La crisi dell'antifascismo 880617049X

Fascismo e antifascismo si allontanano nel tempo. Le nuove generazioni sono sempre meno coinvolte da quello scontro di v

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La crisi dell'antifascismo
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Sergio Luzzatto

La crisi dell'antifascismo Fascismo e antifascismo si allontanano nel tempo. Le nuove generazioni sono sempre meno coinvolte da quello scontro di valori. Ma il futuro nasce dalla storia e non dalla cancellazione del passato. Un paese maturo può, forse deve, fare i conti con una memoria divisa.

Giulio Einaudi editore

2004 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino www.einaudi.it ISBN 88-06-17049-X

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Indice 1. Il post-antifascismo. ..................................................................... 10 2. La scomparsa dei fascisti. ............................................................. 13 3. Il calendario conteso. .................................................................... 18 4. Elogio della memoria divisa. ........................................................ 21 5. Critica della storia «bipartisan». ................................................... 26 6. Carte d'identità. ............................................................................. 29 7. Un terremoto di coscienza. ........................................................... 33 8. La diseguaglianza nella vita. ........................................................ 38 9. La monumentalizzazione delle vittime. ........................................ 42 10. Lezioni di storia contemporanea................................................. 47 11. Sulla senilità. .............................................................................. 50 12. Qualunquismo di ritorno e tregua civile. .................................... 56 13. Italiane. ....................................................................................... 64 14. I miti della Resistenza. ............................................................... 67 15. Un Ventennio senza fascismo..................................................... 74 16. Strapaese. .................................................................................... 77 17. La rivincita dell'antipolitica. ....................................................... 81 18. Una costituzione «sovietica»? .................................................... 83 19. Via del Plebiscito. ....................................................................... 87 20. Il selvaggio della Louisiana. ....................................................... 90 Ringraziamenti. ................................................................................ 96 Nota bibliografica ............................................................................. 97

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Il Ventennio è finito da sessant'anni. Nell'Italia di oggi, soltanto gli anziani conservano – sicura o malcerta - una memoria personale degli uomini-chiave del fascismo e degli eventi fondatori della Repubblica. Unicamente chi ha occhi di presbite può oggi vantare (o rimpiangere) la vista per esperienza diretta di un Mussolini al balcone o di un «sovversivo» degli anni trenta, di un brigatista nero di Salò o di una «staffetta» partigiana. In senso proprio, in quanto fenomeni collocati entro un preciso contesto ambientale e temporale, il fascismo e l'antifascismo non sembrano più dover coinvolgere le nuove generazioni.

Neppure il neofascismo è più quello d'un tempo. Nel corso dell'ultimo decennio, colui che aveva ereditato da un «ex» di Salò il comando di una pattuglia di giovani impazienti e di vecchi nostalgici, Gianfranco Fini, ha traghettato il Movimento sociale italiano verso i lidi della rispettabilità politica e della legittimità costituzionale. Lungo un itinerario pubblico e privato

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non alieno forse da calcoli, ma certo non privo di dignità, Fini ha saputo svestire i panni giovanili del “delfino” di un razzista laureato come Giorgio Almirante per indossare addirittura lo zucchetto ebraico e per piangere, a Gerusalemme, i milioni di vittime della Soluzione finale. Senza che si potesse gridare allo scandalo, l'ultimo segretario del partito neofascista è diventato così – da presidente di Alleanza nazionale e da vice-presidente del Consiglio dei ministri - un uomo di governo, riconosciuto come tale dai maggiori statisti d'Europa. Mentre la fuoriuscita dal suo partito di una donna con un cognome impegnativo, Alessandra Mussolini, è stata accolta dall'opinione pubblica per quel che era: minuto episodio di folklore politico, piuttosto che segnale inquietante di vitalità dell'estrema destra italiana.

Entro un simile scenario, che fare dell'antifascismo? Se - dopo il passaggio di secolo e di millennio - non si intravede sul ring neppure più l'ombra del fascismo, l'antifascismo non rischia di somigliare a un pugile rimasto solo sul quadrato, improbabile nelle sue mosse, perfino ridicolo nei suoi attacchi, nelle sue finte, nei suoi colpi bassi? Tale, in effetti, l'impressione maturata da numerosi opinion-makers della sfera mediatica italiana. La Resistenza è finita, sentiamo lapalissianamente ricordarci un giorno sì e un giorno no. E la Repubblica «nata dalla Resistenza» ha bisogno di altro che degli ultimi «pa

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dri della patria». Meno che mai ha bisogno dei loro figli e dei loro nipoti, pappagalleschi automi della tradizione ciellenista, apologeti meccanici del tempo andato.

Così, in qualità di lettori dei giornali quotidiani o di spettatori delle trasmissioni televisive, continuamente veniamo invitati - in maniera più o meno esplicita – a scaricare l'antifascismo dal nostro portabagagli: cioè a liberarci, in qualità di cittadini, della zavorra di un'«ideologia di Stato» (secondo la polemica definizione di Renzo De Felice) che si vuole abbondantemente superata dai tempi della storia. Ideologia utile magari, fra 1946 e '47, per riunire i pezzi della sgangherata coalizione ciellenista abbastanza saldamente da permettere la redazione di una carta costituzionale; ma assolutamente superflua, oltre mezzo secolo dopo, per cementare il consenso degli italiani intorno a un sistema politico schiettamente liberale. Peggio, ideologia dannosa, invelenita fin dalle origini dalla presenza di un fattore maligno: dal suo essersi impregnata, nell'Italia degli anni venti e poi nell'Europa degli anni trenta e quaranta, della tabe comunista.

Inutile negarlo: l'antifascismo sta attraversando una crisi profonda; eventualmente, una crisi irreversibile. E non soltanto a causa della legge generale per cui l'impatto di ogni fenomeno storico è destinato comunque a diminuire nel tempo, ma anche a causa di una particolare svol

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ta epocale: la svolta del 1989. Perché è vero che, in Italia come in Europa, non vi è stato antifascismo senza il contributo decisivo del comunismo; ed è vero che il comunismo è finito male. Come stupirsi, allora, se la fine dell'uno ha accelerato l'agonia dell'altro? Le mort saisit le vif: marxianamente parlando, riesce naturale ipotizzare che la fine del comunismo possa trascinare nella tomba anche l'antifascismo, incapace una volta di più di sottrarsi all'abbraccio fatale.

Nelle pagine seguenti, cercherò appunto di mostrare come l'antifascismo sia in crisi per l'effetto congiunto di un'ineludibile condizione di senilità e di un grave deficit di credibilità. Quando non sono morti (ed è la maggior parte dei casi), i protagonisti della lotta antifascista e resistenziale appaiono ormai piegati sotto il peso degli anni: i padri della patria sono nonni, o addirittura bisnonni... Soprattutto, l'ombra del comunismo, con il suo carico enorme di sofferenze e di atrocità, si allunga su questi vecchi nonostante la loro estraneità personale agli orrori del Gulag - sino a farli apparire improbabili come campioni di moralità e maestri di democrazia. Sicché càpita oggi di assistere a un patetico paradosso: gli uomini e le donne i quali, scegliendo a vent'anni l'antifascismo anziché il fascismo, contribuirono in maniera straordinaria a redimere l'Italia dalla colpa storica della dittatura, si trovano adesso, da ottuagenari, a doversi confessare per peccati che non hanno

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materialmente commesso. Oppure, si preparano a morire tacendo. Il canto del cigno di questa generazione è l'assordante «silenzio dei comunisti».

Non si tratta qui di restituire loro la parola. Tanto meno ove si appartenga a una generazione molto diversa, cui il comunismo è sembrato da subito un'immane tragedia, all'identica stregua del fascismo. Una generazione senza scheletri nell'armadio, né foto imbarazzanti nell'album di famiglia. Di più, una generazione che conosce il rapporto sottile e spesso equivoco che la memoria dell'antifascismo ha storicamente intrattenuto con la rimozione del comunismo: che sa come la disponibilità a raccontare una «scelta di vita» da militante antifascista degli anni trenta o da combattente della Resistenza sia troppo spesso bastata per attribuirsi il diritto di tacere sui crimini staliniani nella guerra di Spagna o sulle nefandezze del «socialismo reale». Chi ha avuto il privilegio di nascere libero non può, né deve calarsi nei panni di chi è stato schiavo dell'una o dell'altra utopia novecentesca. In compenso, farà bene a capire che neanche la più libera delle generazioni è libera del tutto, completamente separata da quelle che l'hanno preceduta e da quelle che la seguiranno. Purtroppo o per fortuna, la «grazia della nascita tardiva» – come ebbe a definirla il cancelliere Kohl - non esclude un'assunzione di responsabilità rispetto al passato oltreché rispetto al futuro.

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Penso che alla mia generazione competa una responsabilità retrospettiva ben precisa: non consentire che la storia del Novecento anneghi nel mare dell'indistinzione. Sarebbe quanto meno derisorio scoprire che il privilegio di essere nati “dopo” ci affranca dal compito di decidere chi siamo ricordando da dove veniamo. Certo, né i parenti né gli antenati si scelgono: la storia ce li assegna irrevocabilmente. In compenso, ci è dato di scegliere quali antenati onorare e quali ricusare; e ci è dato di assistere fino all'ultimo i parenti che abbiamo ragione di considerare più cari. Si tratta - d'altronde - di una responsabilità prospettiva oltreché retrospettiva: perché non c'è disegno del futuro che non prenda forma sulle tracce di un passato, secondo quanto si decida di conservare oppure di cancellare.

1. Il post-antifascismo. È nota la passione fascista per i «decaloghi»: tavole della Legge ricalcate sui Dieci comandamenti e intese a illustrare i princìpi fondatori del verbo mussoliniano. Tra la fine degli anni venti e l'inizio degli anni quaranta del Novecento, non vi fu quasi italiano – fosse milite o gerarca, massaia rurale o balilla - cui la dottrina del duce non venisse propinata in dieci pillole di saggezza. Evidente la volontà del regime fascista di competere con la Chiesa cattolica sul

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più consolidato dei suoi terreni di elezione, quello della morale catechistica. In un ambito tanto delicato, anche quanto nasceva come scherzo poté diventare cosa seria: così un comandamento ironicamente dettato da Leo Longanesi, «Mussolini ha sempre ragione», l'inosservanza del quale, rubricata sotto la specie giuridica delle «offese al Capo del Governo», fu all'origine di innumerevoli procedimenti giudiziari presso il Tribunale speciale per la difesa dello stato.

Si direbbe che nell'Italia di sessanta o settant'anni dopo, un altro decalogo - ridotto a cinque comandamenti – abbia preso a veicolare un nuovo verbo, quello post-antifascista. Il cui primo comandamento recita, senza sorprese: «Non avrai altro Dio all'infuori del post-antifascismo». Né si tratta soltanto della declinazione storiografica di una generalizzata cultura del post, la medesima che è venuta producendo (da noi come altrove in Occidente) la scuola architettonica del post-moderno, la forma di produzione del post-fordismo, e quant'altro. Nel caso specifico del rapporto tra Ventennio fascista e memoria nazionale, gli anni novanta del ventesimo secolo hanno infatti corrisposto anche a una svolta anagrafica, precisa quanto inesorabile: perché allora si sono fatti adulti, dunque cittadini, gli esponenti della prima generazione di italiani i cui genitori non avevano vissuto il fascismo per esperienza diretta.

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Tale passaggio d'epoca, il maggiore storico del fascismo - Renzo De Felice - l'aveva visto arrivare per tempo, prima ancora del fatidico 1989: come aveva testimoniato una sua doppia intervista dell'anno prima sul «Corriere della Sera», rilasciata a un neogiornalista con tutto un passato da funzionario del Partito comunista italiano, Giuliano Ferrara. Si badi, aveva detto al «Corriere» l'illustre biografo di Mussolini, che la «vulgata» antifascista, dominante nel discorso storico e politico almeno dal 1960, andrà presto in soffitta, non foss'altro per un motivo generazionale: appunto nel momento in cui si faranno cittadini coloro i cui genitori sono nati già sotto la Repubblica. Una generazione allo sguardo della quale il fascismo si sarebbe presentato come faccenda ormai lontana, esperienza defunta piuttosto che esperienza vissuta. Da allora - aveva ammonito De Felice, con malcelata soddisfazione – il paradigma antifascista sopra cui si era fondata la Repubblica «nata dalla Resistenza» non avrebbe più avuto ragione di essere riconosciuto come valido.

Nel corso degli anni ottanta, altri studiosi ebbero la lucidità di comprendere che lo scorrere del tempo dalla Liberazione avrebbe implicato - per una naturale dinamica del rapporto fra storia e memoria - un ripensamento complessivo del rapporto tra il passato fascista e l'identità repubblicana: cioè la crisi dell'antifascismo. Fra tali studiosi fu il giuspubblicista Antonio Baldas

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sarre, in un corposo saggio del 1986 intitolato La costruzione del paradigma antifascista e la Costituzione repubblicana. All'epoca, le riflessioni di Baldassarre vennero pubblicate da «Problemi del socialismo», un periodico di consolidata appartenenza al patrimonio genetico della sinistra; nel quindicennio successivo, Baldassarre avrebbe intrapreso una deriva ideologica che lo avrebbe portato alla destra dell'orizzonte politico italiano, passando dai vertici della Corte costituzionale e della Rai. Ma di là dal singolo caso di questo o quell'intellettuale ex comunista, si trattasse di Baldassarre, di Ferrara o dello stesso De Felice, una cosa si fece progressivamente chiara a tutti coloro che avevano il coraggio e magari la voglia di vederla: alla svolta del terzo millennio, il fascismo si apprestava a entrare nella dimensione ineludibile della post-erità.

2. La scomparsa dei fascisti. «Non nominare il nome del fascismo invano: ecco il secondo comandamento del verbo postantifascista, volenterosamente impartito da rispettati opinionisti negli anni novanta, durante il travaglio ideologico e psicologico che accompagnò - in uno con l'esaurirsi della nozione di «arco costituzionale» - la fine dell'emarginazione dei neofascisti dalla vita pubblica italiana. E anche in questo caso, quanti argomentavano la

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necessità di parlare una lingua nuova nel discorso sull'uso pubblico della storia non mancavano di buoni argomenti: poiché per almeno tre lustri, dall'epocale mese di luglio del 1960 sino alla metà degli anni settanta, l'epiteto infamante di «fascista» era corso anche troppo sulla scena politica italiana, quasi sempre per screditare a priori chi non fosse allineato su posizioni di sinistra. Da un certo momento in poi (c'è chi dice: a partire dal 1983, primo centenario della nascita di Mussolini; comunque, ben prima dell'89), per una sorta di nemesi terminologica, si fu invece tentati di disconoscere all'epiteto di fascista qualsiasi pregnanza politica, se non proprio ogni negatività storica.

Nel registrare questa evoluzione, le antenne più sensibili drizzate fin dai primi anni settanta – furono quelle di Pier Paolo Pasolini: il quale però contribuì lui stesso ad accelerarla con una gamma di interventi contraddittori. Da un lato, l'ultimo Pasolini, quello degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, avvertì come l'allontanarsi nel tempo del Ventennio e della Resistenza condannasse alla morte per consunzione ogni presunta diversità antropologica dell'antifascista rispetto al fascista; e apertamente se ne dolse, sulla base dell'acutissima intuizione (che sostiene l'arte di un film indigesto come Salò o le centoventi giornate di Sodoma e di un romanzo incompiuto come Petrolio) secondo cui il fascismo costituisce l'essenza del male contemporaneo, in

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quanto attentato biopolitico alla sacralità della vita. Il Pasolini che rimpiangeva la «scomparsa delle lucciole»> dal paesaggio italiano rimpiangeva anche, in fondo, la scomparsa dei fascisti: appunto perché temeva che il venir meno del nemico potesse esaurire il significato salvifico dell'antifascismo.

