni (perché alcuni effetti del contratto stipulato dal rappresentante indiretto si producono direttamente in capo al rappresentato, per come si evince dagli artt. 1705, comma secondo, secondo inciso, e 1706, comma primo, cod. civ.». (Cass. 14-2-2013, n. 3433, cit.) La rappresentanza è dunque (in senso proprio) quella che conferisce ad un soggetto il potere di sostituirsi tout court nel contratto ad altro soggetto, sulla base o di una previsione di legge o di una volontà dell’interessato, espressa nel negozio di procura. È alla rappresentanza in senso proprio, vale a dire la rappresentanza diretta, che il codice dedica un insieme di norme, agli artt. 1387 ss., prime fra tutte quelle che sanciscono, agli artt. 1387 e 1388, i presupposti e gli effetti di una (valida e piena) sostituzione, in forza della quale, sempre che tale potere sia conferito dalla legge o dall’interessato, possa aversi la sopra ricordata divaricazione tra parte in senso formale e parte in senso sostanziale, sicché il contratto concluso dal rappresentante, in nome e per conto del rappresentato, produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato. In ragione di tale divaricazione, come già accennato, l’ordinamento deve rivolgere la propria, diversa, attenzione, per la valida formazione del contratto, alle due posizioni. Sarà all’autore del contratto, vale a dire quella che abbiamo definito parte in senso formale, che occorrerà avere

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riguardo quando si tratti di verificare i presupposti di una valida manifestazione di volontà – capacità di intendere e di volere e volontà non viziata, ma anche altri stati soggettivi, quali buona fede o mala fede (in senso soggettivo), scienza o ignoranza di determinate circostanze: artt. 1389, 1390, 1391 c.c.; mentre dovrà rintracciarsi in capo al rappresentato la capacità legale di agire e aversi riguardo sempre al rappresentato per eventuali divieti di contrarre. Gli stati soggettivi del rappresentato – e non del rappresentante – avranno invece rilievo quando essi ricadano su elementi predeterminati dal rappresentato. Gli effetti del contratto concluso dal rappresentante si producono direttamente nei confronti del rappresentato, ma nei limiti delle facoltà conferite al rappresentante, precisa l’art. 1388. Occorrerà dunque fare riferimento non solo all’esistenza di un valido negozio di procura – per il quale la legge, all’art. 1392, richiede la stessa forma del contratto da concludere – ma altresì ai contenuti di questa. I contenuti e i limiti della procura e dunque del potere di rappresentanza rilevano sia a garanzia del rappresentante, sulla cui sfera giuridica non potranno farsi ricadere effetti di atti negoziali che egli non ha inteso delegare, sia a garanzia del terzo contraente, il quale potrebbe aver fatto affidamento sui poteri del suo partner contrattuale e trovarsi poi a subire le conseguenze della inefficacia del contratto concluso dal rappresentante senza o oltre i poteri conferitigli. È il caso di una rappresentanza senza potere, e cioè di chi contratta come rappresentante ma senza averne i poteri o eccedendo i limiti delle facoltà conferitegli, così stipulando un contratto che non è idoneo a trasferire diritti o a far sorgere obblighi in capo a chi, non atteggiandosi come rappresentato, dovrà considerarsi estraneo alla vicenda. Per questo la legge, con la già ricordata disposizione di cui all’art. 1393 c.c., dà al contraente il diritto di esigere dal proprio partner la giustificazione dei poteri di rappresentante, mediante l’esibizione della procura; ed esclude che al terzo contraente possano essere opponibili la modificazione o la revoca della procura che non siano state portate a sua conoscenza con mezzi idonei o che comunque non si provi egli conoscesse al momento della conclusione del contratto (art. 1396). Tranne il caso in cui egli conoscesse i limiti dei poteri di chi si presentava quale rappresentante, negli altri casi – ed ancorché gli si possa rimproverare di non avere utilizzato il diritto di chiedere la “giustificazione dei poteri” ex art. 1393 – il terzo, secondo quanto previsto dall’art. 1398, avrà diritto ad ottenere dal falso rappresentante il risarcimento del danno

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per avere confidato senza sua colpa nella validità del contratto, a meno che d’accordo con il falso rappresentante non decida di sciogliere il contratto ovvero a meno che non intervenga (anche su sollecitazione del terzo contraente che gli assegna un termine) un successivo negozio di ratifica con il quale l’interessato (vale a dire colui che è stato considerato falsamente come rappresentato) decida di approvare e far proprio l’operato del falso rappresentante, così assumendo su di sé, seppur ex post, la posizione di parte in senso sostanziale, destinataria degli effetti del contratto: tale negozio, che integra, come suol dirsi, una procura successiva, avrà infatti effetto retroattivo, ma solo tra le parti, non potendo pregiudicare i diritti nel frattempo acquistati dai terzi. Così, malgrado la ratifica, rimarrà salvo ad esempio l’acquisto perfezionatosi in capo ad un terzo del bene che il falso rappresentato gli abbia venduto con un valido contratto perfezionatosi dopo il contratto con cui il falso rappresentante abbia per avventura alienato lo stesso bene ma anteriore alla ratifica. «La ratifica prevista dall’art. 1399 c.c. costituisce un atto unilaterale ricettizio, mediante cui il soggetto falsamente rappresentato in un contratto manifesta all’altro contraente, senza bisogno di ricorrere a formule sacramentali ma in modo chiaro ed inequivoco e nella forma eventualmente richiesta per detto contratto, la volontà di fare propri gli effetti del negozio già concluso in suo nome dal falsus procurator. Il negozio compiuto dal “falsus procurator” non è invalido, ma soltanto “in itinere”, ovvero a formazione successiva, sicché il “dominus” può ratificare e fare propri gli effetti del negozio concluso in suo nome con effetti retroattivi. La ratifica del “dominus”, prevista dall’art. 1399 c.c., comma 1, è una dichiarazione di volontà unilaterale, che deve osservare la forma prescritta per il contratto concluso dal “falsus procurator”, ed ha carattere recettizio; perciò, per produrre effetto, deve essere notificata o almeno comunicata all’altro contraente». (Cass. 28-12-2009, n. 27399) Peraltro, come ha precisato proprio la pronuncia sopra citata, nessuna norma vieta che la ratifica avvenga contestualmente alla stipula del negozio, mediante la contemporanea sottoscrizione dell’atto anche da parte del rappresentato: la ratifica del contratto stipulato dal rappresen-

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tante senza potere può cioè validamente intervenire al momento della redazione dell’unico atto contenente i due negozi giuridici (il contratto stipulato dal rappresentante e la ratifica), e tale modalità di redazione dell’atto, chiarisce la S.C., non inficia – sul piano logico e sistematico – la pienezza dell’accettazione successiva al consenso già raggiunto tra i contraenti con l’incontro delle rispettive volontà. Il contratto concluso dal falso rappresentante, di regola, non è idoneo a vincolare il falso rappresentato – almeno finché egli non lo ratifichi – poiché il falso rappresentante non aveva il potere di disporre dei diritti altrui o di impegnare l’altrui sfera giuridica. Il (falso) rappresentato rimarrà però vincolato al contratto quando le modificazioni o la revoca della procura non siano state portate a conoscenza dei terzi “con mezzi idonei” o non si provi che siano state comunque conosciute da questi al momento della conclusione del contratto, quando cioè il falso rappresentato non possa opporre al terzo contraente una (sopravvenuta) carenza del potere di rappresentarlo. Effetto che in generale si produce a carico della società, dal momento che le limitazioni ai poteri degli amministratori, anche se pubblicate, non sono opponibili ai terzi (art. 2384 c.c.). Al riguardo occorre altresì richiamare quanto precisato dalla nostra giurisprudenza a proposito della posizione del terzo contraente e dell’applicazione, in tema di rappresentanza, del principio della c.d. apparenza del diritto, che tutela la posizione giuridica di un soggetto al quale una situazione giuridica in realtà inesistente sia apparsa come esistente non per sua colpa o negligenza ma a causa del comportamento colposo del soggetto, nei cui confronti l’apparenza è invocata. «Il principio dell’apparenza del diritto – che viene ricondotto a quello più generale della tutela dell’affidamento incolpevole del terzo – è di ampia applicazione e ben può essere invocato», ha sottolineato la nostra S.C. in tema di rappresentanza, «quando, indipendentemente dalla richiesta di giustificazione dei poteri del rappresentante, a norma dell’art. 1393 c.c., non solo vi sia la buona fede del terzo, che abbia concluso atti con il falso rappresentante, ma sussista, altresì, un comportamento colposo del rappresentato, che sia tale da ingenerare nel terzo la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante» (così efficacemente, tra le tante, Cass. 288-2007, n. 18191, ma vedi più di recente Cass. 9-3-2012, n. 3787). Nella fattispecie può dunque rilevare il comportamento del rappresentato, mentre è pacifico (e la S.C. lo ribadisce) che ai fini della re-

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sponsabilità del falsus procurator non dovrà dimostrarsi il dolo o la colpa di questi nella causazione del danno, poiché l’art. 1398 prescinde in toto dal considerare la posizione soggettiva del falso rappresentante intendendo tutelare il terzo contraente in presenza del mero dato oggettivo della carenza di poteri del suo partner, il falso rappresentante, appunto. D’altra parte, una volta ravvisato nel terzo contraente il presupposto soggettivo per avere diritto al risarcimento del danno – cioè la non conoscenza della carenza di poteri del suo partner – non potrà venire in considerazione una regola come quella di cui all’art. 1227 (concorso del fatto colposo del creditore, in questo caso il terzo contraente): il concorso del fatto colposo del creditore, osserva la S.C. «è ontologicamente inconciliabile con le situazioni – come quella di cui alla norma dell’art. 1398 – nelle quali operi il principio dell’apparenza del diritto, espressione del più generale principio dell’affidamento incolpevole, in quanto l’esistenza di un comportamento colposo del terzo impedirebbe di ravvisarne l’affidamento incolpevole». (Cass. 13-12-2004, n. 23199) Il contratto concluso dal rappresentante senza potere non è d’altra parte idoneo a vincolare il falso rappresentante, il quale ha impegnato posizioni giuridiche altrui (salva l’eccezione a proposito di assicurazione di cui all’art. 1890 c.c.). Si è detto che il contratto, prima della ratifica, è “in stato di quiescenza” e, in assenza di ratifica, va considerato non nullo o annullabile ma inefficace; le parti (falso rappresentante e terzo) possono concordare lo scioglimento consensuale (art. 1399, co. 3) prima della ratifica. In coerenza con questo quadro, malgrado il cenno alla (in)validità nell’art. 1398, il contratto va consideraro come inefficace piuttosto che invalido. La responsabilità del falsus procurator verso il terzo, il quale avrà diritto al risarcimento del danno sofferto «per avere confidato senza sua colpa nella validità del contratto» (art. 1398) va configurata come responsabilità per culpa in contrahendo, quale conseguenza del suo comportamento che, in violazione dei doveri di correttezza e buona fede in sede di stipula del contratto, lo ha portato a tacere la carenza di poteri. La S.C. con una pronuncia a Sezioni Unite è tornata di recente sulla fattispecie di rappresentanza senza potere, prospettandone un più com-

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piuto inquadramento sistematico. La legittimazione rappresentativa, oltre allo scambio dei consensi e alla spendita del nome altrui, è, ad avviso della Corte, “elemento strutturale” del contratto, poiché la mancanza di tale legittimazione si pone come diaframma tra il momento della rilevanza e quello dell’efficacia della fattispecie «Il terzo contraente che deduce in giudizio un contratto stipulato con il rappresentante per ottenere il riconoscimento e la tutela, nei confronti del rappresentato, di diritti che da quel contratto derivano, pone a fondamento della propria pretesa non solo (a) gli elementi che l’art. 1325 richiede per il perfezionamento del contratto, ma anche (b) che detto contratto è stato concluso da un soggetto, il rappresentante, autorizzato dal rappresentato a stipulare in suo nome o (b1) che lo pseudo rappresentato, attraverso la ratifica, ha attribuito ex post al falso rappresentante quella legittimazione a contrarre per lui, che gli mancava al tempo del contratto». (Cass. s.u. 3-6-2015, n. 11377) Ne consegue che ove il difetto di potere rappresentativo risulti dagli atti, può essere rilevato d’ufficio dal giudice. Diversa è la posizione del terzo nei casi in cui il contratto concluso dal rappresentante sia contrario all’interesse del rappresentato, cioè in conflitto d’interessi. Non si tratta qui di un contratto inefficace per difetto di legittimazione (perché cioè stipulato senza o oltre i poteri conferiti), come nell’ipotesi regolata dall’art. 1398, bensì di un contratto stipulato con l’esercizio di un potere di rappresentanza validamente conferito, ma in concreto contrario all’interesse del rappresentato. Della tutela di tale interesse si preoccupa l’ordinamento, ma secondo i principi generali che tengono conto dell’affidamento del contraente. Il rimedio apprestato è infatti quello dell’annullamento del contratto: ma, soggiacendo al generale principio di tutela dell’affidamento, l’annullabilità, nel caso di conflitto d’interessi, potrà essere chiesta dal rappresentato solo se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo (art. 1394). L’art. 1395 c.c. prende in considerazione l’interesse del rappresentato allorché consente, a domanda di questi, l’annullabilità, del contratto con sé stesso. È il caso in cui il rappresentante, pur esercitando il potere conferitogli e rimanendo nei limiti della procura, stipuli il contratto o i contratti dei quali è stato incaricato non con terzi ma con sé stesso. Ta-

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le contratto, recita la norma, è annullabile a meno che il rappresentante non sia stato a ciò autorizzato dal rappresentato o a meno che «il contenuto del contratto sia stato determinato in modo da escludere la possibilità di conflitto d’interessi». In tal modo la fattispecie del contratto con sé stesso viene ricondotta a quella regolata dall’art. 1394: anche nel caso di contratto con sé stesso, presupposto dell’annullabilità è il conflitto d’interessi, di cui all’art. 1394, conflitto che la legge presume quando si tratti di contratto con sé stesso di cui all’art. 1395. Le due ipotesi, accomunate dalla ratio e dal rimedio, vanno però distinte: una verifica in concreto della eventuale incompatibilità dell’interesse del rappresentante e di quello del rappresentato è richiesta perché ricorra la fattispecie di cui all’art. 1394, ma non quando si verta nella fattispecie del contratto con sé stesso di cui all’art. 1395, nella quale il conflitto è presunto dalla legge, a meno che il rappresentante non dimostri che ricorrano le condizioni espressamente e tassativamente indicate come idonee ad escluderlo nello stesso art. 1395, in quanto “idonee”, sottolinea la S.C., «ad assicurare la tutela del rappresentato per via del ruolo attivo che egli assume nella fase prodromica del contratto» (Cass. 20-8-2013, n. 19229). Dunque, in tema di conflitto d’interessi «Il conflitto d’interessi idoneo, ai sensi dell’art. 1394 cod. civ., a produrre l’annullabilità del contratto, richiede l’accertamento dell’esistenza di un rapporto d’incompatibilità tra gli interessi del rappresentato e quelli del rappresentante, da dimostrare non in modo astratto od ipotetico ma con riferimento al singolo atto o negozio che, per le sue intrinseche caratteristiche, consenta la creazione dell’utile di un soggetto mediante il sacrificio dell’altro». (Cass. 30-5-2008, n. 14481) Pur se l’annullabilità non è subordinata alla prova di un concreto pregiudizio

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«Il conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato che, se conosciuto o conoscibile dal terzo, rende annullabile il contratto concluso dal rappresentante, ai sensi dell’art. 1394 cod. civ. (applicabile anche ai casi di rappresentanza organica di una persona giuridica), ricorre allorquando il primo sia portatore di interessi incompatibili con quelli del secondo, cosicché la salvaguardia dei detti interessi gli impedisce di tutelare adeguatamente l’interesse del “dominus”, con la conseguenza che non ha rilevanza, di per sé, che l’atto compiuto sia vantaggioso o svantaggioso per il rappresentato e che non è necessario provare di aver subito un concreto pregiudizio, perché il rappresentato possa domandare o eccepire l’annullabilità del negozio». (Cass. 18-7-2007, n. 15981) Nel caso invece del contratto con sé stesso, «la disposizione costituisce eccezione al principio generale della irrilevanza del profilo obbligatorio attinente al rapporto interno rappresentante/rappresentato e prevede una presunzione iuris tantum di conflitto di interessi, che può essere superata esclusivamente – con indicazione che assume i connotati della tassatività – dalla dimostrazione dell’esistenza, in via alternativa, di due condizioni: una autorizzazione specifica rilasciata dal rappresentato; la predeterminazione, da parte del rappresentato, degli elementi negoziali. Condizioni, che impongono un ruolo attivo e partecipe del rappresentato nella fase prodromica alla conclusione dell’atto e che il legislatore ha ritenuto sufficienti ed idonee ad assicurarne la tutela. Mentre, resta irrilevante il profilo della sussistenza di un concreto rapporto di incompatibilità fra le esigenze del rappresentato e quelle del rappresentante». (Cass. 21-11-2008, n. 27783)

Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, l’annullabilità del contratto è esclusa, nelle due ipotesi, ricorrendo la prima tutte le volte in cui il rappresentato stesso autorizzi il rappresentante alla stipula del negozio determinandone gli elementi necessari e sufficienti ad assicurare

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la tutela dei suoi interessi; ricorrendo la seconda qualora il rappresentato, per tutelarsi contro eventuali infedeltà del rappresentante, predetermini il contenuto contrattuale in modo che la persona dell’altro contraente venga, in definitiva, a risultare indifferente, così da impedire l’insorgere di ogni possibile conflitto di interessi». (Cass. 24-10-2002, n. 14982)

Dalla previsione legislativa di una presunzione iuris tantum di conflitto di interessi nell’ipotesi di contratto concluso dal rappresentante con se stesso, che fonda l’azione di annullabilità del contratto, e dalla previsione delle uniche condizioni che consentono di superare la presunzione del conflitto – assunte dal legislatore come idonee ad assicurare la tutela del rappresentato per via del ruolo attivo che esso assume nella fase prodromica del contratto – consegue che è onere del rappresentante fornire la prova della presenza delle condizioni previste come idonee ad escludere il conflitto presunto e l’annullamento del contratto». (Cass. 20-8-2013, n. 19229) Inutile sottolineare che la figura del falso rappresentante non ha niente a che fare con il fenomeno della interposizione fittizia di persona. Falso rappresentante, come ampiamente illustrato, è colui che si presenta come rappresentante senza averne i poteri o andando oltre i poteri conferitigli con la procura; il contratto viene stipulato come si vi fosse una interposizione reale (cioè effettiva) di un soggetto, rappresentante, mentre costui non lo è. L’interposto “fittiziamente” è invece colui che appare come destinatario di diritti ed obblighi di un contratto, dunque come parte del contratto per sé e non come rappresentante di altri, mentre in realtà gli effetti del contratto sono destinati a prodursi nei confronti di un altro soggetto che preferisce non comparire. Si tratta, come diremo a suo tempo (IV, III, 2) di un caso di simulazione soggettiva: non viene in gioco alcun fenomeno di rappresentanza e dunque di interposizione reale, ma una interposizione fittizia, disvelata dall’accordo simulatorio nel quale le tre parti coinvolte – interposto, terzo contraente e interponente, cioè effettivo destinatario finale dell’operazione – dichiarano la loro effettiva volontà e disvelano il vero assetto di interessi che intendono realizzare, compreso il rapporto sottostante che

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lega interponente e interposto e in attuazione del quale l’interposto dovrà far acquistare gli effetti del contratto all’interponente.

12. Il conflitto d’interessi nella intermediazione finanziaria Il conflitto d’interessi acquista particolare rilievo – per le ovvie conseguenze in danno dell’investitore – nella prestazione dei servizi di investimento finanziario. L’intermediario finanziario – ad esempio la banca – presta al cliente il suo servizio, come abbiamo visto (III, 8) attraverso la consulenza e l’esecuzione di ordini per operazioni di investimento consistenti nell’acquisto di “strumenti finanziari”, ad esempio azioni, titoli, ecc. Strumenti che l’intermediario a sua volta acquista per il cliente o che ha già acquistato e detiene nel proprio patrimonio e trasferisce al cliente. Nella esecuzione di tali operazioni, e soprattutto nel secondo caso, possono palesarsi interessi dell’intermediario in potenziale o concreto conflitto con quelli dell’investitore. Le ipotesi sono ben individuate nell’art. 24 del regolamento in materia di organizzazione e procedure degli intermediari che prestano servizi di investimento o di gestione collettiva del risparmio (adottato dalla Banca d’Italia e dalla Consob con provvedimento del 29-10-2007 e successivamente modificato con atti congiunti Banca d’Italia/Consob del 9-5-2012, del 25-7-2012 e del 19-12015), ove “quale criterio minimo” per la preventiva verifica di conflitti di interesse si indicano operazioni attraverso le quali l’intermediario possa realizzare un guadagno finanziario o evitare una perdita finanziaria, a danno del cliente; o nelle quali esso sia portatore di un interesse “nel risultato” del servizio, di un interesse distinto da quello del medesimo; o quando l’intermediario abbia un incentivo a privilegiare gli interessi di clienti diversi da quello a cui il servizio è prestato; ovvero riceva o possa ricevere da una persona diversa dal cliente, in relazione con il servizio a questi prestato, un incentivo, sotto forma di denaro, beni o servizi, diverso dalle commissioni o dalle competenze normalmente percepite per tale servizio. Insomma, per esemplificare, sarà in conflitto di interessi l’operazione con la quale la banca consiglia e poi fa acquistare al cliente titoli che già detiene e dei quali potrebbe dunque sapere che il rendimento andrà a ridursi, allo scopo di collocarli comunque e liberarsene; ovvero quando la banca vuole agevolare il collocamento di un titolo emesso da un soggetto che è un suo importante cliente, o più spesso

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un suo debitore: si pensi alle azioni di una società finanziata dalla banca e in situazione di crisi che rende precaria la sua solvibilità e la puntuale restituzione delle somme ricevute. L’art. 21, co. 1-bis, t.u.f. obbliga per questo le società di intermediazione, le imprese di investimento, ecc., ad adottare «ogni misura ragionevole per identificare i conflitti di interesse che potrebbero insorgere con il cliente o fra clienti e a gestirli, anche adottando idonee misure organizzative, in modo da evitare che incidano negativamente sugli interessi dei clienti» (co. 1, lett. a); il citato regolamento Consob dà attuazione a tale previsione dettando, appunto, norme volte a prevenire, sul versante organizzativo, e “gestire” i potenziali conflitti di interesse. Tuttavia, dispone sempre l’art. 21, co. 1-bis, lett. b), t.u.f. «quando le misure adottate ... non sono sufficienti per assicurare, con ragionevole certezza, che il rischio di nuocere agli interessi dei clienti sia evitato» gli intermediari «informano chiaramente i clienti, prima di agire per loro conto, della natura generale e/o delle fonti dei conflitti di interesse»; e ciò, precisa il regolamento Consob, «affinché essi possano assumere una decisione informata sui servizi prestati, tenuto conto del contesto in cui le situazioni di conflitto si manifestano» (art. 23, co. 3, reg. Consob, cit.). Dunque, l’operazione in conflitto di interessi non è comunque vietata, ma di tale conflitto dovrà essere preventivamente informato il cliente, affinché possa, se vuole, non autorizzarne l’esecuzione. Nella previgente disciplina – art. 6, lett. g) della l. n. 1/1991 – in presenza di conflitto di interesse, si faceva espresso ed assoluto divieto all’intermediario di dar corso all’operazione; la regola, ad avviso delle Sezioni Unite della nostra S.C., non conduceva alla nullità della operazione, in quanto vietata, ma solo a far sorgere una responsabilità (contrattuale) con obbligo di risarcimento del danno a carico dell’intermediario, per il solo fatto che questi avesse dato corso all’operazione. Con la nuova previsione, l’intermediario sarà parimenti responsabile ma solo ove abbia effettuato l’operazione in conflitto di interessi senza preventivamente informarne il cliente. L’opinione, affermatasi in giurisprudenza, che la disposizione in questione attiene comunque alle modalità di esecuzione, da parte dell’intermediario, degli obblighi che gli derivano dalla relazione contrattuale col cliente, e in particolare ai contenuti specifici dell’obbligo di correttezza e diligenza nell’adempimento, deve portare dunque ad escludere la nullità dell’operazione compiuta in violazione di una norma imperativa

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(quale si considera senza ombra di dubbio l’art. 21 t.u.f.); ma non certo a sottrarre la fattispecie di conflitto d’interessi alla disciplina generale di cui all’art. 1394 c.c. e al rimedio dell’annullabilità a tutela del rappresentato (in questo caso l’investitore), ove non sia stato rispettato l’obbligo della preventiva informazione. Così la sentenza della S.C. cui si deve la prima puntualizzazione nel senso di cui sopra e la distinzione tra regole di validità e regole di comportamento (che come vedremo interessa soprattutto le conseguenze della violazione degli obblighi di informazione a carico dell’intermediario: IV, II, 28), dopo avere precisato che «La “contrarietà” a norme imperative, considerata dall’art. 1418, primo comma, c.c., quale “causa di nullità” del contratto, postula, infatti, che essa attenga ad elementi “intrinseci” della fattispecie negoziale, che riguardino, cioè, la struttura o il contenuto del contratto (art. 1418, secondo comma, c.c.). I comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattative o durante l’esecuzione del contratto rimangono estranei alla fattispecie negoziale e s’intende, allora, che la loro eventuale illegittimità, quale che sia la natura delle norme violate, non può dar luogo alla nullità del contratto». opportunamente aggiunge, in conclusione, «il che, naturalmente, non esclude che l’inosservanza degli adempimenti prescritti dalla lettera “g” del citato art. 6 [oggi lettera b comma 1 bis art. 21 t.u.f.] possa assumere rilievo, sotto altro profilo, alla stregua dei principi stabiliti dagli artt. 1394 e 1395 c.c.». (Cass. 29-9-2005, n. 19024) Anche con riguardo ai presupposti della pretesa risarcitoria del cliente rimangono valide alla luce della nuova formulazione dell’art. 21, co. 1-bis, t.u.f., le argomentazioni svolte dalla S.C. nel vigore della vecchia norma: argomentazioni che ribadiscono come al fine di fondare il diritto al risarcimento del danno, una volta provato il conflitto d’interessi e il danno, non rilevino le concrete modalità esecutive dell’operazione.

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«La disposizione contenuta nella lett. g) dell’art. 6 dell’allora vigente L. n. 1 del 1991 (diversamente da quanto ora prevede il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, comma 1 bis, lett. a e b) faceva espresso ed assoluto divieto all’intermediario di dar corso all’operazione. Perciò, alla stregua di quella norma, o si sarebbe dovuto ritenere che il tipo di operazione era tale da escludere in radice il lamentato conflitto d’interessi ... o non si sarebbe potuto altrimenti far leva su dette modalità operative al solo fine di negare ogni possibile nesso causale tra l’operazione eventualmente implicante un conflitto di interessi ed i danni sofferti dal cliente. Infatti, se la situazione di conflitto fosse configurabile, non sarebbero le concrete e specifiche modalità esecutive a venire in questione, ma il compimento stesso dell’operazione che non avrebbe dovuto affatto aver luogo. Ai fini dell’individuazione di un eventuale danno risarcibile subito dal cliente e del nesso di causalità tra detto danno e l’illegittimo comportamento imputabile all’intermediario, assumono rilievo le conseguenze del fatto che l’intermediario medesimo non si sia astenuto dal compiere un’operazione dalla quale, in quelle circostanze, avrebbe dovuto astenersi (sempre che, s’intende, risulti provato che nel caso in esame aveva l’obbligo di astenersene), non quelle derivanti dalle modalità con cui l’operazione è stata in concreto realizzata o avrebbe potuto esserlo ipoteticamente da altro intermediario». (Cass. s.u. 19-12-2007, n. 26724) Nel quadro normativo vigente, prendendo a prestito ed aggiornando il ragionamento della Corte, possiamo dunque affermare che ai fini dell’individuazione di un eventuale danno risarcibile subito dal cliente e del nesso di causalità tra detto danno e l’illegittimo comportamento imputabile all’intermediario, assumono rilievo le conseguenze del fatto che l’intermediario abbia compiuto l’operazione in conflitto d’interessi senza preventivamente informarne il cliente, ma non quelle derivanti dalle modalità con cui l’operazione è stata realizzata in concreto o con cui avrebbe potuto essere realizzata da altro intermediario. Il diritto al risarcimento del danno subito dal cliente a seguito della operazione in conflitto di interessi non dipende insomma dalla verifica della scarsa perizia e diligenza nella esecuzione dell’investimento che possa imputarsi all’intermediario, ma dalla operazione in conflitto di interessi in sé considerata (non comunicata prima).

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13. Il contratto per persona da nominare e il contratto per conto di chi spetta Il tema della possibile divaricazione tra parte in senso formale e parte in senso sostanziale, come dovrebbe essere chiaro a questo punto, non solo rimanda ad una variegata prassi negoziale, che impegna il giudice sovente in una non facile opera di interpretazione della effettiva volontà dei contraenti, ma interseca i temi – non certo del tutto coincidenti – del “trasferimento” della posizione contrattuale e della possibile “deviazione” degli effetti del contratto nei confronti di chi non ne sia parte. Delle implicazioni di tali figure dal punto di vista degli effetti del contratto si tornerà a parlare oltre. Ma fin d’ora deve rimarcarsi come esse, pur se diversamente atteggiate, possano far nascere in concreto il dubbio sulla identificazione della parte del contratto. Non è un caso, del resto, che il codice disciplini di seguito le figure, diverse ma in qualche modo contigue, del contratto per persona da nominare, della cessione del contratto e del contratto a favore di terzi (artt. 1401, 1406, 1411). Le alternative sono efficacemente riassunte in una pronuncia della S.C. nei termini che seguono: «La clausola, con cui il promissario acquirente di un immobile si impegna ad acquistare per sé o per persona da nominare, può comportare la configurabilità: a) sia di una cessione del contratto, ai sensi dell’art. 1406 c.c. e segg., con il preventivo consenso della cessione a norma dell’art. 1407 c.c., b) sia di un contratto per persona da nominare, di cui all’art. 1401 c.c., (e ciò sia in ordine allo stesso preliminare che con riferimento al contratto definitivo), c) e sia, anche, di un contratto a favore del terzo mediante la facoltà di designazione concessa all’uopo al promissario, fino alla stipulazione del definitivo. Tale pluralità di configurazioni giuridiche in relazione al regolamento dell’intervento di terzi nella fattispecie contrattuale – preliminare o definitiva – va tuttavia, riferita necessariamente al contenuto effettivo della volontà delle parti contraenti, che l’interprete deve ricercare in concreto, anche in correlazione alla funzione – invalsa nella pratica quotidiana degli affari – di impiegare il contratto preliminare per la disciplina intertemporale dei rapporti contrattuali delle parti, al di

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fuori di una coincidenza, che non sia meramente verbale, con gli schemi tipici approntati dal legislatore». (Cass. 3-8-2012, n. 14105) In realtà alcune puntualizzazioni consentono di cominciare a fare chiarezza. Riguardate dal punto di vista dell’esito finale, le fattispecie sopra richiamate manifestano una certa interscambiabilità, nel senso che tutte determinano in qualche modo una divaricazione tra l’autore del contratto e il destinatario ultimo degli effetti di questo. Il percorso è però alquanto differente nei singoli casi e assai distanti sono le ricadute in termini di disciplina, diritti, obblighi e responsabilità. La cessione del contratto (infra, 15) ripropone, né più né meno, le ordinarie regole di circolazione dei diritti ed obblighi ed in particolare rimanda all’autonomia dei privati di disporre il trasferimento di questi. Nel caso del contratto, perché il trasferimento abbia ad oggetto non i singoli diritti o obblighi, ma, appunto, la posizione di parte e dunque l’intero rapporto nascente dal contratto (solo in questo caso potrà parlarsi di cessione del contratto e non di cessione del credito o del debito) occorrerà che si tratti di contratto a prestazioni corrispettive e che queste non siano state ancora eseguite. In presenza di questi presupposti, la parte, con il consenso dell’altra, potrà “sostituire a sé un terzo” (vedi art. 1406 c.c.). La “sostituzione”, a differenza che nella rappresentanza (diretta) non opera al momento della stipula del contratto per iniziativa del rappresentato, che abbia conferito al suo rappresentante la procura, o successivamente con l’intervento della ratifica, presupposti della efficacia del contratto concluso dal rappresentante. Il contratto “ceduto” è nato tra due diverse parti contraenti (il contraente cedente e il contraente ceduto), rispetto alle quali soltanto andavano verificati i presupposti per la validità ed efficacia del contratto. Contratto che, però, potrà “circolare”, alle condizioni richieste dalla legge, con il trasferimento ad un altro soggetto della posizione di parte originariamente assunta dal cedente. Il cedente, invero, è tenuto a garantire la validità del contratto al cessionario (art. 1410 c.c.). Siamo qui di fronte non ad una sostituzione nel contratto ma ad una successione nel rapporto contrattuale. Il contratto a favore di terzi (VI, 5) non integra in alcun modo, né intende perseguire, un meccanismo di sostituzione. La figura di cui all’art. 1411 ss. c.c. consente alla parte stipulante, purché vi abbia inte-

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resse, di impegnare la sua controparte (promittente) ad una prestazione a beneficio di un terzo, del quale non è richiesta né la partecipazione al contratto, né l’accettazione espressa. Nel contratto a favore di terzo, dunque, «quest’ultimo non è parte né in senso sostanziale né in senso formale e deve limitarsi a ricevere gli effetti di un rapporto già validamente costituito ed operante, talché l’adesione del terzo è mera condicio iuris sospensiva dell’acquisizione del diritto – rilevabile per facta concludentia – restando la dichiarazione del terzo di voler profittare del contratto necessaria soltanto per renderlo irrevocabile ed immodificabile». (Cass. 4-2-1988, n. 1136 richiamata dalle pronunce successive) Nessuna “sostituzione” dunque, né successione. Le parti del contratto sono determinate e certe al momento della stipula e non sono destinate a cambiare. Né si determinerà un successivo intervento del terzo nel rapporto contrattuale. Parti del contratto sono esclusivamente stipulante e promittente, e intercorre tra di esse il rapporto obbligatorio che vincola il promittente alla prestazione a beneficio del terzo. Il terzo assume da subito (a meno di suo rifiuto o di revoca da parte dello stipulante nel termine indicato nel co. 2 dell’art. 1411 o nel caso di cui all’art. 1412) la sua posizione rispetto al contratto, che è quella di beneficiario della prestazione dedotta nel contratto. Torna invece a richiamare il fenomeno della “sostituzione” e per questo viene generalmente inquadrato nell’ambito della rappresentanza (seppure, si dice, eventuale e nei confronti di un soggetto da determinare) il contratto per persona da nominare. Qui il contratto, ai sensi dell’art. 1405 c.c., può ben produrre i suoi effetti fra le parti originarie, quando la dichiarazione di nomina manchi, ovvero non sia validamente resa nel termine previsto. Tale efficacia “piena” del contratto, si osserva, è conseguenza fisiologica dell’intervenuto perfezionamento del rapporto con lo stipulante, e dell’inoperatività del patto aggiuntivo, inerente alla facoltà di sostituire (in tutto od in parte) un terzo nella già costituita posizione contrattuale, ove la facoltà medesima non venga esercitata o sia esercitata senza il concorso delle ulteriori condizioni necessarie per tale sostituzione. La dichiarazione di nomina, invero, ai sensi dell’art. 1402 c.c. non ha

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effetto se non è accompagnata dall’accettazione della persona nominata entro lo stesso termine in cui essa deve esser resa, cioè tre giorni o il diverso termine pattuito dalle parti, o se non esista e non sia prodotta un’anteriore procura. La dichiarazione di nomina, come la procura o l’accettazione della persona nominata, dispone poi l’art. 1403, non hanno effetto se non rivestono la stessa forma che le parti hanno usato per il contratto, anche se non prescritta dalla legge; la dichiarazione di nomina soggiace poi al medesimo regime di pubblicità previsto per il contratto (co. 2). L’indicazione del nome del terzo, nel rispetto delle condizioni poste dalla legge, sottolinea la S.C. è «mero atto prodromico alla menzionata sostituzione (in tutto od in parte) nel rapporto»; e la mancanza di tale indicazione (per mancanza o inefficacia dell’electio amici) comporta il definitivo consolidarsi dell’iniziale posizione negoziale dello stipulante medesimo nella sua globale consistenza (chiarissima in tal senso la motivazione di Cass. 10-11-1998, n. 11296). Il richiamo alla procura supporta la ricostruzione maggioritaria e più condivisibile che inquadra il contratto per persona da nominare nell’ambito del fenomeno della sostituzione assicurato dall’istituto della rappresentanza (diretta seppur in questo caso eventuale e inizialmente riferita a persona indeterminata). Al fenomeno della rappresentanza si riconduce la figura del contratto per conto di chi spetta. L’unica norma la cui rubrica faccia espressamente menzione di un contratto «per conto altrui o per conto di chi spetta», è l’art. 1891 c.c., in materia di assicurazione, stipulata «in nome altrui» (v. anche art. 1890) o «per conto di chi spetta». Mentre però nel primo caso si ripropone una sostituzione nel contratto, con le conseguenze in tema di efficacia, di eventuale carenza di potere di rappresentanza e di ratifica (vedi art. 1890), nel secondo si profila una fattispecie che nulla ha a che vedere con la rappresentanza. Chiarisce invero la S.C. che «l’assicurazione per conto altrui o per conto di chi spetta disciplinata dall’art. 1891 c.c. (fattispecie contrattuale stipulata da un interposto a favore di un terzo onde far conseguire a quest’ultimo un servizio – quello di assicurazione –) integra un contratto a favore del terzo ex art. 1411 c.c. o, secondo più recente precisazione, una vicenda negoziale sui generis di contratto a favore di terzo, come dimostrato dalla tipicità della regolamen-

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tazione di cui all’art. 1891 c.c. e dalla considerazione che, in caso di piena identità tra le due fattispecie, non sarebbe sorta la necessità di una specifica normativa al riguardo, sicché ad essa si applicano tanto le norme proprie dell’istituto ex art. 1411 ss. c.c., quanto quelle del contratto di assicurazione nella parte in cui derogano ai principi generali dettati dalla legge per il contratto a favore di terzo. Con la conseguenza che, con specifico riferimento al requisito dell’“interesse”, questo risulta, nell’assicurazione ex art. 1891 c.c. di duplice natura e di diverso contenuto, dovendo essere valutato, ai fini della validità del contratto, sia con riguardo alla posizione dell’assicurato – terzo, a norma dell’art. 1904 c.c., sia con riferimento alla posizione dello stipulante, a norma dell’art. 1411 c.c.». (Cass. 5-6-2007, n. 13058) La parte del contratto è ab origine certa e determinata e si identifica con lo stipulante; mentre (solo) determinabile in ragione della posizione giuridica e/o dell’interesse, è l’assicurato. Una fattispecie di contratto “per conto di chi spetta” che più propriamente investa una delle parti del contratto è semmai richiamata da altre norme, quale ad esempio l’art. 1690, co. 2. Nel contratto di trasporto di cose, il vettore obbligato alla consegna dei beni trasportati, nel caso in cui sorge controversia tra più destinatari o circa il diritto del destinatario alla riconsegna ovvero nel caso di ritardo del destinatario a riceverle, potrà depositare le cose ai sensi dell’art. 1514 (cioè per conto e a spese del destinatario, in pubblico deposito), ma se esse sono soggette a rapido deterioramento potrà farle vendere all’incanto (ex art. 1515 c.c.) per conto dell’avente diritto. Nel momento in cui avviene la vendita il soggetto nel cui interesse le cose sono vendute, cioè l’avente diritto alla consegna delle cose trasportate, non è certo e dunque non è determinato, ma lo sarà una volta risolta la controversia. Lo stesso meccanismo è richiamato nell’art. 1513 (vendita per conto di chi spetta, ordinata dal giudice, nel caso in cui venditore e compratore litighino sulle qualità o condizioni della cosa mobile venduta). In tali ipotesi la parte del contratto – nella cui sfera giuridica si produrranno gli effetti – non è determinata al momento del contratto ma è determinabile in ragione della titolarità di una situazione giuridica, come accertata in seguito. Per questo si evoca il fenomeno della rappresentanza.

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14. Parte in senso formale, parte in senso sostanziale e disciplina dei contratti di consumo Come abbiamo ricordato, le regole di fonte europea volte a disciplinare la prestazione di beni o servizi da parte di professionisti nei confronti di consumatori o clienti (non professionali), fanno sovente riferimento a figure che si interpongono tra professionista e cliente, ma non solo quando ricorra una rappresentanza diretta. Una disposizione di carattere generale si rinviene al riguardo nel già menzionato art. 3 del nostro codice del consumo, che definisce professionista (co. 1, lett. c), «la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale ovvero un suo intermediario». Il rinvio è, come si è detto, (volutamente) generico, nel senso che intende ricomprendere sia le ipotesi in cui chi si “interpone” tra professionista e consumatore è un rappresentante del primo, che agisce dunque in nome e per conto di quello, sia la figura di chi stipula il contratto solo per conto del professionista (c.d. rappresentanza indiretta), sia di chi limita la propria attività, sempre su incarico e nell’interesse del professionista, alla promozione di contratti, che poi saranno stipulati direttamente dal professionista. Le diverse ipotesi sono del resto ben individuate, come abbiamo già ricordato, in una norma speciale, riferita al contratto di credito ai consumatori, vale a dire l’art. 121, co. 1, lett. h), nn. 1 e 2, t.u.b. (ed ora vedi anche l’art. 120 quinquies, co. 1, lett. g), t.u.b.) dove si fornisce la nozione di intermediario del credito, che indica «gli agenti in attività finanziaria, i mediatori creditizi o qualsiasi altro soggetto, diverso dal finanziatore, che nell’esercizio della propria attività commerciale o professionale, svolge, a fronte di un compenso in denaro o di altro vantaggio economico oggetto di pattuizione ...», almeno una delle attività o di «conclusione di contratti di credito per conto del finanziatore», o di «presentazione o proposta di contratti di credito ovvero altre attività preparatorie in vista della conclusione di tali contratti». Ancora, l’art. 31 del t.u. delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (t.u.f), quando definisce la figura del promotore finanziario, del quale gli intermediari finanziari si avvalgono per offrire e collocare presso gli investitori i prodotti finanziari «in un luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze» della società che emette il prodotto finanziario o lo propone o lo colloca (c.d. offerta fuori sede, art. 30 t.u.f. IV, II, 21), la

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identifica nella «persona fisica che ... esercita professionalmente l’offerta fuori sede come dipendente, agente o mandatario». Si fa riferimento dunque a rapporti tra professionista (l’impresa di investimento) e promotore per suo conto, che possono accompagnarsi o meno al conferimento di poteri di rappresentanza diretta. L’espressa previsione e definizione di tali figure, nel caso dell’attività di offerta e collocamento di prodotti finanziari come nel caso di attività di finanziamento ai consumatori, serve innanzitutto a regolare l’esercizio dell’attività di tali promotori finanziari o intermediari del credito (vedi la istituzione dell’albo dei promotori finanziari, con l’art. 31, co. 4, t.u.f.). Ma serve altresì – ed è quello che qui interessa – a neutralizzare la eventuale distinzione tra parte in senso formale e parte in senso sostanziale dal lato del professionista, ai fini dell’applicazione delle regole che disciplinano l’attività contrattuale di quest’ultimo con i consumatori o clienti, e soprattutto ai fini dell’imposizione dei relativi obblighi in fase precontrattuale o di stipula del contratto a tutela della controparte non professionale. Dunque, nel contratto professionista-consumatore (ma lo stesso va detto per il contratto professionista/investitore non qualificato o cliente al dettaglio), come del resto sancisce in generale l’art. 3, co. 1 lett. c), cod. cons., tutti gli obblighi che la legge pone a carico del professionista permangono in capo a lui malgrado qualsivoglia interposizione e si intendono riferiti altresì a chiunque entri in contatto, ai fini della stipula di tali contratti, con il consumatore (o cliente), interponendosi tra le parti, sia esso rappresentante del professionista in senso proprio o solo procacciatore/promotore di contratti: da qui un uso, come abbiamo detto volutamente generico del termine intermediario. Si veda il tenore dell’art. 124 t.u.b. e il costante riferimento, indistinto, a “finanziatore” o “intermediario del credito”, quale destinatario degli obblighi precontrattuali di informazione. Meno attento è stato fin qui il diritto dell’Unione europea al fenomeno, certo meno frequente ma non irrilevante, della sostituzione o rappresentanza dal lato del consumatore-cliente. Qui il problema è specularmente il medesimo – se cioè l’intervento di un soggetto (persona fisica o giuridica e persino a sua volta professionista) che contrae in nome o anche solo nell’interesse del consumatore/cliente, faccia venir meno il fondamento della protezione che la legge attribuisce al consumatore, così escludendo che egli possa vantare in questo caso i diritti riconosciutigli.

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La questione è di notevole interesse proprio per chiarire la ratio della normativa di protezione; e non è ignorata nel dibattito in sede europea, come dimostra un (condivisibile) tentativo di affrontarla in seno alla Proposta di direttiva su i Diritti dei consumatori (del 2008, poi approvata come Direttiva 2011/83). La norma fu tuttavia espunta dal testo finale della direttiva, sicché la questione non ha ad oggi trovato soluzione nel diritto positivo, se si esclude la regola cui abbiamo fatto cenno, in verità del tutto particolare, a proposito di acquisto di “pacchetti turistici” (sopra, 4). Occorre comunque partire da quest’unico dato disponibile. Come già ricordato, l’art. 33 del nostro codice del turismo definisce turista «l’acquirente, il cessionario di un pacchetto turistico o qualunque persona anche da nominare, purché soddisfi tutte le condizioni richieste per la fruizione del servizio, per conto del quale il contraente principale si impegna ad acquistare senza remunerazione un pacchetto turistico». Poiché il turista, nella disciplina di cui parliamo, è il destinatario delle regole di protezione quando è parte dei c.d. “contratti del turismo organizzato”, è di tutta evidenza che la definizione di cui ci stiamo occupando intende ricomprendere anche il caso in cui il contratto con il professionista, sia esso l’organizzatore del viaggio o l’intermediario, come definiti dalla stessa norma, venga stipulato da un soggetto diverso da quello che poi fruirà del servizio turistico. Seguendo la nozione di cui sopra, deve intendersi per turista – dunque il consumatore nei contratti di cui parliamo – anche il soggetto che diventi successivamente parte del contratto con il professionista secondo il meccanismo sopra descritto del contratto per persona da nominare, o, più in generale, secondo le regole del mandato con o senza rappresentanza cui sembra riferirsi l’art. 33 quando menziona la persona “per conto della quale” viene stipulato il contratto, ma è turista anche chi rimane estraneo al contratto col professionista perché “cessionario” del pacchetto, fattispecie che sembra rimandare non tanto (o comunque non solo) ad una vera e propria cessione del contratto, ma ancora al mandato senza rappresentanza, che obbliga il mandatario a ritrasferire i diritti in capo al mandante. Tutte le fattispecie previste o in qualche modo richiamate servono a chiarire che la disciplina di tutela e dunque i diritti che ne derivano tengono in considerazione comunque il turista, quale destinatario finale del servizio (chi soddisfi «tutte le condizioni per la fruizione del servizio»); e dunque, in caso di rappresentanza (diretta), quella che chiamiamo parte in senso sostanziale. L’irrilevanza di qualsivoglia interposizione

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nella stipula del contratto, ai fini del mantenimento della tutela in capo al destinatario finale del bene o servizio acquistato, è però subordinata al presupposto che il contraente principale abbia acquistato o si sia impegnato ad acquistare, per conto o in nome del turista, senza remunerazione. Tale condizione, si badi, non esclude di per sé che ad interporsi tra professionista e turista sia a sua volta un professionista, ma perché il turista benefici della protezione quale consumatore (s’intende nel contratto con l’organizzatore o con l’intermediario che abbia procurato il pacchetto o i servizi disaggregati da combinare) occorrerà che nel caso di specie il professionista che lo rappresenta o comunque contrae per lui non abbia agito nell’ambito di una attività economica organizzata e per fini di lucro, ma a titolo gratuito. Siamo dunque, si badi bene, di fronte ad una figura interposta, diversa da quella dell’intermediario di cui alla lett. b) del medesimo art. 33, che è sì un operatore che può agire anche non professionalmente e senza scopo di lucro, ma poi vende o procura al turista il pacchetto a fronte di un corrispettivo. Una interpretazione della norma coerente con il sistema dei contratti professionista/consumatore deve portare a concludere che, ferma restando la protezione del turista direttamente nei confronti di chi gli rivenda o abbia acquistato per lui un pacchetto turistico in cambio di un corrispettivo, il turista non potrà comunque vantare in questo caso diritti e pretese nei confronti di chi (organizzatore del viaggio o comunque professionista del settore) abbia a sua volta venduto ad altro professionista o all’intermediario di cui alla lett. b) dell’art. 33, poi entrato in relazione contrattuale col turista. Il turista che si rivolge ad un rivenditore o ad un intermediario dovrà e potrà far valere i suoi diritti direttamente nei confronti di questi. La fattispecie richiamata dall’art. 33, lett. c), cod. tur. è un’altra; e intende far salvi i diritti del fruitore finale del servizio che abbia incaricato altri, ma non chiedendogli un apposito servizio remunerato, dell’acquisto del pacchetto. Fatta salva l’assenza di remunerazione, non potrà escludersi ovviamente, almeno in via di principio, che l’incaricato sia un operatore del settore, al quale in nome ad esempio di un rapporto di amicizia, il turista deleghi la contrattazione con l’organizzatore del viaggio. Insomma, la fattispecie descritta non esclude affatto che a contrarre con l’organizzatore del viaggio o con l’intermediario, per poi cedere gratuitamente il contratto o il pacchetto al fruitore finale, sia stato un soggetto esperto e persino un operatore del settore. Se si riflette sul punto, la regola di cui parliamo, pur particolare, si rivela assai utile per confermare

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la ratio della disciplina di protezione dei consumatori che abbiamo sopra enunciato. La protezione del consumatore, in questo caso nella veste di turista, non trova fondamento necessariamente nella inesperienza del contraente partner del professionista e sicuramente non è subordinata in concreto alla presenza di un soggetto che stipuli il contratto in posizione di debolezza, perché profano e incapace di comprendere appieno i contenuti dell’accordo cui aderisce. Se così fosse la possibile divaricazione tra contraente principale e fruitore del servizio o tra parte in senso formale e parte in senso sostanziale non potrebbe rimanere senza conseguenze. Si conferma invece che il “diritto dei consumatori” intende intercettare contratti il cui scopo sia di consumo; ciò che rileva, e la regola in tema di contratti del turismo organizzato lo conferma, è che il contratto serva a fornire il bene o servizio scambiato ad un soggetto (persona fisica) che con esso intende soddisfare un bisogno estraneo alla propria (eventuale) attività di professionista. Il contratto è dunque di consumo, o se si preferisce tra professionista e consumatore – e tale rimane comunque – allorché il destinatario finale, del bene o servizio scambiato con quel contratto, può qualificarsi come consumatore. È questa la fattispecie considerata all’interno del codice del turismo pur se la norma intende opportunamente circoscriverla richiedendo la gratuità dell’intervento di un terzo. Nel caso di intervento di un intermediario professionista (con attività remunerata) la regola che abbiamo provato ad enunciare non ne esce smentita; perché qui torna a prospettarsi una consueta fattispecie di contratto professionista/consumatore che intercorre però tra il fruitore finale del servizio e chi a pagamento ha acquistato tale servizio per rivenderglielo o comunque metterglielo a disposizione, in esecuzione di altro e diverso contratto di gestione (mandato, ecc.). In questa direzione sembrava muoversi il diritto dell’Unione europea stando almeno al contenuto degli artt. 2, n. 19 e art. 7 della citata proposta di direttiva sui diritti del consumatore, esitata dalla Commissione Europea nell’ottobre del 2008. Qui infatti, limitatamente ai contratti tra consumatori, si introduceva la nozione di “intermediario” (del consumatore), definito appunto, come «un commerciante che conclude un contratto a nome o per conto del consumatore» (art. 2, n. 19); e si stabiliva (art. 7) che «1. Prima della conclusione del contratto l’intermediario deve informare il consumatore che egli agisce a nome o per conto di un altro consumatore e che il contratto concluso non è considerato un contratto tra il consumatore e il commerciante ma un contratto tra due con-

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sumatori e quindi che non è disciplinato dalla presente direttiva»; precisandosi poi che «2. Se l’intermediario non adempie gli obblighi di cui al paragrafo 1, si considera che egli abbia concluso il contratto a proprio nome». La scomparsa della regola nel testo definitivo della direttiva (dir. 2011/83) lascia comunque aperto il problema almeno sul piano del diritto positivo. Coglie bene la ratio della disciplina di protezione dei consumatori, riferita alla fruizione finale del bene o servizio e dunque alla parte del rapporto di consumo (cui infatti si riferisce il nostro codice del consumo, nella sua parte III), piuttosto che al soggetto che stipula il contratto, l’orientamento affermatosi in giurisprudenza a proposito di contratti stipulati dall’amministratore di condominio. «Il condominio è un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti. In particolare il rapporto contrattuale oggetto di causa, relativo ad una prestazione di servizi, non vincola l’amministratore in quanto tale, ma i singoli condomini e l’amministratore opera come mandatario con rappresentanza dei singoli condomini. Ne consegue che, poiché i condomini vanno senz’altro considerati consumatori, essendo persone fisiche che agiscono come nella specie, per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta, anche al contratto concluso dall’amministratore del condominio con il professionista, in presenza degli altri elementi previsti dalla legge, si applicano gli artt. 1469 bis e segg. c.c.» [oggi 33 ss. cod. cons.]. (Cass. 24-7-2001, n. 10086, ord.) La nostra giurisprudenza ha poi avuto occasione di pronunciarsi in tema di distinzione tra contraente e destinatario del servizio da un’ottica tuttavia peculiare quale quella del contratto di assicurazione. Chiamata a decidere sulla presunta illegittimità costituzionale dell’allora vigente art. 1469-bis, co. 2, c.c. (oggi art. 33 cod cons.) in riferimento all’art. 3 Cost., per la parte in cui, nella disciplina delle clausole vessatorie, non veniva inclusa nella nozione di consumatore anche la figura del terzo beneficiario non contraente della polizza cumulativa infortuni, la Corte costituzionale (con ordinanza 16-7-2004, n. 235), osservò che «nei termini in cui sono stati prospettati, rispetto alle riferite vicende

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contrattuali, nelle quali (secondo l’assunto degli stessi rimettenti) i beneficiari sarebbero titolari di un autonomo e non derivato diritto ai vantaggi dell’assicurazione, trovandosi nel loro rapporto con l’assicuratore nella stessa posizione del contraente – i palesati dubbi di incostituzionalità si basano essenzialmente su un’apodittica affermazione dell’impossibilità di dare alla norma impugnata una diversa lettura» e, conseguentemente, dichiarò la manifesta inammissibilità della questione sollevata. Conclusione che dunque prospettava la piena ammissibilità di una diversa lettura della norma, volta ad includere tra i consumatori anche quanti, pur non avendo stipulato il contratto di assicurazione, ne erano comunque beneficiari. Qui tuttavia, come ben evidenziò di lì a poco la nostra S.C. (ordinanza 11-1-2007, n. 369), il diritto del beneficiario della polizza assicurativa deriva direttamente dal contratto stipulato con il professionista, senza il quale non sarebbe mai sorto, e la prestazione in esso convenuta deve essere resa in suo favore; inoltre, egli è titolare del diritto di azione nei confronti del professionista in caso di inadempimento da parte del medesimo. La fattispecie del contratto a favore di terzo, insomma, rende di tutta evidenza praticabile, come suggerito già dalla Corte costituzionale, l’assimilazione tra consumatore contraente e consumatore beneficiario, in linea con la figura del fruitore finale del servizio presa in considerazione, pur con riferimento a schemi contrattuali anche diversi (il contratto per persona da nominare o per conto del turista) dal codice del turismo. Non è in contraddizione con questo orientamento la decisione – in tutto invero condivisibile – con cui la S.C., con ordinanza 27-11-2012, n. 21070 ha invece negato che la tutela in caso di clausole vessatorie spettasse comunque al consumatore fruitore finale della prestazione (assicurativa) malgrado la rintracciabilità in sede di stipula del contratto di una vera e propria trattativa (che come vedremo esclude una verifica di vessatorietà della clausola), pur se trattativa intercorsa tra l’assicuratore e l’associazione di rappresentanza degli assicurati. Qui infatti l’alternativa tra applicabilità o esclusione della regola di protezione non riguarda la presenza o meno di un contraente o beneficiario finale che si qualifichi come consumatore, bensì la rintracciabilità o meno di una “negoziazione individuale” tra coloro che formalmente concludono il contratto (che come vedremo esclude l’applicabilità del regime di controllo delle clausole vessatorie V, 4).

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15. Modificazioni soggettive e circolazione del contratto. La successione nel contratto Abbiamo fatto già cenno alla cessione del contratto, per distinguerla dalle figure del contratto per persona da nominare e del contratto a favore di terzo, figure diverse, pur se tuttavia nella prassi possano apparire di difficile identificazione, in presenza di formule talora ambigue adottate dai contraenti. E abbiamo dunque già posto in evidenza come la cessione del contratto riproponga, né più né meno, le ordinarie regole di circolazione dei diritti ed obblighi ed in particolare rimandi all’autonomia dei privati di disporre il trasferimento di questi: siamo qui fronte ad una successione nel rapporto contrattuale. Parlare di successione nel contratto significa riferirsi ai casi, ove ammessi dalla legge, in cui, successivamente alla stipula del contratto e durante la vita di questo, si determini il trasferimento ad altro (o altri) soggetti della posizione di un contraente, per atto tra vivi o a causa di morte. La successione, per atto tra vivi o a causa di morte, riguarda dunque non il contratto come atto, che si è già a suo tempo perfezionato, bensì la posizione contrattuale che da quell’atto si è originata. La successione, si badi, riguarda la posizione contrattuale nella sua interezza, e dunque i diritti ed obblighi derivanti dal contratto: poiché se invece avesse ad oggetto solo il diritto di credito (alla prestazione) o solo uno o più obblighi (esempio pagamento del corrispettivo) derivanti dal contratto, entrerebbero in gioco le diverse figure della cessione del credito (art. 1260 c.c.) o della successione nel debito, con le diverse modalità conseguenti a delegazione, espromissione, accollo (artt. 1268 ss.). Le fattispecie, come si comprende, sono significativamente diverse, specie se si ha riguardo alla posizione dell’altro contraente. La cessione da A a B del diritto di credito di A verso X, in principio, è relativamente indifferente per l’interesse di X, il quale infatti non è chiamato dalla legge a dare il suo consenso, presupponendosi del tutto irrilevante per lui di dover pagare a B invece che ad A; la notifica a lui della intervenuta cessione risponde all’interesse di A e B, poiché serve ad evitare che X adempia al cedente invece che al cessionario (egli non sarà liberato, ma solo se la cessione gli è stata notificata o comunque egli ne era a conoscenza: art. 1264 c.c.), oltre che a regolare la prevalenza tra più cessionari, art. 1265 c.c. La successione nel debito può ben avvenire senza il consenso del

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creditore, ma, ovviamente, l’effetto di successione del cessionario al cedente, con liberazione del primo, avverrà solo con il consenso del creditore ceduto, rimanendo negli altri casi cedente e cessionario obbligati in solido (accollo interno o accollo esterno cumulativo). Per aversi propriamente cessione del contratto occorrerà invece ravvisare il trasferimento, come si è detto, di una posizione contrattuale, fatta di diritti ed obblighi: per questo l’art. 1406 c.c. fa riferimento, nella nozione, ai «rapporti derivanti da un contratto a prestazioni corrispettive, se queste non sono state ancora eseguite»; e per questo la legge chiede, come abbiamo già detto, il consenso dell’altra parte (il contraente ceduto), che può essere anche preventivo – reso ad esempio già in seno al contratto nel quale poi interviene la trasmissione a un terzo della posizione dell’originario contraente. Dottrina e giurisprudenza si mostrano favorevoli ad ammettere che l’autonomia privata possa validamente utilizzare lo schema della cessione del contratto anche nel caso di contratti già eseguiti da una parte o di contratti con effetti reali. Nei casi in questione, in verità, tornerebbe a prospettarsi piuttosto una cessione del credito. La cessione del contratto avviene sempre in forza di un contratto di cessione, che di regola è necessariamente trilatero dovendo prestare consenso il cedente, il cessionario e il ceduto. Il contratto di cessione è contratto ad effetti reali, poiché il consenso delle parti, validamente espresso, determina il trasferimento di diritti dal cedente al cessionario (art. 1376 c.c.); si ritiene che debba avere la stessa forma del contratto oggetto della cessione. L’operazione di cessione può avvenire in cambio di un corrispettivo che il cessionario pagherà al cedente; può avvenire, ad esempio, a seguito di accordo tra cedente e cessionario al fine di estinguere un debito che il primo ha (ad altro titolo) nei confronti del secondo. Si sottolinea per questo che il contratto di cessione non è un tipo ma semmai uno schema di contratto che potrà avere diversa causa (purché la causa vi sia e sia lecita). Con la cessione – se valida ed efficace perché intervenuta con il consenso del cedente – tutte le pretese e gli obblighi nascenti dal contratto ceduto passano dal cedente al cessionario. Dunque il ceduto potrà opporre al cessionario tutte le eccezioni derivanti dal contratto ceduto (nullità, annullabilità del contratto ceduto, eccezioni di inadempimento, ecc.) e viceversa; mentre rimarranno estranee al loro rapporto le vicende che attengono ai rapporti tra ceduto e cedente. Il cedente, di regola, esce dal rapporto ceduto, dovendo garantire al cessionario solo la validità del contratto del quale gli ha trasfe-

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rito la propria posizione. Tuttavia è possibile (e frequente nella prassi) che la cessione non sia liberatoria (pro soluto), ma pro solvendo: il cedente assume la garanzia dell’adempimento (da parte del ceduto nei confronti del cessionario) ed in tal caso, dispone l’art. 1410 c.c., risponde come un fideiussore del ceduto. Il contratto “del turismo organizzato” (o come suol denominarsi il contratto di vendita di pacchetto turistico) può essere ceduto dal turista senza bisogno del consenso del professionista, «ad un terzo che soddisfi tutte le condizioni richieste per la fruizione del servizio», purché, secondo quanto prevede l’art. 39 cod. tur., il turista comunichi all’organizzatore o intermediario, entro quattro giorni prima della partenza, l’impossibilità di fruire del pacchetto e il nome del cessionario (che, insieme al cedente, sarà responsabile in solido per il pagamento del prezzo ed eventuali spese ulteriori). Il fenomeno della circolazione del contratto, come conferma la disciplina della cessione, deve tenere conto dell’interesse di tutte le parti contraenti e innanzitutto del contraente ceduto, cioè di chi vede mutare il suo partner contrattuale; ma può essere ritenuta dall’ordinamento necessaria, tenuto conto della natura del contratto e delle prestazioni che ne discendono. I contratti stipulati per l’esercizio dell’impresa, ad esempio, sono strettamente funzionali a garantire l’attività economica e costituiscono componente essenziale del valore dell’azienda: per questo, l’art. 2558 c.c. prevede che, in mancanza di patto contrario, l’acquirente dell’azienda subentri nei contratti stipulati per l’esercizio di questa «che non abbiano carattere personale», dovendosi intendere questa locuzione come riferita ai contratti che non abbiano alcun nesso strumentale con l’impresa. Si tratta di un caso di cessione legale, che tuttavia non trascura l’interesse del contraente ceduto, al quale la legge dà la possibilità di recedere dal contratto entro tre mesi, purché adduca una giusta causa. Il contratto di locazione può essere ceduto senza il consenso del locatore purché insieme alla cessione o locazione dell’azienda, salva la possibilità del locatore di opporsi per gravi motivi (art. 36, l. n. 392/1978). Finalità analoga – assicurare la continuazione dell’attività d’impresa, quando si tratti di impresa coltivatrice – persegue la regola di cui all’art. 48, co. 4, della l. n. 203/1982: il contratto di affitto agrario, anche quando non sia stata costituita una impresa familiare (ipotesi nella quale il contratto intercorre con la famiglia coltivatrice e continua finché vi sia almeno un componente di questa), può essere ceduto dall’affittuario, senza il con-

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senso del concedente, ad uno o più componenti della propria famiglia, che possano continuare con lui la diretta conduzione e che svolgano già da almeno tre anni attività agricola a titolo principale. Nel contratto di locazione di immobili ad uso di abitazione succede per legge il coniuge cui, in sede di separazione giudiziale, sia stata assegnato il diritto di abitare la casa familiare o quando tale diritto sia stato concordato dai coniugi in sede di separazione consensuale (art. 6, co. 2 e 3, l. n. 392/1978). La regola della generale trasmissibilità, in caso di morte del titolare, quando trattasi di diritti patrimoniali, deve contemperarsi con la natura del singolo contratto e delle prestazioni che ne sono oggetto. Si è spesso enfatizzata in passato, da parte della dottrina, la categoria dei contratti caratterizzati dalla rilevanza della persona (intuitu personae), per questo non trasmissibili. L’ordinamento detta spesso regole particolari nel segno della intrasmissibilità, per taluni contratti in considerazione della natura delle prestazioni dedotte di cui non potrebbe pretendersi l’adempimento da parte del successore dell’obbligato o il cui adempimento da parte del successore non realizzerebbe l’interesse del creditore: così, la morte dell’appaltatore potrà portare allo scioglimento del contratto se la considerazione della sua persona «sia stata motivo determinante del contratto» (art. 1674, c.c.); ai sensi dell’art. 1722, co. 1, n. 4 c.c., il mandato si estingue in caso di morte del mandante o del mandatario, a meno che non abbia ad oggetto atti relativi all’esercizio di una impresa (se l’esercizio dell’impresa è continuato e le parti o gli eredi non recedano). La pretesa natura “fiduciaria” dei contratti di locazione o di affitto che renderebbe rilevante per il locatore la persona del conduttore, in passato prospettata, trova smentita invece nelle regole che espressamente prevedono casi di successione legale a causa di morte nel contratto. La successione nel contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, è prevista per legge (art. 6, co. 1) a favore di coniugi, eredi, parenti e affini che convivano con lui abitualmente; nonché, dopo la sentenza additiva della Corte cost. 24-3-1988, n. 404, anche del convivente more uxorio. Di successione legale nel contratto deve parlarsi nel caso di contratti agrari, dove, ai sensi dell’art. 49, ult. co., l. n. 203/1982, nel caso di morte dell’affittuario, mezzadro, colono, compartecipante o soccidario, il contratto non si scioglierà alla fine dell’annata agrario in corso, se tra gli eredi via sia persona che abbia esercitato e continui ad esercitare attività agricola in qualità di coltivatore diretto o di imprenditore a titolo principale.

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Non si ha un fenomeno di successione nel contratto nel caso di subcontratto. In questo caso una parte – ad esempio conduttore di un appartamento, affittuario di fondo rustico, appaltatore – conclude con un terzo un contratto per cedergli non la propria posizione contrattuale ma diritti che da quella posizione discendono. Il conduttore non cede al subconduttore la sua posizione contrattuale ma il diritto di godere dell’appartamento che egli ha in locazione; l’affittuario conviene con il subaffituario che quest’ultimo sfrutti il fondo rustico che il primo ha preso in affitto, corrispondendogli un canone (di solito superiore a quello che egli a sua volta paga al proprio concedente). L’appaltatore, stipulando uno o più contratti di subappalto, commette ad altre imprese alcuni dei lavori che gli sono stati affidati. Gli esempi chiariscono che la parte del primo contratto, o contratto principale, assume una posizione per così dire invertita nel subcontratto: il conduttore si pone come locatore del subconduttore, l’affittuario come concedente del subaffittuario, l’appaltatore come committente del subappaltatore. Il codice non detta una disciplina generale del subcontratto; in alcuni casi è esplicitamente ammesso ma, di regola, con il consenso dell’altra parte del contratto principale (submandato, subcomodato). Spesso la legge lo vieta ravvisandovi uno strumento di interposizione parassitaria nello sfruttamento del lavoro altrui, come nel caso di subaffitto di fondi rustici, o comunque una operazione che snatura la funzione del primo contratto, spesso alla base di una disciplina di favore: è il caso della sublocazione di immobili ad uso di abitazione, nella quale il conduttore cesserebbe di essere portatore di un interesse diretto all’uso abitativo del bene e solo lucrerebbe dalla cessione in godimento ad un subconduttore; è il caso della sublocazione di immobili destinati ad attività economica se non accompagnata dalla locazione o cessione dell’azienda; in ragione della rilevanza che assumono, ai fini dell’affidamento con gara pubblica, i requisiti di professionalità e correttezza dell’imprenditore appaltatore, è vietato in generale il subappalto negli appalti pubblici. In principio, i due contratti dovrebbero dare vita a rapporti distinti e separati salvi ovviamente gli effetti del collegamento negoziale che è implicito nel fenomeno: la nullità o l’annullamento del primo contratto travolgerà i diritti della parte che ne abbia a sua volta disposto con il subcontratto, con conseguenze che però dovrebbero essere oggetto a loro volta di separata pronuncia; ma già l’inadempimento del locatore nei confronti del suo conduttore si ripercuoterà sulla possibilità del conduttore di adempiere

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correttamente nei confronti del subconduttore, ecc. In realtà la legge, in un’ottica di disfavore verso il fenomeno, in alcuni casi (subaffitto di fondi rustici vietato), prevede il subentro per legge del subaffittuario nella posizione giuridica dell’affittuario, così saltando una posizione che, come detto, ritiene parassitaria (quella dell’affittuario nel contratto base); ovvero regola espressamente i termini del collegamento negoziale tra i due contratti. Il paradigma della disciplina del subcontratto si rinviene tradizionalmente nell’art. 1595 c.c. (sublocazione), dove è prevista una azione diretta fra la parte del primo contratto e il subcontraente dell’altra e si sancisce altresì l’opponibilità al subcontraente delle vicende estintive del primo contratto. L’ultimo comma precisa che «senza pregiudizio delle ragioni del subconduttore verso il sublocatore, la nullità o la risoluzione del contratto di locazione ha effetto anche nei confronti del subconduttore, e la sentenza pronunciata tra locatore e conduttore ha effetto anche contro di lui». Il locatore, dispone il co. 1, ha azione diretta contro il subconduttore per esigere il prezzo della sublocazione, di cui questi sia ancora debitore al momento della domanda giudiziale e per costringerlo ad adempiere tutte le altre obbligazioni derivanti dal contratto di sublocazione.

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II.

L’ACCORDO E LA FORMAZIONE DEL CONTRATTO 1. L’accordo delle parti, il procedimento di formazione del contratto e le sue varianti La presenza dell’accordo – dunque il consenso delle parti – è essenziale: trattasi di uno dei requisiti essenziali di cui parla l’art. 1325 c.c., in mancanza del quale il contratto non è valido. Non deve trarre in inganno la distinzione, pure importante, tra contratti consensuali e contratti reali. Tale distinzione segnala la differenza circa le modalità di conclusione del contratto che caratterizza la seconda categoria: nei contratti reali, infatti, occorre anche la consegna del bene. È corretto dunque affermare che nei contratti reali – cioè mutuo, deposito, comodato, pegno, riporto – il contratto si perfeziona con la consegna (datio), ma a patto di aver chiaro che la consegna non sostituisce o equivale a manifestazione del consenso, ma si aggiunge. Nei contratti consensuali, il consenso, dunque la volontà delle parti, è sufficiente perché nasca il vincolo; nei contratti reali alla manifestazione del consenso, dunque al raggiungimento dell’accordo, occorre accompagnare l’elemento materiale della consegna. Il termine accordo indica l’incontro delle due o più volontà, che può avvenire con modalità diverse: lo scambio di consensi contestuale tra parti presenti o lo scambio di dichiarazioni scritte di identico tenore, ancorché non contestuali, un comportamento univoco del destinatario dell’offerta, l’«incontro» per via telematica, ecc. Molteplici e per alcuni aspetti difficilmente “catalogabili” sono gli atteggiamenti e comportamenti degli individui, allorché essi entrano in relazione e determinano come governare i loro rapporti patrimoniali. In conseguenza di ciò e a fronte della complessità e velocità degli scambi e delle relazioni economiche, in molti casi non è affatto agevole stabilire se e quando si è perfezionato l’accordo.

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Il nostro codice prende in considerazione un modello di formazione dell’accordo nel quale siano ben identificabili le manifestazioni di volontà di chi fa la proposta e di chi accetta, preoccupandosi di fissare le regole in base alle quali può dirsi avvenuto l’incontro delle volontà quando le parti sono lontane. Dunque, recita l’art. 1326 «il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte». Per asseverare tale conoscenza soccorrono poi le regole e le presunzioni di cui agli artt. 1334 e 1335. Ma la prassi conosce meccanismi assai più articolati di conclusione del contratto. Alcuni di questi sono espressamente presi in considerazione dall’ordinamento: si pensi all’art. 1327 (contratto concluso mediante esecuzione); all’art. 1333 (contratto con obbligazioni del solo proponente); alla disciplina relativamente recente dei contratti stipulati con strumenti informatici o a distanza quest’ultima ormai concentrata nel codice del consumo. In generale, va detto però che il modello che distingue proposta ed accettazione, e dunque scandisce la conclusione del contratto nella sequenza formulazione della proposta e sua conoscenza da parte del destinatario/formulazione dell’accettazione e sua conoscenza da parte del proponente (con le variabili circa la revoca o le modificazioni a sua volta prospettate dal destinatario della proposta, ecc.), fornisce una rappresentazione rigida e per molti aspetti sincopata della vicenda che conduce alla formazione dell’accordo contrattuale, disegnata sulla fattispecie del contratto tra persone lontane, nella versione diffusa al tempo della emanazione del codice civile, ed oggi meno frequente seppur presente nella prassi degli affari. Rispetto a tale modello stanno oggi in qualche modo agli antipodi, da una parte, le modalità di conclusione del contratto nell’ambito della contrattazione di massa, caratterizzata dal fenomeno della standardizzazione delle condizioni e delle clausole contrattuali, predisposte da una parte e sottoposte all’altra parte solo perché le accetti in blocco o meno, senza possibilità di discuterle. In questo campo, come meglio diremo, (infra, 16) manca quasi sempre una fase preliminare di incontro e di trattativa, nel corso della quale le parti ponderino il contenuto del contratto e sia possibile distinguere una proposta ed una accettazione, magari accompagnate da modifiche ed aggiustamenti di volta in volta concordati. In questo modello di contrattazione si collocano anche quelli che una dottrina ha plasticamente definito “scambi senza accordo”: pensando a quelle transazioni che si perfezionano con semplici e abitua-

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li comportamenti (inserendo una monetina e premendo un bottone per l’acquisto del biglietto della metro o di una bottiglia di acqua minerale, da un distributore automatico, aderisco ad un contratto le cui condizioni non mi sono affatto “illustrate”, e semmai sinteticamente indicate, nel primo caso, sullo stesso biglietto quale “titolo di viaggio”, nel secondo in un avviso sintetico che fa riferimento a condizioni generali pubblicate altrove). La dottrina talora ricorre anche per queste fattispecie al concetto di “rapporti contrattuali di fatto”. In realtà la formula meglio si attaglia a vicende nelle quali l’ordinamento dà rilievo al dato fattuale espresso da una relazione in concreto instauratasi, nella quale ad esempio una prestazione sia stata effettuata, in mancanza di una fonte valida, come nel caso di cui all’art. 2126 c.c. (prestazione di lavoro di fatto sulla base di un contratto nullo o annullato). Nelle fattispecie cui qui ci riferiamo, invece, non può dirsi mancante un momento nel quale le volontà delle parti si incontrano, pur se ciò avviene per il tramite di un comportamento concludente (l’inserimento della monetina nel distributore di bibite) attraverso il quale il cliente non solo paga il prezzo della bottiglietta d’acqua così manifestando la volontà di acquistarla ma, pur se non sempre consapevolmente, aderisce alle condizioni contrattuali predisposte dal distributore (che dovrebbero essere da qualche parte pubblicizzate). Dall’altra parte, e al polo opposto, sta invece il lungo e complesso confronto tra le parti che caratterizza le più complesse transazioni di maggior rilevanza economica, entro le quali non è sovente agevole individuare il momento decisivo nel quale dalle negoziazioni preliminari si è giunti all’accordo definitivo e vincolante. In sede europea, nell’ambito dei molteplici (e finora infruttuosi) tentativi di delineare una disciplina generale del contratto comune per tutti gli ordinamenti degli Stati membri, questa divaricazione appare ben espressa e sintetizzata. Si consideri – trattandosi dell’unica fonte che potrebbe tradursi in testo normativo e che comunque riassume meglio e porta a sintesi le tendenze prevalenti in ambito europeo – la Proposta di regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo a un diritto comune europeo della vendita (2011)), ancora in fase di difficile gestazione (II, 6). Qui l’art. 30 (Requisiti per la conclusione del contratto) dispone che: «1. Il contratto è concluso quando: (a) le parti raggiungono un accordo; (b) le parti intendono far produrre all’accordo effetti giuridici; e

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(c) l’accordo, integrato se necessario da norme del diritto comune europeo della vendita, ha contenuto e certezza sufficienti per produrre effetti giuridici. 2. L’accordo è raggiunto mediante l’accettazione della proposta. L’accettazione può essere effettuata mediante dichiarazioni esplicite, o mediante altre dichiarazioni o comportamenti. 3. La volontà delle parti di conferire effetti giuridici all’accordo si desume dalle loro dichiarazioni e dal loro comportamento». Si tratta, lo ribadiamo, di un testo ancora in discussione e dunque non ancora di regole giuridiche. Merita di essere comunque segnalata la scelta di adottare disposizioni molto aperte alle molteplici variabili con le quali le parti possono manifestare il loro volere, al quale sostanzialmente si riconosce ruolo decisivo, dovendosi per questo tenere in considerazione e interpretare, più che gli atti, i comportamenti. Non così però ove sia abbia riguardo ai contratti tra professionista e consumatore conclusi a distanza o negoziati fuori dei locali commerciali, ove si prescrive che dettagliate indicazioni, oggetto già delle informazioni precontrattuali dovute dal professionista al consumatore, «formano parte integrante del contratto e non possono essere modificate se non con l’accordo esplicito delle parti» (art. 13, co. 2 della Proposta), così irrigidendo l’accordo entro un contenuto predeterminato e standardizzato, in mancanza del quale, riteniamo, non potrebbe rintracciarsi un accordo vincolante (e vedi quanto si dirà oltre: infra, 26, 28). Disposizioni, queste ultime, che riproducono quanto stabilito nelle direttive sui contratti a distanza e negoziati fuori dei locali commerciali e, da ultimo, nella direttiva sui diritti dei consumatori 2011/83, recepita nel nostro ordinamento con d.lgs. 21-2-2014, n. 21. Fuori da questo ambito, invece, in tema di conclusione del contratto, pur dovendosi assumere quale punto di partenza lo schema adottato dal codice civile all’art. 1326 (non a caso riproposto negli artt. da 31 a 39 della proposta di regolamento europeo sopra presa in considerazione), non può trascurarsi, in generale, che il momento della conclusione (in cui dovrebbe essere raggiunto come suol dirsi l’in idem placitum consensus, cioè il consenso pieno sul medesimo contenuto del contratto) può essere in molti casi solo l’epilogo di un percorso più o meno lungo e complesso attraverso cui le parti hanno via via scandagliato, definito e concordato, i diversi aspetti del contratto e comunque tale momento tende a individuare e “fotografare” a mò di fermo immagine la fine di una vicenda sempre

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più o meno complessa che riguarda la formazione dell’accordo che poi si andrà a concludere. Occorre in altri termini prendere atto – pena una rappresentazione inattuale del fenomeno e delle sue valenze giuridiche – che la disciplina della formazione e individuazione dell’accordo contrattuale si delinea oggi in modo articolato, dovendo, per un verso, registrare e regolare quegli elementi di flessibilità reclamati dalla prassi degli affari, e per altro verso guadagnare una inedita rigidità capace di governare e controbilanciare i fenomeni di standardizzazione e con essi le asimmetrie di informazione e decisione che connotano la contrattazione di massa tra professionisti e consumatori e le nuove modalità di conclusione del contratto (si pensi al contratto telematico). Da qui una diversa attenzione dell’ordinamento alla fase che precede ed accompagna la conclusione del contratto, in linea con il tendenziale azzerarsi del confine tra trattative (e in generale fase precontrattuale) e formazione del vincolo, esibito, seppur per ragioni e con modalità diverse, sia dalla prassi degli affari sia dalla contrattazione business to consumer. Nella prassi degli affari, invero, il complesso confronto preliminare tende a far sfumare o comunque rende difficilmente rintracciabile il momento esatto in cui dalle trattative, spesso lunghe e complesse, e dalla fissazione concordata di alcuni aspetti si sia passati alla nascita del vincolo, essendosi compiutamente espresso e definito il consenso delle parti su tutto il regolamento contrattuale. Nei contratti dei consumatori, le scarse o nulle possibilità del consumatore di mettere in discussione o modificare consensualmente un contenuto contrattuale predisposto dal professionista non lasciano spazio ad una trattativa, e ribaltano sostanzialmente sulla legge il compito di stabilire se, quando e con che conseguenze, dovrà ritenersi perfezionato il vincolo a carico del consumatore, ma altresì quali comportamenti posti in essere in generale sul mercato dal professionista (es. pubblicità) abbiano già sostanzialmente catturato il consenso del consumatore. Nell’affrontare il tema della formazione dell’accordo non potrà non tenersi conto della polarizzazione, nei termini sopra indicati. Ma dovrà soprattutto mettersi in rilievo che l’ordinamento, nel caso di contratti di massa, sposta la sua attenzione dal momento della conclusione del contratto – nel quale cioè rintracciare il raggiungimento del consensus ad idem – all’intero percorso attraverso cui le parti si “incontrano” sul mercato e dunque all’intero processo di formazione dell’accordo, entro il quale tende ad azzerarsi il confine tra il prima (trattative, ma financo

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pubblicità commerciale e pratiche commerciali) e il dopo (raggiungimento dell’accordo e della volontà di vincolarsi), particolarmente con riguardo ai contenuti del vincolo e alla connessa responsabilità. Da qui un approccio che tenga conto di una procedimentalizzazione della formazione del contratto: non guardato nel momento finale della sua conclusione, ma nella sequenza di atti e comportamenti delle parti (procedimento, appunto) che ne preparano e accompagnano la nascita (infra 31). In chiusura, è qui appena il caso di ricordare – anticipando quanto sarà oggetto di specifica trattazione nel prosieguo – che se non può dirsi raggiunto l’accordo, rivolto alle finalità di cui all’art. 1321 (si fa anche l’esempio di un consenso prestato per scherzo), il contratto sarà nullo. E così anche quando l’accordo non corrisponda alla effettiva volontà delle parti, le quali intendano manifestare all’esterno una intesa diversa da quella che hanno occultamente raggiunto: il caso del contratto simulato (IV, III, 2). La disciplina dei vizi della volontà, in presenza dei quali il contratto sarà annullabile, serve a presidiare invece la libera e corretta formazione e manifestazione delle volontà delle parti che hanno condotto all’accordo (IV, III, 4). Una volta formatosi validamente il consenso, il significato e gli effetti della pattuizione privata non possono essere individuati solo risalendo alla volontà di ciascuna delle parti, ma occorrerà tenere conto di come si siano delineati i termini dell’accordo tra di esse e ricostruirlo alla stregua del complessivo assetto di interessi così definito. A fronte di accordi complessi o di testi contrattuali con più clausole (spesso di significato dubbio) si pone il problema dell’interpretazione del contratto, operazione ermeneutica (cui sarà chiamato il giudice) per la quale sono dettati criteri legali, sia soggettivi che oggettivi (artt. 1362 ss.). È vero che i secondi intervengono quando i primi non sono da soli sufficienti; ma la prima verifica non attiene a ciò che ciascuna parte ha voluto o ha ritenuto di volere e dichiarare; bensì alla comune intenzione delle parti, così come oggettivatasi sia nel dialogo tra di esse sia nel contenuto del contratto. Occorre cioè risalire a ciò sul quale può ritenersi che si sia formato il consenso, considerando (ove c’è) il testo contrattuale, ed avuto riguardo al complessivo comportamento delle parti, preventivo ed anche successivo alla conclusione del contratto (V, 2). Viceversa, una volta formatosi validamente, l’accordo è vincolante: «Il contratto ha forza di legge tra le parti», recita l’art. 1372 c.c. Da qui la regola per cui solo un accordo di segno inverso (mutuo consenso) o

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una previsione di legge possono condurre allo scioglimento del vincolo contrattuale (art. 1372, co. 1); mentre soggiace a rigorosi limiti il recesso unilaterale (art. 1373), cioè il diritto di sciogliersi unilateralmente dal contratto (VI, 8). Da qui anche la regola della relatività degli effetti del contratto: gli effetti del contratto, in quanto prodotto dell’autonomia delle parti, non possono che rivolgersi, almeno di regola, esclusivamente alla sfera giuridica di queste. Il contratto, dunque, come recita l’ultimo comma dell’art. 1372, non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge ed è valida solo una stipulazione a favore del terzo (art. 1411). Appare per questo una vistosa deroga – e una forte concessione alle esigenze di protezione di una parte – la previsione, proveniente dalle fonti del diritto europeo, che attribuisce al consumatore, nei contratti consumatore-professionista, il diritto di recesso di pentimento dal contratto, diritto che può essere esercitato liberamente e senza addurre alcuna giustificazione, pur se entro un limitato periodo di tempo, e che consente dunque al consumatore che abbia avuto un ripensamento di sciogliersi dal contratto pur stipulato (VI, 9).

2. Proposta e accettazione Secondo l’art. 1326, co. 1, c.c., come già accennato, «il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte». Secondo l’art. 1335, poi, «la proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia». Si tratta di atti c.d. recettizi, perché producono effetto da quando giungono a conoscenza del destinatario. Ancora, ai sensi dell’art. 1328, co. 1 «La proposta può essere revocata finché il contratto non sia concluso». Mentre, recita il co. 2, «L’accettazione può essere revocata purché la revoca giunga a conoscenza del proponente prima dell’accettazione». Sul problema dell’efficacia della revoca, rispettivamente, della proposta e dell’accettazione, occorrerà tornare. Fermandoci intanto a considerare la modalità-tipo di conclusione del contratto delineata dall’art. 1326 rileva l’incontro tra proposta ed accettazione, da collocare nel tempo secondo le regole (le presunzioni di conoscenza) di cui all’art. 1335.

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Proposta ed accettazione sono negozi unilaterali recettizi, il cui contenuto deve essere idoneo però ad esprimere una compiuta volontà. Dunque, seguendo i princìpi consolidati e riassunti da una sentenza recente della Corte di cassazione (Cass. 14-7-2011, n. 15510), per la conclusione del contratto si deve essere intanto in presenza di una vera e propria proposta contrattuale e non di una semplice dichiarazione generica di disponibilità; si ha proposta

«solo quando una parte rivolga all’altra un’offerta precisa e particolareggiata di conclusione di un determinato contratto, completa di tutti gli elementi essenziali, in modo tale che l’altra parte possa esprimere la sua accettazione con il semplice consenso senza bisogno di ulteriori trattative». (Cass. 24-5-2001, n. 7094) La dichiarazione del proponente non solo deve essere completa, ma non deve essere accompagnata da riserve sul suo carattere attualmente impegnativo: «perché la dichiarazione che non manifesti una decisione, ma sia rivolta al destinatario solo per impostare una trattativa o per esprimere una disponibilità dell’autore senza la volontà di esporsi al vincolo contrattuale se non dopo ulteriori passaggi valutativi, non conferisce al destinatario stesso il potere di determinare, con l’accettazione, l’effetto conclusivo del contratto». (Cass. 7-7-2009, n. 15964) Nel caso in cui l’atto provenga da un terzo (ad esempio un mediatore) occorrerà accertarne la riferibilità alla (futura) parte: «la proposta di concludere un contratto, costituendo un atto giuridico di natura negoziale diretto a provocarne l’accettazione da parte del destinatario, presuppone la volontà del proponente di impegnarsi contrattualmente; detta volontà – che vale a distinguere la proposta dalla semplice manifestazione della disponibilità a trattare – mentre è di norma implicitamen-

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te desumibile dal fatto che il proponente abbia indirizzato al destinatario un atto che abbia un contenuto idoneo ad essere assunto come contenuto del contratto, deve, invece, essere concretamente accertata ove la proposta sia pervenuta al destinatario tramite un terzo, in particolare dovendosi verificare se la trasmissione dell’atto sia avvenuta ad iniziativa di chi ha formato il documento ovvero del terzo, all’insaputa di quello». (Cass. 3-7-1990, n. 6788) Sia la proposta che l’accettazione possono essere revocate: l’autore della proposta o dell’accettazione può cioè manifestare una volontà diversa e contraria, mediante un altro atto negoziale unilaterale diretto a far venir meno gli effetti del primo. Il proponente può autolimitare la propria libertà di revoca, attraverso la c.d. proposta ferma o a fermo, cioè la proposta irrevocabile di cui all’art. 1329 c.c.: il proponente si obbliga a mantenere ferma la proposta per un certo periodo di tempo e, dunque, in quel periodo la “revoca è senza effetto”. È stato ribadito che tale vincolo non può essere senza limiti di tempo: il termine è elemento essenziale della proposta irrevocabile «L’irrevocabilità della proposta contrattuale (c.d. “a fermo” o “ferma”), disciplinata dall’art. 1329 c.c., consiste nella temporanea privazione degli effetti di una eventuale revoca voluta dal proponente ed ha lo scopo di accordare al destinatario per l’accettazione della proposta uno spatium deliberandi maggiore di quello ordinariamente necessario secondo la natura dell’affare o secondo gli usi (cfr.: art. 1226 c.c., comma 2). Elemento normativamente richiesto per l’irrevocabilità è la determinazione del tempo per il quale il proponente è obbligato a mantenere ferma la proposta e l’essenzialità e la funzione del termine escludono che la limitazione della facoltà di revoca della proposta, riconosciuta in via generale al proponente sino alla sua accettazione dall’art. 1328 c.c., possa risolversi nella negazione di tale facoltà e nella subordinazione dell’efficacia della proposta esclusivamente alla volontà del suo destinatario». (Cass. 2-8-2010, n. 18001) L’irrevocabilità assicura anche la “sopravvivenza” della proposta alla morte del suo autore.

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Di regola, la proposta non mantiene la sua efficacia se il proponente muore (l’impegno non si trasmette ai suoi eredi). Ma nel caso di proposta irrevocabile – e sempre per il tempo ivi indicato – la proposta rimarrà efficace anche nel caso di morte o sopravvenuta incapacità del proponente, a meno che la natura dell’affare o altre circostanze escludano tale efficacia (art. 1329, co. 2). La regola è analoga a quella dettata per la proposta formulata dall’imprenditore: in questo caso – e la regola vale anche per l’accettazione – se tali atti sono stati compiuti nell’esercizio dell’impresa, la legge ne assicura la continuità e ne fa salva l’efficacia anche nel caso in cui l’imprenditore muoia o diventi incapace, salvo che si tratti di piccolo imprenditore (la cui attività potrebbe cessare con la sua morte) ovvero che diversamente risulti dalla natura dell’affare o da altre circostanze (art. 1330). È questo uno dei (pochi) casi in cui la qualità della parte conduce a regole particolari in tema di contratto. Tornando alla revocabilità di tali atti, va detto che la revoca opera ex tunc, con effetti retroattivi, eliminando il negozio dal mondo giuridico, a differenza della rinuncia (es. la rinunzia al credito, atto unilaterale con effetti abdicativi ma non recettizio) che opera ex nunc, comportando la dismissione di un diritto già acquistato. La revoca, sia della proposta che dell’accettazione, è menzionata, quale atto recettizio, dall’art. 1335, ove come abbiamo visto è posta la presunzione di conoscenza di tali atti allorché siano giunti all’indirizzo del destinatario. In tema di revoca dell’accettazione l’art. 1328, co. 2, ripropone la regola di recettizietà, disponendo che essa ha effetto purché giunga a conoscenza del proponente prima dell’accettazione: dunque il momento nel quale la revoca dell’accettazione giunge a conoscenza del proponente, secondo la presunzione di cui all’art. 1335, è quello da cui prende efficacia la revoca dell’accettazione, sempreché tale revoca non sia stata preceduta dall’arrivo dell’accettazione. Nel caso di revoca della proposta, l’art. 1328, co. 1, assume come momento oltre il quale la revoca non può produrre effetto, quello della conclusione del contratto. Momento che, come sappiamo, si identifica con l’arrivo all’indirizzo del destinatario dell’accettazione. Sicché, mentre “viaggia” l’accettazione, e finché non sia giunta all’indirizzo del proponente, questi può validamente revocare la proposta, revoca che sembrerebbe prendere effetto dal momento in cui viene inoltrata all’altra parte ancorché non ricevuta da questa (purché inviata prima della conoscenza dell’accettazione).

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In sostanza, stando alla lettera delle norme, per la revoca della proposta varrebbe la regola della “spedizione” (mail box rule, adottata nei sistemi di common law per l’accettazione) e non quella della “ricezione” anche se la dichiarazione di revoca giunga all’oblato dopo il ricevimento, da parte del proponente, dell’accettazione. Questa soluzione ha prevalso a lungo in giurisprudenza, ed ha incontrato il sostegno di una parte della dottrina, pur non sottraendosi a fondate critiche di altra parte. I fautori di tale soluzione puntano l’attenzione sui dati normativi, ritenendo che le diverse formule adottate dal legislatore intendano dettare due regole distinte e che in particolare, da tali norme emergerebbe la scelta di adottare, nel caso della revoca della proposta, una recettizietà “attenuata”, essendo tale atto destinato a produrre i suoi effetti tipici sin dall’emissione. Si è obiettato però che, al fine di individuare il regime di tali atti, non può farsi riferimento al solo dato letterale dell’art. 1328, dovendosi prospettare una lettura coerente con la disciplina dettata dagli artt. 1334 e 1335, da cui si evince inequivocabilmente che il legislatore ha inteso equiparare revoca della proposta e revoca dell’accettazione quali atti recettizi, senza che sia qui ravvisabile una distinzione tra recettizietà piena e recettizietà attenuata o efficacia immediata o retroattiva. La circostanza poi che il legislatore si preoccupi di prevedere un obbligo di indennizzo a favore dell’accettante (che in buona fede abbia intrapreso nel frattempo l’esecuzione) e a carico di chi revoca la proposta (art. 1328, co. 1) e non a favore del proponente in caso di revoca dell’accettazione, non deporrebbe per l’attribuzione di diversa efficacia ai due atti, spiegandosi con la considerazione che l’accettante, una volta ricevuta la proposta e prima della revoca, può contare sulla conclusione del contratto quale risultato prevedibile e normale; mentre il proponente non può fare affidamento sulla conclusione dell’affare per il solo fatto di avere inviato una proposta (finché non gli perviene l’accettazione). È proprio invocando i principi in materia di tutela dell’affidamento – in particolare l’affidamento dell’accettante, quale destinatario della revoca della proposta – ma anche di certezza dei traffici commerciali, che la giurisprudenza di legittimità aveva in anni recenti mutato indirizzo, ritenendo – in accordo con la prevalente dottrina – doversi preferire una interpretazione che, sulla scorta del disposto degli artt. 1334 e 1335 c.c., faccia salva anche in questo caso la regola della recettizietà degli atti unilaterali. Si legge in tale, articolata, pronuncia:

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«Non può ... sottacersi che far discendere dallo stesso carattere recettizio della revoca, sia della proposta che dell’accettazione, la medesima disciplina quanto agli effetti dei rispettivi atti, risponde anche all’esigenza di pari trattamento dell’accettante e del proponente non essendo ravvisabile alcuna valida e convincente ragione sostanziale tale da giustificare una disciplina che privilegi il proponente (che nell’attuale realtà commerciale è sempre più spesso il contraente economicamente più forte) e penalizzi l’accettante. Ciò posto ritiene la Corte che, riconosciuta la natura di atto unilaterale recettizio della revoca della proposta, tra le due sopra precisate interpretazioni delle citate norme – entrambe astrattamente possibili e sorrette da dati letterali ricavabili, rispettivamente, dall’articolo 1328 e dagli articoli 1334 e 1335 c.c. – debba essere preferita quella che tuteli maggiormente il destinatario dell’atto recettizio (ossia, nella specie, l’accettante) sussistendo in capo a quest’ultimo un affidamento qualificato sulla conclusione del contratto qualora l’accettazione sia pervenuta al proponente prima dell’arrivo all’accettante della revoca della proposta. Il carattere recettizio di detta revoca comporta che il relativo effetto si produca non al momento della sua emissione (indipendentemente dalla conoscenza del destinatario dell’atto) bensì solo dal momento in cui pervenga all’indirizzo dell’accettante. La soluzione prescelta è più aderente al principio dell’affidamento che ispira la disciplina dettata dal legislatore in tema di efficacia degli atti recettizi e risponde meglio alle esigenze di garanzia e di certezza dei traffici commerciali che verrebbero seriamente compromesse se si consentisse al proponente di fornire la prova (anche a mezzo di testimoni se si aderisce a quella parte della dottrina e della giurisprudenza secondo cui la revoca della proposta è in ogni caso libera di forma) di aver affidato a terzi – prima di ricevere l’accettazione – l’incarico o di comunicare all’accettante la revoca della proposta ovvero di consegnare la lettera indirizzata all’oblato contenente la revoca della proposta». (Cass. 16-5-2000, n. 6323) Dunque, la proposta sarà validamente revocata allorché la revoca pervenga al destinatario (accettante) prima che a sua volta l’accettazione di questi sia giunta al proponente (momento nel quale si sarebbe concluso il contratto, precludendo gli effetti della revoca della proposta ai sensi dell’art. 1328, co. 1, c.c.). Allo stesso modo, l’accettazione sarà validamente revocata allorché pervenga al destinatario (proponente) pri-

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ma che al medesimo sia giunta l’accettazione (art. 1328, co. 2). L’impostazione e l’esito interpretativo appaiono convincenti e sembravano aver segnato un punto fermo nell’annoso dibattito. Tuttavia, riprendendo – in verità senza apportarvi alcun ulteriore approfondimento– le argomentazioni della più risalente giurisprudenza per una diversa lettura dei dati normativi, una recente pronuncia della Suprema Corte rispolvera l’opposto orientamento secondo cui la revoca della proposta prenderebbe effetto dal momento della spedizione, sempre che effettuata prima che sia giunta al proponente l’accettazione dell’altra parte (Cass. 15-4-2016, n. 7543). Ad avviso della Corte di ciò darebbe conferma, nella impostazione del codice, anche la previsione di indennizzo (di cui alla seconda parte del co. 1 dell’art. 1328 c.c.) solo per l’accettante (in caso di revoca della proposta) e non per il proponente (nell’ipotesi di revoca dell’accettazione): previsione comunque idonea a tutelare l’affidamento del destinatario della proposta a fronte di siffatto, diverso, regime di revoca di quest’ultima.

3. I modi alternativi di conclusione del contratto nel codice civile: l’art. 1327 e l’art. 1333 Ai sensi dell’art. 1327, co. 1, «qualora su richiesta del proponente o per la natura dell’affare o secondo gli usi la prestazione debba eseguirsi senza una preventiva risposta, il contratto è concluso nel luogo e nel tempo in cui ha avuto inizio l’esecuzione». Dell’inizio dell’esecuzione l’accentante dovrà tempestivamente informare il proponente e, in mancanza, sarà tenuto al risarcimento del danno. La norma si riferisce esclusivamente ad un comportamento proveniente dal destinatario della proposta contrattuale, e non anche dall’autore della medesima. La giurisprudenza ha costantemente ribadito che le ipotesi, nelle quali il contratto deve ritenersi concluso nel tempo e nel luogo in cui ne ha avuto inizio l’esecuzione, sono solo quelle tassativamente indicate dal co. 1 dell’art. 1327 c.c.: richiesta del proponente, natura dell’affare e usi commerciali; e che per aversi conclusione del contratto nel modo qui indicato occorre anche la puntuale conformità dell’esecuzione alla proposta, con la conseguenza che, ove quest’ultima condizione faccia difetto, non è applicabile la norma predetta ma quella generale di cui al co. 5 dell’art. 1326 dello stesso codice secondo cui «una accettazione non con-

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forme alla proposta equivale a nuova proposta», la quale, affinché possa ritenersi raggiunto l’accordo delle parti e perfezionato il contratto, deve essere accettata dall’originario proponente anche mediante un comportamento concludente. Questo modo di conclusione del contratto, almeno in via di principio, non può riguardare i contratti formali, per i quali cioè la legge prescriva la forma scritta a pena di nullità. La nostra S.C. ha sempre ribadito, per questo, che per i contratti di cui sia parte una Pubblica Amministrazione, che richiedono la forma scritta ad substantiam, deve escludersi la conclusione per “facta concludentia” ossia mediante inizio dell’esecuzione (della prestazione da parte del privato), secondo il modello di cui all’art. 1327 c.c. Una eccezione degna di nota è per questo la previsione di cui all’art. 2 della l. n. 192/1998, in forza della quale, malgrado per il contratto di subfornitura sia prevista la forma scritta a pena di nullità (co. 1), nel caso in cui il subfornitore, invece che rispondere con l’accettazione, dopo avere ricevuto la proposta scritta del committente, inizia le lavorazioni o le forniture senza chiedere modifiche ad alcuno degli elementi della proposta «il contratto si considera concluso per iscritto» agli effetti della legge, e ad esso si applicano le condizioni indicate nella proposta, «ferma restando l’applicazione dell’art. 1341 c.c.» (co. 2). Dunque al vincolo di forma rimarranno soggette solo le clausole vessatorie (infra, 8) da approvare specificamente per iscritto. Nel caso di contratto c.d. unilaterale, cioè di contratto da cui derivino obbligazioni solo per il proponente, la proposta diretta a concluderlo, dispone l’art. 1333 c.c., «è irrevocabile appena giunge a conoscenza della parte alla quale è destinata». In tal caso, «il destinatario può rifiutare la proposta nel termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi» e, «in mancanza di tale rifiuto il contratto è concluso». Malgrado non siano mancate in dottrina voci contrarie, la fattispecie di cui all’art. 1333 non delinea la nascita di un rapporto obbligatorio sulla base di una volontà unilaterale (vale a dire una promessa unilaterale). Il contratto con obbligazioni di una sola parte (proponente) si sottrae allo schema generale di formazione del contratto per il fatto di perfezionarsi in virtù del mancato rifiuto della proposta, ma non alla regola generale che vuole comunque il concorso di due (o più) volontà perché si abbia un contratto. Tale è da considerarsi anche il mancato rifiuto. Nel senso che l’inefficacia della proposta potrà desumersi, oltre che da un rifiuto espresso, anche da un comportamento inequivocabilmente apprezzabile come dettato dalla volontà di non avvalersi di quella proposta.

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4. Il silenzio L’art. 1333 c.c. deve intendersi come eccezione espressa alla generale irrilevanza del silenzio. Inizio di esecuzione e silenzio come si è sempre sottolineato in dottrina, pur risolvendosi entrambi comunque in un «comportamento concludente» dell’oblato, sono due figure alternative e l’una esclude l’altra. Infatti, di fronte ad una proposta, l’oblato potrà adottare un contegno positivo quale l’inizio di esecuzione (con le conseguenze di cui all’art. 1327) o potrà rimanere inerte e silente. Solo nel primo caso si avrà un comportamento che, in presenza dei presupposti previsti dalla legge, conduce certamente alla conclusione del contratto; nel secondo caso, ci si troverà di fronte ad un comportamento da interpretare, che solo alla luce delle cirostanze concrete potrà equivalere ad accettazione. Il silenzio è invero “un comportamento di per sé neutro”, ambiguo, come ribadiscono i nostri giudici (così Cass. s.u. 9-5-2016, n. 9284). Va escluso che, in generale, fuori dal caso di cui all’art. 1333 c.c., il silenzio dell’oblato equivalga ad assenso, conducendo alla conclusione del contratto. «In tema di formazione del contratto, l’accettazione non può essere desunta dal mero silenzio serbato su una proposta, pur quando questa faccia seguito a precedenti trattative intercorse tra le parti, delle quali mostri di aver tenuto conto, assumendo il silenzio valore negoziale soltanto se, in date circostanze, il comune modo di agire o la buona fede, nei rapporti instauratisi tra le parti, impongano l’onere o il dovere di parlare, ovvero se, in un dato momento storico e sociale, avuto riguardo alla qualità dei contraenti e alle loro relazioni di affari, il tacere di uno possa intendersi come adesione alla volontà dell’altro». (Cass. 14-5-2014, n. 10533) La regola della irrilevanza del silenzio è esplicitata e rafforzata nei contratti professionisti/consumatori L’obiettivo è quello di scoraggiare nel professionista comportamenti e pratiche commerciali volte a catturare scorrettamente il consenso del consumatore. In quest’ottica manifestano chiaramente un carattere sanzionatorio le regole a proposito di forniture o servizi non richiesti (artt. 66-quinquies e 67-quinquiesdecies cod. cons.). Non solo infatti, conformemente ad una regola

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ormai consolidata nel nostro diritto, come già ricordato il silenzio, di per sé, non può costituire accettazione e dunque «l’assenza di risposta» da parte del consumatore che abbia ricevuto la fornitura di beni o il servizio non richiesti «non implica consenso» di questi al contratto come ribadiscono ora le norme qui citate; ma, in tali casi, il consumatore non è tenuto ad alcuna prestazione corrispettiva a fronte della fornitura non restituita o del servizio di cui comunque abbia goduto, e il comportamento del professionista è sanzionato come pratica commerciale scorretta (infra, 18).

5. L’offerta al pubblico L’art. 1336 menziona una particolare modalità di conclusione del contratto caratterizzata sostanzialmente solo dalla particolare forma attraverso cui la proposta viene portata a conoscenza dei destinatari. L’offerta al pubblico, recita la norma, «quando contiene gli estremi essenziali del contratto alla cui conclusione è diretta, vale come proposta, salvo che risulti diversamente dalle circostanze o dagli usi». Trattasi dunque, sempre che se ne riscontrino i contenuti, di una proposta che si rivolge però non ad un destinatario determinato ma ad una platea più o meno vasta e aperta di possibili destinatari indeterminati. Il “pubblico” potrà essere in concreto circoscritto ad una specifica categoria di destinatari a seconda del contenuto della proposta, ma non dovrà essere determinato: occorre infatti che la proposta sia diretta non ad una platea ampia (ma definita) di destinatari ma al “pubblico” come soggetto indifferenziato. L’esplicita previsione vale intanto a segnare il confine tra una comunicazione volta semplicemente a reclamizzare o preannunciare una iniziativa di vendita o di offerta di servizi e una vera e propria proposta e, conseguentemente, a disciplinare modalità ed effetti della revoca. Solo la revoca fatta nella stessa forma dell’offerta o in forma equipollente potrà avere effetto verso tutto il “pubblico” dei destinatari, anche in confronto di chi non ne ha avuto notizia (co. 2, art. 1336). Il prodotto offerto in vendita nel bancone del supermercato ad un prezzo indicato nell’apposita etichetta non potrà essermi rifiutato o venduto ad un prezzo più alto, sul presupposto di una erronea apposizione del cartellino prezzo. Il contratto dovrà concludersi con la mia accettazione confor-

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memente ai contenuti della proposta come comunicati nell’offerta al pubblico. Nella prassi può essere importante (pur se talora non agevole) identificare i contenuti della proposta di cui all’art. 1336 in vista di distinguerla dalla diversa dichiarazione, negozio unilaterale fonte di obbligazione, costituita dalla promessa al pubblico: che ricorre quando qualcuno, rivolgendosi al pubblico, promette una prestazione a favore di chi si trovi in una determinata situazione o compia una determinata azione, rimanendo così vincolato non appena la promessa è resa pubblica (art. 1989 c.c.). La Corte di cassazione, ad esempio, è intervenuta più volte a chiarire che il bando di concorso per l’assunzione di lavoratori non è riconducibile alla previsione di cui all’art. 1989, vincolante per il promittente a prescindere dalla manifestazione di consenso da parte dei beneficiari, ma in quanto preordinato alla stipulazione di contratti di lavoro che esigono il consenso delle controparti, ove contenga gli elementi del contratto alla cui conclusione è diretto, costituisce una offerta al pubblico ai sensi dell’art. 1336 c.c., revocabile solo finché non sia intervenuta l’accettazione da parte degli interessati. Offerta, ha precisato la S.C., che può essere di un contratto di lavoro definitivo, il quale si perfeziona con l’accettazione del lavoratore che risulti utilmente inserito nella graduatoria dei candidati idonei, oppure preliminare, destinato a perfezionarsi con la semplice accettazione del candidato che chiede di partecipare al concorso ed ha ad oggetto l’obbligo, per entrambe le parti o per il solo offerente (se preliminare unilaterale), della stipulazione del contratto definitivo con chi risulta vincitore.

6. (Segue). Offerta al pubblico di strumenti finanziari Il collocamento – cioè la vendita – di “prodotti finanziari” (ad esempio azioni, titoli di Stato, III, 8), può avvenire tramite diverse forme di “sollecitazione all’investimento”, nell’ambito di una negoziazione individuale tra banca e cliente ovvero nella forma di offerta al pubblico. L’art. 1, co. 1, lett. t) del t.u.f. adotta una definizione ampia di “offerta al pubblico di prodotti finanziari”, che comprende «ogni comunicazione rivolta a persone in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, che presenti sufficienti informazioni sulle condizioni dell’offerta e dei prodotti finanziari offerti così da mettere un investitore in grado di decidere di

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acquistare o di sottoscrivere tali prodotti finanziari, incluso il collocamento tramite soggetti abilitati». In relazione al contenuto e soprattutto ai destinatari della “sollecitazione all’investimento”, nell’accezione ampia qui prospettata, questa può integrare lo schema di cui all’art. 1336, quando, sottolinea la S.C., è rivolta ad un numero indeterminato e indistinto di investitori in modo uniforme e standardizzato, cioè a condizioni di tempo e prezzo predeterminati (Cass. 19-10-2012, n. 18039). Per queste offerte, come vedremo, a tutela dei risparmiatori, gli artt. 94 ss. del t.u.f. prevedono una particolare disciplina degli obblighi di informazione a beneficio degli investitori, informazioni (i cui contenuti sono previsti dalla legge e specificati da regolamenti Consob) da versare in apposito “prospetto d’offerta” (o prospetto informativo) che chi vuole effettuare l’offerta deve pubblicare preventivamente (infra, 29).

7. Il contratto “aperto” Modalità di conclusione particolare è quella “per adesione”: ulteriori parti, oltre che quelle che vi hanno dato vita, possono aderire successivamente al contratto (e si tratterà infatti di accettare un regolamento già definito) se il contratto originario lo prevede, presentando appunto una struttura aperta (art. 1332). Si tratta ovviamente di contratti plurilaterali: classico esempio il contratto di associazione o di società che ammette l’ingresso di nuovi soci.

8. I modi alternativi di conclusione del contratto nella società dei consumi. La predisposizione unilaterale delle condizioni generali di contratto Nell’epoca della contrattazione di massa e del mercato globale, le condizioni e le clausole contrattuali vengono predisposte dalla parte che produce ed offre sul mercato beni e servizi destinati a più acquirenti o utenti, e sottoposte all’altro contraente solo perché le accetti o meno, senza possibilità di discuterle. Il fenomeno, come detto, non è nuovo e nasce con l’affermarsi dell’economia industriale: ad esso infatti l’ordinamento dedica attenzione già nel codice civile del 1942, dettando regole particolari per il contratto concluso mediante sottoscrizione di mo-

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duli o formulari predisposti «per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali» (art. 1342) o comunque concluso con l’accettazione di “condizioni generali di contratto” predisposte da un contraente (art. 1341). L’uso di contratti standard accompagna anche le transazioni commerciali più diffuse tra professionisti, nel senso che la proposta coincide con un regolamento contrattuale quasi completo, le cui condizioni sono state predisposte dal proponente e che attende di essere completato solo degli elementi riferiti a quella concreta transazione (descrizione del bene o servizio, termini di consegna, prezzo, ecc.). Si pensi alla vendita di un mezzo meccanico ad un’impresa agricola o più semplicemente alla fornitura di computer a professionisti. Anche in questi casi il destinatario della proposta ha un margine di modifica assai ridotto. Ma nella prassi commerciale è soprattutto nei contratti tra operatori del mercato e destinatari di beni e servizi per uso personale – quelli che oggi la legislazione di fonte europea ha identificato, rispettivamente, come professionisti e consumatori – che si diffonde tale modalità di conclusione del contratto: la regola non è quella della negoziazione o trattativa, per cui lo scambio di proposta ed accettazione si accompagni a modifiche e controproposte del destinatario della proposta, fino a giungere ad un regolamento contrattuale condiviso; bensì quella della sottoposizione al consumatore di uno schema contrattuale predefinito e “in serie”, affinché egli vi aderisca o meno. La predeterminazione del contenuto ad opera di uno dei contraenti, che non lascia spazio a modifiche concordate su impulso dell’altro, si riscontra in tutti i casi in cui le condizioni del contratto vengono predisposte unilateralmente: e ciò sia che venga conseguentemente sottoposto al partner “aderente” un modulo o formulario già pronto che egli deve solo sottoscrivere (il «contratto concluso mediante moduli o formulari», già ricordato, di cui all’art. 1342 c.c.), sia che le condizioni vengano unilateralmente predisposte in generale, per essere destinate a regolare, magari per il tramite di un semplice rinvio, una serie ampia e indeterminata di singole relazioni contrattuali (le condizioni generali di contratto cui all’art. 1341 c.c.). Sia, infine, in tutti i casi in cui comunque non sia lasciato al partner alcun margine di negoziazione e modifica delle condizioni stesse: fattispecie più ampia come vedremo presa in considerazione in tema di clausole vessatorie nei contratti dei consumatori (art. 34 cod. cons., V, 4). Può dirsi che in queste contrattazioni ciò che viene offerto sul mercato al consumatore

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è, insieme al bene o al servizio, l’intero regolamento contrattuale, vale a dire tutte le condizioni destinate a regolare i diritti ed obblighi delle parti e la vita del rapporto: regolamento preconfezionato che diviene esso stesso il “prodotto” scambiato. E ciò è tanto più vero ove si consideri che, di fronte a prodotti fabbricati in massa le cui caratteristiche sono inevitabilmente standardizzate (si pensi al telefonino o all’ipad), è solo sulla maggiore o minore convenienza dell’intero regolamento contrattuale che finisce con lo svilupparsi la concorrenza tra professionisti onde attirare i consumatori sul mercato. A fare la differenza non saranno solo il prezzo o i costi (le cui oscillazioni, per quanto appena detto, sono sempre minime), ma anche prestazioni aggiuntive e relativi costi, semplicità della prassi nella gestione di eventuali contestazioni, inadempimenti, ecc. La contrattazione di massa professionisti-consumatori vede fra l’altro incrementarsi una prassi che potremmo definire “perversa”, in cui la posizione delle parti appare capovolta. Al consumatore viene sottoposta una “nota d’ordine”, sicché egli, pur contattato e sollecitato al contratto, e pur trovandosi dinanzi una offerta pressoché integralmente definita, assume la veste di proponente. Di ciò, come vedremo, tengono conto le norme a tutela del consumatore (infra, 20). Mentre dunque in generale, e come abbiamo visto particolarmente nel caso della regolazione di interessi e rapporti patrimoniali complessi e di significativo valore economico, il contratto è preceduto da una lunga e complessa interlocuzione tra le parti, sì da rendere persino difficile stabilire quando esse hanno inteso passare dalla fase della discussione a quella della conclusione del contratto con la nascita del vincolo definitivo, la contrattazione di massa si caratterizza al contrario per il deperimento o addirittura l’assenza di una vera e propria trattativa; qui va dunque superata, come si è acutamente osservato, la tendenza a considerare il processo formativo del contratto come un processo destinato a restare open sino a quando le dichiarazioni impegnative di entrambi i contraenti «non si rispecchino (e combacino) simmetricamente» (A. Di Majo). La contrattazione standardizzata o imposta, già nei primi decenni del secolo scorso, preannunciava uno sviluppo delle relazioni di mercato ove l’abbandono delle tradizionali e rassicuranti sequenze di conclusione del contratto – la trattativa e poi la proposta e l’accettazione che si rincorrono fino a coincidere – non sarebbe stato soltanto l’esito in qual-

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che misura “patologico” di un incontro diseguale tra chi predispone il regolamento contrattuale e chi vi aderisce, bensì elemento ineliminabile della contrattazione in genere, nel contesto di una generale e diffusa “accelerazione” degli scambi. Per questo già il codice civile del 1942 interveniva con regole volte ad assicurare innanzitutto che il soggetto “aderente” ad un regolamento contrattuale predisposto dalla controparte fosse stato quanto meno messo in grado di conoscerlo. In tutti i contratti, se le condizioni sono predisposte unilateralmente da una parte in via generale per una serie di contratti (c.d. di massa), l’altra parte potrà esservi vincolata purché al momento della conclusione del contratto abbia avuto modo di conoscerle o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza: «le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti», dispone l’art. 1341, co. 1, «sono efficaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza». L’accento sembra essere posto sull’onere a carico dell’aderente di mettere in atto una normale diligenza per conoscere esattamente il contenuto del contratto da altri predisposto; a carico del predisponente si profila tuttavia, se non ancora un obbligo di trasparenza, quanto meno quello di mettere in condizione un partner di media diligenza di conoscere le condizioni generali. Alle clausole aggiunte al modulo o formulario – che si presumono frutto di una vera negoziazione individuale – sarà poi data prevalenza, se incompatibili con quelle predisposte, anche se queste ultime non siano state cancellate (art. 1342); e, in generale, i dubbi interpretativi saranno risolti con interpretazione più favorevole a chi non ha predisposto la clausola (art. 1370 c.c.). La modalità di conclusione del contratto spinge già il legislatore del codice ad una tecnica che in qualche modo potrebbe presentarsi come strumento di controllo di contenuto (V, 4). Il co. 2 dell’art. 1341, infatti, elenca il contenuto di alcune clausole che, per la particolare onerosità nei confronti dell’altra parte o, ciò che lo stesso, per il visibile favore nei confronti di chi le ha predisposte, non avranno effetto «se non specificamente approvate per iscritto» dall’aderente. L’elenco, riferito non a “modelli” di clausole ma a categorie individuate per i possibili contenuti ed effetti (es. clausole che comportino limitazioni di responsabilità del predisponente, o che, per converso, limitino la facoltà dell’altra parte di opporre eccezioni, ecc.) si ritiene tassativo, ammettendosi solo l’interpretazione estensiva, ma solo quando l’ipotesi non prevista sia accomunata

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a quella espressamente prevista dalla medesima ratio di tutela del contraente che aderisce. Ha ricevuto risposte contrastanti, sia in dottrina che in giurisprudenza, l’interrogativo se la bilateralità della clausola (esempio limite a carico di entrambe alla proponibilità di talune eccezioni o facoltà di recesso attribuita ad entrambe le parti) escluda la vessatorietà. Una pronuncia recente prospetta la possibilità e necessità di distinguere, alla luce della formulazione dell’art. 1341, co. 2, due “ipotesi” o, meglio due tipologie di clausole: la norma si riferirebbe infatti in prima battuta a clausole che attribuiscono una posizione di vantaggio a chi le ha predisposte e di seguito (introdotte dall’avverbio “ovvero” nel testo della norma) a ipotesi di clausole che comportino un effetto “a carico” dell’altra parte. Nel primo caso una clausola bilaterale, che comporti cioè una posizione di vantaggio per entrambi i contraenti, non potrebbe essere censurata come vessatoria, trovandosi le parti in una posizione di eguaglianza rispetto al comportamento regolato dalla clausola (es. diritto di recesso); mentre nel secondo caso la bilateralità non esclude che il contraente ritenuto debole, in quanto “aderente” ad una clausola predisposta dall’altro, sia in una posizione di svantaggio:

«Il legislatore ha considerato la vessatorietà connaturata alla clausola siccome impositiva di comportamento “ a carico” dell’altro contraente e, dunque, l’ha implicitamente ritenuta non elisa dalla bilateralità e ciò per l’assorbente rilievo che, avendola predisposta la parte forte, la circostanza che essa le abbia imposte anche a suo “carico” non è stata ritenuta idonea ad escludere la vessatorietà». (Cass.12-10-2015, n. 20401) La presenza di clausole vessatorie, visibilmente squilibrate a favore del predisponente, non è intercettata in vista di una eventuale censura che discenda comunque dai contenuti di queste (come vedremo invece nei contratti professionisti/consumatori: V, 4) ma al solo fine, anche questa volta, di rendere più certa la conoscenza e la consapevole adesione dell’altra parte. Alla parte che “aderisce” a un contratto già predisposto si fa carico di un onere di diligenza, non però fino al punto di farla soggiacere a clausole per sé particolarmente sfavorevoli, e vantaggiose per il predisponente, per la cui efficacia si richiede una specifica

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approvazione scritta: una sorta di presa d’atto formale e certa (anche se non sempre in concreto supportata da una attenta lettura e comprensione). La conseguenza della mancata, specifica, approvazione per iscritto prefigura già un rimedio “asimmetrico” come quello che sarà più compiutamente introdotto per i contratti di consumo (vedi art. 36 cod. cons.: nullità di protezione: VII, 8). La S.C. da sempre ribadisce infatti che la specifica approvazione per iscritto delle clausole onerose o vessatorie, ai sensi dell’art. 1341, co. 2, c.c., è requisito per l’opponibilità delle clausole medesime al contraente aderente, ma non anche per la loro efficacia nei confronti della parte che le ha predisposte e dunque l’inosservanza del requisito della specifica approvazione per iscritto di una clausola onerosa può essere fatta valere solo dal contraente aderente e può essere rilevata d’ufficio, ex art. 1421 c.c., soltanto a favore del predetto contraente e non già anche dell’altra parte. Il diritto di fonte europea, destinato a porsi anche quale strumento per la realizzazione dell’obiettivo di “protezione dei consumatori”, sancito dal Trattato (ora art. 169 tr.fue), non poteva che assumere il fenomeno della unilaterale predisposizione delle clausole da parte del professionista come punto di partenza dell’intervento in tema di contratti, allorché si tratti di contratti di massa ovvero contratti tra professionisti e consumatori. Intervento che si è espresso con le regole particolari che di seguito esamineremo e che segnalano una importante divaricazione nella disciplina del contratto, con riguardo alla fase della sua conclusione. Il consolidarsi di tali regole, anche oltre l’ambito dei contratti consumatore-professionista (e con riguardo alle fattispecie sopra richiamate a partire dalle diverse figure, quali il cliente, il turista, ecc.), consente ed anzi impone di esaminare il profilo della formazione del contratto in aderenza alla divaricazione che si registra sul piano normativo e che tiene conto della distinzione tra modalità che caratterizzano in generale la stipula del contratto e modalità proprie della contrattazione professionisti/consumatori. Lungo questa distinzione si muoverà la nostra analisi.

9. I modi ordinari di formazione dell’accordo. Il prima del contratto e le trattative Si è già detto che l’individuazione del momento nel quale l’accordo tra le parti può dirsi raggiunto, sì da far decorrere l’efficacia del vincolo

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così formatosi tra di esse, non è sempre agevole, registrandosi nella prassi – specie delle transazioni tra imprenditori – vicende alquanto lunghe e complesse, entro le quali le parti vanno esaminando i diversi punti del regolamento contrattuale, talora raggiungendo una intesa parziale su alcuni di essi. D’altra parte, l’ordinamento non appunta la propria attenzione solo sui modi di formazione dell’accordo e sui criteri che ne accertano la definitiva stipula, ma dà rilevanza anche alla fase che la precede, delle trattative. Così, ai sensi dell’art. 1337 c.c., le parti devono comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, e, come recita la rubrica di tale articolo, il comportamento da osservare in questa fase è fonte di responsabilità precontrattuale. L’art. 1338 c.c., inoltre, prevede una fattispecie specifica di responsabilità precontrattuale, obbligando la parte che, conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all’altra parte, a risarcire il danno da questa risentito per avere confidato senza colpa nella validità del contratto. Sulla portata di queste due norme, e dunque sulla responsabilità precontrattuale, occorrerà soffermarsi. Preliminarmente va però chiarito cosa si intenda per trattative: o, in termini più chiari, quando inizi tra le parti un contatto o dialogo che, preludendo alla conclusione del contratto, possa qualificarsi già come trattativa e quando dalla trattativa possa dirsi che si sia passati all’accordo. Non qualunque contatto tra due o più soggetti, interessati ad una futura negoziazione, può definirsi trattativa. I confini della trattativa sono in qualche modo individuati dalla giurisprudenza, allorché essa deve rintracciare i presupposti della responsabilità ex art. 1337 c.c., particolarmente nella fattispecie, a lungo ritenuta principale fonte di tale responsabilità, consistente nella rottura ingiustificata delle trattative. Qui viene conseguentemente in evidenza il distinguo tra la fase di formazione del contratto – nella quale prendono corpo proposta ed accettazione e comunque manifestazioni di volontà propedeutiche all’accordo nelle quali i termini di quest’ultimo si vanno definendo – e quella che la precede. «La responsabilità precontrattuale ai sensi dell’art. 1337 c.c. può conseguire tanto in relazione al processo formativo del contratto quanto in rapporto alle semplici trattative, riguardate come qualcosa di diverso da

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esso, ossia come quella fase anteriore in cui le parti si limitano a manifestare la loro tendenza verso la stipulazione del contratto, senza ancora porre in essere alcuno di quegli atti di proposta e di accettazione che integrano il vero e proprio processo formativo». Dunque «Se lo svolgimento delle trattative è, per serietà e concludenza, tale da determinare un affidamento nella stipulazione del contratto, la parte che ne receda senza giusta causa, violando volontariamente l’obbligo di comportarsi secondo buona fede, è tenuta al risarcimento dei danni nei limiti dell’interesse negativo. I presupposti della responsabilità precontrattuale, ai sensi dell’art. 1337 c.c., quali lo stadio avanzato delle trattative, il ragionevole affidamento suscitato nella conclusione del contratto, l’assenza di una giusta causa di recesso e quindi la violazione degli obblighi di buona fede, concretano altrettanti accertamenti di fatto, demandati all’esclusiva competenza del giudice di merito, incensurabili in cassazione se adeguatamente motivati». (Cass. 14-2-2000, n. 1632) Ma quando finiscono le trattative? E dunque quando può dirsi che dalla fase delle trattative si sia passati alla (definitiva) conclusione dell’accordo? Il dubbio si presenta tutte le volte in cui, come abbiamo accennato, l’incontro di volontà delle parti non avviene attraverso il modello, in qualche modo semplificato, dell’inoltro, da parte del destinatario della proposta, della sua accettazione al proponente, con gli effetti voluti dalle regole e dalle presunzioni che abbiamo ricordato. Nella prassi, invero, le parti sovente raggiungono un accordo “per tappe”, lungo un percorso di negoziazione che riguarda singoli aspetti del loro regolamento di interessi, siglando l’intesa mediante documenti variamente denominati. È principio generale che l’indagine dovrà appuntarsi sull’effettiva volontà delle parti – di fermarsi ad una mera bozza o di siglare una intesa definitiva – non potendosi dare rilievo al nomen juris da esse adottato. La S.C. assume al riguardo un orientamento pacifico che può essere così ben espresso

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«Ai fini della configurabilità di un definitivo vincolo contrattuale è necessario che tra le parti sia raggiunta l’intesa su tutti gli elementi dell’accordo, non potendosene ravvisare pertanto la sussistenza là dove, raggiunta l’intesa solamente su quelli essenziali ed ancorché riportati in apposito documento (cosiddetta “minuta” o “puntuazione”), risulti rimessa ad un tempo successivo la determinazione degli elementi accessori, con la precisazione che, anche in presenza del completo ordinamento di un determinato assetto negoziale, può risultare integrato un atto meramente preparatorio di un futuro contratto, come tale non vincolante tra le parti, in difetto dell’attuale effettiva volontà delle medesime di considerare concluso il contratto». (Cass. 4-2-2009, n. 2720) Accertamento, da compiere alla luce dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c., che è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in Cassazione ove sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici. Sulla base di tali criteri, per converso, come abbiamo detto, anche in presenza di un documento qualificato come “minuta”, qualora l’intesa raggiunta dalle parti abbia ad oggetto un vero e proprio regolamento definitivo del rapporto – accertamento sempre rimesso al giudice di merito – non sarà configurabile un impegno con funzione meramente preparatoria di un futuro negozio, ma si dovrà ritenere formata la volontà attuale di un accordo contrattuale. Anche in tale valutazione – che attiene alla verifica di ciò che sta prima del contratto e lo prepara – il giudice può ben fare riferimento alle regole di interpretazione del contratto dettate dagli artt. 1362 ss. c.c. Vero è che tali norme sono dettate per la interpretazione del contratto, e dunque, si potrebbe obiettare, dovrebbero essere utilizzabili per un accordo di cui sia certo il carattere negozialmente vincolante ma non per stabilire se, prima ancora, si sia di fronte ad un impegno vincolante per le parti o ad una semplice bozza di una futura regolamentazione d’interessi. Ma, osserva la S.C., i criteri di cui agli artt. 1362 ss. c.c. mirano innanzitutto a consentire una ricostruzione della volontà delle parti e tale

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«operazione non assume carattere diverso quando sia questione, invece che di stabilirne il contenuto, di verificare anzitutto se le parti abbiano inteso esprimere un assetto d’interessi giuridicamente vincolante». (Cass. 4-2-2009, n. 2720) Problema in qualche modo opposto, come accennato, si pone all’attenzione del legislatore nel caso di contratti “asimmetrici” e in particolare i contratti “di massa” ove la predisposizione unilaterale degli schemi contrattuali riduce l’apporto volitivo della controparte alla mera “adesione”, così azzerando o comunque depotenziando la fase delle trattative; con conseguenze di non poco momento circa contenuti ed intensità degli obblighi di informazione e in generale degli atti e comportamenti tenuti dal soggetto “forte” in fase precontrattuale.

