Teoria generale del montaggio
 8831748289, 9788831748285

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Sergej M. Ejzenstejn

TEORIA GENERALE DEL MONTAGGIO a cura di Pietro Montani

Con un saggio di Francesco Casetti

Marsilio

© 1985 BY MARSILIO EDITORI S.P.A. IN VENEZIA Titoli originali Izbrannye proìzvedenija v Sesti tomach (Opere scelte in sei volumi), Mosca, Iskusstvo, 1963-1970 Montai (II montaggio), voL n

Traduzioni dal russo di Cinzia De Coro e Federica Lamperini Fotografìe di Gastone Predieri

ISBN 88-317-4828-9

Prima edizione: novembre 1985 Terza edizione: giugno 1992

INDICE

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L’immagine del montaggio di Francesco Caselli TEORIA GENERALE DEL MONTAGGIO

3 5 11

Prefazione Abbozzi per un’introduzione H montaggio nel cinema della ripresa da un unico punto 11 19 27 42 56 64 78 102 120

129

La composizione dell’inquadratura «L’arresto di Vautrin» Una barricata Rappresentazione, immagine, generalizzazione, atteggiamento Qué viva Mexico! La deformazione della veridicità Percorsi architettonici. L’Acropoli e l’Altare del Bernini Percorsi pittorici II ritratto della Ermolova Serov, Repin, Surikov

II montaggio nel cinema della ripresa da più punti L’Urphànomen cinematografico: dai fotogrammi all’immagine del movimento 150 H montaggio di più inquadrature 163 L’origine del montaggio al cinema: l’assenza del corpo vivo 169 La riviviscenza 178 I metodi dell’attore: Stanislavski) e Ignazio di Loyola, James e Lessing 201 II montaggio nella letteratura. Le opere patetiche 210 Rappresentazione, immagine, datiti, processo 226 La nascita del montaggio: Dioniso 129

231 250 257

II corpo, il nome, la biografia Ancora sull’Urphànomen cinematografico: da Shakespeare a Joyce Puskin montatore 257 267

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II montaggio nel cinema sonoro

283 289 298 304 316 328 339 355 366 371 380 387 394 400 406 419 431

La battaglia con i pecenieghi e Pollava Palle di ghisa

II ritmo D sonoro nel cinema muto. Sciopero, Ottobre, Potemkin La voce, il gesto Di nuovo Puskin: il contrappunto Rappresentazione e immagine nelle tre fasi del cinema (un quadro generale) La comparabilità di immagine e suono Orizzontalità e verticalità Orizzontalità e verticalità: esempi precinematografici «Entra una ragazza» Tre modi della sincronia verticale: ritmo, melodia, colore Ancora sul colore La stereoscopia L’immagine sintetica Tolstoj. Anna Karenina. Le corse Una narrazione commossa (a mo’ di conclusione)

Note del curatore Indice dei nomi

L’IMMAGINE DEL MONTAGGIO

1. Uno scritto ejzenstejniano Questo libro è il terzo delle Opere scelte di Ejzenstejn ad essere pubblicato dalla Marsilio, e nel piano generale dell’edizione curata da Pietro Montani costituisce il primo tomo del iv volume. Esso contiene il lungo scritto noto convenzionalmente sotto il nome di Montaggio 37: un testo iniziato nel 1935, ripreso nel giugno 1937, e mai portato a termine. Il fatto che Ejzenstejn non abbia concluso il lavoro non deve certo stupire: al contrario, si tratta di un dato ricorrente nell’opera sia filmica sia saggistica di questo autore. Basta pensare a come il Potèmkin sia nato quale semplice episodio di un ciclo più vasto, mai completato; o a come Qué viva Mexico! sia stato progettato, riprogettato, e ri-riprogettato in continuazione, prima e dopo le riprese; o a come Ivan sia passato da un film a due, da due a tre. Parallelamente, nelle pagine di Ejzenstejn si fa continuamente cenno a dei libri da scrivere, magari avviati e mai chiusi: si pensi a Grundproblem o a Metod, impegni spesso ricordati - la riflessione avrebbe dovuto rivelare le proprie ragioni ultime - e nondi­ meno mai compiutamente onorati. Dunque il non finito costituisce un motivo fisso nel panorama ejzenstejniano: del resto, se la scrittura è per davvero, come qui, il luogo di uno scavo e di una autoconfessione, non può non rischiare l’interminabilità propria - si dice - d’ogni analisi. Tuttavia l’incompiutezza di questo scritto ha un che di particolare. Da un Iato essa è messa in risalto dal fatto che le tesi esposte sono state riprese in una serie di articoli editi tra il 1939 e il 1941 e poi confluiti nel volume The Film Sense1. Riprese, ma anche compresse rispetto al quadro1

1 New York, Harcourt, Brace and Co, 1942. T rad. it. in Forma e tecnica delfilm e lezioni di regia, Torino, Einaudi, 1964 (si tratta della sez. «Tecnica del cinema»).

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mobilitato nella prima sede: se si vuole, rese unilaterali dallo stesso Ejzenstejn, ma contro il proprio costume. Dall’altro lato l’incompiutezza dello scritto è stata accentuata dalla sua pubblicazione nel 1964 nel n volume delle opere scelte russe: le omissioni vi abbondavano, dovute sia a un insufficiente lavoro di ricostruzione del manoscritto, sia a delle presumibili ragioni di opportunità. Quest’edizione fa giustizia di quei buchi: grazie al lavoro di Naum Klejman, vedono la luce brani fin qui assolutamente inediti, e che riguardano punti cruciali come l’interpreta­ zione del mito di Dioniso, i riferimenti a Freud, la lettura di Joyce ecc. Ma soprattutto vengono ripristinati due caratteri essenziali dello scritto: l’uno è il suo svolgimento volutamente oscillante (si potrebbe dire, ricordando una figura cara all’autore, spiraliforme), ricco di accostamen­ ti spericolati e di salti improvvisi, di ritorni all’indietro e di rilanci calcolati; l’altro è la sua funzionalità rispetto al momento in cui viene steso, e cioè il suo voler servire insieme da dichiarazione di intenti, da spunto polemico, da autoritratto, e persino da atto finale del dibattito in corso. Insomma, quest’edizione può ben vantarsi di essere un’autentica «prima»: essa ci restituisce finalmente appieno la ricchezza di un testo sia pur in fieri, e nello stesso tempo ci dà modo di possedere una nuova prova dello stile e delle strategie ejzenstejniane. Anche per sottolineare la novità del volume, con il curatore si è deciso di dargli un titolo che si discosti da quello in uso. Del resto, come si è detto, Montaggio 37 era un nome convenzionale, nato solo di recente quale calco del titolo assegnato da Ejzenstejn ad uno degli articoli poi raccolti in The Film Sense (Montai. 1938), e non universalmente accetta­ to. Teoria generale del montaggio ci sembra invece rispondere meglio agli scopi e alla natura del saggio, per almeno due ragioni. Innanzitutto si tratta di un’indagine a tutto campo, che tende a cogliere del concetto in questione l’intera gamma delle sfumature e l’intero campo dei riferimen­ to; se si vuole, ogni implicazione e ogni applicazione. In questo senso la teoria è «generale» perché è generale il disegno che la sostiene. In secondo luogo si tratta di un’indagine volutamente oltre misura, che oltre ad attraversare in tutta la sua estensione il concetto, punta anche a farlo esplodere. Essa infatti sostiene che se si vuole afferrare per davvero la natura del montaggio, bisogna evidenziarne fino all’esaltazione le linee di forza: ne risulterà una sorta di formula fondamentale, o di principio costante, riconoscibile proprio a causa della permanenza di certi tratti essenziali, e operante nel cinema così come in altri numerosissimi feno­ meni - o forse attivo in esso in quanto presente anche altrove - In questo senso la teoria è «generale» perché mira a generalizzare il concetto su cui

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lavora. Del resto, una tale manovra corrisponde bene all’ipotesi che sottende il saggio: per avere un’intelligenza delle cose, quali esse siano, non basta descriverne i contorni, ma bisogna coglierne il disegno inter­ no, smontandole nelle loro diverse componenti e ricostruendole subito dopo secondo imo «schema» o un «diagramma» che ce ne restituisca la struttura complessiva e la dinamica portante. Detto meglio, per afferrare una realtà non basta rappresentarla episodicamente, ma si deve darne un’immagine esemplare attraverso un gioco di confronti e di stratifica­ zioni, di smembramenti e di ridistribuzioni, di accumulazioni e di corre­ lazioni; insomma, attraverso un intervento formale. Il montaggio è ap­ punto lo strumento principe di un tale intervento: ma per coglierne le ragioni e il funzionamento bisogna che anch’esso, come ogni altra cosa, sia lavorato a fondo, grazie ad una continua scomposizione e ricomposi­ zione delle sue presenze. Anche il montaggio, insomma, se vuol essere compreso, deve essere «montato». Dunque mai come qui l’oggetto della ricerca e i presupposti dell’analisi si ritrovano strettamente congiunti: il saggio osserva un fenomeno, e gli applica le stesse regole che esso ha aiutato a scoprire. Ma con questo siamo già arrivati ad uno dei nodi centrali dello scritto ejzenstejniano. Diciamo allora, per procedere con il maggior ordine possibile, che il saggio ci pare possa essere affrontato soprattutto con tre chiavi di interpretazione, che rimandano rispettivamente alle vicende politico-culturali dell’autore, al dibattito teorico sul cinema, e alle forme del sapere novecentesco.

2. Trentacinque, trentasette Iniziamo dal piano di lettura per così dire autobiografico. Gli anni tra il 1935 e il 1937 sono per Ejzenstejn assai delicati. Egli esce da una serie di cocenti delusioni: dopo l’entusiasmo unanime attorno al Potèmkin, né Ottobre ( 1927-28) né 11 vecchio e il nuovo ( 1928-29) erano stati altrettan­ to ben accolti; la trasferta americana per Qué viva Mexico! (1930-31) si era rivelata un’autentica trappola; il ritorno in Russia ( 1932) era coinciso con delle gravi difficoltà, sia sul piano privato - la rottura del sodalizio con Aleksandrov -, sia sul piano pubblico - l’affermarsi del realismo socialista, nettamente divergente rispetto alla linea di ricerca ejzenstejniana -; i progetti via via presentati, come MMM, Mosca o Sua Maestà nera, avevano incontrato aperte diffidenze; l’attività si era limitata all’in­ segnamento presso l’istituto di cinematografìa e a qualche consulenza.

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In questo quadro, 1’8 gennaio 1935 si apre la Conferenza costruttiva del Plenum dei lavoratori della cinematografìa sovietica: Ejzenstejn vi è nominato presidente, ma è in realtà uno dei bersagli designati. Infatti a partire da Dinamov, rappresentante del Comitato centrale del partito, per arrivare ad un gruppo di registi quali Trauberg, Dovzenko, Vasil’ev, Pudovkin, è un continuo risuonar di appunti sulle difficoltà di Ejzenstejn ad adeguarsi ai compiti nuovi del cinema sovietico e sul suo rifugiarsi in un intellettualismo fine a se stesso. L’accusato risponde sia durante la Conferenza con un discorso di riconferma delle proprie posizioni (che persino la Seton, cui dobbiamo ima descrizione minuziosa dell’episodio, considera «inopportuno»)2, sia in chiusura dei lavori, dopo esser stato umiliato con l’assegnazione della più bassa delle onorificenze concesse, con un discorso più sfumato e possibilista. Tuttavia Ejzenstejn non sembra uscir troppo male dalla cosa, se il 5 maggio 1935 inizia le riprese de 11 prato di Bezin: ma la lavorazione del film è accompagnata da una recrudescenza degli attacchi, portati direttamente da Boris Sumjackij, a capo della Direzione centrale della cinematografìa sovietica. Una nuova sceneggiatura (scritta con Isaak Babel’, che di lì a poco cadrà vittima delle purghe staliniane) e delle riprese sostitutive non bastano a salvare l’impresa: essa è definitivamente fermata il 17 marzo 1937. Due giorni dopo si apre una Conferenza dei cineasti nella quale l’isolamento di Ejzenstejn risulta totale: la sua carriera di regista pare ormai chiusa. È in questo contesto che prende corpo il saggio qui pubblicato. Esso si configura, almeno ad ima prima occhiata, come un’autodifesa, e cioè come un documento di risposta all’accusa di indifferenza nei confronti degli obbiettivi perseguiti dalla cinematografìa sovietica - celebrare e promuovere I’«uomo vivo» - e di inclinazione invece al formalismo e al soggettivismo. Inclinazione al formalismo: Ejzenstejn avrebbe ecceduto nella sperimentazione, separando il cervello dal cuore, l’intelligenza dal sentimento; e si sarebbe fatto prender la mano da un interesse esclusivo per il funzionamento della macchina della rappresentazione, trascuran­ do i contenuti rappresentati. Soggettivismo: egli si sarebbe altresì chiuso in se stesso, con la pretesa di definire da solo, «nella sua sgargiante vestaglia di seta» e dall’alto della sua erudizione, l’indirizzo e la valenza politica del proprio lavoro; e perso ogni contatto sia con la realtà delle cose che con l’operato degli altri registi sovietici, avrebbe ignorato il

2 Marie Seton, Sergei M. Eisenstein. A Biography, London, The Bodley Head, 1952. Trad. it. 5.M. Eisenstein, Milano-Roma, Bocca, 1954 p. 354.

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mandato che gli era stato affidato. Indifferenza perT«uomo vivo»: alla radice di tutto ciò ci sarebbe una vera e propria scollatura tra attività artistica e maturazione politica, tale da ripercuotersi direttamente sui risultati ottenuti; Ejzenstejn non sarebbe più in grado né di comprendere né di raffigurare il livello raggiunto dalla società sovietica, alla quale sostituirebbe una simbologia astratta. I segni di simili errori sarebbero del resto evidenti: l’uso oltranzistico di certi procedimenti come il montaggio intellettuale; la scarsa attenzione per delle storie attuali e immediatamente afferrabili; il rifiuto dell’attore. Questo, a grandi linee, il quadro delle accuse rivolte ad Ejzenstejn5. Il libro qui pubblicato vuole in primo luogo far fronte a simili osservazioni polemiche: esso ratifica e accoglie le esigenze degli avversari (denuncian­ done però, in un inciso, la volontà di linciaggio); prende le distanze da certi eccessi presenti in Ottobre o nel Prato di Bezin (ma lamentando insieme la «tragedia» capitata a quest’ultimo); pone qualche cautela nel riferirsi a zone esoteriche o erudite (vi si citano però Freud e Sant’Ignazio, Joyce e Cohen); intesse lodi aperte al socialismo realizzato (ma così sfacciate da risultar del tutto dissonanti). In questo senso il libro era probabilmente destinato ad accompagnare, sul piano delle motivazioni anziché su quello del semplice gesto dimostrativo, l’autocritica con cui sul finire del 1937 Ejzenstejn cerca di por fine agli attacchi portatigli; e altrettanto probabilmente esso si interrompe quando poco più tardi l’affaire si chiude e inizia il lavoro suU’AZe4w»d!r Nevskij3 4. Tuttavia non è difficile accorgersi come in realtà l’autodifesa si trasformi qui continuamente in contrattacco: Ejzenstejn scende sul terreno di quanti l’accusano per dimostrare la fondamentale correttezza del proprio operato anche dal loro punto di vista; anzi, le preoccupazioni che essi avanzano potran­ no trovare una soluzione solo se verranno accettate le proposte avanzate dal saggio; in caso contrario, le loro esigenze saranno destinate a rimane­ re insoddisfatte. Come si vede, il ribaltamento dei ruoli è netto e radicale. In breve - del resto vi abbiamo già fatto cenno - l’argomentazione ejzenstejniana è la seguente. Se il compito precipuo dell’arte è d’esser fedele al reale, cogliendone quei momenti che sono insieme effettivi ed esemplari, non basta ricopiare dei contorni visibili. Se si vuole che una raffigurazione possieda nello stesso tempo i caratteri della copia esatta e

3 Cfr. i documenti riportati dalla Seton, cit., ai capp. xi e xn (passim) e nell’Appendice n del medesimo volume. 4 La data della Prefazione (7 novembre 1937) nel suo riferirsi all’anniversario della rivoluzione può essere più simbolica che effettiva.

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dell’emblema complessivo, bisogna invece oltrepassare la semplice rap­ presentazione ed elaborare immagine. Ma la costruzione di quest’ulti­ ma, vero strumento chiave per cogliere le cose oltre che in se stesse anche nella loro generalità, sottosta ad alcune condizioni. In particolare, l’im­ magine dovrà rendere la struttura o l’andamento di quanto essa raffigura attraverso un’adeguata composizione; insomma dovrà impegnarsi in un lavoro formale. Questo lavoro si svolge su vari piani. Prendiamo il cinema: a livello della singola ripresa, si tratterà del modo in cui vengono distribuite le diverse componenti nel quadro e del profilo che ne mette in luce la disposizione; a livello della sequenza5, si tratterà del modo in cui vengono concatenate le diverse inquadrature e dell’andamento che ne marca la scansione; a livello del film compiuto, si tratterà del modo in cui sono coordinati i vari stimoli visivi e sonori, e dell’architettura che ne chiarisce la polifonia. Dunque una distribuzione, una concatenazione, una coordinazione: bisogna pur sempre scomporre e riarticolare, smem­ brare e rifondere; in una parola, bisogna pur sempre operare un montag­ gio. Questo nel cinema; ma osservazioni analoghe possono esser condot­ te anche per la letteratura, la pittura, la musica. Un’immagine, dovunque si trovi, per esser tale deve esser sempre montata. A completamento di una tale argomentazione, aggiungiamo tre ele­ menti che Ejzenstejn lascia in parte più sfumati. Innanzitutto l’intervento formale, il lavoro di montaggio, dipendono sia dall’entità o dall’evento riprodotti, sia dal punto di vista che su di essi viene espresso: la composi­ zione traduce sia la natura di quanto viene presentato, sia la posizione di chi lo presenta. Anzi, è la seconda che consente alla prima di rivelarsi appieno. Ciò significa che in ogni raffigurazione autentica l’oggettività del raffigurato non si dà senza la soggettività del raffigurante: l’immagine è un’immagine di qualcosa proprio perché manifesta Gatteggiamento di chi opera su e attraverso essa. Ogni discorso sulla politicità dell’arte non può eludere l’esistenza di un tale atteggiamento: è il suo riconoscimento, e non la sua denegazione, che consente di definire il senso di ogni proposta. In secondo luogo c’è da dire tuttavia che il lavoro formale e l’uso del montaggio rispondono a delle leggi precise: anche quando sembrano affidarsi all’intuizione, in essi non si esprime né il capriccio né il caso, ma un ordine puntuale e inderogabile. Ora queste leggi - come chiariranno gli ultimi scritti ejzenstejniani6 - sono le stesse che reggono il

5 Ejzenstejn chiama spesso la sequenza anche «inquadratura ripresa da più punti di vista». 6 In particolare La natura non indifferente.

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flusso della natura, e a partir di lì ogni tipo di fenomeno e ogni livello di attività: anche se nelle diverse circostanze esse incontrano modi di realizzazione differenti, costituiscono pur sempre delle regole universali e transtoriche. Ma proprio a causa di questo loro statuto, esse sono anche perfettamente studiabili, sia in sé che attraverso le loro varie manifesta­ zioni. Ne deriva che ogni artista che non voglia commettere grossolani errori di calcolo7 potrà, o meglio dovrà, farsi un poco scienziato, assu­ mendo di costui tanto il rigore quanto la disponibilità. Insomma, non si dà arte senza studio: e la passione, compresa quella per l’erudizione, piuttosto che una colpa è una dote necessaria. In terzo luogo, dopo tutto quello che s’è detto, appare chiaro come il lavoro formale e il ricorso al montaggio riflettano l’uomo più di quanto non lo faccia la mera riprodu­ zione di un volto o di un corpo: essi infatti segnalano una sintonia con il resto del mondo e insieme una capacità di dominare i fenomeni, una presenza cruciale come quella dell’osservatore e insieme un sistema di regole entro cui costui si iscrive. Diremo di più: la semplice rappresenta­ zione è perfettamente muta a proposito dell’uomo; anche quando lo sorprende in un momento culminante, non ce ne restituisce il senso reale; dalla sua trasparenza, non trasparisce niente. L’immagine invece parla: sa sondare una realtà aprendosi in essa un percorso, e sa sintetiz­ zarla comportandosi come una cifra; sa restituircene i tratti essenziali e sa farci partecipare alla sua stessa esistenza. Del resto le grandi opere del realismo - basta pensare tra tutte al ritratto dell’Ermolova di Serov obbediscono proprio a questa logica dell’immagine: in esse la naturalez­ za e l’immediatezza del risultato dipendono da un’accortissima tessitura, da un enorme impegno dedicato alla composizione. Si comprende allora, sulla base di una simile argomentazione, come Ejzenstejn possa rivendicare la necessità, ed anzi l’indispensabilità, della propria ricerca. Indispensabilità nei due sensi. Da una parte a livello di contenuti: ciò che Ejzenstejn vuole arrivare a dire è che la sua elaborazio­ ne non è mai stata fine a se stessa, ma ha sempre mirato al raggiungimen­ to di quegli obbiettivi che gli avversari negano fossero nelle sue intenzio­ ni, e che semmai essi, nella loro inconsapevolezza, non hanno mai sfiorato, se non per accidente. Accusato di formalismo, Ejzenstejn si pretende più realista di tutti. Dall’altra parte, l’indagine è indispensabile anche a livello dello stile: Ejzenstejn vuol contemporaneamente arrivare 7 In uno scritto coevo a questo {U programma di insegnamento al VGIK del 1936, pubblicato nel il voi. delle Opere scelte russe), Ejzenstejn dà sia un esempio di «ipertrofìa della rappresentazione» i FEKS -, sia un esempio di «ipertrofìa dell'immagine» - Mej Lan Fang

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ad affermare l’utilità del suo «lavoro a tavolino». Infatti i riferimenti a 360 gradi, più che, il mero sfoggio di una cultura enciclopedica, sono funzionali all’individuazione del principio che presiede al trasmutarsi della rappresentazione in immagine, ovunque esso si affacci; più che l’emergere di un gusto individuale, sono il segno di ima reale strategia di analisi; quella strategia di cui gli avversari, convinti di avere la verità in tasca, non si sono posti neppure il problema. Ejzenstejn, accusato di soggettivismo, si pretende più politico che mai. La rivendicazione ejzenstejniana di una centralità della propria ricer­ ca sia nei temi che nei modi in cui è attuata, costituisce appunto il primo obbiettivo che sottende il saggio. Anche se è un po’ difficile figurarsi l’autore nelle vesti del realista o del politico quale si dipinge, la proposta di sé - verrebbe voglia di dire: l’immagine di sé - che egli qui avanza è la testimonianza più eclatante del gioco di difesa e di attacco in cui questo libro si impegna.

3. Che cos'è il montaggio?

La seconda chiave di lettura per affrontare lo scritto consiste nel riportarlo al più vasto dibattito sul cinema: in particolare alle traiettorie seguite dal concetto di montaggio e alla diversa significatività che esso ha avuto rispetto alla definizione del medium. Come è noto, e come del resto abbiamo già ricordato, la nozione di montaggio in Ejzenstejn non designa solo una pratica tecnica (il taglio e l’incollatura della pellicola), ma un principio che regge la costruzione del film e di cui quella pratica non è che la punta emergente: si potrebbe dire, a patto però di togliere dalla formula ogni accenno ad una presunta specificità cinematografica, è ciò che fa di un film un autentico film®. In questo senso, del montaggio non si può fare in alcun modo a meno. Tuttavia si tratta anche di una nozione che Ejzenstejn sottopone a continue rielaborazioni: sia a causa delle qualificazioni che via via riceve - montaggio delle attrazioni, intel­ lettuale, sovratonale9, verticale -, sia a causa dei caratteri che si vede via via attribuire - montaggio come accumulazione delle cellule, come conflitto tra i pezzi, come sovrapposizione degli elementi, come sincreti-

s In questo senso, come si ribadirà più avanti, esso è un principio costitutivo e non certo un principio regolativo. 3 A sovratonale andrebbe forse preferito armonico (che è la traduzione di oberton nel lessico musicale); cfr. le nn. [8] e [18] del curatore al presente volume.

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smo delle componenti - In questo senso, l’esatta determinazione di che cosa esso sia è destinata a sfuggire1011 . Ebbene, il libro cerca di fare letteralmente il punto su di un concetto così indispensabile e insieme così cangiante; e lo fa, secondo una tipica mossa.ejzenstejniana, portando le cose al loro limite. In concreto, il montaggio è esplorato con grande attenzione e fedeltà, e nello stesso tempo è assunto, più che in vista di un chiarimento del termine, per ribadire Videa di cinema - e non solo di cinema - che gli si accompagna. Ma procediamo con ordine. H punto d’avvio può essere una doppia definizione che si incontra nel corso del saggio. Da un lato il montaggio rinvia a una scomposizione cui vanno incontro i diversi fenomeni, seguita da una ricomposizione a un livello più alto; sotto quest’aspetto, esso è lo strumento attraverso cui smembrare analiticamente gli oggetti o gli eventi, per averli poi restituiti assieme al senso della loro articolazione o al senso del loro divenire. Dall’altro iato il montaggio rinvia al confluire di una serie di elementi, separati spazialmente o temporalmente, in una simultaneità; sotto que­ st’aspetto esso è il mezzo tramite cui tenere insieme un testo e farlo diventare un’unità che travalica la semplice giustapposizione delle sue parti. Questi i due significati di montaggio che emergono nel corso del saggio11: vi vediamo intervenire la scomposizione di un intero e la riassunzione delle sue parti in un quadro più vasto, l’assemblaggio di componenti diverse e la trasformazione di un tutto. Ora, a partire da una simile doppia definizione, Ejzenstejn non ha troppa difficolta a dimostrare come il meccanismo sia all’opera non solo nel cinema, ma in molte altre situazioni. Esso è ad esempio il principio che sta alla base dell’esperienza estetica: ogni opera che allinei alla perfezione tecnica l’efficacia di un coinvolgimento, ogni opera che dimo­ stri un’intima motivazione e nello stesso tempo si apra all’autentico piacere (più tardi Ejzenstejn avrebbe potuto dire: ogni opera che presen­ ta una perfetta organicità e insieme la spinta del pathos)12, ha alle proprie radici l’intervento del montaggio. Da Repin a Shakespeare, da Stanislav­ ski] a Posada, da Puskin a Joyce, da Bernini alle chansons ironiques, da Mallarmé a Majakpvskij, da Wagner al romanzo giallo, un’infinità di esempi, tratti dalle arti maggiori o minori, sono lì a dimostrarlo. Ma questo principio sta alla base anche del rapporto conoscitivo che

10 II quadro a tutt’oggi più completo delle diverse accezioni di montaggio in Ejzenstejn è probabilmente quello ricostruito da Jacques Aumont, Montage Eisenstein, Paris, Albatros, 1979. 11 Cfr. i paragrafi «Percorsi pittorici...» e «I metodi dell’attore...». u Cfr. La natura non indifferente.

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ciascuno di noi ha con il mondo: la percezione delle cose avviene per frammenti, per scorci delimitati, per successivi scorpori, che conducono però ad afferrare la struttura del reale nella sua interezza e nella sua complessità. Ciò soprattutto per quanto riguarda la visione: essa appun­ to combina due figure diverse - quelle proprie di ciascun occhio - in un’immagine unitaria; dunque attraverso la stereoscopia chiama direttamente in causa il meccanismo del montaggio. Lo stesso principio sta alla base anche dell’insieme di relazioni che ciascun uomo intrattiene con i suoi simili. Infatti alle radici del senso sociale e della stessa società c’è un mito, quello del pasto rituale con le carni del padre o del re, che trova la sua illustrazione più puntuale nella figura di Dioniso: ebbene, nello smembramento di un corpo che, sparti­ to e introiettato, garatisce un’unità superiore quale quella della tribù, si può vedere di nuovo in azione il montaggio13. Questo principio infine sta alla base dei processi fondamentali della natura: lo si coglie nel decomporsi della materia per dar luogo a nuovi enti, nell’accorparsi degli elementi da cui si forma la vita, nel morire delle cose per fame nascere altre. Tuttavia si tratta pur sempre di un principio che ha trovato nel film la sua manifestazione più esplicita. Qui esso agisce fin da subito: lo ritrovia­ mo in quello che Ejzenstejn chiama YUrphanomen cinematografico, e cioè nella creazione del movimento a partire da una serie di figure statiche; in pratica, nella successione dei 18 o 24 fotogrammi al secondo, grazie a cui delle porzioni bloccate di mondo (semplici rappresentazioni, visto che in esse vige il puro ricalco dei contorni) diventano mondo pieno (un’autentica immagine, dato che essa rende un’essenza quale il diveni­ re). Ma il montaggio, già in opera neiYUrphànomen cinematografico, si impone a tutti i livelli in cui si articola la costruzione di un film: nella formazione delle singole inquadrature - pezzi di pellicola girati in conti­ nuità e da un punto di vista costante nella formazione della sequenza insieme di inquadrature connesse tra di loro, brano circoscritto ed autonomo e nella formazione di un’opera audiovisiva - accoppiamen­ to di una banda sonora e di una visuale, testo che integra segnali di tipo diverso - I tre livelli rappresentano altrettanti gradi di complessità attraverso cui passa l’elaborazione di un film: dalla registrazione di una scena, alla concatenazione delle riprese, all’edizione completa e ultima. H Le pagine su Dioniso, che appaiono per la prima volta in questa edizione, sono fra i passi più ifluminanti del libro, se non altro per ì riferimenti che consentono da un lato al Nietzsche di Nasata della tragedia, dall'altro al Freud di Totem e tabu.

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Ma essi rappresentano anche altrettanti stadi che hanno caratterizzato via via la storia del cinema: dagli spezzoni costituiti da un’unica inqua­ dratura (tipiche le «vedute» lumieriane), ai film che alternano i punti di vista sulle cose (come in gran parte del muto), ai film che aggiungono al visivo la colonna del parlato e quella della musica (come a partire dall’introduzione del sonoro). Ontogenesi e filogenesi qui dunque si sovrappongono perfettamente. Ebbene, il montaggio interviene a tutti e tre i livelli, provocando in ciascuno di essi il passaggio dalla rappresenta­ zione - momento della pura datiti, semplice segnale ~ all’immagine momento in cui si esplica un processo, esibizione di un senso dunque facendo rivivere ad ognuno lo stesso salto di qualità che già realizzava nell’ambito d^WUrphanomen. Ciò naturalmente avviene secondo un medesimo principio, ma anche attraverso delle forme diverse. Al primo livello, quello della singola inquadratura, si tratterà di operare sulla dislocazione delle varie compo­ nenti del quadro, in modo da far emergere una linea compositiva capace di rivelare il significato di quanto è raffigurato. L’esempio proposto da Ejzenstejn consiste nel disegno di una barricata, i cui singoli particolari sono assemblati in maniera tale da ricordare, nel loro profilo complessi­ vo, l’idea della lotta. Al secondo livello si tratterà di operare sulla concatenazione dei pezzi di montaggio, in modo da trame un andamento compositivo in grado di esibire l’autentica conformazione del fenomeno ripreso, e cioè sia il tracciato della sua esistenza che il quadro dei suoi significati. Ejzenstejn ripropone a questo riguardo un classico caso di montaggio analitico: se allineeremo, congiungendoli correttamente, de­ gli zoccoli che battono sul terreno, la testa di un cavallo che corre e la groppa di un cavallo che fugge, avremo nella sua esattezza e nella sua pregnanza l’immagine di un galoppo14. Ma esempi ancor più probanti sono tratti da terreni paralleli al cinema (il gusto ejzenstejniano per il debordare è veramente irrefrenabile). Whitman nel Canto dell’ascia accumula i richiami in maniera tale da farci sorgere l’idea dell’intero campo di applicazione della scure: elencando i diversi casi di legno lavorato egli ci dà dello strumento la vita esemplare. Puskin in Poltava dispone gli indizi in maniera tale da restituirci il vero senso di una battaglia: coordinando i dettagli - sangue, proiettili, corpi caduti - coglie l’essenza di uno scontro mortale. Al terzo livello, quello dell’opera

14 Si tratta del primo breve esempio che Ejzenstejn fa nel paragrafo «Il montaggio di più inquadrature».

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audiovisiva, si tratterà infine di operare sulla combinazione di visuale e di sonoro, in modo da far emergere un’architettura capace di restituirci ancora una volta, ina adesso in forma più completa, l’intima natura del fenomeno trattato. Gli esempi cinematografici al proposito sono per Ejzenstejn soltanto al futuro: comunque vi si ritroverà sempre la polifo­ nia, centrata ora sull’accordo armonico, ora sul contrappunto, ma in entrambi i casi conforme al «risuonare» delle cose stesse. Dunque il montaggio domina tutte e tre le fasi attraverso cui passa sia la vita di un film sia la storia del cinema. Esso è cruciale anche nell’ultimo stadio: chi infatti ritenesse che il sonoro obblighi ad una costruzione più semplice e dunque alla rinuncia ad un lavoro di articolazione e di ricomposizione continua, sbaglierebbe digrosso. Può darsi che si renda necessario fare un passo indietro: l’estremo spezzettamento delle riprese sperimentato nel cinema muto non è più né opportuno né funzionale. Ma il montaggio come principio comanda sempre. Esso agisce innanzi­ tutto orizzontalmente, nell’ambito della sincronia, provvedendo attra­ verso l’istituzione di precisi rapporti a render comparabili e quindi accordabili l’immagine e il suono. Poi esso opera verticalmente, attraver­ sando in tutto il suo spessore il testo audiovisivo: dispone i diversi elementi e i diversi aspetti di ciascun elemento come delle note entro una partitura, ne fa vibrare ad ogni passo alcuni mentre ne fa tacere altri, e ne cava con ciò tanto un suono formato dal confluire dei singoli suoni attivati, quanto, nell’avanzare del film, il disegno di un’autentica ar­ monia. Questo il quadro del montaggio che Ejzenstejn ci suggerisce: lo si ritrova ben riassunto in alcuni schemi inseriti nel paragrafo «Rappresen­ tazione e immagine nelle tre fasi del cinema». Aggiungiamo che la progressione dei tre livelli indica non solo un successivo completarsi della costruzione filmica, né solo un’evoluzione storica del medium, ma anche un gioco aperto di salti di qualità: infatti ciò che ad ogni stadio si presenta come un’immagine elaborata a partire da una rappresentazione, allo stadio seguente diventa una semplice rappresentazione da elaborare in una nuova immagine. In pratica, la linea compositiva che dà il senso di un’inquadratura, nella sequenza non è che uno dei tanti materiali su cui si costruisce il ritmo; e quest’ultimo, che nella sequenza rivela il divenire del fenomeno raffigurato, nell’opera audiovisiva non è che uno degli elementi che compongono la polifonia. Del resto, con l’introduzione del colore nel film (evento cui sono dedicate molte pagine dell’ultima parte del libro), anche la polifonia andrà superata: facendo leva sul «cromati­ smo» proprio di ogni pezzo musicale, la si dovrà integrare in un ulteriore

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livello di composizione, formato dal contrasto o dall’accordo di tinte, toni, luminanze, saturazioni. Dunque ogni risultato non è che provviso­ rio, e serve da punto di partenza per un’elaborazione successiva. Lo stesso cinema comunque non è che una semplice tappa di un cammino in corso: al suo orizzonte sta l’opera d’arte totale, tessitura complessa di materiali diversissimi, disegno intricatissimo ma proprio per questo dotato della massima autenticità e della massima efficacia. Ejzenstejn ce ne anticipa un esempio, immaginando «uno spettacolo di montaggio che riunisce l’ambiente naturale, l’insieme urbano, le masse e i protagonisti che vi agiscono, il mare di colore e di fuoco, di musica e di radio, il teatro e il film sonoro, i battelli del canale Mosca-Volga e le squadriglie di aeroplani»15. Questo dunque il quadro propostoci da Ejzenstejn: quali conclusioni ne possiamo allora trarre? In primo luogo, l’idea che il montaggio costituisca una sorta di chiave dell’universo: esso è infatti un principio che sta alla base sia dei fenomeni che della loro raffigurazione, sia della natura e della società che delle pratiche conoscitive ed artistiche. D’altra parte la sua potenza consiste proprio nell’attraversare l’intero campo dell’esistente riproponendo un’unica formula nelle sue infinite applica­ zioni; esso può così accordare i diversi momenti del reale (appunto, come tanti nuclei di una sola sinfonia) e organizzare nello stesso tempo il trasmutarsi dell’uno nell’altro (e in particolare la trasformazione di un ente nel suo ritratto, nella sua immagine). Insomma, la sua capacità di presa consiste nell’essere un concetto generalizzabile e generale. In secondo luogo, e proprio sulla base di quello che abbiamo appena detto, il quadro ejzenstejniano ci suggerisce l’idea che il montaggio non designi ormai più in niente una mera pratica tecnica come quella del taglio e dell’incollatura della pellicola, ma sia piuttosto l’emblema di una concezione del cinema nel contesto di una precisa concezione del mon­ do. La nozione di montaggio, infatti, serve sostanzialmente a privilegiare alcuni aspetti del film e, al di là dei diversi modi di lavorazione, a promuoverli a fattori determinanti; o meglio, visto che è in causa un principio e non una norma, essa serve a evidenziare certi elementi e a proporli come tratti costitutivi. Tali elementi si concretano in definitiva nella presenza di un sistema di rapporti di crescente complessità e in continua trasformazione grazie a cui il film si propone e progressivamen­ te diventa se stesso; se si vuole, nella presenza di una costruzione e

C£r. il paragrafo «L’immagine sintetica».

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Francesco, Cosetti

insieme di un orizzonte che reggono congiunti il gioco. Ecco: l’opera cinematografica come costrutto e come entità in divenire, come esercizio di composizione e come punto di sfondamento, come luogo di un accordo e come momento dinamico; l’opera, insomma, come operazione e come operabilità. Sono questi i caratteri che il montaggio seleziona e privilegia; sono essi a proporsi all’attenzione come decisivi. Ancor più sinteticamente, la figura che emerge è quella del cinema come dispositivo: una macchina in cui la naturalità del risultato è frutto della grande artificialità del meccanismo, e in cui la compattezza si accompagna ad un continuo movimento. Tuttavia un dispositivo tra i tanti: anche la società, gli organismi biologici, il sistema d’attenzione dello spettatore, i fenomeni naturali, mostrano gli stessi tratti. E un dispositivo il cui obbiettivo è di mettersi in sintonia con la macchina del mondo. Per strapparne i segreti, godendone (che cos’è infatti l’opera d’arte per Ejzenstejn se non il luogo di una conoscenza e di una passio­ ne?) e nel medesimo tempo per marcarlo con la propria apparizione (grazie ad un montaggio cinematografico che unisce battelli sul Volga e musica dalle radio, masse ed aeroplani, è appunto la vita a diventare spettacolo totale). Per coglierne il senso pieno, e nel medesimo tempo per inoltrarsi in quanto precede ogni significato: l’esistenza in quanto tale, il puro flusso, l’indicibile16.