Forse anche per questo motivo, l'ultimo Pasolini non esitò a spendere l'accusa di fascista indiscriminatamente sul teatro della vita pubblica. E arrivò a fare del presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro, nient'altro che un «gerarca», da processare e da condannare metaforicamente prima ancora che i terroristi delle Brigate rosse provvedessero per davvero alla brutale bisogna. D'altra parte, l'ultimo Pasolini - incarnato crocevia della cultura italiana nella seconda metà del Novecento - osò riflettere ad alta voce intorno a quello che definì «il fascino del fascismo»: una miscela di corpi e di idee, di crismi e di carismi ch'egli riconosceva lastricare la via italiana alla politica di massa, ma che faticava a riconoscere nell'Italia dei primi anni settanta. Un paese dove il fascismo si andava reincarnando quale società dei consumi, trionfo del neocapitalismo, mentre l'antifascismo si presentava come niente più che un residuo «archeologico», «ingenuo e stupido» o «pretestuoso e in malafede». Se

Pervenuta al battesimo di una sedicente seconda Repubblica, l'Italia nuova ha potuto cre

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dersi dispensata dall'obbligo cui le circostanze della Liberazione e del dopoguerra l'avevano lungamente costretta: quello di attribuire al campo semantico del fascismo - variamente intrecciato con lo stragismo – un'inesauribile quanto maligna vitalità. È stata in questo incoraggiata dal terribile spettacolo offerto nel frattempo dal comunismo, segnatamente durante il decisivo quinquennio 1975-1980: sia lontano da noi, nella Cambogia di Pol Pot o nel Vietnam dei boat people, sia in casa nostra, attraverso quella sorta di macabra usurpazione della «diversità» comunista che fu il terrorismo delle Brigate Rosse e di Prima Linea. Per giunta, in un breve volgere di anni dopo il 1989 un processo di mutazione genetica ha trasformato tutti i partiti politici italiani, segnando fra l'altro la nascita del Partito democratico della sinistra nel '91 e di Alleanza nazionale nel '95. Così, prima ancora del passaggio di millennio sia la figura del fascista, sia quella del comunista si sono come scorporate, assumendo le fattezze ora pateticamente evanescenti, ora insidiosamente elusive dell'«uomo ex».

Per parte sua, l'opinione liberale sognava da tempo di affrancarsi da quelle autentiche bestie nere del suo Novecento che erano state le figure antinomiche del fascista e del comunista. Alcuni interpreti nostrani di tale tradizione hanno salutato quindi nella mutazione finanche onomastica del paesaggio politico italiano la chance per porre fine a una contrapposizione di pregiu

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dizi ideologici e di stereotipi storiografici da loro giudicata ormai inutile, anzi, fondamentalmente nociva. «Non nominare il nome del fascismo invano»: se l'Italia aveva da diventare un paese normale, dove fosse infine garantita l'alternanza di due schieramenti al governo della Repubblica, destra e sinistra dovevano riconoscersi una piena legittimità politica e culturale; e nel caso della destra, tale riconoscimento di legittimità comportava l'ammissione che gli uomini e le donne di Alleanza nazionale, quantunque eredi diretti del neofascismo storico, nulla più avevano di fascista.

Oggi, noi possiamo dire che tale ragionamento, pur condivisibile nella linearità del postulato, implicava un corollario dei più gravi. Perché una volta sgombrato il campo dal fantasma del fascista, a che pro tenersi stretto il feticcio dell'antifascismo? A ben vedere, un unico filo tiene legati il Silvio Berlusconi del 1993 che “sdogana” Gianfranco Fini dichiarando di tifare per lui nella competizione elettorale capitolina contro Francesco Rutelli, e il Berlusconi del 2003 che spiega a un giornalista britannico di ritenere il confino di polizia del Ventennio poco più che una vacanza, meritata o immeritata che fosse. Si tratta d'altronde dello stesso Berlusconi il quale - da presidente del Consiglio dei ministri - non ha mai nascosto la propria sovrana indifferenza rispetto alle celebrazioni del 25 aprile, anniversario della Liberazione.

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3. Il calendario conteso. «Ricordati di santificare le feste»: a dispetto di un'ortodossia vetero-testamentaria che non potrebbe apparire più stretta, il terzo comandamento del verbo post-antifascista riecheggia entro un clima ideale e un orizzonte di sensibilità che sarebbero stati inimmaginabili nell'Italia di vent'anni fa. Dell'istituzione di nuove feste si fa ora un gran parlare, anniversari che si vorrebbe aggiungere all'ormai consolidata new entry del 27 gennaio (il giorno della Memoria, che da qualche anno commemora la liberazione di Auschwitz per opera dell'esercito sovietico). Peccato che la doverosa assunzione di responsabilità politica e civile intorno all'importanza delle feste nazionali sembri spesso tradursi – nell'Italia di oggi – in un vorticoso dare i numeri intorno agli anniversari più diversi: della Repubblica romana del 1849, della diaspora istriana, della caduta del muro di Berlino. Quanto all'anniversario della Liberazione, un consigliere tra i più ascoltati di Berlusconi, il prete genovese Gianni Baget Bozzo, ha proposto addirittura di cancellarlo dal calendario delle feste comandate.

L'iniziativa del presidente Ciampi di restituire una dignità festiva alla data del 2 giugno, anniversario della Repubblica, va evidentemente collocata nel contesto di queste dispute sul ca.

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lendario: qualcosa di meno che sanguinose battaglie, ma qualcosa di più che inoffensive schermaglie, se è vero che l'identità di una nazione si costruisce anche - così nel tempo come nello spazio – intorno a «luoghi di memoria». Trasparente l'intenzione di Ciampi nel rivitalizzare la data del 2 giugno: una chiamata a raccolta della collettività nazionale intorno alla memoria del giorno che sottrasse l'Italia allo scettro di una monarchia irrimediabilmente compromessa con il fascismo, ponendola sotto le insegne dello spirito ciellenistico che l'aveva riscattata attraverso l'epopea della Resistenza. Un appello, questo di Ciampi, tanto più necessario nel momento in cui egli stesso, da presidente della Repubblica, ha dovuto raccogliere il giuramento di fedeltà istituzionale di un ministro delle Riforme come Umberto Bossi: aduso a festeggiare il 7 aprile più che il 25, il giuramento di Pontida del 1167 piuttosto che la liberazione dal nazifascismo, la Lega lombarda più che la Repubblica una e indivisibile.

Peraltro, la presidenza Ciampi è quella stessa che, inneggiando in ogni occasione possibile ai fasti del nostro Risorgimento, rischia di suggerire un'immagine fin troppo lineare del percorso che ha fatto dell'Italia sabauda un'Italia repubblicana. Non per caso, la valorizzazione artistica che il Quirinale ha promosso di un monumento come l'Altare della Patria si è immediatamente prestata alla speculazione politica di

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quanti non aspettano altro che vedere inaugurato sotto la lattea mole del Vittoriano un Museo della Patria: dove i più venerandi cimeli garibaldini rischierebbero di convivere con le vestigia di nefaste avventure coloniali, e le ultime lettere di condannati a morte della Resistenza non potrebbero che condividere la bacheca con le lettere dei condannati a morte della Repubblica di Salò.

Nella storia, non tutto è esemplare. Né l'orgoglio patriottico ha mai affrancato nessuno dalle scelte morali: ex militante azionista, Ciampi è il primo a ricordarlo e a saperlo. Qualche anno fa, il presidente della Repubblica si è recato a Cefalonia, a commemorare il martirio degli oltre seimila soldati italiani trucidati dai tedeschi per non essersi arresi dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943. Ha fatto bene, perché la cultura di destra aveva preso l'abitudine di brandire i tragici eventi seguiti all'8 settembre come un argomento utile per svalutare il seguito della storia, cioè la Resistenza. Due anni fa, il presidente della Repubblica si è recato a El Alamein, a commemorare il sacrificio dei tanti soldati italiani caduti nelle terribili battaglie del 1942. Ha fatto male: non già perché i morti, in quanto esseri umani, non vadano tutti pietosamente ricordati, ma perché quei morti italiani – se soldati arruolati - erano vittime individualmente innocenti di una guerra d'aggressione che, laddove vittoriosa, avrebbe significato l'avvento su

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scala mondiale di una pax hitleriana. Vogliamo provare a immaginare lo scandalo che susciterebbe a livello planetario la decisione di un presidente della Repubblica tedesca di recarsi a Stalingrado per commemorare i caduti della Wehrmacht? E perché il giudizio storico sui soldati di Mussolini dovrebbe essere più indulgente di quello sui soldati di Hitler ?

A differenza di quanto si sente dire da destra e ormai anche da sinistra, almeno una cosa gli italiani non devono invidiare agli inglesi: la stolida adesione all'adagio right or wrong, my country. La storia è maestra di vita proprio in quanto concede ai posteri beneficio d'inventario.

4. Elogio della memoria divisa. Pensiamoci due volte, prima di sottoscrivere il quarto comandamento del verbo post-antifascista: «Onora il padre e la madre». Qualunque padre e qualunque madre. Cos'altro invitano a fare - in effetti – gli storici, i giornalisti, i politici che perorano la causa di una riconciliazione nazionale tra i figli dei resistenti e i figli dei saloini, o che sognano addirittura lo spettacolo di un abbraccio in extremis tra gli epigoni delle brigate partigiane e gli epigoni delle brigate nere, se non ad annacquare le motivazioni ideologiche, psicologiche, etiche degli uni e degli altri nell'oceano di un embrassons-nous generale? Co

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me se davvero la linearità dei comportamenti e la sincerità delle intenzioni potessero e dovessero fare aggio sulla dignità dei valori, fino a spingere ogni figlio a riconoscere immancabilmente giuste le scelte del proprio genitore.

«Sono figlio di un morto ammazzato»: ecco il biglietto da visita di un anziano professore della Scuola normale di Pisa, Roberto Vivarelli, che qualche anno fa – dopo mezzo secolo di studi storici tanto accurati quanto impregnati di sensibilità antifascista - ha pensato bene di fare pubblico racconto della propria adolescenziale avventura come «ragazzo di Salò» ponendola sotto il segno della morte violenta del padre, fascista e volontario di guerra, ucciso dai partigiani jugoslavi nel 1942. Quel che è peggio, Vivarelli ha pensato bene di sostenere che, a dispetto del suo proprio antifascismo successivo, il suo fascismo giovanile continua tuttora a sembrargli non soltanto una cosa naturale, ma una cosa buona e giusta. Nonostante la gravità di questa affermazione, all'uscita del memoriale di Vivarelli i cantori nostrani della «memoria condivisa» si sono affrettati a salutarlo come un piccolo vangelo del verbo post-antifascista: quasi fossero i direttori responsabili di una testata che tipograficamente non esiste, ma che invade la scena pubblicistica dell'Italia odierna e che meriterebbe di chiamarsi in perverso omaggio a un grande precedente romantico - «Il Nuovo Conciliatore>>

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Il caso Vivarelli è un esempio perfetto della confusione che oggi si fa tra memoria condivisa e storia condivisa; più in generale, tra bisogno di memoria e bisogno di storia. Anziché mantenere studiatamente l'equivoco, l'intellighenzia italiana dovrebbe lavorare per scioglierlo, magari evocando categorie platoniche quali l'anamnesis e la mneme; in altri termini, contribuendo a distinguere – nel rapporto necessario di una comunità con la sua storia - quanto pertiene alla reminiscenza individuale e quanto alla memoria plurale. Senza farne un gioco di parole, occorrerebbe spiegare che la memoria collettiva sulla quale s’affaticava la mente geniale di uno studioso come Marc Bloch non equivale necessariamente alla memoria condivisa di cui vanno tessendo l'elogio i portavoce del «Nuovo Conciliatore»: perché l'una rimanda a un unico passato, cui nessuno di noi può sottrarsi e che coincide appunto con la nostra storia; mentre l'altra sembra presumere un'operazione più o meno forzosa di azzeramento delle identità e di occultamento delle differenze. Il rischio di una memoria condivisa è una «smemoratezza patteggiata», la comunione nella dimenticanza.

Io sono nipote di un ebreo perseguitato. A mio nonno Aldo Luzzatto, professore universitario di medicina, toccò - tra la fine degli anni venti e l'inizio degli anni trenta - la singolare ventura di servire da principale collaboratore, prima a Bari poi a Genova, di uno dei massimi

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esponenti della scienza medica italiana, Nicola Pende: quello stesso Pende che sarebbe divenuto, durante la seconda metà degli anni trenta, uno dei più autorevoli teorici del razzismo italiano. Spesso, cerco (senza riuscirci) di immaginare i sentimenti di mio nonno quando dovette rendersi conto che scienziati come il suo “capo" si preparavano a riconoscere in lui non più l'ex allievo, o l'ex assistente, o l'aiuto, ma l'esemplare da laboratorio di una razza geneticamente inferiore.

Oggi, con il mio collega storico – nonché mio ex professore alla Normale - Roberto Vivarelli io certamente condivido, da cittadino italiano, tutta una storia. E quella stessa storia (a posteriori così straziante, e infatti così poco studiata) che fece in maggioranza degli ebrei italiani, e forse di mio nonno, altrettanti volenterosi ammiratori di Mussolini. Ma se parliamo di memoria, io desidero e pretendo che la mia e quella di Vivarelli restino memorie divise. Si tenga pure, lui, la memoria di suo padre squadrista, marciatore su Roma, volontario in tutte le guerre del duce; si tenga la memoria di se stesso, imberbe volontario delle brigate nere. Io mi tengo la memoria del nonno che non ho mai conosciuto: del medico che perse, dopo la cattedra universitaria, ogni diritto di curare pazienti «ariani», prima di nascondersi a Lucca come un topo braccato per sfuggire ai risultati estremi della persecuzione razziale. E mi tengo la me

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moria di mio padre bambino, che dovette celare tra i monti della Garfagnana la sua originaria condizione di «mezzo» ebreo, così da sottrarsi al treno per Auschwitz.

Inoltre, sostengo che è assurdo pretendere di versare il sangue di mio nonno, di mio padre, o di qualunque altro ebreo fortunosamente scampato alla Soluzione finale, nell'improbabile calderone di un sangue dei vincitori in tutto e per tutto distinto dal sangue dei vinti. No, davvero non riesco a pensare a mio nonno come a un vincitore: lui che nel 1915, da fervido irredentista triestino, si era arruolato volontario nella Grande Guerra per combattere sotto le insegne di Casa Savoia; lui che, vent'anni più tardi, ha letto la firma del suo maestro Pende in calce al «Manifesto della razza»; lui che il 10 giugno del 1940 ormai da ebreo perseguitato - è nondimeno sceso con suo figlio (mio padre) in piazza De Ferrari, a Genova, per raccogliere dall'altoparlante la voce di Mussolini che annunciava stentorea l'entrata dell'Italia fascista nella seconda guerra mondiale; lui che, nell'Italia della Repubblica, non avrebbe comunque più ritrovato lo scranno della sua cattedra universitaria.