10. Trattative e responsabilità precontrattuale tra art. 1337 e art. 1338 c.c. È ormai pacifica – in dottrina e in giurisprudenza – una lettura dell’art. 1337 c.c. che, nell’ambito della responsabilità precontrattuale, valorizza in tutte le sue implicazioni il richiamo alla clausola generale di buona fede, intesa in senso oggettivo e con richiamo dunque alla lealtà e correttezza delle contrattazioni. È merito dei giudici avere dunque chiarito che

«la regola posta dall’art. 1337 c.c. non si riferisce alla sola ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative ma ha valore di clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in modo preciso, e implica il dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o anche solo conoscibile con l’ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto». (Cass. 23-3-2016, n. 5762) Da una tale, condivisibile, interpretazione, discendono due questioni di carattere interpretativo-sistematico. La prima questione, una volta am-

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messa la configurabilità della violazione dell’art. 1337 anche fuori dal caso, classico, di rottura ingiustificata delle trattative, attiene alla ammissibilità di una censura del comportamento contrario alla buona fede tenuto da una parte durante le trattative, una volta che il contratto si sia validamente concluso. Al riguardo si è imposto un mutamento di indirizzo. Se infatti ancora in anni non lontani si riteneva «la configurazione di tale ipotesi» di responsabilità «preclusa dall’intervenuta conclusione del contratto» (sicché non poteva ravvisarsi una ipotesi di responsabilità precontrattuale nel caso in cui l’accordo si fosse formato a condizioni diverse da quelle che si sarebbero avute se la parte non avesse tenuto nei confronti dell’altra un comportamento contrario a buona fede) – e vedi per tutte ancora Cass. 5-2-2007, n. 2479 –, può dirsi ora pacifico che «L’esame delle norme positivamente dettate dal legislatore pone in evidenza che la violazione di tale regola di comportamento assume rilievo non solo nel caso di rottura ingiustificata delle trattative (e, quindi, di mancata conclusione del contratto) o di conclusione di un contratto invalido o comunque inefficace (artt. 1338, 1398 c.c.), ma anche quando il contratto posto in essere sia valido, e tuttavia pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto (1440 c.c.)». (Cass. 8-10-2008, n. 24795) Come si legge in una delle prime decisioni che con ampia argomentazione abbandonano il precedente indirizzo «Non è affatto vero che, in caso di violazione delle norme che impongono alle parti comportarsi secondo buona fede nel corso delle trattative e nella formazione del contratto, la parte danneggiata, quando il contratto sia stato validamente concluso, non avrebbe alcuna possibilità di ottenere il risarcimento dei danni subiti. Tale tesi, un tempo non priva di riscontri nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. 9 ottobre 1956, n. 3414; 12 ottobre 1970, n. 1948; 11 settembre 1989, n. 3922), poggia sull’assunto che l’ambito di rilevanza della responsabilità precontrattuale sia circoscritto alle ipotesi in cui il comportamento non conforme a buona fede abbia impedito la conclusione del contratto o abbia determinato la conclusione di una contratto invalido ovvero (originariamente) inefficace. Di qui la

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conclusione che, dopo la stipulazione del contratto, ogni questione relativa all’osservanza degli obblighi imposti alle parti nel corso delle trattative sarebbe preclusa, in quanto la tutela del contraente sarebbe affidata, a partire da quel momento, solo alle norme in tema di invalidità e di inefficacia del contratto, la cui applicazione, pur essendo in alcuni casi ricollegata a comportamenti certamente non conformi a “buona fede”, è tuttavia subordinata alla ricorrenza di presupposti ulteriori (artt. 1434-1437, 1439, 1447-1448). Si è però ormai chiarito che l’ambito di rilevanza della regola posta dall’art. 1337 c.c. va ben oltre l’ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative e assume il valore di una clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in maniera precisa, ma certamente implica un dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o anche solo reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o anche solo conoscibile con l’ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto. L’esame delle norme positivamente dettate dal legislatore pone in evidenza che la violazione di tale regola di comportamento assume rilievo non solo nel caso di rottura ingiustificata delle trattative (e, quindi, di mancata conclusione del contratto) o di conclusione di un contratto invalido o comunque inefficace (artt. 1338, 1398 c.c.), ma anche quando il contratto posto in essere sia valido, e tuttavia pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto (1440 c.c.)». (Cass. 29-9-2005, n. 19024, cit.) Orientamento, come si è detto, ormai consolidato (lo ribadisce da ultimo, Cass. 23-3-2016, n. 5762, cit.). Anche in caso di annullamento del contratto per vizi della volontà la vittima ha diritto al risarcimento del danno: la responsabilità della controparte va inquadrata nell’ambito della responsabilità precontrattuale a carico di chi abbia provocato il vizio (violenza morale o dolo), così violando l’obbligo di correttezza ex art. 1337 ovvero non ne abbia informato l’altra parte, violando l’obbligo di cui all’art. 1338 (dolo del terzo, errore riconoscibile). Nel caso di responsabilità precontrattuale il danno risarcibile è di regola identificato con il c.d. interesse negativo, che comprende oltre le spese sostenute anche la perdita di altre occasioni, ma non può coprire i mancati profitti che sarebbero derivati da un contratto non concluso seppure per rottura ingiustificata delle trattative ovvero da un contratto comunque invalido. Sempre della risarcibilità dell’interesse negativo

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dovrà parlarsi in caso di responsabilità precontrattuale in presenza di un contratto valido, pur mutando in tal caso il criterio di quantificazione dei danni. Quando il danno deriva da un comportamento scorretto nella fase di formazione di un contratto pur valido ed efficace il risarcimento, pur non potendo coprire il pregiudizio derivante dalla mancata esecuzione del contratto e dovendo pertanto rimanere limitato al c.d. interesse negativo, essendosi qui giunti alla stipula di un contratto valido, dovrà tenere conto della circostanza che il contratto è stato stipulato a condizioni diverse da quelle in cui sarebbe stato stipulato senza l’interferenza del comportamento scorretto. Il risarcimento sarà in questo caso ragguagliato proprio al minor vantaggio o al maggior aggravio economico e a ogni altro danno che la parte provi aver subito per effetto del contegno sleale di controparte.

11. Responsabilità precontrattuale e informazione negli artt. 1337 e 1338 L’art. 1338 configura, quale fonte di responsabilità precontrattuale, la mancata comunicazione all’altra parte di una causa di invalidità del contratto di cui la parte abbia avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza. La norma, in considerazione della sua ratio, viene interpretata estensivamente, con riferimento, oltre che alle cause di invalidità, a quelle di inefficacia del contratto. «La norma dell’art. 1338 cod. civ., finalizzata a tutelare nella fase precontrattuale il contraente di buona fede ingannato o fuorviato dalla ignoranza della causa di invalidità del contratto che gli è stata sottaciuta e che non era nei suoi poteri conoscere, è applicabile a tutte le ipotesi di invalidità del contratto, e pertanto non solo a quelle di nullità, ma anche a quelle di nullità parziale e di annullabilità, nonché alle ipotesi di inefficacia del contratto, dovendosi ritenere che anche in tal caso si riscontra la medesima esigenza di tutela delle aspettative delle parti al perseguimento di quelle utilità cui esse mirano mediante la stipulazione del contratto medesimo». (Cass. 8-7-2010, n. 16149) Come abbiamo sopra anticipato vi è un’altra e assai più significativa questione di ordine sistematico che discende dal ricordato ampliamento

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delle fattispecie di responsabilità ex art. 1337 c.c. oltre la rottura ingiustificata delle trattative. Si è visto infatti che siffatto ampliamento, alla stregua del canone di buona fede, fa venire in rilievo ogni comportamento scorretto e sleale che non tenga in adeguata considerazione gli interessi della controparte e, particolarmente, comportamenti maliziosi o semplicemente reticenti. L’obbligo di buona fede reca con sé, tra i principali, l’obbligo di corretta informazione, imponendo alla parte di fornire alla controparte tutti i dati di cui essa sia a conoscenza rilevanti ai fini della stipulazione del contratto. Per il tramite della clausola di buona fede, dunque, trova ingresso nella relazione che accompagna la stipula di un contratto un obbligo di trasparenza e di informazione che va ben oltre l’ambito, in verità assai circoscritto, della comunicazione delle eventuali cause di invalidità del contratto di cui all’art. 1338 c.c. «Se è pur vero che nella fase antecedente alla conclusione di un contratto, le parti hanno, in ogni tempo, piena facoltà di verificare la propria convenienza alla stipulazione e di richiedere tutto quanto ritengano opportuno in relazione al contenuto delle reciproche, future obbligazioni, con conseguente libertà, per ciascuna di esse, di recedere dalle trattative indipendentemente dalla esistenza di un giustificato motivo, è altrettanto vero che l’operatività di tale principio è assoggettata al limite del rispetto del principio di buona fede e correttezza, da intendersi, tra l’altro, come dovere di informazione della controparte circa la reale possibilità di conclusione del contratto, senza omettere circostanze significative rispetto all’economia del contratto medesimo. La giurisprudenza più evoluta di questa Corte ... ha ulteriormente precisato che la regola posta dall’art. 1337 c.c. non si riferisce alla sola ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative ma ha valore di clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in modo preciso ed implica il dovere, per le parti, di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o conoscibile con l’ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto. La violazione di questa aggiuntiva regola di condotta alla quale devono conformarsi le parti di una trattativa negoziale è, quindi, idonea a determinare (se accertata adeguatamente in fatto in virtù di un congruo e logico percorso argomentativo spettante al giudice del merito) la configurazione di una responsabilità precontrattuale indipendente rispetto a quella ricondu-

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cibile ai canoni fissati dalla pregressa giurisprudenza di legittimità in materia di recesso dalle trattative, avuto riguardo al loro stadio evolutivo». (Cass. 26-4-2012, n. 6526) Questa lettura dell’art. 1337 c.c. e l’individuazione per il suo tramite di un generale obbligo di informazione a carico dei partners avvicina per molti aspetti la disciplina generale del contratto alle regole settoriali introdotte nel nostro ordinamento per effetto della normativa di fonte europea, riferite ai contratti dei consumatori: gli obblighi di informazione costituiscono invero, come vedremo, uno dei cardini di siffatta disciplina speciale. Il percorso è anzi inverso: la inedita e decisa rilevanza acquisita dagli obblighi di informazione nei contratti di consumo ha portato in evidenza l’importanza che in generale riveste la trasparenza nei rapporti tra i partners di qualunque contratto, quale aspetto specifico di un comportamento leale e corretto. Gli obblighi di trasparenza e di c.d. disclosure, dunque, da aspetto specifico delle discipline settoriali relative ai contratti di consumo, possono oggi dirsi divenuti connotato proprio della disciplina generale del contratto, “veicolati” dall’obbligo di buona fede nelle trattative di cui all’art. 1337 c.c. Vedremo a suo tempo come l’ambito degli obblighi di informazione e, soprattutto, le ricadute nella vicenda contrattuale della loro violazione, siano tuttora meno definiti di quanto possa a prima vista sembrare. Va detto subito che altro è assumere un comportamento trasparente e leale e in nome di questo fornire all’altra parte una compiuta e chiara rappresentazione delle condizioni contrattuali e/o del bene o servizio che ne è oggetto; altro è trasmettere al proprio interlocutore elementi di valutazione idonei a far luce sulla convenienza dell’affare e così rivolti non a rendere completa la conoscenza dell’oggetto e dei termini del rapporto giuridico che va a costituirsi bensì ad agevolare il calcolo di convenienza economica, anche di prospettiva, della transazione. Questa distinzione assume rilievo, come si vedrà, nei contratti dei consumatori, quando si passi dal contratto di scambio di beni o di fornitura di servizi, al contratto di credito o di investimento finanziario, essendo evidente il tramutarsi, negli ultimi due casi, della informazione-comunicazione in informazione-consulenza, dovendo l’obbligo di informazione e trasparenza rendere il consumatore meglio avvertito di rischi e convenienze dell’operazione (oltre che compiutamente edotto delle condizioni contrattuali) (infra, 27).

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Qui va subito segnalato che, in generale, pur in ossequio al canone della buona fede, l’obbligo di trasparenza e di informazione non si ritiene possa spingersi fino a ricomprendere l’obbligo, per una parte, di mettere a disposizione dell’altra dati acquisiti a seguito di autonomi (e talora costosi) approfondimenti circa gli aspetti dell’affare che si sta concludendo, e di farsi carico insomma delle ragioni di convenienza della controparte pur se in conflitto con le proprie. Dottrina e giurisprudenza – e quest’ultima allorché ha cercato di ragionare intorno al concetto di “abuso del diritto” riferito ai diritti nascenti dal contratto (V, 11) – hanno talora prospettato una accentuazione del principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, quale espressione del dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., idoneo pertanto ad imporre «a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell’ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli» (Cass. 18-9-2009, n. 20106). Tuttavia non sembra incontrare ad oggi sicura fortuna la via di una concezione collaborativa e solidaristica del contratto, tale da tramutare il duty to disclose – obbligo di trasparenza e divieto di reticenza – in duty to advise – obbligo di mettere in guardia e consigliare; almeno quando tale passaggio non si espliciti in norme dichiaratamente protettive nei confronti del contraente “debole” che tengono conto proprio del contatto “qualificato” realizzatosi tra una parte dotata di specifiche professionalità e competenze ed una parte che su tali competenze fa affidamento (come nel caso, ad esempio, dei contratti di credito al consumatore o di prestazione di servizi finanziari: infra, 27). Invero, «Il bene tutelato dal citato art. 1337 c.c. non è propriamente quello che la parte invocante la responsabilità precontrattuale si propone di conseguire con il contratto, ma è la legittima aspettativa che le trattative si svolgano lealmente e correttamente su un piano di parità». (Cass. 26-4-2012, n. 6526 cit.) Il canone di lealtà impone l’obbligo di completezza informativa, e rende illegittima la reticenza o la maliziosa omissione di informazioni rilevanti. Di sicuro dunque

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«Il principio di correttezza e buona fede comporta il dovere della parte di fornire alla controparte nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.) ogni dato, conosciuto o conoscibile con l’ordinaria diligenza, che sia rilevante ai fini della stipulazione del contratto, e di agire nell’interpretazione (art. 1366 c.c.) e nell’esecuzione dello stesso (1375 c.c.) in modo da preservarne gli interessi a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge». Ma «La violazione del principio ... non è in particolare invocabile laddove venga dedotta l’inadeguatezza delle clausole pattuite a garantire l’equilibrio delle prestazioni o le aspettative economiche di uno dei contraenti». (Cass. 27-11-2009, n. 25047) Il contraente non dovrà occultare i fatti la cui conoscenza è indispensabile alla controparte per una corretta formazione della propria volontà contrattuale. «Ma l’obbligo informativo non può essere esteso fino al punto di imporre al contraente di manifestare i motivi ... per i quali stipula il contratto, così da consentire all’altra parte di trarre vantaggio non dall’oggetto della trattativa, ma dalle altrui motivazioni e dalle altrui risorse». (Cass. 16-4-2012, n. 5965) Le aperture di dottrina e giurisprudenza verso il riconoscimento – per il tramite della clausola di buona fede – di un più intenso ruolo degli obblighi di informazione, a contenuto assai più ampio di quello indicato nell’art. 1338, sono uno degli aspetti più interessanti e significativi dell’effetto di “contaminazione” tra disciplina generale del contratto e diritto “speciale” (di fonte europea) dei contratti professionista/consumatore (e via via professionista/contraente debole), di cui, come diremo, gli obblighi di informazione costituiscono un pilastro.

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12. Violazione della buona fede nelle trattative e dolo Ritenuto che l’art. 1337 c.c., per il tramite del rinvio alla clausola di buona fede, sia idoneo ad abbracciare un ventaglio assai ampio di comportamenti scorretti e dannosi per la controparte, si profila – ecco una ulteriore questione – il problema della distinzione, ove ancora attuale, tra l’ambito di applicazione dell’art. 1337 e quello di cui all’art. 1338, ma anche dell’art. 1439 o, più spesso 1440 (dolo determinante o dolo incidente: IV, III, 6). A conferma della contiguità tra violazione del dovere di buona fede e delle sue implicazioni in tema di obblighi di trasparenza e di informazione e disciplina del dolo può menzionarsi l’art. 8 della l. 6-5-2004, n. 129 in tema di contratto di franchising, secondo cui «se una parte ha fornito false informazioni, l’altra parte può chiedere l’annullamento del contratto ai sensi dell’art. 1439 c.c. nonché il risarcimento del danno». In verità la distinzione in molti casi perde di rilievo, almeno quanto alle conseguenze, ove si consideri che il rimedio (a meno che non si tratti di dolo determinante del consenso) nei tre casi considerati, è comune: la parte che ha violato il canone della buona fede, come quella che abbia taciuto consapevolmente cause di invalidità o che abbia con inganno indotto la controparte a concludere un contratto a condizioni meno vantaggiose (dolo incidente) dovrà comunque risarcire il danno. E anche nel caso di cui l’art. 1440 c.c. si configura una fattispecie di responsabilità precontrattuale, una specifica violazione della buona fede in sede di formazione del contratto che si esprime in un comportamento ingannevole (per cui si evocano i concetti di calliditas, fallacia, machinatio), di una parte che conduce l’altra a contrattare a condizioni diverse e meno favorevoli rispetto a quelle che avrebbe accettato senza l’inganno. Si tratta di una figura di dolo che tuttavia, per l’incidenza nel percorso volitivo della controparte (che non ne risulta condizionato in toto e con riguardo alla scelta di stipulare il contratto ma solo con riguardo alle condizioni contrattuali) non ha ricadute sulla validità del contratto (come nel caso di dolo c.d. determinante, vizio del consenso causa di annullabilità: IV, III, 6), ponendo invece a carico del contraente che ha violato l’obbligo di buona fede la responsabilità dei danni provocati dal suo comportamento illecito. La responsabilità per violazione dell’obbligo di buona fede in presenza di contratto valido – nella fattispecie generale di cui all’art. 1337 come nel caso specifico di cui all’art. 1440 –

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non muta. Si tratta sempre di responsabilità precontrattuale. Cambia semmai il criterio di quantificazione dei danni. Ed invero, in generale, come detto, nel caso di responsabilità precontrattuale di cui all’art. 1337 il danno risarcibile viene identificato (e si esaurisce) nel c.d. interesse negativo: le due “poste” del danno emergente e del luco cessante di cui all’art. 1223 c.c., devono qui riferirsi alle spese sostenute per la trattativa e alle occasioni mancate che la parte si è lasciata sfuggire per coltivare una trattativa non andata in porto, non potendo ricomprendere i vantaggi mancati derivanti da un contratto che ancora non si era concluso e la cui conclusione non poteva configurarsi quale pretesa per nessuna delle due parti. La trattativa, invero, obbliga a comportamenti leali e corretti, ma non a giungere comunque alla conclusione del contratto. Va da sé che siffatta limitazione ben si attaglia all’ipotesi classica di responsabilità precontrattuale nascente dalla rottura ingiustificata delle trattative o anche dalla conclusione di un contratto invalido (le cui cause di invalidità erano note ad una parte che colpevolmente non le ha comunicate all’altra). Non così nel caso di responsabilità precontrattuale in presenza di contratto valido, e in particolare di responsabilità per dolo incidente dove, come vedremo, si ritiene che il risarcimento del danno debba invece essere riferito “al minor vantaggio o al maggior aggravio economico” che il contraente vittima del dolo ha subito vincolandosi ad un contratto meno conveniente di quanto credesse. È rimasta a lungo maggioritaria in giurisprudenza la tesi che individua nella responsabilità precontrattuale derivante dalla violazione della regola di condotta posta dall’art. 1337 c.c., una forma di responsabilità extracontrattuale; con la conseguente applicazione delle relative regole in tema di prescrizione dell’azione e di distribuzione dell’onere della prova (da ultimo Cass. 29-7-2011, n. 16735). Una recente pronuncia della Suprema Corte, valorizzando aperture significative della giurisprudenza prospettate “in materie diverse e sia pure senza una consapevole visione d’insieme” (sono parole della Corte), e nel solco di ormai consolidate posizioni della dottrina, ha riaffermato, con ampia e solida argomentazione, la natura contrattuale di tale responsabilità, ponendo l’accento sulla circostanza che tra le parti impegnate in una trattativa viene a realizzarsi un “contatto sociale qualificato”, cioè “una relazione di vita produttiva di obblighi” – innanzitutto quello di buona fede sancito nell’art. 1337 c.c. – “la cui violazione è assimilabile a quella arrecata agli obblighi scaturenti dal contratto”. La

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qualificazione della responsabilità ex art. 1337 c.c. come responsabilità di natura extracontrattuale, osserva la Suprema Corte «appare per lo più ancorata alla bipartizione fondamentale delle fonti delle obbligazioni: da un lato le obbligazioni da atto lecito, ossia da contratto; dall’altro, le obbligazioni da fatto illecito, ossia da delitto. Ne è risultata pretermessa la terza, importante, fonte delle obbligazioni, rappresentata – ai sensi dell’art. 1173 c.c. – da “ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”; il che non ha consentito di dare il giusto rilievo, sul piano giuridico, alla peculiarità di talune situazioni non inquadrabili né nel torto né nel contratto, e – tuttavia – singolarmente assimilabili più alla seconda fattispecie, che non alla prima».

«Le considerazioni svolte dalla dottrina e recepite dalla massima parte della giurisprudenza hanno, invero, evidenziato che l’elemento qualificante di quella che può ormai denominarsi “culpa in contrahendo” solo di nome, non è più la colpa, bensì la violazione della buona fede che, sulla base dell’affidamento, fa sorgere obblighi di protezione reciproca tra le parti. Ne discende che la responsabilità per il danno cagionato da una parte all’altra, in quanto ha la sua derivazione nella violazione di specifici obblighi (buona fede,protezione, informazione) precedenti quelli che deriveranno dal contratto,se ed allorquando verrà concluso, e non del generico dovere del neminem laedere, non può che essere qualificata come responsabilità contrattuale. Certo, può obiettarsi – ed una parte minoritaria della dottrina lo ha fatto – che anche l’investimento di un pedone, uno scontro tra veicoli, un atto violento che produca una lesione, danno vita ad un contatto sociale, possibile fondamento di una responsabilità che va oltre quella extracontrattuale, meno gravosa per il danneggiante. Ma l’obiezione, incentrandosi sulla considerazione del contatto sociale semplice, non coglie il proprium della responsabilità in parola, nella quale il contatto sociale tra sfere giuridiche diverse deve essere “qualificato”, ossia connotato da uno “scopo” che, per il suo tramite, le parti intendano perseguire. In virtù di tale relazione qualificata, una persona – al fine di conseguire un obiettivo determinato (stipulare un contratto non svantaggioso,evitare eventi pregiudizievoli alla persona o al patrimonio, assicurarsi il corretto esercizio dell’azione amministrativa) – affida i propri beni della vita alla correttezza, all’influenza ed alla professionalità di un’altra persona. Per il che non si verte – com’è del tutto evidente – in un’ipotesi di me-

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ro contatto sociale, bensì di un contatto sociale pregnante che diventa fonte di responsabilità – concretando un fatto idoneo a produrre obbligazioni ai sensi dell’art. 1173 cod. civ. – in virtù di un affidamento reciproco delle parti e della conseguente insorgenza di specifici, e reciproci, obblighi di buona fede, di protezione e di informazione».

Conclusivamente

«Il “non rapporto” caratterizza, pertanto, la responsabilità civile aquiliana, nella quale la rilevanza giuridica del contatto semplice tra soggetti viene alla luce solo nel momento della lesione, generando l’obbligo del risarcimento, laddove nella relazione da “contatto sociale qualificato” sussiste un rapporto connotato da obblighi già a monte della lesione, ancorché non si tratti di obblighi di prestazione (art. 1174 cod. civ.), bensì di obblighi di protezione correlati all’obbligo di buona fede (artt. 1175 e 1375 cod. civ.). Certamente significative in tal senso si rivelano le decisioni nelle quali questa Corte ha affermato che il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, espressione del dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 della Costituzione, impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico di entrambe, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge. Ne discende che la violazione di tale principio “costituisce di per sé inadempimento” e può comportare l’obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato a titolo di responsabilità contrattuale (cfr., tra le tante, Cass. 21250/2008; 1618/2009; 22819/2010). Ebbene, il significativo ampliamento dell’area di applicazione della responsabilità contrattuale che ne è derivato è certamente frutto di un’evoluzione nel modo di intendere la responsabilità civile che dottrina e giurisprudenza hanno operato, nella prospettiva di assicurare a coloro che instaurano con altri soggetti relazioni significative e rilevanti, poiché involgenti i loro beni ed interessi – sempre più numerose e diffuse nell’evolversi della società, dei bisogni e delle esigenze dei cittadini –, una tutela più incisiva ed efficace rispetto a quella garantita dalla responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ. Quest’ultima resta, pertanto, limitata al solo ambito nel quale si riscontrino lesioni ab extrinseco a beni o inte-

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ressi altrui, al di fuori di qualsiasi rapporto preesistente che si ponga come fonte di obblighi di vario genere (di prestazione e/o di protezione), tali da radicare una responsabilità di tipo contrattuale». (Cass. 12-7-2016, n. 14188) Il mutamento di indirizzo ben si iscrive in quella tendenza a “contrattualizzare”, cioè considerare oggetto di obblighi verso la controparte, comportamenti imposti a carico di una parte, in particolare il professionista, nella fase che precede e accompagna la stipula del contratto con il consumatore: tendenza di cui parleremo a proposito soprattutto degli obblighi di informazione. Conseguenza di siffatto inquadramento entro l’ambito della responsabilità contrattuale, sarà l’applicazione del regime di questa, quanto alla distribuzione dell’onere probatorio e ai termini di prescrizione.

13. Libertà contrattuale, trattative, negozi preparatori Il concetto di “trattative” – nell’accezione che abbiamo sopra cercato di puntualizzare – segnala uno spartiacque (pur se talora di difficile identificazione) tra ciò che sta prima e ciò che sta dopo il contratto; e soprattutto sottolinea il principio di libertà contrattuale, e cioè che le parti non sono in alcun modo vincolate né a concludere il contratto né alle obbligazioni da questo derivanti, finché l’accordo non sia stato validamente stipulato. È da ritenere in qualche modo eccezionale l’imposizione di un limite alla libertà di decisione sul se contrarre e segnatamente l’obbligo (legale) a contrarre che, come visto sopra, ai sensi dell’art. 2597 c.c. grava sul monopolista legale. Non di un limite alla libertà contrattuale si tratta quando sia invece lo stesso soggetto ad (auto)vincolarsi, ad impegnarsi cioè in vista di futuri contratti, ridimensionando, sempre per atto di autonomia privata, alcuni dei profili nei quali si esprime la libertà contrattuale. Si tratta dei così detti negozi preparatori o vincoli preliminari, che assumono diversa veste. Il codice civile, già nella parte dedicata al profilo della conclusione del contratto, menziona la proposta irrevocabile e il patto di opzione. Della prima abbiamo parlato (sopra 2). Non dissimili le conseguenze

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dell’opzione, di cui all’art. 1331. Qui sono entrambe le parti che convengono, con il patto di opzione, appunto, che una di esse rimanga vincolata alla propria dichiarazione mentre l’altra abbia la facoltà di accettarla o meno; ed infatti la stessa norma precisa che in questo caso «la dichiarazione della prima si considera quale proposta irrevocabile». Dunque, la differenza tra proposta irrevocabile e opzione è chiara quanto alla natura e agli effetti di ciascuna pur se l’esito pratico è il medesimo: la prima è negozio unilaterale di proposta cui sia apposta la irrevocabilità per un certo periodo di tempo per volontà dello stesso autore; l’opzione è un contratto che vincola una parte a mantenere ferma la propria proposta. La legge, nel secondo caso, previene la possibilità che il vincolo a carico del (futuro) proponente, quando è “governato” dalla volontà di entrambe le parti, risulti troppo oneroso per l’obbligato e stabilisce per questo che dovrà comunque essere posto un limite di tempo alla libertà di scelta dell’altra parte, circa l’accettazione o meno della proposta, termine che, ove non determinato per contratto, potrà essere stabilito dal giudice (art. 1331, co. 2). Proposta irrevocabile e opzione sono le uniche fonti (convenzionali) di vincoli all’autonomia negoziale prese in considerazione dal codice nella sezione dedicata alla conclusione del contratto. Ma i negozi preparatori o vincoli preliminari non si esauriscono qui. Il patto di prelazione o di preferenza, come recita il codice, è previsto quale patto accessorio al contratto di somministrazione (vedi art. 1566), Trattasi tuttavia di una figura di portata generale, e cioè di un contratto con il quale una parte si obbliga a preferire l’altra nella stipulazione di successivi contratti. Nel caso del patto di preferenza che accede al contratto di somministrazione, si limita a cinque anni il termine di durata dell’obbligo a carico del prelazionante; un termine superiore non sarà valido e sarà sostituito da quello legale, quinquennale. Tale previsione si inquadra nella regola generale che ammette solo per un periodo limitato la vigenza di accordi destinati a condizionare la posizione delle imprese sul mercato e di vincoli alla concorrenza. Fuori da questa ipotesi non sembra potersi ritenere che il patto di prelazione non possa avere durata superiore al quinquennio. Si pensi al contratto tra me e il mio vicino con il quale mi obbligo a dargli la preferenza se e quando decidessi di alienare il mio appartamento. Non vi sono ragioni, non determinando la preferenza una alterazione dei normali rapporti di mercato tra imprenditori (come per la somministrazione, ove il somministrato si obbliga a preferire il

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somministrante), perché tale obbligo non possa avere più lunga durata. Nel caso dell’obbligo di prelazione, il vincolo per l’obbligato è se così può dirsi più leggero; poiché rimane del tutto libera la sua libertà sul se e sul quando addivenire al contratto, risultando limitata solo la sua libertà di scelta del contraente. L’ordinamento utilizza questo strumento in molti casi, allorché intende favorire una circolazione “mirata” verso determinati soggetti di taluni beni. In questo caso l’obbligo di prelazione è previsto dalla legge (prelazione legale): così a carico del coerede, che per la vendita della sua quota ereditaria dovrà preferire il coerede o del proprietario di un fondo rustico che, se intende venderlo, dovrà preferire l’affittuario coltivatore insediato sul fondo o il proprietario del fondo confinante che sia coltivatore diretto. La fonte legale rende più forte il vincolo, ma solo nei confronti dei terzi. Sia nel caso di prelazione legale che nel caso di prelazione convenzionale il vincolo riguarda solo la scelta del contraente, mentre le condizioni del contratto saranno quelle decise dall’obbligato e accettate da altri potenziali contraenti, che egli dovrà a quel punto sottoporre all’avente diritto alla prelazione, il quale potrà accettarle ma non cambiarle. Tuttavia, mentre nella prelazione convenzionale, gli effetti, in quanto obbligatori, rimangono nella sfera delle parti (il contratto non produce di regola effetti nei confronti dei terzi) e dunque il contratto stipulato con un terzo in violazione dell’obbligo di prelazione rimarrà valido (salve le conseguenze in capo all’obbligato alla prelazione in termini di inadempimento del contratto, dunque l’obbligo di risarcire il danno); quando la prelazione ha la sua fonte nella legge, di regola, è accompagnata dal carattere della realità, cioè dell’opponibilità ai terzi (art. 732 c.c. obbligo legale di prelazione per la vendita di quote ereditarie tra coeredi; art. 8, l. 26-5-1965, n. 590, obbligo legale a carico del proprietario di fondo rustico nel caso di trasferimento a titolo oneroso del bene, di preferire nella vendita gli affittuari o mezzadri che vi siano insediati e posseggano determinati requisiti, ecc.). L’avente diritto alla prelazione potrà agire per “sostituirsi” nel contratto che l’obbligato abbia stipulato con il terzo violando il patto di prelazione. Fuori dai casi di negozi preparatori previsti dalla legge, si pone il problema di ricercare non solo, come sopra rilevato, se e da quale momento si sia oltrepassato il confine delle trattative nel senso che le parti possano dirsi già vincolate entro un contratto; ma altresì di verificare se, lungo il percorso, come si è detto a volte lungo e complesso, che dalle

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trattative porterà alla conclusione del contratto, esse non abbiano già espresso manifestazioni di volontà idonee a vincolarle non ad un contratto già definitivo ma a successivi passaggi che portano alla conclusione del contratto, in quella che si definisce formazione progressiva del contratto. La questione è stata di recente affrontata compiutamente dalle Sezioni Unite della nostra Corte di cassazione a proposito del contratto preliminare e dell’ammissibilità e validità di accordi, pur sempre preliminari, che con esso non si identifichino pienamente. Per questo torneremo a trattarne qui di seguito.

14. (Segue). Il contratto preliminare In qualche modo singolare è stata la scelta del codice a proposito del più importante e diffuso dei negozi c.d. preparatori, cioè il contratto preliminare. Della natura, del contenuto e degli effetti di tale figura il codice non fa menzione: si limita(va) a regolarne la forma, con riferimento a quella prevista per il contratto definitivo (art. 1351), norma cui oggi si aggiunge, per effetto di una novella abbastanza recente (d.l. n. 669/1996, conv. nella l. n. 30/1997), l’art. 2645-bis, che regola la trascrizione del preliminare. L’art. 1351 esplicita, seppur non chiarisce, che ricorrendo a tale figura le parti intendono scandire la formazione del loro accordo secondo una sequenza che si affida, appunto, al binomio contratto preliminare-contratto definitivo. Con il primo esse non vogliono il prodursi degli effetti del contratto che intendono stipulare (vendita, locazione, società, ecc.), ma solo vincolarsi alla futura stipula di questo. Hanno interesse cioè, per varie ragioni – verificare in futuro alcuni aspetti dell’accordo, procurarsi i mezzi finanziari per concludere l’affare, maturare l’intesa su alcuni aspetti secondari – a differire la nascita del vincolo, ma vogliono assicurarsi che, malgrado tale scarto temporale, il reciproco impegno sia giuridicamente rilevante e gli aspetti essenziali del futuro contratto siano “fissati” una volta e per tutte. «Il contratto preliminare e il contratto definitivo di compravendita si differenziano per il diverso contenuto della volontà dei contraenti, che è diretta, nel primo caso, ad impegnare le parti a prestare, in un momento

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successivo, il loro consenso al trasferimento della proprietà, e nel secondo ad attuare il trasferimento stesso, contestualmente o a decorrere da un momento successivo alla conclusione del contratto, senza necessità di ulteriori manifestazioni di volontà». (Cass. 11-7-2011, n. 15214) A distinguere preliminare da definitivo non soccorrono dunque le parole usate (impegno, promessa, ecc.) ma occorre interpretare il contenuto della volontà delle parti «Al fine di attribuire ad una convenzione negoziale la natura giuridica di contratto di compravendita ovvero di semplice preliminare, è determinante l’identificazione del comune intento delle parti, diretto, nel primo caso, al trasferimento della proprietà della “res” verso la corresponsione di un certo prezzo conformemente alla causa negoziale sancita dall’art. 1470 cod. civ., e, nel secondo, all’insorgenza di un particolare rapporto obbligatorio che impegni le parti stesse ad un’ulteriore manifestazione di volontà alla quale sono rimessi il trasferimento del diritto dominicale sul bene e l’assunzione dell’obbligo di pagamento del prezzo. Nell’esaminare la stipulazione nel suo complesso onde accertare la comune volontà dei contraenti in un senso o nell’altro, il giudice di merito deve tener presente, peraltro, che la previsione della “traditio” del bene e/o del pagamento, anche totale, del prezzo convenuto non sono vicende assolutamente incompatibili con l’intento di stipulare un semplice preliminare di vendita, potendo le parti, con tali pattuizioni, manifestare null’altro che l’intento di anticipare le prestazioni del futuro contratto definitivo». (Cass. 19-4-2000, n. 5132) Il contratto preliminare deve contenere tutti gli elementi del contratto definitivo ed ha come suo effetto quello di far nascere a carico delle parti l’obbligo di concludere, in quei termini, il contratto definitivo, entro il termine concordato. «Ai fini della validità del contratto preliminare, non è indispensabile la completa e dettagliata indicazione di tutti gli elementi del futuro con-

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tratto, risultando sufficiente l’accordo delle parti su quelli essenziali. In particolare, nel preliminare di compravendita immobiliare, per il quale è richiesto “ex lege” l’atto scritto come per il definitivo, è sufficiente che dal documento risulti, anche attraverso il riferimento ad elementi esterni, ma idonei a consentirne l’identificazione in modo inequivoco, che le parti abbiano inteso fare riferimento ad un bene determinato o, comunque, determinabile, la cui indicazione pertanto, attraverso gli ordinari elementi identificativi richiesti per il definitivo, può anche essere incompleta o mancare del tutto, purché, l’intervenuta convergenza delle volontà sia anche “aliunde” o “per relationem”, logicamente ricostruibile». (Cass. 1-2-2013, n. 2473) Il vincolo all’autonomia delle parti è qui presente nella sua massima espressione: poiché esse si sono già vincolate alla stipula del futuro contratto pur se gli effetti di questo si produrranno dopo la stipula di questo che esse rinviano. E la forza del preliminare è ben espressa sia dall’art. 2932 c.c. – a mente del quale, a meno che ciò non sia escluso per volontà delle parti o non sia possibile data la natura del contratto o del suo oggetto, in caso di inadempimento, la parte adempiente può ottenere dal giudice una sentenza che produca gli stessi effetti del definitivo non concluso – sia ora dalla trascrivibilità dei contratti preliminari aventi ad oggetto la conclusione di contratti di trasferimento della proprietà di beni immobili e quelli aventi ad oggetto diritti sui beni immobili di cui ai numeri 2, 3 e 4 art. 2643, se risultanti da atto pubblico o scrittura privata. L’esecuzione in forma specifica del preliminare, di cui all’art. 2932, ben rende l’idea dei caratteri e della funzione del preliminare: questo dovrà contenere tutti gli elementi essenziali del definitivo, e potrà condurre alla produzione degli effetti del definitivo per il tramite non già di una nuova manifestazione di volontà di entrambe le parti, ma di una sentenza costitutiva, invocata dalla parte che voglia addivenire al definitivo malgrado la indisponibilità dell’altra. Caratteri e funzione ulteriormente esaltati dalla disciplina della trascrizione dei preliminari concernenti diritti immobiliari, dal momento che in questo caso gli effetti del contratto definitivo saranno opponibili ai terzi fin dal momento della trascrizione del preliminare (sempre che ovviamente si giunga al definitivo o alla sentenza ex art. 2932, nei termini di cui al co. 3 dell’art. 2645 bis, non potendosi escludere che, di fronte al rifiuto della controparte di

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stipulare il definitivo, la parte si accontenti di chiedere la risoluzione per inadempimento del preliminare e il risarcimento dei danni e dunque non si giunga al definitivo). Lo strumento del contratto preliminare si è manifestato assai utile specie nella contrattazione immobiliare, dove ha anche espresso tutta la sua flessibilità: si pensi in particolare al diffusissimo preliminare complesso o ad effetti anticipati, nel quale le parti, sempre rinviando la stipula del contratto definitivo, tuttavia pattuiscono che già in esecuzione del preliminare il promissario acquirente sia immesso nel godimento del bene a fronte del pagamento di acconti sul prezzo. Tale diffusione nella prassi della contrattazione immobiliare spiega del resto sia la novella del codice con la introduzione della disciplina della trascrizione di cui al citato art. 2645-bis, sia l’articolata disciplina (di protezione) dei contratti, anche preliminari, per l’acquisto di immobili da costruire dettata con il d.lgs. 20-6-2005, n. 122, nella quale, come abbiamo segnalato, la figura del promissario acquirente o dell’acquirente è destinataria di talune regole di protezione analoghe a quelle proprie dei contratti del consumatore (IV, I, 6). Non da oggi, i giudici di merito si sono trovati a dover qualificare – decidendo per la loro validità o meno – quelli che sono stati denominati (forse impropriamente come avverte oggi la S.C.) contratti preliminari di preliminari. Scontate le variabili che possono riscontrarsi nella prassi, si tratta di accordi con i quali le parti, di solito in sede di contrattazione immobiliare, si obbligano a stipulare un futuro contratto, ma sempre ad effetti obbligatori, che a sua volta li impegnerà al definitivo. Da qui la denominazione di preliminare di preliminare. Se i giudici di merito si sono divisi circa il riconoscimento della validità di simili accordi, la Corte di cassazione ne ha in un primo momento decisamente escluso l’ammissibilità, rintracciando nel primo contratto una inutile ripetizione del secondo, cioè del futuro preliminare cui le parti si obbligano, e ritenendolo dunque nullo per mancanza di causa: un contratto inutile, essendo una inutile complicazione un contratto con cui ci si obbliga ad obbligarsi. Altra sezione della S.C., manifestando perplessità su tale drastica conclusione a fronte della possibile varietà degli interessi perseguiti dalle parti, ha ritenuto di investire del contrasto giurisprudenziale le Sezioni Unite. Richiamata la più moderna ed attuale accezione della causa del contratto (IV, IV, 1), come causa concreta, da ricercarsi in conside-

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razione dell’interesse concretamente perseguito dalle parti, le Sezioni Unite hanno preliminarmente escluso che la sequenza in questione (contratto che obbliga alla stipula del preliminare; contratto preliminare; contratto definitivo) possa sempre e comunque ritenersi inutile, sì da far ritenere nullo perché privo di causa il primo accordo (nullità che dovrebbe semmai colpire, osserva giustamente la Corte, il secondo contratto, quale ipotetica mera ripetizione del primo). Fatta questa premessa, la Corte puntualizza che potrà parlarsi di preliminare di preliminare (di dubbia utilità) solo nei casi in cui il secondo contratto sia volto alla mera ripetizione del primo con identici contenuti, ma non invece, come accade sovente nella prassi, quando in realtà il primo contratto fissi alcuni elementi del contratto definitivo ma non in modo completo e tale da far ritenere superflua ed irrilevante una ulteriore pattuizione nella quale altri aspetti devono essere precisati e concordati per essere versati nel (vero e proprio) preliminare. Il primo contratto ha ad oggetto, osserva la Corte, non un obbligo di contrarre (che discende dal preliminare cui deve seguire il definitivo) ma semmai di contrattare. Dunque, va affermato il principio di diritto secondo cui il giudice «Riterrà produttivo di effetti l’accordo denominato come preliminare con il quale i contraenti si obblighino alla successiva stipula di un altro contratto preliminare, soltanto qualora emerga la configurabilità dell’interesse delle parti ad una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato prima del preliminare». (Cass. s.u. 6-3-2015, n. 4628) La S.C. ribadisce insomma l’apertura verso tutte le varie espressioni di autonomia privata che, in aderenza agli interessi perseguiti, escano dalla sequenza preliminare-definitivo; e sembra conseguentemente ammettere che in sede di formazione progressiva del contratto le parti possano giungere anche a stipulare veri e propri accordi, cioè contratti che potremmo per comodità definire preparatori, pienamente validi (innanzitutto sotto il profilo della presenza di una causa lecita). La violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, potrà dar luogo, afferma la Corte, a responsabilità per la mancata conclusione del contrat-

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to stipulando, da qualificarsi di natura contrattuale per la rottura del rapporto obbligatorio assunto nella fase precontrattuale.

15. Contratto quadro. Rinvio Non costituisce un contratto preliminare, pur vincolando in parte l’autonomia dei contraenti, il contratto quadro di cui ci siamo già occupati (I, 12). Le parti del contratto-quadro (o contratto normativo, per il suo contenuto), infatti, si vincolano con esso a rispettare le regole concordate in successivi rapporti contrattuali, ma tali rapporti rimangono futuri ed eventuali. Il contratto quadro non ha la funzione di obbligare le parti ai futuri contratti, obbligo che potrà semmai discendere per una di esse quale adempimento del servizio che essa si è impegnata a fornire. Così, ad esempio, il contratto per la prestazione di servizi di investimento (art. 23 t.u.f.) obbliga l’impresa di investimento ad eseguire ordini di acquisto di prodotti finanziari provenienti dal cliente ed al contempo definisce le regole che saranno seguite in tale futura attività negoziale delle parti; ma tali successivi rapporti saranno eventuali, rimanendo infatti il cliente libero di impartire o meno successivi ordini per nuove operazioni di investimento.

16. Il prima del contratto nell’incontro professionista-consumatore Con riguardo agli scambi tra professionisti e consumatori abbiamo già posto l’accento sul fenomeno più significativo che connota questa contrattazione di massa, vale a dire l’irrintracciabilità di una trattativa, e cioè di una fase di condivisa predisposizione delle condizioni contrattuali, che in questo caso sono già versate in uno schema predefinito, predisposto (in generale per più contratti) dal professionista e soltanto sottoposto per l’accettazione al consumatore. Come suol dirsi, vige qui la regola del take it or leave it, prendere o lasciare. I nostri giudici hanno ben chiarito quando potrebbe dirsi effettivamente intervenuta una vera e propria trattativa precontrattuale nei rapporti professionista-consumatore, richiedendosi una negoziazione individuale e seria con quel consumatore parte del singolo contratto, cui sia data la possibilità di discutere e in principio anche modificare le clausole (è questa la trattativa

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che ai sensi dell’art. 34, co. 4, cod. cons., come vedremo, esclude l’applicazione delle norme in tema di controllo sulla eventuale vessatorietà delle clausole, V, 4). La mancanza di trattativa focalizza l’attenzione sul momento della conclusione del contratto, segnalandone la distanza con la sequenza (proposta/accettazione, dopo le trattative) delineata come modello generale nel codice civile. La distanza dal modello codicistico deve essere apprezzata però da altro e forse più rilevante profilo, alla luce di prassi commerciali che il legislatore europeo ha saputo ben intercettare per tempo e che accompagnano il come si giunge al momento finale della stipula del contratto. Nel mercato “globale” di prodotti di massa il professionista offre sul mercato i propri beni e servizi e sollecita l’interesse del consumatore attraverso pressanti campagne pubblicitarie e sofisticate operazioni di marketing, sviluppate dalla grande distribuzione; ne intercetta la scelta di consumo attraverso comunicazioni telefoniche, promozioni radiotelevisive, contatti “porta a porta”; e l’offerta, come detto, attiene non solo all’oggetto dello scambio o della fornitura bensì anche e sovente alle condizioni contrattuali, predisposte dal professionista, nel contesto di una serrata concorrenza tra più operatori del mercato. Lo scambio finale, cioè il vincolo contrattuale che alla fine sorge non è caratterizzato e condizionato solo dalla predisposizione unilaterale delle condizioni contrattuali, ma altresì, a monte, dalle modalità di sollecitazione della scelta di contrarre del consumatore, dalla distanza tra produttore e consumatore finale oltre che dai mezzi di comunicazione utilizzati dal primo per contattare il secondo, dalla rapidità con la quale sovente viene sollecitata e acquisita l’adesione del consumatore. Tutto ciò per un verso elimina a monte ogni fase di negoziazione delle condizioni contrattuali (la trattativa in fase precontrattuale), e riduce, fino quasi spesso ad azzerare, i tempi di maturazione della decisione di contrarre che di solito accompagna la formazione dell’accordo e ancor di più i tempi di comprensione dei contenuti del regolamento contrattuale e dei diritti ed obblighi che ne discendono per le parti. Scambi veloci in cui, in una parola, il consenso del consumatore, peraltro ad una offerta in blocco che comprende anche le condizioni del contratto, è assai poco ponderato, e in cui difficilmente potrà dirsi piena la conoscenza e comprensione, da parte del consumatore, dei contenuti del vincolo che accetta. Questo genere di scambi veloci per altro verso rende più sfuggenti le modalità di “contatto” tra le parti. Si tratta di scambi nei quali, ancora,

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l’interlocuzione professionista/ consumatore parte da lontano (il messaggio pubblicitario) e si svolge a ritmo abbastanza serrato, rendendo abbastanza difficile isolare le diverse fasi onde ricostruire i comportamenti delle parti, il detto e il non detto: il quadro insomma entro il quale di consueto va collocata la verifica sulla pienezza della volontà negoziale e sull’assenza di vizi del volere. Nelle fattispecie prese in considerazione dal diritto europeo (III) il sicuro comune denominatore, come detto, è la velocità dello scambio. Intendendosi per scambio “veloce” quello nel quale il contratto naturalmente esclude lo spazio di trattativa, per il modo in cui viene offerto sul mercato il bene o il servizio ma anche per il modo in cui l’uomo medio tende a procurarselo. A ben vedere, distanza e velocità imprimono anche alle transazioni commerciali, cioè tra professionisti, nuove cadenze destinate a rendere meno lineare il percorso che conduce all’incontro tra le volontà; ma è di tutta evidenza che la “trattativa”, come momento di riflessione oltre che di contrattazione, destinata a corroborare la pienezza del reciproco consenso, non appartiene alle tipologie di scambio comuni che caratterizzano la nostra quotidianità e, soprattutto, alle tipologie di scambio nelle quali i partners non hanno la medesima forza (economica e dunque) contrattuale. Va chiarito subito che il problema della conclusione del contratto – che è senza dubbio centrale nell’era dell’e-commerce e che la disciplina di fonte europea ha cercato di affrontare – non è, o non è esclusivamente, un problema di competenza (in relazione al quale si contrapporrebbero profano e professionista): è la modalità stessa di contrattazione, che non ammette una effettiva partecipazione alla determinazione del contenuto e delle condizioni contrattuali, a renderci tutti small-time decision makers quando ci affacciamo sul mercato come interlocutori degli operatori economici, per procurarci, quali consumatori, appunto, beni e servizi. Velocità e distanza tra le parti dello scambio impongono modalità di conclusione del contratto in cui meno riconoscibile è la sequenza di manifestazioni di volontà delle parti, e cui soprattutto è connaturato un ineliminabile gap di ponderazione o di “contrattazione” che attiene spesso all’an del contrarre (indotto da sollecitazioni aggressive sotto forma anche solo di pubblicità) e soprattutto alla compiuta conoscenza e comprensione del contenuto del contratto. Di ciò il legislatore mostra piena consapevolezza allorché appunta la sua attenzione sui presupposti perché possa dirsi efficace il vincolo tra

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le parti, sui contenuti e l’esecuzione del rapporto contrattuale, piuttosto che sul regime dell’atto di autonomia privata. Il diritto deve registrare ed in qualche modo assecondare percorsi più complessi, meno lineari e comunque alternativi nella formazione ed identificazione della comune volontà. Estremamente significativo è che il diritto dei contratti di consumo se ovviamente fa salvo, rinviandovi sovente, il rimedio della invalidità del contratto, segnatamente per vizi del consenso, come regolato al’interno del singolo ordinamento; tuttavia quasi mai chiama in causa tale rimedio nelle discipline settoriali di volta in volta apprestate. Nel segmento degli scambi veloci di massa meno adatta ed efficace si rivelerebbe un’azione di annullamento del contratto per dolo (che pure non è preclusa), “pensata” per una interlocuzione diretta, agevolmente ricostruibile, tra due parti che negoziano. La disciplina dei vizi del consenso guarda naturalmente al momento finale – che si assume in qualche modo identificabile – nel quale può dirsi raggiunta la compiuta intesa e adesione di tutte le parti al vincolo e ai suoi contenuti. Laddove, nella contrattazione di cui parliamo, scelte avventate, errori, false rappresentazioni frutto di inganni, ben possono annidarsi nella sequenza, più o meno varia e lunga, di input e comunicazioni che il professionista fa pervenire ai suoi partners (potenziali). Così, come meglio vedremo a suo tempo, il gap di ponderazione e di informazione a svantaggio del consumatore (senza escludere come detto, in principio, l’applicabilità della tradizionale disciplina dei vizi della volontà contrattuale) viene contrastato con tecniche che meglio si adattano al modo sincopato, standardizzato e spersonalizzato con cui si giunge qui al contratto: una forte accentuazione sugli obblighi che il professionista deve rispettare prima del contratto, con particolare riferimento alla correttezza, chiarezza e completezza delle informazioni (o addirittura del messaggio pubblicitario); rigorosa predeterminazione legale dei contenuti e della forma che devono rivestire l’informazione fornita al consumatore e il testo contrattuale, in modo da assicurare certezza e trasparenza alle condizioni contrattuali e ai diritti ed obblighi delle parti. Il rispetto di tali obblighi è poi affidato ad un misto di sanzioni amministrative e di rimedi civilistici, questi ultimi congegnati talora in modo da consentire il mantenimento del contratto ma sempre in modo da subordinare l’alternativa tra conservazione o caducazione del rapporto contrattuale all’interesse del consumatore e, entro un certo periodo di tempo pur breve, alla sua libera scelta (e all’eventuale pentimento). Intercettando queste prassi e intendendo contrastarne gli effetti di

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distorsione in danno della libertà contrattuale del consumatore, la legge pone l’attenzione sull’intero percorso di formazione del contratto, spostandola sempre più all’indietro, anche con riguardo a comunicazioni commerciali con cui il professionista offre sul mercato i propri prodotti, rivolgendosi non ad un determinato partner contrattuale ma alla platea indistinta di quanti potrebbero diventarlo.

17. L’incontro professionista-consumatore sul mercato: la pubblicità Si intende per pubblicità, secondo la definizione ora fornita dall’art. 2, lett. a), d.lgs. n. 145/2007, «qualsiasi forma di messaggio che è diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere il trasferimento di beni mobili o immobili, la prestazione di opere o di servizi oppure la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi». Assicurare che il messaggio pubblicitario sia corretto – e cioè veritiero e non ambiguo – è obiettivo che l’ordinamento dovrebbe perseguire anche a tutela dell’interesse dei destinatari del messaggio (dunque, quelli che denominiamo consumatori, ma in generale qualunque potenziale acquirente o fruitore del bene o servizio reclamizzato, ancorché professionista); ma prioritario è da sempre apparso l’obiettivo di tutela di tutti gli operatori economici tra loro concorrenti e, in definitiva, di tutela del (regolare funzionamento del) mercato. Impregiudicato il diritto del produttore o prestatore del servizio di fare pubblicità, è vietata la pubblicità ingannevole (cioè qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, è idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente: art. 2, lett. b), d.lgs. n. 145/2007) e sono dettate dalla legge le “condizioni di liceità” della pubblicità comparativa (qualsiasi pubblicità che identifica in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un concorrente: art. 2, lett. d). Il produttore potrà reclamizzare il proprio prodotto confrontandolo con quello di un suo concorrente, ma dovrà farlo correttamente, e dunque confrontando beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi; in modo oggettivo, senza ingenerare confusione tra sé e i concor-

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renti o tra marchi, senza denigrare prodotti e marchi altrui, ecc. «Qualunque raffronto che fa riferimento a un’offerta speciale», ad esempio, «deve indicare in modo chiaro e non equivoco il termine finale dell’offerta oppure, nel caso in cui l’offerta speciale non sia ancora avviata, la data di inizio del periodo nel corso del quale si applicano il prezzo speciale o altre condizioni particolari o, se del caso, che l’offerta speciale dipende dalla disponibilità dei beni e servizi» (vedi art. 4, d.lgs. n. 145/2007, specie co. 3). Il messaggio pubblicitario si colloca per definizione in una fase abbastanza distante dal contratto e certo non a ridosso della stipulazione di questo: l’essere rivolto ad una platea indeterminata di destinatari esclude che lo si possa attrarre già nella fase delle “trattative”. Ma c’è di più. Lo scopo promozionale insito nel messaggio pubblicitario implica (e fa apparire scontata e del tutto tollerabile) una certa enfasi volta a vantare, accentuandole, caratteristiche, prestazioni, convenienza del prodotto o servizio reclamizzato. La pubblicità, da sempre – ma come vedremo oggi sempre meno – ha semmai occupato lo spazio che tradizionalmente viene riservato al c.d. dolus bonus, ritenuto innocuo ai fini della libera formazione della volontà negoziale anche perché del tutto atteso e messo in conto da chi riceve il messaggio pubblicitario. Queste caratteristiche spiegano perché l’ordinamento intervenga a sanzionare solo il messaggio dichiaratamente rivolto a ingannare o confondere i destinatari (o a mettere in cattiva luce concorrenti, loro prodotti e marchi) e, soprattutto, perché le conseguenze della pubblicità vietata non abbiano, in principio, alcuna ricaduta sulla sorte del contratto eventualmente concluso sotto l’effetto di un messaggio o campagna pubblicitaria illeciti. La competenza ad intervenire per verificare un corretto uso della pubblicità ed eventualmente inibire la pubblicità ingannevole o la pubblicità comparativa illecita o punire chi l’abbia adottata, è dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che interviene in via amministrativa «su istanza di ogni soggetto o organizzazione che ne abbia interesse», ne può inibire la continuazione ed eliminare gli effetti (o vietare quella non ancora in essere), comminando sanzioni pecuniarie in caso di inottemperanza ai propri provvedimenti. La tutela in via giurisdizionale, e con effetti di natura civilistica, non è esclusa, ma si tratta (co. 15, art. 8, d.lgs. n. 145/2007) della tutela, dinanzi al giudice ordinario, in materia di atti di concorrenza sleale, a norma dell’art. 2598 c.c. (ovvero prevista da altre disposizioni speciali a tutela del diritto d’autore, mar-

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chi, segni distintivi, ecc.). L’ordinamento, proprio per le caratteristiche della pubblicità cui abbiamo fatto cenno, almeno in principio ne apprezza le conseguenze esclusivamente dal profilo della distorsione che esse possono apportare nel funzionamento del mercato e nei rapporti tra imprenditori concorrenti. In verità, la disciplina della pubblicità ingannevole, introdotta nel 1992 col d.lgs. n. 74 che dava attuazione alla dir. 450/1984/CEE, e quella della pubblicità comparativa, introdotta nel 2000 col d.lgs. n. 67 che dava attuazione alla dir. 55/1997/CE, poi modificate dalla l. n. 49/2005, furono originariamente versate negli artt. da 18 a 27 cod. cons. e l’art. 19 ne enunciava una finalità di tutela a più ampio spettro: «Le disposizioni della presente sezione hanno lo scopo di tutelare dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali i soggetti che esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, i consumatori e, in genere, gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari, nonché di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa». Si deve alla scelta consegnata alla dir. 2005/29/CE dell’115-2005, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno, la separazione che vede oggi riservata ai rapporti tra professionisti la disciplina della pubblicità ingannevole e approntata invece solo per i consumatori una tutela (pur se come vedremo di segno analogo) a fronte di “pratiche commerciali scorrette”, ingannevoli o aggressive, come individuate nella medesima direttiva. Tutela, quest’ultima, che, come sottolinea la direttiva, intercettando pratiche commerciali sleali nei rapporti consumatori/imprese, è pur sempre indirettamente rivolta a beneficio di operatori economici corretti. «La presente direttiva tutela i consumatori dalle conseguenze di tali pratiche commerciali sleali allorché queste sono rilevanti, ma riconosce che in alcuni casi l’impatto sui consumatori può essere trascurabile. Essa non riguarda e lascia impregiudicate le legislazioni nazionali sulle pratiche commerciali sleali che ledono unicamente gli interessi economici dei concorrenti o che sono connesse ad un’operazione tra professionisti. Tenuto pienamente conto del principio di sussidiarietà, gli Stati membri, ove lo desiderino, continueranno a poter disciplinare tali pratiche, conformemente alla normativa comunitaria. Inoltre la presente direttiva non riguarda e lascia impregiudicate le disposizioni della dir. 84/450/CEE in materia di pubblicità che risulti ingannevole per le imprese ma non per i consumatori e in materia di pubblicità comparativa» (Considerando 6); «La pre-

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sente direttiva tutela direttamente gli interessi economici dei consumatori dalle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori. Essa, quindi, tutela indirettamente le attività legittime da quelle dei rispettivi concorrenti che non rispettano le regole previste dalla presente direttiva e, pertanto, garantisce nel settore da essa coordinato una concorrenza leale» (Considerando 8). Con l’entrata in vigore della disciplina delle “pratiche commerciali scorrette” di cui diremo tra poco (con d.lgs. 2-8-2007, n. 146 di recepimento della citata direttiva), dunque, la protezione del consumatore a fronte di messaggi pubblicitari ingannevoli è stata assorbita da tale nuova normativa dedicata esclusivamente alla tutela dei consumatori rispetto a pratiche commerciali “ingannevoli” o “aggressive”, versata negli artt. 20 ss. cod. cons. La disciplina della pubblicità ingannevole e di quella comparativa è stata riportata fuori dal codice del consumo (d.lgs. n. 145/2007, che vi ha apportato le modifiche derivanti dall’art. 14 della dir. 2005/29/CE) ed è oggi programmaticamente “riservata” a beneficio degli imprenditori: «le disposizioni del presente decreto legislativo» esordisce l’art. 1 del d.lgs. 2-8-2007, n. 145, «hanno lo scopo di tutelare i professionisti dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali, nonché di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa». Tornando al messaggio pubblicitario in sé – ancorché lecito dunque e non ingannevole – abbiamo più volte messo in luce come esso appaia quasi naturalmente irriducibile alla dinamica dell’incontro di consensi che dà luogo al contratto (e prima alle trattative), sia per i suoi contenuti (che illustrano il prodotto o il servizio ma al fine di “reclamizzarlo”) sia per l’indeterminatezza dei destinatari. Non mancano e si sono fatte sempre più frequenti nel caso di contratti professionisti/consumatori (o clienti), norme che prescrivono i contenuti dei messaggi pubblicitari e anche le modalità con cui essi devono essere formulati. Gli annunci pubblicitari che riportano il tasso di interesse o altre cifre concernenti il costo del credito, con cui la banca o la finanziaria reclamizza e promuove la concessione di credito ai consumatori, ad esempio, devono indicare le informazioni di base previste dalla legge (vedi l’elenco al co. 1 dell’art. 123 t.u.b.) «in forma chiara, concisa, e graficamente evidenziata con l’impiego di un esempio rappresentativo»: e la violazione di tali prescrizioni è sanzionata in via amministrativa con sanzione pecuniaria a carico di amministratori e dipendenti del soggetto che svolge l’attività di finanziatore (art. 144, co. 3, t.u.b.).

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Ma siamo sempre fuori da ricadute sul contratto stipulato in presenza o a causa del messaggio pubblicitario. È semmai per il tramite dei rimedi alla violazione degli obblighi di informazione che la pubblicizzazione non corretta inficia il contratto: sono nulle le clausole del contratto di credito al consumatore relative a costi non inclusi o non inclusi correttamente nel TAEG (tasso annuo effettivo globale) pubblicizzato nella documentazione predisposta in fase precontrattuale (art. 124, co. 6: infra, 26). La disciplina del credito immobiliare ai consumatori, recentemente introdotta a seguito del recepimento della dir. 2014/17/UE, dedica particolare attenzione alla comunicazione finanziatore/consumatore mediata dalla pubblicità, indicando in una norma apposita (l’art. 120 octies t.u.b.), in modo dettagliato, i requisiti di contenuto degli annunci pubblicitari relativi a tali contratti di credito; omette tuttavia qualsiasi riferimento alle possibili conseguenze, nella vicenda contrattuale, della violazione di tali prescrizioni da parte del professionista. A fronte della decisa rilevanza accordata a tali prescrizioni nella disciplina del contratto, l’interprete dovrà tuttavia chiedersi se una pubblicità non conforme a quella voluta dalla legge debba essere intercettata e sanzionata solo in sede di regolazione della concorrenza e delle relazioni di mercato (ad esempio quale pratica commerciale ingannevole infra, 18) o non sia invece da inscrivere decisamente nell’ambito dei comportamenti contrari a buona fede in sede di formazione del contratto (ex art. 1337 c.c.). In controtendenza con la programmatica “indifferenza” che il diritto dei contratti ha da sempre riservato a contenuti ed effetti della pubblicità, il legislatore europeo mostra però una certa crescente consapevolezza del differente ruolo che il messaggio pubblicitario svolge in settori di contrattazione come quello fin qui descritto dei contratti consumatori/ professionisti, contratti di massa connotati dalla velocità, dalla distanza tra le parti e dalla standardizzazione dei prodotti e delle condizioni contrattuali che “spersonalizzano” l’incontro delle volontà dei contraenti. Scambi, in una parola, in cui il primo e forse più decisivo “contatto” ai fini della sollecitazione al contratto deriva proprio dal messaggio pubblicitario. Ne risultano significativi indici normativi che sempre più tendono ad attrarre il messaggio pubblicitario entro la traiettoria che condurrà alla stipula del contratto, ravvisandovi non più solo contenuti e finalità di promozione del prodotto o servizio reclamizzato bensì la funzione di prima comunicazione ed illustrazione dell’offerta contrattuale che vincola il professionista.

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«Si considerano inesatto adempimento» recita l’art. 43, co. 1, cod. tur., a proposito della responsabilità dell’organizzatore o intermediario nella vendita di pacchetti turistici, «le difformità degli standard qualitativi del servizio promessi o pubblicizzati». Ancora. Il bene mobile venduto al consumatore, per essere considerato conforme al contratto e non far sorgere dunque la responsabilità a carico del professionista venditore, dovrà, fra l’altro, presentare anche «le qualità e le prestazioni abituali di un bene dello stesso tipo che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, tenuto conto della natura del bene e, se del caso, delle dichiarazioni pubbliche sulle caratteristiche specifiche dei beni fatte al riguardo dal venditore, dal produttore o dal suo agente o rappresentante, in particolare nella pubblicità o sull’etichettatura». Ne consegue, anche qui, che l’adempimento del venditore alla obbligazione di consegnare “cose conformi al contratto” potrà dirsi esatto, solo quando siano rispettate le caratteristiche pubblicizzate e dunque il consumatore non rimanga deluso nelle aspettative che gli siano state sollecitate prima ancora che decida di comprare ed anzi per indurlo a comprare, cioè nel messaggio pubblicitario o in qualsivoglia promozione (VIII, 8). Già in questa fase, la comunicazione promozionale viene equiparata dalla legge ad una promessa di qualità e prestazioni del bene; promessa della quale rimane responsabile il venditore anche se il messaggio sia da attribuire al produttore o distributore, a meno che il venditore non dimostri che non ne era a conoscenza né poteva esserlo usando l’ordinaria diligenza, o che la dichiarazione era stata corretta prima della conclusione del contratto o, ancora, che essa non ha in concreto influenzato la decisione di acquistare del consumatore (art. 129, co. 2, lett. c) e co. 4, cod. cons.).

18. (Segue). Le pratiche commerciali scorrette e il problema degli effetti sul contratto Come accennato, preso atto soprattutto dei limiti dell’intervento già attuato con la dir. 84/450/CEE in materia di pubblicità ingannevole e comparativa e soprattutto delle forti differenze rimaste al riguardo nelle legislazioni degli Stati membri – in conseguenza di un intervento che si era attestato sulla armonizzazione minima – il legislatore europeo adotta, nel 2005, la dir. 2005/29/CE in materia di pratiche commerciali slea-

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li tra consumatori e imprese, volta a vietare (questa volta con un intervento di armonizzazione massima) «le pratiche commerciali il cui intento diretto è quello di influenzare le decisioni di natura commerciale dei consumatori relative a prodotti» (Considerando 7), pratiche “sleali” che falsano il comportamento economico dei consumatori. Disciplina recepita nel nostro ordinamento con d.lgs. 2-8-2007, n. 146 e versata nel titolo III del codice del consumo. «Per sostenere la fiducia da parte dei consumatori», ad avviso degli organi comunitari, «il divieto generale dovrebbe applicarsi parimenti a pratiche commerciali sleali che si verificano all’esterno di un eventuale rapporto contrattuale tra un professionista e un consumatore e durante la sua esecuzione» (Considerando 13). Oggetto della disciplina sono dunque le pratiche commerciali come definite ora nel nostro art. 18, co. 1, lett. d) cod. cons., vale a dire «qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresi la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori». Anche se, come già accennato, sono ricomprese nell’ambito di applicazione anche le pratiche commerciali scorrette tra professionisti e microimprese (art. 19). La formulazione, volutamente ampia e generica, ricomprende comportamenti oltre che dichiarazioni e dunque non esclude, ma neppure richiede, che si tratti di una dichiarazione di natura negoziale o di comportamento che si collochi a ridosso della stipula di un contratto. E, come precisa l’art. 19 cod. cons. al co. 1, la disciplina si applica alle operazioni poste in essere “prima, durante e dopo” una operazione commerciale relativa a un prodotto. Il divieto generale si appunta sulle due tipologie di pratiche più diffuse, vale a dire quelle ingannevoli e quelle aggressive. La normativa in esame ha un andamento in qualche modo analogo a quello, come vedremo, della disciplina sulle clausole vessatorie, nel senso che detta una clausola generale volta ad identificare i connotati propri della pratica “scorretta” (pratica contraria alla diligenza professionale che falsa o è e idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio che essa raggiunge o del membro medio di un gruppo, se la pratica è diretta a un determinato gruppo di consumatori: art. 20, co. 2, cod. cons.), ma poi esemplifica tipologie di pratiche che possono considerarsi ingannevoli o aggressive (rispettivamente artt. 21 e 22 e 24 e 25 cod. cons.), salvo elencare pratiche considerate “in ogni ca-

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so” ingannevoli (art. 23) o in ogni caso aggressive (art. 26). Da qui il dubbio – da risolvere in principio nel primo senso – se debba considerarsi vietata anche una pratica non definibile come ingannevole o aggressiva e tuttavia scorretta nel senso generale di cui all’art. 20, ovvero il divieto si appunti solo sulle tipologie meglio specificate. La scelta, annunciata nel considerando 13 cui abbiamo fatto cenno, di prescindere da una più o meno immediata relazione tra pratica commerciale e contratto, trova in qualche modo conferma nei parametri adottati al fine di “qualificare” la pratica come “scorretta”, nelle due versioni di pratica ingannevole o aggressiva: l’idoneità a falsare il comportamento economico, o a trarre in errore o a limitare la libertà di scelta è sempre riferita alla figura del “consumatore medio”. Assecondando l’orientamento della Corte di giustizia a proposito di pubblicità ingannevole, la direttiva assume come punto di riferimento l’effetto “su un virtuale consumatore tipico” e dunque per consentire l’efficace applicazione delle misure di protezione previste prende «come parametro il consumatore medio che è normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici» (Considerando 18). Il punto di riferimento è dunque il “consumatore medio” rispetto alla intera platea di consumatori, ovvero l’esponente medio di un gruppo determinato di consumatori, se la pratica è rivolta solo ad un gruppo (esempio: la pubblicità di un prodotto per bambini o per anziani andrà valutata con riguardo ad un consumatore tipo virtuale che non può essere però riferito a tutti i consumatori ma solo a quelli cui la pubblicità è diretta, bambini o anziani, così in qualche modo attenuando l’astrattezza del parametro). La cornice che abbiamo sintetizzato spiega perché la dottrina si sia da subito divisa circa la rintracciabilità di specifiche e dirette ricadute sul contratto (in termini di validità o quanto meno di responsabilità precontrattuale del professionista) di una pratica commerciale giudicata scorretta. Che la direttiva intendesse programmaticamente lasciare fuori dal proprio orizzonte tali ricadute è testimoniato, ben più che dalla impostazione fin qui ricordata, dal tenore dell’art. 3, co. 2: «La presente direttiva non pregiudica l’applicazione del diritto contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità o efficacia di un contratto». Non dunque una insita incompatibilità tra regime delle pratiche commerciali vietate e disciplina del contratto, sì da escludere in principio

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che il divieto di quelle potesse comportare conseguenze nella vicenda contrattuale, ma un pieno rinvio al diritto contrattuale interno, del tutto giustificato ove solo si consideri che la direttiva introduceva un intervento di armonizzazione massima che mai avrebbe potuto tracimare entro un diritto contrattuale ancora assai diversificato nell’ordinamento degli Stati membri. Formula, dunque, che chiamava semmai in causa i legislatori interni. La direttiva, in principio, additava agli Stati membri due vie (peraltro non alternative) per combattere efficacemente le pratiche commerciali sleali su iniziativa di chi ne abbia interesse: quella di una azione giudiziaria contro tali pratiche e quella di sottoporre tali pratiche «al giudizio di un’autorità amministrativa competente a giudicare in merito ai ricorsi oppure a promuovere un’adeguata azione giudiziaria» (art. 11). In sede di recepimento, si è optato nel nostro ordinamento per la tutela amministrativa, affidata all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che ricalca quella sopra ricordata per la pubblicità ingannevole. La circostanza che sia stata pedissequamente riproposta la formula della direttiva – secondo cui la disciplina non pregiudica l’applicazione delle disposizioni normative in materia contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità od efficacia del contratto (art. 19, co. 2, lett. a), cod. cons.) – ha lasciato aperta la questione se, accertata in sede amministrativa l’illiceità di una pratica perché ingannevole o aggressiva, il consumatore possa giovarsi di tale accertamento per chiedere di essere risarcito (a titolo di responsabilità precontrattuale) dal professionista che la adottava e col quale egli abbia stipulato un contratto o addirittura per chiedere l’annullamento del contratto assumendo che la pratica ingannevole lo abbia indotto in errore o dolo o la pratica aggressiva abbia avuto l’effetto della minaccia di cui all’art. 1435 c.c. (violenza). Nel silenzio del nostro legislatore, la più forte obiezione ad una immediata refluenza di tale accertamento in termini di (in)validità del contratto concluso sulla base di una pratica commerciale che sia stata giudicata scorretta o di responsabilità (contrattuale o precontrattuale) del professionista che l’abbia adottata, si fa risiedere in dottrina proprio nella circostanza che la verifica in sede amministrativa attiene ad una idoneità della pratica commerciale ad ingannare o a intimorire misurata sul parametro di un consumatore “virtuale”, cioè il consumatore “medio” (anche se ad integrarla potrebbe essere ad avviso della Corte di giustizia anche un comportamento o una comunicazione in concreto

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adottati nei confronti di un solo consumatore: Corte giust. 16-4-2015, causa C-388/13, Hatóság); e che dunque tale verifica andrebbe comunque riformulata, potendo giungere a risultati diversi, in relazione alle circostanze della conclusione di quel determinato contratto e nei confronti di quel consumatore. Obiezione alla quale potrebbe invero replicarsi che, anche ove condiviso, il ragionamento non calzerebbe nel caso di pratiche che la legge vieta considerandole “in ogni caso” ingannevoli o aggressive: fattispecie in cui cioè l’attitudine ad ingannare o condizionare è considerata così intensa da doversi ritenere sempre e comunque presente. Vero è tuttavia che il regime dell’annullabilità del contratto per vizi del consenso, come dimostrano i presupposti che a suo tempo esamineremo (IV, III, 4 e VII, 11), è troppo ritagliato, in quasi tutti gli ordinamenti europei specie di civil law, su un modello di formazione dell’accordo su base individualizzata, per potere agevolmente adattarsi a rimedio contro condizionamenti dell’autonomia contrattuale che si determinano entro le mutevoli e complesse dinamiche dei rapporti di mercato ed essere dunque invocato a prescindere da una indagine in concreto riferita al singolo incontro professionista-consumatore. Assai meno problematico, invece, riconoscere che l’utilizzo di una pratica giudicata scorretta integri comunque un comportamento contrario a buona fede del professionista, per il quale il consumatore possa invocare la responsabilità ex art. 1337 c.c. Vi abbiamo fatto cenno sopra, a proposito delle possibili conseguenze della violazione dell’art. 120 octies t.u.b., negli annunci pubblicitari del professionista-finanziatore. Il carattere pur sempre relazionale della “correttezza” nella fase delle trattative non può dirsi in questo caso escluso, dovendo farsi carico al professionista, quando si propone sul mercato, di considerare tutti i potenziali destinatari delle sue comunicazioni, azioni, omissioni, come suoi (seppur potenziali) partners contrattuali, il cui consenso egli intende invero palesemente intercettare in un contesto di scambi senza trattativa come quelli qui in considerazione. Quanto mai auspicabile rimane tuttavia un esplicita soluzione normativa del problema, cui già hanno messo mano numerosi legislatori europei seppur con scelte alquanto diversificate (pur se sempre interne all’alternativa tra annullabilità del contratto o diritto di recesso del consumatore o rimedio risarcitorio a carico del professionista).

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19. La sollecitazione a contrarre e la contrattazione aggressiva: i contratti a distanza e il commercio elettronico Il contratto consumatore-professionista è in molti casi quello che potrebbe definirsi un contratto “indotto”, come indotto è del resto il bisogno di beni di consumo, proprio nel contesto dei comportamenti più o meno insistenti, aggressivi e/o messaggi suggestivi posti in essere sul mercato dai produttori e fornitori. La sollecitazione a contrarre prende avvio dalla pubblicità (ancorché lecita) e si giova altresì di modalità di “contatto” sempre più raffinate e dunque sempre più invasive e insidiose, il cui elemento comune risiede proprio nel fatto che quasi sempre non è il consumatore a prendere l’iniziativa dello scambio, sulla base del bisogno e comunque della decisione di procurarsi il bene o il servizio, bensì il professionista, tramite pubblicità e poi tramite la sua organizzazione di vendita o suoi intermediari, ad indurlo ad aderire alla sua offerta, presentata sempre come vantaggiosa, eccezionale, ecc. Si è fatto già cenno, nell’illustrare le fattispecie di contratti di consumo prese in considerazione dal diritto di fonte europea, ai contratti a distanza e ai contratti negoziali fuori dei locali commerciali. Va ribadito che le regole conseguenti a tali modalità di conclusione del contratto hanno portata generale, si applicano cioè, purché ricorra tale modalità di conclusione «a qualsiasi contratto tra un professionista e un consumatore, inclusi i contratti per la fornitura di acqua, gas, elettricità o teleriscaldamento, anche da parte di prestatori pubblici, nella misura in cui tali prodotti sono forniti su base contrattuale» (art. 46 cod. cons.) Ne sono esclusi quelli espressamente indicati nell’art. 47 in relazione alla particolare natura delle prestazioni (es. servizi sanitari, fornitura con regolarità a domicilio di bevande e alimenti, conclusi tramite distributori automatici, vendite all’asta, ecc.) ovvero perché rientranti in altre discipline settoriali sempre di fonte europea (multiproprietà, vendita di pacchetti turistici, prestazione di servizi finanziari). Nel contratto a distanza, come abbiamo a suo tempo accennato (III, 3), ad alterare, almeno potenzialmente, la formazione di una scelta ponderata del consumatore, è la circostanza che il contratto – non necessariamente ad iniziativa del professionista – si concluda «nel quadro di un regime organizzato di vendita o di prestazione di servizi a distanza senza la presenza fisica e simultanea del professionista e del consumatore, mediante l’uso esclusivo di uno o più mezzi di comunicazione a di-

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stanza, fino alla conclusione del contratto compresa la conclusione del contratto stesso» (art. 45 nuovo testo, lett. g). La disciplina potrà dunque intrecciarsi con quella dei contratti negoziati fuori dei locali commerciali (vedi qui di seguito 20), ma non necessariamente: il contratto concluso via internet è contratto concluso a distanza ma l’iniziativa viene presa qui dal consumatore, così come dal consumatore viene presa l’iniziativa di attivare un contratto di fornitura di energia elettrica, la cui conclusione è oggi abitualmente affidata alla comunicazione telefonica. A caratterizzare la modalità di conclusione non è la distanza in sé, cioè la mancanza di presenza fisica e simultanea del professionista e consumatore, che pure caratterizza la fattispecie, ma il mezzo a cui, data tale mancanza di compresenza delle parti, è affidata sia la conclusione del contratto sia, e pressoché contestualmente, il contatto iniziale e la presentazione dell’offerta e delle condizioni contrattuali da parte del professionista. Il mezzo, cioè l’uso di mezzi di comunicazione a distanza entro un regime organizzato di vendita – e dunque comunicazione telefonica, trasmissione televisiva (nelle televendite), contrattazione via internet – svolge un ruolo decisivo nel comprimere i tempi dell’operazione e dunque di ponderazione, aggiungendo anche (si pensi alla telefonata in ore poco “comode”) l’effetto sorpresa. Il consumatore è ben lontano dal pensare ad un acquisto e sarà dunque assai meno pronto a valutarne la convenienza anche in relazione alle condizioni offerte, non solo di prezzo. La disciplina che attiene a questa modalità di conclusione interseca quella che riguarda, in generale, il commercio elettronico nel mercato interno, dettata dalla dir. 2003/31/CE, attuata con il d.lgs. 9-4-2003, n. 70. I contratti conclusi nell’ambito di attività di commercio elettronico sono invero contratti conclusi a distanza, mediante lo scambio di proposta ed accettazione fra soggetti distanti (denominati prestatore del servizio e destinatario, quest’ultimo definito nell’art. 2, co. 1, lett. d) come il soggetto che, a scopi professionali e non, utilizza un servizio della società dell’informazione attraverso lo scambio di documenti redatti su supporti informatici e trasmessi in via telematica). La disciplina specifica ora richiamata, a cui pure fa rinvio il codice del consumo, è però assai meno dettagliata circa le modalità di conclusione del contratto, e le prescrizioni a garanzia del destinatario si rivolgono indifferentemente a qualunque controparte del prestatore, salva la loro inderogabilità nel caso di contratto con un consumatore; così è per gli obblighi di fornire

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le informazioni «dirette alla conclusione del contratto» (art. 12) che attengono non ai contenuti del contratto ma alle modalità tecniche della conclusione, eventuale correzione, archiviazione, nonché ai codici di condotta cui eventualmente il destinatario aderisce e agli strumenti di composizione delle controversie, nonché all’obbligo di messa a disposizione, per la memorizzazione e la riproduzione, delle condizioni generali del contratto. La conclusione in via telematica, almeno in una prima fase, non viene vista dal legislatore come modalità tanto particolare (o insidiosa) da richiedere deroghe alle norme generali: «Le norme sulla conclusione dei contratti si applicano anche nei casi in cui il destinatario di un bene o di un servizio della società dell’informazione inoltri il proprio ordine per via telematica», recita l’art. 13 del d.lgs. n. 70/2003. Al prestatore si fa carico, senza ritardo, di «accusare ricevuta dell’ordine del destinatario contenente un riepilogo delle condizioni generali e particolari applicabili al contratto, le informazioni relative alle caratteristiche essenziali del bene o del servizio e l’indicazione dettagliata del prezzo, dei mezzi di pagamento, del recesso, dei costi di consegna e dei tributi applicabili» (comma 2), spostandosi così in avanti, al dopo contratto, dal quale egli potrà comunque liberamente recedere, l’obbligo di una compiuta rappresentazione al consumatore delle caratteristiche del bene o servizio e delle condizioni contrattuali. Tale regime appare oggi superato dalle più rigide prescrizioni dettate in generale per i contratti a distanza (di cui sia parte un consumatore), il che giustifica sia la presenza, nella disciplina del contratto a distanza, di regole particolari dedicate proprio ai contratti a distanza conclusi su siti elettronici, sia il carattere residuale delle norme di cui al d.lgs. n. 70/2003 cui fa ora invio l’art. 68 cod. cons. per gli aspetti non disciplinati nel codice. Nei contratti a distanza la protezione del consumatore, quando la conclusione del contratto avviene con tali modalità, è affidata come accennato a obblighi di informazione a carico del professionista, ora dettagliatamente indicati nell’art. 49 cod. cons. (a seguito del recepimento della dir. 2011/83/UE), destinati a fornire subito al consumatore una rappresentazione analitica, chiara ed esaustiva di tutti gli elementi del contratto, con particolare attenzione al prezzo totale, costi aggiuntivi, modalità di pagamento, garanzie, e ad informarlo del suo diritto di recedere dal contratto. Torneremo fra poco sulla disciplina di tali obblighi. Dobbiamo invece qui segnalare come a tutela del consumatore la valida conclusione del contratto sia in questo caso subordinata al rispetto di

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atti o comportamenti imposti al professionista che la recente dir. 2011/83 ha ulteriormente irrigidito, e che non a caso, pur con formula impropria, sono denominati “requisiti formali del contratto” dall’art. 51 cod. cons. Sotto questa denominazione invero il legislatore (ma già la direttiva) accomuna prescrizioni “formali” che attengono alle modalità con cui devono essere fornite le informazioni precontrattuali ovvero le modalità con cui deve essere organizzato nel sito del commercio elettronico l’inoltro dell’ordine, (onde assicurare che il consumatore sia prima compiutamente edotto che dall’inoltro discenderà ad esempio un obbligo di pagare) e prescrizioni che attengono invece propriamente alla nascita del vincolo: il che conferma come nella contrattazione a distanza sia praticamente azzerato il confine tra il prima e il dopo del contratto. Attiene sicuramente alla conclusione del contratto la (singolare) previsione di cui al co. 6 dell’art. 51: «quando un contratto a distanza deve essere concluso per telefono, il professionista deve confermare l’offerta al consumatore, il quale è vincolato solo dopo aver firmato l’offerta o dopo averla accettata per iscritto». Va premesso, per meglio comprendere la portata della norma, che in tutti i contratti che si concludono a distanza è fatto obbligo al professionista di fornire al consumatore la “conferma del contratto concluso” su un mezzo durevole (es. cd) «entro un termine ragionevole dopo la conclusione del contratto» e comunque al più tardi al momento in cui il bene viene consegnato o prima che il servizio cominci ad essere prestato (co. 7). La formulazione, oggi come nel testo previgente, è assai chiara nel collocare l’invio della conferma scritta in una fase successiva alla conclusione del contratto; e la dottrina vi ha infatti individuato un obbligo, nascente dal contratto già concluso, a carico del professionista. Intervenendo a modificare la disciplina di cui ci occupiamo, la dir. 2011/83/UE, ha lasciato agli Stati membri la possibilità di «prevedere che il professionista debba confermare l’offerta al consumatore, il quale è vincolato solo dopo aver firmato l’offerta o dopo averla accettata per scritto». La formula, coerente al contesto volutamente generico della direttiva, ma destinata a trovare verosimilmente adeguata trasposizione in coerenza con i diritti interni, è stata invece pedissequamente riproposta dal nostro legislatore. Stando al contenuto della disposizione (art. 51, co. 6, cod. cons.) deve concludersi che il requisito della forma scritta (anche mediante documento informatico con firma elettronica) ai fini della valida nascita del vincolo, riguarda solo la manifestazione di volontà del

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consumatore; sicché la regola si traduce nella imposizione di un vincolo di forma (a pena di invalidità) “asimmetrico”, non dell’intero contratto ma dell’accettazione del consumatore. Rimane da chiedersi se questo iter debba essere sempre rispettato ovvero rimanga salva la possibilità della acquisizione del consenso del consumatore in altro modo (esempio registrazione telefonica) salva successiva conferma. L’ultimo periodo del comma citato recita: «Dette conferme possono essere effettuate, se il consumatore acconsente, anche su supporto durevole»: sicché ci si chiede se il consenso del consumatore a conferme da effettuare su supporto durevole renda valida non solo l’acquisizione della conferma dell’offerta ma altresì l’adesione al vincolo da parte del consumatore in forma non scritta (esempio registrazione telefonica), da conservare e versare poi sul supporto durevole. Se così non fosse – e francamente il dettato normativo è tutt’altro che chiaro a questo riguardo, suggerendo anzi la lettura più rigorosa – sarebbe oltremodo significativo che lungo il percorso di affinamento di una disciplina “di protezione” compiutosi dalla prima direttiva in materia (97/7) a quella sui diritti dei consumatori 2011/83, il contratto a distanza abbia ceduto qualcosa, quanto alle modalità di conclusione, al mezzo più classico costituito dalla scrittura privata. Costituisce specificazione (più rigorosa) del regime dei contratti a distanza la disciplina, ora versata negli artt. 67-bis ss. cod. cons., della «commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori».

20. (Segue). Il contratto negoziato fuori dei locali commerciali Il tratto distintivo di questa modalità di conclusione del contratto viene indicato comunemente (anche nella giurisprudenza della Corte di giustizia) parlando di metodo di vendita “porta a porta”, anche se il termine può apparire riduttivo ove sia abbia riguardo alle molteplici varianti. Come chiarisce ancora meglio la nuova nozione di cui all’art. 45, co. 1, lett. h), con le specificazioni ivi indicate, il tratto caratterizzante – su cui si appunta l’attenzione del legislatore europeo e che vale a delimitare la fattispecie – è che il contatto tra consumatore e professionista, che poi porterà alla conclusione del contratto, non avviene su iniziativa del consumatore bensì del professionista. Non è il consumatore che si reca nei “locali commerciali” spinto dalla decisione di procurarsi il bene

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o il servizio, ma è il professionista (o un suo intermediario) che “intercetta” in qualche modo il consumatore. Il vecchio testo dell’art. 45, in linea con l’impostazione della dir. 85/577, forniva delle eloquenti esemplificazioni (cui peraltro non si riteneva di attribuire valore tassativo): il professionista contatta il consumatore andandolo a trovare presso il suo domicilio, sul posto di lavoro o nel luogo in cui lavora, studia, si cura, ovvero fermandolo in un luogo pubblico o aperto al pubblico, contattandolo per corrispondenza o tramite la diffusione di un catalogo, o, ancora, organizzando per il pubblico dei potenziali consumatori escursioni “dimostrative”. Si è parlato di “vendite aggressive”, ritenendosi, con buon fondamento, che il contatto non cercato o l’effetto sorpresa – ma anche l’effetto “vacanza” e relax, nel caso di escursioni a scopo promozionale – possano indurre assai di frequente il consumatore ad una scelta affrettata, poco consapevole, in qualche modo coartata e comunque non programmata. Il legislatore europeo intende combattere questo fenomeno anche per gli effetti distorsivi che esso comporta nel gioco della concorrenza tra imprenditori e sul mercato, almeno quando assume modalità particolarmente invasive nella vita del consumatore e ai fini della libertà di scelta di questi. Nelle loro forme più esasperate (creare l’impressione che il consumatore non possa lasciare i locali commerciali fino alla conclusione del contratto, continuare a far visite presso l’abitazione del consumatore malgrado gli inviti ad astenersi formulati da quello, subissare il consumatore di telefonate o fax o comunicazioni di posta elettronica), tali comportamenti sono considerati in ogni caso pratiche commerciali aggressive (vedi art. 26 cod. cons.) vietate. In generale, fuori da queste forme esasperate, e sempre che non integrino in concreto una prassi “aggressiva”, queste modalità di contatto sono ammesse, ma il professionista è tenuto al rispetto di obblighi particolari (innanzitutto di informazione) e il consumatore ha un margine di tempo adeguato per recedere. L’ambito di applicazione, come già detto a proposito dei contratti a distanza, è in principio generale (art. 46 cod. cons.), salve le esclusioni di cui all’art. 47. Va ricordato, come più volte ribadito ed anche di recente dalla Corte di giustizia proprio a proposito della disciplina dei contratti “porta a porta” (causa C-166/11 del 1-3-2012), che per consolidata giurisprudenza le deroghe alle norme comunitarie volte a tutelare i consumatori vanno interpretate restrittivamente; pur se la tutela assi-

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curata in questo caso non è assoluta e soggetta a determinati limiti di cui le esclusioni fanno parte e «un’interpretazione troppo restrittiva di queste esclusioni porterebbe alla conseguenza di privarle della loro efficacia pratica e, pertanto, non può essere ammessa». L’art. 45, nel nuovo testo formulato con il d.lgs. n. 21/2014, in sede di recepimento della dir. 2011/83, come abbiamo già detto, per un verso utilizza una formula più ampia rispetto a quella adottata nel vecchio testo e per altro verso individua in modo più puntuale la fattispecie: il contratto si definisce negoziato fuori dei locali commerciali sia quando si conclude, alla presenza fisica del consumatore e del professionista, in un luogo diverso dai locali del professionista; sia quando fuori dai locali commerciali sia stata fatta “una offerta” da parte del consumatore; sia quando la conclusione del contratto, pur avvenendo dentro i locali commerciali del professionista, segue immediatamente il contatto instauratosi con il consumatore per iniziativa del professionista fuori dei locali, essendo stato il consumatore «avvicinato personalmente e singolarmente in un luogo diverso dai locali del professionista» (vedi art. 45, nuovo testo, co. 1, lett. h) e i). Il contratto sarà infatti concluso sotto l’effetto “sorpresa” e comunque senza che il consumatore avesse autonomamente deciso di contattare l’operatore anche se la stipula avviene formalmente entro i locali commerciali del professionista ma a seguito di un contatto instaurato fuori da questi e su iniziativa del professionista medesimo (lett. h), nn. 1, 2, 3). L’esplicita previsione del caso in cui sia stato invece il consumatore, fuori dei locali commerciali, a fare una offerta, solo in apparenza può sembrare strana o non pertinente: intende al contrario intercettare, come abbiamo già accennato, una prassi diffusa e potenzialmente elusiva delle norme di tutela del consumatore, in base alla quale, al consumatore che sia stato avvicinato e convinto al contratto, viene fatta firmare non l’accettazione di una offerta proveniente dal professionista (come è nei fatti) bensì una nota d’ordine o proposta di acquisto, che vorrebbe tramutarlo nella parte che ha preso l’iniziativa dell’operazione. Ancora, il contratto si intenderà concluso fuori dei locali commerciali (del professionista), quando sia stato concluso durante un viaggio promozionale organizzato dal professionista e avente lo scopo o l’effetto di promuovere e vendere beni o servizi al consumatore (art. 45, co. 1, lett. h), n. 4). La Corte di giustizia ha precisato che tale deve intendersi il contratto concluso in un luogo distante da quello in cui il consumatore

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vive, diverso da quello in cui il professionista abitualmente svolge la propria attività e non chiaramente identificato come locale per la vendita al pubblico (causa C-423/97 del 22-4-1999, caso Travel-Vac). La nuova formulazione dell’art. 45, e la contestuale definizione di ciò che deve intendersi per “locali commerciali” (lett. i) ha eliminato i dubbi che la precedente formulazione sollevava quando si riferiva anche all’ipotesi di contratti stipulati in area pubblica o aperta al pubblico. Elemento distintivo – come del resto ha bene inteso la nostra S.C. già prima della recente modifica normativa – non è tanto la natura pubblica o meno del luogo ma il fatto che esso non sia normalmente destinato all’esposizione e alla vendita dei prodotti. Non potrà considerarsi ad esempio concluso fuori dei locali commerciali il contratto concluso presso un chiosco di vendita al mercato o fiera, ma anche presso un camper, sempre che lì si svolga con regolarità l’attività del professionista. Locale commerciale, precisa ora l’art. 45, è sia l’immobile dove il professionista in modo permanente esercita la sua attività sia il locale mobile in cui la eserciti a carattere abituale. Non lo è però il “banchetto” eccezionalmente installato dal professionista per esporre e piazzare propri prodotti o servizi, in occasione di una manifestazione o presso un luogo di lavoro.

21. (Segue). L’offerta fuori sede Costituisce in qualche modo specificazione della disciplina di cui sopra – ma ispirata ad un criterio più rigido – la nozione di “offerta fuori sede” (di strumenti finanziari) che il testo unico in materia finanziaria adotta, nell’art. 30, sia al fine di regolarne l’effettuazione (e limitarne l’oggetto) sia, per quanto qui più interessa, per estendere ai contratti così stipulati l’attribuzione del diritto di recesso a beneficio dell’investitore non professionale, da menzionare espressamente nell’offerta, a pena di nullità del contratto, prevedendo altresì che rimanga sospesa, durante il tempo concesso per esercitarlo, l’efficacia del contratto. Si intende offerta fuori sede, in questo caso, la promozione e il collocamento di strumenti finanziari in luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze, dell’emittente (il titolo), del proponente l’investimento, o del soggetto incaricato della promozione o del collocamento; ovvero la promozione o il collocamento di servizi e attività di investimento in

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luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze di chi presta, promuove o colloca il servizio. Il discrimine fa qui riferimento non alle modalità in fatto – permanenza, abitualità – che qualifichino il luogo di esercizio dell’attività, (i locali commerciali) ma ad un dato legalmente certo, vale a dire la sede legale (o sue dipendenze) del professionista. Il termine “collocamento” sembrerebbe circoscrivere l’ambito di applicazione della norma ai soli casi in cui l’intermediario che entra in contatto con l’investitore “fuori sede” promuove l’acquisto di prodotti finanziari presso gli investitori nell’ambito di una attività propria di “collocamento”, cioè nell’interesse dell’emittente, in favore del quale, appunto, l’intermediario presti il “servizio di collocamento”. Le Sezioni Unite della S.C., sulla base anche dell’ambiguo tenore letterale della norma (che fa riferimento più in generale anche alla prestazione di servizi di investimento) ma soprattutto valorizzando la ratio della disposizione, che è quella di tutelare l’investitore al dettaglio dall’effetto “sorpresa” implicito in tutti i casi in cui l’iniziativa a concludere il contratto non proviene da lui, hanno ritenuto di dover dare una interpretazione estensiva al termine, e cioè che il termine “collocamento” sia da intendere «in un’accezione più ampia ed in qualche misura atecnica, cioè come sinonimo di qualsiasi operazione implicante la vendita all’investitore di strumenti finanziari al di fuori della propria sede». Il principio di diritto affermato è dunque il seguente «Il diritto di recesso accordato all’investitore dal sesto comma dell’art. 30 del d.lgs. n. 58 del 1998 e la previsione di nullità dei contratti in cui quel diritto non sia contemplato, contenuta nel successivo settimo comma, trovano applicazione non soltanto nel caso in cui la vendita fuori sede di strumenti finanziari da parte dell’intermediario sia intervenuta nell’ambito di un servizio di collocamento prestato dall’intermediario medesimo in favore dell’emittente o dell’offerente di tali strumenti, ma anche quando la medesima vendita fuori sede abbia avuto luogo in esecuzione di un servizio d’investimento diverso, ove ricorra la stessa esigenza di tutela». (Cass. s.u. 3-6-2013, n. 13905) Anche, dunque, quando l’intermediario non presta un servizio di collocamento per conto dell’emittente e persino quando tra l’intermediario e l’investitore intercorra un contratto quadro, dunque già un rap-

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porto contrattuale tra le parti nell’ambito del quale l’intermediario offra al proprio cliente, fuori sede, l’acquisto di taluni prodotti finanziari. Non rileva, osserva la Corte, che nel vero e proprio collocamento l’offerta in vendita degli strumenti finanziari agli investitori ha luogo a condizioni uniformi e predeterminate, dovendo l’intermediario attenersi in proposito alle condizioni dettate dall’offerente, onde non v’è di regola alcuno spazio per forme di negoziazione individuale che potrebbero invece essere presenti quando l’acquisto dei medesimi strumenti finanziari avvenga nell’ambito della prestazione di un servizio d’investimento diverso. Se l’obiettivo è la tutela dell’investitore non professionale che nella fattispecie potrebbe decidere l’investimento senza preventiva riflessione e ponderazione, non si può negare, osserva la Corte, che la medesima esigenza si ponga non soltanto per le operazioni compiute nell’ambito della prestazione di un servizio di collocamento in senso proprio, ma anche per qualsiasi altra ipotesi in cui l’intermediario venda fuori sede strumenti finanziari ad investitori al dettaglio, sia pure nell’espletamento di un servizio d’investimento diverso. E sarebbe anzi difficilmente giustificabile, anche sul piano costituzionale, una disparità di trattamento dei contratti stipulati a seguito di offerta fuori sede a seconda della diversa tipologia di servizi d’investimento resi dall’intermediario. Con un (discutibile) intervento volto, come si è osservato, a “sterilizzare” o quanto meno contenere gli effetti di tale pronuncia, il legislatore, con una norma di sostanziale interpretazione autentica ha disposto (con l’art. 56-quater del d.l. n. 69/2013 inserito dall’art. 1, co. 1, della l. 9-8-2013, n. 98, in sede di conversione) che «all’articolo 30, comma 6, del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, dopo il secondo periodo è inserito il seguente: “Ferma restando l’applicazione della disciplina di cui al primo e al secondo periodo ai servizi di investimento di cui all’articolo 1, comma 5, lettere c), c-bis) e d), per i contratti sottoscritti a decorrere dal 1-9-2013 la medesima disciplina si applica anche ai servizi di investimento di cui all’articolo 1, comma 5, lettera a)”». In sostanza, l’obbligo di fare menzione nel contratto del diritto di recesso, a pena di nullità, anche nelle c.d. negoziazioni per conto proprio, secondo l’interpretazione estensiva formulata dalla S.C. nella citata pronuncia a sezioni unite, stando alla formulazione di tale norma sembrerebbe dover valere solo per il futuro, rimanendo esclusi per il passato e fino all’entrata in vigore della norma interpretativa dal-

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l’ambito di applicazione della disposizione i servizi di investimento di cui alle lett. a) e b) dell’art. 1, co. 5, t.u.f. (e dunque i servizi di investimento resi nell’ambito di un contratto quadro seguito da ordini del cliente). Simile esito viene tuttavia escluso dalla nostra Suprema Corte, secondo cui l’art. 56-quater del d.l. n. 69/2013 inserito dalla l. 9-8-2013, n. 98, in sede di conversione,

«non è una norma di interpretazione autentica, e perciò non ha avuto l’effetto di sanare la nullità dei precedenti contratti privi dell’avviso del recesso accordato all’investitore». E ciò per diverse ragioni. Intanto,

«Il presupposto che legittima l’intervento del legislatore attraverso una norma di interpretazione autentica è la situazione di incertezza che il legislatore intende eliminare. Nel nostro ordinamento questa situazione di incertezza non solo non esisteva, ma anzi era stata esclusa proprio dall’intervento delle Sezioni Unite, cui l’art. 65 dell’Ordinamento giudiziario attribuisce il compito di rimuoverle, le incertezze, e non di crearle. Né, ovviamente, potrebbe spacciarsi per “incertezza del diritto” l’eventuale malumore ingenerato da una decisione della Corte di cassazione confliggente con (pur legittimi) interessi od aspettative privati. Dunque il D.L. n. 69 del 2013, art. 56 quater non può ritenersi una norma interpretativa perché dell’interpretazione autentica mancava il primo e principale presupposto, ovvero la possibilità di letture contrastanti. Possibilità venuta meno proprio in seguito all’intervento delle Sezioni Unite». Ma soprattutto «Il D.L. n. 69 del 2013, art. 56 quater non può essere considerato una norma di interpretazione autentica in base all’interpretazione costituzionalmente orientata. Se, infatti, la norma in esame si interpretasse nel senso propugnato dalla controricorrente, essa entrerebbe in conflitto con molteplici precetti di rango costituzionale. In primo luogo, l’interpretazione qui conte-

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stata si porrebbe in conflitto con l’art. 47 Cost., comma 1, nella parte in cui introdurrebbe un regime di favore per gli istituti di credito i quali abbiano stipulato contratti di negoziazione titoli fuori sede prima del 1-9-2013. La suddetta distinzione inoltre, essendo rimasto immutato il resto della norma, sarebbe difficilmente compatibile col principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., posto che non esiste alcuna circostanza idonea a giustificare una più solida tutela per i risparmiatori che abbiano stipulato i loro contratti dopo una certa data, rispetto a quelli che l’abbiano fatto prima. In terzo luogo, l’interpretazione … potrebbe porre la norma in contrasto con gli artt. 101 e 104 Cost., nella parte in cui finirebbe per vanificare con effetto retroattivo il dictum delle Sezioni Unite già più volte ricordato». (Cass. 3-4-2014, n. 7776) Al di là della questione interpretativa circa la natura e la portata dell’art. 56 quater del d.l. n. 69/2013 – e del palese dissenso tra Suprema Corte e Parlamento – rimane significativa la considerazione unitaria dei servizi e della relativa tutela in caso di offerta fuori sede come enunciata nella sentenza a Sezioni Unite di cui sopra, in applicazione peraltro di un più generale orientamento secondo cui «La nozione di contratto di investimento costituisce uno schema atipico, che comprende ogni forma di investimento finanziario, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. u), del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, riflettendo la natura aperta ed atecnica di “prodotto finanziario”, la quale rappresenta la risposta legislativa alla creatività del mercato ed alla molteplicità degli strumenti offerti al pubblico, nonché all’esigenza di tutela degli investitori, in maniera da permettere la riconduzione nell’ambito della disciplina di protezione pure delle operazioni innominate». (Cass. 5-2-2013, n. 2736)

22. Fase precontrattuale e conclusione del contratto professionista-consumatore: le regole particolari Abbiamo accennato in generale alle conseguenze che la contrattazione di massa porta nella direzione di limitare fortemente le scelte di

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autonomia privata del consumatore; ed abbiamo poi visto le principali modalità di conclusione del contratto, diffuse nella prassi, che accentuano l’“asimmetria” di potere contrattuale tra professionista e consumatore. L’ordinamento, sotto diretto impulso delle direttive europee, risponde, come già accennato (III, 12) con il diritto di recesso libero di cui torneremo a parlare(VI, 9), restituendo cioè in qualche modo al consumatore, nella fase successiva al contratto, quel margine di ponderazione che non gli è stato assicurato prima; ma in alcuni casi (come abbiamo visto per il contratto a distanza concluso per telefono) assicura tale margine di riflessione nella stessa fase di conclusione del contratto, dislocando in due momenti distinti la nascita del vincolo contrattuale in capo al professionista e la piena manifestazione di consenso da parte del consumatore (v. anche infra, 31). La funzione di controbilanciare, in sede di formazione del contratto, il maggior potere contrattuale del professionista è affidata tuttavia, soprattutto, ad obblighi di trasparenza, informazione, comunicazione, di contenuto molto analitico, posti a carico del professionista, mediante i quali riequilibrare, almeno sotto il profilo della conoscenza, quanto, con riguardo alle condizioni contrattuali, queste modalità di contrattazione tolgono al consumatore sotto il profilo della libertà di scelta. Sollecitato a contrarre, talora sotto l’effetto sorpresa o con mezzi tanto veloci quanto insidiosi come quelli informatici, e posto di fronte a regole contrattuali che può solo prendere o lasciare, il consumatore dovrebbe quanto meno essere messo in condizione di avere da subito una completa e chiara rappresentazione di ciò che comporterà il vincolo così assunto.

23. (Segue). Il principio di trasparenza Obblighi di informazione ed in generale di trasparenza nei rapporti contrattuali, come abbiamo già posto in evidenza, possono dirsi in principio appartenenti alla disciplina generale del contratto, quali che siano le parti o le finalità del contratto. Fuori dal caso del dolo (e cioè di un atteggiamento intenzionalmente reticente) il tacere all’altra parte circostanze rilevanti costituisce in generale violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede durante le trattative, che la legge impone alle parti di qualunque contratto (art. 1337 c.c.). Un espresso dovere di informare a carico delle parti contraenti è sancito, come regola generale,

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solo nel caso previsto dall’art. 1338, in forza del quale ciascuna delle parti, ove conosca o debba conoscere l’esistenza di una causa di invalidità del contratto e non la comunichi all’altra parte, sarà tenuta a risarcire il danno subito da quest’ultima per avere confidato senza sua colpa nella validità del contratto. Ma l’obbligo di comportarsi secondo buona fede nelle trattative veicola un ampio e generale dovere di informare il proprio partner su tutto quanto ha a che fare con il regolamento contrattuale, pur escludendosi che una parte debba “mettersi nei panni dell’altra” fino al punto di comunicare valutazioni o verifiche che attengono alla convenienza dell’affare (sopra, 10 e 11). Nelle relazioni contrattuali tra consumatori e professionisti (come tra professionisti e clienti o investitori non qualificati), e per le ragioni anzidette, si richiede però il rispetto di ben più elevati standards di “trasparenza” e “correttezza”: il diritto alla «correttezza, alla trasparenza ed all’equità dei rapporti contrattuali» è tra quelli riconosciuti “come fondamentali” ai consumatori e agli utenti, in apertura del codice del consumo (art. 2, co. 2). La trasparenza contrattuale può dirsi pilastro del diritto europeo dei contratti di consumo; e persegue l’obiettivo non solo di riequilibrare in qualche modo la posizione del contraente che aderisce a condizioni da lui non negoziate e neppure compiutamente ponderate, ma altresì di rendere più agevole il controllo (da parte delle Autorità garanti della concorrenza e fra gli stessi imprenditori), di pratiche commerciali scorrette o ingannevoli messe in atto da taluni professionisti per il tramite di condizioni contrattuali ambigue. Dal generale dovere di correttezza e lealtà imposto sempre e a tutte le parti contraenti nelle trattative e nella fase di conclusione del contratto si passa, nei contratti professionista/consumatore, a puntuali obblighi di informazione, i cui elementi di peculiarità risiedono nel momento in cui devono essere adempiuti, nell’oggetto dell’informazione dovuta, nella forma nella quale essa deve essere espressa e nelle modalità, anch’esse stabilite dalla legge, con cui deve essere fornita; infine, ma non in ultimo, nella natura spesso vincolante delle informazioni fornite. Obblighi di informazione propriamente di natura precontrattuale incombono invero sul professionista per il solo fatto che egli si proponga sul mercato come offerente, ancorché il contratto con il consumatore sia ancora lontano ed eventuale, e la comunicazione non sia certo individualizzata (il messaggio pubblicitario, gli opuscoli informativi sono rivolti ad una platea indeterminata di destinatari). Il contenuto, se non

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tipico quanto meno ricorrente, delle informazioni riguarda le caratteristiche del bene o servizio offerto, i costi, e in generale le condizioni del contratto, oltre che il diritto di recesso quando previsto. La forma con cui le informazioni devono essere rese è di regola quella scritta (o su supporto durevole) e si prescrive inoltre nel testo una enunciazione chiara e comprensibile, precisandosi spesso che la lingua deve essere quella del consumatore. In secondo luogo – e in stretta connessione – trasparenza contrattuale vuol dire, nelle discipline di fonte europea, chiarezza e completezza del testo contrattuale. Ciò che nel contratto deve essere indicato, onde rendere completa la rappresentazione dei diritti ed obblighi delle parti, è analiticamente previsto dalla legge; e, d’altra parte, si tratta di elementi che si ripetono nel contratto dopo essere stati, per legge, indicati già nei documenti o nelle comunicazioni a scopo informativo. Il cerchio, per così dire, si chiude, allorché – come vedremo – la legge in molti casi prescrive che le informazioni fornite prima della stipula del contratto non possano essere modificate unilateralmente dal professionista in sede di contratto e formino anzi parte integrante di questo. A conferma di una disciplina che tende ad intercettare e governare il sostanziale azzeramento tra fase precontrattuale e conclusione del contratto che caratterizza questi scambi. L’effetto di tutto ciò è un fenomeno di “standardizzazione” della proposta del professionista e più in generale della sequenza di comunicazioni e comportamenti che porta alla stipula del contratto. Parlando di “proposta standardizzata” intendiamo riferirci non solo al fatto che si ha qui una predeterminazione unilaterale del contenuto del contratto da parte del professionista, ma anche al modo in cui l’ordinamento reagisce a tale fenomeno, proponendosi di compensare sul versante dell’informazione e della trasparenza contrattuale l’assenza di trattativa: il riferimento è cioè alle norme che, nella legislazione sui contratti dei consumatori, prescrivono in modo analitico le indicazioni, riferite agli elementi e al contenuto economico e normativo del contratto, che devono essere presenti già nei documenti informativi e poi nei testi contrattuali sottoposti al consumatore, prescrivendo altresì come detto le modalità espressive e di comunicazione. Affinché egli almeno conosca compiutamente, prima della conclusione del contratto, il regolamento contrattuale che non gli è consentito di modificare. Al fenomeno della standardizzazione di fonte privata – le condizioni

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generali di contratto predisposte unilateralmente dal professionista e non “negoziabili” dal consumatore – la legge reagisce con una standardizzazione di fonte legale, che tende in qualche modo a governare il procedimento di formazione del contratto bilanciando la deteriore posizione del consumatore. La legge non impedisce al professionista di indirizzare al consumatore una offerta unilateralmente predisposta, né impone uno spazio di trattativa che la velocità degli scambi non consente e non tollererebbe; ma gli impone piuttosto di “compensare” almeno in chiarezza e compiutezza il potere unilaterale di predisposizione dell’offerta, attraverso la previsione analitica di ciò che dovrà essere per tempo portato a conoscenza del consumatore e del come dovrà avvenire la trasmissione delle informazioni. Questo intervento ha una funzione diversa da quella che, come vedremo, attiene invece alla verifica dei contenuti e degli effetti delle condizioni unilateralmente predisposte e per le quali non vi sia stata trattativa, che può condurre alla nullità della clausola “squilibrata”, cioè vessatoria, in danno del consumatore. Gli obblighi di informazione e di redazione del testo contrattuale lasciano impregiudicato il problema dei contenuti (liberi o in alcuni casi censurati dalla legge) del regolamento contrattuale predisposto dal professionista. Imponendogli di rendere compiutamente note al suo partner le condizioni economiche dello scambio, ad esempio, il legislatore non intende limitare lo spazio di autonomia contrattuale del professionista nella determinazione del prezzo o dei costi a carico del consumatore; ma pretende che gli aspetti economici siano definiti prima della conclusione del contratto e chiaramente rappresentati al consumatore. L’intento di controllare che le comunicazioni destinate ai consumatori rispettino i contenuti esaustivi ed anche le tecniche di redazione (chiara e comprensibile), conduce ad un progressivo irrigidimento delle modalità di “contatto” e di interlocuzione tra professionista e consumatori, e le regole di fonte europea oggi obbligano il professionista non ad una attività di informazione, seppur conforme alla legge, ma alla consegna al consumatore di “formulari informativi”. Tecnica che intende impedire scostamenti dalle previsioni di legge e difformità di comportamenti tra i professionisti, ma, come non si è mancato di osservare in dottrina, rischia di sommergere il consumatore di informazioni che gli vengono solo consegnate ma non illustrate e che ovviamente non tengono conto della specificità del singolo consumatore e del singolo contratto in concreto stipula-

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to. L’informazione “standardizzata”, nei contenuti e nelle modalità, è certo più controllabile (dalla legge, dall’Autorità garante della concorrenza, dagli imprenditori concorrenti, dai consumatori e loro associazioni), ma è anche inevitabilmente informazione “spersonalizzata”. Quasi tutte le discipline settoriali riguardanti i contratti consumatore-professionista richiamano alla chiarezza e comprensibilità con cui devono essere espresse le clausole contrattuali. Trattasi di prescrizioni che attengono alle modalità espressive della volontà contrattuale (del professionista) e per questo vengono ricondotte alle regole del c.d. neoformalismo negoziale (IV, V, 8 e 9), pur dovendosi prendere atto della mancata previsione – nelle direttive e nelle norme di recepimento– di eventuali rimedi a tutela del consumatore. Il richiamo più incisivo al principio di trasparenza può rinvenirsi nell’ambito della disciplina delle clausole vessatorie (V, 4), non tanto là dove (art. 35, co. 1 e 2, cod. cons.) si ribadisce l’obbligo per il professionista di redigere “in modo chiaro e comprensibile” le clausole che egli propone per iscritto al consumatore e si ribadisce la regola di interpretazione di tali clausole, nel dubbio, in favore del consumatore (di cui all’art. 1370 c.c.), ma soprattutto là dove si subordina l’esclusione dalla verifica di vessatorietà del nucleo centrale del contratto concernente la determinazione dell’oggetto ovvero degli aspetti economici di “adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi” alla circostanza che “tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile” (art. 34, co. 2, cod. cons.). Decisamente nella direzione di un approccio “sostanziale” al principio di trasparenza si muove da un po’ di tempo la Corte di Giustizia quando si attesta su una interpretazione estensiva dell’art.4 della direttiva 93/13 (il nostro art. 34,co. 2, cod. cons.) e ribadisce che

«l’obbligo della trasparenza delle clausole contrattuali, sancito dalla direttiva 93/13, non può essere limitato unicamente alla comprensibilità sul piano formale e grammaticale di queste ultime. Al contrario, poiché il sistema di tutela istituito dalla direttiva 93/13 si fonda sull’idea che il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda, in particolare, il grado di informazione, tale obbligo di trasparenza deve essere interpretato in modo estensivo». (Corte. giust. 23-4-2015, causa C-96/14 Van Hove)

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Cosa comporti tale interpretazione estensiva è ben esplicitato nei precedenti e soprattutto nella più recente sentenza in cui, a proposito delle clausole di un contratto di mutuo relative alle modalità di calcolo degli interessi, si precisa che

«l’obbligo della trasparenza delle clausole contrattuali sancito agli articoli 4, paragrafo 2, e 5 della direttiva 93/13 … non può essere limitato unicamente al carattere comprensibile di queste ultime sui piani formale e grammaticale … Risulta in particolare dagli articoli 3 e 5 della direttiva 93/13 nonché dai punti 1, lettere j) e l), e 2, lettere b) e d), dell’allegato di tale direttiva che, ai fini del rispetto dell’obbligo di trasparenza è di rilevanza essenziale la questione se il contratto esponga in modo trasparente il motivo e le modalità del meccanismo di modifica del tasso di interesse e il rapporto tra tale clausola e altre clausole relative alla remunerazione del mutuante, di modo che un consumatore informato possa prevedere, in base a criteri chiari e comprensibili, le conseguenze economiche che gliene derivano» (punti 73 e 74)». (Corte giust. 26-2– 2015, causa C-143/13 Matei) Emerge decisamente la finalità del principio di trasparenza. La trasparenza contrattuale non è fine a sé stessa ma rivolta a consentire nel consumatore/utente scelte consapevoli supportate da un pieno apprezzamento anche della convenienza delle condizioni economiche che il suo partner professionale gli propone (in fase di stipula del contratto o di esercizio dello ius variandi delle condizioni contrattuali, quando consentito V, 4).

24. La diversa rilevanza degli obblighi di informazione Entro il quadro così per ora sommariamente presentato, per quanto quasi mai sia completata con regole che esplicitino le conseguenze in caso di violazione, la disciplina degli obblighi di informazione consente di fare alcune distinzioni utili proprio in vista di chiarire la natura di tali obblighi e la collocazione nella vicenda contrattuale. Appare sufficientemente confortato dai dati normativi il convincimento che gli obblighi di informazione non consentano, se non a fini puramente descrittivi, un

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approccio unitario e generalizzante, ma si presentino invece secondo alcune varianti, che richiedono una analisi attenta a coglierne le differenze anche per individuare, pur nel silenzio del legislatore, le conseguenze del loro inadempimento.

25. (Segue). L’informazione minima in tutti i contratti professionista/ consumatore Viene in evidenza innanzitutto quello che possiamo chiamare obbligo di informazione minima, in fase precontrattuale, che si rintraccia ora nell’art. 48 cod. cons. La dir. 2011/83 ha di recente confermato l’importanza rivestita nella disciplina dei contratti dei consumatori dagli obblighi di informazione sia arricchendo significativamente da tale profilo la disciplina dei contratti a distanza e negoziati fuori dei locali commerciali, (con ulteriori e più puntali prescrizioni che riguardano la forma in cui l’informazione deve essere resa o, talora, le modalità con cui deve essere resa), sia estendendo l’ambito di applicazione di tali obblighi fuori dalle fattispecie più “a rischio”, fin qui considerate (contratti a distanza, contratti negoziati fuori dei locali commerciali, multiproprietà, servizi turistici, ecc.). Si tratta di quelli che l’art. 5 della direttiva denomina “Contratti diversi dai contratti a distanza o negoziati fuori dei locali commerciali”. L’individuazione in via residuale o per esclusione certamente continua a denunciare come il terreno di elezione degli obblighi di informazione rimanga il segmento delle contrattazioni che abbiamo chiamato “a rischio”, dove peraltro tali obblighi si presentano con un contenuto più ampio e rigorosamente predeterminato dalla legge e incidono, come vedremo, in modo più significativo nella vicenda contrattuale. La novità rimane tuttavia comunque significativa, poiché deve ora ammettersi che la previsione a carico del professionista di obblighi di informazione a contenuto legalmente predeterminato (e non invece affidato esclusivamente in via generale al filtro della clausola di buona fede) costituisce parte della disciplina generale dei contratti tra professionisti e consumatori. Nei contratti diversi, cioè in tutti i contratti consumatore/professionista per i quali non vi siano regole particolari, prima «che il consumatore sia vincolato dal contratto» il professionista deve fornirgli in modo chiaro e comprensibile le informazioni che consentono di identi-

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ficare nei suoi elementi principali il contenuto del contratto: e cioè l’oggetto del contratto, dunque le caratteristiche principali dei beni o servizi, il corrispettivo (prezzo totale comprensivo di imposte ed eventuali spese di spedizione o consegna oppure, se non calcolabili in anticipo, i criteri di calcolo), le modalità di pagamento, l’identità del professionista, la durata del contratto e le condizioni di rinnovo o risoluzione, le condizioni del servizio postvendita e delle garanzie commerciali, oltre che il richiamo alla garanzia legale se trattasi di vendita (art. 48). I contenuti dell’informazione – con qualche eccezione come ad esempio l’informazione sul diritto di recesso che nei contratti diversi non è concesso ai consumatori – ricalcano quelli previsti, come vedremo, per i contratti a distanza o negoziati fuori dei locali commerciali, ovvero, con gli opportuni adattamenti, per i contratti di multiproprietà o vendita di servizi turistici. Nei contratti diversi, tuttavia, a differenza che in quelli appena ricordati, non v’è traccia di regole che possano in qualche modo proiettare tali obblighi (e le conseguenze della loro violazione) oltre la “naturale” fase precontrattuale. Possiamo dire dunque che si delinea qui, con carattere generale, il livello minimo di informazione precontrattuale richiesto per tutti i contratti di consumo, sia perché, configurandosi quale disposizione di armonizzazione minima, la norma della direttiva, come ora conferma l’art. 48, co. 4, cod. cons., fa salva la previsione di obblighi aggiuntivi da parte del legislatore interno; sia perché gli obblighi di informazione, nella versione soft qui adottata, non potranno che rimandare, in caso di violazione, nel nostro ordinamento come in quelli di quasi tutti gli altri Stati membri, alle regole in tema di responsabilità precontrattuale. Nel silenzio del legislatore comunitario, il consumatore che non abbia ricevuto le informazioni qui previste o non le abbia ricevute in modo adeguato e compiuto potrà certamente chiedere, ricorrendone i presupposti, il risarcimento ai sensi del nostro art. 1337 c.c. Il rinvio ad eventuali obblighi aggiuntivi di informazione, di fonte interna, rassicura poi sulla circostanza che la tutela del consumatore non è comunque circoscritta alla mancata comunicazione delle informazioni elencate nell’art. 49 cod. cons., sicché egli potrà dolersi del danno conseguente ad altre e diverse omissioni del professionista o ad ambiguità del comportamento di quest’ultimo sotto il profilo della trasparenza, che si dimostrino comunque in violazione del dovere di buona fede, entro il quale si fa ormai pacificamente rientrare anche un obbligo generale di trasparenza e di infor-

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mazione sugli elementi del contratto. La predeterminazione in via normativa di alcuni dei contenuti di questa informazione, che ora rintracciamo nell’art. 48 cod. cons. – e che certamente sarebbero stati rilevanti comunque alla stregua della clausola di buona fede – ha il pregio di eliminare in radice ogni contestazione del professionista, pur sempre alla luce dell’applicazione dell’art. 1337 c.c. e, sicuramente, di rendere immediatamente consapevole il consumatore su ciò che comunque il professionista deve da subito fargli sapere.