4. Uno stile d'analisi La terza chiave di lettura di questo libro ci riporta ad uno scenario più vasto di quanto non siano la biografìa politico-intellettuale dell’auto­ re o il dibattito sul montaggio sviluppatosi nell’ambito delle teorie cinematografiche; può risultare infatti assai produttivo chiamare in cau­ sa anche alcune forme di sapere del Novecento. Indubbiamente la consonanza tra le tesi avanzate dal saggio e certe ossessioni che percorro­ no il nostro secolo è del tutto evidente. Basta pensare al gusto ejzenstej­ niano per la composizione, vista come momento attraverso cui proble­ matizzare non solo il rappresentato, ma anche l’atto della rappresenta­ zione17, e connetterlo alla ricerca che a partire dalle avanguardie storiche

16 Sarà soprattutto La natura non indifferente a chiarire la capacità dell’opera sia di illuminare il mondo, sia di inoltrarsi neli’irrappresentabile: ma i due punti sono già leggibili in questo scritto. 17 Rappresentazione intesa in senso generale e non specifico come in questo testo, dove è opposta ad immagine.

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ha marcato a fondo la vicenda artistica del nostro secolo. O ancora, basta pensare al suo interesse per il procedimento, inteso come radice dell espressività, e collegarlo con alcuni degli orientamenti assunti dalla filoso­ fia del linguaggio negli ultimi ottantanni, dall’idea di gioco linguistico in Wittgenstein a quella di atto linguistico in Austin, dalla nozione di costruzione nei formalisti a quella di struttura in Saussure. O basta pensare all’attenzione di Ejzenstejn per il nesso ideologia/linguaggio, che lo porta da un lato a tener sempre conto dell’efficacia dell’opera, dall’altro a rivendicare ad essa una politicità che travalica ogni indirizzo contingente; una tale attenzione può ben essere correlata al lungo dibat­ tito sull’autonomia o l’eteronomia dell’arte. Infine, basta pensare alla sua sensibilità per il momento recettivo, incarnato non solo dallo spettatore del film, cui pure si fa spesso appello, ma anche dal suo regista, che prima di raffigurare le cose deve saperle analizzare: non è difficile connettere una simile sensibilità alla consapevolezza che si è fatta strada tanto nelle scienze della natura quanto in quelle dell’uomo di una sostanziale inscin­ dibilità tra evento ed osservatore. I richiami, magari obliqui, e i legami, anche se non sempre stretti, sono insomma numerosi ed interessanti. Tuttavia più che la semplice presenza di certi temi, è il modo di avanzare di Ejzenstejn che risulta a questo proposito cruciale: il suo metodo è parente stretto di alcuni «stili di analisi» (per usare la bella espressione di Gargani)18 che sono venuti emergendo negli ultimi decen­ ni. In breve, Ejzenstejn compie sistematicamente due mosse, e le gioca l’una contro l’altra per conquistare via via nuovo terreno. Da una parte cerca attraverso i diversi fenomeni il principio che li regge, per poterne dare, con l’immagine, lo schema o il diagramma; dall’altra, operando continui confronti, incontra l’idiosincrasia e l’irriducibilità; tuttavia dalle due situazioni trae motivo sia per successive generalizzazioni, anche consapevolmente un po’ paradossali, sia per uno spostamento continuo del punto d’attenzione; in ogni caso se ne serve per controllare la percorribilità del proprio campo di indagine, e per fare di una tale possibilità di cammino la condizione e la posta dell’analisi. Questo il metodo ejzenstejniano: vi abbiamo già accennato sottolineandone il funzionamento «a montaggio»; ora lo riprendiamo per veder meglio i problemi che solleva e le parentele che stringe. Esso esplicita infatti alcune preoccupazioni rilevanti. In primo luogo, la volontà di astrazione vi è accompagnata dal desiderio di conservare la

18 Aldo Gargani, Stili di analisi, Milano, Feltrinelli, 1980.

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peculiarità di quanto è via via investigato. La generalizzazione certo equipara, ma contemporaneamente garantisce un’individualità all’og­ getto analizzato, sia a causa della quota di resistenza che esso oppone, sia a causa del rimescolamento di carte cui esso comunque obbliga. Ogni applicazione del principio, dunque, più che una mera verifica, è una questione aperta e un punto di rilancio. Come non vedere allora in questa prima preoccupazione un’eco della tensione tra quantità e quali­ tà, o meglio tra regolarità e singolarità, che si è venuta palesando nel corso del secolo all’interno del dibattito epistemologico? In secondo luogo, la volontà di arrivare al senso di quanto è indagato si accompagnà ad un continuo trasmigrare da un campo d’osservazione all’altro, contro ogni economia della ricerca, e soprattutto contro ogni criterio di pertinenza. Se la meta è quella di trovare Io schema o il diagramma delle cose, collegandoli alla formula dell’universo, l’analisi opera tuttavia attraverso giustapposizioni e slittamenti, associazioni e differenze, riporti e derive. Dunque gli oggetti investigati non risultano mai chiusi in se stessi, bloccati attorno ai loro tratti fondamentali; sono invece le tappe di un percorso continuo, delle stazioni di passaggio. E anche la chiave del mondo, cui pure si punta, si dissolve in un’incessante cangianza di punti di vista e di profili messi a fuoco. Insomma, la direzione della ricerca ha come misura la trasversalità. Come non vedere allora in questo tipo di procedere - una vera e propria erranza - un richiamo alla tensione tra compatto e disperso, o tra centrato e acentrato, che è venuta montando negli ultimi anni? Certo sarebbe ingiusto cercare simili affermazioni di metodo in dichiarazioni esplicite: esse sono piuttosto affidate al concreto struttu­ rarsi del discorso, al ritmo delle pagine, alla logica stessa dell’osservazio­ ne. Così come sarebbe ancor più ingiusto fare di Ejzenstejn un anticipa­ tore o un elaboratore diretto di alcuni stili di conoscenza che si mostre­ ranno appieno solo più tardi: qui sono in gioco, più che dei legami compiuti, degli sfondi comuni, delle scelte di massima, delle tendenze. Nondimeno i punti su cui abbiamo fissato l’attenzione e che ci hanno condotto a richiamare la tensione tra regolarità e singolarità e tra centra­ to e acentrato, trovano in questo libro dei riscontri precisi, tali da suggerirci con estrema chiarezza l’idea che la «generalità» della teoria qui proposta non ha nulla della rigidità tipica di molti quadri concettuali tradizionali, ma è caratterizzata dalla flessibilità e dall’adattabilità; dun­ que, in un certo senso, si apre al «locale». Possiamo riassumere questi riscontri nelle due suggestioni che forse più di ogni altra attraversano il libro. Da un lato c’è il sogno di trovare la

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cifra fondamentale dell'universo, il segreto dell’esistente: sogno che dovrebbe portare ad un modello scientifico unificato e forte, e che invece conduce Ejzenstejn a proporre dei miti d’origine come quello di Dioniso (secondo un gesto che troverà il suo punto estremo nella Natura non indifferente, dove l’esercizio della caccia e l’arte di intrecciar canestri vengono assunti a chiavi universali dei fenomeni). Dall’altro lato c’è la volontà di agire negli interstizi delle diverse scienze, tra linguistica e antropologia, tra psicologia e estetica, tra storia dell’arte e biologia: volontà che presupporrebbe una sfiducia nei confronti delle procedure d’analisi, e che invece approfitta dell’indebolimento dei singoli paradig­ mi per dare maggior efficacia - maggior performatività - all’indagine. Ecco: il modello unificato e il mito fondativo, l’interstizio e la performati­ vità. Dunque le figure dello scienziato e del sapiente; dell’enciclopedico e del pragmatico, si mescolano e si sovrappongono: anzi, ciascuna appare proprio là dove le altre sembrano affermarsi. È appunto un tale gioco delle parti che può essere preso a cifra complessiva del metodo ejzenstejniano; ed è su di esso, esercizio di maschere, che possiamo chiudere questa nota introduttiva. FRANCESCO CASETTE

Questo volume è il terzo dell’edizione italiana delle Opere scelte di SAI. Ejzenstejn, e presenta la traduzione integrale del testo edito in Izbrannye proizvedenija v sesti tomach (IzP) (Opere scelte in sei volumi}, Mosca, Iskusstvo, 1963-1970, col titolo redazionale Montai (Il montaggio} (voi. n, pp. 329-484), a cui sono state aggiunte numerose e fondamentali integrazioni inedite. Si è potuto in tal modo ricostituire, per la prima volta, la complessa configurazione sistematica di questo decisivo lavoro sulla teoria generale del montaggio - fino a oggi conosciuto solo nella versione largamente incompleta pubblicata in /zP- che Ejzenstejn scrisse nel corso del 1937 (i primi abbozzi risalgono al 1935, la stesura ebbe inizio nel giugno 1937, il testo non fu mai completato né riordinato). Nella composizione del libro sono state adottare le seguenti convenzioni grafiche: le interpolazioni già operate dai curatori sovietici nel testo edito in IzP sono indicate dal segno < in apertura e > in chiusura. Le integrazioni inedite interpolate secondo il piano proposto dal direttore del Museo Ejzenstejn di Mosca, Naum L Klejman (che è anche l’autore della decifrazione, talora ardua, del manoscritto e che qui desidero ringraziare vivamente) sono indicate dal segno in apertura e > in chiusura. Il segno [...] indica le lacune o i passaggi incomprensibili del manoscritto. Il libro si presenta suddiviso in tre sezioni, ripartite, a loro volta, in numerosi paragrafi. I titoli della i e il sezione sono di Ejzenstejn, come anche i titoli dei seguenti paragrafi: Puskin montatore (L La battaglia con ipeceniegbi e «Pollava», 2. Palle di ghisa} e Entra una ragazza. Tutti gli altri sono stati aggiunti in base a uno schema concepito da Francesco Casetti e discusso insieme. Con questa scansione tematica si è tentato di rafforzare la coerenza del testo (che, ricordiamolo, non fu mai riordinato dall’autore), evidenziando i problemi e i concetti fondamentali che Io articolano e rispettando al tempo stesso il ritmo e la logica argomentativa della scrittura «di montaggio» ejzenstejniana: l’insieme dei titoli dovrebbe, cost, consentire anche una lettura «in verticale» (con il ritorno, la contrapposizione, l’unificazione di diverse linee teoriche e applicative). Anche il nuovo titolo del volume (Teoria generale del montaggio} è stato scelto insieme all’introduttore dopo averne ipotizzati parecchi (Montaggio ’37, Teorie del montaggio, I fondamenti del montaggio). La scelta ci è sembrata felice perché restituisce la latitudine teorica del libro e consente una precisa differenzia­ zione rispetto al prossimo volume (77 montaggio) in cui saranno raccolti i saggi più specifici dedicati da Ejzenstejn all’argomento. Le numerose citazioni - talora assai ampie - che costellano il libro, nel manoscritto sono date, pressoché di regola (con l’eccezione del Laocoonte di Lessing), in lingua originale. Nella presente edizione sono state sempre tradotte (con pochissime eccezioni giustificate dalla brevità del brano o dall’opportunità di conservare costrutti verbali che avrebbero perso pregnanza nella traduzione). Non sono state, invece, tradotte le espressioni che Ejzenstejn spesso trae da lingue diverse dal russo. La traduzione si attiene rigorósamente al testo stabilito dai curatori delle IzP e da N.L Klejman (per la parte inedita). Le note a piè di pagina sono dell’autore, quelle tra parentesi quadra (raggruppate alla fine del volume) sono del curatore. Alcuni termini originali di particolare rilevanza teorica, quelli in cui la traduzione opera una scelta significativa tra le diverse alternative possibili e quelli per i quali si è ritenuto comunque opportuno un confronto sono riportati in parentesi tonda. Per quanto riguarda la terminologia tecnica del cinema - che Ejzenstejn usa con molta libertà - si è in genere preferito tradurre letteralmente, in assenza di sicure equivalenze (così, per esempio, «obsàjpian», che definisce grosso modo ciò che oggi diremmo un «totale», qui è sempre tradotto con «piano generale»). La sequenza fotografica (realizzata con la collaborazione di Gastone Predieri dell’Associazione Italia-URSS, die ringrazio) è tratta dal primo pezzo di pellicola montato da Ejzenstejn: Il diario di Glumov ( 1923), brevissimo inserto cinematografico proiettato nel corso della messa in scena di II saggio, il celebre spettacolo teatrale ricavato dalla commedia di Ostrovskij Anche il più saggio si sbaglia. P.M.

PREFAZIONE

«Tutto è nell’uomo - tutto è per l’uomo!». Non è un caso se comincio questo lavoro con le parole immortali di Maksim Gor’kij {L'uomo). I ventanni trascorsi dalla nostra vittoriosa rivoluzione, senza prece­ denti per il loro slancio, ci hanno dimostrato la grande forza dello slogan «Tutto è per l’uomo!», stimolo per straordinarie vittorie. Questi stessi vent’anni hanno dimostrato quanto l’arte e la cultura possano arricchire questa parola d’ordine, che invece di predicare «l’arte per l’arte», «la cultura per la cultura», dice «tutto è per l’uomo», il socialismo è per l’uomo, la cultura è per l’uomo, l’arte è per l’uomo. Non meno profondo è il principio: «Tutto è nell’uomo». Soltanto in lui e da lui, solo in lui ed esclusivamente da lui, dalla singola unità-uomo e dalla comunità degli uomini-popolo, solo in lui e da lui si può attingere un’ispirazione inesauribile. Vanno e vengono scrittori, poeti, pittori. H popolo, questo grande uomo collettivo, resta. E solo chi proviene dal popolo, con il popolo e nel popolo può associarsi alla sua grande, immortale opera. Alla grande opera dell’umanità. Alla grande opera dell’uomo. Mi ritengo uno degli artisti meno «umani». La rappresentazione dell’uomo non è mai stata né il problema centrale né il fondamento delle mie opere. Per il mio temperamento sono sempre stato piuttosto un interprete del movimento di massa, sociale, drammatico; la mia attenzio­ ne creativa si è sempre concentrata più intensamente sul movimento che non su ciò che si muove. Più sui gesti e le azioni che non su chi si muove e agisce. Perciò anche l’esperienza dei miei diciassette anni di consapevole lavoro creativo è cresciuta non tanto nel campo dell’immagine (o£raz) dell’uomo nell’arte, quanto nel campo dell’immagine dell’opera d’arte stessa. Ma ciò non rappresenta per nulla una rottura col principio

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Prefazione

secondo cui «tutto è nell’uomo». Al contrario, più ci si addentra nell’a­ nalisi e nell’esame di questo campo dal punto di vista artistico, più si sente in modo profondo e urgente che anche qui «tutto è nell’uomo». E che neppure un elemento della forma autenticamente viva e realistica, neppure un momento dell’immagine dell’opera - se questa è davvero viva - sono in grado di sorgere, di nascere, di fiorire al di fuori dell’uomo e se non provengono dall’uomo o da qualcosa di umano. Se con la mia opera sono, forse, debitore di qualche cosa alla rappre­ sentazione dell’uomo - anche se non alla rappresentazione della colletti­ vità umana - possa allora questo mio lavoro sull’uomo e sull’umano nell’immagine dell’opera saldare, sia pure parzialmente, il debito. Infatti il tema principale e più profondo che percorre interamente questo studio riguarda Tuomo non solo nel contenuto e nel soggetto dell’opera, ma anche nell’immagine e nella forma dell’opera. Più esattamente, nell’am­ bito di quello stadio del processo creativo in cui l’idea e il tema della cosa (vesc) diventano l’oggetto (predinet) dell’azione e della percezione artisti­ ca [1]. «Meine Tendenz ist die Verkórperung der Ideen», dice Goethe. E questa definizione racchiude tutto il significato della creazione della forma, comprendendo in sé anche i punti estremi dello stile e dell’espres­ sione, dalla scrittura simbolica e allegorica fino al discorso frammentato che usiamo nella vita quotidiana per esprimere un’idea ed esporne in modo prosaico il contenuto con parole mozze. Esamino qui, nell’ambito di un settore specifico: inquadratura - montaggio-montaggio sonoro, i principi con cui la forma assolve a questo compito senza cadere in nessuno dei due estremi. E come un filo rosso che attraversa questo e gli altri campi in cui ci porterà l’approfondimento di singoli problemi e di alcuni fenomeni particolari, ritroveremo invariabilmente il principio secondo cui tutto il valore d’esperienza, tutto il vigore e la forza dell’e­ spressività formale della rappresentazione, come anche tutta la maestria della composizione (di cui ci occupiamo qui prima di tutto), quando siano finalizzati alla creazione di un’opera che sia davvero per l'uomo^ sono scaturiti, scaturiscono e scaturiranno sempre da tre elementi princi­ pali, fondamentali, originari: l’Uomo, l’Uomo e l’Uomo. «Tutto è nell’uomo - tutto è per l’uomo!».

7 novembre 1937 nel xx anniversario della Rivoluzione d’Ottobre

ABBOZZI PER UN’INTRODUZIONE

Lo sciocco solo non cambia, poiché il tempo non lo fa maturare, e l’esperienza non esiste per luL puSkin

Non è un caso se ho tratto l’epigrafe da Puskin. Ci siamo proposti di fare un esame complessivo dell’evoluzione del montaggio. Un esame complessivo nello spirito della migliore tradizione tedesca: con tanto di Rùckblick e Ausblick. Con lo scopo, cioè, di spiegare quali sono le fasi attraverso cui il montaggio è passato e qual è la meta verso cui ora si sta muovendo. E, cosa ancora più importante, di fissare le coordinate di questo concetto che va alla deriva, a partire dal punto in cui è arrivata oggi la sua comprensione. Se facciamo un paragone con il passato, ci troveremo davanti molte cose inaspettate. Prendiamone subito atto, ma non dimentichiamo che l’evoluzione della concezione del montaggio si svolge come una catena ininterrotta di salti di qualità rispetto a ciò che era ieri o a come appariva l’altroieri. In sostanza, una concezione attuale del montaggio inteso come una delle discipline che fanno parte in modo essenziale del metodo generale della creazione del film, può sorgere solo sulla base della chiara comprensione di come si è svolta la sua evoluzione. Sono passati da un pezzo i giorni in cui sembrava quasi che il montaggio usurpasse diritti di sovranità nel dominio dell’espressione cinematogra­ fica. Ma sbagliano anche tutti quelli che oggi si affannano a «seppellire» il montaggio, ritenendo che il montaggio sia morto solo perché nel cinema sonoro l’immagine si taglia di meno. Costoro dimenticano che stanno seppellendo una fase invecchiata, inseparabile nelle sue caratteristiche dal cinema muto. Altri, invece, vogliono continuare a vivere nella nuova fase con il bagaglio di un passato non rielaborato, anche se accuratamente emenda­ to da ogni eccesso ormai superfluo. La maggioranza, poi, non se ne preoccupa proprio, dimenticandosi di questo potente fattore artistico così intimamente connesso con la compiuta composizione del film.

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Abbozzi per un'introduzione

Il fatto è che non riusciamo a determinare con sufficiente precisione quali siano il posto e la funzione del montaggio, e soprattutto quale sia il suo nuovo aspetto nelle nuove condizioni del film sonoro (tonfil’m) [2]. D’altronde, capirlo dettagliatamente fin dalla prima occhiata non è davvero facile! De prime abord sembra che nella storia del montaggio troviamo una «triade» in sé conclusa. C’era l’inquadratura (ripresa da un solo punto). Essa fii divisa in pezzi di montaggio. I pezzi, poi sono stati di nuovo riuniti nell’interna unità dell’inquadratura. Ma è proprio questa interna unità che complica tutta la faccenda: la maggior parte delle sequenze sonore, infatti, viene ripresa da un unico punto, cosicché ci troviamo di fronte a «una sorta di restaurazione», in molti casi a una effettiva restaurazione.

Questo lavoro ha lo scopo di esporre le seguenti tesi. Un’opera autenticamente realistica, conforme al principio fonda­ mentale del realismo, deve organizzare l’espressione del fenomeno me­ diante due componenti integrate in un’inseparabile unità: la rappresen­ tazione (izobrazenié) del fenomeno e la sua immagine (oèmz), intesa, quest’ultima, come una generalizzazione {obobscenié} del fenomeno nella sua essenza. Esse sono inseparabili nella loro unità non solo come presenza, ma anche come apparizione e conversione dell’una nell’altra. Questo secondo tratto è andato perduto nell’arte cinematografica. Il nostro compito consiste nello stabilire in che modo questo elemen­ to della generalizzazione si realizzi in tutte e tre le fasi della storia del cinema: nella ripresa da un unico punto, in quella da diversi punti che si susseguono e nel film sonoro. Per il cinema della ripresa da un unico punto, si tratta della composi­ zione plastica. Per il cinema della ripresa da diversi punti, si tratta della composizio­ ne di montaggio. Per il film sonoro, si tratta della composizione musicale. Questa tesi ci prospetta la riflessione sul problema del montaggio da un’angolazione nuova. Le «origini» del montaggio si trovano nella com­ posizione plastica. Il «futuro» del montaggio sta nella composizione musicale. In tutti e tre gli stadi troviamo identiche regolarità. Questa tesi ci offre la possibilità di tracciare un’originale storia delle t rasformazioni del montaggio, che ci appare secondo tre aspetti qualitati­ vamente diversi in corrispondenza con le tre fasi dell’evoluzione del cinema. Nella composizione plastica a giocare il «ruolo» del montaggio sarà la

Abbozzi per un’introduzione

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combinazione della generalizzazione compositiva secondo la rappresen­ tazione con la rappresentazione stessa, cioè l’adeguata «distribuzione» (sorazmescenie) della composizione e il «profilo» generalizzato della rappresentazione. Nel secondo stadio è il montaggio ad assumere il ruolo della genera­ lizzazione (si tratta, cioè, di manifestare un atteggiamento nei confronti del fenomeno che prende forma in forza dell’esperienza di una serie di fenomeni analoghi, verificata su basi di classe). Il «ruolo» del montaggio nel film sonoro consiste principalmente nella sincronizzazione interna della rappresentazione e del suono. Dove la rappresentazione è intesa, come nel primo periodo, in modo non formale, ma in quanto trae origine dall unità semantica (smyslovoj} dell’immagine, trovandosi così in una condizione uguale a quella defia composizione plastica generalizzata. Ciò si può ottenere in pieno solo nel cinema a colori. Quest’ultima considerazione pone il problema del film sonoro come arte sintetica. Alla fine verrà esposta l’idea secondo cui l’uomo vivo, la sua coscien­ za e la sua attività, non costituiscono solo il fondamento di ciò che è riflesso nel contenuto (della rappresentazione) del film, ma anche il fondamento dei principi formali e delle leggi che presiedono alla costru­ zione dell’oggetto (dell’immagine generalizzata dell’opera) [3]. Inoltre, in frammenti e singoli studi su singoli problemi, affrontere­ mo un’analisi dei problemi del montaggio nei successivi stadi dell’evolu­ zione del cinema. Se è vero che questi problemi non sono ancora giunti (sia pure per il momento!) a un grado definitivo di generalizzazione cosa che cerco qui di ottenere - è anche vero che ha un senso e un’utilità conoscerli e padroneggiarli anche solo come questioni riguardanti singoli compiti all’interno di un ambito generale. D’altronde, un’autentica presa di coscienza di ciò che deve essere fatto è possibile solo sulla base di una solida conoscenza di ciò che è già stato fatto nel passato recente e remoto. Rigorosamente parlando, questo non è un libro sul montaggio. Fon­ damentalmente - nei limiti delle forze e delle capacità dell’autore questo libro cerca di spiegare come, nel singolo ambito di un’opera, nella sua composizione e nei metodi di questa, sia necessario esprimere l’ele­ mento della rappresentazione contemporaneamente a quello dell’imma­ gine generalizzante, e come sia indispensabile che entrambi questi ele­ menti siano indissolubilmente uniti e penetrino l’uno nell’altro. Il libro dimostra tutto questo scegliendo, nell’ampia varietà dei

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Abbozzi per un’introduzione

problemi che riguardano il film, un settore limitato relativo a un proble­ ma specialistico del cinema: la questione del montaggio e quella, strettamente connessa, dell’inquadratura. Ora, poiché non è mai stato scritto niente sul montaggio partendo da un simile punto di vista, o meglio si è forse scritto, ma non con una tale scrupolosità, questo libro - sempre parlando molto rigorosamente - è, nonostante tutto, un libro sul mon­ taggio. Per la sua problematica, è addirittura un libro necessario, perché pur analizzando la questione non proprio fino in fondo, e senza nemmeno tentare di esaurirne tutti gli aspetti, pone, tuttavia, uno dei problemi essenziali nell’ambito della composizione cinematografica audiovisiva: precisamente il problema della rappresentazionalità (izobrazitel’nosf) e delTimmaginità (obraznost*) [4]: un problema che si estende ben oltre i limiti del montaggio e della cinematografia in generale. Affrontare questo problema appare oggi un fatto particolarmente importante: infatti, non solo il cinema ha perso esperienza e maestria in questo campo rispetto all’epoca della sua fase muta, ma anche la condi­ zione della maggioranza delle arti limitrofe è tale, in questo momento, che esse non possono offrire al cinema quasi niente. È questo uno dei motivi per cui, nelle digressioni documentarie, dovrò, purtroppo, servirmi abbondantemente di esempi tratti dalla storia della letteratura e dell’arte e assai meno di materiale attuale. Sembra, infatti, che ciò di cui intendo scrivere sia andato in gran parte perduto al giorno d’oggi. Non mi addentro nell’analisi e nella critica di questa circostanza: devo dire però che è proprio questa condizione che mi ha stimolato a scrivere il libro e a inoltrarmi in profondità nella natura di quel particola­ re fenomeno sul quale si fonda la mia analisi del problema. E forse alla fin fine, procedendo lungo questa linea, il nostro innocuo «trattato accademico», dedicato a un problema molto specifico, interno a un settore altrettanto specifico dell’arte, sfiora già una questione assai più generale. E il «trattato» stesso, nonostante la sua inoffensività, in fondo è a modo suo incisivamente polemico.

Potrà stupire il «circolo dei miei lettori fedeli» la massa di citazioni che questo lavoro riserva... al sistema di Stanislavskij. E abbastanza noto che durante i miei diciassette anni di ricerca teorica nel campo dell’arte, paralleli al mio lavoro creativo, mi sono sempre occupato proprio di quel settore che il sistema di Stanislavskij quasi non tocca, o in ogni caso non analizza e non chiarisce sul piano

Abbozzi per un’introduzione

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teorico con La stessa accuratezza dedicata al lavoro dell’attore. Mi riferisco ai problemi inerenti le leggi della composizione, alla costruzione dell’oggetto [5] e dei suoi singoli elementi, e al problema della forma in generale (per non parlare della questione della forma cinematografica). Nel libro in cui Stanislavskìj espone particolareggiatamente il sistema - perlomeno nell’edizione inglese An actor prepares, che è uscita prima e che ho adesso tra le mani [6] - ai problemi della forma sono dedicate letteralmente due righe. Non si tratta di un caso, ma di un orientamento consapevole nella scelta del settore su cui principalmente si concentra l’attenzione dell’au­ tore del sistema [...]. Ma c’è di più. È infatti altrettanto noto che la mia crescita artistica e la mia evoluzione creativa si sono sviluppate non solo in un altro campo ma, anche dal punto di vista dell'orientamento, in tutt’altra direzione (o, come dicevamo una volta, «su un altro fronte») rispetto al teatro diretto da Stanislavski]. Dunque non c’è stato tra noi alcun punto in comune, né per quanto riguarda l’orientamento, né per quanto riguarda i settori di ricerca. Questi settori procedevano come cerchi concentrici al cui centro si trovava, in un caso, l'uomo in azione, e nell’altro l'attiva costruzione dell'opera, in cui l’uomo appariva solo come uno (il principale) dei fattori (ma non sempre!). Inoltre, si trattava in un caso del campo della recitazione nel teatro, e nell’altro della composizione nel cinema. Tanto più interessante sarà rilevare ora come i presupposti delle leggi proprie del nostro campo (e del nostro approccio) richiamino in misura ragguardevole, passo dopo passo, analoghi presupposti del sistema di Stanislavski] sulla recitazione dell’attore. In realtà ciò non dovrebbe meravigliare, dal momento che questi e altri presupposti concettuali derivano in pari misura da un’unica sfera comune, sicuramente decisiva per l’arte in tutti i suoi aspetti e particola­ rità. Dalla sfera... Del resto, quale sia questa sfera per il sistema di Stanislavski], lo sanno tutti. E che, in definitiva, la stessa sfera sia la fonte principale da cui trae origine la cultura della forma (e della forma cinematografica più di qualunque altra) cercheremo di dimostrarlo nel corso di questo lavoro, quando arriveremo alla questione del film sonoro come modello di arte sintetica. L’abbondanza delle citazioni con cui mi permetto di costellare il

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Abbozzi per un'introduzione

materiale della mia ricerca ha due motivi. In primo luogo, il materiale con cui mi propongo di lavorare appartiene a campi piuttosto diversi e abbastanza specialistici, e quindi è meglio affrontarlo attraverso defini­ zioni formulate, appunto, da specialisti. In secondo luogo, si riflette qui, forse, anche la scrittura «a montaggio» propria della mia maniera stilisti­ ca nel cinema: con la minima deformazione degli oggetti da cui è formata l’immagine di montaggio. Mi sembra importante, inoltre, presentare questo materiale con la massima obbiettività, senza alcuna tendenziosità e nei limiti del possibile, senza alcuna rielaborazione «compiacente», volta a legittimare principi preconcetti che fossero alla base delle tesi che intendo esporre. Come nelle inquadrature, in cui cerco di estrarre e mettere in luce ciò che va nella direzione che mi interessa basandomi solo sull’illuminazione e sul punto di vista rispetto al materiale, così anche qui cerco di interferi­ re il meno possibile con la natura di fenomeni di cui non sono propria­ mente specialista, e preferisco che intervengano a illustrarli i loro più autorevoli rappresentanti. In questa situazione il mio compito consiste soltanto nel dare una scansione e nel fare una scelta compositiva. Il quadro generale ci guadagnerà nella persuasività della sua visione d’in­ sieme. Ciò che mi attrae di più non è l’originalità, ma l’universalità delle tesi esposte. Per il resto, mi attengo all’affermazione di un francese della vecchia generazione: «Il n’appartient qu’à ceux qui n’espèrent jamais ètre cites, de ne citer personnel» (Gabriel Nandé).

IL MONTAGGIO NEL CINEMA DELLA RIPRESA DA UN UNICO PUNTO

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La composizione dell’inquadratura

Nella fase delle più serie ricerche sulla composizione, il cinema sembra essersi orientato quasi esclusivamente sui problemi delT«insieme» (dell’oggetto nella sua totalità) e del montaggio, dedicando un’atten­ zione assai minore all’elaborazione delle questioni connesse con il pro­ blema della composizione dell'inquadratura, che fu lasciato quasi come un edifìcio isolato lungo la «strada del montaggio». L’analogia qui è molto più profonda di una semplice somiglianza esteriore. Anche se, per qualcuno, si tratterebbe di una semplice «ine­ zia». Ma il fatto che nell’inquadratura ci sia «rumore» (con parole nostre: che gli oggetti siano aggregati senza un principio), che i suoi elementi siano «disposti male» e che quindi, parallelamente, l’occhio dello spetta­ tore ci stia «scomodo» (anche se non può lamentarsene se non allonta­ nandosi dall’inquadratura insoddisfatto o meno appagato di quanto avrebbe potuto essere!) è del tutto evidente nel cinema. L’insuccesso su questo piano, d’altra parte, si riflette incisivamente se non proprio sulla capacità di lavoro dello spettatore, almeno sulla chiarezza e facilità della percezione e sulla profondità con cui viene afferrato e vissuto il tema dell’opera. L’imprecisione compositiva è responsabile di uno spreco sproporzionato di energia psichica nella percezione, e priva lo spettatore di una comprensione più profonda e generale delle idee e dei pensie­ ri dell’opera. Ciò significa che lo spreco di energia psichica coin­ volge indirettamente quella stessa capacità di lavoro di cui si è già detto. In questo senso la composizione non è affatto una «inezia», ma uno degli strumenti attraverso cui viene affrontato, all’interno stesso dell’o­ pera d’arte, il problema dell’uomo, cioè il problema della chiarezza, precisione e pienezza della sua percezione secondo la massima economia

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percettiva1. Il problema della composizione all’interno dell’inquadratura fu risol­ to così: una volta stabilita la connessione per stadi di inquadratura e montaggio (cfr. il mio articolo Oltre l'inquadratura del 1929) [7], si concluse che l’esperienza acquisita nell’arte del montaggio, conveniente­ mente rielaborata, può essere trasferita senz’altro nell’ambito della cul­ tura dell’inquadratura. Ma se è vero che sul montaggio fu fatto anche un grosso lavoro pratico di ricerca su un campione molto ricco di film degli autori più diversi, nel campo dell’inquadratura sono mancate del tutto le ricerche specialistiche. Questo non vuol dire, tuttavia, che non è stato fatto proprio niente nel campo dell’inquadratura! H concetto di compo­ sizione di montaggio è inseparabile dalla composizione dell’inquadratu­ ra, l’uno non può esistere senza l’altra. Mentre, però, il montaggio è stato ingegnosamente elaborato sia dal punto di vista della composizione sia da quello della ricerca, il problema dell’inquadratura veniva compreso in questa tematica generale come se fosse «di per sé già chiaro»: non ci si soffermava troppo a rifletterci sopra.

Da questo punto di vista è rilevante il fatto che il principio del cinema non è altro che una riproduzione in termini di pellicola, metraggio, inquadratura e ritmo di proiezione, di un processo indispensabile e profondamente originario che caratterizza in generale la coscienza fin dai suoi primi passi nell’assimilazione della realtà. Mi riferisco alla cosiddetta eidetica. La realtà esiste per noi come una serie di scorci e di immagini. Senza l’eidetica non potremmo mai coordinare in un’immagine unitaria tutte queste «istantanee» degli aspetti particolari dei fenomeni. [...] Ne deriva anche la diversità dei risultati pratici ottenuti seguendo la via e il metodo di Skrjabin da quelli ottenuti seguendo il metodo e il percorso della cinematografìa. Non si tratta soltanto di una differenza tra uno stile individuale, nel primo caso, e un presupposto estetico della forma cinematografica, nel secondo. Si tratta anche del fatto che il secondo caso è destinato ad aver a che fare con un patrimonio proprio dell’uomo, con un raggio d’azione di dimensioni umane, con i limiti della coscienza e dei sentimenti umani, senza sconfinare, come fa Skrjabin, nella sovrasensibilità e nell’iperqoscienza, dove si finisce inevitabilmente nella mistica e nel solipsismo. Così, una differenza quasi impercettibile nella determinazione del punto di partenza, sviluppandosi, porta a un’opposizione polare di programma e di sistemi. Esaminiamo in modo più particolareggiato questa «cellula» della opera cinematografica così come la concepiamo adesso. Da che cosa è

Dai fotogrammi all'immagine del movimento

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caratterizzata? In essa sono presenti molto chiaramente due funzioni. La prima riguarda la rappresentazione, l’altra l’atteggiamento nei confronti di questa rappresentazione o, più esattamente, nei confronti di una serie di rappresentazioni in sequenza. La prima trova posto per intero nella pellicola, la seconda nella percezione visiva. La prima fornisce una serie di fotografìe immobili, la seconda istituisce una immagine di movimento che scorre lungo tutta la serie. Che le cose stiano proprio così ce lo conferma anche il più elementare requisito delle condizioni necessarie alla percezione, senza le quali non si ottiene la sensazione di un normale movimento. Un cane, un gatto, una lince o un daino possono muoversi davanti a noi con qualunque tempo o ritmo: noi recepiremo comunque la loro attività come un movimento reale, Ma appena la macchina da presa si allontana dal tempo di ventiquattro unità, la percezione della immagine reale del movimento viene annullata: essa può scindersi in fasi non più riconducibili all’unità di un processo oppure, eliminando la sensazione di intervallo fra i fotogrammi, smettere di essere percepita come movimento per via dell’eccesso opposto (immaginatevi una cine­ presa super-rapida che a una velocità fantastica riprende il lento sollevar­ si di una mano per dieci centimetri!). In questo caso non è il fenomeno in sé che viene deformato, ma il modo in cui questo fenomeno è elaborato dal tempo della macchina da presa, per cui viene percepito dalla nostra coscienza come una diversa immagine del fenomeno. Nel campo della rappresentazione plastica si può ancora discutere su questo fatto: è possibile, cioè, leggere un movi­ mento rallentato come un movimento «normale» (come una normale immagine del movimento) posto in «condizioni anormali» - lo stesso termine «lentezza» presuppone la presenza nella nostra coscienza di una norma temporale da cui il movimento si è allontanato. Ecco perché, per esempio, i movimenti accelerati fanno ridere in un cinegiornale, ma non fanno ridere quando si trovano, diciamo, in un qualche episodio di elevato attivismo nel corso di una scena di massa. In questo caso, infatti, la loro deformazione secondo l’immagine, contrapposta alle semplici condizioni realistiche, corrisponde al tema, proprio dal punto di vista dell"immagine, molto più di una semplice rappresentazione realistica! (Ognuno di noi sa quanto siano più convincenti i brani degli attacchi di cavalleria quando sono ripresi più lentamente, e quindi proiettati sullo schermo a maggiore velocità). È interessante, per contro, che il medesimo fattore temporale risulti assolutamente decisivo per il mutamento dell’immagine sonora. A tutti è noto che il rallentamento o l’accelerazione della proiezione del suono

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Il montaggio nel cinema della ripresa da più punti

creano un fenomeno che non è paragonabile al caso dell’accelerazione o rallentamento della rappresentazione visiva. Le parole non diventano parole pronunciate più velocemente o più lentamente, diventano più alte opiù basse nel tono. L’immaginé del fenomeno, cioè, è cambiata in modo molto più radicale di quanto non accada per la rappresentazione visiva. Un tenore che scivoli nel basso per la nostra percezione, rappresenta una deformazione dell’immagine assai più forte del movimento rallenta­ to di un salto. Il movimento rallentato di un salto si interpreta come un salto mostrato in altre condizioni,.. Mentre un basso al posto di un tenore si interpreta come un’ara voce1. Non bisogna pensare che si tratti di una deformazione dell’immagine esclusivamente soggettiva, che riguarda solo l’azione della nostra coscienza. I tempi riorganizzano anche oggetti­ vamente l’immagine dell’opera, sebbene alcuni elementi della rappresen­ tazione restino invariati (nel caso di un mutamento della velocità di proiezione). Ma è evidente che basta che le condizioni temporali deroghino dall’unica norma possibile in cui il fenomeno psicologico del movimento cinematografico può prodursi nell’ambito deUa nostra coscienza, perché questo stesso fenomeno si disgreghi.