I buonisti nostrani sono cattivi maestri; e come tutti i cattivi maestri, neppure s'accorgono di quanto insegnino male. La lezioncina sugli effetti balsamici di una memoria condivisa, e l'annessa cantilena sul fatto che la storia dei vincitori>> non può tacitare in eterno la «storia dei vinti»,

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assumono per ovvio che nell'anno di grazia 1945 l'esito militare della seconda guerra mondiale abbia separato con un taglio netto il destino dei vincitori da quello dei vinti. Come se la Germania sconfitta di Adenauer non fosse stata traboccante di ex nazisti alla stessa maniera in cui la Francia vincitrice di De Gaulle traboccava di ex vichyssois, mentre l'Italia di De Gasperi e di Togliatti era strapiena di ex camicie nere. E come se la peculiare natura dei regimi totalitari degli anni trenta e degli stessi regimi d'occupazione dei primi anni quaranta, fondati gli uni e gli altri sopra l'esistenza di più o meno estese «zone grigie», non fosse stata tale da invalidare, dopo il crollo di quei regimi, ogni meccanica distinzione fra «sommersi» e «salvati>>.

5. Critica della storia «bipartisan». Al Sangue dei vinti, Giampaolo Pansa ha recentemente dedicato un libro tanto fortunato quanto controverso, sugli eccidi di fascisti (e anche di antifascisti) compiuti dai comunisti italiani durante i mesi seguenti la Liberazione. Inutile entrare qui nel merito delle qualità e dei difetti del volume, che in ogni caso fondato com'è sopra una varietà tipologica di fonti, dalle più asettiche ricerche scientifiche alle più accorate testimonianze di sopravvissuti - vive della deliberata confusione tra storia e memoria. Mi

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sembra più importante notare come il successo di stima raccolto da Pansa sia presso una critica liberale o francamente reazionaria, sia presso un vasto pubblico di lettori, si spieghi con l'attuale fortuna di quello che è poi il quinto e ultimo comandamento del verbo post-antifascista: «Non uccidere».

Beninteso, sarebbe folle rimpiangere che l'interdetto biblico abbia finalmente fatto presa sulle nostre coscienze, proprio quando inarrestabile appariva intorno a noi il processo di secolarizzazione. Si tratta piuttosto di constatare – sulla scia di un grande studioso come Arno Mayer – la totale rinuncia dell'intellighenzia occidentale a riflettere sopra il ruolo storico della violenza come levatrice di progresso. Per rendere pienamente conto di questa rinuncia, bisognerebbe distogliere lo sguardo dalla vicenda ristretta del revisionismo storiografico, e guardare all'orizzonte più ampio della progressiva affermazione su scala mondiale di una koinè culturale ambiguamente fondata sopra l'ideologia dei diritti dell'uomo. Rimanendo sul terreno della storia, risulta evidente che uno stesso pregiudizio accomuna il revisionismo sulla Resistenza italiana ai revisionismi sulla Rivoluzione francese, sulla rivoluzione bolscevica, o su quant'altro: il pregiudizio secondo cui nessuna concatenazione di idee, nessun nuovo contratto sociale, nessun progetto più o meno grandioso di società futura giustifica il deliberato spargimento di sangue umano.

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È un pregiudizio rispettabile, ma discutibile. Così discutibile da generare nell'Italia di oggi - a destra come a sinistra della scena politica – una quantità di atteggiamenti contraddittori. A destra, i medesimi analisti i quali, al presente, abbracciano la logica della Realpolitik per imporre all'Iraq e magari ad altri «stati canaglia» i benefici effetti della «dottrina Bush» sulla guerra preventiva, si fanno severi moralisti quando devono giudicare, nel passato, fatti e misfatti della nostra guerra di liberazione. A sinistra, coloro che difendono fermamente le ragioni della violenza antifascista, prima e dopo lo spartiacque della Liberazione, negano qualunque valore positivo all'uso americano della forza sullo scacchiere della geopolitica mondiale. Richiamandosi ai diritti dell'uomo - l'unica ideologia sopravvissuta alla crisi delle ideologie - si finisce forse per poter dire tutto e il contrario di tutto.

Una volta fatto proprio, sempre e comunque, il comandamento di non uccidere, tanto più naturale può sembrare la richiesta retrospettiva di un approccio bipartisan alla nostra storia nazionale, e segnatamente alle vicende successive all'8 settembre 1943: sulla base dell'assunto più o meno esplicito che peccatori erano tutti, i partigiani come i saloini, gli uni e gli altri così sciagurati da non riconoscere imperativo l'interdetto mosaico. È la richiesta che sale ogni mattina dai più autorevoli nostri giornali , ogni sera dalle più ascoltate nostre trasmissioni televisive. Allora,

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credo sia venuto il momento di dire ai cattivi maestri - votino a destra o a sinistra - una cosa semplicissima, ma di dirla forte e chiara: la guerra civile combattuta in Italia tra 1943 e '45 (o °46) non ha bisogno di interpretazioni bipartisan che ridistribuiscano equamente ragioni e torti, elogi e necrologi. Perché certe guerre civili meritano di essere combattute. E perché la moralità della Resistenza consistette anche nella determinazione degli antifascisti di rifondare l'Italia a costo di spargere sangue.

6. Carte d'identità. Occorre una dose notevole di ignoranza - o una dose infinita di malafede - per stracciarsi quotidianamente le vesti sulla cosiddetta «anomalia» italiana, che consisterebbe nella nostra incapacità di venire a patti con gli eventi del biennio 1943-45 attraverso un processo di speculare riconoscimento e di mutua legittimazione tra post-fascisti e post-antifascisti. Quasi che l’Italia moderna sia l'unico paese d'Occidente ad avere conosciuto la tragedia di una guerra civile; quasi che gli americani o i francesi non abbiano dovuto sperimentare, per oltre un secolo o per oltre mezzo, la difficoltà di medicare le ferite rispettivamente aperte dalla guerra di Secessione o dall'esperienza di Vichy... Ma quel che soprattutto appare inaccettabile, nel discor

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so multimediale infaticabilmente rilanciato da grilli parlanti del «Nuovo Conciliatore», è l'idea stessa che le lacerazioni di una guerra civile vadano sanate attraverso una memoria di compromesso, come nel più salomonico degli appuntamenti a mezza strada.

Ripeto: si può condividere una storia – e si può condividere una nazione, o addirittura una patria - senza per questo dover condividere delle me morie. Dico di più: una nazione, e perfino una patria hanno bisogno come del pane di memorie antagonistiche, fondate su lacerazioni originarie, su valori identitari, su appartenenze non abdicabili né contrattabili. Quasi non c'è nazione moderna, dall'Inghilterra di Cromwell alla Francia di Robespierre fino alla Spagna di Franco, che non sia nata da una guerra civile. E non c'è democrazia moderna che non si fondi sopra gerarchie retrospettive di memoria: cioè sopra scelte di campo, o professioni di fede, o carte d'identità, o in qualunque altra maniera le si voglia chiamare.

Si prenda il caso degli Stati Uniti d'America. Sia pure faticosamente, al prezzo di enormi sofferenze individuali e collettive, questi hanno finito col rigettare i valori del razzismo, che durante la guerra civile del 1861-65 avevano armato una metà del paese contro l'altra, provocando una carneficina di dimensioni sconvolgenti. Ma la bandiera di Abraham Lincoln ha potuto divenire anche quella di Martin Luther King proprio perché le ragioni degli abolizionisti sono state ri 30

conosciute – alla lunga – incomparabilmente più degne di quelle degli schiavisti. «Non ci dev'essere chiesto di dire che non c'era alcuna differenza fra coloro che combatterono per l'Unione e coloro che combatterono contro»: le parole pronunciate dopo la guerra civile americana da Frederick Douglass, abolizionista nero nato schiavo, dovrebbero valere da memento anche per noi italiani rispetto alla guerra civile del 1943-45.

Un conto è sostenere (lo faceva già Ernest Renan: seppure il Renan del dopo-Comune di Parigi, imbevuto di umori reazionari) che non si dà nazione senza un patto di memoria e di oblio: senza un accordo, quotidianamente rinnovato dai contraenti, sopra quanto va ricordato e quanto va dimenticato. Tutt'altro conto è sostenere - come fanno, nell'Italia di oggi, rispettabilissimi intellettuali di sinistra – che le nazioni più salde si fondano sopra memórie « simmetriche» e «compatibili». Ammettendo pure che tra la memoria di un partigiano e quella di un saloino possa esservi qualcosa di simmetrico, consistente nell'avere combattuto sui versanti opposti di uno stesso fronte, che cosa potrà mai esservi tra esse di compatibile? La garanzia migliore della qualità etica dei valori in nome dei quali le brigate partigiane fecero la Resistenza non risiede precisamente nella loro assoluta incompatibilità con i valori in nome dei quali le brigate nere spalleggiarono la Wehrmacht e le SS nell'opera di repressione del «banditismo» antifascista?

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È pur vero che quando si parla di simmetria e di compatibilità, si intende soprattutto riferirsi al fatto che in altri contesti nazionali di transizione dal fascismo alla democrazia - per esempio, nella Germania di Adenauer o nella Spagna di Suárez – vi fu un rigetto, speculare e benemerito, di entrambe le esperienze totalitarie del Novecento: oltreché del fascismo, del comunismo. Mentre il patto costituzionale italiano, stipulato sulla base dell'evidenza storica per cui il Partito comunista era stato dapprima l'anima dell'antifascismo clandestino durante il Ventennio, poi il motore della lotta di liberazione nazionale, non poteva ragionevolmente fondarsi altrettanto sull'anticomunismo che sull'antifascismo. Ma dobbiamo forse rimpiangere, a questo punto, che l’Italia abbia conosciuto un movimento popolare (più o meno massiccio) di resistenza contro il fascismo, mentre la Germania non l'abbia avuto affatto contro il nazismo? Dobbiamo rimpiangere che operai comunisti delle città italiane (tanti o pochi che fossero) si siano fatti gappisti e abbiano reso la vita impossibile agli occupanti tedeschi, mentre l'esistenza di Hitler e dei capi nazisti non è stata minacciata, fino all'entrata dell'Armata rossa a Berlino, se non da una trama putschista di alti ufficiali aristocratici?

Rimpianti di tal genere sarebbero quanto meno paradossali. In ogni caso, parlando personalmente, mi riesce più gradito riconoscere nella guerra partigiana la carta d'identità del paese in

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cui sono nato. E mi riesce necessario pensare all'Italia della Resistenza come al terreno dove gli italiani devono tracciare «ora e sempre» i confini non negoziabili della loro identità, la soglia del «non rinunciabile di sé».

7. Un terremoto di coscienza. Sia il piagnisteo sul sangue dei vinti, sia l'appello per una memoria condivisa - e tanto più quando vengono dall'intellighenzia di sinistra – offrono speciosi argomenti a una destra politica sempre a corto di spessore culturale. È a partire dal libro di Pansa sul Sangue dei vinti che la seconda carica istituzionale della Repubblica, il presidente del Senato Marcello Pera, ha potuto parlare senza vergogna dell'antifascismo come di un «mito incapacitante»; e ha potuto auspicare che la «vulgata tolemaica resistenziale» venga finalmente rovesciata da una nuova rivoluzione copernicana che instauri in Italia una democrazia senza più aggettivi, privata della lacerante qualifica di antifascista. È a partire da un saggio di Michele Salvati sulla cosiddetta «lezione spagnola» che un influente deputato di Alleanza nazionale, direttore del «Secolo d'Italia», ha potuto additare l'antifascismo come una spina nel fianco dell'unità repubblicana; e facendo eco al presidente del Senato, ha potuto perorare il rigetto di tutti gli «anti» dalle colon

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ne di una rivista diretta da Giuliano Amato e Massimo D'Alema.

Nell'Italia di oggi, l'antifascismo è in crisi non soltanto perché affonda le sue radici nel mondo dell'altroieri; l'antifascismo è in crisi anche perché la fine del comunismo ha provocato nella cultura della sinistra un terremoto di coscienza. Prima o dopo, ma comunque a ridosso del 1989, un'intera generazione di intellettuali variamente militanti si è trovata a riflettere criticamente sul patrimonio genetico della propria cultura politica: scoprendo quanto l'omaggio alle sacrosante virtù dell'antifascismo avesse di orecchiato o, peggio, di prammatico, di rituale. I rappresentanti ideologicamente più spericolati, o intellettualmente più onesti di questa generazione hanno imboccato allora un percorso privato e pubblico di autocritica. In particolare, hanno tenuto a riconoscere come troppe volte – nella storia dell'Italia repubblicana – la foglia di fico dell'antifascismo avesse nascosto le pudende del filocomunismo: più che mai nel decennio seguìto al Sessantotto e all'«autunno caldo», quando tutta una gamma di miti neoresistenziali aveva spinto molti figli di partigiani comunisti o azionisti a confondere il capitalismo con il fascismo, quando non il terrorismo con il gappismo.

Il terremoto di coscienza di questa generazione ha prodotto qualcosa di più e di meglio che un cumulo di macerie culturali. Dal punto di vista dell'uso pubblico della storia, ha permesso di

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dichiarare urbi et orbi – molto più di quanto fosse stato possibile sino al 1989 – che il «secolo breve» è stato un secolo maledetto non solo a causa del nazifascismo, ma anche a causa del comunismo. Certo, i guasti prodotti da quest'ultimo hanno continuato a essere percepiti come qualcosa di più lontano da noi che i guasti prodotti dal nazifascismo: non foss'altro per quel tanto di remoto, di “asiatico” che il Gulag contiene rispetto al Lager, la prosa di Solženicyn rispetto a quella di Primo Levi, il profilo di Mao rispetto a quello di Hitler. Comunque, a partire dagli anni novanta, sempre più spesso la storia del Novecento è stata raccontata senza censure e senza menzogne. Nei manuali di storia adottati nelle nostre scuole di ogni ordine e grado, il «socialismo reale» è stato finalmente presentato per quello che era: una caserma dei corpi e un mattatoio delle idee.

Ma almeno una conseguenza negativa, il terremoto benefico ha finito per avere: ha stimolato tra le file della sinistra italiana una corsa disordinata verso la bancarotta identitaria. Breve si è rivelato l'intervallo fra la disponibilità intellettuale all'autocritica e il gusto masochistico per la palinodia. Sotto la specie infamante del comunismo - dichiarato o mascherato - si è cominciato a rubricare di tutto: dal Togliatti segretario del Comintern all'operaio-massa della Fiat anni cinquanta, dal burocratico redattore di «Rinascita» al raffinato consulente dell'Einau

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di anni sessanta, dall'Enrico Berlinguer al lavoro nel suo ufficio di Botteghe Oscure al brigatista rosso rintanato in un covo degli anni settanta... Quel che è più grave in una prospettiva storica, in quanto attiene alla nostra carta d'identità come nazione, al DNA della Repubblica: si è brandita la definizione della Resistenza quale guerra civile come una clava, per dare sulla testa degli ingenui che ancora pensavano di poter trovare nella vicenda resistenziale qualcosa di nobile, di edificante, di esemplare.

La generazione di quanti avevano vent'anni nel Sessantotto - e che adesso, nel pieno della cinquantina, parlano da classe dirigente – ha succhiato con il latte la categoria gramsciana di «egemonia». Una giovinezza spesa tra collettivi studenteschi, occupazioni delle università e volantinaggi alle porte delle fabbriche le è servita a impadronirsi saldamente sia delle regole della lotta politica, sia delle tecniche della comunicazione di massa. Così, quando una varietà di situazioni, motivazioni, pretesti ha spinto legioni intere di sessantottini sui lidi dell'apologia o dell'abiura, questa classe d'età si è dimostrata capace di riuscire bene almeno in una cosa: l’egemonia della cultura. Con la generazione dei padri, che a vent'anni erano stati chiamati alla scelta epocale di essere fascisti oppure antifascisti, la generazione dei sessantottini aveva condiviso quel che la generazione dei loro figli avrebbe poi faticato a capire o addirittura a con

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cettualizzare: la voglia di fare la rivoluzione. Dopo il trauma del disincanto, alla generazione del Sessantotto non è rimasta che la voglia di fare opinione, all'insegna di un nichilismo più o meno abilmente travestito da liberalismo.