26. (Segue). L’informazione/comunicazione, parte integrante del contratto, nelle discipline settoriali Proprio perché piegata a una funzione di trasparenza e certezza di un rapporto contrattuale che di regola nasce senza che vi sia stata una fase di trattative e una formazione dell’accordo nei modi tradizionali, l’informazione, per quanto sia resa prima o all’atto della stipula, non sempre però esaurisce ogni effetto nella fase precontrattuale. Anzi, almeno nei segmenti di contrattazione nei quali ha fatto la sua comparsa, quale il contratto di multiproprietà o di vendita di pacchetti turistici, o in quelli in cui è stata successivamente esportata, come i contratti di credito, più che di informazione sarebbe corretto parlare di comunicazione: gli elementi pubblicizzati o comunque oggetto di informazione non possono essere infatti in questi contratti liberamente e unilateralmente modificati da chi li ha forniti; ciò vale per il professionista nel caso di multiproprietà o di offerta di pacchetti turistici, ma anche la banca non può modificare in peggio le condizioni contrattuali che abbia pubblicizzato. I contenuti dell’informazione sono sempre i medesimi, con gli opportuni adattamenti: e riguardano gli elementi principali attraverso cui si definisce il contenuto del contratto, come le caratteristiche principali dei beni o servizi, il corrispettivo (prezzo totale comprensivo di imposte ed eventuali spese di spedizione o consegna oppure, se non calcolabili in anticipo, i criteri di calcolo), le modalità di pagamento, l’identità del professionista, la durata del contratto e, se ammesso, il diritto di recesso. Così è per le informazioni elencate nell’art. 49 cod. cons. che devono essere fornite nei contratti a distanza o negoziati fuori dei locali commerciali; ma anche per quelle che descrivono oggetto del bene o del servizio e regole contrattuali concernenti diritti ed obblighi delle parti,

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come elencate ora negli appositi formulari da consegnare all’acquirente di un diritto di godimento turnario (multiproprietà) ai sensi dell’art. 71 cod. cons. ovvero indicate negli artt. 37 e soprattutto nell’art. 38 codice del turismo (che indica i contenuti dell’opuscolo informativo). Dunque, come detto, non una informazione ma una comunicazione di ciò cui il professionista è già vincolato. Ed invero, nel caso dei contratti di multiproprietà, recita il nuovo co. 4 dell’art. 72 cod. cons., le informazioni fornite al consumatore prima o all’atto della stipula costituiscono «parte integrante e sostanziale del contratto» e dopo la consegna al consumatore (imposta, come si è visto dalla legge), possono essere modificate per accordo delle parti, mentre il professionista potrà apportare modifiche unilaterali solo per circostanze indipendenti dalla sua volontà: ed in tal caso, non solo dovrà darne comunicazione alla controparte prima della stipula del contratto, ma le modifiche dovranno essere espressamente indicate nel contratto stesso (art. 72, co. 4, cod. cons.). Nella vendita di pacchetti turistici è indicato analiticamente il contenuto dell’opuscolo informativo e le informazioni in esso indicate «in modo chiaro e preciso», rimangono comunque vincolanti per l’organizzatore e l’intermediario, in relazione alle rispettive responsabilità: eventuali modifiche unilaterali delle condizioni ivi indicate dovranno essere comunicate per iscritto al consumatore prima della stipulazione del contratto, salvo il caso di una modifica concordata dai contraenti, mediante uno specifico accordo scritto, successivamente alla stipulazione (art. 38 cod. tur.). Il meccanismo della integrazione del contratto per il tramite delle informazioni precontrattuali, nei termini sopra indicati, è ora esteso (a seguito del recepimento della dir. 2011/83), ai contratti a distanza o negoziati fuori dei locali commerciali (art. 49, co. 5): le informazioni fornite prima della conclusione del contratto formano parte integrante del contratto e non possono essere modificate se non per accordo espresso delle parti. Il venditore di un bene di consumo sarà responsabile per violazione dell’obbligo di consegnare cose conformi al contratto di vendita – e chiamato dunque anche ad adempiere esattamente mediante sostituzione o riparazione del bene – anche quando la cosa venduta non abbia le qualità o le prestazioni che sono state pubblicamente dichiarate o enunciate nell’etichettatura (art. 129, co. 2, lett. c), cod. cons.). Per quanto si tratti di comunicazione pubblicitaria, la legge vi riconnette la funzione di comunicare già le caratteristiche del bene che il professioni-

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sta si impegna a fornire (e vedi quanto detto sopra, 17). Lo stesso meccanismo è espressamente disciplinato nei contratti bancari. Qui le clausole contrattuali che prevedono tassi, prezzi e condizioni più sfavorevoli per i clienti rispetto a quelli pubblicizzati, o che rinviino agli usi bancari praticati sono nulle ex art. 117, t.u.b. In sostituzione delle clausole nulle ovvero quando il contratto sia dall’origine lacunoso, cioè sprovvisto di quegli elementi che, a norma dell’art. 117, co. 4, t.u.b., devono necessariamente esservi indicati (prezzo e condizioni praticate), per i tassi si farà riferimento a quelli minimi e massimi previsti per i titoli di stato (integrazione con la fonte legale), ma per i prezzi e le altre condizioni si applicheranno le condizioni che la banca ha pubblicizzato. L’informazione in fase precontrattuale anche qui andrà ad integrare il contenuto del contratto; pur se non automaticamente, in relazione alla possibilità di variazioni (ma solo migliorative) legate alle particolarità che in concreto i contratti in questione potranno manifestare in relazione alle caratteristiche e alle esigenze del cliente concreto (art. 117, co. 7, t.u.b.). Come ricordato sopra, le clausole del contratto di credito al consumatore relative a costi a carico di quest’ultimo che non risultino inclusi o siano stati inclusi in modo non corretto nel TAEG comunicato in sede di informazione precontrattuale, sono nulle (art. 125 bis, co. 6 t.u.b.). A conferma che ci troviamo in realtà di fronte ad una comunicazione “anticipata” del contenuto del contratto sta la regola, sempre presente nei casi di cui ci occupiamo, secondo cui, seppure il momento in cui l’informazione deve essere fornita è quello che precede la conclusione del contratto, essa deve poi trovare conferma al momento della conclusione o attraverso i contenuti del testo contrattuale; se è stata resa in forma orale, come è consentito nel caso di contratti conclusi a distanza, dovrà essere confermata comunque in un documento scritto (o su supporto durevole) da fornirsi al consumatore dopo la conclusione ma prima della esecuzione. Gli elementi che a norma dell’art. 71 cod. cons. devono necessariamente essere indicati nel documento informativo da consegnare al consumatore, nel caso di multiproprietà, dovranno poi essere riprodotti, a norma dell’art. 72, co. 5 nel testo contrattuale vero e proprio. Nel caso di vendita di pacchetti turistici la legge individua le indicazioni che devono essere contenute nel contratto, molte delle quali ripropongono elementi da fornire già in sede di informazione. Si è già detto del rapporto tra informazione e contratto nei contratti bancari e di credito. Pur in mancanza di una espressa previsione al riguardo, dovrà con-

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seguentemente ritenersi che il contenuto dell’informazione completerà comunque il contenuto dell’accordo nel caso di lacune del testo contrattuale, a meno che questo non ne espliciti delle modifiche. Il carattere vincolante (e non liberamente modificabile) dell’informazione fa sì, dunque, che quanto comunicato in adempimento degli obblighi di informazione (o addirittura spontaneamente, ma con le conseguenze dettate dalla legge nel caso di vendita di pacchetti turistici) definisca già gli elementi del contratto, come oggetto della prestazione, prezzo, prestazioni o oneri accessori, in base ai quali il consumatore o cliente pretenderà che il rapporto sia eseguito. Si parla in dottrina di informazione-promessa o, meglio di contrattualizzazione dell’informazione, intendendosi così segnalare non solo che l’informazione resa in fase antecedente al contratto impegna il professionista, ma che la violazione di tale impegno si configura non già come violazione degli obblighi posti a carico delle parti in fase di conclusione del contratto (che danno luogo a responsabilità precontrattuale), ma come inadempimento (responsabilità contrattuale). Che ci si trovi di fronte già ad un segmento del contratto, almeno per quanto riguarda il vincolo assunto dal professionista, è del resto confermato dalla regola, sempre riproposta nelle discipline di cui discorriamo, che agli stessi elementi oggetto dell’informazione precontrattuale (vincolante) fa riferimento quando si tratti poi di prevedere gli elementi del regolamento contrattuale che devono comunque comparire nel contratto. Infine – ma non per ultimo – la legge equipara contratto e informazioni circa le modalità con cui essi vanno resi certi e noti al consumatore: si tratta di quelli che negli artt. 50 e 51 del nostro codice del consumo vengono denominati (impropriamente) “requisiti formali” per i contratti a distanza o negoziati fuori dei locali commerciali. Ma, come diremo, non ci troviamo di fronte a vere e proprie prescrizioni di forma, almeno nell’accezione classica del formalismo negoziale: per i contratti conclusi fuori dei locali commerciali deve essere fornita al consumatore una copia firmata su supporto cartaceo o altro supporto durevole, ma sempre su supporto cartaceo o altro mezzo durevole per i contratti negoziati fuori dei locali commerciali, o “in modo appropriato” nei contratti a distanza, deve essere fornita l’informazione; per il contratto di multiproprietà e per quello di vendita di pacchetti turistici la forma scritta è richiesta anche per il “documento” o opuscolo informativo oltre che per il contratto.

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Dunque, quanto comunicato prima della conclusione del contratto e in vista di questa definisce già, in realtà, l’offerta del professionista, configurandola, almeno per i contenuti ivi indicati, quale proposta irrevocabile. Estremamente significativa in tal senso è la regola posta dall’art. 49 co. 6, cod. cons. per i contratti a distanza o negoziati fuori dei locali commerciali: se il professionista non adempie agli obblighi di informazione sulle spese aggiuntive o gli altri costi di cui al co. 1, lett. e) o sui costi della restituzione dei beni in caso di recesso, il consumatore non deve sostenere tali spese o costi aggiuntivi. L’informazione doveva definire compiutamente la proposta e l’omessa indicazione di tali costi porta come ovvia conseguenza che essi devono ritenersi estranei all’offerta pervenuta al consumatore.

27. (Segue). L’informazione sulla sostenibilità o sulla convenienza dell’operazione Da questo secondo modello, che possiamo chiamare di informazione/comunicazione “contrattualizzata”, dobbiamo distinguere l’informazione che, per legge, non ha (o non ha solo) ad oggetto la mera comunicazione delle condizioni e termini del contratto, ma, dovendo invece contribuire a far assumere al consumatore una decisione informata e consapevole, deve necessariamente contenere anche elementi valutativi. Non può dirsi che qui si ritorni agli obblighi di buona fede nella fase delle trattative ex art. 1337, che certamente si intendono oggi comprensivi anche di indicazioni (o controindicazioni) circa le complessive conseguenze e caratteristiche dell’operazione economica. Qui si va ben oltre. L’informazione precontrattuale assume nel contratto di credito al consumatore una inedita e più incisiva funzione. Può dirsi che in capo al finanziatore o all’intermediario la legge impone una “informazione attiva” o, meglio una attività di consulenza. Quando la legge impone al finanziatore di fornire al consumatore «le informazioni necessarie per consentire il confronto delle diverse offerte di credito sul mercato, al fine di prendere una decisione informata e consapevole in merito alla conclusione di un contratto di credito» (art. 124, co. 1, t.u.b.), ed ancora di fornire al consumatore «chiarimenti adeguati, in modo che questi possa valutare se il contratto di credito

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proposto sia adatto alle sue esigenze e alla sua situazione finanziaria, eventualmente illustrando le informazioni precontrattuali, le caratteristiche essenziali dei prodotti e gli effetti specifici che possono avere sul consumatore, incluse le conseguenze del mancato pagamento» (art. 124, co. 5), si riferisce con tutta evidenza ad obblighi di informazione il cui contenuto non si esaurisce nella comunicazione delle condizioni del contratto e non può certo cristallizzarsi nei modelli standardizzati e nei formulari che pure per legge il professionista deve consegnare al consumatore; la legge richiede invece al professionista di mettere a disposizione del consumatore, nel momento in cui lo informa, tutto il proprio bagaglio di competenza professionale affinché le condizioni del finanziamento e le conseguenze siano chiare, e di contribuire, attraverso l’attività di informazione e chiarimento, ad orientare le scelte del consumatore verso contratti che siano adeguati a quest’ultimo piuttosto che convenienti per il finanziatore. Il binomio informazione (come comunicazione trasparente)-consulenza viene decisamente ancor più in evidenza nella recente disciplina dei contratti di credito immobiliare ai consumatori. Il finanziatore (o l’intermediario) non devono soltanto mettere “a disposizione del consumatore, in qualsiasi momento, un documento contenente informazioni generali chiare e comprensibili sui contratti di credito offerti”, corredandolo delle informazioni analiticamente previstre dalla legge (art. 120 novies, co. 1, t.u.b.), ma fornire al consumatore, prima che egli sia vincolato al contratto, (anche) “le informazioni personalizzate necessarie per consentire il confronto delle diverse offerte di credito sul mercato,valutarne le implicazioni e prendere una decisione informata in merito alla conclusione di un contratto di credito” (art.120 novies, co. 2); ed ancora, “fornire al consumatore chiarimenti adeguati sui contratti di credito ed eventuali servizi accessori proposti, in modo che questi possa valutare se il contratto e i servizi accessori proposti siano adatti alle sue esigenze e alla sua situazione finanziaria”. Tali obblighi accompagnano la stipula di tutti questi contratti, a prescindere dall’offerta, ulteriore ed eventuale, di un apposito servizio di consulenza che il finanziatore intenda mettere a disposizione del suo cliente, in forma gratuita o dietro compenso (art. 120 terdecies t.u.b.). A carico del finanziatore in tutti i contratti di credito a consumatori, è posto del resto l’obbligo di una preventiva verifica del c.d. merito creditizio del consumatore, ricostruito alla stregua delle informazioni fornite da questi o attraverso la consultazione di banche dati (artt. 124-bis e

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120 undecies). È evidente allora come venga qui in evidenza il comportamento del finanziatore, nella fase che precede la conclusione del contratto, da valutare alla stregua del canone di correttezza e buona fede, rapportato al livello di competenza ed esperienza che deve essergli proprio. Altrettanto chiaro è il mutamento di prospettiva, nel senso qui indicato, quando si discorra degli obblighi di diligenza, correttezza e trasparenza posti espressamente a carico dell’intermediario finanziario dall’art 21 t.u.f., e ulteriormente specificati nei regolamenti emanati dalla Consob, quando un risparmiatore gli chieda di investire i propri risparmi mediante acquisto di strumenti finanziari. Ancor più decisamente qui, ben oltre l’obbligo di trasparenza delle condizioni contrattuali, gli intermediari sono chiamati ad agire in modo da “servire al meglio l’interesse dei clienti” oltre che assicurare l’integrità dei mercati, e dunque affinché il cliente effettui operazioni di investimento a lui adeguate, dovendo altresì evitare operazioni nelle quali possa emergere un conflitto di interesse tra loro e i clienti (IV, I, 12). Anche in questo caso gli obblighi di informazione si atteggiano in modo diverso da quella che abbiamo denominato informazione/comunicazione, vertendosi semmai in quella che potremmo definire informazione/ consulenza.

28. (Segue). Inadempimento degli obblighi di informazione e responsabilità del professionista Mentre sembrano delinearsi chiaramente, nel quadro normativo esaminato, le conseguenze del rispetto degli obblighi di informazione – cioè il carattere vincolante dell’informazione/comunicazione, una volta resa, ai fini della vicenda contrattuale – rimane più incerta l’individuazione dei rimedi nel caso di violazione di tali obblighi (dunque i rimedi alla omessa o inadeguata informazione), almeno quando manchi una espressa previsione come quella appena ricordata di cui all’art. 49, co. 6, cod. cons. Ci riferiamo ovviamente alle conseguenze sulla vicenda contrattuale e dunque ai rimedi civilistici; posto che in molti casi, ed in ragione della natura dell’attività esercitata, ad esempio quella creditizia, il mancato rispetto di questi obblighi determina comunque l’applicazione di sanzioni a carattere amministrativo (art. 144 t.u.b.).

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Alla mancanza o al ritardo con cui viene fornita l’informazione si accompagna sempre (VI, 9), un allungamento del termine per l’esercizio del diritto di recesso del consumatore (ove previsto), ma ci si chiede se e quali altre conseguenze si producano, nella vicenda contrattuale o a carico del professionista, quando l’informazione sia carente, ingannevole, o del tutto mancante. La legge prevede espressamente un rimedio ulteriore e più incisivo nel caso di commercializzazione a distanza di servizi finanziari: il contratto sarà nullo «nel caso in cui il fornitore ... viola gli obblighi di informativa precontrattuale in modo da alterare in modo significativo la rappresentazione delle sue caratteristiche» (art. 67septiesdecies, co. 4, cod. cons.). Grava d’altra parte sul fornitore, in questo caso, la prova dell’adempimento degli obblighi di informazione (art. 67-vicies semel, co. 1, lett. a). Sempre nel caso di commercializzazione a distanza di servizi finanziari, tuttavia, a proposito delle modalità con cui le informazioni devono essere fornite, è fatto espresso richiamo (art. 67-quater, co. 2) all’obbligo di tenere in debito conto, in particolare, i «doveri di correttezza e buona fede nella fase precontrattuale» e i «principi che disciplinano la protezione degli incapaci di agire e dei minori». L’ambito nel quale si collocano tali obblighi è invero quello dei doveri di correttezza nella fase precontrattuale, pur se,come dimostra l’esempio appena citato, la loro rilevanza ai fini della formazione di un pieno consenso del consumatore al contratto non consente di escludere in principio più intense ricadute sulla stessa validità di questo. In generale, nel silenzio del legislatore, si ritiene invero che la violazione degli obblighi di informazione chiami in causa sempre (e soltanto) la responsabilità precontrattuale: l’art. 48 cod. cons., del resto, al co. 4, definisce espressamente quelli in parola come obblighi di “informazione precontrattuale”. La riconducibilità della violazione degli obblighi di informazione (esclusivamente) all’ambito della responsabilità (di regola precontrattuale) del professionista troverebbe il supporto dell’orientamento espresso dalla S.C., anche a Sezioni Unite. Adottiamo una formula dubitativa, poiché l’attenzione e l’argomentazione della S.C., quando è stata chiamata ad individuare i possibili rimedi nel caso di violazione di tali obblighi di informazione, si sono concentrate sul modello che abbiamo definito di informazione/consulenza. È a questo riguardo che si è correttamente ribadita la naturale collocazione di siffatti obblighi nell’ambito della responsabilità precontrattuale

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(ovvero, della responsabilità contrattuale allorché la consulenza debba essere prestata dall’intermediario in adempimento di un contratto con il quale l’investitore ha inteso procurarsi in generale un servizio di supporto per tutti i suoi investimenti finanziari). Senza che ne sia uscita negata in principio, però (e malgrado quanto si suole in generale ripetere), l’ammissibilità di una differente e più incisiva rilevanza del rispetto degli obblighi di comunicazione, fuori da queste fattispecie, ai fini della validità del contratto: non sembra cioè, per le ragioni che diremo, potere escludersi in principio che, quando l’obbligo di informazione serva ad assicurare la chiara e certa predeterminazione del contenuto del contratto, già vincolante per il professionista, la violazione di tale obbligo, con la conseguente mancanza, nell’offerta formulata dal contraente, di alcune delle indicazioni volute dalla legge ai fini della completa rappresentazione del contenuto del contratto, impedisca la formazione di un valido contratto e si presenti dunque come causa di nullità. Riteniamo, in definitiva, che la ricerca del rimedio per la violazione di tali obblighi non possa prescindere dalla considerazione della differente rilevanza che essi assumono e della funzione cui sono deputati, alla stregua della disciplina fin qui richiamata, nella vicenda contrattuale. Molti giudici di merito, nei noti casi (venuti alla ribalta nel 2003) di vendita di prodotti finanziari (obbligazioni Cirio e Parmalat e bond argentini), il cui valore è stato azzerato dal crac dei soggetti che avevano emesso i titoli, avevano dichiarato nullo il contratto quando la banca o l’intermediario finanziario, in violazione degli obblighi legali di informazione e di trasparenza peraltro particolarmente incisivi in questo tipo di contrattazione, non avevano adeguatamente avvertito il risparmiatore dei rischi connessi all’investimento, pur essendone a conoscenza; nullità ex art. 1418, co. 1, c.c., cioè nullità virtuale (VII, 4), nel presupposto della natura imperativa della norma in materia di doveri di informazione che risultava violata, cioè l’art. 21 t.u.f. La dottrina però è stata abbastanza critica verso questa impostazione e, in generale, verso un eccessivo ricorso alla c.d. nullità virtuale. Salvi i casi in cui il rimedio della nullità è espressamente previsto dal legislatore, e dunque di nullità testuale (come quello, ricordato, di cui all’art. 67-septiesdecies, co. 4, cod. cons, per la commercializzazione a distanza di servizi finanziari), si ritiene che la tesi della nullità (virtuale), quale rimedio alla violazione dei doveri d’informazione, metta in crisi sotto il profilo sistematico la distinzione tra regole di validità e regole di comportamento: le prime, nell’insegnamen-

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to della dottrina, indicano gli elementi strutturali in presenza dei quali può parlarsi di contratto valido e idoneo a produrre i suoi effetti, e dunque governano la validità o invalidità del contratto; diversamente, le seconde, sono quelle che pongono norme di condotta a carico dei soggetti, e la loro violazione non può travolgere il contratto, ma viene sanzionata dall’ordinamento sotto il profilo della responsabilità (precontrattuale o contrattuale), da cui discende l’obbligo del risarcimento del danno e, ricorrendone i presupposti, la risoluzione del contratto per inadempimento. Le Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cass. s.u. 19-12-2007, n. 26724) hanno opportunamente ribadito, proprio a questo riguardo, che deve essere mantenuta ferma la tradizionale distinzione tra norme che regolano il comportamento dei contraenti e norme di validità del contratto: «la violazione delle prime, tanto nella fase prenegoziale quanto in quella attuativa del rapporto, ove non sia altrimenti stabilito dalla legge, genera responsabilità e può esser causa di risoluzione del contratto, ove si traduca in una forma di non corretto adempimento del generale dovere di protezione e degli specifici obblighi di prestazione gravanti sul contraente, ma non incide sulla genesi dell’atto negoziale, quanto meno nel senso che non è idonea a provocarne la nullità». L’orientamento in parola è ben sintetizzato da ultimo, in questi termini «in relazione alla nullità del contratto per contrarietà a norme imperative in difetto di espressa previsione in tal senso (c.d. “nullità virtuale”), deve trovare conferma la tradizionale impostazione secondo la quale, ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anch’esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti la quale può essere fonte di responsabilità. Ne consegue che, in tema di intermediazione finanziaria, la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario ... può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguenze risarcitorie, ove dette violazioni avvengano nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti (c.d. “contratto quadro”, il quale, per taluni aspetti, può essere accostato

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alla figura del mandato); può dar luogo, invece, a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del contratto suddetto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del “contratto quadro”; in ogni caso, deve escludersi che, mancando una esplicita previsione normativa, la violazione dei menzionati doveri di comportamento possa determinare, a norma dell’art. 1418, primo comma, cod. civ., la nullità del cosiddetto “contratto quadro” o dei singoli atti negoziali posti in essere in base ad esso». (Cass. 10-4-2014, n. 8462) Il principio è corretto ove riferito, come nelle decisioni della S.C., all’informazione resa nelle operazioni di intermediazione finanziaria e nei contratti di vendita di prodotti finanziari. Il cliente che non sia stato informato o adeguatamente informato potrà invocare per la violazione dell’obbligo di informazione nella fase che precede la conclusione del contratto, salvo che la legge non preveda altro rimedio, la responsabilità (precontrattuale) del professionista, responsabilità che secondo la più moderna impostazione può ben ricorrere anche nel caso in cui il contratto sia stato validamente stipulato. Diverso è poi il caso – cui pure hanno fatto riferimento le ricordate pronunce della Corte di cassazione – in cui le parti siano già legate da un precedente rapporto contrattuale (un contratto di prestazione di servizi di investimento, il c.d. contratto quadro, che si esegue di volta in volta con l’acquisto di titoli o azioni, su ordine del cliente), nel cui ambito il fornire l’informazione, sotto forma di vera e propria consulenza, costituisce prestazione oggetto di una delle obbligazioni contrattuali, che, se inadempiuta, potrà dar luogo alla risoluzione (come ribadisce Cass. 12-6-2015, n. 12262). La conseguenza della nullità dovrà essere semmai, si ritiene, espressamente prevista dalla legge come nel caso sopra citato della commercializzazione a distanza di servizi finanziari. Il principio di diritto così affermato, pur ovviamente assunto nella sua portata generale, non appare però idoneo ad escludere sempre altri rimedi alla violazione di obblighi di informazione quando essi si atteggino diversamente, e quando, più che il comportamento dovuto dal professionista (in buona sostanza una prestazione di consulenza ancorché in fase precontrattuale) rilevino invece i contenuti della informazione/comunicazione, destinati a definire il contenuto del contratto.

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Risalendo alla prima pronuncia che ha affrontato la questione, cui le successive e prima fra tutte quella a Sezioni Unite n. 26724/2007 si sono riannodate, è possibile forse fare chiarezza sulla posizione della Corte e sulle reali implicazioni del principio di diritto reso a proposito, si ribadisce, del tenore dell’art. 21 t.u.f. nella parte in cui pone a carico dell’intermediario obblighi di trasparenza e correttezza «La “contrarietà” a norme imperative, considerata dall’art. 1418, primo comma, c.c., quale “causa di nullità” del contratto, postula, che essa attenga ad elementi “intrinseci” della fattispecie negoziale, che riguardino, cioè, la struttura o il contenuto del contratto (art. 1418, secondo comma, c.c.). I comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattative o durante l’esecuzione del contratto rimangono estranei alla fattispecie negoziale e s’intende, allora, che la loro eventuale illegittimità, quale che sia la natura delle norme violate, non può dar luogo alla nullità del contratto ... a meno che tale incidenza non sia espressamente prevista dal legislatore. Né potrebbe sostenersi che l’inosservanza degli obblighi informativi sanciti dal citato art. 6 ([oggi art. 21 t.u.f.] impedendo al cliente di esprimere un consenso “libero e consapevole” avrebbe reso il contratto nullo sotto altro profilo, per la mancanza di uno dei requisiti “essenziali” (anzi di quello fondamentale) previsti dall’art. 1325 c.c. Invero, le informazioni che debbono essere preventivamente fornite dall’intermediario, a norma del citato articolo non riguardano direttamente la natura e l’oggetto del contratto, ma (soltanto) elementi utili per valutare la convenienza dell’operazione e non sono quindi idonee ad integrare l’ipotesi della mancanza di consenso». (Cass. 29-9-2005, n. 19024, cit.) Proprio il ragionamento della Corte – che espressamente distingue l’informazione consulenza dalla informazione che verta su elementi essenziali del contratto, e che abbiamo denominato informazione/comunicazione – consente insomma di ritenere che non vi sia una incompatibilità di principio tra violazione degli obblighi di informazione e caducazione del contratto: almeno quando ci si trovi di fronte ad obblighi di informazione che visibilmente si sporgono oltre la fase precontrattuale, anticipando e condizionando il contenuto dell’accordo.

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Posizione a cui sembra aprirsi la S.C. di recente quando puntualizza «Questa Corte ha già avuto occasione di osservare che le informazioni che debbono essere preventivamente fornite dall’intermediario (a norma della previgente L. n. 1 del 1991, art. 6, in materia di intermediazione mobiliare) “non riguardano direttamente la natura e l’oggetto del contratto, ma (soltanto) elementi utili per valutare la convenienza dell’operazione e non sono quindi idonee ad integrare l’ipotesi della mancanza di consenso” (Cass. n. 19024 del 2005). Ciò fa escludere non solo la nullità del contratto per mancanza di uno dei requisiti fondamentali previsti dall’art. 1325 c.c., qual è il consenso-accordo (come nell’ipotesi considerata nel precedente richiamato), ma anche, almeno in via di principio, la sua annullabilità per errore. Ciò di cui il ricorrente si duole, infatti, non è di avere acquistato un titolo diverso (o con caratteristiche diverse) da un altro, ma di avere acquistato un titolo che non ha avuto il positivo andamento sperato. L’eventuale inadempimento agli obblighi informativi può essere alla base di una valutazione errata da parte dell’investitore, le cui intenzioni o previsioni ed aspettative in ordine al risultato economico del contratto restano tuttavia confinate, di regola, nel campo dei motivi o delle soggettive valutazioni circa la convenienza economica dell’affare». (Cass. 19-10-2012, n. 18039) La mancata informazione su natura ed oggetto del contratto (IV, IV, 8) – e solo questa – potrebbe allora essere rilevante per escludere che si sia formato un valido accordo. Indicazioni interessanti del resto, come già ricordato, non mancano sul piano normativo, pur se si tratta sempre di conseguenze espressamente previste dalla legge. In conformità a quanto previsto nella dir. 2011/83, ai sensi dell’art. 49, co. 6, cod. cons., nel caso di contratti a distanza o negoziati fuori dei locali commerciali, se il professionista non adempie all’obbligo di informare il consumatore sulle spese aggiuntive o altri costi, in modo da rappresentargli per tempo il prezzo totale dei beni e servizi, «il consumatore non deve sostenere tali spese o costi aggiuntivi» (art. 49, co. 6, cod. cons.), il che è quanto dire che la clausola contrattuale sarà nulla. Se nel contratto a distanza da concludere con mezzi elettronici è previsto l’obbligo di pagare subito al momento dell’ordine, il professionista deve garantire che il consumatore riconosca espressamente che l’ordine implica l’obbligo di paga-

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re: e nel caso in cui tale prescrizione non sia rispettata, addirittura «il consumatore non è vincolato dal contratto o dall’ordine» (art. 51, co. 2), vale a dire, il contratto eventualmente concluso con il mezzo elettronico non sarà valido. Una conferma viene peraltro per implicito anche dalla regola particolare dettata a proposito di contratti bancari: il contratto concluso tra banca e cliente nel quale manchi l’indicazione del prezzo o di altre condizioni, ovvero essi siano previsti sulla base di clausole di mero rinvio agli usi e pertanto sulla base di clausole nulle, non potrebbe produrre tutti gli effetti che gli sono propri quando non sia possibile fare riferimento alle condizioni pubblicizzate, avendo la banca violato i suoi doveri di pubblicità (art. 117, co. 7, lett. b); la legge ne preserva invece gli effetti prevedendo l’applicazione del tasso di interesse con riferimento ai buoni del tesoro o altri titoli indicati dal Ministero dell’economia, ma per gli altri prezzi e condizioni, ove manchi la prescritta pubblicizzazione, prevede che «nulla sarà dovuto» dal cliente. Si profila in questi casi, più che una nullità-sanzione, una applicazione della regola (pur non scritta) secondo cui l’offerta del professionista, cui il consumatore aderisce, è quella comunicatagli a mezzo pubblicità, pubblicizzazione e comunque comunicazione prima del contratto. Mentre una offerta incompleta, e comunque non conforme nei contenuti alla legge, può ben configurare quel mancato raggiungimento dell’accordo cui la S.C. sembra alludere.

29. (Segue). L’informazione nell’offerta al pubblico di strumenti finanziari e il problema della “responsabilità da prospetto” Abbiamo già visto, a proposito di offerta al pubblico di strumenti finanziari, come la diffusione e la vendita agli investitori (siano essi piccoli risparmiatori o c.d. investitori istituzionali: IV, I, 5) possa avvenire secondo due modalità di “contatto” ma altresì di conclusione, poi, del contratto finale. C’è il canale per così dire consueto in cui l’intermediario entra in contatto con la clientela nell’ambito di una negoziazione su base individuale, normalmente all’interno di una prestazione di servizi di investimento cui, sulla base di un contratto-quadro, l’intermediario si è impegnato nei confronti del cliente e che comporta l’esecuzione da parte del prestatore (es. banca) di “ordini” di acquisto di titoli o altri strumenti finanziari, scelti dal cliente o suggeriti dal presta-

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tore del servizio. È questa la fattispecie richiamata dall’art. 1, co. 5, t.u.f. cui ci siamo riferiti esaminando gli obblighi di informazione a carico dell’intermediario, che trovano fonte nell’art. 21 t.u.f. e su cui si è sviluppato il dibattito sopra ricordato circa le conseguenze della violazione, da parte dell’intermediario, degli obblighi che la legge gli impone nella relazione contrattuale con il cliente. Ma c’è anche il canale alternativo, cui abbiamo fatto cenno sopra quando abbiamo menzionato, come figura di offerta pubblica ex art. 1336 c.c., l’offerta al pubblico di strumenti finanziari cui fa riferimento l’art. 94 t.u.f., imponendo in questo caso a chi intenda effettuare tali offerte di pubblicare preventivamente un documento a contenuto informativo, denominato prospetto (sopra, 6). Il prospetto d’offerta, menzionato nell’art. 94 t.u.f., o prospetto informativo (previsto e definito nei contenuti base e nelle finalità già dall’art. 3 della dir. 80/390/CEE) come chiamato comunemente, è dunque un documento (o può anche consistere in documenti distinti) a contenuto e finalità di informazione, da redigere con i contenuti e le forme previste dalla legge, in conformità agli schemi previsti dai regolamenti comunitari in materia, e da sottoporre all’approvazione della Consob prima della pubblicazione; esso, come precisa l’art. 94, co. 2, t.u.f., contiene, in forma «facilmente analizzabile e comprensibile tutte le informazioni che, a seconda delle caratteristiche dell’emittente e dei prodotti finanziari offerti, sono necessarie affinché gli investitori possano pervenire ad un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell’emittente e degli eventuali garanti, nonché sui prodotti finanziari e sui relativi diritti». Al prospetto dovrà accompagnarsi una nota di sintesi che contenga e riepiloghi le informazioni chiave; e il formato e il contenuto della nota di sintesi devono fornire, unitamente al prospetto, informazioni adeguate circa le caratteristiche fondamentali dei prodotti finanziari «che aiutino gli investitori al momento di valutare se investire in tali prodotti» (co. 2, corsivo nostro). I contenuti dell’informazione sono qui, come del resto nella negoziazione individuale, quelli che abbiamo denominato propri di una informazione-consulenza: all’investitore non interessa solo o principalmente conoscere le condizioni dell’offerta (scadenza, modalità di determinazione del prezzo, ecc.) ma avere tutti gli elementi di conoscenza sullo stato del soggetto emittente (di cui andrà ad acquistare ad esempio

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azioni o obbligazioni) oltre che dei diritti che sono legati ai prodotti finanziari acquistati, alla loro circolazione, ecc. Ovviamente si tratterà in questo caso, a differenza che nella negoziazione individuale, di una informazione “spersonalizzata”, la cui efficacia rimane pertanto affidata alla completezza, chiarezza e veridicità dei contenuti del prospetto (per questo da sottoporre all’approvazione della Consob) o degli eventuali aggiornamenti dovuti a fronte di fatti nuovi significativi. Dà conto efficacemente della differenza, anche da questo profilo, la S.C. «Il t.u.f. individua quindi la nozione di “sollecitazione all’investimento” e la distingue da quella, contenuta nell’art. 1, comma 5, del t.u.f., riguardante i “servizi di investimento”, tra i quali è compresa l’attività di “negoziazione” (per conto proprio o di terzi) e di “ricezione e trasmissione di ordini”. La distinzione tra le due figure si percepisce chiaramente se si guarda al contenuto e, soprattutto, ai destinatari della “sollecitazione all’investimento”, che è quella rivolta, secondo lo schema dell’art. 1336 c.c., ad un numero indeterminato ed indistinto di investitori in modo uniforme e standardizzato, cioè a condizioni di tempo e prezzo predeterminati. Quando l’offerta assuma queste caratteristiche, sussiste l’obbligo di pubblicazione, sia nel caso di accordo in tal senso tra l’emittente e l’intermediario (nell’ambito del c.d. servizio di collocamento), sia nel caso in cui l’intermediario, seppur in ipotesi violando le condizioni di circolazione poste dall’emittente (o dai partecipanti al consorzio di collocamento), realizzi, di fatto, un’attività promozionale di offerta, volta ad indurre la clientela retail [al dettaglio, n.d.a.] all’acquisto dei titoli mediante la formulazione di proposte standardizzate, ai fini della conclusione di transazioni non “negoziate” con i clienti (operazione questa che, anche secondo la Consob, presenta i connotati dell’offerta al pubblico: v. Comunicazione n. DAL/97006042 del 9 luglio 1997). In altri termini, la diffusione di strumenti finanziari presso il pubblico non implica necessariamente il ricorso a modalità sollecitatorie, potendo i titoli raggiungere la clientela attraverso la prestazione di servizi di investimento, cioè attività di negoziazione, ricezione e trasmissione di ordini, a condizioni diverse a seconda dell’acquirente e del momento in cui l’operazione è eseguita. La tutela del cliente è qui affidata, non già ad uno stereotipato prospetto informativo, ma all’adempimento, da parte dell’inter-

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mediario, di obblighi informativi specifici e personalizzati, ai sensi degli artt. 21 del t.u.f. e 26 ss. del reg. Consob n. 11522 del 1998». (Cass. 19-10-2012, n. 18039, cit.) La rilevanza assegnata al prospetto informativo dalla legge si coglie bene considerando la particolare prescrizione di cui all’art. 100-bis del t.u.f., co. 2 e le conseguenze della eventuale violazione. Ai fini dell’obbligo di informazione la legge equipara qui all’offerta al pubblico anche il collocamento presso “investitori non istituzionali”, dunque in sintesi risparmiatori e non operatori del mercato finanziario, di prodotti che gli investitori istituzionali abbiano acquistato e poi rivendano entro i dodici mesi successivi. Al risparmiatore il titolo dunque non viene proposto a mezzo offerta al pubblico ma a mezzo di negoziazione individuale; tuttavia, l’essere stato il prodotto finanziario preventivamente acquistato dall’intermediario per una rapida ricollocazione sul mercato (entro i dodici mesi) rende l’operazione in qualche modo sospetta, potenzialmente elusiva proprio dell’obbligo di informazione “controllata” come quella da prospetto. Dovrà dunque essere rispettato anche in questo caso l’obbligo di preventiva pubblicazione del prospetto informativo e se, in violazione di quanto previsto dalla legge, il prospetto non viene pubblicato, il contratto in cui l’acquirente sia non solo investitore non istituzionale ma altresì acquirente che «agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale» (potremmo dire risparmiatore/consumatore, IV, I, 5) sarà nullo e il consumatore avrà diritto anche al risarcimento dei danni (art. 100-bis, co. 2 e 5, t.u.f.). Il prospetto informativo diviene qui, per espressa previsione di legge, componente essenziale dell’offerta del prodotto finanziario. Fuori da questa ipotesi è tornata a presentarsi la questione delle conseguenze di una informazione fornita nel prospetto che risulti carente, ambigua, ingannevole o semplicemente fuorviante, sì da comportare danni per l’investitore. Si pone qui il problema della individuazione dei rimedi, ma altresì dei soggetti da ritenere responsabili. Il prospetto informativo, infatti, a differenza della informazione che precede la negoziazione individuale, non si colloca entro una concreta relazione (pre)contrattuale tra intermediario e investitore, e potrebbe chiamare in causa diversi soggetti. Deve ricordarsi invero che nelle operazioni di cui parliamo sono coinvolti più soggetti: l’emittente cioè il soggetto che emette il titolo, sia

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esso uno Stato che emette, appunto, titoli di Stato, una società che colloca proprie azioni o obbligazioni, ecc.: «una persona giuridica che emette o si proponga di emettere strumenti finanziari», secondo la definizione di cui all’art. 2, co. 1, lett. h) direttiva prospetti 2003/71/CE. L’offerente non coincide necessariamente con l’emittente, ma è chi cura il collocamento del prodotto finanziario sul mercato mediante l’offerta: è qualsiasi «persona fisica o giuridica che offra al pubblico strumenti finanziari» (art. 2, co. 1, lett. i), direttiva prospetti). Il responsabile delle informazioni contenute nel prospetto di norma è un soggetto che opera in seno all’emittente; non si deve però necessariamente trattare del rappresentante dell’emittente (tipicamente il presidente del consiglio di amministrazione o l’amministratore delegato); può anche essere un dipendente (ad esempio il direttore finanziario); può essere anche un consulente, ad esempio uno studio legale. A tutti questi soggetti fa ora espresso riferimento l’art. 94, co. 8, t.u.f., nel testo riformulato con il d.lgs. n. 51/2007. Tutti questi soggetti (emittente, offerente ed eventuale garante e persone responsabili delle informazioni contenute nel prospetto), rispondono, ciascuno in relazione alle parti di propria competenza, dei danni subiti dall’investitore che abbia fatto ragionevole affidamento sulla veridicità e completezza delle informazioni contenute nel prospetto, a meno che non provino di avere adottato ogni diligenza allo scopo di assicurare che le informazioni in questione fossero conformi ai fatti e non presentassero omissioni tali da alterarne il senso. Il co. 9 del medesimo articolo fa altresì riferimento alla responsabilità dell’intermediario responsabile del collocamento (ad esempio la banca dove vado in concreto ad acquistare il titolo collocato a mezzo offerta al pubblico), per informazioni false o per omissioni idonee ad influenzare le decisioni di un investitore ragionevole (salva sempre la prova liberatoria della diligenza professionale): il riferimento non sembra qui al contenuto del prospetto ma alle informazioni rese comunque nell’ambito e in vista di quella operazione. Le azioni risarcitorie previste vanno esercitate nel termine di cinque anni dalla pubblicazione del prospetto ovvero entro due anni dalla scoperta della falsità delle informazioni o delle omissioni (art. 94, co. 11). Il termine quinquennale si ritiene confermi la natura extracontrattuale della responsabilità. In questo senso si era del resto pronunciata la S.C. anche prima della espressa previsione della regola di responsabilità: si era osservato, invero, che nel caso di specie non fosse utile e conferente

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il richiamo alla responsabilità ex artt. 1337 e 1338, disciplina collegata a situazioni in cui sia configurabile una trattativa tra le parti, trattativa del tutto assente nel caso di offerte pubbliche di acquisto. Osservava la Corte «Naturalmente nulla vieta di ricondurre la violazione dell’obbligo di (corretta) redazione del prospetto ad una più ampia nozione di responsabilità precontrattuale, ove per ciò s’intenda qualsiasi responsabilità derivante da comportamenti antigiuridici posti in essere nella fase che precede il perfezionamento di un rapporto contrattuale; ma resta il fatto che si tratta di un obbligo diverso da quello cui più specificamente allude il citato art. 1337, al cui disposto, pertanto, è lecito far riferimento, in situazioni come quella in esame, solo nella misura in cui si rinviene in esso un’applicazione del generale dovere di buona fede, che senza alcun dubbio deve improntare anche il comportamento di chi propone un’offerta pubblica di vendita di strumenti finanziari sul mercato. Ove, quindi, vi sia stata violazione delle regole destinate a disciplinare il prospetto informativo che correda l’offerta, trattandosi di regole volte a tutelare un insieme ancora indeterminato di soggetti per consentire a ciascuno di essi la corretta percezione dei dati occorrenti al compimento di scelte consapevoli, si configura un’ipotesi di violazione del dovere di neminem laedere e, per ciò stesso, la possibilità che colui al quale tale violazione è imputabile sia chiamato a rispondere del danno da altri subito a cagione della violazione medesima secondo i principi della responsabilità aquiliana. È poi appena il caso di aggiungere che, in applicazione di detti principi, la responsabilità in questione è imputabile all’agente non solo qualora egli abbia operato con dolo, ma anche se la violazione delle regole disciplinanti il prospetto d’offerta sia frutto di colpa, essendo stato esso compilato con negligenza o imperizia in modo difforme dal dovuto. ... La responsabilità di cui s’è appena detto non è esclusa dal fatto che il contratto di sottoscrizione delle azioni offerte pubblicamente in vendita o in sottoscrizione sia stato comunque concluso e che, pertanto, le azioni siano state comprate o sottoscritte dal destinatario dell’offerta male informato dal prospetto non correttamente redatto».

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Quanto ai danni subiti dal sottoscrittore di azioni offerte in base ad un prospetto infedele al vero, deve ovviamente sussistere un nesso di causalità tra tali danni e l’infedeltà del prospetto. Prosegue la Corte «A tal riguardo è bene chiarire che, se il comportamento antigiuridico da cui la responsabilità trae origine consiste nell’aver fornito al sottoscrittore dei titoli un’informazione insufficiente o fuorviante circa il valore patrimoniale o la redditività dei titoli stessi, il danno di cui si discute, da ragguagliare al minor vantaggio o al maggior aggravio economico determinato da tale comportamento scorretto ..., è quello prodotto appunto dall’aver acquistato beni aventi un valore diverso ed inferiore rispetto a quanto le informazioni ricevute dall’acquirente avrebbero fatto ragionevolmente supporre: cioè di aver acquistato ad un prezzo che dichiaratamente presupponeva un determinato valore, risultato poi invece inferiore. Se il legislatore prescrive che il prezzo al quale la domanda e l’offerta s’incontrano sul mercato sia determinato in base ad un complesso di informazioni che debbono essere correttamente fornite dall’offerente al mercato stesso, l’alterazione del prezzo conseguente alla non correttezza di tali informazioni e la circostanza che, di conseguenza, l’incontro tra l’offerta e la domanda sia avvenuta ad un livello di prezzo diverso da quello che prevedibilmente si sarebbe avuto in caso di informazione corretta, integra di per sé un danno ingiusto per l’aderente alla sollecitazione (non diversamente – se può azzardarsi un paragone – da quel che accadrebbe se chi acquista ad un determinato prezzo una scatola sigillata, sulla cui etichetta è indicato il contenuto di un litro di latte, scoprisse poi che di latte nella scatola ce n’è solo mezzo litro). Invece, le vicende dei titoli successive al loro acquisto non sono di per sé produttive di un danno riconducibile al fatto illecito di cui si discute. L’andamento di borsa dei titoli quotati, sia nell’immediato sia nel lungo periodo, è notoriamente influenzato da una assai variegata quantità di fattori. Ovviamente, si può trarre anche da esso argomento per desumere quale fosse l’effettivo valore delle azioni all’atto della loro originaria sottoscrizione e come la scorretta rappresentazione contenuta nel prospetto abbia deformato tale valore ai fini della determinazione del prezzo d’acquisto; ma non per affermare, sic et simpliciter, che la perdita derivante dal successivo azzeramento del capitale sociale sia imputabile all’illecito comportamento di cui si sta parlando, perché non è affatto detto che l’a-

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ndamento negativo della società dipenda dall’inesattezza delle informazioni rese nel prospetto. Allo stesso modo, però, non può aver rilievo – non comunque per escludere in radice l’esistenza del danno – la circostanza ... che nel periodo immediatamente successivo all’emissione [i titoli] conservarono o addirittura migliorarono la loro quotazione di borsa. Per poterne arguire che la non veridicità dei dati riportati nel prospetto è stata in concreto ininfluente sul valore dei titoli in questione, occorrerebbe affermare – ma non lo si fa – che il favorevole andamento degli stessi titoli in borsa è continuato pur dopo che la falsità di quei dati è stata resa nota al mercato». Non può addossarsi peraltro all’investitore che si assume danneggiato la prova negativa circa eventuali circostanze diverse dalla non veridicità del prospetto che abbiano potuto influenzare il suo acquisto «È lo stesso sistema disegnato dal legislatore per disciplinare le sollecitazioni al pubblico risparmio, incentrato sul prospetto informativo come documento senza il quale la sollecitazione non può aver luogo e corredato da un regime di controlli pubblici vertenti anche su tale documento, che necessariamente induce ad assegnare al prospetto una funzione centrale nell’informazione dovuta agli investitori cui la sollecitazione è rivolta: tale per cui la non veridicità del prospetto, a meno che non riguardi aspetti del tutto secondari e di per sé poco influenti, naturalmente implica vi sia stata un’indebita distorsione nella scelta che il destinatario dell’offerta è stato indotto a compiere. Può ammettersi che, in presenza di inesattezze del prospetto limitate e marginali, la loro incidenza risulti in concreto talmente modesta da non essere apprezzabile; ma al di fuori di una tale ipotesi – che la motivazione dell’impugnata sentenza non sembra configurare nel caso esaminato – la non veridicità del prospetto non può non generare la presunzione di rilevanza della distorsione informativa sulle scelte dell’investitore, al quale non può esser perciò imposto l’ulteriore onere della prova negativa di eventuali diversi fattori dai quali dette scelte sarebbero state determinate». (Cass. 11-6-2010, n. 14056)

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30. La trasparenza contrattuale e la determinazione legale del contenuto del contratto Si è già detto che la legge impone al professionista di riportare, nel contratto o nella conferma del contratto concluso a distanza, l’indicazione degli elementi principali attraverso cui si definisce il contenuto del contratto – caratteristiche principali dei beni o servizi, corrispettivo (prezzo totale comprensivo di imposte ed eventuali spese di spedizione o consegna oppure, se non calcolabili in anticipo, i criteri di calcolo), modalità di pagamento, identità del professionista, durata del contratto e, se ammesso, diritto di recesso, ecc. – già forniti in sede di informazione. In alcuni casi la previsione rimanda abbastanza agevolmente alla regola generale secondo cui il contratto deve contenere gli elementi essenziali, a pena di nullità (art. 1325 c.c.). Tali sono quelli indicati dal co. 8 dell’art. 125-bis t.u.b. ai sensi del quale il contratto di credito ai consumatori è nullo se non contiene le informazioni essenziali di cui al co. 1 su tipo di contratto, parti del contratto, importo totale del finanziamento e condizioni di prelievo e di rimborso. Non sempre la corrispondenza è immediata, nel senso che le informazioni da fornire al consumatore prima della nascita del vincolo contrattuale, da ripetere nel contratto, comprendono talora anche clausole concernenti diritti ed obblighi delle parti che non possono dirsi propriamente costituire il nucleo centrale che ne costituisce l’oggetto (IV, IV, 8). Di “requisiti del contratto” parla a questo riguardo l’art. 72 cod. cons. per la multiproprietà, riferendosi anche alle informazioni precontrattuali di cui all’art. 71, co. 1, come elencate nei formulari informativi che devono essere consegnati al consumatore, che devono essere di nuovo riportate nel contratto scritto; agli «elementi del contratto di vendita di pacchetti turistici» fa riferimento l’art. 36 cod tur. Nel contratto a distanza la conferma, che il professionista deve fornire al consumatore su un mezzo durevole entro un termine ragionevole dalla conclusione del contratto (o al più tardi al momento della consegna dei beni o prima che abbia inizio l’esecuzione del servizio) deve comprendere tutte le informazioni già fornite, a meno che esse non siano state già fornite su supporto durevole (art. 51, co. 7, lett. a), cod. cons.) e norma analoga è prevista per i contratti negoziati fuori dei locali commerciali (art. 50, co. 4, lett. b). Negli ultimi due casi, con formula ambigua che ricomprende anche altre prescrizioni circa le modalità di comunicazione tra le parti, la legge parla di “requisiti formali”. Esportando fuori dell’ambito proprio dei contratti disciplinati da

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norme di fonte europea tale tecnica di regolazione, il nostro legislatore parla più correttamente di “contenuto del contratto” a proposito degli elementi che debbono essere previsti nel preliminare o altro contratto per la vendita di immobili da costruire (art. 6, d.lgs. n. 122/2005). Queste disposizioni possono essere prese in considerazione da un duplice profilo. Per un verso, esse si iscrivono a pieno titolo entro il capitolo degli obblighi di informazione a carico del professionista e supportano il controllo circa il corretto adempimento di questi. Si tratta infatti, in generale, e in coerenza con l’obiettivo di trasparenza, di prescrizioni che, ferma restando almeno dal profilo qui considerato la libertà del professionista di determinare le condizioni economiche del contratto e i diritti ed obblighi delle parti, impongono invece l’analitica indicazione nel contratto scritto o comunque nella comunicazione tra contraenti all’atto della stipula degli elementi significativi del regolamento contrattuale, onde non lasciare zone d’ombra alla comprensione del consumatore e alla fase di esecuzione del contratto. Quando detta le regole che impongono gli elementi da indicare nel testo contrattuale il legislatore non si preoccupa di quali debbano essere il prezzo o i servizi offerti nella multiproprietà, o la tipologia di viaggio e alloggio fornita nel pacchetto turistico o le condizioni dell’operazione contrattuale; vuole però che tali elementi, così come proposti dal professionista e accettati dal consumatore nell’ambito delle loro scelte contrattuali, essendo elementi destinati a regolare il loro rapporto, siano chiaramente illustrati nel testo contrattuale, a beneficio della trasparenza del contratto e della riduzione del possibile contenzioso in sede di interpretazione ed esecuzione. Tali prescrizioni al contempo irrigidiscono entro schemi in qualche modo preconfezionati dalla legge il modo di porgere al consumatore il contenuto del contratto. Il che spiega perché, con il conforto di qualche pur incauto suggerimento della legge (quando parla di “requisiti formali”), si possono per altro verso bene ascrivere tali regole anche a quello che, come vedremo, si denomina “neoformalismo” (IV, V, 5) proprio per indicare un uso di prescrizioni e “formalità” diverse dal vero e proprio vincolo di forma del contratto e tuttavia finalizzate comunque a renderne certo il contenuto; che in dottrina si denominano, infatti, prescrizioni di forma-contenuto. In molti casi però, attraverso tecniche che azzerano il confine tra ciò che è informazione e ciò che è contenuto del contratto, il legislatore mentre individua in modo analitico i contenuti dell’informazione in realtà arricchisce i contenuti di ciò che deve intendersi come “oggetto” del contratto, quale requisito di va-

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lidità ex art. 1325 (e vedi quanto detto sopra, 26, a proposito dell’art. 49, co. 6, cod. cons.).

31. Formazione progressiva del contratto a tutela del consumatore Si è già più volte menzionato il diritto di recesso che accompagna la disciplina di taluni contratti di consumo – in ragione delle particolari modalità “veloci” di conclusione o della complessità dei contenuti – volto a consentire al consumatore un periodo di riflessione e un possibile “pentimento”. Vedremo a suo tempo (VI, 9) che il rimedio si configura nella legge come strumento che consente al consumatore di liberarsi di un vincolo già nato; sicché, malgrado il tentativo di parte della dottrina di considerarlo quale fase di un procedimento di formazione del contratto – formazione destinata a concludersi solo a seguito dello spirare del periodo concesso al consumatore senza che egli eserciti tale diritto – appare più coerente con i dati normativi collocare il recesso tra gli strumenti attraverso cui si consente alle parti o ad una parte (qui il solo consumatore) di “governare” gli effetti del contratto, facendoli venire meno. Il diritto di recesso – che il consumatore può esercitare liberamente, senza dover addurre alcuna giustificazione e senza oneri a suo carico – introduce comunque in questi contratti quella che potremmo chiamare una inedita flessibilità del vincolo contrattuale, a beneficio di una sola parte: sicché a ragione, al di là del modo in cui si atteggia tale congegno rimediale, può rintracciarsi qui l’intenzione del legislatore (europeo prima che interno) di “graduare” la definitività del vincolo assunto dal consumatore, consentendogli appunto spazi di ripensamento. Questo obiettivo viene però raggiunto talora anche imponendo per legge una scansione temporale all’assunzione del vincolo, sì da realizzare un’asimmetria nella nascita del vincolo a carico dell’una e dell’altra parte. Si prospetta cioè una formazione progressiva del contratto, connotata da vincoli preliminari e preparatori, come quella cui abbiamo fatto sopra cenno, ma questa volta non in conseguenza di una libera autolimitazione della libertà di contrarre della parte bensì per volontà della legge. Abbiamo ricordato, a proposito della disciplina dei contratti conclusi a distanza, la singolarità e le implicazioni di una previsione come

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quella di cui al co. 6 dell’art. 51 cod. cons. in forza della quale: «quando un contratto a distanza deve essere concluso per telefono, il professionista deve confermare l’offerta al consumatore, il quale è vincolato solo dopo aver firmato l’offerta o dopo averla accettata per iscritto». L’imposizione di un vincolo di forma “asimmetrico”, riferito non all’intero contratto ma alla sola accettazione del consumatore, e previsto ai fini della validità di questa (il consumatore non può dirsi vincolato prima che abbia sottoscritto l’accettazione), sposta in avanti il momento della conclusione del contratto rispetto alla modalità consueta di conclusione al momento della interlocuzione a distanza tra le parti, ma al contempo separa il momento in cui potrà dirsi vincolato il consumatore da quello in cui deve invece ritenersi vincolato il professionista, che è e rimane quello della comunicazione a distanza. La volontà in questo modo manifestata dal professionista si configura in definitiva quale proposta, irrevocabile, che attende di completarsi con l’accettazione scritta del consumatore. L’art. 120 novies, co. 3, t.u.b., ripropone ora, nei contratti di credito immobiliare, una analoga scansione con una disposizione più chiara: “prima della conclusione del contratto di credito, il consumatore ha diritto ad un periodo di riflessione di almeno sette giorni per confrontare le diverse offerte di credito sul mercato, valutarne le implicazioni e prendere una decisione informata. Durante il periodo di riflessione, l’offerta è vincolante per il fornitore e il consumatore può accettare l’offerta in qualunque momento”. La complessità dell’operazione economica e del rapporto contrattuale che andrà ad instaurarsi tra le parti – mutuo con garanzia immobiliare – sconsiglia di seguire la consueta scelta di collocare in fase successiva alla stipula un periodo di ponderazione a beneficio del consumatore. Il legislatore europeo fa tesoro dei concreti problemi applicativi sollevati proprio dall’uso del diritto di recesso in questa tipologia di contratti e del lontano avvertimento della Corte europea di giustizia (vedi la nota sentenza Schulte, Corte giust. 25-102005, causa 350/03, a proposito di un contratto di mutuo stipulato fuori dei locali commerciali e perciò accompagnato da diritto di recesso) che invitava quanto meno gli Stati membri a prevedere misure compensative per il consumatore il quale, recedendo per esempio proprio allo scadere del tempo consentito a causa della mancata informazione ricevuta dalla banca sulla possibilità di esercitare tale diritto, rimanesse esposto ai gravosi oneri di restituzione alla banca sia delle somme rice-

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vute sia degli interessi nel frattempo maturati: «la direttiva fa obbligo agli Stati membri di adottare misure idonee per evitare al consumatore di sostenere le conseguenze del verificarsi di tali rischi. Gli Stati membri devono quindi garantire che, in situazioni di tal genere, la banca che non ha rispettato l’obbligo di informazione sopporti le conseguenze del verificarsi dei detti rischi al fine di rispettare l’obbligo di tutela dei consumatori». La necessità di assicurare al consumatore un margine di riflessione per comprendere appieno a cosa sta per vincolarsi suggerisce dunque il ricorso a un meccanismo di formazione progressiva del contratto (sopra, 13) affidato al regime proprio della proposta irrevocabile (sopra, 2). Quella del finanziatore è, per legge, proposta irrevocabile seppure con efficacia limitata ad un brevissimo periodo di tempo.

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III.

LA SERIETÀ DELL’ACCORDO E LA PROTEZIONE DELLA VOLONTÀ 1. Il contratto come espressione di un consenso pieno e consapevole Perché il contratto sia concluso e produttivo di effetti occorre che sia rintracciabile, innanzitutto, il requisito dell’accordo (ex art. 1325 n. 1), cioè l’incontro di due o più volontà validamente espresse. Se manca l’accordo il contratto sarà nullo, per mancanza di uno dei suoi requisiti essenziali, come previsto dall’art. 1418, co. 2. A differenza degli altri casi di nullità per mancanza di uno dei requisiti – la mancanza della causa, o dell’oggetto o della forma ad substantiam – la mancanza di accordo (si badi la mancanza e non l’illiceità dell’accordo) renderebbe addirittura irrintracciabile un vero e proprio contratto: e non a caso la dottrina si è tradizionalmente impegnata al riguardo nella distinzione tra inesistenza e nullità del contratto, pur se le conseguenze nei due casi non cambiano. Chiariva una lontana pronuncia della S.C., proprio per rimarcare la differenza tra una volontà viziata (da errore, violenza, dolo) ed una volontà non formatasi, «L’ipotesi di inesistenza de “l’accordo” – inteso quest’ultimo nei sensi degli articoli 1321 e 1325 n. 1 cod. civ. – si verifica quando, indipendentemente da qualsiasi accidentale eziologia psicologica, sia impossibile la giuridica identificazione di una, sia pure minima o persino invalida, espressione della combinata autonomia negoziale delle parti, – in altri termini, quando non si possa, con i sensori del diritto positivo, percepire l’avvenuta concretizzazione di una loro “volontà comune” che, sorretta da “comune intenzione” (art. 1362, comma 1), abbia “forza di legge” tra le medesime (art. 1372, comma 1)». (Cass. 22-3-1993, n. 3378)

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Più agevole è discorrere di mancanza di accordo di fronte ad un accordo in fieri, non ancora compiutamente perfezionatosi, come nei casi visti sopra in cui le parti abbiamo coltivato trattative e via via definito alcuni punti o addirittura tutti gli elementi del contratto, e tuttavia non sia rintracciabile la loro volontà di vincolarsi definitivamente. La volontà negoziale, per dar vita ad un valido accordo, deve essere espressa dal soggetto che abbia la capacità di compiere atti giuridici, cioè la capacità di agire, e deve essersi formata liberamente e senza condizionamenti di sorta. La disciplina dei vizi della volontà – errore, violenza e dolo – interviene ad assicurare tale libertà e spontaneità, consentendo come diremo alla parte che abbia prestato il suo consenso a seguito di errore, violenza o dolo (come alla parte incapace di agire) di chiedere l’annullamento del contratto (VII, 11).

2. La simulazione Il fenomeno della simulazione certamente non rientra nei casi di alterazione del libero processo di formazione della volontà contrattuale e le regole in materia dettate dagli artt. 1414 ss. c.c. non possono farsi rientrare tra quelle rivolte a proteggere la volontà contrattuale. D’altra parte, per le ragioni che tra poco saranno chiare, non sarebbe pienamente corretto assimilare del tutto il contratto simulato al contratto nullo: non per caso l’art. 1414, co. 1, c.c., preferisce non evocare la nullità quando dispone che «il contratto simulato non produce effetto tra le parti». Il contratto simulato è il frutto di un reale accordo delle parti, che vogliono tuttavia far apparire una volontà diversa da quella effettiva: esse stipulano effettivamente il contratto simulato ma non ne vogliono gli effetti e pertanto consegnano la loro vera volontà ad un altro accordo, l’accordo simulatorio. L’accordo simulatorio svelerà la loro effettiva volontà, che potrà essere rivolta semplicemente ad escludere tra di esse gli effetti del contratto simulato ovvero a instaurare tra di esse un diverso vincolo contrattuale, un contratto diverso o quello stesso contratto (simulato) ma a condizioni diverse o con diversi elementi. Nel primo caso si avrà una simulazione assoluta: A vende a B un proprio bene con un contratto simulato, ma con l’accordo simulatorio le parti convengono che nessun contratto si intende tra di esse intercorso, che esse non vogliono gli effetti della vendita simulata e dunque nessuno

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spostamento patrimoniale. Nel secondo caso, avremo una simulazione relativa, poiché l’accordo simulatorio disvela che le parti hanno sì voluto concludere un contratto ma un contratto diverso da quello simulato o a condizioni diverse: frequente il caso in cui le parti accompagnino al contratto di compravendita una controdichiarazione nella quale convengono un prezzo diverso (più alto) di quello dichiarato nel contratto (contratto simulato quanto al prezzo), sicché la simulazione relativa disvelerà che la simulazione attiene non al tipo contrattuale e alla sua causa ma alla misura del corrispettivo. L’accordo simulatorio potrebbe invece chiarire che nessun prezzo dovrà essere pagato, così disvelando che le parti hanno inteso stipulare un contratto diverso da quello simulato, e cioè una donazione invece che una vendita. L’accordo, ancora, potrà disvelare una divergenza sotto il profilo soggettivo rispetto al contratto simulato. Siamo infatti sempre di fronte al fenomeno della simulazione quando le parti si accordano affinché gli effetti del contratto ricadano in apparenza nella sfera giuridica di un soggetto diverso: si allude alla interposizione fittizia di persona. La simulazione (in questo caso simulazione soggettiva) consiste nel far apparire che diritti ed obblighi contrattuali nei confronti di A siano assunti non da B (c.d. interponente) come in effetti è, ma da X soggetto terzo (interposto) che appare come parte contraente. L’acquisto da A (venditore) di un bene figura in capo a X (interposto) mentre vero acquirente, secondo l’accordo o gli accordi dissimulati sottostanti, è B. In questi casi, come opportunamente ricorda la S.C., l’accordo simulatorio ha natura trilatera, dovendo necessariamente avervi aderito il terzo. Se mancasse tale adesione del terzo all’accordo simulatorio, gli effetti del contratto rimarrebbero in capo all’interposto e si avrebbe una interposizione reale, vale a dire la conclusione di un contratto tramite rappresentanza diretta o indiretta. E invero «l’interposizione fittizia di persona postula la imprescindibile partecipazione all’accordo simulatorio non solo del soggetto interponente e di quello interposto, ma anche del terzo contraente, chiamato ad esprimere la propria adesione all’intesa raggiunta dai primi due (contestualmente od anche successivamente alla formazione dell’accordo simulatorio) onde manifestare la volontà di assumere diritti ed obblighi contrattuali direttamente nei confronti dell’interponente, secondo un meccanismo effettuale analogo a quello previsto per la rappresentanza diretta, mentre la mancata co-

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noscenza, da parte di detto terzo, degli accordi intercorsi tra interponente ed interposto (ovvero la mancata adesione ad essi, pur se da lui conosciuti) integra gli estremi della diversa fattispecie dell’interposizione reale di persona». (Cass. 10-3-2015, n. 4738)

«Poiché nella simulazione fittizia l’interposto figura soltanto come acquirente, mentre gli effetti del negozio si producono a favore dell’interponente, ricorre un’ipotesi di interposizione reale nel caso in cui non vi sia un accordo simulatorio o perché interponente ed interposto vogliono veramente far ricadere nella sfera giuridica dell’interposto gli effetti del contratto stipulato col terzo o perché è proprio il terzo a rifiutare la proposta dell’interponente ed a pretendere ed ottenere di contrattare in via diretta con un altro soggetto interposto». (Cass. 10-4-2013, n. 8682) Si parla talora indifferentemente di accordo simulatorio o controdichiarazione. Ma quando ci si riferisce a quest’ultima si intende indicare l’atto scritto nel quale viene versato l’accordo simulatorio: atto scritto che la legge richiede per la prova della simulazione tra le parti, che può essere anche atto proveniente da una sola parte, fermo restando l’accordo simulatorio desumibile ad esempio invece dal comportamento delle parti. La controdichiarazione, precisa la S.C., non deve essere necessariamente coeva all’atto simulato, ma può essere anche addirittura posteriore oltre che anteriore: alla controdichiarazione viene infatti attribuita la natura di “atto di accertamento o di riconoscimento” della simulazione, non avente carattere negoziale. «In tema di contratto simulato, la cosiddetta controdichiarazione costituisce atto di riconoscimento o di accertamento della simulazione, e non atto richiesto ad substantiam per l’esistenza dell’accordo simulatorio, di modo che, mentre è necessario, per l’esistenza della simulazione che l’accordo simulatorio sia coevo all’atto simulato e vi partecipino tutte le parti contraenti, nulla impedisce, viceversa, che la controdichiarazione sia posteriore a tale atto e provenga da una sola delle parti, dalla parte, cioè,

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contro il cui interesse è redatta, purché sia consegnata alle altre parti che hanno redatto l’atto simulato». (Cass. 4-5-1998, n. 4410) Ovviamente, ribadisce la S.C. anche di recente «per potersi attribuire alla controdichiarazione unilaterale il significato e gli effetti di riconoscimento della simulazione è necessario che questa provenga dalla parte contro il cui interesse è redatta, da quella parte, cioè, che trae vantaggio dall’atto simulato mentre assume, con la controdichiarazione, obblighi diversi e maggiori di quelli che gli derivano dall’atto contro cui questa è redatta». (Cass. 30-1-2013, n. 2203) In materia di simulazione relativa, però, la prova dell’accordo simulatorio si traduce nella dimostrazione del negozio dissimulato, e dunque innanzitutto è necessario dimostrare che in merito a tale contratto dissimulato si sia formato il consenso di entrambe le parti. La volontà di una sola parte di vincolarsi ad un contratto diverso da quello apparente rimarrebbe nella sola sfera intima di questa, integrando la diversa ipotesi della riserva mentale, cui l’ordinamento non riconnette alcuna conseguenza sulla validità ed efficacia del contratto: «proprio perché si verte in ipotesi di simulazione relativa, è necessario che le parti contrattuali non solo non vogliano il contratto simulato, ma anche che le stesse vogliano il contratto dissimulato ... È infatti nella struttura della simulazione relativa, che il contratto dissimulato sia voluto da entrambe le parti. Se una sola delle parti (nella specie il locatario) vuole un contratto diverso da quello apparente (mentre l’altra vuole solo il contratto apparente), non si versa più in ipotesi di simulazione, ma in ipotesi di irrilevante riserva mentale». (Cass. 17-1-2003, n. 614) Quanto alla forma, quando si tratta di simulazione relativa e per il contratto dissimulato sia richiesta la forma scritta ad substantiam, que-

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st’ultimo dovrà avere la forma prescritta (il contratto dissimulato ha effetto tra le parti purché ne sussistano tutti i requisiti di sostanza e di forma: art. 1414, co. 2), e la prova dell’accordo simulatorio, consistendo nella prova dell’esistenza del negozio dissimulato, dovrà essere data tra le parti mediante la produzione di un documento che contenga la controdichiarazione scritta e sottoscritta dalle parti (o quanto meno dalla parte contro la quale viene fatta valere in giudizio), in conformità a quanto previsto dall’art. 2725 c.c., e non potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, salve le ipotesi di perdita incolpevole del documento di cui all’art. 2724, n. 3, c.c., nelle quali è ammesso il ricorso alla prova testimoniale. I limiti al ricorso alla prova per testimoni si riferiscono anche all’ammissibilità della prova per presunzioni: «le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni»: art. 2729, co. 2, c.c. L’art. 1417, in tema di prova della simulazione, rimanda per implicito a tale regola generale, ma al fine di prevederne delle deroghe. Il contratto simulato di sicuro non produce effetti tra le parti ed esse dunque potranno far valere la simulazione con il solo limite dei mezzi di prova a loro disposizione: a meno che non si tratti di far valere l’illiceità del contratto simulato, la prova non potrà essere fornita a mezzo testimoni, dal momento che la simulazione si regge su un documento, la controdichiarazione, a disposizione delle parti. La regola generale di cui all’art. 2725, quando si tratti di provare la simulazione, rimane ferma solo se l’azione è proposta tra le parti, a meno che non si debba provare, anche tra di esse, l’illiceità del contratto dissimulato. La prova per testimoni della simulazione, dispone l’art. 1417 c.c., è ammissibile senza limiti se la domanda è proposta da creditori o da terzi e, qualora sia diretta a far valere l’illiceità del contratto, anche se è proposta tra le parti. La S.C. ha chiarito che i limiti all’ammissibilità della prova testimoniale e per presunzioni semplici stabiliti dall’art. 1417 c.c. devono ritenersi diretti alla tutela esclusiva degli interessi privati e non della legge, «derivando dal concreto atteggiarsi dei rapporti tra le parti e dalla loro possibilità di procurarsi la prova della simulazione attraverso le c.d. controdichiarazioni contenenti l’intesa simulatoria»; con la conseguenza che l’inammissibilità della prova (per testimoni o per presunzioni della simulazione), dovrà essere fatta valere dalla parte ma non può essere rilevata dal giudice d’ufficio (così da ultimo, Cass. 17-7-2014, n. 16377). Le ragioni per le quali le parti ricorrono alla simulazione e le finalità

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che esse intendono raggiungere possono essere le più varie: sottrarre ai creditori del simulato alienante un bene del patrimonio di questi, facendo apparire che esso è uscito da tale patrimonio a seguito di una vendita (simulata), arricchire una persona cara evitando che tale donazione possa essere impugnata per violazione delle norme a tutela degli eredi legittimari del donante (vi sarà dunque una vendita simulata ed una controdichiarazione che esclude l’obbligo di pagare un prezzo), eludere disposizioni di legge (per esempio le norme fiscali, nel caso di simulazione di prezzo) o addirittura aggirare il divieto di stipulare determinati contratti. Il contratto simulato non coincide con il contratto in frode alla legge (IV, IV, 5). Le fattispecie sono distinte. Nel caso di simulazione, se trattasi di simulazione fraudolenta (cioè rivolta a frodare la legge) occorrono pur sempre due distinte manifestazioni di volontà, il contratto simulato e l’accordo simulatorio, e la divergenza tra di esse; mentre nel contratto in frode alla legge la volontà negoziale delle parti rimane unica, consegnata ad un unico contratto, effettivamente voluto e rivolto al raggiungimento della finalità di frode alla legge. Il ricorso alla coppia contratto simulato/accordo simulatorio per regolare i propri interessi, nel caso di simulazione relativa, non va poi confuso con il ricorso al negozio indiretto. La rinuncia abdicativa alla quota di comproprietà di un bene, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri partecipanti alla comunione, ad esempio, è negozio indiretto, nella specie una donazione indiretta: la finalità della donazione è perseguita con un (solo) negozio diverso. Anche quando la particolare finalità viene perseguita in via indiretta mediante più atti, il fenomeno rimane distinto dalla simulazione, poiché il negozio indiretto è un negozio reale, le parti vogliono gli effetti del contratto indiretto del quale si servono (di solito insieme ad altri contratti collegati) per raggiungere in via indiretta un ulteriore risultato finale. «Il negozio indiretto si distingue dalla simulazione relativa perché mentre in quest’ultima le parti vogliono porre in essere un atto reale, nascondendolo sotto le diverse e fittizie apparenze di un atto diverso, palese ma meramente illusorio, e rivolto a nascondere l’atto vero, con il primo (denominato anche procedimento indiretto), invece, le parti, proponendosi di realizzare una particolare finalità, ricorrono alla combinazione di più atti, tutti veri e reali e non illusori, collegandoli insieme, in modo da giungere al fine ultimo propostosi per via indiretta ed attraverso il concorso e la re-

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ciproca reazione delle varie forme giuridiche collegate, tutte corrispondenti al vero e tutte conformi alla dichiarata volontà dei contraenti». (Cass. 6-4-2006, n. 8098) Tornando alla simulazione e ai suoi effetti, la legge, a meno che non vi rintracci manifestazioni di autonomia privata vietate da norme imperative (o, ciò che è lo stesso, dirette ad eludere i divieti posti da norme imperative), asseconda la scelta delle parti di non volere vincolarsi al contratto simulato, e di regolare semmai i loro rapporti, nella simulazione relativa, mediante altro accordo, purché questo presenti i requisiti di validità richiesti (art. 1414, co. 2). Ma non può non tenere conto degli interessi dei terzi che dalla finzione messa in atto dalle parti possano ricevere pregiudizio. Se le parti hanno sempre interesse a che la simulazione sia fatta valere – e dunque che il contratto simulato sia considerato tale e non produca effetti tra di esse – non altrettanto può dirsi per i terzi. I creditori di chi abbia fittiziamente fatto uscire dal proprio patrimonio un bene – il simulato alienante – o anche chi da costui abbia acquistato diritti che risultino invece fittiziamente trasferiti, avranno anch’essi interesse a che sia accertata la simulazione e dunque che tali spostamenti non sono stati in realtà voluti da simulato alienante e simulato acquirente essendo il contratto da essi stipulato un contratto simulato. Viceversa, chi vanti un credito verso la parte che in apparenza ha acquistato un bene o un diritto, cioè verso il c.d. simulato acquirente, o chi addirittura abbia acquistato dal simulato acquirente il diritto o il bene trasferito con contratto simulato, avrà l’interesse opposto a che siano preservati gli effetti del contratto simulato e dunque a non vedersi opposta la simulazione. La legge interviene a risolvere i conflitti tra tali interessi, anche facendo salvi, a determinate condizioni, gli effetti prodotti dal contratto simulato. Per questo la qualificazione del contratto simulato come contratto nullo può apparire equivoca e comunque imprecisa. Il richiamo alla nullità è frequente ed anzi ormai pacifico in giurisprudenza; ed è attraverso tale richiamo che la nostra S.C. ha risolto il dubbio (in assenza di una regola espressa) circa i termini di prescrizione dell’azione di simulazione, affermandone la imprescrittibilità, sia in caso di simulazione assoluta che in caso di simulazione relativa. La S.C. ancora di recente (ord. Cass. 27-8-2013, n. 19678) ripropone l’ormai risalente argomentazione secondo cui

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«il problema di prescrizione della c.d. azione di simulazione relativa non ha ragione di esistere, dal momento che l’azione tende ad accertare la nullità del negozio simulato ed è quindi imprescrittibile (al pari di quella volta all’accertamento della simulazione assoluta) ai sensi dello art. 1422 c.c. (mentre, eventualmente, la prescrizione potrebbe colpire soltanto i diritti che presuppongono l’esistenza del negozio simulato). Infatti la simulazione, com’è noto, consiste nell’accordo, tra due o più soggetti, volto a porre in essere un negozio giuridico del tutto non voluto oppure diverso, soggettivamente ed oggettivamente, da quello voluto; in mancanza del necessario elemento volitivo il negozio è considerato nullo dalla legge la quale, non distinguendo all’art. 1414 c.c. tra simulazione relativa ed assoluta, dà necessariamente rilievo alla mancanza di un elemento essenziale richiesto appunto a pena di nullità (ex artt. 1418, comma 2, ex 1321 n. 1 c.c.); ond’è che, vertendosi in tema di un’azione di accertamento (quale è quella dichiarativa di nullità) l’azione, a norma dell’art. 1422 citato, non può giammai essere dichiarata prescritta; benvero, come premesso, possono rimanere prescritti, in concrete circostanze, i diritti particolari che presuppongono l’esistenza del negozio simulato». (Cass. 23-10-1991, n. 11215) Più corretto è però richiamare per il contratto simulato, come fa l’art. 1414, l’inefficacia piuttosto che la nullità. Il contratto simulato, infatti, come accennato, quando intervengano ragioni di tutela della posizione dei terzi, in presenza di determinati presupposti, viene considerato dalla legge come valido ed efficace, o comunque di esso vengono stabilizzati taluni effetti, non potendosi opporre a questi la simulazione. In generale, anche i terzi (e non solo le parti) possono agire perché sia dichiarata la simulazione, onde far venir meno l’apparenza creata dalle parti ed impedire che il contratto simulato produca effetti. L’art. 1415 c.c., al co. 2, pone la regola generale secondo cui i terzi «possono far valere la simulazione in confronto delle parti quando essa pregiudichi i loro diritti». Disposizione il cui contenuto va considerato da due profili: da una parte consente a chi è estraneo al contratto, in quanto terzo, di poter agire per far dichiarare la simulazione del contratto, dall’altra opportunamente precisa che legittimato ad agire non è qualunque terzo, ma solo chi vanta un diritto pregiudicato dal contratto simulato.

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La posizione del terzo è diversa da quella della parte: «il terzo non ha, in quanto tale, un interesse generalizzato ad ottenere il ripristino della situazione reale, ma solo se la sua posizione giuridica risulti negativamente incisa dall’apparenza dell’atto, mentre va sempre riconosciuto l’interesse della parte contrattuale ad esercitare l’azione di simulazione in quanto volta all’accertamento dell’inefficacia totale o parziale del contratto e dei reali rapporti tra le parti». (Cass. 20-12-2013, n. 28610) La legittimazione ad agire non spetta a qualsiasi terzo ma a chi vanti un diritto pregiudicato dalla simulazione «l’azione di simulazione postula un interesse correlato all’esercizio di un proprio diritto e ... qualora un tale diritto non sia configurabile o – comunque – non sia pregiudicato dall’atto che si assume simulato, il terzo difetta di interesse a far dichiarare la simulazione del contratto o di uno dei suoi elementi; ma trattasi di principio riferibile soltanto al terzo: questi, in quanto estraneo al contratto della cui simulazione si tratta, è legittimato, ai sensi dell’art. 1415 cod. civ., comma 2, a far valere la simulazione del contratto rispetto alle parti quando essa pregiudichi i suoi diritti; non è consentito ravvisare un interesse indistinto e generalizzato di qualsiasi terzo ad ottenere il ripristino della situazione reale, essendo, per converso, la relativa legittimazione indissolubilmente legata al pregiudizio di un diritto conseguente alla simulazione. L’interesse ad ottenere il ripristino della situazione reale è, invece, naturalmente connesso alla posizione della parte contrattuale che voglia fare accertare giudizialmente detta situazione, quindi far accertare, con l’azione di simulazione, l’inefficacia totale o parziale del contratto ed i reali rapporti con la controparte». (Cass. 20-12-2013, n. 28610, cit.) Il terzo che agisca per sentire dichiarare la simulazione del contratto deve dunque vantare il pregiudizio di un diritto conseguente alla simulazione; ed è evidente, anche da questo profilo, la differenza con la legittimazione ad agire per sentire dichiarare invece la nullità del contratto,

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che ai sensi dell’art. 1421 c.c. spetta a chiunque vi abbia interesse. Di sicuro un interesse attuale e concreto ma non necessariamente un diritto (VII, 7). Il terzo può però avere l’interesse opposto, al mantenimento degli effetti del contratto simulato, se vanta diritti che traggono fondamento dalla situazione giuridica determinata dal contratto simulato e che sarebbero pregiudicati dalla rimozione degli effetti del contratto simulato. La regola generale secondo cui i terzi possono far valere la simulazione nei confronti delle parti quando essa pregiudica i loro diritti non giova a tutelare chi invece intende difendere la stabilità del contratto simulato e dunque opporsi all’accertamento della simulazione e non giova a dirimere il conflitto tra le posizioni vantate dalle diverse categorie di “terzi”: in particolare, i terzi creditori del simulato alienante e quelli del simulato acquirente, i terzi aventi causa dall’uno o dall’altro. Da qui le disposizioni di cui agli artt. 1415, co. 1 e 1416 c.c. La legge tutela innanzitutto, ovviamente, la posizione di chi vanta un credito verso il simulato alienante, trattandosi di soggetti che potevano contare sul bene o diritto originariamente presente nel patrimonio del proprio debitore, in caso di inadempimento di questi, e si vedrebbero invece sottrarre tale garanzia se la simulazione fosse a loro opponibile. Essi possono dunque far valere la simulazione; nel conflitto rispetto ai creditori del simulato acquirente (interessati all’opposto al mantenimento degli effetti del contratto simulato, che ha arricchito il proprio debitore), i creditori del simulato alienante prevalgono, ma a condizione che il loro credito sia anteriore al contratto simulato e che i creditori del simulato acquirente non abbiano già acquisito una garanzia sul bene fittiziamente trasferito (i creditori del simulato alienante prevalgono solo sui creditori chirografari del simulato acquirente: art. 1416, co. 2). Per altro verso, i creditori del simulato acquirente, se creditori chirografari, possono vedersi sempre opporre la simulazione (che priva di effetto l’eventuale arricchimento del patrimonio del proprio debitore) a meno che in buona fede e cioè non essendo a conoscenza della simulazione non abbiano già compiuto atti di esecuzione sui beni oggetto del contratto simulato. Quanti ai terzi aventi causa (che cioè hanno acquistato diritti o dal simulato alienante o dal simulato acquirente), l’art. 1415, co. 1, con una regola che a prima vista può lasciare perplessi, preserva la posizione di chi in buona fede abbia acquistato diritti dal titolare apparente, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di simulazione: ad essi la simu-

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lazione non può essere opposta né dalle parti né dagli aventi causa o dai creditori del simulato alienante e dunque conservano i diritti acquistati in buona fede da chi in realtà li aveva a sua volta acquistato sulla base di un contratto simulato. Il loro acquisto sarà fatto salvo purché in buona fede e avvenuto (e trascritto, per gli atti soggetti a trascrizione) prima della trascrizione della domanda per far dichiarare la simulazione. Gli aventi causa del simulato alienante nel conflitto soccombono. I terzi tutelati, in questo caso, non sono quelli in qualche modo pregiudicati dalla simulazione di cui al co. 2 dell’art. 1415, ma solo quelli che hanno acquistato in buona fede diritti dal titolare apparente. La ratio della regola che preserva in capo al terzo i diritti che pure egli ha acquistato da chi ne era titolare solo fittiziamente, deve rintracciarsi, come non ha mancato di sottolineare la S.C., nell’esigenza di salvaguardare la certezza nella circolazione dei beni (e in generale la certezza del diritto): il terzo, se in buona fede, ha acquistato il diritto, spesso il diritto di proprietà su beni, da chi ai suoi occhi appariva come l’effettivo titolare di quel diritto, legittimato a cederlo. Insistendo su questa ratio, i giudici di legittimità hanno rimarcato come la fattispecie richiamata dal co. 1 dell’art. 1415 (acquisto del terzo in buona fede, salvi gli effetti della trascrizione) postula «la necessità imprescindibile che vi sia un titolare apparente e uno effettivo del diritto al momento del suo acquisto da parte del terzo», con la conseguenza che il campo di applicazione della regola deve considerarsi limitato «alle ipotesi di simulazione assoluta e di interposizione fittizia di persona, con esclusione, quindi, di ogni altro tipo di simulazione relativa, non comportante apparenza di titolarità del diritto in capo ad un soggetto diverso dal vero titolare». La conclusione e l’argomentazione – rintracciabili già in una lontana sentenza della S.C. (16-1-1997, n. 7470) – appaiono condivisibili: non potrà ad esempio invocarsi un acquisto in buona fede quando l’apparenza non riguardava la (apparente) titolarità del titolo di proprietà ma solo il carattere oneroso anziché gratuito dell’acquisto simulato del dante causa. In generale, potrà parlarsi di “titolare apparente”, nel caso di simulazione relativa solo ove questa riguardi l’identità del soggetto cui il diritto viene trasferito (simulazione soggettiva o interposizione fittizia di persona).

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3. Capacità di agire e capacità di intendere o di volere L’accordo, come detto, deve essere espressione di un consenso libero e consapevole. Per questo l’ordinamento non considera sufficiente il requisito formale della capacità legale di contrattare (la capacità di agire) di chi stipula il contratto, ma richiede anche l’effettiva capacità di comprendere e dunque di esprimere una volontà compiutamente formatasi nel momento della stipula: l’art. 1425 c.c., sancisce così che il contratto è annullabile (VII, 11) se una delle parti era legalmente incapace di contrattare (co. 1), ma aggiunge (al co. 2) che è parimenti annullabile il contratto stipulato da persona incapace di intendere o di volere, quando ricorrono le condizioni stabilite dall’art. 428 c.c. Il riferimento è dunque alla incapacità naturale, vale a dire alla situazione di chi, pur legalmente capace (“sebbene non interdetta” recita l’art. 428), per qualsiasi causa, anche transitoria, non sia capace di intendere o di volere al momento in cui l’atto è stato compiuto. A turbare il processo cognitivo e/o volitivo potrà essere dunque qualunque ragione, anche transitoria, di natura fisica o psichica, anche non tanto grave da dare luogo a provvedimenti limitativi della capacità legale, come interdizione o inabilitazione; oltre che, ovviamente, le cause che possono portare alla interdizione o inabilitazione, che consentono l’annullamento ex art. 428 (e 1425, co. 2) degli atti compiuti prima della sentenza di interdizione o della nomina del tutore. L’art. 428, cui l’art. 1425, co. 2 rinvia, limita l’annullabilità agli atti compiuti dall’incapace di intendere o di volere da cui risulti “un grave pregiudizio per l’autore” (co. 1), prevedendo poi (al co. 2) che «l’annullamento dei contratti non può essere pronunziato se non quando per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace d’intendere o di volere, o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell’altro contraente». Di sicuro, secondo un principio che come vedremo ispira tutto il regime dell’annullabilità dei contratti, la legge intende tutelare l’affidamento dell’altro contraente e dunque subordina l’annullabilità del contratto concluso dall’incapace naturale alla malafede dell’altra parte, da intendersi come consapevolezza o addirittura conoscenza che questi abbia avuto della menomazione della sfera intellettiva o volitiva dell’altro. Ci si chiede tuttavia se, ferma restando la malafede dell’altra parte, possa essere chiesto l’annullamento solo del contratto pregiudizievole per il suo autore, come richiesto per l’atto unilaterale al co. 1 dell’art. 428. La S.C. (con orientamento

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tuttavia non condiviso da parte della dottrina) ritiene che, a differenza che per gli atti unilaterali, il grave pregiudizio non sia richiesto per l’annullamento dei contratti, costituendo solo, come si evince dal tenore letterale dell’art. 428, co. 2, uno degli indizi rivelatori del(l’unico) requisito essenziale richiesto cioè la mala fede dell’altro contraente. È appena il caso di rimarcare che qui l’invalidità del contratto è conseguenza della incapacità naturale della parte considerata come dato oggettivo del tutto indipendente da comportamenti di terzi o addirittura dell’altro contraente: situazione ben diversa da quella in cui a perturbare il processo di formazione ed espressione della volontà negoziale siano coartazioni provenienti dall’altra parte o da un terzo (violenza morale, come vizio della volontà) ovvero macchinazioni e inganni (dolo). L’annullamento del contratto seguirà qui all’accertamento della situazione di incapacità di intendere o di volere, non occorrendo alcuna verifica circa le conseguenze, ad esempio in termini di errore. Coerente con il principio che tutela l’affidamento dell’altro contraente sulla validità del contratto è poi la regola posta dall’art. 1426 c.c. che esclude l’annullabilità del contratto stipulato da un minore quando questi abbia occultato con raggiri la sua minore età. La legge protegge in questo caso la buona fede del contraente che sia stato raggirato e in qualche modo sanziona il minore che ha intenzionalmente indotto in errore il suo partner, non consentendogli di sottrarsi al vincolo costituito: a condizione che sia rintracciabile un “malizioso occultamento” della minore età, non essendo sufficiente, precisa la norma, che il minore si sia limitato a dichiararsi maggiorenne. La S.C. opportunamente precisa che l’art. 1426 costituisce norma di carattere eccezionale, non invocabile nel caso di interdetto o inabilitato «L’art. 1426 cod. civ., il quale stabilisce la non annullabilità del contratto concluso dal minore, che con raggiri abbia occultato la sua minore età, costituisce una norma di carattere eccezionale. Ne consegue che detta deroga al regime dell’annullabilità per incapacità legale non può essere estesa all’ipotesi del malizioso occultamento del proprio stato da parte dell’interdetto o dell’inabilitato, sia perché la condizione di questi ultimi non è equiparabile a quella del minore, il quale può essere naturalmente capace di intendere e di volere e dimostrare per la sua precocità una particolare astuzia, sia perché tale malizioso occultamento appare difficilmente

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conciliabile con la situazione di incapacità in cui l’interdetto e l’inabilitato versano, trattandosi di condotta che postula la lucida rappresentazione del proprio stato e la consapevole volontà diretta a mascherarlo». (Cass. 4-7-2012, n. 11191)

4. I vizi della volontà: errore Ai sensi dell’art. 1427 c.c., il contraente «il cui consenso fu dato per errore ... può chiedere l’annullamento del contratto secondo le disposizioni seguenti». All’errore, come vizio della volontà, il codice dedica poi i successivi artt. da 1428 a 1433, al fine di stabilire quali siano le caratteristiche che l’errore deve presentare per condurre all’annullamento del contratto. L’errore viene definito come la falsa rappresentazione della realtà in cui sia incorsa la parte e che abbia alterato la formazione del suo convincimento e della sua libera determinazione di contrarre: falsa rappresentazione della realtà che deve riguardare un concreto aspetto del contratto al momento della conclusione, mentre non possono certo incidere ai fini dell’applicabilità dell’art. 1429, n. 2, c.c., le situazioni sopravvenute che, in quanto tali, non possono aver avuto influenza alcuna sulla formazione della volontà dell’atto, e sul conseguente vizio del consenso manifestato. Dell’errore si sottolinea il carattere endogeno, che accompagna per così dire dall’interno la formazione della volontà, inficiandola, a differenza di quanto accade in caso di dolo, in cui la falsa rappresentazione della realtà che inficia il processo di formazione della volontà è esogena, in quanto riconducibile alla condotta dell’altro contraente. Nel codice vigente, a differenza di quello abrogato, perde rilevanza, essendone identiche le conseguenze, la distinzione tra errore-motivo (quello di cui abbiamo parlato, che inficia la formazione del volere) e errore nella dichiarazione o errore ostativo, menzionato nell’art. 1433. Nel secondo caso l’errore non attiene alla fase di formazione della volontà bensì alla sua enunciazione, alla sua esterna manifestazione: sia che a commetterlo sia l’autore della manifestazione di volontà nel momento in cui la dichiara (dico o scrivo 100 e invece penso 1.000), sia che si tratti di errore nella trasmissione, ad esempio da parte dell’addetto all’ufficio postale che ricopia il testo di un telegramma. L’errore nella

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dichiarazione, che nel codice civile del 1865 si riteneva ostacolasse una valida manifestazione di consenso e per questo cagionava la nullità del contratto, è ora soggetto alle medesime disposizioni dettate per l’erroremotivo. In entrambi i casi, come osservava un’autorevole dottrina, «Un errore che si produca nella sfera interna della coscienza dell’una delle parti, senza essere rilevabile né controllabile dalla controparte, è irrilevante di fronte ad essa; e in verità non potrebbe avere rilevanza giuridica senza mettere in pericolo la certezza dell’affidamento creato nella controparte con la emessa dichiarazione – affidamento che la legge mostra di tenere in conto anche con altre norme ... Allorché, invece, l’errore sia riconoscibile, l’autoresponsabilità della parte che in esso versa, è controbilanciata dall’onere di rilevarlo e dall’obbligo di buona fede che incombono alla controparte (art. 1337)» (E. Betti). È in nome della tutela dell’affidamento e di un principio di conservazione del contratto che ispira tutta la disciplina in materia, che la legge considera possibile causa di annullamento del contratto non qualunque errore ma solo l’errore che sia essenziale e riconoscibile dall’altro contraente (art. 1428). È a carico della parte che chiede l’annullamento l’onere di provare l’essenzialità e la riconoscibilità dell’errore, ma anche, a monte, l’idoneità dell’errore ad alterare in concreto il processo di formazione della propria volontà «L’errore, quale vizio della volontà, assume rilevanza quando incida sul processo formativo del consenso, dando origine ad una falsa o distorta rappresentazione della realtà, a cagione della quale la parte si sia indotta a manifestare la propria volontà. Pertanto, l’effetto invalidante dell’errore è subordinato, prima ancora che alla sua essenzialità o riconoscibilità, alla circostanza (della cui prova è onerata la parte che deduce il vizio del consenso) che la volontà sia stata manifestata in presenza di tale falsa rappresentazione». (Cass. 24-8-2004, n. 16679) Il codice detta i parametri alla luce dei quali va vagliata la riconoscibilità: l’errore è riconoscibile (art. 1431) quando in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo. Sarà dunque onere della parte dimostrare che, nel caso concreto, il suo partner ben

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poteva accorgersi dell’errore se avesse prestato attenzione con normale diligenza, tenuto conto però della eventuale complessità dell’accordo o semplicemente della mancata competenza specifica e tecnica per cogliere l’errore di controparte. Alla riconoscibilità è ovviamente assimilabile l’effettiva conoscenza dell’errore, che parimenti esclude un affidamento incolpevole della controparte sulla validità del contratto, da tutelare. Dal requisito della riconoscibilità si ritiene debba invece prescindersi nell’errore bilaterale, che ricorre quando esso (il medesimo errore) sia comune a entrambe le parti: in questo caso i giudici affermano il principio secondo cui il contratto è annullabile a prescindere dall’esistenza del requisito della riconoscibilità, poiché non è applicabile il principio dell’affidamento, avendo ciascuno dei contraenti dato causa all’invalidità del negozio. Nel caso dell’altro requisito, quello della essenzialità, l’art. 1429 sceglie la via dell’elencazione dei casi in cui l’errore è essenziale: natura o oggetto del contratto; identità dell’oggetto della prestazione o qualità dello stesso da ritenersi determinante del consenso secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze; identità o qualità della persona dell’altro contraente sempre che siano state determinanti del consenso. Può essere essenziale anche l’errore di diritto quando sia «stato la ragione unica o principale del contratto» (art. 1429, n. 4). L’elenco fornito dalla norma conferma che l’essenzialità discende dalla rilevanza che l’elemento su cui cade l’errore ha nel contratto. L’avrà così, in generale, la natura e l’oggetto stesso del contratto e l’identità dell’oggetto della prestazione (vedi le differenze: IV, IV, 8) ma se viene in gioco la qualità di tale oggetto ovvero l’identità e la qualità della persona dell’altro contraente, occorrerà ulteriormente verificare se tali elementi dovessero ritenersi e fossero in concreto determinanti del consenso. Se stipulo un appalto con un’impresa che ritengo dotata di esperienza tecnica nell’esecuzione dell’attività di che trattasi e così non è, potrò dimostrare che l’errore sulle qualità del contraente sia stato determinante del consenso, quanto più specialistiche sono le competenze richieste. Il tenore dell’art. 1429, in particolare dei numeri 2 e 3, spiega perché suole ripetersi in dottrina e in giurisprudenza (come del resto enunciato nella massima di cui sopra), che l’essenzialità dell’errore va provata e, ancora, che l’area dell’errore essenziale non coincide con quella dell’errore determinante del consenso. La parte in verità dovrebbe potersi limitare a provare di essere incorsa in errore (e che tale errore abbia al-

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terato la formazione della sua volontà) se si tratta di errore sulla natura o l’oggetto del contratto ovvero sulla identità della prestazione oggetto del contratto; mentre dovrà ulteriormente dimostrare, nei casi di cui ai numeri 2 e 3, come vuole la norma, che si sia trattato di errore determinante del consenso. Anche nel primo caso tuttavia (errore sulla natura del contratto, ad esempio, ma anche sull’oggetto), si ritiene che la parte che deduce l’errore, per dimostrarne la rilevanza, abbia l’onere di dimostrare quale altro contratto intendeva concludere o quale fosse il diverso oggetto del contratto cui intendeva riferirsi, e che tali errori possano non essere considerati essenziali se il giudice, in via interpretativa, possa interpretare la dichiarazione erronea in modo da rettificarla rendendola coincidente così con l’effettiva volontà della parte, quanto alla natura o all’oggetto del contratto. Sia la formula adottata dalla norma – «l’errore è essenziale ... quando» – sia l’elencazione degli elementi su cui l’errore può cadere, fanno apparire dubbia la configurabilità di errori (potenzialmente essenziali) che cadano su elementi non menzionati nell’art. 1429, e tolgono così interesse alla questione se l’elenco debba qui considerarsi tassativo o esemplificativo. Ai casi qui menzionati deve comunque aggiungersi l’errore sulla quantità, che anch’esso è causa di annullamento (ove riconoscibile) quando sia stato determinante del consenso (art. 1430). La norma in realtà si propone di distinguere dall’errore sulla quantità il mero errore di calcolo, disponendo che esso non dà luogo ad annullamento del contratto ma solo a rettifica a meno che, concretandosi in un errore sulla quantità, sia stato determinante del consenso. L’ errore di calcolo che può dare luogo a rettifica è l’errore materiale, la mera svista che inficia una operazione aritmetica e che appunto è agevolmente emendabile con la rettifica: sono incontestati tra le parti i dati, ad esempio che ogni ora di lavoro straordinario sarà pagata dieci euro e che le ore di straordinario effettuate nel mese dal lavoratore sono cinquanta e si formula il calcolo finale della somma dovuta aggiungendo per errore uno zero, così che l’importo dovuto ammonti a 5.000 invece che a 500 euro; ovvero, nel contratto di appalto, a meno che non sia a corpo, un errore di computo metrico dei lavori da effettuare conduce alla determinazione di un prezzo errato. L’errore, che è appunto nel conteggio finale o nella considerazione delle cifre da conteggiare, è agevolmente eliminabile con la rettifica, cioè con la mera ripetizione corretta del calcolo. Ma se, intendendo ristrutturare il bagno di casa, pur avendone fornito le

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misure al fornitore, sottoscrivo alla fine per errore un ordine in cui il conteggio porta ad una quantità di piastrelle di gran lunga inferiore a quella necessaria, e non è possibile integrare l’ordine per l’esaurirsi delle scorte di magazzino del produttore, potrò certamente chiedere l’annullamento del contratto invocando un errore sulla quantità determinante del consenso (ho scelto quelle piastrelle solo nell’erroneo convincimento che la quantità fosse quella adeguata alle dimensioni), errore peraltro ben riconoscibile dall’altra parte. L’art. 1429 qualifica come errore essenziale anche quello di diritto, ma in questo caso richiede, ai fini dell’annullamento, non solo che sia stato determinante del consenso ma che della conclusione del contratto sia stato “la ragione unica o principale”. L’errore di diritto è quello che cade sulla esistenza, l’applicabilità o la portata di una norma (che può essere imperativa o meno), ed anche sull’interpretazione della norma da cui dipende la sua portata applicativa. Con tale previsione il codice non intende certo smentire la regola secondo cui l’ignoranza della legge non scusa e consentire così alla parte di violare una o più norme sulla cui esistenza si è sbagliato. Non è certo invocabile come errore di diritto l’ignoranza o erronea rappresentazione circa profili della disciplina giuridica del contratto stipulato: non potrò chiedere l’annullamento del contratto perché non conoscevo o avevo erroneamente inteso la portata delle norme che ne regolano, ad esempio, il regime di responsabilità; e neppure adducendo che ne ignoravo il regime fiscale. Se invece adducessi come errore di diritto quello sulla possibile fruibilità di benefici fiscali in assenza dei quali non avrei stipulato il contratto, prospetterei in realtà un errore che cade sui motivi che mi hanno determinato al contratto. L’area di autonoma rilevanza dell’errore di diritto (esclusa peraltro se si tratta di contratto di transazione: vedi art. 1969 c.c.) è abbastanza sfuggente, coincidendo sovente con l’area di rilevanza delle qualità dell’oggetto. Se acquisto un ultimo modello di imbarcazione per trasporto passeggeri da un produttore inglese, e scopro successivamente che tale modello ha caratteristiche che ne vietano la circolazione in Italia, potrò chiedere l’annullamento del contratto? Se acquisto un esercizio commerciale e scopro successivamente che la licenza è stata revocata e non potrà essere più concessa, posso invocare l’errore di diritto? In realtà nel primo caso la risposta dovrebbe essere affermativa: la mia volontà era quella di acquistare proprio quel modello di natante, ma allo scopo di farlo circolare in Italia e trarne un guadagno e dunque non

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avrei fatto quell’acquisto se avessi conosciuto la norma che ne vietava la circolazione. Nel secondo caso la fattispecie rientra più agevolmente nell’errore essenziale sulle qualità dell’oggetto, dal momento che il contratto che intendevo stipulare era quello di acquisto di un’azienda destinata all’esercizio commerciale. Questo spostamento dall’errore che sembrerebbe di diritto all’errore di fatto sull’oggetto o sulle sue qualità è ben espresso nella posizione assunta dalla nostra S.C. e ribadita ancora di recente, a proposito del caso, classico, dell’acquisto di un fondo poi rivelatosi non edificabile «L’errore sulle caratteristiche di edificabilità del fondo compravenduto, anche se provocato dall’ignoranza della disciplina urbanistica, deve essere ricondotto all’errore sulle qualità dell’oggetto del contratto, ai sensi dell’art. 1429 cod. civ., n. 2, piuttosto che all’errore di diritto, perché la destinazione del fondo è attinente alle sue caratteristiche reali, in senso funzionale, economico e sociale». (Cass. 11-8-2011, n. 17216) Quando si parla di errore sulla qualità dell’oggetto della prestazione da ritenere determinante del consenso ci si deve riferire a qualità e caratteristiche proprie del bene, di per sé considerate, e non alle ricadute di tali qualità sul suo valore economico

«L’errore sulla valutazione economica della cosa oggetto del contratto non rientra nella nozione di errore di fatto idoneo a giustificare una pronuncia di annullamento del contratto, in quanto non incide sull’identità o qualità della cosa, ma attiene alla sfera dei motivi in base ai quali la parte si è determinata a concludere un certo accordo ed al rischio che il contraente si assume, nell’ambito dell’autonomia contrattuale, per effetto delle proprie personali valutazioni sull’utilità economica dell’affare». (Cass. 3-9-2013, n. 20148) Il difetto di qualità deve incidere sui diritti ed obblighi che il contratto in concreto sia idoneo ad attribuire, e chi si sbaglia sulla convenienza economica del contratto non può invocare protezione, dal momento

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che «non è riconosciuta dall’ordinamento tutela rispetto al cattivo uso dell’autonomia contrattuale» (così Cass. 3-4-2003, n. 5139). Il contraente che sia incorso in errore sul valore della cosa che ha formato oggetto del contratto potrà semmai esperire, ove ne ricorrano i presupposti, l’azione di rescissione per lesione. Come si è già detto, la S.C. ha escluso, seppur con diversa argomentazione, che possa invocare di essere incorso in un errore essenziale e dunque chiedere l’annullamento del contratto, il risparmiatore che, non essendo stato correttamente informato dall’intermediario finanziario (come invece prescrive l’art. 21 t.u.f.), abbia acquistato obbligazioni di società insolventi e dunque si sia trovato in mano titoli di nessun valore. Nel caso di specie la Corte ha posto l’accento sulla circostanza che trattasi in questo caso di quella che sopra abbiamo chiamato informazioneconsulenza: le informazioni da fornire (e che l’intermediario non aveva fornito) «non riguardano direttamente la natura e l’oggetto del contratto, ma (soltanto) elementi utili per valutare la convenienza dell’operazione e non sono quindi idonee ad integrare l’ipotesi della mancanza di consenso» (IV, II, 27). Il contratto non può essere pertanto dichiarato nullo per mancanza dell’accordo, ma deve escludersi «almeno in via di principio» anche l’annullabilità per errore, perché «ciò di cui il ricorrente si duole, non è di avere acquistato un titolo diverso (o con caratteristiche diverse) da un altro, ma di avere acquistato un titolo che non ha avuto il positivo andamento sperato» (Cass. 19-10-2012, n. 18039 cit.).

5. (Segue). Violenza Vizio del consenso, causa di annullamento del contratto, è anche la violenza (morale). La legge definisce i caratteri che la violenza deve avere per provocare l’annullabilità del contratto attraverso le disposizioni di cui agli artt. 1435 ss. c.c.: dalla lettura congiunta di queste norme deriva la comune nozione secondo cui violenza è la minaccia, anche proveniente da un terzo, di tale natura da fare impressione sopra una persona sensata, avuto riguardo però all’età, al sesso e alla condizione della persona, e da farle temere di esporre sé o i suoi beni (art. 1435: caratteri della violenza) ovvero il proprio coniuge o ascendente o discendente e i beni di questi (art. 1436 violenza diretta contro terzi) a un male ingiusto e notevole; anche la violenza, con i caratteri di cui sopra, diretta verso

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altre persone (diverse dal contraente ma anche dalla stretta cerchia dei suoi familiari, quali coniuge, ascendenti o discendenti: esempio un caro amico) può essere causa di annullamento, rimessa in questo caso alla prudente valutazione delle circostanze da parte del giudice (art. 1436, co. 2). L’annullamento per violenza, pur intendendo reagire ad un perturbamento nella libera formazione del volere, ha presupposti diversi dall’annullamento per incapacità naturale: certamente entrambe incidono sulla facoltà di autodeterminazione, ma mentre l’incapacità impedisce al soggetto di assumere una determinazione cosciente oltre che libera, la violenza morale conduce consapevolmente la vittima ad una determinazione volitiva non libera in conseguenza del comportamento (minaccia) altrui. Emerge intanto come il legislatore consideri particolarmente grave la violenza morale, volta a coartare la libera formazione della volontà negoziale: e per questo non fa distinzione tra la violenza che provenga dalla parte contraente e quella proveniente da un terzo. La parte subirà le conseguenze della violenza, vale a dire l’annullamento del contratto, anche se la violenza nei confronti del suo partner contrattuale è stata esercitata da un terzo a sua insaputa e senza che la legge dia spazio a qualsivoglia prova della sua buona fede (ben diverso, come vedremo, il regime del dolo del terzo). Da tale regola la dottrina trae peraltro il convincimento che la legge non dia alcuna rilevanza, in generale, alla intenzionalità della violenza: se la parte è costretta a subire l’annullamento che il suo partner ottenga per avere concluso il contratto sotto la minaccia esercitata da un terzo (persino a sua insaputa), allo stesso modo subirà l’annullamento per aver seppur non intenzionalmente messo in atto egli stesso un comportamento minaccioso verso il partner. Sempre con il forte disvalore della minaccia, quale turbamento della libertà del volere, si spiega la sostanziale parificazione, quanto alla possibilità di individuare un caso di violenza morale, tra persona e beni, quali possibili vittime della violenza: la minaccia rileverà sia che il male (purché ingiusto e notevole) sia diretto contro la persona, della parte o dei suoi congiunti o, in particolari circostanze di terzi, sia che possa colpirne il rispettivo patrimonio (i beni). Anche se solo il co. 2 dell’art. 1436 vi fa espresso riferimento, a proposito della violenza contro terzi non congiunti della parte che sulla base di essa stipula il contratto, è di tutta evidenza come l’intera disciplina di tale vizio della volontà sia rimessa all’apprezzamento delle circostanze da parte del giudice. La mi-

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naccia che, nelle vesti di violenza morale, può condurre all’annullamento del contratto deve avere avuto l’effetto di condizionare la volontà di concludere quel contratto: non sarà annullabile il contratto con il quale pur affrettatamente mi procuro in locazione un nuovo appartamento, sotto la pressione esercitata dal mio attuale locatore di sfrattarmi dalla casa in cui abito. Il contratto stipulato sotto l’effetto della minaccia sarà invece annullabile – se ricorrono i caratteri della violenza come individuati dalla legge – sia nel caso in cui la violenza abbia determinato il minacciato a stipulare un contratto che altrimenti non avrebbe concluso sia nel caso in cui lo abbia indotto a concludere un contratto, che pure intendeva stipulare, a condizioni per sé sfavorevoli. La legge non distingue le due ipotesi, a differenza, come vedremo, di quanto avviene per il dolo. Perché ricorra violenza morale, causa di annullamento, occorre non solo che vi sia stata una minaccia che abbia coartato la libertà di determinazione della volontà negoziale, ma che tale minaccia sia stata in concreto idonea a provocare tale perturbamento della volontà del minacciato ai fini della stipula del contratto che si intende annullare. L’accertamento in fatto del nesso di causalità tra male minacciato e consenso, seppure sulla scorta delle prove fornite in giudizio dalle parti, dipenderà dalla valutazione che il giudice è chiamato a fare circa la capacità della minaccia di «fare impressione sopra una persona sensata», avuto riguardo ad età, sesso, condizione. È in rapporto alla sensibilità ed “impressionabilità” dell’uomo medio, da piegare alla considerazione della specifica qualità e condizione del minacciato, che il male minacciato potrà considerarsi in concreto notevole, senza trascurare ovviamente il rilievo che avrà a questi fini la direzione verso cui si volge la minaccia, persona o bene. Il male minacciato, oltre che notevole, deve essere ingiusto: le conseguenze della minaccia sulla persona o nella sfera patrimoniale della vittima (parte contraente o terzo) devono essere contrarie alla legge e dunque rientrare nelle fattispecie che darebbero luogo alla responsabilità (contrattuale o extracontrattuale) dell’autore della minaccia (per il danno che ne conseguirebbe). In qualche modo conferma la regola in merito alla ingiustizia del male minacciato la norma di cui all’art. 1438, secondo cui «la minaccia di far valere un diritto può essere causa di annullamento solo quando è diretta a conseguire vantaggi ingiusti». Può la minaccia di far valere un

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diritto essere diretta a conseguire vantaggi ingiusti? Certamente sì: se minaccio il mio debitore, gravemente inadempiente, di aggredire i suoi beni con una procedura esecutiva per recuperare il mio credito, pensando di indurlo a pagare, esercito il mio diritto per conseguire ciò che mi spetta; ma non così se esercito la stessa minaccia di far valere il mio diritto per costringere il debitore a vendermi un bene di sua proprietà: l’acquisto del bene sarebbe un vantaggio ingiusto. Non entra qui in gioco l’eventuale corrispondenza tra il valore del bene e il mio credito e neppure tra il prezzo stimato e il valore di mercato: la legge mi dà il diritto di soddisfarmi sui beni del mio debitore solo per il tramite di una procedura esecutiva che, con le dovute garanzie anche per il debitore, accerterà l’ammontare del mio credito e mi farà acquisire il ricavato della vendita giudiziaria del bene, ma non quello di procurarmi direttamente il bene seppur sotto la minaccia di far valere il diritto di credito. Una massima ormai consolidata della S.C. ribadisce «La norma in esame, che tutela la libertà di determinazione della volontà negoziale, attribuisce effetto invalidante non all’abnormità del vantaggio che una parte ritrae dal contratto con danno dell’altra parte, ma alla violenza morale, attuata mediante la minaccia di far valere un diritto, che consente al suo autore di conseguire un risultato diverso da quello consentito mediante l’esercizio del diritto ed esorbitante rispetto all’oggetto del diritto stesso, rendendo ingiusto il vantaggio da lui ottenuto». (Cass. 23-8-2011, n. 17523) La ricerca del confine tra (legittima) minaccia di far valere un diritto e uso strumentale del proprio diritto per conseguire con violenza morale sull’altra parte finalità diverse e vantaggi ingiusti, ha impegnato la giurisprudenza soprattutto con riferimento al rapporto di lavoro subordinato, e all’ipotesi frequente di dimissioni “indotte” dalla minaccia del datore di lavoro di esercitare un proprio diritto, quale il trasferimento, il collocamento in cassa integrazione o addirittura il licenziamento del dipendente. Così è stata considerata causa di annullamento per violenza dell’atto di dimissioni la minaccia di licenziamento per giusta causa subita dal lavoratore in un momento in cui egli non era in grado di contestare le prove – tuttavia false – predisposte dal datore di lavoro; e in generale la minaccia di licenziamento dimostratasi immotivata e strumentale.

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In generale, si sottolinea che, affinché ricorra violenza morale, causa di annullamento del contratto, occorre che la volontà negoziale sia stata alterata dalla coazione, fisica o psichica, proveniente dalla controparte o da un terzo, dovendo pertanto ricorrere una minaccia specificamente finalizzata ad estorcere il consenso alla conclusione del contratto, proveniente dal comportamento posto in essere dalla controparte o da un terzo e risultante di natura tale da incidere, con efficienza causale, sul determinismo del soggetto passivo, che in assenza della minaccia non avrebbe concluso il negozio. Non possono dunque rilevare timori meramente interni o addirittura personali valutazioni di convenienza: il lavoratore che rinunzi a pretese economiche già avanzate ed accetti i compensi non contestati perché preoccupato dalla propria situazione economica complessiva, afferma la S.C., non potrà chiedere l’annullamento della rinunzia. E così non potranno essere annullati per violenza gli atti intervenuti tra due coniugi in prossimità della separazione personale, con cui la moglie trasferiva al marito la proprietà di una villa, la comproprietà di una barca e alcune quote di partecipazione societaria, nel presupposto che la moglie – senza che vi fosse stato alcun comportamento minaccioso in tal senso del marito – avesse agito nel timore che il coniuge venuto a conoscenza della sua infedeltà coniugale potesse chiedere la separazione con addebito ed ottenere l’affidamento del figlio minore. Sembrerebbe in linea con la generale irrilevanza di un timore meramente interno e di una rappresentazione meramente interna e “autonoma” del pericolo, l’art. 1437 c.c. quando stabilisce che «il solo timore riverenziale non è causa di annullamento del contratto». In verità la situazione di timore riverenziale si determina sempre all’interno di una dimensione relazionale tra una parte (che agisce per timore) e l’altra parte o il terzo (che per la loro posizione, qualità, ecc., incutono tale timore). L’ipotesi classica (ed anche di più agevole individuazione) di timore reverenziale o di c.d. metus ab intrinseco, è quella in cui ricorra uno stato di soggezione, che può condizionare psicologicamente un soggetto inducendolo a contrarre (o a contrarre a particolari condizioni): se a chiedere di prendere in locazione l’appartamento di mia proprietà è il mio nuovo capo, appena nominato, mi sarà difficile opporre un rifiuto alla sua richiesta di una più lunga durata o di un canone più basso. La ragione della regola di generale irrilevanza del timore riverenziale sta, appunto, nella circostanza che la volontà è stata perturbata da

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un processo del tutto interno, in nessun modo “attivamente” condizionato dall’altra parte o dal terzo. Tuttavia, si riconosce pacificamente che la violenza morale può esprimersi secondo modalità variabili e indefinite, anche in modo non esplicito e indeterminato o indiretto; sicché l’esternazione o la manifestazione esplicita non può ritenersi presupposto necessario per la sua rilevanza. La dottrina e la giurisprudenza ritengono che ricorra violenza morale anche nel caso della c.d. intimidazione morale, cioè una minaccia tacita o larvata di chi, a conoscenza della soggezione psicologica della vittima, utilizza la sua posizione dominante a fine intimidatorio: si tratta pur sempre di «una forma di violenza che rende immeritevole la tutela giuridica di chi la esercita o si avvale di essa» (M. Bianca). Di particolare interesse sono le aperture dei giudici di merito a proposito della rilevanza della intimidazione mafiosa o, secondo l’espressione usata dalla dottrina, di “intimidazione ambientale”: qui, invero, non solo siamo fuori dal semplice timore reverenziale, ma la stessa “intimidazione morale” si colloca fuori dalla microrelazione tra vittima e autore della intimidazione (controparte o eventuale terzo), poiché il potere di condizionamento di chi sia stato in concreto l’interlocutore della vittima risulta rafforzato ed in qualche modo esternalizzato dal contesto socio-economico nel quale si colloca e dalla esibita appartenenza del contraente al circuito criminale attraverso cui tale potere si rafforza. Lo stato di bisogno, pur se conosciuto dall’altra parte, non determina di per sé l’annullabilità del contratto: la parte in stato di bisogno può essere certamente condizionata dalla sua situazione quando si determina a contrarre e ad accettare determinate condizioni contrattuali, ma ciò dipende da circostanze oggettive (lo stato di bisogno), i cui effetti negativi non sono un male riconducibile a minaccia della sua controparte. L’istituto della rescissone (VIII, 13) conferma che l’ordinamento interviene con un rimedio idoneo a caducare il contratto – la rescissione, appunto – quando la controparte abbia approfittato dello stato di pericolo o di bisogno del suo partner (che però non ha concorso a determinare) ma ciò abbia altresì condotto questi alla stipula di un contratto fortemente squilibrato (condizioni inique, lesione oltre la metà) a favore dell’altro. Nei rapporti tra imprese, allorché l’attività dell’una sia economicamente dipendente da quella dell’altra – come nel caso in cui la prima fornisca prodotti o servizi che devono essere incorporati o utilizzati nell’ambito dell’attività economica della seconda, ovvero effettua lavora-

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zioni su materie prime fornite dalla seconda, come nel contratto di subfornitura (III, 10) – l’ordinamento non interviene a censurare tale oggettiva dipendenza economica, ma ne previene e sanziona l’abuso: cioè, come vedremo a suo tempo, colpisce addirittura con la nullità le clausole attraverso cui la dipendenza economica abbia determinato in concreto «un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi» tra le parti (V, 7). In generale, non ricorre violenza morale nei comportamenti con cui gli imprenditori tendono ad indurre i consumatori a contrarre ad esempio nelle c.d. “vendite aggressive” cui abbiamo fatto riferimento sopra (III, 3; IV, II, 19 e 20). Tuttavia, come già detto, l’elenco delle pratiche commerciali aggressive, di cui all’art. 25 cod. cons. (IV, II, 18) comprende ipotesi che di certo integrano comportamenti qualificabili come violenza morale, quale la minaccia fisica o verbale ovvero la minaccia di promuovere azione legale (lett. a) e e). Si tratta tuttavia, come ricordato, di comportamenti qui esemplificati e da apprezzare come tali – cioè come aggressivi – in una visione generale, e avulsa dalla specifica contrattazione, per questo riferita alla figura (in qualche modo virtuale) del consumatore medio. Da qui il dibattito e un certo scetticismo circa l’immediata invocabilità come causa di annullamento di un singolo contratto di una pratica aggressiva, pure di quelle sopra ricordate, come tale accertata dall’Autorità garante della concorrenza; e la preferenza per una ricaduta mediata che richieda al consumatore di provare la concreta rilevanza della pratica, quale minaccia, nel caso concreto o, quanto meno al professionista di vincere tale presunzione.