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Il montaggio di più inquadrature

Così due fotogrammi posti l’uno accanto all’altro svolgono due funzioni: la rappresentazione e la generalizzazione di questa rappresen­ tazione nell’immagine del movimento. Ciò riguarda il primo stadio del cinema che stiamo descrivendo. Qui non c’è neppure una «registrazio­ ne» della coscienza. H processo viene come «inghiottito», e non c’è forza che, nelle condizioni di una normale proiezione, potrebbe costringervi a leggerlo come qualcosa di discontinuo. La prima condizione delle due funzioni si conserva anche al secondo stadio: nel montaggio cinemato­ grafico. Quando, cioè, non abbiamo più a che fare con due fotogrammi che formano un’inquadratura, ma con due (o più) inquadrature che costruiscono un movimento di montaggio. Degli zoccoli che galoppano, la testa di un cavallo che corre, la groppa di un cavallo che fògge. Sono tre rappresentazioni. E solo dalla loro unificazione nella coscienza sorge il senso dell’immagine del galop­ po di un cavallo. Qui è interessante che, anche per lo «spettatore ordinario», come si dice, questi pezzi risultino fusi insieme. Anzi, «vede­ re» la scena secondo la successione dei pezzi di montaggio per un non professionista è quasi impossibile e richiede un addestramento specifico. Io stesso ricordo quanta fatica mi sia costato, all’inizio della mia carriera cinematografica, imparare a vedere sullo schermo la scena, per dire, in cui Fairbanks spegne una sigaretta, non come un’unica azione, ma professionalmente, cioè «in tutti e tre i pezzi di montaggio»: 1) piano medio - si toglie la sigaretta di bocca, 2) primo piano - la mano spegne la sigaretta nel portacenere e 3) tagliato alle ginocchia - dopo aver gettato la sigaretta Douglas si alza dal tavolo! In questo caso con uno sforzo relativamente piccolo è già possibile differenziare le due funzioni: si possono cioè leggere le tre successive rappresentazioni... successivamen­ te, e si può percepire la-totalità dell’immagine dell’avvenimento. Vale la pena di osservare che qui non c’è nessuna differenza di principio rispetto a quanto abbiamo detto a proposito della «maniera» di Daumier. Secon­ do la legge della pars pro tota ogni primo piano dà l’idea di tutta l’azione del soggetto. E, in sostanza, i tre frammenti del cavallo (gli zoccoli, il muso, la groppa) riproducono a un livello qualitativo più alto ciò che sarebbe avvenuto con tre fotogrammi successivi che avessero fissato le tre fasi corrispondenti della corsa del cavallo ripreso in un piano genera­ le. Ma lo stesso incremento qualitativo riguarda anche l’intensità della percezione: un più alto grado di intensità dell’attività psicologica è dovuto al fatto che qui non si tratta di tre diverse pose del cavallo che si

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fondono in un unico movimento, ma di tre differenti immagini del galoppo di un cavallo, evocate da tre diversi dettagli, che si unificano nella forma di un'unica immagine di cavallo al galoppo. Il fattore tempo è decisivo anche qui. Giocano un ruolo importante non solo i tempi interni al pezzo, ma anche la durata del pezzo stesso. Ma non è un tempo «fatale», è un tempo che si trova relativamente nelle nostre mani. Ci sono dei limiti all’interno dei quali si realizza il fenomeno della fusione dei pezzi di montaggio nell’immagine del movimento. E anche qui ci trovia­ mo come con dei fotogrammi al microscopio! Nella terza fase abbiamo una situazione ancora più marcata. Se prendiamo ad esempio La tremenda sciagura ferroviaria di John Phoenix (cfr. sopra) tradotta in inquadrature - la dentiera in primo piano, il vagone capovolto, la locomotiva ritta «sul didietro» - vediamo che qui c’è, forse, l’estremo opposto: si richiede già un certo sforzo della coscien­ za per unificare questi elementi e non solo per cogliere l’immagine attraverso i sensi, come nel caso del cavallo al galoppo, ma per realizzare da questi tre frammenti l’intera immagine della catastrofe. I «tempi» qui sono pressoché fuori gioco. La separazione in due processi è quasi più evidente della fusione in uno! E chiarissimo che la cosa andrà avanti così. Ogni singola scena di montaggio degli episodi di una battaglia costituisce - in sé - w? immagine di lotta, ma in quanto rappresentazione delle parti della battaglia nella sua totalità, ciascuna scena, correlandosi con le altre, darà un’idea, un’immagine generalizzata della battaglia. Attraverso gli elementi di ciò che viene rappresentato sorgerà davanti allo spettatore un senso più ampio e non rappresentabile: l’immagine generalizzata, l’idea, la generalità. Quest’ultima, per il suo contenuto, va oltre i limiti della rappresentazione di un evento, verso le condizioni del senso generalizza­ to e dell’idea di quell’evento; così, sia dal punto di vista della sua relazione con lo spettatore, sia dal punto di vista della forma dell’opera, l’immagine va oltre i limiti della sua stessa dimensione fondante. Abbiamo già affrontato questo problema riferendoci alla composi­ zione plastica. Quali erano state le nostre conclusioni? In quel caso avevamo superato i confini della rappresentazione con una «distribuzio­ ne degli oggetti della rappresentazione» (o del colore, o dei volumi ecc.) di tipo compositivo-spaziale e sovraordinato secondo un orientamento, tale da implicare a qualunque livello una generalizzazione metaforica (cfr. la faccenda dell’insegna-ciambella), e'da risolversi infine in una generalizzazione grafica dello schema del contenuto in un profilo compo­ sitivo. Ora, quésto stesso problema, non riguardando più la «rappresen­ tazione» all’interno dell’inquadratura, comporterà una «distribuzione»

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compositiva appropriata delle inquadrature, cioè dei pezzi di montaggio, nel tempo. Una contrapposizione della spazialità del primo caso con la tempora­ lità del secondo sarebbe assolutamente fuori luogo. Infatti in un quadro una disposizione spaziale che non sia studiata anche in vista di una determinata successione di percezioni non ha niente a che fare con la composizione. D’altra parte, una sequenza di montaggio che non crei contemporaneamente il senso dello spazio e dell’ambiente è altrettanto lontana da quello che deve essere la composizione nel cinema. (E la cosa vale anche nei casi in cui la composizione di montaggio deve fare a meno di un’unità territoriale).

Nello stadio che stiamo esaminando, il «profilo» unificante, che produce lo schema generalizzato - vorrei dire il più generalizzato possi­ bile - e delimita la lettura trasposta del contenuto e del tema, sarà costituito dalla «messa in scena» dell’altemarsi dei punti di vista sul fenomeno. Nell’esempio del ritratto dell’ErmoIova abbiamo già gettato un piccolo ponte tra la composizione plastica e la composizione di montaggio. Abbiamo visto che ogni messa in scena può essere duplice: rappresentativa e metaforica. Finora abbiamo operato solo con il proble­ ma degli oggetti e del modo in cui mostrarli: non abbiamo parlato ancora

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né dell’ordine, né della durata, né della sequenzialità. Ci siamo occupati solo del «soggetto», solo dei materiali narrativi. Non abbiamo parlato ancora della forma-montaggio. Possiamo dire, perciò, che finora abbia­ mo operato con un’inquadratura rappresentativa e con un montaggio non meno rappresentativo, sebbene sia più esatto definire il montaggio rappresentativo-narrativo: anche il racconto è una rappresentazione del fenomeno, disposta però in un ordine sequenziale. Abbiamo visto che persino il montaggio rappresentativo (narrativo) è già una condizione.di generalizzazione in rapporto all’inquadratura, un elemento di un’altra dimensione. Ma la natura stessa del montaggio deve contemplare la possibilità di generalizzazioni ancora più potenti. Solo da questo momento si può parlare propriamente dèi problema della forma-montaggio. Cioè del sistema di immagini del montaggio. Prendiamo un esempio molto chiaro e abbastanza vivo nel ricordo di ognuno: la sparatoria sulla scalinata di Odessa nella Corazzata Potèmkin. Questa scena lasciò a suo tempo una forte traccia nella coscienza e nella sensibilità emotiva degli spettatori - si può dire di quasi tutto il mondo non perché la sparatoria da parte dei soldati sui cittadini mossi dalla passione rivoluzionaria fosse mostrata a lungo, dettagliatamente o in modo «impareggiabile» nella sua crudeltà. Questa scena non deve il suo effetto indimenticabile ai dettagli della messa in scena della sparatoria o alla messa in scena del percorso della macchina da presa nel vivo della sparatoria. Se esaminiamo la massa di cose che sono state scritte in tutte le lingue su questo film e su questa scena in particolare, vediamo die la sua forza stava interamente nel senso generalizzato di un regime oppressi­ vo che si sprigiona in tutta la sua potenza dal caso singolo di una sparatoria eseguita da un plotone di soldati col fucile imbracciato contro cinquecento persone che fuggono e si precipitano giù per una ripida scalinata di una città di mare. Questo senso nasce da una rappresentazio­ ne, ma va al di là dei suoi limiti. Anche per i mezzi con cui è realizzato va oltre i limiti della rappresentazionalità. Oltre i limiti delle singole sceneinquadrature, ma anche oltre i limiti della funzione narrativa del montag­ gio che, servizievole, mostra allo spettatore ora un angolo del dramma, ora un altro, ora improvvisamente lo mette di fronte, con un piano generale, al quadro completo del sanguinoso massacro sulla scalinata. Il sentimento di generalità, l’immagine di un regime oppressivo, ottuso e mortifero scaturisce da mezzi di azione espressiva non meno generalizza­ ti, che prendono sulle proprie spalle e rendono «più suggestiva» la rappresentazione dell’evento.

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La generalizzazione, proprio in quanto va oltre i limiti della rappre­ sentazione, non può non ricorrere a mezzi che a loro volta siano fuori dell’ordinario. Anche un teatro così realistico come il mchat, intitolato a Gor’kij, non potè non avvertire questa necessità di uscire dai limiti della rappresentazione quando, nella messa in scena del Revisore, volle resti­ tuire in tutta la pienezza del suo significato generalizzato la frase di Gogol’ messa in bocca al governatore: «Di chi ridete? Ridete di voi stessi!». Volendo spingere il senso di quel messaggio oltre i limiti del gruppo di personaggi che circondano il governatore, non si poteva lasciare che la frase venisse pronunciata all’internodello stesso ambiente in cui si era svolta l’azione del dramma. Così, nel realistico Teatro d’arte, l’attore Moskvin esce dai confini dell’azione scenica e lancia queste parole in sala, appoggiando un piede sulla buca del suggeritore!!! Come è raggiunto nel nostro esempio l’effetto per cui la generalizza­ zione si sposta oltre i limiti della rappresentazione? Più esattamente, quale elemento dell’insieme dei mezzi di azione espressiva del nostro esempio svolge questa funzione di ultima ed estrema generalizzazione?21 Non l’aspetto narrativo del montaggio, ma il ritmo del montaggio. Infatti, il ritmo della scena è senz’altro l’ultima ed estrema generalizza­ zione in grado di contenere il tema, mantenendo un legame di sangue con l’evento e nello stesso tempo allontanandosene al massimo, senza lacerare la sua trama, ma elevandolo fino alla soglia superiore di ima concreta generalizzazione (senza sprofondare in «astrazioni cosmiche»). Il ritmo in quanto rappresentazione integralmente generalizzata del processo interno del tema; in quanto grafico dell’alternanza dei momenti contraddittori interni alla sua unità. Abbiamo già toccato superficialmente questo punto nella parte pre­ cedente, quando nel profilo compositivo abbiamo distinto due funzioni: la generalizzazione della rappresentazione e il ritmo con cui viene deli­ neato l’atteggiamento verso ciò che si generalizza. Ora, quella particolare «messa in scena» che consiste nell’infìlare uno dietro l’altro i pezzi di montaggio, diventa qualcosa come una linea di contorno che si forma a un nuovo livello qualitativo, e il cui ritmo come nella fase precedente - costituisce, in uguale misura, il limite della generalizzazione «in immagine» dell’idea incarnata nella rappresentazio­ ne. Infatti, questa stessa linea - il «profilo» in un caso, il «percorso del movimento dei pezzi di montaggio» nell’altro - è l’ultimo stadio della generalizzazione per quanto riguarda la distribuzione dei pezzi. 21 Senza per questo «catapultarsi» nel «cosmo».

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Nella collocazione dei pezzi la linea è tracciata dal percorso della percezione visiva di cui abbiamo già parlato. Nella linea questo percorso è una semplice traccia. Nell’uno e nell’altro caso sono presenti tutti e tre gli stadi possibili. La linea può essere puramente figurativa: il profilo caratteristico dell’oggetto! Può essere semi-figurativa: metaforica. Come la metaforica insegna a forma di ciambella, «fatta a pezzi» dalla metafora compositiva. La linea può essere, infine, una «pura» espressione della dinamica del tema, attraverso il ritmo delle sue articolazioni. Il processo va dalla metafora, cioè dalla rappresentazionalità della distribuzione dei pezzi, verso il ritmo della distribuzione, cioè verso la generalizzazione. tì ritmo della distribuzione degli elementi infatti è la condizione fondamentale di una generalizzazione che si esprime nella linea e nella composizione degli oggetti e che appare di gran lunga più compiuta di quella che si potrebbe ottenere limitandosi all’eterogeneo e transitorio anello della metafora, che da un momento all’altro potrebbe tirar dritto fino a scivolare nell’allegoria o appiattirsi in simbolo!

Anche in questo caso, come sempre, è in gioco un fenomeno comu­ ne, proprio di qualunque comportamento, che nell’arte è semplicemente portato al massimo grado di intensità e posto in condizioni di finalizza­ zione creativa. La piena obbiettività nel riprodurre un fenomeno, soprat­ tutto se esso ci colpisce emotivamente, non è consentita alla natura umana. Ogni percezione a modo suo sposta gli accenti e sottolinea diversi elementi del fenomeno (evidenziando i suoi «primi piani», a differenza di altri possibili), giungendo al punto di eliminare intere parti dell’evento, interi anelli del processo. E sufficiente confrontare le dichia­ razioni di alcuni testimoni di uno stesso avvenimento per convincersi del

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fatto che la scelta delle inquadrature tratte da un evento e la loro combinazione di montaggio in un quadro unitario dell'accaduto, risulta essere non solo per ognuno diversa da quella degli altri, ma perfino contrastante! Tanto che ne è derivata la frase: «mente come un testimo­ ne». Su questo fatto è costruito un interessante racconto che si trova nella raccolta postuma di novelle di G.K. Chesterton, The paradoxes ofMr. Pond, London 1937. Un uomo viene accusato in base al fatto che, nella stessa sera, aveva dato a tre donne tre informazioni completamente diverse su dove avreb­ be passato la serata. Mr. Pond riesce a dimostrarne l’innocenza provan­ do che costui ha realmente un alibi, poiché in realtà ha detto a tutte e tre le donne esattamente la stessa cosa. Ma dalle sue frasi ogni donna si era costruita una propria, diremmo noi, «concezione di montaggio». E queste tre diverse concezioni nascevano dal fatto che ciascuna delle tre donne era stata colpita emotivamente in modo diverso e da una parte diversa del suo discorso. (The Crime of captain Gahagan). Ma sarebbe del tutto sbagliato concludere con una sopravalutazione dell’#tteggiamento individuale nell’arte e ricondurre tutto esclusivamente a questo nei casi in cui non è più soltanto in gioco un comportamento psicologico, ma il presupposto della creazione della forma artistica! [...]

L’origine del montaggio al cinema: l’assenza del corpo vivo Qui noi tocchiamo con mano il nervo principale: perché sia sorto e si sia sviluppato un sistema di pensiero «di montaggio» connesso col cinema. Ho affrontato questo problema proprio all’inizio del mio lavoro nel cinema (1924), cercando di riflettere per me stesso su questo fenomeno. L’ho sondato anche nel teatro (cfr. a questo proposito il mio articolo La media delle tre nel numero commemorativo di Sovetskoe Kino del 1935). Ne ho anche parlato molto estesamente nella mia relazione all’università di Yale negli usa (nell’estate del 1930) [55]. In che consiste questo segreto? Dove sta questo nervo? La questione sta precisamente nel fatto che nel cinema abbiamo a che fare non con Y evento ma con Y immagine dell’evento. L’evento, osservato da un unico punto, resterà sempre la rappresenta­ zione di un evento e non ci darà il senso di un evento capace di suscitare in tutta la sua pienezza la nostra capacità di riviverlo. In teatro, per esempio, anche se convenzionalmente, anche se relati-

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vomente, davanti allo spettatore si svolge «di fatto» un avvenimento almeno fisicamente reale. Si tratta di uomini, e non di ombre. Di voci che, pur se di attori, restano comunque le voci dei personaggi rappresen­ tati. Di azione effettiva. Non è così nel cinema, dove non c’è alcuna realtà fìsica, ma solo riflesso e ombra grigia. Per compensare Vassenza della cosa principale - il rapporto vivo e immediato dell’uomo in sala con l’uomo sulla scena - il cinema deve cercare altre vie, altri mezzi, diversi da quelli usati in teatro. E evidente che un avvenimento ripreso «in modo teatrale» non può funzionare sullo schermo. Recitare anche in modo ideale una scena di fronte a una macchina da presa e poi mostrarla sullo schermo non potrà mai dare risultati paragonabili per intensità a quelli che otterremmo dalla recitazione di uomini in carne ed ossa e non dal loro riflesso sullo schermo. Supponiamo che si tratti di una scena di omicidio. Ripresa in un unico «piano generale», avrebbe il venticinque per cento dell’effetto che potrebbe produrre a teatro. Come stanno le cose? Proviamo a rappresentarla in modo diverso. Spezziamola in primi piani e piani medi. In una serie corrente del tipo «mani che afferrano la gola», «occhi che escono dalle orbite», «dita che estraggono il coltello dalla cintura», «occhi feroci», «occhi atterriti» ecc. Questi pezzi, «conve­ nientemente» montati, opportunamente scanditi secondo il ritmo neces­ sario, figurativamente correlati, nel loro complesso possono raggiungere al cento per cento l’effetto che avrebbe la stessa scena in un’azione continua come in teatro e che invece sarebbe precluso a una rappresenta­ zione della stessa scena girata da un unico punto in un «piano generale». Dove sta la differenza? Già nel 1924 ho scritto che per il cinema non ha senso rincorrere le opere teatrali [56]. Che i limiti della teatralità il cinema li deve superare con i suoi propri mezzi. Una lotta ripresa da un unico punto in un «piano generale», resterà sempre la rappresentazione di una lotta, e non esprimerà mai il senso della lotta, cioè qualcosa che si può esperire come possiamo esperire la lotta di due uomini vivi che realmente (anche se apposta) si battono davanti a noi. In che cosa differisce una lotta costituita da diverse parti, che pure rappresentano una lotta, se non per intero, a pezzi?! In ciò: che queste parti separate funzionano non come rappresenta­ zioni, ma come stimoli che provocano associazioni. Questo processo è favorito proprio dal fatto che si tratta di parti che chiamano l’immagina­ zione alla ricostruzione del tutto, attivando con ciò in modo straordina­ rio il lavoro del sentimento e dell’intelletto dello spettatore.

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Ne risulta che sullo spettatore non agisce una catena di spezzoni di uomini e di avvenimenti, ma un universo di avvenimenti e uomini reali, richiamati in vita nella nostra immaginazione e nei nostri sentimenti da dettagli allusivi consapevolmente correlati. Inoltre, dal punto di vista dello sviluppo dell’evento stesso, voi siete coinvolti nella sequenzialità del processo, nel suo svolgersi, nel movi­ mento della sua formazione - a differenza di ciò che accadrebbe in una percezione dei risultati della scena quale sarebbe quella data da un piano generale della rappresentazione incapace di svolgere davanti a noi un processo di sviluppo. Nel suo aspetto più semplice questa differenza può essere dimostrata chiaramente osservando, per esempio, due diversi tipi di «attacco» dell’azione. Supponiamo di trovarci di fronte alla scena che precede la nostra lotta. La scena introduttiva, in cui la lotta è ancora soltanto una discussione. Questa scena di discussione si può introdurre in due modi. O con un piano generale, o per mezzo del montaggio. Nel primo caso il piano generale presenterà: due che litigano, strappandosi di mano un pacchetto. Qui tutto è dato: vi trovate subito in condizione di cogliere l’intero quadro della discussione come tale. Vedete la rappresentazione di una discussione. Ma se il litigio ci vien fatto cogliere tramite il montaggio è tutta un’altra cosa: 1) il pacchetto; 2) le mani con il pacchetto; 3) altre mani lo afferrano; 4) un uomo; 5) un altro uomo; 6) mani che si strappano a vicenda il pacchetto; 7) due uomini che si strappano l’un l’altro il pacchetto; 8) veduta generale della stanza con due uomini che si disputano il pacchetto: la scena completa. Qui siete completamente coinvolti nel processo di formazione di tutta la scena, e l’ottavo pezzo porta alla sua formulazione conclusiva qualcosa che, nel suo prodursi, voi avevate vissuto attraverso i sette precedenti. In essi trovava già posto l’intera immagine della scena: l’atto del litigio, le figure dei contendenti (4 e 5), che sarebbero ancora indeter­ minate se, nel terzo pezzo, non si fosse capito che qualcuno vuole prendere un pacchetto a qualcun altro ecc. Voi non vedete la rappresentazione della lite, ma in voi sorge l'immagi­ ne della lite, prendete parte al processo di formazione dell’immagine della lite, e in questo modo siete coinvolti come un terzo partecipante nella lite che si sta svolgendo! (Questo esempio è particolarmente chiaro perché qui il processo di formazione dell’azione coincide con l’esordio dell’azione. Ma qualunque pezzo interno a qualunque azione presenta esattamente lo stesso quadro di formazione, pur facendolo a modo

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proprio e quand’anche si tratti di un anello intermedio e non di un inizio). Voi direte: ma il teatro non consiste forse in un piano generale? In teatro, infatti, viene dato direttamente l’insieme della scena proprio come in un piano generale. In teatro voi afferrate ugualmente il fatto che due persone si battono, anche se davanti a voi non si svolge quel processo di formazione della lotta, che nel cinema riuscite a ottenere con sistemi tanto complicati?! Perché la stessa lotta, pur non essendo presentata nel suo processo di formazione, agisce comunque! Tanto più che la realtà dello scontro in teatro è una realtà relativa, che non si può paragonare con una vera lotta nella vita reale? A questo rispondo: c’è lotta e lotta. C’è la lotta provata e imparata a memoria, in cui il modello prescelto, movimento dopo movimento, azione dopo azione, viene svolto così come è stato imparato. E questa è una lotta altrettanto morta, inerte, falsa e inefficace per i nostri sentimen­ ti quanto la sua rappresentazione in un «piano generale» sullo schermo. E c’è lotta in cui ogni fase nasce davanti allo spettatore. Tracciata altrettanto rigorosamente sulla linea di un progetto compositivo, essa tuttavia, passo dopo passo, prende la forma dell’azione grazie alla catena di emozioni connesse con i compiti che gli attori si pongono passando da una fase all’altra della recitazione nel rispetto di un piano coerente. Una simile lotta, dialogo, discussione o dichiarazione d’amore, comunque siano dipinte le scene, incollate le barbe e truccati i volti, verrà rivissuta come un processo vero e reale che si differenzia, quanto a forza comuni­ cativa, come la lotta risolta in inquadrature e montaggio si differenzia da una lotta rappresentata in un unico piano generale, ripreso da un solo punto. La scrittura cinematografica di montaggio non è analoga, ma esattamente identica alla prestazione di un attore teatrale che reciti non il risultato, ma il processo all’interno del quale, passo dopo passo, nascono e prendono forma autentici sentimenti scenici E questa, d’altronde, la lezione che Stanislavskij dava ai suoi attori quando diceva che nella recitazione è necessario ricreare il processo, e non limitarsi ai risultati. Secondo le sue parole «l’errore della maggior parte degli attori consiste nel fatto che essi non pensano all’azione, ma solo al suo risultato. Trascurando l’azione stessa, essi tendono direttamente al risultato. Ne vengono fuori effetti innaturali, uno sforzo che può portare soltanto a qualcosa di dilettantesco» [57], E lo stesso compito che si pone Skrjabin: «Per lui era necessario non il racconto dell’azione, non la rappresenta­ zione dell’atto, ma Vazione stessa» (L. Sabaneev, Skrjabin, Giz, 1923, p. 66).

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Skrjabin ci riesce come nessun altro, e fa anche di più. Attraverso Tatto con cui si forma l’opera ci fa sentire anche l’atto della creazione stessa. Skrjabin mette a profitto la dinamica dello stesso procedimento creativo e la sua realizzazione nell’arte. Da questo punto di vista ricorda Rodin, che tentò di ricreare nella scultura non solo il movimento delle forme, ma anche la loro formazione. Rimskij-Korsakov in Sadko ci ha dato Timmagine di un artista che esegue un’opera già pronta oppure improvvisa, lo stesso vediamo nell’Cb/eo di Liszt, ma nessuno come Skrjabin fa entrare l’ascoltatore nel laboratorio della creazione musicale. Ascoltandolo, noi veniamo iniziati ai tormenti della creazio­ ne, come nel Poema divino e in Estasi (J. Lapsin, Zavetnye dumy Skrjabina [I pensieri segreti di Skrjabtnf pp. 37-38).

Nello stesso modo può risuonare il montaggio, in quanto metodo di un’arte che fonde in una sintesi Stanislavskij e Skrjabin, come mai e in nessun luogo si sono fusi in unità l’azione dell’uomo e l’attiva musicalità della forma che lo rivela sia dal punto di vista plastico che da quello sonoro. Con l’esempio dell’attore abbiamo indicato anche la via e il posto del montaggio nell’arte della recitazione. E non solo nelle sue manifestazioni esteriori, in cui è evidente nel contrappunto degli atteggiamenti espressi­ vi, nei passaggi di scena e nella pronuncia delle parole, che continuamen­ te si sviluppano da un unico sentimento e lo manifestano allo spettatore, coinvolgendolo e attirandolo. A questo proposito io protesto sempre violentemente contro chi afferma che il «primo piano» è nato con il cinema e che, di conseguenza, le diverse dimensioni della rappresentazione e il gioco di alternanza delle dimensioni e dei piani sono stati resi possibili solo con l’invenzione del cinema. Queste persone o non capiscono nulla dell’arte della composi­ zione teatrale, oppure non hanno mai visto una scena teatrale composta con un minimo di correttezza! Il primo piano, esattamente come l’avvicendamento dei piani e il gioco delle dimensioni e dei piani - che non è un gioco arbitrario, ma un mezzo compositivo necessario alla realizzazione dell’immagine concepi­ ta dal regista - si trovano già nel teatro. E ogni regista teatrale, se non è un ciabattino, ricorre a questi strumenti almeno in una certa misura. Certo, in modo meno perfetto, più sfumato e meno cosciente di un regista cinematografico, perché non è costretto a «prendere un’inquadratura», selezionando ogni volta esclusivamente ciò che è necessario per quella particolare fase del movimento scenico. Ma un’analoga scelta di ciò che è necessario in un particolare momento sulla scena è altrettanto indispen-

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sabile anche per la costruzione teatrale. Qui, è vero, il regista nonfra la possibilità di tagliare fuori fisicamente tutto il resto, come accade nel cinema con i margini dell’inquadratura. E non ha neppure la possibilità di ingrandire opportunamente l’essenziale. Ma questo significa soltanto che egli dev’essere ancora più raffinato nel servirsi dei mezzi specifici della messa in scena per raggiungere con pari sicurezza la capacità di introdurre nel campo dell’attenzione dello spettatore - lasciando tutto il resto al di là dei limiti della sua percezione - ora quest’uomo, ora quest’altro, ora un gruppo, ora due uomini che si guardano; o anche: ora ciascuno dei due separatamente, l’uno dopo l’altro, ora tutti i duecentocinquanta uomini di una scena di massa presentati come un’unità, ora solo il gioco degli occhi e delle ciglia del protagonista, sullo sfondo di quei duecentocinquanta uomini2*. In questo senso il cinema è solo un’arte più completa e più dotata dal punto di vista tecnico. Ma ci si può educare nel modo migliore alla costruzione di montaggio nella «Vorschule» del teatro. E si possono studiare modelli anche parecchio oltre i confini di entrambi. Per esempio in letteratura. Un regista cinematografico esordiente può studiare con grandissima utilità l’alternarsi dei piani, il gioco dei primi piani dei dettagli, i frammenti di comportamento del protagonista e dei personag­ gi episodici o tipizzati, e i piani generali di massa che formano la tela grandiosa della battaglia di Borodino in Guerra e pace di Tolstoj. Naturalmente qui non è in gioco qualcosa di specificamente cinema­ tografico o specificamente artistico; anzi, non è in gioco nemmeno qualcosa di specifico, ma il fatto che l’estrarre con il montaggio singole configurazioni da un certo materiale e correlarle in determinate combi­ nazioni è alla base di qualsiasi atteggiamento cosciente e intenzionale nei confronti della realtà. Una verifica di questa facoltà, senza la quale è impossibile qualunque attività creativa - intesa in un senso molto più ampio di quello strettamente artistico - mi è stata fornita da una prova che introdussi per gli esami di ammissione al vgik nel 1932. All’esaminato veniva mostrato un quadro - di solito molto drammati-

Certi registi, analfabeti nell’arte della messa in scena, negli ultimi decenni hanno cominciato a ricorrere a un’orrenda forma «intermedia»: il raggio di un proiettore illumina al momento giusto le figure che è necessario isolare dal gruppo. I margini della macchia di luce del proiettore hanno la funzione dei margini del taglio dell’inquadratura. Ma l’arte della messa in scena consiste proprio nel saper ritagliare con altrettanto rigore il giusto «campo d’attenzione» dello spettatore, senza nascon­ dersi dietro mezzi così dubbi dal punto di vista artistico.

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co e con un soggetto fortemente rilevato, spesso un’opera dei «peredvizniki» [58]. . Poi gli si proponeva di dividerlo idealmente, cioè di fare un elenco delle parti e dei dettagli contenuti nel quadro e di stabilire la loro sequenza in modo tale che in complesso questi si potessero leggere come una determinata interpretazione compositiva del soggetto rappresenta­ to. Veniva presa, per esempio, La processione di Repin, e si proponeva di scomporla con tagli di montaggio da raggruppare, poi, negli studi: «Il regime del bastone» oppure «La Rus’ dei mendicanti e la Rus’ dei ricchi» o, più astrattamente, «L’afa», o, per esempio, nel caso degli Zaporogi, il tema «Il crescendo del riso». Esercizi più complessi riguardavano la trasposizione del tema, dell’emozione e del ritmo della scena in un corrispondente foglio di montaggio capace di riprodurre la drammaticità del quadro {Mensikov in esilio, La bojarynja Morozova, La mattina dell'esecuzione degli strel'cy). Si poteva ottenere lo stesso risultato con serie di grandi tele o di incisioni di Hogarth, Watteau, Greuze o Delacroix, o con le composizio­ ni «drammatiche» di Ingres. [...]

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Ma il nostro discorso muove verso altri problemi. In particolare, dobbiamo ora studiare il principio del montaggio questo elemento, sembrerebbe, «strettamente» cinematografico - anche sotto il profilo di uno degli aspetti più delicati relativi al protagonista principale del cinema: l’attore. E non solo per quel che appare nel gioco d’insieme o individuale delle sue manifestazioni esteriori, dove è eviden­ te, ma anche nella zona in cui è soltanto intuibile, cioè all’interno dello stesso «sancta sanctorum» dell’atto creativo. Si tratta di quel segreto grazie al quale l’attore ottiene, pur con metodi convenzionali, guidati e studiati, espressioni di viva emozione e autenticità di sentimenti che «non si possono ordinare», che si possono solo far sorgere spontanea­ mente come l’armonia sorge dall’unione di più melodie, come l’immagi­ ne ritmica e «sovraoggettuale» della generalizzazione nasce dall’unione di inquadrature concrete, materiali, oggettuali nel montaggio. Diciamo subito che il metodo di questo atto creativo del lavoro dell’attore è un fatto di montaggio proprio come nel cinema. Dimostreremo questa tesi sulla base del materiale della tecnica di lavoro dell’attore creata da Stanislavski], che costituisce oggi il più

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completo a particolareggiato studio di questo problema, ed è inoltre una pratica approvata per il suo grado di massima approssimazione al rea­ lismo. Qual è il compito di un qualunque sistema dell’arte dell’attore? È quello di suscitare nei sentimenti la piena verità della «riviviscen­ za» scenica di ciò che propone l’autore in una certa situazione. C’è qui una corrispondenza con ciò che abbiamo definito sentimento generaliz­ zato, differenziandolo dalla rappresentazione, nelle nostre analisi di esempi di composizione plastica e di montaggio. Ed effettivamente, le scuole di autentica arte teatrale stigmatizzano soprattutto e con partico­ lare cattiveria la rappresentazione dei sentimenti là dove sarebbe necessa­ rio il sentimento e la «riviviscenza» dei sentimenti. Ma, come abbiamo dimostrato nel caso della composizione plastica, anche qui sarebbe inopportuno ogni eccesso tale da privare la «riviviscenza» del sentimento scenico delle sue manifestazioni naturali, cioè di un quadro perspicuo di tali sentimenti vissuti Qual è dunque il metodo di questa prima, fondamentale e principale condizione di cui l’attore deve compenetrarsi nell’atto creativo della rappresentazione del personaggio? Questo metodo coincide perfetta­ mente con l’azione del montaggio nel cinema, il cui scopo consiste nel dar vita e sostanza, partendo da elementi di una dimensione, a un fenomeno che appartiene a un’altra, nuova e più alta dimensione, e che inoltre è impossibile rappresentare direttamente. Nel cinema si trattava del senso di un «regime» generato dal compor­ tamento dei soldati che sparavano e dei cosacchi che calpestavano. In teatro - nel lavoro dell’attore - si tratta di generare un sentimento vivo, un sentimento reale della verità scenica, da ima serie di circostanze: le parole prestabilite di un testo artificiale e convenzionale, le scene dipinte, gli attori mascherati e truccati. Si vede bene che il metodo è lo stesso e agisce come facciamo noi nel cinema. Nel nostro caso, a spingersi oltre la dimensione rappresentativa fino a una completa e autentica pienezza di senso non sono i singoli pezzi-inquadrature figurativi, ma quel sentimento totale di «riviviscenza» che sorge dall’unione e fusione delle emozioni suscitate da un appropriato accostamento di frammenti significativi. Esattamente nello stesso modo si svolge il processo con cui l’artista «arriva» a «far emergere» una condizione non rappresentabile artificial­ mente, non riproducibile, eppure realmente esistente. Infatti, il compito che si pone in teatro è del tutto identico a quello che noi cerchiamo di eseguire nel cinema. Qui, dalla combinazione

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artificiale di alcuni metri di un nastro di celluloide coperta da uno strato di bromuro d’argento su cui balena la rappresentazione delle grigie ombre degli eventi, bisogna suscitare una scossa emotiva nello spettato­ re, spingerlo a vivere e a sentire ciò che Fautore ha voluto. Là, circondati da teloni dipinti, calcando le assi sconnesse del palco­ scenico, tra l’odore di vernice e di polvere, bisogna ottenere che Vinter­ prete creda nella realtà dei suoi sentimenti scenici immaginari e con la piena verità di questi sentimenti dia corpo all’idea dell’autore, coinvol­ gendo in tal modo lo spettatore che solo in questo modo può essere coinvolto. In un caso come nell’altro è necessario creare, partendo da oggetti non reali ima reale riviviscenza emotiva - in un caso nello spettatore, nell’altro nell’attore che segue gli stessi percorsi che producono la carica emozionale dello spettatore. In entrambi i casi il metodo di base è uno solo. Per il cinema l’abbiamo già mostrato. Bisogna ora attestare con alcuni dati questa identità di principio tra i nostri metodi e quelli adottati per ottenere gli stessi risultati dal sistema che oggi è riconosciuto come il migliore per ottenere la verità dei sentimenti scenici: il sistema di Stanislavskij. Nella parola d’ordine fondamentale del sistema c’è già un’eco di questo metodo che combinan­ do condizioni prodotte artificialmente, coscientemente e intenzional­ mente, ottiene risultati superiori per qualità e dimensioni: «È uno dei principi fondamentali del sistema: il subcosciente attraver­ so il cosciente»24 [59]. Esso «permette di realizzare una delle basi del nostro sistema: fa agire il subconscio dell’attore attraverso una psicotecnica cosciente» [60], Questo per quanto riguarda i principi del sistema. Ma lo stesso vale per tutti i campi della sua applicazione creativa. Cominciando dai più alti. ISPIRAZIONE

Il sistema non fabbrica l’ispirazione! Le prepara solo il terreno favorevole. [...]

24 Non entro qui in alcun modo, né criticamente, né apologeticamente, in un giudizio di merito sulla tesi in se stessa e nell’analisi del problema dell’ainconscio» come tale, o come lo concepisce il sistema di Stanislavskij. Mi interessa solo seguire, su un’altra linea, l’analogia con il metodo del montaggio che accostando grandezze concrete, controllabili, producibili, crea l’«ina£ferrabile» per esempio la sensazione del movimento a partire da due fotogrammi immobili o da due pezzi di montaggio - proprio come là un sentimento vivo e reale nasce dall’accostamento di situazioni artificiali.

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Ma accetta un consiglio. Non inseguire il fantasma dell’ispirazione. Lascia questo compito alla natura, e tu preoccupati solo di ciò che è accessibile alla tua coscienza di uomo. [...] ...il problema fondamentale della psicotecnica: portare l’attore a una condizione creativa che consenta il prodursi del processo creativo subcosciente. [...] Ma non sperate mai di arrivare direttamente all’ispirazione per l’ispirazione. [...] Pensate invece a ciò che risveglia i motori della nostra vita psichica, all’autoco­ scienza sulla scena, al «supercompito» e all’«azione continua»; in una parola a tutto ciò che è accessibile alla coscienza. Con il suo aiuto, imparate a creare una base favorevole per il lavoro inconscio della nostra natura artistica. [...] Essa [la psicotecnica cosciente] sa costruire i procedimenti e le condizioni favorevoli al lavoro creativo della natura e del suo subconscio [61]. Questo è vero anche per le discipline tecnicamente ausiliarie del sistema.