La liquidazione retrospettiva dell'«illusione» comunista ha comportato un ridimensionamento sempre più spinto della taglia politica e morale di molti uomini e di molte donne che fecero del comunismo una scelta di vita. Risultato: le nuove generazioni, che pure hanno il privilegio di sapere quanta rovina entrambi i totalitarismi del Novecento abbiano arrecato al mondo, rischiano di non imparare il contributo decisivo dei comunisti italiani alla nascita dell'Italia nuova. A forza di ironizzare sulla presunta epopea dei «padri della patria», a forza di stracciarsi le vesti sopra la svolta di Salerno come un ordine venuto da Mosca o sopra piazzale Loreto come un esempio di sadismo partigiano, si finirà per rimpiazzare la logorrea sull'antifascismo e sulla Resistenza con il silenzio sull'antifascismo e sulla Resistenza. E bambini come i miei - nati alla svolta del millennio - non sentiranno più pronunciare, sui banchi di scuola, i nomi venerandi di chi spese il meglio della propria esistenza per liberare l'Italia dalla dittatura e fondare la Repubblica: comunisti senza macchia e senza paura che si chiamavano Giorgio Amendola o Umberto Terracini, Camilla Ravera o Giancarlo Pajetta.

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8. La diseguaglianza nella vita. Il «socialismo reale» è stato una sciagura immensa, un cancro del Novecento il cui grado di malignità risulta assolutamente paragonabile con quello del nazifascismo. Ma questo non ci autorizza affatto a concludere, nel caso della guerra civile italiana, che i partigiani della Resistenza abbiano combattuto per una causa altrettanto abietta che i repubblicani di Salò. A tale riguardo, non si tratta soltanto di precisare che quella di osservanza comunista rappresentava appena una fra le componenti di un movimento partigiano che comprendeva anche «badogliani» e azionisti, socialisti e democristiani. Né soltanto di obiettare - ci ritorneremo - che moltissime reclute delle brigate salivano in montagna senza precise intenzioni ideologiche. Si tratta anche di notare quanto fosse siderale la distanza che separava un comunista italiano da un fascista in termini di obiettivi politici, di immaginario sociale, di valori umani.

A tutta prima, con l'effetto ottico di distorsione che ci deriva dalla privilegiata condizione di posteri, può sembrare che l'uno e l'altro di questi lontani personaggi – il «ragazzo di Salò» e il partigiano delle «Garibaldi» – si siano battuti per obiettivi analogamente nefandi: l'uno per il Lager, l'altro per il Gulag; l'uno per Auschwitz, l'altro per la Kolyma. A guardar me

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glio, attenendosi alle regole della buona storiografia (il peccato mortale dello storico è l'anacronismo, ammoniva Bloch), risulta invece chiara la disparità della loro condizione: poiché l'uno aveva sotto gli occhi le coordinate del mondo per il quale era pronto a sacrificare la vita, l'altro non poteva figurarsele con esattezza. Il saloino era evidentemente disponibile a immolarsi per l'Italia della Risiera di San Sabba e di Fossoli: per il mondo di cui Mussolini e Hitler andavano berciando da vent'anni, dove i più forti erano i migliori, i più deboli partivano dentro carri bestiame per una destinazione che soltanto gli ipocriti qualificavano ignota. Il garibaldino era pronto a morire per l'Italia di Montefiorino e della val d'Ossola: per il mondo delle «zone libere», ch'egli credeva ricalcato sopra un universo socialista di cui non aveva fatto esperienza diretta, ma che appunto poteva sperare libero, egualitario, solidale.

E poi, indipendentemente dalla loro rispettiva buona fede (questa parola-chiave del buonismo storiografico di qualsiasi ispirazione o tendenza), le concrete circostanze delle storia italiana e mondiale attestano oltre ogni margine di dubbio che il partigiano delle Garibaldi combatteva dalla parte giusta, il ragazzo di Salò dalla parte sbagliata. Perché fino a prova contraria, il leader comunista Palmiro Togliatti era allora fedele alleato di un Alcide De Gasperi e di un Sandro Pertini (e Stalin era alleato di Churchill

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e di Roosevelt); mentre Benito Mussolini era alleato più o meno coatto di quell'Adolf Hitler al quale, del resto, era sempre servito da modello. La vittoria del comunista delle Garibaldi ha significato un'Italia libera, la vittoria del fascista di Salò avrebbe significato un'Italia schiava.

Sembra incredibile dover ricordare queste cose, cinquant'anni dopo che lo spirito magno di Piero Calamandrei le fece iscrivere - con dolente gravità, e forse temendone la precarietà - sulle lapidi dei nostri cimiteri di campagna e sui muri delle nostre tormentatissime città. Sembra incredibile, eppure è cosa indispensabile, se si vuole scongiurare il pericolo che nei manuali di storia, trionfalmente sottratti alla cosiddetta vulgata «gramsciazionista», i nostri figli trovino un racconto ancora più falso di quello che noi vi leggemmo a suo tempo: non più il quadretto oleografico di un'Italia tricolore che dopo l'8 settembre compattamente si leva a combattere la propria guerra di liberazione nazionale, ma la rappresentazione capziosa di un'Italia quasi interamente grigia dove estremisti rossi e neri si massacrano gli uni con gli altri in nome di parole d'ordine ugualmente becere, di valori ugualmente ignobili, di ideologie ugualmente mortuarie.

Da quest'ultimo punto di vista, bisogna dire che il grande successo di pubblico (durato decenni a partire dal 1952) di un libro pur istruttivo e toccante come le einaudiane Lettere di

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condannati a morte della Resistenza italiana, e la diffusione stessa sul territorio nazionale di lapidi e di epigrafi dettate in onore dei partigiani caduti, hanno forse finito - paradossalmente col rendere all'antifascismo un cattivo servizio. Non soltanto perché, nel frattempo, le lettere dei condannati a morte di Salò faticavano a trovare un editore, né soltanto perché la memoria epigrafica dei caduti saloini viveva allora una vita stentata per non dire clandestina: incoraggiando dunque l'impressione che la storia d'Italia venisse scritta dai vincitori all'insegna di una damnatio memoriae dei vinti. Il cattivo servizio è consistito soprattutto nel fatto che il martirologio partigiano ha alimentato, da ultimo, un'immagine della Resistenza come fenomeno eminentemente eroico e vagamente catacombale.

I combattenti partigiani hanno rischiato così di apparire individui esemplari in quanto capaci di sacrificarsi per la causa, di morire una «bella morte». Peccato che proprio in questo – e quasi soltanto in questo - tanti caduti di Salò non avessero avuto nulla da invidiare ai caduti della Resistenza. Perciò, al giorno d'oggi, i buonisti della memoria condivisa possono argomentare la pari dignità con la quale i rossi e i neri si sono immolati durante la guerra civile. E pochi si levano per replicare che quel conta non è l'eguaglianza nella morte, ma la diseguaglianza nella vita.

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9. La monumentalizzazione delle vittime. È stato anche per sottrarre il dibattito pubblico sulla Resistenza a sterili analogie tra la buona fede dei rossi e dei neri o tra le rispettive belle morti, che la migliore storiografia ha ritenuto opportuno - in questi ultimi anni – di spostare significativamente il mirino del proprio obiettivo: non guardando più tanto, o non più soltanto ai combattenti per l'una o per l'altra causa, ai protagonisti militari del biennio 1943-45, quanto piuttosto a coloro che troppo a lungo erano sembrati semplici comparse sulla scena della guerra: i civili.

Con una sensibilità che era mancata nei decenni precedenti, quando la retorica resistenziale aveva coltivato lo stereotipo del «popolo alla macchia», di un'Italia tutta trasferita sui monti per combattere la guerra partigiana, gli studiosi più capaci hanno preso a ricostruire e a raccontare altre storie. Talvolta, storie edificanti di una resistenza civile combattuta soprattutto dalle donne, «in guerra senza armi» per contribuire alla sconfitta del nazifascismo attraverso le forme più varie di dissidenza quotidiana. Più spesso, storie terribili di una popolazione civile presa «tra due fuochi»: nell'Italia liberata, gente insidiata dai soprusi e dalle violenze degli stessi soldati alleati; nell'Italia occupata, gente schiacciata fra la logica sovversi

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va dei partigiani e la logica repressiva dei tedeschi, stritolata dal meccanismo infernale dell'attentato e della rappresaglia.

Appunto sul tema delle stragi di civili che ebbero luogo per rappresaglia durante i venti mesi di occupazione tedesca ha particolarmente insistito la nuova storiografia. Oltreché rievocato da vecchie lapidi affisse a un muro e da cerimonie più o meno ritualistiche di commemorazione annuale dei caduti, il martirio di interi borghi d'Italia sotto i colpi di maglio del nazifascismo è stato ricostruito dagli storici attraverso strategie originali di intervento sul territorio e di rielaborazione della memoria collettiva. Boves, Acerra, Caiazzo, Civitella della Chiana, Rionero in Vulture, Massaciuccoli, Guardistallo, Sant'Anna di Stazzema, Marzabotto: sessant'anni dopo gli eventi, la dolente geografia degli eccidi va trovando una sistemazione critica attraverso la confezione di un atlante storico delle stragi nazifasciste in Italia.

Ma questo meritorio lavorìo per raccogliere il ricordo del male dalla viva voce degli ultimi sopravvissuti può esso stesso avere contribuito, e ancora può contribuire alla crisi dell'antifascismo. Si è passati infatti dalla monumentalizzazione degli eroi alla monumentalizzazione delle vittime: dal libro d'oro dei caduti per la causa della Resistenza, con i nomi illustri dei morti in combattimento, all'anodino elenco di persone uccise, che sono parse tanto più degne di compianto quanto

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più anonime e inermi. Senonché, nel momento in cui la vittima civile viene riconosciuta come l'autentico eroe del ventesimo secolo, agnello sacrificale di mortifere ideologie l'una contro l'altra armate, a che pro distinguere fra vittime e vittime? Perché mai un uomo o una donna qualunque uccisi dai saloini dovrebbero suscitare maggiore pietà di un uomo o di una donna qualunque uccisi dai partigiani? Di là dal gruppo sanguigno, che cosa distingue il sangue di un cadavere da quello di un altro? Nella prospettiva di una vittima, non c'è condanna a morte che trovi giustificazione al tribunale della storia.

In Italia più ancora che altrove, un'idea penitenziale del Novecento ha espunto dal discorso pubblico sul secolo scorso ogni considerazione valoriale, facendo tutto rientrare dentro il buco nero della nozione di carneficina. Sempre più spesso, il compito degli storici è sembrato ridursi a quello di lugubri contabili della morte, utili essenzialmente per calcolare (talora con improbabile esattezza, talaltra con sinistra approssimazione) il numero di vittime prodotte dagli “ismi” più diversi: nazismo o comunismo, capitalismo o colonialismo, fascismo o antifascismo. Per una sorta di malintesa ricompensa postuma, i più vari profili di morti ammazzati del Novecento dall'ebreo polacco al kulako russo, dal contadino cambogiano alla profuga tedesca, dal partigiano delle Garibaldi alla bimba di Hiroshima, dal desaparecido argentino al brigatista nero di

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Salò - sono stati riuniti in un unico, smisurato, pletorico limbo di vittime: milioni di uomini e di donne colpevoli soltanto del peccato originale di essere nati in un secolo di ferro.

Le conseguenze negative di questa operazione storicamente, ideologicamente e moralmente riduzionistica, consistente nell’appiattire le vite sulle morti, sono apparse evidenti nel dibattito nostrano sul «sangue dei vinti» del dopo-Liberazione. Né Giampaolo Pansa, né i suoi recensori entusiasti hanno fatto sforzo alcuno per distinguere, nel febbrile paesaggio italiano del 1945-46, l'interpretazione dalla cronaca e la storia dalla memoria. Sottratte alla specificità dei contesti locali, oltreché astratte dalle dinamiche politiche di medio o di lungo periodo, le vicende legate all'esecuzione sommaria dei fascisti sono servite quali prove a carico contro l'antifascismo tout court. Come se davvero vent'anni di dittatura avessero potuto essere dimenticati entro un anno e mezzo dopo l'8 settembre del '43; e come se davvero le ferite della guerra civile avessero potuto rimarginarsi, per incanto, entro ventiquattr'ore dal 25 aprile del '45

Chi voglia oggi parlare una lingua diversa da quella falsamente generosa del verbo post-antifascista deve assumersi la responsabilità di dire cose anche dure, indigeste. Per esempio, deve arrivare a chiedersi se l'opera recente di "vittimizzazione” degli ebrei italiani non abbia essa

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stessa contribuito alla crisi dell'antifascismo. Quel che opportunamente si è andato raccontando, soprattutto a partire dal sessantesimo anniversario delle leggi razziali del 1938, intorno ai furori dell'antisemitismo fascista, non ha avuto forse per effetto involontario di ridurre l'intera vicenda della dittatura mussoliniana alle dimensioni della persecuzione contro gli ebrei? E l'«eccesso di memoria» intorno all'Olocausto non ha forse reso tale memoria padrona della storia, o addirittura della politica? Certo è che sotto il casco protettivo dello zucchetto indossato a Gerusalemme, un ex neofascista come Fini ha potuto limitare la propria abiura del fascismo alla sola promulgazione della legislazione antiebraica: dimenticando che il Ventennio rappresentò una tragedia, oltreché per quarantamila ebrei italiani, per milioni di altri individui dentro e fuori i confini d'Italia.

Attention: un train peut en cacher un autre!, si leggeva un tempo sopra insegne vistosamente affisse nelle stazioni ferroviarie di Francia. È un monito che torna in mente nell'Italia di oggi, dove sintomi inquietanti di rinnovato antisemitismo coesistono con la litania retrospettiva sull'abominio delle leggi razziali . Le vittime del fascismo più vittime di tutti – gli ebrei - ri schiano di nasconderne molte altre: donne italiane o abissine, testimoni di Geova, omosessuali, zingari, operai, refrattari politici di varia natura e tendenza. Tali vittime non passarono

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tutte, da ultimo, per il camino di un Lager; ma questo non significa affatto che il fascismo sia stato una dittatura benigna, né dovrebbe sminuire la portata universale della vittoria conseguita dall'antifascismo.

10. Lezioni di storia contemporanea. Per la maniera in cui funziona oggi in Italia il cosiddetto dibattito culturale, esiste una correlazione inversa tra la qualità delle ricerche storiche e l'entità del loro impatto mediatico. Non foss'altro, perché la buona storiografia ha bisogno di scendere nel dettaglio, deve argomentare attraverso un'analisi attenta delle fonti e un ricorso intensivo alle note; mentre la grancassa pubblicistica e televisiva ha bisogno di titoloni a nove colonne, presunte rivelazioni, messaggi semplificati. Il che contribuisce a chiarire come gli studi più importanti dell'ultimo decennio sul periodo fascista abbiano meritato qualche recensione sui giornali, abbiano magari vinto qualche premio letterario, ma non siano riusciti a diventare un bene condiviso della nostra cultura: senso comune storiografico, patrimonio memoriale.