6. (Segue). Dolo «Il dolo è causa di annullamento del contratto» – dispone l’art. 1439 c.c. – «quando i raggiri usati da uno dei contraenti sono stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe contrattato». Il codice non fornisce dunque una nozione di dolo come vizio del consenso, pur se fa riferimento ai “raggiri” usati da uno dei contraenti; tali raggiri peraltro possono condurre all’annullamento del contratto anche se usati da un terzo, se erano noti al contraente che ne ha tratto vantaggio (art. 1439, co. 2). Ciò consente subito di sottolineare che il termine dolo è qui utilizzato in un significato diverso rispetto che nell’art. 2043, ma anche negli artt. 1225 e 1229, dove il legislatore si riferisce alla

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condotta dell’autore dell’illecito extracontrattuale (nell’art. 2043) o dell’inadempimento dell’obbligazione (artt. 1225 e 1229) che sia caratterizzata da intenzionalità, rispettivamente di compiere l’atto ingiusto dannoso ovvero di non adempiere. Nel caso dell’art. 1439, cioè del dolo-vizio della volontà, il termine dolo equivale a inganno, raggiro, causa di annullamento se tale da indurre l’altra parte a concludere un contratto che altrimenti non avrebbe concluso: il c.d. dolo determinante (del consenso); se i raggiri non sono stati determinanti del consenso, e tuttavia senza di essi il contratto sarebbe stato concluso a condizioni diverse, ricorrerà il dolo incidente che, ai sensi dell’art. 1440 c.c., non pregiudica la validità del contratto ma fa sorgere a carico del contraente in mala fede l’obbligo di risarcire il danno. Si tratta qui della mala fede in senso oggettivo, come comportamento scorretto e contrario al dovere di buona fede di cui all’art. 1337. Causa di annullamento è anche il dolo del terzo, dunque di un soggetto estraneo al contratto, diverso dalla parte (e sarà parte e non terzo anche il rappresentante, parte in senso formale, come ricordato sopra). A differenza della violenza, tuttavia, il dolo proveniente dal terzo non è sempre rilevante: l’art. 1439, al co. 2, subordina l’annullabilità, in questo caso, alla circostanza che i raggiri del terzo fossero «noti alla controparte che ne ha tratto vantaggio». Si conferma qui un diverso apprezzamento del vizio (ritenuto meno grave della violenza), che consente di far salvo l’affidamento sulla validità del contratto della parte che ha ignorato l’inganno perpetrato da terzi nei confronti del suo partner contrattuale. La formula adottata dal legislatore non può interpretarsi nel senso che occorra in questo caso l’ulteriore prova di un vantaggio in concreto conseguito dalla controparte della vittima dell’inganno: il presupposto richiesto per l’annullabilità è la conoscenza dell’inganno del terzo che ha condizionato la volontà negoziale della propria controparte, circostanza che di per sé si rivolge a vantaggio dell’altra parte. Va da sé che l’inganno altera e condiziona la scelta di contrarre (o anche solo la scelta di concludere il contratto a quelle condizioni) in quanto confonde la parte che lo subisce, inducendolo a formarsi un convincimento errato. Conseguenza del dolo è dunque sempre un errore, una rappresentazione alterata della realtà. La giurisprudenza (come del resto la dottrina) pone in evidenza efficacemente la distinzione dall’errore, rilevando che

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«La differenza ontologica esistente tra la figura dell’errore, in cui la falsa rappresentazione della realtà che inficia il processo di formazione della volontà è endogena alla volontà stessa, e quella del dolo, in cui essa è esogena, in quanto riconducibile alla condotta dell’altro contraente, non impedisce la coeva deduzione di entrambi i vizi a sostegno della domanda di annullamento del contratto, ma impone l’adozione di distinte modalità nella disamina delle emergenze probatorie acquisite, nel senso che, mentre nel caso dell’errore l’accertamento dev’essere condotto con riferimento alla condotta della parte che ne è vittima, verificando se il vizio abbia inciso sul processo formativo della sua volontà, dando origine ad una falsa rappresentazione che l’ha indotta a concludere il contratto, nel caso del dolo occorre accertare la condotta tenuta dal “deceptor” e le conseguenze da essa prodotte sul “deceptus”, verificando se la condotta commissiva od omissiva del primo abbia procurato la falsa rappresentazione della realtà che ha determinato il secondo alla contrattazione, inducendo nel processo formativo della sua volontà un errore». (Cass. 19-6-2008, n. 16663) Non mancano pronunce della S.C. (compresa quella sopra citata) che ritengono che anche l’errore determinato da dolo debba rivestire il carattere dell’essenzialità. Conclusione che a ragione ha sollevato perplessità in dottrina: la rilevanza del dolo ne verrebbe sostanzialmente azzerata, dal momento che ai fini dell’annullamento del contratto occorrerebbe comunque accertare l’errore essenziale (e riconoscibile), verificato il quale il dolo che lo abbia eventualmente causato rileverebbe solo ai fini dell’ulteriore pretesa della vittima al risarcimento del danno; per converso, il dolo rimarrebbe senza conseguenze ove la falsa rappresentazione della realtà, nella vittima, non ricadesse su uno degli elementi di cui all’art. 1429 c.c. La questione è per alcuni versi malposta. Il dolo-vizio, causa di annullamento, deve essere stato determinante del consenso: va da sé che difficilmente ciò potrà conseguire ad un errore (provocato dal dolo) che cada su aspetti secondari del contratto; non per questo, tuttavia, dovrà ricorrere uno dei casi di errore essenziale, dovendo invece essere provata l’efficienza causale del dolo ai fini della alterazione della volontà contrattuale. È ormai abbastanza pacifico (vedi da ultimo Cass. 20-2-2014, n. 4065) l’orientamento che, distinguendo le due fattispecie in linea del

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resto con il dettato del codice, ritiene che il dolo di un contraente renda annullabile il contratto in relazione ad ogni tipo di errore determinante del consenso, anche dunque quando l’errore indotto nell’ingannato non sia essenziale ai sensi dell’art. 1429, ma riguardi, ad esempio, il valore economico dell’oggetto. La fattispecie del dolo, quale vizio della volontà, chiama in causa in realtà un accertamento sulla posizione di entrambe le parti, autore del dolo (deceptor) e vittima dell’inganno (deceptus). Intanto, come detto, il dolo, per condurre all’annullamento del contratto, deve essere determinante del consenso, e la prova di ciò deve essere data dalla vittima alla quale non deve potersi rimproverare una scarsa diligenza. Come ci ricorda la S.C. «Il dolo è rilevante, e la parte ingannata riceve protezione, solo se sussiste la condizione che dà fondamento etico alla tutela della buona fede: l’assenza di negligenza o di colpevole ignoranza in chi se ne proclami vittima». (Cass. 23-6-2009, n. 14628) L’autore dell’inganno (o comunque la controparte della vittima nel caso di dolo del terzo) potrebbe evitare l’annullamento provando che la vittima dell’inganno era a conoscenza dei fatti che sarebbero stati alterati con raggiri o comunque avrebbe potuto conoscerli usando la normale diligenza. Con riguardo alla posizione dell’autore del dolo, l’intenzionalità è requisito necessario del dolo. Il termine raggiro adottato dal codice rimanda a un comportamento malizioso, volutamente volto ad ingannare ed evoca la forma più intensa che è quella della macchinazione, dunque la predisposizione di artifici, messinscena, idonei a dare una rappresentazione falsa della realtà alla propria controparte: nella prassi sono frequenti domande di annullamento del contratto da parte di chi lo abbia stipulato in quanto vittima di una truffa (penalmente accertata ex art. 640 c.p.: si esclude infatti in questo caso la nullità, VII, 4). L’inganno tuttavia non sempre si regge su “artifici”, e può non averne bisogno, ad esempio quando consiste in una grave menzogna, cioè in «affermazioni menzognere intenzionalmente finalizzate a nascondere o

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travisare la verità». Tizio, amministratore di una società, vende a Caio un certo numero di azioni della medesima società, ad un prezzo che, ovviamente, risulta determinato in base al valore e alla consistenza patrimoniale della società; si accerta di lì a poco che i dati di bilancio forniti erano falsi e il compratore chiede l’annullamento della vendita per dolo. La domanda può essere rigettata con l’argomentazione che nel caso di specie non era dimostrata l’esistenza di artifici o raggiri che erano necessari ad integrare l’ipotesi del dolo ai fini dell’annullamento del contratto di cessione, tenuto conto anche che il compratore non era persona sprovveduta e incapace di controllo dei dati forniti dalla controparte?. La S.C., andando di contrario avviso rispetto al giudice d’Appello, risponde di no: esclude cioè che per aversi dolus malus causa di annullamento l’inganno debba essere sempre accompagnato da artifici, raggiri, malizie, bastando invece la grave menzogna o addirittura la falsificazione di dati, come nel caso in questione. «È questo il significato autentico della parola “mendacio” che indica la consapevole falsificazione della verità tramite un comportamento commissivo idoneo ad integrare di per sé un raggiro che, in quanto tale, ben può essere determinante del consenso e, quindi, rilevare come ipotesi di dolus malus nel caso in cui abbia provocato nel deceptus una falsa rappresentazione della realtà ... anche le semplici menzogne che abbiano avuto un’efficienza causale sulla determinazione volitiva della controparte possono essere causa di annullamento del contratto ... Se è vero infatti che nel nostro ordinamento non esiste un obbligo di dire sempre la verità e, quindi, nemmeno un diritto incondizionato di fidarsi ciecamente delle dichiarazioni altrui, tuttavia non v’è nemmeno un diritto di pretendere la conservazione del contratto quando il consenso sia stato carpito dall’altrui comportamento fraudolento». (Cass. 11-7-2014, n. 16004) Sembra prescindere dal requisito della efficienza causale sulla determinazione volitiva della parte ingannata, l’art. 8 della l. 6-5-2004, n. 129 in tema di contratto di franchising, secondo cui «se una parte ha fornito false informazioni, l’altra parte può chiedere l’annullamento del contratto ai sensi dell’art. 1439 c.c. nonché il risarcimento del danno». La ratio della norma si coglie agevolmente avuto riguardo alla rilevanza che

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gli obblighi di informazione precontrattuale rivestono nella disciplina di questo contratto, analiticamente previsti a carico di entrambe le parti all’art. 6 della legge, nel quadro di una accentuata rilevanza degli obblighi di buona fede. Diverso è il caso in cui la vittima sia tratta in inganno dalla reticenza: la sua controparte non pone in essere alcuna condotta che la induca in errore, dunque non mente, e tuttavia tace elementi importanti che potrebbero fornire una più adeguata rappresentazione della realtà o addirittura omette di chiarire distorte rappresentazioni della situazione da parte della vittima di cui pure si renda conto. Si tratta del c.d. dolo omissivo, la cui ammissibilità è apparsa sempre dubbia, per la difficoltà di rintracciare, in caso di condotta omissiva, sia l’elemento della intenzionalità, comunque imprescindibile per la configurabilità del dolo, sia il nesso causale tra condotta omissiva e falsa rappresentazione della realtà da parte della vittima. Il silenzio è apparso neutro a questo riguardo. L’orientamento prevalente al riguardo può essere riassunto nella massima che la S.C. ripete, secondo cui «Il dolo omissivo, pur potendo viziare la volontà, è causa di annullamento, ai sensi dell’art. 1439 cod. civ., solo quando l’inerzia della parte si inserisca in un complesso comportamento, adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno perseguito, determinando l’errore del “deceptus”. Pertanto, il semplice silenzio, anche in ordine a situazioni di interesse della controparte, e la reticenza, non immutando la rappresentazione della realtà, ma limitandosi a non contrastare la percezione della realtà alla quale sia pervenuto l’altro contraente, non costituiscono di per sé causa invalidante del contratto». (Cass. 17-5-2012, n. 7751) Il problema della rilevanza del dolo omissivo rimanda in realtà al tema, contiguo, della rilevanza della reticenza nelle relazioni contrattuali e dunque del ruolo da assegnare nella disciplina del contratto al principio di trasparenza e, in particolare, agli obblighi di informazione. Se in passato si faceva osservare con buon fondamento che l’ordinamento non pone a carico della parte contraente l’obbligo di “dire la verità” (se si esclude la responsabilità precontrattuale per omessa comunicazione di cause di invalidità: art. 1338 c.c.), oggi è pacifico, e la giurisprudenza

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non manca di ricordarlo, che il dovere di comportarsi secondo buona fede nelle trattative implica innanzitutto il dovere di astenersi da comportamenti ambigui, maliziosi, reticenti e dunque anche e soprattutto il dovere di fornire alla controparte ogni dato rilevante ai fini della stipulazione del contratto. Aperture cui non è certo stata estranea l’influenza delle regole provenienti dalle fonti europee: gli obblighi di trasparenza e di c.d. disclosure, da aspetto specifico delle discipline settoriali relative ai contratti di consumo, si ritengono oggi a pieno titolo rilevanti all’interno della disciplina generale del contratto, “veicolati” dall’obbligo di buona fede nelle trattative di cui all’art. 1337 c.c. Il terreno entro il quale l’ordinamento intercetta e sanziona la reticenza è senza dubbio, dunque, in primo luogo, quello della responsabilità precontrattuale ex art. 1337. Proprio la relativa difficoltà di una ricaduta più pesante – in termini di invalidità del contratto per dolo – di comportamenti latamente ingannatori e omissivi spinge il legislatore, come abbiamo visto, sia a dettare un regime particolare di obblighi di informazione a carico del professionista, nei contratti di consumo, sia, in generale, a ridurre i margini di tolleranza tradizionali in tema di c.d. dolus bonus, intercettando e sanzionando (o addirittura individuando come fonte di responsabilità contrattuale) comportamenti un tempo ritenuti “innocui” perché dotati di scarsa efficienza ingannatoria. In generale, si ritiene che «le dichiarazioni precontrattuali con le quali una parte cerchi di rappresentare la realtà nel modo più favorevole ai propri interessi (nella specie, riguardanti l’affidamento che un’impresa riscuote sul mercato) non integrano gli estremi del “dolus malus” quando, nel contesto dato, non sia ragionevole supporre che l’altra parte possa aver attribuito a quelle dichiarazioni un peso particolare, considerato il modesto livello di attendibilità che, in una determinata situazione di tempo, di luogo e di persone, è da presumere che possa essere riconosciuta a certe affermazioni consuete negli schemi dialettici di una trattativa (sempre che ad esse non si accompagni la predisposizione di ulteriori artifici o raggiri, idonei a travisare la realtà cui quelle affermazioni si riferiscono)». (Cass. 10-9-2009, n. 19559) Ma abbiamo già segnalato la rilevanza che in alcuni casi assume, anche all’interno del contratto (e in termini di responsabilità contrattuale)

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la pubblicità ingannevole; e abbiamo fatto cenno all’orientamento che con buon fondamento ritiene che nel caso di contratto stipulato a seguito di pratica commerciale scorretta (nelle forme della pratica ingannevole o aggressiva), si configuri una responsabilità precontrattuale e dunque il consumatore possa avanzare una pretesa risarcitoria (IV, II, 17 e 18). L’ambito del dolus bonus, privo di conseguenze nella vicenda contrattuale, sembra cioè via via restringersi. All’annullamento del contratto si accompagna, anche nel caso di dolo, il diritto della vittima al risarcimento del danno, configurandosi una ipotesi di responsabilità precontrattuale (IV, II, 10). Ma la responsabilità precontrattuale, secondo un orientamento da tempo pacifico che abbiamo già sopra ricordato, non è esclusa, ricorrendo i presupposti di cui all’art. 1337, nel caso di contratto valido, pur se concluso a condizioni pregiudizievoli per la parte a causa del comportamento scorretto del suo partner contrattuale. Cambia, nel secondo caso, l’identificazione del danno risarcibile, come ben spiega la giurisprudenza a proposito dell’obbligo risarcitorio di cui all’art. 1440, configurandosi nel caso di dolo incidente una fattispecie di responsabilità precontrattuale a fronte di un contratto valido. «È evidente che, quando, come nell’ipotesi prefigurata dall’art. 1440 c.c., il danno derivi da un contratto valido ed efficace ma “sconveniente”, il risarcimento, pur non potendo essere commisurato al pregiudizio derivante dalla mancata esecuzione del contratto posto in essere (il c.d. interesse positivo), non può neppure essere determinato ... avendo riguardo all’interesse della parte vittima del comportamento doloso (o, comunque, non conforme a buona fede) a non essere coinvolta nelle trattative, per la decisiva ragione che, in questo caso, il contratto è stato validamente concluso, sia pure a condizioni diverse da quelle alle quali esso sarebbe stato stipulato senza l’interferenza del comportamento scorretto. Il risarcimento, in detta ipotesi, deve essere ragguagliato al “minor vantaggio o al maggiore aggravio economico” determinato dal contegno sleale di una delle parti salvo la prova di ulteriori danni che risultino collegati a tale comportamento “da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto”». (Cass. 29-9-2005, n. 19024, cit.)

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7. Protezione del consumatore e protezione della volontà contrattuale: il punto di vista del diritto europeo Nella disciplina dei contratti consumatori-professionisti, come abbiamo già avuto occasione di sottolineare, possiamo registrare una sorta di ridimensionamento del ruolo dei vizi del volere quale strumento cardine (come è invece nella disciplina generale del contratto) della protezione accordata alla libertà di contrarre. Il diritto dei contratti di consumo fa salvi, ovviamente, e vi rinvia spesso, i rimedi che conducono alla invalidità del contratto, segnatamente per vizi del consenso, come regolati all’interno dei singoli ordinamenti; ma in qualche modo ne ridimensiona la centralità, affidando la protezione della volontà (del consumatore) ad altri strumenti, che in qualche misura possiamo definire preventivi: le regole puntano cioè, per quanto possibile, a prevenire fenomeni distorsivi della volontà contrattuale del consumatore, dovuti a comportamenti scorretti, aggressivi o addirittura mendaci, del professionista. La scelta è perfettamente aderente alle modalità di conclusione dei contratti consumatori-professionisti, su cui ci siamo ampiamente soffermati. Il contratto professionista-consumatore sancisce, come detto, uno scambio veloce e sovente a distanza nel quale non c’è tempo né spazio per una trattativa, essendo peraltro le condizioni contrattuali predisposte da una parte; al contempo, la determinazione a contrarre – cioè ad accettare quelle condizioni di scambio – risulta indotta, sollecitata, influenzata ben prima della conclusione del contratto, per il tramite dei messaggi che il professionista veicola sul mercato (attraverso la pubblicità, le promozioni, ecc.). I percorsi attraverso cui si determina l’incontro finale tra le parti contraenti sono diversi, più complessi, meno lineari, di quelli che dovrebbero accompagnare la conclusione del contratto almeno secondo il modello generale (codicistico): nel rapporto tra i due partners manca quella interlocuzione diretta e più o meno lunga che dal primo contatto attraverso le trattative porta alla formazione della comune volontà, e tuttavia il singolo contratto è comunque frutto di una diversa interlocuzione, che è quella che si determina sul mercato tra il professionista e la platea indistinta dei suoi possibili partners contrattuali, interlocuzione non meno insidiosa, quanto agli effetti sulla volontà contrattuale dei consumatori, ma assai meno tracciabile quanto ai contenuti e alle potenzialità di turbamento del processo volitivo della parte, almeno nei termini consueti di errore, violenza, dolo. In

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questo segmento di scambi e di contrattazione è certamente meno agevole ricorrere al regime dei vizi della volontà causa di annullamento, “pensato” per una interlocuzione diretta, agevolmente ricostruibile, tra due parti che negoziano. La disciplina dei vizi del consenso, come abbiamo già rilevato, guarda al momento finale – che si assume in qualche modo identificabile – nel quale può verificarsi se sia stata raggiunta la compiuta intesa e volizione di tutte le parti di dare vita al vincolo ed è destinata ad intervenire dopo che il contratto si sia concluso, ove si accerti il vizio della volontà di una parte, con i presupposti che abbiamo illustrato quanto alla posizione dell’altra parte. Nel caso dei contratti di consumo, occorrerà invece intercettare errori, false rappresentazioni frutto di inganni che si collocano lungo la sequenza, più o meno varia e lunga, di input e comunicazioni che il professionista fa pervenire al suo potenziale contraente: entro la quale appare difficile, anzi impossibile, una verifica calibrata sull’atteggiamento di due contraenti (come accade per i vizi della volontà), che in questa fase non sono identificabili. Da qui una commistione tra rimedi amministrativi e rimedi civilistici: un controllo affidato a regole di governo della concorrenza e del mercato, più idonee ad intercettare comportamenti aggressivi o ingannevoli del professionista che tali possono considerarsi, in questa fase, solo guardando ad un interlocutore “virtuale”, cioè il consumatore medio (vedi la disciplina delle pratiche commerciali scorrette); da qui, come detto, una generale forte accentuazione di obblighi che il professionista deve rispettare prima del contratto, con particolare riferimento alla correttezza, chiarezza e completezza delle informazioni; ovvero l’opportunità offerta al consumatore di rimanere vincolato “in seconda battuta”, dopo un periodo seppur breve di riflessione o quando messo dinanzi ad un testo scritto da firmare; e, non ultimo, un rimedio drastico come il diritto del consumatore di recedere dal contratto entro un certo periodo di tempo senza dover addurre alcuna giustificazione. Non è superfluo ribadire a questo riguardo che, nel quadro sopra delineato, le norme a tutela del consumatore hanno un presupposto rigorosamente ed esclusivamente oggettivo, che è, appunto, lo scopo di consumo del contratto, che vede una parte contrarre nell’ambito della sua attività commerciale, industriale, artigianale, o professionale (il professionista) e l’altra contrarre per scopi estranei all’eventuale attività economica svolta; tenuto conto degli altri presupposti, sempre oggettivi, richiesti dalle diverse discipline. Tale tutela, dunque, nel caso ad esem-

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pio di contratti conclusi con modalità che possono determinare in sé l’effetto sorpresa (contratti negoziati fuori dei locali commerciali, o a distanza), non è in alcun modo legata e subordinata ad un accertamento in concreto sulla pienezza o meno del consenso prestato dal consumatore: non rileva in alcun modo e dunque non è oggetto di verifica una eventuale ignoranza o errore del consumatore o la manipolazione della sua volontà, ma rilevano solo le circostanze oggettive in cui si svolge il contatto tra professionista e consumatore. In anni ormai lontani la questione se sia sufficiente, affinché il consumatore possa esercitare il proprio diritto di recesso sancito dall’art. 5, n. 1, della dir. 85/577, il fatto che il contratto sia stato stipulato in circostanze come quelle descritte dall’art. 1 di questa direttiva (contratto negoziato fuori dei locali commerciali: IV, II, 20) o se occorra inoltre dimostrare che il consumatore sia stato influenzato o manipolato dal commerciante, fu sottoposta alla Corte di giustizia europea. Si chiedeva, più precisamente, se la protezione del consumatore e segnatamente il diritto di recesso sancito dall’art. 5, n. 1, della direttiva a favore del consumatore, trovi il suo fondamento in una presunzione di coartazione o manipolazione della volontà di questi e dunque se ed entro quali limiti il fondamento del diritto di recesso derivi dal dolo generico del professionista, il quale faccia uso di parole o macchinazioni insidiose che inducono l’altro a concludere un contratto cui non avrebbe altrimenti consentito (questa la formula dell’art. 1269 del codice civile spagnolo, cui il giudizio si riferiva, formula non lontana da quella di cui al nostro art. 1439 c.c.). Manipolazione che dovrebbe essere dimostrata dal consumatore. La risposta della Corte fu decisamente negativa: «Occorre rilevare che la direttiva 85/577 afferma, al quarto ‘considerando’, che, quando un contratto è stipulato fuori dei locali commerciali del commerciante, il consumatore è impreparato di fronte a queste trattative e si trova preso di sorpresa e non ha spesso la possibilità di confrontare la qualità e il prezzo che gli vengono proposti con altre offerte. Questa è la ragione per la quale, secondo il quinto ‘considerando’ della direttiva, occorre accordare al consumatore un diritto di risoluzione contrattuale da esercitarsi entro un termine non inferiore a sette giorni, per permettergli di valutare gli obblighi che derivano dal contratto. È pertanto sufficiente, affinché il consumatore possa avvalersi del diritto di recesso previsto dalla direttiva 85/577, che egli si trovi in una delle

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situazioni obiettive descritte all’art. 1 della detta direttiva. Per contro, un comportamento determinato o un intento di manipolazione da parte del commerciante non sono necessari e non devono quindi essere dimostrati. Conseguentemente la quarta questione deve essere risolta nel senso che il consumatore può esercitare il proprio diritto di recesso, sancito dall’art. 5, n. 1, della direttiva 85/577, qualora il contratto sia stato stipulato in circostanze come quelle descritte all’art. 1 della detta direttiva, senza che sia necessario dimostrare che la sua volontà sia stata influenzata o manipolata dal commerciante». (Corte giust. 22-4-1999, causa C-423/97 Travel Vac)

8. Assistenza alla negoziazione Non esclude la piena applicabilità delle regole in tema di verifica della libertà e pienezza del consenso della parte e dunque in tema di vizi del consenso, come già detto, la fattispecie di c.d. negoziazione assistita: la fattispecie è quella, ricordata, in cui la legge (art. 45, l. 3-5-1982, n. 203) richiede, per la validità di contratti agrari che deroghino alla disciplina legale, che una delle parti ritenuta “debole” (affittuario) sia assistita nella stipulazione del contratto da rappresentanti di una associazione di categoria (I, 13). La partecipazione del rappresentante non deve essere una semplice presa d’atto, bensì una partecipazione fattiva in termini di consulenza: ma il contratto è comunque atto di autonomia individuale dell’affittuario, i rappresentanti di categoria non assumono la veste di partecipi del procedimento di formazione della volontà contrattuale, che rimane da imputare alla parte privata.

9. Gli elementi accidentali. Rinvio La libertà di determinare il contenuto del contratto, riconosciuta alle parti dall’art. 1322 c.c., comprende altresì la possibilità di inserire nel contratto quelli che vengono denominati elementi accidentali, termine col quale bene si sottolinea che essi sono eventuali e possono ben mancare senza inficiare la validità del contratto e tuttavia, una volta inseriti, fanno parte a pieno titolo del contenuto del contratto, dispiegando effetti su di esso. Si tratta di condizione, termine, modo: la loro presenza

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nel contratto è frutto della volontà delle parti e dunque essi fanno parte dell’accordo. La loro rilevanza va colta con riguardo alle conseguenze che la loro presenza determina nella vicenda contrattuale, trattandosi di pattuizioni attraverso le quali le parti, essenzialmente, intervengono a modulare gli effetti del contratto. Per questo, riteniamo più opportuno rinviarne la trattazione nell’ambito degli effetti del contratto (VI).

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IV.

LA CAUSA E L’OGGETTO 1. Nozione e funzione della “causa” del contratto L’art. 1325 c.c. indica fra i requisiti del contratto, dopo l’accordo, la causa (n. 2) E a tale elemento dedica poi una intera sezione (Della causa del contratto, titolo II, capo II, sezione II), con gli artt. 1343-1345, che si riferiscono, rispettivamente alla causa illecita, al contratto in frode alla legge e al motivo illecito. Ai sensi dell’art. 1418, co. 2, poi, l’illiceità della causa (oltre che la sua mancanza, come requisito di cui all’art. 1325) produce la nullità del contratto. La causa è illecita, recita l’art. 1343, «quando è contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume». È bene precisare subito, per meglio comprendere rilevanza ed effetti del controllo sulla causa del contratto, che ordine pubblico e buon costume sono da intendersi quali clausole generali, cioè criteri di valutazione e di giudizio flessibili, destinati a riempirsi di contenuto (nell’apprezzamento del giudice) in relazione alle circostanze e al tempo in cui vengono utilizzati. Ordine pubblico è infatti l’insieme dei princìpi di natura politica, economica, sociale, che sono a fondamento dell’ordinamento giuridico (e dunque variano in ragione del momento storico); buon costume è l’insieme dei princìpi etici in cui si riconosce, in un determinato momento, la comunità organizzata cui si rivolge quell’ordinamento. Dunque, attraverso la nullità del contratto con causa illecita, l’ordinamento esprime il proprio disfavore verso scelte dell’autonomia privata che non solo violino norme inderogabili ma confliggano anche con i princìpi e i valori di base dell’ordinamento stesso e della convivenza civile che vi è organizzata. Il contratto c.d. di “affitto dell’utero”, che ora cadrebbe sotto l’espresso divieto, sanzionato penalmente, delle pratiche di maternità surrogata di cui all’art. 12, co. 6, l. 19-22004, n. 40, è stato in passato ritenuto nullo, ancorché gratuito, per contrarietà all’ordine pubblico. La contrarietà della causa al buon co-

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stume (contratto immorale) rileva altresì ai fini dell’applicazione dell’art. 2035 c.c. che esclude la ripetibilità della prestazione (conseguenza della dichiarazione di nullità del contratto), se questa è rivolta d uno scopo che anche da parte di chi l’ha eseguita costituisca “offesa al buon costume”. La Corte di cassazione ha giudicato irripetibili – qualificando la prestazione contraria al buon costume – le somme versate al fine di vedere agevolata (con intervento presso i funzionari competenti) l’assegnazione di una casa popolare, somme di cui pure il percettore si era obbligato con scrittura privata alla restituzione nel caso in cui l’obiettivo non fosse stato raggiunto. E ciò sulla base del presupposto che i valori dell’ordinamento postulino «che la nozione di buon costume non individui solo le prestazioni contrarie alle regole della morale sessuale o della decenza, ma comprenda anche quelle contrastanti con i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico». (Cass. 21-4-2010, n. 9441) Ciò che manca, nel codice, è però una nozione di causa del contratto. Il termine “causa” peraltro ricorre qua e là nel codice ma con significati non proprio coincidenti. A proposito del privilegio (quale forma di garanzia legale del credito), e del suo “fondamento” l’art. 2745 c.c. precisa che il privilegio è accordato dalla legge «in considerazione della causa del credito». Il termine può dirsi qui sinonimo di “titolo” o fonte del credito, o dell’obbligazione (ex art. 1173 c.c.). Il termine causa, come il termine titolo, indicano la fonte, l’origine, il fondamento dell’obbligazione o del credito o anche dell’acquisto del diritto: diremo così correttamente che il debito di una somma di denaro può avere titolo (o fonte o se si preferisce “causa”) nel contratto di mutuo ovvero nell’illecito ex art. 2043 che obbliga al risarcimento del danno; così come diremo che l’acquisto di un diritto, ad esempio se effetto di donazione, è avvenuto a titolo gratuito, così indicando che l’acquisto trova la sua fonte in un contratto a titolo gratuito. Di arricchimento “senza una giusta causa” parla l’art. 2041 c.c., obbligando chi in tal modo si è “arricchito” ad indennizare colui che da tale arricchimento è stato danneggiato: (giusta) causa è qui una giustificazione, ritenuta valida dall’ordinamento, dello spostamento di ricchezza (passaggio di beni, prestazione di servizi) che sia intervenuto dal patrimonio

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di un soggetto ad un altro, giustificazione che manca ove ad esempio un soggetto abbia fruito di un servizio reso da altri senza pagare un corrispettivo. A seguito della dichiarazione di nullità di un contratto che avesse come oggetto una prestazione di fare (esempio mandato, agenzia, ecc.) già eseguita, il beneficiario della prestazione risulterà essersi ingiustificatamente arricchito in danno del prestatore. Un concetto di causa che sostanzialmente rimandi al fondamento, giustificazione, di un obbligo o di un diritto non è immediatamente fruibile quando si passi a considerare il contratto, trattandosi qui di considerare non le singole obbligazioni che pure discendono dal contratto bensì l’intera operazione economica posta in essere dalle parti. Della causa del contratto dovrà allora darsi una definizione più articolata, pur se è corretto ed utile sottolineare che il rinvio alla causa, nel sistema, è sempre espressione di un medesimo generale principio «di razionalità degli spostamenti di ricchezza, per cui nessuno spostamento patrimoniale può prodursi, e comunque tenersi fermo, se non sia sostenuto da un’adeguata ragione giustificativa» (V. Roppo). Con riguardo alla causa del contratto, può dirsi che l’attenzione dell’ordinamento, piuttosto che al fondamento, all’origine e dunque alla ragione giustificatrice in una dimensione per così dire statica (come nel caso della causa del credito, del diritto, della attribuzione patrimoniale), deve rivolgersi all’esito complessivo, al risultato cui tendono l’atto di autonomia privata e il regolamento contrattuale posto in essere, in una visione di prospettiva e che potremmo definire dinamica. Di fronte al silenzio del codice, almeno negli anni più vicini all’emanazione di questo, ha in qualche modo orientato gli interpreti nell’elaborazione intorno al concetto di causa, la formula suggerita nella Relazione al codice: «causa richiesta dal diritto», si sottolineava qui (n. 613) «non è lo scopo soggettivo, qualunque esso sia, perseguito dal contraente nel caso concreto (ché allora non sarebbe ipotizzabile alcun negozio senza una causa), ma è la funzione economico-sociale che il diritto riconosce rilevante ai suoi fini e che sola giustifica la tutela dell’autonomia privata». Funzione pertanto, continuava la Relazione che «deve essere non soltanto conforme ai precetti di legge, all’ordine pubblico e al buon costume, ma anche, per i riflessi diffusi dell’art. 1322, secondo comma, rispondente alla necessità che il fine intrinseco del contratto sia socialmente apprezzabile e come tale meritevole della tutela giuridica». Il suggerimento proveniente dalla Relazione connotava il concetto di

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causa del contratto da tre profili: una concezione della causa riferita, come detto, all’esito, al risultato avuto di mira dal contratto; una concezione oggettiva ma al contempo astratta, diversa e distinta dallo “scopo soggettivo, qualunque esso sia, perseguito dal contraente nel caso concreto”; una concezione della causa che ne intendeva accentuare il ruolo di veicolo del controllo dell’ordinamento sull’atto di autonomia privata evocando una sorta di “funzionalizzazione” di questa. La causa si identificava qui con la funzione economico-sociale del contratto, ma al contempo, con una funzione economico-sociale che «il diritto riconosce rilevante ai suoi fini e che sola giustifica la tutela dell’autonomia dei privati». L’autonomia privata di cui all’art. 1322 c.c., in questo quadro, sembrava poter trovare riconoscimento e tutela giuridica solo ove espressa in contratti che, per la funzione economico-sociale cui sono rivolti, fossero ritenuti “socialmente apprezzabili”. Una simile concezione, visibilmente influenzata (come del resto si enunciava nella stessa Relazione) dall’ideologia fascista e dirigista del tempo in cui il codice fu emanato, non si sottrasse a riflessioni critiche e revisioni da parte della dottrina, la quale contestò non solo la pretesa “funzionalizzazione” della libertà contrattuale tutelata dall’ordinamento a finalità da questo in qualche modo imposte o comunque “condivise”, ma anche la conseguente difficoltà di distinguere la causa, nella sua versione oggettiva ed astratta, dal tipo. Se la causa esprime la (generale ed astratta) funzione economico-sociale propria di quel contratto, scevra da ogni elemento di concretezza riferito al singolo, concreto, contratto, dovrà ammettersi che tale funzione sia stata preventivamente individuata ed “approvata” dal legislatore allorché egli ne abbia previsto e regolato il tipo (compravendita, locazione, mandato, ecc.): simile concezione della causa non lascerebbe spazio per ammettere e spiegare una eventuale illiceità (o mancanza) della causa nei contratti tipici, facendo apparire inutili e ingiustificate le disposizioni di cui agli artt. 1325 n. 2 e 1343, che malgrado la loro portata generale, riferita a tutti i contratti, sarebbero dettate per le sole fattispecie di contratti atipici. Già in anni lontani invece le Sezioni Unite della Corte di cassazione puntualizzavano che «La causa, come funzione economico-sociale del negozio, va intesa, nei contratti tipici come funzione concreta obiettiva, che corrisponde ad una

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delle funzioni tipiche ed astratte determinate dalla legge. Pertanto anche nei contratti tipici, avendo riguardo a detta funzione concreta, è concepibile una causa illecita, che si ha quando le parti, con l’uso di uno schema negoziale tipico, abbiano direttamente perseguito uno scopo contrario ai principi giuridici ed etici fondamentali dell’ordinamento». (Cass. s.u. 11-1-1973, n. 63) La più matura riflessione intorno alla causa ha preso le distanze dalle premesse ed ambiguità della nozione in qualche modo suggerita dalla Relazione al codice, e, abbandonata l’identificazione della causa con la (astratta) funzione economico-sociale del contratto, ha abbracciato la tesi, peraltro già prospettata in dottrina alcuni decenni orsono e come si è visto già condivisa dalla giurisprudenza di legittimità, che il concetto di causa non possa prescindere dalla considerazione del concreto assetto di interessi voluto e delineato dalle parti. Con la nozione di “causa in concreto” non si intende tornare ad una concezione soggettiva che in qualche modo dia risalto allo scopo o intenzione di ciascuna parte e dunque ai motivi, quali spinte, motivazioni, finalità individuali, del tutto interne alle parti: al motivo, così inteso, l’ordinamento dà risalto solo se illecito, determinante e comune alle parti (art. 1345 c.c.). La concezione della causa “in concreto” dà piuttosto adeguato risalto agli interessi perseguiti dalle parti ma solo in quanto obiettivati, trasfusi cioè nel regolamento contrattuale in concreto delineato. L’interesse che, se interno alla sfera volitiva della parte, esula dal contenuto del contratto, diviene invece causa giustificativa dell’operazione contrattuale una volta obiettivato, quale scopo pratico che il contratto è preordinato a realizzare e che costituisce giustificazione dell’intera operazione. Illustra efficacemente tale moderna concezione il seguente passo di una delle più significative pronunce in tema della nostra S.C. «Si elabori una ermeneutica del concetto di causa che, sul presupposto della obsolescenza della matrice ideologica che configura la causa del contratto come strumento di controllo della sua utilità sociale, affonda le proprie radici in una serrata critica della teoria della predeterminazione causale del negozio (che, a tacer d’altro, non spiega come un contratto tipico possa avere causa illecita), ricostruendo tale elemento in termini di sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del

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modello, anche tipico, adoperato). Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, si badi, e non anche della volontà delle parti. Causa, dunque, ancora iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l’uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale». (Cass. 8-5-2006, n. 10490) Spostare la verifica sulla esistenza e liceità della causa del contratto dalla ricerca di una “funzione economico-sociale” astratta all’apprezzamento della «sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato)», non significa smentire il ruolo della causa del contratto quale strumento di controllo e selezione, da parte dell’ordinamento, delle espressioni di autonomia privata, con il conseguente disfavore e diniego di tutela per quelle che esprimano un assetto di interessi illecito (contratti con causa illecita) o di tale assetto di interessi reali siano considerate prive (contratti privi di causa). La moderna nozione ha però il pregio di modificare sia l’oggetto sia il senso di tale verifica: ciò che l’ordinamento intende “controllare” non è la rispondenza dell’atto di autonomia privata a modelli astratti ritenuti a priori socialmente apprezzabili per le finalità perseguite, bensì la rintracciabilità, nelle scelte dei privati, di un qualche interesse concreto per le parti e, soprattutto, di un “programma” non vietato o in grado di ledere princìpi fondamentali dell’ordinamento (con danno per i consociati). Circa la funzione della causa e del controllo sulla causa abbiamo già posto in rilievo come ordine pubblico e buon costume costituiscano parametri flessibili; sicché la verifica della liceità della causa alla stregua di tali parametri inevitabilmente (ed opportunamente) comporta mutamenti nell’apprezzamento delle manifestazioni dell’autonomia privata che assecondano mutamenti ed evoluzioni sia dei princìpi posti a base dell’organizzazione istituzionale, politica, economica e sociale (ordine pubblico) sia del comune “sentire” sociale (buon costume).

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2. Il controllo causale nei contratti tipici e nei contratti atipici La causa, come abbiamo visto, è requisito di tutti i contratti la cui mancanza determina (art. 1418, co. 2) la nullità del contratto. Non vi è spazio dunque, in principio, nel nostro ordinamento (a differenza che in altri) per un contratto (o atto unilaterale) “astratto”, cioè privo di causa. La regola posta dall’art. 1988 c.c. in tema di promessa di pagamento e ricognizione di debito – secondo cui colui a favore del quale è fatta la promessa o la ricognizione è dispensato dall’onere di provare il rapporto fondamentale, la cui esistenza “si presume fino a prova contraria” – ammette la c.d. astrazione processuale, consentendo, appunto, una inversione nell’onere della prova. Tuttavia, dal regime qui delineato in tema di promesse unilaterali, si fa discendere correttamente la regola generale secondo cui, nel caso di rapporti obbligatori, la causa si presume. Un contratto a (soli) effetti obbligatori, per essere valido dovrà comunque avere una causa; tuttavia la mancata menzione della causa non ne determinerà la nullità, presumendosi, fino a prova contraria, che una causa vi sia e sia lecita. Non così nel caso di contratto con effetti reali: la circolazione dei diritti deve trovare una sua giustificazione e dunque il contratto con effetti reali non solo deve avere ma anche indicare la propria causa, esplicitando insomma il consenso traslativo di cui all’art. 1376 c.c. Oggetto di riflessione, ma anche di vivaci contrasti, è la figura, elaborata dalla dottrina e in qualche modo ammessa dalla giurisprudenza, del c.d. “contratto con causa esterna”. La fattispecie più controversa, su cui il dibattito si è concentrato, è quella del c.d. pagamento traslativo: l’atto con il quale si trasferisce un diritto in adempimento di un obbligo, è valido e produttivo di effetti ancorché la sua causa risieda, appunto, nel contratto (o altro titolo) che ha dato origine all’obbligazione? Il mandatario che, nell’ambito della rappresentanza c.d. indiretta, acquista beni immobili nell’interesse del rappresentato, ne trasferirà successivamente a questi la proprietà, e il trasferimento avverrà in adempimento dell’obbligo nascente, appunto, dal mandato (art. 1706), cioè da altro contratto. Ma fattispecie significativa, da questo profilo, è anche quella della c.d. datio in solutum, o prestazione in luogo di adempimento di cui all’art. 1197: il debitore, se il creditore è d’accordo, può eseguire una prestazione diversa da quella dovuta, prestazione che può consistere anche nel trasferimento della proprietà o altro diritto. L’atto di trasferimento sarà secondo alcuni mero atto di adempimento; ma ove si consideri che l’adempimento avverrà comunque

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mediante un contratto traslativo della proprietà, tornerà a porsi il problema della rintracciabilità di una causa in tale contratto. Il c.d. pagamento traslativo si ritiene valido (se e) in quanto trovi la sua giustificazione causale nel rapporto obbligatorio (e sua relativa causa): dunque in una causa “esterna”, che, tuttavia, pena la nullità dell’atto, dovrà essere qui espressamente menzionata. Tornando al controllo causale, può dirsi che esso non muta in ragione della tipicità o atipicità del contratto (I, 8). Non v’è dubbio che nel concreto assetto di interessi consegnato al singolo contratto anche lo schema legale tipico (ove esistente) si specifica, lasciando spazio anche a contratti (tipici) privi di causa o con causa illecita. Il contratto di assicurazione, contratto tipico, sarà privo di causa, in concreto, se il bene assicurato, pur all’insaputa delle parti, sia già perito. Nella vicenda decisa con la sentenza sopra citata n. 10490/2006, la S.C. conferma la pronuncia di merito che aveva giudicato inutile, e dunque nullo per “mancanza di giustificazione concreta”, un contratto di consulenza (pur rispondente allo schema legale tipico del contratto di prestazione d’opera professionale), in quanto le prestazioni oggetto del contratto di consulenza da rendere a favore di una società erano sostanzialmente identiche a quelle cui il prestatore era tenuto ad altro titolo nei confronti della società, in quanto amministratore della stessa. Di recente la S.C. è tornata a ribadire con più ampia argomentazione, e a partire dalla considerazione del concreto assetto di interessi cui le parti piegano lo schema tipico, la censurabilità della causa di un contratto tipico (nella specie di permuta). «Il contratto di permuta di cosa presente (la proprietà, o la comproprietà, di un terreno) contro cosa futura (la proprietà di alcuni edifici da costruire sul terreno medesimo), quando, come nella specie, ha come causa l’utilizzazione a fini edificatori di un terreno costiero, compreso nella fascia di 300 metri dalla linea di battigia, per la quale la legge di tutela delle zone di particolare interesse ambientale (L. 8 agosto 1985, n. 431, di conversione del D.L. 27 giugno 1985, n. 312) vieta tale utilizzazione, è nullo, ai sensi dell’art. 1343 c.c. e art. 1418 cod. civ., comma 2, perché ha una causa illecita, determinando una inaccettabile compressione dell’interesse, pubblico ed essenziale, assicurato dalle norme imperative in materia urbanistico-ambientale. L’illiceità giuridica della causa è data propriamente dal fatto che la determinazione di chi compie quel negozio è rivolta, nel

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suo contenuto intrinseco, a un risultato pratico oggettivamente contrario alle norme contemplate dal legislatore statale, le quali definiscono posizioni e tutelano interessi generali fondamentali non disponibili dai privati. Né la nullità, quale conseguenza dell’illiceità della causa, è esclusa per il fatto che la permuta è un contratto tipico, per il quale il codice ha previsto, ex ante, la meritevolezza della funzione economico-sociale che ne è alla base. La prospettazione difensiva muove dall’assunto che la causa possa assumere un carattere illecito soltanto nell’area dei contratti innominati, mancanti, in quanto tali, di un preventivo controllo di conformità alle direttive dell’intero ordinamento, laddove per gli schemi legalmente tipici la loro regolamentazione legale sarebbe indice di conformità, per definizione, alle norme imperative (all’ordine pubblico e al buon costume). Ma si tratta di assunto erroneo, giacché anche nei contratti tipici, quando si abbia riguardo alla funzione concretamente avuta di mira, è concepibile – come la giurisprudenza di questa Corte non ha mancato di precisare – una causa illecita, e ciò tutte le volte in cui le parti, pur con l’uso di uno schema negoziale preventivamente controllato e regolato legalmente, abbiano tuttavia direttamente perseguito uno scopo disapprovato dall’ordinamento, in quanto contrastante con i valori o con i principi, a tutela di interessi generali fondamentali, da esso accolti. Del resto, lo stesso codice civile, nel prevedere, all’art. 2126, che la nullità di un contratto nominato e tipico quale è il contratto di lavoro possa discendere dall’illiceità, oltre che dell’oggetto, anche della causa, ammette che l’appartenenza di una determinata figura contrattuale ad un tipo legale non esclude la possibilità di una nullità derivante, appunto, dalla illiceità della causa». (Cass. 18-9-2013, n. 21398) La moderna concezione della causa del contratto, modificando il controllo sulla causa nei termini che abbiano sopra posto in evidenza, ridimensiona anche la presunta differenza, quanto al significato di tale controllo, tra contratti tipici e contratti atipici. Abbandonata l’idea che l’autonomia privata trovi riconoscimento e tutela nell’ordinamento solo quando le sue espressioni siano da considerare “socialmente apprezzabili” per la funzione svolta e gli interessi perseguiti, ne risulta svalutata, in generale, ogni possibile rilevanza anche nel caso di contratti atipici dove pure viene evocato dall’art. 1322, di un giudizio di “meritevolez-

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za”, se inteso come selezione tra contratti ammessi e contratti vietati in ragione della necessaria coincidenza o compatibilità tra interessi privati e finalità apprezzate dall’ordinamento. Non sembra corretto tuttavia concluderne che il giudizio di meritevolezza, nei contratti atipici (ma come diremo anche in quelli tipici), si identifica e rimane assorbito nel giudizio di liceità, sicché non meritevoli sarebbero solo i contratti atipici (come del resto quelli tipici) con causa illecita. Vero è piuttosto che i nostri giudici – sia quando si mostravano più legati alla concezione della causa come “funzione economico-sociale” del contratto, sia quando procedono oggi allo scrutinio della causa in concreto – pur senza entrare nel merito della maggiore o minore serietà o rilevanza sociale dei fini perseguiti, ritengono che il contratto (tipico o atipico che sia) debba comunque manifestare uno scopo pratico e una qualche utilità per le parti. Considerano dunque non meritevole di tutela (nullo), non solo il contratto illecito, ma il contratto inutile; e per converso meritevoli di tutela contratti rispondenti ad interessi dei privati, pur marginali o ancora non diffusi, purché leciti. Abbiamo citato sopra l’esempio del contratto, tipico, di prestazione d’opera professionale giudicato inutile perché volto a far conseguire alla parte una prestazione che le era già dovuta ad altro titolo. Significativa la vicenda del contrasto giurisprudenziale – ora risolto dalle Sezioni Unite della S.C. come a suo tempo ricordato (IV, I, 14) – circa l’ammissibilità del contratto preliminare di contratto preliminare, giudicato nullo perché inutile, ove semplicemente volto a reiterare l’obbligo di concludere il definitivo, ma meritevole di tutela ove le parti intendano dare un diverso assetto ai loro interessi e, in quest’ambito, assumere vincoli preliminari anche rispetto alla futura stipula di un vero e proprio contratto preliminare. Di recente – a conferma dell’atteggiamento qui segnalato – la S.C. ha chiarito i termini di ammissibilità del contratto atipico, c.d. di rivelazione di diritti successori, cioè il contratto con cui un soggetto “vende”, mette a disposizione dei beneficiari, in cambio di un corrispettivo, informazioni acquisite (senza preventivo incarico) da cui risulta che questi hanno un diritto ereditario del quale non erano a conoscenza. La cessione a titolo oneroso dell’informazione potrà essere oggetto di un contratto valido quando, a fronte dell’ovvio interesse dei beneficiari, si riscontri anche la non casualità dell’acquisizione dell’informazione, che solo se acquisita all’esito di una attività professionale svolta può giustificare un compenso.

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«La fattispecie in esame configura un contratto atipico, noto e praticato negli USA (non a caso la proposta della Coutot è stata accettata proprio dai due eredi ivi residenti) mediante il quale un operatore economico, dopo avere raccolto informazioni vantaggiose per qualcuno (circa lasciti ereditari, donazioni, premi, assegnazione gratuita di azioni societarie, ecc.) offre di rivelarne gli estremi agli ignari beneficiari, dietro promessa di un compenso. Si è discusso oltreoceano se un tale accordo sia assistito da valida causa, considerato che il destinatario dell’informazione non acquisisce alcun diritto che già non avesse – in forza della sua posizione di erede, donatario, vincitore di lotteria, titolare di azioni, ecc. – ma solo le informazioni indispensabili per venire a conoscenza del beneficio. Il problema è stato risolto nel senso che il compenso è giustificato qualora l’acquisizione dell’informazione sia frutto di un’attività deliberatamente organizzata a tale scopo dal proponente, il quale viene così ad offrire al destinatario un vero e proprio servizio, che avrebbe anche potuto costituire oggetto di specifico mandato. Si ritiene priva di giusta causa, invece, la richiesta di un compenso per trasmettere un’informazione che il proponente abbia acquisito non nell’esercizio di specifica attività diretta allo scopo, ma in via del tutto casuale, poiché in tal caso la pretesa appare meramente speculativa, quindi inidonea ad integrare giusta causa del trasferimento di ricchezza di cui alla promessa di pagamento». (Cass. 14-5-2014, n. 10397) Il giudizio di (im)meritevolezza esprime sia l’accertata inidoneità del contratto a conseguire il risultato voluto dalle parti sia un generale disvalore dell’ordinamento, nella pronuncia recente con cui la S.C. conferma la dichiarazione di nullità del contratto di assistenza sportiva stipulato in violazione delle norme dell’ordinamento sportivo (che prevede l’iscrizione all’albo dell’agente o avvocato che presta l’assistenza ma anche, a pena di nullità, la redazione su appositi moduli predisposti dalla Commissione procuratori sportivi o comunque con gli elementi previsti dal regolamento). Le violazioni di norme dell’ordinamento sportivo – ad avviso dei giudici di merito ma anche della S.C. che ne fa proprio il principio –

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«necessariamente si riflettono sulla validità di un contratto concluso tra soggetti sottoposti alle regole del detto ordinamento anche per l’ordinamento dello Stato, poiché se esse non ne determinano direttamente la nullità per violazione di norme imperative, incidono necessariamente sulla funzionalità del contratto medesimo, vale a dire sulla sua idoneità a realizzare un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico; non può infatti ritenersi idoneo, sotto il profilo della meritevolezza della tutela dell’interesse perseguito dai contraenti, un contratto posto in essere in frode alle regole dell’ordinamento sportivo, e senza l’osservanza delle prescrizioni formali all’uopo richieste, e, come tale, inidoneo ad attuare la sua funzione proprio in quell’ordinamento sportivo nel quale detta funzione deve esplicarsi». (Cass. 17-3-2015, n. 5216) Richiamandosi alla valutazione “in concreto” della causa, intesa quale sintesi degli interessi dei soggetti contraenti ma anche quale «strumento di accertamento della generale conformità alla legge dell’attività contrattuale posta effettivamente in essere», la S.C. ha censurato la pronuncia del giudice di merito che aveva ritenuta valido un contratto con il quale i titolari di un libretto al portatore lasciavano in detenzione il libretto alla banca, autorizzandola ad effettuare compensazioni tra le somme in attivo ivi depositate e quelle in eventuale passivo nel conto corrente che i medesimi soggetti, ma questa volta a nome della società con cui gestivano un salumificio, intrattenevano presso la medesima banca. La fattispecie era dunque quella di un contratto (atipico) misto, con elementi del contratto bancario (emissione del libretto al portatore) e del mandato (ad effettuare “compensazioni” con la scopertura di conto corrente), operazione il cui intento, come rilevato dallo stesso giudice d’Appello, «era palesemente quello di rendere più difficile l’eventuale collegamento con la gestione sociale delle somme depositate sui libretti via via posti in essere e poi estinti». Ebbene, la S.C. rinvia l’esame della controversia alla Corte d’Appello poiché il giudice di merito dovrà a suo avviso accertare se il rapporto tra la Banca e la società risultasse posto in essere in modo contrario a quanto giuridicamente (violazione di norme imperative o clausole generali) o eticamente (il c.d. buon costume) previsto o se, indipendentemente da ciò, gli interessi perseguiti fossero non giuridicamente tutelabili sia in relazione allo specifico intento

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fraudolento di cui all’art. 1345 c.c., sia, per quanto generalmente sancito dall’art. 1322, secondo comma, c.c., con riferimento alla loro “non meritevolezza” con particolare riguardo alla gestione societaria, al relativo bilancio ed alla garanzia dei terzi-creditori (Cass. 19-2-2000, n. 1898). Il concetto di “causa in concreto” consente peraltro, in generale, una rappresentazione più compiuta dell’assetto di interessi delineato dalle parti, anche in vista di regolare le vicende che attengono al rapporto contrattuale e alla sua vicenda attuativa: lo vedremo, ad esempio, a proposito della rilevanza che per questa via viene assegnata, quale causa di estinzione dell’obbligazione (e di risoluzione del contratto) ad una “impossibilità soggettiva” della prestazione, cioè al venir meno dell’interesse creditorio alla prestazione ancorché questa sia ancora oggettivamente possibile (VIII, 14).

3. I contratti misti e i contratti collegati Abbiamo già parlato del contratto misto (I, 9), cioè del contratto – più spesso atipico – nel quale l’assetto di interessi voluto dalle parti e l’operazione in concreto voluta e regolata risulta dalla combinazione di elementi di contratti diversi: il contratto misto è un contratto unico ed ha un’unica causa, pur se essa non rimanda ad una delle fattispecie tipiche bensì ad elementi di diversi tipi contrattuali tra loro combinati. Si pone qui il problema della individuazione della disciplina da applicare e abbiamo fatto riferimento ai due criteri prospettati, quello della combinazione (in base al quale al contratto si applicherà, tenuto conto dei suoi contenuti, la disciplina di tutti i tipi contrattuali che vi risultano combinati) e quello dell’assorbimento (ove sia rintracciabile un tipo di riferimento comunque prevalente, il contratto si riterrà da questo e dalla relativa disciplina “assorbito”). Fattispecie del tutto diversa e da non confondere con la precedente è quella in cui lo scopo in concreto perseguito dalle parti risulta affidato a più contratti, distinti, ma tra loro collegati. Il contratto collegato non è un tipo particolare di contratto, ma uno strumento di regolamento degli interessi economici delle parti. Ciascun contratto ha e mantiene una propria individualità ed una propria causa, ma è il nesso tra i diversi contratti coinvolti che consente di realizzare la finalità avuta di mira

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dalle parti: i diversi contratti sono funzionalmente collegati, cioè rivolti, insieme e in ragione del loro collegamento, ad uno scopo ulteriore (la causa concreta dell’intera negoziazione), autonomo rispetto a quello realizzabile con l’utilizzo di ciascuno di essi. Se in alcuni casi il collegamento è legalmente previsto e tipizzato, e si parla qui di collegamento necessario – come quello tra contratto preliminare e contratto definitivo o tra subcontratto e contratto base – più spesso il collegamento è volontario, cioè frutto delle scelte dell’autonomia dei privati: dovrà in questo caso rintracciarsi tuttavia, non solo un nesso soggettivo, cioè l’intento delle parti di instaurare tale collegamento ma anche un nesso teleologico che obiettivamente leghi i contratti, rendendoli cioè idonei a realizzare un ulteriore scopo. E allora, «Affinché possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la considerazione unitaria della fattispecie, è necessario che ricorra sia un requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia un requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l’effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale». (Cass. 17-5-2010, n. 11974) Sulla base di questo principio la S.C. ha escluso che tra il contratto di vendita di un prodotto hardware (un notebook) e il contratto di licenza d’uso per l’accesso al sistema operativo ivi preinstallato debba ravvisarsi un collegamento negoziale, in mancanza di elementi idonei a dimostrare la volontà delle parti di concludere entrambi i negozi per realizzare un ulteriore unitario interesse pratico. L’utilizzo di un determinato sistema operativo, d’altra parte, non è componente indissolubile né “qualità essenziale” del computer, e la combinazione tra la compravendita dell’hardware e la licenza d’uso del software è scelta di carattere commerciale (preordinata dal produttore del notebook in attuazione di accordi con il produttore del software, ai quali il compratore è estraneo): con la conseguenza che il mancato consenso dell’acquirente all’u-

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so del software si ripercuoterà unicamente sul contratto di licenza d’uso e non sul negozio di compravendita del computer. Dovrà parimenti escludersi un collegamento negoziale, ma per rintracciare un unico contratto, quando, malgrado siano stati stipulati più distinti contratti, nessuno di essi, da solo, abbia autonomia e sia di per sé idoneo a realizzare un qualche scopo. È il caso del prodotto finanziario denominato “Visione Europa” offerto agli investitori dalla banca Montepaschi Siena, che combina tre operazioni. La banca concede all’investitore un finanziamento utilizzato per il contestuale acquisto di titoli obbligazionari (con rendimento alla scadenza) e di quote di un fondo comune d’investimento a carattere azionario; al contempo viene pattuito che i titoli così acquistati saranno costituiti in pegno a favore della banca a garanzia della restituzione del finanziamento, che l’investitore si obbliga a restituire in quindici anni in rate trimestrali ad un saggio di circa l’8%. A fronte della domanda di dichiarazione di nullità del contratto per la mancata espressa menzione nel contratto del diritto di recesso, ai sensi dell’art. 30, co. 7, t.u.f. (trattandosi di offerta fuori sede IV, II, 21), la Corte d’appello aveva ritenuto che l’informazione sul recesso potesse legittimamente essere contenuta nel solo prospetto informativo concernente l’operazione di acquisto di quote del fondo d’investimento, nel presupposto che il contratto denominato “Visione Europa” non costituisse di per sé e nel suo complesso un servizio di investimento. La S.C., all’opposto, alla luce dei contenuti dell’operazione sopra sintetizzati, ritiene che «un contratto che presenti le caratteristiche appena descritte è un contratto unitario, perché unitaria ne fu la causa»; «lo scopo concreto delle parti fu … quello … di garantire una remunerazione ai risparmi dell’investitore». Il nucleo dell’operazione è da ravvisarsi dunque in uno scopo di investimento al quale è preordinato il finanziamento e «la sua scomposizione in tre contratti non è che fittizia ed apparente» (Cass. 3-4-2014, n. 7776, cit.). Un esempio di collegamento negoziale (volontario) si rinviene nel leasing finanziario, allorché il bene viene acquistato dal fornitore da parte della società di leasing per poi essere dato in godimento all’utilizzatore. Si realizza qui un collegamento tra contratto di leasing e contratto di fornitura, poiché è proprio l’interesse al godimento da parte dell’utilizzatore della cosa (che il finanziatore al medesimo procura presso il fornitore) a venire essenzialmente in rilievo, e che l’operazione negoziale in questione è sostanzialmente volta a realizzare, quale causa con-

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creta, ulteriore e autonoma rispetto a quella dei singoli contratti. Il nesso che lega tra loro i contratti collegati e l’unitarietà dello scopo che attraverso tale legame si realizza, determinano un vincolo di dipendenza che si suole esprimere con la formula latina “simul stabunt simul cadent” (stanno in piedi insieme e insieme cadono): le vicende che investono un contratto, come invalidità, inefficacia, risoluzione, ecc., possono ripercuotersi sull’altro, e sarà il giudice ad accertare entità, modalità e conseguenze del collegamento negoziale realizzato dalle parti. Ma non è vero l’inverso, nel senso che il collegamento negoziale con contratti validi, non esclude la rilevanza della nullità di uno di essi, e dunque non salva l’intero complesso dei contratti collegati: i contratti collegati, infatti, come già detto, conservano la propria individualità ed autonomia e dunque rimangono soggetti alla disciplina propria del rispettivo schema negoziale.

4. (Segue). Il collegamento negoziale nei contratti di consumo L’elaborazione intorno al collegamento negoziale e le più puntuali prospettazioni del fenomeno e dei suoi effetti offerte dalla giurisprudenza, sottolineano come le modalità del collegamento tra i contratti possano variare e vadano accertate in concreto e, dunque, la regola che simul stabunt simul cadent, secondo cui le vicende che investono uno dei contratti si ripercuotono sugli altri, va rapportata al concreto atteggiarsi del collegamento: il condizionamento tra i contratti non necessariamente è reciproco, nel senso che solo uno dei contratti potrà presentarsi subordinato all’altro e non viceversa e talora potrà individuarsi il rapporto tra un contratto “principale” e un contratto “accessorio”. La distinzione talora formulata in dottrina tra collegamento bilaterale e unilaterale serve, come è stato osservato, al «limitato fine di porre in luce che il collegamento può operare altresì in una sola direzione» (C. Scognamiglio). Nel collegamento bilaterale due contratti vengono posti in essere al fine di realizzare una determinata finalità unitaria, con una conseguente dipendenza funzionale tra di essi che impedisce la sopravvivenza dell’uno senza l’altro, mentre nel collegamento unilaterale (si pensi al rapporto tra negozio di garanzia e negozio principale) solo uno dei due contratti (ad esempio quello, accessorio, di garanzia) presuppone l’altro ed è dunque condizionato dalla sorte di questo, ma non è vero l’inverso.

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La questione della identificazione di un collegamento negoziale e dei conseguenti effetti si è posta con particolare rilevanza nell’ambito dei contratti consumatori-professionisti, avuto riguardo a quei settori in cui l’accesso del consumatore a taluni beni o servizi è facilitato da operazioni di finanziamento, con riferimento dunque alla rintracciabilità o meno (e con quali conseguenze) di un collegamento negoziale tra contratto di consumo (esempio per la fornitura di un bene o servizio) e contratto di credito ai consumatori. Gli effetti caducatori derivanti dell’esercizio del diritto di recesso libero sui contratti “accessori” sono espressamente previsti in alcuni casi. Nel contratto di multiproprietà o di quelli che abbiamo definito contratti affini (III, 4), ai sensi dell’art. 77 cod. cons. (nel testo introdotto dal d.lgs. n. 79/2011 che ha recepito la seconda direttiva multiproprietà) l’esercizio da parte del consumatore del diritto di recesso «comporta automaticamente e senza alcuna spesa per il consumatore, la risoluzione di tutti i contratti di scambio ad esso accessori e di qualsiasi altro contratto accessorio» (da intendersi come un contratto ai sensi del quale il consumatore acquista servizi “connessi” al contratto principale forniti dall’operatore o da un terzo sulla base di un accordo tra il terzo e l’operatore: art. 69, co. 1, lett. g), cod. cons.). Il co. 2 dell’art. 77, specifica poi espressamente l’effetto caducatorio (senza costi per il consumatore) dell’esercizio del diritto di recesso sui contratti di credito ai consumatori, nel caso in cui il prezzo per l’acquisto della multiproprietà o di altro prodotto per vacanze a lungo termine sia stato coperto da un credito concesso dall’operatore o da un terzo finanziatore in base ad accordo con l’operatore. Per i contratti negoziati a distanza o fuori dei locali commerciali, il co. 6 dell’art. 67 cod. cons., inserito dall’art. 2 del d.lgs. n. 141/2010 (di recepimento della seconda direttiva sul credito al consumo), prevedeva analogo effetto, facendo questa volta rinvio alla nozione di contratti di credito collegati adottata dalla disciplina sul credito ai consumatori: «Il contratto di credito collegato ai sensi dell’art. 121, co. 1, lett. d), del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, si intende risolto di diritto, senza alcuna penalità, nel caso in cui il consumatore eserciti il diritto di recesso da un contratto di fornitura di beni o servizi disciplinato dal presente titolo conformemente alle disposizioni di cui alla presente sezione». A seguito delle modifiche apportate al codice del consumo in sede di recepimento della direttiva sui diritti dei consumatori (2011/83), la di-

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sposizione è stata formulata in modo più completo e consegnata ora all’art. 58 cod. cons. Qui, «fatto salvo quanto previsto dal d.lgs. 13-82010, n. 141 e successive modificazioni, in materia di contratti di credito ai consumatori» (e dunque il già ricordato scioglimento del contratto di credito), la legge espressamente dispone, come per la multiproprietà, che l’esercizio del diritto di recesso dal contratto a distanza o negoziato fuori dei locali commerciali comporta la risoluzione di diritto di eventuali contratti accessori, senza costi per il consumatore, salvo quelli espressamente previsti dall’art. 56, co. 2 e dall’art. 57. Ricordiamo che, ferma restando la modalità di conclusione, a distanza o fuori dei locali commerciali, l’ambito di applicazione degli artt. da 45 a 67 cod. cons. è ora esteso a «qualsiasi contratto concluso tra un professionista e un consumatore, inclusi i contratti per la fornitura di acqua, gas, elettricità o teleriscaldamento, anche da parte dei prestatori pubblici, nella misura in cui detti prodotti di base sono forniti su base contrattuale» (art. 46, co. 1), salve le esclusioni di cui all’art. 47. Le espresse disposizioni ora ricordate mantengono ovviamente una portata limitata, sancendo, per questi contratti, le ricadute ex lege su eventuali contratti accessori, in particolare quello di credito al consumo, del (solo) recesso. Lasciano dunque impregiudicata la questione generale sopra menzionata, che attiene al se e al come del collegamento negoziale tra contratto di credito e contratto per la prestazione di beni o servizi cui esso acceda. La risposta, non del tutto soddisfacente, dopo una fase di incertezza che ha visto anche l’intervento della Corte di giustizia, è venuta dalla seconda direttiva sul credito al consumo 2008/48/CE, di modifica della dir. 87/102/CE, come recepita dal nostro legislatore nei (nuovi) artt. da 121 a 126 t.u.b. La disciplina del credito ai consumatori fornisce ora, intanto, una tipizzazione legale delle ipotesi di collegamento: “contratto di credito collegato”, secondo la nozione di cui all’art. 121, lett. d), t.u.b., è «un contratto finalizzato esclusivamente a finanziare la fornitura di un bene o la prestazione di un servizio specifico», se ricorre una delle seguenti condizioni, che il finanziatore si avvalga del fornitore del bene o del prestatore del servizio per promuovere o concludere il contratto di credito ovvero se il bene o servizio specifici sono esplicitamente individuati nel contratto di credito. La direttiva richiedeva altresì che i due contratti costituissero “oggettivamente un’unica operazione commerciale”; ma il nostro legislatore, probabilmente al fine di rendere più definita

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la fattispecie di collegamento legale, qui prevista, ha omesso tale riferimento. Considerata l’ampiezza delle possibili operazioni (e relativi modelli contrattuali) che rientrano nella nozione e disciplina del credito ai consumatori – cui abbiamo fatto cenno sopra (III, 7) – e considerato che nella maggior parte degli schemi contrattuali adottati, al di là della generica finalità perseguita in ragione della figura del finanziato (consumatore), non rileva in modo specifico un vincolo di destinazione del credito al consumo (facendo del contratto un finanziamento di scopo), è evidente l’intento del legislatore, europeo e nazionale, di limitare l’ambito della rilevanza del collegamento negoziale a fattispecie nelle quali il legame tra fornitura e credito sia palese e soprattutto identificabile sulla base di precisi indici normativi. Da questo punto di vista si ripropone qui in qualche modo la scelta di dare certezza, pur se in qualche modo irrigidendoli, ai presupposti da cui dipende l’utilizzo di rimedi a favore del consumatore, restringendo ove possibile l’ambito di verifica ex post in sede giudiziale. Si tratta invero di un collegamento unilaterale o se si preferisce unidirezionale, che delinea cioè la dipendenza del contratto di credito da (talune) vicende del contratto di fornitura ma non l’inverso. Lasciate le ricadute sul contratto di credito dell’esercizio del diritto di recesso a singole norme settoriali (quelle sui contratti di multiproprietà o affini e sui contratti negoziati a distanza o fuori dei locali commerciali), il collegamento negoziale, nei termini qui delineati, rileva solo in caso di inadempimento da parte del fornitore dei beni o dei servizi, ma non con il consueto e generale effetto di condizionamento, che dovrebbe comportare l’automatica ricaduta nel contratto di credito delle conseguenze dell’inadempimento del contratto di fornitura (risoluzione ma anche eccezione di inadempimento). Il consumatore, in caso di inadempimento del contratto di fornitura, dovrà prima aver messo in mora inutilmente il fornitore e, di seguito, avrà diritto alla risoluzione del contratto di credito secondo i consueti presupposti (la non scarsa importanza dell’inadempimento ex art. 1455 cui l’art. 125-quinquies del t.u.b. fa espresso rinvio). A seguito della risoluzione graveranno sul finanziatore gli obblighi restitutori derivanti dal contratto di credito, ed egli dovrà dunque rimborsare al consumatore le rate già pagate ed ogni altro eventuale onere, mentre il fornitore sarà obbligato a rimborsare al finanziatore l’importo che gli sia stato già versato. La tipizzazione del collegamento negoziale, nei termini appena riassunti, è certo da valutare con favore, a patto però, si è osservato in dot-

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trina, di ritenere che essa non possa assumersi come esaustiva, e dunque non possa sottrarre i contratti di credito ai consumatori alle regole generali in tema di collegamento volontario. Conclusione tanto più necessaria ove si consideri che la disciplina in esame, dopo averne individuato i presupposti, configura questo collegamento ex lege, come asimmetrico e ad effetti parziali (L. Modica). Va dunque ribadito, anche dopo l’espressa previsione normativa di un collegamento negoziale ex lege, seppur a determinati effetti, quanto affermato in giurisprudenza nell’applicazione della previgente disciplina, che riconosceva tale collegamento solo per implicito e solo in presenza di una clausola di esclusiva tra fornitore e finanziatore

«Individuato come sussistente un collegamento negoziale derivante da una fonte legale, la diversità della fonte non osta certo a trarre da quel collegamento sia gli effetti espressamente previsti dalla legge che istituisce quel collegamento, sia tutti gli altri che, in materia di contratti collegati, la normativa contrattuale consente di riconoscere, quanto alla delibazione di validità delle clausole del contratto di finanziamento e quanto alla regolamentazione delle patologie dello stesso rapporto e di quello derivante dal contratto collegato». (Cass. 30-9-2015, n. 19522)

5. Il contratto in frode alla legge L’art. 1344 c.c. precisa che «si reputa altresì illecita la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa». Viene qui in considerazione il contratto in frode alla legge. Le parti utilizzano un contratto con causa lecita ma attraverso il regolamento posto in essere lo piegano per raggiungere un risultato vietato dalla legge. Non si tratta di una simulazione: le parti stipulano un unico contratto e non affidano l’elusione di norme imperative a due distinte manifestazioni di volontà quali il contratto simulato e quello dissimulato o la controdichiarazione. Esempio di contratto in frode alla legge, venuto sovente all’attenzione dei giudici, è la vendita a scopo di garanzia, in cui attraverso l’uso dello schema della compravendita, variamen-

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te atteggiato nella prassi, le parti realizzano lo scopo di garanzia proprio del patto commissorio, che la legge vieta all’art. 2744 c.c. La norma vieta, comminandone la nullità, il patto (anche se posteriore alla costituzione della garanzia), «col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito, nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore». E la giurisprudenza ribadisce che il divieto si estende a qualsiasi negozio attraverso il quale si consegua il risultato vietato dall’ordinamento, cioè quello di coartare la libertà contrattuale del debitore che accetta, come conseguenza del suo eventuale inadempimento, un trasferimento del bene offerto in garanzia al creditore, fuori dalle regole che presiedono alla eventuale esecuzione (secondo le norme di legge e in sede giurisdizionale) sui beni oggetto di garanzia. Ciò che rileva al fine di intercettare il contratto in frode alla legge è dunque lo scopo che il contratto in concreto assicura; nel caso del contratto che elude il divieto di patto commissorio, non è tanto la natura obbligatoria piuttosto che traslativa o reale del contratto ovvero il momento in cui l’effetto traslativo è destinato a realizzarsi, quanto il profilo funzionale dell’operazione ed il risultato cui essa mira, che piega lo schema della vendita allo scopo di garanzia invece che a quello di scambio. La vendita con patto di riscatto o di retrovendita può essere mezzo per eludere il divieto di patto commissorio ed integrare un contratto in frode alla legge quando, ricostruendo la volontà delle parti e il complessivo assetto di interessi delineato, risulti che il versamento del prezzo da parte del compratore non si configura come corrispettivo dovuto per l’acquisto della proprietà, ma come erogazione di un mutuo, rispetto al quale il trasferimento del bene risponda alla sola finalità di costituire una posizione di garanzia; mentre il riscatto consentirà il ritorno della proprietà del bene in capo al venditore-debitore se adempiente. Ovviamente occorrerà rintracciare nel regolamento contrattuale il meccanismo diretto al raggiungimento dell’effetto vietato (di garanzia).

6. Le classificazioni dei contratti riguardo alla causa Abbiamo già fatto cenno a talune distinzioni che attengono a differenze nella struttura dei contratti che hanno ovviamente rilevanza in termini di disciplina. Differenze strutturali che si apprezzano con riguardo alle parti (contratti plurilaterali: IV, I, 9), alle modalità di con-

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clusione (contratti consensuali e contratti reali: IV, II, 1). Della classificazione quanto agli effetti (contratti ad effetti reali o ad effetti obbligatori, di durata o ad esecuzione istantanea) ci occuperemo successivamente (VI, 5). Di particolare rilievo, sempre per le differenze di disciplina che ne derivano, sono le distinzioni che rimandano alla causa del contratto e al suo atteggiarsi. È con rinvio alla causa che i contratti si classificano come onerosi (, o, appunto, con causa onerosa) e gratuiti (o con causa gratuita). Il contratto è oneroso quando ciascuna parte sopporta un sacrificio patrimoniale a fronte del vantaggio che il contratto le procura. Il contratto è gratuito quando una parte, beneficiaria, si avvantaggia della prestazione dell’altra ma senza sopportare alcun sacrificio. Sacrificio e vantaggio, perché il contratto abbia causa onerosa, non debbono essere necessariamente interdipendenti (concetto che come vedremo rileva invece per i contratti a prestazioni corrispettive), ma debbono tuttavia individuarsi in relazione ai cambiamenti che il contratto determina nella posizione e situazione patrimoniale delle parti. Il contratto di comodato è “essenzialmente gratuito”, come precisa l’art. 1803, co. 2, malgrado a carico del comodatario nasca l’obbligazione di custodire e conservare la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia oltre che l’obbligo di restituirla al termine del rapporto, obbligazioni che sono conseguenza del contratto e del vantaggio che egli riceve e non invece sacrifici che egli affronta per procurarsi il vantaggio. Il diritto di godere del bene mobile o immobile e di servirsene per un tempo determinato è invece vantaggio cui si accompagna un sacrificio diretto a conseguirlo, se a fronte del godimento deve corrispondersi un canone, tramutandosi la fattispecie nel contratto oneroso di locazione. La distinzione, come vedremo, ha rilievo a determinati fini, in particolare ai fini della stabilità accordata dall’ordinamento ai diritti acquistati: l’annullamento del contratto non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in buona fede a titolo oneroso (art. 1445 c.c., VI, 5 e VII, 12); le clausole dubbie del contratto, se non soccorrono altri criteri di interpretazione, dovranno intendersi in modo meno gravoso per l’obbligato se il contratto è a titolo gratuito (art. 1371: V, 2). La prestazione gratuita può inserirsi in una operazione più ampia, quale servizio accessorio o effetto di un collegamento negoziale, della cui onerosità partecipa: il trasporto gratuito dall’aeroporto offerto dall’hotel, il contratto di assistenza, gratuito per un determinato perio-

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do di tempo, offerto dal venditore di computer non hanno rilevanza se non all’interno del contratto (oneroso) entro cui si inseriscono. Non cessa invece di essere gratuito un contratto (pur non disinteressato) con il quale, ad esempio, un professionista offra gratuitamente un servizio a scopo promozionale per attirare la clientela (il gestore di una sala cinematografica offre un ingresso gratuito una volta a settimana). L’ammissibilità di un contratto gratuito ma non per questo del tutto disinteressato aiuta anzi a distinguere dai contratti gratuiti i contratti caratterizzati da spirito di liberalità, essenzialmente la donazione, dove l’attribuzione all’altra parte di un vantaggio senza che questa sopporti alcun sacrificio è supportata dallo specifico intento liberale, poiché lo scopo in concreto perseguito è quello di arricchire il beneficiario. Lo spirito di liberalità peraltro può rintracciarsi anche in un contratto oneroso, come nel caso del negotium mixtum cum donatione o donazione indiretta. Qui il contratto ha natura onerosa ma, ad esempio attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni, è volto a raggiungere, per via indiretta, una finalità ulteriore e diversa, di arricchimento del contraente che riceve la prestazione di maggior valore, per spirito di liberalità. Il contratto di compravendita mantiene la sua natura onerosa ma viene rivolto ad una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella di scambio. Ovviamente, avverte la giurisprudenza, non tutte le compravendite a prezzo inferiore a quello effettivo integrano, di per sé, una donazione indiretta, poiché occorre sia la sussistenza di una sproporzione significativa tra prestazioni, sia la consapevolezza, da parte dell’alienante, dell’insufficienza del corrispettivo ricevuto rispetto al valore del bene ceduto, funzionale a consentire che la controparte si arricchisca della differenza tra il valore reale del bene e la minore entità del corrispettivo versato. La presenza di prestazioni a carico delle parti (e dunque l’onerosità) non esclude che l’entità di una di esse sia incerta e dipendente dal caso: il che porta a distinguere il contratto commutativo, nel quale l’entità delle prestazioni è determinata dal contratto aleatorio, nel quale, a fronte di una prestazione certa della sua controparte, la parte si obbliga ad una prestazione la cui entità è rimessa al caso. Non si tratta qui della variabilità, sempre possibile, del valore economico della prestazione tra momento in cui il contratto è stipulato e momento dell’adempimento (l’appaltatore, quando formula una offerta e si aggiudica la realizzazione dell’opera dovrà mettere in conto le normali oscillazioni del prezzo dei materiali), né delle alterazioni, talora anche imprevedibili, del valore

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di mercato dei beni che si acquistano (la crisi del mercato immobiliare fa scendere considerevolmente il prezzo di mercato dell’immobile rispetto a quello corrisposto alla vendita). Qui ricorre quella che il codice chiama “alea normale del contratto”, come vedremo, per escludere che mutamenti significativi di questa, non straordinari o imprevedibili, possano avere rilievo nel corso del rapporto (risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta VIII, 17). Nel contratto aleatorio, invece, come suol dirsi è proprio l’alea ad essere dedotta in contratto: nel contratto di assicurazione, contratto aleatorio tipico, l’assicurato (art. 1882 c.c.) si obbliga a versare premi di entità predeterminata mentre l’assicuratore si obbliga a rivalere l’assicurato, seppur entro limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro. Il contratto se così può dirsi “scommette” per entrambi sul rischio, poiché l’assicurato sa che si avvantaggerà ove, a fronte di pochi premi pagati, dovesse verificarsi un evento coperto da assicurazione che comporti ingenti danni e l’assicuratore può contare sulla possibilità che l’evento coperto da assicurazione non si verifichi, così lucrando interamente l’importo dei premi corrisposti dall’assicurato. La vendita di cose future è di regola contratto commutativo, sicché se la cosa non viene ad esistenza, mancando il bene oggetto del contratto, la vendita è nulla; ma non così se le parti hanno voluto concludere un contratto aleatorio (art. 1472, co. 2, c.c.): è la distinzione tra emptio rei speratae, vendita di cosa che ci si attende venga ad esistenza, così completando la fattispecie, ed emptio spei, in cui il contratto ha per oggetto proprio l’evento aleatorio della venuta ad esistenza o meno del bene. Classico esempio, la vendita anticipata del pescato ovvero la vendita “all’albero” dei prodotti o addirittura la vendita anticipata del futuro raccolto, in cui il prezzo pagato o pattuito potrà rivelarsi sproporzionato, in eccesso o in difetto, a fronte della effettiva quantità di prodotto pescato o raccolto. La disciplina generale del contratto dà rilievo, infine, alla categoria dei contratti a prestazioni corrispettive o sinallagmatici, o con causa sinallagmatica (o di scambio). Qui le prestazioni si giustificano l’una in ragione dell’altra, essendo legate dal nesso di reciprocità (sinallagma), sicché l’una è reciproca rispetto all’altra e deve trovare il suo corrispettivo nell’altra. Si pensi alla compravendita (scambio di cosa contro prezzo), alla locazione (scambio del godimento sul bene contro canone), ma altresì alla somministrazione, al contratto di lavoro, ecc. Il mutuo oneroso, malgrado la realità comporti che la consegna della somma debba ritenersi elemento costitutivo della fattispecie, origi-

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nandosi poi solo a carico del mutuatario l’obbligazione di restituzione e di pagamento degli interessi, secondo lo schema del contratto unilaterale, se oneroso, è da qualificarsi (vedi anche l’art. 1820 che vi applica il rimedio della risoluzione per inadempimento) come contratto a prestazioni corrispettive, configurandosi il pagamento degli interessi quale corrispettivo della somma di denaro o altro bene fungibile mutuato. Il contratto a prestazioni corrispettive è necessariamente oneroso ma non necessariamente commutativo (e del resto, reciprocamente, il contratto di società è commutativo ma non sinallagmatico). Così assicurazione, rendita, sono contratti aleatori ma a prestazioni corrispettive. La precisazione chiarisce efficacemente che il nesso sinallagmatico implica una interdipendenza tra prestazione e controprestazione ma non necessariamente la predeterminazione dei termini dello scambio e tanto meno un equilibrio economico tra le prestazioni per cui l’una debba rispecchiare adeguatamente il valore dell’altra. Nel contratto a prestazioni corrispettive, non aleatorio, ciò che rileva è semmai che il rapporto tra il valore di una prestazione rispetto alla controprestazione come voluto dalle parti e determinato nel contratto – quale che sia – non subisca variazioni tanto importanti e imprevedibili da mettere in discussione la causa di scambio come esistente al momento in cui il contratto è stato concluso. Il sinallagma contrattuale, nei contratti di scambio, deve insomma ravvisarsi al momento in cui il contratto nasce (sinallagma genetico), ma permanere nella fase di attuazione del rapporto (sinallagma funzionale). Come dimostrano i rimedi con cui l’ordinamento, come vedremo, reagisce ad eventi che possano interrompere il nesso sinallagmatico – l’inadempimento ovvero l’impossibilità sopravvenuta di una prestazione o, ancora, l’eccessiva onerosità sopravvenuta – si profila qui una rilevanza della causa (sinallgmatica) anche nel corso del rapporto; si parla di un difetto funzionale della causa, che costituisce il presupposto e spiega la ratio della risoluzione del contratto (VIII, 1). Simile ricostruzione è corretta se intende sottolineare il modo con cui l’ordinamento assegna rilevanza alla causa sinallagmatica e il ruolo che essa svolge nella vicenda contrattuale; a patto di non dimenticare che si tratta sempre del modo in cui si atteggia la causa quale requisito del contratto come atto (pur destinata a condizionare lo svolgimento del rapporto che alla realizzazione di quella causa dovrà comunque rimanere preordinato). Come tale la causa deve esserci (e c’è o non c’è) al momento in cui nasce il contratto, perché sia un contratto valido; rispetto ad essa dovran-

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no controllarsi eventuali deviazioni, in fase esecutiva, che possano comprometterla, ma certamente non corretto sarebbe parlare di una mancanza sopravvenuta della causa del contratto, a meno di apprezzarla per meglio identificare presupposti e fondamento dello scioglimento del contratto per difetti funzionali del sinallagma. Così è (come meglio vedremo a suo tempo) nell’argomentazione con cui la S.C. sviluppa a proposito di impossibilità sopravvenuta della prestazione la nozione di causa in concreto, entro la quale anche la dottrina ritiene possa altresì essere valorizzato nei contratti di vendita di pacchetti turistici (III, 5) lo “scopo turistico” o scopo di piacere (VIII, 14). «La “finalità turistica” non si sostanzia infatti negli interessi che rimangono nella sfera volitiva interna dell’acquirente il package costituendo l’impulso psichico che lo spinge alla stipulazione del contratto, ma viene ad (anche tacitamente) obiettivarsi in tale tipo di contratto, divenendo interesse che lo stesso è funzionalmente volto a soddisfare, pertanto connotandone la causa concreta. Causa concreta che, da un canto, vale a qualificare il contratto, determinando l’essenzialità di tutte le attività ed i servizi strumentali alla realizzazione del preminente scopo vacanziero, e cioè il benessere psico-fisico che il pieno godimento della vacanza come occasione di svago e di riposo è volto a realizzare». (Cass. 24-7-2007, n. 16315)

7. Controllo causale, adeguatezza del corrispettivo e controllo sulla convenienza economica del contratto Abbiamo già precisato come il nesso sinallagmatico implichi una interdipendenza tra prestazione e controprestazione ma non necessariamente un equilibrio economico tra di esse per cui l’una debba rispecchiare adeguatamente (ed oggettivamente)il valore dell’altra. Più in generale, la disciplina del contratto – almeno considerata nel complesso dei princìpi che vi stanno alla base e fatte salve talune, pur timide e settoriali, aperture di cui diremo – non lascia spazio, ad esempio per il tramite del controllo causale, ad un sindacato dell’ordinamento sul contenuto economico del contratto o di necessaria garanzia della “convenienza economica” di ciascun rapporto patrimoniale rego-

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lato dal contratto, neppure in termini di adeguatezza del corrispettivo ed equilibrio economico tra prestazione e controprestazione nei contratti di scambio. La legge lascia gli aspetti economici alla libera determinazione delle parti o, se si vuole, al formarsi sul mercato di prezzi e condizioni economiche degli scambi; interviene semmai direttamente, con norma imperativa, quando, in relazione a fenomeni distorsivi che si presentino in determinati periodi storici, ritiene di dover assicurare l’accesso a taluni beni o servizi “calmierandone” il costo, che viene pertanto fissato per legge o comunque ricondotto entro limiti legali. Si può ricordare al riguardo la legislazione in materia di equo canone negli affitti agrari, che ha connotato una lunga stagione di disciplina di tali contratti, fino alla parziale declaratoria di incostituzionalità del 2002 (Corte Cost. 5 luglio 2002, n. 318); ovvero la disciplina, di più breve durata, dell’equo canone nelle locazioni immobiliari ad uso abitativo. Lo squilibrio tra prestazione e controprestazione – per cui una parte debba una prestazione di valore superiore di oltre la metà rispetto a quella che riceverà ovvero si sia obbligata a condizioni inique – consente come vedremo il rimedio della rescissione del contratto (VII, 13), ma solo se e quando lo squilibrio sia dovuto ad uno stato di bisogno di cui la controparte abbia approfittato, nel primo caso ovvero, nel secondo, alla necessità della parte, nota alla propria controparte, di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (artt. 1448 e 1447 c.c.); sicché l’ordinamento intercetta e censura qui non lo squilibrio in sé ma l’approfittamento e il perturbamento intervenuto nella formazione del volere negoziale. Presidia poi, come si è detto, non un certo equilibrio tra le prestazioni, ma l’equilibrio autonomamente voluto dalle parti all’atto della stipula del contratto, la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta (VIII, 17). Un prezzo notevolmente inferiore al valore di mercato della cosa venduta, ma non del tutto irrisorio, pone non un problema di validità, ma semmai, sottolinea la nostra S.C., un problema concernente l’adeguatezza e la corrispettività delle prestazioni che afferisce all’interpretazione della volontà dei contraenti ed all’eventuale configurabilità di una causa diversa del contratto. Un prezzo simbolico potrà condurre alla dichiarazione di nullità della vendita (contraddicendo la causa di questa) a meno che non si rintraccino gli elementi e requisiti (spirito di liberalità, forma) della donazione. Ma un prezzo molto basso non inficerà la validità della vendita.

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Riassume bene la posizione della nostra giurisprudenza una recente sentenza

«Ammesso che si possa ipotizzare un contratto privo di causa, piuttosto che avente una causa diversa da quella apparente …, come ad esempio nel negotium mixtum cum donatione … la giurisprudenza e la dottrina prevalenti escludono che lo squilibrio originario delle prestazioni possa invalidare per carenza della causa i contratti di scambio. Nei rari precedenti nei quali si è attribuito rilevanza allo squilibrio originario delle prestazioni, si trattava piuttosto di impossibilità giuridica di una delle prestazioni oggetto del preteso scambio “come quando una delle parti si obblighi ad una prestazione senza che, in cambio, le venga attribuito nulla di più di quanto già le spetti per legge” (Cass. 27-7-1987, n. 6492) o in ragione di altro vincolo contrattuale (Cass. 8-5-2006, n. 10490). Secondo la giurisprudenza più recente, in realtà, lo squilibrio economco originario non priva di causa il contratto, perché nel nostro ordinamento prevale il principio dell’autonomia negoziale, che opera anche con riferimento alla determinazione delle prestazioni corrispettive. Si ritiene dunque che, salvo particolari esigenze di tutela, “le parti sono i migliori giudici dei loro interessi”. Lo squilibrio economico iniziale tra le prestazioni può rilevare così ai fini della rescissione del contratto a norma dell’art. 1447 c.c. o dell’art. 1448 c.c., in considerazione dello stato di bisogno o di pericolo di alcuno dei contraenti; come può rilevare ai fini dell’annullabilità a norma dell’art. 428 c.c., del contratto stupulato da persone incapaci. Ma in linea di principio lo squilibrio iniziale delle prestazioni non determina di per sé la nullità del contratto. In particolare, l’assenza di corrispettivo, se è sufficiente a caratterizzare i negozi a titolo gratuito (così distinguendoli da quelli onerosi) non basta invece a individuare i caratteri della donazione, per la cui sussistenza sono necessari, oltre all’incremento del patrimonio altrui, la concorrenza di un elemento soggettivo (lo spirito di liberalità) consistente nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza essere in alcun modo costretti, e di un elemento di carattere obiettivo, dato dal depauperamento di chi ha disposto del diritto o ha assunto l’obbligazione. Si può dunque avere un negozio che,benché gratuito, non è manifestazione di liberalità. Ma l’assenza del corrispettivo, che connota di gratuità

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il negozio, non ne comporta per ciò solo la nullità,come dimostra ad esempio l’esperienza dei rapporti negoziali tra società collegate». (Cass. 4-11-2015, n. 22567) Tornando, più in generale, all’assetto di interessi regolato dal contratto, neppure la clausola di buona fede (V, 9 e 10) si ritiene idonea a veicolare l’attenzione verso la convenienza economica dell’operazione. «I principi di buona fede e correttezza sono previsti dal codice civile, come tali, in riferimento alla fase dello svolgimento delle trattative contrattuali (art. 1337), a quella dell’interpretazione del contratto (art. 1366) ed a quella della sua esecuzione (art. 1375), sicché la violazione dell’obbligo di attenervisi, sebbene possa esser fonte di responsabilità risarcitoria, non inficia però il contenuto del contratto con il quale le parti abbiano composto i rispettivi interessi, nel senso che, ove non venga in rilievo una causa di nullità o di annullabilità del contratto medesimo specificamente stabilita dal legislatore, tali vizi invalidanti non sono invocabili a fronte della inadeguatezza delle clausole pattuite a garantire l’equilibrio delle prestazioni o le aspettative economiche di uno dei contraenti». (Cass. 27-11-2009, n. 25047) La questione della possibile (e difficile) riconducibilità entro il controllo causale e di meritevolezza degli interessi di una verifica in ordine alla convenienza del contratto o addirittura al rispetto di parametri di “giustizia contrattuale” che pure si ritiene da qualche parte di invocare, è emersa in modo significativo di recente nell’approccio quanto mai variegato e quasi mai convincente dei giudici in merito ad una fattispecie assai nota, nella quale veniva in discussione la liceità, sotto il profilo causale, del contratto di finanziamento denominato 4YOU che, ricalcando lo schema già visto a proposito del prodotto finanziario “Visione Europa”, prevedeva, come operazione unitaria, l’erogazione da parte della banca di un mutuo concesso allo scopo di acquistare per l’investitore titoli predeterminati e quote di fondo comune (dello stesso gruppo bancario), con costituzione di pegno sui titoli acquistati in favore della banca a garanzia della restituzione del mutuo. Così, per limitarci ad alcune pronunce emblematiche del disagio concettuale dei giudici,

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il Tribunale di Brindisi (sentenza Trib. Brindisi 21-6-2005) ritenne che si trattasse di un contratto avente natura atipica, non meritevole di tutela da parte dell’ordinameno giuridico ai sensi dell’art. 1322 c.c. in quanto “contratto aleatorio unilaterale”, poiché a fronte di un vantaggio certo a favore della banca sta un’alea rilevante a carico del cliente. Ricostruitane la funzione, il Tribunale di Torino (sentenza 8-5-2009), ritenne invece che l’operazione ricalcasse lo schema proprio del contratto di mutuo di scopo (ove rileva il vincolo di destinazione delle somme mutuate per un determinato scopo), che, osservò, sarebbe «arduo ritenere non meritevole di tutela da parte dell’ordinamento». L’investitore, sottolinea il Tribunale, non lamenta la contrarietà del contratto ai princìpi regolatori dell’ordinamento, quanto il disequilibrio dei vantaggi economici riconducibili alle parti contraenti, «la sconvenienza economica del contratto». Doglianza che però, continua il giudice, non può rilevare ai fini di una declaratoria di nullità del contratto, essendo la valutazione circa la convenienza economica estranea al controllo causale, ed attinente alla sfera dei motivi soggettivi delle parti. La valutazione di meritevolezza, conclude la sentenza, «non deve essere effettuata ex post sulla base del rsultato economico concretamente conseguito, ma ex ante, sulla base della struttura negoziale astratta posta in essere dalle parti» Ciò che conta, infatti, ai fini della valutazione della meritevolezza di tutela da parte dell’ordinamento, è che lo schema astratto congegnato dalle parti persegua un interesse meritevole di tutela e non che tale schema sia sicuramente conveniente per entrambe le parti, «non essendo presente nel nostro ordinamento un principio in forza del quale ogni parte ha diritto a concludere affari vantaggiosi e, in caso contrario, a chiedere la nullità o l’annullamento del negozio stipulato, magari alla luce dell’esito, non sicuro – come nella fattispecie in esame – fin dalla conclusione del contratto, per lei negativo». Più recentemente, il Tribunale di Milano (3-5-2013) era tornato ad abbracciare la tesi della nullità rintracciandovi un contratto tipico che persegue interessi non meritevoli di tutela; meritevolezza che ritenne dovere qui escludersi in ragione della mancanza di un equilibrio contrattuale tra le parti. A fronte di molteplici costi, anche indiretti ed impliciti a carico dell’investitore, osservava il Tribunale, «emerge la posizione di indubbio vantaggio della banca che, con la serie di contratti tra di essi collegati e costituenti il prodotto finanziario, assume a priori la posizione di contraente favorito dal punto di vista economico del rapporto», essendo indubbi i guadagni

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della banca superiori ai costi sostenuti dall’investitore, a fronte anche dell’alea sui futuri risultati degli investimenti. Dunque “un rapporto economico” non meritevole di tutela, e perciò nullo. Così argomentata, la posizione dei giudici di merito riapre l’interrogativo circa la rilevanza, in sede di controllo causale, dell’equilibrio economico del contratto; per giungere alla dichiarazione di nullità per la presenza di una causa illecita occorrerebbe dare per scontato che l’ordinamento abbia fatto proprio, come principio alla stregua del quale effettuare la selezione tra contratti meritevoli e contratti immeritevoli, anche la garanzia dell’equilibrio economico inteso non quale corrispettività (con le conseguenze previste per i casi di lesione o di sopravvenuta onerosità eccessiva e in presenza dei presupposti sopra ricordati) bensì in termini di convenienza e di equilibrio tra costi e guadagni, tra le parti contraenti. Dell’uso del controllo sulla causa come controllo sulla (almeno pari) convenienza dell’affare per tutti i contraenti – uso che non a caso i giudici di merito possono sperimentare solo a partire dall’asserita atipicità del contratto – non sembra ci siano però ad oggi indici sufficientemente chiari nel quadro normativo. Come vedremo, nei contratti tra imprese di diversa forza di mercato (in particolare il contratto di subfornitura), la legge chiama il giudice a verificare, per dichiararne la nullità, anche la presenza di clausole contrattuali nelle quali, giovandosi della posizione di dipendenza economica del proprio partner, che le consente di imporle un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi, l’impresa “forte” abusi di tale posizione, imponendo in concreto all’altra condizioni contrattuali “ingiustificatamente gravose o discriminatorie” (V, 7). Il rinvio è certamente anche a possibili clausole nulle perché economicamente gravose, ma la sua portata andrebbe forse colta nel quadro dei rapporti di mercato cui si riferisce, ove i comportamenti che si intendono intercettare e sanzionare in ragione delle implicazioni anticoncorrenziali verosimilmente esprimono un pregiudizio economico per l’impresa debole che va al di là del semplice squilibrio economico all’interno del singolo contratto. L’ammissibilità di un controllo sui termini economici del contratto impone la ricerca non solo dei modi ma altresì dei parametri da adottare (semplice equivalenza economica delle prestazioni o contratto “giusto” a vantaggio del partner più “bisognoso”?). Una disciplina del contratto fortemente connotata da regole “di protezione” inevitabilmente sembra spingere in questa direzione, ma, come dimostra la disciplina delle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori, e lo vedremo a suo tempo, il

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percorso appare ancora lungo (V, 4 e 9). Di sicuro, non sembra allo stato di poter far carico al regime della causa di un siffatto gravoso compito. Va apprezzato allora l’approccio più rigoroso alla questione della liceità di contratti di investimento congegnati secondo il modello 4YOU espresso dalla Corte di Cassazione, che si è pronunciata per la nullità di tale contratto, ritenendolo immeritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c., ponendo l’accento però non sullo squilibrio economico in sé o sulla pretesa aleatorietà unilaterale del contratto, bensì sulla sfasatura tra la finalità previdenziale promessa e l’impianto di regole e vincoli a carico dell’investitore. La causa previdenziale enunciata, dunque la causa in concreto del contratto, in altri termini, non trova corrispondenza ed è anzi smentita, così non essendo realizzabile, nell’oggetto del contratto e nelle clausole pattuite: acquisto di titoli di cui non viene evidenziato né il costo, né il rendimento né le caratteristiche; costituzione di pegno su tali titoli, a garanzia del mutuo, che rende impossibile il disinvestimento immediato; diritto di recesso dell’investitore accompagnato da penale molto elevata. “Un insieme di vizi strutturali e genetici del contratto che determinano come conseguenza la violazione delle norme cogenti del t.u.f.” (Cass. 5-22016, n. 2900). Il principio di diritto affermato è dunque il seguente

«L’interesse perseguito mediante un contratto atipico, fondato sullo sfruttamento delle preoccupazioni previdenziali dell’utenza da parte di operatori professionali ed avente ad oggetto il compimento di operazioni negoziali complesse relative alla gestione di fondi comuni che comprendono anche titoli di dubbia redditività, il cui rischio sia unilateralmente trasmesso al cliente, al quale, invece, il prodotto venga presentato come rispondente alle esigenze di previdenza complementare, a basso rischio e con libera possibilità di disinvestimento senza oneri, non è meritevole di tutela ex art. 1322, comma 2, c.c.,ponendosi in contrasto con i principi desumibili dagli artt. 38 e 47 Cost., sulla tutela del risparmio e l’incentivo delle forme di previdenza, anche privata, sicché è inefficace ove si traduca nella concessione all’investitore di un mutuo, di durata ragguardevole, finalizzato all’acquisto di prodotti finanziari della finanziatrice, e nel contestuale mandato conferito a quest’ultima per l’acquisto dei prodotti anche in situazione di potenziale conflitto di interessi». (Cass. 30-9-2015, n. 19559)

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8. L’oggetto L’oggetto è requisito del contratto ai sensi dell’art. 1325 n. 3 c.c. ed esso deve essere, secondo quanto dispone l’art. 1346, «possibile, lecito, determinato o determinabile». La sua mancanza rende nullo il contratto ex art. 1418, co. 2 e a determinare la nullità del contratto, sempre ai sensi dell’art. 1418, co. 2, è anche la mancanza nell’oggetto dei requisiti di cui all’art. 1346. Come per la causa l’interprete va alla ricerca della nozione di “oggetto del contratto”, che il codice non fornisce. Ed in tale ricerca è anche in qualche modo fuorviato da norme, come quelle in tema di vendita, in cui il termine “oggetto”, per alludere all’oggetto del contratto, è riferito al bene venduto: l’art. 1472 c.c., ad esempio, parla di vendita «che ha per oggetto una cosa futura». Oggetto del contratto non è però il bene interessato dall’atto di autonomia privata (trasferito, concesso in godimento, ecc.) rispetto al quale peraltro non avrebbe senso parlare di possibilità e liceità: l’oggetto del contratto deve identificarsi con la prestazione (o le prestazioni) o le attribuzioni patrimoniali dedotte nel contratto. L’art. 1376 correttamente fa riferimento a contratti che «hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata»; dunque oggetto del contratto sarà il trasferimento del diritto e oggetto della attribuzione sarà il bene. Distingue del resto l’oggetto del contratto dall’oggetto della prestazione la disciplina dell’errore (art. 1429 n. 1 e 2). Oggetto del contratto di somministrazione sarà la fornitura di un bene o servizio e non questi ultimi (semmai qualificabili come fa la dottrina quali oggetti mediati del contratto). Va da sé che spesso sulla possibilità o liceità della prestazione incide la situazione giuridica del bene che ne è oggetto (il terreno di cui cambia ad esempio il regime di edificabilità o il bene su cui interviene un divieto di commercializzazione). Perché il contratto sia valido l’oggetto dovrà presentare i requisiti di cui all’art. 1346 al momento della stipula del contratto ed essi non potrebbero sopravvenire con una qualche efficacia sanante; la legge (art. 1347) fa eccezione, considerando che ne rimane comunque preservata l’eseguibilità del contratto, nel caso in cui, avendo le parti sottoposto gli effetti del contratto a condizione sospensiva o a termine (iniziale), l’oggetto originariamente impossibile diventi nelle more possibile. Il venir meno nel corso della durata del rapporto dei requisiti dell’oggetto originariamente presenti interverrà

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sulla fase della esecuzione dando luogo dunque non a nullità successiva ma a risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione, che non potrà essere resa se diventata nel frattempo impossibile o illecita. In concreto, l’oggetto del contratto potrà essere impossibile fisicamente (dare in godimento un immobile che risulti invece distrutto) ovvero giuridicamente: la S.C. ha avuto talora occasione di pronunciarsi in merito a contratti il cui oggetto, in relazione alla situazione determinatasi nella sfera giuridica dell’alienante, andava identificato con il trasferimento o la promessa di trasferire il mero possesso di un bene, contratti la cui nullità per impossibilità dell’oggetto discende dalla natura giuridica del possesso, che l’ordinamento configura quale situazione di fatto, in sé non trasferibile come non trasferibile è l’elemento soggettivo (animus possidendi) che lo accompagna. L’impossibilità di cui si discute qui è ovviamente di carattere oggettivo ed assoluto, non entrando in gioco l’idoneità dell’obbligato a eseguire la prestazione. Il contratto di appalto per la costruzione di un immobile senza concessione edilizia o su un terreno demaniale è invece nullo perché ha un oggetto illecito, la prestazione non è in sé vietata ma lo è il risultato che dovrebbe conseguirne, vietato da norme imperative in materia urbanistica. La vendita di banconote contraffatte è altresì contratto con oggetto illecito, come potrebbe esserlo del resto quella di valuta estera se colpita da apposito divieto. Come l’inesistenza del bene oggetto della prestazione di trasferimento, anche il non venire ad esistenza della cosa futura che doveva essere trasferita comporta la nullità del contratto a meno che, come abbiamo sopra ricordato, non si tratti di vendita aleatoria. Quanto alla determinatezza dell’oggetto o alla sua “determinabilità” cui allude l’art. 1346, occorre distinguere il caso in cui le parti non determinino l’oggetto perché ne rimettono ad un terzo la determinazione dal caso in cui esse rinviino a elementi esterni ovvero a proprie successive scelte o comportamenti. Il terzo cui le parti rimettono la determinazione dell’oggetto, denominato arbitratore (da non confondere con l’arbitro, chiamato in determinati casi a risolvere i conflitti tra le parti), di solito è chiamato ad esprimersi secondo il suo “equo apprezzamento”: gli si chiede dunque una decisione motivata alla luce delle circostanze del caso concreto, sicché se essa viene a mancare o è erronea o iniqua, la determinazione potrà essere effettuata dal giudice. Se le parti si rimettono invece al mero arbitrio del terzo, dunque all’assoluta discrezionalità di questi, rendono in qualche modo insostituibile la sua

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decisione, in mancanza della quale il contratto rimarrà privo di oggetto e dunque nullo. Ammettendo che il contratto possa (rimanendo valido) avere un oggetto non determinato ma determinabile, la legge consente alle parti di legare la determinazione dell’oggetto a parametri che esse stesse indicano (esempio criteri legali, atti amministrativi in itinere, ecc.) e a cui fanno riferimento (determinazione per relationem). Nel caso di contratto a forma vincolata (infra, V, 1, 2), tuttavia, la giurisprudenza si attesta su un criterio rigoroso per cui l’oggetto del contratto potrà in questi casi considerarsi determinabile solo se individuabile con certezza tramite elementi prestabiliti dalle parti nello stesso contratto, e dunque non per relationem né con riferimento al comportamento successivo delle parti.

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V.

LA FORMA 1. Il sistema delineato nell’art. 1325, n. 4 e la più recente evoluzione Si ritiene che, in generale, il nostro ordinamento si ispiri in tema di contratti al principio della libertà della forma. Qualsivoglia modalità espressiva – volontà esplicita ed in forma orale oltre che scritta, comportamenti concludenti – sarà ammessa ed idonea alla formazione di un valido vincolo contrattuale, purché palesi in modo inequivocabile la volontà delle parti. Solo in via eccezionale, e in vista del perseguimento di particolari finalità legate alla natura ed all’oggetto del contratto, è richiesta l’adozione di una forma prescritta dall’ordinamento e dunque vincolata, pena l’invalidità del contratto: e si tratterà della forma scritta, nelle varianti della scrittura privata e dell’atto pubblico. Questo il quadro che emerge dal disposto dell’art. 1325 c.c., n. 4 dove la forma è “requisito del contratto” solo «quando è prescritta dalla legge sotto pena di nullità». Il rinvio, come non manca di sottolineare la dottrina seguita dalla giurisprudenza, non è qui alla forma in senso generale ma a quella forma per così dire speciale che la legge impone per alcuni negozi, quali, in primo luogo, «i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili», per i quali l’art. 1350, co. 1, n. 1, c.c., richiede l’atto pubblico o la scrittura privata come forma ad substantiam, cioè per la validità del contratto. Il tenore dell’art. 1325 non esclude – ed anzi per implicito ammette – prescrizioni di forma cui l’ordinamento assegni diversa e più debole funzione, non idonea ad intaccare comunque la validità dell’atto, ad esempio a fini di prova. Al contempo, prefigura un sistema nel quale la prescrizione di forma dovrebbe sempre accompagnarsi alla espressa previsione delle conseguenze della sua violazione, onde esplicitare o escludere che la forma si atteggi a requisito del contratto ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1325 n. 4. I contratti «che devono farsi per iscritto» – per atto pubblico o per

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scrittura privata – sotto pena di nullità sono intanto indicati nominatim dalla norma generale con cui si apre la sezione dedicata alla forma del contratto, sono cioè quelli elencati nell’art. 1350 c.c. Ma l’elenco non è esaustivo. Altre fattispecie reclamano, ad avviso del legislatore, un vincolo di forma, la cui rilevanza “strutturale” – vale a dire la prescrizione a pena di nullità – è però sempre espressamente segnalata (vedi il rinvio finale di cui al n. 13 dell’art. 1350 e ad esempio art. 1978 c.c. per il contratto di cessione dei beni ai creditori). È ancora la legge che indica la (diversa) finalità della prescrizione di forma, quando essa è richiesta per fini di prova: vedi l’art. 1888 c.c. per il contratto di assicurazione. Il regime della prova è, in entrambi i casi, quello dettato dall’art. 2725 c.c. Se il contratto doveva essere provato per iscritto o doveva farsi per iscritto a pena di nullità, la prova della sua stipulazione ed esistenza – e del suo contenuto – non può essere fornita con tutti i mezzi, ma è esclusa la prova testimoniale, tranne che nel caso in cui il contraente che intenda fornire la prova dimostri di avere senza sua colpa perduto il documento (art. 2725, co. 1 e 2, con rinvio all’art. 2724 n. 3). Tuttavia diverso è l’oggetto della prova: nel caso di forma ad probationem si tratterà infatti di provare, con gli altri mezzi consentiti dalla legge e con i limiti ora ricordati, la stipulazione del contratto e il suo contenuto; nel caso in cui la forma sia prescritta quale requisito ex art. 1325 n. 4, dovrà fornirsi la prova dell’avvenuta redazione del documento, cioè della stipula di un contratto valido perché rispettoso della prescrizione di forma. Non mancano poi prescrizioni di forma che, quanto alla loro finalità e agli effetti, sfuggono all’alternativa tra forma per la validità e forma per la prova. Si parla di forma ad regularitatem, intendendo così classificare tutta una serie di casi in cui la legge prescrive una forma determinata dell’atto, ma per finalità diverse: così, per ricordarne alcuni, nel caso dell’art. 14 c.c., la forma solenne per la costituzione di associazioni e fondazioni è prevista per ottenerne il riconoscimento quali persone giuridiche; se il pegno è costituito su un credito di valore superiore a lire cinquemila (oggi euro 2,58), il creditore avrà il diritto di farsi pagare con prelazione sul bene oggetto di pegno solo se il pegno risulta da scrittura avente data certa (art. 2787, co. 2, c.c.), palesandosi così l’obiettivo di rivestire di certezza l’atto a fini di opponibilità a terzi. Da ultimo, l’art. 3 comma 4 ter del d.l n. 5 del 2009, conv. nella l. n. 33 del 2009 nel testo modificato con la l. 30-7-2010, n. 122, prescrive la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata per il contratto di

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rete (tra imprese), al fine di ottemperare alla prevista pubblicità (l’iscrizione presso il Registro delle imprese, ai sensi del co. 4 quater). La regola della libertà di forma, secondo cui nel nostro ordinamento i vincoli di forma, per le espressioni di autonomia privata e dunque per i contratti, sarebbero l’eccezione, appare oggi in parte smentita, dovendosi quanto meno registrare, in generale, un ricorso più frequente del legislatore a prescrizioni di forma, seppure non sempre a pena di nullità dell’atto. Ad incrinare la tenuta del quadro normativo e dei princìpi base del formalismo “classico” hanno contribuito non poco, come vedremo qui di seguito, le regole “di armonizzazione” dettate dalle direttive comunitarie in tema di contratti professionisti-consumatori. Allo strumento tradizionale in cui si estrinseca il vincolo di forma – il documento (scritto) quale vestimentum dell’atto negoziale, richiesto ad esempio a pena di nullità per i contratti di multiproprietà, di subfornitura, per i contratti bancari e per il contratto di prestazione dei servizi finanziari – si affianca qui un panorama variegato e a tratti sfuggente di (altre e diverse) prescrizioni formali alle quali l’espressione di autonomia privata deve attenersi. Il vincolo di forma (o, meglio, la prescrizione di formalità) non sempre si accompagna, come vedremo tra breve, alla espressa previsione dei relativi effetti, e dunque si interrompe la rassicurante e necessaria corrispondenza tra forma ad substantiam e (espressa) sanzione di nullità; si lascia così all’interprete di sciogliere l’alternativa tra forma ad probationem e forma ad substantiam (o piuttosto ad regularitatem), chiamandolo dunque ad un inedito approccio necessariamente funzionale (a quale fine è prescritto il vincolo di forma? quali interessi intende tutelare?). Il moltiplicarsi delle regole (e delle espressioni stesse del “formalismo”) ridimensiona il principio della libertà di forma, dovendosi anzi ammettere che, almeno nei contratti di consumo, il rapporto tra la regola – forma libera – e l’eccezione – forma vincolata – tende a capovolgersi.

2. La forma documentale: atto pubblico e scrittura privata L’art. 1350 c.c., con cui si aprono le norme dedicate alla “forma del contratto”, elenca i contratti che devono farsi per atto pubblico o per scrittura privata sotto pena di nullità. Il formalismo “classico”, come ricordato, si affida dunque a due varianti, entrambe legate all’elemento materiale del documento: la forma scritta dell’atto versato in una scrittu-

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ra privata, e la forma scritta dell’atto redatto con le formalità di legge da un notaio o altro pubblico ufficiale, cioè redatto come atto pubblico. Il documento – e la precisazione rileva nel caso di scrittura privata – deve contenere la manifestazione della volontà contrattuale ed essere posto in essere al fine di manifestare tale volontà; sicché non potrebbe soddisfare il requisito della forma scritta un qualsiasi documento, come ad esempio una quietanza, che prova il pagamento e dunque presuppone il contratto ma non costituisce il documento che pone in essere il contratto. L’art. 2699 c.c. definisce l’atto pubblico, come «il documento redatto con le richieste formalità da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato». E l’art. 2670 enuncia gli effetti dell’atto pubblico, che «fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti». Ciò che le parti dichiarano o fanno, se versato in un atto pubblico, acquista un sigillo di verità che potrà essere smentito solo all’esito vittorioso di un apposito procedimento giudiziario che ne dimostri la falsità. La forma dell’atto pubblico dunque è quella che dota di maggior forza il contratto sia sul piano della certezza tra le parti di quanto convenuto sia sul piano della “resistenza” a fini probatori nei confronti dei terzi. Nel caso di scrittura privata l’atto scritto fa “piena prova fino a querela di falso” della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, a meno che tale sottoscrizione non sia disconosciuta dalla parte contro cui la scrittura è prodotta (in giudizio) e sempre quando si tratti di scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o altro pubblico ufficiale. La funzione del notaio o del pubblico ufficiale non è qui quella di attestare quanto dichiarato dalle parti in sua presenza o quanto avvenuto in sua presenza, ma solo di attestare che «la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza» (art. 2703, ult. co.), da persona di cui egli abbia accertato l’identità, e dunque è, appunto, autentica e non potrà essere disconosciuta dal firmatario. La differente efficacia dei due documenti – atto pubblico e scrittura privata – è chiara. La scrittura privata documenta la conoscenza ed accettazione, da parte dei firmatari, di quanto vi è contenuto, ma nulla attesta circa la veridicità di quanto ivi versato. Tant’è che, se trattasi di scrittura privata con sottoscrizione non autenticata, neppure la data ivi

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apposta acquisisce certezza ai fini della computabilità riguardo ai terzi. La data della scrittura privata della quale non è autenticata la sottoscrizione «non è certa e computabile riguardo ai terzi», dispone l’art. 2704 c.c., «se non dal giorno in cui la scrittura è stata registrata, o dal giorno della morte o della sopravvenuta impossibilità fisica di colui o di uno di coloro che l’hanno sottoscritta, o dal giorno in cui il contenuto della scrittura è riprodotto in atti pubblici, o, infine, dal giorno in cui si verifica un altro fatto che stabilisca in modo egualmente certo l’anteriorità della formazione del documento». Nel caso dell’atto pubblico, questo attesta la veridicità di quanto ivi versato come accaduto o dichiarato dinanzi al pubblico ufficiale. Malgrado la legge notarile imponga al notaio di indagare sulla volontà delle parti e la forma dell’atto porti ad escludere ad esempio un errore ostativo, l’atto pubblico non ha valore di prova legale per quanto concerne la corrispondenza tra “volontà” e “dichiarazione” delle parti. L’atto pubblico sarà dunque comunque impugnabile per vizi della volontà, non potendo in principio escludersi che quanto la parte dichiara dinanzi al notaio sia frutto di una volontà viziata. È orientamento pacifico in giurisprudenza che la domanda giudiziale o il successivo scritto difensivo della parte assumano il valore equipollente alla firma mancante nella scrittura privata: il contratto per il quale sia prescritta la forma scritta a pena di nullità, se mancante della sottoscrizione di una parte, può cioè essere perfezionato con la produzione in giudizio, occorrendo non solo che la produzione avvenga per iniziativa del contraente che non l’ha sottoscritto, ma che l’atto venga prodotto al fine di invocare l’adempimento delle obbligazioni da esso scaturenti. Già il codice si preoccupava di regolare il valore di strumenti diversi dalla tradizionale scrittura utilizzati ad esempio quali mezzi di comunicazione della volontà delle parti. Così, ai sensi dell’art. 2705, co. 1, il telegramma ha l’efficacia probatoria della scrittura privata se l’originale consegnato all’ufficio di partenza è sottoscritto dal mittente, ovvero se è stato consegnato o fatto consegnare dal mittente medesimo, anche senza sottoscriverlo. E già alla luce del disposto dell’art. 2712 (riproduzioni meccaniche) la giurisprudenza riconosceva valore di scrittura privata, anche a fini sostanziali, alla conclusione del contratto via telefax. Oggi tale conclusione trova una importante conferma espressa nell’art. 2 della l. n. 192/1998 in materia di subfornitura, con una regola cui può attribuirsi valore di generale riconoscimento della idoneità a soddisfare i requisiti della forma solenne ai mezzi più moderni di comunicazione:

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«costituiscono forma scritta» – recita la norma citata – «le comunicazioni degli atti di consenso alla conclusione o alla modificazione dei contratti effettuate per telefax o per altra via telematica».

3. (Segue). Il documento informatico Occorre fare riferimento al codice dell’amministrazione digitale, d.lgs. 7-3-2005, n. 82 (e successive modificazioni), per la disciplina e per la validità, a fini di prova o per soddisfare il requisito della forma solenne, del documento informatico: definito quale «rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti» all’art. 1, co. 1, lett. p). In generale, dispone l’art. 20, co. 1 bis della legge, «l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità, fermo restando quanto disposto dall’art. 21». L’art. 21 distingue il documento informatico cui è apposta una firma elettronica (es. una e mail che proviene da A e dal suo account), liberamente valutabile in giudizio a fini probatori, dal documento informatico «sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale» che, se formato nel rispetto delle regole tecniche all’uopo dettate (in via regolamentare ai sensi dell’art. 71) che garantiscano l’identificabilità dell’autore, l’integrità e l’immodificabilità del documento, ha l’efficacia della scrittura privata di cui all’art. 2702 c.c. Le nozioni di firma elettronica avanzata, qualificata, digitale, sono contenute nell’art. 1, lett. qbis), r), s), e rimandano a modalità differenti che consentono in modo più o meno sicuro e intenso di identificare l’autore. L’atto con firma elettronica o con qualsiasi altro tipo di firma avanzata, autenticata dal notaio o altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato integra poi una scrittura privata autenticata ai sensi dell’art. 2703 c.c.: in questo caso l’autenticazione della firma consiste nell’attestazione da parte del pubblico ufficiale che la firma è stata apposta in sua presenza dal titolare, previo accertamento della identità personale, della validità dell’eventuale certificato elettronico utilizzato e del fatto che il documento sottoscritto non è in contrasto con l’ordinamento giuridico (art. 25, co. 1). L’apposizione della firma digitale del notaio o altro pubblico ufficiale conferisce poi all’atto la validità di atto pubblico (art. 25, co. 3).

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4. Gli atti a forma vincolata nell’art. 1350 c.c. e la (tradizionale) funzione del formalismo Malgrado il rinvio finale agli «altri atti specificamente indicati dalla legge», nell’art. 1350, l’imposizione della forma solenne, a pena di nullità, si caratterizza nel codice quale regola propria degli atti che hanno ad oggetto la costituzione, modificazione, o la circolazione di diritti su beni immobili: si veda al riguardo l’elenco degli atti di cui all’art. 1350 c.c. Sulla scorta della regola esplicita dettata per il contratto preliminare (nullo se non stipulato con la stessa forma prescritta per il definitivo, ai sensi dell’art. 1351), si ritiene poi che il vincolo di forma, quando previsto, si estenda a tutti i contratti strumentali o modificativi di un contratto a forma solenne. In particolare, ad esempio, i contratti che ne modificano alcuni elementi o che ne determinano lo scioglimento con conseguente effetto sulla vicenda del diritto sul bene immobile. Ribadisce anche di recente la S.C. «la risoluzione consensuale di un contratto riguardante il trasferimento, la costituzione o l’estinzione di diritti immobiliari, è soggetta al requisito della forma scritta “ad substantiam” non solo quando il contratto da risolvere sia definitivo e, quindi, il contratto risolutorio rientri nella espressa previsione dell’art. 1350 c.c., ma anche quando detto contratto sia preliminare, considerato che la ragione giustificativa dell’assoggettamento del preliminare alla forma di cui all’art. 1351 c.c., da ravvisarsi nell’incidenza che il preliminare spiega su diritti reali immobiliari, sia pure in via mediata, tramite l’assunzione di obbligazioni, si pone in termini identici». (Cass. 26-6-2015, n. 13290) Dubbia, sia in dottrina che in giurisprudenza, l’applicazione di tale regola al mandato (senza rappresentanza) ad acquistare beni immobili: di recente la S.C. è tornata ad escludere l’onere della forma, nel presupposto che il mandato senza rappresentanza costituisca la fonte del rapporto interno di gestione mentre in tale fattispecie non si instaura alcun rapporto tra mandante e terzo proprietario alienante. L’art. 1352 fa riferimento alle forme convenzionali. Un contratto a forma libera viene stipulato con una determinata forma sulla base di un

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preventivo accordo delle parti. Se tale accordo è scritto, recita la norma, «si presume che la forma sia stata voluta per la validità», dunque quale forma ad substantiam. La lettura più accreditata rinviene in questa formulazione non una presunzione legale in senso tecnico, bensì una interpretazione dell’accordo tra le parti dettata dal legislatore, che dunque può essere superata in sede di interpretazione della volontà dei contraenti secondo i criteri di cui all’art. 1362 c.c. In ossequio al principio della libertà della forma, la giurisprudenza adotta criteri restrittivi nella interpretazione del contenuto e dell’ambito di riferimento dei patti sulla forma: così, la scelta di una forma per la stipula del contratto non si ritiene riferibile anche agli accordi risolutivi, e quella che abbia ad oggetto accordi modificativi non si ritiene includa anche accordi risolutivi; l’uso della forma scritta pattuita per l’esercizio del recesso non si ritiene estensibile all’ipotesi di risoluzione per mutuo consenso, ecc. Nel quadro del sistema codicistico come sopra delineato, è chiara la funzione del vincolo di forma, sottolineata dalla nostra S.C. ancora di recente: «La necessità della forma scritta, che in deroga al principio di libertà delle forme ex art. 1325 c.c., comma 1, n. 4, e art. 1350 c.c., comma 1, n. 13, si impone per gli atti che costituiscono titolo per la realizzazione dell’effetto reale in capo alla parte del negozio, e pertanto per gli acquisti immobiliari, trova fondamento, come posto in rilievo anche in dottrina, nell’esigenza di responsabilizzazione del consenso e di certezza dell’atto, in funzione della sicurezza della circolazione dei diritti». (Cass. 2-9-2013, n. 20051)

5. Il neoformalismo e la sua funzione L’espressione “neoformalismo”, proposta dalla dottrina qualche decennio orsono, si presta a segnalare efficacemente – pur se con una certa genericità – la tendenza, specie nella legislazione di fonte europea, ad un uso più diffuso dei vincoli di forma del contratto, che al contempo intensifica e modifica la funzione di questi. Termine efficace, come detto, che tuttavia rimanda a un panorama abbastanza variegato di regole, di difficile sistemazione.

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La disciplina dei contratti, ove si abbia riguardo al settore dei contratti professionista-consumatore (ma altresì banca-cliente, intermediario-risparmiatore, impresa forte-impresa debole), fa registrare intanto un ampliamento dell’ambito dei contratti da stipularsi con forma vincolata, a pena di nullità. La tradizionale funzione del vincolo di forma, quella cioè, come ci ricorda la S.C. di “responsabilizzare” il consenso e dare certezza all’atto, ne viene confermata ma, questa volta, più che la “sicurezza della circolazione dei diritti” il vincolo di forma appare piuttosto piegato a presidiare la trasparenza contrattuale, con il palese obiettivo di rafforzare almeno per il tramite della forma un consenso “debole” quale quello di chi aderisce ad un regolamento contrattuale non negoziato o comunque imposto da un partner più forte. Da qui l’elemento di novità che non solo porta il vincolo di forma fuori dal terreno proprio della circolazione dei diritti su beni immobili e in settori di contrattazione (diversamente) a rischio in quanto contrattazione “asimmetrica”, ma, come abbiamo anticipato, contribuisce non poco ad erodere la regola della libertà di forma su cui si vorrebbe fondata la nostra disciplina del contratto. Seconda e per molti aspetti più ambigua manifestazione del c.d. neoformalismo, è costituita da quello che potremmo chiamare un utilizzo diffuso, o sparso, del vincolo di forma: il vincolo di forma, assecondando quella che abbiamo definito procedimentalizzazione nella conclusione del contratto, si proietta al di fuori del contratto e ad atti che lo precedono e preparano, ed in particolare ad atti o comunicazioni che debbono garantire l’informazione in fase precontrattuale. Il neoformalismo è dunque un formalismo pervasivo, e non solo nel senso sopra ricordato. In nome dell’obiettivo della trasparenza, la legge tende ad irrigidire la formazione del contratto, in tutte le fasi che la accompagnano, entro prescrizioni formali, che, pur riproponendone per molti aspetti la funzione, non possono dirsi vincoli di forma del contratto in senso proprio: valga per tutti la prescrizione dell’uso di un “linguaggio semplice e comprensibile” quando si forniscono le informazioni, ovvero nel contratto o in alcune sue clausole. Può concludersi, a questo riguardo, che i contratti di consumo, o comunque “asimmetrici” sono contratti formali, a conferma della rilevata crisi del principio di libertà della forma su cui si vorrebbe fondato il nostro diritto dei contratti. Su queste diverse espressioni dell’odierno formalismo occorre allora brevemente soffermarsi.

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6. (Segue). Il vincolo della forma scritta del contratto e i suoi effetti Si è anticipato che l’innesto nel diritto interno delle regole di fonte europea ha comportato un significativo ampliamento dell’ambito dei contratti da stipularsi con forma vincolata, a pena di nullità, con il conseguente abbandono del tradizionale e privilegiato riferimento ai contratti concernenti la circolazione dei beni immobili. Ai sensi dell’art. 72 cod. cons. il contratto, sia che si tratti di contratto di multiproprietà sia che si tratti dei contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine o dei contratti di rivendita e di scambio (che per comodità abbiamo denominato “affini”), deve essere redatto per iscritto a pena di nullità: e si ricordi, a questo proposito, che il vincolo di forma, nei contratti di multiproprietà e affini, ancor meno oggi sembra replicare la regola generale riferita ai contratti aventi ad oggetto diritti su beni immobili, trattandosi di contratti che possono avere ad oggetto, come già detto, anche diritti di godimento su beni mobili (roulotte, caravan, chiatta). I contratti banca-cliente devono essere redatti per iscritto a pena di nullità (art. 117, co. 1 e 3 t.u.b.), e così il contratto di credito al consumo per cui l’art. 125-bis rinvia alle disposizioni di cui all’art. 117. La forma scritta ad substantiam è ancora prescritta per i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento (tranne quello di consulenza in materia di investimenti), e, se previsto, per i contratti relativi alla prestazione dei servizi accessori (art. 23 t.u.f.). Ma anche il contratto di subfornitura, come prescrive l’art. 2, l. n. 192/1998, deve essere stipulato in forma scritta a pena di nullità. In queste norme è certo l’uso del vincolo di forma nella sua versione “classica”, cioè quale veste documentale – almeno scrittura privata – del contratto richiesta per la validità dello stesso. Il riferimento è verosimilmente alla forma quale requisito “strutturale” di cui all’art. 1325 n. 4 c.c.; che tuttavia nella maggior parte dei casi si piega qui ad un regime diverso da quello codicistico, poiché, almeno nel caso dei contratti di credito e di servizi di investimento, il rimedio al difetto di forma non sarà la nullità (a legittimazione assoluta) di cui agli artt. 1418 e 1421 c.c., ma la c.d. nullità di protezione (VII, 8), che opera a vantaggio del cliente, non può perciò essere fatta valere dalla banca o dall’intermediario e può essere rilevata d’ufficio dal giudice (l’espressa previsione della rilevabilità d’ufficio manca nell’art. 23 t.u.f.: ma sul punto si rinvia a quanto diremo a proposito di nullità di protezione – VII, 8).

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Nel caso di contratti per lo scambio di servizi turistici, l’art. 35 cod. tur., prescrive che il contratto «è redatto in forma scritta in termini chiari e precisi», senza tuttavia specificare l’effetto del vincolo, se si tratti cioè di forma a fini di validità o di prova, o ad altri fini. Nel silenzio della norma, si è formato un orientamento generale propenso a negare che la violazione della regola comporti la nullità del contratto (e tuttavia quanto mai vago nell’individuarne altre e diverse conseguenze), cui si è contrapposta qualche voce minoritaria, in dottrina e in giurisprudenza, che, individuata nell’art. 35 cod. tur. una norma imperativa, ne ha fatto discendere la nullità ex art. 1418, co. 1 (nullità virtuale VII, 4) del contratto privo di forma: la forma perderebbe qui il suo connotato “strutturale” di cui all’art. 1325, n. 4, c.c., peraltro già messo in crisi nelle altre norme ricordate, come si è visto, dall’uso del rimedio della nullità di protezione e non della nullità a legittimazione assoluta. Più plausibile appare una lettura che imputi la formulazione dell’art. 35 al consueto disimpegno con cui il nostro legislatore, chiamato da quello europeo ad individuare le conseguenze nel caso di violazione delle regole poste dalle direttive in materia di contratti di consumo, si limita di solito ad una mera trasposizione/traduzione del testo esitato dagli organi europei, mantenendo una lacuna che sarebbe suo compito riempire. Se così fosse, la forma del contratto di prestazione di servizi turistici sarebbe una forma (strutturale) ad substantiam, in nulla diversa da quella cui fa riferimento l’art. 1325, n. 4, c.c., ed il diritto di fonte europea (forse suo malgrado) avrebbe incrinato anche la regola propria del sistema, come delineato nel codice, secondo cui la nullità per difetto di forma è sempre testuale o, ciò che è lo stesso che a qualificare la forma sub specie di forma ad substantiam debba essere sempre e soltanto l’espressa sanzione della nullità dell’atto. In questa direzione sembra muoversi una sentenza della Corte di cassazione – Cass. 4-11-2014, n. 23438 – in cui, con riferimento all’identica disposizione contenuta nell’art. 6, co. 2 del d.lgs. n. 11/1995 (di attuazione della dir. 90/314/CEE), oggi abrogato, che costituisce il diretto antecedente dell’art. 35 cod. tur., sembra darsi per implicita la qualificazione del vincolo di forma scritta, in questo caso, a fini di validità del contratto (la menzione esplicita della forma ad substantiam, che non si rinviene nella motivazione, compare tuttavia nella massima ufficiale). Abbiamo fatto cenno ad un ambiguo ritorno al formalismo negoziale anche a proposito del regime dei contratti di consumo conclusi a distanza

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(IV, II, 19). Il co. 6 dell’art. 51 cod. cons. prevede infatti che, quando un contratto a distanza deve essere concluso per telefono, il professionista deve confermare l’offerta al consumatore e questi «è vincolato solo dopo aver firmato l’offerta o dopo averla accettata per iscritto» (o sottoscritto con firma elettronica se trattasi di documento informatico). Salvo aggiungere poi che «dette conferme possono essere effettuate, se il consumatore acconsente, anche su un supporto durevole». La conferma del contratto concluso dovrà essere poi fornita al consumatore, sempre su supporto durevole, entro un tempo ragionevole dopo la conclusione del contratto a distanza e al più tardi al momento della consegna dei beni oppure prima che l’esecuzione del contratto a distanza abbia inizio. Nel caso di contratto a distanza con comunicazione telefonica si prospetta dunque una conclusione del contratto in due tempi, dovendosi ritenere che il professionista rimane subito vincolato all’offerta comunicata telefonicamente ed è invece solo il consenso del consumatore ad essere sottoposto al vincolo di forma scritta (per la sua validità). L’esito, come si è già rilevato, è quello di piegare la contrattazione a distanza, sempre per finalità di trasparenza e protezione del consumatore, al regime del contratto sottoscritto, su carta o con mezzi elettronici. La dottrina per questo ritiene che il consenso del consumatore ad una conferma su supporto durevole consenta di tornare alla consueta e generale modalità di conclusione a distanza. Nel caso in cui il consumatore vi consenta, il supporto durevole dovrà contenere la conservazione del consenso prestato nelle forme consuete della contrattazione a distanza (ad esempio registrazione telefonica) ma non la conservazione sul supporto dell’atto scritto firmato dal consumatore. Se così non fosse, e cioè se la conferma scritta fosse sempre richiesta, si è osservato, «la comunicazione telefonica ... sarebbe utilizzata dal professionista sempre come mezzo puramente promozionale e preparatorio, in vista di una successiva conclusione del contratto secondo le modalità dei contratti a distanza conclusi per via postale o con mezzi elettronici» e sarebbe così sancita la fine del «teleselling in purezza» (M. Libertini-M. Maugeri). Rimane tuttavia il dato, per noi di estremo rilievo, che la regola, anche ove riferita ad uno dei modi di conclusione del contratto che il consumatore può pretendere (non dando il consenso alla conferma su supporto durevole con le conseguenze prospettate in dottrina) visibilmente piega la contrattazione a distanza, sempre con l’obiettivo di proteggere il consumatore, al regime del contratto vincolato dalla forma scritta.