LA MEMORIA EMOTIVA

Non si può spremere da noi stessi un sentimento, non si può essere gelosi, amare, soffrire, solo per il gusto della gelosia, dell’amore, della sofferenza. [...] Perciò quando decidete un’azione, lasciate in pace il sentimento. Verrà da sé, da qualche cosa che è già successa, che ha già provocato gelosia, amore o dolore. Ecco, è a qualcosa che è già accaduto che dovete pensare, intensamente, ricreandolo intorno a voi. Non preoccupatevi del risultato [62]. LE CIRCOSTANZE DATE

Il «se» dà l’avvio all’immaginazione addormentata, e le «circostanze date» giustificano il «se». Insieme e separate esse aiutano a creare lo scatto interiore [63]. Il segreto del procedimento sta nel non forzare assolutamente il sentimento, nel lasciarlo fare, senza pensare alla «verità della passione» [...] [Le passioni] non sopportano ordini né violenze. Puntate tutta la vostra attenzione sulle «circostanze date» [64]. E il sentimento necessario nascerà e verrà da sé. Non dimentichiamo che un processo simile avviene anche nella tecnica fondamentale della distribuzione secondo un piano e della co­ struzione dell’azione secondo un ruolo determinato. Mi riferisco al metodo della «segmentazione» che, invariabilmente, comporta una vi­ sione di insieme. La stessa teoria delibazione continua», infine, svolge nei confronti

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del ruolo la funzione che il nostro «profilo avvolgente» svolge nei confronti della rappresentazione (e lo stesso vale per Mandamento del montaggio attraverso i pezzi» o, ancora, per il percorso dell’azione stessa attraverso la catena degli episodi). Qui l’analogia - più esattamente la coincidenza - è meno inaspettata e sorprendente. L’analogia è certamente più interessante quando riguarda la specifi­ cità del lavoro interiore necessario alla creazione dell’attore nei percorsi più segreti della costruzione del ruolo, degli stati d’animo e del modo di riviverli. Anche qui troviamo una piena coincidenza di metodi. A un certo punto del libro, Stanislavskij conduce il lettore davanti a questo compito: «Ora dobbiamo affrontare la logica che guida la se­ quenza delle inafferrabili, invisibili... sensazioni interiori...» [65]. Per maggiore chiarezza, non riportiamo la formulazione teorica del problema, ma la descrizione dell’esercizio corrispondente, svolto dallo stesso Konstantin Sergeevic. In questo studio un cassiere, a casa propria, sta contando dei soldi non suoi, per lavoro. All’improvviso la moglie lo chiama nella stanza accanto. Il fratello di lei, un gobbo idiota, getta i soldi nel camino mentre lui è assente. Il cassiere toma: vede l’accaduto. In preda all’ira, si getta sul gobbo. Nella colluttazione lo uccide. Alle grida accorre la moglie. Nel frattempo il bambino annega nel bagno. Il cassiere è sopraffatto dalla disperazione. In questo esempio ultramelodrammati­ co appare con evidenza ancora maggiore il metodo che consiste nel mettere insieme diversi pezzi, elementi e considerazioni che concernono l’oggetto destinato a suscitare un sentimento autentico e nel fame conse­ guire azioni e comportamenti veritieri. Si vede con chiarezza come sia solo il processo di combinazione di questi elementi separati a far nascere quel sentimento autentico che il sistema ritiene impossibile esprimere direttamente («non si può spremere da noi stessi un sentimento, non si può essere gelosi, amare, soffrire solo per il gusto della gelosia, dell’amo­ re, della sofferenza...»). Ho sempre la tentazione di mettere «in colonna» e contrassegnare con dei numeri gli elementi che, in una data scena eseguita col metodo di Stanislavskij, corrispondono a una correlazione e a una sequenza di pezzi di montaggio, nella stessa disposizione e con gli stessi scopi che guidano noi nel cinema. Anche oggi proviamo la scena del «denaro bruciato». [...] Contando il denaro, per caso l’occhio mi cade sul gobbo, Sergej, e improvvisamente mi si affaccia, per la prima volta, una domanda: «Chi è? Perché mi sta sempre tra i piedi?». E ne sono così turbato che non posso continuare a contare. Troviamo qualcosa che giustifichi i tuoi rapporti col gobbo.

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1. La bellezza e la salute di mia moglie erano stati pagati con la bruttezza del fratello idiota. 2. Erano gemelli. La loro nascita aveva messo in pericolo la vita della madre, c’era stato bisogno di un’operazione e avevano dovuto arrischiare la vita di uno dei bambini per salvare l’altro e la madre. 3. Erano vissuti tutti e due, ma il maschio ne aveva risentito ed era cresciuto gobbo e idiota. 4.1 sani se ne sentivano responsabili come di una colpa che ricadeva su tutta la famiglia. Questa supposizione ha cambiato completamente il mio atteggiamento verso l’infelice idiota. Tenerezza, pietà e perfino rimorso [66].

Così Kostja, che scrive il libro in prima persona, passa attraverso tre tappe. Egli deve stabilire un rapporto, suscitare in sé determinati sentimenti umani per il fratello di sua moglie. Direttamente, senza mediazioni, «su ordinazione» non ci riesce. Allora ricorre al sistema di accumulare una serie di pezzi a partire dai quali può prendere forma il rapporto (gli stessi pezzi di realtà da cui, anche nella vita, può nascere un certo atteggiamento verso una persona). Con il pensiero e con i sentimenti egli percorre questi pezzi (qui ne sono elencati quattro), e durante questo processo sorge in lui un atteggia­ mento più sincero e umano verso il fratello della moglie. Un atteggiamen­ to che «su ordinazione» avrebbe potuto nascere solo meccanicamente, «rappresentazionalmente», come «rappresentatone del sentimento» e non come sentimento. La sincerità di questo sentimento fa nascere in Kostja un’intera scena tra lui e il gobbo: «La scena è ora viva, intima, piena di calore e di allegria. Il pubblico applaude» [67]. Da una giusta «riviviscenza» è dunque nata un’intera scena, che a sua volta produce un immagine coinvolgente dei rapporti tra il cassiere e il fratello di sua moglie. (E qui l’effetto coincide già completamente non solo nel metodo, ma anche nel risultato con ciò che fa il montaggio nel cinema). E ancora: È il momento di andare nella stanza da pranzo. Da chi? Da mia moglie? E chi è? Eccomi davanti a un nuovo problema:“Chi è mia moglie?”. La storia che ho inventata è così sentimentale che preferisco non raccontarla. Pure, mi ha commosso [68].

E infine: E ritornare, dopo, di slancio al tavolo di lavoro, è diventato comprensibile e

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necessario: lavoro per mia moglie, per mio figlio, per il povero gobbo. E anche il denaro dell'associazione, in fiamme, acquista ora ben altra gravità. Adesso sì, basta dire: «Che cosa avresti fatto se fosse successo veramente?». Come si prospetta spaventoso il futuro. Che succederà? Che farò? [...] Devo ridare a ogni fatto il suo valore e capire a che cosa mi avrebbe portato. Cosa mi aspetta, che prove ci sono contro di me. L’appartamento, per esempio: è grande e bello. Potrebbe far pensare a un tenore di vita superiore ai nostri mezzi. Inoltre: la cassa vuota, i rendiconti bruciati, l’idiota morto, la mancanza di testimoni della mia innocenza, il figlio affogato. Anche queste prove possono far pensare a una fuga premeditata alla quale il bimbo in fasce e il gobbo idiota sarebbero stati di ostacolo [...] La morte del bimbo coinvolgerà nel delitto anche mia moglie. D’altra parte l’uccisione del fratello complicherà inevitabilmente i nostri rapporti personali HE vero. [...] Ma a me pare che il successo dipenda tutto dall’azione magica del «se» e delle «circostanze date»: la spinta è venuta da loro [...] [69]. In quest’ultimo esempio è già del tutto evidente una coincidenza completa. Ognuna delle cinque sezioni distinte da Kostja è di per se stessa una sorta di conclusione sentimentale completamente «messa in immagine», e deriva da un chiarissimo gruppo di montaggio composto da elementi situazionali concreti e rivissuti dagli attori. La loro sequenza completa è una specie di breve film fatto di cinque episodi di montaggio, che si svolge in un rapido istante davanti alla coscienza e ai sentimenti dell’interprete! Le leggi del metodo continuano ad agire anche all’interno di ciascun episodio. Proviamo a prendere la sezione n. 4 [70]. Essa è formata, evidentemente, da una serie di rapide scene che mostrano come Io sventurato non sia più accolto in case un tempo familiari, come gli tolgano l’impiego, come persino l’intercessione di pietosi protettori non possa aiutarlo ecc. Qui è caratterizzante soprattutto - e questo lo aggiun­ go in base alle mie esperienze personali - il fatto che la forma in cui tali situazioni passano nella coscienza è simile in tutto alla natura del primo piano nel cinema. E precisamente: all’incompiutezza dell'accenno. Ognuna di queste situazioni ausiliarie è osservata solo sotto un certo profilo che mette in rilievo solo un qualche tratto particolarmente carat­ terizzante. Calcare eccessivamente su ciascuno di questi elementi (come girare troppi metri di pellicola) porterebbe a una situazione di contem­ plazione che disgregherebbe l’unità del tutto, invece di ricomporre e fondere in una totalità unitaria questi elementi separati come particelle di montaggio, come singoli primi piani.

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Ora, mentre trascrivo gli «addendi»25 del pezzo n. 4 che si delineano nella mia immaginazione, riesco a vedere ciascuno di essi. Ecco, per esempio, una figura curva che esce da una porta con il nome di una ditta e scivola di soppiatto giù per una scala; ma non vedo coloro che lo hanno respinto, né la scena del rifiuto. Ora, invece, vedo una coppia che «da qualche parte» volta sprezzantemente le spalle ma non vedo il cassiere (che si è confuso con me stesso, il che tuttavia non mi impedisce a volte di vedermi davanti un «me stesso-cassiere», a volte di avvertire questa figura solo «dentro di me»: nell’immaginazione succede, come nel so­ gno, di ingegnarsi di essere contemporaneamente osservati e osservato­ ri!). Oppure vedo solo il viso accorato e gli occhi che sfuggono lo sguardo del mancato protettore (che, non so perché, sta con un dito alzato). O ancora, all’improvviso, una suola fradicia, bucata, staccata dallo stivale, che delle dita viola per il freddo tentano di riattaccare ecc. La differenza, che comunque non è di principio, sta anche nel fatto che una parte di tutto ciò non mi si presenta sotto forma di fenomeni visivi, ma come la sensazione delle mie spalle che tremano e della testa che vi sprofonda dentro, al posto dell’intera scena del rifiuto; il respiro ansi­ mante al posto di tutto il quadro della corsa per le scale; l’afflusso di sangue alle guance al posto della scena dell’umiliazione nell’incontrare gli antichi conoscenti ecc. Non è assolutamente nelle mie intenzioni esporre il sistema di Stani­ slavskij o le singole discipline che lo compongono. Mi permetto tutte queste citazioni solo per dimostrare come, in un campo completamente diverso della nostra attività specializzata, esistano tesi e principi di base simili a quelli che noi da tempo abbiamo stabilito per il montaggio. (Il libro IZ lavoro detrattore, peraltro, non utilizza tali principi per proporre formulazioni unificanti). La coincidenza è piena per quanto riguarda il punto centrale: l’cZemento principale del sistema del cinema e del sistema del lavoro dell’atto­ re non può essere creato in modo diretto. Così, l’unità del metodo non riguarda solo l’inquadratura e il mon­ taggio, il montaggio e il metodo del film sonoro (come vedremo meglio più avanti); l’unità del metodo coinvolge tutti i campi delle discipline cinematografiche sulla base del nucleo principale e vitale del contenuto del film: l’attore in azione, l’uomo. O meglio ifattori, poiché il risultato che otteniamo non è una somma ma... un prodotto, sia nel senso «artistico» che nel senso matematico di questo termine, il quale consiste nel fatto che il risultato ottenuto è superiore, per grado e dimensione* rispetto a ciascuno degli elementi che lo compongono. 2a sarà dello stesso grado e della stessa dimensione di a, mentre a2* no.

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Ma se il sistema è in sé organico, bisogna supporre che, pur trasfor­ mandosi qualitativamente, esso passi in via di principio nello stesso modo - con lo stesso metodo e le stesse regole - anche attraverso gli elementi compositivi e strutturali proiettando in essi - tramite il metodo - il tratto fondante del fenomeno originario. Questo fenomeno è qui assolutamente identico al fenomeno che dà origine al cinema. Da due cellule immobili nasce il movimento. Da una serie di circostanze proposte e selezionate nasce un movimen­ to dell’anima: un’emozione (emotion dalla radice mollo - movimento). Se nel cinema non è in gioco un movimento di fatto, ma uri immagine del movimento, nel lavoro dell’attore non è in gioco un sentimento di fatto, ma un sentimento particolare della verità in quanto sentimento scenico della verità. Sulla linea di demarcazione tra questo sentimento e la verità della vita, Stanislavskij scrive molte pagine. Io penso che la demarcazione sia una sola e del tutto evidente: il sentimento scenico non è un sentimento autentico, ma l'immagine di un sentimento autentico, proprio come sulla scena non si muovono i veri Lear, Macbeth, Otello, ma l’immagine di Otello, Macbeth, Lear. In entrambi i casi l’immagine agisce come una realtà mediata e non oggettuale, ma anche come un processo che spinge il diapason della generalizzazione molto al di là dei limiti e delle dimen­ sioni della rappresentazione particolare. Il fenomeno fondante del cinema si ripete fin dall’inizio nella forma compositiva del cinema e nello stesso principio della composizione: nel montaggio. Un certo evento unitario viene suddiviso in pezzi. Tali pezzi non sono autonomi, ma derivano dal loro orientamento verso un certo ruolo, dalla forma prevista per la loro combinazione, dagli aspetti del processo che dovranno definire. Per la creazione dell’attore questa fase coincide con il lavoro sul ruolo in quanto ri-produzione integrale - a un nuovo livello di qualità e di arricchimento - del fenomeno fondamentale dell’apparizione di un autentico sentimento scenico. U ruolo si smembra in parti. Le parti vengono determinate dai compiti Le parti si correlano poi secondo la linea dell’azione continua, che prende forma via via che vengono eseguiti i compiti relativi ai pezzi in successione. La morta pagina scritta del dramma si è smembrata per poi risorgere nuovamente come unità «rivissuta» creativamente nei sentimenti. II morto piano generale si è smembrato in pezzi di montaggio che poi

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si riordinano in una nuova unità che consente di «rivivere» nei sentimen­ ti e nelle emozioni il processo deli’awenimento. Quasi come l’immagine di un seme, a cui tocca morire- disfarsi- per poi rinascere come una nuova pianta viva! È questo un principio che abbraccia non solo, come abbiamo visto, tutti gli aspetti dell’opera cinematografica: Fattore, il ruolo, l’inquadratura* il montaggio, l’oggetto nella sua interezza. E un principio che abbraccia tutta l’arte, oltre i confini del cinema» Un principio che spinge la sua portata anche oltre i confini dell’arte.

I metodi dell’attore: Stanislavski] e Ignazio di Loyola, James e Lessing y

Puskin montatore

Proviamo ad ascoltare il disegno plastico delle risonanze dei versi, e proviamo a trame le traiettorie dei movimenti che esse suggeriscono. Per me si disegnano così: «tra loro» («tnez nimi»): l’accento non cade sulla prima sillaba, dunque il movimento è sincopato. «Ni» come accento in battere. La non accentuata «mi» come eco. La prima: la caduta; la seconda: il rimbalzo. Il movimento nell’inquadratura mi si configura così: I’inquadratura non comincia insieme al movimento, ma prima. «Tra» («mez») comporta una inquadratura fìssa in cui piomba il proiettile. Non subito, con l’entrata dell’inquadratura, ma in modo sincopato (fig. 43):

(ME$ NIMI - TRA LORO)

FIG. 43

«Balzano» (Prygajut) risuona in me secondo un’altra configurazione. Non si tratta di un breve percorso verticale dall’alto, ma del volo del proiettile lungo una traiettoria inclinata. «Ga» è un breve rimbalzo verso l’alto. «Jut» risuona in me come un colpo sordo, che vola dentro e balza nuovamente fuori lungo la traiettoria, cioè di nuovo in modo sincopato: 1 [ , dove a e c sono pause, introdotte dal regista all’interno della 1 * b\ c }

A7T (jut) FIG. 44

T'Tr {

ga) (PRYGAJUT - BALZANO)

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(nb. Questi schemi non sono assolutamente schemi per la lettura dei versi, ma servono solo per vedere graficamente il senso delle azioni all’interno del verso. Queste due serie non possono coincidere. L’impul­ so motore fondamentale può dar luogo a una lettura o a una rappresenta­ zione i cui rispettivi grafici incommensurabili si possono correlare me­ diante l’immagine motrice unitaria che sta alla base di entrambi, ma non possono coincidere direttamente l’uno con l’altro: IMPULSO MOTORE LETTURA

DISEGNO PLASTICO).

Se ora mettiamo insieme i due schemi («tra loro» e «balzano»), avremo il seguente schema di movimento per questo piano medio (fig. 45):

Questo è più o meno il disegno del ritmo della frase. Diamogli ora la dovuta sostanza figurativa. «Tra loro». Per rendere l’immagine «tra», la cosa più semplice è mostrare due figure, tra le quali ci sia un appropriato intervallo. Quindi, evidentemente, bisogna collocare due figure nel pia­ no anteriore dell’inquadratura. Due figure e tre movimenti dei proiettili formano una bellissima combinazione «pari-dispari», risolvibile per di più in dimensioni diverse: il «pari» ha una soluzione statica (le due figure), il «dispari» dinamica (i tre accenti del movimento). Ponendo due figure nell’inquadratura, come nella fig. 46, realizzia­ mo l’immagine «tra» solo per metà: solo in dimensioni piane.

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FIG. 46

Perché l’immagine «tra» risuoni in tutta la sua tridimensionalità, bisogna anche disporre le figure su diversi piani di profondità, sisteman­ dole in modo tale che il piano delle linee curve passi tra i piani delle due figure. Inoltre, anche il piano della traiettoria dei proiettili va diviso in tre: uno per ogni movimento. Abbiamo così cinque piani di azione, per questo piano medio, della dimensione della scena. Sorge un problema: come combinarli tra loro? La prima cosa che viene in mente è un semplice intreccio: 4-il piano degli uomini, è-il piano delle traiettorie (schema i).

Schema n

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Ma sarà corretto? Penso di no, poiché contrasta con le indicazioni che abbiamo sulla situazione «tra loro balzano», che ci fanno vedere i proiettili che saltano in mezzo agli uomini, Nel primo schema il quadro è esattamente opposto: gli uomini si trovano in mezzo ai proiettili. Si tratta del quadro di una battaglia altrettanto possibile. Se avessimo avuto una situazione in cui gli uomini «procedono attraverso un uragano di proiet­ tili», lo schema i sarebbe stato del tutto adeguato. Abbiamo invece un quadro opposto. E quindi la sistemazione deve essere diversa come, per esempio, nello schema n. Non che si debba fare per forza proprio così. Ci

o, secondo le fasi

Ai Ai

fig. 47

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possono essere tutte le varianti che vogliamo. Ma ciascuna variante dovrà soddisfare, nella stessa misura di questa, la condizione: i proiettili saltano in mezzo agli uomini. Sebbene nello schema la condizione sia rispettata già per il fatto che tra al e a2 si trovano i due piani bl e b2y tuttavia anche la posizione di b2 oltre i limiti di al e a2 non contraddice il senso dello schema, poiché oltre b2 ci saranno le figure dello sfondo. Dunque, secondo uno schema sommario, la composizione si delinea così (fig. 47). In questo schema è sgradevole il fatto che la traiettoria 2 non si collega alla figura (fase il). Si impone una soluzione che riproduca per alcuni tratti la fase i (generale esigenza di ritmo) e che, inoltre, tagli plasticamente la figura (esigenza dell’immagine): tracciare la traiettoria del proiettile lungo la figura - «cancellarla» - corrisponde a mettere in immagine il senso del fatto che i proiettili cancellano gli uomini dalla faccia della terra. E corrisponde anche a un tracciare plasticamente il tema dell’annientamento per mezzo del proiettile, che nel successivo primo piano («colpiscono») si disegna già come azione di fatto. Come fare? È molto semplice: infatti, sarebbe del tutto innaturale che le figure stessero lì come impalate e muovessero solo le braccia. Non c’è dubbio che la figura A possa fare un balzo laterale rispetto al luogo della caduta del proiettile X. E del tutto naturale che questo movimento funga da passaggio dalla fase i alla fase n - dal margine destro dell’inqua­ dratura al sinistro. La massima accentuazione plastica, che qui consiste nel dare il massimo rilievo al fatto che la figura non si sposta ma fa un balzo, la otteniamo, come sempre in casi simili, con il semplicissimo procedimento del «movimento contrario» su un piano diverso di profon­ dità, proiettando cioè la figura A2 dall’angolo sinistro al destro. Così al momento del volo del proiettile 2 la fase n prende l’aspetto che ha nella fig. 48. Per la fase ni si potrebbe riportare le figure ai posti di prima. Ma si può anche non farlo. Riportandole si verrebbe a guadagnare la parte destra della traiettoria 3, ma si avrebbe un viavai. Lasciando invece nella fase in le figure così come stavano nella fase n, si ha un vantaggio rispetto... al successivo pezzo di montaggio («colpiscono»). (Qualunque cosa possa servire da collegamento tra un'inquadratura e l'altra è sempre l’elemento più prezioso all'interno della composizione dell’inquadra­ tura). In effetti l’inquadratura successiva è il proiettile che colpisce, eviden­ temente, la figura Al (la più grande e la più vicina allo spettatore), dopo averla per tre volte risparmiata. Il tema del colpo che va a segno, per la sua forte accentuazione, è naturalmente preceduto dal tema del colpo

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fig. 48

che non va a segno42; così il colpo «farà centro» in modo tanto più marcato, colpirà con tanta più forza. Da questo punto di vista la seconda versione della fase ni è più riuscita: ci restituisce il senso di un colpo che non va a segno in modo più acuto rispetto alla prima versione che, invece, tracciava con la seconda ala della traiettoria, cioè nettamente, il percorso del proiettile attraverso la figura AJ, realizzando così ciò che noi abbiamo ottenuto spostante A2, e per cui abbiamo ricomposto tutta la fase. Ma qui questa sarebbe proprio una scelta inopportuna. L’anticipazio­ ne dell’esito del colpo del proiettile è già tracciata per Al nella fase i. (La fase n è la ripetizione ritmica dello stesso tema nel disegno inverso della seconda figura A2). La fase ni (nella seconda variante) descrive chiara­ mente un colpo che non va a segno, creando in tal modo una splendida costruzione contraria («allontanarsi per saltare meglio») che prepara un colpo quand mente, e cioè il colpo del proiettile, che può colpire ormai in primo piano. La fase ni, a proposito, delinea con estrema precisione

42 Vediamo qui impiegato un procedimento opposto a quello che abbiamo visto Dell’episodio della battaglia di Ruslan con i pecenieghi. Là si veniva condotti verso il finale - il soldato calpestato dagli zoccoli - mediante due dettagli di morte (con il maglio e con la freccia) che anticipavano il colpo degli zoccoli. La «falsa pista» era stata data prima (il cavallo senza cavaliere). Qui, per la forza del colpo, la falsa pista è il movimento contrario immediatamente contiguo.

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anche il percorso lungo il quale si deve disegnare la caduta del proiettile in primo piano. Poiché il percorso del proiettile 3 e il colpo del proiettile in primo piano risultano direttamente collegati al gioco tematico e nello stesso tempo «di segno opposto», è naturale costruire il percorso del proiettile per il primo piano lungo una medesima linea curva, ma in direzione opposta. Abbiamo così il tracciato del volo del proiettile in primo piano (fìg. 49).

FIG. 49

La traiettoria AB è identica come disegno ma orientata nella direzio­ ne esattamente opposta e adeguatamente (di due volte) ingrandita (per­ ché anche il piano subisce un ingrandimento di dimensioni). L'inquadra­ tura del primo piano, dunque, sarà costruita secondo la fig. 50.. A proposito, questa inquadratura è forse, tra tutte le possibili COmbinaziO-

FIG. 50

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ni, la più chiara da un punto di vista plastico, e quindi anche la più espressiva per il tema del colpo (la traiettoria segue la diagonale, cioè la linea più lunga all’interno dell’inquadratura, che è anche la più primitiva­ mente espressiva per la sua dinamica). Ora possiamo procedere a ulteriori precisazioni. «Cavano terra». Adesso questo quadro si delinea già più nettamente. Si presenta suddivi­ so nei due atti del dramma che espone: 1) il rimbalzo che allontana la palla dal corpo che ha colpito, e 2) il suo sprofondare nella terra. Dunque, qualcosa di simile alla fig. 51. La soluzione giusta consiste nel fatto che il rimbalzo, dal punto di vista spaziale, va in direzione opposta alla caduta del proiettile: ab e bc. In c il proiettile sprofonda nella terra. E... e qui si pone il problema della «e» («cavano terra e... friggono nel sangue»). Già nella prima suddivisione ho inserito una «e» in questa inquadra­ tura. Penso che ciò sia giusto, poiché la pausa sulla «e» funziona sempre come una sorta di cesura, di arresto che prepara un quadro particolar­ mente impressionante, e in tutto il brano è indubbiamente tale «friggono

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nel sangue». Perciò per «e» andrebbe bene il movimento cd - il rotolare della palla fuori dell’inquadratura. Così, accanto al movimento a due fasi di questa inquadratura, Fazio­ ne nel punto c opera, per così dire, come una trottola che, tra due battute, ruota la palla dalla direzione bc alla direzione cd. Se vogliamo mettere a frutto la «e» per creare una pausa prima di scaricare sullo spettatore l’ultimo quadro, basterà, molto semplicemen­ te, «far lavorare» il proiettile oltre l’inquadratura. Non essendo visibile, sarà naturale «farlo lavorare» nel suono. È corretto? In pieno, poiché ora l’azione del proiettile, dopo tutte le sue peripezie plastiche, si sposta nella dimensione successiva - nel suono: comincia a sfrigolare. In questa situazione il proiettile sarà sia visibile sia udibile. Esso è appena stato visibile, ma non udibile. L’anello di passaggio sarà Vudibilità nella invisi­ bilità. In che cosa consisterà questo suono? Consisterà nella caduta del proiettile nella pozza di sangue: invisibile allo spettatore, ma udibile per ù tonfo nel sangue. Il proiettile rotola dal punto c lungo la linea cd oltre l’inquadratura (questo corrisponde alla «e»). Fuori campo si sente il tonfo (che corrisponde alla pausa dopo la «e»). Si passa a una nuova inquadratura. Lo smorzarsi del rumore del tonfo si converte in plastici «cerchi sull’acqua»: increspature sulla super­ fìcie della pozza di sangue con il suono acuto dello sfrigolare del proietti­ le rovente che emerge per metà dalla pozza. nb. A proposito della pausa sulla «e». Soffermarsi sulle «e», sui «ma» ecc., fare pause su questi momenti è uno stereotipo tipico dei declamato­ ri «provinciali». Rientra in questa serie anche il nostro esempio (sebbene non riguardi tanto la declamazione quanto l’elaborazione plastica)? Penso di no. E questo perché la nostra «e» non ha a che fare in alcun modo con il momento della scansione, che è invece caratteristico del «provincialismo» declamatorio: sono perle di questo genere le seguenti letture, che mi è capitato di sentire con le mie orecchie: 1. Egli non era vivo, ma... morente. 2. Si spalancarono le sagge pupille, come a... un’aquila spaventata.

L’incongruenza qui è prodotta dal fatto che lo scandire (un momento meccanico formale) suggerisce l’accento e la cesura, e questo momento meccanico inopinatamente si riveste degli ornamenti di un qualche senso psicologico. Nel nostro caso è proprio il contrario. Secondo la struttura del testo,

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la cesura cade prima della «e», e non dopo, e noi facciamo lo stesso nella nostra lettura plastica del testo. Una «e» senza cesura avrebbe questa soluzione: la palla comincerebbe a rotolare nella penultima inquadratura («cavano terra») ed entrereb­ be rotolando nell’ultima inquadratura («friggono nel sangue...»). La cesura davanti alla «e» si disegnerebbe così: la palla cadrebbe in c e lì girerebbe su se stessa. Nell’inquadratura seguente: la pozza in cui arriva la palla, rotolando da fuori dell’inquadratura. Naturalmente, ognuna di queste soluzioni ha i suoi diritti. Infatti qui non è in gioco tanto la struttura creata da Puskin, quanto l’intonazione della lettura. Credo che la nostra intonazione sia la meno automatica e meccanica, come, del resto, conferma anche il suo equivalente plastico che, ovvia­ mente, ha anche un maggior rilievo, esprime e colpisce di più sul piano plastico. (A proposito, sottolineiamo anche il fatto che il taglio di montaggio nella frase può leggersi a volte coinè cesura; anche se non si tratterà tanto di una cesura della struttura del testo, quanto piuttosto di una cesura di lettura, cioè di una cesura che corrisponde all’interpretazione del lettore, «sovrastrutturale» rispetto al lavoro del poeta, come è «sovrastrutturale» la messa in inquadratura rispetto alla messa in scena). [...] Resta il fatto che, se ci mettiamo ad ascoltare ancora più attentamente la risonanza del verso, sorgerà immancabilmente la necessità di non trascurare la cesura principale del testo stesso, e di riprodurla plastica­ mente. Possiamo dire che anche nella nostra soluzione compare la necessità di un elemento di questo genere nell’azione? Penso di sì. L’azione dei proiettili nella nostra realizzazione interseca bene, dal punto di vista plastico, l’azione dei personaggi. Bisognerebbe che lo facesse anche dal punto di vista drammatico. Ci sono delle basi, c’è un materiale per questo? Certo, e si tratta inoltre di un materiale che, come si dice, si impone immediatamente: la caduta, non solo delle palle, ma anche dei corpi. Nella cesura successiva a «cavano terra» e preceden­ te la «e», infatti, si richiede una caduta silenziosa, tracciata nella direzio­ ne che viene incontro alla linea di rimbalzo del proiettile dal petto. La caduta del corpo a ridosso del proiettile che ne rimbalza via: ecco il movimento non accentato e «infraccentuale» che si impone qui come cesura (fig. 52). Questa caduta offre anche fisicamente il necessario impulso per cui la palla comincia a rotolare. Il corpo deve cadere al di là del monticello su

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cui si è fermata la palla. Per la spinta della caduta, la palla rotola. Ancora più precisamente: ha un breve rimbalzo e rotola fuori dell’inquadratura. Poi tutto si svolge come lo abbiamo esposto sopra: durante la pausa e il tonfo restano nell’inquadratura le gambe della figura, il cui corpo giace dietro la collinetta (fig. 53). In generale, questi due pezzi (l’intera riga) hanno la funzione di un’originale cesura all’interno del brano della battaglia. «Friggono nel sangue» è come un primo piano che balza improvvisamente agli occhi, immobile nella sua evidenza e tanto più terribile nel suo suono sfrigolan­ te. Fracasso e strepito prima, «rullare di tamburi, gridi, stridor di denti», dopo. E in mezzo, il dettaglio di questo suono debole in primo piano che si impone rapido alla coscienza cancellando l’intero campo di battaglia, così come a volte un sussurro accanto all’orecchio respinge lontano tutto un mare di suoni caotici. Per la loro posizione, queste righe cadono proprio nella zona della sezione aurea del pezzo [113]. Nello stesso pezzo è anche notevole, dal punto di vista compositivo, il richiamarsi di due punti, separati da quattro righe. Eccoli:

Nel fuoco, sotto grandine rovente Da una viva parete ribattuta, Sulla schiera caduta nuova schiera Serra le baionette. [...] E il brano a noi noto: Gettando corpi mucchio su mucchio Palle di ghisa in ogni dove [...]

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L’analogia coinvolge anche l’inizio del passaggio: «grandine roven­ te» e «friggono nel sangue». Il volo dei proiettili in cielo (grandine) prima che piombino sulla terra, è come una chiusura plastica dell’intero passag­ gio. (Per maggior chiarezza nel disegno abbiamo messo dei fanti. Con dei cavalieri non sarebbe cambiato nulla). Ci siamo un po’ lasciati prendere dai dettagli dell’elaborazione plasti­ ca di questo esempio. Cosa che è sempre piacevole, quando si ha a che fare con Puskin. Ma non dobbiamo dimenticare le due tesi di cui volevamo parlare all’inizio. Una di esse è la straordinaria capacità di Puskin di mettere insieme rappresentazioni visive e suoni:

Il russo, Io svedese — trafigge, taglia, scanna Rullare di tamburi, gridi, stridor di denti [...] in una splendida convergenza ritmica che sostituisce la diretta simultanei­ tà di rappresentazione e suono «che abbiamo nella pellicola e nella colonna sonora del cinema. Ma Puskin ha anche la capacità, ancora più straordinaria, di passare dalla rappresentazione visiva al suono e vicever­ sa. Cioè di introdurre il tema con determinati mezzi espressivi, elaborar­ lo con mezzi appartenenti a un’altra dimensione e, se necessario, corona­ re l’elaborazione con un nuovo spostamento da una dimensione all’altra - dalla rappresentazione al suono. Inoltre, nei casi più riusciti, il passag­ gio dalia rappresentazione al suono giunge solo nel momento in cui con la rappresentazione è stato detto e mostrato tutto il possibile, ed effetti­ vamente non resta altro che affidarsi al suono. Questo stesso procedimento riguarda anche la naturale generazione della voce dall’azione scenica del «rivivere». [...] Così, le palle di ghisa di Poltava, dopo aver esaurito tutto-quello che era plasticamente possibile, all’ultima nota del gioco intervengono con il suono: sfrigolano. E nello stesso modo, proprio come la parte culminan­ te della battaglia, era già stata introdotta l’irripetibile descrizione di Pietro:

Ed allora ispirata dall’alto Di Pietro echeggia la sonora voce: «All’opera, con Dio!» Dalla sua tenda, Dalla turba dei favoriti cinto, Esce Pietro [114]. La gradualità della «presentazione» di Pietro è straordinaria. All’ini­ zio, la voce. Poi, la folla, in mezzo a cui Pietro già si trova, pur non

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essendo ancora visibile (come i proiettili nella prima scena delle palle di ghisa). E solo alla fine appare Pietro in persona, o, più esattamente, «tutto come il divino uragano». La presentazione, inoltre, è realizzata secondo lo stesso procedimen­ to: il testo, il contenuto delle parole, è dato alla fine. All'inizio si dice che Pietro è ispirato (dall’alto) e che la sua voce è sonora. La presentazione plastica non è costruita così: «Pietro esce, cinto dalla folla dei favoriti». E la presentazione sonora, da parte sua, non è costruita così: «“All’opera, con Dio” ! echeggia la sonora voce di Pietro». In entrambi i casi è il contrario: all’inizio ci si fa capire che c’è un movimento, e solo dopo si scopre chi precisamente si muove. Analoga­ mente, dapprima è data l’«ispirazione» (il più alto grado di astrazione), poi la «sonorità» (già più concreta), poi la «voce» (l’affermazione che questo suono è, in generale, una voce), e solo alla fine, che è la voce di Pietro (localizzazione concreta); il contenuto delle parole, infine, pro­ prio in conclusione. Non si tratta, naturalmente, di un’«esigenza di ritmo»: è in gioco qualcosa di molto più profondo. Dal punto di vista ritmico, si potevano disporre le parole anche secondo quell’altra sequenza. Ma il problema qui non sta nel ritmo. E io penso che questo modo di presentare gli eventi, tipico di Puskin in molti casi, confermi una volta di più le ipotesi che avevo presentato a suo tempo nella mia relazione alla Conferenza pansovietica del cinema del 1935...

IL MONTAGGIO NEL CINEMA SONORO

m.

Il ritmo

Dunque, schematizzando, diremo che l’immagine che si produce all’interno dell’opera, nel cinema risalta nel modo più preciso. La rap­ presentazione è nell’inquadratura. L’immagine è nel montaggio. Ma abbiamo visto che anche l’inquadratura in sé, se vuol essere artisticamen­ te espressiva, deve comportare l’unità di entrambi questi principi. Abbia­ mo osservato la stessa cosa nel montaggio. H montaggio ha una doppia funzione: di rappresentazione narrativa e di immagine ritmicamente generalizzata - sempre che si tratti di un’opera d’arte. Forse qui bisogna ancora precisare una cosa. Alla pari con l’interpre­ tazione del concetto di ritmo che abbiamo dato sopra, esistono anche le sue definizioni puramente formali. Come, per esempio, la ripetizione di una data combinazione o di un gruppo attraverso intervalli di tempo uguali e determinati. Il gioco dell’alternanza di lunghe e di brevi. Di accentate e non accentate e così via. Un tale ritmo può certo trovar posto nel montaggio! Ma non si tratta di quel ritmo di cui parlo io. In questi casi si tratta innanzitutto di rappresentazione, e per di più di una rappresentazione che non contiene in sé l’immagine generalizzata dell’evento che essa generalizza. E il caso in cui una marcia viene montata al ritmo di marcia, e un valzer al ritmo di valzer. Còme esempio intermedio si può pensare a un montaggio «metaforico» in cui dei «funerali» siano montati con un «valzer» oppure un «valzer» con dei «funerali». Questo accade nei casi in cui (come si è detto sopra, nella prima parte) la composizione interpre­ ta diversamente la rappresentazione. C’è, infine, il caso della generalizza­ zione ritmica del contenuto interno: è il caso in cui il disegno e la formula del ritmo ripetono l’andamento interno del contenuto che si rivela, rafforzandolo attraverso l’alternanza e la durata degli intervalli coerenti

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Il montaggio nel cinema sonoro

con le tensioni della dinamica interna del contenuto. (Qui non c’è già più bisogno di scegliere lo schema rappresentativo concreto di un altro contenuto per esprimere un giudizio su questo contenuto. Noi lo definia­ mo come disegno traslato metaforico del ritmo. Un esempio può essere il «funebre ritmo di valzer»). Il montaggio possiede comunque due funzioni inscindibili: di rac­ conto e di generalizzazione ritmica del racconto. Di questo ho parlato esaurientemente in una conferenza alla Sorbonne (Parigi, febbraio 1930) [H5]. In base alla disposizione di queste due funzioni, nei miei programmi di studio al vgik e nei miei saggi precedenti ho classificato i tipi di montaggio in due «colonnine». In una di esse sono analizzate le varietà del principio narrativo (rappresentativo) del montaggio. Nell’altra le varietà dei procedimenti che consentono il passaggio al ruolo di immagi­ ne generalizzata del montaggio, considerati come modificazioni di quel principio ritmico che abbiamo già formulato nei termini di una condizio­ ne limite della generalizzazione che non mette capo in un’astrazione. Ricordiamo queste classificazioni, ben note a tutti, così come sono riportate nel mio programma del corso di regia del 1935 [116].

Tipi di montaggio di ordine semantico: a) montaggio parallelo al processo di sviluppo dell’evento (montaggio primitiva­ mente informativo); b) montaggio parallelo al movimento di determinate azioni (montaggio «paral­ lelo»); c) montaggio parallelo al senso (montaggio di confronti primitivi); d) montaggio parallelo al senso e al significato (montaggio secondo l’immagine [obraznyj\)\ e) montaggio parallelo all’idea (montaggio che costruisce un concetto)... Qui sono enumerati i possibili tipi di montaggio che derivano dalla combinazione del contenuto narrativo dei singoli pezzi (della rappresen­ tazione). La seconda colonnina si legge così:

Tipi di montaggio di ordine cinetico: a) metrico; b) ritmico; c) tonale (melodico); d) sovratonale; e) intellettuale, come nuova qualità sulla linea di sviluppo del montaggio sovratonale sul versante dei sovratoni semantici.