Eppure, quanto bisogno vi sarebbe di contrastare il crescente analfabetismo in materia di fascismo (un male che colpisce i giovani come i vecchi, i ragazzi nelle scuole come i telespetta

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tori in tinello) con alcune buone lezioni di storia contemporanea! Spiegando che il delitto Matteotti non fu soltanto un esecrabile episodio di violenza politica, ma anche un'italianissima variazione sul tema della corruzione e della concussione: il deputato socialista di Rovigo venne assassinato perché si apprestava a denunciare i legami di malaffare tra il governo Mussolini e la compagnia petrolifera inglese Standard Oil. Spiegando che la polizia segreta fascista non fu soltanto un astuto gioco di parole, Ovra-piovra, ma anche un sistema straordinariamente capillare di intrusione del regime nella vita pubblica e privata degli italiani: una macchina distruttiva di sentimenti, appartenenze, identità. Spiegando che la politica coloniale del fascismo non corrispose soltanto all'incantatoria promessa di un «posto al sole», ma anche a una logica razzista di espansione demografica e di pulizia etnica. Spiegando che la retorica del Mediterraneo mare nostrum non mosse soltanto dall'ingenua volontà di qualche retore di fare sfoggio del suo latinorum, ma anche da un disegno coerente, benché velleitario, di imporre a tutta l'Europa meridionale un «nuovo ordine» mussoliniano. Spiegando che i campi di concentramento di Fossoli e della Risiera non furono l'artigianale tentativo dei fascisti di imitare l'esempio dei nazisti in materia concentrazionaria, ma il logico sviluppo di una politica di internamento in massa dei civili «pericolosi» che cominciò da subito

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dopo l'entrata in guerra dell'Italia. Spiegando che la strage delle Fosse Ardeatine non fu il tragico risultato della codardia degli attentatori partigiani di via Rasella, i quali rinunciando a consegnarsi ai tedeschi scatenarono un'annunciata rappresaglia, ma fu l'esito orrendo della brama di carneficina che colse il nazifascismo alla vigilia della sua sconfitta.

Anziché trovare il modo per trasmettere lezioni come queste, la cultura italiana si accontenta di un chiacchericcio mediatico che in materia di fascismo ancora s'affanna, quando va in cerca di novità, intorno a scoop storiografici vecchi di cinquant'anni: il carteggio scomparso di Mussolini con Churchill, gli amanti di donna Rachele, le prime o le ultime lettere di Claretta Petacci... Nel migliore dei casi, ci si divide tra "innocentisti" e "colpevolisti” a proposito di Ignazio Silone, da poco scoperto informatore dell'Ovra. Ma neppure il fatto che quest'unica trouvaille storiografica seria abbia conosciuto gli onori delle cronache è da accogliere come un segnale incondizionatamente positivo, nella misura in cui va spiegato anche con la determinazione di certi ambienti culturali di svalutare l'integrità di personaggi ritenuti finora campioni cristallini dell'opposizione al regime: in modo da poter rilanciare l'antico stereotipo - consolante perché indistinto - dell'italiano versipelle, cui poco importano il fascismo o l'antifascismo dal momento che comunque «tiene famiglia».

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11. Sulla senilità. Segando le gambe alla cattedra dei maestri veri, i cattivi maestri si illudono di sembrare più alti. Così, hanno fatto a suo tempo gran baccano intorno a una lettera scritta a Mussolini da Norberto Bobbio nel luglio del 1935: quando il giovane studioso di filosofia del diritto, dopo l'arresto del gruppo dirigente torinese di Giustizia e Libertà, pensò bene di salvare le proprie prospettive di carriera accademica rassicurando il duce intorno alla «fermezza delle [sue] opinioni politiche» e alla «maturità delle (sue] convinzioni fasciste». Delle due l'una, hanno commentato zelanti esegeti della missiva fortunosamente ritrovata: o il regime fascista non fu così liberticida come si è voluto far credere, se è vero che permise di fare carriera a un antifascista come Bobbio, o l'antifascismo non fu poi gran cosa, se è vero che un Bobbio si mostrò pronto a firmare documenti così disonorevoli.

Brutta lettera, in effetti, quella indirizzata a Mussolini da un Bobbio giovane sì, ma comunque ventiseienne, pienamente adulto. Attestazione minuta, ma fin troppo parlante dell'esistenza di un fondaccio nero nella storia d'Italia: ennesima riprova della disponibilità diffusa tra i colti - almeno dal tempo della Controriforma – a barattare la libertà intellettuale per l'una o per l'altra prebenda. Ciò detto, come

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non riconoscere che un episodio simile illustra la malignità del fascismo ben di più che la fragilità dell'antifascismo? Perché non impugnare documenti come questo, prima di tutto, a carico dell'abiezione morale di un regime la cui capacità di penetrazione totalitaria era tale da abbattere ogni confine tra pubblico e privato, natura e cultura, essere e dover essere? Quattro anni prima del 1935, soltanto dodici professori universitari, su un totale di oltre 1200, avevano rifiutato di giurare fedeltà al regime fascista. Senza dubbio, anche questa fu una prova avvilente del servilismo storicamente diffuso nell'intellighenzia italiana. Ma più avvilente ancora è l'idea che un giuramento di fedeltà (cioè un salvacondotto di schiavitù intellettuale) sia stato loro imposto dal fascismo, dietro perfida ispirazione di un filosofo, Giovanni Gentile, che certa storiografia post-antifascista si preoccupa oggi di «rivalutare».

Durante gli ultimi anni della sua lunga esistenza, un uomo come Norberto Bobbio - pur dimostrandosi severissimo con il sé stesso del 1935 - ha vissuto con disagio crescente i progressi del revisionismo storico in materia di fascismo e antifascismo. E ha sostenuto che il rifiuto dell'antifascismo in nome dell'anticomunismo andava conducendo in Italia a «un'altra forma di equidistanza [...] abominevole: tra fascismo e antifascismo». Estremamente grave, questa affermazione si legge in un libro conte

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nente vari scritti autobiografici, pubblicato nel 1996 e significativamente intitolato De senectute. È un volumetto che càpita oggi di riprendere in mano con emozione, non soltanto perché nel frattempo l'autore è scomparso, ma anche perché ruota intorno al tema patetico dell'invecchiare: l'invecchiare dell'individuo, con la perdita progressiva delle forze fisiche e intellettuali, e soprattutto l'invecchiare del suo patrimonio di idee, l'andare fuori tempo di tutto un universo culturale e morale; insomma, il marcire di una tradizione.

Con altri grandi interpreti dell'antifascismo piemontese Alessandro Galante Garrone, Nuto Revelli - Bobbio ha condiviso, da vecchio, l'amarezza della scoperta che l'agonia biologica delle loro esistenze coincideva con l'agonia ideologica dei loro valori. A me, studioso della Rivoluzione francese e della sua eredità, tutto questo ricorda la condizione di certi grandi interpreti della tradizione rivoluzionaria nella Francia dell'Ottocento: uomini come l'Edgar Quinet tanto caro a Galante Garrone, che negli anni cinquanta e sessanta del diciannovesimo secolo, a fronte dello straordinario successo della letteratura di svago sotto il Secondo Impero, doveva ammettere che quanti scrivevano di storia della Rivoluzione potevano ben apparire al grande pubblico come individui anti-artistici, rigidi, precocemente senili. «Non posso fare a meno di constatare come, nelle epoche di decadenza, le coscienze

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torbide e degradate siano infinitamente più a loro agio, e quindi più naturali nel senso dell'arte, di quanto non lo siano i pochi uomini di fede che continuano a scrivere»: così Quinet davanti al trionfo commerciale e sociale di autori che pure gli era accaduto di stimare e che aveva contato per amici, a partire da George Sand. Alla quale, del resto, era capitato di affermare, lapidaria: « È la Rivoluzione che ha portato la vecchiaia nel mondo».

Se c'è un'immagine ottocentesca che sembra confermare l'impietosa diagnosi di George Sand, è senz'altro quella risalente all'età di Luigi Filippo - dei vainqueurs de la Bastille, che si trascinavano per le strade della Parigi orleanista appoggiandosi a un bastone, ma brandendo nell'altra mano un ingiallito «certificato di civismo>> attestante il fatto che sì, loro c'erano il 14 luglio 1789, e avevano contribuito di persona ad abbattere l'odiato simbolo del dispotismo borbonico... Può riuscire ingeneroso il solo fatto di dirlo, ma gli epigoni dell'antifascismo e della Resistenza rischiano sempre più di somigliare a una versione cisalpina dei vincitori della Bastiglia. Perché quando i cannoni tacciono da decenni, diventa difficile anche soltanto immaginare l'ora del pericolo, il rumore dei colpi, l'odore della polvere da sparo, il fuoco nella mente. Non a caso il più lucido cantore dell'epopea partigiana, Beppe Fenoglio, rifiutò sempre di iscriversi all'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani d'I

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talia: intuendo che la Resistenza era stata esperienza troppo singolarmente febbrile e giovanile per affidare a un cartello di reduci il compito di sottrarla all'usura del tempo.

L'antifascismo come senilità: anziché l'amara scoperta, fu questa la sboccata denuncia di coloro che nel 1994, all'indomani del primo trionfo elettorale di Forza Italia, scatenarono un'offensiva mediatica contro l'esiguo drappello dei senatori a vita della Repubblica (fra i quali era Bobbio), scoprendoli «uno più cadaverico dell'altro», incarnazioni a malapena viventi di «una vecchia Italia che non vogliamo più e che si è seppellita da sola». Ma l'opera di assimilazione polemica dell'antifascismo con la senilità era stata inaugurata almeno tredici anni prima, quando il segretario del Partito socialista italiano, Bettino Craxi, aveva espulso diciassette suoi iscritti, colpevoli di avere sollecitato un più aperto dibattito interno e di avere auspicato un ritorno del Psi entro l'alveo di una genuina tradizione socialista. Politicamente, il più rappresentativo degli espulsi era Tristano Codignola: che nel 1981 non aveva superato i settant'anni, ma che nel corso della sua vita aveva fatto in tempo ad animare il movimento liberalsocialista nella Toscana dei tardi anni trenta, a dirigere la Resistenza fiorentina, a contribuire per il Partito d'azione ai lavori dell'Assemblea costituente, e poi a combattere per decenni le battaglie spesso perdute di un socialismo riformista. Craxi pensava

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a Codignola quando, in un comunicato ufficiale che accompagnò il provvedimento amministrativo di espulsione, scrisse che almeno uno dei diciassette dissenzienti era «affetto da frustrazioni prevalentemente senili».

Sul latitante di Hammamet, che analisti compiacenti hanno postumamente gratificato di un'immagine da esule del Risorgimento, si è sentito dire negli ultimi anni che ebbe doti di grande statista. Certamente, Craxi fu un visionario della politica: prima di qualunque altro in Italia, previde imminente la destrutturazione della forma-partito tradizionale e favorì l'avvento di una maniera nuova di organizzare il consenso di massa, meno fondata sulle appartenenze ideologiche e di più sulle strategie comunicative. Qui, preme tuttavia di notare l'importanza storica di Craxi nella sua interpretazione non antifascista della tradizione del socialismo italiano. Disprezzo delle regole giudiziarie e dei principî morali, gusto per l'investitura plebiscitaria, culto del capo carismatico: l'acuto Forattini di allora dimostrò fiuto nella rappresentazione satirica di un leader in camicia nera e stivaloni, alla maniera ducesca dell'ex socialista Mussolini.

Quando si sbarazzava di Codignola come di un rottame, Craxi non si limitava a chiudere i conti con un passato, quello riconosciuto polveroso e retorico dei «padri della patria»; prefigurava anche il futuro di una politica plastificata e impudente, annunciava l'Italia di Forza Italia. 55

Tanto è vero che oltre dieci anni dopo la rovinosa caduta del leader socialista, il messaggio trasmesso all'opinione pubblica da un suo amico di partito e di antenne - Silvio Berlusconi riecheggia la sostanza dell'intuizione politica di Craxi: l'antifascismo come fenomeno anagraficamente residuale, zavorra di senilità destinata finalmente a inabissarsi con il venir meno della generazione del 1920 e dintorni: cioè dell'ultima generazione di italiani cui sia toccato in sorte di sperimentare il regime fascista da adulti, e abbastanza per odiarlo.

Un esponente prestigioso di quella generazione - Carlo Azeglio Ciampi – abita oggi il palazzo del Quirinale, da cui garantisce con intransigenza di vestale la fedeltà delle istituzioni repubblicane al codice genetico dell'antifascismo. Ma alla scadenza del suo mandato, difficilmente la carica di presidente della Repubblica potrà essere ricoperta da qualcuno della stessa età; per forza di cose, il prossimo capo dello Stato non potrà che appartenere all'Italia del dopo-Ventennio. Allora, il problema storico e politico dell'eredità dell'antifascismo si porrà in una maniera particolarmente delicata.

12. Qualunquismo di ritorno e tregua civile. Prendere le distanze altrettanto dal comunismo che dal fascismo non significa necessaria

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mente scegliere una posizione di equidistanza tra fascismo e antifascismo. Si può essere al contempo anticomunisti e antifascisti: è quanto si sono proposti – nella storia cinquantennale della Prima Repubblica – la maggior parte dei politici democristiani, repubblicani, socialdemocratici, e degli stessi socialisti. Ed è quanto ancora si propongono certi liberali di oggi, nella mente dei quali l'orrore retrospettivo per i mostri del comunismo non diviene furore ottativo per liberare il mondo dai dinosauri dell’antifascismo. Nelle sue interpretazioni più degne, quelle di un Paolo Mieli o di un Sergio Romano, il cosiddetto «terzismo» è assunzione di responsabilità rispetto al duplice disastro rappresentato dai totalitarismi del Novecento, il nazifascista e il comunista; ed è riconoscimento del fatto che il canone antifascista ha obiettivamente peccato per indulgenza nei confronti del secondo. Il terzismo migliore non corrisponde a qualunquismo: non rinnova la tentazione della casa in collina», né tesse l'elogio della «zona grigia».

Peccato che il terzismo nobile sia moneta rara al mercato della comunicazione mediatica italiana, dove circolano numerosi gli assegni a vuoto del qualunquismo più ingenuo o più volgare. In televisione, i documentari sul Novecento obbediscono - quando va bene – alle regole di una storia rigorosamente bipartisan: se uno è dedicato all'uccisione di Matteotti per mano di sicari fascisti, un altro deve documentare l'uc

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cisione di Gentile per mano di sicari comunisti. Nei serial ambientati al tempo della Resistenza, le staffette partigiane si innamorano immancabilmente di tedeschi «buoni». Nei romanzi sulla guerra civile, le vittime delle rappresaglie tedesche vengono salvate in extremis dal ravvedimento di una SS coscienziosa. Gli eroi migliori sono comunque quelli né-né. Non neri e neppure rossi, non fascisti e neppure comunisti. Italiani senza coloranti e senza additivi, liberi dalla contaminazione della passione politica: artefici estemporanei della banalità del bene, alla Giorgio Perlasca; meglio ancora, martiri quasi imprevedibili della banalità del male, alla Salvo d'Acquisto.