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7. (Segue). Dal documento cartaceo al supporto durevole Quasi tutte le regole di forma che appartengono alle direttive c.d. di seconda generazione, più recenti ed attuali (vedi art. 72 cod. cons. e 125-bis, t.u.b.) non trascurano di menzionare il supporto durevole, come alternativa al documento cartaceo: la redazione del contratto, per soddisfare il vincolo della forma scritta, dovrà avvenire su supporto cartaceo ovvero su «altro supporto durevole che soddisfi i requisiti della forma scritta nei casi previsti dalla legge». Supporto durevole, secondo la definizione ora fornita dall’art. 45, co. 1, lett. l), cod. cons. in attuazione della dir. 2011/83/UE, è «ogni strumento che permetta al consumatore o al professionista di conservare le informazioni che gli sono personalmente indirizzate in modo da potervi accedere in futuro per un periodo di tempo adeguato alle finalità cui esse sono destinate e che permetta la riproduzione identica delle informazioni memorizzate»; nozione ribadita nell’art. 120 quinquies, co. 1, lett. l) e nell’art. 121, co. 1, lett. l), t.u.b. (credito immobiliare ai consumatori e credito ai consumatori) e riproposta in modo sostanzialmente analogo all’interno della disciplina dei contratti di commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori, ora versata nell’art. 67-ter, co. 1, lett. f), cod. cons. Supporto durevole può essere dunque un cd, una chiavetta, una e mail, ma non, ha chiarito la Corte di giustizia (sentenza 5-7-2012, causa C49/11 Content Services), un sito Internet le cui informazioni siano accessibili ai consumatori solamente attraverso un link mostrato dal venditore. Merito della sentenza è di avere sottolineato la “condizione di equivalenza” sul piano funzionale, che la legislazione europea presuppone e richiede tra supporto cartaceo e altro supporto “duraturo”. La nozione di supporto duraturo è dunque funzionale, nel senso che un succedaneo del supporto cartaceo può essere considerato supporto duraturo in quanto idoneo a rispondere ai requisiti di protezione del consumatore nel contesto delle nuove tecnologie, purché adempia le medesime funzioni del supporto cartaceo, e cioè quella di garantire al consumatore, analogamente a un supporto cartaceo, il possesso delle informazioni per consentirgli di far valere, all’occorrenza, i suoi diritti, ma altresì di garantirgli l’assenza di alterazione del contenuto, l’accessibilità ad esso per un congruo periodo e la possibilità di riprodurlo identico. Supporto duraturo o durevole è dunque equivalente di documento cartaceo, strumento di riproduzione, “fissazione” e conservazione del con-

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tenuto del contratto, il quale dovrà comunque presentare i consueti requisiti della scrittura privata o dell’atto pubblico, se e quando richiesti a fini di validità (o a fini di prova).

8. Il formalismo a fini di trasparenza e le sue varianti: le prescrizioni formali “di comunicazione” all’interno del contratto e nella fase dell’informazione precontrattuale Abbiamo già visto come le regole di forma del contratto, nel diritto di fonte europea, si completano quasi sempre del richiamo a modalità di redazione dell’atto, ora sotto il profilo linguistico (il contratto deve essere redatto nella lingua italiana o comunque in una lingua ufficiale dell’Unione europea: art. 72 cod. cons.) ora sotto il profilo espressivo: il contratto di vendita di pacchetti turistici deve essere redatto “in termini chiari e precisi” (art. 35 cod. tur.). L’obiettivo di trasparenza, che impone il massimo della chiarezza delle clausole contrattuali, caratterizza del resto tutto il diritto dei contratti che stiamo esaminando e costituisce, come già ricordato (IV, II, 23), regola generale sancita nell’art. 35 cod. cons.: nel caso di contratti di cui tutte le clausole o talune clausole siano proposte per iscritto, tali clausole «debbono essere sempre redatte in modo chiaro e comprensibile». L’obbligo di trasparenza, come ribadisce la Corte di giustizia, non può essere peraltro limitato unicamente al carattere comprensibile della clausola sul piano formale e grammaticale, ma la clausola deve essere invece formulata in modo da esporre in modo trasparente, ad esempio, il meccanismo di calcolo del corrispettivo o di altri costi, in modo che il consumatore possa prevedere le conseguenze economiche che gliene derivano (Corte giust. 23-4-2015, causa C-96/14 Van Hove, cit.). Il rimedio alla violazione dell’obbligo di trasparenza, in generale, è qui individuato nella regola che, in caso di dubbio, fa prevalere l’interpretazione più favorevole al consumatore; ma se si tratta di clausole riguardanti l’oggetto del contratto, il corrispettivo e i costi, queste, in principio sottratte alla verifica di vessatorietà (V, 4), lo saranno se non trasparenti: art. 34, co. 2. Al di là della ricordata regola in tema di interpretazione, sembra difficile in generale individuare altri rimedi a disposizione del consumatore di fronte a clausole di significato oscuro o più spesso di difficile comprensione, né vengono utili indicazioni al riguardo dal legislatore. Dopo

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avere richiesto chiarezza e completezza di contenuto e prescritto addirittura i caratteri che esso deve presentare nella lingua italiana («non meno evidenti di quelli di eventuali altre lingue»), per il patto con cui il venditore fornisca al consumatore una ulteriore garanzia convenzionale su i beni mobili venduti, l’art. 133 cod. cons., al co. 5, precisa che tuttavia «una garanzia non rispondente ai requisiti» previsti rimane comunque valida. La lettura “sostanziale” del principio di trasparenza affermata di recente dalla Corte di giustizia a proposito delle clausole concernenti il contenuto economico del contratto (IV, II, 23), tuttavia, apre la via ad una considerazione della clausola non trasparente come clausola vessatoria, quanto meno quando il contenuto oscuro privi il consumatore del diritto di conoscere e/o valutare in anticipo i costi dell’operazione e le ricadute economiche del contratto. Prescrizioni formali hanno peraltro da sempre accompagnato anche la disciplina delle informazioni da rendere al consumatore in fase precontrattuale, fino a giungere, nelle direttive più recenti, alla scelta di tramutare l’obbligo di informazione a carico del professionista in obbligo di consegna di un formulario informativo, il cui schema, con le informazioni da inserire, è predisposto in sede normativa: così è per le informazioni precontrattuali nei contratti di multiproprietà e affini, secondo l’art. 71 cod. cons., ma anche per le informazioni che devono essere fornite al consumatore prima della conclusione di un contratto di credito (art. 120 novies, co. 2 e art. 124 t.u.b.). La recente direttiva sui diritti dei consumatori, i cui contenuti si ritrovano ora da questo profilo negli artt. 49-51 cod. cons., ha ulteriormente cadenzato in modo analitico le modalità attraverso cui il consumatore deve essere informato (oltre che i contenuti dell’informazione) nei contratti negoziati fuori dei locali commerciali e a distanza, secondo la consueta sequenza per cui l’informazione data subito deve poi essere fornita su un supporto cartaceo o durevole. Scelta sul “come” fornire l’informazione che del resto è in tutto coerente con la predeterminazione in via legale di “cosa” debba essere comunicato al consumatore prima del contratto (e che formerà parte integrante del contratto), su cui ci siamo sopra soffermati (IV, II, 24). L’analitica disciplina delle modalità con cui le informazioni (previste dalla legge) devono essere fornite porta a ritenere nei casi considerati che l’informazione o ha contenuti e modi voluti dalla legge ovvero ... non è informazione e non può considerarsi validamente fornita. E del resto l’art. 49, co. 10 cod. cons., per questi contratti, pone a carico del profes-

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sionista la prova dell’adempimento degli obblighi di informazione. Problema diverso e ulteriore è ovviamente quello che attiene alle possibili conseguenze, in termini di validità del contratto, del mancato rispetto di queste prescrizioni (mentre la mancata informazione in generale come abbiamo già detto è sanzionata sempre con un prolungamento del periodo di tempo concesso al consumatore per recedere dal contratto, quando il diritto di recesso è previsto, e integra comunque una violazione dell’obbligo di buona fede ex art. 1337 c.c.). Se è certo che siamo fuori dall’ambito proprio e tradizionale dei vincoli di forma dell’atto negoziale, non può tuttavia ignorarsi che nella disciplina dei contratti di consumo l’obiettivo di disclosure viene perseguito almeno in via prioritaria mediante il governo delle modalità della interlocuzione tra le parti, interlocuzione destinata a svilupparsi entro binari rigidi e normativamente segnati. Ci si deve chiedere allora se la rilevanza di tali prescrizioni “di comunicazione” non debba essere apprezzata in relazione alla funzione ad esse di volta in volta assegnata e se in molti casi le regole di comunicazione non comportino che l’accordo potrà dirsi correttamente formato, nel rispetto del livello di trasparenza contrattuale voluto, sol che la comunicazione tra le parti abbia rispettato le cadenze e “formalità” predefinite. Tanto più, ovviamente, quando, come nel caso di contratti negoziati fuori dei locali commerciali o a distanza, le prescrizioni formali non riguardano solo i flussi di informazione precontrattuale ma tutta la “comunicazione” tra le parti che porta a concludere il contratto. Gli artt. 50 e 51 cod. cons. supportano tale conclusione quando, riproponendo del resto la terminologia adottata dalla direttiva, denominano le prescrizioni di cui agli artt. 50 e 51 cod. cons. “requisiti formali per i contratti” negoziati, rispettivamente, fuori dei locali commerciali o a distanza. Ancor più significative però le disposizioni che abbiamo già a suo tempo ricordato, di cui al co. 6 dell’art. 49 e al co. 2 dell’art. 51 (IV, II, 25). Ai sensi dell’art. 49, co. 6, se il professionista non adempie all’obbligo di informare il consumatore delle spese aggiuntive eventuali o di altri costi, nel contratto negoziato fuori dei locali commerciali o a distanza, «il consumatore non deve sostenere tali spese o costi aggiuntivi», sicché, almeno in questo caso, ciò che non viene comunicato per tempo e con le modalità di legge, non potrà ritenersi parte dell’accordo. Nei contratti a distanza da concludere con mezzi elettronici, poi, il mancato rispetto da parte del professionista delle prescrizioni che riguardano la fase di conclusione del contratto – nella qua-

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le, se è previsto un immediato obbligo di pagare, il pulsante di inoltro dell’ordine deve riportarne in modo facilmente leggibile l’avvertenza – comporterà che il consumatore non sia vincolato dal contratto o dall’ordine. Almeno in questi casi la prescrizione formale di comunicazione è prevista a pena di nullità della relativa clausola o dell’intero contratto.

9. Le prescrizioni di forma-contenuto Abbiamo già fatto cenno alle prescrizioni legali di ciò che deve comparire nel testo contrattuale nel quale, come detto, si richiede che trovino conferma anche elementi già forniti in sede di informazione. La forma vincolata supporta le previsioni di contenuto, rendendo efficaci (e consentendo al contempo di controllarne il rispetto) le altre e diverse regole che impongono l’indicazione, in sede di conclusione del contratto, di tutti gli elementi dell’accordo. Attraverso queste regole la legge non intende sostituirsi all’autonomia privata nel senso di stabilire quali debbano essere i termini dell’accordo: rimane qui impregiudicata la determinazione delle condizioni contrattuali da parte del professionista, il cui controllo è affidato ad altre tecniche di tutela (innanzitutto, come vedremo, il controllo, in questo caso sostanziale, sulla vessatorietà delle clausole: V, 4). Si impone invece che gli elementi che compongono il regolamento contrattuale, proposti dal professionista e accettati dal consumatore, siano oggetto di una comunicazione completa e agevolmente percepibile in tutte le sue implicazioni da parte del consumatore, in nome del principio di trasparenza del contratto ed altresì al fine di ridurre al massimo incertezze e possibile contenzioso in sede di interpretazione ed esecuzione del contratto (IV, II, 30). Nel diritto dell’Unione europea, con ovvie ricadute nel diritto interno, una certa tendenza ad un “formalismo di ritorno”, in cui il vincolo di forma è in vario modo piegato a strumento di controllo della conformità del contratto a schemi predeterminati dal legislatore, si registra comunque anche fuori dall’ambito dei contratti di consumo. Interessante, proprio per chiarire la tecnica di intervento di cui discutiamo, la disciplina delle “relazioni contrattuali” dettata nell’art. 168 dal reg. (UE) 17-12-2013, n. 1308 recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli, dove si rimanda (e si suggerisce) agli Stati membri di prevedere la forma scritta

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per i contratti tra produttori e distributori, indicando a tal fine analiticamente gli elementi che il contratto dovrà contenere salvo specificare (co. 6) che «Tutti gli elementi dei contratti per la consegna di prodotti agricoli conclusi da produttori, trasformatori o distributori» compresi quelli di cui è prevista l’espressa indicazione nel contratto, «sono liberamente negoziati tra le parti». L’enunciazione in sede di conclusione del contratto – nelle forme di volta in volta previste – è d’altra parte strumento di controllo della effettiva presenza di clausole volute dalla legge nel singolo contratto, da parte dell’ordinamento ma anche a beneficio degli altri professionisti, interessati ad intercettare per tempo comportamenti scorretti dei propri concorrenti che si avvantaggino di contratti più convenienti perché meno rispettosi delle garanzie a tutela dei consumatori. In alcuni casi è proprio il vincolo di forma, inteso nella sua accezione propria, a supportare la prescrizione di contenuto a fini di trasparenza: nei contratti di investimento su prodotti finanziari o per la prestazione di servizi finanziari stipulati a seguito di offerta fuori sede (cioè fuori dalla sede legale o dalle dipendenze di chi propone o colloca il servizio), la legge si assicura il controllo non solo sulla previsione del diritto di recesso dell’investitore ma altresì sulla effettiva informazione all’investitore della esistenza di tale facoltà, sanzionando l’omessa indicazione nei moduli o formulari predisposti dall’offerente con la nullità dell’intero contratto (art. 30, co. 7, t.u.f.: e vedi l’interpretazione estensiva adottata dalla Corte di cassazione, IV, II, 21). In generale, attraverso un uso sempre più accentuato delle prescrizioni di cui parliamo, la legge delinea una sorta di “modello” standardizzato al quale le parti devono attenersi e che sarà riempito dei contenuti della singola concreta operazione; e mentre vi è chi ammette la validità di un contratto che da tale modello si discosti, tenuto conto ad esempio della scarsa rilevanza dell’elemento eventualmente omesso (o della previsione per legge di un allungamento dei tempi di recesso, che si configurerebbe quale unico rimedio: vedi art. 73, co. 2, cod. cons.) si è avanzata in dottrina l’opposta opinione secondo cui il modello di volta in volta delineato dalla legge rientri nelle prescrizioni di forma/contenuto, e che dunque ove il testo contrattuale se ne discosti non potrà ritenersi validamente concluso l’accordo, in quanto mancante appunto, di questo pur inedito requisito di “forma”. La tesi che solo la mancanza di elementi essenziali possa condurre alla nullità del contratto richiede

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di verificare quali degli elementi di cui la legge impone l’indicazione debbano considerarsi essenziali, a meno di considerare queste norme niente di più che una (inutile) ripetizione della regola generale di cui all’art. 1325 c.c., in combinato con l’art. 1418, co. 2, c.c. secondo cui il contratto privo di accordo, causa, oggetto determinato o determinabile, è nullo. In realtà quando rende esplicite le conseguenze della violazione di tali prescrizioni la legge mostra di discostarsi da una pedissequa applicazione della regola di cui all’art. 1325 c.c.: il contratto di credito ai consumatori, è nullo, ai sensi dell’art. 125-bis, co. 8, t.u.b., se non contiene le “informazioni essenziali” su tipo di contratto, parti del contratto, importo totale del finanziamento e condizioni di prelievo e rimborso. Il riferimento non è propriamente ai tradizionali “requisiti” del contratto di cui all’art. 1325 c.c., ma agli elementi da ritenere essenziali ai fini di una compiuta rappresentazione di quel contratto (l’arricchimento del contenuto dell’oggetto di cui all’art. 1325 c.c. cui abbiamo fatto cenno sopra, IV, II, 30). Si ritiene che in mancanza di una espressa previsione, quando non entri in gioco il nucleo essenziale del contratto, non troverebbe giustificazione la caducazione dell’intero contratto. La soluzione, oltre a tenere conto di volta in volta della rilevanza che, anche in relazione alla tipologia e disciplina del singolo rapporto, può ritenersi accordata dall’ordinamento al singolo elemento, dovrà comunque essere coerente con la disciplina della forma che sovente accompagna il contratto di consumo. La mancanza nel testo scritto (o versato in un supporto durevole) della relativa clausola o del relativo elemento di cui è invece richiesta per legge l’indicazione, quando non pregiudica la validità del contratto, dovrà comunque comportare l’esclusione dal contenuto del contratto (e dunque la non vincolatività per il consumatore) di quanto, in violazione delle prescrizioni di legge, non vi sia stato riportato, Una chiara indicazione in tal senso viene del resto dalla disciplina dei contratti di credito, cui abbiamo fatto cenno: i contratti tra banca e cliente devono indicare il tasso d’interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati, inclusi per i contratti di credito gli eventuali maggiori oneri in caso di mora (art. 117, co. 4, t.u.b.). E in caso di inosservanza di tale prescrizione si applicheranno, oltre ai tassi nella misura indicata dalla legge, i prezzi e le condizioni pubblicizzati, ma in mancanza di pubblicità “nulla è dovuto” per i servizi (art. 117, co. 7, lett. b); dunque la clausola o la condizione che pure dovrebbe far parte del regolamento contrattuale ne vie-

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ne espunta in quanto non indicata nel contratto in violazione della regola di trasparenza. Abbiamo già ricordato sopra come nei contratti a distanza da concludere con mezzi elettronici se, in fase di conclusione del contratto, non viene rispettata la tecnica di warning prescritta (il pulsante di inoltro dell’ordine deve riportare in modo facilmente leggibile l’avvertenza che concludendo il contratto il consumatore accetta l’obbligo di pagamento immediato) il consumatore non sarà vincolato dal contratto o dall’ordine. Difficile estrapolare qui le differenti funzioni della regola: sanzione alla violazione dell’obbligo di informazione, alle prescrizioni di forma (i “requisiti formali”) circa le modalità di conclusione del contratto a distanza ovvero alla violazione di prescrizioni di forma-contenuto? Vero è che le tre tecniche di intervento “si tengono” e rafforzano l’una con l’altra. Di difficile collocazione anche l’obbligo che la legge pone quasi sempre a carico del professionista di consegnare al cliente una copia del contratto: così nell’art. 35 cod. tur., ma sostanzialmente di obbligo deve parlarsi a proposito della previsione di cui all’art. 72, co. 7, cod. cons. e di quella di cui al co. 2 dell’art. 50 per i contratti negoziati fuori dei locali commerciali. Condivisibile è la tesi che, collocando tale obbligo, come sembra fare la legge, in una fase successiva alla conclusione del contratto, vi configura un obbligo nascente dal contratto e dunque sanzionato con gli ordinari rimedi all’inadempimento contrattuale. Nel contratto di credito al consumo, ove analogo obbligo è previsto dall’art. 125-bis, co. 1, si è prospettata una ulteriore e più incisiva rilevanza della consegna della copia in conseguenza di una lettura combinata di tale disposizione con quella che fissa il momento iniziale di decorrenza del termine per l’esercizio del diritto di recesso (art. 125 ter, co. 1): poiché il termine decorre comunque da quando il consumatore “riceve” tutte le condizioni e informazioni che devono essere contenute nel contratto, la mancata consegna della copia, integrando una mancata ricezione/acquisizione, farebbe slittare tale termine.

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CAPITOLO QUINTO

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SOMMARIO 1. Il contenuto del contratto. – 2. L’interpretazione del contratto. – 3. Il controllo “esterno” del regolamento contrattuale: le norme imperative e l’inserzione automatica di clausole e prezzi. – 4. Controllo sul contenuto e disciplina delle clausole vessatorie. – 5. (Segue). Caducazione della clausola vessatoria, mantenimento del contratto e applicazione della disciplina legale. Il paradigma della nullità di protezione. – 6. Il controllo sul regolamento contrattuale nei contratti c.d. dell’impresa debole. – 7. (Segue). Il (generale) divieto di abuso di dipendenza economica e il controllo sulle condizioni contrattuali “ingiustificatamente gravose o discriminatorie”. – 8. Il controllo sulle clausole “squilibrate” tra disciplina del contratto e regolazione del mercato. – 9. Il problema del controllo sul contenuto economico. – 10. Il ruolo della buona fede nel contratto e la sua funzione integratrice. – 11. (Segue). Il canone della buona fede tra obiettivi di contemperamento degli opposti interessi e funzionalizzazione del contratto in senso solidaristico. – 12. Il tema della giustizia contrattuale e della correzione del regolamento contrattuale per via giudiziale.

1. Il contenuto del contratto Con il contratto e con gli effetti che questo produrrà le parti intendono conseguire un assetto di interessi la cui realizzazione sarà il risultato di quello che l’art. 1322 indica come contenuto del contratto, vale a dire l’insieme delle pattuizioni che determinano diritti ed obblighi delle parti, prestazioni e modalità per la loro esecuzione, ecc. Può parlarsi anche di regolamento contrattuale: «l’essenza del contratto è la sistemazione degli interessi delle parti; e il regolamento contrattuale non è altro se non tale sistemazione: il modo in cui il contratto sistema gli interessi delle parti» (V. Roppo). Si è osservato peraltro, in modo del tut-

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to condivisibile, che, fuori da distinzioni formali, contenuto può dirsi sinonimo di regolamento (A. Di Majo), ed invero il contenuto del contratto, cui allude l’art. 1322, altro non è che l’insieme delle disposizioni e clausole concordate dalle parti che costituiscono appunto le regole che esse hanno pattuito. È evidente che il risultato voluto, l’assetto di interessi da realizzare, rimane consegnato al regolamento contrattuale e, soprattutto, alla sua compiuta attuazione: può essere corretto dunque parlare di programma, in senso giuridico ma anche economico, che l’accordo prefigura ma la cui realizzazione dipenderà dalla compiuta esecuzione di quello. Margini di scostamento dal programma prefigurato dalle parti potranno peraltro non solo determinarsi per effetto di situazioni patologiche interne alla vicenda contrattuale (conflitti interpretativi, inadempienze) o di eventi sopravvenuti esterni alla vicenda (onerosità sopravvenuta o impossibilità sopravvenuta della prestazione, ecc.), ma altresì rendersi necessari ed essere concordati in itinere, specie nel caso di contratti di durata, proprio per soddisfare gli interessi delle parti a fronte di cambiamenti, ad esempio del quadro economico e di mercato assunto come riferimento. Nei contratti dei consumatori, tuttavia, come diremo tra poco, clausole che consentano una modificazione unilaterale del contenuto del contratto da parte del professionista sono considerate vessatorie (art. 33, co. 2, lett. m) salvi i casi previsti dalla legge, nei quali si garantisce però il diritto del consumatore di recedere dal contratto.

2. L’interpretazione del contratto Che sia concluso verbalmente o che sia consegnato ad un documento, l’accordo che dà vita al contratto è il frutto di una volontà destinata ad “esternalizzarsi”, vale a dire a dare rappresentazione esterna, particolarmente diretta al proprio partner, a ciò che la parte ha voluto ed a cui ha inteso vincolarsi. Vuol dirsi che la volontà di ciascuna parte, una volta formatosi l’accordo, inevitabilmente ne risulta “oggettivizzata”, in un disegno affidato alle clausole contrattuali. A tale disegno dovrà farsi riferimento per tutta la vita del contratto ed ai fini della esecuzione di questo, anche quando le parti, specie a distanza di tempo, entrino in conflitto e ne prospettino una ricostruzione divergente. Tranne il caso, in verità meno frequente di quanto si pensi, in cui i termini dell’accordo risultino estremamente chiari ed incontrovertibili, il conflitto lascerà

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emergere diverse e talora opposte letture, prospettandosi, da parte di ciascun contraente, il significato e le implicazioni che ciascuno di essi “aveva inteso” riconnettere ad una espressione o ad un comportamento. Il contratto, in altri termini, dovrà essere interpretato; cioè sottoposto ad una operazione ermeneutica volta a ricostruire la “comune intenzione delle parti”. Operazione demandata al giudice che dovrà seguire i criteri dettati dagli artt. 1362 ss. c.c. “Indagare” la comune intenzione delle parti, come dice il codice, significa in realtà portare l’accertamento sugli elementi indicati dalla legge (come vedremo comportamento, parole, significato anche complessivo delle clausole, ecc.), onde giungere all’accertamento della “comune intenzione delle parti”; che potrà non essere quella effettiva, ma quella che appare più coerentemente ricostruibile alla stregua dell’accertamento compiuto. L’identificazione della volontà contrattuale, ribadisce la nostra S.C., ha ad oggetto “una realtà fenomenica ed obiettiva” e dunque concreta un accertamento di fatto riservato al giudice di merito. Il giudice potrà scegliere il mezzo ermeneutico più idoneo ad accertare la comune intenzione delle parti, purché però, almeno secondo un orientamento pacifico in giurisprudenza, rispetti il principio del gradualismo, secondo cui si potrà fare ricorso ai criteri interpretativi sussidiari – i c.d. criteri oggettivi – quando non siano stati sufficienti i criteri c.d. soggettivi (di cui agli artt. 1362-1365): l’interpretazione data dal giudice di merito potrà essere censurata o perché non ha rispettato i criteri di ermeneutica secondo la ricordata “gradualità” o perché non risulti coerentemente e logicamente motivata la scelta e l’applicazione di quei criteri. Sulla necessaria “gradualità” dell’approccio ermeneutico, che dovrebbe partire dal significato letterale, passare a verificare il senso complessivo delle clausole e fermarsi lì ove sia raggiunto un risultato soddisfacente, occorre subito svolgere alcune considerazioni. L’idea che l’interpretazione debba non solo partire ma anche potere arrestarsi al “senso letterale delle parole” è smentita già dall’art. 1362, co. 1, ove anzi, indicata la finalità dell’operazione di interpretazione – “indagare la comune intenzione delle parti” – si precisa che non ci si potrà limitare al “senso letterale delle parole”. L’impossibilità dell’interprete di fermarsi al senso letterale delle parole non va colta soltanto con immediato rinvio a quanto meglio chiarito negli artt. 1363, 1364, 1365 – tutti criteri che guidano l’interprete a passare dal senso letterale al significato complessivo delle clausole contrattuali – bensì anche in re-

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lazione al disposto del co. 2 dell’art. 1362: «per determinare la comune intenzione delle parti si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto». Il giudice, dunque, non potrà non partire dal testo contrattuale, ove esistente, ma non potrà – in ogni caso a nostro avviso – fermarsi a questo. Il punto merita attenzione, poiché rimanda alla possibile rilevanza del principio “in claris non fit interpretatio”, secondo cui, di fronte ad un testo contrattuale in sé assolutamente chiaro e non ambiguo, l’indagine dovrebbe arrestarsi, rivelandosi superfluo indagare la comune intenzione delle parti. Ma, come ben puntualizza ancora di recente una sentenza della S.C., «la “chiarezza” che preclude ogni altra indagine interpretativa non è una chiarezza lessicale in sé e per sé considerata, avulsa dalla considerazione della comune volontà delle parti. Al contrario, la chiarezza che preclude qualsiasi approfondimento interpretativo del testo contrattuale è la chiarezza delle intenzioni dei contraenti». Se in una clausola del contratto sta scritto che Tizio vende a Caio il fondo X, tutto potrebbe sembrare assolutamente chiaro; ma se in altra parte del contratto si facesse riferimento alla volontà di Caio di avere la disponibilità del fondo a fronte del pagamento di un canone, per un tempo determinato – continua la Corte – allora non potrebbe dirsi chiara la comune intenzione delle parti. Da qui una puntuale spiegazione di come tale principio debba intendersi, ma anche di come debba intendersi il principio del c.d. “gradualismo”. «Tre, dunque, sono le possibilità teoricamente concepibili, dalle quali dipende la scelta del corretto metodo interpretativo d’un contratto. Può accadere, innanzitutto, che in un contratto siano chiari e tra loro coerenti la lettera e l’intenzione delle parti, ed in tal caso nessuna ulteriore attività interpretativa è consentita (in applicazione, appunto, del principio “in claris”). Può accadere, poi, che sia chiara ed inequivoca la comune intenzione delle parti, mentre sia ambiguo il testo: anche in tal caso non si porrà alcun problema interpretativo, dovendo il giudice privilegiare l’intenzione dei contraenti rispetto al testo letterale. Infine, può verificarsi che il testo contrattuale sia chiaro, ma non coerente con ulteriori ed esterni indici rivelatori della volontà delle parti. In questo caso la regola “in claris” non può trovare applicazione, per una questione logica prima che

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giuridica: e cioè che lo iato tra testo e intenzione impedisce di definire “chiaro” il contratto». L’indagine ermeneutica appare piuttosto, continua la Corte, frutto di un percorso “circolare”. «L’art. 1362 c.c., in definitiva, impone all’interprete del contratto di ricostruire in primo luogo la volontà delle parti: per far ciò deve sì muovere dal testo contrattuale, ma deve anche verificare se questo sia coerente con la causa del contratto, le dichiarate intenzioni delle parti, e le altre parti del testo, ne’ può il giudice sottrarsi a tale duplice indagine allegando una pretesa chiarezza del significato letterale del contratto. L’interpretazione del contratto dal punto di vista logico non è dunque un percorso lineare (partire del testo e risalire all’intenzione); ma un percorso circolare, il quale impone all’interprete di: (a) compiere l’esegesi del testo; (b) ricostruire in base ad essa l’intenzione delle parti; (c) verificare se l’ipotesi di “comune intenzione” ricostruita in base al testo sia coerente con le parti restanti del contratto e con la condotta delle parti». (Cass. 9-12-2014, n. 25840) Fatta questa premessa, è possibile passare in rassegna i criteri dettati dalla legge, che il giudice dovrà utilizzare secondo la gradualità prospettata dal codice ma mantenendo l’obiettivo di una ricostruzione della comune intenzione delle parti. Nell’esame del testo, non si fermerà dunque al senso letterale delle parole, ma ne coglierà il significato intanto all’interno, interpretando ciascuna clausola per mezzo delle altre e dunque attribuendo a ciascuna «il senso che risulta dal complesso dell’atto» (art. 1363). Ancora all’interno del testo dovrà ricondursi l’uso di espressioni generali, che dovranno intendersi riferite (e dunque utilizzate anche dall’interprete) solo agli oggetti su cui le parti intendevano contrattare (art. 1364); allo stesso modo, le «indicazioni esemplificative» (art. 1365) non escluderanno altri casi pur non espressi se ragionevolmente pertinenti al patto concluso dalle parti.

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Fin qui i criteri che si sforzano di trovare ed esplicitare dall’interno del testo il senso complessivo dell’accordo: per questo di consueto denominati come criteri soggettivi. Parimenti soggettivo è il criterio prospettato in apertura dall’art. 1362, co. 2 che fa riferimento al comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto (si pensi al comportamento della parte creditrice di una prestazione, già in fase di esecuzione, onde ricostruire il comune intento delle parti circa le esatte modalità di adempimento di quella). Separati dal criterio di interpretazione secondo buona fede – criterio ritenuto intermedio per le ragioni che diremo tra poco – intervengono poi i criteri c.d. oggettivi, destinati a dare senso alle clausole contrattuali sulla base di elementi esterni al contratto o addirittura in applicazione di regole che potrebbero del tutto prescindere dall’intenzione delle parti. Oggettiva ma rispettosa della volontà (e comunque dell’interesse) delle parti, è la regola di cui all’art. 1367 che, in ossequio ad un principio generale di conservazione del contratto, qui espressamente richiamato (ma che ispira tutta la disciplina del contratto) chiede al giudice, nel dubbio, di scegliere tra le interpretazioni possibili di una clausola quella che consenta ad essa di produrre un qualche effetto. È ancora dall’esterno del contratto che viene la risposta all’ambiguità di una o più clausole secondo le regole di cui all’art. 1368, co. 1 e 2: le clausole ambigue saranno interpretate ricorrendo alla prassi negoziale del «luogo in cui si è concluso il contratto» ovvero, nei contratti in cui una parte sia imprenditore, del luogo in cui ha sede l’impresa (ovvero, potremmo aggiungere oggi, secondo la prassi di quel segmento di mercato e di quel tipo di negoziazioni). Si tratta dei c.d. usi interpretativi, quali usi negoziali (non normativi), prassi invalse per quelle contrattazioni, cioè regole della c.d. lex mercatoria. Regola di interpretazione oggettiva, ma questa volta di nuovo rivolta all’interno del contratto, è quella di cui all’art. 1369: all’espressione polisenso, nel dubbio, dovrà darsi un significato “più conveniente” (cioè più coerente, più adatto), alla natura e all’oggetto del contratto. Prescinde dalla “comune intenzione dei contraenti”, potendo anzi contraddirla, la regola (art. 1370) che, nel dubbio, fa pesare l’ambiguità della clausola su chi l’ha predisposta: le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari, di cui agli artt. 1341 e 1342 c.c. (IV, II, 8) predisposti da uno dei contraenti, nel dubbio si interpretano a favore dell’altro. La regola, con una portata più ampia,

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viene riproposta nel caso di contratti tra professionisti e consumatori: qui infatti, ai sensi dell’art. 35 cod. cons., a prescindere dal fatto che si verta proprio nel caso di contratto concluso sulla base di condizioni generali ovvero di moduli o formulari, se è dubbio il senso delle clausole che siano proposte al consumatore (dal professionista) per iscritto, prevarrà l’interpretazione più favorevole al consumatore (co. 2); ciò anche a mò di sanzione nei confronti del professionista al quale (co. 1) la legge impone un obbligo di trasparenza, e cioè di redigere le clausole scritte «in modo chiaro e comprensibile». Sono ancora del tutto avulse dalla comune intenzione delle parti, e per questo residuali, le regole finali di cui all’art. 1371 c.c., destinate ad intervenire solo quando, nonostante l’applicazione di tutti i criteri fin qui ricordati, il contratto “rimanga oscuro”. In questo caso l’assetto di interessi cui le parti devono ritenersi vincolate è in qualche modo delineato dalla legge secondo i princìpi generali (che vedremo ad esempio alla base della ratio del rimedio di cui agli artt. 1467 e 1468 c.c. VIII, 17), del non aggravamento della posizione dell’obbligato nel contratto a titolo gratuito, e del «l’equo contemperamento degli interessi delle parti» nel contratto a titolo oneroso. Abbiamo volutamente lasciato per ultimo il criterio, intermedio, secondo cui «Il contratto deve essere interpretato secondo buona fede» (art. 1366 c.c.): per il suo tramite infatti (sovente in una con il richiamo alla buona fede nell’esecuzione del contratto ex art. 1375 c.c.) la dottrina, ma soprattutto la giurisprudenza, sono venute prospettando un uso per così dire “spinto” del canone di buona fede, quale veicolo di arricchimento del contenuto degli obblighi di fonte contrattuale. Si tratta ovviamente della buona fede in senso oggettivo, come canone di lealtà e correttezza, sul quale ci siamo già soffermati a proposito della responsabilità precontrattuale, e del rinvio che l’art. 1337 fa alla clausola di buona fede così intesa (IV, II, 10, 11). In generale, e secondo un costante insegnamento, il criterio dell’interpretazione secondo buona fede viene considerato «canone ermeneutico che, pur non potendo di per sé superare il gradualismo tra mezzi interpretativi in senso stretto – portati dagli artt. 1362-1365 cod. civ. – e quelli interpretativo-integrativi – portati dagli artt. 13671371, tuttavia rappresenta il punto di sutura tra la ricerca della reale volontà delle parti (costituente il primo momento del processo interpretati-

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vo, in base alla comune intenzione ed al senso letterale delle parole) ed il persistere di un dubbio sul preciso contenuto della volontà contrattuale (in base ad un criterio obbiettivo, fondato su di un canone di reciproca lealtà nella condotta tra le parti, ed inteso alla tutela dell’affidamento che ciascuna parte deve porre nel significato della dichiarazione dell’altra)». (Cass. 4-7-2014, n. 15392) Come si è opportunamente sottolineato, la posizione intermedia deriva al criterio dalla considerazione che «il criterio della buona fede è un criterio generale che va applicato sia con riguardo all’effettivo intento delle parti come con riguardo all’attribuzione di senso al contratto nella difficoltà di individuarne l’intento effettivo» (A. Di Majo).

«L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza ex art. 1366 c.c. quale criterio d’interpretazione del contratto (fondato sull’esigenza definita in dottrina di “solidarietà contrattuale”)si specifica in particolare nel significato di lealtà, sostanziantesi nel non suscitare falsi affidamenti e non speculare su di essi, come pure nel non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte ... A tale stregua esso non consente di dare ingresso ad interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle intese raggiunte … e deponenti per un significato in contrasto con la ragione pratica o causa concreta dell’accordo negoziale … Assume dunque fondamentale rilievo che il contratto venga interpretato avuto riguardo alla sua ratio, alla sua ragione pratica, in coerenza con gli interessi che le parti hanno specificamente inteso tutelare mediante la stipulazione contrattuale, con convenzionale determinazione della regola volta a disciplinare il rapporto contrattuale (art. 1372 c.c.)». (Cass. 22-11-2016, n. 23701) Nel dubbio, una volta rivelatisi infruttuosi o comunque non pienamente convincenti e decisivi i criteri c.d. soggettivi di cui agli artt. 13621365, il giudice, piuttosto che passare ai parametri che abbiamo per comodità definito “esterni”, potrà trovare il senso delle espressioni adottate e delle clausole considerate nel loro complesso o del comportamento delle parti (o potrà comunque corroborare il senso già in qualche

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modo emerso), dando alla o alle clausole il significato che ciascuna delle parti poteva ragionevolmente aspettarsi in una negoziazione corretta o poteva lealmente attendersi che l’altra condividesse. Da questo profilo emerge un evidente accostamento con il test di ragionevolezza familiare alle Corti di common law. Potrebbe al riguardo riproporsi la stessa argomentazione che la Corte di giustizia adotta di recente (causa C415/11 del 14-3-2013), come vedremo tra poco, per spiegare il ruolo che a suo avviso gioca la buona fede ai fini della verifica della vessatorietà delle clausole nei contratti tra professionista e consumatore. Per verificare se il professionista era in buona fede, dice la Corte, il giudice nazionale deve verificare «se il professionista, qualora avesse trattato in modo leale ed equo il consumatore, avrebbe potuto ragionevolmente aspettarsi che quest’ultimo aderisse ad una siffatta clausola» (ove si fosse instaurata una trattativa tra le parti). Ebbene, interpretare una clausola secondo buona fede, vuol dire attribuirle, tra più significati possibili, nel contesto del contratto, quello che, in una negoziazione improntata a correttezza e lealtà, ciascuna parte avrebbe potuto “ragionevolmente aspettarsi” incontrasse il consenso dell’altra, in quanto meglio rispondente all’intento delle parti e alla causa concreta del contratto. Il canone ermeneutico della buona fede, così inteso, non sfugge tuttavia alla possibilità di un esito che finisce, come abbiamo detto, ad “arricchire” il contenuto del regolamento contrattuale. Nel caso deciso con la sentenza della S.C. sopra riportata, malgrado la presenza di una clausola che poneva a carico del promittente venditore l’obbligo di consegnare al promissario acquirente le (sole) tabelle millesimali relative all’appartamento oggetto della vendita, da una interpretazione secondo buona fede dell’intero regolamento contrattuale (regolamento che addossava anche agli acquirenti l’onere di partecipare alla spese per la redazione di tali tabelle) i giudici desumono il precipuo interesse della parte acquirente di avere a disposizione le tabelle non solo per controllare l’esercizio dei poteri dell’assemblea, quanto piuttosto verificare il corretto rapporto tra proprietà individuale e quote di proprietà comune, al fine del riparto delle spese; e ne fanno discendere dunque, per il tramite di una interpretazione secondo buona fede, l’obbligo a carico del venditore di fornire l’intera documentazione che aveva condotto alla elaborazione di tali tabelle e non il solo risultato finale. Vuole in altri termini qui sottolinearsi l’antico problema dell’incerto confine tra interpretazione e integrazione del contratto secondo buona

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fede (infra, 10). Va detto al riguardo che tutti i parametri di interpretazione oggettiva (si pensi alle regole finali di cui all’art. 1371, ma anche allo stesso criterio di conservazione), possono tradursi in una sorta di riformulazione del regolamento contrattuale che in qualche modo lo allontana dalla “comune intenzione dei contraenti” non compiutamente ricostruita nella sua originaria effettiva dimensione. Nel caso dell’uso del canone di buona fede non v’è dubbio che l’esito sia quello della ricostruzione di un regolamento contrattuale corredato da diritti ed obblighi che le parti avrebbero dovuto prevedere secondo buona fede – o quanto meno avrebbero potuto ritenere ricompresi nel loro accordo – e che tuttavia non avevano previsto (o lasciato trasparire) facendo emergere una volta di più il confine labile tra interpretazione e integrazione; e tuttavia, giova ribadirlo, dovrà trattarsi pur sempre di una operazione condotta nel quadro dell’assetto di interessi delineato dalle parti e coerente con esso, non potendo il giudice piegare, nel dubbio, il rapporto tra le parti ad esiti palesemente estranei e contrastanti con quanto desumibile dal regolamento contrattuale, seppure in nome di valori fondamentali, quali la tutela di una parte, la giustizia, ecc. L’interpretazione secondo buona fede deve (o comunque dovrebbe) sempre attestarsi su una verifica che rimane verifica “dall’interno del contratto”, e cioè, nel bene o nel male, essere completamento o sviluppo comunque coerente di quanto dalle parti voluto.

3. Il controllo “esterno” del regolamento contrattuale: le norme imperative e l’inserzione automatica di clausole e prezzi Intervento di segno diverso è la c.d. integrazione cogente, che riguarda il contenuto del contratto, e costituisce espressione dei limiti che la legge pone all’autonomia privata. Di controllo esterno del contratto deve parlarsi innanzitutto – e lo abbiamo visto – con riguardo al controllo causale, in base al quale il contratto privo di causa o con causa illecita è nullo. Qui il regolamento contrattuale, per i suoi contenuti, e dunque l’assetto di interessi voluto dalle parti non è ritenuto meritevole di ingresso nell’ordinamento, che ad esso nega in radice ogni tutela. Diverso, ma non per questo meno forte, il controllo che si traduce nella integrazione c.d. cogente: essa non solo impedisce la produzione di determinati effetti ma altresì impone la produzione di altri, anche contro,

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dunque, le scelte dei privati: alla clausola nulla perché vietata dalla legge si sostituisce, ed ecco l’integrazione cogente, quella prevista da norma imperativa (inserzione automatica di clausole, art. 1339 c.c.). Abbiamo a suo tempo fermato l’attenzione sulla peculiare applicazione del meccanismo di cui all’art. 1339 c.c. (seppure a determinate condizioni) cui fa ricorso la nostra S.C. per affermare l’inserimento nei contratti di utenza di disposizioni provenienti da una fonte regolamentare, quali le delibere delle Autorità indipendenti e in particolare l’Autorità dell’Energia (IV, II, 17). Non può propriamente collocarsi nel quadro della integrazione cogente la regola (cui abbiamo fatto cenno sopra), prevista dall’art. 117, co. 7, lett. b) del t.u.b.: le clausole contrattuali inserite nei contratti tra banca e cliente che rinviino agli usi ovvero prevedano tassi, prezzi e condizioni più sfavorevoli per i clienti rispetto a quelli che le banche hanno l’obbligo di pubblicizzare, sono nulle, e sostituite con quelle pubblicizzate. La sostituzione avviene ex lege ma con condizioni previste dalla stessa banca in sede di pubblicità e informazione precontrattuale (e non da norme imperative come secondo la regola generale dell’art. 1339). Si tratta piuttosto di una versione particolare del ruolo vincolante della informazione precontrattuale.

4. Controllo sul contenuto e disciplina delle clausole vessatorie In tutti i contratti, come abbiamo già visto, se le condizioni sono predisposte unilateralmente da una parte in via generale per una serie di contratti (c.d. di massa), l’altra parte potrà esservi vincolata purché al momento della conclusione del contratto abbia avuto modo di conoscerle o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza; ma clausole particolarmente sfavorevoli, e vantaggiose per il predisponente, quali quelle elencate (si ritiene tassativamente) nell’art. 1341 c.c. potranno essere opponibili alla parte aderente solo se specificamente approvate per iscritto (IV, II, 8). Di diversa natura e assai più incisivo il regime delle clausole abusive, ora ridenominate vessatorie (con termine più familiare che rimanda all’art. 1341 c.c.) nei contratti professionista-consumatore, introdotto con la dir. 93/13/CEE, delineato negli artt. 33 e ss. cod. cons., che costituisce il nucleo più significativo della disciplina di questi contratti. Si tratta di una disciplina trasversale, applicabile cioè a qualsiasi contratto intercorso tra professionista e consumatore a prescindere dal tipo.

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Nei contratti tra consumatore e professionista possono essere dichiarate nulle – a seguito di azione di nullità rimessa all’iniziativa del solo consumatore o a seguito di dichiarazione di nullità d’ufficio da parte del giudice – tutte le clausole che «malgrado la buona fede» risultino determinare un «significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto», a carico del consumatore, a meno che esse non riproducano disposizioni di legge o attuino princìpi contenuti in convenzioni internazionali cui abbia aderito l’Unione europea o tutti i suoi Stati membri, ovvero non siano state oggetto di trattativa individuale. Il sistema di tutela istituito dalla dir. 93/13, sottolinea la Corte di giustizia europea, «è fondato sull’idea che il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative che il grado di informazione, situazione che lo induce ad aderire alle condizioni predisposte dal professionista senza potere incidere sul contenuto delle stesse» (vedi in particolare sentenza 3-6-2010, causa C-484/08 che richiama i precedenti). Da qui un meccanismo volto a garantire che qualsiasi clausola contrattuale che non sia stata oggetto di trattativa individuale possa essere “controllata” al fine di valutarne l’eventuale carattere abusivo, che affida al giudice nazionale di stabilire se la clausola soddisfi «i requisiti di buona fede, equilibrio e trasparenza posti dalla direttiva» (vedi sentenza 26-4-2012, causa C472/10 Invitel). Il regime delle clausole vessatorie, nel caso di contratti di consumo, è differente e più rigoroso di quello previsto, in generale, dal codice civile e delinea un controllo di contenuto sul contratto particolarmente incisivo. Infatti: a) il controllo sulle clausole riguarda tutti i contratti stipulati tra professionista e consumatore a prescindere dalla circostanza che essi siano stati stipulati sulla base di condizioni generali (come è invece secondo la disciplina generale dettata dal codice civile), anche se è questa nella prassi la fattispecie di gran lunga ricorrente; bastando la predisposizione unilaterale da parte del professionista delle condizioni di quel contratto o di quella clausola. Né rileva l’eventuale circostanza che le modalità concrete abbiano fatto apparire il consumatore nel ruolo di proponente, quando egli comunque aderisca ad un testo predisposto dal professionista oblato, perché una simile dinamica non modifica nulla sotto il profilo della sussistenza del presupposto della predisposizione unilaterale.

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Osserva la S.C. «La disciplina di tutela del consumatore posta dagli artt. 33 e ss. del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (c.d. Codice del consumo) prescinde dal tipo contrattuale prescelto dalle parti e dalla natura della prestazione oggetto del contratto, trovando applicazione sia in caso di predisposizione di moduli o formulari in vista dell’utilizzazione per una serie indefinita di rapporti, che di contratto singolarmente predisposto. Trattasi di disciplina invero altra e diversa da quella – concorrente – posta dall’art. 1341 ss. c.c. essendosi al riguardo sottolineato che, laddove l’onerosità ex art. 1341 c.c., comma 2 attiene a contratti unilateralmente predisposti da un contraente in base a moduli o formulari in vista dell’utilizzazione per una serie indefinita di rapporti, la vessatorietà di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, ex art. 33 ss. può invece attenere anche al singolo contratto. La disciplina posta dal Codice del consumo è infatti volta a garantire e tutelare il consumatore dalla unilaterale predisposizione e sostanziale imposizione del contenuto contrattuale da parte del professionista, quale possibile fonte di abuso, sostanziantesi nella preclusione per il consumatore della possibilità di esplicare la propria autonomia contrattuale, nella fondamentale espressione rappresentata dalla libertà di determinazione del contenuto del contratto. Con conseguente alterazione, su un piano non già solamente economico, della posizione paritaria delle parti contrattuali idoneo a ridondare, mediante l’imposizione del regolamento negoziale unilateralmente predisposto, sul piano dell’abusivo assoggettamento di una di esse (l’aderente) al potere (anche solo di mero fatto) dell’altra (il predisponente). Evidente è pertanto che non solo mediante la unilaterale predisposizione di moduli o formulari in vista dell’utilizzazione per una serie indefinita di rapporti, ma anche in occasione della stipulazione come nella specie di un singolo contratto redatto per uno specifico affare, il professionista può invero, mediante l’unilaterale predisposizione ed imposizione del relativo contenuto negoziale, affermare la propria autorità (di fatto) contrattuale sul consumatore. La lesione dell’autonomia privata del consumatore, riguardata sotto il segnalato particolare aspetto della libertà di determinazione del contenuto dell’accordo, fonda allora sia nell’una che nell’altra ipotesi l’applicazione della disciplina di protezione in argomento. Nel che si coglie la pregnanza e la specificità del relativo portato. A precludere l’applicabilità della disciplina di tutela del consumatore in argomento è

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invero necessario che ricorra il presupposto oggettivo della trattativa D.Lgs. n. 206 del 2005, ex art. 34, comma 4». (Cass. 20-3-2010, n. 6802, ord.) Per l’ipotesi di contratti in cui tutte o alcune clausole siano proposte al consumatore per iscritto si richiede espressamente una redazione chiara e comprensibile, confermando la regola generale fissata dall’art. 1370 c.c., che in caso di dubbio prevarrà l’interpretazione più favorevole al consumatore; b) la vessatorietà di alcune clausole si presume a prescindere da ogni ipotetica “adesione” del consumatore. Le clausole che escludono o limitano la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore ovvero escludono o limitano le azioni a tutela del consumatore per inadempimento (totale o parziale o adempimento inesatto) del professionista, e quelle che prevedono l’adesione del consumatore anche a clausole che egli non abbia avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto, si presumono vessatorie e dunque possono essere dichiarate nulle quantunque oggetto di trattativa (art. 36, co. 2). Si tratta di un elenco tassativo (la c.d. black list); c) fuori da queste ipotesi, a meno che non si tratti di clausole che riproducono disposizioni di legge, è sempre possibile per il consumatore chiedere al giudice (o al giudice effettuare d’ufficio) una verifica in concreto che, tenendo conto «della natura del bene o del servizio oggetto del contratto» e facendo riferimento «alle circostanze esistenti al momento della sua conclusione ed alle altre clausole del contratto» o di un eventuale contratto collegato, accerti la vessatorietà della clausola. La verifica in ordine alla vessatorietà, cui il giudice è chiamato, deve essere svolta dunque in concreto, ma altresì alla stregua di una valutazione complessiva della operazione, dunque di tutte le clausole del contratto ma anche del contenuto e delle clausole di contratti eventualmente collegati. L’elenco delle clausole che «si presumono vessatorie fino a prova contraria», fornito dall’art. 33 cod. cons., non è tassativo (c.d. grey list), ma semplicemente indicativo: individua le ipotesi più frequenti e significative di clausole vessatorie, sollevando in questi casi il consumatore dalla prova della vessatorietà (la prova contraria, per vincere la presunzione di legge, sarà semmai fornita dal professionista) e al contempo,

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attraverso gli esempi considerati, chiarisce il significato del criterio generale posto dall’art. 33, e dunque l’ambito di rilevanza che la legge intende assegnare allo “squilibrio” di diritti ed obblighi in danno del consumatore (ambito assai più vasto di quello considerato, con indicazioni tassative, nell’art. 1341, co. 2, c.c.); d) la verifica di vessatorietà (salvo che si tratti delle clausole elencate nella c.d. black list) può essere esclusa solo ove si provi che la clausola sia stata oggetto di una vera e propria negoziazione (trattativa individuale: art. 34, co. 4), dovendosi intendere con ciò che al consumatore deve essere stato consentito di intervenire nella formulazione della clausola. Il concetto di “trattativa” – qui trattativa “individuale”– al fine di escludere il controllo sulla eventuale vessatorietà è formulato in modo puntuale e rigoroso dai giudici, in linea del resto con i Considerando della dir. comunitaria 93/13 cui si deve la disciplina in esame; trattativa individuale è in questo caso più che la semplice interlocuzione tra le parti che precede la stipula del contratto e va intesa come individuale, seria, effettiva, cioè come possibilità in concreto offerta al consumatore non solo di conoscere ed esaminare ma altresì di modificare quella clausola o quella parte dell’accordo sospettate di vessatorietà. «Perché l’applicazione della disciplina di tutela del consumatore in questione possa considerarsi preclusa, la trattativa deve non solo essersi storicamente svolta ma altresì risultare caratterizzata dai requisiti della individualità (avere cioè riguardo alle clausole o agli elementi di clausola costituenti il contenuto dell’accordo, presi in considerazione singolarmente e nel significato che assumono nel complessivo tenore del contratto); della serietà (essere svolta dalle parti mediante l’adozione di un comportamento obiettivamente idoneo a raggiungere il risultato cui è diretta); della effettività (essere stata non solo storicamente ma anche in termini sostanziali effettuata, nel rispetto della autonomia privata delle parti, riguardata non solo nel senso di libertà di concludere il contratto ma anche nel suo significato di libertà e concreta possibilità – anche – per il consumatore di determinare il contenuto del contratto)». (Cass. 20-3-2010, n. 6802, ord., cit.) Siamo peraltro ben lontani, come si vede, dalla mera presa d’atto formale, per il tramite della specifica sottoscrizione, richiesta per i con-

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tratti in generale dall’art. 1341, co. 2, c.c. Lo svolgimento di una trattativa individuale riguardante la clausola dovrà essere provato dal professionista. Il co. 5 dell’art. 34 cod. cons. pone a carico del professionista, nel caso di contratto concluso mediante sottoscrizione di moduli o formulari, l’onere di provare che le clausole siano state oggetto di specifica trattativa. Dottrina e giurisprudenza ritengono tuttavia che l’onere della prova della trattativa gravi sempre sul professionista, anche quando non si tratti di contratto concluso mediante moduli o formulari. La sussistenza della trattativa, invero «è da considerarsi un prius logico rispetto alla verifica della sussistenza del significativo squilibrio in cui riposa l’abusività della clausola o del contratto, sicché spetta al professionista che invochi la relativa inapplicabilità dare la prova del fatto positivo dello svolgimento della trattativa e della relativa idoneità, in quanto caratterizzata dai suindicati imprescindibili requisiti, ad atteggiarsi ad oggettivo presupposto di esclusione dell’applicazione della normativa in argomento». (Cass. 20-3-2010, n. 6802, ord., cit.) Lo squilibrio che la legge intende intercettare e impedire è quello tra “diritti ed obblighi” derivanti dal contratto, in danno del consumatore. Bastino alcuni esempi: può essere vessatoria la clausola che escluda o limiti le azioni o i diritti del consumatore nei confronti del professionista in caso di inadempimento totale o parziale o di inesatto adempimento da parte del professionista; ma anche quella che stabilisca un termine eccessivamente anticipato rispetto alla scadenza del contratto entro il quale il consumatore, nei contratti di durata, possa comunicare la disdetta o evitare proroghe o rinnovazioni; stabilisca che il prezzo dei beni o servizi non sia determinato al momento della stipula ma al momento della consegna della prestazione ovvero consenta al professionista di aumentare tale prezzo senza lasciare al consumatore il diritto di recedere se il prezzo finale è eccessivamente elevato rispetto a quello originariamente convenuto; clausole che limitino la responsabilità del professionista rispetto alle obbligazioni derivanti da contratti stipulati in suo nome da mandatari, ecc. In generale, rientra tra le clausole che possono essere dichiarate vessatorie anche quella che attribuisce al professionista il c.d. ius variandi, cioè il diritto di modificare unilateralmente nel corso

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del rapporto le clausole del contratto, ovvero le caratteristiche del prodotto o del servizio da fornire, senza un giustificato motivo, pur se non indicato preventivamente nel contratto stesso (lett. m) del co. 2 dell’art. 33 cod. cons.). La modifica unilaterale delle condizioni del contratto da parte del professionista è tuttavia ammessa se sussiste un giustificato motivo nei contratti aventi ad oggetto la prestazione di servizi finanziari a tempo indeterminato, purché il consumatore sia avvisato con congruo preavviso e abbia il diritto di recedere. Il tasso di interesse o l’importo di qualunque altro onere, in questi contratti, può essere modificato anche senza preavviso, sempre che vi sia un giustificato motivo, con l’obbligo del professionista di darne immediata comunicazione al consumatore, il quale avrà il diritto di recedere (art. 33, co. 3 e 4, cod. cons.). L’art. 41 cod. tur. consente al professionista che «abbia necessità di modificare in modo significativo uno o più elementi del contratto» di farlo, ma informandone tempestivamente il turista e comunicandogli le conseguenti variazioni di prezzo, con diritto del consumatore di recedere senza penali. La lett. u) dell’art. 33, elenca, tra quelle che si presumono vessatorie, la clausola avente per oggetto o per effetto di stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore. Risolvendo un contrasto emerso in giurisprudenza, la Corte di cassazione, con una pronuncia a Sezioni Unite (1-10-2003, n. 14469), ha affermato che a tale disposizione deve riconoscersi natura processuale, nel senso che essa individua, quale criterio di competenza (territoriale) esclusivo, per le controversie tra consumatori e professionisti, quello che fa riferimento alla località di residenza o di domicilio elettivo del consumatore; rimane salva la rinuncia del consumatore, considerato che, secondo la disciplina fin qui descritta, la clausola che stabilisce un foro diverso non potrà essere considerata vessatoria e sarà valida se è stata oggetto di trattativa, in conformità al disposto dell’art. 34, co. 4, cod. cons. È questa la regola generale del foro esclusivo del consumatore. Si parla invece di foro inderogabile del consumatore quando tale criterio di competenza esclusivo è sancito da una norma inderogabile, come nel caso dei contratti negoziati a distanza o fuori dei locali commerciali (art. 63 cod. cons.) o quello, già ricordato, dei contratti di multiproprietà: non sarebbe valida pertanto una rinuncia del consumatore. La legge esplicitamente esclude che la valutazione del carattere vessatorio possa riguardare la determinazione dell’oggetto del contratto, o

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l’adeguatezza del corrispettivo (quelli che in inglese efficacemente si denominano i “core terms” del contratto, il suo nucleo centrale), purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile. Dunque quello che l’intervento sulle clausole vessatorie vuole intercettare è uno squilibrio normativo e non economico: non è per il tramite del divieto di clausole vessatorie che l’ordinamento intende controllare e orientare la convenienza dell’affare per il consumatore. La Corte di giustizia, proprio sulla base della ratio della disciplina in esame, nei termini che abbiamo sopra ricordato, segue una interpretazione restrittiva del termine “oggetto del contratto” e dunque dei limiti posti alla verifica giudiziale di vessatorietà. «Le clausole rientranti nella nozione di “oggetto principale del contratto” devono intendersi come quelle che fissano le prestazioni essenziali dello stesso contratto e che, come tali, lo caratterizzano. Per contro, le clausole che rivestono un carattere accessorio rispetto a quelle che definiscono l’essenza stessa del rapporto contrattuale non possono rientrare nella nozione di “oggetto principale del contratto” ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13». (Corte giust. 30-4-2014, causa C-26/13 Kásler) Conseguentemente la Corte dichiara che l’art. 4, par. 2 della dir. 93/13 deve essere interpretato nel senso che i termini “oggetto principale del contratto” possono comprendere una clausola, integrata in un contratto di mutuo espresso in valuta estera, concluso tra un professionista ed un consumatore e che non è stata oggetto di una trattativa individuale, a norma della quale il corso di vendita di tale valuta si applica ai fini del calcolo dei rimborsi del mutuo, solo purché si constati che la suddetta clausola fissa una prestazione essenziale del contratto stesso, che come tale lo caratterizza; indagine che spetta al giudice nazionale, il quale dovrà verificare se, dati la natura, l’economia generale, e la stipulazione del contratto di mutuo, nonché il suo contesto giuridico e fattuale, la clausola che determina il tasso di cambio delle rate mensili costituisca un elemento essenziale della prestazione del debitore consistente nel rimborso dell’importo messo a disposizione dal creditore. La più volte citata dir. 2011/83/UE sui diritti dei consumatori sembra peraltro lasciare spazio ad interventi più incisivi dei legislatori na-

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zionali, che spingano la verifica di vessatorietà oltre l’equilibrio c.d. normativo (tra diritti ed obblighi), ed anche con riguardo al profilo economico dello scambio e segnatamente all’«adeguatezza» del prezzo: infatti, l’art. 32 della direttiva modifica la dir. 93/13/CEE in materia di clausole abusive, inserendovi il nuovo art. 8-bis che così recita: «1. Quando uno Stato membro adotta disposizioni conformemente all’articolo 8, ne informa la Commissione, così come di qualsiasi successiva modifica, in particolare qualora tali disposizioni: – estendano la valutazione di abusività a clausole contrattuali negoziate individualmente o all’adeguatezza del prezzo o della remunerazione; oppure – contengano liste di clausole contrattuali che devono essere considerate abusive» (corsivo nostro). Si prospetta così come ammissibile un regime nazionale di controllo della vessatorietà delle clausole assai più rigido, che superi la barriera della trattativa individuale (assunta fin qui come presunta garanzia di riequilibrio, in sede di formazione del consenso, della forza contrattuale di consumatore e professionista) ovvero giunga a sindacare anche la misura del corrispettivo in termini di “adeguatezza”. Mancano tuttavia ad oggi nel nostro diritto interno regole che possano prospettare l’ammissibilità di un controllo sull’adeguatezza del prezzo, fuori dal (diverso) controllo sul rispetto del sinallagma contrattuale. La conseguenza della vessatorietà accertata dal giudice con riguardo al singolo contratto, è, ai sensi dell’art. 36 cod. cons., quella della nullità della clausola, rimedio sottoposto ad un regime peculiare che giustifica la nozione di nullità di protezione (VII, 8). Il diritto europeo, come del resto abbiamo messo più volte in evidenza, privilegia tuttavia, fin dove possibile, strumenti preventivi di tutela, che impediscano la formazione di accordi “squilibrati” e comunque in violazione delle norme a tutela del consumatore, individuando anche solo nella possibilità di tali scambi squilibrati un turbamento al regolare funzionamento del mercato e una minaccia alla corretta concorrenza tra imprenditori. Per questo già la direttiva fondamentale in materia (93/13) ha riconosciuto alle associazioni dei consumatori l’esercizio di una azione collettiva a carattere inibitorio, che mira a sollecitare un controllo giudiziale preventivo sulle condizioni generali di contratto adottate dai professionisti, fuori dunque ed anche prima dell’inserimento nel singolo contratto (infra 8). Di recente, il nostro legislatore ha arricchito il ventaglio di misure preventive, con l’introduzione (art. 37-bis cod. cons. introdotto dall’art. 5, co. 1, d.l. 24-1-2012, n. 1, convertito

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nella l. 24-3-2012, n. 27) di una «tutela amministrativa contro le clausole vessatorie». Trattasi di un controllo esercitato d’ufficio o su denuncia (anche di un singolo consumatore) o anche su richiesta della stessa impresa che intende utilizzare (la o) le clausole, da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. La dichiarazione di vessatorietà non comporta la caducazione né il divieto di utilizzo delle clausole censurate, da parte del professionista, ma il provvedimento dell’Autorità viene adeguatamente pubblicizzato, imponendosene la pubblicazione anche nel sito internet del professionista che adotta la clausola. L’esito della verifica – sia esso positivo o negativo – non spiega effetti diretti nei singoli contratti professionista/consumatore nei quali il primo eventualmente continui ad inserire le clausole ritenute vessatorie: è fatta salva infatti la giurisdizione del giudice ordinario per il controllo all’interno del singolo contratto e d’altra parte, per converso, la circostanza che l’Autorità abbia escluso la vessatorietà di una clausola non esclude di per sé la responsabilità dei professionisti verso i consumatori (ove la clausola sia giudicata invece vessatoria all’interno del singolo contratto). L’indagine condotta dall’Autorità attiene infatti ad un controllo di vessatorietà per così dire “in astratto”, fuori dal concreto di un singolo rapporto di consumo, entro il quale la clausola che pure abbia superato il vaglio amministrativo potrebbe invece rivelarsi idonea a determinare in concreto a carico del «consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto», cui fa riferimento l’art. 33, co. 1. Tornando al regime civilistico, la disciplina delle clausole vessatorie nei contratti consumatore-professionista introduce un controllo sul contenuto del contratto che si affianca, senza sostituirlo, al tradizionale controllo causale ma svolge una funzione ben diversa e per certi aspetti più incisiva: in questo caso il legislatore, intendendo salvaguardare l’equilibrio delle condizioni contrattuali, e scongiurare il pericolo che il contraente forte possa abusare della propria posizione di maggior potere contrattuale, porta la sua attenzione e la sua verifica sul contenuto delle clausole contrattuali considerato per gli effetti distorsivi che potrebbe apportare nel complessivo equilibrio nella posizione delle parti. La vessatorietà non è carattere che la clausola presenti per così dire a priori o che possa discendere sempre e comunque dal suo contenuto, dovendosi e potendosi disvelare alla stregua delle conseguenze cui potrebbe dare luogo nel contesto del complessivo assetto di interessi delineato dalle parti. In astratto, una clausola di medesimo contenuto po-

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trebbe manifestare una valenza squilibrante ed essere dunque giudicata vessatoria in un contratto e non invece in un altro, ove trovi ad esempio bilanciamento in maggiori diritti concessi al consumatore. Una volta che sia accertata la vessatorietà la legge chiama il giudice ad una operazione di ortopedia: le clausole vessatorie saranno espunte (essendo dichiarate nulle) e il contratto sopravviverà, se è possibile, senza di esse, sicché ne risulterà in qualche modo ridisegnato l’equilibrio di diritti ed obblighi tra le parti. Non a caso, a proposito della nullità delle clausole vessatorie, si è parlato di una nullità funzionale, per segnalare come la nullità non svolge la consueta funzione di negare tutela a manifestazioni dell’autonomia privata giudicate non conformi ai modelli ammessi dall’ordinamento (i requisiti di cui all’art. 1325 c.c. e una causa lecita), bensì di presidiare accordi bilanciati quanto ai diritti ed obblighi delle parti, ripristinando tale equilibrio in quelli che non l’abbiano. Il regime delle clausole vessatorie, d’altra parte, è certamente complementare rispetto a quello sopra illustrato che, imponendo l’indicazione, nel testo contrattuale o nella pubblicità, di alcuni elementi, tenta di bilanciare sul piano della trasparenza il maggior potere contrattuale del professionista che, in generale, predispone comunque le condizioni contrattuali. In quel caso la legge non tocca, come abbiamo sottolineato, la sfera riservata all’autonomia privata, richiedendosi che le condizioni predisposte siano comunicate per tempo in modo chiaro e comprensibile, ma non censurandosi i contenuti di tali clausole, come invece nel caso della disciplina delle clausole vessatorie. La non felice locuzione “malgrado la buona fede”, comparsa nel testo italiano di recepimento della direttiva comunitaria, e ora mantenuta nell’art. 33, co. 1, cod. cons., ha sollevato non pochi dubbi interpretativi. Ci si è chiesti se il riferimento non fosse da intendere qui alla buona fede in senso soggettivo, nel senso che la vessatorietà della clausola dovesse prescindere (“malgrado”) dalla buona fede del professionista, non consapevole dell’effetto squilibrante in danno della controparte. Ha riscosso maggiori consensi la tesi che interpreta la formula secondo la più corretta traduzione adottata dagli altri Stati membri, cioè leggendo “malgrado la buona fede” come «in contrasto con la buona fede», da intendersi dunque in senso oggettivo, quale buona fede (correttezza) nel contratto e in particolare nella sua esecuzione. Sarà considerata vessatoria la clausola che determina un significativo squilibrio in contrasto con i canoni di buona fede (oggettiva) e correttezza.

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L’opzione interpretativa non risolve tuttavia l’interrogativo se la contrarietà alla buona fede (contrattuale) della clausola vessatoria debba ritenersi come carattere aggiuntivo rispetto a quello del significativo squilibrio cui essa dà luogo. Appare convincente l’opinione di buona parte della dottrina secondo cui la contrarietà alla buona fede (contrattuale) non dovrebbe ritenersi requisito aggiuntivo rispetto a quello del significativo squilibrio, essendo quest’ultimo già sintomatico di per sé di un’alterazione dei rispettivi diritti e obblighi che lede la buona fede. Di diverso avviso, ma con una pronuncia abbastanza ambigua, sembra tuttavia la Corte di Giustizia, nella sentenza 14-3-2013 (caso C-415/11 Aziz), secondo cui il giudice nazionale dovrebbe comunque «verificare se il professionista, qualora avesse trattato in modo leale ed equo il consumatore, avrebbe potuto ragionevolmente aspettarsi che quest’ultimo aderisse ad una siffatta clausola nell’ambito del negoziato individuale». Sia che si aderisca a questa interpretazione – che sembra imporre al giudice un doppio momento di verifica, condotta prima sui contenuti (squilibranti) della clausola nel contesto complessivo del contratto e poi sulla contrarietà a buona fede – sia che si segua l’opinione che a noi appare preferibile, e cioè che la vessatorietà implichi in sé contrarietà alla buona fede, non v’è dubbio che la disciplina in esame costituisce a pieno titolo applicazione della clausola generale che impone alle parti di comportarsi secondo lealtà e correttezza nella fase di conclusione e di esecuzione del contratto. Per questo, malgrado il dibattito sia ancora aperto a livello europeo, non ha avuto seguito almeno finora la proposta di accentuare il processo di armonizzazione tra le legislazioni degli Stati membri passando ad una più ampia standardizzazione di clausole comunque vessatorie. Una standardizzazione massima di clausole considerate sempre e comunque vessatorie (con un ampliamento della c.d. black list) ridimensionerebbe il ruolo della buona fede, parametro flessibile di verifica e come tale capace di veicolare entro il giudizio di vessatorietà, per il tramite delle Corti interne, i princìpi propri delle tradizioni e sensibilità dei singoli ordinamenti. Di particolare interesse, ed assolutamente condivisibile, è l’interpretazione (estensiva) che, alla luce delle finalità e degli stessi contenuti della disciplina, è stata prospettata dalla nostra S.C. con riguardo all’applicazione del controllo di vessatorietà anche alle clausole contenute nei c.d. negozi giuridici preparatori, quale ad esempio la proposta contrattuale irrevocabile (per il consumatore). Ritenere che la disciplina delle

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clausole vessatorie nei contratti tra professionista e consumatore abbia un ambito oggettivo di applicabilità coincidente con il contratto che abbia già completamente esaurito il suo ciclo di formazione e sia vincolante per entrambi i contraenti, hanno osservato i giudici, contrasterebbe con le finalità della normativa in questione, che è quella – come la stessa S.C. non ha mancato di ribadire – di garantire il consumatore dalla unilaterale predisposizione e sostanziale imposizione del contenuto negoziale da parte del professionista, quale possibile fonte di abuso sostanziantesi nella preclusione per il consumatore della possibilità di esplicare la propria autonomia contrattuale: ratio, osserva la S.C., che sussiste egualmente sia con riguardo a contratti definitivamente perfezionati, sia con riguardo a negozi preparatori e tuttavia già vincolanti per il consumatore aderente., come del resto conferma, ad esempio, il co. 2, lett. e) dell’art. 33 cod. cons. quando si riferisce a clausole che prevedano il versamento di una somma di denaro che il professionista potrà trattenere se il consumatore «non conclude il contratto», clausola, osserva la Corte che «ha riguardo a figure più ampie e diverse dal contratto da cui scaturirà il definitivo assetto di interessi, ed è destinata a ricomprendere nel suo raggio di operatività quei negozi preparatori che hanno la caratteristica di essere strumentali ad un successivo e finale contratto». «In altri termini, ai fini che qui rilevano, il termine contratto nella disciplina delle clausole vessatorie, essendo sostanzialmente sinonimo di operazione economica negoziale, comprende anche i negozi tra vivi a contenuto patrimoniale, inclusa la proposta irrevocabile; e siccome non rileva il ruolo che le parti hanno assunto nel procedimento diretto alla formazione del contratto, la circostanza che il consumatore abbia riprodotto nella sua proposta lo schema redatto dal professionista non esclude che, in presenza degli altri presupposti di applicabilità della disciplina, l’operazione negoziale possa essere sindacata nell’interesse del consumatore stesso. Conclusivamente, va affermato il principio secondo cui in tema di clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore, la previsione dell’art. 33, comma 2, lett. e), del codice del consumo – diretta a sanzionare la lesione inferta all’equilibrio negoziale che si concretizza nel trattenimento di una somma di danaro ricevuta prima dell’esecuzione delle prestazioni derivanti dal contratto, qualora non si ponga a carico del-

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l’accipiens un obbligo restitutorio e un ulteriore obbligo sanzionatorio nel caso che sia egli stesso a non concludere o a recedere – è applicabile in presenza non solo di un contratto già concluso ed impegnativo per entrambi i contraenti, ma anche di un negozio preparatorio vincolante per il consumatore, quale quello discendente da una proposta irrevocabile, tutte le volte che il consumatore stesso – nel versare, contestualmente all’impegno assunto, una somma di denaro destinata ad essere incamerata dal destinatario in caso di mancata sottoscrizione, da parte dello stesso proponente, del successivo preliminare “chiuso” o del definitivo – abbia aderito ad un testo, contenente la detta clausola vessatoria, predisposto o, comunque, utilizzato dal professionista oblato». (Cass. 30-4-2012, n. 6639)

5. (Segue). Caducazione della clausola vessatoria, mantenimento del contratto e applicazione della disciplina legale. Il paradigma della nullità di protezione La caducazione della o delle clausole, nel caso dei contratti in generale, non reca necessariamente con sé la nullità dell’intero contratto (se la clausola caducata non deve ritenersi essenziale avuto riguardo all’interesse dei contraenti: secondo la regola in tema di nullità parziale di cui all’art. 1419, co. 1 VII, 7); se trattasi invece di contratti di consumo, la nullità di clausole vessatorie di cui all’art. 33 cod. cons. non travolge mai l’intero contratto di consumo (se questo può sopravvivere senza), come precisa l’art. 36 cod. cons. e dunque non entra in gioco la rilevanza che le parti vi avessero eventualmente assegnato. La c.d. nullità di protezione, se riferita ad una parte del contratto o ad una sua clausola, si atteggia quale nullità, in principio, necessariamente parziale (VIII, 8). Occorre allora chiedersi se la lacuna così determinatasi nel regolamento di interessi dovrà o potrà essere colmata e in che modo; se ad essa sopperirà la regola legale. La nostra dottrina è stata in genere incline ad ammettere l’innesto della regola legale (ancorché dispositiva) nel corpo del contratto amputato della clausola abusiva ed in sostituzione della regola pattizia contenuta nella clausola nulla in sede di applicazione dell’art. 1341 c.c., pur se tale conclusione non ha mancato in passato di suscitare obiezioni; un

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certo scetticismo sulla praticabilità di tale “integrazione” è tornato ad affacciarsi a proposito della sorte del contratto di consumo già all’indomani dell’introduzione della relativa disciplina di fonte europea. Il dubbio si è prepotentemente riproposto a fronte di una pronuncia della Corte di giustizia europea (14-6-2012, causa C-618/10, Banco Español de Crédito) nella quale, partendo dal dettato dell’art. 6, par. 1 della dir. 93/13, la Corte ha escluso che, di fronte ad una clausola penale manifestamente eccessiva, il giudice nazionale possa, in luogo di dichiararla nulla perché vessatoria, procedere alla sua riduzione in conformità ad una norma del proprio ordinamento (in quel caso il diritto spagnolo). Parte della nostra dottrina (tuttavia isolata nel panorama europeo), ne ha dedotto che la praticabilità della integrazione (suppletiva) del contratto amputato della clausola vessatoria verrebbe ora definitivamente esclusa dalla Corte di giustizia: regola dagli effetti abbastanza incontrollati sulla sorte del contratto, il quale, in controtendenza rispetto all’obiettivo esplicitato dalla nullità di protezione, di salvezza del contratto, sarebbe ben più spesso avviato alla sua totale caducazione – in ipotesi contro l’interesse del consumatore – tutte le volte in cui la nullità della clausola vessatoria determini l’assenza di qualsivoglia regolamentazione di profili essenziali del rapporto contrattuale, non sostituibile in alcun modo stante la (presunta) preclusione all’ingresso della disciplina legale. In effetti, la Corte, nella citata sentenza rimanda al dettato della direttiva sottolineando che: «risulta ... dal tenore letterale del paragrafo 1 di detto articolo 6 che i giudici nazionali sono tenuti unicamente ad escludere l’applicazione di una clausola contrattuale abusiva affinché non produca effetti vincolanti nei confronti del consumatore, senza essere autorizzati a rivedere il contenuto della medesima. Infatti, detto contratto deve sussistere, in linea di principio, senz’altra modifica che non sia quella risultante dalla soppressione delle clausole abusive, purché, conformemente alle norme di diritto interno, una simile sopravvivenza del contratto sia giuridicamente possibile». Il principio è ribadito più di recente dalla sentenza della Corte di Giustizia nel caso Asbeek Brusse (causa C-488/11, del 30-5-2013) ma sempre a proposito di riduzione (per via giudiziale) di penale eccessiva: la norma della direttiva osserva la Corte di giustizia, «non consente al giudice nazionale, qualora quest’ultimo abbia accertato il carattere abusivo di una clausola penale in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, di limitarsi, come lo autorizza a fare il diritto nazionale, a ridurre l’im-

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porto della penale imposta da tale clausola a carico di detto consumatore, ma gli impone la pura e semplice disapplicazione di siffatta clausola nei confronti del consumatore». Di sicuro non può negarsi che l’interpretazione rigida del dettato dell’art. 6 n. 1 della direttiva e in particolare il rinvio al principio secondo cui «il contratto privo della clausola abusiva deve rimanere negli stessi termini», una volta di più sembra rispondere ad un obiettivo di garanzia estrema del consumatore cui farebbe da pendant una visione sanzionatoria della verifica di abusività. Rispetto all’obiettivo di protezione del consumatore, sottolineano i giudici della Corte di giustizia, si rivelerebbe controproducente qualunque “salvataggio” della clausola imposta dal professionista perché «tale facoltà contribuirebbe ad eliminare l’effetto dissuasivo esercitato sui professionisti dalla pura e semplice non applicazione nei confronti del consumatore di siffatte clausole abusive ..., dal momento che essi rimarrebbero tentati di utilizzare tali clausole, consapevoli che, quand’anche esse fossero invalidate, il contratto potrebbe nondimeno essere integrato, per quanto necessario, dal giudice nazionale, in modo tale, quindi, da garantire l’interesse di detti professionisti ... Ne consegue che una facoltà siffatta, se fosse riconosciuta al giudice nazionale, non potrebbe garantire, di per sé, una tutela del consumatore efficace quanto quella risultante dalla non applicazione delle clausole abusive». Precisiamo subito che le argomentazioni della Corte di giustizia muovono da una prospettiva in qualche modo opposta a quella che aveva in passato condotto la nostra dottrina ad escludere l’integrazione legale in sostituzione delle clausole vessatorie ex art. 1341, co. 2, c.c. La prospettiva dalla quale parte della nostra dottrina ha contestato l’ammissibilità della sostituzione della clausola pattizia con la disciplina legale (ove necessaria) è qui per così dire rovesciata. Il principio che vorrebbe “intangibile” il contratto amputato della clausola abusiva non esprime, nel quadro della legislazione consumeristica europea, l’ostilità verso tecniche di riespansione della legge in ambiti lasciati al dispiegarsi dell’autonomia privata (ostilità che dovrebbe portare a limitare l’integrazione del contratto per via legale solo ai casi di applicazione di norme imperative, nella c.d. integrazione cogente, ma non con l’innesto di regole previste da norme dispositive); all’opposto, in sede europea, si intende segnalare la radicalità proprio dell’intervento demolitorio nei confronti di manifestazioni di autonomia privata frutto dell’abuso di potere contrattuale del professionista. È in ossequio a tale radicalità,

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che al giudice nazionale non è consentita altra via che quella della caducazione. La differenza, allora, non è di poco conto. Poiché l’obiettivo di lungo periodo della protezione del consumatore e la difesa della “intangibilità” (non del contratto bensì) “dei medesimi termini” dell’accordo, impongono di espungere in toto, a nostro avviso, non la regolamentazione del profilo oggetto della pattuizione abusiva secondo il diritto interno, ove imprescindibile per la salvezza dell’operazione, ma, al contrario, proprio (e solo) la fonte convenzionale di quella regolamentazione, che qualsivoglia correzione per via giudiziale manterrebbe comunque in vita. Ciò che deve evitarsi è che il giudice invece di annullare modifichi la clausola. Le decisioni, in entrambi i casi, segnalano una generale diffidenza della Corte verso interventi in qualche modo “manipolativi” dell’assetto contrattuale per mano dei giudici nazionali; sì da rendere plausibile l’idea che sia al ruolo del giudice più che all’innesto della disciplina legale che la giurisprudenza comunitaria intenda sbarrare la strada. Il principio posto dall’art. 6 della direttiva, che vorrebbe veder sopravvivere il contratto (se ve ne sono i presupposti) solo “nei medesimi termini” in cui si presenta una volta eliminate le clausole abusive, si presta di sicuro ad una lettura in termini rigidi: non potendosi negare che l’integrazione per via legale comunque interviene a modificare i termini del negozio semplicemente “amputato”. Se si assume tuttavia che l’esito avuto di mira dalla Corte, in linea con il dettato della direttiva, è quello di presidiare a qualunque costo l’eliminazione dall’assetto di interessi concordato tra consumatore e professionista degli effetti squilibranti ascrivibili alla clausola pattizia imposta, la “intangibilità” così (forse esageratamente) evocata alla stregua del tenore dell’art. 6 n. 1 della dir. 93/13 si presenterà nella più modesta veste di radicale irrecuperabilità, nel contratto, delle “deviazioni” al regime legale di distribuzione dei diritti ed obblighi tra le parti imposte dal professionista. Tali “deviazioni”, imposte dal professionista, risulterebbero in qualche modo recuperate per il tramite dell’intervento giudiziale, il quale comunque avvierebbe il rapporto contrattuale ad un assetto pur sempre diverso da quello che sarebbe derivato se quell’aspetto non fosse stato ab origine fatto oggetto di alcuna pattuizione privata (premessa a sua volta della “revisione” giudiziale) e fosse stato affidato invece semplicemente alla disciplina legale (R. Alessi). Questa lettura dell’orientamento della Corte ci è sembrata da subito più coerente con la disciplina e la ratio dell’intervento di contrasto alle clausole vessatorie e, in generale,

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con l’impostazione di tutto il diritto europeo dei contratti di consumo e con il risultato in termini di “governo” delle relazioni consumatori/professionisti che si vuol raggiungere. A questa lettura, che dunque ammette che il contratto amputato della clausola vessatoria possa essere regolato, per quegli aspetti, alla stregua delle c.d. default rules (regole legali suppletive) accede ora definitivamente la stessa Corte di giustizia, con una pronuncia del 21-1-2015(su cui infra). In realtà già prima, con una pronuncia del 2014, la Corte aveva mostrato apertura verso la soluzione qui prospettata, affermando il principio secondo cui «L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, ove un contratto concluso tra un professionista ed un consumatore non può sussistere dopo l’eliminazione di una clausola abusiva, tale disposizione non osta ad una regola di diritto nazionale che permette al giudice nazionale di ovviare alla nullità della suddetta clausola sostituendo a quest’ultima una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva». (Corte giust. 30-4-2014, C-26/13, cit.) Apertura tuttavia limitata, nella fattispecie, al caso in cui alla caducazione della clausola conseguisse la impossibilità del contratto di sopravvivere. La Corte riconosce la possibilità per il giudice nazionale di sostituire ad una clausola abusiva una disposizione nazionale di natura suppletiva, ma limitandola ai casi in cui l’invalidazione della clausola abusiva obbligherebbe il giudice ad annullare il contratto nel suo insieme, esponendo così il consumatore a conseguenze tali da esserne penalizzato. Si trattava in quel caso della nullità della clausola concernente la misura degli interessi (corrispettivi) di un contratto di mutuo; sicché i sostenitori della tesi della “intangibilità” del contratto amputato della clausola vessatoria ritennero di avere buon gioco nel segnalare la relativa eccezionalità del principio, ritenuto dunque non applicabile, ad esempio, nel caso di clausola vessatoria sulla misura degli interessi moratori (ben potendo qui il contratto sopravvivere senza tale determinazione e senza dunque la previsione di interessi moratori, pattizi o legali). La pronuncia più recente elimina tale equivoco. Nel caso in questione, infatti, il giudice del rinvio chiedeva se l’art. 6, par. 1, della dir.

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93/13 debba essere interpretato nel senso che osta ad una disposizione nazionale in virtù della quale il giudice nazionale, investito di un procedimento di esecuzione ipotecaria, è tenuto a far ricalcolare le somme dovute in base alla clausola di un contratto di mutuo ipotecario che prevede interessi moratori il cui tasso sia superiore al triplo del tasso legale, mediante l’applicazione di un tasso di interesse moratorio che non ecceda tale soglia. E la Corte, rilevato che «l’obbligo di rispettare la soglia corrispondente al tasso degli interessi di mora equivalente al triplo del tasso d’interesse legale, quale prevista dal legislatore» (interno) non pregiudica in alcun modo la valutazione, da parte del giudice, del carattere abusivo di una clausola che fissa gli interessi di mora, risponde con il seguente principio «l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che non osta ad una disposizione nazionale in virtù della quale il giudice nazionale, investito di un procedimento di esecuzione ipotecaria, è tenuto a far ricalcolare le somme dovute a titolo di una clausola di un contratto di mutuo ipotecario che prevede interessi moratori il cui tasso sia superiore al triplo del tasso legale, affinché l’importo di detti interessi non ecceda tale soglia, purché l’applicazione di detta disposizione nazionale: – non pregiudichi la valutazione da parte di tale giudice nazionale del carattere abusivo di suddetta clausola, e – non impedisca al giudice nazionale di disapplicare detta clausola ove dovesse concludere per il carattere “abusivo” della medesima, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, di detta direttiva». (Corte giust. 21-1-2015 (cause riunite C-482/13, C-484/13, C-485/13, C-487/13 Unicaja Banco). Il regime europeo delle clausole vessatorie nei contratti di consumo, dunque, impedisce correzioni per via giudiziale delle clausole censurate, imponendo al giudice di dichiararne la nullità, ma non preclude la “naturale” riespansione della disciplina legale suppletiva per regolare profili del regolamento contrattuale sui quali l’autonomia privata non si è (validamente) espressa avendo adottato una clausola vessatoria dichiarata nulla.

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6. Il controllo sul regolamento contrattuale nei contratti c.d. dell’impresa debole Abbiamo fatto cenno sopra alla possibilità di reperire nell’ordinamento segmenti di disciplina tendenzialmente rivolti ad intervenire in contratti tra imprenditori, caratterizzati dalla disparità di forza economica e contrattuale tra le parti, specie allorché uno dei partners sia una impresa medio-piccola (III, 10 e 11). Particolare rilevanza ha, a questo riguardo, la disciplina «relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali», varata con le dirr. 2000/35 e 2011/7, e recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. 9-10-2002, n. 231 (e successive modificazioni): non solo perché intercetta, come detto, un profilo quanto mai critico, sotto l’aspetto economico, di tali relazioni “sbilanciate” (la prassi di pagamenti molto dilazionati che mantengono in situazione critica l’impresa creditrice) ma perché sostanzialmente mutua, questa volta per contratti business to business, una tecnica di controllo e di intervento sul regolamento contrattuale quale quella affermatasi nei contratti di consumo, in materia di clausole vessatorie. L’obiettivo di disincentivare prassi contrattuali che, in danno dell’impresa “debole” (esempio subfornitrice), consentono all’impresa forte tempi di pagamento molto lunghi non remunerati da adeguati tassi di interesse moratori, viene qui affidato ad una disciplina legale, tuttavia non imperativa, che fissa i termini di pagamento (in misura contenuta), e, per il caso di ritardo, senza che sia necessaria una costituzione in mora, riconosce al creditore, oltre agli interessi moratori al saggio legale, il risarcimento del danno in misura forfettaria (salva la prova del maggior danno) e il diritto al rimborso dei costi sostenuti per il recupero delle somme non tempestivamente corrisposte (artt. 4, 5 e 6 del d.lgs. n. 231/2002). La regola generale, che fissa il termine massimo – di trenta giorni – entro cui il pagamento deve avvenire, è dunque derogabile nei contratti tra imprese e, a determinate condizioni, anche nei contratti in cui debitore sia la pubblica amministrazione; allo stesso modo sono ammesse deroghe pattizie, limitatamente ai contratti tra imprese, con riguardo alla misura del tasso degli interessi moratori. Tuttavia – ed è questa la regola di maggiore interesse ai nostri fini – le clausole pattizie relative al termine di pagamento, al saggio degli interessi o al risarcimento per i costi di recupero, che risultino “gravemente inique in dan-

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no del creditore”, ai sensi dell’art. 7, possono essere dichiarate nulle dal giudice avuto riguardo alle circostanze del caso, tra cui «il grave scostamento dalla prassi commerciale in contrasto con il principio di buona fede e correttezza» (oltre che la natura della merce o del servizio oggetto del contratto, l’esistenza di motivi oggettivi per derogare al saggio degli interessi legali di mora, ai termini di pagamento o all’importo forfettario dovuto a titolo di risarcimento per i costi di recupero). Si ripropone dunque in sostanza per tutti i contratti tra imprenditori (business to business), seppur limitatamente al profilo dell’adempimento dell’obbligazione pecuniaria di pagamento, l’intervento in funzione di controllo del contenuto del contratto e di correzione degli squilibri tra la posizione delle parti, che ha trovato il suo originario e privilegiato terreno nei contratti tra professionisti e consumatori, con riguardo alle clausole vessatorie. La tecnica di intervento è ben lontana da quella per così dire “tradizionale” in materia di clausole vessatorie nelle condizioni generali di contratto, dettata per tutti i contratti (ed oggi proprio per i contratti tra imprenditori e comunque non tra imprenditori e consumatori) dall’art. 1341 c.c. Non si fa cenno qui alla predisposizione unilaterale di condizioni contrattuali in serie, come nella norma codicistica: il controllo sulla “grave iniquità” della clausola può ben concernere (e così accadrà spesso nella prassi commerciale) contratti non in serie, anche “individualmente negoziati”, avrà per oggetto una clausola pattizia di deroga alla disciplina legale e d’altra parte non v’è traccia nella disciplina di una possibilità di sottrarre la clausola al giudizio di grave iniquità invocando che sia stata oggetto di trattativa (e tanto meno semplicemente sottoscritta a parte). Con un sistema articolato che ricalca quello di cui agli artt. 33-34 cod. cons., alla clausola generale posta al co. 1 dell’art. 7, d.lgs.n.231/2002, che rimanda al giudice la valutazione della clausola pattizia sui termini di pagamento e le conseguenze della mora, in vista di accertarne in concreto la grave iniquità alla luce dei parametri forniti dal co. 2, si accompagna l’individuazione di clausole gravemente inique ex lege, senza che sia ammessa prova contraria (quella che esclude l’applicazione di interessi di mora, e, se debitore è la pubblica amministrazione, quella avente ad oggetto la predeterminazione o la modifica della data di ricevimento della fattura: co. 3 e 5), ma anche di clausole che si presumono gravemente inique, ammettendosi per implicito prova contraria (quella che esclude il risarcimento per i costi di recupero del pagamento non corrisposto nei termini, co. 4).

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In ultimo – ma si tratta dell’aspetto più significativo per segnare la distanza con l’impostazione codicistica e la riproposizione del modello prescelto per i contratti di consumo – la grave iniquità non è connotato che la legge attribuisce a priori ad alcune clausole o ad alcuni contenuti della clausola sui ritardi di pagamento (come nell’elencazione tassativa di cui all’art. 1341, co. 2, c.c.), ma, come per le clausole di cui all’elenco indicativo dell’art. 33 cod. cons., da valutare ai sensi dell’art. 34, co. 1 e 2, la grave iniquità potrà rivelarsi qui all’esito di una disamina delle implicazioni che la clausola, letta nel contesto dell’intero assetto di interessi delineato dalle parti, potrebbe manifestare. La legge, analogamente a quanto avviene nei contratti di consumo, porta la sua attenzione e la sua verifica sul contenuto delle clausole contrattuali considerato per gli effetti distorsivi che potrebbe apportare nel complessivo equilibrio nella posizione delle parti, con uno scrutinio che ancora una volta rimanda ai canoni di buona fede e correttezza. Dunque, come non si manca di sottolineare in sede europea (si vedano le considerazioni del gruppo di lavoro chiamato alla elaborazione di un “quadro comune di riferimento”, il citato Draft Common Frame of Reference II, 9), se è vero che la scelta di estendere o meno anche ai contratti business to business un controllo giudiziale sulle clausole contrattuali costituisce un “controverso tema di carattere politico”, deve ammettersi che già l’attuale acquis comunitario (II, 8), con la disciplina dei ritardi di pagamento, fornisce una base per questa estensione e sembra dunque preludere all’applicazione anche oltre i confini dei contratti di consumo di un pur limitato “controllo di contenuto”. Sciogliendo il dubbio affacciatosi come abbiamo visto a proposito dei contratti di consumo, il legislatore (nella seconda direttiva del 2011 e, per il nostro diritto interno, nel nuovo testo dell’art. 7 del d.lgs. n. 231/2001 come sostituito dal d.lgs. n. 192/2012), chiarisce espressamente qui l’effetto di integrazione che si determinerà a seguito della dichiarazione di nullità della clausola, pur se con un rinvio improprio: il rinvio è infatti all’applicazione degli artt. 1339 e 1419, co. 2, c.c., che riguardano l’inserzione automatica di clausole imposte dalla legge, e dunque la c.d. integrazione cogente del contratto con disposizioni di norme imperative, mentre qui si tratterà dell’inserimento delle regole legali, su termini di pagamento, interessi moratori e diritti del creditore, che, come abbiamo visto, non sono imperative.

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7. (Segue). Il (generale) divieto di abuso di dipendenza economica e il controllo sulle condizioni contrattuali “ingiustificatamente gravose o discriminatorie” Abbiamo fatto cenno, sintetizzando i profili di disciplina del contratto di subfornitura (III, 10), al divieto di “abuso di dipendenza economica” posto dall’art. 9 della l. n. 192/1998, ed altresì all’orientamento prevalente, esplicitato ora dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione che, anche alla luce del dato letterale (la norma parla di imprese clienti o fornitrici usando un termine che non compare in altra parte della legge) ritiene «l’abuso di dipendenza economica di cui all’art. 9 della legge n. 192 del 1998 … una fattispecie di applicazione generale, che può prescindere dall’esistenza di uno specifico rapporto di subfornitura». L’intervento sul regolamento contrattuale – profilo che qui interessa – deve trovare come presupposto l’abuso di dipendenza economica. La fattispecie presuppone dunque una situazione di dipendenza economica e un abuso di tale situazione: la dipendenza economica, come si suole rimarcare, costituisce solo “una potenzialità” di abuso. «Si considera dipendenza economica», recita l’art. 9 della l. n. 192/1998 (subfornitura) «la situazione in cui una impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti». L’«eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi» è dunque una possibilità da desumere dalla situazione in cui si trovano le imprese coinvolte, così come la circostanza che, in concreto, da quella possibilità si sia passati all’abuso dipenderà anche dall’effettiva dipendenza che nei rapporti di mercato una impresa ha nei confronti dell’altra, in relazione alle “alternative soddisfacenti” di altri partners commerciali che possa reperire sul mercato. “Dipendenza economica”, è situazione che trova fondamento nei rapporti di mercato, prima che contrattuali, e che vede una impresa, sul mercato, in ragione dell’attività produttiva svolta e/o dei modi della sua organizzazione, legata e in posizione, appunto, dipendente, a quella di altra impresa; dovrà farsi rinvio a rapporti che precedono la relazione contrattuale e che sul piano economico consentono poi l’imposizione di clausole “squilibrate”. Al fine di identificare la dipendenza economica occorre pertanto partire dalle relazioni di mercato esistenti tra le imprese. Una ipotesi

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di dipendenza economica è proprio quella presupposta dal contratto di subfornitura e che trova fondamento nei rapporti commerciali: l’impresa subfornitrice investe nella propria attività produttiva e specializza la propria produzione in funzione delle esigenze della committente cui è legata spesso da rapporti di lunga durata e talora in esclusiva, sicché difficilmente potrà “riconvertirsi” se venisse meno tale partner commerciale. Ma si può fare riferimento anche alla c.d. dipendenza da assortimento: l’intermediario commerciale, per essere competitivo, deve poter vendere una o più marche di prestigio di quel settore; o, ancora, l’attività, ad esempio di organizzatore di mostre o di esercente sale cinematografiche, può essere svolta (e svolta con continuità) se l’imprenditore riesce ad intrattenere regolari rapporti commerciali con gli espositori o i distributori di pellicole. In alcuni casi è la stessa legge che individua l’esistenza di una posizione di dipendenza economica e la dà dunque quale presupposto ai fini della individuazione di condotte di abuso. Abbiamo ricordato il co. 3-bis dell’art. 9, legge subfornitura, secondo cui la “violazione diffusa e reiterata” della disciplina sui termini di pagamento, posta in essere ai danni delle imprese, con particolare riferimento a quelle piccole e medie, configura un abuso “a prescindere dall’accertamento della dipendenza economica”: si delinea qui una ipotesi (ex lege) di abuso di dipendenza economica, abuso che prescinde cioè dall’accertamento in concreto della dipendenza economica, essendo questa considerata implicita in ragione della natura dell’impresa svantaggiata (specie piccola e media) e dei rapporti commerciali con l’impresa “forte” che si presumono di lunga durata, atteso il riferimento a violazioni diffuse e reiterate. E su questa premessa si qualifica, sempre ex lege, una figura di abuso, consistente nella violazione diffusa e reiterata della disciplina sui termini di pagamento. Una ulteriore tipizzazione in via legislativa è intervenuta di recente con riferimento al rapporto tra produttori e gestori di carburante. L’art. 17 del d.l. 24-1-2012, n. 1, convertito nella l. 24-3-2012, n. 27 detta anche disposizioni per la “liberalizzazione della distribuzione dei carburanti”; e innanzitutto la regola secondo cui «i gestori degli impianti di distribuzione dei carburanti che siano anche titolari della relativa autorizzazione petrolifera possono liberamente rifornirsi da qualsiasi produttore o rivenditore nel rispetto della vigente normativa nazionale ed europea» (con conseguente revisione e possibilità di rinegoziazione dei

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contratti con clausola di esclusiva in essere). In linea con le politiche di liberalizzazione, la legge consente l’adozione di nuove tipologie contrattuali (oltre quelle comuni nella prassi cioè la stipula dei contratti collegati di comodato dell’impianto e fornitura del gas), purché la tipologia sia previamente definita mediante accordi sottoscritti tra organizzazioni di rappresentanza dei titolari di autorizzazione o concessione e dei gestori maggiormente rappresentative, depositati presso il Ministero dello sviluppo economico; inclusi contratti che prevedano la vendita non in esclusiva «purché comprendano adeguate condizioni economiche per la remunerazione degli investimenti e dell’uso del marchio». Ebbene, ai sensi del co. 3 del citato art. 17, «i comportamenti posti in essere dai titolari degli impianti ovvero dai fornitori allo scopo di ostacolare, impedire o limitare, in via di fatto o tramite previsioni contrattuali, le facoltà attribuite dal presente articolo al gestore integrano abuso di dipendenza economica, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 9 della legge 18 giugno 1998, n. 192». La dipendenza economica è un dato di mercato in sé consentito e lecito; la condotta censurata, con eventuali conseguenze nella vicenda contrattuale, è invece l’abuso di tale dipendenza, che si può manifestare in vario modo ed anche con la imposizione di clausole “squilibrate” ovvero, più spesso, con l’utilizzo abusivo, in danno della controparte, di clausole contrattuali. Il legislatore individua, ma non in modo tassativo e solo esemplificativo, alcune ipotesi di abuso: rifiuto di vendere o di comprare, imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto (art. 9, co. 2). L’abuso di dipendenza economica può dunque manifestarsi anche con comportamenti che prescindono dal contratto o lo precedono. La prima ipotesi considerata dalla legge, e cioè il rifiuto di contrarre, nelle due forme di rifiuto di vendita o di acquisto presuppone che la relazione commerciale non abbia dato luogo ad un contratto (che anzi l’impresa forte rifiuta di stipulare), sicché l’abuso non potrà che configurare un illecito extracontrattuale, e la pretesa dell’impresa dipendente troverà fondamento, in presenza dei relativi presupposti, nell’art. 2043 c.c. La seconda fattispecie di abuso – cioè l’imposizione di condizioni gravose o discriminatorie – presuppone invece che tra le imprese vi sia un contratto e che per il tramite di questo (e delle condizioni gravose o discriminatorie) si sia perpetrato l’abuso. Il caso che interessa ai nostri fini è dunque quello richiamato dal co. 3 dell’art. 9 della

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legge subfornitura, allorché l’abuso si estrinseca nella effettiva conclusione di un contratto fortemente squilibrato con pregiudizio della parte che non dispone di alternative soddisfacenti: «poiché tale abuso si concretizza nell’eccessivo squilibrio di diritti e obblighi tra le parti nell’ambito di “rapporti commerciali”, esso presuppone che tali rapporti siano regolati da un contratto. Conseguentemente, la responsabilità da questo derivante non può che assumere natura contrattuale». (Cass. s.u. 25-11-2011, n. 24906, cit.) Il patto attraverso il quale si realizza l’abuso di dipendenza economica è nullo, così come le condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie: art. 9, co. 3, l. n. 192/1998. Si è osservato in dottrina che, di solito, le condotte abusive più diffuse e più dannose per l’impresa dipendente sono quelle che, a partire dalla posizione di dipendenza economica, tendono a provocare l’espulsione dalla relazione commerciale dell’impresa dipendente: l’impresa forte cercherà di imporre condizioni più gravose e per questo fine, abusando appunto della propria posizione, o rifiuterà di contrarre (fattispecie già sopra considerata) o minaccerà l’esercizio e poi eserciterà diritti di recesso, di disdetta, ecc., contrattualmente previsti. L’abuso si configurerà allora non in ragione del contenuto della clausola bensì del suo utilizzo in concreto. La domanda in giudizio dell’impresa dipendente sarà più frequentemente quella di vedere accertato l’abuso sotto forma di interruzione ingiustificata e arbitraria della relazione contrattuale (e commerciale), nell’esercizio di un diritto previsto da una clausola contrattuale di per sé lecita, collocandosi l’abuso nella fase di svolgimento del rapporto contrattuale, con conseguente pretesa risarcitoria: il conflitto insomma (e a monte l’abuso) attiene al momento funzionale del contratto. Meno frequente si è rivelata nella prassi la denuncia di un abuso consistente nella presenza, già imposta nella relazione contrattuale in essere, di clausole per il loro contenuto in sé “squilibrate” delle quali chiedere la declaratoria di nullità. Per questo hanno suscitato notevole interesse due ordinanze con cui il Tribunale di Massa (26-2-2014 e 15-5-2014) ha censurato le clausole di un contratto di somministrazione tra la compagnia petrolifera (Shell)

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e il gestore di impianto di distribuzione di carburanti, ravvisando l’abuso non nelle modalità di esercizio dei poteri contrattuali da parte della compagnia petrolifera bensì già nel contenuto delle clausole (quale abuso di una dipendenza economica individuata a monte alla luce delle norme sopra richiamate di cui alla l. n. 27/2012). Nel caso di specie, il contratto di fornitura stipulato tra la Shell S.p.A. ed il gestore, relativo ad un impianto di distribuzione carburanti, prevedeva l’esclusiva della fornitura a favore della Società petrolifera, nel senso che il gestore non avrebbe potuto approvvigionarsi da altri fornitori, ma prevedeva altresì che i carburanti sarebbero stati fatturati dalla compagnia ai gestori ai prezzi indicati di volta in volta in fattura per ogni singola fornitura, quindi con piena facoltà della compagnia di determinare i prezzi unilateralmente e senza alcuna limitazione. Dunque, il gestore era obbligato ad acquistare il carburante necessario allo svolgimento della sua attività lavorativa al prezzo di cessione imposto via via dalla Società petrolifera, senza possibilità di una contrattazione almeno tendenzialmente paritaria, o quantomeno con possibilità di adire una procedura di contestazione. La contemporanea sussistenza di queste due clausole contrattuali, ad avviso del Tribunale, determina un evidente squilibrio nelle posizioni delle parti a favore della Società Shell, sì da qualificare tali clausole “ingiustificatamente gravose o discriminatorie”, proprio nel senso previsto dall’art. 9 della l. n. 192/1998. Tali clausole vengono conseguentemente dichiarate nulle per violazione del divieto di abuso di dipendenza economica. Pur nel quadro di una più complessa cornice che abbiamo cercato di sintetizzare – quella dei rapporti di mercato tra imprese – il divieto di abuso di dipendenza economica si regge dunque su tecniche di controllo del regolamento contrattuale del tutto accostabili a quelle utilizzate nella disciplina dei contratti tra consumatore e professionista: il carattere ingiustificatamente gravoso o discriminatorio richiama la vessatorietà di cui all’art. 33 cod. cons., ed in generale uno squilibrio tra diritti ed obblighi delle parti che l’ordinamento intercetta allorché risultino espressione di un diverso potere contrattuale delle parti. Analoga appare poi la scelta del rimedio della nullità, che interviene a seguito di una verifica giudiziale ex post dei contenuti “squilibranti” della clausola. Da qui la pressoché unanime opinione, in dottrina e giurisprudenza, che, malgrado il silenzio della legge, debba trattarsi anche qui di nullità parziale (che preserva il contratto, ove possibile, pur senza la clausola caducata),

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ed anzi di una nullità di protezione, in ragione di una identità di ratio, appunto, con la tutela del consumatore nel caso di clausole vessatorie ex art. 36 cod. cons.

8. Il controllo sulle clausole “squilibrate” tra disciplina del contratto e regolazione del mercato Già la dir. 93/13 ha previsto, accanto alla tutela individuale, concessa al singolo consumatore che avendo stipulato un contratto con un professionista intenda far valere la vessatorietà di una o più clausole, un rimedio più incisivo, di natura preventiva e collettiva: le associazioni di consumatori (debitamente iscritte nell’apposito elenco presso il Ministero delle attività produttive di cui all’art. 137 cod. cons.), le associazioni di professionisti e le camere di commercio sono legittimate ad agire in giudizio contro il professionista o l’associazione di professionisti che utilizzi (o, nel caso di associazione, raccomandi l’utilizzo), per i singoli contratti da stipulare con i consumatori, condizioni generali di contratto sospette di vessatorietà; e chiedere al giudice una sentenza che, accertata la vessatorietà delle clausole censurate, ne inibisca l’uso (art. 37). Tale verifica sarà effettuata alla stregua dei criteri generali dettati dall’art. 34 cod. cons., con esclusione, ovviamente, di quelli che presuppongono l’esistenza di un contratto già concluso (non potrà farsi riferimento, ad esempio, alle circostanze esistenti al momento della conclusione). Ad essere sottoposte alla verifica di vessatorietà sono qui le clausole semplicemente predisposte dal professionista, a prescindere dalla loro adozione in concreto nel singolo rapporto contrattuale: mentre il rimedio individuale della nullità interviene a rimuovere un abuso già perpetrato a danno del consumatore, all’interno di uno specifico contratto, il rimedio collettivo è volto ad impedire che l’abuso si perpetri o comunque ad evitare che si perpetri ulteriormente nei confronti della generalità dei consumatori. L’azione dunque non può essere esercitata dal singolo, ha carattere necessariamente collettivo ed è destinata a giovare alla collettività dei consumatori, e il provvedimento giudiziale così ottenuto impedirà per il futuro l’inserimento di quelle clausole nei singoli contratti stipulati da quel professionista con i singoli consumatori. Il rimedio giova anche agli altri professionisti (e infatti sono legittimate ad agire anche le loro associazioni), che in tal modo possono in-

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tercettare e far cessare le pratiche commerciali scorrette dei loro concorrenti che si avvantaggiano di clausole vietate. La previsione di una azione di natura collettiva si inquadra nella scelta – oggi consolidatasi – di rafforzare la tutela dei consumatori attraverso la legittimazione ad agire delle loro associazioni: legittimazione che è ora a carattere generale, nel senso che le associazioni possono agire a tutela degli interessi collettivi di consumatori e utenti nelle ipotesi di violazione di tutti gli interessi collettivi dei consumatori contemplati nel codice del consumo, ma anche nelle altre discipline settoriali indicate nell’art. 139 cod. cons. Lo strumento della inibitoria segnala tuttavia la preoccupazione del diritto di fonte europea, e ora del diritto interno, di intercettare tempestivamente e far cessare i comportamenti scorretti dei professionisti – e in particolare quello che si manifesta con l’utilizzo di condizioni di contratto che comprendono clausole vessatorie – ancor prima che essi si ripercuotano all’interno della singola vicenda contrattuale e a prescindere da questa. L’uso di clausole vessatorie, infatti, costituisce, ancor prima che causa di squilibrio della singola relazione contrattuale in danno del consumatore, causa di squilibrio nelle relazioni di mercato in danno dei concorrenti del professionista che può contare sui vantaggi che le clausole vessatorie gli procurano finché vigenti. Del che è ora conferma significativa il recente coinvolgimento dell’Autorità antitrust. Abbiamo già ricordato (sopra, 4) il controllo in via amministrativa introdotto con l’art. 37-bis cod. cons., ed affidato all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che può intervenire d’ufficio o su richiesta dei consumatori o di imprenditori e della stessa impresa che adotta la clausola. Verifica che si compie in astratto e che pertanto non pregiudica l’indagine in concreto, sul singolo contratto, che rimane impregiudicata e sempre di competenza del giudice civile. Per altro verso, l’abuso di dipendenza economica, intercettato anche attraverso i contenuti e le vicende della relazione contrattuale instaurata tra le imprese, chiama anch’esso in causa la competenza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato che, anche su segnalazione di terzi ed a seguito dell’attivazione dei propri poteri di indagine, può procedere con gli ordinari strumenti di intervento (le diffide e sanzioni previste dalla disciplina per la tutela della concorrenza e del mercato, ex art. 15, l. 1010-1990, n. 287), quando ravvisi che un abuso di dipendenza economica «abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato» (art. 9 co. 3-bis, l. subfornitura, nel periodo aggiunto dall’art. 10, l. n. 180/2011).

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Viene qui la conferma di quanto a suo tempo segnalato (II, 10) e cioè di come nella disciplina del contratto regole e rimedi civilistici sempre più spesso si completino con strumenti e tecniche di vera e propria regolazione del mercato.

9. Il problema del controllo sul contenuto economico La più recente direttiva sui diritti dei consumatori, come accennato, sembra non escludere future aperture, che tuttavia lascia alle scelte degli ordinamenti interni, che estendano la valutazione di vessatorietà anche all’adeguatezza del prezzo o della remunerazione. Abbiamo visto come una interpretazione rigorosa del termine “oggetto del contratto”, come quella preferita dalla Corte di giustizia, renda in concreto meno netta e sicura la individuazione del nucleo centrale economico del contratto, escluso dal giudizio di vessatorietà se espresso in modo chiaro per il consumatore. I confini tra squilibrio normativo e squilibrio economico possono peraltro non sempre essere facilmente individuabili nel concreto assetto di interessi predisposto dalle parti e invero la distribuzione di diritti ed obblighi tra le parti (e il suo eventuale squilibrio in danno del consumatore) finisce con l’addossare alle parti maggiori o minori oneri o vantaggi che ben si traducono in “costi” complessivi dell’operazione (si pensi ad una difficoltà nell’esercizio del diritto di recesso). Le condizioni “ingiustificatamente gravose” che possono integrare abuso di dipendenza economica, inevitabilmente rimandano a uno squilibrio di diritti ed obblighi che si traduce in svantaggio economico dell’impresa debole, pur se da apprezzare non squisitamente nei termini della tollerabilità ed adeguatezza del corrispettivo previsto nel contratto bensì in rapporto alla posizione di mercato dell’impresa dipendente. L’interprete non può non prendere atto della inevitabile spinta a spostare per così dire in avanti, anche sugli aspetti economici del contratto, il controllo dell’ordinamento, una volta imboccata la via del controllo di contenuto. A patto però di ribadire che, almeno allo stato, al nostro diritto dei contratti deve ritenersi estraneo un controllo che si appunti sulla convenienza degli scambi, o sulla adeguatezza del corrispettivo. Rimandiamo per questo agli approfondimenti svolti a proposito della causa del contratto e della funzione del controllo sulla causa (IV, IV, 7) e alle considerazioni critiche che seguono a proposito del

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ruolo della clausola di buona fede (e del ruolo del giudice che deve applicarla), in funzione di controllo/ripristino della “giustizia contrattuale” (infra, 11 e 12).

10. Il ruolo della buona fede nel contratto e la sua funzione integratrice Esaminando la disciplina dell’interpretazione del contratto si è posto in evidenza come nel caso di interpretazione secondo buona fede, ai sensi dell’art. 1366 c.c., sia difficile in concreto stabilire dove arrivi l’attività ermeneutica del giudice e quando invece dall’interpretazione si passi alla integrazione del contenuto del contratto: la buona fede come sappiamo è parametro aperto, clausola generale il cui contenuto è lasciato all’apprezzamento del giudice, il quale è chiamato ad una ricostruzione oggettiva e complessiva dell’assetto di interessi regolato dalle parti, al di là di quanto risulti dalla loro volontà espressa nel contratto o nei comportamenti che lo accompagnano. Fuori dal campo della interpretazione, la dottrina (S. Rodotà) già in anni lontani aveva argomentato sulla necessità di riconoscere alla buona fede la funzione di integrazione del contratto, al di là di quanto disposto dall’art. 1374 c.c. (I, 7 e 10, VI, 2). Qui infatti, anche ove ammesso che il canone della buona fede sia implicitamente richiamato attraverso il rinvio all’equità, si tratterebbe pur sempre di una integrazione degli effetti, per completare una lacuna dell’accordo. Mentre norma-chiave per valorizzare il ruolo della buona fede, in funzione di vera e propria integrazione del contratto, si è rivelato l’art. 1375 c.c., il quale obbliga le parti ad eseguirlo “secondo buona fede”. La clausola generale di buona fede, così come idonea ad ampliare l’ambito della responsabilità precontrattuale delle parti mediante l’individuazione di obblighi di comportamento nella fase delle trattative (e ne abbiamo visto gli esempi, particolarmente con riguardo agli obblighi di informazione IV, II, 10), è stata individuata, sulla base dell’art. 1375 c.c., come strumento di integrazione del contenuto del contratto, idonea a farne discendere obblighi e pretese ulteriori onde ricondurre l’assetto di interessi al rispetto del parametro di correttezza. Già la Relazione al codice attribuiva alla regola di buona fede la funzione di richiamare «nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore»; nell’elaborazione della dot-

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trina e della giurisprudenza il principio di correttezza e buona fede, da parametro di valutazione circa la conformità del comportamento tenuto dalla parte a quello dovuto per contratto, si è tramutato in fonte di un obbligo autonomo. Il dovere di correttezza e buona fede, secondo una massima ormai consolidata e ricorrente, «deve essere inteso in senso oggettivo ed enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge». (Cass. 14-10-2013, n. 23232) La funzione integratrice della buona fede viene ampiamente invocata soprattutto per “conformare” rispetto all’interesse della controparte l’esercizio dei diritti nascenti dal contratto; riconoscendo alla parte un diritto al risarcimento del danno in caso di esercizio non conforme a buona fede. Nella sentenza di cui abbiamo appena riportato un passo, la S.C. ravvisa una violazione del dovere di buona fede nella esecuzione del contratto nel comportamento della banca che rifiuti, con rifiuto ingiustificato e procrastinato nel tempo, di accordare il frazionamento del mutuo e delle relative ipoteche richiesto dalla mutuataria (peraltro in regola con il pagamento delle rate) a seguito della vendita a terzi delle unità immobiliari edificate. E ciò malgrado il frazionamento, come del resto precisa la Corte, non fosse un obbligo della banca ma una sua facoltà. Ma altri esempi si potrebbero ricordare (attivazione da parte della banca della relativa procedura di scoperto per un assegno del quale nel frattempo il correntista abbia procurato la copertura, ecc.). In quest’ottica la buona fede interviene essenzialmente a imporre un principio di “proporzionalità”, avuto riguardo all’interesse dell’altra parte, nell’esercizio dei diritti che discendono dal contratto, perché, alla stregua dell’obbligo di buona fede, “disporre di un potere”, osserva la Corte di cassazione, «non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato». È questo il percorso argomentativo in base

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al quale, in una nota sentenza di alcuni anni orsono, la Corte di cassazione individua nell’abuso del diritto «un criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva». In sintesi, si configura abuso del diritto, secondo il concetto elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, quando un diritto che può essere esercitato secondo una pluralità di modalità viene in concreto esercitato dal suo titolare con modalità che, pur rispettose dei poteri che il diritto gli attribuisce, siano in realtà censurabili in quanto si riscontri una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto e il sacrificio determinatosi nella sfera giuridica del soggetto nei cui confronti il diritto è stato, pur legittimamente, esercitato (o che comunque ne debba subire le conseguenze, nel caso di esercizio di diritti reali). Applicando la teoria dell’abuso del diritto in ambito contrattuale, nel caso deciso, a differenza di quanto ampiamente argomentato dalla Corte d’appello, la S.C. (Cass. 18-92009, n. 20106) ha ritenuto che una violazione del dovere di buona fede potesse riscontrarsi anche nell’esercizio da parte della casa automobilistica Renault (come Renault Italia S.p.A.) del diritto di recesso, che pure le era attribuito per contratto come recesso libero (ad nutum), dai contratti in essere con un gruppo di suoi concessionari; il giudice, invece di astenersi da ogni valutazione sul comportamento della parte (come invece ritenuto dal giudice di merito), di fronte ad un diritto espressamente riconosciuto in sede di contratto, avrebbe dovuto verificare la “proporzionalità” dei mezzi usati e cioè se, in relazione agli interessi contrapposti delle controparti e alle pesanti ricadute in loro danno, e tenendo conto della differente “forza” economica del recedente, non si imponessero modalità diverse di esercizio del diritto, quali ad esempio un preavviso, o una offerta di indennizzo; e se dunque l’esercizio del recesso, pur se conforme a quanto consentito dal contratto, essendo privo di queste modalità, non integrasse un abuso del diritto, con conseguente violazione degli obblighi di buona fede. Non mancano pronunce nelle quali dall’applicazione del principio di buona fede si fanno discendere a carico della parte obblighi ulteriori e diversi rispetto a quelli dedotti in contratto, seppur connessi e da ritenere comunque presupposti alla stregua di una interpretazione secondo buona fede degli interessi coinvolti. Una tappa importante nell’elaborazione intorno alla buona fede “integrativa” fu segnata a suo tempo dalla nota sentenza sul caso Fiuggi. Trattavasi di un contratto di affitto di azienda termale con il quale il Comune di Fiuggi cedeva ad una società lo sfruttamento e l’imbottigliamento dell’acqua minerale, ad un canone

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di affitto del quale si concordava la possibilità di aumento in relazione all’aumento del prezzo di vendita delle bottiglie in conseguenza della svalutazione monetaria. La Corte di cassazione ritenne che potesse considerarsi illegittimo, perché contrario a buona fede, il comportamento della società che, assumendo ragioni di strategia di “penetrazione sul mercato”, continuava a tenere bloccato il prezzo di fabbrica delle bottiglie, malgrado la forte svalutazione monetaria (bottiglie che peraltro vendeva ad una società dello stesso gruppo, che ne aumentava poi il prezzo in sede di distribuzione). E ciò in quanto, osservò la Corte, il comportamento della società, per quanto consentito dal contratto, avrebbe potuto essere giudicato legittimo o meno rispetto alle aspettative del Comune per un aumento del canone, dovendosi cioè verificare, alla stregua del canone di buona fede, «se la delusione di codesta aspettativa fosse o meno giustificata da un interesse antitetico – meritevole di tutela» della società affittuaria «a mantenere fermo il prezzo» (Cass. 14-31994, n. 3775). È sempre in nome della buona fede che si ammette poi la rilevanza nel rapporto contrattuale di obblighi pur non espressamente previsti ma strumentali alla tutela dell’interesse, anche della persona, della controparte (i c.d. obblighi di protezione).

11. (Segue). Il canone della buona fede tra obiettivi di contemperamento degli opposti interessi e funzionalizzazione del contratto in senso solidaristico Gli sviluppi di cui abbiamo preso in esame le tappe fondamentali vengono riassunti nella massima, ormai consolidata secondo cui «il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo o integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi». (Cass. s.u. 15-11-2007, n. 23726) Si accompagna quasi sempre (e così anche nella pronuncia appena citata) il richiamo alla

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«intervenuta costituzionalizzazione del canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, in ragione del suo porsi in sinergia con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., che a quella clausola generale attribuisce all’un tempo forza normativa e ricchezza di contenuti, inglobanti anche obblighi di protezione della persona e delle cose della controparte, funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale». (Cass. s.u. 15-11-2007, n. 23726, cit.) In questo contesto non poteva mancare di affacciarsi il dubbio – per la verità coltivato da parte della dottrina ma solo enunciato e mai ripreso con significative ricadute applicative dai nostri giudici – che la buona fede sia, o sia divenuta, strumento attraverso il quale il giudice dovrebbe verificare se l’assetto di interessi concordato dalle parti sia rispettoso del dovere di solidarietà e conseguentemente correggerlo recuperando tale conformità. Una concezione solidaristica della buona fede che ne farebbe strumento attraverso cui veicolare all’interno del contratto valori esterni (quali, appunto, equità, giustizia), e, soprattutto “correggere” il contenuto di questo per adeguarlo a tali valori. Nelle applicazioni del canone di buona fede in funzione integrativa, in realtà, malgrado l’enfasi del richiamo al dovere di cui all’art. 2 Cost., non manca di essere tenuto in considerazione, o comunque rispettato, il principio di proporzionalità, e dunque dall’«impegno solidaristico» si fa discendere l’obbligo della parte al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte, nella misura in cui però essi non comportino un apprezzabile sacrificio a proprio carico. Non è ravvisabile un abuso del diritto nel solo fatto che una parte del contratto abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell’altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi (Cass. 29-5-2012, n. 8567), occorrendo invece che il diritto soggettivo sia esercitato con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti. Lo scrutinio secondo buona fede controlla l’esercizio dell’autonomia privata e lo conforma nel suo

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concreto esercizio, ma non nel senso di elidere la volontà contrattuale o addirittura sostituirla con un regola diversa, seppure costituzionalmente ispirata. Il giudice non potrà perdere di vista l’unico dato, e cioè l’operazione economica e le finalità perseguite secondo l’interesse delle parti, e dovrà semmai “riorientare” il regolamento contrattuale all’equilibrio tra gli interessi di ciascuna parte come desumibili dallo stesso contratto, depurandolo da distorsioni o abusi dell’autonomia contrattuale di una di esse che l’ordinamento intende impedire, appunto, in nome di un principio generale di solidarietà entro cui le scelte dei privati devono compiersi. Altra è la sede nella quale si compie il controllo sulla rispondenza delle scelte di autonomia privata ai principi fondamentali dell’ordinamento, prime fra tutte le garanzie costituzionali, ed è quella che attiene alla verifica della meritevolezza degli interessi e alla liceità. Controllo che non punta però a “rifare” il contratto, legando le parti ad un vincolo magari più equo ma diverso da quello voluto, ma semmai a negare tutela al contratto non meritevole. Controllo che, come abbiamo visto, si reputa inidoneo però a governare l’adeguatezza del corrispettivo (IV, IV, 7). In questo senso la clausola generale di buona fede è parametro destinato ad assicurare una verifica comunque interna al contratto, e non si presta ad essere invece utilizzata quale veicolo per ricondurre il contratto, malgrado e contro la volontà delle parti, a parametri esterni: l’equilibrio di interessi voluto dalle parti va rispettato purché ne contemperi gli interessi e non sia strumento di prevaricazione, specie in fase di esecuzione, ma non “riscritto”; e semmai il contratto non meritevole o squilibrato per effetto di situazioni patologiche come la violenza ovvero lo stato di pericolo o di bisogno sarà nullo ovvero caducato con lo strumento dell’annullamento o della rescissione per lesione (VII, 11, 13). I dati normativi recenti, nei quali si esprime in modo più pregnante un controllo “di contenuto” del contratto, confermano questa conclusione. Con diretto ed esplicito riferimento al canone della buona fede la legge demanda al giudice di verificare se le clausole del contratto tra consumatore e professionista determinino un “significativo squilibrio” di diritti ed obblighi, in danno del consumatore; ma, se si escludono le clausole sempre vessatorie e dunque possiamo dire espressamente vietate dalla legge, il controllo del giudice non potrà riguardare le clausole che siano state individualmente negoziate tra le parti. L’intervento, che ha una indubbia funzione di modificazione o integrazione del contratto

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– il cui assetto di interessi sarà diverso e corretto proprio a seguito della eliminazione della clausola nulla – non vuole sindacare l’equilibrio di interessi cui in concreto le parti hanno deciso di dare vita, ma semmai il dato opposto, e cioè impedire la realizzazione di un equilibrio non voluto da entrambi i contraenti ma frutto dell’abuso del potere contrattuale di una parte. Il contenuto economico è escluso da tale controllo, purché trasparente. Considerazioni analoghe possono farsi, a partire dai caratteri della dipendenza economica e del relativo abuso, sopra enunciati, per il controllo sulle clausole contrattuali demandato al giudice dalla legge sulla subfornitura. Perfettamente aderente alla ratio di tali interventi, la rigorosa presa di posizione della Corte di giustizia sopra ricordata a proposito delle conseguenze della dichiarazione di nullità della clausola vessatoria. Il contratto contenente clausole vessatorie deve essere depurato dalla clausola squilibrante, affinché possa essere recuperato all’equilibrio che avrebbe avuto se il professionista non avesse abusato del suo potere contrattuale imponendola al consumatore, e si fosse fatto ricorso a regole pattizie corrette o regole legali suppletive. Ma non può essere recuperato attraverso correttivi apportati in via giudiziale. Il contratto amputato delle clausole abusive, anche in vista di un obiettivo di conservazione nell’interesse del consumatore, ammette dunque in principio, secondo la Corte, integrazioni per via legale, ma non quando la disciplina legale sia a sua volta veicolo di integrazione per via giudiziale. Lo scetticismo della Corte sembra allora appuntarsi proprio sull’efficacia dell’intervento giudiziale questa volta in funzione di recupero di una auspicata giustizia contrattuale.