Il ritmo

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Qui sono enumerati i tipi di montaggio che derivano dalle possibilità dello stesso processo di combinazione dei pezzi; si analizzano cioè le possibilità secondo le quali un’idea può realizzarsi non solo nelle rappre­ sentazioni interne ai pezzi, ma anche attraverso differenti forme e pro­ cessi di combinazione che sono possibili anche oltre, e talvolta anche malgrado le funzioni solo strettamente narrative del montaggio; vale a dire, più esattamente, attraverso funzioni narrative di ordine più elevato e generalizzato (il ritmo, cosi come lo intendiamo noi e come lo abbiamo definito fin qui). Forse a questo punto la cosa più chiara consiste nel dire che il passaggio dal cinema della ripresa da un unico punto al cinema di «montaggio» secondo un’interna linea di sviluppo è una sorta di riflesso del processo che avviene in uno stadio determinato dello sviluppo di qualsiasi coscienza, e cioè: il passaggio dalla riflessione sui fenomeni in quanto tali alla riflessione sulle relazioni tra i fenomeni Appassionato e quasi catturato da questo progresso, il cinema di montaggio, in alcuni casi estremi, non è sfuggito agli eccessi del «principio di montaggio» inteso come processo della relazione tra i fenomeni, a volte persino a scapito della rappresentazione dei fenomeni stessi! Sempre alla Sorbonne, salutando calorosamente «l’apparizione del film sonoro al popolo» [117] - e a quel tempo il «riconoscimento» del film sonoro era ancora oggetto di discussioni! - dissi che questo «sistema a doppia carica» costituisce un fondamentale principio disgregante presente nel montaggio. Nel film sonoro io vidi la via d’uscita da questa contraddizione interna delle due funzioni del montaggio. Effettivamen­ te, la rappresentazionalità e il ritmo interno del montaggio entrano inevitabilmente in conflitto. La flessibilità del ritmo esige a volte un «taglio» microscopico (fino a pezzi di montaggio di due-tre fotogrammi). La rappresentazionalità del pezzo richiede in primo luogo una durata sufficiente, e la costruzione ritmica deve procedere sempre con circospe­ zione: non perdere di vista il principio narrativo e dimostrativo, non «uccidere» la rappresentazione del pezzo. Il racconto, da parte sua, deve avanzare tenendo d’occhio il ritmo: non «straraccontare» fino alla perdi­ ta del legame ritmico tra i pezzi del racconto semplicemente infilati uno dopo l’altro. Il dispensamento del pezzo di montaggio dalle sue funzioni ritmiche temporali è stato uno dei più importanti principi progressivi che il film sonoro abbia potuto introdurre e introdusse. Ma sottolineo funzioni ritmiche temporali, poiché è perfettamente chiaro che in esse soltanto, cioè nel gioco delle durate, stava la difficoltà di cui ho parlato. La responsabilità della ritmicità plastica della rappresentazione era per­

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tanto destinata a crescere in queste condizioni di maggiore durata di visione del pezzo, e per questo al problema della composizione classica dell’inquadratura abbiamo dedicato qui un intero capitolo. Ma questa trattazione già contiene in sé potenzialmente tutta la teoria della correla­ zione tra rappresentazione visiva e suono. Infatti, il principio ritmico al quale abbiamo attribuito il significato di generalizzazione limite (senza cadute nell’astrazione), nel film sonoro lascia il terreno della distribuzio­ ne dei pezzi per trasferirsi in una nuova dimensione in quanto «profilo» sonoro che penetra la serie dei pezzi esattamente come faceva il profilo lineare43 fìsico avvolgente nel caso della rappresentazione plastica44 o l’«andamento» ritmico del movimento attraverso la combinazione dei pezzi di montaggio nel caso del cinema «di montaggio». Si ribadisce così il legame inscindibile dell’unità della concezione di montaggio attraverso tutti e tre i suoi stadi qualitativamente diversi. E si determina il posto del suono non come elemento estraneo, introdotto di forza nel cinerqa, ma come elemento organico, come ulteriore sviluppo di tratti e principi già presenti nella struttura espressi­ va dell’immagine cinematografica. Questa conclusione è facilitata dal fatto che noi concepiamo l’immagine come interconnessione biplanare delle due dimensioni di una stessa soluzione espressiva. È abbastanza chiaro che, sebbene in maniera incompleta e piuttosto approssimativa, il teatro può servire al contrappunto audiovisivo come una sorta di «Vorschule». Almeno nei casi in cui la combinazione della partitura sonora con la partitura dell’azione è posta in via di principio nel campo dell’attenzione e praticata con sufficiente coerenza. E proprio in seguito a una personale esperienza teatrale di questo genere che sono arrivato al cinema. Se ripensiamo a quell’esperienza, anche solo limitatamente alla mia prima completa e autonoma messa in scena - Anche il più saggio ci casca (1922-1923) - ci accorgeremo che al suo interno compariva allo stato puro la dualità di piani della composizione in quanto raddoppiamento materiale dell’azione. Si trattava del principio per cui ogni prestazione dell’attore doveva andare oltre i propri limiti. Lo «stupore» dell’attore, per esempio, non doveva limitarsi al fatto che «aveva indietreggiato». Aver indietreggiato non era sufficiente; ci voleva ancora un salto mortale

° Oppure il percorso conoscitivo determinato dalla appropriata correlazione degli elementi della rappresentazione. 44 Di un quadro o di una singola inquadratura.

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all’indietro, ecco il compito che gli aveva imposto la furia giovanile del regista. Analogamente, l’infuriato Mamaev, «pronto a lanciarsi» sul ritratto caricaturale fattogli dal nipote Kurcaev, per volontà del regista doveva effettivamente lanciarsi sul ritratto e, come se non bastasse, volarci attraverso lacerandolo con un saut de lion. La replica della Mamaeva «rompiti l’osso del collo» [118] si materializzava immediatamente con l’introduzione di un «albero della morte» che veniva piantato nella cintura di Krutickij e su cui la Mamaeva si arrampicava per eseguire un numero da circo, la «pertica». Era come se le metafore si svolgessero all’indietro verso il loro prototipo non traslato, originario, diretto e letterale, provocando in tal modo un effetto comico-grottesco «aristofa­ nesco». (L’antica farsa faceva uso di questo procedimento). Su un analogo piano metaforico, l’«immagine» dell’ussaro Kurcaev fu risolta nel modo forse più divertente. L’idea della sua nullità, della sua trivialità e banale «normalità» fu risolta facendo interpretare la sua parte da tre attori contemporaneamente: vestiti allo stesso modo, muovendosi allo stesso modo, costoro declamavano in coro l’insignificante contenuto delle sue battute! Se ora ripensiamo ai casi di svolgimento all’indietro delle metafore secondo il procedimento che abbiamo descritto sopra, per esempio, nella soluzione della scena con Vautrin, ci sarà chiara la completa unità del metodo. Ma il livello d’intensità della sua applicazione produce effetti diversi. Un’insufficiente applicazione riduce la costruzione a un informe naturalismo, l’incarnazione meccanicamente letterale della me­ tafora è responsabile, invece, di un effetto comico-grottesco. Qui, se volete, c’è persino un riscontro diretto col metodo (se non addirittura con l’ampiezza di applicazione del metodo!) dello stesso Ostrovskij: i suoi cognomi del chiacchierone «Gorodulin» o della vecchietta supersti­ ziosa «Tunisina» [119], che vive delle balle e delle fandonie dei parassiti, sembrano designazioni metaforiche, e le loro apparenze sceniche e i loro comportamenti altro non sono che le «metafore svolte» dei loro cognomi incarnati in immagini e caratteri vivi. Questa condizione, estesa a tutto lo spettacolo, fece sì che la forma teatrale stessa volasse via con una piroetta ritrovandosi nell’arena di un circo immaginario, e lo spettacolo si rivelasse uno spettacolo teatrale risolto nella forma della rappresentazione circense. Qui, in modo estre­ mizzato e paradossale, osserviamo lo stesso fenomeno di cui ci stiamo occupando adesso. La rappresentazione teatrale dell’emozione precipi­ tava nell’astrazione circense del movimento. E così la commedia dei

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caratteri di Ostrovskij straripava nel gioco delle maschere tipizzate della commedia italiana e dei suoi propronipoti dell’odierna pista del circo. L’operazione ci sembrava ben fatta perché Ostrovskij, lavorando sulla tradizione del teatro spagnolo e italiano, aveva fatto esattamente il contrario: aveva personificato una serie di maschere generalizzate nell’a­ spetto caratteristico di una galleria di tipici moscoviti suoi contempora­ nei. Ragionamento intrinsecamente degno di una dissertazione della maschera-scienziato del dottore di Bologna... Ma la sua applicazione pratica provocò una tempesta di riso e allegria proporzionale alle trovate comiche della maschera stessa. In un modo o nell’altro, in questo primo passaggio attraverso la concretezza del teatro traspariva l’astrazione generalizzata del circo. La prima duplicità di piani di questo spettacolo portava dal teatro «giù» fino al circo. La seconda, dal teatro «su» fino al cinema. Non solo perché, secondo il nostro orientamento «programmatico», il normale avvicenda­ mento di atti e scene fu ristrutturato in una composizione detta «montag­ gio delle attrazioni» che volgeva in un «numero» a sé ogni frammento della commedia, il tutto unificato in un «montaggio» a immagine e somiglianza di un programma da music-hall. Non solo per questo, ma anche perché la stessa azione alla fine dello spettacolo si trasformava in un film ché prevedeva, inoltre, un gioco reciproco degli attori in scena e sullo schermo. La storia del furto del diario di Glumov fu «generalizza­ ta» in un frammento di film che parodiava una detective-story. Noi tutti allora andavamo in estasi per L'ombra grigia, J misteri di New York, La casa dell'odio e in genere per Pearl White. H contenuto del diario parodiava l’idea del «Pathé-journal»: un’altra nostra passione, a quell’e­ poca, era la cronaca, i primi lavori di Vertov nel campo della Kinopravda. Ma era divertente il fatto che anche questo contenuto generalizzava in metafore visive (letterali e proprio per questo comiche) certe situazioni della commedia rispetto alle quali le pagine del diario fungevano da confessione. Glumov era entrato nelle grazie dello «zietto» Mamaev fingendo di mettere la testa a posto: nell’interpretazione cinematografica Glumov, con una piroetta, si trasforma in un asino ubbidiente che ascolta docilmente la predica. Davanti a Krutickij si era atteggiato a militarista, e il cinema, con una premurosa piroetta-dissolvenza, lo tra­ sforma in un piccolo cannone. La presenza della «zietta» che, con la scusa dei sentimenti di parentela, si era presa troppe libertà con il suo «piccolo» nipote, costringe questo colossale spilungone a diventare, con una piroetta in dissolvenza, un tenero bimbetto. In tal modo il teatro scivolava nel cinema, spingendo le metafore su livelli di letteralità inac­

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cessibili al teatro. E a coronamento dell’opera, un ultimo tocco: alle chiamate del pubblico io non venni fuori a inchinarmi ma mi presentai sullo schermo, salutando al modo del gallo della Pathé, con la mia zazzera di allora, degna della testa del leone della Metro Goldwin Mayer! Molto tempo fa, nell’opuscolo II loro presente, Sklovskij scrisse della mancanza di collegamenti tra II Saggio e il Potemkin:

H processo della creazione di un’opera è dialettico, si sottomette all’analisi scientifica, ma non si risolve con la regola del tre dell’aritmetica. Se Puskin fosse stato ordinato a qualche esperto di uomini, molto difficilmente costui avrebbe indovinato che per ottenere un Puskin non sarebbe stato male far venire un nonno dall’Abissinia. Per la creazione del suo stile eroico, Ejzenstejn è dovuto passare attraverso il montaggio delle attrazioni eccentriche. Ma è risultato che un certo collegamento c’era. Se il metodo era un paradosso nel Saggio e un principio di scrittura realistica nel Potemkin, adesso ci sta davanti come la via per la chiarificazione dei più importanti principi universali della composizione in generale, non solo nel cinema, ma ben oltre i suoi confini, come cerchiamo di motivare e dimostrare in questo studio.

H sonoro nel cinema muto. Sciopero, Ottobre, Potemkin

Ma torniamo al nostro tema esplicito e fondamentale. Abbiamo parlato di presupposti e di «Vorschule» teatrale. Per quanto mi riguarda, ne ho tratto l’esperienza sensibile della duplicità di piani che consente di ^articolare una soluzione tematica su varie dimensioni che si intersecano reciprocamente e, per quanto possa sembrare strano, è proprio nei primi passi del cinema che quella pluralità di dimensioni avrebbe trovato applicazione. Bisogna tener presente, comunque, che lasciai piena libertà alla soluzione paradossale di cui ho parlato soltanto nello spettacolo II Saggio. I miei lavori teatrali successivi riportarono la linea di applicazione del metodo della metafora «svolta» e dell’immagine generalizzata nei confini della scrittura realistica. A ogni modo, già con Sciopero compare quella che potrei definire la prima esperienza sonora nel mio lavoro cinematografico, sebbene in quell’oc­ casione tutta l’attenzione fosse ovviamente concentrata sull’assimilazio­ ne della «specificità» del cinema e sulla rieducazione del pensiero nel passaggio dallo stadio teatrale a quello cinematografico. Si tratta di una

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scena ài Sciopero. Proviamo a ricordarla. A suo tempo fu accolta in modo particolarmente caloroso. Dal punto di vista narrativo, a parte il suo lirismo, non si differenziava per nessuna cosa in particolare. E lo stesso vale per il procedimento tecnico che avevo adottato. Evidentemente si trattava della sensazione o del presentimento che il compito che mi ero proposto - un compito che andava già oltre i limiti e i confini del cinema muto - prima o poi sarebbe stato pienamente risolto. Non solo, ma anche del fatto che questo compito, affrontato in modo convenzionale con i soli mezzi visivi, con la semplice correlazione di questi mezzi visivi, aveva già stabilito con precisione il loro destino futuro e li aveva definiti esattamente in rapporto alle loro rispettive funzioni che cadevano sulla rappresentazione e su ciò che - per dirla chiara - era un tentativo di manifestare il suono con gli strumenti di ripresa dell’oggetto visivo. Si tratta della scena della «fisarmonica», nella prima parte del film, che i «veterani» della cinematografìa forse ricordano ancora. Ecco in che cosa consisteva la nostra scena: sotto F apparenza di una semplice festa serale al suono delle fisarmoniche nei dintorni verdeggianti del villaggio ope­ raio, con sottofondo di canzoni, si tiene in realtà «per strada» una riunione volante dei membri del futuro comitato di sciopero. Numerose altre scene di complotti cospirativi erano incluse nella prima parte del film. Nessuna di esse, però, fece altrettanta impressione. Il trucco che focalizzava Fattenzione generale proprio su questa scena tra le altre analoghe, era il seguente. A quei tempi mi entusiasmava in generale la doppia esposizione. E in particolare la doppia esposizione di oggetti nettamente differenziati per la grandezza. Forse ciò dipendeva dalla mia ancora persistente simpatia per la molteplicità spaziale di piani del cubismo, di cui le doppie esposizioni costituivano, almeno fino a un certo punto, un trapianto nel cinema. Ma ora sospetto che in realtà si trattasse di una passione, forse ancora confusa, per quella molteplicità e dualità di piani che ormai non si manifesta più come un gioco di trucchi, ma come una profonda comprensione dell’indissolubile unità dei due piani con cui si presenta ogni fenomeno: la rappresentazione, cioè, dello stesso fenomeno, attraverso cui, quasi come una seconda esposizione, si palesa la generalizzazione del suo contenuto. Dunque, la scena della «fisarmonica» comprendeva un pezzo a doppia esposizione i cui due piani stabilivano una correlazione semantica come quella di cui stiamo parlando. E certamente essa attirò l’attenzione perché il procedimento non fu utilizzato in senso strettamente plastico, ma come un mezzo per affidare la rappresentazione visiva alla prima esposizione e il suono alla seconda. La rappresentazione dell’avvenimento e dell’oggetto del suono

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era affidata a un piano generale concreto e oggettivo, e Videa dello stesso suono, il suono della fisarmonica, a un primo piano. La scelta di un primo piano per la seconda esposizione qui è del tutto giustificata e corretta: il primo piano è già di per sé astratto (essendo escluso dai margini dell’inquadratura dai rapporti abituali). Ma qui Parte di Tissé ci consentì di raggiungere l’astrazione della stessa fisarmonica: il suo aspet­ to fotografico fu elaborato al punto da trasformarsi in una composizione di fasce luminose che si avvicinano e si allontanano. Si trattava del movimento delle fasce metalliche che ferrano le pieghe del soffietto della fisarmonica. Queste strisce, avvicinandosi e allontanandosi, ondeggiava­ no ritmicamente al centro della rappresentazione, lasciando trasparire la lontana profondità con la macchia bianca dello stagno alla fine del viottolo sul quale si muoveva, «dentro» lo strumento, un piccolo gruppo di giovani operai che cantavano. La profondità scompariva ai bordi dell’inquadratura dove, nella zona più nitida e materiale del primo piano, apparivano le tastiere della fisarmonica e le dita che suonavano su di esse. Il ritmo del movimento delle strisce coincideva con il ritmo del gruppo che camminava e il suono ottenuto mediante questa convenzione plastica era come se afferrasse e abbracciasse il paesaggio nella canzone, generalizzando tutta la scena. Tale fu la pre-esperienza di Sciopero nel campo del suono. Anche i miei lavori seguenti nel cinema muto conobbero qualche escursione, qualche «puntata» nel campo del suono. In Ottobre, per esempio, ce ne sono addirittura tre tipi. In un caso si tratta di oggetti visivi che giocano sulla loro capacità di essere afferrati dall’udito. Tali sono le nostre mitragliatrici che, rotolando sulle mattonelle di pietra del pavimento fin dentro lo Smol’nyj alla vigilia dell’Ottobre, disturbano il delicato udito di coloro che siedono dietro le porte della stanza dei menscevichi. Il gioco dei rintocchi d’orologio nelle ore dell’assalto al Palazzo d’inverno. Il tremolio dei lampadari di cristallo del palazzo deserto al fragore della sparatoria sulla piazza ecc. A queste rappresentazioni si lega indissolubil­ mente il senso del loro suono naturale. U suono appariva invece non localizzato e del tutto innaturale quando era usato in modo convenziona­ le e tale da condurre, attraverso il montaggio, a complesse strutture barocche di associazioni sonore: è il caso dell’inserimento delle arpe o delle balalaike nel primo piano dei menscevichi e dei socialisti rivoluzio­ nari che parlano al Secondo congresso dei Soviet nel tentativo di arginare l’insurrezione armata quando il Palazzo d’inverno era già praticamente preso. È del tutto evidente che queste costruzioni plasticamente impac­ ciate non sono altro che il tentativo di raggiungere con enormi difficoltà

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sul piano plastico qualcosa che la più modesta colonna sonora avrebbe potuto fare in tutta facilità realizzando col suono un commento ironico nei confronti del testo dei discorsi. Tra questi due estremi troviamo un esempio del tutto particolare. Nel momento dello sparo dell’incrociatore «Aurora» il Governo provvisorio è in riunione nel Palazzo d’inverno: una riunione interminabile, penosa e senza scopo. II proiettile colpisce il Palazzo. Ma nel film i membri del governo non se ne accorgono subito. H boato dello sparo «rotola» fino a loro attraverso le migliaia di stanze del Palazzo d’inverno (è come se loro stessi fossero stati dimenticati nelle viscere del palazzo). Ecco la soluzione della scena: il colpo del proiettile all’angolo del palazzo, con tutti gli accenti di montaggio necessari a farlo «sentire», andava a «sfondare» l’inquadratura immediatamente successiva apren­ do sul suo fondo scuro un diaframma che si allargava rapidamente dal centro. Si apriva così la veduta in profondità di un lungo locale (l’arcata di marmo che porta allo scalope del Giordano), poi il diaframma si chiudeva un po’ più lentamente per aprirsi di nuovo ancor più lentamen­ te, scoprendo questa volta una nuova sala che si allontanava in profondi­ tà (credo la Sala di Malachite) ecc. Aprendosi e chiudendosi, aprendo e chiudendo di conseguenza le profonde prospettive delle sale con un rallentamento graduale secondo il tempo del diaframma e la lunghezza di montaggio dei pezzi, sono riuscito ad afferrare plasticamente il senso di un’eco che si va spegnendo, che rotola nel profondo del palazzo attraverso l’interminabile fuga delle sue sale. L’ultimo diaframma apriva l’ultima sala dove sedevano i ministri impietriti. I ministri sussultavano: l’eco era rotolata fino a loro. È quasi una caricatura da Omero. E pienamente appropriata, dopo tutto, se ci ricordiamo del ruolo «omerico» (omerico, come può essere omerico il riso! ) di quei personaggi temporanei padroni della terra russa. Da quell’Omero delle guerre troiane che mescola il grido dei mortali con il «grido degli dèi, elevantesi al cielo e penetrante nel Tartaro, il grido che scuote le montagne, e la città, e la flotta ma, allo stesso tempo, non raggiunge gli umani. Il grido, infatti, era tanto forte che i piccoli strumen­ ti dell’udito umano non potevano percepirlo...». Così scrive Lessing nella ventisettesima nota al Laocoonte, considerando il procedimento completamente riuscito. L’effettiva stranezza del fatto che il Governo provvisorio non senta lo sparo dell’«Aurora» dalla finestra che dà sulla Neva, ma soltanto attra­ verso il rimbombare dell’eco per il corridoio, si elimina con il suo valore di immagine. Questo gruppo di «governanti della Russia» aveva dimo­

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strato la stessa «cecità acustica» anche nei riguardi del rombo degli avvenimenti che scuotevano il Paese nell'ottobre del diciassette. Essi videro e capirono questo processo quando era ormai troppo tardi e solo quando un’onda reale di masse in rivolta dilagò per gli stessi corridoi e arrivò fino alla porta della loro isoletta in mezzo alle mille sale del palazzo. In questo senso l’eco dello sparo dell’«Aurora» che corre per le sale fu come il precursore del cammino della slavina umana che avrebbe sommerso il palazzo facendo, con un vortice storico, piazza pulita «di tutti coloro die tentavano di resisterle»45. Tuttavia la passione così esdusiva di questo film per i problemi della forma e per gli esperimenti formali non poteva che reagire negativamen­ te sul film nel suo complesso. Fu innanzitutto il difetto di attenzione nei confronti della comprensione del grande avvenimento storico che era al centro del film a condurre a molti errori di ordine politico. Ma se si è pagato un prezzo così alto per le ricerche formali, tanto più grande, allora, deve essere la nostra attenzione nel fare in modo che l’esperienza formale e ciò che di vivo c’era nella parte sperimentale di Ottobre si conservino negli annali della formazione dell’arte del cinema sovietico. È così anche per 11 vecchio e il nuovo. Purtroppo è così anche per la catastrofe del Prato di Bezin. Ma se le osservazioni appena fatte mi obbligano, quando sia necessario, a far riferimento agli errori dei miei lavori precedenti, ciò non mi impedisce tuttavia di prenderli in conside­ razione come esempi di esperienze nel campo della forma quando non siano danneggiati da errori di trattazione della storia o della realtà contemporanea. Da questo punto di vista, il primo serio passo per comprendere il legame tra suono e rappresentazione non fu compiuto nei lavori prece­ denti, ma nel Potemkin. Dagli esempi riportati risulta chiaro che già all’interno del cinema muto molte cose erano state concepite in termini audiovisivi, e per di più secondo i più diversi aspetti di utilizzazione del suono: in modo naturalistico, grossolanamente metaforico (arpe e bala­ laike; come anche la metafora positiva della mitragliatrice che si incrocia con il discorso incalzante e animato del bolscevico che nel congresso sferza menscevichi e socialisti rivoluzionari) e, infine, in modo sufficien­ temente elaborato dal punto di vista dell’immagine («l’eco» nel Palazzo d’inverno). H problema fu posto efficacemente e in tutta la sua portata 45 Una counterpart di tutto ciò si trova nella mia commedia mai allestita MMM, in cui il suono doveva percorrere dolcemente una fila di stanze, colpire l’orecchio del dormiente e, quasi fosse stato da questi respinto, volate indietro precipitosamente attraverso le stesse stanze.

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quando per la prima volta ho dovuto affrontare non un «arrangiamento» sonoro o, per così dire, un «centone» sonoro da varie opere musicali per «illustrare» un film, ma la possibilità di avere una musica composta appositamente per un film. Questo accadde proprio con la Corazzata. Nel 1926 a Berlino, quando Edmund Meisel fu invitato a scrivere un’apposita partitura sonora per il film, in occasione della sua distribu­ zione in Europa e in America. A quell’epoca mi trovavo a Berlino e potei fornire a Meisel le direttive principali per il suono proprio come me le immaginavo io. Purtroppo non riuscii a farlo in modo dettagliato, ma solo per ciò che mi ricordavo. Ripensiamo un momento alla nostra concezione del ritmo che si contrappone in tutti gli aspetti a una definizione solo formale. Abbiamo visto che per noi il ritmo in tutti gli stadi del cinema svolge sempre la stessa funzione. Abbiamo analizzato dappertutto il ritmo come il limite della generalizzazione del tema, come l’immagine della dinamica interna del suo contenuto. Ciò accade già all’intemo del pezzo di montaggio (nelle condizioni della ripresa da un solo punto). In quel caso è proprio il ritmo delle curve delle linee di contorno a generalizzare «in immagine» il contenuto e la rappresentazione dell’inquadratura e della linea che avvolge la rappre­ sentazione stessa (per la serie delle inquadrature coordinate in progres­ sione abbiamo mostrato lo stesso fenomeno nell’esempio dell’appendice [120]). Il ritmo assolve allo stesso compito anche nel combinare le masse di oggetti mobili o immobili all’interno di un quadro o di un’inquadratu­ ra. Questa condizione infine è stata risolta dal ritmo anche quando si è trattato di costruire l’immagine generalizzata attraverso il ritmo delle gradazioni luminose della rappresentazione (le nebbie nel Potèmkin, sia nella gradazione all’intemo delle singole inquadrature, sla ncila combi­ nazione di queste gradazioni lungo l’intera sequenza delle inquadrature dell’alba). Esattamente lo stesso è il ruolo del ritmo nel comportamento dell’at­ tore. Il ritmo è il passo successivo sulla via della «immaginità» generaliz­ zata, che si apre con la metafora del gesto di cui abbiamo scritto sopra. Qui non entreremo nei particolari di questo problema, riservando i temi collegati con l’arte dell’attore a un’indagine a parte. Ma fin d’ora possiamo dire che proprio il ritmo dell’azione dell’attore all’intemo dell’inquadratura costituirà l’elemento di massima generalizzazione del contenuto delle sue azioni. Infine, e con estrema evidenza, attraverso il ritmo prende forma in modo particolarmente potente la generalizzazione nel montaggio in

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quanto tale, senza la quale esso non sarebbe che una semplice somma «informe» di fatti in successione. Noi non ci siamo limitati a questa constatazione, ma abbiamo esami­ nato sperimentalmente il movimento delle possibilità interne al ritmo stesso. In questo senso abbiamo parlato di «stadi» più raffinati del principio ritmico. Così, riguardo al montaggio, abbiamo introdotto in un unico sistema con il ritmo i principi melodico, tonale e sovratonale (armonico). I sovratoni della rappresentazione visiva ci hanno fornito la possibili­ tà di stabilire un criterio di comparabilità fisiologica della rappresenta­ zione e del suono grazie ai sovratoni sonori. Si tratta dei primi tentativi di tastare la paragonabilità delle sfere della rappresentazione e del suono in generale, i primi passi sulla via del ritrovamento di legami più profondi, psicologici e semantici. (Ci occuperemo di questo più avanti, al momen­ to opportuno). Qui bisognerà ripetere che il ritmo è stato il principio decisivo per la comprensione della correlazione organica di suono e rappresentazione sul piano dell’immagine, e che esso coinvolge tutti gli elementi e tutte le fasi della nostra concezione unitaria del cinema. Non si trattava certo di costruire il montaggio e di scrivere la musica secondo un identico ritmo. Non c’è niente di più semplice e di più insensato di questo. Io formulai a Meisel la mia esigenza in fatto di musica come «ritmo, ritmo e ancora ritmo prima di tutto». Ma in nessun caso nel senso delle coincidenze ritmiche di suono e rappresentazione. Bisognava concepire il ritmo della musica come una sfera dell'espressivi­ tà. Ciò che Meisel comprese e realizzò pienamente nella quinta parte del film (alla quale la mia esigenza principalmente si riferiva), nel movimento delle macchine del Potemkin al momento dell’incontro con la squadra. Ho già parlato particolareggiatamente del ritmo di montaggio come di un mezzo per portare la rappresentazione di montaggio sul piano dell’imma­ gine generalizzata. È quanto accade nel modo più completo nella Scalina­ ta di Odessa: in questa scena ho esposto il mio pensiero al livello più alto, e, proprio per questo, tale da far sentire esplicitamente e fino in fondo il metodo stesso. La scalinata di Odessa era La quarta parte del film. Nella successiva, e conclusiva, quinta parte, naturalmente, si pensò di elevare l’intensità dell’espressività ancora di più. Il ritmo interno ai mezzi della rappresentazione era stato lo strumento generalizzante utilizzato fino alla fine del quarto atto del dramma. Rimaneva da elevare il principio stesso del ritmo da una sfera all’altra, da un campo di applicazione a un altro. Così il ritmo del movimento delle macchine ha oltrepassato i

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confini del campo della rappresentazione, spostandosi nel campo del suono. Tale fu la forza d’immagine di questa soluzione e tale la sua persuasività dal punto di vista dei principi che, come si è chiarito più tardi, essa entrò nella storia della musica cinematografica come una tappa fondamentale, una lezione determinante. Ecco, ad esempio, ciò che scrive Kurt London in La musica delfilm (ed. «Iskusstvo», 1937, p. 62) a proposito di Meisel:

Ancor più interessante è la figura di Edmund Meisel, scomparso prematuramen­ te... Il suo stile espressionistico orientato soprattutto sul ritmo ha danneggiato di molto tutti i film per i quali ha scritto la musica, escluso il Potèmkin, H documentario Berlin di Ruttmann, per esempio, fu rovinato dall’aspra atonalità della sua musica. Più tardi, non molto prima della fine della sua breve vita, egli cominciò a lavorare in maniera un po’ più misurata. Meisel resta uno dei grandi fondatori della musica cinematografica e in particolare è apprezzato come creatore della scuola ritmica. Io penso che questo giudizio su Meisel raggiunga la piena chiarezza se trascriviamo anche un altro brano della citazione riportata sopra: Le sue prime esperienze di lavoro nel cinema sonoro, dopo le quali ben presto si spense, hanno dimostrato che, morendo, egli ha in un certo senso condiviso la sorte del cinema muto: evidentemente, si sottomise alle leggi del cinema sonoro solo con difficoltà e malvolentieri.

A un primo sguardo queste parole possono sembrare non tanto una precisazione o un chiarimento, quanto piuttosto una contraddizione! Tuttavia non è così. E la seconda citazione discende dalla prima in maniera del tutto logica. Perché il suo «stile espressionistico orientato soprattutto sul ritmo», «che aveva rovinato» tutti gli altri film, non «rovinò» il Potèmkin? Perché questo orientamento sul ritmo si era sviluppato dirertamente dalle esigenze dello stesso film e... dello stesso regista e non come uno stile, ma come una determinata soluzione espressi­ va, Come e perché, abbiamo cercato di mostrarlo sopra. Temo che Meisel, persuaso dall’efficacia di questa soluzione nel Pòtèmkin, dove essa era cresciuta come un’esigenza dal profondo della stessa opera, l’abbia poi sviluppata meccanicamente in un procedimento, uno stile, una «scuola». In realtà, quando una simile soluzione non fosse cresciuta come una necessità espressiva interiore, come capitò a Meisel in altri casi, non solo l’effetto, ma anche il metodo e la scuola erano condannati a fare fiasco. Ma c’è di più. Il lavoro sul nudo ritmo come soluzione sonora in qualche modo paradossale risultava molto efficace per le esigenze esclu­ sive del Potèmkin, ma non poteva diventare o restare un procedimento

Sequenze tratte da Il diario di Glumov, 1923 (filmato realizzato da Ejzenstejn e inserito nello spettacolo teatrale Anche il più saggio si sbaglia}

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soddisfacente, una «panacea» onnicomprensiva per tutte quante le solu­ zioni musicali. Il tratto caratterizzante, soprattutto in rapporto a Berlin di Ruttmann, qui consiste nel fatto che nel Potemkin il nudo ritmo funzionava come immagine generalizzata, come la forma più alta per esprimere la tensione interiore di un’emozione del tutto coerente col tema. Non si trattava della generalizzazione del ritmo delle macchine al lavoro, ma della generalizzazione del battito cardiaco del collettivo di marinai della corazzata, rispetto al quale le stesse macchine fungevano da immagine plastica generalizzante. In questa condizione, probabilmente, è custodito il segreto del successo irripetibile della «scuola ritmica» della musica cinematografica nel suo incontro con i film muti. È facile immagi­ narsi, anche senza ricordare Berlin di Ruttmann, come in altri casi «lo stile espressionistico orientato soprattutto sul ritmo» non arrivasse a produrre alcuna forma suprema di generalizzazione, ma semplicemente un tormento per le orecchie dello spettatore assordato dal battito e dal rullare scandito di tamburi per qualsiasi pretesto esteriore, senza alcuna ragione, cioè, per rappresentare ritmicamente il movimento di uomini, oggetti o fenomeni. In questi casi l’atonalità non poteva dare nient’altro che un effetto inanimato, meccanico e formalistico. Ma per l’insuccesso di un lavoro nel cinema sonoro, questo è certamente ancora troppo poco. Meisel si impelagò nel campo del ritmo in quanto tale. Il ritmo è ciò che io chiamerei la parte pantomimica della musica. Cioè la sfera del cinema muto all’interno di quello sonoro. Il film sonoro è passato dalla pantomi­ ma dell’uomo all’uomo che esprime i suoi sentimenti con la voce, la parola, l’intonazione. Anche l’estetica sonora della «scuola ritmica» dovrebbe avanzare oltre i confini del principio pantomimico del nudo ritmo. L’intonazione è uno stadio del movimento complesso del corpo. È un livello più fine dello stesso movimento espressivo che modula le sonorità della voce, le quali a loro volta sono altrettanti movimenti di organi umani (le corde vocali), ma movimenti di una tale frequenza e finezza da essere percepiti non già attraverso spostamenti visivi, accessi­ bili alla vista, ma attraverso sonorità, accessibili all’udito. Il ritmo della musica è la conseguenza di movimenti corporali originariamente connes­ si con un lavoro o una danza precedenti che poi sono diventati propria­ mente musica. La voce con le sue modulazioni e intonazioni è il precur­ sore del principio melodico e resta la fonte da cui si può ricavare il fondamentale contenuto di emozione umana della parte melodica della musica. È naturale che l’aspra atonalità della scuola ritmica, con il passaggio alle possibilità di gran lunga più ampie e alle raffinate esigenze di partitura del film sonoro, dovesse suonare arcaica: ima sopravvivenza,

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un elemento organicamente estraneo. Io penso che sia questa la via per tratteggiare ciò che potremmo chiamare «grandeur et misère» della storia della creazione musicale di Edmund Meisel nel cinema. Comun­ que il passaggio dal secondo al terzo stadio del cinema è avvenuto attraverso il nostro lavoro comune e proprio in base a quel ritmo che nella sua creazione non riesce a svolgere la funzione più preziosa e non è in grado di trasferire questa funzione, oltre i confini dell’atonalità, nella fase successiva di sviluppo. Proprio in base al ritmo: vale a dire, alla nostra concezione del ritmo e di tutti i suoi derivati di dimensioni superiori.

La voce, il gesto

Rappresentazione e immagine nelle tre fasi del cinema (un quadro generale) Ora, in rapporto alla tappa del montaggio nel cinema.sonoro, biso­ gna sottolineare ancora una volta un punto importantissimo. E cioè che la musica, intesa in senso ampio sia come parola, sia come voce', sia come suono in generale48, non è qualcosa di totalmente nuovo che fa il suo ingresso nella cinematografìa solo con il cinema sonoro. Infatti nelle tappe precedenti del cinema noi abbiamo il diritto di analizzare come una particolare «premusica» numerosi elementi e tratti che svolgono

47 Qui non è ancora stata fatta la ripartizione in lunghezze fisiche dei pezzi e in lunghezze psicologiche-, cioè la derivata del rapporto tra lunghezza reale del pezzo e carico psichico del suo contenuto. (Bisogna sviluppare i temi della relatività della percezione della lunghezza del pezzo). 48 Insisto su questa correlazione e non sulla formula «il suono, inteso in senso ampio sia come

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funzioni artistiche perfettamente determinate. L’analisi di questi ele­ menti ci aiuta a individuare esattamente il ruolo del suono nel film sonoro e a chiarire il suo posto all’interno di quella composizione sintetica che è il film sonoro. Diderot ha scritto molte cose di grande valore sul... Cinema. Vera­ mente egli intendeva il Cinema di un compositore (Quinault), anche se non di un compositore di cinema. AI compositore di cinema le sue tesi sono state senz’altro di grande aiuto. Ma nel Troisième entretien (Le fits naturel) dove Diderot parla del dramma musicale, c’è un punto utile anche al cinema inteso come cinema sonoro. In ogni caso, come esempio concreto, esso ci aiuterà a mettere in evidenza ancora ima volta il quadro delle condizioni dell’elemento della «musica» nelle prime tappe dello sviluppo della cinematografia e in che modo il cinema sonoro e il suo concetto di montaggio crescano secondo uno spontaneo collegamento con questi periodi precedenti. Diderot descrive l’effetto che avrebbe avuto nel dramma musicale la trasposizione in musica del monologo di Clitennestra òsSflfigenia di Racine. O madre sventurata! Cinta d’odiose bende, mia figlia porge il collo ai coltelli preparatile dal padre. Calcante nel suo sangue, sta per... Fermatevi, barbari! È il puro sangue del dio che lancia la folgore. Sento rumoreggiare il tuono, e tremare la terra. Un dio vendicatore, un dio fa risuonare i suoi colpi [127]. Questo è il brano di Racine riportato da Diderot. Ed ecco ora la sua descrizione di come il compositore dovrebbe far risuonare questo mate­ riale: Egli farà rumoreggiare il tuono, scaglierà il fulmine, lo farà precipitare: mi mostrerà Clitennestra che minaccia i carnefici della figlia con l’immagine del dio di cui costoro stanno per versare il sangue; farà arrivare questa immagine alla mia immaginazione, già colpita dal pathos e dalla poesia della situazione, con la massima forza e con la massima verità di cui sarà capace. [...] No» è già più la madre di Ifigenia quella che sento: è la folgore che si abbatte, la terra che trema, è l'aria percossa dal terrificante fragore» (D. Diderot, Troisième entretien).

parola, sia come voce, sia come musica», poiché qui non ci occupiamo di un fenomeno acustico (il suono) e delle sue varietà, ma di una manifestazione emotiva organizzata artisticamente nel suono. È in questo senso che sussumo tali fenomeni sotto la denominazione di musica.