A molti lettori della carta stampata come a moltissimi utenti del piccolo schermo, il terzismo d'accatto piace perché l'antifascismo vive una crisi di ritualità, di credibilità, di senilità. Ma piace anche per una ragione complementare, altrettanto importante e profonda: perché il qualunquismo è sempre stato maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica. Non ci si faccia ingannare dalla breve esistenza del movimento organizzato, dalla rapida eclissi dell'Uomo qualunque di Guglielmo Giannini. Dopo il 1948 la Democrazia cristiana – forte dell'appoggio della Chiesa e degli Stati Uniti – poté bensì assorbirne l'elettorato, entro l'ambito di una vicenda che trascendeva i confini della pe

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nisola italiana e rimandava alla logica stringente della guerra fredda. Senonché, allora, il qualunquismo venne occultato piuttosto che eliminato. Mezzo secolo dopo, scioltasi la Dc come neve al sole, il fossile è riapparso tutto intero, splendidamente conservato: alla maniera di certe conchiglie che ancora si ritrovano sulle Alpi, e che attestano come lì, cinque decenni, cinque secoli o cinque milioni di anni fa, ci fosse il mare nostrum dell'indifferentismo, dell'equidistanza, del «Franza o Spagna pur che se magna», ».

Da che mondo è mondo, e tanto più da quando le contrapposte ideologie del progresso e della reazione si sono fatte aggressive o addirittura divoranti, alle più diverse latitudini del pianeta la maggior parte degli uomini e delle donne, dei giovani e dei vecchi, degli adulti e dei bambini, chiede semplicemente di essere lasciata in pace. Il che contribuisce a spiegare come il gene dell'anticomunismo - pur non rientrando espressamente nel DNA dell'Italia nuova – abbia finito per rivelarsi tanto forte e duraturo: perché il comunismo minacciava un qualche «ordine nuovo». Il «sommerso della Repubblica», senza fare i conti con il quale si fatica a intendere la crisi dell'antifascismo, non è consistito soltanto nella rete pluridecennale di trame nere, infedeltà istituzionali, doppie appartenenze che hanno fatto della nostra storia recente una sequela di misteri irrisolti. Più profondamente, il sommerso della Repubblica è consistito nel pertinace ri

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fiuto di buona parte della popolazione italiana di sentirsi davvero antifascista, nel momento in cui l'anima storica e politica dell'antifascismo poteva ben sembrare il comunismo: se non il comunismo sovietico, quanto meno il comunismo ereditato da Gramsci, il progetto di una «città futura>> diversa dalla presente.

Negli anni e nei decenni successivi alla Liberazione, la sconfitta nazionale e internazionale del fascismo era sotto gli occhi di tutti gli italiani. Le sirene del neofascismo non incantavano allora che qualche centinaio di picchiatori e qualche migliaio di sognatori, nostalgici gli uni del santo manganello, gli altri dei treni in orario. Viceversa, la causa nazionale e internazionale del comunismo sembrava - ed era - ancora viva e vitale. Né lo era soltanto oltre la cortina di ferro, sotto i lontani cieli dell'Asia, od oltre oceano, tra le isole caraibiche e i rilievi andini; lo era anche in Italia, dove milioni di persone si auguravano di non «morire democristiane» perché speravano di morire comuniste. È vero che il comunismo del Pci era sempre meno quello stalinista di Togliatti, sempre più quello occidentalista di Berlinguer. Ma bastava a giustificare, nella sfera privata come nella pubblica, un anticomunismo tanto virulento quanto diffuso: fosse nella versione istituzionale e calcolata della destra democristiana, nella versione popolare e ossessiva di Indro Montanelli, nella versione massonica ed eversiva di Licio Gelli.

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Resta da capire come e perché l'anticomunismo abbia potuto sopravvivere in Italia allo spartiacque del 1989: alla caduta del muro di Berlino, alla dissoluzione dell'Unione Sovietica, alla trasformazione del Pci in un partito appena appena socialdemocratico. Se la scomparsa dei fascisti dall'orizzonte politico italiano ha prodotto l'avvento del post-antifascismo, la scomparsa dei comunisti non dovrebbe condurre, specularmente, all'avvento del post-anticomunismo? In effetti, è questa la strada verso cui paiono incamminati - se non certi ex iscritti alla loggia P2 - tanti ex elettori della Dc e tanti ex lettori di Montanelli: quindici anni dopo il crollo del comunismo sovietico, risulta del tutto ovvio che i post-comunisti nostrani spaventino sempre meno. Eppure, lo spettro del comunismo continua ad aleggiare sull'Italia in almeno due forme, l'una politica, l'altra culturale. Da un lato, è l'anticomunismo scopertamente opportunistico di Berlusconi, cui il grido «al lupo, al lupo!» serve a distrarre dalla sua persona l'allarme democratico. Dall'altro lato, è l'anticomunismo visibilmente freudiano di una schiera di ex comunisti assurti al rango di maîtres-àpenser grazie al loro zelo di convertiti alla religione liberale.

L'ultima frontiera di questo anticomunismo uno e bino è rappresentata da un'idea strampalata, che pure va prendendo piede nel discorso pubblico sulla nostra storia contemporanea: l'i

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dea che la guerra civile del 1943-45 sia stata il momento inaugurale ed evidente di una guerra civile strisciante e latente, che si sarebbe combattuta in Italia per cinquant'anni dopo la Liberazione. Sulla base di alcuni elementi di fatto - il mito postpartigiano della «Resistenza tradita»; la parola d'ordine postazionista di una «nuova resistenza; la fascinazione di Lotta continua per la violenza gappista - si è costruita un'immagine di fantasia del conflitto politico nell'Italia democratica, secondo cui la vita della Prima Repubblica avrebbe coinciso (parola di Berlusconi) con «mezzo secolo di guerra civile permanente». Così, ricucendo alla bell’e meglio qualche pagina di Pietro Secchia con qualche battuta di Carlo Levi e qualche volantino di Adriano Sofri, si è alimentata la leggenda di una democrazia italiana minacciata per decenni dalla surenchère ultracomunista: cioè, sotto sotto, la leggenda di un antifascismo preso in ostaggio dal terrorismo.

Durante cinquantacinque giorni della primavera 1978, un uomosimbolo dell'Italia antifascista, Aldo Moro, si trovò davvero ostaggio di terroristi rossi, e lo pagò con la vita. Ma soltanto una ricostruzione superficiale di quella tragica pagina di storia può autorizzare una lettura del delitto Moro come apogeo di un'interminabile guerra italo-italiana. Certo, l'attacco brigatista «al cuore dello stato» contò allora su forme più o meno larvate di solidarietà politica, sia al

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l'interno della classe operaia, sia in frange dell'intellighenzia estremista (quando non ai vertici delle istituzioni repubblicane). Tuttavia, proprio i cinquantacinque giorni attestarono la forza con cui i valori dell'antifascismo avevano attecchito nella gran massa del «popolo comunista». Rifiutando - a torto o a ragione - qualunque cedimento alla linea craxiana di una trattativa per la liberazione di Moro, Enrico Berlinguer si fece interprete di un antifascismo di garanzia della Repubblica graniticamente condiviso dalla sua base: come avrebbe presto dimostrato l'operaio comunista Guido Rossa, ucciso dalla «colonna» genovese delle Br per avere denunciato all'autorità giudiziaria chi faceva propaganda eversiva nelle fabbriche.

Come sviluppo logico del ragionamento sul mezzo secolo di presunta guerra civile, si è cominciato recentemente a parlare secondo la lingua di legno del buonismo cerchiobottista - di una «tregua civile», che sancirebbe l'avvento definitivo della Seconda Repubblica. A beneficiare degli effetti di questa tregua, sotto forma di un'equanime amnistia, dovrebbero essere i terroristi neri e rossi che improvvidamente avevano pensato, durante gli anni di piombo, di rinnovare la sporca guerra tra saloini e partigiani. Il vaso di Pandora del nostro Novecento si troverebbe così ad essere richiuso per sempre. E senza più neppure l'ombra di fascisti o antifascisti, utopisti o brigatisti, eroi o assassini, gli

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italiani potrebbero finalmente godersi lo spettacolo di una notte nera in cui tutte le vacche sono grigie.

13. Italiane. Nella primavera del 2004, dietro iniziativa del dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri, i lettori dei giornali si sono visti offrire in edicola tre graziosi volumetti, semplicemente intitolati: Italiane. Era un dizionario biografico, che proponeva un approccio originale alla storia d'Italia dall'Unità a oggi. Anziché lungo la battutissima galleria dei suoi protagonisti maschili, tale storia veniva rivisitata attraverso una serie di ritratti femminili: duecentocinquanta donne che - fatta l'Italia – variamente hanno contribuito a fare gli italiani.

Frugando tra le pagine di Italiane è dato di trovare autentiche gemme di scrittura storica: così la voce su Marta Abba, o quella su Edda Ciano. E quand'anche si constati che le donne attrici , scrittrici e perfino fondatrici di congregazioni religiose superano per numero le donne passate alla storia per avere fatto politica, le pagine del dizionario dedicate a queste ultime (in particolare, a militanti comuniste quali Camilla Ravera e Nilde Iotti) colpiscono per rigore e intensità. Né avrebbe senso come pure è stato

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fatto - lamentare l'inclusione nell'opera di personaggi moralmente o politicamente tutt'altro che esemplari: se un simile criterio fosse dayvero fondato, quale enciclopedia potrebbe mai contenere una voce su Adolf Hitler o su Mao Zedong? Nessuno scandalo, dunque, nel ritrovare fra le Italiane una donna come Luisa Ferida, l'attricetta che con il marito Osvaldo Valenti bazzicò fin troppo negli ambienti del collaborazionismo nazifascista, che fu condannata a morte dopo la Liberazione e che divenne poi un'icona del neofascismo. Per identiche ragioni, appare incontestabile la scelta di fare spazio nel dizionario a due donne importanti nella vita di Benito Mussolini e, di riflesso, ben presenti nella memoria collettiva degli italiani: donna Rachele e Claretta Petacci.

In un'opera stampata a carico dei contribuenti e presentata da un ministro della Repubblica (Stefania Prestigiacomo), il problema non sta nell'esistenza dell'una o dell'altra voce, ma nel loro contenuto. Da questo punto di vista, le tre pagine su Rachele Mussolini risultano inquietanti: chiunque abbia una qualche dimestichezza con il ciarpame storiografico para-fascista degli ultimi sessant'anni ne rinviene qui i resti, miracolosamente concentrati. Donna Rachele non vi figura soltanto - secondo verità - come l'irriducibile e infine sgradito ancoraggio del duce alle sue origini romagnole e proletarie, la sua nemesi plebea. Vi giganteggia anche come la fiera vestale delle

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spoglie di Mussolini, «martoriate» in anni di «opprimente ipocrisia democratica». La moglie del duce viene inoltre ricordata come la nonna di Alessandra, che «coraggiosamente» avrebbe raccolto l'eredità politica di «una complicata e affascinante famiglia italiana». Almeno altrettanto inquietante il contenuto della voce dedicata a Tina Anselmi. Dove, dopo avere affibbiato all'ex staffetta della Resistenza e all'ex ministro della Repubblica la qualifica sintetica quanto avvilente di «partigiana ciellenistica e consociativa», si presenta il lavoro della presidente democristiana della commissione parlamentare d'inchiesta sulla P2 come l'esito insieme futile e distruttivo di mal spesa «furbizia contadina»: una caccia alle streghe condotta sulla fantomatica base di una «Anselmi's List».

Possiamo soltanto sperare che il ministro Prestigiacomo non avesse letto pagine come queste quando ha firmato, orgogliosa, la prefazione di Italiane; in ogni caso, il ministro Prestigiacomo porta intera la responsabilità di avere scritto nella prefazione che a tutte le duecentocinquanta donne del dizionario «noi dobbiamo dire comunque grazie. Tutta l'Italia deve un grazie. Ed ha il dovere civile di coltivarne la memoria». Possibile - ci si domanda - che vada onorata e ringraziata da tutti noi anche una donna come Piera Gatteschi Fondelli, mussoliniana della prima ora, marciatrice su Roma nel 1922, poi ispettrice del Partito nazionale fascista, infine comandante del

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Servizio ausiliario femminile sotto la Repubblica di Salò? Possibile che sia nostro dovere di coltivarne religiosamente la memoria? Potendo scegliere, la riconoscenza retrospettiva degli italiani non dovrebbe andare piuttosto a una donna che non figura nel dizionario: a Genoveffa Cocconi, la contadina che fu capace di trasmettere valori antifascisti ai suoi sette figli, i fratelli Cervi?

Tra le molte maniere in cui la Presidenza del Consiglio berlusconiana ha finora gestito il denaro degli italiani e ha inteso orientarne le coscienze, l'iniziativa di pubblicare Italiane non appare certo la più indegna; al contrario, è una delle poche delle quali, da contribuenti e da cittadini, non ci si debba vergognare. Eppure, anche un'opera come questa affretta - in modo diretto o indiretto, consapevole o inconsapevole – il tramonto dell'antifascismo. Perché la filosofia che la sostiene è quella solita che ci insegue, ci accerchia, ci confonde: la volontà di elaborare ad ogni costo non soltanto una sintesi delle nostre storie, ma un compromesso delle nostre memorie; l'idea insopportabile che una vita valga l'altra, e che anche i frutti più bacati contribuiscano alla riuscita di una buona macedonia.

14. I miti della Resistenza. Non tutto il male viene per nuocere. L'avvento del postantifascismo può almeno propi 67

ziare un passaggio di consegne storiografiche rispetto all'evento fondativo dell'identità repubblicana, la Resistenza. Dalla generazione dei testimoni - dalle mani di chi l'ha vissuta, o comunque di chi la ricorda per esperienza diretta – la responsabilità di trasmettere il racconto della lotta resistenziale può transitare ormai alla generazione dei posteri: alle mani di chi, proprio per non averne avuto esperienza, promette di portare su di essa uno sguardo più franco nei giudizi e più libero dai pregiudizi, meno vincolato dai lacci delle passioni e dalle corde della memoria.

Sia chiaro, il revisionismo deteriore esagera quando riconosce nelle storie tradizionali della Resistenza niente più che images d'Épinal: oleografia edificante, paccottiglia antifascista malamente confezionata sotto specie di storiografia. Chi sostiene - ad esempio - esserci voluti sessant'anni perché la cultura della sinistra italiana riconoscesse l'entità del contributo prestato dai nostri militari alla lotta antitedesca, mostra di non avere neppure preso in mano il libro inaugurale del cosiddetto canone resistenziale, la Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia, pubblicata da Einaudi nel 1953. Un volume che contiene parole inequivoche sul valore etico della difesa condotta contro la Wehrmacht, all'indomani dell'8 settembre 1943, da reparti interi del Regio esercito, in particolare nel Dodecaneso; e che dedica ai martiri di Cefalonia molto più

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che uno sguardo distratto, definendo il loro sacrificio «una delle pagine più significative di tutta la seconda guerra mondiale».