12. Il tema della giustizia contrattuale e della correzione del regolamento contrattuale per via giudiziale L’enfasi sulla concezione solidaristica del canone di buona fede porta con sé gli equivoci in tema di “correzione” del contratto. Intendiamo riferirci sia alla tesi che dall’obbligo di buona fede vorrebbe far discendere a carico delle parti un obbligo di “rinegoziare” un contratto non più rispondente all’originario equilibrio, in danno anche di una sola di esse (VIII, 1); sia alla prospettazione, suggerita da alcuni incauti passaggi di talune pronunce in tema di buona fede, di un preteso potere e compito del giudice di ricondurre il contratto ad un equilibrio giusto,

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equo. Ci riferiamo in particolare alle argomentazioni di alcune delle pronunce che, modificando l’orientamento fino ad allora prevalente, ritennero che la riduzione ad equità della misura della clausola penale manifestamente eccessiva (che può essere diminuita equamente dal giudice, art. 1384 c.c.) debba essere disposta dal giudice, ove risulti dagli atti, nell’esercizio dei suoi poteri d’ufficio e non solo a seguito di domanda o eccezione della parte (VIII, 12). Il significativo mutamento di indirizzo che sarebbe stato poi avallato dalle Sezioni Unite (con una pronuncia tuttavia più “controllata” nelle argomentazioni) fu giustificato, in particolare (Cass. 24-9-1999, n. 10511), con l’esigenza di considerare «l’intervento riduttivo del giudice non più in chiave di eccezionalità bensì quale semplice aspetto del normale controllo che l’ordinamento» persegue, alla luce di una «intervenuta costituzionalizzazione dei rapporti di diritto privato», la quale «non può ora non implicare anche un bilanciamento di “valori”, di pari rilevanza costituzionale, stante la riconosciuta confluenza nel rapporto negoziale – accanto al valore costituzionale della “iniziativa economica privata” (sub art. 41) che appunto si esprime attraverso lo strumento contrattuale – di un concorrente “dovere di solidarietà” nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.)». La pronuncia a Sezioni Unite (Cass. s.u. 13-9-2005, n. 18128) ribadì la necessità di inquadrare lo strumento nell’ambito del controllo dell’ordinamento sul corretto esercizio dell’autonomia privata, ma pose più correttamente l’accento su «una funzione correttiva di riequilibrio contrattuale» e «di adeguatezza della sanzione» implicata nella penale. Funzione correttiva, ricordiamolo, comunque prevista e consentita, in questo caso, dalla legge. La disciplina generale del contratto, anche dopo le profonde trasformazioni seguite all’innesto delle regole di fonte europea, non consente di riconoscere al giudice un ruolo come quello che sembra profilarsi negli orientamenti ricordati. D’altra parte, anche nel caso in cui simile ruolo viene in qualche modo adombrato, l’intervento del giudice è comunque segnato dai presupposti della fattispecie: la misura della clausola penale sarà giudicata eccessiva, come del resto ribadiscono le sentenze in tema, non in ragione della situazione e dell’interesse soggettivo, del debitore, ma rispetto al complessivo equilibrio contrattuale, e dunque, come fa la giurisprudenza, tenuto conto della natura della prestazione, del valore economico dell’operazione, del prezzo. Viceversa proprio a partire dall’evoluzione giurisprudenziale in tema di clausola penale, si è inteso riaprire il discorso sul tema della c.d. giu-

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stizia contrattuale, a partire dalla quale si consegnerebbe al giudice il compito di piegare l’assetto contrattuale frutto di autonomia privata a parametri esterni di equità e giustizia che, giusta il richiamo ai valori costituzionali, egli dovrebbe poi specificare ed individuare in concreto, finendo, come si è detto criticamente col diventare “la terza parte del contratto”. Ci siamo già soffermati sulla inidoneità della clausola di buona fede a fungere da strumento volto a verificare e presidiare la convenienza economica dell’affare (IV, IV, 7). Sui poteri del giudice in materia di contratto è bene allora chiarire alcuni punti. Talora la legge chiama il giudice a determinare alcuni aspetti del regolamento contrattuale: fissare il tempo dell’adempimento della prestazione quando le parti non vi abbiano provveduto e tuttavia gli usi, la natura della prestazione o le modalità o il luogo dell’esecuzione non consentano di applicare la regola per cui, in mancanza della pattuizione di un termine, il creditore può esigerla immediatamente (art. 1183 c.c.); determinare l’oggetto del contratto, quando le parti si erano rimesse all’arbitrio di un terzo (arbitratore) – ma non al suo mero arbitrio, art. 1349, co. 1 – e questi non si sia pronunciato o lo abbia fatto in modo manifestamente iniquo o erroneo (IV, IV, 8). L’intervento del giudice ha in questi casi la funzione (non di contrastare bensì) di integrare l’accordo delle parti, poiché esse non si sono espresse o hanno comunque deciso di lasciare a terzi la determinazione. La decisione del giudice, dunque, non si contrappone alle scelte di autonomia privata e non interviene a modificarle, ed anzi deve essere coerente con l’assetto di interessi complessivamente delineato in via convenzionale, che attende solo di essere completato. In alcuni casi il giudice è chiamato addirittura a fissare il corrispettivo della prestazione principale, ma in via per così dire residuale, in assenza cioè di pattuizione privata ma anche di tariffe o usi in materia: vedi, ad esempio, per l’appalto, l’art. 1657 c.c. Sovente, in questi casi, il giudice è chiamato a decidere “secondo equità” (es. art. 1755, co. 2 misura della provvigione spettante al mediatore). L’equità, cioè un criterio di giudizio riferito al caso concreto e non legato a regole giuridiche o principi, è pur sempre chiamata in causa qui per quantificare una pretesa (a titolo di corrispettivo o più spesso indennitario o risarcitorio) in assenza di determinazioni dei privati e non ad alterare l’equilibrio convenzionalmente stabilito.

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Diverso – ma non certo di correzione dell’accordo dall’esterno – è il ruolo del giudice quando la legge si rimette in taluni casi esplicitamente o implicitamente al suo apprezzamento nella decisione su un conflitto tra le parti. La disciplina del contratto è ricca di regole che chiamano il giudice ad un apprezzamento discrezionale: di fronte alla parte che contesti all’altra un inadempimento chiedendo la risoluzione del contratto, il giudice dovrà verificare se l’inadempimento è di “non scarsa importanza” avuto riguardo all’interesse del creditore (art. 1455, VIII, 6); fuori dall’ambito dei contratti di consumo, dichiarata nulla una clausola del contratto, e tranne il caso della sostituzione di diritto con una clausola prevista da norma inderogabile, il giudice dovrà decidere se il contratto può sopravvivere pur senza la clausola ovvero debba dichiararsi la nullità dell’intero contratto, nel presupposto che le parti senza quella clausola non lo avrebbero concluso (art. 1419, co. 1: nullità parziale (VII, 7). Tale giudizio sulla idoneità del contratto a sopravvivere senza la clausola e salva l’applicazione delle regole legali sarà compiuto sulla base di dati oggettivi nel caso della nullità di protezione nei contratti dei consumatori (VII, 8). Analogo apprezzamento è richiesto in presenza di cause di nullità o annullabilità che colpiscono solo la partecipazione di una parte al contratto plurilaterale (IV, I, 9): in questo caso il giudice dovrà verificare se tale partecipazione debba considerarsi essenziale, così da reclamare la caducazione dell’intero contratto se essa viene meno. È evidente che per fare corretta applicazione di tali norme il giudice dovrà ricostruire l’assetto di interessi voluto dalle parti, così da identificare l’interesse del creditore alla prestazione inadempiuta e verificare se l’inadempimento lo pregiudichi talmente da non consentire la prosecuzione del rapporto; o, ancora, considerare il contratto, pur amputato di una clausola o privato della presenza di uno dei contraenti, come tuttavia rispondente agli scopi perseguiti dalle parti, e così via. Altrettanto evidente è che tale verifica sarà comunque il risultato di una attività di indagine e di interpretazione che avrà come punto di riferimento l’assetto di interessi e il c.d. programma contrattuale come espresso e delineato nel contratto, quella volontà obiettivata cui abbiamo fatto cenno, nella quale è possibile che una delle parti, in situazione di conflitto, non si riconosca più. Torniamo però comunque all’inevitabile apporto dell’opera di accertamento richiesta al giudice e al ragionamento che la sorregge, rivolti comunque a rispettare e non a correggere la volontà privata.

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A fronte poi di una evidenza di squilibrio economico, come ad esempio l’indicazione di un prezzo palesemente di gran lunga inferiore al valore del bene o servizio scambiato, abbiamo visto che al giudice è demandato di verificare non l’adeguatezza del corrispettivo ma la rintracciabilità di un prezzo, anche vile, pena la nullità del contratto per mancanza del requisito di cui all’art. 1325 n. 3, ovvero una diversa qualificazione del contratto (se si ravvisi ad esempio un intento di liberalità). Una sproporzione che renda manifesto lo squilibrio tra prestazione e controprestazione, nei contratti a prestazioni corrispettive, rileva, come vedremo, solo se è stata determinata da un perturbamento significativo della autonomia privata della parte che ne è vittima, la quale abbia concluso il contratto in stato di pericolo o di bisogno del quale l’altra parte era a conoscenza: soccorrerà a questo riguardo il rimedio della rescissione (VII, 13). Solo lo squilibrio successivo dovuto ad eventi straordinari ed imprevedibili che alterino l’originario equilibrio tra le prestazioni, potrà condurre poi al rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione (VIII, 17) ma non un intervenuto squilibrio, pur significativo, per cause che manchino dell’uno o dell’altro dei requisiti, vale a dire eccezionalità ed imprevedibilità. Significativo, in entrambi i casi, è che il mantenimento del contratto per il tramite di una modificazione delle condizioni contrattuali che recuperi l’equità (intesa come equilibrio nella posizione delle parti) non può intervenire per iniziativa del giudice, il quale dovrà solo decidere sulla congruità dell’offerta, lasciata però esclusivamente alla iniziativa della parte. Fuori dal codice, e nella legislazione di fonte europea, aveva riproposto la suggestione di un intervento equitativo del giudice in funzione di correzione del contratto ingiusto o “squilibrato”, la vecchia versione dell’art. 7 del d.lgs. n. 231/2002 in materia di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (sopra, 6): con una maldestra traduzione e riproposizione delle norme della prima direttiva in materia, vi si affermava infatti che, in presenza di una clausola pattizia sulle conseguenze del ritardo di pagamento da considerare iniqua tenuto conto della prassi commerciale e dei rapporti tra le parti – ad esempio una clausola che limitasse interessi e danni spettanti al creditore per il ritardo accordando però lunghe dilazioni al debitore – il giudice, dopo averla dichiarata nulla, doveva ricondurre il contratto ad equità. La nuova versione della norma interna, dopo l’intervento chiarificatore della seconda direttiva,

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esclude ogni ambiguo riferimento all’equità quale parametro per “ricostruire” l’assetto contrattuale dopo la dichiarazione di nullità della clausola, e come già detto sottopone la clausola iniqua al consueto trattamento delle clausole vessatorie (nullità e sostituzione con la disciplina legale) così eliminando ogni potere correttivo discrezionale del giudice.

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CAPITOLO SESTO

GLI EFFETTI DEL CONTRATTO

SOMMARIO 1. Il regolamento contrattuale e gli effetti del contratto. – 2. Autonomia privata e integrazione degli effetti del contratto. – 3. La funzione dell’equità. – 4. La classificazione dei contratti sotto il profilo degli effetti. – 5. Gli effetti del contratto e i terzi. – 6. (Segue). Vicende del contratto, caducazione degli effetti e diritti acquistati dai terzi. – 7. Autonomia privata e governo degli effetti. – 8. I poteri delle parti sul vincolo contrattuale: il mutuo dissenso e il recesso nel codice civile. – 9. Il governo unilaterale del vincolo nei contratti di consumo: il recesso di pentimento. – 10. Elementi accidentali e governo degli effetti del contratto: il termine e la condizione. – 11. La presupposizione.

1. Il regolamento contrattuale e gli effetti del contratto Con il contratto, secondo la definizione data dall’art. 1321, l’accordo delle parti è rivolto a «costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale». Quando si parla di “effetti” del contratto ci si riferisce alle conseguenze e ai cambiamenti che sotto il profilo giuridico – in termini dunque di diritti ed obblighi – esso è idoneo a determinare nella situazione giuridica patrimoniale delle parti. Il capo V del titolo II (del libro IV del codice civile), dedicato, appunto, agli effetti del contratto, ribadisce tale concetto quando sancisce che «il contratto ha forza di legge tra le parti» (art. 1372, co. 1) e che «il contratto non produce effetti rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge» (co. 2). Ma, prima di passare a specificare quali siano tali effetti, riferendosi nell’art. 1376 ai contratti con effetti reali, il codice sancisce la regola della integrazione (degli effetti) del contratto, in forza della quale (art. 1374) il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel me-

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desimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità. Discorrendo degli effetti del contratto occorre allora chiarire, ovviamente, quali siano questi effetti ed entro che limiti possano interessare la sfera giuridica di chi non è parte, cioè autore dell’accordo (gli effetti rispetto ai terzi esclusi in principio ma ammessi nei casi di legge di cui parla l’art. 1372, co. 2); ma occorre preliminarmente, e ancora una volta, stabilire quale sia il ruolo delle parti e il ruolo della legge nella determinazione degli effetti del contratto. Quando si affronta il problema da ultimo prospettato c’è il rischio di tornare all’antico dibattito se sia davvero l’autonoma determinazione delle parti la fonte degli effetti giuridici prodotti dal contratto o se non sia sempre e comunque la legge a riconoscere effetti giuridici all’assetto di interessi voluto dalle parti, che è solo un dato fattuale privo in sé di ogni rilevanza giuridica. Questione sottile ma alla fine sterile, poiché se è vero che il ruolo dell’autonomia privata a questi fini trova fondamento nelle regole poste dall’ordinamento negli artt. 1322 e 1372 c.c., è pur vero che sono queste regole giuridiche ad attribuire all’autonomia delle parti il potere di autoregolare, con effetti vincolanti, la propria sfera giuridica: la riferibilità dell’effetto giuridico alla autodeterminazione privata e alla volontà del soggetto è l’essenza del concetto di negozio giuridico (e di contratto). Il rapporto tra effetti del contratto e accordo delle parti, ed altresì il modo in cui con esso interferisce la legge, può essere meglio chiarito ricorrendo al concetto di regolamento contrattuale di cui abbiamo sopra parlato: l’insieme delle disposizioni e clausole concordate dalle parti che costituiscono appunto le regole che esse hanno pattuito. Ebbene, è vero, in generale, che con una «troppo rigida distinzione tra contenuto ed effetti si rischia di stravolgere il senso e il significato del contratto»; «proprio perché il contratto si definisce quale atto di autonomia e/o meglio di autoregolamento, gli effetti giuridici di esso non potranno non coincidere con quanto dalle parti disposto o pattuito» (A. Di Majo). Tuttavia, il legame diretto tra accordo, regolamento contrattuale e conseguenti effetti del contratto può essere impedito, interrotto o corretto dalla legge. Rispettivamente, quando norme imperative escludano a monte che un certo assetto di interessi sia lasciato alla libera determinazione delle parti (esempio: i privati non possono in vita vincolarsi circa la sorte dei propri beni dopo la morte: i patti successori sono vietati e

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dunque nulli art. 458 c.c.); ovvero quando, scelto un determinato assetto di interessi, non sia consentito alle parti escluderne o modificarne determinate conseguenze (stipulato un contratto di compravendita, le parti non possono escludere convenzionalmente la garanzia per evizione a carico del venditore e l’eventuale patto è nullo: art. 1487, co. 2, c.c.); o, ancora, quando la norma inderogabile interviene a sostituire la regola convenzionale (nella vendita con patto di riscatto, all’evidente fine di non lasciare a lungo incerta la vicenda di circolazione del bene, che dal compratore potrebbe tornare al venditore a seguito del riscatto, la legge prevede che il termine per esercitare il riscatto non può essere di oltre due anni se trattasi di beni mobili e di oltre cinque anni se trattasi di beni immobili e «se le parti stabiliscono un termine maggiore, esso si riduce a quello legale»: art. 1501 c.c.). L’interazione legge-autonomia privata, quanto agli effetti del contratto, è peraltro ancora più complessa: nulla vieta in principio alle parti di stabilire che il godimento di un bene che esse definiscono a titolo di comodato si accompagni ad un esborso di denaro da parte del comodatario; ma ove si accerti che tale esborso non si riferisce e rimane circoscritto alle spese necessarie per servirsi della cosa ed integra bensì un corrispettivo per il godimento, il contratto sarà qualificato e disciplinato non come comodato, del quale non presenta il carattere essenziale della gratuità (il comodato è “essenzialmente gratuito”, recita l’art. 1803, co. 2, c.c.), ma come locazione. Il rispetto della causa del contratto si pone come vincolo all’autonomia privata non consentendo alle parti, se non entro limiti con essa compatibili, di “gestire” gli effetti del contratto. Quando non incontra tali limiti, l’autonomia privata mantiene tuttavia, come vedremo, margini di “governo” degli effetti del contratto: il riferimento è soprattutto alla possibilità di arricchire il regolamento contrattuale degli elementi accidentali, attraverso cui esse stabiliscono il se e il quando il contratto deve cominciare a produrre i propri effetti o deve cessare di produrli.

2. Autonomia privata e integrazione degli effetti del contratto Non è corretto parlare di limiti all’autonomia privata nel caso della integrazione degli effetti del contratto. Si tratta qui piuttosto di una compartecipazione tra autonomia privata e legge nella produzione degli

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effetti giuridici, come enunciata nell’art. 1374, che vede la legge (o in mancanza gli usi e l’equità), intervenire allo scopo di completare l’atto di autonomia privata e dunque di delineare gli effetti del contratto oltre quanto considerato e voluto dalle parti (integrazione suppletiva). L’integrazione obbedisce in questo caso a esigenze di certezza delle condizioni del rapporto. Un fenomeno di integrazione suppletiva – per mezzo del quale il regolamento contrattuale lacunoso si completa con la disciplina legale, ancorché non imperativa ma dispositiva – si ritiene abbia luogo, come abbiamo visto, nel caso in cui il contratto sia “amputato” di una parte del suo contenuto, a causa della caducazione di clausole vessatorie. Intervento di segno diverso è come abbiamo detto, la c.d. integrazione cogente (V, 3), che riguarda il contenuto del contratto, e costituisce espressione dei limiti che la legge pone all’autonomia privata.

3. La funzione dell’equità Tornando invece alla integrazione suppletiva, la lacuna riscontrata nell’atto di autonomia privata viene colmata con fonti succedanee che, nell’ordine, sono la legge, gli usi (qui usi normativi, cioè fonti del diritto costituite da consuetudini), o, in ultimo, l’equità. L’equità viene comunemente definita come “giustizia del caso singolo”, vale a dire un intervento (in questo caso del giudice) che, a fronte di carenze nel regolamento contrattuale, colma la lacuna, risolve l’incertezza o il conflitto nel rapporto tra le parti, mediante soluzioni equilibrate e ritenute più giuste e più adeguate al caso concreto. Non dobbiamo confondere il richiamo all’equità, nell’art. 1374 qui considerato, con l’equità quale criterio di giudizio alternativo al diritto. Il giudice, come sappiamo, può decidere la controversia secondo equità solo quando la legge lo consente espressamente (art. 113, co. 1, c.p.c.) ovvero se le parti concordemente lo richiedono (art. 114 c.p.c.), ma ciò è possibile solo se la causa riguarda diritti disponibili. Nel caso della disciplina del contratto l’equità, nell’art. 1374 o in altre norme sparse, viene richiamata come fonte integrativa, non dunque per decidere in giudizio su una controversia tra le parti ma per regolare un aspetto non regolato in via convenzionale. Ci siamo già soffermati sui poteri del giudice in questi casi (V, 12). Ribadiamo qui che si tratta quasi

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sempre della determinazione di modalità di esecuzione della prestazione o, più spesso, di determinazione dell’ammontare del corrispettivo: nel contratto di commissione, ad esempio, se le parti non hanno stabilito la misura della provvigione spettante al commissionario e se non è possibile, perché non ve ne siano o non siano applicabili, ricorrere agli usi c.d. negoziali, cioè la prassi del luogo in cui è compiuto l’affare, potrà provvedere il giudice “secondo equità” (art. 1733 c.c. ma abbiamo già richiamato sopra l’analoga disposizione di cui all’art. 1755 per la mediazione). Nella vendita a rate che si risolva per inadempimento del compratore, il venditore dovrà restituire le rate riscosse ma avrà diritto ad un “equo compenso” per l’uso della cosa, oltre al risarcimento del danno (art. 1526, co. 1). L’equità interviene qui quale parametro di determinazione di indennità, corrispettivo, ecc., in funzione di completamento di un regolamento contrattuale e in coerenza con questo. La determinazione in via equitativa consente di giungere ad una quantificazione del corrispettivo, indennità, compenso, ecc., più adeguata al concreto assetto di interessi voluto dalle parti. Rimanendo invece estraneo alla disciplina del contratto, come abbiamo già messo in evidenza, un intervento correttivo dell’ordinamento che per il tramite dell’equità si proponga di sostituire e correggere, in aderenza a parametri esterni di equità e giustizia, l’assetto di interessi frutto dell’accordo privato. Sul punto e sulla funzione della buona fede, di integrazione e/o correzione del contenuto del contratto, ci siamo già ampiamente soffermati (V, 10).

4. La classificazione dei contratti sotto il profilo degli effetti La più importante distinzione, quanto agli effetti, è quella tra contratti ad effetti obbligatori e contratti ad effetti reali. Si sa che tutti i contratti producono l’effetto di far sorgere un rapporto giuridico tra le parti e dunque sono fonte di obbligazioni, come sancisce in generale l’art. 1173 c.c. La distinzione corretta va posta pertanto tra contratti con effetti solo obbligatori e contratti con effetti reali, intendendosi porre l’accento sulla idoneità, che è propria di questi ultimi, di produrre, oltre alla nascita di un vincolo obbligatorio tra le parti, anche la costituzione o il trasferimento o anche l’estinzione di diritti reali ovvero il trasferimento di qualsiasi altro diritto.

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Così è contratto con effetti reali la compravendita, il cui effetto è di trasferire contro prezzo la proprietà o un altro diritto, ma anche il contratto con il quale si costituisce un diritto reale (parziario) come l’usufrutto ovvero lo si estingue, ovvero si cede, a titolo gratuito o oneroso, un credito, ed ancora la donazione o il mutuo. Va da sé che da tali contratti si originano anche effetti obbligatori – e basti leggere le norme che il codice dedica, rispettivamente, alle obbligazioni del venditore e alle obbligazioni del compratore e che, in quanto compatibili si applicano anche alla permuta, ovvero le norme in tema di garanzia per evizione e responsabilità per vizi a carico del donante che sia in dolo –; ma di tali contratti si vuole segnalare la particolare funzione di consentire e regolare l’effetto reale consistente – lo si ribadisce – non solo nel trasferimento della proprietà di una cosa, estinzione o trasferimento di un diritto reale ma anche nel trasferimento di qualsiasi altro diritto (anche non reale). Locazione, mandato, comodato, per limitarci ad alcuni esempi, sono invece contratti ad effetti obbligatori, nel senso che essi producono solo la nascita di diritti ed obblighi tra le parti ma non l’effetto reale come sopra individuato. L’art. 1376 c.c. prende esplicitamente in considerazione il “contratto con effetti reali”, menzionando le diverse fattispecie sopra ricordate, in vista di sancire il principio consensualistico o, meglio, la regola dell’efficacia traslativa del consenso. «Nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto», recita l’art. 1376 «la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato». La norma è chiara nel delineare i contorni e le caratteristiche della categoria dei contratti a effetto reale, ma non sarebbe esatto dire che ne individua in modo compiuto ed esaustivo la categoria, appuntandosi piuttosto sul consenso traslativo: anche il contratto che ha per oggetto il trasferimento di una cosa non determinata, quale ad esempio la vendita di cosa generica (c.d. vendita obbligatoria) è contratto ad effetti reali ma differiti, preordinato alla produzione dell’effetto traslativo, anche se tale effetto si produce solo con l’“individuazione” (art. 1378) non bastando il solo consenso. Così è per la vendita di cosa futura, nella quale l’acquisto della proprietà si verifica (se e) quando la cosa viene ad esistenza (art. 1472). In questi casi, considerato l’oggetto del diritto che si trasferisce (cosa generica, cosa futura), l’effetto traslativo è pur sempre

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prodotto dal contratto ma è differito al momento successivo in cui il bene verrà ad esistenza oppure al momento in cui, questa volta per opera del venditore, si procede alla individuazione (se trattasi di cose generiche). Nei casi da ultimo considerati è la natura del bene ad interferire con la produzione dell’effetto traslativo; così come in altri casi è la stessa legge che richiede qualcosa in più dell’accordo per il prodursi dell’effetto reale: perché si costituisca il diritto di ipoteca non basterà l’accordo delle parti, che pure ne costituisce titolo, ma occorrerà anche l’iscrizione nei registri immobiliari (art. 2808 c.c.). L’art. 1376, senza per questo escludere la possibilità che l’effetto reale si produca nei modi particolari sopra ricordati, sancisce il principio generale secondo cui il semplice consenso può ben essere ed è di regola fonte esclusiva dell’effetto traslativo. Basta l’accordo delle parti, validamente espresso, a produrre l’effetto reale. E, per converso, quando abbiano stipulato un contratto ad effetti reali, cioè idoneo a produrre l’effetto reale come sopra individuato, le parti non potranno impedirlo, a meno che tale esclusione non discenda dall’assetto di interessi concordato. Si suole rimarcare che l’art. 1376 non è norma imperativa e che dunque il principio dell’efficacia traslativa del consenso può ben essere derogato dalle parti. Di sicuro l’effetto reale può essere differito fino allo scadere di un termine anche per volontà delle parti, come lascia intendere l’art. 1465, co. 2. Ma, fuori dal caso dell’apposizione di un termine, in presenza di un valido contratto ad effetti reali, sarà il particolare atteggiarsi dell’assetto di interessi delineato dalle parti a determinare l’esclusione o il diverso atteggiarsi dell’effetto traslativo, piuttosto che la mera volontà delle parti. Il differimento del passaggio della proprietà, nella vendita con riserva della proprietà di cui all’art. 1523 c.c., è previsto dalla legge e si giustifica con la pattuizione di una rateizzazione del prezzo. Il contratto con cui una parte venda ad altra una cosa determinata a fronte del pagamento (non rateizzato) del prezzo non potrebbe accompagnarsi da una clausola pattizia che configurasse come eventuale (e non solo differito nel tempo) il trasferimento della proprietà sul bene, salva l’immediata immissione del compratore nel godimento del bene (a meno della apposizione di una condizione o termine ma riferiti agli effetti dell’intero contratto). Sarebbe qui messa in discussione la qualificazione del contratto stesso come compravendita, e verosimilmente si

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giungerebbe a configurarlo quale contratto preliminare di compravendita, seppur ad effetti anticipati. L’effetto reale, stante il principio di cui all’art. 1376 c.c., non può dirsi in definitiva lasciato alla piena disponibilità delle parti. Si riferisce sempre al profilo degli effetti del contratto, e in particolare all’efficacia del contratto nel tempo, la distinzione tra contratti ad esecuzione istantanea e contratti di durata. I primi si distinguono a loro volta tra contratti ad esecuzione immediata e contratti ad esecuzione differita. La differenza dovrebbe ora essere chiara, poiché seppure l’esecuzione rimane sempre istantanea, cioè si concentra in un unico momento e non si protrae nel tempo, essa può collocarsi in momenti diversi: esempio della prima categoria è proprio la vendita di cosa determinata quando si produce l’immediato effetto traslativo e contestualmente alla stipula del contratto si eseguano le obbligazioni (di pagare il prezzo e di consegnare la cosa); mentre ad esecuzione istantanea, ma differita, è la vendita a rate. Il frazionamento nel tempo dell’adempimento non tramuta la natura della prestazione (ad esempio del pagamento del prezzo), che è pur sempre unitaria. Nei contratti di durata le prestazioni o almeno una di esse non si esaurisce in un’unica operazione o in un unico effetto istantaneo. Al contrario, il contratto prevede obbligazioni il cui adempimento deve protrarsi nel tempo o con continuità (far godere il bene al locatore) ovvero a carattere di periodicità (assicurare la fornitura di beni al somministrato, pagare il canone di locazione): contratti ad esecuzione continuata o contratti ad esecuzione periodica. L’obbligazione ha qui per oggetto non un’unica prestazione che le parti convenzionalmente frazionano, come nel caso del pagamento a rate del prezzo, bensì una prestazione che ha natura periodica (l’obbligo di pagare il canone di locazione si matura per anno o per mese a seconda di quanto convenuto).

5. Gli effetti del contratto e i terzi Abbiamo visto che, ai sensi dell’art. 1372, il contratto ha forza di legge tra le parti, ma «non produce effetti rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge» (co. 2). Viene qui sancito il principio di relatività del contratto, rispetto al quale alcuni chiarimenti si impongono. È ovvio che gli spostamenti di ricchezza, i cambiamenti nella titolari-

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tà dei diritti e nella situazione patrimoniale dei soggetti giuridici, che si determinano quali effetti del contratto, non sono del tutto “neutri” per gli altri consociati e possono in qualche modo interessarli, in modo più o meno significativo. A seguito della vendita da A a B di una villetta al mare, i proprietari delle ville che insistono nella stessa area avranno un nuovo vicino (magari più o meno simpatico o rumoroso), ma si tratterà per loro di un mero cambiamento di fatto, inidoneo a influenzare in qualche modo la loro sfera giuridica. Ma in alcuni casi il proprietario della villa confinante dovrà prendere atto di un cambiamento per lui più significativo, poiché avrà un nuovo interlocutore con il quale regolare i rapporti che discendono dalla eventuale comproprietà del muro comune nel caso di cui all’art. 874 c.c.: il cambiamento nella situazione giuridica non è però effetto del contratto, cioè conseguenza determinata dalla volontà di A e B che hanno stipulato la compravendita della villetta, ma discende dalla natura del diritto trasferito – il diritto reale di proprietà – e dal relativo regime, compreso quello di cui all’art. 874 in materia di muro comune. Sempre la compravendita che abbiamo preso ad esempio potrà interessare in modo ancor più intenso C, creditore di A che vedrà uscire dal patrimonio del proprio debitore un bene in principio aggredibile in caso di inadempimento. L’effetto di depauperamento del patrimonio di A e dunque della garanzia che la legge accorda ai suoi creditori, compreso C (art. 2740 c.c.) è prodotto dal contratto tra A e B, e riguarda, appunto, esclusivamente il patrimonio di A. Le conseguenze giuridiche in capo a C, creditore di A, ad esempio il diritto di agire, se ve ne siano i presupposti, con l’azione revocatoria, non sono effetto del contratto di compravendita tra A e B, ma della disciplina del credito che C può vantare verso A e del regime che la legge detta al riguardo e, in particolare, della regola per cui «il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri» (art. 2740). Se i presupposti richiesti dalla legge per l’esercizio dell’azione revocatoria – il debitore conosceva il pregiudizio che il contratto arrecava alle ragioni del creditore o addirittura il contratto, anteriore al sorgere del credito, era stato dolosamente preordinato al fine di pregiudicare il soddisfacimento del credito e, trattandosi di contratto a titolo oneroso l’altra parte, cioè in questo caso il compratore B, era consapevole del pregiudizio o partecipe della preordinazione – non ricorrono, il creditore di A, pur vedendo ridimensionarsi il patrimonio in ipotesi aggredibile del proprio debi-

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tore, non potrà far nulla per impedire gli effetti del contratto tra A e B, in quanto effetti che non toccano direttamente la sua sfera giuridica, quale terzo. Se invece tali presupposti ricorrono egli potrà, con l’azione revocatoria, rendere inefficace nei suoi confronti la compravendita (art. 2901 c.c.): ma non in quanto destinatario di diretti effetti (negativi) sul proprio patrimonio del contratto tra A e B, ma in quanto titolare di un diritto di credito garantito sul patrimonio del debitore, diritto a cui la legge appresta tutela anche mediante un rimedio generale (l’azione revocatoria, appunto) volto ad impedire che quel patrimonio venga fraudolentemente depauperato. Gli esempi potrebbero continuare e servono a chiarire la portata del principio di cui all’art. 1372: la legge riconosce l’autonomia dei privati e dà loro il potere di “autogovernare” le proprie relazioni patrimoniali (con i limiti che abbiamo via via illustrato); ma, proprio per questo, e specularmente, nessuno può subire un cambiamento della propria situazione patrimoniale o essere vincolato ad un rapporto obbligatorio se non per propria volontà (o per volontà della legge), mai per volontà di altri. Il principio trova compiuta espressione nell’art. 1381, dove vengono disciplinati gli effetti della “promessa dell’obbligazione o del fatto del terzo”. È possibile stipulare un contratto nel quale una parte promette l’obbligazione o il fatto di un terzo, ma il vincolo rimane in capo alla parte contraente che ha assunto su di sé l’obbligazione avente ad oggetto il comportamento del terzo: il terzo potrà rifiutare di obbligarsi e in questo caso ovvero quando, malgrado il promittente si sia adoperato in tal senso, il terzo non compia il fatto promesso, sarà la parte contraente, promittente, che dovrà indennizzare il suo partner contrattuale. E rimarrà comunque in capo al promittente la responsabilità contrattuale per l’inadempimento all’obbligazione assunta, di adoperarsi perché il terzo esegua la prestazione. Tizio stipula con Caio un contratto preliminare di vendita di cosa futura assumendo l’obbligazione di realizzare l’immobile entro un certo periodo di tempo, ma, trattandosi di edificazione possibile solo all’interno di un apposito comparto edificatorio (c.d. lottizzazione), assume implicitamente anche l’obbligazione di ottenere l’adesione al comparto dei terzi proprietari di fondi contigui. Siamo in presenza, appunto, di una promessa del fatto del terzo, con la quale, «il promittente assume una prima obbligazione di facere, consistente nell’adoperarsi affinché il terzo tenga il comportamento promesso, onde sod-

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disfare l’interesse del promissario, ed una seconda obbligazione di dare, cioè di corrispondere l’indennizzo nel caso in cui, nonostante si sia adoperato, il terzo si rifiuti di impegnarsi. Con la conseguenza che, qualora l’obbligazione di facere non venga adempiuta e l’inesecuzione sia imputabile al promittente, ovvero venga eseguita in violazione dei doveri di correttezza e buona fede, il promissario avrà a disposizione gli ordinari rimedi contro l’inadempimento, quali la risoluzione del contratto, l’eccezione di inadempimento, l’azione di adempimento e, qualora sussista il nesso di causalità tra inadempimento ed evento dannoso, il risarcimento del danno; qualora, invece, il promittente abbia adempiuto a tale obbligazione di facere e, ciononostante, il promissario non ottenga il risultato sperato a causa del rifiuto del terzo, diverrà attuale l’altra obbligazione di dare, in virtù della quale il promittente sarà tenuto a corrispondere l’indennizzo». (Cass. 21-11-2014, n. 24853) Una conferma, dunque, della estraneità del terzo al vincolo costituito tra Tizio e Caio entro il quale la sua prestazione è dedotta come risultato cui Tizio (e solo Tizio) si è obbligato verso Caio, con la conseguente responsabilità contrattuale: Tizio non sarà responsabile per inadempimento ove il terzo non esegua la prestazione malgrado egli si sia adoperato in tal senso, ma la peculiarità della fattispecie comporta che egli debba comunque indennizzare il proprio partner le cui aspettative sono rimaste deluse. Il rinvio contenuto nell’art. 1372, co. 2, a casi, previsti dalla legge, in cui il contratto può produrre effetti nei confronti di terzi, rimanda invece alla figura del contratto a favore di terzi, disciplinata in generale dall’art. 1411 c.c. (ad una pattuizione che preveda un beneficio a favore del terzo si prestano alcuni schemi contrattuali, come ad esempio l’assicurazione sulla vita): la norma consente alla parte stipulante, purché vi abbia interesse, di impegnare la sua controparte (promittente) ad una prestazione a beneficio di un terzo, del quale non è richiesta né la partecipazione al contratto, né l’accettazione espressa. Salvo patto contrario, recita infatti il co. 2 dell’art. 1411, il terzo «acquista il diritto contro il promittente per effetto della stipulazione». Non ricorre qui alcun fenomeno di sostituzione, come abbiamo sopra sottolineato (IV, I, 11). Il terzo non è parte né in senso formale né in senso sostanziale del contratto, non partecipa con la propria manifestazione di volontà al con-

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tratto (non deve accettare), ma deve limitarsi a ricevere, salva ovviamente la libertà di rinunciarvi. Una eventuale esplicita dichiarazione di volerne profittare ha il solo effetto di impedire che lo stipulante revochi o modifichi la stipulazione, mantenendo per sé la prestazione dovuta dal promittente. La norma in esame dispone che è valida la stipulazione a favore di un terzo «qualora lo stipulante vi abbia interesse»: tuttavia non si richiede qui che ricorra un interesse qualificato o un interesse che assuma i caratteri della giuridicità, essendo sufficiente anche, come ha avuto modo di affermare la S.C., una situazione soggettiva «di mero fatto, morale o di immagine». Parti del contratto sono esclusivamente stipulante e promittente, e intercorre tra di esse il rapporto obbligatorio che vincola il promittente alla prestazione a beneficio del terzo. Il terzo assume da subito (a meno di suo rifiuto o di revoca da parte dello stipulante nel termine indicato nel co. 2 dell’art. 1411 o nel caso di cui all’art. 1412) la sua posizione rispetto al contratto, che è quella di beneficiario della prestazione dedotta nel contratto. Ovviamente il promittente può opporre al terzo le eccezioni fondate sul contratto (art. 1413), che è pur sempre il titolo del diritto vantato dal terzo. La S.C., in dissenso con parte della dottrina, esclude che sia configurabile in capo allo stipulante un diritto alla risoluzione del contratto per l’inadempimento dell’obbligazione a favore del terzo, sottolineando che detto inadempimento non concerne tale contratto, ma il rapporto originato dall’attribuzione al terzo del diritto come dedotto in obbligazione nel contratto a favore di terzo. Ma ciò, ammette la stessa S.C., qualora la stipulazione sia idonea a far acquisire al terzo il diritto che ne è oggetto, senza bisogno di un’attività esecutiva del promittente: una volta verificatasi la sua efficacia a favore del terzo (mediante adesione alla stipulazione ed a maggior ragione per effetto di dichiarazione di volerne profittare anche in confronto del promittente), soltanto il terzo è legittimato ad agire per l’esecuzione della prestazione oggetto del diritto attribuitogli, dovendosi escludere che sussista una legittimazione concorrente dello stipulante, giacché la prestazione oggetto del contratto a favore del terzo, rappresentata dall’attribuzione del diritto al medesimo, risulta già realizzata per effetto del contratto stipulante/promittente allorché si verifica l’inadempimento da parte del promittente rispetto alla prestazione attribuita al terzo come oggetto del diritto conferitogli. Ma quando invece la stipulazione a favore del terzo abbia ad oggetto una presta-

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zione che per fare acquisire al terzo il diritto necessiti, oltre al consenso fra stipulante e promittente, di un’attività di esecuzione da parte del promittente, di modo che solo all’esito di essa il diritto nasca a favore del terzo (che possa manifestarvi adesione o fare dichiarazione di volerne approfittare), allora «si può configurare a favore dello stipulante un diritto all’adempimento dell’attività esecutiva, con la conseguenza che, in difetto egli potrà chiedere la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno. La pretesa d’adempimento, la risoluzione e il risarcimento del danno si correlano in questo caso (non alla prestazione oggetto del diritto che il terzo doveva acquisire, ma) alla stessa prestazione dedotta nella stipulazione, che necessitava di attività esecutiva». (Cass. 9-4-2014, n. 8272) La circostanza che sia ammesso solo un effetto favorevole per il terzo e che questi possa comunque rifiutare conduce la dottrina a negare che si tratti di una vera e propria deroga al principio di relatività del contratto. Di sicuro in nome di tale principio la figura del contratto a favore di terzi è ammessa solo nel caso in cui, come del resto lascia intendere l’art. 1411, il terzo sia destinatario di una posizione di esclusivo vantaggio, dunque di un diritto di credito (di “prestazione” parla l’art. 1411, al co. 3), ma non di un diritto reale, posizione di vantaggio che invece reca con sé comunque anche pesi o oneri. Si parla in dottrina e in giurisprudenza di contratto in danno del terzo. L’espressione dovrebbe propriamente riferirsi al contratto che abbia ad oggetto una prestazione che comporti un danno per un terzo o i suoi beni (es. il patto di boicottaggio, cioè l’accordo tra imprenditori a non rifornire un concorrente per eliminarlo dal mercato,); ma in realtà l’espressione è stata coniata ed adottata più frequentemente per indicare i casi in cui la stipula di un contratto costituisca per una parte inadempimento di un obbligo assunto con un terzo, e di tale obbligo anche l’altro contraente sia a conoscenza: il caso di c.d. doppia alienazione, in cui Tizio vende a Caio un proprio bene immobile ma subito dopo, e prima che Caio abbia trascritto il suo acquisto, stipula una seconda alienazione con Sempronio avente ad oggetto il medesimo bene. La seconda compravendita, se trascritta prima, sarà opponibile a Caio il quale vedrà

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dunque pregiudicato il proprio acquisto. Analoga situazione si verifica se Tizio è legato a Caio da contratto preliminare che lo obbliga a vendere il bene o da patto di prelazione che lo obbliga a preferire Caio come acquirente del bene. Tizio sarà responsabile verso Caio dell’inadempimento del contratto che lo legava a questi, secondo il regime delle diverse figure richiamate; ma ove Sempronio ne fosse a conoscenza, Caio vanterà anche nei suoi confronti un diritto al risarcimento del danno, questa volta però a titolo di responsabilità extracontrattuale. Il secondo contratto non produce effetti (questa volta dannosi) nella sfera giuridica di Caio, ma si configura semmai, ricorrendone i presupposti, quale fatto illecito in danno di Caio.

6. (Segue). Vicende del contratto, caducazione degli effetti e diritti acquistati dai terzi Problema diverso è quello che riguarda le conseguenze che possono prodursi nella posizione giuridica di terzi a seguito del venir meno degli effetti del contratto. Non si tratta di terzi in generale, bensì dei terzi aventi causa: terzi cioè che hanno acquistato diritti dalla parte contraente che ne era divenuta a sua volta titolare per effetto di un contratto poi dichiarato nullo, annullato, risolto. Il diritto acquistato da chi lo perde a seguito della caducazione degli effetti del contratto in base al quale ne era divenuto titolare, dovrebbe essere travolto: il principio è bene espresso dalle note formule latine resoluto iure dantis, resolvitur et ius accipientis (se viene meno il diritto del dante causa cade altresì il diritto dell’avente causa da questi) ovvero nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet (nessuno può trasferire ad altri un diritto che non ha). In realtà la legge si sforza di contemperare l’esigenza di rispettare il principio di cui sopra – che impedirebbe di regola la sopravvivenza in capo ad un soggetto di un diritto acquistato da chi risulti non esserne titolare – con quella di tutela del legittimo affidamento che l’avente causa poteva aver riposto nella pienezza del proprio acquisto e con l’esigenza di certezza giuridica. Intervengono al riguardo le regole volte a “stabilizzare” gli acquisti di diritti anche attraverso il regime della (in)opponibilità del contratto o delle sentenze che si pronuncino sugli effetti di questo. Ricordiamo la regola volta a stabilizzare il diritto di proprietà acquistato a non domino, cioè da chi non era proprietario del be-

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ne, ed in particolare l’art. 1153 c.c. (acquisto della proprietà a seguito dell’acquisto in buona fede del possesso del bene mobile) e gli artt. 1158 ss. in tema di usucapione. Qui a stabilizzare l’acquisto, secondo diversi regimi, è il dato di fatto dell’esercizio del possesso. Il regime della trascrizione degli atti aventi ad oggetto diritti sui beni immobili rende opponibile l’atto trascritto (preservando il diritto con esso acquistato) nei confronti di chi abbia acquistato diritti con atto (ancorché anteriore) trascritto successivamente o non trascritto. Tornando al regime degli effetti del contratto e alle conseguenze della loro caducazione, possiamo dire che la legge segue un doppio criterio per graduare tali conseguenze, tenendo conto sia della gravità del vizio o della patologia che porta al venir meno degli effetti del contratto e sia delle caratteristiche della posizione giuridica dell’avente causa che ne verrebbe pregiudicata e del livello di protezione di cui essa viene ritenuta meritevole. Le diverse regole saranno prese di volta in volta in esame, ma giova brevemente qui ricordarle. La legge rispetta la volontà delle parti che, ricorrendo alla simulazione (IV, III, 2), non vogliono gli effetti del contratto apparente o ne vogliono altri discendenti dal contratto dissimulato (art. 1414, co. 1 e 2); ma esclude che la simulazione possa essere opposta – così travolgendone i diritti – a chi abbia in buona fede acquistato diritti dal titolare apparente (salvi sempre gli effetti della trascrizione) ovvero ai creditori del titolare apparente che in buona fede abbiano compiuto atti esecutivi sui beni oggetto del contratto simulato (rispettivamente, artt. 1415, co. 1 e 1416, co. 1). La nullità (VII, 1 e 7), certamente il più radicale dei rimedi a fronte delle forme di invalidità, per cause che la legge ritiene più gravi, ha un effetto caducatorio tendenzialmente altrettanto radicale: travolge il contratto con effetto retroattivo, eliminando gli effetti tra le parti e, conseguentemente, gli eventuali diritti che i terzi abbiano acquistato dalla parte che ne era divenuta titolare in base al contratto poi dichiarato nullo. Soccorreranno a preservare l’acquisto del terzo solo altri istituti, come abbiamo visto ispirati a obiettivi di certezza giuridica: il terzo farà salvo il suo acquisto di un bene mobile se ne abbia acquistato il possesso in buona fede, o il suo acquisto di un immobile se interverrà l’usucapione ovvero se ricorreranno i presupposti della c.d. pubblicità sanante. Se la domanda diretta a far dichiarare la nullità del contratto viene trascritta dopo cinque anni dalla trascrizione del contratto impugnato, la

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sentenza che l’accoglie e dunque dichiara la nullità non pregiudica i diritti che i terzi di buona fede abbiano acquistato (da chi li aveva conseguito per effetto del contratto nullo), sempreché l’atto di acquisto sia stato trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda. (art. 2652, co. 1, 6). La trascrizione (o la pubblicità) ha un effetto, appunto, sanante, premia l’affidamento di chi abbia trascritto prima un acquisto che trovava titolo in un contratto i cui effetti apparivano “stabilizzati” e penalizza il ritardo (oltre i cinque anni) con cui viene proposta la domanda di nullità del contratto del dante causa. L’annullabilità (per i diversi presupposti e il diverso regime: VII, 12), travolge invece solo alcuni dei diritti acquistati dai terzi, intervenendo qui quella graduazione cui abbiamo fatto cenno, riferita sia alla intensità del rimedio dell’annullamento sia alla posizione dell’avente causa: la sentenza di annullamento ha effetto retroattivo tra le parti ma non nei confronti di tutti i terzi, rimanendo salvi, quando l’annullamento non dipenda da incapacità legale, i diritti acquistati in buona fede ed a titolo oneroso. La buona fede va qui intesa in senso soggettivo, come ignoranza della causa di annullabilità e impossibilità di conoscerla con l’ordinaria diligenza. L’ordinamento protegge qui l’affidamento del terzo sulla validità e stabilità del proprio acquisto quando conseguito a fronte di un sacrificio (onerosità: IV, IV, 6). La norma (art. 1445 c.c.) fa salvi gli effetti della trascrizione della domanda di annullamento, sia secondo la regola della pubblicità sanante sia nel senso che i terzi di buona fede che abbiano acquistato a titolo oneroso manterranno salvo il proprio diritto se abbiano trascritto l’atto prima della trascrizione della domanda di annullamento tranne che nel caso in cui l’annullamento dipenda da incapacità legale. Maggior tutela ricevono gli acquisti dei terzi in caso di rescissione o risoluzione del contratto: rescissione e risoluzione hanno effetto retroattivo tra le parti (salva, per la risoluzione, la salvezza delle prestazioni già eseguite nei contratti ad esecuzione continuata o periodica), ma non nei confronti dei terzi, i quali (salvi sempre gli effetti della trascrizione, ove la domanda di rescissione o risoluzione sia trascritta prima della trascrizione dell’atto di acquisto) non vedranno pregiudicati i loro diritti anche se acquistati in mala fede o a titolo gratuito (artt. 1452 e 1458 co. 2 c.c.). La ratifica del contratto concluso dal rappresentante privo di potere ha effetto retroattivo ma «sono salvi i diritti dei terzi» (art. 1399).

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7. Autonomia privata e governo degli effetti Ci si è sopra ampiamente soffermati sul diverso modo in cui volontà delle parti e legge possono concorrere quali fonti degli effetti del contratto. E si è anche fatto cenno al (limitato) potere dell’autonomia privata di derogare alla regola dell’efficacia traslativa del consenso. In generale, può dirsi che l’ordinamento consente alle parti di “governare” gli effetti del contratto, pur se entro ambiti e con modi normativamente previsti. E di ciò ci occupiamo qui di seguito.

8. I poteri delle parti sul vincolo contrattuale: il mutuo dissenso e il recesso nel codice civile Il contratto, secondo il nostro art. 1372 c.c., ha forza di legge fra le parti e non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge. La norma chiarisce bene che ciascuna parte, almeno di regola, non ha il potere di disporre a suo piacimento del vincolo contrattuale validamente assunto (e dei relativi effetti), facendolo venire meno. Il mutuo dissenso (o, secondo la terminologia del codice, il mutuo consenso allo scioglimento), altro non è che un nuovo contratto, un nuovo accordo con cui entrambe le parti manifestano una volontà contraria alla precedente, concordano cioè di sciogliersi dal vincolo precedente con effetto retroattivo (salva una graduazione degli effetti da essi pattuita espressamente, che la dottrina ritiene ammissibile). Il mutuo dissenso costituisce un atto di risoluzione convenzionale (o un accordo risolutorio), espressione dell’autonomia negoziale dei privati, i quali sono liberi di regolare gli effetti prodotti da un precedente negozio, anche indipendentemente dall’esistenza di eventuali fatti o circostanze sopravvenute, impeditivi o modificativi dell’attuazione dell’originario regolamento di interessi, dando luogo ad un effetto ripristinatorio con carattere retroattivo, anche per i contratti aventi ad oggetto il trasferimento di diritti reali; tale effetto, infatti, essendo espressamente previsto ex lege dall’art. 1458 c.c. con riguardo alla risoluzione per inadempimento, anche di contratti ad effetto reale, non può dirsi precluso agli accordi risolutori, risultando soltanto obbligatorio il rispetto dell’onere della forma scritta ad substantiam (Cass. 6-10-2011, n. 20445). La regola sopra ricordata in tema di forma per relationem comporta che il contratto

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con cui si scioglie un contratto a forma solenne deve rispettare anch’esso tale forma a pena di nullità. La S.C. puntualizza che la risoluzione per mutuo consenso di un contratto, atteso il principio della libertà di forme, non deve necessariamente risultare da un accordo esplicito dei contraenti diretto a sciogliere il contratto, ma può risultare anche da un comportamento tacito concludente, a meno che per il contratto da risolvere non sia richiesta la forma scritta ad substantiam. Il rinvio alle cause ammesse dalla legge conferma la regola generale della intangibilità del vincolo per volontà unilaterale. Un potere unilaterale di scioglimento del contratto può essere riconosciuto con espressa previsione di legge, in considerazione del tipo di contratto, e specie quando si tratti di contratti di durata a tempo indeterminato (si vedano ad esempio le norme in tema di somministrazione, art. 1569; o di agenzia, art. 1750, co. 2, ecc.) nei quali il recesso svolge la diversa funzione di porvi termine, ovvero nei contratti a termine, per consentirne prima lo scioglimento generalmente in presenza di cause che lo giustifichino: il preavviso o il ricorrere di una giusta causa sono richiesti in questi casi a tutela dell’altra parte. Il recesso legale, ancora, è strumento che consente alla parte di svincolarsi dal contratto a fronte di variazioni delle condizioni originariamente pattuite decise dalla controparte in corso di rapporto, nei contratti nei quali è consentito prevedere (con clausola specificamente approvata dall’altro contraente) tale ius variandi: si veda l’art. 118 t.u.b. per i contratti banca-cliente a tempo indeterminato. Tiene conto della natura del contratto, e delle implicazioni fiduciarie che lo connotano, ad esempio, la disciplina prevista per il mandato: l’art. 1723 consente al mandante di “revocare” il mandato, ma se il mandato è oneroso, conferito per un determinato tempo o per un determinato affare, la revoca anticipata dovrà essere accompagnata da giusta causa e se il contratto è a tempo indeterminato, in mancanza di giusta causa dovrà darsi all’altra parte un congruo preavviso (rimanendo il mandante obbligato, in caso contrario, al risarcimento del danno); regole analoghe limitano il diritto di “rinunzia” del mandatario. Al di là della terminologia adottata dal codice, si tratta sempre dell’esercizio di un diritto potestativo, di recesso, consentito ad una o ad entrambe le parti. Conferma altresì la regola generale di cui all’art. 1372, anche il tenore dell’art. 1373, in base al quale il potere di scioglimento del contratto per volontà unilaterale, quando non trova fonte nella legge, deve trovare la sua fonte nello stesso accordo delle parti e potrà essere esercitato

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con i limiti previsti dalla stessa norma. In conformità al principio posto dall’art. 1372, il nostro art. 1373 c.c., fuori dei casi di c.d. recesso legale già ricordati, ammette il recesso unilaterale convenzionale, quando cioè tale facoltà sia stata pattuita, dunque voluta da entrambe le parti, e ne fissa il limite di esercizio non oltre il momento in cui il contratto abbia avuto un principio di esecuzione. Non così nel caso dei contratti a esecuzione continuata o periodica, nei quali il recesso è ammesso, ma non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione (art. 1373, co. 2) a meno che le parti non abbiano convenuto diversamente. La disciplina del recesso convenzionale, confermata peraltro dal regime dei recessi legali, è chiara nel senso che lo scioglimento per volontà unilaterale non è principio generale e che comunque esso non è ammesso in funzione di travolgere effetti del contratto già compiutisi: dunque il recesso convenzionale non potrà esercitarsi se il contratto ha già avuto un principio di esecuzione e, nei contratti di durata, il recesso convenzionale come quello legale non avrà effetto retroattivo. La cautela con cui l’ordinamento lascia spazio a scelte di autonomia privata che, potendo condurre al suo scioglimento per volontà unilaterale, introducono elementi di precarietà nel vincolo contrattuale, è testimoniata, come abbiamo visto, da regole che, a tutela della posizione dell’altra parte, richiedono per l’esercizio del recesso legale la presenza di taluni presupposti (giusta causa) e comunque il rispetto di termini di “congruo” preavviso. Nel caso di recesso convenzionale ha in qualche modo la funzione di rafforzare il vincolo la scelta delle parti di rendere oneroso l’esercizio di tale diritto, attraverso la previsione di un corrispettivo, come consentito dall’art. 1373, co. 3, c.c. Si tratta della multa penitenziale, la cui funzione è, appunto, quella di indennizzare la controparte nell’ipotesi di esercizio del diritto di recesso pattuito. Il diritto di recesso, in questo caso, avrà effetto quando la prestazione del corrispettivo pattuito è eseguita. La medesima funzione è assolta dalla caparra penitenziale, di cui all’art. 1386: la variante è costituita qui dalla circostanza che il “prezzo” del recesso è versato anticipatamente all’atto della stipula, e il recedente in questo caso dovrà restituire il doppio di quanto ricevuto dall’altra parte mentre chi subisce il recesso potrà trattenere la caparra eventualmente ricevuta. Sottolineata tale funzione, la giurisprudenza opportunamente chiarisce che in questo caso il giudice non è chiamato a svolgere alcuna indagine sull’addebitabilità della causa di recesso (come avviene invece quando la caparra ha la funzione di

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predeterminare l’ammontare del danno da inadempimento consentendo in tal caso uno scioglimento tramite recesso: caparra confirmatoria, VIII, 12); nel caso di multa o caparra penitenziale, il giudice dovrà solo prendere atto in giudizio dell’avvenuto esercizio di tale diritto potestativo da parte del recedente e, in caso di caparra penitenziale, condannare il medesimo alla corresponsione del relativo corrispettivo richiesto dalla controparte.

9. Il governo unilaterale del vincolo nei contratti di consumo: il recesso di pentimento Alla luce della generale disciplina del recesso, si manifesta con tutta evidenza la specificità del c.d. recesso di pentimento che caratterizza i contratti di consumo. Il contratto professionista/consumatore si caratterizza soprattutto proprio a questo riguardo e cioè per le regole particolari in tema di nascita e permanenza del vincolo contrattuale. Quella dei «contratti conclusi fuori dei locali commerciali» costituisce una delle prime fattispecie sulle quali sono intervenute le norme di fonte europea con una disciplina il cui tratto distintivo era costituito esclusivamente dalla introduzione di un diritto di recesso, del tutto nuovo per il nostro ordinamento e inedito nella disciplina del contratto, che consente al consumatore di pentirsi della sua scelta di contrarre e di svincolarsi così dal contratto, entro un determinato periodo di tempo, senza dovere specificarne il motivo e senza alcuna penalità. Da qui, sia pure con alcune varianti di disciplina, il diritto di recesso si è esteso poi ad altre fattispecie, divenendo istituto tipico dei contratti tra professionista e consumatore. All’effetto di sorpresa e suggestione che caratterizza le offerte “porta a porta” e la contrattazione a distanza, e, in generale, all’assenza di trattativa e allo squilibrio informativo che caratterizza comunque la contrattazione business to consumer, l’ordinamento reagisce, oltre che con i penetranti obblighi di informazione e di trasparenza cui è tenuto il contraente professionale, di cui abbiamo già parlato, con una sorta di procedimentalizzazione della nascita del vincolo contrattuale, o, se si preferisce, con una più rigorosa verifica dei presupposti in base ai quali il vincolo può dirsi nato e permanere. A tale vincolo infatti, quando la legge gli attribuisce il diritto di recesso, il consumatore potrà sottrarsi entro termini di tempo relativamente brevi, gratuitamente e senza giu-

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stificazioni allorché, semplicemente, voglia revocare un consenso poco meditato o non si ritenga soddisfatto dal bene o servizio, rimanendo tenuto soltanto a restituire il bene eventualmente ricevuto (e a sostenere le spese per la restituzione del bene, ma solo ove ciò sia espressamente previsto nel contratto), fatto salvo ovviamente il pagamento del servizio per il periodo in cui ne abbia goduto. Si parla, in proposito, appunto, di ius poenitendi o recesso di pentimento. Allo scopo di uniformare il regime del recesso all’interno della legislazione degli Stati membri, la dir. 2011/83 sui diritti dei consumatori è ancora una volta intervenuta su questo profilo di disciplina, fissando un unico termine di quattordici giorni e dettando una regola che dovrebbe scoraggiare la violazione dell’obbligo di informazione: se «il professionista non fornisce al consumatore le informazioni sul diritto di recesso», recita l’art. 10 della direttiva, «il periodo di recesso scade dodici mesi dopo la fine del periodo di recesso iniziale, come determinato a norma dell’art. 9, par. 2» (dunque dodici mesi e quattordici giorni). Il diritto di recesso trova così ora puntuale disciplina negli artt. 52 ss. cod. cons. all’interno della sezione II (del capo I, titolo III, parte III), dedicata alle «informazioni precontrattuali per il consumatore e diritto di recesso nei contratti a distanza e nei contratti negoziati fuori dei locali commerciali». In questi contratti, il consumatore ha il diritto di recedere dal contratto senza alcuna penalità e senza specificarne il motivo, entro il termine di quattordici giorni, la cui decorrenza non varia a seconda che si tratti di contratto a distanza o negoziato fuori dei locali commerciali, bensì in relazione alla natura del contratto e alle prestazioni che ne discendono. Il dies a quo decorrerà così dalla conclusione del contratto se si tratta di contratti di servizi o di fornitura di gas o elettricità, teleriscaldamento o di contenuto digitale non fornito su supporto materiale, ovvero, nel caso di contratto di vendita, dal momento in cui il consumatore o un terzo diverso dal vettore e designato dal consumatore, abbia conseguito il “possesso fisico” del bene (o dell’ultimo bene o lotto nel caso di più beni ordinati con un solo ordine o di bene costituito da lotti o pezzi multipli). Nei contratti di cui discorriamo è di tutta evidenza l’importanza del diritto di recesso libero e dunque anche la necessità che il consumatore abbia adeguata conoscenza di tale diritto. Il professionista ha pertanto l’obbligo di informare il consumatore delle condizioni, termini e procedure per l’esercizio del diritto di recesso, e di consegnargli il modulo ti-

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po di recesso (vedi art. 49, co. 1, lett. h), cod. cons.). In caso di «non adempimento dell’obbligo d’informazione sul diritto di recesso», la disciplina di fonte europea e dunque il diritto interno (vedi art. 53 cod. cons.), almeno fino ad oggi hanno individuato, quale rimedio espresso, il differimento della data di decorrenza del termine per l’esercizio del recesso ovvero il prolungamento di tale termine: il termine entro il quale il consumatore può esercitare il recesso è ora fissato in dodici mesi dopo la fine del periodo di recesso iniziale (i quattordici giorni con la decorrenza sopra indicata), se il professionista non ha fornito le informazioni sul recesso; rimane invece di quattordici giorni nel caso di informazione tardiva, purché fornita entro i dodici mesi dalla data di ordinaria decorrenza del periodo di recesso, ma in questo caso i quattordici giorni decorreranno dal giorno successivo a quello in cui il consumatore riceve le informazioni. Il diritto di recesso, che pure si atteggia a rimedio generale a disposizione del consumatore nei contratti di cui sopra, è escluso solo quando oggettivamente incompatibile con la natura del contratto e delle prestazioni: se trattasi ad esempio di contratto di prestazione di servizi e il servizio è stato interamente eseguito d’accordo con il consumatore che abbia pertanto rinunciato al diritto di recesso; se i beni o servizi forniti hanno un prezzo legato a fluttuazioni di mercato; se il bene è stato confezionato su misura o se è deteriorabile, se il consumatore ha convocato il professionista chiedendogli un lavoro di riparazione o manutenzione in via d’urgenza, ecc. (vedi art. 59 cod. cons.). Per i contratti (professionista/consumatore) aventi ad oggetto la commercializzazione a distanza di servizi finanziari (III, 8) il termine per l’esercizio del recesso è di quattordici giorni decorrenti dalla conclusione del contratto o dalla data in cui il consumatore ha ricevuto l’informazione prescritta dalla legge sulle condizioni contrattuali, termine esteso a trenta giorni per i contratti aventi ad oggetto assicurazioni sulla vita. Qui non è previsto uno spostamento in avanti della decorrenza del termine per il caso di violazione degli obblighi di informazione: il che si spiega agevolmente con la espressa previsione, per le operazioni da ultimo considerate, che durante la decorrenza del termine previsto per l’esercizio del diritto di recesso l’«efficacia dei contratti ... è sospesa» (art. 67 duodecies, co. 4) e con la più rigorosa sanzione della nullità del contratto nel caso in cui il fornitore, tra l’altro, «viola gli obblighi di informativa precontrattuale in modo da alterare in modo significativo la rappresentazione delle ... caratte-

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ristiche» del contratto (art. 67-septiesdecies, co. 4). D’altra parte, grava qui sul fornitore l’onere di provare «la prestazione del consenso del consumatore alla conclusione del contratto» (art. 67-vicies semel, co. 1, lett. b). Anche il consumatore che sia parte di un contratto di multiproprietà, come sopra ricordato, può esercitare il diritto di recesso libero di regola entro quattordici giorni dalla conclusione del contratto definitivo o preliminare o dalla data in cui riceve il contratto. La seconda dir. 2008/122/CE del 14-1-2009, cui si è fatto cenno sopra, interviene infatti in modo incisivo soprattutto sui termini e le modalità di esercizio del diritto di recesso, in connessione con una più efficace disciplina degli obblighi di informazione a carico del professionista. Per questo, come già detto, il decreto legislativo recante “Codice della normativa statale in tema di ordinamento e mercato del turismo, nonché attuazione della dir. 2008/122/ CE relativa ai contratti di multiproprietà, ai contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine e ai contratti di rivendita e di scambio”, rivede ed affina, in coerenza con le novità della direttiva, il regime di durata del recesso, spostando in avanti a partire dalla data di effettiva consegna al consumatore dei documenti informativi dovuti l’inizio di decorrenza del (più lungo) termine per il suo esercizio, nel caso in cui il formulario concernente le informazioni sul contratto e sui servizi da fornire al consumatore o il formulario concernente il diritto di recesso stesso non siano stati consegnati prima o all’atto della stipula del contratto come previsto (vedi ora art. 73 cod. cons., come modificato dal citato d.lgs. n. 79/2011 e i più lunghi termini, di tre mesi o un anno e quattordici giorni). Ai sensi dell’art. 125-ter t.u.b., il consumatore può recedere dal contratto di credito al consumo entro quattordici giorni decorrenti o dalla conclusione del contratto ovvero dal momento in cui il consumatore riceve tutte le condizioni e le informazioni previste dall’art. 125-bis, co. 1 (se tale momento è successivo). Ma, come abbiamo ricordato, alcune delle informazioni genericamente individuate nel co. 1 dell’art. 125-bis, sono poi qualificate “essenziali” nel co. 8 della medesima norma, con conseguente nullità del contratto che non le contenga. Sicché come è stato osservato (L. Modica), a meno di ritenere che il diritto di recesso copra solo la mancanza di informazioni “non essenziali”, si deve prospettare per il consumatore un doppio canale di tutela. Soluzione che ci sembra preferibile e che conferma come il recesso di pentimento, riguardato dal punto di vista dell’interesse del consumatore di liberarsi da un vincolo che lo penalizza già sul versante

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della piena conoscenza ed adesione alle condizioni contrattuali, si ponga nel pensiero del legislatore europeo come una alternativa semplice e rapida al regime delle invalidità. Il regime fin qui illustrato conferisce elementi di assoluta peculiarità al recesso di pentimento, nei contratti di consumo. L’accostamento con fattispecie di recessi legali che pure consentono alla parte di sciogliersi dal contratto anche senza una oggettiva giustificazione è abbastanza forzato: si fa l’esempio della revoca del mandato per volontà del mandante ma, come abbiamo visto, tale potere incontra subito il limite della giusta causa o quanto meno del preavviso quando venga in considerazione il controinteresse dell’altra parte, trattandosi di mandato oneroso. Da qui una certa difficoltà di inquadramento dell’istituto di fonte europea e il dubbio, affacciatosi di fronte alle prime direttive comunitarie, che, in pendenza del termine per l’esercizio del recesso di pentimento, il contratto non sia da considerarsi concluso: al consumatore sarebbe riconosciuto il diritto di recedere dalle trattative e non dal contratto, e dunque l’istituto segnalerebbe un peculiare profilo della rilevata procedimentalizzazione della conclusione del contratto, conclusione che qui si determinerebbe solo a seguito dello spirare del termine concesso al consumatore per recedere. In realtà le parti, ove non venga esercitato il recesso nei termini consentiti, non devono più manifestare alcun consenso e, argomento decisivo, il contratto, durante la pendenza del periodo consentito per l’esercizio del recesso, è trattato dalla legge come un contratto già perfezionatosi. «Le parti del contratto» recita l’art. 52, co. 3, cod. cons. nuovo testo, «possono adempiere ai loro obblighi contrattuali durante il periodo di recesso» (rimanendo solo escluso, per ovvie ragioni, che il professionista, nei contratti negoziati fuori dei locali commerciali, possa accettare come forma di pagamento effetti cambiari con scadenza inferiore a quindici giorni). E d’altra parte, precisa l’art. 55 disciplinando gli effetti del recesso, l’esercizio del diritto di recesso, pone termine agli obblighi delle parti di “eseguire il contratto” a distanza o negoziato fuori dei locali commerciali ovvero di concluderli nel caso di offerta fatta dal consumatore. Ulteriore conferma viene dal (nuovo) co. 3 dell’art. 74 cod. cons., come modificato dall’art. 2 del d.lgs. n. 79/2011, in forza del quale «l’esercizio del diritto di recesso da parte del consumatore ... pone fine all’obbligo delle parti di eseguire il contratto». Ne risulta che il diritto di recesso, almeno in questi casi, interviene a sciogliere un vincolo contrattuale già perfezionatosi e/o addirittura

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eseguito. Con i conseguenti obblighi di rimborso a carico del professionista e di restituzione a carico del consumatore (artt. 56 e 57 cod. cons.). La legge non esclude tuttavia che il recesso possa intervenire in una fase anteriore alla definitiva conclusione del contratto, ipotesi cui fa riferimento l’art. 55, co. 1, lett. b): l’esercizio del diritto di recesso pone termine anche eventualmente agli obblighi delle parti di concludere un contratto a distanza o negoziato fuori dei locali commerciali, nei casi in cui una offerta sia stata fatta dal consumatore. Le parti sono sciolte dalle rispettive obbligazioni derivanti dal contratto o dalla proposta contrattuale, fatte salve le obbligazioni di restituzione quando le obbligazioni derivanti dal contratto siano state in tutto o in parte eseguite. In tale ultima ipotesi, se è intervenuta la consegna del bene il consumatore è tenuto a restituirlo “senza indebito ritardo” e in ogni caso entro i quattordici giorni successivi alla comunicazione dell’intenzione di recedere (art. 57 cod. cons.) mentre il professionista è tenuto nello stesso termine al rimborso di tutti i pagamenti ricevuti (art. 56). Onde evitare che in qualunque modo si addossi anche in parte al consumatore un “costo” del recesso, la legge sancisce la nullità di clausole che prevedano limitazioni al rimborso nei confronti del consumatore delle somme versate in conseguenza dell’esercizio del diritto di recesso (art. 56, co. 1). Il consumatore è responsabile unicamente della diminuzione del valore dei beni «risultante da una manipolazione ... diversa da quella necessaria per stabilire la natura, le caratteristiche e il funzionamento dei beni»; ma tale diminuzione di valore rimarrà a carico del professionista se egli abbia omesso di informare il consumatore del suo diritto di recesso. Analogamente, il consumatore non sosterrà alcun costo per il servizio di cui abbia fruito prima del recesso, fra l’altro, anche se il professionista abbia violato gli obblighi di informazione sul diritto di recesso, o se egli non aveva dato espresso consenso a che la prestazione del servizio iniziasse in pendenza del termine per l’esercizio del recesso (art. 57, co. 4). In generale, la clausola che introduca un “costo” per l’esercizio del diritto di recesso (multa o caparra penitenziale) a carico del consumatore e non del professionista, determinando uno squilibrio tra gli obblighi delle parti, si presume vessatoria (art. 33, co. 1, lett. e). Tale disciplina si ritiene applicabile nei casi di recesso convenzionale: il diritto di recesso di pentimento, nei casi che abbiamo qui ricordato, è per legge gratuito e dunque qualsivoglia previsione di corrispettivo a carico del consumatore sotto for-

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ma di multa o caparra penitenziale sarebbe priva di titolo. A maggior tutela del consumatore, nei contratti di multiproprietà o affini, è vietato qualunque versamento di acconti da parte del consumatore, diversamente giustificati, prima della fine del periodo di recesso (art. 75 cod. cons.). Nel periodo di tempo concesso al consumatore, dunque, il contratto potrebbe anche avere avuto un principio di esecuzione e, in ogni caso, ha fatto sorgere il vincolo obbligatorio; sicché il recesso si atteggia, senza ombra di dubbio, a strumento di rimozione di effetti giuridici già prodottisi. Che sia questa la natura del diritto di recesso appare scontato alla Corte di giustizia, come traspare chiaramente da numerose pronunce: si veda per tutte la sentenza sul caso Travel Vac, causa C-423/97 del 22-4-1999. Si discorre dunque di un contratto validamente concluso e suscettibile di esecuzione. Quando peraltro vuole evitare che durante il tempo concesso al consumatore per recedere il contratto, pur sempre concluso, produca i suoi effetti, la legge espressamente ne «sospende l’efficacia», confermando indirettamente che questa è un’eccezione: è il caso già ricordato della commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori (art. 67 duodecies, co. 4, cod. cons.). La natura del contratto e la complessità dell’operazione possono rendere comunque svantaggioso per il consumatore sciogliersi da un contratto già eseguito, con i conseguenti obblighi restitutori a suo carico. Ci siamo già soffermati a suo tempo (IV, II, 31) sulla scelta ora consegnata all’art. 120 novies, co. 3, t.u.b., nei contratti di credito immobiliare ai consumatori, e sulle ragioni che la ispirano. Qui, come abbiamo detto, il legislatore accorda al consumatore il diritto ad un periodo di riflessione anteriore alla conclusione del contratto: «prima della conclusione del contratto di credito, il consumatore ha diritto ad un periodo di riflessione di almeno sette giorni per confrontare le diverse offerte di credito sul mercato, valutarne le implicazioni e prendere una decisione informata. Durante il periodo di riflessione, l’offerta è vincolante per il fornitore e il consumatore può accettare l’offerta in qualunque momento». La complessità dell’operazione economica e del rapporto contrattuale che andrà ad instaurarsi tra le parti – mutuo con garanzia immobiliare – sconsiglia di seguire la consueta scelta di collocare in fase successiva alla stipula un periodo di ponderazione a beneficio del consumatore e suggerisce il ricorso a un meccanismo di formazione progressiva del contratto, che vede il consumatore libero e il professionista vincolato da una proposta irrevocabile, seppure per un brevissimo periodo di tempo.

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Il recesso di pentimento è in definitiva strumento inedito, tipicamente coerente con le particolari modalità di contrattazione cui si riferisce, mirando a restituire al consumatore uno spazio di ponderazione della scelta di contrarre che quelle modalità gli hanno tolto. La conclusione del contratto tra professionista e consumatore, non più sancita dall’incontro di due volontà pienamente formatesi, magari a seguito di trattative, ma dall’adesione di un soggetto alla contrattazione standardizzata offertagli dall’altro, si perfeziona all’esito di più fasi (la procedimentalizzazione cui abbiamo fatto cenno), che vanno dalla pubblicità e/o informazione – come abbiamo visto in alcuni casi già vincolante per il professionista – alla conclusione del contratto, alla conferma implicita nel mancato esercizio del recesso da parte del consumatore adeguatamente informato. L’obiettivo è quello di scoraggiare nel professionista comportamenti e pratiche commerciali volte a catturare scorrettamente il consenso del consumatore. In quest’ottica manifestano chiaramente un carattere sanzionatorio le regole a proposito di forniture di beni o di servizi non richiesti (artt. 66-quinquies e 67-quinquiesdecies cod. cons.). Come abbiamo sopra ricordato, infatti, non solo, secondo una regola ormai consolidata nel nostro diritto, il silenzio, di per sé, non può costituire accettazione e dunque “l’assenza di risposta” da parte del consumatore che abbia ricevuto la fornitura o il servizio non richiesti “non costituisce consenso” di questi al contratto; ma, in tali casi, il consumatore non è tenuto ad alcuna prestazione corrispettiva a fronte della fornitura non restituita o del servizio di cui comunque abbia goduto, e il comportamento del professionista è sanzionato come pratica commerciale scorretta. Una funzione diversa, di carattere rimediale, ma sempre ex lege, ha il recesso consentito al consumatore in corso di rapporto, o come bilanciamento al potere unilaterale del professionista di modificare le condizioni del contratto, nei casi consentiti dalla legge, o per la natura del contratto (V, 4) o in caso di sopravvenienze che, pur integrando una impossibilità della prestazione non imputabile al professionista lo obbligano comunque a offrire una prestazione diversa (art. 42 cod. tur.: VIII, 15).

10. Elementi accidentali e governo degli effetti del contratto: il termine e la condizione Il codice, come abbiamo detto, consente alle parti di governare il se e

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il quando della produzione degli effetti di un contratto. Si parla al riguardo di elementi accidentali del contratto, per sottolineare che il contratto può ben esserne privo: la loro presenza è eventuale, e tuttavia, quando le parti li prevedano, essi entrano a far parte a pieno titolo del regolamento contrattuale e spiegano effetti su di esso. Le parti possono stipulare un contratto e tuttavia volerne differire ad un momento successivo la produzione degli effetti; così come, per converso, stabilire che gli effetti che esso è destinato a produrre nel tempo cesseranno in un certo momento. Il contratto sarà sottoposto, nel primo caso, ad un termine iniziale; mentre nel secondo caso si tratterà di un contratto di durata sottoposto ad un termine finale (essendo concettualmente impossibile prevedere un termine di cessazione degli effetti del contratto quando essi siano invece istantanei). Al termine, come elemento accidentale del contratto, così inteso, il codice civile non fa alcun cenno. Ben diverso è il termine cui si riferisce l’art. 1184, quale termine per l’adempimento della prestazione: cioè il momento, il tempo (stabilito dalle parti o dal giudice: art. 1183) in cui la prestazione deve essere eseguita, prima del quale di regola il creditore non può pretendere la prestazione (art. 1185) e trascorso il quale il debitore sarà in ritardo (e potrà essere costituito in mora o si troverà in mora senza che sia necessaria la costituzione, secondo quanto previsto dall’art. 1219). Il mancato rispetto del termine di adempimento, quando tale termine debba considerarsi essenziale nell’interesse del creditore, potrà condurre allo scioglimento del contratto (a prestazioni corrispettive), ma si tratterà in questo caso di risoluzione (stragiudiziale) per inadempimento (VIII, 9). Il termine cui ci riferiamo, quale elemento accidentale apposto al contratto dalle parti, ha la differente funzione di scandire sotto il profilo temporale il dispiegarsi degli effetti del contratto, con riguardo al momento a partire dal quale si produrranno gli effetti del contratto o trascorso il quale essi verranno meno. Il termine potrà essere indicato con una data ovvero con rinvio alla produzione di un evento futuro, che ovviamente dovrà essere certo (es. il contratto di locazione di un appartamento cesserà allo scadere del terzo anno successivo al completamento di lavori di ristrutturazione effettuati dal locatario). Il termine finale farà cessare, ma con effetto dal suo compiersi, gli effetti del contratto, rimanendo ovviamente salvi quelli compiutisi fino a quel momento. Diversa la funzione della condizione, ampiamente disciplinata dal

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codice: il contratto “condizionale”, menzionato all’art. 1353, è il contratto nel quale le parti abbiano subordinato l’efficacia (condizione sospensiva) o la risoluzione (condizione risolutiva) del contratto o di un singolo patto ad “un avvenimento futuro e incerto”. Bisogna intendersi su questi caratteri che attengono alla collocazione temporale dell’evento (futuro) e alla incertezza. L’efficacia del contratto di compravendita può ben essere subordinata alla circostanza che l’immobile venduto sia libero da vincoli ipotecari o da altri oneri o che le risultanze catastali corrispondano alla situazione di fatto: trattasi di situazioni giuridiche già esistenti al momento della stipulazione e tuttavia nello stesso momento ignote ai contraenti, che attendono gli esiti di futuri accertamenti e dunque futuro non è il fatto ma il suo accertamento. D’altra parte l’incertezza può essere soggettiva o oggettiva: le parti stipulano un contratto preliminare di compravendita ma prevedono che il contratto dovrà intendersi risolto se entro il termine previsto per la stipula del definitivo l’acquirente non abbia avuto concesso il mutuo che ha richiesto alla propria banca. La condizione risolutiva rinvia ad un evento – concessione o diniego del mutuo bancario – che al momento della stipula del preliminare potrebbe già essersi verificato, essendosi completato l’iter interno all’istituto di credito, pur se la circostanza non sia ancora venuta a conoscenza delle parti. Il termine evento, dunque, non deve intendersi come sinonimo di accadimento naturale, ma riferito a fatti ed altresì ad atti, ad esempio della Pubblica Amministrazione o di organi giudiziari. In applicazione delle regole generali, l’apposizione di una condizione illecita, sia essa sospensiva o risolutiva, rende nullo il contratto. Mentre si comporta diversamente la condizione impossibile: subordinare il prodursi degli effetti del contratto ad un evento impossibile equivale a non voler far nascere alcun contratto e per questo la condizione impossibile sospensiva rende nullo il contratto, mentre subordinare ad un evento impossibile la cessazione degli effetti del contratto equivale a voler dotare della ordinaria stabilità tali effetti e per questo la condizione impossibile risolutiva si considera come non apposta. La “causalità” della condizione – che dovrebbe essere la regola – presuppone in definitiva l’estraneità dell’accadimento alla sfera di intervento delle parti. Tuttavia, anche alla luce del disposto di cui all’art. 1355 che fa riferimento alla condizione meramente potestativa, si ritengono valide la condizione potestativa e la condizione mista. La condizione meramente potestativa, di cui all’art. 1355, è quella in

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cui l’evento dipenda dalla mera volontà della parte, o, come suole dirsi, dal suo arbitrio. Se un evento dipendente dalla mera volontà della parte o delle parti è dedotto in condizione risolutiva, il contratto potrà ben produrre i suoi effetti e semmai dovrà indagarsi la volontà delle parti per verificare se esse non abbiamo inteso prevedere un potere di recesso della o delle parti. Non così se si tratta di condizione sospensiva, poiché la dipendenza dalla mera volontà della parte che dovrebbe spogliarsi di un diritto o obbligarsi denuncia un intento non serio di vincolarsi. Dunque, recita l’art. 1355, è nulla l’alienazione di un diritto o l’assunzione di un obbligo subordinata ad una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell’alienante o, rispettivamente, da quella del debitore. Condizione potestativa è invece evento che dipende dalla decisione o dal comportamento di una parte, ma a cui la parte potrà determinarsi in relazione alla ponderazione di un proprio interesse: così, ad esempio, se gli effetti di un contratto di locazione sono sottoposti alla condizione sospensiva del trasferimento del locatario da una città ad un’altra, evento che suppone non una mera volontà e un capriccio della parte, ma una ponderazione di interessi (in relazione ad esigenze familiari, di lavoro, ecc.). «La condizione non può essere considerata meramente potestativa, quando l’evento dedotto in condizione sia collegato a valutazioni di interesse e di convenienza e si presenti come alternativa capace di soddisfare anche l’interesse proprio del contraente; soprattutto se la decisione sia affidata al concorso di fattori estrinseci, idonei ad influire sulla determinazione della volontà, pur se la relativa valutazione sia rimessa all’esclusivo apprezzamento dell’interessato. La condizione è invece meramente potestativa se è stata rimessa al mero arbitrio del contraente, nel senso che il suo avveramento sia svincolato da qualsiasi razionale valutazione di opportunità e convenienza, sì da manifestare l’assenza di una seria volontà della parte di ritenersi vincolata dal contratto». (Cass. 26-8-2014, n. 18239) La condizione è mista quando l’evento dedotto dipende in parte dal caso o da scelte estranee alla sfera di influenza delle parti ed in parte da

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atti della parte, pur se non arbitrari. Esempio molto diffuso nella prassi è quello del contratto di compravendita sospensivamente condizionato all’ottenimento, da parte del compratore, di un finanziamento. Nel contratto con cui A acquista dalla società B un autocarro, subordinandone l’efficacia alla circostanza che gli venga erogato il finanziamento richiesto per l’acquisto alla finanziaria C, l’evento dedotto in condizione – concessione del finanziamento – è di sicuro dipendente da circostanze estranee alle parti e da scelte di competenza di terzi (la società finanziaria a cui è stato chiesto il prestito) ma non esclusivamente: l’evento dedotto in condizione, infatti, avrà possibilità di realizzarsi solo se concorrerà anche il comportamento di A, il quale dovrà rispettare termini e adempimenti richiesti perché la sua richiesta di prestito possa essere esaminata ed andare se possibile a buon fine. Nel caso di contratto condizionato la fattispecie cui la volontà delle parti ha dato vita è in via di completamento, nel senso che si perfezionerà, con conseguenze appunto sulla sua efficacia, solo subordinatamente al verificarsi o meno della condizione: in dipendenza del verificarsi della condizione sospensiva si produrranno gli effetti e in dipendenza del verificarsi o meno della condizione risolutiva cesseranno o si stabilizzeranno gli effetti già prodotti. Gli effetti dell’avveramento della condizione sono retroattivi e retroagiscono al momento in cui il contratto è stato concluso, salvo che le parti abbiano concordemente pattuito che debbano essere riportati ad un momento diverso o che ciò imponga la natura del rapporto. Nel caso di contratti di durata (ad esecuzione continuata o periodica) interviene la regola generale secondo cui, salvo patto contrario, con l’avverarsi della condizione risolutiva non vengono comunque travolte le prestazioni già eseguite (art. 1360 co. 2). Per questo il codice si preoccupa di regolare la situazione di pendenza della condizione (artt. 1356 e 1357). In pendenza della condizione si fronteggiano infatti la posizione di chi ha attualmente il diritto, per averlo acquistato seppure sotto condizione risolutiva o non ancora trasferito data la pendenza della condizione sospensiva e di chi potrebbe recuperarlo o acquistarlo, una volta verificatasi (con effetto retroattivo) la condizione risolutiva o realizzatosi l’evento dedotto in condizione sospensiva. Chi ha un diritto sottoposto a condizione sospensiva o risolutiva, potrà disporne, ma gli effetti dell’atto di disposizione (esempio cessione a sua volta a terzi del diritto) rimarranno parimenti subordinati alla condizione (art. 1357). Ma saranno invece fatti salvi gli atti di am-

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ministrazione compiuti da chi ha esercitato il diritto in pendenza della condizione, il quale farà propri i frutti percepiti, dovendo restituire solo quelli percepiti dal giorno in cui si è avverata la condizione (art. 1361). Chi acquista un diritto con contratto sottoposto a condizione sospensiva, in questa fase di pendenza, non ne è ancora divenuto titolare e tuttavia la legge tutela la sua aspettativa, consentendogli, come dispone l’art. 1356 al co. 1, di “compiere atti conservativi”: ad esempio chiedere un sequestro giudiziario che garantisca la custodia o la gestione temporanea di una azienda acquistata con contratto sospensivamente condizionato. E lo stesso, specularmente, è previsto a tutela della parte che ha trasferito un diritto sulla base di un contratto i cui effetti potrebbero venire meno in dipendenza di una condizione risolutiva: chi ha acquistato il diritto potrà esercitarlo, ma l’altra parte – al quale il diritto potrebbe ritornare una volta avveratasi la condizione risolutiva – può compiere atti conservativi a tutela della propria aspettativa (art. 1356 co. 2). Regole particolari che specificano, ma senza eliderne la portata generale, il dovere di buona fede che incombe sulla parte chiamata a non pregiudicare, nella fase di pendenza della condizione, l’eventuale acquisto o riacquisto del diritto del suo partner contrattuale. Chi si è obbligato ovvero ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva così come chi ha acquistato un diritto sotto condizione risolutiva sa bene che tali effetti possono essere, rispettivamente, prodotti o travolti dall’avverarsi della condizione e che dunque la propria controparte confida nell’acquisto del bene o nell’esercizio di una pretesa obbligatoria in atto sotto condizione sospensiva ovvero nel ritorno nella propria sfera giuridica del diritto trasferito sotto condizione risolutiva: egli deve dunque «comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte», secondo quanto dispone l’art. 1358. Tale obbligo di buona fede si riferisce dunque in prima istanza a comportamenti che possano pregiudicare l’esercizio del diritto per il quale la controparte vanta una situazione di aspettativa: sarà ad esempio contrario a buona fede il comportamento di chi, pendente la condizione sospensiva a cui è subordinato l’obbligo di effettuare una determinata fornitura, lasci deperire i macchinari necessari a produrre secondo standard di qualità attesi dalla controparte (creditore sotto condizione sospensiva), le merci promesse. Ma l’obbligo di buona fede abbraccia altresì comportamenti che possano pregiudicare le attese della controparte interferendo anche sul verificarsi o meno dell’evento dedotto in condizione.

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La distinzione tra condizione causale e condizione potestativa o mista non è priva a questo riguardo di conseguenze. Torna infatti in rilievo il ruolo che le determinazioni delle parti possono avere ai fini dell’avveramento della condizione, a seconda che essa sia causale ovvero potestativa o mista. Nella condizione casuale l’evento è del tutto fuori dalla sfera di interferenza della o delle parti. Ma nel caso in cui l’avverarsi della condizione dipenda seppure in parte da atti di uno dei contraenti, che potrebbe avere interesse al non avverarsi della condizione, il comportamento di quest’ultimo potrà non solo essere censurato alla stregua del canone di buona fede ma addirittura, secondo quanto prevede l’art. 1359, provocare la c.d. finzione di avveramento della condizione. L’architetto A e la società X stipulano un contratto di prestazione d’opera professionale in base al quale la società si avvarrà delle prestazioni dell’architetto per la realizzazione di un complesso turistico-alberghiero. Le parti convengono che una parte del compenso sarà corrisposta subordinatamente al rilascio della concessione edilizia, così inserendo una condizione sospensiva. L’ottenimento della concessione, atto della P.A., è ovviamente subordinato alla presentazione della istanza e della relativa documentazione da parte della società. Trattasi di condizione mista e pertanto il comportamento della società committente che addirittura ritiri il progetto redatto dall’architetto ai fini della concessione edilizia, ritenendolo non più di suo interesse, è comportamento contrario a buona fede, che potrà condurre all’applicazione dell’art.1359 c.c. Accertato che il mancato avverarsi della condizione sia dovuto proprio al suo comportamento omissivo, e dunque imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento, la condizione “si considera avverata”, ai sensi dell’art. 1359 c.c. La società sarà dunque tenuta ad eseguire il contratto come se la condizione ivi dedotta si fosse avverata. Chiarissima, in tal senso, la sintesi dei princìpi affermati dalla S.C., anche a Sezioni Unite, nella recente pronuncia che si riporta, relativa proprio alla fattispecie sopra richiamata. «Questa Corte ha più volte affermato che il contratto sottoposto a condizione potestativa mista è soggetto alla disciplina di cui all’art. 1358 cod. civ., che impone alle parti l’obbligo giuridico di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione (Cass., sez. un., 19 settembre 2005, n. 18450; Cass. 28 luglio 2004, n. 14198), ed ha precisato

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che l’omissione di un’attività intanto può ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità, in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico; la sussistenza di un siffatto obbligo deve affermarsi anche per il “segmento” non casuale della condizione mista, in quanto gli obblighi di correttezza e buona fede, che hanno la funzione di salvaguardare l’interesse della controparte alla prestazione dovuta e all’utilità che la stessa assicura, impongono una serie di “comportamenti di contenuto atipico”, che assumono la consistenza di “standard” integrativi di tali principi generali, e sono individuabili mediante un giudizio applicativo di norme elastiche e soggetto al controllo di legittimità al pari di ogni altro giudizio fondato su norme di legge. Come già osservato dalle Sezioni Unite con la sentenza sopra richiamata, l’art. 1358 c.c. dispone che “colui che si è obbligato o che ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva, ovvero lo ha acquistato sotto condizione risolutiva, deve, in pendenza della condizione, comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte”. La norma s’inserisce nell’ambito applicativo della clausola generale della buona fede, operante nel diritto dei contratti sia in sede di trattative e di formazione del contratto medesimo (art. 1337 c.c.), sia in sede d’interpretazione (art. 1366 c.c.), sia in sede di esecuzione (art. 1375 c.c.). La fonte dell’obbligo giuridico de quo, dunque, si trova appunto nel citato art. 1358, che lo stabilisce al fine di “conservare integre le ragioni dell’altra parte” e dunque gli attribuisce un chiaro carattere doveroso. Né convince la tesi secondo cui tale obbligo andrebbe escluso per il profilo attuativo dell’elemento potestativo della condizione mista. Invero, il principio di buona fede (intesa, questa, nel senso sopra chiarito come requisito della condotta) costituisce ad un tempo criterio di valutazione e limite anche del comportamento discrezionale del contraente dalla cui volontà dipende (in parte) l’avveramento della condizione. Tale comportamento non può essere considerato privo di ogni carattere doveroso, sia perché – se così fosse – finirebbe per risolversi in una forma di mero arbitrio, contrario al dettato dell’art. 1355 c.c. sia perché aderendo a tale indirizzo si verrebbe ad introdurre nel precetto dell’art. 1358 una restrizione che questo non prevede e che, anzi, condurrebbe ad un sostanziale svuotamento del contenuto della norma, limitandolo all’elemento casuale della condizione mista, cioè ad un elemento sul quale la condotta della parte (la cui obbligazione è condizionata) ha ridotte possibilità d’incidenza, mentre la posizione giuridica dell’altra parte resterebbe in concreto

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priva di ogni tutela. Invece è proprio l’elemento potestativo quello in relazione al quale il dovere di comportarsi secondo buona fede ha più ragion d’essere, perché è con riguardo a quell’elemento che la discrezionalità contrattualmente attribuita alla parte deve essere esercitata nel quadro del principio cardine di correttezza. Si deve, perciò, affermare che il contratto sottoposto a condizione mista è soggetto alla disciplina dell’art. 1358 c.c. che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione. È vero che l’omissione di un’attività in tanto può costituire fonte di responsabilità in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, ma tale obbligo, in casi come quello in esame, discende direttamente dalla legge e, segnatamente, dall’art. 1358 c.c., che lo impone come requisito della condotta da tenere durante lo stato di pendenza della condizione, e la sussistenza di un obbligo siffatto va riconosciuta anche per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo di una condizione mista. Pertanto il giudice del merito deve procedere ad un penetrante esame della clausola recante la condizione e del comportamento delle parti, nel contesto del negozio in cui la clausola stessa è contenuta, al fine di verificare, alla stregua degli elementi probatori acquisiti, se corrispondano ad uno standard esigibile di buona fede le iniziative poste in essere al fine di ottenere il finanziamento. A tale orientamento va data continuità. Inoltre, va rilevato che questa Corte ha anche condivisibilmente affermato che alla condizione potestativa mista è pure applicabile l’art. 1359 cod. civ., secondo cui la condizione si considera avverata qualora sia mancata per fatto imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa. A tanto deve aggiungersi che secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che pure va condiviso (v. Cass. 18 novembre 2011, n. 24325), l’art. 1359 cod. cod., allorché fa riferimento alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento della condizione, non intende riferirsi soltanto a coloro che, per contratto, apparivano avere interesse al verificarsi della condizione, ma anche ai comportamenti di chi, in concreto, ha dimostrato con una successiva condotta di non avere più interesse al verificarsi della condizione ponendo in essere atti tali da contribuire a fare acquistare al contratto un elemento modificativo dell’iter attuativo della sua efficacia». (Cass. 14-12-2012, n. 23014)

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Il riferimento all’interesse della parte alla determinazione dell’evento dedotto in condizione (condizione potestativa o mista) ovvero all’interesse della parte contrario all’avveramento della condizione, non deve confondersi con l’ipotesi, pure ammessa in dottrina e giurisprudenza, di condizione unilaterale: ci si riferisce in questo caso alla condizione che per volontà delle parti (che deve però essere espressa o comunque desumibile da specifici elementi a seguito di interpretazione del contratto) sia stata pattuita nell’esclusivo interesse di una parte e non, come avviene in generale per la condizione, a quello di entrambe. L’approvazione di modifiche alla destinazione urbanistica di un terreno, dedotta in condizione sospensiva o risolutiva di un contratto preliminare, può ben risultare, espressamente o comunque in via interpretativa, pattuita nell’esclusivo interesse del promissario acquirente. Si ammette in generale che le parti siano libere di pattuire una condizione unilaterale e che in questo caso la parte contraente, nel cui interesse è posta la condizione, ha la facoltà di rinunziarvi sia prima, sia dopo l’avveramento o il non avveramento di essa, senza che la controparte possa comunque ostacolarne la volontà. In realtà si è opportunamente osservato in giurisprudenza che, una volta verificatasi (o non verificatasi) la condizione, non ha senso parlare di “rinunzia” ai suoi effetti, potendosi rinunziare ai diritti ma non ai fatti. E la dottrina ha messo in evidenza come nell’ipotesi di condizione unilaterale la sorte del rapporto contrattuale non è legata solo all’avveramento o alla mancanza dell’evento dedotto, ma dipende altresì dalla volontà del contraente interessato. Se trattasi di condizione sospensiva, il mancato avveramento di essa non preclude ad esempio nel caso di preliminare al promissario acquirente di non avvalersene e così far produrre effetti al contratto. Se trattasi invece di condizione risolutiva, l’avverarsi dell’evento dedotto in condizione dovrebbe travolgere gli effetti del contratto ma scegliendo se rinunciare o meno ad avvalersi della condizione prevista nel suo interesse la parte in definitiva avrà il potere di sciogliersi dal vincolo o meno. Per questo i giudici hanno ravvisato nella pattuizione di una condizione unilaterale sospensiva la previsione in favore della parte “favorita” di un diritto di opzione, ed accostato la pattuizione di una condizione unilaterale risolutiva al riconoscimento alla parte di un diritto di recesso. Da sempre controversa, specie in dottrina, l’ammissibilità di una condizione in cui l’evento incerto dedotto in condizione (unilaterale) sia l’adempimento o l’inadempimento di una delle parti alle obbligazioni

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contrattuali. Il dubbio non attiene alla pretesa natura di condizione meramente potestativa: la condizione (di adempimento) risolutiva in realtà, chiarisce la S.C., attribuisce alla parte il diritto di recesso unilaterale dal contratto, dunque viene qui comunque in gioco una valutazione ponderata degli interessi della parte e l’efficacia del contratto non ne risulta rimessa alla scelta meramente arbitraria di questa. Ne discende l’ammissibilità, nell’ambito delle scelte di autonomia privata lasciate alle parti, e la validità. Le perplessità avanzate dalla dottrina tradizionale e tuttavia destinate a riaffacciarsi periodicamente nel dibattito attengono piuttosto alla difficile configurabilità dell’adempimento, al contempo, quale atto dovuto che si origina dal vincolo contrattuale e quale evento condizionante il vincolo, in principio esterno al piano della vicenda obbligatoria originatasi dall’accordo. In concreto, non sarà senza conseguenze stabilire, in sede di interpretazione della volontà delle parti, se trattasi di condizione risolutiva di (in)adempimento ovvero di clausola risolutiva espressa: nel secondo caso, come si vedrà, l’effetto risolutivo non è automatico ma consente alla parte creditrice di dichiarare di non volersene avvalere e intervengono le conseguenze in tema di responsabilità contrattuale per inadempimento (risarcimento del danno) (VIII, 9 e 10). Nei contratti a titolo gratuito o caratterizzati da spirito di liberalità, cioè nella donazione può essere apposto quale elemento accidentale un onere (modus) che obbliga il beneficiario ad una prestazione o a destinare in parte ad una determinata finalità quanto ricevuto. Si pensi, nel caso di donazione modale, all’onere di assistenza verso il donante o all’obbligo di mettere a disposizione del donante il godimento di parte del bene donato. La presenza dell’onere non muta la natura giuridica della donazione, e non altera la causa gratuita del contratto, trasformandolo in contratto a prestazioni corrispettive, così come il carattere essenzialmente gratuito del comodato non viene meno per effetto della apposizione, a carico del comodatario, di un «modus di consistenza tale da non poter integrare le caratteristiche di corrispettivo del godimento del bene». Conseguentemente, la giurisprudenza esclude che la donazione modale, in caso di inadempimento dell’onere, possa essere risolta di diritto in virtù di clausola risolutiva espressa, prevista per i contratti a prestazioni corrispettive.

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11. La presupposizione Si parla di “condizione non sviluppata” o “implicita” a proposito di una figura abbastanza controversa in dottrina, e tuttavia ammessa dalla giurisprudenza, quale la presupposizione. Le parti stipulano un contratto preliminare di vendita e, al fine di sottrarsi alla stipula del definitivo ed alla responsabilità conseguente all’inadempimento del preliminare, il promissario acquirente adduce che la stipula del definitivo doveva intendersi comunque subordinata alla concessione ed erogazione in proprio favore del mutuo per l’acquisto, circostanza non trasferita espressamente in una clausola (come condizione sospensiva o risolutiva), ma ben presente al promittente venditore. L’area ricoperta dalla presupposizione è dunque quella, abbastanza incerta, ricompresa tra l’ambito dei motivi, in generale non rilevanti nella vicenda contrattuale e quella delle circostanze che, all’opposto, essendo strettamente ed oggettivamente connesse alla realizzazione dell’assetto di interessi delineato dalle parti (esempio qualità del bene), rientrerebbero a pieno titolo nella nozione di causa in concreto. Non rientrandosi né nell’una né nell’altra ipotesi, e non essendo stato il presupposto condizionante enunciato (con l’apposizione di una vera e propria condizione), ci si è chiesto se ed in che limiti, e con quali conseguenze, esso possa rilevare nella vicenda contrattuale. Perché ricorra una “presupposizione” – rilevante nella vicenda contrattuale – occorre dunque, come ricorda ancora di recente una ordinanza della S.C. (4-5-2015, n. 8867), che ricorra una «obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura), che è stata tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso – pur in mancanza di espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali – come presupposto condizionante la validità e l’efficacia del negozio», situazione (ecco il secondo importante requisito) «il cui venir meno o ... verificarsi ... sia del tutto indipendente dall’attività e volontà dei contraenti» e non corrisponda «integrandolo, all’oggetto di una specifica obbligazione dell’uno o dell’altro». Dunque presupposti oggettivi che, pur non attenendo alla causa del contratto o al contenuto della prestazione, e rimaste esterne al contratto in quanto non espressamente dedotte in condizione, assumono una importanza determinante ai fini della conservazione del vincolo contrattuale, o per entrambe le parti o per una sola di esse, ma con la consapevolezza e il riconoscimento di ciò da

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parte dell’altra. Pur con qualche oscillazione, la S.C. individua il rimedio nell’esercizio del potere di recesso (Cass. 13-10-2016, n. 20620), escludendo sia la legittimazione della parte a chiedere una declaratoria di nullità del contratto sia che si configuri una causa di risoluzione (Cass. 25-5-2007, n. 12235). Non la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (VIII, 17), la quale precisa la Corte «viceversa rileva a prescindere dalla volontà delle parti, quale rimedio dall’ordinamento concesso in reazione all’alterazione non già dei presupposti specifici (valorizzati appunto dalla presupposizione) bensì dei presupposti generici del contratto, subordinandone cioè il mantenimento alla persistenza delle normali condizioni di mercato e di vita sociale su di esso incidenti», ma neppure la risoluzione per impossibilità sopravvenuta (VIII, 14).

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CAPITOLO SETTIMO

IL CONTROLLO SULL’ATTO E IL REGIME DELLE INVALIDITÀ

SOMMARIO 1. Sanzioni e rimedi. – 2. Invalidità e inefficacia. – 3. La nullità: la funzione e le cause. – 4. La nullità (virtuale) del contratto contrario a norme imperative. – 5. La nullità strutturale. – 6. La nullità testuale. – 7. Il regime generale della nullità. – 8. La (o le) nullità di protezione: il paradigma dell’art. 36 cod. cons. e le sue varianti. – 9. La nullità di protezione quale strumento di controllo e di conformazione dell’assetto di interessi. – 10. L’unitarietà dell’istituto della nullità e il (falso) problema della compatibilità tra dichiarazione ex officio e interesse della parte protetta. – 11. L’annullabilità: le cause e la funzione. – 12. Il regime dell’annullabilità. – 13. La rescissione. – 14. (Segue). Contratto rescindibile e contratto usurario.

1. Sanzioni e rimedi Abbiamo ricordato in apertura del nostro volume che la disciplina dei contratti è affidata, almeno in linea generale, a norme dispositive, che possono essere cioè derogate dalle parti e che svolgono una funzione di supplenza (c.d. norme suppletive) nel caso in cui un aspetto del regolamento contrattuale non sia stato determinato dall’accordo delle parti; ma che quando sono in gioco interessi generali e princìpi fondamentali che la legge non consente ai privati di mettere in discussione l’autonomia contrattuale trova invece limiti in norme inderogabili (o imperative): alcune espressioni di autonomia privata – si tratti di un contratto o di alcune sue clausole – sono dunque vietate. Il controllo più penetrante sulla meritevolezza dell’atto di autonomia privata, come abbiamo visto, si realizza da parte dell’ordinamento per il tramite della verifica sulla esistenza e liceità della causa. Più in generale, occorre an-

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cora una volta ribadire, se l’accordo di due o più parti può produrre gli effetti giuridici voluti – far nascere un vincolo obbligatorio del quale si potrà pretendere il rispetto dinanzi al giudice, consentire il trasferimento di un diritto da un soggetto ad un altro – è perché la legge riconosce ad esso tale effetto (art. 1372 c.c.). È pur sempre l’ordinamento giuridico, secondo le sue regole – che possono variare da uno Stato all’altro – che determina i presupposti e le condizioni affinché l’atto di autonomia privata possa produrre effetti giuridici, rilevanti dunque per l’ordinamento e da questo riconosciuti. Lo rende esplicito l’art. 1325 c.c. che indica quali requisiti debba avere l’atto di autonomia per definirsi contratto: l’accordo delle parti; la causa; l’oggetto; la forma, quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità. Abbiamo preannunciato che la mancanza di tali elementi (o anche soltanto di uno di essi), o la loro non conformità ai caratteri che devono per legge rivestire, costituisce causa di nullità del contratto ai sensi dell’art. 1418, co. 2, c.c. Si è visto, ancora, che la volontà negoziale, per dar vita ad un valido accordo, deve essere espressa dal soggetto che abbia la capacità di compiere atti giuridici, cioè la capacità di agire, e deve essersi formata liberamente e senza condizionamenti di sorta. Ed è la disciplina dei vizi della volontà – errore, violenza e dolo – che interviene ad assicurare tale libertà e spontaneità, consentendo alla parte che abbia prestato il suo consenso a seguito di errore, violenza o dolo (come alla parte incapace di agire) di chiedere l’annullamento del contratto. L’ordinamento giuridico dunque, innanzitutto, traccia i confini entro i quali può liberamente esprimersi l’autonomia dei privati e, determinando presupposti e condizioni perché si abbia un contratto, idoneo a produrre effetti giuridici, offre ai privati schemi e modelli astratti ai quali le loro scelte devono conformarsi. Sotto altro profilo, una volta accordata rilevanza e protezione alle scelte con cui i privati regolano le loro relazioni e interessi di natura patrimoniale, vincolandosi con un atto che ha forza di legge tra di esse (art. 1372 c.c.), l’ordinamento deve farsi carico di assicurare la piena realizzazione dell’assetto di interessi così delineato in conformità alle regole legali e nel rispetto dell’originario “programma” voluto dalle parti. I punti di osservazione dai quali si pone l’ordinamento sono diversi. Il rispetto o la violazione delle norme imperative, come della “struttura”, cioè dei requisiti, che il contratto deve presentare (ivi compresi i caratteri che i requisiti devono avere, vale a dire volontà espressa esente

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da vizi, liceità della causa o dell’oggetto, ecc.) attengono al modo stesso in cui il contratto si forma, e “nasce”. Per questo si sottolinea giustamente che la nullità, l’annullamento, ma anche la rescissione per lesione (che come diremo colpisce il perturbamento della volontà negoziale dovuto a stato di bisogno o pericolo, non in sé, ma in quanto, a seguito di approfittamento dell’altra parte, abbia prodotto rilevante sproporzione tra le prestazioni) colpiscono difetti originari (vizi genetici) del contratto. Altrettanto corretto è affermare che qui la legge ha riguardo al contratto come atto, se con ciò si vuole sottolineare come il controllo di conformità alle regole legali si appunta sull’espressione dell’autonomia privata consegnata al contratto nel momento della conclusione di questo; fermo restando tuttavia, come vedremo, che talune delle censure da cui si origina la nullità, come anche i presupposti che danno luogo alla rescindibilità del contratto concluso in stato di pericolo o di bisogno, si volgono a considerare l’atto quale fonte del regolamento contrattuale e dell’assetto di interessi (dunque il rapporto contrattuale) che vi si delinea e che incontra la disapprovazione dell’ordinamento. Diversa è l’ottica con cui l’ordinamento si volge al controllo del contratto nella fase della sua esecuzione, e dunque del rapporto contrattuale, per reagire a patologie sopravvenute che possano impedirne il buon fine. Che accadrà se una o più prestazioni dedotte in obbligazione non possono essere più eseguite? O se una delle parti sarà inadempiente? Accanto ai rimedi che presidiano in generale il regime delle obbligazioni – l’impossibilità sopravvenuta della prestazione libera il debitore dalla sua obbligazione ai sensi dell’art. 1256 ss. c.c., mentre l’inadempimento, se dovuto a causa a lui imputabile, lo espone alla responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. – occorrerà stabilire quale sia in questi casi la sorte del contratto nel caso in cui la prestazione o le prestazioni non più eseguibili o non eseguite correttamente trovino corrispondenza, nel regolamento di interessi delineato dalle parti, nella o nelle controprestazioni a carico dell’altra parte, vale a dire nei contratti a prestazioni corrispettive o sinallagmatici (IV, IV, 6). In questa prospettiva – osserva la dottrina (A. Luminoso) – «in presenza del mancato o inesatto adempimento dell’obbligazione, mentre il compito dell’art. 1218 (e dell’art. 1256) è quello di regolare le vicende dell’obbligazione violata, la funzione dell’art. 1453 ss. (e dell’art. 1463 ss.) è quella di regolare la sorte dell’altra obbligazione ...». Ancor più evidente il riferimento a patologie sopravvenute durante la vita del contratto, nel caso della risoluzione

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per eccessiva onerosità. Per questo si sottolinea di solito che la risoluzione (VIII) interviene con riguardo a difetti sopravvenuti del contratto, o più precisamente difetti di funzionamento del sinallagma contrattuale. Partendo dalla diversa natura e collocazione temporale dei difetti cui l’ordinamento reagisce, è possibile porre in evidenza anche una ulteriore distinzione, idonea a palesare efficacemente anche l’obiettivo cui tende l’ordinamento e dunque in definitiva la natura stessa degli strumenti approntati. Allorché colpisce (con la nullità) il contratto contrario a norme imperative o privo dei requisiti essenziali, la legge intende escludere in radice che tale atto possa avere la forza di produrre effetti giuridicamente rilevanti. La reazione a manifestazioni di volontà delle parti come quelle ora menzionate è volta a tutelare interessi che la legge intende sottrarre alle scelte private (da qui le norme imperative) ovvero mira a negare riconoscimento a espressioni dell’autonomia privata non conformi ai modelli legali minimi all’uopo indicati (i requisiti di cui all’art. 1325). È evidente, già nei presupposti, che lo strumento ha lo scopo di esprimere e presidiare il netto disfavore dell’ordinamento per queste manifestazioni di autonomia privata: da qui, come vedremo, un regime che – se si considera la radicalità della caducazione del contratto e degli effetti, ma anche la rilevabilità d’ufficio della nullità – mette maggiormente in evidenza, almeno in via generale, la natura sanzionatoria della nullità. Differentemente, quando, nei contratti corrispettivi, fornisce alla parte una serie (alternativa) di strumenti per reagire all’inadempimento della sua controparte, compreso quello che consente il venir meno del contratto, cioè la risoluzione (per inadempimento), l’ordinamento intende farsi carico dell’interesse della parte, ed offrirgli i modi “gestire” le conseguenze giuridiche di tali intervenute patologie del rapporto giuridico. In questo caso si evidenzia quella che opportunamente viene valorizzata in dottrina come la natura rimediale della tecnica giuridica: tecnica che presidia in questo caso interessi particolari, della parte contraente, e per questo è lasciata alla sua disponibilità (il contraente potrà chiedere la risoluzione del contratto o l’esatto adempimento salvo il risarcimento del danno, recedere nel caso di cui all’art. 1385, potrà tollerare l’inadempimento senza ricorrere ad alcun rimedio, ecc.). La risoluzione può essere chiesta dalla parte ma non da chiunque vi abbia interesse né essere pronunciata d’ufficio dal giudice: il regime, come meglio vedremo, è ancora una volta coerente con la funzione dello strumento, quale mezzo

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di “reazione” alla patologia del negozio volto a riparare, ove possibile e in diverso modo, alle conseguenze di tale patologia. Ed è altresì più evidente il profilo rimediale rispetto a quello sanzionatorio nel caso dell’annullamento: vero è che la protezione della libertà di manifestare un consenso pieno e consapevole è interesse generale dell’ordinamento, ma proprio in nome di tale libertà la legge rimette alla valutazione di convenienza della parte interessata, una volta che questa sia diventata capace di agire o di intendere e di volere, o si sia resa conto dell’errore o del dolo o non sia più sotto l’effetto della minaccia (violenza morale), la scelta tra la caducazione (con l’esercizio dell’azione di annullamento) ovvero il mantenimento del contratto originariamente viziato, mediante comportamenti taciti o espliciti che confermino la volontà negoziale (convalida) o mediante l’esecuzione o semplicemente mediante il mancato esercizio nei termini dell’azione di annullamento (che è prescrittibile a differenza dell’azione di nullità). Sintomatico del carattere rimediale degli strumenti di reazione a patologie del contratto, quando essi presidiano interessi dei privati, è che l’ordinamento ne ammette, in diversa misura, una “gestione” da parte degli interessati. Scelta maggiormente evidente nel caso della risoluzione (per inadempimento) del contratto che, come vedremo, può essere governata dall’autonomia privata mediante i mezzi di c.d. risoluzione stragiudiziale o quelli che si suole denominare come recessi di autotutela (caparra confirmatoria, art. 1385 c.c. VIII, 12).

2. Invalidità e inefficacia La trattazione della invalidità impone di ricordare preliminarmente la non coincidenza della nozione con quella di inefficacia. In primo luogo perché l’inefficacia, come inidoneità a produrre gli effetti (VI) che ne deriverebbero, può ben riguardare (ed è anzi a questo riguardo che la nozione ha rilievo) un contratto valido. È contratto valido ma inefficace quello sottoposto a condizione sospensiva (VI, 10), così come è valido ma diviene inefficace quello sottoposto a condizione risolutiva; ma anche quello compiuto dal rappresentante senza potere, carente dunque di legittimazione (art. 1398, IV, I, 11). Inoltre, come diremo, l’invalidità non si traduce sempre in inefficacia, come dimostra, e lo vedremo, il regime del contratto annullabile. Si parla poi di inefficacia re-

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lativa (o inopponibilità), quando il contratto rimane valido ed efficace ma la sua efficacia non si produce nei confronti di determinati soggetti: il contratto con cui il debitore aliena un bene così diminuendo il proprio patrimonio in pregiudizio del suo creditore, può essere soggetto all’azione revocatoria (art. 2901 c.c.), il cui effetto, se ricorrono le condizioni previste, è quello di “dichiarare inefficace” il contratto nei suoi confronti. Il bene sarà aggredibile dal creditore insoddisfatto malgrado non sia più nel patrimonio del proprio debitore. Se egli poi non si soddisferà in via esecutiva su quel bene (perché il debitore pagherà o vi saranno altri beni su cui rivalersi con l’espropriazione forzata), il bene rimarrà nella proprietà del terzo, perché il contratto soggetto a revocatoria è rimasto valido ed efficace tra le parti e dunque il bene non è tornato nel patrimonio del debitore. Il contratto rispettoso del vincolo di forma che costituisce un diritto reale su un bene immobile è efficace tra le parti ma se non trascritto non è opponibile ai terzi.

3. La nullità: la funzione e le cause Come la nostra S.C. non ha mancato di ricordare anche di recente (s.u. 12-12-2014, n. 26243) la distinzione tra le due forme di invalidità del contratto, nullità ed annullabilità, viene tradizionalmente ricondotta al piano “quantitativo” della maggiore o minore gravità del vizio. Mentre l’annullabilità tutela interessi qualificati ma particolari (cioè delle parti private), la nullità è volta alla protezione di interessi generali dell’ordinamento «afferenti a valori ritenuti fondamentali per l’organizzazione sociale, piuttosto che per i singoli». Pur se, va detto subito, in alcuni casi è la protezione di interessi particolari (es. la parte c.d. “debole”, consumatore, piccola e media impresa) che viene assunta dall’ordinamento quale interesse generale, in nome sempre di quei valori fondamentali. La nullità rappresenta dunque l’esito di un giudizio di radicale disvalore dell’ordinamento, sanzionando un contratto non meritevole di tutela. La dottrina sottolinea talora come simile configurazione si attagli bene alla nullità del contratto contrario a norme imperative (di cui diremo tra poco), le c.d. nullità politiche, ma meno alla nullità del contratto per mancanza dei requisiti di cui all’art. 1325 (c.d. nullità strutturale), dove la nullità discende semplicemente dalla incompletezza e dunque inidoneità della fattispecie a integrare un contratto; ed ancor

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meno a quelle nullità c.d. di protezione che come vedremo sono state introdotte dalla disciplina di fonte comunitaria dei contratti dei consumatori e hanno trovato qui il loro terreno di elezione e che sono nullità “a vantaggio” di una sola parte contraente. La nostra S.C. sembra ora sgomberare il campo da tali distinguo quando sottolinea come anche in questo caso viene in evidenza l’interesse dell’ordinamento ad un esercizio corretto ed ordinato dell’autonomia privata. «In altri termini, è come se il legislatore, predisposta una struttura normativa “significante”, destinata espressamente alla tutela del singolo soggetto, abbia poi voluto sottendere a quella medesima struttura un ulteriore e diverso “significato”, non espresso (ma non per questo meno manifesto), costituito, appunto, dall’interesse dell’ordinamento a che certi suoi principi-cardine non siano comunque violati». L’identificazione della funzione della nullità come espressione del “disvalore dell’ordinamento” rispetto all’atto di autonomia privata ne risulta preservata, con l’obiettivo di prospettare una ricostruzione unitaria dell’istituto, rintracciandosi così anche nella predisposizione di un “modello” di fattispecie, necessariamente dotato della struttura di cui all’art. 1325 c.c., una scelta di selezione di manifestazioni dell’autonomia privata ammesse alla tutela dell’ordinamento o meno. Dalla radicalità della disapprovazione del contratto discende la radicalità della sanzione, ben evidente nel regime della nullità di cui diremo tra poco. E in primo luogo la natura dichiarativa della sentenza che pronuncia la nullità (vedi art. 1422 c.c.). L’art. 1418 c.c. enuncia le “cause di nullità del contratto”, che, alla stregua della impostazione di tale norma, portano a distinguere comunemente la nullità in nullità virtuale, nullità strutturale, nullità testuale.