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Il montaggio nel cinema sonoro

Vediamo: Abbiamo tre forti emozioni: 1. II pathos della situazione 2. Il pathos della poesia 3. La trasposizione in musica, che farà in modo che Fimmagine raggiunga «la massima forza e la massima verità». Qui sono esposte tre fasi del materiale così come può essere elaborato in condizioni di tipo teatrale: 1) la situazione - la materia prima narrativa - di per sé patetica dal punto di vista del contenuto; 2) la «poesia», cioè la sua prima elaborazione patetica con i mezzi della composizione, nel caso in questione letteraria; 3) la trasposizione in musica, cioè il trasporto del materiale già «formato» poeticamente su un nuovo e più alto livello qualitativo, di potenza ed effetto ancora maggiori. Inoltre l’ultimo aspetto presenta la particolarità per cui il lettore già non sente più «la madre di Ifigenia», ma un intero universo di fragore. E il* tema dell’ira e dell’orrore di Clitennestra, elevato al punto limite della generalizzazione. Anche lo «scopo» della trasposizione in musica si percepisce come un simile desiderio di dare attraversa la rappresentazio­ ne del comportamento e delle azioni di Clitennestra una generalizzazio­ ne «cosmica» (qui di ordine puramente emotivo). L’Ira e l’Orroré con la lettera maiuscola; l’ira e l’Orroré attraverso l’ira e l’orrore di Clitenne­ stra. E proprio questa sarà l’immagine capace della «massima forza» e della «massima verità». Accanto alla «forza» qui è giustamente menzio­ nata anche la «verità», cioè il realismo nella sua più alta accezione, e non semplicemente la «verità quotidiana». H tratto fondamentale del reali­ smo è la condizione in cui attraverso il singolare e il particolare interviene il generalizzato e l’universale. [...] Io credo che non sia un vuoto gioco intellettuale o ima formale analogia se diciamo che nel cinema noi abbiamo esattamente la stessa situazione, cioè un materiale classificabile in tre stadi. Le regole generali restano valide anche in questo caso. E non solo nel cinema nel suo complesso, che noi già conosciamo secondo le sue tre fasi: il cinema della ripresa da un unico punto; il cinema della ripresa da punti che si succedono e il cinema sonoro, le quali ripetono perfettamente la ripartizione di Diderot. Ma anche all’in­ terno di ognuna di queste tappe noi abbiamo le stesse tre correlazioni. Proviamo, in effetti, a riorganizzare sotto questo profilo ciò die

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abbiamo già formulato a proposito delle prime due tappe di sviluppo del cinema: il cinema dell'unico punto di ripresa e il cinema dei punti che si succedono (volgarmente detto cinema «di montaggio»), 1, Cinema della ripresa da un unico punto. Il primo aspetto andrebbe a finire nel.. titolo. (Per esempio, «In città si alzarono le barricate...»). D secondo lo ricondurrei alle condizioni della composizione plastica. Dove ogni cosa è ritmicamente accordata e spazialmente equilibrata. (Per esempio, la composizione della barricata n. 1). E al terzo ricondurrei quella condizione della composizione plastica in cui essa, oltre a tutto ciò, è anche l’immagine generalizzata del contenuto della rappresentazione. (Per esempio, la composizione della barricata n. 2. Parafrasando le parole di Diderot e riferendole al princi­ pio di quest ultima composizione, potremmo dire: «Ciò che vedo è già (non solo) una barricata: è la lotta, è l’offensiva, è lo scontro di due forze...»). Questo tipo di composizione sarebbe una trasposizione in una sorta di musica immobile che comporta quella stessa generalizzazione che ha la musica per Diderot. 2. Cinema dei punti di ripresa che si succedono. H primo aspetto andrebbe a finire nel... pezzo ripreso da un unico punto. (Per esempio il piano generale informativo: «combattimento sulle barricate»). H secondo lo ricondurrei sotto una sequenzialità logica dei pezzi di montaggio tale da mostrare lo sviluppo e l’andamento del combattimen­ to sulla barricata, raggiungendo solo lo scopo di questa illustrazione esauriente. E, infine, il terzo lo vedo nelle condizioni di una composizione di montaggio in cui l’avvicendamento, la lunghezza relativa e le rappresen­ tazioni corrispondenti delle inquadrature concorrono di per sé a creare l’immagine dinamica del senso del combattimento. Cioè una musica plastica e dinamica determinata dal ritmo e dal tono (inteso pittorica­ mente) dei pezzi che si succedono, che procede come una sinfonia (sullo stesso tema) sotto la rappresentazione dell’avvenimento. (Un aiutante «meccanico» in questo processo fu la musica di accompagnamento nel cinema muto. Questa musica doveva portare a compimento la generaliz­ zazione quando fosse mancata nella scena oppure trasporre l’immagine in suoni). Il passaggio al montaggio sonoro nel film sonoro è ormai semplice e preciso. Percorriamone le prima e la seconda fase.

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I! montaggio nel cinema sonoro

A. La prima sarebbe la voce fuori campo che accompagna il movi­ mento delle inquadrature come una spiegazione. D fratello della voce fuori campo è il suono naturale-sincrono (il campanello che si vede e suona; l’uomo inquadrato che parla; il falò che arde sotto gli occhi dello spettatore e crepita): si tratta di un analogo commento sonoro al fenomeno visto (e se volete, di un commento visivo al fenomeno udito). B. La seconda la riporterei alla corretta distribuzione del contrap­ punto audiovisivo nell’e5poj?ww^ sonoro-rappresentativa del dramma, dell’avvenimento drammatico. Opportuna introduzione nell’azione di una musica narrativamente motivata che dà il cambio alla parola, utiliz­ zazione corretta dei rapporti parola-immagine e così via. Tutto questo non senza far ripetere alla costruzione ritmica della composizione il movimento del dramma. (Come esempio cfr. più avanti l’applicazione di questo procedimento nell’elaborazione di un brano tratto da Anna Karenina). C. E, infine, la terza. Ma sulla terzaci possiamo soffermare in maniera più particolareggiata, poiché alla terza è dedicata tutta la terza parte del libro! Qui la situazione è altrettanto precisa. La stessa funzione che il profilo compositivo generalizzato svolgeva nei confronti della rappresentazione nella prima tappa del cinema. La stessa funzione che aveva l’immagine generalizzata del fenomeno nata dal susseguirsi dei pezzi di montaggio nella tappa del cosiddetto cinema di montaggio. Questa stessa funzione di immagine generalizzata in rapporto al fenomeno rappresentato, la deve svolgere la musica. Certo, bisogna prendere in considerazione anche il caso contrario: quando la rappresentazione ha il ruolo di immagine generalizzata in relazione al suono. Questo caso si incontra più di rado. U fatto si giustifica con la stessa natura della musica e della rappresentazione. La prima è meno figurativamente concreta e oggettiva e più portata alla generalizzazione. La seconda raggiunge la generalizzazione con difficol­ tà, però è molto più materiale della prima. Un’interpretazione più convincente sarà costituita, di fatto, dall’alternanza, dal succedersi in questo ruolo ora dell’una, ora dell’altra. Così, se dobbiamo attenerci alla nostra classificazione convenzionale con la riserva appena fatta, avremo per tutte e tre le fasi del cinema una sola tabella unificatrice. Ricordiamo che l’immagine piena nasce dall’unità della rappresenta­ zione e dell’immagine generalizzata. Pertanto possiamo suddividere

Rappresentazione e immagine nelle tre fasi del cinema

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convenzionalmente sotto i titoli di «rappresentazione» e «immagine» i mezzi d’azione del cinema nel modo che segue.

Cinema della ripresa da un unico punto e pezzo singolo di montaggio Cinema «di montaggio» Film sonoro

Punto di partenza rappresentativo

Immagine generalizzata

Rappresentazione dell’oggetto

Inquadratura

Suo profilo (o coordinazio­ ne degli elementi, o coordi­ nazione della luce secondo gli elementi ecc.) Montaggio

Inquadratura-mon­ taggio

Suono (rumore, voce, pa­ rola, musica)

(La tabella è stata concepita a totale immagine e somiglianza di ciò che avremmo potuto scrivere in rapporto all’attore e alla sua parte. Nella prima colonna, per esempio, avremmo collocato «le qualità personali di Gordej Torcov» [128], nella seconda «la tipicità del mercante moscovita dei tempi di Ostrovskij», La compenetrazione di entrambe avrebbe creato quell’immagine piena e indelebile che la commedia di Ostrovskij fornisce come un materiale letterario che deve trovare la stessa pienezza in un’esibizione realistica attraverso i sentimenti e le azioni dell’attore. La tabella è stata composta su questi stessi principi in rapporto alle altre sfere di influenza e di espressività del cinema). La divisione è convenzionale perché è possibile sia la sovrapposizio­ ne sia lo spostamento sia il passaggio di queste funzioni dall’una all’altra. Solo con l’imprescindibile osservanza della seguente condizione: che la loro incarnazione non può che passare attraverso differenti dimensioni, sfere e mezzi. Il fatto, cioè, che appartengano alle varie categorie della percezione esige inevitabilmente anche una loro localizzazione in mezzi d’espressione materialmente diversi. (La mancata osservanza di questa condizione porta alla confusione plastica, come nel caso del ritratto di Lev Tolstoj eseguito da Repin). Ma una cosa è completamente evidente: l’identità del principio di fronte alla specificità qualitativa del quadro in tutti e tre i casi. La generalizzazione emergeva dalla linea del profilo della rappresen­ tazione. La generalizzazione emergeva dalla linea del movimento lungo la quale si coordinavano i pezzi di montaggio. (Oltre i limiti del pezzo, dalla combinazione dei pezzi). La generalizzazione si trasferisce ora dalla

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Il montaggio nel cinema sonoro

combinazione di montaggio dei pezzi alla linea del movimento della musica che li penetra. È interessante che in tutte e tre le fasi lo stesso concetto di movimento faccia dei salti di qualità e con ogni nuova fase si presenti sotto un nuovo aspetto. Il «movimento» nel primo caso è il movimento del profilo; si tratta di un concetto del tutto convenzionale: infatti il profilo è immobile. Di fatto non si sposta. E l’occhio a muoversi lungo il profilo. Quando parliamo del movimento del profilo intendiamo, essenzialmente, niente di più che il movimento riflesso del nostro occhio: siamo noi a restituire al profilo quel movimento che esso ha costretto il nostro occhio a fare. Noi forniamo convenzionalmente questo profilo di un processo di movimen­ to. La stessa curvatura del profilo - dal punto di vista delle categorie di movimento - sarà, dunque, la traccia di uri'certo moto che ha fissato in essa l’espressività del suo procedere, e non Patto stesso del movimento. Ma attraverso la ricostruzione del movimento secondo la sua traccia noi partecipiamo comunque al movùnento come se esso fosse avvenuto davanti ai nostri occhi. fi secondo caso è caratterizzato dal movimento in quanto tale, nella sua forma più evidente e meccanicamente semplice: noi abbiamo qui il movimento come spostamento. (È noto che Plechanov, per esempio, non aveva un’altra idea del movimento in generale). Il terzo caso è interessante per il fatto che in esso il principio del movimento compare davanti a noi in una nuova fase. Non si tratta del movimento come spostamento (la melodia si muove diversamente da un pianoforte trasportato dai facchini) sebbene, a differenza della prima fase, ci sia una successione nel tempo. Lo stesso movimento è spostato in una fase più alta: nel campo delle vibrazioni. Più avanti vedremo che questa definizione è applicabile non solo al suono e alla musica - alla cui natura essa pertiene nel senso àelle leggi della fìsica. Vedremo che a questo principio e a questa qualità si conformerà anche la componente plastica dell’opera cinematografica come contributo specifico del nuovo stadio, in aggiunta ai due primi tipi di movimento che questo stadio non perde affatto. Ma ancora più notevole è certamente il fatto che la regolarità, riportata sopra nella tabella, è costante anche all'interno di ognuna di queste sfere presa singolarmente. Noi l’abbiamo già dimostrato a suo luogo per i casi all’interno della linea del profilo e all’interno del montaggio. Essa è valida anche all’interno del terzo stadio. Cominciamo dalla parola. Per essa la frase è come l’andamento del montaggio attraverso un gruppo di inquadrature. I frammenti di rappre­

Rappresentazione e immagine nelle tre fasi del cinema

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sentazione - le parole -si combinano nella frase secondo una certa interpretazione che li comprende. Ciò è evidente49. Ma il cinema ha a che fare non con una frase semplicemente, ma con una frase pronunciata. Ed è interessante che la pronuncia di una frase, cioè l’intonazione, segua, in rapporto alla frase, esattamente quelle stesse condizioni sulle quali ci stiamo soffermando così dettagliatamente. E proprio l’intonazione a fornire in maniera decisiva l’immagine definitiva, l’interpretazione e il senso generalizzato dell’unità delle parole combinate nella frase. Pensia­ mo all’infinita quantità di interpretazioni che uno stesso gruppo di parole - una stessa parola! - può ottenere solo mediante differenti intonazioni, che di volta in volta generalizzano gli elementi della rappre­ sentazione data dalla frase. Si pensi solo al caso limite dell’interpretazio­ ne opposta, ottenuta con i mezzi dell’intonazione ironica. Si pensi all’infinita quantità di immagini che sono in grado di nascere dalla frase pronunciata solo grazie a una sua diversa intonazione «musicale». Ci sono interi procedimenti letterari valutabili solo in base all’intona­ zione la quale, in conformità con un determinato andamento, forma diversamente parole scritte «in modo identico». Tale è, per esempio, la costruzione: Lui va, va, va da lei, Va dalla sua cara, per non parlare poi di un famoso passo della Festa della locomotiva di Vasilij Kamenskij che dice:

Traverse, traverse, traverse, traverse Traverse, travèrse, traverse noi... Il primo esempio si legge immediatamente come un foglio di montag­ gio in cui i primi tre «va» sono come un viaggio su tre piani differenti visto da tre punti differenti che si compongono nell’immagine del «viag­ gio», la quale immagine, nella seconda riga, si integra già con l’immagine del fatto che è qualcuno che ama che va «da lei»... Le «traverse» di Kamenskij sembrano riprese in movimento, con tempi sempre più velo­ ci: una corsa di traverse. Viene subito in mente un altro esempio, tratto da un campo conti-

Ed è esatto anche in tutti i dettagli. La frase infatti può coordinare le parole in due modi: cercando con il loro aiuto di rendere soltanto la rappresentazione di dò che si racconta, oppure cercando con il proprio ritmo e la propria struttura di rendere il senso e la percezione dell’oggetto del racconto.

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Il montaggio nel cinema sonoro

guo: il ritornello di una delle canzoncine di Paul Robeson in cui una ragazza rifiuta a John di sposarlo. Ogni strofa termina con il rifiuto: No John, no John, no John, no John, No John, no John, no John, no-o...

Possiamo così già stabilire un collegamento con lo stesso genere della canzoncina, in particolare di quella francese, in cui cinque-sei strofe terminano invariabilmente con la stessa riga. E tutta l’arte verbale semimelodica della diseuse - e senza dubbio dell’insuperabile Yvette Guilbert - consisteva nell’abilità del fraseggio intonato per ricavare diverse sfumature da quest’unico ritornello. Porterò come esempio Les jeunes mariées dalle Chansons iromques di Xanrof. E una serie completa di strofe sul tema delle giovani spose che si svegliano dopo la prima notte. In tre righe è descritta in pochi tratti una certa immagine. Una è sconvolta e piange. La seconda dice: «Tutto qui?». La terza: «Con mio cugino è stato più allegro» ecc. «La quarta riga suona invariabilmente «Les jeunes mariées», e tutta l’arte sta nèll’includere nell’intonazione di questa riga il rapporto con l’immagine di questa o quella «giovane», con il corrispondente ammiccamento ironico rivolto al pubblico50. Ciò che qui accade sul piano ironico non è diverso da quello che fa Bach nelle sue Righe patetiche. Il loro testo, come tutti ricordiamo, è di una sola riga: «Dies irae» oppure «Te Deum laudamus». E tutta la mole delle sue opere è costruita su un’infinita variazione nell’elaborarne l’«intonazione» so­ nora - orchestrale e corale nel nostro caso. In tal modo l’intonazione, in rapporto al gruppo di parole del testo, gioca lo stesso ruolo del profilo nella rappresentazione o della linea del movimento attraverso i pezzi di montaggio. Anche l’intonazione, inoltre, si può suddividere allo stesso modo in una figuratività di tipo onomatopeico51 e nel ritmo, che genera­ lizza l’emozione e il senso che si imprime a seconda della pronuncia su un’identica combinazione di parole. Questo processo, esattamente nello stesso senso, ha luogo anche in musica. L’elemento unificatore lo troviamo qui nel fatto che il nervo princi­

50 Le osservazioni della stessa Yvette sull’esecuzione delle canzoncine sono contenute nel suo libro L'art de chanter une chanson par Yvette Guilbert, Paris 1928. 31 Nei casi in cui l’intonazione è prima di tutto plasticamente figurativa, si può avere persino un effetto di rappresentazione sonora come, per esempio, nel caso in cui vogliamo dare la sensazione di una misura più grande e pronunciamo la parola grande «graaande», o di una misura più piccola e sostiamo più del normale sull’acuta «i». Nelle parole e nelle costruzioni di parole di tipo onomato­ peico ciò consisterà in un particolare evidenziamento della figuratività sonora con i mezzi della pronuncia.

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pale della musica, la melodia, è di per sé una generalizzazione limite dell’intonazione umana. Abbiamo già trattato questo argomento di sfug­ gita. Ne parleremo ora un po’ più ampiamente. E ancora a Diderot che dobbiamo una descrizione particolarmente penetrante di questa tesi [129].

La cosa più interessante nella musica è certamente il fatto che il contrappunto intramusicale corrisponde totalmente a ciò che accade con il passaggio dal profilo materiale al «movimento tra i pezzi», quando il cinema evolve dallo stadio della ripresa da un punto a quello da più punti (come l’organismo dallo stadio monocellulare a quello pluricellula­

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Il montaggio nel cinema sonoro

re?). La giustapposizione dei movimenti melodici produce un’analoga «linea» generalizzante che non è data materialmente ma si generai la linea dell’armonia:

Il vero stile contrappuntistico, nella forma in cui Bach ce ne ha dato l’incarnazio­ ne, è caratterizzato dal prevalere dell’elemento melodico su quello armonico. Nel vero stile contrappuntistico le singole linee melodiche sono l’elemento formante, costitutivo, e il tessuto armonico è come il risultato dell’intreccio delle voci melodiche. H tessuto armonico è una conseguenza, un fenomeno di secon­ do livello che accompagna il tessuto contrappuntistico. Nella rete delle voci che si intrecciano, che vivono ognuna di vita propria, nascono i fantasmi delle armonie costituite dalle unioni delle melodie (L. Sabaneev, Skrjabin, giz, 1923, p. 97).

Cinema della ripresa da un unico punto Linea del profilo Cinema di montaggio Montaggio Cinema sonoro

Suono: Parola-frase

Melodia Musica

Fenomeno corrispon­ dente nel campo del­ l’espressività del gesto

Punto di partenza rappresentativo

Immaginegeneralizzata

Rappresentazione del­ l'oggetto Profilo rappresentativo dell’oggetto Inquadratura Elementi narrativi del montaggio Inquadratura-mon­ taggio

Linea del profilo

Contenuto oggettivo della parola e della frase Melodia della frase Suono-parola, intona­ zione della voce umana, melodia musicale

Ritmo delle curvature Montaggio Ritmo del montaggio

Suono

Melodia della frase

Contenuto pratico del gesto espressivo

Ritmo Intonazione, melodia musicale, armonia dal contrappunto delle melodie Metafora del conte­ nuto del gesto

Metafora del gesto

Ritmo del gesto

Rappresentazione e immagine nelle tre fasi del cinema

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Collocando nella nostra tabella le stesse proprietà all’intemo di ciascun settore, otteniamo un quadro più ampio. Qui valgono le stesse clausole della tabella precedente. Nel leggerla non dobbiamo dimenticare la cosa fondamentale. E cioè che la scompo­ sizione in elementi di rappresentazione e di generalizzazione è fatta solo a scopo di ricerca. E che tutto il segreto dell’autenticità dell’opera, cioè della sua forma realistica, consiste nel fatto che una tale scomposizione non ha luogo all'interno dell'opera, dove la rappresentazione e la genera­ lizzazione si trovano in rapporto di reciproca penetrazione e fanno unità. Ciò riguarda tutte le componenti dell’opera dislocate nella tabella sotto diversi titoli. Da tutto questo, infine, otteniamo un quadro rilevante delle tre fasi della storia del montaggio. Per non parlare del fatto che Io stesso concetto di montaggio, dalla rozza concezione di «taglio e incollatura» viene ora concepito, in modo molto più avanzato, come scomposizione del fenomeno «in quanto tale» e sua riunificazione in una nuova qualità, secondo un determinato punto di vista interpretativo e in condizioni di cosciente generalizzazione sociale [130]. Primafase. La rappresentazione è fìssa. La generalizzazione si muove ritmicamente all’intemo della rappresentazione (convenzionalmente) secondo le curvature del profilo che la avvolge. Seconda fase. La rappresentazione è mobile. Sia microscopicamente sia macroscopicamente. Si succedono i fotogrammi nell’inquadratura. E cambiano le inquadrature nella successione dei pezzi di montaggio. La linea della generalizzazione sta nel ritmo della combinazione di questi pezzi. Terza fase. La rappresentazione è fìssa. La generalizzazione si muove ritmicamente nella melodia e nell’armonia che la penetra come una componente sonora simultanea. Tutte e tre le fasi sono descritte qui nella condizione-limite delle loro caratteristiche. In questo aspetto «puro» esse mostrano assai bene la loro sorprendente natura di stadi successivi di un unico processo dialettico di sviluppo. La terza è come un ritorno alla prima. La frantumazione dell’unità statica della prima fase nella dinamica dei pezzi si ricompone in una nuova unità dinamica nella quale si raccolgono i principi di entrambi gli stadi precedenti: l’invariabilità come pure la variabilità dinamica. E interessante sia dal punto di vista conoscitivo sia da quello teorico. È del tutto chiaro che in realtà la terza fase concepisce l’immobilità non in modo assoluto ma convenzionale, cioè in modo tale che, se è

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Il montaggio nel cinema sonoro

pienamente possibile (e nella pratica, purtroppo, è un caso oltremodo frequente!) un lungo pezzo fisso di rappresentazione correlato a una partitura sonora anche molto complessa, è altrettanto possibile un con­ trappunto di questa partitura .con una costruzione visiva tutta di mon­ taggio. Queste sono le ultime considerazioni di ordine generale sulle quali abbiamo voluto soffermarci prima di inoltrarci nella terza tappa audiovi­ siva della cinematografìa - il campo del film sonoro - che oltre a dare il cambio alle prime due, raccoglie sinteticamente in sé la loro esperienza. Ecco perché ci siamo trattenuti cosi dettagliatamente sulle prime due. Non si è trattato soltanto di un excursus nella storia della formazione degli aspetti del cinema, ma anche di un'analisi delle componenti essen­ ziali del film sonoro. Senza tenerne conto, infatti, non si può neppure sognare la realizzazione di un film sonoro chèsia, non dico compositiva­ mente compiuto, ma neanche semplicemente corretto!

La comparabilità di immagine e suono

«Entra una ragazza»

Metodologicamente la cosa è «assolutamente semplice». La stessa immagine deve determinare sia la soluzione visiva che quella sonora... Problema: all’entrata della ragazza ci vuole la musica.

«Entra una ragazza»

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Ma: per l’entrata della ragazza «come tale» non si può scrivere nessuna musica. Esattamente come l’entrata della ragazza «come tale» non si può né mettere in scena, né tanto meno riprendere. Così il sistema di Stanislavski] insegna giustamente che un uomo non può entrare in una stanza se... Ma diamo pure la parola allo stesso autore del sistema: «Agire in scena non “genericamente”!» Come se si trattasse di una situazione «in generale». Ma ecco un’esposizione più dettagliata: Diciamo, dunque, che uno dei personaggi della nostra commedia debba entrare in una stanza... Puoi entrare in una stanza? - chiese Torcov. - Certo, rispose prontamente Vanja. - Bene, allora entra. Ma lasciati dire che non potrai farlo fino a quando non saprai chi sei, da dove vieni, in quale stanza stai entrando, chi vive in quella casa, e tutta quanta la serie delle circostanze date che debbono influire sulla tua azione [142]. Citando quéste situazioni noi stessi facciamo tutt’altro che sfondare «una porta aperta»! Infatti: per noi, pur riconoscendogli tutta la necessità, questo principio non è ancora sufficiente. Basta per l’attrice. Per la sua azione personale. Ma non per la «messa in forma» complessiva della nostra entrata. Tace il compositore. Tace il tecnico delle luci. Tace la messa in scena. Evidentemente serve almeno il più insignificante rudimento di im­ magine, almeno la metafora più banale nel designare l’entrata della ragazza, affinché si possano convocare tutte queste forze potenziali della «messa in forma», che è di più della semplice rappresentazione del fatto. Ed è significativo che questa metafora, questo fugace confronto, questa indicazione d’immagine enunciata direttamente e senza distinzione di veicoli espressivi, funga da chiave generalizzante attraverso la quale si accordano di colpo tutti i veicoli espressivi, altrimenti incommensurabili ed esterni ad essa, come l’azione dell’attore, il taglio dell’inquadratura, la struttura della melodia, la distribuzione della tavolozza luminosa e così via. Dite la cosa più banale, la più triviale. Ma che, tuttavia, risponda con sicurezza al contenuto, al soggetto, al senso e all’idea del frammento in questione. Dite: «La ragazza irruppe nella soffocante atmosfera della stanza come un raggio di luce». E già ognuno saprà ciò che deve fare. Poiché persino in questa trivialità c’è un elemento narrativo abbastanza concre-

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Il montaggio nel cinema sonoro

to, ma allo stesso tempo anche sufficientemente astratto e generalizzato da sottoporsi ugualmente a tutti i settori della messa in forma, lasciando che ciascuno di questi agisca secondo i mezzi di realizzazione che gli sono propri. Questo tema della «penetrazione di un elemento nella sfera di un altro ad esso contrapposto» è, nella stessa misura, il compito generalizza­ to del compositore, del pittore, della scelta del tipo, della ricerca dello schema di messa in scena che veicola il pensiero, come anche del grafico della composizione dell’inquadratura, che traccia lo stesso pensiero sulla superfìcie dello schermo. Di più, in quest’immagine metaforica c’è perfino un’interpretazione generalizzante dell’immagine del dramma nella sua totalità: non per nulla Dobroljubov condensa l’immagine del destino di Katerina (La tempesta) nel titolo del suo articolo Un raggio di luce nel regno delle tenebre} E così, data una rappresentazione, traduciamo in suoni proprio l’«immagine» e non la «rappresentazione», alla quale può far eco soltan­ to un’imitazione sonora. E qui non posso non ricordare un curioso incidente capitato nel periodo in cui il film sonoro esisteva ancora solo come «cinema muto con accompagnamento musicale». Già allora il problema che stiamo affrontando si era posto più d’una volta, per esempio in occasione del dibattito sulla questione della musica per il Potemkin in seno alla commissione per l’anniversario del 1905 (nel 1925). Il povero L. Sabaneev intervenne furiosamente contro il progetto di scegliere (o di scrivere) una musica per il film. «Come si fa a dare espressione sonora a... dei venni! E poi è indegno per la musica!». Naturalmente, gli era sfuggita la cosa più importante: che i vermi di per sé non decidono nulla, né la carne avariata, perché, al di là del dettaglio storico e realistico, essi sono fondamentalmente immagini attraverso le quali cresce nello spettatore il senso dell’oppressione sociale delle masse durante lo zarismo! Questo è già un tema molto gratificante e nobile per un compositore! Non posso non ricordare anche un altro caso curioso, questa volta a proposito del film Ottobre. E un po’ l’opposto del primo esempio, ma un’identica assurdità li unisce entrambi! E il caso di una prodigiosa caccia alla rappresentazione, confusa in modo puramente formale con l’idea di immagine fino ad arrivare alla bizzarria. E noto che in questo film, che abusava di associa­ zioni di montaggio, Kerenskij nel Palazzo d’inverno è montato con un gigantesco pavone d’oro (che ruota su un enorme orologio offerto, pare, da Potemkin a Caterina n). Dopo aver visto questo pavone d’oro, il mio

«Entra una ragazza»

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solerte arrangiatore delle musiche, al contrario di Sabaneev, trovò imme­ diatamente dove orientarsi: guardandolo attraverso il suo pince-nez e senza distinguere la razza dell’uccello girevole, propose subito di utiliz­ zare... il Gallo dforol Ma ancora «più ricca» si rivelò la sua proposta per la scena in cui un cavallo ucciso penzola nel mezzo del ponte Dvorcovyj. «Un cavallo in cielo... Un cavallo in cielo... Utilizzeremo... La cavalcata delle Valchirie}» Proprio così! Nei metodi di messa in forma qui esaminati, voi dovete, come sempre, guardarvi dagli implacabili Scilla e Cariddi: l’Eccesso eia Caren­ za. L’eccesso e la carenza di quanto la generalizzazione debba e possa trasparire attraverso la rappresentazione. Al polo della carenza c’è la verosimiglianza quotidiana. In tal caso la musica (che in queste condizio­ ni è anche privata della possibilità di essere interiormente sincrona rispetto all’azione! ) si rivelerà del tutto inopportuna ove non sia giustifi­ cata dalla presenza dell’organetto che accompagna l’entrata della ra­ gazza! AI polo delFeccerso, l’azione è sottratta al piano reale della forza di persuasione della verosimiglianza: nell’izba gigioneggiano i simboli delle tenebre e della luce, dell’oscurità e dello splendore, nei sembianti dei personaggi appaiono i visi di Pan e dell’agnello pasquale... H lettore ha già afferrato che sto citando i miei propri eccessi di generalizzazione nel mio film fallito 11 prato di Bezin. L’espressione «trasparire» (skvozit’) è la più esatta. Esclude in ugual misura l’«impercettibilità» e I’«evidenza». Se nel Prato di Bèzin avevamo talora un solo estremo (l’eccesso), l’altro estremo è presente in molti e molti altri prodotti che vediamo sullo schermo. Il segreto sta nel fatto che quasi nessun paesaggio, tra quelli che nei nostri film sono accompagnati dalla musica, è internamente sincrono rispetto ad essa. Una felice eccezione a tutt’oggi resta, mi pare, il Dnepr nell’io» di Dovzenko. E perché? Ma perché, evidentemente, in maniera empirica e non metodologicamente consapevole, sia l’autore dei pezzi del poema visivo, sia l’autore della canzone, involontariamente e ognuno nel proprio campo, hanno cercato di realizzare il flusso unitario delle immagini gogoliane del Dnepr da Una terribile vendetta («Splendido è il Dnepr...»). Dico in maniera empirica poiché altrimenti non si giustificherebbe quell’assoluto fallimento audiovisivo (in senso compositivo) che ha luo­ go in un’analoga costruzione di Aerograd. dove la corsa, i paesaggi e le canzoni dei Cukci non hanno niente a che fare con la sincronia interna e non mirano affatto alla realizzazione di una sinfonia audiovisiva.

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JZ montaggio nel cinema sonoro

La nuova condizione che abbiamo attribuito alla terza fase di svilup­ po del cinema riproduce in tutta precisione le condizioni che riguardano le prime tappe. In tutti e tre i casi le generalizzazioni - in quanto eccedono i limiti delle rappresentazioni - sono risolte artisticamente mediante gli elementi di un’altra dimensione o di un’altra sfera, e non con i mezzi di base dell’esposizione esplicita. Era il grafico del profilo della rappresentazione insieme con le sue correlazioni ritmiche, a differenza della rappresentazione stessa (nel pri­ mo caso). Era l’immagine generalizzata che prende forma dall’apparire dell’og­ getto o del processo non materialmente nella pellicola, ma nella sintesi operata dalla coscienza di chi percepisce (nel cinema di montaggio). Nel caso dell’aspetto più compiuto del cinema, infine, noi troviamo lo stesso tratto, elevato al grado più perfetto di realizzazione: esso appartiene a una sfera la cui dimensione è ancor più differenziata (il suono) e quindi possiede una base tecnica indipendente: la colonna sonora. Questa è più facile da manipolare di quanto non sia lo sfuggente profilo che inchioda l’oggetto reale alla superfìcie dello schermo. Nel processo dello scorrimento della pellicola, inoltre, essa è più «materiale» e calcolabile secondo misure precise di quanto non sia l’incostante generalizzazione della massa dei pezzi di montaggio nella fase di montag­ gio. Ma, proprio per questo, tanto maggiore è il pericolo che essa «faccia parte a sé», senza integrarsi organicamente con la rappresentazione (vedi l’esempio della corsa dei Cukci in Aerograd}. Tale è, dunque, la situazione della correlazione di suono e rappresen­ tazione visiva nel sistema del cinema sonoro. Noi vediamo, così, che proprio questa condizione occupa, nel siste­ ma del cinema sonoro, lo stesso posto che nel cosiddetto cinema di montaggio spettava al senso della combinazione dell’evento in pezzi di montaggio. D’altra parte, abbiamo visto che il valore di montaggio (montaznost’) nello stadio precedente - nel cinema della ripresa da un solo punto consisteva ugualmente, a livello embrionale, nel rapporto reciproco dei singoli elementi della rappresentazione, in qualche modo «unificati» nel grafico della generalizzazione compositiva. Pertanto siamo autorizzati a dire che il fondamento del montaggio audiovisivo si risolve proprio in un fatto di composizione della sincronia, così come l’abbiamo esposto qui secondo la nostra concezione. Distinguendo ancora una volta le tre tappe, vediamo che nella prima

Tre modi della sincronia verticale: ritmo, melodia, colore

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il montaggio aveva il carattere della simultaneità. Nella seconda quello della successione. E nella terza («un quasi-ritomo alla prima») di nuovo quello della simultaneità. Così, in forza di quanto abbiamo detto sul montaggio, noi potremo interpretare in termini di cinema sonoro anche un pezzo come questo: per novanta metri, in un solo pezzo, là figura curva di una donna immobile, mentre la musica fa risuonare tutta la lotta interiore di questa donna. Ciò risponde pienamente alle definizioni che abbiamo dato. Ma qui non c'è solo simultaneità. Questa tappa «in un certo senso comprende in sé anche le due precedenti». E dunque un passo avanti del tutto conseguente: il «valore di montaggio» (nel senso del secondo periodo) si è semplicemente trasferito nella sfera di un’altra dimensione, nella «corsa» del suono. (NB: oltre a ciò, dovunque occorra, la compo­ nente visiva sarà naturalmente montata secondo tutte le condizioni del montaggio). In ogni modo, il cardine dell’assimilazione della cultura del montag­ gio e delle diverse discipline proprie del film sonoro, l’aspetto originale dell’acquisizione dell’arte del montaggio nella nuova tappa, resta (insie­ me con tutte le sue funzioni precedenti, rappresentative e narrative) il problema della conquista della sincronia interna a partire dalla totalità del suono (dell’immagine) e dalla totalità della rappresentazione (del­ l’immagine) nel complesso (nell’intero oggetto) fino, detto in soldoni, alla sincronia interna del «pezzo di musica» con il «pezzo di fotografìa». In generale, abbiamo fondato e argomentato tutto questo.

Tre modi della sincronia verticale: ritmo, melodia, colore

Tolstoj. Anna Karenina, Le corse

Per illustrare la nostra idea di contrappunto audiovisivo, non pren­ diamo un esempio musicale, difficile da descrivere, ma imo «testuale», più facile da esporre.

Tolstoj. «Anna Karenina». Le corse

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Come la maggior parte dei tratti «specifici» del cinema, infatti, anche il contrappunto audiovisivo ha i suoi precedenti in alcuni campi dell’arte che gli sono contigui ma che lo precedono nei tempo. Prendiamo un esempio lampante dalla letteratura. Tolstoj. Anna Karenina. Le corse.

L’aiutante di campo generale biasimava le corse. Aleksej Aleksandrovic ribatte­ va, difendendole. Anna ascoltava la sua voce sottile, uguale, senza perdere neanche una parola, e ogni parola di lui le sembrava falsa e le feriva dolorosa­ mente l’orecchio. Quando cominciò la corsa a ostacoli sulle quattro verste, ella si curvò in avanti e, senza distogliere gli occhi, si mise a guardare Vronskij che si avvicinava al cavallo e vi saliva, e nel medesimo tempo sentiva quella ripugnante, instancabile voce del marito. Ella si tormentava di paura per Vronskij, ma ancor più era tormenta­ ta dal suono incessante, così le sembrava, della voce sottile del marito con le note intonazioni [148]. Una trasposizione cinematografica di questo brano, senza troppo sofisticare, si presenterebbe più o meno così: 1. L’aiutante-generale e Karenin. Le parole dei due. 2. Karenin solo. Le parole di Karenin. 3. Anna guarda. Le parole di Karenin. 4. Vronskij si avvicina, si siede ecc. Le parole di Karenin. 5. Anna. Le parole di Karenin. 6. Karenin solo. Le parole di Karenin. I numeri 1 e 2 sono chiaramente descrittivo-informativi. Dal n. 3 inizia propriamente il «gioco» [149]. Lo stesso testo del discorso di Karenin è fornito da Tolstoj più sotto grazie alle possibilità della scrittura letteraria. Nei punti in cui sarà necessario lo riporteremo. Come si vede, i numeri 3,4,5,6 si collocano tutti su queste parole di Karenin. Il regista dispone qui di due serie di strumenti: il testo stesso e il suo trattamento intonazionale. Inoltre bisogna poter sentire il testo come un rafforzamento dell’espressione legata all’intonazione. L’espressione, cioè, può risiedere in un primo tempo solo nell’intonazione delle parole. Poi, crescendo, l’espressione può arrivare a riversarsi anche in certe parole. Lo sottolineo perché un simile cambiamento della dinamica interna del testo scritto è per l’appunto ciò che accade nel brano. Un rafforzamento del disegno intonazionale, che fa da eco al rafforzamento del testo, aumenterà ancor più l’effetto (se sarà necessario). «Il pericolo nelle corse militari, di cavalleria, è l’indispensabile condi­ zione delle corse...». Questo esordio del discorso di Karenin può prece­

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Il montaggio nel cinema sonoro

dere vantaggiosamente il piano della Karenina. Il contenuto delle parole attira naturalmente l’attenzione di Anna, già di per sé angosciata e preoccupata. «Se l’Inghilterra nella storia militare può mostrare le più brillanti operazioni di cavalleria, è solo grazie al fatto che essa ha sviluppato storicamente in sé questa forza e d’animali e d’uomini. Lo sport, secondo la mia opinione, ha una grande importanza...». Questo capoverso cade indubbiamente su un primo piano di Anna. La noia, il grigiore e la monotonia del ritmo sono intenzionalmente sottolineati dall’annotazione ironica di Tolstoj: «E come per un bambino è naturale saltare, così per lui era naturale parlar bene e assennatamente. Egli parlava...». Le parole di Karenin cadono interamente sulla recitazione di Anna, secondo la descrizione che già conosciamo: «Anna ascoltava la sua voce sottile, uguale, senza perdere neanche una parola, e ogni parola di lui le sembrava falsa e le feriva dolorosamen­ te l’orecchio». z Più avanti, se vogliamo proprio seguire Tolstoj, sarà necessario inserire tra il n. 3 e il n. 4 uno «stacco» sull’entrata della principessa Betsy Tverskaja. Si può fare meglio di tutto con un gruppo. Forse con Anna in primo piano e Karenin, Betsy e l’aiutante di campo generale nell’inqua­ dratura. La prosecuzione delle parole di Karenin: Lo sport, secondo la mia opinione, ha una grande importanza e, come sempre, noi vediamo solo l’aspetto più superficiale. - Non superficiale - disse la principessa Tverskaja -. Un ufficiale, dicono, s’è rotto due costole. Aleksej Aleksandrovic sorrise con il suo sorriso, che scopriva soltanto i denti, ma non diceva niente di più. - Ammettiamo, principessa, che questo non sia superficiale...

Di nuovo il primo piano della Karenina sulla continuazione delle parole di Karenin «... ma interno. Ma non è questo...». (n.b. Il primo piano della Karenina e il suo profilarsi sul piano del gruppo devono essere disegnati e angolati in modo tale da restare vicini l’uno all’altro, cosicché il passaggio da un piano all’altro avvenga con il minimo stacco, per non interrompere il ritmo monotono delle parole di Karenin). La prosecuzione del testo delle parole di Karenin cade già su: «... Vronskij che si avvicinava al cavallo e vi saliva...».