Così pure, i critici più frettolosi farebbero bene a leggere la maggioranza dei libri prodotti negli ultimi vent'anni entro gli Istituti storici della Resistenza: ambienti da loro rappresentati come estreme ridotte del partigianato o del Comintern, mentre proprio dalle biblioteche degli Istituti una nuova generazione di storici va riscrivendo da cima a fondo la storia del movimento partigiano. Di contro all'immagine manierata del popolo alla macchia, di una lotta fieramente combattuta dall'Italia intera trasferitasi sulle montagne; di contro all'immagine non meno falsa di una lotta combattuta ai margini della grande storia (in montagna, da qualche ragazzotto impaziente di giocare alla guerra; in città, da tre o quattro gappisti pronti a seminare il terrore a forza di attentati), la buona storiografia lavora infatti a rifondare il racconto della guerra civile sopra nuove basi ideologiche e storiografiche: smitizzando la Resistenza, senza per questo svenderla. che a

Fra i maggiori problemi interpretativi tutt'oggi sollecitano gli storici, quello dei numeri – la maggiore o minore consistenza quantitativa delle brigate partigiane - è virtualmente irresolubile, perché una guerriglia fatta come si deve non produce molta carta: le circostanze stesse della lotta, la relativa esiguità delle formazioni e la durezza della repressione nazifa

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scista, sconsigliarono i «ribelli» dallo sfornare in serie documenti attraverso cui gli studiosi futuri potessero contarli con precisione. Quanto al problema dell'identità politica del movimento partigiano, la storiografia più attenta non può che smentire lo stereotipo posteriore (diffuso soprattutto fra le conventicole neo-azioniste) della banda come paradiso delle libertà, «microcosmo di democrazia diretta». Il più delle volte, i dirigenti della Resistenza si trovarono a gestire gruppi di sbandati: un materiale umano politicamente amorfo, che restava da plasmare. Spesso si diventava partigiani semplicemente per non combattere l'ultima guerra di Mussolini, e si diventava antifascisti e magari comunisti durante, o addirittura dopo l'esperienza partigiana.

Il mito più duro a morire – perché il più funzionale sia alla legittimazione politica della Repubblica, sia all'impianto civile della ricostruzione - è quello di un legame necessario tra antifascismo e Resistenza: è il mito di un'assoluta continuità biografica, ideologica, organizzativa tra i refrattari del Ventennio e i partigiani dei venti mesi. Ora, non si tratta qui di sbugiardare quanto veniva dato solitamente per acquisito del rapporto fra antifascismo storico e lotta armata contro il nazifascismo: la memoria pesante degli scontri a morte del «biennio rosso», e poi della traumatica disfatta socialcomunista nel 1921-22; la persistenza e la dif

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fusione dell'«antifascismo popolare» negli anni venti e trenta, sorda protesta di padri e di madri che fra 1943 e '45 certi figli avrebbero raccolto sparando; la lezione della guerra di Spagna, tanto più istruttiva in quanto aveva assunto la forma di una guerra civile all'estero fra i volontari italiani delle Brigate internazionali ei soldati inviati dal duce a sostegno di Franco; l'importanza delle abitudini propagandistiche e cospirative contratte dagli antifascisti militanti al tempo del regime, decisive nello strutturare le modalità della guerriglia contro l'occupante tedesco e il collaborazionista saloino. Senza negare il rilievo di tutto questo, si tratta di fare i conti retrospettivi con una realtà anche molto diversa.

Se pure i capi militari e i commissari politici delle brigate partigiane furono spesso – anche per anagrafe – uomini dell'antifascismo “tradizionale", che nella guerra civile trasferirono l'armamentario di una presa di coscienza e di una militanza pregresse, la stragrande maggioranza dei combattenti furono ragazzi fra i diciotto e i vent'anni che salirono in montagna senza l'idea di compiere una scelta di vita: più che altro, volendo sottrarsi alla leva militare di Salò. I resistenti erano anzitutto dei renitenti. A posteriori, la retorica antifascista ha voluto, anzi ha dovuto cantarne l'epopea proprio per rimediare questo inconveniente originario: per dissimulare l'evidenza che rende degli imboscati impro

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babili come eroi. Oggi, liberi dall'obbligo di portare acqua al mulino del mito, gli storici vanno riconoscendo il fascino della Resistenza precisamente nel suo carattere di esperienza storica non lineare. «Mio bisnonno mazziniano, mio nonno garibaldino, mio padre antifascista, io comunista»: la lignée familiare sfoggiata da un organizzatore tra i principali della guerra partigiana; Giorgio Amendola, era troppo bella per essere vera per tutti. Molto più che lo sbocco naturale di una tradizione, la banda fu il luogo sorprendente di un'acculturazione.

Nel 1947, quando l'ex partigiano Italo Calvino si apprestava a pubblicare Il sentiero dei nidi di ragno, i suoi amici lo sconsigliavano di includere nel romanzo il capitolo nono, quello dove il commissario politico Kim indottrina i componenti della strana brigata del comandante Dritto. «Troppo didascalico», obiettavano. Forse, il disagio dell'intellighenzia einaudiana e comunista davanti al contrasto fra le ragioni politiche di Kim e le ragioni impolitiche del Dritto e del suo pugno di sbandati rifletteva la consapevolezza di quanto nella Resistenza vi fosse stato di irriducibile al mito antifascista: quanto di confuso, di personale, di disordinato, di furbesco, di fanciullesco, di picaresco... Mentre l'ostinazione di Calvino nel mantenere il capitolo rifletteva l'intuizione che il sugo di tutta la storia si nascondesse proprio lì. Nel fatto che tanti ragazzi erano divenuti partigiani senza capirne le ragioni,

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anzi, quasi senza chiedersele; che avevano ascoltato in montagna parole adatte per attribuire senso alla loro condizione, così da trasformare un'avventura in cultura; che erano stati eroi nella più anti-eroica delle maniere, limitandosi a riconoscere che un futuro degno aveva bisogno di un presente rischioso, e che i rischi del presente andavano corsi in prima persona.

Comunque stessero le cose nel '47, gli storici più seri e consapevoli possono ormai adottare approcci e proporre conclusioni che in passato avrebbero meritato loro una nomea da iconoclasti. Anche rispetto alla questione del seguito popolare ottenuto dalle brigate partigiane, essi rinunciano a baloccarsi con i miti e raccontano di una Resistenza difficile: minoritaria, isolata, guardata con sospetto dalla stessa classe operaia. Neppure durante le febbrili settimane d’aprile del 1945, neppure durante l'insurrezione finale delle maggiori città del Nord, la lotta partigiana divenne un fatto di massa. D'altronde, il significato epocale della Resistenza risiede esattamente in questo: nel segnare una discontinuità unica nella storia d'Italia; nel suggellare il tentativo di pochi di promuovere a beneficio di molti un mutamento nella forma e nella sostanza delle istituzioni, il passaggio å uno stato democratico, la creazione di nuovi rapporti sociali. , di Santo Peli, è il libro

La Resistenza in Italia più profondo che sia stato scritto sul tema dopo quello memorabile di Claudio Pavone, Una

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guerra civile. Ed è la dimostrazione pratica di come un'analisi storicamente critica della Resistenza non implichi affatto una sua liquidazione ideologica o etica. Alcune fra le pagine più lucide di questo volume sono dedicate all'uso e agli effetti della violenza durante il biennio 1943-45: violenza degli uni e degli altri, dei nazifascisti come dei partigiani, perché le guerre si fanno in due, e si fanno spargendo sangue. Ma opportuna giunge qui una distinzione fra la violenza nazifascista, «compimento logico di un sistema», e la violenza partigiana, «strumento dolorosamente indispensabile di liberazione da quel sistema». Non meno opportuno, d'altra parte, il riserbo di Peli intorno ai risultati ultimi di certa violenza partigiana. Per esempio, la figura del terrorista-gappista diventò mai – oltreché mitica - popolare? Gli attentati contribuirono alla fortuna o piuttosto al rigetto della lotta resistenziale come esperienza comune e fondativa? A sessant'anni di distanza dagli eventi, il pregio maggiore dei buoni libri sulla Resistenza consiste nel porgere non soltanto piane risposte, ma anche scomode domande.

15. Un Ventennio senza fascismo. Riconoscere il carattere largamente mitico dell'epopea resistenziale non autorizza a giustificare l'opera di defascistizzazione del fascismo cui at

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tendono con zelo tanti storici da rotocalco o da talk-show. Perché la storiografia più attendibile non ha affatto ritenuto, in questi ultimi anni, di ridimensionare la caratura totalitaria del regime fascista. Al contrario, sulla base dei più diversi parametri (fortuna del culto della personalità carismatica, forza di penetrazione del partito unico nella società civile, capacità di programmazione e di gestione degli apparati propagandistici, efficienza del sistema di controllo poliziesco sul dissenso), i migliori studiosi del Ventennio hanno avuto ragione di riaffermare il carattere non soltanto autoritario, ma propriamente totalitario del regime fondato da Mussolini.

Ben altra l'antifona che è venuta recitando, da un quotidiano all'altro, da un settimanale a un talk-show, tutta una congrega di falsi storici e di storici falsi: altrettanti eredi - enormemente meno dotati – di tre giornalisti strafascisti negli anni trenta e antiantifascisti dopo la Liberazione, Leo Longanesi, Giovanni Ansaldo e Indro Montanelli. Fin dall'epoca in cui, durante i primi anni cinquanta, questi tre fuoriclasse della nostra carta stampata si scambiavano le battute e le firme sulle pagine del «Borghese», la storia del Ventennio è stata divulgata presso un pubblico di lettori più o meno nostalgici come una serie di favolette per bambini. La marcia su Roma? Un ingegnoso stratagemma di Mussolini, che finse di possedere la forza d'urto che non aveva per scuotere la clas

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se dirigente liberale e salvare l'Italia dal pericolo comunista. L'Ovra? Un giochetto onomastico del duce per spaventare i quattro gatti rimasti antifascisti anche dopo l'Aventino. La guerra d'Etiopia? Un'avventuretta militare da ultimi arrivati nel jet set coloniale, decisi a farsi l'Impero senza torcere un capello a nessuno. L'Asse Roma-Berlino? Un infortunio diplomatico di Mussolini, così vanitoso da pretendere di conversare con Hitler senza bisogno di interprete, dunque così sprovveduto da non capire che il Führer si preparava davvero a mettere l'Europa a ferro e fuoco. Le leggi razziali? Una cosmesi legislativa per esibire ai nazisti la faccia cattiva del fascismo, mascherando la vera natura degli italiani brava gente. La Repubblica di Salò? Il generoso tentativo del duce di offrirsi come uno scudo per impedire ai tedeschi, ex alleati divenuti nemici, di decimare il popolo italiano.

Non si insisterà mai abbastanza sul danno morale e civile che tale banalizzazione retrospettiva del Ventennio ha arrecato alla memoria storica della Repubblica. Poiché appunto questa – almeno altrettanto che la vulgata antifascista denunciata da De Felice - è stata la vulgata anti-antifascista che gli italiani hanno sorbito per decenni attraverso le scritture pseudostoriografiche dei Montanelli, dei Mario Cervi, dei Roberto Gervaso. Né, sia chiaro, alcun medico ha ordinato loro la pozione: nessun levia

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tano politico o culturale ha imposto agli italiani di bersi tante fole su Mussolini dittatore riluttante e sul fascismo regime dal volto umano. Nel linguaggio farmaceutico di oggi, diremmo che si è trattato di un'automedicazione: un modo, condiviso da molti autori e da moltissimi lettori, di riconciliarsi con un passato da fascisti scoprendolo grottesco piuttosto che vergognoso, o patetico piuttosto che infame.

16. Strapaese. «In questa pletora di presidenti del Consiglio in pectore, buoni o mediocri professionisti della politica, manca il trascinatore, l'artista, quello capace di fare cose impensabili, quello capace di sbagliare in grande come tutti coloro che fanno e disfano in grande, di coltivare ambizioni smisurate, di avere una stima gigantesca di sé e insieme una sfolgorante ironia. Manca lui, [...] e con lui manca l'energia, la vitalità». «Quando [...] pensa di essere sulla scia dell'opinione della maggioranza degli italiani, [...], non lo ferma nessuno». «Di cose ne ha fatte di più di quante non gliene riconoscano i suoi detrattori, meno di capace di cantarne lui stesso, a squarciagola. Ma il futuro politico è sempre imprevedibile. So soltanto con assoluta certezza che, se realizzerà tutto questo (o parte di questo), lo si dovrà non al professionismo politico ma al suo quante sia

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senso pratico, al suo istinto personale, a una logica indomabile di strappi e compromessi, e perfino al suo evidente grano di follia, cose che in lui vengono prima del molto celebrato e molto maltrattato (anche dai celebranti) senso dello Stato».

Ho studiato abbastanza il Ventennio fascista per confidare di riconoscere a occhi chiusi l'autore di una pagina come questa: non è forse il Curzio Malaparte della «Conquista dello Stato», che fin dai tempi dello squadrismo aveva posto la propria penna talentuosa e velenosa al servizio del Mussolini capitano di ventura, nemesi di una storia d'Italia rimasta troppo a lungo impigliata tra le barbe bianche di lugubri politici nerovestiti e le schede elettorali di inutili ludi cartacei? Non sono forse inconfondibili il tono da Strapaese, il fastidio per la politique politicienne, la passione antiborghese e antifilistea? Non è forse tipico dell'atteggiamento di Malaparte verso Mussolini il vezzo stesso di lodare il duce attraverso i suoi difetti, perché i monumenti più riusciti sono quelli realistici, gli elogi più convincenti sono quelli mordaci? Peccato per me e per tutti noi – che la pagina non risalga agli anni venti del Novecento, ma all'anno di grazia 2003; che non sia dovuta alla penna di Curzio Malaparte, ma a quella di Giuliano Ferrara; che il soggetto del discorso non sia Benito Mussolini, ma Silvio Berlusconi. -

Nei dodici mesi intercorsi fra la pubblicazione di tale pagina e il momento in cui scrivo, è

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capitato al direttore del «Foglio» di mostrarsi disilluso intorno alle virtù eccezionali del leader carismatico, sino a dichiarare la fine del proprio amore politico per lui (non diversamente, il Malaparte del 1931 ostentò un improvviso quanto clamoroso zelo antimussoliniano nel libello Technique du coup d'état). Pur dando atto a Berlusconi di avere compiuto una «rivoluzione italiana», liberale e modernizzatrice, dirigista e antisistemica; pur riconoscendogli il merito di avere detronizzato tutta una nomenclatura partitica e giudiziaria, imprenditoriale e mediatica; pur benedicendolo per avere punito - con la sua sola presenza a palazzo Chigi – un'intellighenzia moralista e snobista, «incolta e derelitta», Ferrara ha preso a rimproverargli una sorta di ipnosi politica, un delirio narcisistico tale da sacrificare il nocciolo duro del suo disegno, cioè una riforma radicale delle istituzioni, del mercato del lavoro, della giustizia. Così, con toni da Cassandra il direttore del «Foglio» ha ammonito il presidente del Consiglio sul rischio di una catastrofica rotta personale e collettiva.

I furori antiberlusconiani di Ferrara meritano di essere trattati allo stesso modo in cui, all'inizio degli anni trenta, Carlo Levi poté trattare l'estemporaneo antimussolinismo di Malaparte: come niente più che un gioco di ruoli, dove chi non è riuscito a essere «il Fouché del suo piccolo Napoleone» si vendica (o finge di vendicarsi) atteggiandosi a frondista. Ma una

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semplice alzata di spalle rischia qui di mancare il segno. Poiché nella storia morale se non in quella politica, i Fouché sono peggio dei Bonaparte, e i Malaparte sono peggio dei Mussolini. Presto o tardi, dopo essere costati all'umanità un prezzo più o meno salato, i Bonaparte e i Mussolini passano, travolti dalle rovine dei mondi che hanno dapprima costruito e poi distrutto; mentre i Fouché e i Malaparte restano, per quanto feriti o screditati, galleggiando sull'oceano delle storie.