4. La nullità (virtuale) del contratto contrario a norme imperative Di nullità virtuale si parla a proposito della prima delle cause qui elencate: il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente (art. 1418, co. 1). L’interprete (e il giudice soprattutto) è chiamato ad una indagine che attiene alla natura imperativa della norma violata dal contratto. Indagine che, in mancanza di indici normativi, ancora una volta dovrà andare alla ricerca degli interessi e valori generali che la norma presidia. Vero è infatti che

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spesso è la disposizione a palesare la natura imperativa o derogabile (ad esempio con la locuzione, nel secondo caso: salvo patto contrario); ma altrettanto frequentemente, e specie in numerose previsioni contenute fuori dal codice e in discipline speciali, manca tale supporto e occorrerà ricostruire la valenza della prescrizione o del divieto alla luce della ratio complessiva della disciplina. Insegna una risalente ma sempre attuale massima giurisprudenziale «Poiché a norma degli artt. 1418, 1419 e 1339 cod. civ. il contratto è nullo quando è contrario a norma imperativa, salva l’eccezione di una diversa disposizione di legge, allorquando si sia in presenza di una norma proibitiva non formalmente perfetta, cioè priva della sanzione dell’invalidità dell’atto proibito, occorre specificamente controllare la natura della disposizione violata per dedurre la invalidità o la semplice irregolarità dell’atto e tale controllo si risolve nella indagine sullo scopo della legge ed in particolare sulla natura della tutela apprestata, se cioè di interesse pubblico o privato, senza che soccorra il criterio estrinseco della forma». (Cass. s.u. 21-8-1972, n. 2697) La norma tutelante interessi pubblicistici si profila per ciò stesso come imperativa ed inderogabile non soltanto nei rapporti tra Pubblica Amministrazione e privato ma anche nei rapporti tra privati. Così, prima che il legislatore regolasse il regime circolatorio degli spazi per parcheggi da realizzare negli edifici urbani come pertinenze, i giudici avevano ritenuti nulli gli atti privati di disposizione di tali spazi in ragione della natura pubblicistica del vincolo posto dalla legge a tali aree, per interessi collettivi, e dunque sulla base della natura imperativa della norma. Prima che la legge intervenisse con la previsione di una nullità testuale (art. 1, co. 2, d.l. n. 512/1994, conv. l. 17-10-1994, n. 590), la nullità del contratto di lavoro con il quale veniva nominato direttore amministrativo di una ASL un soggetto privo dei requisiti professionali previsti dalla legge, era stata affermata in via giurisprudenziale, nel presupposto della natura imperativa della disposizione che impone il possesso di tali requisiti, disposizione di interesse generale, preordinata «alla finalità di assicurare alla fondamentale struttura sanitaria pubblica dirigenti di vertice di comprovata esperienza e capacità». Ancor più interessante l’applicazione della regola di cui all’art. 1418, co. 1 per decide-

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re la sorte del contratto di mutuo fondiario quando risultino superate le soglie massime di finanziamento, in rapporto al valore dei beni ipotecati, come fissate dalla Banca d’Italia (vedi art. 38, co. 2, t.u.b.). Da tempo la giurisprudenza ha messo in luce come la previsione di tali soglie (peraltro abbastanza risalente nel caso di mutui edilizi per abitazioni non di lusso) non si propone né la tutela dell’interesse dell’istituto mutuante – che sarebbe anzi propenso a dare più credito se adeguatamente tutelato da garanzie – né la protezione del mutuatario – il quale non solo potrebbe voler ottenere di più pur con una più forte esposizione ma è in ogni caso consapevole del maggior rischio quando accetta un finanziamento sopra soglia; sicché, per comprendere la ratio di tali norme non resta che «far capo ad interessi che trascendono quelli dell’Istituto e dei mutuatari (e-o degli aventi causa di quest’ultimi)». Ritenuto che la previsione di limiti e vincoli all’attività della banca finanziatrice sia posta a tutela di interessi che trascendono quelli particolari delle parti contraenti e risponda piuttosto all’obiettivo generale di assicurare il regolare andamento di tale attività, “essenziale nell’economia nazionale”, ne segue la natura imperativa e inderogabile delle norme, la cui violazione comporterà dunque la nullità del contratto (vedi in particolare l’esauriente motivazione di Cass. 1-9-1995, n. 9219). Il contratto sarà nullo ex art. 1418, co. 1, poi, per contrarietà a norme penali solo quando la norma penale vieti direttamente il contratto, nel senso che la sua stipulazione integri il reato; mentre il divieto non rileva se colpisce soltanto un comportamento materiale delle parti o addirittura di una sola di esse. Si distinguono cioè i “reati-contratto” in cui oggetto del divieto posto dalla legge penale è proprio la stipulazione del contratto o la condotta attuativa della prestazione dedotta all’interno dello stesso (es. contratto con cui le parti si vincolano quali componenti di associazione a delinquere o di stampo mafioso) e i “reati in contratto”, nei quali la condotta che viene sanzionata non è tanto la formazione dell’accordo in sé, quanto il comportamento tenuto durante la formazione del contratto o successivamente, nel momento esecutivo del rapporto. Tipico il caso del contratto concluso per effetto di una truffa (art. 640 c.p.). Il contratto concluso a seguito di una truffa, e cioè della condotta di una parte che «con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore», ha procurato «a sé o ad altri, un ingiusto profitto con altrui danno», è da considerare illecito per violazione della norma penale e dunque nullo? Dottrina e giurisprudenza propendono per la risposta negativa, ritenendo che la norma penale sanzioni non il contratto ma un comportamento in fase di conclusione

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del contratto. La condotta, che pure sotto il profilo penalistico integra un reato, deve essere “riqualificata” secondo le regole civilistiche; e dunque il contratto sarà semmai annullabile ove ricorrano i presupposti del dolo (IV, III, 6) o si prospetterà una responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c. (IV, II, 11). Abbiamo sopra ricordato il dibattito recente circa la portata dell’art. 21 t.u.f., e degli obblighi di trasparenza e informazione contrattuale ivi posti a carico degli intermediari finanziari (IV, II, 26). Nessun dubbio che trattasi di norma imperativa; ma chiamata a pronunciarsi sulle conseguenze della sua violazione, la S.C. ne ha tratto occasione per ribadire l’ambito di applicazione della nullità del contratto per violazione di norme imperative: la norma imperativa la cui violazione può dare luogo a nullità del contratto deve avere riguardo agli elementi (o al contenuto) del contratto; e non invece, come nel caso dell’art. 21 t.u.f., a comportamenti della parte contraente, la cui violazione rimanda al regime di responsabilità (precontrattuale o contrattuale) ma non coinvolge quello di validità dell’atto. Ci si è interrogati sulla natura delle norme tributarie e sulle conseguenze della loro violazione. Ha prevalso a lungo la tesi che esclude, in generale, la natura imperativa di queste: le norme tributarie, pur essendo inderogabili, mancherebbero del carattere proprio della imperatività, non essendo poste a tutela di interessi generali ma di interessi pubblici di natura settoriale ed essendo volte non a porre divieti ma ad assumere un dato di fatto quale indice di capacità contributiva. La giurisprudenza (seguita dalla dottrina) ha ritenuto pertanto vigente, nell’ordinamento, un principio di “non interferenza” fra le regole del diritto tributario e quelle attinenti alla validità civilistica degli atti, principio ora peraltro espressamente confermato nell’art. 10, co. 3, l. n. 212/2000 (statuto del contribuente): “le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto”. In anni più recenti, nel quadro dei principi desumibili dal diritto europeo e della relativa rilevanza qui accordata al contrasto di comportamenti elusivi, si è tentato di prospettare per altra via una ricaduta della violazione di norme tributarie sull’atto di autonomia privata: operazioni poste in essere al solo scopo di procurarsi benefici fiscali, ad esempio di acquisto e rivendita di azioni tra società, sono state ritenute prive di causa, non conseguendo dai relativi contratti (collegati) alcun vantaggio economico all’infuori del risparmio fiscale. «Tale mancanza di ragione,

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che investe nella sua essenza lo scambio tra le prestazioni contrattuali attuato attraverso il collegamento negoziale, comporta l’inefficacia dei contratti nei confronti del fisco» (Cass. 21-10-2005, n. 20398); si è poi ammesso che l’amministrazione finanziaria sia legittimata a far valere la simulazione assoluta o relativa dei contratti stipulati dal contribuente, o la loro nullità per frode alla legge, ivi compresa la legge tributaria, ex art. 1344 c.c. Alla luce dell’orientamento prevalente sopra ricordato ha aperto un acceso dibattito la diversa scelta compiuta dall’ordinamento con l’art. 1, co. 346, l. n. 311/2004, secondo cui “i contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati”. Si è tentato di escludere che si tratti qui di una nullità vera e propria, che sarebbe incompatibile con una “sanatoria” successiva – mediante la registrazione dell’atto entro i trenta giorni previsti dalla legge – invece sicuramente auspicata dallo Stato e in generale consentita dalle disposizioni in tema di ravvedimento; e si è anche prospettata l’incostituzionalità di una norma che, introducendo un’ipotesi di nullità del tutto estranea rispetto a quelle codificate, di cui all’art. 1418 c.c., determinate dalla mancanza dei requisiti essenziali del contratto, ovvero dalla illiceità degli stessi, condizionerebbe l’esercizio dei diritti delle parti ad una disposizione fiscale, e dunque subordinerebbe gli effetti del contratto all’esistenza di un requisito estraneo, successivo alla manifestazione di volontà delle parti e alla formazione del contratto, individuando un ulteriore elemento costitutivo del contratto, oltre a quelli codificati e previsti dall’art. 1325 c.c. Si è parlato così di una nullità “atipica” o si è ritenuto che la registrazione integri una condicio juris, condizione legale di efficacia dell’atto. La Corte Costituzionale, chiamata diverse volte a pronunciarsi, è stata però da subito perentoria nel riconoscere che la norma “eleva la norma tributaria al rango di norma imperativa, la violazione della quale determina la nullità del negozio ai sensi dell’art. 1418 cod. civ.” (Corte cost., ord., 5-122007, n. 420) e ne ha sempre escluso l’incostituzionalità. Un tentativo di fare chiarezza, prospettando una lettura coerente con i dati normativi ma altresì con i princìpi cui essi sono ispirati, si rinviene ora in una recente pronuncia della S.C. delle cui argomentazioni riportiamo i passaggi salienti:

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«Appare a questo Collegio semplicistico e riduttivo affermare, come fa parte della dottrina e della giurisprudenza di merito, che il legislatore abbia utilizzato il termine “nullità”, volendosi riferire a diverso istituto giuridico. La nullità del negozio giuridico costituisce una categoria cardine del diritto civile e la disciplina che la regola è ben nota a qualsiasi studioso del diritto, tanto da portare ad escludere che il legislatore abbia utilizzato questo termine senza rendersi conto del significato e delle conseguenze che ne sarebbero derivate. D’altra parte è necessario confrontarsi con una pluralità di distonie esistenti sul piano sistematico fra la norma in oggetto e i principi stabiliti dal codice civile in materia di nullità dei contratti, che collegano tale forma di invalidità ai vizi riguardanti l’iter formativo e costitutivo dell’atto negoziale, nel quale certamente è difficile far rientrare un evento, come la mancata registrazione, estraneo al contratto e ad esso temporalmente successivo. Omissis. Si osserva, però, che la disposizione del 2004 non può che essere interpretata con la volontà del legislatore di prevedere la sanzione della nullità per mancata registrazione estesa a qualsiasi pattuizione relativa sia ai contratti di locazione ad uso abitazione che a quelli ad uso diverso. L’interprete si deve confrontare con questa realtà normativa che non si può eludere per la sua chiarezza terminologica e che, come si è detto, rende difficile aderire ad alcune affermazioni della giurisprudenza di merito e di parte [della] dottrina che portano alla conclusione di una volontà del legislatore di dire una cosa diversa da quella che effettivamente ha detto. Omissis. Questa Corte ritiene di seguire le autorevoli indicazioni della Corte costituzionale che ha qualificato l’ipotesi oggetto dell’art. 1, comma 346, della l. 30 dicembre 2004, n. 311 come nullità del contratto per violazione di norme imperative ai sensi dell’art. 1418 c.c. La qualificazione della norma tributaria sull’obbligo di registrazione come norma imperativa fa ritenere che la Corte costituzionale abbia valutato che essa è stata dettata non solo nell’interesse del singolo contraente di volta in volta implicato e neanche per un interesse solo settoriale, come la giurisprudenza ha più volte affermato in passato in relazione alle norme tributarie, ma che è stata dettata nell’interesse pubblico e generale al rispetto da parte di ciascun cittadino dell’obbligo di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva, per cui l’obbligo

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di registrazione del contratto di locazione si impone inderogabilmente alla volontà delle parti contraenti. Omissis. Certo rimane la peculiarità di una nullità del contratto per contrarietà a norme imperative indipendente da violazioni attinenti ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto, ma che postula un’attività esterna alla formazione del negozio, che risulterebbe altrimenti privo di deficienze strutturali e ormai perfezionato. Ma proprio tale profilo rende ammissibile la possibilità di ricostruire la tardiva registrazione come fattispecie sanante con efficacia retroattiva della nullità del contratto, una volta adempiuto al precetto tributario. La stessa normativa fiscale, come ha previsto la sanzione della nullità in ipotesi di mancata registrazione del contratto di locazione, contemporaneamente ha previsto la possibilità di sanatoria, ammettendo la registrazione tardiva, come si rileva implicitamente da alcune delle norme suelencate ed esplicitamente dalla normativa sul ravvedimento. Omissis. La tesi della nullità, che in ragione della sua atipicità, risulti sanabile con effetto ex tunc è coerente con i principi che sottendono al complessivo impianto normativo in materia dell’obbligo di registrazione del contratto di locazione ed in particolare con la espressa previsione di forme di sanatoria nella normativa succedutasi nel tempo e dell’istituto del ravvedimento operoso, norma che il legislatore ha mantenuto stabile nel tempo potenziandone l’applicazione. Omissis. La possibilità di sanatoria con efficacia ex tunc in esito alla tardiva registrazione consente di mantenere stabili gli effetti del contratto voluti dalle parti sia nell’interesse del locatore, che potrà trattenere quanto ricevuto in pagamento, che nell’interesse del conduttore, che non rischierà azioni di rilascio e godrà della durata della locazione come prevista nel contratto e, per le locazioni non abitative, non incorrerà negli effetti negativi segnalati da parte della dottrina quali la perdita del diritto all’avviamento, il diritto alla prelazione, come pure la libera trasferibilità dell’azienda e del contratto di locazione. Omissis. La sanatoria della nullità con effetti ex tunc si inserisce coerentemente nel complesso delle norme tributarie che, in particolare a partire dal 1998, hanno superato il principio tradizionale della non interferenza della norma tributaria con gli effetti civilistici del contratto, introducendo e potenziando gli istituti del ravvedimento e prevedendo espressamente la sanzione più radicale per il mancato rispetto dell’obbligo di registrazione del contratto». (Cass. 28-4-2017, n. 10498)

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La Corte di Cassazione, sulla scia delle pronunce della Corte Costituzionale, pone l’accento sulla riconosciuta natura imperativa della norma in questione, e vi intravvede dunque una smentita, se non il definitivo abbandono, del principio di “non interferenza” della normativa tributaria con il regime civilistico del contratto. Può obiettarsi tuttavia che siamo qui in presenza, comunque, di una nullità testuale (infra, 6), il che lascia impregiudicata, ci sembra, la generale questione di una nullità del contratto non espressamente comminata ma che discenda dalla violazione di una norma fiscale (nullità virtuale).

5. La nullità strutturale Ai sensi dell’art. 1418, co. 2, «producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati nell’art. 1325, l’illiceità della causa, la illiceità dei motivi nel caso indicato dall’art. 1345 e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’art. 1346». Si rintraccia qui la previsione della c.d. nullità strutturale. Di sicuro difetterà la “struttura” del contratto, come voluta dalla legge, sia quando uno dei requisiti di cui all’art. 1325 manchi sia quando tale requisito non presenti i caratteri voluti dalla legge; e dunque l’oggetto non abbia i requisiti di possibilità, liceità, determinatezza o determinabilità di cui all’art. 1346, ovvero la causa sia illecita (o sia illecito il motivo nei casi in cui ciò rilevi ex art. 1345). Può sembrare poco agevole ipotizzare un contratto nullo per mancanza di accordo, dovendosi in tal caso ritenere che non si possa proprio parlare dell’esistenza di un contratto (da giudicare poi nullo). Così non è. Nella prassi, al di là delle ipotesi limite che di solito si richiamano come esempio (la firma di un contratto sotto coazione fisica, la dichiarazione resa per scherzo o per finzione scenica), il problema della rintracciabilità di un valido accordo assume rilievo non solo nel caso del c.d. dissenso occulto, cioè di dichiarazioni apparentemente conformi ma intese da ciascuna parte in modo diverso (ipotesi che rimanda sovente alla diversa disciplina dell’errore), ma soprattutto nel caso di oggettiva divergenza tra proposta ed accettazione quando ad esempio entrambe fanno riferimento a condizioni generali di contratto, e dunque nei rapporti tra imprenditori, quando ciascuno fa riferimento a proprie clausole standard, ma queste sono tra loro divergenti. È l’ipotesi che

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suole definirsi della “battaglia dei formulari” e rispetto alla quale, in ossequio ad obiettivi di fluidità degli scambi commerciali, i diversi ordinamenti (o nel nostro caso i giudici) tentano di elaborare princìpi volti a mitigare la c.d. mirror image rule, e cioè la regola generale, da noi consacrata nell’art. 1326 c.c., secondo cui va rispettato il principio di conformità (tra proposta ed accettazione) ai fini della conclusione del contratto. I nostri giudici propendono per affermare la conclusione del contratto, malgrado la divergenza, quando la parte che avrebbe dovuto accettare o meno l’ultima comunicazione proveniente dall’altra (che richiamava proprie clausole standard) comincia a dare esecuzione al contratto. Non può escludersi tuttavia, in casi del genere, che in concreto, data la rilevanza degli aspetti contrattuali sui quali permaneva la divergenza, il contratto non possa dirsi concluso. Nel caso dei contratti dei consumatori, allorché siano predeterminati per legge gli elementi del contratto che il professionista deve precisare e comunicare al consumatore già in fase precontrattuale, e sia previsto che tale informazione “costituisce parte integrante del contratto”, deve ritenersi che l’ordinamento intenda assicurare l’adesione consapevole del consumatore al contratto attraverso quella che abbiamo chiamato la standardizzazione della proposta del professionista. Il mancato rispetto delle previsioni di legge e dunque la prospettazione al consumatore di una proposta non conforme allo standard normativo potrebbe a nostro avviso impedire, malgrado il consenso del consumatore, la formazione di un valido accordo. La S.C. sembra non negare in principio tale esito quando, in presenza di violazione di obblighi di informazione come quelli a carico dell’intermediario finanziario ed a favore del cliente, esclude che tale violazione «impedendo al cliente di esprimere un consenso “libero e consapevole” avrebbe reso il contratto nullo sotto altro profilo, per la mancanza di uno dei requisiti “essenziali” (anzi di quello fondamentale) previsti dall’art. 1325 c.c.», ma la conclusione sembra raggiunta in considerazione dell’oggetto delle informazioni, e cioè sulla base del rilievo che in questo caso «le informazioni che debbono essere preventivamente fornite dall’intermediario ... non riguardano direttamente la natura e l’oggetto del contratto». Lasciando così impregiudicata, a contrario, una ricaduta in termini di nullità del contratto per mancanza dell’accordo, nel caso di mancata informazione concernente la natura e l’oggetto del contratto, come nei casi di proposta standardizzata sopra richiamati (IV, II, 26 e 28).

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Tornando agli altri casi di nullità strutturale, si suole rimarcare che la nullità per illiceità della causa o dell’oggetto o dei motivi (nel caso di cui all’art. 1345), pure richiamata al co. 2 dell’art. 1418, è più vicina alla nullità “politica” di cui al co. 1 della norma. La dottrina suole così distinguere il contratto illegale, cioè contrario a norme imperative e per questo nullo ex art. 1418, co. 1 e il contratto illecito, cioè con causa o oggetto o motivo comune illecito, perché contrari a norme imperative, ordine pubblico, buon costume. La distinzione non ha conseguenze; la legge assegna rilievo distinto soltanto alla illiceità del contratto per contrarietà al buon costume escludendo in parte gli effetti restitutori conseguenti alla nullità: la prestazione che anche da parte di chi l’ha eseguita costituisca offesa al buon costume, come abbiamo visto, non sarà comunque ripetibile a seguito della nullità del contratto (art. 2035 c.c.).

6. La nullità testuale Nessun problema pone l’identificazione della nullità testuale, richiamata con disposizione di chiusura all’ultimo comma dell’art. 1418: il contratto è nullo “negli altri casi stabiliti dalla legge”. Si potrà in questo casi indagare circa le ragioni del “disvalore” dell’ordinamento, ma l’interprete non potrà che prendere atto di una nullità espressamente, testualmente, prevista: chi amministra beni pubblici non può rendersene acquirente né direttamente né per interposta persona, così come chi amministra beni altrui (privati), ma nel primo caso il contratto sarà nullo e nel secondo annullabile (art. 1471, co. 3, c.c.), perché così dispone la legge. Si palesa qui emblematicamente la graduazione delle sanzioni, di cui l’ordinamento fa uso sia in ragione della rilevanza che intende accordare all’interesse protetto dal divieto sia in ragione della stabilità che per converso intende consentire al contratto che vi contravviene. Se talora la nullità testualmente comminata esplicita la sanzione dell’ordinamento verso espressioni dell’autonomia privata che comunque confliggerebbero con principi fondamentali (ad esempio anche di ordine pubblico o buon costume), in altri casi, e più spesso, la nullità esprime una scelta ad hoc dell’ordinamento che difficilmente avrebbe potuto discendere dall’applicazione della disciplina generale della nullità c.d. virtuale o anche strutturale. Abbiamo visto che l’art. 30 t.u.f. impone che nei contratti di investimento finanziario conclusi a seguito di offerte

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fuori sede sia espressamente indicata per iscritto la clausola che dà all’investitore il diritto di recesso, a pena di nullità dell’intero contratto: la sanzione della nullità del contratto esplicita qui la rilevanza che la legge intende dare ad una regola di protezione dell’investitore in presenza di quello che abbiamo chiamato “effetto sorpresa” tipico delle negoziazioni fuori sede (IV, II, 21), ed è indubbio che, in mancanza di nullità testuale, difficilmente un rimedio così drastico come la caducazione dell’intero contratto avrebbe potuto essere qui applicato in considerazione della possibile natura imperativa della norma. La clausola in questione certamente non può dirsi che attenga ai “requisiti” del contratto di cui all’art. 1325 c.c. La prescritta nullità peraltro conferma, come abbiamo sopra accennato, che le disposizioni con cui, in nome della trasparenza, si impone l’indicazione nel contratto di taluni elementi, normativamente determinati, assecondano un giudizio sulla “essenzialità” di tali elementi legata alla natura del contratto e nient’affatto ricalcata sull’art. 1325 c.c. (IV, II, 30 e V, 9). Analoga considerazione può farsi a proposito dell’art. 2, co. 1 del d.lgs. n. 122/2005, dove il legislatore interno, in una materia non incisa da norme di fonte europea, replica tale tecnica di intervento comminando la nullità dell’intero contratto di vendita di immobili da costruire, o relativi preliminari (IV, I, 6) quando il contratto non menzioni la consegna all’acquirente della polizza fideiussoria a garanzia degli acconti comunque corrisposti prima del trasferimento del diritto. Precedente significativo, che ha impegnato non poco i giudici, è costituito dalla previsione di cui all’art. 40, co. 2, l. 28-2-1985, n. 47, con cui, per rafforzare il contrasto all’abusivismo edilizio, si dispone che sono nulli e non possono essere rogati gli «atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali, esclusi quelli di costituzione, modificazione ed estinzione di diritti di garanzia o di servitù, relativi ad edifici o loro parti» se «da essi non risultano, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ... ovvero se agli atti stessi non viene allegata la copia per il richiedente della relativa domanda, munita degli estremi dell’avvenuta presentazione, ovvero copia autentica di uno degli esemplari della domanda medesima, munita degli estremi dell’avvenuta presentazione e non siano indicati gli estremi dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione». Superati i contrasti interpretativi sollevati dalla norma, la giurisprudenza sembra attestata sul principio che, pur scontata la sua “non perfetta formulazione”, dalla norma discenda sia la nulli-

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tà (di carattere sostanziale) degli atti di trasferimento di immobili che non siano in regola con la normativa urbanistica, sia una nullità (di carattere formale) per gli atti di trasferimento di immobili, quando pur essendo questi in regola con la normativa urbanistica o per i quali sia in corso la regolarizzazione, tali circostanze non risultino dagli atti stessi (così da ultimo Cass. 5-12-2014, n. 25811, ma in termini più chiari Cass. 17-10-2013, n. 23591). Rimane comunque il dato significativo di un uso della nullità quale sanzione per la violazione, in sé, di un obbligo formale, che conduce alla nullità dell’atto di trasferimento di un immobile regolare per effetto della sola mancata menzione nel contratto degli atti che comprovano tale “qualità” del bene. L’intervento della legge, che vieta, fuori dei casi di cui ai co. 1 e 2 dell’art. 1418, alcune manifestazioni di autonomia privata sanzionandone la nullità pone il problema delle conseguenze circa il trattamento da riservare a contratti stipulati anteriormente e dunque nati validi: problema ovviamente circoscritto ai contratti che, pur anteriori, siano ancora in corso al momento di entrata in vigore del divieto, e dunque ai contratti di durata. In mancanza di una regola di irretroattività esplicita, ci si chiede se debba prevalere il principio secondo cui il regime del contratto deve essere individuato secondo la disciplina vigente al momento della stipulazione o se non debba invece applicarsi (a meno che la norma intervenuta dopo non ne dichiari la nullità ex post) una nullità sopravvenuta, che, fatti salvi gli effetti già prodotti in conformità alle norme allora vigenti, colpisca quelli successivi all’entrata in vigore del divieto. L’uso della categoria della nullità sopravvenuta è frequente ma abbastanza ambiguo in giurisprudenza. Nel caso dei contratti di fideiussione senza limitazione d’importo dei debiti futuri garantiti (c.d. fideiussione omnibus) stipulati prima dell’entrata in vigore dell’art. 10, co. 1, l. n. 154/1992 (che ha imposto la previsione in questo caso dell’importo massimo garantito, riformulando l’art. 1938 c.c.) ma ancora in corso dopo l’introduzione dell’obbligo di indicare l’importo massimo garantito, per il periodo successivo il contratto originario è stato ritenuto affetto da nullità sopravvenuta per indeterminatezza dell’oggetto. Il contratto di swap (letteralmente: scambio) frequentemente richiamato ma non definito dalla legge, può essere identificato, come fa la S.C., nel contratto aleatorio con cui le parti si obbligano reciprocamente all’esecuzione, l’una nei confronti dell’altra, alla scadenza di un termine prestabilito di una prestazione pecuniaria il cui ammontare è determinato da un even-

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to incerto. Entrata in vigore la l. 2-1-1991, n. 1, recante la disciplina (poi trasfusa nel t.u.f.) dell’attività di intermediazione che ne ha riservato la stipulazione ai soggetti abilitati (SIM società di intermediazione mobiliare), i contratti stipulati successivamente sono stati ritenuti nulli perché contrari a norme imperative («necessariamente estendendosi la illiceità della condotta» cioè l’esercizio dell’attività da soggetti non abilitati «all’atto compiuto», come ha osservato la S.C.) mentre per quelli stipulati anteriormente (ed ancora in vita) si è escluso che il contrasto con la normativa intervenuta a rapporto instaurato potesse incidere direttamente sulla validità, salvo ritenere che tale sopravvenuto contrasto, «determinando un arresto della funzione negoziale dell’atto», ne pregiudichi «la produzione di ulteriori effetti», rendendo inesigibili pretesi crediti derivati da detti ultimi contratti, se maturati dopo l’entrata in vigore della citata normativa (Cass. 5-4-2001, n. 5052). Alquanto travagliata la vicenda dei contratti usurari e della rilevanza di una usura sopravvenuta: su cui torneremo dopo avere chiarito la nozione di contratto usurario (infra 14).

7. Il regime generale della nullità La natura “radicale” della nullità ne connota il relativo regime. Il primo carattere che connota in tal senso il regime è quello che si suole denominare della “assolutezza”, riferito alla disciplina della legittimazione generale all’azione di nullità sancita nell’art. 1421 c.c., secondo cui, salvo diverse disposizioni di legge, «può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice». La portata della regola si apprezza in confronto con la diversa legittimazione (relativa) prevista invece per l’azione di annullamento, poiché l’annullamento del contratto «può essere domandato solo dalla parte nel cui interesse è stabilito dalla legge» (art. 1441 c.c.). Unica eccezione l’annullamento per l’incapacità del condannato in stato di interdizione, che, ai sensi del co. 2 dell’art. 1441, può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse: eccezione che non smentisce la regola ove si abbia riguardo all’interesse generale implicato nel rispetto della norma penale che prevede l’interdizione come pena accessoria. Legittimazione generale o assoluta all’azione di nullità non significa che questa possa essere intrapresa da chiunque, in nome ad esempio di un interesse generico al ri-

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spetto della legge che si assume violata dal contratto; l’art. 1421, riferendosi a «chiunque vi abbia interesse» presuppone e richiede un concreto interesse ad agire (con riferimento all’art. 100 c.p.c.: «per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse»), che l’attore dovrà dimostrare, interesse che viene identificato con un vantaggio o utilità che possa derivare dalla sentenza del giudice che l’azione vuole provocare o, all’opposto, con la necessità di ricorrere al giudice per evitare una lesione attuale del proprio diritto e il conseguente danno alla propria sfera giuridica. Richiedendo la prova di un interesse concreto del privato a provocare l’accertamento della nullità e a farla dichiarare, la legge non smentisce ovviamente l’interesse generale alla cui protezione, come abbiamo sopra evidenziato, è volto il rimedio della nullità: il che trova conferma nella regola di imprescrittibilità dell’azione (come della eccezione) di nullità. Impregiudicata l’imprescrittibilità dell’azione, la sentenza che dichiara la nullità costituisce un accertamento e comporta dunque la caducazione di tutti gli effetti prodotti dal contratto nullo. La sentenza di nullità, come abbiamo già detto, accerta la nullità del contratto e la dichiara, sancendo dunque l’originaria inidoneità dell’atto a produrre effetti: da qui la retroattività della sentenza, che dichiara il venir meno degli effetti comunque prodottisi nel frattempo (salve le eccezioni di legge: la nullità, come l’annullamento del contratto di lavoro, non producono effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dalla illiceità dell’oggetto o della causa, ai sensi dell’art. 2126 c.c.). Accertata la nullità, e dunque la mancanza di titolo degli effetti prodottisi, sorgeranno gli obblighi restitutori, e le prestazioni saranno ripetibili (art. 2033), ad esclusione delle prestazioni eseguite per uno scopo che, anche da parte di chi le ha eseguite e ne pretende la restituzione, costituiscano offesa al buon costume (art. 2035). L’effetto caducatorio può semmai essere paralizzato dall’interferenza di altri istituti, generalmente improntati ad esigenze di certezza del diritto, che in buona sostanza preservano la stabilità di talune situazioni giuridiche, anche a tutela dell’affidamento dei privati (V, 6). Così, l’art. 1422 c.c. richiama gli eventuali effetti dell’usucapione che si siano nel frattempo determinati e che faranno salvo, malgrado la nullità del contratto, il diritto dell’acquirente o di suoi aventi causa; e salvo anche il regime della prescrizione delle azioni di ripetizione, escludendosi quindi, malgrado la pronuncia di nullità, che chi ha ricevuto la prestazione in forza di contratto dichiarato nullo

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possa essere chiamato a restituirla trascorsi dieci anni. Infine, la regola di cui all’art. 2652 n. 6 c.c., della cosiddetta trascrizione sanante, farà salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede in base ad un atto trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda di nullità, se quest’ultima interviene dopo cinque anni dalla trascrizione del contratto nullo. Il presidio fondamentale alla protezione dell’interesse generale, cui è preordinato il rimedio, deve tuttavia rintracciarsi nella rilevabilità d’ufficio della nullità che di tale regime appare il vero tratto distintivo. Il rilievo officioso della nullità, come ribadisce la S.C., ne presidia «la funzione di elidere il disvalore regolamentare espresso dal contratto nullo». Concetto sul quale torneremo per le implicazioni in tema di nullità c.d. di protezione, dove la rilevabilità d’ufficio non si accompagna alla legittimazione generale (infra, 10). L’art. 1421 dispone che la nullità «può essere rilevata d’ufficio dal giudice», ma trattasi di potere dovere nel senso che, pur chiamato a pronunciarsi sull’adempimento del contratto ovvero su altre patologie che condurrebbero all’annullamento, alla rescissione, alla risoluzione, il giudice non potrà esimersi dal pronunciare la nullità del contratto ove questa emerga dagli atti di causa, a meno che il rigetto della domanda riguardante altro mezzo di impugnazione non sia fondato sulla c.d. ragione più liquida, cioè una causa immediata che consenta il rigetto senza entrare nel merito del contratto, dei suoi contenuti e dunque della validità o invalidità (ad esempio vizi processuali). Risolvendo un risalente contrasto su un tema complesso come quello del c.d. giudicato esterno (e cioè degli effetti della sentenza tra le parti, fuori dalla vicenda giudiziaria che l’ha provocata), la Corte di cassazione si è pronunciata di recente sul punto nel quadro di una più ampia e complessa ricostruzione dell’istituto della nullità (Cass. s.u. 12-12-2014, n. 26243). Per quanto qui interessa, ha affermato, per così dire, il primato della rilevazione d’ufficio della nullità, anche quando le parti invochino non l’adempimento ma altra causa di inefficacia del contratto: qualunque pronuncia che, in nome di una pretesa corrispondenza alla domanda della parte, prendesse in considerazione il contratto, tenuto conto dei diversi regimi previsti in caso di annullamento, rescissione, risoluzione – mai tanto radicali come nel caso di negozio nullo – potrebbe condurre a riconoscere pur limitata rilevanza a quelli che invece sono e devono rimanere “non effetti” nel caso del contratto nullo, finendo con integrare, rileva la Corte, una conversione per via giudiziale non

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ammessa dalla legge. Il giudice è dunque vincolato ad una pronuncia di rigetto della domanda, persino quando le parti abbiano invocato una nullità parziale e si rinvenga invece una causa di nullità totale, poiché, al pari che nel caso della risoluzione, della rescissione e dell’annullamento, egli non può attribuire efficacia, neppure in parte – fatto salvo il diverso fenomeno della conversione sostanziale – «a una (parte di) negozio radicalmente nullo». Dopo aver sottolineato ed ampiamente argomentato l’esigenza di una ricostruzione unitaria della fattispecie del negozio ad efficacia eliminabile, che comprende tanto negozi invalidi ma temporaneamente efficaci (il contratto annullabile e quello rescindibile), quanto negozi validi ed inizialmente efficaci, ma vulnerati nella dimensione funzionale del sinallagma (il contratto risolubile, quello destinato allo scioglimento per mutuo dissenso), le Sezioni Unite affermano dunque il principio secondo il quale «la rilevabilità ex officio della nullità va estesa a tutte le ipotesi di azioni di impugnativa negoziale – senza per ciò solo negarne le diversità strutturali, che le distinguono sul piano sostanziale (adempimento e risoluzione postulano l’esistenza di un atto morfologicamente valido, di cui si discute soltanto quoad effecta, rescissione e annullamento presuppongono una invalidità strutturale dell’atto, pur tuttavia temporaneamente efficace)». Rilevata la nullità il giudice dovrà rigettare le domande diverse, motivando con la nullità, sulla quale si formerà il c.d. giudicato esterno e cioè le parti non potranno più invocare altra pretesa o altro vizio del contratto in altra sede e in un nuovo giudizio. Solo non sussistendo ragioni di nullità, il giudice procede all’esame della domanda di adempimento, esatto adempimento, risoluzione, rescissione, annullamento, scioglimento dal contratto. La nullità non è sanabile: l’art. 1423 sanziona la inammissibilità della convalida del negozio nullo, salva espressa disposizione di legge (in verità in casi particolari: la c.d. sanatoria della donazione per conferma o esecuzione di cui all’art. 799, ovvero talune regole limitative della nullità in materia societaria). La nullità “formale” degli atti che trasferiscono diritti su immobili per mancata menzione degli atti di licenza o concessione anche in sanatoria o dell’istanza di sanatoria, possono essere confermati “anche da una sola parte” con atto successivo, «che contenga la menzione omessa o al quale siano allegate la dichiarazione sostitutiva di atto notorio o la copia della domanda indicate al comma precedente» (art. 40, co. 3 della citata l. n. 47/1985). L’approccio rigoroso alla nullità e particolarmente alla regola della

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rilevabilità d’ufficio, su cui nel solco della posizione della S.C. abbiamo ritenuto di insistere, aiuta a comprendere i limiti in cui opera la conversione del contratto nullo, cioè la regola secondo cui il contratto nullo «può produrre gli effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma qualora, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità». La conversione non è né un recupero del contratto né una sanatoria che avviene per volontà delle parti o che comunque può farsi risalire alla volontà delle parti: non viene infatti in gioco la volontà di queste di preservarlo o in qualche modo eliminare la causa di nullità, perché il contenuto, le clausole del contratto rimangono ferme e nessuna manifestazione di volontà delle parti è richiesta o ammessa, trattandosi soltanto di verificare se, posta la corrispondenza del contratto stipulato, per requisiti di sostanza e di forma, ad altro contratto che l’ordinamento reputa invece valido, quanto concordato dalle parti possa produrre i diversi effetti di quest’ultimo. In definitiva, si tratta di un effetto che si produce per legge (e non per volontà delle parti) e che presuppone però una interpretazione del contratto, onde verificare quale sia la causa in concreto e l’eventuale compatibilità con gli effetti del diverso contratto: per decidere se ricorra la possibilità della conversione, deve procedersi ad una duplice indagine, l’una rivolta ad accertare la sussistenza di un obiettivo rapporto di continenza tra il negozio nullo e quello che dovrebbe sostituirlo, e l’altra, implicante un apprezzamento di fatto sull’intento negoziale dei contraenti riservato al giudice del merito, diretta a stabilire se la volontà che indusse le parti a stipulare il contratto nullo possa ritenersi orientata anche verso gli effetti del diverso contratto. Ricostruito così il modo di operare dell’istituto della conversione si spiega perché si esclude che il giudice possa rilevare d’ufficio una possibile conversione del contratto nullo (con il che darebbe un pur limitato effetto ad un contratto che è invece nullo), potendo solo pronunciarsi se chiamato a compiere dalla parte l’accertamento di cui sopra (che è quello proprio dell’attività di interpretazione del contratto). Sarebbe fuorviante qualunque accostamento con la disciplina della nullità parziale, di cui all’art. 1419 c.c., fondata su una qualche assonanza della formula che anche qui rimanda a ciò che le parti avrebbero voluto. Ai sensi dell’art. 1419, co. 1 «la nullità parziale di un contratto e la

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nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità». La differenza tra nullità parziale e nullità di singole clausole si coglie meglio in casi in cui la nullità colpisca una parte del regolamento contrattuale per ciò che non prevede piuttosto che per ciò che prevede (riproponendosi nel secondo caso una nullità della clausola): il giudice deve ad esempio dichiarare la nullità parziale del contratto con cui il costruttore non abbia fatto salvo per il condomino il diritto di uso e di parcheggio nelle aree comuni, imposto dalla legge. La regola della nullità parziale è concentrata sui casi in cui essa possa travolgere l’intero contratto, ma proprio al fine di escludere questo effetto, a meno che non imposto dalla complessiva ricostruzione dell’assetto negoziale. Non dunque un contratto nullo che, in conformità con l’assetto di interessi voluto dalle parti, ferma la sua nullità, produce effetti di un contratto diverso (conversione), ma un contratto da ritenersi valido seppure amputato di una sua parte. Il riferimento alla volontà delle parti va inteso ovviamente sempre in senso obiettivo, e cioè alla volontà obiettivata nel programma contrattuale e rapportata alla causa concreta del negozio. Dunque «le disposizioni dell’art. 1419 cod. civ., sono improntate all’opposto e fondamentale principio, posto a presidio dell’autonomia privata, della conservazione del negozio giuridico; ne consegue, stante l’eccezionalità della disposizione che prevede l’estensione all’intero contratto della nullità di singole parti o clausole dello stesso, che l’invalidità dell’intero contratto può essere dichiarata dal giudice soltanto nei casi in cui la parte interessata, che l’abbia dedotta o eccepita, abbia assolto al relativo onere probatorio, offrendo la rigorosa dimostrazione che la parte o clausola affetta da nullità non abbia esistenza autonoma, ma sia in correlazione inscindibile con il resto del contratto, sicché i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto colpita da invalidità». (Cass. 11-6-2014, n. 13222) Più che un ossequio alla volontà e all’interesse delle parti, la regola sembra ispirata alla necessità di verificare se, in concreto, il programma contrattuale “regge” e può essere eseguito pur se amputato della parte dichiarata nulla. Tant’è che la nullità parziale non potrà in nessun caso

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travolgere l’intero contratto se le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative, secondo il meccanismo di cui all’art. 1339 c.c. Risponde come già rilevato alla peculiarità dello schema del contratto plurilaterale, «in cui le prestazioni di ciascuna sono dirette al conseguimento di uno scopo comune» il regime della nullità dettato dall’art. 1420, che esclude il riversarsi sull’intero contratto della nullità che colpisce il vincolo di una sola delle parti, a meno che la partecipazione di questa, secondo le circostanze, non debba considerarsi essenziale.

8. La (o le) nullità di protezione: il paradigma dell’art. 36 cod. cons. e le sue varianti Il discorso sulla nullità negoziale non può ormai prescindere dal sottolineare una “scomposizione” dell’istituto o quanto meno una “moltiplicazione” dei regimi, che dalla nullità trascorre alle nullità. Ragione ed effetto di questa scomposizione è proprio la comparsa, accanto alla nullità “classica” degli artt. 1418 ss. c.c., di una nullità speciale, o comunque “diversa” la cui specialità o “diversità” risiede non solo e non tanto nelle fonti normative (in primis i provvedimenti di recepimento delle direttive europee), bensì nel suo essere, appunto “di protezione”. Quando si parla di “nullità di protezione” si fa riferimento innanzitutto all’art. 36 cod cons., che è peraltro l’unica norma che la menziona nel titolo e dunque si offre come base per una definizione. Il nome, suggerito da una nota sentenza della Corte di giustizia (che fra le prime si occupò del rimedio da poco introdotto per le clausole vessatorie nei contratti di consumo) e dall’elaborazione della nostra dottrina, intende dare conto della finalità (rispecchiata nel regime) del rimedio, così come delineato ora nell’art. 36 del nostro codice di consumo; il termine nullità di protezione preannuncia una speciale forma di invalidità “modellata” in funzione del suo scopo protettivo a beneficio del consumatore, e per questo dotata di una disciplina del tutto peculiare. Le clausole considerate vessatorie per legge e quelle che risultino tali all’esito di un apposito giudizio, recita la norma, «sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto»; e, come precisa il co. 3, «tale nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice». L’art. 36 delinea dunque una nullità speciale o comunque lontana

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dal modello codicistico da diversi profili. Di questi si suole di solito privilegiare il carattere necessariamente parziale, nel senso che, in deroga a quanto previsto dall’art. 1419, co. 1, c.c., essa colpisce la clausola o le clausole censurate, ma, per volontà della legge, non travolge l’intero contratto. La valutazione circa l’idoneità del contratto di sopravvivere ed avere effetti anche senza la clausola dichiarata nulla per vessatorietà dovrà prescindere in questo caso da ogni indagine sulla essenzialità delle clausole secondo la volontà delle parti, indagine richiesta invece, secondo la regola generale in tema di nullità parziale, dall’art. 1419, co. 1, c.c. (secondo cui la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto «se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità»). Una indagine di tipo “soggettivo” non è ammessa neppure a vantaggio del consumatore: «nel valutare se un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore e contenente una o più clausole abusive possa continuare a sussistere in assenza di dette clausole, il giudice adìto non può fondarsi unicamente sull’eventuale vantaggio per una delle parti, nella fattispecie il consumatore, derivante dall’annullamento di detto contratto nel suo complesso», avverte la Corte di giustizia (Corte giust. 15-32012, causa C-453/10 Pereničová, punto 36); all’opposto, il giudice dovrà valutare se il contratto possa essere mantenuto senza tale clausola «in linea di principio sulla base di criteri oggettivi» (Corte giust. 30-52013, causa C-397/11 Jőrös). Si tratta certamente di una importante deviazione dalla regola codicistica, in cui si manifesta sicuramente il consueto obiettivo di conservazione del contratto; ed il cui effetto, se si considerano i presupposti e l’oggetto della verifica di vessatorietà su cui ci siamo ampiamente soffermati sopra, è quello di far sopravvivere, se possibile, il contratto, riportandolo nei binari di un rapporto equilibrato di diritti ed obblighi tra le parti. Abbiamo già esaminato i problemi sollevati dalla disciplina, sotto il profilo dell’ammissibilità dell’integrazione del contratto con le norme dispositive, per colmare la lacuna determinata dalla nullità della clausola vessatoria (V, 5). Tuttavia il vero tratto qualificante della nullità di protezione – infatti esportato fuori dal caso in cui si discuta di nullità di clausole e si debba invece dichiarare la nullità dell’intero contratto – è che si tratta di una nullità a legittimazione relativa ma rilevabile d’ufficio dal giudice. Può agire per farla dichiarare solo il consumatore, ma non il professionista o

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i terzi o chiunque ne abbia interesse come previsto per la nullità in generale dall’art. 1421 c.c. e manca dunque il carattere della assolutezza proprio della nullità; ma, al contempo – altro significativo elemento distintivo – il carattere relativo della legittimazione non esclude la rilevabilità d’ufficio della nullità da parte del giudice. Questo inedito binomio, di una nullità a legittimazione relativa ma rilevabile d’ufficio dal giudice, era parso tanto irriducibile al nostro istituto della nullità che il legislatore, in sede di primo recepimento della dir. 93/13, aveva preferito parlare di “inefficacia”. Ora, l’art. 36 cod. cons., preferisce non richiamare la legittimazione relativa, che pure connota il rimedio, e usa la formula di una nullità che «opera soltanto a vantaggio del consumatore». E il cambiamento, come abbiamo fatto notare in altra sede, è significativo, perché segnala come la nullità di protezione da “nullità asimmetrica” in quanto consegnata alla disponibilità di una sola delle parti, diviene nullità a gestione asimmetrica, vale a dire rimedio che il giudice applica d’ufficio ma che deve maneggiare avendo presente e di mira posizione ed interesse di una sola delle parti (R. Alessi). La “convivenza” tra nullità a vantaggio della parte e potere officioso del giudice non è ovviamente semplice, sul piano dei princìpi e in sede applicativa, sotto il profilo sostanziale e processuale. E si è infatti rivelata – come fra poco diremo – il nodo centrale ai fini della ricostruzione dell’istituto e delle sue finalità. Dal suo terreno di elezione, quello della disciplina delle clausole vessatorie, la “nullità di protezione” si diffonde e penetra nell’ordinamento interno non solo quando si tratti di implementare direttive europee in materia di contratti professionista/consumatore (o cliente), ma altresì per scelta autonoma del legislatore che ne fa uso anche fuori dall’ambito dell’intervento di armonizzazione, eleggendolo anzi a naturale supporto di regole imperative a vantaggio di una parte contraente. Ciò che accomuna il rimedio, nelle fonti normative sparse, è sempre questo significativo allontanarsi della nullità dal terreno della invalidità radicale, necessaria e irrecuperabile, e dunque a legittimazione generale che le è propria e che la nostra tradizione conosce; e l’essere sempre posta a presidio dell’interesse di una parte, in contratti caratterizzati da un diverso potere contrattuale tra i partners. I regimi di questa nullità non sono in verità perfettamente sovrapponibili. La nullità può dirsi “testualmente” di protezione secondo la nozione desumibile dall’art. 36 cod. cons., dunque come nullità che opera a vantaggio di una parte ed è

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anche rilevabile d’ufficio dal giudice, nell’art. 127, co. 2, t.u.b. con riguardo a tutte le nullità previste nel suo titolo VI dedicato alla trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti, e dunque non solo le nullità parziali di clausole contrattuali di cui agli artt. 117, co. 6, 117-bis, co. 3, 125-bis, co. 6 per il credito ai consumatori, ma anche quella per difetto del requisito della forma scritta (art. 117, co. 1) o suo equivalente quale supporto durevole, art. 125-bis, co. 2, sempre del t.u.b. Allo stesso gruppo di regole deve ovviamente ascriversi l’art. 134, co. 1, cod. cons. ove la formula è quella più risalente secondo cui “la nullità” (del patto anteriore alla denuncia del difetto, che limiti o escluda i diritti di garanzia legale dell’acquirente di beni di consumo) «può essere fatta valere solo dal consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice». Ma in altri casi la legge esplicita solo la legittimazione ad agire di una parte. La nullità del contratto a distanza che abbia ad oggetto servizi finanziari, quando il fornitore ostacola il diritto di recesso o non rimborsa le spese o viola gli obblighi di informativa precontrattuale in modo da alterare in modo significativo la rappresentazione delle caratteristiche del contratto, è nullo e la nullità «può essere fatta valere solo dal consumatore», recita il co. 5 dell’art. 67-septiesdecies cod. cons.; fuori dai casi della contrattazione a distanza, la violazione del vincolo di forma scritta di tali contratti ovvero del divieto di clausole di rinvio agli usi, «può essere fatta valere solo dal cliente», recita l’art. 23, co. 3 t.u.f. Ed è parimenti solo alla “relatività” che fa riferimento l’art. 30, co. 7, t.u.f., per la nullità del contratto di collocamento di strumenti finanziari con offerta fuori sede ove il modulo o formulario non indichi la facoltà di recesso, nullità che, appunto, «può essere fatta valere solo dal cliente». Ancora, in versione squisitamente domestica, la nullità di protezione sempre nella veste, almeno testualmente, di sola nullità relativa o asimmetrica, compare nell’art. 2, co. 1, d.lgs. n. 122/2005, per la tutela degli acquirenti di immobili da costruire, dove la violazione da parte del costruttore dell’obbligo di procurare il rilascio e consegnare all’acquirente una fideiussione di importo pari a quanto ha riscosso e a quanto dovrà riscuotere per contratto prima del trasferimento del diritto, è sanzionata con la nullità del contratto «che può essere fatta valere unicamente dall’acquirente». Qui la legge è esplicita nel sancire la legittimazione relativa ma nulla dice circa la rilevabilità d’ufficio della nullità. Infine, vi sono norme ancora più ambigue: la nullità della clausola su termini di pagamento, saggio di interessi moratori, risarcimento, nelle

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transazioni commerciali, è dichiarata “anche d’ufficio” dal giudice, recita nella nuova versione il co. 2 dell’art. 7 del d.lgs. n. 231/2002 come modificato dopo la seconda dir. 2011/7/UE, mentre il co. 5, a proposito di clausole di predeterminazione o modifica della data di ricevimento della fattura, nelle transazioni commerciali in cui il debitore è la pubblica amministrazione, seccamente dispone «la nullità è dichiarata d’ufficio dal giudice». La rilevabilità d’ufficio rimanda qui in tutto alla regola di cui all’art. 1421 c.c., e dunque ad una nullità (a legittimazione) assoluta, ovvero, trattasi sempre di nullità che può essere fatta valere solo dalla parte “protetta”? Il nostro legislatore tace poi anche a proposito delle nullità previste in tema di subfornitura e non solo quando dovrebbe escludersi che si tratti di nullità “di protezione” o “asimmetriche”, perché deputate a sanzionare violazioni che indifferentemente possono giovare all’una o all’altra parte (come nel caso delle clausole vietate dall’art. 6, l. n. 192/1998, circa un potere di modificazione unilaterale delle clausole contrattuali, o un potere di recesso senza congruo preavviso); ma altresì quando si tratti di un patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica che, per definizione, è intercettato e censurato a protezione della parte fornitrice o cliente in situazione, appunto, di dipendenza economica. Il co. 3 dell’art. 9 chiarisce la competenza del giudice ordinario, onde segnalare il diverso ruolo dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ma nulla dice dal profilo che qui interessa. Il legislatore tace ancora a proposito della nullità per difetto di forma vincolata del contratto di subfornitura, prevista all’art. 2, co. 1, l. n. 192/1998 e del contratto di multiproprietà, di cui all’art. 72 cod. cons. E non si dica che qui ogni riflessione sul regime di nullità in conseguenza della sua funzione di protezione sarebbe fuor di luogo, attesa la natura di nullità “strutturale” della nullità per difetto di forma. Perché l’art. 127 t.u.b. e l’art. 23 t.u.f. dimostrano che nullità strutturale per difetto di forma e legittimazione relativa non sono antitetiche e dunque la “nullità di protezione” può ben essere anche quella per vizio di forma. Non v’è dubbio che in tutti i casi ricordati il rimedio della nullità si piega alla tutela di una parte del contratto; ma, in presenza di formule diverse – che scontano la provenienza da fonti stratificate e di epoche diverse – se si vuole recuperare una categoria unitaria di “nullità di protezione” occorre individuarne i caratteri sempre presenti. In particolare stabilire se la nullità, per essere “di protezione”, debba sempre replicare

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esplicitamente il modello dell’art. 36 cod. cons., essendo prevista dalla legge la legittimazione relativa (che opera a vantaggio di una sola parte) ma anche la rilevabilità d’ufficio dal giudice, e dunque essere in questo senso nullità “testualmente” di protezione, ovvero se basti individuare la funzione a cui è rivolto il rimedio per farne discendere sempre, malgrado i diversi dati testuali, i medesimi caratteri e in particolare la rilevabilità d’ufficio. O, ancora, se la finalità di protezione rechi con sé la legittimazione relativa ma non necessariamente e non sempre la rilevabilità d’ufficio, che ad essa è in qualche modo antitetica, tutte le volte in cui la legge non la preveda espressamente. La dottrina, pur con qualche dissenso, opta per un modello unitario ricalcato sull’art. 36 cod. cons. ogni qual volta si individui la finalità di protezione. E così sembra fare ora la S.C. particolarmente nelle recenti pronunce che hanno tentato una sorta di messa a punto dell’intera categoria della nullità recuperandone l’unitarietà; dove addirittura sembra ammettere anche la discussa figura di una nullità virtuale di protezione, cioè una nullità per contrarietà a norme imperative che, in ragione dello scopo di protezione soggiaccia (in questo caso pur nel completo silenzio della legge) allo stesso regime dell’art. 36, dunque a legittimazione relativa ma rilevabile d’ufficio (la citata pronuncia a s.u. 12-12-2014, n. 26243).

9. La nullità di protezione quale strumento di controllo e di conformazione dell’assetto di interessi Il regime speciale, come delineato nell’art. 36 cod. cons., in altri termini, discenderebbe dalla funzione del rimedio, e andrebbe applicato una volta ravvisato, nella disciplina di riferimento e nelle cause di nullità, lo scopo (asimmetrico) di protezione o, meglio, lo scopo di porre la nullità al servizio di un rapporto non squilibrato in danno del consumatore (o comunque di una sola parte). Spostando il discorso dai dati testuali alle finalità del rimedio, destinate a caratterizzarne il regime, può accogliersi la qualificazione della nullità di protezione come nullità funzionale. La dimensione funzionale è stata ravvisata nella circostanza che questa nullità «è commisurata e in stretto e immediato rapporto con il concreto assetto di interessi perseguito dalle parti ed ha come tale finalità essenzialmente conformativa di rimodellamento del regolamento contrattuale» (V. Scalisi). E di funzione conformativa parlano ora anche le

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Sezioni Unite (Cass. s.u. 12-12-2014, n. 26243). Si è inteso così sottolineare la precipua attitudine del rimedio non a demolire bensì a conservare, in versione corretta e conformata il contratto censurato; ma il carattere funzionale del rimedio ne sottolinea l’essere posto principalmente al servizio di un controllo di contenuto riferito non alla presenza nel contratto di presupposti e elementi “strutturali” ma agli esiti, agli effetti delle determinazioni pattizie. L’obiettivo è quello di vietare ed eliminare assetti contrattuali non corrispondenti al modello voluto dall’ordinamento a tutela della posizione della parte “debole” o comunque protetta; dunque l’alternativa validità/invalidità si scioglie a seguito di una valutazione ex post, circa gli effetti che la clausola svolge nel concreto di quell’assetto contrattuale e la nullità si piega a gestire con finalità conservativa l’alternativa tra caducazione o mantenimento del contratto così “depurato” o corretto. È evidente che, riguardata in rapporto alle sue cause, la nullità di cui parliamo non si presta ad essere sempre ricondotta appieno entro una dimensione funzionale così intesa, che è ritagliata piuttosto sul paradigma per così dire originario, quello della nullità delle clausole vessatorie e si adatta benissimo alle altre nullità sempre di carattere parziale, riferite a singole clausole. Il meccanismo di “correzione”, “conformazione” del contratto, non si ritrova certamente nel caso di nullità per difetto di forma, ma neppure, a ben vedere, nella nullità che diremmo squisitamente sanzionatoria che colpisce l’intero contratto ove non sia stata assicurata all’acquirente la garanzia fideiussoria o al cliente-investitore l’esplicita indicazione del diritto di recesso. Qui anzi, con fini sanzionatori, si registra una sorta di “sovradimensionamento” del rimedio, destinato a caducare l’intero contratto. Ma, a prescindere dal rilievo, non secondario, che la nullità di cui parliamo è più spesso utilizzata assecondandone la vocazione più propria di nullità parziale, cioè nullità di parte o di clausole del contratto, va detto che la dimensione funzionale, ovviamente da adattare alle diverse varianti, è rintracciabile sempre, ove si consideri proprio il regime della nullità. Il dovere operare “a vantaggio” della parte (o comunque su domanda della parte) protetta ovvero essere dichiarata d’ufficio dal giudice tenendo tuttavia presente questa finalità di vantaggio per una parte, fa sì che nella nullità di protezione l’alternativa validità/nullità si presenti come una variabile che dipende dal concreto svolgersi della vicenda contrattuale e del rapporto che ne è derivato, alla luce del quale andrà verificato se la violazione della regola posta a protezione del consumatore o del cliente,

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sia essa regola di forma o di contenuto, non si sia rivelata in concreto ininfluente sulla posizione del soggetto protetto. Insomma il regime consente e asseconda un apprezzamento del contenuto del contratto o di alcune sue parti non nella tradizionale versione statica (il regolamento consegnato all’accordo) ma in senso dinamico (il funzionamento del rapporto). La nullità è qui più rimedio che sanzione (sopra, 1). I caratteri e il regime della nullità di protezione, come sopra delineati, hanno posto da subito il problema di chiarire come si concili il carattere della disponibilità del rimedio (azionabile su iniziativa di una sola parte) con la rilevabilità d’ufficio; e, a monte, di chiarire fino a che punto questa nullità sia nullità di interesse generale e come questo interesse si combini con quello privato. L’esito di maggior pregio dell’elaborazione compiuta in sede europea, dalla Corte di giustizia, è quello di avere prima chiarito e poi ribadito con forza che la nullità di protezione, seppure rivolta a proteggere una parte “debole”, è posta a presidio di un interesse generale (la protezione del consumatore, appunto, assunta come interesse generale dell’ordinamento); facendone discendere da qui la necessaria rilevabilità d’ufficio su questa scia poi esplicitata nelle norme interne. In sequenza, dopo averne posto in luce l’obiettivo di protezione, la Corte di giustizia sottolinea la «natura imperativa dell’interesse pubblico su cui si fonda la tutela» che si intende garantire al consumatore; anzi, su questa linea, la Corte si spingerà a chiarire che è proprio in ragione della natura e dell’importanza dell’interesse pubblico sul quale si fonda la tutela che la dir. 93/13 garantisce ai consumatori, che l’art. 6 della direttiva «deve essere considerato come una norma equivalente alle disposizioni nazionali che occupano, nell’ambito dell’ordinamento giuridico interno, il rango di norme di ordine pubblico» (Corte giust. 6-10-2009, causa C-40/08 Asturcom); «il giudice nazionale è tenuto, dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto a tal fine necessari, a valutare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale che ricade nell’ambito di applicazione della direttiva 93/13» e dichiararne la nullità (v. ancora di recente, ma con rinvio ai tanti precedenti, Corte giust. 30 maggio 2013, causa C-397/11 Jőrös), e ciò sia nei giudizi individuali sia nelle azioni collettive intraprese in via preventiva dalle associazioni di consumatori, avute presenti sempre le conseguenze in termini di “squilibrio” in danno del consumatore. Su questa linea la nostra S.C., solo di recente occupatasi a fondo del tema (nella pronuncia a sezioni unite sopra richiamata), restituisce alla

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nullità uno “statuto” unitario, affermando che «il carattere di specialità della nullità non elide l’essenza della categoria della nullità stessa, coniugandosi entrambe» cioè nullità “generale” e nullità di protezione, «in un sinolo [N.d.A.: cioè un unicum inscindibile] di tutela di interessi eterogenei». L’unitarietà della categoria della nullità, e dunque la possibilità di «una equilibrata soluzione che ricostruisca le diverse vicende di nullità negoziale in termini e in rapporti di genus a species appare» afferma la Corte, «del tutto predicabile ancora oggi, così come solidamente confortata dalla stessa giurisprudenza comunitaria».

10. L’unitarietà dell’istituto della nullità e il (falso) problema della compatibilità tra dichiarazione ex officio e interesse della parte protetta Il recupero dell’unitarietà della categoria della nullità si compie proprio a partire dalla rilevabilità d’ufficio e dalla sua funzione. La stessa S.C., in un vicino precedente dal quale ora le Sezioni Unite prendono le distanze, aveva ravvisato invece la specialità del regime delle nullità di protezione proprio nella limitata applicabilità dell’art. 1421 c.c., almeno in mancanza di dati testuali, nel senso che la rilevabilità d’ufficio ex art. 1421 troverebbe una eccezione nelle «nullità per le quali sia dettato un regime speciale, come nel caso delle c.d. nullità di protezione, in cui il rilievo del vizio genetico è espressamente rimesso alla volontà della parte». Così prospettando come insuperabile una incompatibilità di principio tra legittimazione riservata alla sola parte e potere officioso del giudice, quando manchi una espressa previsione di legge. La pronuncia più recente a Sezioni Unite corregge decisamente il tiro, attestandosi sul principio che «la rilevabilità officiosa sembra costituire il proprium anche delle nullità speciali, incluse» anche «quelle denominate di protezione virtuali» ove cioè la nullità, sempre a tutela di una parte, non sia espressamente comminata ma discenda dalla violazione di norme imperative. La rilevabilità d’ufficio è il tratto qualificante del rimedio della nullità perché ne presidia la funzione di «elidere il disvalore regolamentare espresso dal contratto nullo»; e tale funzione della nullità non viene meno o arretra nel caso delle c.d. nullità di protezione, o comunque di nullità poste a presidio di un interesse privato, poiché qui

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«insieme al particulare si tutela comunque un interesse generale seppur in via indiretta: l’interesse proprio dell’ordinamento giuridico a che l’esercizio dell’autonomia privata sia corretto, ordinato e ragionevole. Essenziale al perseguimento di interessi che possono addirittura coincidere con valori costituzionalmente rilevanti, quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l’uguaglianza quanto meno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.), poiché lo squilibrio contrattuale tra le parti altera non soltanto i presupposti dell’autonomia negoziale ma anche le dinamiche concorrenziali tra imprese». (Cass. s.u. 12-12-2014, n. 26243, cit.) Il risultato è estremamente significativo sul piano sistematico. A maggior ragione lascia allora perplessi il tentativo – per la verità alquanto sommario e affrettato – di eliminare una ipotetica incompatibilità tra rilevabilità d’ufficio e eventuale interesse della parte a non vedere dichiarata la nullità nei termini di una sorta di “opposizione”. Riannodandosi ad una tesi ambiguamente ventilata dalla Corte di giustizia («il giudice deve dichiarare d’ufficio la nullità salvo che il consumatore si opponga» sentenza 4-6-2009, causa C-243/08 Pannon), ma poi a nostro avviso corretta nel prosieguo (nella sentenza 21-2-2013, causa C-472/11 Banif Plus Bank) la nostra Corte di Cassazione ritiene che il regime delle nullità di protezione si mantenga speciale solo nel senso di impedire qui al giudice di passare dalla rilevazione alla dichiarazione della nullità (pur riscontrandone i presupposti) se la parte nel cui interesse è prevista la nullità, nel corso del contraddittorio, manifesta la volontà di non avvalersene. «Se il giudice rileva la nullità di una singola clausola e la indica come possibile fonte di nullità alla parte interessata, quest’ultima conserva pur sempre la facoltà di non avvalersene, chiedendo che la causa sia decisa nel merito» (perché ad esempio ha valutato la clausola stessa in termini di maggior convenienza nonostante la sua invalidità). Una “scomposizione” del dovere officioso del giudice in rilevazione/indicazione e dichiarazione della nullità, quest’ultima non obbligatoria ed anzi paralizzabile dalla “facoltà di non avvalersene” che la parte legittimata conserva e può esplicitare in sede di contraddittorio (ma tale da escludere anche la nullità totale?). Si prospetta così una versione inedita e discutibile di rilevabilità

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d’ufficio “paralizzabile” dalla parte che ci sembra smentisca insieme e d’un colpo sia tutto il fondamento della costruzione da cui la S.C. si sforza di recuperare l’unità dell’istituto della nullità, vale a dire proprio la necessaria e generale rilevabilità d’ufficio in nome di un interesse generale; sia il pregevole sforzo della Corte di giustizia europea di chiarire come nella nullità di protezione l’interesse del consumatore perde il suo carattere particolare ed è attratto entro una dimensione generale, e per questo affidato (in mancanza di iniziativa della parte) al giudice. La rilevabilità d’ufficio, da ritenere senza limiti o preclusioni, riconduce la nullità di protezione nell’ambito della nullità in generale; ma in questo passaggio la nullità non perde l’obiettivo di proteggere l’interesse di una parte del contratto, e di dovere essere dunque rimedio che opera a vantaggio della parte, obiettivo che viene però consegnato al giudice. Riteniamo che, una volta coniugata con la rilevabilità d’ufficio, a prescindere dal fatto che il binomio sia sempre esplicitato o che sia esplicitato l’operare della nullità a vantaggio della parte, la legittimazione ristretta non esprima più la piena disponibilità del rimedio, ma serva a segnalare semmai la non legittimazione dell’altra parte (professionista). Il giudice dovrà tenere conto di quanto dedotto dal consumatore in giudizio, ma non per vedere paralizzato il proprio dovere d’ufficio nella declaratoria di nullità, ma semmai (e solo dunque in caso di nullità che potrebbe colpire una clausola) per apprezzare elementi che escludano la vessatorietà della clausola (che invece se riscontrata dovrà portare comunque alla pronuncia di nullità).

11. L’annullabilità: le cause e la funzione L’ordinamento si riserva di utilizzare lo strumento della nullità in modo mutevole e flessibile: la nullità del contratto può dipendere dal contrasto con la categoria aperta, dai confini mobili, delle norme imperative (nullità virtuale) ovvero dalla contrarietà a parametri altrettanto mutevoli ed aperti come “ordine pubblico” e “buon costume” o, ancora, da una valutazione ex post che verifichi l’effetto della clausola dentro il concreto assetto di interessi, nel caso della nullità di protezione e nei casi in cui sia parziale. Le cause di annullamento, invece, sono espressamente indicate dalla legge, a conferma della differente funzione assegnata all’annullabilità. Senza trascurare il ricorso a tale rimedio in altri casi (si pensi all’art. 1471 e all’annullamento della vendita stipulata in

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violazione dei divieti ivi previsti; all’art. 1973, annullamento della transazione conclusa sulla base di documenti in seguito riconosciuti falsi; ai casi di annullamento di delibere assembleari di società, ma anche al particolare regime del matrimonio) può dirsi che l’annullamento è essenzialmente rimedio posto a disposizione della parte a protezione del suo diritto ed interesse ad essere vincolato solo a seguito di una propria manifestazione di volontà libera e consapevole, non turbata, fuorviata, condizionata. Questa funzione è immediatamente ravvisabile nelle principali cause che il codice espressamente individua e raggruppa entro la disciplina della “annullabilità” del contratto, agli artt. 1425-1440, e cioè l’incapacità delle parti e i vizi del consenso (IV, III); ma, a ben vedere, un rimedio come l’annullabilità risponde bene all’interesse del rappresentato la cui volontà, pure espressa nel conferimento di tale potere, è stata disattesa e piegata ad esiti potenzialmente non voluti da un contratto che il rappresentante abbia stipulato con sé stesso o in conflitto di interessi (artt. 1394 e 1395 (IV, I, 11)). Su tali cause ci siamo già ampiamente soffermati. Dobbiamo solo sottolineare che, in perfetta aderenza con le ragioni che possono provocarlo, l’annullamento asseconda pienamente, con gli elementi di flessibilità che come vedremo ne caratterizzano il regime, la natura dell’interesse che intende proteggere: interesse particolare della parte, la cui tutela, seppure entro le coordinate dettate dalla legge, deve rimanere in principio affidata alla disponibilità dell’interessato.

12. Il regime dell’annullabilità L’annullamento del contratto può essere domandato solo dalla parte nel cui interesse è stabilito dalla legge (abbiamo già ricordato l’eccezione e la relativa ratio di cui al co. 2 dell’art. 1441). Si parla di legittimazione relativa o ristretta, limitata con riferimento alla parte cui di volta in volta la legge fa riferimento, tenuto conto della ragione dell’annullabilità. Escluso dunque il potere del giudice di rilevarlo e pronunciarlo d’ufficio, l’annullamento è pronunciato solo su domanda della parte legittimata (o su eccezione da questa sollevata). Dunque l’incapace, chi sia stato vittima di un proprio errore ovvero di dolo o di violenza, secondo le circostanze e i presupposti previsti, il rappresentato nei casi di cui agli artt. 1394 e 1395. Il regime di annullabilità degli atti

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compiuti dall’interdetto o inabilitato dopo la sentenza di interdizione o inabilitazione (per l’inabilitato gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione che egli abbia compiuto senza l’osservanza delle prescritte formalità) prevede la legittimazione, rispettivamente dell’interdetto, del tutore o suoi eredi o aventi causa nel caso di interdetto ovvero la legittimazione dell’inabilitato, suoi eredi o aventi causa nel secondo caso (art. 427 c.c.); mentre gli atti compiuti dall’incapace naturale (o dall’interdetto prima della interdizione, giusta il richiamo di cui all’art. 427 ult. co.) possono essere annullati, sempre che ricorrano i presupposti richiesti dalla legge, su istanza della persona o suoi eredi o aventi causa (art. 428 c.c.). Nel caso di contratto del minore, sarà legittimato questi o il suo rappresentante, oltre che eredi e aventi causa. Il giudice sarà chiamato non a prendere atto, dichiarandola con effetto retroattivo, della invalidità del contratto (come in caso di nullità); ma, accertato se ne ricorrano o meno i presupposti, annullerà il contratto, che fino a quel momento ha prodotto effetti come un contratto valido, ovvero rigetterà la domanda: si tratta di una sentenza costitutiva, che, ai sensi dell’art. 1445, travolgerà in parte gli effetti che il contratto abbia già prodotto. La sentenza di annullamento, infatti, ha piena efficacia retroattiva tra le parti, ma, tranne il caso in cui derivi da incapacità legale, lascia in vita, perché “non li pregiudica” i diritti acquistati dai terzi di buona fede a titolo oneroso. Si applicheranno la regola della trascrizione sanante (sopra ricordata) e le regole in tema di (priorità della) trascrizione, ma con i limiti previsti per l’annullamento per causa di incapacità legale (art. 2652, n. 6). Il regime dell’annullabilità conferma che il contratto, prima della eventuale sentenza che lo annulli, è produttivo di tutti i suoi effetti, alcuni dei quali soltanto però saranno al riparo dall’annullamento, in nome della tutela accordata alle posizioni dei terzi che abbiano acquistato diritti che in tale contratto trovavano a loro volta fondamento (aventi causa: chi abbia ad esempio acquistato da A la proprietà del bene trasferito ad A da B, trasferimento che verrà meno tra A e B a seguito della pronuncia di annullamento). Altri effetti nei confronti dei terzi e tutti gli effetti tra le parti verranno travolti, con gli obblighi restitutori che abbiamo ricordato a proposito della nullità. Ferma la non ripetibilità della prestazione contraria al buon costume, di cui all’art. 2035, l’art. 1443 esclude che l’incapace sia tenuto a restituire la prestazione «se non nei limiti in cui è stata rivolta a suo vantaggio», nel presupposto che

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l’incapacità abbia influito anche sulla destinazione e conservazione dell’utilità acquisita. Dal regime fin qui descritto trae fondamento la prescrittibilità dell’azione di annullamento, che può essere esercitata entro cinque anni, la cui decorrenza, nei casi di incapacità legale o di vizio del consenso decorre dal giorno in cui è cessata la violenza, o è stato scoperto l’errore o il dolo, o è cessata l’interdizione o inabilitazione, o il minore ha raggiunto la maggiore età (art. 1442, co. 2). Un termine relativamente breve, che tende a limitare il periodo di produzione di effetti comunque precari del contratto, anche nell’interesse dell’altra parte. Tuttavia, la parte convenuta in giudizio per l’esecuzione del contratto potrà opporre l’annullabilità anche se l’azione si è prescritta. Ciò mantiene il contratto comunque in una posizione di precarietà (pur se, si fa osservare, l’opponibilità in via di eccezione nel caso di specie presuppone una situazione, in qualche modo particolare, di un contratto non completamente eseguito per oltre un quinquennio dalla stipula). Sottolinea e completa la disponibilità del rimedio dell’annullabilità, l’istituto della convalida, la cui funzione è quella di recuperare il contratto ad una piena validità ed efficacia in tempi verosimilmente più ridotti, se ciò risponde all’interesse della parte che ne potrebbe chiedere l’annullamento. Il contratto è sanato dal momento in cui interviene la convalida, la quale, precludendo da quel momento in poi una azione di annullamento, elimina ogni incertezza sulla pienezza degli effetti fino a quel momento prodotti. La convalida è un atto riservato alla parte cui spetta l’annullamento e produce l’effetto “sanante” di cui all’art. 1444 solo se chi lo compie è «in condizione di concludere validamente il contratto» ed è comunque a conoscenza del motivo di annullabilità. Si tratta verosimilmente di due presupposti diversi: la parte che convalida, oltre ad essere capace di agire, deve avere conoscenza dell’annullabilità del contratto che intende sanare e della causa di tale annullabilità e non deve esserne ancora vittima (dunque avere acquistato la capacità, non essere sotto pressione della minaccia che costituisce violenza morale, ecc.). L’atto deve fare menzione del motivo di annullamento e contenere la dichiarazione di volere convalidare il contratto; si ammette però anche una convalida tacita tramite “volontaria esecuzione”, effettuata “conoscendo il motivo di annullabilità”. Non ripropone la ratio della convalida la rettifica del contratto affetto da errore: la rettifica, cioè l’offerta di eseguire il contratto secondo il contenuto e le modalità che la parte caduta in errore intendeva accetta-

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re, proviene dalla controparte di chi è legittimato all’azione di annullamento e impedisce l’esercizio di questa, in quanto elimina in radice il vizio.

13. La rescissione Di seguito all’annullamento, il codice civile disciplina la rescissione. Le fattispecie considerate – sempre riferite a contratti sinallagmatici – sono due: a) il contratto concluso in stato di pericolo, cioè il contratto con cui una parte ha assunto obbligazioni a condizioni inique, per la necessità, nota alla controparte, di salvare sé o altri dal pericolo di un danno grave alla persona (art. 1447); b) il contratto concluso in stato di bisogno, cioè il contratto nel quale vi sia una sproporzione tra la prestazione di una parte e quella dell’altra, conseguente allo stato di bisogno di una parte del quale l’altra ha approfittato per trarne vantaggio, purché la lesione ecceda la metà del valore che la prestazione eseguita o promessa dalla parte danneggiata aveva al tempo del contratto e perduri fino al tempo in cui è proposta la domanda di rescissione (art. 1448, co. 1, 2, 3). Abbiamo sottolineato a suo tempo (IV, IV, 7) come l’ordinamento non operi, almeno di regola, alcun controllo sulla convenienza economica dell’operazione contrattuale ovvero sulla adeguatezza del corrispettivo, neppure nei contratti a prestazioni corrispettive: ciò che rileva è qui che vi sia un bilanciamento di valore, come voluto dalle parti, tra le prestazioni legate, appunto, dal nesso di interdipendenza; ma una eventuale sproporzione, ad esempio, tra il valore di mercato di un bene ed il prezzo che è stato pattuito per la sua compravendita, non incontra alcun disfavore da parte della legge, purché sia frutto di una scelta libera e consapevole delle parti. D’altra parte, come abbiamo visto, i vizi della volontà possono condurre all’annullamento del contratto in quanto determinano un perturbamento della libera formazione ed espressione della volontà contrattuale di una parte, cagionata dall’altra parte (dolo, violenza morale) o comunque da questa conosciuta e potenzialmente utilizzata a proprio vantaggio (dolo del terzo, errore riconoscibile oltre che essenziale); senza che tuttavia rilevino le conseguenze, in termini di proporzione tra le prestazioni, di tale turbamento. La disciplina della rescissione conferma questa scelta dell’ordinamento. Il contratto, in entrambi i casi previsti, rispettivamente, nell’art.

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1447 e nell’art. 1448 c.c., non è rescindibile per la sola circostanza che una parte abbia manifestato una volontà di vincolarsi perturbata dalla situazione di pericolo o di bisogno; occorre che tale turbamento si sia riversato sulle condizioni del contratto determinando uno squilibrio significativo tra le prestazioni (condizioni inique o lesione oltre la metà). Ma neppure il dato obiettivo è sufficiente: poiché si richiede che lo stato di pericolo o lo stato di bisogno fossero noti alla controparte a cui vantaggio si sono risolti. Per converso, il dato in sé dello squilibrio, pur notevole (condizioni inique o lesione oltre la metà), ove non dipendente dalla situazione di pericolo o di bisogno che ha condizionato la volontà contrattuale della parte svantaggiata, non sarebbe idoneo da solo a determinare alcuna conseguenza sulla validità ed efficacia del contratto. Per questo la rescissione – come dimostra la sua collocazione, tra l’azione di annullamento e quella di risoluzione – partecipa in parte del regime delle invalidità del contratto, con cui ha in comune la funzione di reagire ad un difetto genetico (i presupposti si riferiscono tutti al momento della stipula del contratto) e ad una non libera formazione della volontà negoziale, ma si atteggia altresì come rimedio allo squilibrio del sinallagma contrattuale e al rapporto tra le prestazioni che dovrebbe essere frutto del libero accordo. Non possono essere rescissi per causa di lesione, precisa infatti il co. 4 dell’art. 1448, i contratti aleatori. Nella sistematica delle norme qui ricordate, gli artt. 1448 ss. sono dedicati alla disciplina della azione generale di rescissione per lesione, da applicare anche alla peculiare fattispecie delineata nell’art. 1447, concernente il contratto concluso in stato di pericolo. Con riguardo a tale fattispecie va sottolineato che la situazione di pericolo, secondo la legge, deve essere attuale, e deve poter comportare un danno grave alla persona. Dunque, a differenza di quanto avviene per la violenza, il pregiudizio (che dovrà attingere livelli di gravità in qualche modo accostabili a quelli delineati nell’art. 1435) rileva qui in quanto riferito esclusivamente alla persona (del contraente o di terzi non importa), ma non al patrimonio. Dovrà trattarsi di un pericolo attuale, e dunque non temuto o supposto. Non rilevano le cause (naturali o umane) che lo abbiano determinato; il contraente deve trovarsi nella situazione di pericolo, mentre ricorrerà una fattispecie di violenza (ricorrendo i requisiti di cui all’art. 1435), se il pericolo si configurasse quale male minacciato per indurre a contrarre e a contrarre a condizioni inique. L’iniquità cui allude l’art. 1447 deve intendersi, alla luce della disciplina

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generale del rimedio, sempre come sproporzione tra le obbligazioni assunte da chi è in pericolo e quelle di controparte. La diversa formulazione dell’art. 1447, in confronto a quella di cui all’art. 1448, impedisce tuttavia di ritenere che anche in questo caso l’iniquità debba collocarsi oltre la soglia della metà del valore di una prestazione rispetto all’altra. Ulteriore distanza con il modello del contratto annullabile per vizi del volere, si coglie con riguardo alla posizione della controparte: egli di sicuro si avvantaggia delle condizioni inique e dunque potrà subire la rescissione pur se non ha dato origine alla situazione di pericolo e tuttavia occorre che abbia avuto conoscenza della situazione particolare nella quale si trovava il suo partner. Presupposto dell’azione è dunque la malafede dell’altro contraente che secondo la giurisprudenza ricorre anche per la sola circostanza dell’esistenza di condizioni inique, di cui egli non poteva non accorgersi. Nella fattispecie di cui all’art. 1448 il livello su cui deve attestarsi la sproporzione, per essere rilevante, è fissato dalla legge: deve trattarsi di una lesione che va oltre la metà del valore che la prestazione eseguita o promessa aveva al tempo del contratto. La lesione oltre la metà, dunque, che deve perdurare fino al tempo in cui viene proposta la domanda di rescissione. Il prezzo del bene acquistato, dunque, dovrà essere superiore di oltre la metà del valore che lo stesso aveva al momento della stipula del contratto, almeno sul mercato di quel bene, in quel momento: potrò agire per la rescissione se avrò acquistato a 10.000 euro un quadro la cui quotazione al tempo del contratto era di 4.000 euro, ma non se era quotato 5.000 o qualcosa in più, e sempre che nel frattempo le quotazioni non siano salite erodendo il margine di lesione oltre la metà. Qui si richiede, quale causa della sproporzione, lo stato di bisogno, dunque una situazione di difficoltà economica, ovvero l’intento di evitare un pregiudizio economico; si ammette che possa trattarsi di un pregiudizio economico di un terzo, nel qual caso il bisogno della parte contraente sarebbe affettivo o morale. Ai fini della esperibilità dell’azione generale di rescissione i tre presupposti (la sproporzione oltre la metà del valore di una prestazione rispetto all’altra, lo stato di bisogno in conseguenza del quale la parte accetta il contratto nel quale vi sia tale sproporzione a proprio svantaggio, l’approfittamento della controparte o quanto meno la sua conoscenza dello stato di bisogno che si traduce a proprio vantaggio) devono ricorrere congiuntamente e non vi è tra di essi un qualche ordine di priorità;

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sicché, ravvisata la mancanza di uno di essi, il giudice dovrà rigettare la domanda rimanendo superflua una indagine sulla ricorrenza degli altri due elementi. La giurisprudenza della S.C. è costante nell’affermare che «il requisito dello stato di bisogno richiesto dall’art. 1448 c.c., che costituisce uno degli elementi per l’ammissibilità dell’azione generale di rescissione – non coincide con l’assoluta indigenza o con una pressante esigenza di denaro, ma deve tuttavia intendersi come ricorrenza, anche se contingente, di una situazione di difficoltà economica riflettentesi non solo sulla situazione psicologica del contraente di modo da indurlo ad una meno avveduta cautela derivante da una minorata libertà di contrattazione, ma anche sul suo patrimonio si da determinare, in rapporto di causa ed effetto, una situazione di lesione ingiusta del medesimo in conseguenza della sproporzione tra la prestazione eseguita e quella ottenuta». (Cass. 15-2-2007, n. 3388) Con riguardo alla posizione della controparte, poi, «l’approfittamento dello stato di bisogno consiste nella consapevolezza che una parte abbia dello squilibrio tra le prestazioni contrattuali derivante dallo stato di bisogno altrui di cui ha parimenti conoscenza ... e dunque non basta uno squilibrio solo ipotizzato da parte del contraente in posizione di vantaggio». (Cass. 28-1-2015, n. 1651) In particolare, seppure non occorrerà provare una specifica attività posta in essere dal contraente avvantaggiato per sollecitare la conclusione del contratto, dovrà pur sempre emergere in giudizio, attraverso la complessiva valutazione del comportamento della parte, che l’altrui stato di bisogno fosse noto e avesse spinto questa parte al contratto. Il regime del rimedio ne mette in luce l’impossibilità di appiattirlo entro lo schema dell’invalidità (sub specie di annullamento). La legittimazione è ovviamente relativa (spetta solo alla parte che subisce la lesione per la sproporzione), l’azione va esercitata in un tempo assai bre-

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ve, prescrivendosi in un anno, e oltre l’anno il rimedio non potrà neppure farsi valere per via di eccezione; ancora – e questo ci sembra il dato più significativo – la rescissione (una volta pronunciata con sentenza costitutiva) ha effetto solo tra le parti e non «pregiudica i diritti acquistati dai terzi». A meno che non intervengano le regole sulla trascrizione – il contratto rescisso aveva ad oggetto beni immobili o mobili registrati e il terzo ha acquistato diritti su di questi ma non ha trascritto prima della trascrizione della domanda di rescissione – dunque, la rescissione travolge il vincolo tra le parti, obbligandole alle restituzioni o alle conseguenze dell’indebito arricchimento, ma non è opponibile ai terzi. Altrettanto significativo, per cogliere la differenza di presupposti e di ratio rispetto all’annullamento, è che il contratto rescindibile può essere “salvato” ma non, come nel caso di vizi della volontà, per una successiva adesione consapevole della parte protetta: il contratto rescindibile non può essere convalidato, recita l’art. 1450 c.c. L’attenzione dell’ordinamento è qui rivolta precipuamente al risultato del perturbamento della volontà negoziale, piuttosto che al dato in sé del vizio del volere; dunque il contratto rescindibile potrà essere preservato ma solo se sarà eliminata la sproporzione tra le prestazioni e dunque tramite “offerta di modificazione del contratto” e “riconduzione ad equità” di questo. L’iniziativa della “modificazione del contratto” onde consentirne una “riconduzione ad equità” è esclusivamente rimessa alla parte; non è previsto cioè e non potrebbe validamente esercitarsi un intervento d’ufficio del giudice. Al giudice, in caso di mancata adesione della controparte ovvero di contrasto tra le parti, spetterà di valutare la congruità dell’offerta ai fini della riconduzione del contratto a quell’equilibrio che la legge ha inteso garantire nel contratto sinallagmatico e che l’autonomia privata non aveva originariamente assicurato nel contratto rescindibile. È importante sottolineare il ruolo, rispettivamente, delle parti e del giudice. Mentre l’alternativa tra subire la rescissione chiesta dalla controparte pregiudicata ovvero offrire una modificazione del contratto è riservata alla parte citata in giudizio per sentire pronunciare la rescissione, la idoneità dell’offerta di modificazione – che consentirebbe la conservazione del contratto – non è lasciata alla libera e discrezionale valutazione della parte pregiudicata dalla rescissione: alla quale il rimedio della rescindibilità del contratto non è concesso quale strumento per liberarsi comunque dal vincolo, bensì solo quale rimedio alla sproporzione tra prestazione cui si è obbligata e controprestazione attesa

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determinatasi per la situazione di pericolo o di bisogno in cui la parte si trovava e di cui il suo partner si sia avvantaggiato consapevolmente. Una offerta congrua di modificazione, dunque, secondo l’apprezzamento del giudice, pur se rifiutata, condurrà al recupero del contratto, poiché il giudice in questo caso rigetterà la domanda di rescissione. Ne risulta confermata la indisponibilità del rimedio. La legge, con l’azione di rescissione, non intende impedire che le parti, nel libero esercizio della loro autonomia, pongano in essere accordi dichiaratamente “squilibrati”, se considerati, ad esempio, alla luce dei valori di mercato del bene o della prestazione scambiata: il contratto di compravendita a prezzo vile, lo abbiamo già ricordato, è perfettamente valido. Si intende invece qui intercettare e sanzionare lo squilibrio determinato da una situazione di menomazione dell’autonomia negoziale di una parte (in stato di pericolo o di bisogno) della quale la controparte consapevolmente si avvantaggi. Dunque, verificatisi i presupposti che consentono di agire per la rescissione, sarà solo il ripristino dell’equilibrio tra le prestazioni che potrà porre il contratto al riparo dal rimedio. Una offerta di modificazione del contratto formulata in via stragiudiziale precluderà l’esercizio dell’azione di rescissione, pur se non sia ancora spirato il termine di prescrizione e la modificazione concordata non abbia determinato il ripristino della corrispettività, non perché il rimedio sia in qualche modo consegnato alla “gestione” delle parti (e ricordiamo che il contratto rescindibile non è convalidabile), ma perché, rintracciandosene i presupposti, ci si troverà semmai di fronte ad una vera e propria rinegoziazione con cui le parti abbiano espresso una nuova libera volontà di modificare il vincolo originariamente assunto. Nel contesto della disciplina fin qui descritta e alla luce dei presupposti e della ratio della rescissione la “riconduzione ad equità” di cui parla l’art. 1450 c.c. non rimanda a parametri di equità, giustizia, adeguatezza dello scambio ai bisogni della parte, quali parametri esterni di controllo di vantaggio e sacrifici rispettivamente assunti dalle parti; ma fa riferimento alla riconduzione del contratto a quell’equilibrio tra prestazione e controprestazione che è richiesto dalla natura sinallagmatica. E d’altra parte, una volta instaurato il giudizio, azione di rescissione e offerta di modifica non rimettono ad una sorta di rinegoziazione delle parti la determinazione dell’entità dello scambio: la parte legittimata ad offrire la riconduzione ad equità rimane libera di decidere se proporla e di che entità, ma sarà il giudice a valutarne la portata economica e a rigettare la domanda di rescissione

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nel presupposto che le conseguenze dell’originario perturbamento della volontà negoziale di una parte ne risultino neutralizzate.

14. (Segue). Contratto rescindibile e contratto usurario La l. 7-3-1996, n. 108 ha modificato l’art. 644 c.p. e dunque gli elementi che integrano la fattispecie penale del reato di usura, che consiste nel farsi «promettere o dare sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari». Alla stessa pena soggiace, continua la norma chi, fuori del caso di concorso nel delitto di cui sopra, «procura a taluno una somma di denaro od altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario». La legge stabilisce il limite oltre il quale, nelle operazioni creditizie ivi prese in considerazione, gli interessi sono sempre usurari, limite (c.d. tasso soglia) identificato (secondo quanto prevede la l. n. 108/1996) nel tasso medio risultante dall’ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato di un quarto, cui si aggiunge un margine di ulteriori quattro punti percentuali. La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari. Ma, aggiunge il co. 3 dell’art. 644 c.p., «sono altresì usurari gli interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria». Il reato di usura è integrato, in una parola, da un contratto usurario, col quale vengono appunto previsti interessi usurari ex lege o comunque usurari perché sproporzionati, in cambio della prestazione di denaro o altra utilità. È evidente a questo punto la possibile sovrapponibilità tra contratto rescindibile e contratto usurario, che tuttavia non necessariamente coincidono essendo fattispecie strutturalmente diverse. La legge, accanto ad una usura c.d. presunta, conseguente alla pattuizione di interessi commisurati ad un tasso superiore al tasso soglia, punisce anche l’usura c.d. in concreto e per ravvisare il reato, in questo caso, richiede, accanto alla sproporzione tra interessi o altri compensi pattuiti e denaro o utilità di cui tali interessi co-

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stituiscono corrispettivo (cioè, come si è sottolineato anche in giurisprudenza, uno squilibrio tra le prestazioni contrattuali determinato dalla misura dei vantaggi unilateralmente conferiti ad una sola delle parti tale da alterare significativamente il sinallagma contrattuale) anche la circostanza che la vittima si trovasse «in condizioni di difficoltà economica o finanziaria». Il primo requisito consente dunque di trovarci di fronte ad un contratto con interessi usurari senza che tuttavia si ravvisi la lesione oltre la metà voluta dall’art. 1448. Inoltre l’espressione usata ma soprattutto la previsione dello “stato di bisogno” della vittima come circostanza aggravante confortano l’interpretazione prospettata dalla Cassazione (penale) secondo cui le «condizioni di difficoltà economica o finanziaria» della vittima si distinguono dallo “stato di bisogno”, e vanno identificate con una situazione meno grave, che «pur privando la vittima della piena libertà di contrarre può essere ad esempio anche reversibile (anche una momentanea carenza di liquidità pur nel quadro di una situazione patrimoniale sana) mentre lo stato di bisogno è una situazione di necessità tendenzialmente irreversibile che compromette fortemente la libertà contrattuale». Può dirsi allora, pur se con una certa approssimazione, che, quanto più si svaluta, come fa la nostra giurisprudenza, l’elemento dell’approfittamento dello stato di bisogno, ritenendolo integrato dalla semplice consapevolezza che di questo stato abbia la controparte, tanto più il contratto rescindibile integrerà quasi sempre anche una fattispecie penale di usura in concreto sempreché siano rintracciabili anche i presupposti di cui all’art. 1448 c.c. Potrà aversi contratto usurario, per c.d. usura in concreto, ove manchino tuttavia i presupposti del contratto rescindibile (stato di bisogno e lesione oltre la metà); ma, all’opposto, il contratto rescindibile presupporrà comunque l’esistenza dei (più ridotti) parametri da cui dipende l’usurarietà. La sovrapposizione rileva soprattutto ai fini della identificazione dei rimedi. Se trattasi di contratto di mutuo soccorre l’esplicito rimedio-sanzione previsto ora al co. 2 dell’art. 1815 c.c., come modificato dalla citata l. n. 108/1996, secondo cui se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla e non sono dovuti interessi, così tramutandosi il mutuo oneroso in mutuo gratuito. Negli altri casi, e qualora il carattere usurario del contratto dovesse riguardare non già la corresponsione di interessi ma un altro diverso vantaggio avente carattere immediato, si è prospettato che l’illiceità del contratto, in contrasto con la legge penale, ne dovrebbe comportare la nullità (si tratterebbe di reato-contratto,

Capitolo Settimo – Il controllo sull’atto e il regime delle invalidità

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nullo secondo alcuni ex art. 1418, co. 1 e secondo altri per la presenza di un motivo illecito comune e determinante del consenso ex art. 1345 c.c.). Conclusione che apre però ad una alternativa di non facile soluzione: o dovrà ammettersi che la nullità, pur essendo rimedio più radicale, colpisce solo il contratto usurario nella versione meno grave di contratto usurario ma non rescindibile, o dovrà prendersi atto del sensibile ridimensionamento del rimedio della rescissione, quasi mai invocabile per la preminente applicazione del regime dell’usura con conseguente rimedio civilistico della nullità. Per questo, un diverso orientamento – escluso che nel caso di usura sia rintracciabile un reato-contratto, essendo la condotta penalmente vietata non la stipula del contratto in sé ma il comportamento tenuto nella stipulazione di questo (sopra, 4) – propende per una ricostruzione del quadro normativo (certamente delineato con molta approssimazione dall’intervento del legislatore del 1996) che riaffermi se così può dirsi la preminenza della fattispecie civilistica e della relativa sanzione: il contratto usurario non sarebbe nullo e l’azione di rescissione presidierebbe le conseguenze civilistiche del contratto usurario, quanto meno nell’ipotesi di lesione oltre la metà aggravata dallo stato di bisogno della vittima; mentre in assenza dei presupposti di cui all’art. 1448, la sanzione civilistica al contratto usurario sarebbe quella del risarcimento del danno. Problema diverso, che si lega all’ammissibilità della c.d. nullità sopravvenuta (sopra, 6) è quello che attiene alla rilevanza della c.d. usura sopravvenuta. Problema che si pone sia per i contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della legge, sia sotto il diverso profilo che attiene alla possibilità di verificare e assegnare rilevanza alle condizioni contrattuali nel caso in cui, in un contratto che rientri nell’ambito di applicazione della legge antiusura, ad esempio di mutuo, il tasso di interessi originariamente lecito, perché sotto il tasso soglia, lo superi nel prosieguo per effetto di una sopravvenuta variazione in diminuzione della misura del tasso soglia: e sul punto si sono sempre confrontate in dottrina e giurisprudenza tesi contrastanti. La rilevanza della usurarietà sopravvenuta presuppone di aderire alla tesi secondo cui la valutazione di usurarietà deve essere rapportata non al momento di perfezionamento del negozio, bensì al momento del pagamento degli interessi, ovvero (secondo una diversa lettura) al momento della relativa maturazione. Con riguardo al superamento del tasso soglia nel corso di rapporti instaurati prima dell’entrata in vigore della l. n. 108/1996 è

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sembrato prevalere un orientamento in qualche modo analogo a quello sopra ricordato a proposito della nullità del contratto di swap: la S.C. ha riproposto da ultimo la tesi secondo cui, nei rapporti non ancora esauriti derivanti da contratti anteriori alla legge, le clausole originariamente pattuite rimangono valide e va dunque esclusa l’automatica sostituzione del tasso originariamente determinato con quello legale, ma gli interessi corrispettivi e moratori ulteriormente maturati e sopra-soglia vanno considerati usurari e dunque automaticamente sostituiti, secondo il meccanismo degli artt. 1419, co. 2, e 1339 c.c., cioè nullità parziale e inserzione automatica di una misura degli interessi rispettosa dei tassi soglia, riferiti ai diversi periodi (Cass. 11-1-2013, n. 602). Con ordinanza n. 2484 del 31-1-2017 la questione è stata ora rimessa alle Sezioni Unite della S.C., chiamate a risolvere il contrasto giurisprudenziale.

Capitolo Ottavo – Le vicende del rapporto: cause di scioglimento e poteri privati

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CAPITOLO OTTAVO

LE VICENDE DEL RAPPORTO: CAUSE DI SCIOGLIMENTO E POTERI PRIVATI

SOMMARIO 1. Il contratto come rapporto e la sua esecuzione. – 2. Le possibili “reazioni” all’inadempimento all’interno della vicenda contrattuale: le eccezioni sospensive e/o dilatorie. – 3. L’inadempimento e la sorte del contratto. – 4. L’azione di adempimento. – 5. Il rapporto tra risoluzione per inadempimento e risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione. “Imputabilità” dell’inadempimento e ruolo della diligenza. – 6. La “non scarsa importanza” dell’inadempimento causa di risoluzione. – 7. Predeterminazione legale dell’importanza dell’inadempimento e tecniche di “recupero” della corretta esecuzione del contratto. – 8. La priorità, ex lege, del recupero del contratto mediante esatto adempimento nella vendita di beni di consumo. – 9. Autonomia privata e “governo” degli effetti dell’inadempimento. – 10. Gli obblighi restitutori e il risarcimento del danno. – 11. (Segue). Il danno non patrimoniale da inadempimento. – 12. La quantificazione in via convenzionale del danno da inadempimento del contratto: la diversa funzione della caparra confirmatoria e della clausola penale. – 13. Tutela risarcitoria collettiva dei consumatori: l’azione di classe. – 14. Risoluzione per impossibilità sopravvenuta. – 15. Impossibilità della prestazione pattuita e responsabilità del professionista nel contratto di vendita di pacchetti turistici. – 16. Il perimento della cosa nei contratti ad effetti traslativi e la regola speciale nella vendita di beni di consumo. – 17. Risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.

1. Il contratto come rapporto e la sua esecuzione Abbiamo già messo in evidenza la fondamentale differenza, quanto ai presupposti, alle finalità e alle conseguenze, tra strumenti attraverso i quali l’ordinamento intercetta difetti genetici del contratto (come atto), che si presentano cioè nel momento della nascita di questo e ne impediscono la valida formazione e strumenti con cui la legge intercetta patologie che attengono al rapporto contrattuale, interviene cioè a discipli-

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nare le conseguenze di eventi che impediscono la regolare esecuzione del contratto (difetti funzionali). Nel primo caso, la diversità dei presupposti conduce ad una differente disciplina e ad una sorta di graduazione dell’intensità del rimedio – dall’invalidità, secondo i differenti regimi della nullità e dell’annullabilità, alla rescissione – ma rimane comune l’intento di impedire che il contratto produca effetti ovvero consentire che questi, se prodotti, vengano meno tra le parti e in alcuni casi anche nei confronti dei terzi. Nel secondo caso, si tratta di stabilire se e con quali conseguenze il contratto, pur validamente concluso e talora già in parte eseguito, possa sciogliersi, regolando altresì la sorte degli effetti già prodotti: e ci riferiamo dunque alla risoluzione del contratto. Va detto subito che deve parlarsi di scioglimento del contratto, come abbiamo visto e come fa l’art. 1372 c.c., nel caso di mutuo dissenso, ma anche nel caso di recesso convenzionale, allorché dunque la cessazione degli effetti del contratto discende dalla volontà delle parti o di una di esse. È ancora alla volontà di una parte che si deve lo scioglimento del contratto nei casi di recesso c.d. legale, ove la parte potrà esercitare sempre con proprio atto di volontà il diritto di svincolarsi dal contratto che in questi casi le è attribuito dalla legge e non dal contratto. Ancora alla volontà delle parti e al potere loro riconosciuto di “governare” gli effetti del contratto, deve farsi risalire lo scioglimento del contratto per l’avverarsi della condizione risolutiva da esse apposta come elemento accidentale (V, 10). La risoluzione, invece, reagisce a situazioni sopravvenute che le parti non hanno previsto o che comunque non rientrano nella fisiologia del rapporto da esse voluto, del programma contrattuale e dell’assetto di interessi concordato e che, in particolare, colpiscono il nesso tra le prestazioni proprio dei contratti sinallagmatici. La risoluzione (salva qualche eccezione di cui diremo), è rimedio riservato ai contratti a prestazioni corrispettive (IV, 6), dove ha lo scopo di regolare la sorte del contratto una volta che l’estinzione della o delle obbligazioni a carico di una parte, nei casi previsti dalla legge, privi di giustificazione la o le obbligazioni corrispettive a carico dell’altra. Così, come abbiamo accennato, accanto ai rimedi che presidiano in generale il regime delle obbligazioni – l’impossibilità sopravvenuta della prestazione libera il debitore dalla sua obbligazione ai sensi dell’art. 1256 ss. c.c., mentre l’inadempimento, se dovuto a causa a lui imputabile, lo espone alla responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. – occorrerà

Capitolo Ottavo – Le vicende del rapporto: cause di scioglimento e poteri privati

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stabilire quale sia in questi casi la sorte del contratto nel caso in cui la prestazione o le prestazioni non più eseguibili o non eseguite correttamente trovino corrispondenza, nel regolamento di interessi delineato dalle parti, nella o nelle controprestazioni a carico dell’altra parte, vale a dire, appunto nei contratti sinallagmatici. Compito che, a fronte dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione ex art. 1256, è assegnato dal codice all’art. 1463 ss. (risoluzione per impossibilità sopravvenuta) e, nel caso di inadempimento ex art. 1218, è svolto invece dalle regole di cui agli artt. 1453 ss. (risoluzione per inadempimento). Colpisce pur sempre il nesso di corrispettività tra le prestazioni anche lo squilibrio, se eccessivo e non rientrante nell’assetto di interessi posto in essere tra le parti (né nell’orizzonte di prevedibili scostamenti da questo che esse possano avere tenuto presenti), tra il valore della prestazione e quello della controprestazione: squilibrio che, alle condizioni volute dalla legge, nei contratti di durata, può condurre alla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. I differenti presupposti giustificano, ovviamente, talune diversità nel funzionamento del rimedio e dunque nel regime della risoluzione. Da qui, in particolare, l’impostazione del codice che alla risoluzione del contratto fa espresso riferimento già nel titolo della sezione I, del capo XIV (titolo II, libro IV), e nell’art. 1453, quando trattasi di risoluzione per inadempimento; richiama la risoluzione, rinviando agli effetti di cui all’art. 1458 (dettato per la risoluzione per inadempimento), nel testo dell’art. 1467, dedicato alle conseguenze della eccessiva onerosità della prestazione; ma neppure menziona il rimedio negli artt. 1463-1466, per il caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione. La scelta, come vedremo, è corretta e giustificata sotto il profilo sistematico, tenuto conto, appunto, delle diverse cause, del diverso modo in cui risulta pregiudicato il vincolo di corrispettività tra le prestazioni e della oggettiva irrecuperabilità o meno di tale nesso. Tuttavia, la collocazione entro lo stesso capo XIV intitolato alla “risoluzione del contratto”, come anche taluni rinvii più o meno espliciti, confermano la riconducibilità dei tre regimi entro il comune rimedio della risoluzione, con l’applicazione nelle tre fattispecie, in quanto compatibili, delle norme dettate per la risoluzione per inadempimento, nella quale correttamente si riconosce il modello generale di risoluzione. Modello che viene poi non smentito, ma “adattato”, in particolare con riguardo alle conseguenze dell’inadempimento sulla sorte del contratto, all’interno di singoli tipi contrattuali,

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in conseguenza di talune specificità, valorizzate – come vedremo – soprattutto nell’ambito di talune discipline settoriali successive al codice. All’autonomia privata è consentito “gestire” anche la sorte del contratto in caso di inadempimento, attraverso gli strumenti di risoluzione stragiudiziale (o risoluzione di diritto), quali diffida ad adempiere, termine essenziale, clausola risolutiva espressa, che, come vedremo, si atteggiano diversamente anche con riguardo ai margini di libertà consentiti alle parti. È ancora dalla scelta concordata di ricorrere alla caparra confirmatoria che può discendere uno scioglimento del contratto, a seguito di inadempimento, per atto unilaterale di recesso dell’altra parte, in conformità a quanto previsto dall’art. 1385 c.c. (che tuttavia lascia alla parte la possibilità di optare per la risoluzione). Rimane sempre nella disponibilità dei privati un intervento correttivo e “di recupero” che, in corso di rapporto, elimini situazioni di squilibrio che alterano il funzionamento del sinallagma attraverso la modifica di taluni elementi dell’originario programma contrattuale. Dubbia è tuttavia la possibilità, pur prospettata in dottrina, di individuare a carico delle parti, per il tramite del canone di buona fede, un vero e proprio obbligo di rinegoziazione del contratto al presentarsi di tali evenienze. Il sistema conosce tecniche di conservazione e di recupero del contratto “squilibrato” per la eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione o per la presenza dei presupposti di rescindibilità (l’offerta di riconduzione ad equità di cui all’art. 1467, ult. co. o di modificazione del contratto di cui all’art. 1450 c.c.) o, ancora, meccanismi dilatori che consentano al debitore di sanare le inadempienze già contestategli (la c.d. purgazione della mora del conduttore di immobili urbani o dell’affittuario di fondi rustici): ma si tratta di rimedi “conservativi” espressamente previsti dalla legge, in cui ambiti ed effetti degli atti di autonomia privata sono regolati dalla legge. È ancora una norma – di derivazione europea e destinata a precisarsi in sede regolamentare nelle disposizioni della Banca d’Italia – cioè l’art. 120 quinquiesdecies t.u.b. che, come abbiamo visto, in modo più generico prefigura ora procedure concordate banca-cliente volte a “gestire” una possibile crisi di insolvenza del debitore-mutuatario in alternativa ai consueti rimedi risolutori.

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2. Le possibili “reazioni” all’inadempimento all’interno della vicenda contrattuale: le eccezioni sospensive e/o dilatorie La sezione I del capo XIV (del titolo dedicato ai contratti in generale) del codice civile fa riferimento alla “risoluzione per inadempimento”: ma al suo interno, dopo le norme dedicate a questo rimedio (gli artt. 1453-1459), sono disciplinati altresì due rimedi diversi dalla risoluzione, con cui si consente alla parte non inadempiente di “governare” una situazione nella quale la corretta esecuzione del contratto appaia pregiudicata, seppure non irrimediabilmente compromessa: si tratta di strumenti di autotutela che potremmo definire a carattere interlocutorio, poiché nel mentre fanno emergere la situazione senza dubbio patologica nella quale il rapporto contrattuale si è avviato, ne consentono ancora il recupero. Si tratta della eccezione d’inadempimento, di cui all’art. 1460 e della sospensione dell’esecuzione per mutamenti nelle condizioni patrimoniali dei contraenti, di cui all’art. 1461. Nei contratti con prestazioni corrispettive, ai sensi dell’art. 1460 c.c., «ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria» salvo che termini diversi per l’adempimento siano stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto. Tuttavia, aggiunge il co. 2, «non può rifiutarsi l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede». Ai sensi dell’art. 1461, invece, «ciascun contraente può sospendere l’esecuzione della prestazione da lui dovuta, se le condizioni patrimoniali dell’altro sono divenute tali da porre in evidente pericolo il conseguimento della controprestazione, salvo che sia prestata idonea garanzia». I due rimedi, dunque, hanno in comune lo scopo e l’effetto – di sospendere le pretese di adempimento derivanti dal contratto della parte inadempiente o che potrebbe divenire inadempiente per le condizioni patrimoniali in cui versa, senza compromettere ancora la sopravvivenza del rapporto – e operano per questo in via di eccezione (in via stragiudiziale o nel giudizio con cui la controparte inadempiente sollecita l’adempimento dell’altra). Hanno però diversi presupposti. L’eccezione di inadempimento presuppone che l’obbligazione di una parte sia scaduta, sicché l’altra possa in via di eccezione giustificare a sua volta il proprio inadempimento. Il rimedio trova ovviamente fondamento nel nesso sinallagmatico che caratterizza la causa del contratto,

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pur se si ritiene che il rifiuto e l’eccezione possano legittimamente proporsi anche quando la prestazione che doveva adempiersi e non è stata adempiuta non sia quella legata dallo specifico vincolo di interdipendenza con quella il cui adempimento viene sospeso. L’ipotesi da ultimo considerata rimanda al problema più generale, che attiene ai caratteri che l’inadempimento deve rivestire per giustificare l’eccezione dell’altra parte. La natura e la funzione del rimedio suggeriscono di escludere che alla parte che se ne avvale debba farsi carico di un preventivo giudizio sulla eventuale irreversibilità dell’inadempimento dell’altra o, in particolare, sulla gravità di questo: caratteri dell’inadempimento che non sempre si presentano con sufficiente grado di certezza. Il codice risolve a monte il problema mediante il richiamo, nel co. 2 dell’art. 1460, al principio di buona fede. Il criterio della buona fede rimanda ad un principio di “proporzionalità” tra l’inadempimento contestato e l’adempimento che con l’eccezione si vuole sospendere e rifiutare, da riferire non alla rappresentazione soggettiva della parte bensì all’equilibrio complessivo del contratto. E per questa via consente ai giudici un apprezzamento in concreto che sostanzialmente fa coincidere l’importanza dell’inadempimento rilevante ai fini di giustificare l’eccezione con quella che, come vedremo, consentirebbe la risoluzione del contratto: Secondo una massima pacifica e ricorrente, infatti, «il giudice, ove venga proposta dalla parte l’eccezione inadimplenti non est adimplendum, deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti adempimenti avuto riguardo anche allo loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, per cui, qualora rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte a norma dell’art. 1455 c.c., deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia in buona fede e, quindi, non sia giustificato ai sensi dell’art. 1460 c.c., comma 2». (Cass. 5-3-2015, n. 4474) Il mutamento nelle condizioni patrimoniali della parte interviene a legittimare una “sospensione” dell’esecuzione della prestazione dell’al-

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tra, in una fase che può ben essere anteriore alla scadenza dell’obbligazione dovuta da quest’ultima (e di solito è anteriore, non spiegandosi altrimenti l’interesse a fare ricorso a questo rimedio piuttosto che a quello di cui all’art. 1460). Non un inadempimento, dunque, ma il pericolo di inadempimento, legittima la controparte a sospendere il proprio adempimento ex art. 1461; sospensione che potrà invece riguardare anche l’adempimento di una propria prestazione già scaduta, poiché chi invoca il rimedio prospetta proprio il pericolo di una rottura del sinallagma contrattuale derivante dalle mutate condizioni patrimoniali di controparte, che lascerebbero senza corrispettivo la prestazione a proprio carico. Si ritiene che la modificazione della situazione patrimoniale di controparte, che giustifica l’eccezione di cui all’art. 1461, possa essere non solo sopravvenuta rispetto al contratto ma anche anteriore, purché in questo caso la parte che la eccepisce provi che ne sia venuta a conoscenza dopo (e non avrebbe potuto conoscerla prima usando l’ordinaria diligenza). Di un “mutamento” delle condizioni patrimoniali, esistenti o ritenute tali al momento della conclusione del contratto, dovrà tuttavia fornirsi la prova. La situazione patrimoniale cui fa riferimento l’art. 1461 non è di vera e propria insolvenza del debitore ed anzi la giurisprudenza precisa che non è necessario che ricorra già una situazione di inadempimento di precedenti obbligazioni. Viene in rilievo in definitiva una situazione patrimoniale precaria non in sé ma in rapporto al rischio, ovviamente concreto ed attuale, che la parte non possa regolarmente adempiere alla propria obbligazione (si è ritenuta ad esempio rilevante anche una compromissione oggettiva della situazione patrimoniale del debitore dipendente dalla momentanea difficoltà del medesimo nella riscossione dei crediti da lui vantati presso terzi). La parte che si veda rifiutare la prestazione attesa in ragione della propria non affidabile situazione patrimoniale può prestare “idonea garanzia” ovvero adempiere subito le proprie obbligazioni contrattuali ancorché non scadute, recuperando così il diritto alle controprestazioni. Alle parti è consentita una limitata autonomia sulla fruibilità di tali eccezioni dilatorie, la cui proponibilità può essere esclusa convenzionalmente ma, appunto, con i limiti di cui all’art. 1462 c.c. Una clausola convenzionale che escluda la proponibilità di eccezioni non ha effetto se trattasi di eccezioni di nullità, annullabilità, rescissione. Potrà essere validamente apposta al contratto, dunque, una clausola che escluda la proponibilità delle eccezioni di cui abbiamo parlato, quelle cioè previste

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dagli artt. 1460 e 1461, salvo che il giudice, ricorrendo validi motivi, non sospenda la condanna all’adempimento e imponga una cauzione a chi pretende l’adempimento paralizzando eccezioni di inadempimento in forza di quanto concordato tra le parti. Tuttavia simili clausole convenzionali volte a paralizzare eccezioni sospensive o dilatorie riferite all’inadempimento o al pericolo di inadempimento della controparte – per tutte, la clausola “solve et repete”, prima paghi e poi, se ne hai diritto, chiedi la restituzione di quanto hai pagato – sono ritenute dall’ordinamento vessatorie e dunque, se contenute in condizioni generali di contratto saranno opponibili solo ove specificamente approvate per iscritto (art. 1341, co. 2, c.c.). Nei contratti professionista-consumatore la clausola di tale contenuto pattuita a carico del consumatore si presume vessatoria (art. 33, co. 2, lett. r) e t), cod. cons.).

3. L’inadempimento e la sorte del contratto Ai sensi dell’art. 1453 c.c., «nei contratti a prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua volta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno». Il co. 2 precisa che «la risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento, ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione». Infine, il co. 3, pone la regola generale (non priva come vedremo di eccezioni) secondo cui la proposizione della domanda di risoluzione preclude all’inadempiente di adempiere. Il presupposto per l’applicazione dei rimedi qui previsti è il “mancato adempimento” delle obbligazioni dedotte in contratto che dunque potrà in concreto presentarsi nelle diverse forme richiamate dall’art. 1218, dove, per sancire la responsabilità per inadempimento dell’obbligazione, si fa riferimento all’ipotesi in cui il debitore «non esegue esattamente la prestazione dovuta», e si distingue poi l’inadempimento dal “ritardo” nell’adempimento. Va detto subito che il tema dell’inadempimento, quando trasportato dal terreno proprio della disciplina dell’obbligazione a quello della disciplina del contratto e delle sue vicende, impone un cambiamento di prospettiva: una cosa è infatti apprezzare l’inadempimento in rapporto alla considerazione per così dire “isolata” dell’obbligazione di cui costi-

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tuisce violazione, altra è valutarne l’idoneità a compromettere la sopravvivenza del contratto ed ancor prima a compromettere il rispetto della causa sinallagmatica di questo. L’evoluzione, su cui ci siamo ampiamente soffermati, che ha portato a individuare la causa del contratto, quale causa in concreto, nella “sintesi degli interessi” economico-individuali la cui realizzazione è affidata al programma contrattuale e, ancor più, la rilevanza che oggi si accorda alla buona fede (nella esecuzione del contratto) quale veicolo, come abbiamo visto, di un dovere (inderogabile) di solidarietà, che, «applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto» (per citare la nota sentenza, già ricordata, sul caso Fiuggi: V, 10), portano a ritenere che l’adempimento o inadempimento del contratto ai fini di cui all’art. 1453 c.c., vadano riferiti alla piena attuazione, per quanto a carico della parte, del complessivo programma contrattuale, avuto riguardo all’interesse ivi obiettivato di entrambi i contraenti. Le varie ipotesi di inadempimento ovviamente mantengono la loro rilevanza sia al fine della verifica d’insieme di cui sopra, sia al fine dell’applicazione delle regole dettate dagli artt. 1453 ss. c.c. L’inadempimento, ai fini dell’applicazione di cui all’art. 1453, potrà dunque presentarsi secondo le varianti che proprio l’art. 1218 richiama. Intanto, sotto forma di “non esatto adempimento” dell’obbligazione sotto il profilo che attiene alle caratteristiche: adempimento inesatto si ha quando la prestazione non è quella dovuta per quantità o qualità, o vi è stato un adempimento parziale se la prestazione lo consente, in quanto divisibile. Inadempimento inesatto è invero anche l’adempimento intervenuto senza il rispetto del termine previsto, ma la legge dà rilievo, come inadempimento, già alla situazione che precede tale eventuale adempimento oltre il termine, e dunque sarà inadempimento, anche ai fini di cui all’art. 1453, già la situazione di ritardo. Ci si chiede se in questo caso la domanda di risoluzione debba essere preceduta dalla costituzione in mora del debitore secondo le previsioni di cui all’art. 1219 c.c.: la risposta positiva, avanzata in dottrina, pone l’accento sull’esigenza di far emergere, anche nell’interesse del debitore, la situazione di ritardo, mediante un atto come la costituzione in mora che la qualificherebbe in termini di inadempimento. La giurisprudenza, come parte della dottrina, ritiene invece, con opinione più condivisibile, che la domanda di risoluzione fondata sul ritardo non debba essere preceduta da una preventiva formale costituzione in mora del debitore, poiché il mancato ri-

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spetto delle modalità temporali costituisce di per sé una violazione del rapporto obbligatorio fonte di responsabilità. Infine, l’inadempimento potrà essere totale, nel senso che l’obbligazione non è stata adempiuta (neppure in modo parziale o inesatto). Inadempimento totale non significa ovviamente sempre inadempimento definitivo, se con la definitività si intende alludere alla irreversibilità, intesa come oggettiva irrimediabilità. Le diverse forme di inadempimento possono condizionare il giudizio di “non scarsa importanza” di questo, dal quale dipende la risoluzione del contratto in via giudiziale. Ma, a monte, va da sé che una domanda di adempimento, consentita alla parte dall’art. 1453, potrà essere accolta solo nel caso in cui l’obbligazione, malgrado il permanente interesse della parte a riceverla, possa ancora oggettivamente essere adempiuta, e dunque l’inadempimento non sia irrimediabile ovvero la prestazione, possibile alla scadenza dell’obbligazione, non sia nel frattempo divenuta impossibile in fatto o in diritto. L’alternativa lasciata alla parte dall’art. 1453 c.c., tra domanda di adempimento e domanda di risoluzione, esplicita senza dubbio un ossequio alle determinazioni dell’autonomia privata, lascia cioè alla parte di apprezzare liberamente il proprio interesse ad ottenere comunque la prestazione, ancorché in ritardo (presupponendo comunque la domanda di adempimento che l’obbligazione non sia stata adempiuta o adempiuta correttamente sin lì), sempreché, ovviamente, ciò sia in concreto possibile: la domanda di cui all’art. 1453 è la domanda di esatto adempimento, potendo la parte chiedere che la sua controparte sia condannata ad eseguire la prestazione come dedotta in contratto ovvero manifestare per questa via il proprio interesse ad un adempimento parziale, ma non certo sollecitare una pronuncia che imponga alla controparte una prestazione diversa, in luogo di quella contrattualmente convenuta e non più eseguibile (salva, ovviamente, la disciplina delle obbligazioni alternative, per cui si rinvia al regime di cui agli artt. 1285 ss. c.c.). Per questo, come diremo, appaiono deroghe interessanti, nel segno del recupero del contratto e delle finalità con esso perseguite dalle parti, le regole che attribuiscono al consumatore-acquirente di un bene mobile il diritto di pretendere dal venditore la riparazione o la sostituzione del bene rivelatosi difettoso (infra, 8) ma anche quelle che danno diritto al turista di usufruire di un pacchetto turistico diverso qualora quello acquistato sia cancellato, per qualsiasi motivo, prima della partenza (infra, 15). Interesse all’adempimento che dovrà comunque essere contempe-

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rato con quello della controparte: è questa la ragione della non piena interscambiabilità delle due iniziative. La domanda di adempimento potrà tramutarsi in domanda di risoluzione per inadempimento (nello stesso giudizio), con deroga dunque al divieto di mutamento della domanda previsto in generale dall’art. 183 c.p.c., consentendo alla parte, anche in conseguenza ad esempio del tempo nel frattempo trascorso, di manifestare così il venir meno del proprio interesse all’esecuzione del contratto, ma non è consentito l’inverso e cioè il mutamento della domanda di risoluzione in domanda di adempimento. Ciò a tutela dell’interesse del debitore, cui non si può chiedere di mantenersi comunque pronto ad adempiere anche quando controparte abbia manifestato con la domanda di risoluzione di non avere più interesse alla prestazione. La Corte di Cassazione ha dato un importante contributo alla ricostruzione in modo unitario della situazione determinata dall’inadempimento e della posizione delle parti che si fronteggiano in giudizio, a prescindere dal fatto che l’attore chieda l’adempimento, ovvero contesti, per ottenere la risoluzione, l’inadempimento (sia esso inesatto o totale). Risolvendo un contrasto giurisprudenziale, le Sezioni Unite sono intervenute, in particolare, a risolvere il problema della distribuzione dell’onere probatorio, affermando, in contrasto con l’orientamento fino ad allora prevalente, che «il creditore, sia che agisca per l’adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto e, se previsto, del termine di scadenza, mentre può limitarsi ad allegare l’inadempimento della controparte: sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto estintivo del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento». (Cass. s.u. 30-10-2001, n. 13533) L’unica eccezione a tale principio deve ammettersi in caso di obbligazioni negative, dove, osserva la Corte, “il diritto nasce soddisfatto”, sicché il creditore, oltre a fornire prova del titolo non potrà sottrarsi all’onere di provare anche l’inadempimento che integra qui un fatto positivo. Il superamento della tesi che riteneva doversi invece distinguere il regime dell’onere probatorio a carico del creditore a seconda che egli chiedesse l’adempimento o la risoluzione per inadempimento (dovendo

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provare nel primo caso solo il titolo, cioè l’esistenza del contratto e nel secondo invece anche l’inadempimento, spettando al convenuto l’onere probatorio di essere immune da colpa) si regge in parte sul richiamo al c.d. “principio di riferibilità o di vicinanza della prova”, secondo cui l’onere della prova va posto a carico di chi è più prossimo all’oggetto della prova, in questo caso il soggetto nella cui sfera si è prodotto l’inadempimento, e che è quindi in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore. Ma discende soprattutto, nelle argomentazioni della Corte di Cassazione, dalla considerazione unitaria – di maggior rilievo ai nostri fini – dei tre rimedi previsti dall’art. 1453. La domanda di adempimento, la domanda di risoluzione per inadempimento e la domanda autonoma di risarcimento del danno da inadempimento, sottolinea la Corte, si collegano tutte al medesimo presupposto, costituito dall’inadempimento. Tant’è che, prendendo da questo profilo le distanze dallo stesso orientamento fino ad allora minoritario cui pure per il resto aderisce, la Corte esclude che possa residuare una distinzione nella distribuzione dell’onere probatorio nel caso in cui la domanda di risoluzione sia fondata su un inadempimento inesatto (presupponendosi dunque un adempimento, seppure inesatto). La domanda, insiste la Corte, è in tutti i casi e sempre «incentrata sulla non conformità del comportamento del debitore al programma negoziale, ed in ragione di questa richiede tutela, domandando l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento». La «diversa consistenza dell’inadempimento totale e dell’inadempimento inesatto» non può giustificare il diverso regime probatorio, poiché «in entrambi i casi il creditore deduce che l’altro contraente non è stato fedele al contratto». Eguale criterio di riparto dell’onere della prova dovrà applicarsi anche in caso di eccezione di inadempimento ex art. 1460, ovviamente a parti invertite, nel senso che il debitore convenuto in giudizio che eccepisca l’inadempimento di controparte dovrà solo allegare l’altrui inadempimento e sarà il creditore che ha agito in giudizio (questa volta quale debitore) a dover dimostrare il proprio adempimento (Cass. 2-9-2013, n. 20110). Costituisce dunque eccezione a tale riparto dell’onere probatorio la regola di cui all’art. 67-vicies semel cod. cons. che, nel contratto a distanza per la commercializzazione di servizi finanziari al consumatore, pone a carico del fornitore del servizio anche l’onere della prova «della responsabilità per l’inadempimento delle obbligazioni derivanti dal contratto» (co. 1, lett. d).

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4. L’azione di adempimento L’azione di adempimento (o di manutenzione del contratto) si iscrive nei mezzi di c.d. tutela specifica o satisfattoria, il creditore mira infatti ad ottenere una pronuncia che, condannando la controparte all’adempimento, costituirà per lui titolo per ottenere la esecuzione specifica dell’obbligazione non adempiuta, secondo le forme di esecuzione forzata previste dal codice di procedura civile, rispettivamente, a seconda della natura della prestazione, come esecuzione forzata mediante consegna o rilascio della cosa determinata che il debitore era obbligato a consegnare (art. 2930 c.c.), o esecuzione della prestazione di fare a spese dell’obbligato (art. 2931 c.c.). L’azione di adempimento è rivolta dunque ad assicurare al creditore il raggiungimento del preciso interesse sottostante al diritto di cui è titolare. La condanna del debitore all’esatto adempimento può rivelarsi in concreto inutile, sempre in caso di prestazione ancora possibile, ove si tratti di una prestazione di fare infungibile: l’adempimento, per soddisfare la pretesa creditoria, deve essere eseguito da quel debitore (in ragione ad esempio delle specifiche competenze tecniche richieste) e dunque non gioverebbe al creditore un adempimento eseguito da altri a spese del debitore ex art. 2931 c.c. Giovano in questo caso al creditore, invece, misure di coazione indiretta all’adempimento, vale a dire misure che, con la minaccia di conseguenze negative di tipo patrimoniale, rendano più incisiva la spinta all’adempimento nei confronti del debitore in esecuzione della sentenza di condanna. Relativamente recente è l’introduzione nel nostro ordinamento di misure coercitive – già sperimentate in altri sistemi giuridici – aventi come finalità di indurre il debitore ad adempiere, attraverso la minaccia di sanzioni, secondo la tecnica della c.d. esecuzione indiretta. Si tratta della c.d. astreinte, vale a dire di un obbligo derivante dal provvedimento giudiziale con il quale si determina l’ammontare della somma che il condannato dovrà pagare in relazione al ritardo con cui darà esecuzione alla sentenza: l’art. 614-bis c.p.c. (il cui testo è stato da ultimo modificato con l’art. 13, d.l. n. 83/2015, convertito nella l. 6-8-2015, n. 132), prevede, appunto, “misure di coercizione indiretta” e dispone che (escluse le controversie di lavoro) «con il provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo», fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o

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inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento; il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. L’ammontare della somma sarà determinata tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile.