Tolstoj. «Anna Karenina». Le corse

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«Non dimenticate che corrono dei militari, i quali hanno scelto questa attività e convenite che ogni vocazione ha il suo rovescio della medaglia. Questo rientra direttamente negli obblighi del militare...». Le parole funzionano bene qui perché contengono come un presagio della catastrofe («il rovescio della medaglia»). Nel punto in cui Vronskij monta enfaticamente a cavallo (anche lui è nervoso), questo confronto col testo fornisce la tensione necessaria. Il testo e l’azione si accordano sul contrasto. «D rovescio della medaglia» che «rientra direttamente negli obblighi del militare»: la battuta costringe di nuovo Anna ad ascoltare attenta­ mente le parole di Karenin, e introduce naturalmente il primo piano di lei che ascolta. «Ella si tormentava di paura per Vronskij, ma ancor più era tormen­ tata dal suono incessante, così le sembrava, della voce sottile del marito con le note intonazioni». Le intonazioni sgradevoli del marito si rafforzano con l’ancor meno gradevole scelta delle parole che raddoppiano come meglio non si potrebbe il crescente senso di ostilità e di agitazione di Anna. La voce di Karenin, evidentemente, suona più forte e incisiva. E scandisce più nettamente. «Lo scandaloso sport del pugilato o dei toreri spagnoli è segno di barbarie. Ma uno sport specializzato è segno di sviluppo». Tra il n. 5 e il n. 6 ci sono due inserti: 1. La replica di Betsy e di un’altra dama. Evidentemente in gruppo: Betsy, Anna («senza abbassare il binocolo, guardava un unico punto») e l’altra dama. 2. Trasferimento sulle battute tra l’«alto generale» e Karenin. A maggior ragione in un piano generale. (Aleksej Aleksandrovic si alzò in fretta ma con dignità e salutò profondamente il militare che passava in quel momento. - Voi non correte? - gli disse in tono scherzoso il militare. - La mia corsa è più difficile - rispose rispettosamente Aleksej Aleksandrovic. E sebbene la risposta non significasse niente, il militare fece finta di aver ricevuto una parola intelligente da una persona intelligente e di capire completamente la pointe de la sauce).

Si ritorna qui di nuovo al piano corrispondente di Aleksej Aleksan­ drovic. E notevole che l’attore debba recitare questa parte della battuta come fosse sotto la «frustata» {zacblesf)... delle proprie parole. Le parole: «Ci sono due parti... degli esecutori e degli spettatori; e

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Il montaggio nel cinema sonoro

l’amore per questi spettacoli è il segno più fedele di un basso sviluppo per gli spettatori, ne convengo, ma..,». Per recitare queste precise parole c’è un’indicazione molto chiara: L’odierna particolare verbosità di Aleksej Aleksandrovic, che tanto la irritava, era solo un’espressione della sua interiore agitazione e inquietudine. Come un bambino che abbia urtato saltando muove tutti i muscoli per soffocare il dolore, così per Aleksej Aleksandrovic era necessario un movimento mentale per soffocare quei pensieri sulla moglie che, in presenza di lei e in presenza di Vronskij e in mezzo alla continua ripetizione del suo nome, pretendevano che si facesse loro attenzione. E come per un bambino è naturale saltare, così per lui era naturale parlare bene e assennatamente. Egli parlava...

Si può eseguire questo pezzo solo con un primo piano accompagnato dalle parole. In tal modo, nel corso di questo brano, abbiamo dovuto fare i conti con quattro tipi di relazioni. A. Combinazione corrente delle parole con il gioco della loro pro­ nuncia (n. 2). B. Gioco attraverso parole altrui udite dall’attore (n. 3 e n. 5 a un diverso livello di intensità. Il n. 5 è da segnalare per il «triplice» gioco: a) lo stato d’animo fondamentale di Anna; b) il suo indirizzare l’udito sulle parole fuori campo; c) il suo indirizzare lo sguardo sull’azione fuori campo, su Vronskij). C. Gioco attraverso l’accompagnamento di parole non ascoltate dall’attore, ma dallo spettatore (n. 4). D. Gioco attraverso le proprie parole, ma pronunciate come «a parte». Recitazione e parole possono passare per diversi registri. Abbiamo fatto questa ripartizione approssimativa servendoci solo di indici letterari, cioè combinando parole e azioni secondo i loro diversi indici letterari. Ritmo delle parole. Intensificazione delle immagini ver­ bali (toreri, barbari, pugilato). Valore immediatamente drammatico del­ le associazioni (parole capaci di attirare l’attenzione della Karenina). Una più complessa comprensione deriva dal confronto di parole e azioni. Vronskij monta in sella a Fru-Fru, e le parole «profetiche» sul rovescio della medaglia danno il senso di un presentimento. (Che non succeda che quest’ultimo passi la soglia dell’allusione e risuoni pedestremente. Non c’è cosa più volgare. Ma che non succeda neppure che questo punto, non arrivando alla coscienza «registrante» dello spettatore, non ce la faccia neanche a colpire da qualche parte nel profondo della sua sensibilità. Si perderebbe un «tremolo» [150] psicologico molto importante nel dise­

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gno generale del nervosismo della scena e del presentimento della cata­ strofe). Questa è la prima tappa: Vistituzione della sincronia (in contrasto o in coincidenza, ma, in ogni caso, in una relazione rigorosamente stabilita) del contenuto di quelle azioni e di quelle parole che dovranno coincidere sul piano temporale. La seconda tappa comporterà un compito più complesso: stabilire la sincronia delle soluzioni formali visive e sonore. Concretamente: «mettere» l’interprete della parte di Vronskij, l’in­ terprete della parte di Kord (l’allenatore di Vronskij), la quantità neces­ saria di comparse e il cavallo di razza che interpreta Fru-Fru e l’intera scena di Vronskij che monta su Fru-Fru, «mettere» tutto questo «come in musica» sulle parole d’accompagnamento di Karenin. Trovare i ritmi, le estensioni e le accelerazioni della parole e degli intervalli relativi, gli accenti, gli arresti, le pause, gli spostamenti del tono all’interno del testo di Karenin, tutto ciò attraverso cui si esprime con estrema precisione il suo contenuto psicologico e lo stato d’animo di Aleksej Aleksandrovic, e utilizzarlo al tempo stesso come canovaccio sonoro e scansione temporale per la costruzione plastica della scena di Vronskij che monta su Fru-Fru. Trovare quell’azione impercettibile che rende disponibile l’associazione sul «rovescio della medaglia», quel qualcosa di impercettibile nella figura prestante di Vronskij che mette in chiaro, sullo sfondo di una intonazione enfatizzata oppure reticente delle parole, che cosa «rientra direttamente negli obblighi di un militare» ecc.; quelle sfumature di modellato e di luce che saranno sincrone - in una intenzionale coincidenza o discordanza - con il timbro e la melodicità della voce che le accompagna (le correlazioni: modellato - timbro e luce - melodia non sono casuali, esse si equivalgono nei rispettivi campi); quel taglio e quel tratto di costruzione grafica dell’inquadratura, che troverà il suo equivalente nel grafico della scansione ritmica del testo ecc. Dalle costruzioni direttamente e organicamente sincrone (la persona si vede e parla) fino a tutte le sfumature della correlazione audiovisiva, bisogna cercare, trovare e stabilire la corrispondenza sinestetica di suono e rappresentazione, di immagine plastica e immagine sonora (forse la fattura e il colore del cappotto di Karenin non sono un tutt’uno con il timbro della sua voce?) in quanto parti inscindibili dell’incarnazione dell’essere e dell’azione, dell’immagine dell’eroe, dell’eroina, della scena, dell’opera.

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Il montaggio nel cinema sonoro

Una narrazione commossa (a mo’ di conclusione) C’è dunque un gioco della persona. Un gioco dei suoni. Della musica e delle voci. Un gioco degli oggetti e dei colori. Un gioco delle situazioni. Un gioco delle immagini e dei pensieri. Tale è la molteplicità degli strumenti del gioco dello spettacolo sintetico, del nascente film sonoro: tutta questa varietà è generata dalla tensione creativa e sociale dell’uomo, dalla sua coscienza sociale organiz­ zata. E lo strumento della riduzione di tutte queste grandezze incommen­ surabili all’unica partitura sintetica del film sonoro è il montaggio! Ecco quali sono le funzioni del Montaggio, del montaggio con la lettera maiuscola, del montaggio dei nostri giorni!68 Ma che dobbiamo fare noi? Dove possiamo cercare le regole di questo montaggio? A che cosa dobbiamo attenerci nelle ricerche della sua vera realizzazione, senza voler inseguire ricette e modelli già pronti, ma cercando una fonte perenne e abbondante di nutrimento anche per il montaggio in quanto legge della struttura dell’oggetto? I miopi fanatici Diogeni che con la lanterna in mano cercano l’uomo nell’arte e in suo nome calpestano con gli zoccoli le leggi dell’arte e la perfezione delle sue forme sono nel torto. L’uomo, il comportamento umano e i rapporti umani non si trovano solò nel soggetto, solo nella rappresentazione, < In modo altrettanto stabile l’uomo sta a fondamento dei principi e delle regolarità costruttive dell’arte. Queste, non meno della rappresentazione, si costituiscono come un riflesso dell’uomo, del comportamento umano e dei rapporti umani. Ma a quel livello di generalizzazione di secondo grado che abbiamo seguito nel corso di tutto il nostro lavoro a cominciare dalla rappresenta­ zione della barricata e del suo profilo che ne generalizzava l’idea. La coppia rappresentazione - generalizzazione (immagine), che ab­ biamo seguito attraverso tutti i settori del cinema, si ritrova anche qui. II principio valido per ogni singolo campo risulta valido anche per il sistema nel suo complesso.

68 Distinguo intenzionalmente questa funzione sintetizzante del montaggio rispetto a tutti gli elementi del film sonoro dal montaggio come procedimento particolare all’mterno dei diversi strumenti d’azione del film (attore, inquadratura, colonna sonora ecc.), considerando anche tutte e tre le sue varietà stadiali, ognuna delle quali è compresente nell’ambito dell’ultimo e più alto stadio di sviluppo costituito dal film sonoro.

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La correttezza della rappresentazione interna all’oggetto artistico sta nella realtà della rappresentazione tipica (o riflesso) dell’uomo, del comportamento umano e dei rapporti umani. La correttezza delle leggi costruttive dell’oggetto artistico sta nello stesso riflesso (o rappresentazione) che si manifesta come regolarità costruttiva, cioè come proiezione delle regolarità interne dell’uomo, del comportamento umano e dei rapporti umani nella struttura dell’opera. Ed ecco dov’è la fonte ultima di nutrimento inesauribile non solo per le immagini dell’arte, ma anche per le sue leggi costruttive e per le soluzioni concrete delle forme e dei metodi dell’arte. Cercheremo ora di esemplificare questa situazione nel suo comples­ so, prima di passare all’applicazione concreta di questo principio al problema del montaggio. Prendiamo due esempi dai campi meno rappresentazionali dell’arte, dalla musica69 e dall’architettura, e cerchiamo l’uomo dentro le loro regolarità. Per la prima sfera - la musica - ci sarà d’aiuto ancora una volta Diderot. Proprio a questo aspetto del problema è dedicato un ampio settore dello stesso Troisième entretien del Figlio naturale che abbiamo già utilizzato. Diderot affronta il problema in tutta la sua ampiezza. Egli pone a fondamento delle sue considerazioni l’uomo, ma allarga il discorso fino a coinvolgere anche l’ambiente che circonda l’uomo, che viene affrontato, appunto, dal punto di vista della sua traduzione in musica. Una inevitabi­ le limitazione storica, tuttavia, costringe Diderot a fermarsi alla «natura» senza prendere in considerazione il problema di vedere se nelle regole della musica sia riflesso anche qualcosa dell’ambiente sociale: dei rap­ porti umani, per non parlare della loro forma più alta, i rapporti sociali. Questo compito tocca ora in sorte agli «eredi di Diderot», ai nostri musicologi marxisti. Ma rivolgiamoci a una branca dell’arte ancor meno rappresentazio­ nale e imitativa: l’architettura.

69 Sappiamo che la musica direttamente rappresentativa è la forma musicale meno apprezzata. In casi rari, ma quasi sempre con un tour deforce, essa raggiunge elevate altezze artistiche come nella raffigurazione del bosco nel Siegfried di Wagner. Più spesso la sua rappresentazionalità vive nella forma più bassa: rimmediata imitazione sonora. La mancanza di organicità nel suo principio rende questo compito imitativo inevitabilmente comico. Questa comicità è razionalmente sfruttata da un’intera branca della musica: gli elementi di imitazione sonora del jazz.

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Le sue leggi sono permeate dal «principio dell’uomo» e dai rapporti umani non solo sotto il profilo della razionalità e della convenienza del vivere (in un certo senso è questo il «soggetto» dell’architettura!). Di un tale «principio dell’uomo» è permeata anche tutta la sua estetica70. Nei primi tempi, veramente, non si tratta tanto del «principio del­ l’uomo», quanto proprio del suo... sangue. E non in senso metaforico, ma come reale sacrifìcio fìsico che veniva fatto sulle fondamenta dell’edi­ fìcio in costruzione. Poi con particolare perfezione presso i Greci non più il sangue, ma lo «spirito» dell’uomo penetra l’edificio e tutti i suoi particolari: le sue proporzioni ripetono - ecco la cosa più notevole - non già le proporzioni dell’uomo, ma il principio e la regolarità dello sviluppo (della crescita) dell’uomo. E noto che il principio della «sezione aurea», che ha giocato un ruolo così decisivo nelle proporzioni delle opere d’arte greche, è la stessa cosa della formula della crescita degli organismi naturali, riportata in correlazioni lineari [151]. Questa regolarità della crescita organica e dello sviluppo è comune alla crescita e allo sviluppo di qualsiasi rappresentante della natura organica. Perciò le opere dell’architettura greca, partecipando in modo intenzionale (o in parte istintivo) con le loro proporzioni a questa struttura, producono, come nessuna architettura al mondo, una tale straordinaria sensazione; questo sentimento, a parte altre considerazio­ ni, è Io stesso che in noi si produce di fronte ai fenomeni della natura organica: il corpo umano, un fiore o la risacca del mare. Gli anni oscuri del medioevo riducono di nuovo il problema del «principio» dell’architettura a stretta «rappresentazionalità», simbolici­ tà e crittogramma. Se è vero che nello slancio delle volte del gotico si è fissato in immagine di pietra il desiderio di ascesa verso i luoghi ultrater­ reni del paradiso (sembrava l’unica uscita dall’inferno sociale del me­ dioevo), se è vero che la trasformazione della massa di pietra nel ricamo delle pareti delle chiese gotiche esprimeva l’idea di un tale superamento mistico della realtà, se è vero che in questi casi Io stato psichico della concezione del mondo medievale sapeva rappresentarsi nei principi dello stile e della tecnica architettonica, è anche vero che questa stessa

70 Quella scuola d’architettura che ha voluto ricavare tutta l'estetica della costruzione dalle proprietà e dalla qualità del materiale costruttivo, secondo noi ha ormai vissuto la sua breve fioritura e una fine pienamente meritata. Il suo contributo sperimentale a uno dei settori dell’estetica è indubbio, ma la sua pretesa universale è certamente infondata.

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architettura, non negli stadi più alti del suo sviluppo ma ai suoi livelli più primitivi, conosce anche esempi della più elementare rappresentazione crittografica11. Può servire da esempio lo schema di base tradizionale e codificato dalla tradizione del tempio cristiano. Alla sua base c’è la croce, disposta inoltre in modo tale che nel punto in cui ci dovrebbe essere la testa del crocifisso è collocato il luogo più sacro, l’altare. Questo luogo si sposta a seconda delle epoche e delle diverse confessioni di fede. In alcuni casi l’altare si spinge in profondità, in altri conserva il suo posto al centro dell’incrocio delle navate, meravigliando con tale disposizione coloro che. se lo aspettano collocato in profondità secondo il modello delle chiese ortodosse, un po’ come la disposizione di una scena teatrale. Il Rinascimento... Ma non stiamo scrivendo la storia delle proporzio­ ni in architettura. E perciò toccheremo in breve solo un’ultimo esempio: l’architettura... del decadentismo, lo stile liberty. Lo stile liberty, coincidendo in modo caratteristico con il confine tra i secoli xix e xx, non può non portare l’impronta delle sue correnti di pensiero. Appartenendo a un periodo di marasma sociale, questo stile è desti­ nato a mancare di una personalità capace di imporsi. (Come per esempio lo stile impero dell’uzzo dell’imperialismo). Lo stile di quest’epoca è inevitabilmente imitativo. Marx scoprì le cause di un simile fenomeno descrivendolo in rapporto all’epoca di Napoleone ni.* L’oggetto di imita­ zione in questo periodo di decadenza non fu una qualsiasi altra epoca, ma... la natura! Ma che imitazione snaturata! L’architettura qui non imita il principio, i modi e i fenomeni della natura, ma le apparenze esteriori del mondo vegetale e del corpo umano, soprattutto femminile. E il ferro si incurva in liane. Lo stucco si modella in gigli. Le forme delle finestre cercano di riprodurre impropriamente i cerchi concentrici del­ l’acqua. Le facciate imitano l’apertura d’ali di ima libellula. Le maniglie delle porte, i manici di forchette e coltelli, il campanello elettrico e gli steli delle lampade si avvolgono in figure di corpi femminili serpeggianti, nei cui capelli ardono misteriosamente, con una flebile incandescenza, delle lampadine elettriche. Persino lo sfrenato rococò era più saggio: le

71 Ancor più sorprendente se pensiamo al comandamento «non crearti immagine e simulacro». Gli ebrei furono più coerenti, riducendo il sancia sanctorum del tempio di Gerusalemme a un «nulla» - una stanza vuota -, luogo di permanenza e immagine di un dio invisibile. Così i maomettani sulle miniature orientali, tra reali (relativamente, s’intende) paesaggi, cavalieri, persone, fanno apparire Maometto vestito, a cavallo, con una macchia bianca al posto del viso.

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sinuosità delle sue poltrone e «bergères» almeno ripetevano solo le linee della figura femminile! Questo particolare «biologismo» caricaturale nel campo dell’archi­ tettura avrebbe conosciuto qualche decennio dopo la risposta di un... «fisiologismo» non meno erroneo. Con quest’espressione vorrei designa­ re il nudo funzionalismo in cui cadde l’estetica architettonica dei seguaci di Le Corbusier: l’ipertrofìa della convenienza e dell’utilitarismo. Uno stile altrettanto inumano del liberty, che inseguiva l’evidente esteriorità delle forme della natura. Poiché la razionalità della struttura dello scheletro, la razionalità del sistema dei muscoli, la razionalità del sistema nervoso o vascolare, e persino la loro combinazione, ancora più razionale, non bastano ancora a creare l’integrità dell’organismo vivo, della persona viva! Confesso di essere stato un grande sostenitore dell’estetica architet­ tonica sia di Le Corbusier che di Gropius. Solo il contatto con la pienezza della vita mi ha aperto gli occhi sul fatto che in questa architettura (soprattutto nelle alterazioni dei suoi epigoni) manca il riflesso dell’allegra multiformità dell’uomo d’oggi, proprio come un atlante anatomico non può essere anche un ritratto in cui un uomo possa riconoscersi, ritrovare la sua voglia di vita e la sua gioia di vivere. Questa funzione dell’architettura, questa gioiosa incarnazione della mia umanità nella mia abitazione, nella mia strada, nell’insieme della mia città, questo carattere non semplicemente utilitario e relativo alle mie limitate esigenze umane non l’ho appreso dai libri e dai trattati teorici, non dai professori né dagli architetti. Il mandato architettonico sull’incarnazione della gioia dell'uomo nel complesso della sua città e del suo edificio, quanto questa esigenza sia più ampia e più alta di quelle poste dall’estetica, compreso il principio delle proporzioni umane presso i Greci, l’ho capito da una persona straordinaria, l’artefice del socialismo in uno dei più piccoli paesi della nostra immensa Unione, Betal Kalmy­ kov [152], conversando con lui sulla costruzione della città socialista di Nal’cik nel luogo dove sorgeva in precedenza poco più di un villaggio cosacco. In quell’occasione, per la prima volta, ho sentito concretamente Inumanità» nel problema dell’architettura72.

72 Ma è davvero assai preoccupante die questo impegno sulla felicità dell’uomo liberato dal peso dello sfruttamento non sia stato abbracciato dagli architetti sotto un profilo propriamente artistico. L'impresa chiamata alla progettazione architettonica di Nal’cik preferì (almeno nei progetti che vidi nel 1933) affibbiare alla capitale della Kabardino-Balkarija, «per i suoi soldi», un insieme concepito

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Ma torniamo dal campo delia musica e della musica che si è congelata nella pietra (l’architettura) alle ultime conclusioni sul montaggio del film sonoro. Il «principio dell’uomo» come fonte dell’estetica formativa del cine­ ma non è stato mai posto con la necessaria compiutezza, e si capisce: il cinema, infatti, non ha mai conosciuto esigenze tanto grandi e difficoltà tanto impegnative come quelle dell’arte sintetica. Ci sono state, piuttosto, deviazioni e stramberie in questa direzione. Tentativi di attaccarsi ai,..singoli organi dell’uomo, alle sue singole membra per cavarne un’estetica universale per la cinematografìa. [...] Ci furono il «Kinoglaz» e il «Radioucho» [153] con l’estetica degli occhi abbagliati dall’aspetto visibile del socialismo. Ad essi si opponeva il «cinepugno» (cfr. il mio articolo del 1925 Sul problema della dialettica della forma cinematografica) [154] con l’estetica del colpo sulla psiche di chi percepisce («aprire i crani» ecc.). A questi tre si contrapponeva il «cinecervello», nell’illusione che il colpo d'occhio fosse più valido dello sguardo. (Il montaggio delle attrazio­ ni come montaggio delle cellule del cervello dello spettatore).

Spuntava poi il «cineintelletto» come processo dinamico delle fun­ zioni di questo cervello [155]. E subito gli veniva opposto il «cinecuore» ardente di emozioni (proprio come in un famoso disco di un contempo­ raneo con una nota canzoncina presa da una nota dnecommedia musica­ le) [156]. L’eccessiva astrazione di questo «corso del pensiero e della coscien­ za» umani come unico tema del film volgeva verso una maggiore umanità con il «monologo interiore», inteso come riserva dei procedimenti di costruzione dell’oggetto cinematografico. Ma si tornava, in tal modo, a privilegiare qualcosa di singolare: la costruzione del discorso di un uomo. E per di più interiore! [157] Tutto ciò attaccava il problema della cineforma di volta in volta ai fianchi, come un branco di cani azzanna i fianchi di un cinghiale brac­ cato.

secondo una ricetta estremamente semplice: moki «calchi», parecchia sfacciataggine e moltissimi album architettonici. «Il palazzo della cultura?»—Vai con Piranesi. «H palazzo dei Soviet?»-Prendi palazzo Pitti. Uno stabilimento idroterapico? - Scopiazza le Terme di Caracalla (se solo bastassero i soldi!), nb. Questa digressione non è affatto un «nascondersi» dietro l’architettura. «Che c’entra qui il cinema?» è una domanda del tutto inopportuna. Al lettore il compito di trovare le analogie col cinema.

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E tanto più ardente, sia negli attacchi che nelle affermazioni, era quella tesi che più unilateralmente pretendeva a un significato universale e definitivo. Ma, veramente, solo adesso è arrivato il momento di riunifìcare tutto: l’occhio vigile ritorni nell’orbita e osservi il mondo contemporaneo in modo ancor più acuto. L’orecchio torni a disporsi su entrambi i lati delle tempie. H cuore batta nel petto con la fiamma rivoluzionaria. L’intelletto regoli tutto l’apparato, faccia in modo che si compia senza ostacoli non solo il processo, ma la corsa veloce della coscienza e del pensiero, e che la parola, il discorso e il comportamento infliggano colpi contro chiunque si opponga al corso vittorioso del socialismo. Nulla della nostra passata esperienza dovrà andar perduto nell’economia dell’arte sintetica, ma nulla, al tempo stesso, dovrà superare i confini del posto assegnatogli. Il montaggio come metodo di realizzazione dell’unità a partire da tutta la varietà delle parti e delle sfere che compongono l’opera sintetica deve prendere come modello vivo l’integrità dell’uomo ristabilita nella sua pienezza. Ma questo modello non deve essere un robot messo insieme e avvitato meccanicamente (meccanicisticamente!), o l’uomo artificiale con gli organi interni di vetro esposto alla mostra universale di Parigi del 1937. E perciò il montaggio, il Montaggio con la lettera maiuscola, e non il montaggio come un momento specifico della produzione del film (insieme con l’attore, l’inquadratura, il suono), deve fondarsi sul prototi­ po dell’uomo. Prendere a modello l’uomo reale, vivo, gioioso e sofferen­ te, che ama e odia, canta e danza, che genera figli e ha fatto sparire ogni traccia di classi sociali, l’uomo felice e multiforme del socialismo che si va costruendo, e l’uomo che costruisce il socialismo. E ripeto: non solo nel tema e nel soggetto. Ma anche nel prototipo strutturale delle leggi di composizione. Che significa questo nei fatti? E com’è che, non essendo un insieme di modelli e di ricette, questo principio funziona come una fonte inesauribile per l’invenzione continua di concezioni compositive sempre nuove? A Diderot era andata bene. Egli tirava le somme di diciotto secoli di cultura musicale ai quali va aggiunta quella innumerevole falange di secoli che si computano all’in­ dietro cominciando dalla nascita di Cristo e alla cui fine (o al cui inizio?) si trova anche l’origine della musica. Per lui fu facile determinare con uno sguardo retrospettivo da dove e come avesse avuto origine la musica e che il terreno sicuro per dedurne le

Una narrazione commossa (a mo> di conclusione)

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leggi dell’estetica fosse l'uomo che si esprime o, più precisamente, l'espresswità dell’uomo. Il suo campo di riferimento - la musica - era infatti di gran lunga più ristretto dell’universalità della sintesi del film sonoro audiovisivo] Noi, al contrario, possiamo giovarci di un’esperienza che si limita a una quarantina d’anni di produzione cinematografica, rispetto ai qua­ li, inoltre, il nostro compito non consiste nel tirare somme o analizza­ re, ma nel far progredire senza precedenti un metodo ancora quasi privo di oggetto, avendo tra le mani soltanto il principio dell’uomo espressivo inteso come prototipo delle regole dell’estetica del film sonoro!

E tuttavia stiamo meglio noi di Diderot: davanti a noi ci sono tanti secoli di conquiste dell’umanità liberata, quanti ne ha lui alle spalle di quella oppressa! Lavorare sulle prime pietre dell’estetica dell’arte sintetica che l’uma­ nità liberata è chiamata a creare è la più esaltante delle avventure. Dunque, qual è il metodo pratico per ricavare dall’espressività del­ l’uomo un flusso inesauribile di partiture audiovisive sempre nuove, sempre originali, sempre palpitanti di vita per ogni nuovo tema? E molto semplice e molto complesso. Alla base della partitura nella quale si esprime il tema deve esserci niente di più di una narrazione commossa degli eventi e dei contenuti che configurano quel tema. Tutto qui? - Sì, così poco e così straordinariamente tanto. Infatti: che cos’è una narrazione commossa? E un’idea che è diventata patrimonio di tutte le manifestazioni espressive dell’uomo e si è incarnata in esse. Guardate un uomo che racconta in modo commosso. Gira per la stanza. Non gli bastano le parole. Per un certo tempo risuonano intonazioni ancora non verbali. Ecco che passa a una gestico­ lazione caotica. Ma non gli bastano neanche i gesti per esprimere qualco­ sa che non si esaurisce in un’esposizione verbale. Si agita. Ma ecco che si domina. Respira a fatica. Si asciuga la fronte. Ecco che di nuovo gli occhi si illuminano. Questa volta però cammina per la stanza in modo misura­ to. Le parole cominciano a trovare il posto e la forma giusta nell’esposi­ zione. Esse si alternano con regolarità ai gesti e ai passi. Ma di nuovo cresce l’agitazione. Le forme del corpo dicono più delle parole. Le parole improvvisamente cominciano a fluire ritmicamente. Egli è ancora più ispirato, ormai non declama, quasi canta. Vortica per la stanza.

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Il montaggio nel cinema sonoro

Senza interruzioni e con un’inflessibile coerenza tutto ciò è permeato da una sola idea, una sola concezione. Dovete immaginarvelo in un’azione scenica, come una rappresenta­ zione di quest’uomo commosso. E il pezzo si traspone nella sua partitura. Sulla corrente portante di un autentico sentimento interiore la com­ posizione scenica traccia qualcosa che assomiglia a una «fuga a quattro voci» di Bach. Come in una partitura musicale, al posto delle «voci» o degli «stru­ menti» sulla colonna sinistra del foglio prendono posto:

L Messa in scena

2. Gesto 3. Mimica

4. Intonazione Lungo la parte superiore della pagina corre la linea del testo del racconto commosso con il sottotesto della corrente dei sentimenti e delle rappresentazioni che si svolgono sincronicamente con le parole. Il loro senso e il sentimento connesso determinano la «distribuzione» di ogni fase dell’azione per i diversi «strumenti» dell’orchestra della manifesta­ zione espressiva dell’uomo. Ora gli elementi del contenuto verbale vertono completamente sulla messa in scena (1, 4). Ora sul gesto dell’uomo (2, 3). Ora solo sulla mimica (3). Ora sull’intonazione non verbale (4). Ora, come un uragano, afferrano l’uomo in tutte le sue manifestazioni (1, 2, 3, 4). Nell’azione stessa essi penetrano l’uno nell’altro, si integrano e di nuovo si separano, veicolando insieme la pienezza del flusso emotivo e la commozione del tema. Queste manifestazioni del comportamento com­ mosso presentano uno sviluppo stadiale. L’intensità della sofferenza costringe il pensiero a vestirsi di parole: «Wem das Herz voli ist, dem geht der Mund ùber», disse un impetuoso uomo del passato, né più né meno che quel Martin Lutero che tirava i calamai sui diavoli e le traduzioni della Bibbia sui papi. Una parola commossa trabocca di intonazione. L’intonazione si amplifica nella mimica e nel gesto. Il gesto e la mimica esplodono nello spostamento spaziale del loro portatore nel comportamento spaziale: il prototipo della messa in scena. Organici nel loro legame, stadiali, consecutivi per il loro sviluppo, tutti questi

Una narrazione commossa (a mo1 di conclusione)

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elementi stabiliscono invece un rapporto contrappuntistico in condizio­ ni di compresenza. Così è nel teatro. Così nel lavoro dell’attore, a teatro e, nella stessa misura, nel comportamento drammatico dell’uomo nell’opera cinemato­ grafica. Ma io non sono un attore. Non sono neanche un regista teatrale. Io sono un regista della più importante delle arti, il film sonoro in quanto sintesi delle arti. Come devo essere io7 Con che cosa esprimerò, com­ mosso, il mio tema, il nostro tema? Dov’è la mia corsa? Dov’è il mio pianto? Dove sono il mio gesto, la mia mimica, la mia parola? La mia messa in scena è il montaggio. Il mio gesto e la mia mimica sono la composizione dell’azione nell’inquadratura e l’inquadratura stessa. La mia intonazione sta nella mia colonna sonora, nel contrappunto audiovisivo. Un grande poeta della nostra epoca ha scritto a proposito della creazione rivoluzionaria: Le strade sono le nostre tele, Le piazze le nostre tavolozze... [158]

Il corpo della forma della mia opera, in cui mi incarno, portandovi il mio tema, è simile all’immedesimazione dell’attore, il corpo della forma della mia opera, le sue parti, membra e organi sono la struttura del mio racconto, il ritmo della mia danza, la melodia della mia canzone, lax metafora del mio grido, l’esposizione del mio soggetto e l’immagine della mia percezione del mondo, con i quali io esprimo - come l’attore con le mani, con i piedi, con la voce e con Io scintillìo degli occhi - qualcosa da cui entrambi, nella nostra creazione, siamo nello stesso modo interior­ mente posseduti! Il colore, il ritmo, l’azione dell’attore, l’espressione del tema per mezzo dell’intera messa in scena, della colonna sonora o dell’immagine plastica dell’inquadratura, di un intero pezzo o di una rapida frase di montaggio ecc., ecco l’insieme degli strumenti della mia orchestra. La quale può ampliarsi illimitatamente, ma nasce comunque da quella più piccola orchestra, da quella partitura che da un pensiero inespresso si fa parola e intonazione, mimica e gesto e, infine, si converte in una messa in scena secondo lo schema, riportato sopra. E così che cresce e si sviluppa la partitura della composizione del film sonoro sintetico: come condizione fondamentale di montaggio che coin­ volge tutti i suoi mezzi e l’intera sfera della sua influenza. Abbiamo dunque trovato un accordo sul modo in cui la legge di

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Il montaggio nel cinema sonoro

costruzione dell’oggetto, la struttura dell’opera non diversamente dal suo soggetto, può essere un rispecchiamento (otobrazenie) dell’uomo vivo! In apparenza tutto ciò è ridicolmente semplice. Il principio è chiaro. E tuttavia, sapersi ascoltare e intendere, saper ritrovare in noi stessi qualcosa che si possa poi articolare in un programma concreto una completa partitura dell’oggetto - è un compito che presenta enormi difficoltà. È questo il metodo su cui verte il mio lavoro didattico già da molti anni a questa parte. E c’è ancora un’altra difficoltà: la difficoltà di una cultura deU’emozione che sia corretta e veritiera fino in fondo. Senza un tale presupposto di amore e odio non può nascere alcun’opera, né forma, né contenuto. E in questa cultura, necessaria ma digran lunga insufficien­ te, della partecipazione commossa - necessaria in ugual misura all’attore e al regista, sebbene secondo diverse sfere di applicazione - si trovano grandi difficoltà. Il sistema di Stanislavski] ha contribuito non poco a chiarire il problema di una tale «cultura dell’emozione». E forse perfino a danno delle altre componenti della totalità dell’opera d’arte. Si tratta di un orientamento cosciente e fondato: «Sì, io presuppongo un estremismo nei confronti della creazione emotiva e lo faccio non senza intenzione, perché gli altri orientamenti dell’arte troppo spesso hanno dimenticato il sentimento» [159]. E il principio che Stanislavskij sviluppa coerentemente attraverso tutto il libro. Al problema della forma, tuttavia, sono dedicate due parole, e per di più nell’ambito di ima considerazione del tutto generica: «Scopo della nostra arte non è solo la creazione “della vita dello spirito umano”, del ruolo, ma anche la sua comunicazione attraverso la forma artistica...» [160]. Ma su questa «artisticità» della forma non c’è una sola parola in tutto il libro. Tornando al problema del rispecchiamento dell’uomo nella costru­ zione della forma, diremo che la forma è nello stesso tempo un riflesso del comportamento umano e dei rapporti reciproci tra gli uomini, poiché non dalla viva vita, ma solo dal teatro... anatomico (del resto, anche questo è relativo! ) può venire fuori un uomo astratto dal comportamento umano, un uomo escluso dai rapporti umani e sociali. Ma un uomo siffatto si chiama cadavere. La forma attiva della mia opera, come abbiamo mostrato con chiarez­ za, è un’incarnazione della mia emozione espressiva per la realtà: non un’emozione «in sé», ma un’emozione di classe.

Una narrazione commossa (a mo' dì conclusione)

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In questa unità della coscienza di classe e dei sentimenti, che determi­ na l’intero «caravan-serraglio» dei mezzi d’azione e d’espressione, si riflette un episodio della lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori, una lotta alla quale io sono felice di partecipare sia come un testimone che come un combattente che vi è capitato nel momento migliore, nel secolo che l’ha conclusa vittoriosamente. E il segreto di un autentico riflesso di tutto questo non più soltanto nel contenuto, ma anche nelle leggi di costruzione dell’oggetto, è uno e uno solo. Questo segreto elimina anche ogni difficoltà preliminare nei con­ fronti della cultura dell’espressione commossa, dotandola di un fonda­ mento sicuro e indistruttibile. Per definirlo possiamo tranquillamente affidarci al «furioso Vissa­ rion». Che cosa occorre per svelare questo segreto? «Occorre soltanto essere cittadini, figli della propria società e della propria epoca, fare propri i suoi interessi, fondere le proprie aspirazioni con le sue aspirazioni» (Belinskij). Essere cittadini del Paese dei Soviet. Essere figli della propria classe, combattere attivamente per il socialismo. Il resto verrà da sé, «spunterà» dalle giuste premesse come tante volte abbiamo visto dagli esempi con cui abbiamo esplorato tutti i campi del nostro difficile problema. Questo vale anche per tutta la nostra attività nel suo coplesso! E le forme si disporranno con la stessa rigorosa chiarezza che caratterizza il racconto e la struttura della canzone popolare. Solo tenendoci stretti alla naturalezza e all’organicità della piena espressione dei nostri sentimenti commossi - all’espressività - noi avre­ mo in mano quel patrimonio di valori grazie al quale la nostra partitura saprà quando è il momento di passare al linguaggio d’immagine e metaforico, come articolare il soggetto in frammenti di montaggio, quando vedere improvvisamente tutto a colori, e quando scatenare l’intero uragano dei sentimenti in puri suoni. E l’espressività umana il sostegno e la fonte che nutre l’arte della forma. Per questo nel mio programma di regia per il gik così puntigliosa­ mente, così dettagliatamente - a dispetto del baccano non già dei critici, ma dei criticoni - dedico tanta attenzione al problema dell’espressività dell’uomo. E non mi faccio scrupoli, inoltre, di introdurre - anche se ciò manda in bestia i suoi oppositori - non solo la storia delle teorie dell’espressività dell’uomo, ma anche la storia dell’evoluzione delle stesse manifestazioni espressive. Non potremmo altrimenti comprendere tutto quanto fino a oggi

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II montaggio nel cinema sonoro

abbiamo acquisito nella conoscenza dell’espressività dell’uomo. Non potremmo comprendere una gran parte di ciò che si può capire dalle regole interne dell’arte, questa alta forma del comportamento sociale dell’uomo espressivo. E ancor meno potremmo far fronte agli ardui compiti artistici che, al di là dell’idea e della tematica, ci stanno di fronte nel nostro accostamen­ to all’espressività del film sintetico audiovisivo.

NOTE DEL CURATORE

Sono state usate le seguenti sigle: FTF = S.M. Ejzenstejn, Forma e tecnica delfilm e lezioni di regia, a cura di P. Gobetti, Torino, Einaudi, 1964. Izp = S.M. Ejzenstejn, Izbrannyeproizvedenijav sesti tomach (Opere scelte in sei volumi), Mosca, Iskusstvo, 1963-1970. M = S.M. Ejzenstejn, Il montaggio, a cura di P. Montani, Venezia, Marsilio, 1986. NP = S.M. Ejzenstejn, Neravnodusnaja priroda, tr. it. La natura non indifferente, a cura di P. Montani, Venezia, Marsilio, 1981. 05 = S.M. Ejzenstejn, Opere scelte, a cura di P. Montani, Venezia, Marsilio. Gli articoli e i saggi di Ejzenstejn sono citati di regola da IzP.

[1] La distinzione tra «cosa» (vele) e «oggetto» (predmet) intende sottolineare quella fase del processo creativo nella quale entra in gioco — con le modalità e le determinazioni di cui Ejzenstejn parlerà ampiamente in seguito - l’antropomor­ fismo profondo che genera e motiva i principi costruttivi e le forme dell’opera. [2] Ejzenstejn definisce di regola con l’espressione tonfil’m il suo modo partico­ lare di intendere il film sonoro, a differenza dei film semplicemente «sonorizza­ ti» della produzione corrente. La traduzione adottata è comunque «film sono­ ro». Nella terza parte del libro la scelta terminologica di Ejzenstejn è ampiamen­ te motivata anche sul piano teorico. [3] Questa problematica sarà successivamente ripresa in NP e integrata nel più complesso modello deH’«organicità» dell’opera d’arte. Il tema dell’organicità (conformità dell’opera alle leggi di sviluppo e di trasformazione della natura) compare in Ejzenstejn già all’inizio degli anni ’30. E da osservare che in questa fase esso viene ristretto (con evidenti motivazioni di ordine politico) all’immagi­ ne dell’wowo. Lo stesso si deve dire a proposito del termine obobscenie (qui tradotto di regola «generalizzazione»), termine assolutamente centrale in questo libro e successivamente abbandonato da Ejzenstejn: si tratta con ogni probabili­ tà di un intenzionale riecheggiamento di formule introdotte dai teorici del realismo socialista (nella fattispecie il concetto di «tipico»).

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[4] L’opposizione-complementarità tra izobrazitel’nost' e obraznost' è uno dei fili conduttori del libro. Obraznost', da obraz» «immagine», è la «qualità d’imma­ gine» di una forma, il suo «essere-immagine», insomma la sua «immaginità» (come qui continuiamo a tradurre restando fedeli a una decisione già motivata a suo tempo: cfr. Organicità e immaginità, in «Bianco e Nero», 1971, nn. 7-8). [5] Per i problemi connessi con l’idea di «costruzione dell’oggetto» cfr. NP (tr. it. pp. 3-39). [6] K.S. Stanislavskij, An actor prepares, New York, Theatre arts, 1936. La traduzione americana del libro di Stanislavskij Rabota aktera nadsoboj (Il lavoro dell'attore su se stesso) fu pubblicata due anni prima dell’edizione sovietica. [7] Za kadrom (Oltre l'inquadratura), 1929 in IzP, il, pp. 283-296 (tr. it. col titolo Fuori campo, in A4, pp. 3-18). [8] Per il concetto di «montaggio sovratonale» cfr. Cetvèrtoe izmerenie v kino (La quarta dimensione nel cinema), 1929, in IzP, n, pp. 45-59 (tr. it. parziale col titolo Cinema in quattro dimensioni in FTF, pp. 60-76; nuova tr. it. in A4, pp. 53-69) e Vertikal'nyj montai (Il montaggio verticale), 1940, in IzP, n, pp. 189-266 (tr. it. con i titoli Sincronizzazione dei sensi, Significato del colore, Forma e contenuto: pratica in FTF, pp. 267-361; nuova tr. it. in A4, pp. 129-216). Cfr. inoltre, in questo voi., le pp. 35-36 e la nota [18]. [9] Srednjaja iz trèch (La media delle tre), 1934, in IzP, v, pp. 53-78 (tr. it. col titolo Dal teatro al cinema in FTF, pp. 5-18; nuova tr. it. in 05); Vystuplenie i zakljucitel'noe slovo na Vsesofuznom tvorceskom sovescanii rabotnikov sovetskof kinematografii (Intervento e conclusioni alla conferenza artistica panunionista dei lavoratori del cinema sovietico), 1935, in IzP» n, pp. 93-130 (tr. it. col titolo La forma cinematografica: problemi nuovi in FTF, pp. 111-133; nuova tr. it. in 05). [10] Si tratta dell’incompiuto Rezissura (La regia), ora parzialmente in IzP, iv; prima tr. it. con integrazioni inedite in S.M. Eizenstejn, La regia. L'arte della messa in scena, a cura di P. Montani, Venezia, Marsilio, 1989. [11] Istituto statale di cinematografia. [12] Traduciamo con questa perifrasi il termini byt', altrove reso anche con «verosimiglianza». E del tutto chiaro l’uso che ne fa Ejzenstejn: si tratta della condizione di verosimiglianza della rappresentazione^ cui elaborazione compo­ sitiva fa emergere l’immagine. Si può e si deve rimanere aderenti al byt', al modo d’essere comune e verosimile della rappresentazione, senza, per questo, rinun­ ciare a cavarne anche le più sofisticate generalizzazioni concettuali. [13] Si intende il movimento che ripristina il valore originario della metafora secondo il procedimento descritto nella soluzione della scena dell’arresto di Vautrin. [14] Compare qui il termine stanislavskijano perezivanie, tradotto in quest’occa­ sione con la perifrasi «rifare intensamente esperienza» e altrove con «immedesi­ marsi». Nei casi in cui il riferimento al sistema di Stanislavskij è esplicito si è tradotto con il letterale «riviviscenza». [15] Mark Matveevic Antokol’skij (1842-1902). [16] Pittore cinese dell’vin secolo, autore del trattato Rivelazione segreta della

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dottrina pittorica. [17] Nel manoscritto manca il nome dell’autore del testo citato. [18] H termine russo oberton è comunemente tradotto con «armonico» nel linguaggio tecnico musicale. Qui, visto l’uso metaforico che ne fa Ejzenstejn, abbiamo preferito tradurre con «sovratono» (con il corrispondente aggettivo «sovratonale»). Là dove, invece (soprattutto nella terza parte del libro), oberton è usato in riferimento a problemi specificamente musicali la traduzione è «armonico». Cfr. anche la nota [8]. [19] «Secondo le sue affermazioni la pittura e il disegno costituivano un tutto unico». [20] Personaggi della Anime morte. [21] A. Puskin, Poltava, tr. it. di Tommaso Landolfi, in Poemi e liriche, Torino, Einaudi, 1982, p. 272. [22] Personaggio del Giardino dei ciliegi di Cechov: è il vecchio servo dimentica­ to dai padroni nella casa abbandonata, H nome Firs è diventato così sinonimo di «uomo dimenticato». [23] Il termine obraz, «immagine», non va inteso soltanto in riferimento a fenomeni di ordine visivo: in quanto momento della totalizzazione del senso della rappresentazione, l’immagine può prendere forma attraverso tutti i mezzi espressivi che concorrono alla costruzione dell’opera. [24] Marietta Sergeevna Saginjan (1888-1972). [25] A. Puskin, La figlia del capitano. [26] S. Kierkegaard, Uber den Begriff der Ironie. Mit stàndiger Rucksicht auf Sokrates, 1929, p. 14. [27] In italiano nel testo. [28] José Guadalupe Posada (1851-1913), autore di illustrazioni popolari e disegni satirici. [29] Cfr. nota [5]. [30] fi 17 giugno 1937. [31] Le immagini sono tratte, rispettivamente, da: Il vecchio e il nuovo, La corazzata Potemkin, Il prato di Bezin. [32] In Fuori campo, cit. [33] Film del 1925. [34] Film del 1934, regia di Rouben Mamoulian. La sequenza a cui si fa riferimento (la scena del ballo prima di Waterloo) è uno dei primi tentativi di uso espressivo del colore. [35] Il riferimento è al saggio di Freud Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci ( 1910); fl.«crittogramma inconscio» (il profilo di un avvoltoio) fu «scoper­ to» da O. Pfistèr (1913). Freud ne riferisce in un’aggiunta al saggio del 1919. [36] H manoscritto presenta qui ima lacuna. Il saggio di cui si parla non fu mai realizzato. Quanto alla «fonte» originaria del montaggio, si vedano comunque le interpolazioni inedite qui di seguito tradotte alle pp. 226-250. [37] Cfr. E! O àstote kinojazyka (E! Sulla purezza del linguaggio cinematografi­ co), 1934, in IzP> il, pp. 81-92; tr. it. col titolo II linguaggio cinematografico in

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FTF, pp. 98-110; nuova tr. it. inM, pp. 75-87). Ejzenstejn pensava di accludere in appendice a Montaz 1937 una nuova redazione di questo articolo. [38] H disegno a cui si fa riferimento non è stato ritrovato, come pure quelli relativi ai due esempi che seguono. [39] In italiano nel testo. [40] In italiano nel testo. [41] In italiano nel testo. [42] Ivan Aleksandrovic Aksenov (1884-1935), poeta, critico, romanziere e specialista di teatro. [43] Peredvizniki, «Ambulanti», movimento artistico nato nel 1863 in opposi­ zione alTAccademia. Tra i suoi protagonisti LE. Repin e V.L Surikov, dei quali Ejzenstejn si occupa più avanti in rapporto alla sua analisi del quadro di Serov. Un notevolissimo studio su un quadro di Surikov (L# bojarynja Morozova, ricordato anche qui) si trova in NP (tr. it. pp. 23-27). [44] Igor’ Emmanuilovic Grabar* (1871-1960), pittore e storico dell’arte. [45] La distinzione, in verità non chiarissima, è tra «vcbozdenie v obraz» (Ventrate in immagine) e «perelozenie “vo. obraz”» (il mettere in immagine): sembra evidente, tuttavia, che la prima delle due espressioni sia da intendere come un equivalente di ciò che in genere in questo libro è definito come « rappresentazione». [46] Tra le varie appendici previste per Montaz 1937 Ejzenstejn aveva progetta­ to anche uno studio intitolato^/ Greco i kino (El Greco e il cinema) la cui stesura fu effettivamente intrapresa nel settembre 1937. Questo saggio, come accade spesso per le opere di Ejzenstejn, esiste in diverse redazioni, integrate in NP e in Montaggio verticale. La redazione oggi più completa si può leggere in traduzio­ ne francese in S.M. Eisenstein, Cinématisme (ed. F. Albéra), Bruxelles, Editions Complexe, 1980, pp. 15-104. [47] Il testo del manoscritto si interrompe a metà pagina. Il testo successivo inizia in una nuova pagina. L’analisi del quadro di Serov fu ripresa da Ejzenstejn nel 1945 e integrata con osservazioni sul rapporto figura-sfondo, su Rodin e Delaunay. Queste aggiunte si possono ora leggere in Cinématisme, cit., pp. 235-40 e 243-48. [48] Lo studio di Rodin è riportato da Ejzenstejn nella relazione di Montaggio verticale preparata per The Film Sense (1942). Nella sua lettura del quadro, Rodin «linearizza», per così dire, il dispositivo temporale concepito da Watteau come una serie di scene simultanee. [49] Guillaume-Benjamin Duchenne (1806-1875), neurologo. [50] G.E. Lessing, DelLaocoonte, tr. it. di C.G. Landonio, Milano 1936, p. 94. [51] Mstislav Valerianovic Dobuzinskij (1875-1957), grafico, disegnatore e scenografo. [52] Valentina Michailovna Chodasevic (1894-1967) attrice teatrale. [53] U kamina (Presso il camino) e Pozabud’ pro kamin (Dimentica il camino), romanze alla moda prima della rivoluzione; la seconda era la risposta alla prima. [54] Gavril Nikolaevic Popov (1904-1972), musicista, autore tra l’altro delle

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musiche di óipaev (1934) e II prato di Bezin (1937). [55] D testo di questo intervento non si è conservato. [56] Ejzenstejn si riferisce verosimilmente al testo Moniaz Kino-attrakcionov (Il montaggio delle attrazionicinematografiche, 1924), prima trad, italiana in M, pp. 227-250. [57] K.S. Stanislavskij, An actor prepares, cit., pp. 110-11. [58] Cfr. nota [43]. [59] K.S. Stanislavskij, Il lavoro dell'attore, traduzione italiana a cura di G. Guerrieri, Bari, Laterza, 1975, voi i, p. 230. Citeremo da questa traduzione tutte le volte che è possibile. Esistono tuttavia alcune discrepanze tra l’edizione americana, quella sovietica e la traduzione italiana. In questi casi, segnalati in nota, ci atterremo al testo di Stanislavskij riportato da Ejzenstejn, indicando in nota eventuali varianti [60] Id., p. 353. [61] Id., pp. 342 e 353-63. Gli ultimi due capoversi del brano citato non compaiono nella traduzione italiana. [62] Id., p. 54. [63] Id., p. 67. [64] Id., p. 68. [65] Id., pp. 198-99. [66] Id., p. 203. [67] Id., p. 203. [68] Id., pp. 203-4. [69] Id., pp. 2Ò0-201, 204. [70] Nel testo originale russo del libro di Stanislavskij - più conciso, in questo caso, della traduzione utilizzata da Ejzenstejn — questa sezione suona così: «Nessuno può giustificarmi agli occhi della società». [71] K.S. Stanislavskij, An actor prepares, p. 108. Il brano manca nella trad, italiana. [72] Id., pp. 349-50. H testo della trad, italiana non corrisponde qui esattamente a quello delTedizione utilizzata da Ejzenstejn. [73] K.S. Stanislavskij, An actor prepares, p. 287. Il brano manca nella trad, italiana. [74] K.S. Stanislavskij, Il lavoro dell'attore, cit., pp. 349-50.1 primi due capover­ si del brano citato non compaiono nella trad, italiana. [75] K.S. Stanislavskij, An actor prepares, pp. 267-69. Il brano manca nella trad, italiana. [76] Id., p. 267. H brano manca nella trad, italiana. [77] Id., p. 108. H brano manca nella trad, italiana. [78] K.S. Stanislavskij, Il lavoro dell'attore, cit., p. 156. [79] G.E. Lessing, Drammaturgia d'Amburgo, a cura di P. Chiarini, Roma, Bulzoni, 1975, p. 21. [80] Id., pp. 22-23 (corsivo di Ejzenstejn). [81] Si ricordi che in Ejzenstejn l’espressione «patetico» significa «ricco di

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pathos». Per la teoria del pathos si veda NP (tr. it. pp. 10-209). [82] W. Whitman, Il canto dell’ascia, tr. it. di E. Giachino, in Foglie d’erba e prose, Torino, Einaudi, 1956, pp. 229-242. [83] La fine di San Pietroburgo ( 1927), regia di V. Pudovkin. Aerograd (1936), regia di A. Dovzenko. La giovinezza di Maksim ( 1935), regia di G. Kozincev e L. Trauberg. [84] Si tratta di una descrizione del Diluvio (Trattato della pittura} che Ejzen­ stejn avrebbe ripreso e citato per intero in Montai 1938 (tr. it. in M, pp. 89-127). Riportiamo qui il brano di Leonardo per consentire al lettore di seguire il discorso di Ejzenstejn. « Vedeasi la oscura e nubolosa aria essere combattuta dal corso di diversi venti, e avviluppati dalla continua pioggia e misti colla gragnuola, li quali or qua or là portavano infinita ramificazione delle stracciate piante, miste con infinite foglie dell’autunno. Vedeasi le antiche piante diradicate e stracinate dal furor de* venti. Vedevasi le mine de* monti, già scalzati dal corso de* lor fiumi, rumare sopra e medesimi fiumi e chiudere le loro valli; li quali fiumi ringorgati allagavano e sommergevano le moltissime terre colli lor popoli. Ancora aresti potuto vedere, nelle sommità di molti monti, essere insieme ridotte molte varie spezie d’animali, spaventati e ridotti al fin dimesticamente in compagnia de’ fuggitivi ominide donne colli lor figlioli. E le campagne coperte d’acqua mostravan le sue onde in gran parte coperte di tavole, lettiere, barche e altri vari strumenti, fatti dalla necessità e paura della morte, sopra li quali era donne, omini colli lor figliuoli misti, con diverse lamentazioni e pianti, spaventati dal furor de’ venti, li quali con grandissima fortuna rivolgevan Tacque sottosopra e insieme colli morti da quella annegati. E nessuna cosa più lieve che l’acqua era, che non fussi coperta di diversi animali, e quali, fatta tregua, stavano insieme con paurosa collegazione, infra’ quali era lupi, volpe, serpe e d’ogni sorte, fuggitori della morte. E tutte Tonde percuotitrice (de’) lor liti combattevon quelli, colle varie percus­ sioni di diversi corpi annegati, le percussion de’ quali uccidevano quelli alle quali era restato vita. Alcune aggregazioni d’omini aresti potuto vedere, li quali con armata mano difendevano li piccoli siti, che loro eran rimasi, con armata mano da lioni e lupi e animali rapaci, che quivi cercavan lor salute. O quanti romori spaventevoli si sentiva per l’aria scura, percossa dal furore de’ tuoni e delle fulgore da quelli scacciate, che per quella ramosamente scorrevano, percotendo ciò che s’opponea al su* corso! O quanti aresti veduti colle proprie mani chiudersi li orecchi per ischifare l’immensi romori, fatti per la tenebrosa aria dal furore de’ venti misti con pioggia, tuoni celesti e furore di saette! Altri, non bastando loro il chiuder li occhi, ma colie proprie mani ponendo

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quelle Puna sopra dell’altra, più se li coprivano, per non vedere il crudele strazio fatto della umana spezie dall’ira di Dio. Oh quanti lamenti, o quanti spaventati si gittavon dalli scogli! Vedeasi le grandi ramificazioni delle gran querce, cariche d’uomini, esser portati per l’aria dal furore delli impetuosi venti Quante eran le barche volte sottosopra, e quale intera e quale in pezze esservi sopra gente, travagliandosi per loro scampo, con atti e movimenti dolorosi, pronosticanti di spaventevole morte. Altri con movimenti disperati si toglievan la vita, disperandosi di non potere sopportare tal dolore; de’ quali alcuni si gittavano dalli alti scogli, altri si stringeva la gola colle proprie mani, alcuni pigliava li propri figlioli, e con grande impeto li sbatteva in terra, alcuni colle propie sue armi si feria, e uccidea se medesimi, altri gettandosi ginocchioni si raccomandava a Dio. O quante madri piangevano i sua annegati figlioli, quelli tenenti sopra le ginocchia, alzando le braccia parte in verso il cielo, e con voce composte di diversi urlamenti riprendevan l’ira delli Dei; altra, colle man giunte e le dita insieme tessute, morde e con sanguinosi morsi quel divorava, piegando sé col petto alle ginocchia per lo immenso e insopporta­ bile dolore. Vedeansi li armenti delli animali, come cavalli, buoi, capre, pecore, esser già attorniati delle acque e essere restati in isola nell’alte cime de’ monti, già restrignersi insieme, e quelli del mezzo elevarsi in alto, e camminare sopra delli altri, e fare infra loro gran zuffa, de’ quali assai ne moriva per carestia di cibo. E già li uccelli si posavan sopra gli omini e altri animali, non trovando più terra scoperta che non fussi occupata da’ viventi; già la fame avea, ministra della morte, avea tolto la vita a gran parte delli animali, quando li corpi morti già levificati si levavano dal fondo delle profonde acque e surgevano in alto e in fra le combattenti onde, sopra le quali si sbattevano l’un nell’altro, e, come palle piene di vento, risaltavan indirieto dal sito della lor percussione. Questi si facevan basa de’ predetti morti. E sopra queste maladizioni si vedea l’aria coperta di oscuri nuvoli, divisi dalli serpeggianti moti delle infuriate saette del cielo, alluminando or qua or là in fra la oscurità delle tenebre». [85] Nel manoscritto c’è una nota di Ejzenstejn: «Lo studio su Brand». Manca però la citazione relativa. Gli eds. delle IzP suggeriscono questo brano incentra­ to su alcuni «volere» proposti dagli attori alle prove del dramma di Ibsen: «Voglio medicarlo, curarlo, accarezzarlo... Voglio essergli vicina, sentirlo... Voglio che riviva. Voglio seguirlo. Voglio sentirlo vicino. Voglio ritrovarlo nelle sue cose. Voglio richiamarlo dalla tomba. Voglio che torni. Voglio vendicarlo. E

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su tutte, la voce di Maria che grida una frase sola: “Non lo voglio lasciare, non lo voglio lasciare! ”» (K.S. Stanislavskij, Il lavoro detrattore, cit., p. 166). [86] G.E. Lessing, Del Laocoonte, cit., pp. 170-71. [87] Id., p. 72. [88] Il lapsus è di Ejzenstejn. Cfr. anche la nota [48]. [89] G.E. Lessing, Del Laocoonte, cit., pp. 72-73. [90] Id., p. 74. [91] Id., p. 8. [92] Id, pp. 19-20. [93] Id, p. 36. [94] Id, pp. 62-63. [95] Id, pp. 63-66. [96] Id, p. 66. [97] Id, p. 68. [98] V. Majakovskij, A Sergej Esenin, tr. it. a cura di I. Ambrogio, in Opere 1926-1927, Roma, Editori Riuniti, 1958, p. 19. [99] VAI. Dorosevic (1864-1922), giornalista e critico teatrale. La sua prosa satirica era celebre per la brevità delle frasi, tanto da legare il suo nome alla cosiddetta «riga corta» (korofkaja stroka). [100] G.E. Lessing, Del Laocoonte, cit, p. 8. [101] H. de Balzac, Louis Lambert, tr. it. di R. Mucci, in I capolavori della Commedia umana, VI. Studi filosofici, Roma, Casini, 1960, p. 194. [102] Lo studio di cui si parla fu effettivamente scritto all’inizio degli anni ’40 e inserito nel trattato Metod (Il metodo), rimasto a tutt’oggi in massima parte inedito. Lo studio è stato pubblicato col titolo O detektwe (Sul romanzo poliziesco) nella raccolta Prikljucènceskijfil’m (Ilfilm d'avventure), Mosca 1980, pp. 132-160. [103] Vale a dire il principio dello smembramento e della ricomposizione (del corpo). [104] G.E. Lessing, Del Laocoonte, cit, p. 87. [105] I primi due sono personaggi inventati da Griboedov, gli altri due da Gogol’. [106] Nel manoscritto segue l’indicazione: «Cit. da L'écharpe rouge di M. Leblanc». La citazione manca. [107] J. Webster, Il diavolo bianco, tr. it. di A. Camerino, Firenze, Sansoni, 1944, pp. 41-42. [108] A. Puskin, Ruslan e Ljudmila, tr. it. di T. Landolfi in Poemi e liriche, cit, pp. 93-94. La traduzione è stata leggermente modificata nei versi 11,12,13, resi in termini più letterali per rispettare la partizione assai analitica operata da Ejzenstejn. [109] «Appoggiatura», termine musicale che indica una nota rapida e vibrata premessa alla principale, che riesce così meno accentata. [110] A. Puskin, Poltava, tr. it. di T. Landolfi in Poemi e liriche, cit, p. 273. [Ill] P.M. Kerzencev(1881-1940), storico. Presidente del Comitato degli affari

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artistici (1936). [112] Igra, «gioco», come igrat', «giocare», vengono usati in russo (come in numerose altre lingue, ma non in italiano) per indicare la prestazione dell’attore (o del musicista) in termini che coincidono solo parzialmente coi nostri «recita­ zione» (o «esecuzione») e «recitare». Non potendosi parlare, in questo caso, di una «recitazione» dei personaggi di un quadro, si è preferito tradurre alla lettera, contando anche su una certa elasticità semantica del termine italiano «gioco». [113] Sulla sezione aurea come principio costruttivo dell’opera d’arte cfr. NP (tr. it. pp. 10-38). [114] A. Puskin, Poltava, cit., p.,272. [115] Ora col titolo Principy novogo russkogo fil'ma (Prìncipi del nuovo film russo) in IzP, i, pp. 547-559. [116] Programma prepodavanija teorii i praktiki rezissury (Programma di inse­ gnamento di teoria e pratica della regia), 1936, in IzP, n, pp. 131-155. [117] Parafrasi del titolo del quadro di A. A. Ivanov L'apparizione di Cristo al popolo. [118] Lett. «Arrampicati su un alto palo». [119] Rispettivamente dal verbo gorodit', «dire insulsaggini» e dal sostantivo turusy, «frottole», «fandonie». [120] Cfr. la nota [37]. [121] A. Puskin, Poltava, tr. it., cit, p. 255. [122] A. Puskin, Il cavaliere di bronzo, tr. it. di T. Landolfi in Poemi e liriche, cit., pp. 366-67. [123] Il testo originale dice: «Ego prosedseju vesnoju / Svezli na barke», lett. «Esso [ego] nella passata primavera / portarono via su una chiatta». Nell’analisi di Ejzenstejn il pronome ego («essa», la casetta, in russo «domisko», maschile) occupa un’intera inquadratura, perciò qui lo si rende con «essa», modificando la traduzione. [124] Cfr. la nota precedente. [125] In italiano nel testo. [126] In italiano nel testo. [127] J. Racine, Ifigenia, tr. it. di M. Ortiz, Firenze, Sansoni, 1955. [128] Torcov, com’è noto, è il nome del personaggio di II lavoro dell'attore sotto cui si nasconde lo stesso Stanislavskij. [129] Nel manoscritto manca la citazione relativa. E verosimile che Ejzenstejn intendesse riferirsi a II nipote di Rameau. [130] Nel manoscritto a questo punto compare l’indicazione: «Citare Fuori campo». [131] Ci si riferisce al film II prato di Bezin, la cui vicenda politica si svolse nello stesso arco di tempo durante il quale Ejzenstejn lavorò alla stesura di questo saggio (l’interruzione del film fu notificata il 17 marzo 1937). [ 132] Si fa riferimento alle tesi sostenute nel manifesto Montaz attrakcionov (Il montaggio delle attrazioni) del 1923 in IzP, n, pp. 269-273 (tr. it. in M, pp.

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Noie del curatore

219-225). [133] II montaggio delle attrazioni, cit. [ 134] Nezdannyjstyk (Il nesso inatteso), 1928, in IzP, n, pp. 303-310 (tr. it. col titolo L'inatteso in FTF, pp. 19-27. Nuova tr. it. in OS). [135] La quarta dimensione nel cinema, cit. [136] Ibid. [137] G.E. Lessing, Del Laocoonte, cit., pp. 74-75. [138] W. Shakespeare, Amleto, tr. it. di C.V. Lodovici, Torino, Einaudi, 1956, pp. 75-76. Questo stesso dialogo è ripreso da Ejzenstejn in NP (tr. it. pp. 341-43) con una lettura un po’ diversa e più complessa («Mi sembra che le tre successive comparazioni determinino soprattutto il corso del tempo - un tempo durante il quale la nuvola riesce a mutar forma due volte»). [139] G.E. Lessing, Del Laocoonte, cit., p. 72. [140] Fin qui l’annotazione di Ejzenstejn è scritta in francese. [141] Vystuplenie i zakljucitel’noe slavo.,., cit. [142] K.S. Stanislavskij, Il lavoro dell'attore, cit., p. 72. [143] H brano dantesco è analizzato dettagliatamente in un passo di NP (tr. it. pp. 292-94). [144] I. Siskin (1832-1898); G. Semiradskij (1843-1902); Ju. Klever (18501924) pittori russi. [145] Ci si riferisce al progetto per un film sulla rivoluzione haitiana (titolo: Black Ma/esty) che non fu realizzato. [146] Cfr. la nota [43]. [147] Opera di Glinka (1842) dall’omonimo poemetto di Puskin. [1483 L. Tolstoj, Anna Karenina, tr. it. di Leone Ginzburg, Torino, Einaudi, 1974, p. 230. Tutte le citazioni che seguono sono tratte dalla stessa edizione. La traduzione è stata modificata solo nel passo in cui si dice che Karenin era solito parlare «intelligentemente» (umno), che abbiamo preferito rendere con un «assennatamente», più adatto al commento di Ejzenstejn. [149] Cfr. la nota [112]. [150] Ripetizione rapida di una nota e di un accordo tipico degli strumenti ad arco. [151] Cfr. la nota [113]. [ 152] Betal E. Kalmykov ( 1893-1940), uno degli organizzatori del potere sovie­ tico in Kabardino-Balkarija. [153] Rispettivamente «Cineocchio» e «Radioorecchio». Progetti sperimentali concepiti da Dziga Vertov intorno alla metà degli anni ’20. [154] fi titolo è errato. Si tratta in realtà dell’articolo K voprosu o materialisticeskom podchode k forme (Sulproblema di un atteggiamento materialistico verso la forma), in IzP, i, pp. 109-116 (tr. it. in P. Berretto, a cura di, Teoria del cinema rivoluzionario, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 136-42; nuova tr. it. in 05). [155] Si tratta della teoria del «cinema intellettuale», il cui manifesto teorico è Perspektivy (Prospettive), 1929, infrP, n, pp.35-44 (tr. it. in Rassegna sovietica, 1967, n. 1; nuova tr. it. in 05).

Note del curatore

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[156] Ejzenstejn allude ironicamente alla canzone «Cuore, tu non vuoi pace...», di LO. Dunaevskij e V.L Lebedev-Kumac, dal film di G. Aleksandrov Vesélye rebjata (Tutto il mondo rìde), 1933. [157] Sul problema del «monologo interiore» si vedano il già cit. Vystuplenie i zakljucitel’noeslovo... e Odolzajtes,! (Servitevi!), 1932, inIzP, n, pp. 60-80 (tr. it. col titolo Una lezione di sceneggiatura in FTF, pp. 77-97. Nuova tr. it. in 05). Sulla rilevanza teorica di questo problema si veda inoltre l’introduzione di NP (tr. it. pp. xxiv-xxxvni). [ 158] Dalla poesia di Majakovskij Prìkazpo armiiiskusstv (Ordinanza all'amata delle arti). [159] K.S. Stanislavskij, An actor prepares, cit, p. 233. [160] Id., p. 15.

INDICE DEI NOMI

L’Indice dei nomi non comprende le pagine romane all’inizio del volume.

Adriano vi (Floriszoon, A.), 97 Aksènov, LA., 102, 243, 244 Aleksandrov, G.V., 328 Anacreonte, 237 Andreev, L.N., 242 Antokol’skij, M.M., 31 Apollinaire, G., 356 Asmus, V., 33 Auerbach, E, 346, 347,353,354,356 Babeuf, F.N., 397 Bach, J.S., 324, 326, 384, 414 Bacon, E, 248 Bajdukov, G.F., 65 Bal’mont, K.D., 376 Balzac, H. de, 19, 226, 252, 255 Barbusse, H., 89 Barzun, H.M., 356, 357, 358, 365 Baudelaire, C., 144, 231, 333n Baumgarten, A.G., 226 Beach, S., 358 Beethoven, L. van, 384 Belinskij, V.G., 417 Beljakov, A.V., 65 Belyj, A., 225, 383 Bernini, G.L., 78, 87-100 Binyon, L., 32 Boccaccio, G-, 352

Bonaparte, N., 122, 123 Bonneau, G., 221, 222 Borghese, S., 98n Bradly, E., 248 Braschowanoff, G., 325 Breton, A., 257 Bron, A., 180,183,186,187,188,189, 194, 201 Buhler, K., 394 Burger, E, 36 Burljuk, D.D., 79, 87, 100

Carré, C., 347 Carranza, V., 58 Cassirer, B., 388 Caylus, C. de, 211, 214 Cechov, A.P., 116 Chaplin, C., 18 Cheiro, 330 Chesterton, G.K., 163 Chiang Yee, 34, 44, 45 Chlebnikov, V.V., 149, 376 Chodasevic, V.M., 156 Choisy, A., 79, 84, 85 Ckalov, V.P., 65 Cocteau, J., 139, 140 Cohen, IL, 388 Colombo, C., 59 Cortes, H., 59 Cuauhtemoc, 61 Curatolo, E.G., 88, 92, 94

432 Dante Alighieri, 379 Darwin, C., 50n Daumier, H., 36, 37, 108, 131, 132, 133, 150, 237 Delacroix, E., 169 Delaunay, IL, 79, 143 Dellhora, G., 88, 89, 94 Descartes, R., 50 Diaz, P-, 58 Diderot, D., 48, 317, 318, 319, 334, 407, 412, 413 Disney, W., 372, 373 Dobuzinskij, M.V., 152,153,155,156 Dobroljubov, N.A., 368 Dorosevic, V.M., 225 Dossi, G., 88 Dovzenko, A.P., 369 Duchenne, G.B., 135, 137 Duhamel, G., 356 Duthuit, G., 54

Eckermann, J.P., 66 Edison, T.A., 210 Ejzenstein, S.M., 289 Eliot, T.S., 385n Engel, J.J., 51, 113, 334,350 Engels, E, 13, 118, 119, 228, 229 Ermolova, M.NL, 102, 103, 104, 108, 110, 111, 112, 114,116, 117, 118, 127, 157 Ernst, NL, 238

Fatty (Arbuckle, R.), 18 Feuchtwanger, L., 53, 380n Francesco di Sales, 180, 186, 188 Fraschetti, G., 88 Frazer, J.G., 196, 249 Freud, S., 135 Fiilòp-Mìller, R., 146 Galilei, G.» 99

Indice dei nomi

Galton, E, 258, 394 Gauguin, P., 54 Gazeau, MA, 96 Gessner, S., 226 Gerson, JL, 179 Gleizes, A., 142, 356 Goethe, J.W., 4, 65, 387 Gogol’, N.V., 33, 46, 64, 159, 233, 242n, 381, 382, 383 Goldoni, C, 56 Golovnja, A.D., 387 Gor’kij, AJVL, 3, 135, 136, 159 Grabar’, LE., 121 Gratiolet, L., 50n, 113, 334 Greco, el (Theotokopulos, D.), 121 Gregor, J., 146, 147 Greuze, JLB., 169 Griboedov, A.S., 56 Grigor’ev, B., 126 Gropius, W., 410 Guilbert, Y., 324, 324n Hanslick, E., 340 Hals, E, 121 Heartfield, J., 238 Hegel, G.W.E, 214 Heine, H., 34 Hérelle, G., 363, 364 Hodler, E, 36, 37 Hogarth, W., 137, 169 Hokusai, 143 Holbein, H., 121 Hsieh-Ho, 34 Hugo, V., 79 Huysmans, J.K., 381

Ichikawa Ennosuke, 336 Ignazio di Loyola, 178, 180-201 Ingres, J.A.D., 169 Ivanov, A.A., 126, 212

Indice dei nomi

Jakovlev, P.A.t 332, 333 James, W., 178, 195-200 Jolas, E., 364, 365 Jonson, R, 244, 247 Joyce, J., 252-257, 358, 361, 375n Kalmykov, BJE., 410 Kamenskij, V.V., 323 Kant, L, 65, 388n Kerenskij, A.F., 368 Kerzencev, P.M., 266, 398 Kierkegaard, S., 55, 72 Klever, Ju., 381 Kravkov, S.W., 332 Kurth, J., 162 Laffont, M„ 95, 96, 97 Lang, E, 330n Lanz, H., 313, 375 Lapsin, I.L, 167 Lautréamont (Ducasse, LL), 257 Lazarev, P.P., 332 Le Corbusier (Jeanneret, C.E.), 410 Lelli, L„ 93 Lenin, VI., 119, 380 Leonardo da Vinci, 72,126,142,206, 207,208, 343 Lessing, G.E., 137,138,178,197,198, 199, 209-220, 226, 237, 292, 329, 342, 349, 355 Levi, E., 31 Levy-Bruhl, L., 196 Lifiic, B., 222, 356 London, K., 296 Lubitsch, E., 72n, 384 Luciano di Samosata, 131 Lumière, L., 210 Lurija, A.R., 378 Lutero, M., 414

Mac Evoj, M., 72n

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Majakovskij, V.V., 225 Mallarmé, S., 221-225 Maometto, 409 Marr, NJa., 358-361 Martinelli, F., 96 Marx, K., 337, 397, 409 Meisel, E., 294, 295, 296, 297, 298 Meister Eckhart, 375 Mejerchol’d, V.É., 262n Mej Lan-Fang, 342n, 398 Meliès, G., 352 Memling, H., 132, 237 Mensikov, A.D., 122, 123 Metzinger, J., 142 Michelangelo Buonarroti, 135 Mi-Fei, 46 Molière (Poquelin, J.B.), 399 Moskvin, A.N., 387 Moskvin, LM., 159 Murray, G., 230 Nandé, G., 10 Nielsen, S., 306 Nodier, C., 231 Noury, P., 88, 93, 99, 100 Offenbach, J., 372 Omero, 215,216,217,218, 219,220, 221, 292, 342, 343 Ostrovskij, A.N., 27, 204, 205, 287, 288, 321 Parmigianino (Mazzola, F), 211,212 Pasteur, L., 242 Petrov, N.V., 398 Phoenix, J., 138, 151 Picasso, P., 104 Piderit, T., 50 Pietro di Alcantara, 180 Piranesi, G.B., 4 Un Pirandello, L., 18

434 Platone, 33 Plechanov, G.V., 322 Poe, E.A., 262n, 353 Pope, A., 214 Popov, G.N., 161, 387 Posada, J.G., 62 Pratt, C.G., 340 Pudovkin, VI, 18, 328, 384 Puskin, A.S, 5, 52, 122, 156, 242n, 257, 258, 259, 264, 266, 278, 280, 281, 289, 304, 305, 312, 315 Queen, E, 233, 234 Quinault, P, 317 Quincey, T. de, 149 Rabelais, F, 236 Racine, J, 317 Radlov, N.E, 43, 45, 126 Repin, I£, 114-118, 120-127, 169, 321 Rimbaud, A., 257, 376, 377, 379 Rimskij-Korsakov, NA, 167 Robeson, P., 324, 387 Rodcenko, A.M, 238 Rodin, A., 134, 167, 237 Romains, J., 356, 357, 362 Ruttmann, W, 296, 297 Sabaneev, L.D, 36, 141, 166, 303, 326, 368 Sadoleto, I., 216 Saginjan, M.S., 51 Saposnikov, G.V, 142 Schiller, J.C.F, 252 Schlegel, AW, 375, 376, 377, 379 Scùtze, J.S., 313 Seldes, G., 362 Semiradskij, G., 381 Serov, V.A., 102-114, 116, 117, 120, 121, 122, 123, 124, 127, 135,212

ìndice dei nomi

Severini, G., 142 Sharaku, 162 Shakespeare, W, 116,243,244,245250,251, 344, 385n Signac, P., 104, 347 Siskin, L, 381 Sklovskij, V.B., 156, 289 Sostakovic, D.D, 387 Spurgeon, C, 245-250 Stanislavskij, K.S, 8, 9,56, 103, 110, 114, 157, 166, 167, 169, 171-179, 194,198,199,201,208,209,2 14n, 216n, 221, 367, 396, 416 Stendhal (Beyle, H.), 52 Stokovskij, L., 354, 355 Sub, E.L, 237 Surikov, VI., 120-124, 126, 267

Talleyrand, C.M., 51 Tintoretto (Robusti,!.), 108,131,132 Tissé, E.K., 387 Tiziano Vecellio, 212 Tolstoj, L.N, 51, 70, 114, 116, 117, 126, 127, 131, 168, 321,400, 401, 402 Tommaso d’Aquino, 179 Urbano vin (Barberini, M.), 87-100 Van Gogh, V., 38 Van Vej, 34 Vasil’ev, G.N., 160 Vasil’ev, S.D., 160 Velasquez, D., 121 Veresaev, V.V., 242n Vertov, D, 288 Vigoureux (abate), 99 Vildrac, C., 356 Villa, P, 58, 242 Virgilio, 209, 216 Vodop’janov, M.V., 65 Vygotskij, L.S., 378

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Indice dei nomi

Wagner, R., 325, 407n Wang-Wej, 46 Watteau, A., 134, 169,211,237 Webster, J., 244 Werner, H., 390 West, E.S., 149 White, R, 288 Whitman, W., 202, 202n, 204, 208, 220, 221,225, 226, 246 Wilde, O„ 381, 384 Winterstein, A., 230

Witkovski, GJ., 88,91,92,93,94,99, 100

Xanrof, L., 324

Zapata, E., 58 Zola, E., 92, 255, 334 Zweig, S., 257, 358