5. Il rapporto tra risoluzione per inadempimento e risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione. “Imputabilità” dell’inadempimento e ruolo della diligenza In sede di applicazione del regime di cui all’art. 1453 ss. c.c. si è riproposto l’interrogativo circa il fondamento della responsabilità contrattuale sollevato, in generale, dal tenore dell’art. 1218 c.c.: e dunque se l’inadempimento causa di risoluzione, oltre che presentarsi oggettivamente, come vedremo, con i caratteri della non scarsa importanza ex art. 1455 c.c. debba anche essere soggettivamente qualificato dalla imputabilità richiesta dall’art. 1218 intesa come colpa, in presenza della quale soltanto il debitore potrebbe ritenersi responsabile. La posizione della giurisprudenza è stata e rimane ambigua a questo riguardo: il richiamo alla “colpa” del debitore è abbastanza frequente, pur se spesso ininfluente sulla decisione. Abbastanza ricorrente è stata in passato la massima secondo cui «Al fine della risoluzione dei contratti con prestazioni corrispettive a norma dell’art. 1453 cod. civ., non basta accertare la esistenza del fatto oggettivo del mancato o tardivo adempimento e della sua attitudine a turbare l’equilibrio del sinallagma contrattuale, ma occorre, altresì, accertare che l’inadempimento sia imputabile all’obbligato quanto meno a titolo di colpa, la quale, pur presumendosi (art. 1218 cod. civ.), va, tuttavia, esclusa quando ricorrono circostanze oggettive idonee a provare la sua inesistenza». (Cass. 28-2-1985, n. 1741, con ampi richiami ai precedenti) E ancora di recente, per segnare la distanza tra responsabilità per vizi e responsabilità per mancanza di qualità, del venditore, la S.C. non

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perde l’occasione di richiamare adesivamente l’orientamento che vuole l’istituto della risoluzione per inadempimento «fondato, come noto, sul principio della colpa dell’inadempiente» (Cass. 21-4-2015, n. 8102). La dottrina tende invece a riconoscersi in pur risalenti e autorevoli insegnamenti, secondo cui ai fini di cui all’art. 1453 l’inadempimento rileva come dato obiettivo che determina la rottura del sinallagma e, in generale, “la violazione del vincolo” obbligatorio «rappresenta la base sufficiente per dare ingresso ai rimedi contro l’inadempimento». L’inadempimento o l’inesattezza dell’adempimento, una volta accertati, fondano la responsabilità del debitore, e dunque costituiscono presupposto per l’attivazione dei rimedi, compresa la risoluzione per inadempimento e il risarcimento del danno, senza che occorra una ulteriore verifica in termini di “imputabilità” (e/o colpa), dovendosi ritenere l’inadempimento per definizione imputabile al debitore a meno che egli non fornisca la prova di un fatto a lui non imputabile che abbia reso impossibile la prestazione. Il guadagno ricostruttivo e sistematico in tema di responsabilità contrattuale ex art. 1218 contribuisce a sottolineare, nel caso di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni dedotte in contratto, che la risoluzione per inadempimento non ha una natura sanzionatoria ma solo di rimedio alla rottura del sinallagma contrattuale. La concezione obiettiva della responsabilità contrattuale non vale però a tenere fuori dai giudizi ex art. 1453 la questione dei rapporti tra inadempimento imputabile (da intendersi come riferibile al debitore) e impossibilità della prestazione, potendosi configurare il primo ove non sia provata la seconda. Il che spiega come l’indagine sul comportamento del debitore non sia quasi mai estranea ai giudizi in tema di risoluzione, e finisca comunque col portare l’attenzione sul livello di diligenza dovuto e in concreto prestato vuoi per adempiere vuoi per evitare l’impossibilità della prestazione, con l’ovvia possibilità di un ambiguo ritorno al concetto di “colpa”, come mancata prestazione della diligenza dovuta. La sistematica del codice in tema di estinzione dell’obbligazione, invero, sembra collocare il confine oltre il quale non si spinge la responsabilità per inadempimento “per causa imputabile” ex art. 1218 c.c., nell’intervento di una impossibilità assoluta, oggettiva, della prestazione, sì da lasciare intendere che il debitore sarà comunque responsabile, in quanto considerato inadempiente, tutte le volte in cui non esegua una prestazione che, seppur divenuta particolarmente difficile, sia comunque possibile “in natura”. Si è prospettata tuttavia una lettura più articolata

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del dettato codicistico, che tempera il rigore dell’art. 1256 (verosimilmente calibrato sulle obbligazioni di dare/consegnare, ove l’impossibilità della prestazione coincide con la distruzione dell’oggetto) alla luce dell’art. 1176 c.c. Pur escludendosi che essa possa essere invocata per identificare la prestazione dovuta, e cioè in modo più o meno rigoroso il contenuto dell’obbligo a carico del debitore, alla diligenza di cui all’art. 1176 si riconosce la funzione di parametro di valutazione della corrispondenza tra comportamento dovuto e comportamento tenuto dal debitore in fase di adempimento, tutte le volte in cui la natura della prestazione ponga in evidenza l’attività che il debitore è obbligato a porre in essere (dunque un fare, ad esempio attività professionale) piuttosto che focalizzare l’attenzione sul risultato, ad esempio il bene da produrre e consegnare. Il richiamo, nella prima norma, alla diligenza nell’adempimento, cui il debitore è tenuto, e alla sua differente graduazione – dalla diligenza media del buon padre di famiglia a quella “professionale” di cui al co. 2 dell’art. 1176 – dovrebbe condurre a ritenere che, nelle obbligazioni di fare, al debitore potrà rimproverarsi, con conseguente responsabilità per inadempimento, di non avere eseguito una prestazione non solo possibile ma eseguibile con lo sforzo di diligenza richiesto dalla natura dell’attività dedotta in obbligazione, mentre solo in quelle di dare la mancata esecuzione della prestazione potrà considerarsi non imputabile (solo) quando egli provi la forza maggiore o il caso fortuito da cui dipende l’impossibilità. Alla stregua di una simile rilettura dei dati codicistici si spiega la discreta fortuna incontrata nella nostra esperienza giuridica dalla distinzione, elaborata altrove, tra obbligazioni di risultato (in cui l’attività del debitore dovrà condurre ad un esito preciso, ad es. il bene da consegnare o fabbricare) e obbligazioni di mezzi (in cui la prestazione consiste in un’attività, ad esempio quella del medico, cui non necessariamente corrisponderà il risultato atteso ma non oggetto di obbligazione, cioè la guarigione), pure fondatamente contestata da buona parte della dottrina. Rifiutata, al fine di “graduare” la responsabilità del debitore, la rilevanza (se non meramente descrittiva) di una distinzione tra obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato, deve comunque ammettersi, in applicazione del canone di buona fede richiamato nell’art. 1375 c.c., che l’alternativa tra inadempimento imputabile e impossibilità della prestazione non può porsi in astratto, a prescindere dalla natura della prestazione e dalla causa del contratto: riportato entro la vicenda contrattuale

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e “filtrato” dal canone di buona fede il giudizio sulla responsabilità del debitore non potrà rimanere rigidamente chiuso tra i due poli dell’art. 1218 e art. 1256, portando a ravvisare l’inadempimento responsabile di cui alla prima norma tutte le volte in cui non soccorra l’impossibilità assoluta e “in natura” che sembra richiamata dalla seconda norma. Alla luce del criterio di buona fede si dovrà infatti escludere che il creditore, e in questo caso la parte contraente, pur essendo la prestazione in astratto ancora possibile, possa pretenderne l’adempimento richiedendo al debitore uno sforzo “non esigibile” poiché al di fuori della portata e dei mezzi del debitore nonché dell’assetto di interessi dedotto in contratto. Non trova ingresso tuttavia la considerazione di una impossibilità soggettiva, quale ad esempio la difficoltà economica di pagare (il denaro peraltro è bene fungibile che dunque, come suol dirsi, mai perisce). Abbiamo a suo tempo ricordato come la Corte costituzionale, seppure in due lontane e isolate pronunce (ed in fattispecie abbastanza particolari) abbia comunque richiamato un principio “di esigibilità” volto a inquadrare e dunque subordinare l’interesse del creditore all’adempimento nell’ambito della gerarchia dei valori di rango costituzionale. Non può dirsi che quella impostazione abbia avuto sviluppi con riguardo ad una impossibilità o, meglio, inesigibilità soggettiva della prestazione. Tuttavia l’indagine sulla diligenza, rifiutata quale parametro per definire in concreto il comportamento dovuto dal debitore e, soprattutto, quale criterio di giudizio della imputabilità o meno dell’inadempimento (con richiamo al concetto di colpa), torna a rilevare con riguardo al comportamento tenuto dal debitore per evitare l’impossibilità, dovendosi questa intendere in modo oggettivo ma relativo: il richiamo alle «componenti oggettive e soggettive che regolano la responsabilità per inadempimento» e dunque anche allo sforzo richiesto al debitore si sposta sulla ricerca di una causa di natura esterna di carattere imprevedibile, che il debitore non poteva controllare o prevenire con la diligenza media. In questo quadro si comprende perché, pur riconoscendosi nella posizione della nostra dottrina che in prevalenza rifiuta il fondamento e l’utilità di una distinzione tra obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato, e ribadendo l’unità concettuale dell’obbligazione entro la quale la condotta dovuta è sempre preordinata a produrre un risultato utile al creditore, anche quale attività in sé, la giurisprudenza dimostra di non potere fare a meno, per apprezzare in concreto il confine tra inadempimento e impossibilità della prestazione, di tenere conto della differenza tra ob-

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bligazioni in cui l’utilità attesa dal creditore sia un effetto direttamente prodotto dall’attività del debitore e quelle in cui essa consista invece “nella stessa attività del debitore”. «è possibile identificare obbligazioni, per così dire di risultato, nell’ipotesi in cui il risultato viene a trovarsi in un rapporto di causalità necessaria con l’attività del debitore, ovvero, il raggiungimento del risultato non dipende da alcun altro fattore estraneo al comportamento del debitore. E, viceversa, in tutte le ipotesi in cui il raggiungimento del risultato dipende oltre che dal comportamento del debitore dalla concomitanza di ulteriori fattori, l’obbligazione può continuarsi a qualificare quale obbligazione di mezzi. Nell’ipotesi di prestazioni che si possono considerare obbligazioni di mezzi, secondo quanto è stato già detto in precedenza, o, come vuole una parte della dottrina, obbligazioni non routinarie, il debitore assolve l’onere di provare l’esatto adempimento dimostrando di avere adempiuto alla prestazione cui è tenuto, rispettando le regole dell’arte, cioè, di essersi conformato nella esecuzione della prestazione ai protocolli imposti dall’attività esercitata e non anche che l’eventuale mancato raggiungimento previsto fosse dovuto a cause a sé non imputabili». (Cass. 28-2-2014, n. 4876)

6. La “non scarsa importanza” dell’inadempimento causa di risoluzione Il contratto non si può risolvere «se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza avuto riguardo all’interesse dell’altra». La regola posta dall’art. 1455 sottrae all’apprezzamento soggettivo delle parti (almeno, come vedremo, nel caso in cui le parti non abbiamo preventivamente individuato nel contratto taluni inadempimenti comunque idonei a provocare la risoluzione) il giudizio sulla idoneità dell’inadempimento a compromettere la prosecuzione del rapporto e al contempo esplicita la scelta di collocare oltre una certa soglia la rilevanza della “crisi” provocata dall’inadempimento idonea ad impedire tale prosecuzione. Il parametro della “non scarsa importanza”, che la norma esplicitamente rapporta all’interesse dell’altra parte, è in realtà in grado, per la sua naturale flessibilità, di consentire al giudice un apprezzamento riferito alla natura del rapporto e all’assetto di interessi che le parti

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hanno consegnato al contratto. L’inadempimento di “non scarsa importanza”, secondo una formula cara alla giurisprudenza e condivisa dalla dottrina, è quello che «abbia inciso in misura apprezzabile nell’economia complessiva del rapporto», sia per la sua entità sia in relazione all’interesse del creditore che ne risulta pregiudicato, interesse che dunque rileva e va considerato anch’esso sotto il profilo oggettivo. Dunque una verifica di “gravità” ai sensi dell’art. 1455 non può essere esclusa a priori in quanto superflua in caso di inadempimento di una obbligazione essenziale o principale, ma semmai solo in presenza di un inadempimento definitivo e irreversibile. L’indagine va poi condotta anche sotto il profilo soggettivo, ma nel senso che rileveranno i comportamenti di entrambe le parti che possano in concreto incidere, attenuandola, sulla gravità. Vengono in evidenza a questo riguardo soprattutto due comportamenti, rispettivamente del creditore che agisce per la risoluzione e del debitore inadempiente, di cui è incerta la rilevanza, ai fini del giudizio sulla gravità dell’inadempimento e della pronuncia di risoluzione: rispettivamente, la tolleranza del creditore e l’adempimento tardivo del debitore. In generale si ribadisce che una condotta di tolleranza del creditore non può ritenersi espressiva di acquiescenza né tanto meno interpretarsi come consenso ad una modifica del contenuto o delle modalità di adempimento della prestazione: egli potrà dunque addurre come causa di risoluzione anche comportamenti del debitore che pure a lungo in passato ha tollerato. Quanto al comportamento del debitore, se un intervento tempestivo, ad esempio di riparazione del bene, collocatosi dopo l’inadempimento ma prima che egli sia stato convenuto in giudizio, inciderà di sicuro nella valutazione del giudice, meno agevole è attrarre nella valutazione in ordine alla gravità dell’inadempimento un adempimento tardivo, intervenuto dopo la proposizione della domanda di risoluzione. L’art. 1453, al co. 3, infatti, disponendo che «dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente non può più adempiere» sembra porre una preclusione all’adempimento tardivo e comunque sancisce la scelta del legislatore del 1942 di escludere radicalmente dal regime della risoluzione il c.d. termine di grazia che, presente in altri ordinamenti come quello francese, era espressamente previsto nell’art. 1165, co. 2, c.c. abrogato, dove si consentiva la concessione al convenuto di una “dilazione secondo le circostanze”. Nulla vieta ovviamente che il creditore possa accettare l’adempimento della prestazione, successivo alla domanda di risoluzione, rinunciando agli effetti della stessa

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e prendendo atto dell’adempimento per quanto tardivo di controparte, ma si tratterà dell’esercizio dei poteri di autonomia privata. La preclusione di cui all’art. 1453, co. 3 ha spinto a ritenere, almeno in principio, che la situazione da valutare, ai fini di cui all’art. 1455, debba essere quella “cristallizzata” al momento della domanda di risoluzione: nel senso che un adempimento tardivo, ove non accettato dal creditore (ove si tratti da parte del debitore di porre in essere un comportamento riparatore sul bene o regolarizzare la prestazione di un servizio, in concreto realizzabili a prescindere dal comportamento adesivo del creditore), non potrebbe ridimensionare la gravità di un inadempimento che invece era di non scarsa importanza al momento della domanda, così come, viceversa, un inadempimento inizialmente non grave non potrebbe condurre alla risoluzione in considerazione di un successivo aggravamento. Il debitore non potrebbe subire gli effetti di una preclusione di legge che non gli consente l’adempimento e il creditore non deve poter profittare dei tempi processuali per chiedere la risoluzione a fronte di un inadempimento di modesto rilievo, confidando nell’aggravamento derivante dal suo protrarsi. La giurisprudenza, pur non smentendo l’irrilevanza dell’adempimento tardivo ai fini della instaurazione ed anche della prosecuzione del giudizio di risoluzione, ha mostrato però talora di tenerne conto quale elemento idoneo ad incidere sul giudizio in merito alla importanza dell’inadempimento in vista di attenuare tale importanza. Per converso, nei rapporti di durata (e segnatamente nelle locazioni), sul presupposto che l’indagine sull’importanza dell’inadempimento deve essere unitaria e considerare il comportamento complessivo del debitore, ha ritenuto talvolta (con argomentazioni che lasciano in verità perplessi) che una morosità iniziale di scarso rilievo possa invece rivelarsi grave per il protrarsi durante il giudizio seppure con riferimento alle obbligazioni nel frattempo maturate. Il comportamento di entrambe le parti assume una peculiare rilevanza nel giudizio di risoluzione nel caso di inadempimenti reciproci, quando cioè entrambi i contraenti – l’uno con la domanda e l’altro in via di eccezione – invochino l’inadempimento dell’altro come causa di risoluzione. Sia dunque quando le parti si addebitino reciproci inadempimenti sia quando il convenuto si limiti a contrastare la domanda di risoluzione o di adempimento, giustificando la propria inadempienza con quella dell’altro, tenuto conto del modo in cui è congegnato nel sistema il rimedio risolutorio e della funzione che ad esso è assegnata, deve rite-

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nersi che il giudice non possa comunque sottrarsi ad una verifica che, in corrispondenza del resto ai contenuti della domanda giudiziale, giunga ad accertare se vi sia inadempimento causa di risoluzione e a carico di quale delle due parti. Il giudice sarà chiamato, in conformità all’art. 1455 c.c. «ad una valutazione unitaria e comparativa dei rispettivi inadempimenti e comportamenti dei contraenti, che, al di là del pur necessario riferimento all’elemento cronologico degli stessi, li investa nel loro rapporto di dipendenza (sul piano causale) e di proporzionalità, nel quadro della funzione economico-sociale del contratto, in maniera da consentire di stabilire su quale dei contraenti debba ricadere l’inadempimento colpevole che possa giustificare l’inadempimento dell’altro in virtù del principio “inadimplenti non est adimplendum”». (Cass. 11-6-2013, n. 14648) Del tutto condivisibile appare la posizione della Corte di Cassazione quando essa ribadisce che non è ammessa una pronuncia di risoluzione in favore di entrambe le parti, che in buona sostanza fraziona la valutazione di ciascuna delle due domande, decontestualizzando la valutazione dell’una da quella dell’altra, mentre la valutazione circa l’imputabilità dell’inadempimento ha carattere unitario e l’inadempimento deve essere addebitato esclusivamente a quel contraente che, con il proprio comportamento censurabile prevalente, abbia alterato il nesso di reciprocità che lega le obbligazioni assunte con il contratto. Suscita dunque perplessità il recente mutamento di indirizzo (espresso particolarmente in Cass. 19-12-2014, n. 26907) secondo cui, di fronte alla richiesta di risoluzione proveniente sia dall’attore che dal convenuto, che si imputano reciprocamente l’inadempimento, il giudice non dovrà svolgere alcuna indagine al fine di imputare all’uno o all’altro la risoluzione per inadempimento (o rigettare entrambe le pretese), ma non potrà che prendere atto di una risoluzione del contratto intervenuta “consensualmente”, sulla base di due contrapposte manifestazioni di volontà che, pur muovendo da premesse contrastanti – e non potendo dunque integrare un vero e proprio accordo risolutorio come il mutuo dissenso – sono comunque dirette all’identico scopo dello scioglimento del contratto.

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7. Predeterminazione legale dell’importanza dell’inadempimento e tecniche di “recupero” della corretta esecuzione del contratto Se si valorizza la funzione del criterio di cui all’art. 1455 c.c. di modulare la rilevanza dell’inadempimento in relazione alla causa in concreto del contratto, appariranno assai meno distanti dalla disciplina generale della risoluzione, rispetto a quanto abbia ritenuto talora la nostra dottrina, le regole “particolari” contenute, sia nel codice che fuori, con le quali la legge predetermina l’entità o le caratteristiche dell’inadempimento che può portare alla risoluzione: si pensi all’art. 1525 c.c. che esclude la risoluzione della vendita a rate per il mancato pagamento di una sola rata che non superi l’ottava parte del prezzo o all’art. 1564 c.c. che richiede, nella somministrazione, un inadempimento non solo grave ma anche «tale da menomare la fiducia nell’esattezza dei successivi adempimenti». O, ancora, all’art. 40, co. 2, t.u.b., che non consente alla banca, nelle operazioni di credito fondiario e di credito immobiliare ai consumatori (vedi ora art. 120 quinquiesdecies che richiama l’art. 40, co. 2) di invocare come causa di risoluzione del contratto una morosità del mutuatario che non si sia ripetuta almeno sette volte, anche non consecutive. Ma si ricordi anche l’art. 5, ult. co., della l. n. 203/1982 che fissa in un ammontare corrispondente almeno ad una annualità del canone la morosità dell’affittuario di fondo rustico che può giustificare la risoluzione; o l’art. 5 della l. n. 392/1978 che fissa (in venti giorni dalla scadenza) il ritardo nel pagamento del canone di locazione di immobile ad uso abitativo che può essere motivo di risoluzione ex art. 1455 c.c. Il tetto oltre il quale l’inadempimento può compromettere la prosecuzione del rapporto è variamente fissato in ragione delle caratteristiche e della natura del singolo contratto ma anche del livello di stabilità che l’ordinamento intende assegnare al rapporto, tenuto conto degli interessi che vi sono implicati. Il legislatore riserva a sé e sottrae alla verifica ex art. 1455 il giudizio in ordine all’importanza dell’inadempimento che può dare causa alla risoluzione. Sono rimaste finora marginali, e considerate quindi eccezionali, le deroghe alla preclusione dell’adempimento tardivo, che rimettono cioè in termini il debitore, convenuto in giudizio, perché egli possa sanare l’inadempimento. Si tratta della purgazione della mora, che consente al conduttore di immobili urbani convenuto in giudizio, per non più di tre volte nel corso di un quadriennio, di sanare alla prima udienza la sua morosità, pagando le somme dovute fino alla

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data del pagamento, oltre interessi e spese giudiziarie (art. 55, l. n. 392/1978); analogamente, all’affittuario di fondo rustico convenuto in giudizio per morosità il giudice, alla prima udienza, prima di ogni altro provvedimento, concede un termine, non inferiore a trenta e non superiore a novanta giorni, per il pagamento dei canoni scaduti (rivalutati, fin dall’origine, in base alle variazioni del valore della moneta secondo gli indici ISTAT e maggiorati degli interessi di legge), pagamento che se effettuato entro il termine fissato dal giudice sana a tutti gli effetti la morosità (art. 11, co. 8, d.lgs. 1-9-2011, n. 150). Sempre nel contratto di affitto di fondo rustico, poi, il concedente non potrà agire per la risoluzione per inadempimento se non avrà prima “contestato” le inadempienze all’affittuario, riferite anche alle altre obbligazioni, diverse da quella pecuniaria del canone, nascenti dal contratto; se le inadempienze contestate verranno sanate entro tre mesi, sarà preclusa la risoluzione (art. 5, l. n. 203/1982). In questo quadro appare allora di notevole rilievo la previsione di cui all’art. 120 quinquiesdecies, co. 1, t.u.b., che obbliga il finanziatore, nelle operazioni di credito immobiliare ai consumatori, ad adottare «procedure per gestire i rapporti con i consumatori in difficoltà nei pagamenti», rinviando a disposizioni di attuazione adottate dalla Banca d’Italia che devono tenere conto, in particolare, «degli obblighi informativi e di correttezza del finanziatore e dei casi di eventuale stato di bisogno o di particolare debolezza del consumatore». Siffatta “gestione” dei rapporti con il proprio debitore, nel momento della morosità, potrà in concreto comportare, ad esempio, non solo la rimessa in termini per un adempimento tardivo al di là di quanto previsto nel contratto, ma, sulla scia di quanto già previsto per legge negli ultimi anni in presenza di particolari presupposti, un obbligo della banca di rinegoziazione che consenta la c.d. ristrutturazione del mutuo (modifica del tasso di interesse, allungamento del piano di rimborso, ecc.). L’elemento di novità, nella cornice della disciplina generale del contratto ed in particolare del regime dell’inadempimento, va colto da un duplice profilo: l’introduzione di elementi di flessibilità nel nesso tra inadempimento(grave) e scioglimento del contratto, che punta non escludendo in principio anche una rinegoziazione a recuperare e mantenere il rapporto, e, soprattutto, l’inedita rilevanza accordata dalla legge sia alla situazione di debolezza economica del debitore sia all’eventuale responsabilità del creditore non nell’inadempimento del debitore in sé ma, a monte, nella violazione degli

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obblighi di informazione che abbiano potuto condurre il consumatore ad assumere una posizione debitoria non sostenibile. Deludenti appaiono tuttavia da questo profilo le indicazioni provenienti dalle disposizioni attuative della Banca d’Italia, ancora in fase di discussione.

8. La priorità, ex lege, del recupero del contratto mediante esatto adempimento nella vendita di beni di consumo Gli esempi sopra riportati e soprattutto l’ultimo e più significativo segnalano l’intervento della legge volto a limitare il diritto della parte creditrice di attivare il meccanismo risolutorio in caso di inadempimento, chiamando anzi talvolta il creditore ad un ruolo attivo in vista del recupero della corretta esecuzione del rapporto. Fuori da queste ipotesi – si ribadisce, espressamente previste dalla legge – il sistema delineato nell’art. 1453, come abbiamo visto, lascia alla parte di decidere, in rapporto al suo interesse, se chiedere al giudice una sentenza che condanni il debitore all’esatto adempimento, così riportando la vicenda contrattuale al suo esito fisiologico (la soddisfazione della pretesa creditoria e in generale la compiuta attuazione della operazione economica concordata) ovvero presentare domanda di risoluzione affinché all’accertamento in giudizio dell’inadempimento che risponda ai requisiti di cui all’art. 1455 c.c., possa seguire lo scioglimento del contratto. Entro questa alternativa si inserisce talora (negli esempi ricordati nel paragrafo precedente) un intervento della legge che, determinando la soglia di rilevanza dell’inadempimento, preclude la domanda di risoluzione, o impone al creditore di farsi parte attiva per un recupero del contratto alla sua fisiologica esecuzione, ovvero, malgrado la parte creditrice abbia già manifestato con la domanda di risoluzione un suo preminente interesse allo scioglimento, prevede un percorso di sanatoria che consenta il mantenimento del rapporto, restituito, seppur in seconda battuta, alla sua fisiologica attuazione. Si tratta, finora, di interventi settoriali e in qualche modo eccezionali, significativamente riferiti a rapporti di durata. La legge intende proteggere l’interesse di una parte – portatrice del “bisogno” di godere dell’immobile locato o addirittura acquistato con il prestito o di impiegare la propria attività nello sfruttamento di un fondo rustico – alla stabilità di un rapporto destinato a durare nel tempo; e, al

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contempo esplicita l’esigenza, in questi casi, di ridimensionare la portata dell’inadempimento di singole prestazioni periodiche scadute nell’economia complessiva di un rapporto destinato a proiettarsi nel futuro. In questo quadro assume rilievo anche la peculiarità, seppur sotto altro profilo, del regime di responsabilità del venditore di beni di consumo introdotto dalla dir. 99/44/CE e versato negli artt. 128 ss. cod. cons. Si tratta, come abbiamo accennato a suo tempo, della disciplina di «garanzia legale di conformità e garanzie commerciali per i beni di consumo», avendo riguardo non solo al contratto di compravendita bensì anche a quelli di «permuta e di somministrazione nonché quelli di appalto, di opera e tutti gli altri contratti comunque finalizzati alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre», che alla vendita sono a tal fine equiparati. Una disciplina transtipica, che interviene su gruppi di contratti, cioè i contratti di vendita e in generale i contratti per la fornitura di beni da fabbricare o produrre (III, 9). Il contratto con il consumatore continuerà ad essere regolato secondo la disciplina generale della vendita (o dell’altro tipo contrattuale adottato, tra quelli equiparati, ad esempio appalto) contenuta nel codice civile, tranne che per ciò che riguarda la responsabilità del venditore per vizi della cosa. Questo “segmento” di disciplina, di provenienza comunitaria, introduce, come anticipato (III, 9), un particolare regime di responsabilità per il caso in cui il bene (di consumo) risulti “non conforme” a quanto promesso o alle aspettative del consumatore: regime che appare assai distante da quello della garanzia per vizi o mancanza di qualità del bene venduto come delineato negli artt. 1492-1497 c.c., che continua a caratterizzare la disciplina generale della vendita (anche di beni mobili), potendo accostarsi semmai, entro certi limiti, alla disciplina dell’appalto (ove è ammessa una “correzione” dei vizi nel corso del contratto: vedi art. 1668 c.c.). Il codice civile, infatti, pone in generale a carico del venditore, fra le altre, l’obbligazione di «garantire il compratore dall’evizione e dai vizi della cosa» (art. 1476, n. 3). Attraverso la garanzia per vizi la legge fa ricadere sul venditore le conseguenze dei vizi che rendano la cosa «inidonea all’uso cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore» (art. 1490 c.c.), indipendentemente dalla circostanza che egli abbia in qualche modo concorso a provocarli – ed anzi si parla in questo caso di vizi occulti, in quanto ignorati dalle parti – salvo il caso in cui i vizi fossero facilmente riconoscibili o comunque noti al compratore; la colpa del venditore, nel non accorgersi del vizio, rileverà ai fini

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dell’ulteriore rimedio del risarcimento del danno (art. 1494), mentre il venditore in mala fede che conosceva il vizio e l’abbia taciuto al compratore non potrà avvalersi di patti di limitazione della sua responsabilità pure consentiti alle parti (art. 1490, ultimo comma). La garanzia riguarda anche la mancanza, nella cosa, non solo delle «qualità promesse» ma anche di quelle «essenziali per l’uso a cui è destinata» (art. 1497). Quale effetto della garanzia, il compratore può a sua scelta domandare la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo (art. 1492), salvo il diritto al risarcimento del danno quando il venditore non provi di avere ignorato senza colpa i vizi (art. 1494). La disciplina speciale modifica radicalmente tale impostazione, ponendo a carico del venditore di beni di consumo un obbligo di consegnare cose conformi al contratto di vendita e indicando al contempo quando può dirsi esistente tale conformità, secondo parametri determinati dalla legge che devono consentire questa verifica, da utilizzare anche tutti insieme, ove pertinenti. Il bene sarà ritenuto conforme al contratto se idoneo all’uso al quale servono abitualmente beni dello stesso tipo, conforme alla descrizione fattane dal venditore e in possesso delle qualità descritte e presentate dal venditore sul campione o modello, e, ancora, idoneo all’uso particolare che il consumatore ha rappresentato al venditore e questi abbia mostrato di accettare al momento della conclusione del contratto; per essere considerato conforme al contratto, il bene dovrà inoltre presentare anche «le qualità e le prestazioni abituali di un bene dello stesso tipo che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, tenuto conto della natura del bene e, se del caso, delle dichiarazioni pubbliche sulle caratteristiche specifiche dei beni fatte al riguardo dal venditore, dal produttore o dal suo agente o rappresentante, in particolare nella pubblicità o sull’etichettatura». La prima novità risiede dunque nel fatto che il bene sarà per legge considerato “non conforme al contratto” non solo quando presenti difetti che, pur con una più puntuale identificazione, in qualche modo ripropongono i vizi occulti o la mancanza di qualità promesse o essenziali cui si riferisce il codice civile per la vendita in genere; ma anche quando il consumatore rimanga deluso nelle aspettative che gli siano state sollecitate prima ancora che decida di comprare ed anzi per indurlo a comprare, cioè nel messaggio pubblicitario o in qualsivoglia promozione. Già in questa fase, come abbiamo a suo tempo segnalato (IV, II, 17) la comunicazione promozionale viene equiparata dalla legge ad una pro-

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messa di qualità e prestazioni del bene; promessa della quale rimane responsabile il venditore anche se il messaggio o l’etichettatura siano da attribuire al produttore o distributore, a meno che il venditore non dimostri che non ne era a conoscenza né poteva esserlo usando l’ordinaria diligenza, o che la dichiarazione era stata corretta prima della conclusione del contratto o, ancora, che essa non ha in concreto influenzato la decisione di acquistare del consumatore. Il venditore, nei termini che fra poco vedremo, sarà responsabile dei difetti di conformità del bene, da apprezzare secondo questi parametri, esistenti al momento della consegna (come vedremo rimanendo a suo carico anche il rischio del perimento del bene intervenuto tra il perfezionamento della vendita e la consegna: infra, 16); responsabilità che ha una durata di due anni dalla consegna. Il consumatore dovrà denunciare, a pena di decadenza, il difetto entro un termine di due mesi dalla scoperta (sensibilmente più lungo di quello di otto giorni previsto dal codice civile all’art. 1495, co. 2) e avrà l’onere di provare che il difetto era presente al momento della consegna solo se il difetto si presenterà oltre i sei mesi da quel momento, mentre se il difetto si presenterà prima soccorrerà la presunzione di legge e sarà onere del professionista provare il contrario. Il regime di responsabilità del venditore muta radicalmente rispetto alla vendita in generale e alla disciplina del codice, non solo perché si modificano i presupposti, ma soprattutto perché si rafforza la tutela del compratore, il quale potrà avvalersi non solo della risoluzione o della domanda di riduzione del prezzo, ma anche della pretesa ad un esatto adempimento, sotto forma di “correzione” o ripetizione della prestazione del venditore, attraverso interventi di riparazione o la consegna di altro bene. La legge delinea anzi un rapporto di gerarchia tra i rimedi, organizzati secondo due coppie. Il consumatore ha il diritto di chiedere – e deve chiedere in prima battuta – a sua scelta la riparazione o la sostituzione del bene, ove possibile e non eccessivamente onerosa. E solo in seconda battuta (quando cioè riparazione o sostituzione non siano in concreto possibili, o siano troppo onerose, o si siano rivelate inutili ed anzi abbiano arrecato inconvenienti al consumatore o il venditore non vi abbia provveduto entro un termine congruo: art. 130, co. 7 cod. cons.), si passerà, sempre a scelta del compratore, ai rimedi tradizionali della riduzione del prezzo o della risoluzione del contratto (esclusa quando si tratti di difetti di lieve entità). Solo se il compratore, dopo la denuncia del difetto, non ha ancora chiesto di avvalersi di uno di questi

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rimedi, secondo la gerarchia posta dalla legge tra le due coppie (riparazione o sostituzione; riduzione del prezzo o risoluzione), il venditore può offrirgli un diverso rimedio che il consumatore potrà accettare. Il regime di tutela, compresa la “gerarchia” dei rimedi, non è negoziabile all’atto della stipula del contratto o in fase di esecuzione: l’art. 134 cod. cons. sancisce infatti la nullità di ogni patto che, anteriormente alla comunicazione al venditore del difetto di conformità, escluda o limiti in qualche modo i diritti del consumatore. Il venditore rimane semmai libero di offrire al consumatore una garanzia convenzionale ulteriore, che espressamente faccia salva quella legale: ed è anzi vincolato a tale garanzia convenzionale se l’abbia promessa nella pubblicità. Quella accordata dalla legge al consumatore, secondo il consueto trend dell’intervento comunitario, è però da considerarsi una tutela minima irrinunciabile, che fa salvi pertanto altri diritti attribuiti dall’ordinamento interno. Per questa via, al consumatore non potrà essere negato anche il diritto al risarcimento del danno, in forza della disposizione generale di cui all’art. 1453 c.c., pur se il rimedio non è menzionato esplicitamente nella disciplina di fonte europea. L’art. 135 cod. cons., infatti, precisa che le disposizioni precedenti non escludono o limitano diritti attribuiti al consumatore da altre norme dell’ordinamento giuridico. A seguito del recepimento della dir. 2011/83, il codice del consumo ha arricchito la disciplina dei (soli) contratti di vendita professionistaconsumatore, con particolare riguardo all’adempimento dell’obbligo di consegna, prevedendo la concessione di un “termine supplementare” appropriato alle circostanze, da concedere al professionista che non abbia rispettato il termine pattuito ovvero il termine di legge (di trenta giorni), e dando diritto al consumatore, in caso di ulteriore ritardo, di “risolvere immediatamente” il contratto, salvo il diritto al risarcimento del danno e agli altri diritti di cui agli artt. 1453 ss. (art. 61 cod. cons.). Disposizione che sembra suggerire una qualificazione del termine di consegna quale termine essenziale ex lege (che consente la risoluzione in via stragiudiziale), ma non esclude, dato il rinvio ai diritti di cui agli artt. 1453 ss., sia un ricorso del consumatore alla eccezione di inadempimento sia una domanda di adempimento in via coattiva dell’obbligo di consegna. L’intero quadro normativo pone in evidenza la messa a punto di un regime di responsabilità ad hoc, adeguato alla natura del contratto e all’interesse del consumatore. Tornando però ai rimedi azionabili in ca-

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so di consegna di un bene che presenti un “difetto di conformità” non può non rilevarsi, quale dato ai nostri fini più significativo, come l’obiettivo di preservare lo scambio e assicurare soddisfazione allo scopo di consumo per cui il bene è stato acquistato conduca ad assegnare una netta preminenza, assistita dalla gerarchia posta dalla legge, a rimedi satisfattori, vale a dire l’adempimento esatto da parte del venditore sotto forma di sostituzione o riparazione del bene difettoso. La rilevanza di questa scelta sul piano sistematico non ci sembra possa venire ridimensionata da un inquadramento della disciplina fuori dall’area della responsabilità per inadempimento, nel presupposto che non venga qui in gioco il meccanismo proprio della responsabilità per inadempimento ma quello della garanzia. Il richiamo al regime della garanzia ha il limite a nostro avviso di appiattire la nuova disciplina entro lo schema tradizionale del codice civile, che pure, sulla base di alcuni indici normativi abbastanza equivoci – primo fra tutti il richiamo esplicito alla risoluzione per inadempimento per il caso di mancanza nel bene delle qualità promesse o essenziali nell’art. 1497 – parte della dottrina non riteneva così irriducibile al paradigma della responsabilità per inadempimento. La circostanza che la cosa presenti vizi occulti già al momento in cui le parti stipulano il contratto ha reso tradizionalmente assai problematico l’inquadramento della garanzia per vizi (espressamente prevista tra le obbligazioni a carico del venditore dall’art. 1476, n. 3, c.c.) nel paradigma dell’inadempimento delle obbligazioni a carico del venditore di cui sia fonte il contratto di compravendita. Il codice subordina poi l’esercizio del diritto del compratore all’onere di denunziare i vizi o la mancanza di qualità entro un termine di decadenza assai breve (otto giorni dalla scoperta, salva altra previsione di legge o patto contrario); e riduce ad un anno il termine di prescrizione dell’azione, anche se il compratore convenuto per l’esecuzione del contratto potrà sempre eccepire il vizio se lo abbia denunciato entro otto giorni dalla scoperta ed entro un anno dalla consegna del bene (art. 1495). Si delinea così un regime comunque peculiare rispetto alla disciplina generale dell’inadempimento contrattuale che rimanda alla disciplina delle c.d. azioni edilizie, di risoluzione e riduzione del prezzo, generalmente ricondotto entro il quadro degli effetti della garanzia, cui il venditore è obbligato ex lege, art. 1476 n. 3. Nel caso della vendita di beni di consumo, tuttavia, non solo il difetto di conformità rimanda oltre che ai tradizionali “vizi” occulti del bene, anche alla violazione di comportamenti posti in essere

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dal venditore in sede di conclusione del contratto (o nel corso del procedimento di formazione che si diparte dalla pubblicità), ma la legge “costruisce” la responsabilità del venditore entro lo schema dell’obbligazione, inadempiuta, di «consegnare al consumatore beni conformi al contratto». Chi rifiuta il richiamo alla responsabilità per inadempimento in via diretta – come inadempimento dell’obbligazione di consegna nascente dal contratto – torna poi al modello della obbligazione inadempiuta, identificata con l’obbligazione di ripristino quale effetto della garanzia (S. Mazzamuto). Recuperato per l’una o per l’altra via lo schema obbligazione-(in)adempimento – rimedi contrattuali, non può non rilevarsi che sia la dottrina che i nostri giudici, anche in ragione del chiaro dettato dell’art. 1492 c.c., hanno sempre escluso che nella vendita, come disciplinata dal codice, il compratore possa chiedere, invece che la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto, l’esatto adempimento – pretesa concessa invece in generale nel caso di inadempimento del contratto – che in questo caso dovrebbe avvenire sotto forma di riparazione o sostituzione della cosa viziata. E ciò non tanto e non solo in ragione della specialità della disciplina e della sua pretesa distanza dal regime della risoluzione per inadempimento, quanto in considerazione della natura e della causa del contratto: anche nel pensiero di chi riconduceva già i rimedi codicistici all’area dell’inadempimento contrattuale, risultava incompatibile con lo schema della vendita un rimedio come l’esatto adempimento che avrebbe costretto il venditore o ad un secondo adempimento (consegna di cosa non viziata) ovvero ad una prestazione di fare, estranea alla vendita (riparazione del bene). Nella disciplina speciale, la rilevanza dello scopo di consumo oscura in qualche modo le differenze tra i diversi schemi contrattuali presi in considerazione, nei quali può essere dedotta una obbligazione di costruire, produrre, fabbricare, ma può essere presente solo lo schema dello scambio di cosa determinata contro prezzo, proprio della vendita: prevale l’obiettivo di assicurare la realizzazione della causa in concreto, consistente nel procurare al consumatore l’utilità rappresentata e insita nel bene, che spinge verso il primato dei rimedi volti alla conservazione del contratto e all’adempimento satisfattivo anche in forme estranee al contenuto tipico del contratto (di vendita), come la riparazione o sostituzione del bene.

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9. Autonomia privata e “governo” degli effetti dell’inadempimento Gli artt. 1454, 1456 e 1457 c.c. disciplinano, rispettivamente, diffida ad adempiere, clausola risolutiva espressa e termine essenziale, per mezzo dei quali l’inadempimento può condurre alla risoluzione del contratto non a seguito di una verifica giudiziale e di una pronuncia costitutiva del giudice, come secondo la regola generale di cui all’art. 1453, bensì in conseguenza di una iniziativa della parte (non inadempiente) nei modi prescritti dalla legge. Si parla in questo caso di mezzi di risoluzione stragiudiziale o di diritto. Terminologia corretta se rivolta a segnalare, appunto, il prodursi dell’effetto risolutivo fuori dal processo e in conseguenza di manifestazioni dell’autonomia privata. A patto di precisare subito che un intervento del giudice non sarà precluso, in caso di conflitto, per accertare i presupposti richiesti dalla legge con riguardo ai diversi meccanismi in questione; e di aggiungere che la risoluzione, seppure “di diritto” e non per provvedimento del giudice, non è per ciò stesso automatica, poiché come vedremo, in coerenza con il loro diverso funzionamento, gli strumenti di risoluzione in via stragiudiziale lasciano comunque spazi di ponderazione alle scelte private. La riconduzione entro un’unica categoria – quella dei mezzi di risoluzione in via stragiudiziale – va semmai in qualche misura criticata in quanto lascia in ombra la significativa differenza, quanto alla funzione, tra il primo strumento – la diffida ad adempiere – e gli altri due, clausola risolutiva espressa e termine essenziale. Differente funzione che invece la sistematica del codice puntualmente evidenzia interrompendo la continuità tra le tre norme con l’inserimento dell’art. 1455 c.c. Si segnala così che solo i secondi, clausola risolutiva espressa e termine essenziale consegnano ai privati sotto il profilo sostanziale la possibilità di un autogoverno degli effetti dell’inadempimento, che si manifesta essenzialmente sottraendo l’inadempimento che può portare alla risoluzione alla verifica di “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c.; mentre la prima, la diffida ad adempiere, interviene esclusivamente dal profilo procedurale, fornendo alla parte un mezzo più rapido e semplice per giungere alla risoluzione che lascia però impregiudicata l’applicazione del regime “ordinario” del rimedio risolutivo, ivi compresa la necessità che ricorra un inadempimento di non scarsa importanza. L’accertamento del giudice, in questo caso, non riguarderà solo la verifica della

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presenza dei requisiti di legge nell’atto di autonomia privata (la diffida, come la clausola risolutiva espressa e il suo esercizio, la previsione del termine essenziale), ma anche la rilevanza dell’inadempimento ai fini della risoluzione; rilevanza che invece è in principio lasciata alla determinazione dei privati negli altri casi. La clausola risolutiva espressa, è la clausola con la quale i contraenti convengono «che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite» (art. 1456, co. 1). Qui dunque l’autonomia privata si vede riconosciuto il massimo spazio e l’intervento più intenso sul rimedio risolutorio, poiché l’inadempimento che condurrà alla risoluzione viene preventivamente individuato dalle parti ed apprezzato, circa la sua rilevanza, direttamente in sede di accordo. Per questo la risoluzione del contratto sulla base di una clausola risolutiva espressa non può essere pronunciata d’ufficio, e deve essere oggetto di una specifica domanda giudiziale; e la giurisprudenza correttamente esclude che, una volta proposta l’ordinaria domanda di risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c., la parte possa nel corso del giudizio mutarla in richiesta di accertamento dell’avvenuta risoluzione “ope legis” di cui all’art. 1456 c.c.: quest’ultima, ribadisce la S.C. (9-6-2015, n. 11864) «è radicalmente diversa dalla prima, sia quanto al “petitum”, perché invocando la risoluzione ai sensi dell’articolo 1453 c.c. si chiede una sentenza costitutiva mentre la domanda di cui all’articolo 1456 c.c. ne postula una dichiarativa, sia relativamente alla “causa petendi”, perché nella ordinaria domanda di risoluzione, ai sensi dell’articolo 1453 c.c., il fatto costitutivo è l’inadempimento grave e colpevole, nell’altra, viceversa, la violazione della clausola risolutiva espressa». Diverso il caso in cui, proposta domanda di adempimento, la parte dichiari invece che intende avvalersi della clausola risolutiva espressa, trattandosi dell’esercizio dello ius variandi consentitole dall’art. 1453, co. 2. L’inadempimento potrà riguardare dunque non solo una obbligazione non essenziale (il che si ammette anche nel regime ordinario, salva la verifica di cui all’art. 1455); ma, riteniamo, anche una obbligazione altrimenti qualificabile come “marginale”: limitare da questo punto di vista l’autonomia privata equivarrebbe a neutralizzare la funzione della clausola, reinserendo in qualche modo un giudizio di “non scarsa importanza” che le parti invece vogliono escludere. Il riferimento ad un mancato adempimento “secondo le modalità stabilite” chiarisce che alle parti è consentito individuare quale causa di risolu-

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zione anche un inesatto adempimento, così obbligando la parte a modalità anche più stringenti (e magari non consuete) in rapporto all’interesse dell’altra e alla natura della prestazione. Ciò che non può escludersi, ma in sede di accertamento del rispetto della volontà espressa in sede di clausola (e non di sindacato del giudice sulla concreta gravità dell’inadempimento corrispondente a quanto previsto nella clausola), è semmai, come opportunamente si fa notare in dottrina, uno scrutinio (secondo buona fede) della esecuzione del contratto, che potrà condurre ad escludere la ricorrenza dell’inadempimento dedotto nella clausola nel caso, ad esempio, di lieve scostamento da quanto ivi previsto. La società A e la società B concludono un contratto di licenza di marchio, in base al quale B potrà vendere i prodotti del marchio; la società B dovrà inviare alla società A l’estratto conto relativo alle fatture emesse, a seguito delle vendite effettuate, al termine di ogni semestre e l’inadempimento a tale obbligo è previsto quale causa di risoluzione in una clausola risolutiva espressa. Alla fine di un semestre, essendo stata emessa una sola fattura e proprio nell’ultimo giorno del periodo, la società B non invia il prescritto estratto conto, e dà invece comunicazione di tale fattura nell’estratto conto relativo al semestre successivo. La società A si avvale della clausola risolutiva, ma in sede d’Appello – nel procedimento instaurato su domanda di B che contesta il ricorrere dei presupposti per la risoluzione in via stragiudiziale – i giudici escludono che si ravvisi in concreto l’inadempimento invocato da A. La S.C. conferma tale sentenza affermando che: «Anche in presenza di clausola risolutiva espressa, i contraenti sono tenuti a rispettare il principio generale della buona fede ed il divieto di abuso del diritto, preservando l’uno gli interessi dell’altro. Il potere di risolvere di diritto il contratto avvalendosi della clausola risolutiva espressa, in particolare, è necessariamente governato dal principio di buona fede. Il principio di buona fede si pone allora, nell’ambito della fattispecie dell’art. 1456 c.c., come canone di valutazione sia dell’esistenza dell’inadempimento, sia del conseguente legittimo esercizio del potere unilaterale di risolvere il contratto, al fine di evitarne l’abuso ed impedendone l’esercizio ove contrario ad essa (ad esempio escludendo i comportamenti puramente pretestuosi). Dunque, pur in presenza della clausola risolutiva espressa, per il con-

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traente non inadempiente vige il precetto generale ex art. 1375 c.c., il quale gli impone in primis di valutare la condotta di controparte in tale prospettiva collaborativa; quindi, sarà il giudice a dover valutare le condotte in concreto tenute da entrambe le parti del rapporto obbligatorio, allorché sia adito con la domanda volta alla pronuncia dichiarativa ex art. 1456 c.c.; e, se da tale valutazione risulti che la condotta del debitore, pur realizzando sotto il profilo materiale il fatto contemplato nella clausola risolutiva espressa, è conforme al principio di buona fede, ciò lo condurrà ad escludere la sussistenza dell’inadempimento tout court e quindi dei presupposti per dichiarare la risoluzione del contratto». (Cass. 23-11-2015, n. 23868) L’ampiezza e l’intensità dell’intervento consentito all’autonomia privata sul rimedio giustificano l’esigenza che la volontà sia espressa e precisa, individuando quale o quali determinate obbligazioni, se inadempiute, possano portare alla risoluzione. Fuori, come detto, da ogni automatismo, la presenza della clausola non conduce di per sé alla risoluzione una volta verificatosi l’inadempimento: la risoluzione, precisa il co. 2 dell’art. 1456, si verifica «quando la parte interessata dichiara all’altra che intende avvalersi della clausola». La necessità di tale manifestazione di volontà (recettizia), con la quale la parte esercita il proprio diritto potestativo alla risoluzione, assicura alla parte adempiente un margine di scelta circa la sopravvivenza del rapporto malgrado l’inadempimento e serve a dare certezza circa il momento dell’avvenuta risoluzione, soprattutto nell’interesse del debitore il quale, nelle more, è comunque vincolato e potrebbe anche continuare ad adoperarsi per adempiere. Può rivelarsi incerto nella prassi, ed è compito rimesso all’apprezzamento del giudice, stabilire se le parti abbiano inteso prevedere una clausola risolutiva espressa ovvero sottoporre il contratto ad una condizione risolutiva di inadempimento, che comporta lo scioglimento del contratto con effetti retroattivi anche per i terzi (e non solo per le parti come invece nella risoluzione per inadempimento). Il termine essenziale per una delle parti, di cui all’art. 1457, è termine di adempimento (il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita, di cui all’art. 1183 c.c.), non dunque il termine riferito al momento iniziale o finale di produzione degli effetti del contratto (VI, 10). La rilevanza del termine di adempimento, ai fini della risoluzione del contrat-

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to, non è ovviamente limitata ai casi in cui questo debba considerarsi “essenziale” ai sensi della norma citata. L’inosservanza del termine può costituire infatti inadempimento di non scarsa importanza, e quindi causa di risoluzione del contratto, quando il ritardo ecceda ogni limite di tollerabilità: ed è per questo che in generale si esclude che la parte, per chiedere la risoluzione sulla base del ritardo, debba prima costituire in mora l’inadempiente, essendo già il semplice ritardo in principio valutabile come inadempimento di non scarsa importanza. Se il termine non è essenziale si impone la valutazione della gravità del ritardo, che, invece, è in re ipsa nel termine essenziale. La essenzialità che conduce alla risoluzione quando esso sia scaduto è individuata nell’art. 1457 come carattere oggettivo del termine, che dovrà dunque desumersi dalla natura o dall’oggetto del contratto (e della prestazione), a meno che l’essenzialità derivi da una espressa ed inequivoca volontà delle parti di considerarlo essenziale: non occorrono “formule sacramentali”, chiarisce la giurisprudenza, ma non bastano ovviamente clausole di stile. La manifestazione di volontà necessaria per conferire essenzialità ad un termine di adempimento (che non lo presenti oggettivamente) riguarda solo la natura, appunto, essenziale di questo, non richiedendosi invece una previsione espressa anche dell’effetto risolutivo. Compito del giudice sarà poi accertare se la manifestazione di volontà delle parti non integrasse invece una clausola risolutiva espressa. La distinzione non è priva di rilievo perché nel caso del termine essenziale il “non automatismo” della risoluzione si manifesta secondo una tecnica opposta: il contratto si intende risolto (anche se non è stata pattuita espressamente la risoluzione come conseguenza del mancato rispetto del termine essenziale), per il semplice spirare inutilmente del termine e la parte che intenda invece esigere l’adempimento anche oltre il termine deve darne notizia all’altra parte entro tre giorni. Meccanismo che riduce i margini di incertezza (e di conflitto) circa una smentita della essenzialità del termine per la inerzia della parte a farla valere. La diffida ad adempiere, di cui all’art. 1454, è invece, come abbiamo detto, piuttosto uno strumento che, rimanendo impregiudicati i presupposti della risoluzione, secondo il regime ordinario (e in primo luogo il possibile scrutinio dell’inadempimento alla stregua del parametro di cui all’art. 1455), consente alla parte di provocare l’effetto risolutivo fuori dal processo, avvalendosi di una tecnica procedimentale alternativa, affidata ad una sua manifestazione di volontà (la diffida, o intima-

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zione) che abbia però i requisiti di forma e di sostanza previsti dalla legge. Strumento messo a disposizione, ovviamente, della parte adempiente: la parte cui sia stato contestato un inadempimento non potrebbe provocarne la risoluzione mediante diffida ad adempiere nei confronti dell’altra, pur a sua volta ritenuta inadempiente. Per produrre l’effetto risolutorio di cui all’art. 1454 non saranno sufficienti normali sollecitazioni e richieste (che possono semmai esplicitare il venir meno dell’interesse all’adempimento, anche ai fini di cui all’art. 1455), occorrendo invece una intimazione per iscritto ad adempiere in un congruo termine, nella quale debbono rinvenirsi sia l’espressa indicazione di un termine congruo che non può essere inferiore a quindici giorni (salvo che le parti abbiano pattuito diversamente o che data la natura del contratto o secondo gli usi risulti congruo un termine inferiore), sia l’espressa dichiarazione che, decorso inutilmente tale termine, il contratto si intenderà senz’altro risolto. Una comunicazione, un invito pur “vigorosi” ad adempiere non potranno condurre all’effetto risolutorio se non vi si rintracceranno gli elementi che per legge integrano la diffida ad adempiere. Ratio della norma è quella di fissare con chiarezza la posizione delle parti rispetto all’esecuzione del contratto, mediante un formale avvertimento alla parte diffidata che l’intimante non è disposto a tollerare un ulteriore ritardo nell’adempimento, ma anche esplicitare in modo inequivoco la volontà dell’intimante di considerare risolto il contratto all’inutile scadenza del termine.

10. Gli obblighi restitutori e il risarcimento del danno L’art. 1458 c.c. disciplina gli “effetti” della risoluzione per inadempimento: essa opera retroattivamente tra le parti, salvo il caso dei contratti ad esecuzione continuata o periodica nei quali l’effetto non si estende alle prestazioni già eseguite; e non pregiudica invece i diritti acquistati dai terzi (salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione che prevarranno su acquisti dei terzi anteriori ma non anteriormente trascritti). La risoluzione – mentre produce un effetto liberatorio ex nunc per le prestazioni ancora da eseguire – travolge ex tunc quelle già eseguite privandole di titolo ed impone il ristabilimento della situazione ad esso anteriore. La retroattività della pronuncia di risoluzione fa venire meno la causa giustificatrice delle attribuzioni patrimo-

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niali già eseguite e dunque fa sorgere a carico di entrambe le parti una obbligazione restitutoria avente ad oggetto le prestazioni ricevute. Le restituzioni non possono dirsi conseguenza immediata e diretta della risoluzione, e semmai traggono titolo dal venire meno, per effetto della risoluzione, della giustificazione dell’attribuzione patrimoniale effettuata: dunque il giudice non potrà disporle d’ufficio o considerarle implicite nella domanda di risoluzione, occorrendo una domanda di parte. I principi e le regole sono quelli della ripetizione di indebito (oggettivo, art. 2033 c.c.) cui infatti espressamente rimanda, per gli analoghi effetti della risoluzione per impossibilità sopravvenuta, l’art. 1463 c.c. L’impossibilità di restituire un bene, eventualmente perito o alienato a terzi comporterà l’obbligo di restituire il corrispettivo (artt. 2037 e 2038); mentre a fronte di prestazioni di fare ricevute e non più giustificate si applicheranno le regole dell’arricchimento senza causa. Nei contratti di durata le prestazioni già eseguite hanno trovato giustificazione nel regolare funzionamento, a quel tempo, del rapporto e dunque nel nesso sinallagmatico che le legava e per questo sono fatte salve. Gli effetti restitutori prescindono dalla eventuale imputabilità dell’inadempimento (spettando le restituzioni a tutte le parti) e non vanno confusi con gli effetti sanzionatori (il risarcimento del danno) che conseguono a favore della parte adempiente e gravano sul contraente inadempiente trovando titolo nella sua responsabilità. L’art. 1453 fa salvo, sia nel caso in cui sia domandato l’adempimento che nel caso in cui sia domandata la risoluzione, il risarcimento del danno. Risarcimento che coprirà pregiudizi diversi, a seconda che si accompagni alla manutenzione del contratto, a seguito di domanda di esatto adempimento, ovvero alla risoluzione. Nel primo caso il danno da risarcire sarà commisurato al c.d. interesse contrattuale positivo del contraente non inadempiente, diretto a coprire la differenza tra la situazione patrimoniale che sarebbe derivata da un’esatta esecuzione del contratto e quella che deriva dall’inesatto o tardivo adempimento; e potrà limitarsi ai danni da ritardo se la prestazione viene eseguita ovvero comprendere i danni per il mancato conseguimento della prestazione se, malgrado la sentenza di condanna, il debitore rimanga definitivamente inadempiente. Nel caso di risoluzione per inadempimento, la questione è apparsa più complessa, soprattutto in relazione al dubbio avanzato in dottrina e in giurisprudenza secondo cui, dal momento che la risoluzione fa venire meno gli effetti del contratto, con i conseguenti obblighi re-

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stitutori che ripristinano tra le parti la situazione patrimoniale anteriore al contratto, alla parte adempiente dovrebbe riconoscersi solo il c.d. interesse negativo (cioè perdite e lucro cessante derivanti dall’essere stata coinvolta in un contratto non andato a buon fine, perdendo altre occasioni, come nel caso di contratto invalido) e non invece i danni per i mancati guadagni che le sarebbero venuti dall’adempimento del contratto e dal conseguimento delle utilità della prestazione attesa (c.d. interesse positivo). Più accreditata in dottrina la tesi che, tenuto conto della diversa natura del rimedio risolutorio rispetto al regime delle invalidità, ritiene che il risarcimento debba assicurare alla parte un risultato economicamente equivalente ai profitti che era legittimo attendersi dal contratto, a tutela del suo interesse all’adempimento. Una adeguata messa a fuoco del differente fondamento degli effetti restitutori rispetto all’obbligazione risarcitoria, consente alla giurisprudenza più recente di confermare il diritto della parte adempiente ad un risarcimento del c.d. interesse positivo, e dunque ad un risarcimento commisurato alla «ricostruzione del proprio patrimonio, nella medesima consistenza che lo stesso avrebbe avuto se, tra le parti, non fosse intervenuto il contratto poi rimasto inadempiuto», volto a «a far ottenere al risolvente un assetto economico equivalente a quello che gli avrebbe assicurato lo scambio fallito» (Cass. s.u. 11-4-2015, n. 8510). Ad esempio, la differenza tra il valore commerciale del bene al momento della proposizione della domanda di risoluzione della vendita e il prezzo pattuito. Ovviamente la risoluzione non implica che il danno sussista in ogni caso, dovendo esso essere provato nella sua reale esistenza, nel suo ammontare quanto alla sua derivazione, secondo i principi della regolarità causale, nel nesso con l’inadempimento imputabile all’altra parte. Assai dibattuta, a fronte di un dettato normativo assai poco puntuale, la questione se lo ius variandi consentito dall’art. 1453, co. 2, in deroga ai principi del processo civile (art. 183 c.p.c.) si estenda anche alla domanda risarcitoria: se cioè alla parte che cambi la propria domanda di adempimento in quella di risoluzione sia consentito contestualmente avanzare domanda risarcitoria (necessariamente nuova e diversa). Secondo l’interpretazione restrittiva, basata essenzialmente sul carattere eccezionale del potere di cambiamento della domanda riconosciuto alla parte contraente, la deroga non si estenderebbe alla domanda ulteriore di risarcimento del danno consequenziale a quelle di adempimento o risoluzione, trattandosi di domanda del tutto diversa per “petitum” e

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“causa petendi” rispetto a quella originaria: dunque il risarcimento del danno dovrebbe essere chiesto in questo caso con altra e distinta domanda giudiziale. Intervenendo a comporre il contrasto giurisprudenziale, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione lo hanno invece risolto di recente abbracciando la tesi estensiva e affermando il principio secondo cui «La parte che, ai sensi dell’art. 1453, secondo comma, cod. civ., chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l’adempimento, può domandare, contestualmente all’esercizio dello “ius variandi”, oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale». Il co. 1 dell’art. 1453, osserva la Corte, nel fare «salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno», configura come possibile il cumulo tra la domanda rivolta ad ottenere lo scioglimento del contratto e l’azione risarcitoria per la riparazione del pregiudizio economico del creditore insoddisfatto, delineando un modello di tutela unitario risultante dall’operare combinato dei due rimedi, con l’azione di danno che può accompagnarsi tanto all’azione di adempimento quanto alla domanda di risoluzione. A supportare l’interpretazione estensiva non è tanto la lettera della norma, o principi di economia e concentrazione processuale (pure richiamati, che suggeriscono di evitare che la parte, imbattendosi nella preclusione, debba poi avviare un separato giudizio risarcitorio), quanto la valorizzazione della ratio dello ius variandi in combinato con la rilevanza accordata alla funzione della tutela risarcitoria che, sottolinea la Corte, «quantunque non legata da un rapporto di consequenzialità logico-giuridica alla domanda di risoluzione, concorre nondimeno ad integrare e a completare le difese del contraente in regola, costituendo un coelemento, un tassello di un sistema complessivo di tutela, affidato – proprio nell’impianto della stessa disposizione che contempla lo ius variandi – all’azione combinata di più domande». (Cass. s.u. 11-4-2014, n. 8510) Quanto agli effetti della risoluzione merita un chiarimento il principio, ricorrente in giurisprudenza, che ammette la rinuncia agli effetti della risoluzione, ancorché già verificatisi, siano essi conseguenti ad una

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pronuncia costitutiva ex art. 1453 ovvero all’esercizio dei rimedi di risoluzione stragiudiziale di cui agli artt. 1454, 1456 e 1457. Il principio non può non suscitare perplessità, particolarmente alla stregua del canone di buona fede, implicando la libertà della parte, che pure abbia chiesto ed ottenuto o provocato in via stragiudiziale la risoluzione per inadempimento dell’altra, di far “rivivere” con la propria rinuncia alla risoluzione l’obbligo di adempiere a carico della controparte, alla quale dovrebbe chiedersi di mantenersi comunque “pronta”, ove l’esecuzione sia ancora possibile, anche oltre e dopo la cessazione degli effetti del contratto. Paradosso che si ridimensiona considerando l’uso che di tale principio fanno i giudici, che dall’(ambigua) ammissibilità di una “rinuncia” agli effetti della risoluzione fanno discendere la rilevanza del comportamento della parte che abbia accettato l’adempimento successivo per escludere che essa possa poi legittimamente tornare ad invocare la risoluzione (ad esempio proponendo appello alla sentenza di primo grado).

11. (Segue). Il danno non patrimoniale da inadempimento Il mancato conseguimento della prestazione e in generale delle utilità attese dal contratto provoca sempre un pregiudizio nella sfera della parte che ne è vittima. Anche quando, in ipotesi, nessuna differenza di valore dovesse riscontrarsi, ad esempio, tra il bene che si intendeva conseguire e il prezzo che viene comunque recuperato in sede di restituzioni e nessuna spesa fosse stata affrontata dalla parte, si registrerebbe comunque, come si sottolinea in dottrina, un mutamento qualitativo, tra la situazione che la parte si attendeva dal contratto e quella determinatasi. I pregiudizi in questione non si determinano sempre e soltanto nella sfera patrimoniale del creditore, potendo investire la sua sfera personale, tenuto conto della natura del contratto e delle prestazioni attese (ansia, pregiudizio al sereno andamento della vita familiare o della vita di relazione, oltre che alla salute, ecc.). L’idea che l’inadempimento dell’obbligazione e, in particolare, delle obbligazioni di fonte contrattuale, possa incidere, violandola, sulla sfera personale oltre che patrimoniale del creditore, è stata tuttavia a lungo estranea al nostro sistema. Del contratto si è privilegiata la funzione, peraltro consacrata nell’art. 1321 c.c., di strumento di regolazione di rapporti patrimoniali e dunque di interessi squisitamente economici, confortata dal richiamo alla “patri-

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monialità” della prestazione di cui all’art. 1174 c.c. (secondo una lettura che ha lasciato in ombra l’opportuna menzione della possibile natura non patrimoniale dell’interesse creditorio, che pure la norma contiene), e dall’impronta che l’art. 1223 c.c. sembra conferire al risarcimento del danno quale strumento di riparazione di perdite patrimoniali (perdita e mancato guadagno). Terreno “naturale” di rilevanza del danno non patrimoniale è stata ritenuta la responsabilità per illecito extracontrattuale, ma anche qui nei limiti che a lungo sono stati ritenuti imposti dal dettato dell’art. 2059 c.c.: il danno non patrimoniale risarcibile è stato a lungo destinato ad una doppia marginalizzazione, poiché identificato, anche in caso di responsabilità aquiliana, con il danno morale risarcibile “solo nei casi determinati dalla legge”, con esclusivo riferimento al danno da reato. Senza poter qui approfondire il tema e la complessa evoluzione del nostro ordinamento dal profilo considerato, va detto che la generale ammissibilità del risarcimento del danno non patrimoniale conseguente all’inadempimento dell’obbligazione trova oggi compiuto riconoscimento; e che una tappa decisiva di tale risultato, e della costruzione della nozione di danno non patrimoniale contrattuale è costituita dalla sentenza a Sezioni Unite, Cass. 11-11-2008, n. 26972. La risarcibilità del danno non patrimoniale in caso di inadempimento dell’obbligazione viene qui definitivamente sancita, nel quadro di una “interpretazione costituzionalmente orientata” dell’art. 2059 c.c., che ha qui trovato un importante approdo e che assume come punto di partenza il necessario riconoscimento per i diritti inviolabili della persona della minima tutela costituita dal risarcimento: riconoscimento che reclama dunque un obbligo risarcitorio quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale. Se l’inadempimento dell’obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria, afferma la Corte, del danno non patrimoniale potrà essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo tra azione contrattuale e azione extracontrattuale seguito in passato. E l’art. 1223 andrà applicato riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei diritti inviolabili della persona. L’individuazione, poi, in relazione al singolo contratto, degli interessi di natura non pa-

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trimoniale compresi nell’area del contratto oltre a quelli di natura patrimoniale va condotta accertando la causa concreta del negozio. Gli esempi, che la stessa sentenza richiama, non mancano: dai contratti del settore sanitario, al contratto scuola-allievo, con i relativi obblighi di protezione che essi implicano, al contratto di trasporto. Il limite che si rimprovera a tale impostazione è tuttavia quello di avere collocato la risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento nel quadro delle premesse teoriche riferite al danno non patrimoniale da illecito aquiliano e in particolare della interpretazione dell’art. 2059 c.c., secondo cui ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale dovrà soccorrere una espressa previsione normativa ovvero rintracciarsi la lesione di un diritto inviolabile della persona. A smentire la pretesa “incompatibilità” di principio tra regime della responsabilità contrattuale e danno non patrimoniale, sancendo di questo espressamente la risarcibilità a pieno titolo in sede contrattuale, in parallelo con il percorso compiuto dalla nostra giurisprudenza sul danno morale e con la elaborazione della nostra dottrina, ha contribuito non poco una sollecitazione prima e una espressa disposizione poi, maturate nell’ambito dei contratti di consumo. Preannunciata e sollecitata da una sentenza della Corte di giustizia (Corte giust. 12-3-2002, C-168/00 Leitner), la risarcibilità del danno contrattuale non patrimoniale trova ora esplicito riconoscimento nel nostro ordinamento (solo) nell’art. 47 cod. cons. (introdotto in sede di recepimento della dir. 2008/122/CE) sotto forma di “danno da vacanza rovinata”. Nel caso in cui l’inadempimento o inesatta esecuzione delle prestazioni che formano oggetto del pacchetto turistico non sia di scarsa importanza ai sensi dell’art. 1455 c.c., il turista può chiedere oltre e indipendentemente dalla risoluzione del contratto, «un risarcimento del danno correlato al tempo di vacanza inutilmente trascorso ed all’irripetibilità dell’occasione perduta». Il breve termine di prescrizione dell’azione viene fissato con rinvio alle altre norme che disciplinano, rispettivamente, la responsabilità per danni alla persona, sempre derivanti dall’inadempimento o inesatta esecuzione della prestazione, o per danni diversi da quelli alla persona (artt. 44 e 45 cod. tur.). A parte l’ammissibilità di una azione risarcitoria (per inadempimento contrattuale) separata da quella di risoluzione ed autonoma, che invece in generale si ritiene inammissibile (non giustificandosi un diritto al risarcimento che prescinda dal previo accertamento dell’inadempimento), si tratta dell’unico dato normativo espresso: il danno

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da vacanza rovinata copre un pregiudizio distinto e diverso da quelli che l’inadempimento può avere arrecato alla persona (infortuni, ad esempio) e impone la risarcibilità e la monetizzazione, nelle sue varie concrete accezioni, della lesione di quella che la Corte di giustizia, ma anche i nostri giudici (quando l’attraggono come diremo tra poco nella nozione di “causa in concreto”) chiamano aspettativa di svago, danni che attengono alla sfera psichica, sentimentale, relazionale del consumatore, propria dello svago, ricreazione o divertimento. Da considerare ovviamente alla luce del criterio di contenimento posto dall’art. 1223 c.c., e cioè se e in quanto “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento.

12. La quantificazione in via convenzionale del danno da inadempimento del contratto: la diversa funzione della caparra confirmatoria e della clausola penale Rientra sicuramente nell’ambito dei poteri riconosciuti all’autonomia privata quello di predeterminare il contenuto della prestazione risarcitoria dovuta dal debitore in caso di inadempimento, pur con i limiti che ora vedremo. Occorre tuttavia distinguere l’oggetto di queste pattuizioni. Rileverà ai fini dell’obbligazione risarcitoria dell’inadempiente l’esercizio del (pur limitato) potere consentito all’autonomia privata di escludere o limitare la responsabilità dell’inadempiente, secondo quanto previsto, per l’obbligazione in genere, dall’art. 1229 c.c. La norma vieta, a pena di nullità, qualsiasi patto (o la clausola) che escluda o limiti preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave e qualsiasi patto di esonero o di limitazione della responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari «costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico» (ad esempio in tema di sicurezza pubblica, sanità ed igiene, tutela ambientale, ecc.). Ammette così che le parti possano pattuire un esonero o un limite (quantitativo o qualitativo riferito ai danni risarcibili) per inadempienze nelle quali si riscontri una “colpa lieve”, dunque un livello di mancata diligenza di poco conto nell’economia del rapporto (e del contratto). Clausole di esonero di responsabilità (a prescindere dal riferimento ad una colpa lieve) sono espressamente vietate in ragione della natura del contratto e della prestazione, nei contratti consumatore-professionista in quanto ritenute sem-

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pre vessatorie anche se oggetto di trattativa (art. 36, co. 2, lett. b cod. cons.). Queste clausole in qualche modo selezionano, rispetto alla natura della prestazione, al contenuto del contratto e all’interesse delle parti (ma altresì ai tipi di evento) i comportamenti che possano dare luogo a responsabilità risarcitoria del debitore. Diversa funzione hanno la clausola penale e l’istituto della caparra confirmatoria. Il codice li accomuna disciplinandoli nella stessa sezione ma in realtà solo in parte svolgono funzione analoga. Il modo con cui interviene nella vicenda contrattuale, secondo il regime delineato nell’art. 1385, evidenzia infatti come nell’istituto della caparra confirmatoria la determinazione anticipata in via convenzionale del danno da inadempimento sia preordinata a consentire il recesso di ciascuna parte in caso di inadempimento dell’altra. Con la caparra confirmatoria, al momento della conclusione del contratto, una parte dà all’altra, a titolo di caparra, appunto, una somma di denaro o una quantità di altre cose fungibili «che, in caso di adempimento, deve essere restituita o imputata al prezzo». Da qui una prima funzione “confirmatoria” della caparra, che rafforza il vincolo accompagnandolo con la dazione di una somma o altro bene fungibile. L’inadempimento consentirà invece all’altra parte di recedere dal contratto, trattenendo la caparra se a recedere è chi l’ha ricevuta ovvero esigendo il doppio della caparra se a recedere è chi l’ha versata; sicché l’ammontare della caparra costituirà il limite del risarcimento del danno conseguito dall’adempiente e prestato dall’inadempiente. Per conseguire il risarcimento pieno del danno effettivamente subito, la parte dovrà domandare l’esecuzione del contratto o la risoluzione in via giudiziale ex art. 1453 c.c. La caparra consiste dunque in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno da inadempimento funzionale a consentire una risoluzione in via stragiudiziale, e il “recesso” di cui al co. 2 dell’art. 1385 è piuttosto, come ribadisce la S.C. (Cass. 13-3-2015, n. 5095), una forma di risoluzione stragiudiziale, «non dissimile dalla risoluzione di diritto del contratto, disomogenea semmai con la sola risoluzione giudiziale». Poiché però con la caparra le parti intervengono sulla quantificazione del danno ma non sulle cause di scioglimento, nel caso di esercizio del recesso di cui all’art. 1385, co. 2, la parte che lo subisce potrà sempre contestare non solo la mancanza di inadempimento ma anche di un inadempimento grave ai sensi dell’art. 1455 c.c. La clausola penale, con cui le parti convengono che in caso di ina-

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dempimento o di ritardo nell’adempimento, «uno dei contraenti è tenuto a una determinata prestazione», ha invece l’effetto di «limitare il risarcimento alla prestazione promessa» a meno che non sia stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore (art. 1382). La funzione della clausola è qui solo di predeterminare l’ammontare del danno risarcibile, in modo di solito esaustivo (ove non sia fatto salvo il diritto della parte adempiente a chiedere anche il risarcimento del danno ulteriore), a prescindere dunque dalla effettiva entità del danno ed anzi dall’effettiva rintracciabilità di un danno. Qui non avviene alcun versamento o dazione all’atto della stipula del contratto, e la quantificazione convenzionale del danno non esonera dal ricorso all’azione di cui all’art. 1453 o ai meccanismi stragiudiziali, per ottenere l’effetto risolutorio; ma dà alla parte il diritto al risarcimento, nella misura convenuta “indipendentemente dalla prova del danno”, secondo quanto dispone l’art. 1382, ult. co. Da qui il consueto riferimento ad una doppia funzione, al contempo risarcitoria e sanzionatoria della penale: la penale dovuta infatti potrà rivelarsi di ammontare o di valore più o meno vicino all’ammontare del danno effettivamente subito dalla parte adempiente come determinabile a seguito di un accertamento e quantificazione in sede giudiziale, ma anche inferiore o superiore, a vantaggio del debitore o del creditore insoddisfatto. Una penale di ammontare superiore al danno effettivamente determinatosi, o ancor più una penale dovuta in casi in cui nessun danno avrebbe potuto essere vantato dal creditore, si risolverà in una vera e propria sanzione, non essendovi i presupposti di un danno da risarcire. L’indubbia valenza sanzionatoria che la penale manifesta in via di principio giustifica i correttivi alla pattuizione privata apprestati dalla legge per tutti i contratti e il sospetto di vessatorietà della clausola inserita nei contratti professionista-consumatore. La disciplina generale, nel codice, prevede il divieto di cumulo, che chiarisce come il creditore non può chiedere sia la prestazione principale che la penale, a meno che questa non sia stata pattuita per il semplice ritardo (art. 1383); e pone anche la regola della possibile riduzione della penale eccessiva. La penale può essere “diminuita equamente dal giudice” se l’obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se «l’ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento» (art. 1384). Nei contratti di consumo una clausola che impone al consumatore in caso di inadempimento o di

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ritardo nell’adempimento il pagamento di una somma di denaro «a titolo di risarcimento, clausola penale, o altro titolo», di importo manifestamente eccessivo, si presume invece vessatoria (art. 33, co. 2, lett. f), cod. cons.). La formula della norma codicistica, ma ancor più la configurazione della possibilità di prospettare la misura eccessiva della penale quale eccezione dell’inadempiente volta a paralizzare in giudizio la pretesa di controparte, avevano condotto per lungo tempo a subordinare l’intervento correttivo del giudice di cui all’art. 1384 alla domanda di parte. Fino alla svolta determinatasi con la sentenza 24-9-1999, n. 10511 della S.C. cui si deve quel prepotente aggancio del dovere di buona fede al dovere costituzionale di solidarietà in funzione di integrazione/conformazione dei diritti ed obblighi derivanti dal contratto che abbiamo sopra ampiamente illustrato (V, 12). Intervenendo a comporre il contrasto giurisprudenziale, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nel 2005 (sentenza 13-9-2005, n. 18128), hanno accolto il principio lì affermato, secondo cui la riduzione rientra nel potere-dovere del giudice di intervento d’ufficio, sul presupposto, ribadito seppur forse con minore enfasi, che la riduzione della penale manifestamente eccessiva non risponda ad un interesse della parte, ma sia prevista nell’interesse dell’ordinamento, quale limite all’autonomia delle parti posto dalla legge a tutela di un interesse generale, «per evitare che l’autonomia contrattuale travalichi i limiti entro i quali la tutela delle posizioni soggettive delle parti appare meritevole di tutela»; mentre l’interesse della parte è tutelato ma in maniera riflessa. «la legge ha in sostanza spostato l’intervento giudiziale, diretto al controllo della conformità del manifestarsi dell’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa è consentita, dalla fase formativa dell’accordo – che ha ritenuto comunque valido, quale che fosse l’ammontare della penale – alla sua fase attuativa, mediante l’attribuzione al giudice del potere di controllare che la penale non fosse originariamente manifestamente eccessiva e non lo fosse successivamente divenuta per effetto del parziale adempimento. Un potere di tal fatta appare concesso in funzione correttiva della volontà delle parti per ricondurre l’accordo ad equità. Vi sono casi in cui la correzione della volontà delle parti avviene automaticamente, per effetto di una disposizione di legge che ne limita l’autonomia e che sostituisce alla volontà

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delle parti quella della legge (in tali casi l’accordo delle parti, che non rispecchia il contenuto tipico previsto dalla legge, non viene dichiarato nullo, ma viene modificato mediante la sostituzione della parte non conforme); ve ne sono altri, in cui una inserzione automatica della disciplina legislativa, in sostituzione di quella pattizia, non è possibile perché non può essere determinata in anticipo la prestazione dovuta da una delle parti, che quindi non può essere automaticamente inserita nel contratto; in tali casi la misura della prestazione è rimessa al giudice, per evitare che le parti utilizzino uno strumento legale per ottenere uno scopo che l’ordinamento non consente ovvero non ritiene meritevole di tutela, come è reso evidente, proprio in tema di clausola penale, dal fatto che il potere di riduzione è concesso al giudice solo con riferimento ad una penale che non solo sia eccessiva, ma che lo sia “manifestamente”, ovvero ad una penale non più giustificabile nella sua originaria determinazione, per effetto del parziale adempimento dell’obbligazione». (Cass. s.u. 13-9-2005, n. 18128) Argomentando ampiamente sull’interesse generale implicato nella regola in questione, le Sezioni Unite della Cassazione in qualche modo correggono peraltro gli equivoci circa le finalità di una riduzione “equitativa” della penale indotti dal richiamo al valore costituzionale di solidarietà nel precedente del 1999 a cui pure aderiscono. La funzione del meccanismo della riduzione, pur affidato al potere officioso del giudice in nome di un controllo di meritevolezza delle scelte private, è quella «correttiva di riequilibrio contrattuale (se si vuole privilegiare la tesi della natura risarcitoria della penale) ovvero di adeguatezza della sanzione (se si vuole privilegiare la tesi della funzione sanzionatoria)»; dovendo il potere di cui all’art. 1384, ricorda ancora la Corte, ristabilire «un congruo contemperamento degli interessi contrapposti, valutando l’interesse del creditore all’adempimento, cui ha diritto, tenendosi conto dell’effettiva incidenza di esso sull’equilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale». I giudici del resto continuano a ribadire (vedi da ultimo Cass. 10-5-2012, n. 7180) che l’“eccessività” della penale non va valutata in rapporto alla situazione economica del debitore e del riflesso che la penale possa avere sul suo patrimonio (come lascerebbe attendere un rinvio spinto ad obiettivi solidaristici), ma secondo criteri oggettivi, e dunque con riferimento

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allo squilibrio tra le posizioni delle parti, rilevando una difficoltà del debitore all’esecuzione stessa della prestazione risarcitoria sempre in termini oggettivi, come mancanza di una proporzione tra danno, costo ed utilità. Coerentemente con la funzione della riduzione, si ritiene che il giudizio sulla manifesta eccessività della penale debba compiersi considerando anche le circostanze intervenute durante lo svolgimento del rapporto e non con riferimento solo al momento della conclusione del contratto.

13. Tutela risarcitoria collettiva dei consumatori: l’azione di classe Con l’inserimento nel codice del consumo dell’art. 140-bis si è voluto dare ingresso nel nostro ordinamento ad una azione risarcitoria collettiva, sul modello della class action americana (dalla quale tuttavia differisce sotto molti aspetti). Si tratta infatti anche in questo caso di un’azione a vantaggio di una pluralità di consumatori, alla quale cioè singoli consumatori o utenti possono “aderire”. Tale disciplina è stata più volte cambiata e da ultimo modificata ad opera del d.l. 24-1-2012, n. 1 convertito nella l. 24-3-2012, n. 27, ed in particolare dal suo art. 6, la cui intitolazione (Norme per rendere efficace l’azione di classe) denuncia le difficoltà di applicazione registrate dal congegno processuale come originariamente disciplinato. L’azione può essere avviata da “ciascun componente della classe” dei consumatori o utenti ma, una volta dichiarata ammissibile dal giudice, giova alla tutela anche di consumatori e utenti che vantino “diritti individuali omogenei” e che pur senza essere parte del giudizio “aderiscano” all’azione promossa da uno o più componenti della classe, nei termini assegnati ed adeguatamente pubblicizzati. «La sentenza che definisce il giudizio fa stato anche nei confronti degli aderenti» (art. 140-bis, co. 14), i quali non potranno avviare altra identica azione. Deve trattarsi: a) di diritti contrattuali di una pluralità di consumatori o utenti che versano in una situazione omogenea nei confronti di una stessa impresa, inclusi i diritti derivanti da contratti stipulati a mezzo condizioni generali di contratto o moduli e formulari ex artt. 1341 e 1342 c.c.; ovvero b) di diritti omogenei spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale; o, ancora, c) di diritti omogenei al ristoro del pregiudizio derivante da pratiche com-

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merciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali. Il richiamo agli artt. 1341 e 1342 c.c. è francamente incongruo trattandosi di una disciplina sostituita, per i contratti di consumo, da quella dettata negli artt. 33 ss. cod. cons.; ed inutile, se volto a puntualizzare che i diritti contrattuali azionabili con azione di classe, dovendo presentarsi come omogenei, sono quelli derivanti da contratti “preformulati” o in serie, dovendo coinvolgere più consumatori. Il co. 2 dell’art. 140-bis cod. cons., come emendato da ultimo, definisce l’oggetto dell’azione di classe, prevedendo che «L’azione di classe ha per oggetto l’accertamento della responsabilità e la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni in favore degli utenti consumatori». La formulazione della norma (art. 140-bis, co. 1 e 2) chiarisce che potrà dunque trattarsi di azioni volte all’accertamento della responsabilità sia contrattuale che extracontrattuale, con la conseguente condanna in via restitutoria e/o risarcitoria del professionista. Anche quando è un’azione contrattuale, la class action rimane (solo) una azione di responsabilità, una azione per danni o restitutoria. Le situazioni giuridiche ricomprese nell’ambito di applicazione dell’azione di classe saranno ammesse a tutela se presentano «i caratteri dei diritti individuali oggetto del giudizio» come definiti dal giudice. Individuato l’oggetto del giudizio si determinerà così anche la situazione rispetto alla quale potrà ravvisarsi l’omogeneità dei diritti di chi aderisce. L’omogeneità sarà riferita al petitum, inteso quale oggetto di tutela e quindi della pronuncia richiesta, ma non come entità del danno eventualmente subito da ogni contraente; e alla causa petendi come ragione giuridica a fondamento dei diritti azionati, fatte salve possibili diversità in fatto; l’omogeneità non sarà esclusa per la semplice presenza di differenziazioni nelle posizioni dei singoli membri della classe, dovute ad esempio alle caratteristiche e all’andamento del singolo rapporto o ad altri profili peculiari che semmai richiederanno accertamenti individualizzanti in sede di identificazione e quantificazione del danno. L’adesione comporta per il consumatore la rinuncia ad ogni azione restitutoria o risarcitoria che si basi sul medesimo titolo, salvo che il giudizio si estingua o si interrompa ovvero si chiuda con una transazione cui il singolo consumatore non abbia aderito (co. 3 e 15). La soddisfazione, anche degli aderenti, sarà immediata, nel senso che potranno ottenere in forza di tale sentenza, una volta divenuta esecutiva, le somme dovute, se tali somme sono state liquidate dal giudice ai sensi dell’art. 1224 c.c. Sia la parte che gli aderenti dovrebbero invece chie-

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dere (ad altro giudice e con azione individuale) la liquidazione delle somme loro spettanti, nel caso in cui la sentenza che conclude l’azione di classe, proprio perché riferita ad una “classe” di posizioni, stabilisse solo il criterio in base al quale effettuare tale liquidazione. Tuttavia, secondo la nuova formulazione del co. 12 dell’art. 140-bis (dopo la modifica intervenuta con il d.l. n. 1/2012), allorché ritiene di poter solo fissare un criterio omogeneo di liquidazione del danno, «il giudice assegna alle parti un termine, non superiore a novanta giorni, per addivenire ad un accordo sulla liquidazione del danno. Il processo verbale dell’accordo, sottoscritto dalle parti e dal giudice, costituisce titolo esecutivo». Pur se l’accordo non è raggiunto, basterà la richiesta di una delle parti, e il giudice potrà comunque liquidare le somme dovute ai singoli aderenti. La “separazione” in due fasi – quella che al termine dell’azione di classe giunge alla determinazione del criterio omogeneo di calcolo ai fini della liquidazione del danno e quella, eventuale, di quantificazione in concreto del danno, in applicazione di quel criterio ma in altro e separato giudizio individuale – continua dunque ad essere possibile e non è preclusa, ma è “disincentivata”; e lasciata in definitiva alla iniziativa delle parti. Lo stesso professionista quasi sempre avrà interesse a chiudere la vicenda con la quantificazione del danno da risarcire. L’azione di classe, come tutte le forme di tutela collettiva, mira a favorire l’accesso alla giustizia per la tutela dei propri diritti da parte dei soggetti legittimati, in questo caso i consumatori, semplificando la procedura e riducendo i costi; ma essa mira anche a rendere più forte e incisiva la pretesa azionata, per l’impatto in danno del professionista conseguente all’effetto di una domanda risarcitoria di massa o comunque di più domande aggregate. Per questo essa ha una precipua funzione di strumento di controllo/regolazione del mercato, volto a combattere un comportamento anticoncorrenziale delle imprese veicolato da clausole contrattuali squilibrate in danno dei consumatori. Ciò che l’azione di classe sacrifica, dal punto di vista del consumatore, è semmai la natura effettivamente riparatoria del risarcimento del danno: una azione che si concluda comunque con una quantificazione del danno realizza un risultato più immediato ed efficace, anche in termini di economia processuale, ma sconta un’inevitabile forfetizzazione della misura del danno liquidato, che si attesterà su un livello medio, insensibile ai particolari pregiudizi che il singolo possa avere patito.

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14. Risoluzione per impossibilità sopravvenuta Ai sensi dell’art. 1463 c.c. «nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta, non può chiedere la controprestazione e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito». L’art. 1464 c.c. precisa poi che «quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale». Come è agevole notare, nessuna delle due norme fa menzione della “risoluzione” del contratto. Scelta, come si è detto, che non smentisce la riconducibilità alla risoluzione del regime del contratto divenuto ineseguibile per impossibilità sopravvenuta di una prestazione; e che tuttavia appare corretta, giacché intende sottolineare che, almeno nel caso di impossibilità totale, lo scioglimento del contratto è automatico e del tutto inevitabile, una volta realizzatosi l’effetto liberatorio di cui all’art. 1256, cui l’art. 1463 rimanda. Estintasi per l’impossibilità della prestazione l’obbligazione di una parte, quella della controparte non troverebbe più corrispettivo nell’altra venuta meno. Presupposto è invero che una parte sia «liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta». Il rinvio è dunque, a sua volta, ai presupposti di cui all’art. 1256. La prestazione dovuta deve essere “diventata” impossibile – impossibilità materiale o giuridica – per causa non imputabile al debitore. Ove la prestazione fosse stata originariamente impossibile il contratto sarebbe stato nullo per l’impossibilità dell’oggetto, a norma degli artt. 1346 e 1418 c.c. Ove, d’altra parte, l’impossibilità sopravvenuta fosse imputabile al debitore, saremmo dinanzi ad un inadempimento, con le diverse conseguenze. Poiché discorriamo qui di impossibilità sopravvenuta della prestazione (per causa non imputabile al debitore) e dunque di una parte che per legge è liberata dall’obbligazione a suo carico essendosi tale obbligazione estinta, lo scioglimento del contratto è conseguenza automatica. E ciò intende sottolineare l’art. 1463 c.c., allorché regola le conseguenze della sopravvenuta impossibilità della prestazione: la controprestazione, trattandosi di contratti sinallagmatici, non trova più la sua ragion d’essere e dunque

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non solo non può essere pretesa ma, ove eseguita, costituisce un indebito arricchimento per la parte che l’ha ricevuta e che deve pertanto restituirla. Esplicita assai bene tale scelta sistematica la nostra Corte di Cassazione quando configura «la disciplina generale in tema di estinzione del rapporto contrattuale per sopravvenuta impossibilità della prestazione non imputabile alle parti ex art. 1463 ss. c.c. … quale rimedio all’alterazione del sinallagma funzionale che rende irrealizzabile la causa concreta., comportante l’automatica risoluzione ex lege del contratto, con liberazione del debitore dall’obbligazione divenuta impossibile che nello stesso trovava fonte». (Cass. 22-8-2007, n. 17844) Ai princìpi elaborati in tema di impossibilità della prestazione quale causa di estinzione dell’obbligazione dovrà, come detto, farsi ampio riferimento ai fini dell’applicazione dell’art. 1463 c.c., sicché presupposto non è solo il sopraggiungere di un oggettivo impedimento all’esecuzione della prestazione, ma anche la non imputabilità soggettiva al debitore dell’evento che lo ha determinato, «da valutarsi anche in relazione agli obblighi gravanti sul debitore, il quale, ad esempio, non potrà invocare in suo favore un ordine o un divieto dell’autorità amministrativa che fosse ragionevolmente e facilmente prevedibile, secondo la comune diligenza, all’atto dell’assunzione dell’obbligazione, ovvero rispetto al quale non abbia, sempre nei limiti segnati dal criterio dell’ordinaria diligenza, sperimentato tutte le possibilità che gli si offrivano per vincere o rimuovere la resistenza o il rifiuto della pubblica autorità». (Cass. 30-4-2012, n. 6594) Così come, qualora invochi l’impossibilità sopravvenuta per fatto del terzo, il debitore dovrà anche dimostrare di essersi adoperato con adeguata diligenza per rimuovere l’ostacolo frapposto da altri all’esatto adempimento (se comunque riconducibile alla sua sfera di influenza).

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Non vi è spazio, almeno dal punto di vista del regime della estinzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione, per una rilevanza della impossibilità in termini soggettivi e cioè di inesigibilità della prestazione se riferita alla difficoltà soggettiva (esempio economica) del debitore. Il tema, come abbiamo visto, interseca quello della nozione di “inadempimento” e del ruolo della buona fede nella identificazione di ciò cui il debitore può dirsi tenuto. Il richiamo al principio di buona fede serve di sicuro a “relativizzare”, in relazione al contenuto del contratto e a ciò che le parti potevano ragionevolmente attendersi, il contenuto dell’obbligazione a carico della parte e consente dunque di ritenere che il debitore si liberi dell’obbligazione non solo dimostrando una impossibilità oggettiva assoluta coincidente con caso fortuito o forza maggiore, ma anche l’impossibilità di eseguirla nonostante il massimo dello sforzo richiestogli in relazione alla natura della prestazione e del contratto. È questo, in definitiva, il senso del richiamo a cui i giudici di legittimità come abbiamo visto non riescono spesso a sottrarsi (pur senza riconoscervi dignità sistematica) alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato. L’ottica rimane dunque oggettiva – il contenuto del contratto, la causa in concreto, la natura della prestazione – impedendo ad esempio di prospettare analoga impostazione quando si tratti di obbligazione pecuniaria. Il denaro è un bene fungibile che non può mai perire e la concreta difficoltà del debitore nel procurarselo, in principio, non rileva e comunque mai può condurre a configurare una impossibilità della prestazione con conseguente liberazione di chi deve eseguirla. È rimasta invece una pur importante affermazione di principio, a livello costituzionale, la rilevanza di una inesigibilità di tipo propriamente soggettivo: secondo cui, cioè, le difficoltà economiche del debitore, almeno quando vi siano implicati diritti e valori di rango costituzionale, interverrebbero come “limite alle pretese creditorie”. Il suo fondamento si rinviene nelle due note sentenze gemelle della Corte cost. 3-3-1992, n. 149 e 3-2-1994, n. 19 (II, 3): «L’interesse del creditore all’adempimento degli obblighi dedotti in obbligazione», ha affermato la Corte costituzionale, «deve essere inquadrato nell’ambito della gerarchia dei valori comportata dalle norme, di rango costituzionale e ordinario, che regolano la materia in considerazione. E quando, in relazione a un determinato adempimento, l’interesse del creditore entra in conflitto con un interesse del debitore tutelato dall’ordinamento giuridico o, addirittura, dalla Costituzione come valore preminente o, comunque,

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superiore a quello sotteso alla pretesa creditoria, allora l’inadempimento, nella misura e nei limiti in cui sia necessariamente collegato all’interesse di valore preminente, risulta giuridicamente giustificato». Ad esse, come abbiamo già ricordato (V, 10), si rifanno ricorrentemente i giudici di legittimità per ribadire il diretto aggancio della buona fede al principio costituzionale di solidarietà (art. 2 Cost.), pur se, come abbiamo del resto già posto in evidenza, non se ne riscontrano coerenti e conseguenti applicazioni: dal canone di buona fede, pur corroborato da una lettura in chiave costituzionale, si fa discendere, come abbiamo visto, la funzione di arricchire e completare il contenuto degli obblighi a carico delle parti in modo da rendere ciascuna di esse più attenta e rispettosa dell’interesse altrui, ovvero l’individuazione della natura e funzione del potere che la legge assegna al giudice di ridurre la clausola penale manifestamente eccessiva (sopra 12). Esiti per i quali il richiamo ai valori costituzionali di solidarietà è certo apprezzabile ma forse sovradimensionato, non venendo mai in questione, in concreto, una possibile “sospensione” dell’obbligazione a carico del debitore giustificata sulla base del suo stato di bisogno e dunque del pregiudizio che l’adempimento o la responsabilità patrimoniale recherebbe a diritti (esempio della persona) costituzionalmente garantiti. Il principio di inesigibilità della prestazione, nei termini delineati dalla Corte costituzionale, invero, pur lasciando intravedere forti implicazioni per una rilettura in chiave solidaristica dei rapporti obbligatori, si adatta bene alla sede nel quale è espresso, che è pur sempre quella del controllo di costituzionalità delle leggi rimesso alla Corte e dunque della interpretazione di una norma di legge, in chiave appunto costituzionale. Quanto al regime civilistico dell’obbligazione, una sospensione dell’obbligazione che escluda la responsabilità del debitore nel presupposto della inesigibilità soggettiva della prestazione, non ha mai trovato ingresso nel nostro ordinamento per via giudiziale ma semmai ha richiesto un preciso intervento legislativo: e basti ricordare, nel contesto dell’attuale crisi, la nuova norma più volte citata, introdotta a seguito del recepimento della direttiva europea 2014/17/UE, sui mutui immobiliari (art. 120, co. 1 quinquiesdecies, t.u.b.), che impone alle banche di dotarsi di procedure per «gestire i rapporti con in consumatori in difficoltà nei pagamenti», sulla base di disposizioni di attuazione emanate dalla Banca d’Italia che terranno conto anche dei «casi di eventuale stato di bisogno o di particolare debolezza del consumatore»; ma già le discipline speciali e reiterate in tema

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di “ristrutturazione” dei mutui (che sospendono ma non eliminano il debito nel suo ammontare pattuito e solo ne modificano i tempi di pagamento) o quella, per alcuni aspetti più radicale, nei presupposti ed effetti, in tema di sovraindebitamento del consumatore (di cui alla l. 271-2012, n. 3) ove, nel caso di consumatore (“persona fisica che ha assunto obbligazioni esclusivamente per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”), una volta completato un piano di ristrutturazione o di parziale pagamento dei debiti con la liquidazione del patrimonio del debitore, può giungersi anche alla “esdebitazione”, vale a dire la liberazione del debitore incapiente dai debiti residui non pagati (art. 14-terdecies, l. n. 3/2012). Sempre rimandando ai principi in tema estinzione dell’obbligazione, ricordiamo che l’impossibilità della prestazione che intervenga quando il creditore è in mora rimane a carico di questi (art. 1207 c.c.); sicché egli non sarà liberato dalla sua controprestazione e non si darà luogo all’effetto risolutivo di cui all’art. 1463 c.c. L’impossibilità di cui parla la norma dovrà riguardare l’(in)eseguibilità in sé, in fatto o in diritto, della prestazione e non eventuali circostanze e condizioni tenute presenti dal debitore al momento dell’assunzione dell’obbligazione. Una lontana pronuncia della S.C. (9-11-1994, n. 9304) ad esempio ha escluso che l’acquirente di un forno (da destinare al proprio panificio) potesse invocare quale causa di sopravvenuta impossibilità di adempiere la sua prestazione, (cioè il pagamento del prezzo a fronte dell’acquisto del bene), il mancato rilascio delle autorizzazioni amministrative necessarie per procedere all’ampliamento dei locali del preesistente panificio ed all’installazione in essi dell’attrezzatura acquistata: i giudici hanno ritenuto corretto il ragionamento della Corte d’appello secondo cui le sopravvenute circostanze addotte dall’acquirente non avevano inciso «sull’attuabilità della funzione di scambio propria del contratto di compravendita concluso dalle parti», ma, rimanendo circoscritte alla sfera soggettiva dell’acquirente, «avevano solo impedito a quest’ultimo la realizzazione dei personali interessi correlati alla pratica utilizzabilità del bene acquistato». Esito del tutto irrilevante ai fini della sopravvivenza del vincolo contrattuale e della possibilità di darvi compiuta esecuzione. L’impossibilità della prestazione rileverà anche se a determinarla siano eventi che si compiono nella sfera del creditore, pur se a questi non imputabili: si fa l’esempio della distruzione per forza maggiore dell’ap-

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partamento da ristrutturare, che rende impossibile la prestazione dell’appaltatore cui il proprietario della casa abbia commissionato dei lavori. Problema diverso è quello che attiene alla rilevanza della c.d. impossibilità “indiretta”, se cioè lo scioglimento del contratto possa invocarsi quando l’impossibilità riguardi non la prestazione ma la sua fruibilità da parte del creditore, per cause a lui non imputabili. La risposta, in dottrina e in giurisprudenza, non è stata in passato pacifica, mentre si registrano significative aperture più recenti che, alla stregua di una valutazione degli interessi delle parti, come emergenti dalla causa in concreto del contratto, ammettono la rilevanza di una impossibilità della prestazione, causa di estinzione dell’obbligazione e di scioglimento del contratto, in termini di sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione. Nel solco di alcuni precedenti, da ultimo la S.C. afferma che l’impossibilità della prestazione «è configurabile non solo nel caso in cui sia divenuto impossibile l’adempimento da parte del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione ad opera della controparte, purché tale impossibilità non sia imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, dovendosi in tal caso prendere atto che non può più essere conseguita la finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto, con la conseguente estinzione dell’obbligazione». (Cass. 2-10-2014, n. 20811) Nel caso in questione, si trattava di un contratto di appalto con il quale uno IACP (Istituto autonomo Case popolari) aveva commissionato ad una impresa edile la realizzazione di un certo numero di alloggi; l’esistenza di un vincolo archeologico – del quale l’amministrazione committente era venuta a conoscenza solo dopo la stipula del contratto – avrebbe consentito l’esecuzione solo parziale delle opere (un numero inferiore di alloggi) e solo a seguito del rispetto delle onerose prescrizioni imposte dalla Soprintendenza. Il committente aveva posto in risalto come l’osservanza di tali prescrizioni avrebbe imposto una radicale modificazione dell’oggetto del contratto, non solo per la consistente riduzione degli alloggi eseguibili ma anche per la necessità del preventivo svolgimento di indagini conoscitive costose onde confermare l’eseguibilità del progetto commissionato. Circostanze, osserva la S.C., che «in quanto idonee ad

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incidere sull’interesse di entrambe le parti alla realizzazione del programma negoziale originariamente concordato e sulla stessa corrispondenza dell’opera commissionata alle esigenze che era destinata a soddisfare ... possono ben essere ritenute idonee a giustificare l’affermata impossibilità della prestazione». Un contributo significativo nella medesima direzione è venuto dall’elaborazione dottrinale, ripresa da una pronuncia già a suo tempo ricordata (IV, IV, 6) e da un successivo filone giurisprudenziale oggi abbastanza consolidato che, a partire dalla nozione di causa in concreto del contratto, ritiene che questa nel contratto di vendita di pacchetti turistici sia idonea a ricomprendere anche la “causa di piacere” o di svago, la cui compromissione ed irrealizzabilità non può che condurre allo scioglimento del contratto. In rapporto alla causa in concreto, così “arricchita” dallo scopo di svago, e alla sua realizzabilità in corso di rapporto (ma lo stesso potrà dirsi per altri fini meritevoli di assurgere a componenti dell’assetto di interessi obiettivati nel contratto) la Corte di Cassazione (Cass. n. 16315/2007 cit.) mette a fuoco la distinzione tra totale impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1463 c.c.), quale impedimento assoluto ed oggettivo, a carattere definitivo, che integra un fenomeno di automatica estinzione dell’obbligazione e risoluzione del contratto, ai sensi dell’art. 1463 c.c. e art. 1256 c.c., co. 1 in ragione del venir meno del sinallagma contrattuale e dunque della irrealizzabilità della causa concreta del contratto; impossibilità parziale (art. 1464 c.c.) che consiste invece nel deterioramento della cosa dovuta, o più generalmente nella riduzione materiale della prestazione che dà luogo ad una corrispondente riduzione della controprestazione o al diritto al recesso per la parte che non abbia un apprezzabile interesse al mantenimento del contratto, laddove la prestazione residua venga a risultare incompatibile con la causa concreta del contratto; e l’“impossibilità di utilizzazione della prestazione” (purché non ascrivibile alle parti) in cui non vi è una obiettiva ineseguibilità da parte del debitore, ma viene meno la possibilità che la prestazione realizzi lo scopo dalle parti perseguito con la stipulazione del contratto, e dunque ne risulti pregiudicata la realizzazione della causa concreta. Nel caso di specie, l’epidemia di dengue emorragico scoppiata nei luoghi della vacanza non andava apprezzata dunque quale impossibilità parziale, sotto forma di deterioramento degli standard sanitari e di sicurezza attesi e promessi, ma rilevava quale causa di impossibilità sotto diverso profilo perché avrebbe compromesso lo scopo turistico, rendendo la vacanza non pienamente godibile nei suoi molteplici aspetti di relax,

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svago, finalità culturali, ecc. L’impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore, pur se normativamente non specificamente prevista, costituisce dunque – analogamente all’impossibilità di esecuzione della prestazione – (autonoma) causa di estinzione dell’obbligazione. L’impossibilità della prestazione, quale causa di risoluzione del contratto, deve essere totale e definitiva. Una impossibilità temporanea non determinerà la liberazione del debitore (e dunque la conseguente risoluzione del contratto) ma solo quella che la giurisprudenza chiama “sospensione” di questo, a meno che non si protragga fino a rendere l’eventuale esecuzione della prestazione tardiva non più rispondente all’interesse del creditore (come desumibile dal contratto) ovvero per un tempo che non rende ragionevole mantenere il debitore vincolato. L’esito, ai fini della sopravvivenza del contratto, è ancora conseguenza dell’applicazione della regola dettata ai fini della estinzione o sopravvivenza dell’obbligazione del debitore. Finché perdura l’impossibilità temporanea, il debitore rimane vincolato ma non risponde del ritardo nell’adempimento; tuttavia l’obbligazione si estingue se l’impossibilità della prestazione perdura fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere tenuto obbligato ad eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla: così la regola di cui all’art. 1256, co. 2, c.c. All’interesse del creditore – sempre come desumibile dal contratto e dalla stessa natura della prestazione – rinvia l’art. 1464 c.c. nel caso di impossibilità parziale, in applicazione, anche in questo caso, delle regole dettate in tema di adempimento parziale, dagli artt. 1257 e 1181 c.c. Vero è infatti che, a norma dell’art. 1258, il debitore si libera eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile, ma è pur vero che, ai sensi dell’art. 1181, il creditore, anche se la prestazione è divisibile, può rifiutare un adempimento parziale, salvo che la legge o gli usi dispongano diversamente. In presenza di un contratto sinallagmatico, dunque, divenuta parzialmente impossibile una prestazione, il debitore di questa rimarrà obbligato all’adempimento parziale ma l’altra parte potrà rifiutarla e provocare lo scioglimento del contratto (in questo caso conseguente alla sua manifestazione di volontà: la norma parla per questo di recesso), purché dimostri di non avere un interesse apprezzabile all’adempimento parziale. Se invece accetta l’adempimento parziale, l’equilibrio sinallagmatico sarà preservato attraverso la riduzione della controprestazione dovuta, cui egli ha diritto. Non provoca lo scioglimento del contratto plurilaterale l’impossibilità

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sopravvenuta della prestazione di una parte quando non si tratti di una prestazione da considerarsi essenziale, ai fini della regolare esecuzione del contratto (art. 1466 capoverso). Poiché lo scioglimento del contratto, nel caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione, avviene automaticamente ed ex lege, il giudice, eventualmente investito della lite tra le parti, non potrà che accertarla, con una sentenza dichiarativa. L’accertamento della intervenuta impossibilità della prestazione costituisce questione di fatto, rimessa al giudice di merito, sulla base di quanto allegato dalle parti: ad invocare la risoluzione sarà la parte che agisce per sentirla dichiarare o la parte che eccepisce l’impossibilità della prestazione quando convenuta per l’adempimento o per la risoluzione per inadempimento. Il dubbio circa una possibile rilevabilità d’ufficio della risoluzione per impossibilità sopravvenuta non ha ragion d’essere ed è mal posto. Potrà infatti accadere che un giudizio volto a far accertare l’inadempimento di una parte e conseguentemente dichiarare la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1453, si concluda con una pronuncia di risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione; ma non in conseguenza di una declaratoria d’ufficio della risoluzione ex art. 1463 c.c., bensì del poteredovere del giudice di definire l’esatta natura del rapporto dedotto in giudizio onde precisarne il contenuto e gli effetti in relazione alle norme applicabili (entro il limite delle richieste delle parti e degli elementi di fatto da queste introdotte), operazione che, allorché il debitore convenuto alleghi elementi di fatto a sostegno della impossibilità della prestazione, condurrà il giudice (senza incorrere nel vizio di ultra o extrapetizione) ad escludere l’inadempimento, conseguentemente accertando la risoluzione ex art. 1463. Gli effetti della risoluzione, tra le parti e nei confronti dei terzi, sono qui i medesimi indicati nel caso di risoluzione per inadempimento nell’art. 1458, co. 1 e 2. La risoluzione opera con effetto retroattivo tra le parti, tranne che nel caso di contratto ad esecuzione continuata o periodica, ove vengono fatte salve le prestazioni già eseguite; non pregiudica invece i diritti acquistati dai terzi, a meno che non intervengano gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione. La caducazione degli effetti del contratto fa sorgere nella parte che abbia eseguito la sua prestazione un diritto alla restituzione che, secondo i principi generali, richiede una apposita domanda onde vincere una presunzione di tolleranza (di fronte al ritardo nell’adempimento dell’obbligazione restitutoria).

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15. Impossibilità della prestazione pattuita e responsabilità del professionista nel contratto di vendita di pacchetti turistici Abbiamo già esaminato un particolare regime di responsabilità – quello del venditore di beni di consumo – che, assecondando lo scopo di consumo e dunque l’interesse di una parte a conseguire l’utilità finale assicurata dal contratto e dalla prestazione, obbliga la parte inadempiente a modalità di esatto adempimento che consistono nell’eseguire una prestazione diversa da quella dedotta in contratto: il fare in cui consiste la riparazione in luogo della consegna del bene venduto (sopra 8). Ancor più interessante si rivela dal medesimo profilo la posizione del professionista (organizzatore o intermediario) che vende o procura al consumatore un pacchetto turistico. In generale, dai profili di cui ci stiamo occupando, merita di essere segnalato come la disciplina in questione, probabilmente in considerazione della complessità di contenuti del contratto in esame (che rendono ancor più “fragile” la posizione del turista in caso di non corretta prestazione dei servizi venduti), individui con maggiore puntualità le fattispecie di inadempimento, di responsabilità, di impossibilità sopravvenuta. Così l’art. 46 cod. tur. specifica l’esonero di responsabilità dell’organizzatore o dell’intermediario per impossibilità sopravvenuta individuandone le cause nel caso fortuito, forza maggiore o fatto del terzo “imprevedibile o inevitabile”. E l’inadempimento, nelle norme che lo prendono in considerazione, è sempre richiamato espressamente nelle due forme di inadempimento o inesatto adempimento (o ciò che è lo stesso, inesatta esecuzione): formula che non risponde solo ad una supposta pedanteria espressiva ma intende rimarcare che, data la natura della prestazione, l’adempimento del professionista (e per converso la sua responsabilità) vanno rapportati al rispetto pieno della “qualità” del servizio, come richiesta dalla causa di svago. Lo conferma il primo comma dell’art. 43, secondo cui è inesatto adempimento anche il mancato rispetto degli standard qualitativi del servizio promessi o pubblicizzati. Rileva tuttavia in particolare, quale significativa deviazione al regime generale della responsabilità del debitore, la previsione di cui all’art. 42, che dà diritto al turista, sia quando recede dal contratto perché non accetta un aumento di prezzo o una modifica delle condizioni (artt. 40 e 41), nei limiti in cui sono consentiti al professionista, sia qualora il pacchetto venga cancellato prima della partenza “per qualsiasi motivo”

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(tranne che per sua colpa), in alternativa al rimborso di quanto versato, di «usufruire di un altro pacchetto turistico di qualità equivalente o superiore senza supplemento di prezzo o di un pacchetto turistico qualitativamente inferiore, previa restituzione della differenza di prezzo», oltre che di essere risarcito «di ogni ulteriore danno dipendente dalla mancata esecuzione del contratto». Assumendo che, riferendosi a “qualsiasi motivo” della cancellazione il legislatore intenda ricomprendere anche cause imputabili al professionista e comunque non solo fattispecie che lo esonererebbero da responsabilità, la norma replicherebbe, con gli opportuni adattamenti, la regola di responsabilità prevista per la vendita di beni di consumo, ponendo a carico del professionista l’obbligo di sostituire la prestazione pattuita, senza che il consumatore debba sopportarne oneri (maggior prezzo) o sacrifici (vacanza di qualità inferiore allo stesso prezzo pagato per quella andata in fumo), e fatto salvo il risarcimento degli eventuali ulteriori danni che egli abbia subito. Obbligo di adempiere anche con una prestazione diversa, che ancora una volta assume quale prestazione attesa dal turista e dedotta nella causa in concreto del contratto, non quel pacchetto turistico ma l’utilità di svago che esso e i servizi ricompresi dovevano soddisfare. Ma non potrà parlarsi di adempimento sanante (S. Mazzamuto) negli altri casi contemplati, ove interviene, ad esempio in caso di revisione del prezzo, il recesso del turista. Riteniamo poi che nessun indice normativo rassicuri sul fatto che la cancellazione per qualsiasi motivo qui considerata coincida sempre con un inadempimento. Se si individua nel “qualsiasi motivo” della cancellazione, come è più plausibile, una causa di forza maggiore o più spesso un fatto del terzo fornitore di uno o più servizi ricompresi nel pacchetto, dovrà prendersi atto che nel contratto in questione l’impossibilità di esecuzione o di esatta esecuzione della prestazione pattuita non imputabile al debitore non ha l’effetto di estinguerne l’obbligazione se non quando intervenga in una fase successiva alla partenza e nei limiti di cui all’art. 41 co. 4. Arduo, ma forse poco utile a fronte del dato normativo, insistere per un inquadramento della regola sul piano sistematico. Basti qui segnalare la deviazione dal paradigma del rapporto obbligatorio ma, soprattutto, la finalità della regola che, al pari di quelle contenute negli artt. 40 e 41, punta al mantenimento del contratto dando risalto all’utilità finale attesa dal turista, pur dovendo contemperare tale obiettivo con la previsione di strumenti che consentano al turista

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di svincolarsi. L’obiettivo di “mantenimento” in questo caso contraddice la regola generale secondo cui il debitore, in questo caso il professionista, sia liberato se la prestazione diviene impossibile per causa a lui non imputabile. L’esonero di responsabilità per sopravvenuta impossibilità della prestazione di cui all’art. 46 cod. tur., mentre esclude l’obbligo risarcitorio, non libera il professionista dall’obbligo di assicurare comunque al consumatore l’utilità attesa, pur sempre possibile a mezzo di altri servizi.

16. Il perimento della cosa nei contratti ad effetti traslativi e la regola speciale nella vendita di beni di consumo La regola dell’efficacia traslativa del consenso, posta dall’art. 1376 c.c., comporta che, nel caso di contratti ad effetti reali aventi ad oggetto una cosa determinata, a meno che l’effetto traslativo non sia incerto e “sospeso” per l’apposizione al contratto di condizione sospensiva, l’attribuzione patrimoniale dell’acquirente si determini immediatamente in conseguenza della stipulazione del contratto e risulti pertanto difficile configurarla quale adempimento di una obbligazione sorta dal contratto a carico del venditore, il quale rimarrà semmai obbligato a consegnare il bene trasferito. In ogni caso, intervenuto il trasferimento, ed essendo il bene entrato nel patrimonio dell’acquirente, l’attribuzione patrimoniale a carico del venditore, da cui trae giustificazione la controprestazione del prezzo, si considera eseguita. Il perimento del bene dopo che questo è entrato nel patrimonio dell’acquirente a seguito del verificarsi dell’effetto traslativo (ancorché non sia ancora intervenuta la consegna) non si configura pertanto quale impossibilità sopravvenuta della prestazione, e, come precisa l’art. 1465, co. 1, non libera l’acquirente dall’obbligo di eseguire a sua volta la controprestazione (pagamento del prezzo o trasferimento di altra cosa o altri diritti nella permuta). Prevale l’effetto traslativo con la conseguente regola, qui ribadita, di passaggio del rischio (res perit domino). Nel caso di vendita di cosa generica il perimento della cosa sarà sempre a carico dell’acquirente purché intervenga dopo la individuazione o la consegna. Il rischio del perimento rimane a carico dell’acquirente anche quando l’effetto traslativo (sempre di cosa determinata) non si sia ancora compiuto ma sia non incerto (come nel caso di condizione

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sospensiva) e soltanto differito per la presenza di un termine iniziale apposto al contratto. Ridisegnando il regime di responsabilità del venditore di beni di consumo, nei termini che abbiamo sopra illustrato, la dir. 99/44/CE – con scelta conforme a quella già operata per la vendita internazionale di beni mobili nella Convenzione di Vienna dell’11-4-1980, ratificata dall’Italia con la l. n. 765/1985 – nel caso dei contratti di vendita o per la fornitura di beni da fabbricare o produrre (III, 9) fa ricadere nella responsabilità del venditore qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene (sopra, 8). Regola riproposta nel diritto interno dall’art. 130, co. 1, cod. cons. Il nostro legislatore, almeno in sede di recepimento della direttiva, ha taciuto a proposito del caso in cui, prima della consegna, il bene addirittura perisca, il che ha indotto parte della dottrina a ritenere che l’ipotesi non rientri nel regime di responsabilità del venditore ma nella regola generale in tema di rischio: la sopravvenuta impossibilità della prestazione di consegna libererebbe comunque il venditore facendo ricadere la perdita sul compratore, che non potrà pretendere la restituzione del prezzo o dovrà comunque pagarlo, sempre che si tratti di vendita di cosa specifica ed il contratto abbia dunque già prodotto l’effetto traslativo di cui all’art. 1376 c.c. Fuori dal caso del perimento, difficilmente può mettersi in dubbio, di fronte al chiaro disposto della legge, che il venditore rimane responsabile per violazione dell’obbligo di conformità a suo carico anche se i difetti siano intervenuti dopo la conclusione del contratto e prima della consegna, essendo questo il momento individuato ai fini della verifica della conformità del bene: dunque con una vistosa deroga, nel caso di vendita di cosa specifica, alla disciplina del passaggio del rischio da venditore a compratore conseguente al principio di cui all’art. 1376 c.c. (il compratore è diventato proprietario per effetto del consenso prestato in sede di conclusione del contratto). Ma lo stesso deve ritenersi con riguardo al perimento o al danneggiamento del bene intervenuti tra l’acquisto e la consegna, non solo alla stregua del regime di responsabilità delineato dalle norme sulla garanzia nella vendita di beni di consumo, bensì in considerazione del regime espressamente previsto ora nella disciplina dell’obbligo di consegna del bene venduto secondo le regole introdotte dalla dir. 2011/83 e recepite nell’art. 63 cod. cons. Secondo l’art. 20 della citata dir. 2011/83: «nei contratti in cui il professionista spedisce i beni al consumatore, il rischio

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di perdita o danneggiamento dei beni è trasferito al consumatore quando quest’ultimo, o un terzo da lui designato e diverso dal vettore, acquisisce il possesso fisico dei beni. Tuttavia, il rischio è trasferito al consumatore al momento della consegna al vettore, se il consumatore ha incaricato il vettore del trasporto dei beni e il vettore scelto non è stato proposto dal professionista, fatti salvi i diritti del consumatore nei confronti del vettore». Si conferma così la regola che vuole che «il consumatore sia tutelato contro ogni rischio di perdita o danneggiamento dei beni che avvenga prima che egli abbia preso fisicamente possesso dei beni» (Considerando 55). La regola è analogamente ora esplicitata nel diritto interno. Confermando una volta di più il suo scarso rigore sistematico, il nostro legislatore colloca la disposizione in tema di “passaggio del rischio” nell’art. 63 cod. cons. – con pedissequa aderenza alla sequenza delle norme contenute nella dir. 2011/83 qui recepita – nella sezione dedicata agli “altri diritti del consumatore” e non invece nella sua sede naturale, cioè tra le norme che delineano la disciplina della garanzia nella vendita di beni di consumo. (artt. 128 ss.). Trattasi dunque di norma generale, ma riferita ai contratti di vendita (art. 60) da intendersi però comprensivi di tutte le fattispecie di cui all’art. 128. «Nei contratti che pongono a carico del professionista l’obbligo di provvedere alla spedizione dei beni», recita l’art. 63, «il rischio della perdita o del danneggiamento dei beni, per causa non imputabile al venditore, si trasferisce al consumatore soltanto nel momento in cui quest’ultimo, o un terzo da lui designato e diverso dal vettore, entra materialmente in possesso dei beni». Tuttavia, continua il co. 2, «il rischio si trasferisce al consumatore già nel momento della consegna del bene al vettore qualora quest’ultimo sia stato scelto dal consumatore e tale scelta non sia stata proposta dal professionista, fatti salvi i diritti del consumatore nei confronti del vettore». Il regime introdotto dal diritto europeo sposta dunque il passaggio del rischio dal momento del trasferimento della proprietà (res perit domino) a quello dell’inserimento del bene nella sfera di controllo dell’acquirente (consumatore), segnato dalla consegna a lui stesso o per suo incarico al vettore: trasferimento del possesso o del “controllo fisico”, come recita l’art. 18 (Consegna) della direttiva e come ribadisce ora l’art. 61, co. 2, cod. cons. Il che comporta, oltre alla deroga in termini di passaggio del rischio del bene alienato, la conseguenza di far rientrare nella responsabilità del debitore ex art. 130, co. 1, cod. cons. (con i relativi obblighi di ripristino, eventuale riduzione del prezzo o ef-

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fetti risarcitori della risoluzione), l’impossibilità della prestazione di consegna per il fortuito perimento del bene sopravvenuto alla conclusione del contratto e all’effetto traslativo. Deroga rilevante sul piano dei principi, pur se va ricordato che la vendita di beni di consumo difficilmente integra in concreto la vendita di “una cosa determinata” di cui all’art. 1376 c.c., ed è invece quasi sempre vendita di una cosa individuata nel genere, secondo il modello o campione prescelto dal consumatore.

17. Risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta Nei contratti (sinallagmatici) a esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione (istantanea ma) differita, l’ordinamento mette a disposizione delle parti un rimedio volto a reagire ad eventuali significative alterazioni del nesso di sinallagmaticità tra le prestazioni: ove una prestazione di una delle parti «per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili», sia divenuta eccessivamente onerosa rispetto all’altra, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione (art. 1467 c.c.). Il rimedio della risoluzione è chiaramente rivolto a reagire ad una alterazione dell’equilibrio contrattuale originario tra prestazione e controprestazione, la cui rilevanza (ove ben superiore ad oscillazioni che anche a seconda dell’arco temporale le parti potevano comunque mettere in conto), non consentirebbe una esecuzione del contratto coerente con il programma a suo tempo voluto e delineato dalle parti. Per questo ambito di applicazione è innanzitutto quello dei contratti sinallagmatici, rimanendo invece espressamente esclusi (art. 1469) quelli aleatori. L’attenzione dell’ordinamento per l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione va però al di là dell’obiettivo di controllare la tenuta del sinallagma contrattuale: anche nel contratto con obbligazioni di una sola parte, l’obbligato, ai sensi dell’art. 1468 c.c., potrà chiedere «una modificazione nelle modalità di esecuzione, sufficienti a ricondurre ad equità» la propria prestazione divenuta eccessivamente onerosa (ricorrendo tutti i presupposti di cui all’art. 1467). Il rimedio, in questa versione, sarà pertanto invocabile in tutti i contratti gratuiti, ponendo in evidenza una più generale ratio volta a tenere indenne il debitore da imprevedibili aggravamenti della sua posizione. Dunque, come opportunamente rimarcato dalla S.C.

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«L’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione (diversamente dalla più sopra evocata impossibilità sopravvenuta della prestazione, quale rimedio all’alterazione del c.d. sinallagma funzionale che rende irrealizzabile la causa concreta) non incide sulla causa del contratto, non impedendo l’attuazione dell’interesse con esso concretamente perseguito, ma trova diversamente fondamento nell’esigenza di contenere entro limiti di normalità l’alea dell’aggravio economico della prestazione, salvaguardando cioè la parte dal rischio di un relativo eccezionale aggravamento economico derivante da gravi cause di turbamento dei rapporti socio-economici. Mentre nei contratti a titolo gratuito l’aggravio consiste nella sopravvenuta sproporzione tra il valore originario della prestazione ed il valore successivo, trattandosi ... di contratto oneroso ... l’aggravio consiste nella sopravvenuta sproporzione tra i valori delle prestazioni, laddove una prestazione non trova più sufficiente remunerazione in quella corrispettiva». (Cass. 25-5-2007, n. 12235 cit.) Diversi i presupposti, dunque, e diverso il modo di operare del rimedio, rispetto all’impossibilità sopravvenuta della prestazione. Non scioglimento ex lege, ma possibilità della parte (in via di azione o di eccezione) di chiedere che il giudice, accertati i presupposti, pronunci la risoluzione con sentenza costitutiva; ed altresì possibilità che l’altra parte eviti lo scioglimento offrendo di «modificare equamente le condizioni del contratto» (art. 1467, ultimo comma); e, nel caso di contratto a titolo gratuito, diritto di chiedere la riduzione ad equità. L’onerosità della prestazione deve essere sopravvenuta (uno squilibrio originario tra le prestazioni, se ricorressero tutti i presupposti voluti dalla legge, comporterebbe il diverso rimedio della rescissione del contratto). È necessario pertanto, innanzitutto, che intercorra un certo lasso di tempo tra conclusione ed esecuzione del contratto. È proprio questa distanza a rendere possibili, ancorché non prevedibili, accadimenti idonei a turbare l’originario equilibrio contrattuale. Distanza che ovviamente dovrà dipendere, come detto, dalla natura del contratto e dei suoi effetti, destinati a prodursi in un secondo momento (contratti ad esecuzione differita) ovvero continuativamente nel tempo (contratti di durata, ad esecuzione continuata o periodica). In questo lasso di tempo dovranno collocarsi quegli accadimenti idonei a rendere la prestazione, originariamente “bilanciata” rispetto al valore della contropre-

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stazione, eccessivamente onerosa, ovvero ad aggravare eccessivamente il valore originario del sacrificio a carico dell’unico obbligato. Aggravamento che potrà rilevare ai fini dell’esecuzione e dunque con riguardo ad una prestazione non ancora eseguita o non completamente eseguita. Il debitore che abbia adempiuto non potrà invocare l’eccessiva onerosità della prestazione, essendo il rimedio volto proprio a metterlo al riparo da sopravvenienze che possano rendergli difficile o comunque più gravoso economicamente l’adempimento. Si ritiene però che la risoluzione ex art. 1467 possa essere invocata anche nel caso in cui l’onerosità colpisca la prestazione in via indiretta: non sia cioè la prestazione dovuta ad essere divenuta più onerosa bensì la controprestazione ad aver perso consistentemente valore. Intervenuta una forte svalutazione nella moneta con la quale deve essere pagata una fornitura, il fornitore che deve eseguire la sua prestazione può invocare la risoluzione per eccessiva onerosità per essere la sua prestazione divenuta eccessivamente onerosa a fronte della forte perdita di valore del prezzo che egli dovrebbe ricevere in controprestazione. La misura richiesta dalla legge – una onerosità “eccessiva” – rimanda ovviamente alla natura della prestazione (e della controprestazione), ma il parametro rimane comunque oggettivo, non venendo in rilievo difficoltà soggettive, come una situazione grave di mancanza di liquidità o un impedimento del debitore a procurarsi la prestazione. Rilevano altresì la natura del contratto e l’intero regolamento contrattuale concordato tra le parti, dovendo in base a tali elementi individuarsi l’alea normale del contratto che le parti dovranno invece sopportare, rimanendo irrilevante una onerosità della prestazione che rientri in tale alea normale. Il disposto del co. 2 dell’art. 1467, che abbiamo appena ricordato, rimanda alle oscillazioni tra il valore delle prestazioni al momento della conclusione del contratto e quello al momento della esecuzione, che inevitabilmente le parti dovranno mettere in conto quando i due momenti sono distanti. E conferma che le sopravvenienze da ritenere “patologiche”, tali da condurre allo scioglimento del contratto, devono essere dovute ad accadimenti del tutto eccezionali e dunque lontani dall’orizzonte delle previsioni dei contraenti. Rientreranno ad esempio nell’alea normale del contratto, escludendo il ricorso all’art. 1467, le oscillazioni di valore delle prestazioni originate dalle regolari e normali fluttuazioni del mercato, qualora il contratto sia

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espresso in valuta estera e dunque le parti abbiano così assunto un rischio futuro, estraneo al tipo contrattuale prescelto, rendendo il contratto di mutuo aleatorio in senso giuridico e non solo economico, quanto al profilo della convenienza del medesimo (Cass. 13-2-1995, n. 1559). A determinare l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione devono essere avvenimenti straordinari e imprevedibili. Il carattere della “straordinarietà”, come ribadisce la Corte di Cassazione, «è di natura obiettiva, qualificando un evento in base all’apprezzamento di elementi (come la frequenza, le dimensioni, l’intensità, ecc.) suscettibili di misurazione, tali pertanto da consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni quantomeno di ordine statistico». (Cass. 19-10-2006, n. 22396) mentre l’imprevedibilità non attiene all’astratta possibilità del verificarsi dell’evento (che finirebbe col rimandare alla “straordinarietà”), bensì a ciò che le parti, secondo ordinaria capacità e diligenza media, potevano prefigurarsi e che dovrà ritenersi prevedibile o imprevedibile non in astratto, ma tenuto conto delle circostanze concrete sussistenti al momento della conclusione del contratto. Un blocco navale che renda eccessivamente oneroso il trasporto di merci è in generale evento straordinario – avuto riguardo ad esempio a dati statistici – ma può, in concreto, non essere imprevedibile tenuto conto di situazioni latenti di conflitto che, al momento della stipula del contratto, interessino alcuni paesi di quell’area geopolitica. Negli anni in cui il fenomeno si presentava con notevole intensità, la giurisprudenza si divise sulla rilevanza da accordare ai fini di cui all’art. 1467 c.c. all’inflazione e alla svalutazione monetaria; e non si escluse in principio che esse potessero configurare un evento straordinario e imprevedibile perché l’imprevedibilità dell’avvenimento, si osservò, può riguardare non solo il verificarsi dell’evento in sé ma anche la sua entità. Ripropone la regola di conservazione e recupero del contratto l’ultimo comma dell’art. 1467, che consente alla parte contro la quale è domandata la risoluzione di evitarla offrendo di modificare “equamente” le condizioni del contratto. Nel caso di contratto unilaterale, la parte che ha assunto obbligazioni e che ravvisi una sopravvenuta sproporzio-

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ne tra il valore della sua prestazione e il valore successivo può farla valere chiedendo una riduzione della prestazione o una modifica nelle modalità di esecuzione sufficienti per ricondurre la prestazione ad equità (art. 1468). Può ripetersi quanto sottolineato a proposito dell’art. 1450 in materia di rescissione: non trova ingresso per questa via una sorta di rinegoziazione tra le parti per la determinazione dell’entità dello scambio; la parte legittimata ad offrire la modifica rimane libera di decidere se proporla e di che entità, e sarà il giudice a valutarne la portata economica, in caso positivo rigettando la domanda di risoluzione (o accogliendo quella di riduzione della prestazione nei contratti di cui all’art. 1468) ovvero accogliendola. La verifica rimarrà comunque interna al rapporto vantaggi/sacrifici e al loro equilibrio nel contratto in questione e volta a riportare il contratto ad un giusto rapporto di scambio nei contratti con prestazioni corrispettive o all’entità del sacrificio desumibile dalle condizioni, anche di mercato, al momento del contratto, nel caso di contratto unilaterale.

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Finito di stampare nel mese di agosto 2017 nella Stampatre s.r.l. di Torino Via Bologna, 220

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Volumi pubblicati Sezione Lezioni 1. ENRICO MOSCATI, La disciplina generale delle obbligazioni, 2015, pp. XXII-554. 2. SALVATORE MAZZAMUTO, Il contratto di diritto europeo, Terza edizione, 2017, pp. XVI-664.

3. STEFANO PAGLIANTINI, La tutela del consumatore nell’interpretazione delle Corti, 2012, pp. XVIII-370.

Sezione Strumenti 1. FILIPPO NAPPI, I ragionamenti applicativi nella didattica del diritto privato. Per una riforma della didattica e del ruolo del giurista accademico nel sistema delle professioni legali, 2011, pp. X-246.

2. LUCA NIVARRA, Lineamenti di diritto delle obbligazioni, 2011, pp. XIV-202. 3. CARLO MAZZÙ, Il diritto civile all’alba del terzo millennio. Volume I: Famiglia – Successioni – Contratto – Patrimoni separati, 2011, pp. XII-192.

4. CARLO MAZZÙ, Il diritto civile all’alba del terzo millennio. Volume II: Diritti reali – Pubblicità immobiliare, 2012, pp. XII-188.

5. SALVATORE MAZZAMUTO, ARMANDO PLAIA, I rimedi nel diritto privato europeo, 2012, pp. X-170.

6. ENRICO MOSCATI, Studi di diritto successorio, 2013, pp. XIV-370. 7. MARCO MILLI, L’amministratore indipendente nel sistema di corporate governance delle s.p.a., 2013, pp. XVI-184.

8. SALVATORE MAZZAMUTO, La responsabilità contrattuale nella prospettiva europea, 2015, pp. VI-250.

9. ROSALBA ALESSI, La disciplina generale del contratto, 2017, pp. XVIII-590. 10. LUCA NIVARRA, I nuovi orizzonti della responsabilità contrattuale, 2015, pp. VIII-160. 11. FILIPPO NAPPI, Didattica del diritto civile 2.0. Un prototipo di didattica fondata sull’addestramento al giudizio applicativo, 2015, pp. XXII-242.

12. FABRIZIO PIRAINO, STEFANO CHERTI (a cura di), I contratti bancari, 2016, pp. XXX-490. 13. MASSIMO GIULIANO, Contributo allo studio dei trust “interni” con finalità parassuccessorie, 2016, pp. X-406.