In un modo o nell'altro, anche Berlusconi passerà. E anzi, nella migliore delle ipotesi (per ricorrere a una di quelle metafore calcistiche che gli sono care) si rivelerà molto più facile oltreché immensamente meno doloroso - espellerlo dal campo della storia d'Italia di quanto non sia stato espellerne Mussolini: non occorreranno i fiumi di sangue di una guerra mondiale, basterà il cartellino rosso di una sconfitta elettorale. Invece, la maschera strapaesana di Ferrara continuerà a muoversi sulla nostra scena pubblica secondo le regole arcitaliane della commedia dell'arte: sarà quella del personaggio un po' gigione e un po' spione, un po' franco e un po' servile, un po' generoso e un po' intollerante, un po' genialoide e un po' furbastro, che fa comodo a tutti gli spettatori perché permette a tutti di rispecchiarsi e di riconoscersi, di compiacersi nel bene e di assolversi nel male.

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17. La rivincita dell'antipolitica. Il significato più edificante dell'operazione condotta nell'ultimo decennio dagli apostoli del verbo post-antifascista potrebbe essere riassunto in poche parole: impartire una lezione di relativismo storico e morale. Chi è senza peccato scagli la prima pietra; fascisti e antifascisti, comunisti ed ex comunisti, «utili idioti» e «compagni di strada», brigatisti rossi e terroristi neri, tutti hanno inciampato nelle trappole micidiali del paesaggio novecentesco.

Ma un relativismo a buon mercato può avere contribuito, in questi anni, all'impressionante successo del fenomeno Berlusconi. Beninteso, all'origine di tale successo stanno una varietà di dinamiche politiche e sociali, culturali e mediatiche, totalmente estranee all'uso pubblico della storia: una crisi irreversibile della forma-partito tradizionale, tanto più profonda nell'Italia ch'era stata della Dc e del Pci; un disagio, generalizzato in Occidente, per i limiti di efficienza della democrazia rappresentativa; il trionfo planetario di un'ideologia capitalistica incarnata, qui da noi, nella vulgata del Berlusconi «nato povero» e «diventato miliardario»; il controllo esercitato dal tycoon sui canali d'informazione più graditi ai suoi elettori potenziali. Fascismo e antifascismo, post-fascismo e postantifascismo non hanno nulla a che vedere con tutto questo.

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Senza dire che – statistiche alla mano - l'elettore medio di Forza Italia risulta nettamente meno colto dell'elettore medio dell'Ulivo: dunque, dobbiamo pensare, più indifferente alle disquisizioni storiografiche.

Nondimeno, esiterei ad escludere che il verbo post-antifascista si sia diffuso nell'aere italiano abbastanza per incidere sull'immagine stessa di un personaggio come Berlusconi. A forza di minimizzare la portata negativa di alcuni ingredienti essenziali del regime mussoliniano, quali la personalizzazione del rapporto tra il capo e le masse, il ricorso ai plebisciti come chiave di volta dell'investitura politica, il modellamento della propaganda sui fregolistici connotati del leader carismatico, si è forse riusciti a convincere larghi settori dell'opinione pubblica che esistono autoritarismi dal volto umano; e che questi possono rivelarsi tanto più necessari quando si tratti di disciplinare un popolo genuino ma bisbetico, operoso ma confusionario com'è notoriamente quello del Belpaese.

Soprattutto, si è riusciti a convincere milioni di italiani che la migliore politica è l'antipolitica. Abbasso le lotte per la rappresentanza e per la delega, i compromessi tra gruppi e partiti, i negoziati fra governo centrale e notabilati periferici; evviva l'appello agli elettori per un mandato pieno e diretto, l'enfasi sul carattere fiduciario del patto stretto dal leader con i cittadini, l'investimento populistico sulla fiaba dell'uomo

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che si è fatto da sé, evviva persino quel tanto o poco di pazzia che può fare di un capo valente un capo straordinario: altrettanti luoghi comuni - ci insegnano gli storici veri - della teoria e della prassi fasciste.

18. Una costituzione «sovietica»? Intendiamoci. Se le parole hanno un senso, se le ideologie sono definite da un quando e da un come oltreché da un chi e da un che cosa, se le dinamiche storiche hanno un loro ritmo e presentano una logica interna, allora conviene ribadire una volta di più che il fascismo è finito. L'Italia di Forza Italia non è un regime. E Berlusconi non è un nuovo Mussolini. Non lo è oggi, da capo del governo; non lo sarà domani, se il consenso popolare dovesse venirgli a mancare. Quantunque il suo più stretto collaboratore abbia evocato nel caso di una definitiva sconfitta elettorale – il grandguignolesco fantasma di piazzale Loreto, tutto lascia pensare che gli italiani potranno sbarazzarsi di Berlusconi senza colpo ferire: basterà andare a votare.

Ma allo storico non compete di esercitare, come su una sfera di cristallo, la propria capacità di prevedere il futuro; è sul passato ch'egli lavora, attraverso il filtro più o meno opaco del presente. Da questo punto di vista, gli sviluppi della vita pubblica italiana nel corso dell'ultimo de

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cennio sembrano attestare l'esistenza di un nesso tra revisionismo storiografico e revisionismo politico. Parafrasando i termini impiegati dal giuspubblicista Baldassarre nel suo saggio del 1986 sulla costruzione del paradigma antifascista, si può ben dire che la programmatica distruzione di quel paradigma è andata di pari passo con una critica sistematica della costituzione repubblicana. La stagione in cui è divenuto di moda recitare ad ogni messa i cinque comandamenti del verbo postantifascista coincide con quella in cui ci si è sentiti non soltanto in diritto, ma in dovere di estrarre la nostra carta costituzionale dall'arca in cui i padri fondatori l'avevano riposta, di rivoltarla in sotto e in su, e di concludere che interi titoli di essa risultano ormai inservibili.

Qui, occorre sgombrare il campo da ogni possibile equivoco. Porre democraticamente mano a una costituzione nella prospettiva di una sua revisione non significa ipso facto una rovina della democrazia. La storia delle costituzioni in Occidente dimostra che si possono fondare sistemi politici di notevole stabilità democratica sia limitandosi a emendare un testo originario (è il caso degli Stati Uniti d'America), sia mettendosi periodicamente all'opera per riscrivere la carta dalle fondamenta (è il caso della Francia): benché quest'ultimo scenario corrisponda, generalmente, a più o meno traumatici passaggi di regime. In ogni caso, non vi è motivo di affermare che una revisione della nostra carta costituzio

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nale debba tradursi di necessità in un ridimensionamento della sua valenza democratica. Piuttosto, vale la pena di domandarsi se la conclamata insensibilità ai valori dell'antifascismo propria della classe politica al governo nell'Italia di oggi non sia tale da mettere a rischio – nell'eventualità di un'effettiva revisione – lo spirito di un patto fondativo stretto sopra le ceneri dei caduti nella Resistenza.

Si ha un bel negare, riecheggiando Renzo De Felice, che l'antifascismo «sia un discrimine storicamente, politicamente e civilmente utile per stabilire che cos'è una autentica democrazia repubblicana, una democrazia liberaldemocratica»: come insiste nel suggerire il nostro presidente del Senato, in contraddizione stridente con reiterate precisazioni del presidente della Repubblica. In realtà, di là dai manuali di filosofia politica o di diritto costituzionale, esistono e operano nella storia, altrettanto corposamente che le esperienze vissute, i miti di fondazione e le leggende nere. Quanto ai miti di fondazione, nel caso italiano risulta del tutto evidente la differenza tra il forte radicamento nell'immaginario di una Repubblica «nata dalla Resistenza» e l'intrinseca debolezza di una Repubblica la quale - una volta sottratta al contesto più o meno mitologico della sua genesi – rischierebbe di passare per nata sotto un cavolo. Quanto alle leggende nere, è fin troppo nota la versione berlusconiana del mito delle ori

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gini, secondo cui quella redatta dai deputati dell'Assemblea costituente non sarebbe altro che una carta di «impronta sovietica».

In questa formula di Berlusconi, mi permetto di riconoscere qualcosa di più e di peggio che una semplice battuta riferita all'art. 41 della nostra costituzione, relativo alla libertà d'impresa: riconosco il nesso tra revisionismo storico e revisionismo politico. Che cosa può mai rappresentare una costituzione «sovietica» se non un ferro vecchio del Novecento più sanguinolento, da gettare al più presto nella discarica del passato? E che cosa meglio di un sillogismo facile quanto falso («I comunisti sono cattivi. La costituzione italiana è stata scritta da comunisti. La costituzione italiana è cattiva») potrà spianare la strada a una revisione profonda della nostra carta fondamentale? In fin dei conti, chi ci si salverà da Berlusconi «padre costituente»?

L'insidia appare tanto più grave in quanto una varietà di dinamiche storiche, politiche e culturali rende obiettivamente superati alcuni profili della costituzione italiana, non solo dal punto di vista dei principî ordinatori, ma anche da quello dei caratteri identitari. La cessione di sovranità degli stati nazionali a vantaggio dell'Unione europea, la nuova disciplina della guerra entro il contesto giuridico dell'ingerenza umanitaria, la centralità assoluta e irredimibile dell'economia di mercato rappresentano altrettan 86

ti dati di fatto rispetto ai quali l'appello a riformare la nostra legge fondamentale suona del tutto persuasivo. Senonché le costituzioni hanno questo di singolare, almeno allo sguardo degli storici: che il criterio della longevità - anziché penalizzarle – le premia, poiché il loro compito essenziale non è di inseguire i mutamenti, ma di garantire la stabilità. Da qui, un notevole paradosso per chi rifletta intorno all'attuale crisi dell'antifascismo: quella stessa condizione di senilità che minaccia d'estinzione la specie umana degli antifascisti illustra la persistente vitalità della nostra carta fondamentale in quanto costituzione antifascista.

19. Via del Plebiscito. Storico di mestiere, lascio agli specialisti del diritto il compito di giudicare come e quanto la carta fondamentale della Repubblica vada riformata in un senso o nell'altro. Mi limito a notare la tendenziale progressione del sistema politico italiano (come di altri sistemi occidentali) verso un rafforzamento dei poteri dell'esecutivo a discapito del legislativo, oltreché l'avvenuto svuotamento del ruolo dei nostri partiti quali luoghi di mediazione fra società e istituzioni. Per un insieme di buone e di cattive ragioni, due connotati distintivi della costruzione ciellenista ap

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paiono – nell'Italia di sessant'anni dopo – sostanzialmente introvabili: mancano all'appello sia l'intenzione di garantire sempre e comunque la sovranità del Parlamento, sia la determinazione a raccogliere la volontà generale dal basso piuttosto che a trasmetterla dall'alto.

Entrambe le scelte dei fondatori della Repubblica si configuravano come una risposta alla dura lezione del periodo fascista. Il primato riconosciuto al legislativo scongiurava qualsiasi rivincita di quel particolare genere di premierato, non contemplato affatto dallo Statuto albertino, che era stato prerogativa esclusiva del duce del fascismo; l'investimento sulla «repubblica dei partiti», mentre risarciva un'intera classe politica dell'emarginazione sofferta sotto la dittatura, corrispondeva al gusto di una democrazia partecipativa che i cittadini italiani non avevano mai assaporato sino in fondo. Ma - qui e ora – la storia delle costituzioni non interessa per risolvere l'una o l'altra questione d'accademia; fare storia dell'Assemblea costituente serve al futuro almeno altrettanto che al passato. Il problema è semplice: l'Italia del terzo millennio può rinunciare a quanto appreso in conseguenza di un lontano Ventennio?

Per quel che vale, la mia risposta è no. Inoculato a carissimo prezzo, il vaccino antifascista riesce tuttora indispensabile alla salute del nostro corpo politico. Perché il fascino della cosiddetta ingegneria costituzionale non cancella una realtà

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che gli storici conoscono bene, quand'anche fatichino a descriverla: quella per cui ogni comunità nazionale è diversa dall'altra, la Gran Bretagna dagli Stati Uniti, gli Stati Uniti dalla Francia, la Francia dall'Italia... Calendario alla mano, il volto di una democrazia moderna risulta riconoscibile a Londra da almeno tre secoli, a Washington almeno da due; a Parigi, da un secolo e mezzo, ma a Roma, da poco più di cinquant'anni. Se si adottano come parametri i tempi necessariamente lunghi del dio Crono, noi italiani siamo neonati della democrazia. È dunque permesso dubitare - con buona pace di Marcello Pera - che l'Italia disponga di una tradizione democratica così consolidata da crescere florida anche senza il vaccino antifascista.

E poi, al di là dei suoi tempi, una democrazia è definita dalle sue forme e dai suoi contenuti. Al limite, due sistemi democratici possono somigliarsi meno di quanto una democrazia possa somigliare a una dittatura. Per esempio, la dittatura di Mussolini ebbe tre caratteristiche pienamente compatibili con un'interpretazione della democrazia che sembra oggi la favorita ai vertici politici della Casa delle Libertà. Fu populistica, come si conveniva a un duce «figlio del fabbro» assurto al potere nell'età delle masse; fu razzista, come suggerito dalla logica biopolitica del colonialismo e dell'antisemitismo; fu plebiscitaria, secondo quanto insegnato a Mussolini dal Gabriele D'Annunzio di Fiu

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me. Non molto diversamente, è populistica la democrazia del nostro «presidente operaio»; è razzista la democrazia di un ministro che deplora l'assistenza sociale ai «bingo-bongo»; è plebiscitaria la democrazia del candidato premier che firma in tivù il suo «contratto con gli italiani».

Una nazione vive di un plebiscito quotidiano, sosteneva Ernest Renan durante i difficili esordi della Terza Repubblica francese. La scommessa politica di Silvio Berlusconi consiste nel far vivere l'Italia - giorno per giorno - di un voto referendario intorno alla sua specialissima persona. Se un merito va riconosciuto al presidente del Consiglio, è la trasparenza all'insegna della quale ha scelto l'indirizzo della sua residenza romana di palazzo Grazioli: via del Plebiscito.

20. Il selvaggio della Louisiana. Da un lato, il fenomeno Berlusconi è cosa troppo complessa per essere interamente riconducibile al tramonto dell'antifascismo. Dall'altro, il tramonto dell'antifascismo è cosa troppo grave per essere ridotta alle misure del fenomeno Berlusconi. In verità, un ciclo storico si è ormai concluso, così che le parole chiave del Novecento sono destinate a non bastare più; il sente annuncia prossimo un futuro di sfide pre

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geopolitiche e dilemmi identitari che le categorie dell'antifascismo non ci aiuteranno a capire, né i valori dell'antifascismo ci aiuteranno a superare.

Alla contorta sua maniera, Pasolini lo aveva intuito già trent'anni fa, quando aveva denunciato - con la scomparsa delle lucciole la scomparsa dei fascisti. In un giorno non lontano, fuori d'Italia e forse anche dentro il nemico avrà un altro nome e un altro volto. Probabilmente, quel nuovo “ismo” ancora da battezzare sarà una miscela di rigurgito patriottico e di anelito mistico, di religione del mercato e di ideologia dello scontro tra civiltà: sarà un “totalitarismo democratico” che pretenderà di far coincidere la globalizzazione economica con l'occidentalizzazione politica e culturale del pianeta, una guerra dopo l'altra, sempre più restringendo e privatizzando le libertà civili. Entro un simile scenario, e mentre la fragilità della democrazia appare evidente persino tra le mura del suo tempio americano, come non riconoscere che quanto noi italiani intendiamo per antifascismo minaccia di riuscire un patrimonio di cose non solo desuete, ma anche periferiche, marginali? l'antifascismo

Insomma, può ben darsi che giaccia oggi sul suo letto di morte: malato terminale di ritualità, di credibilità, di senilità, e addirittura di eccentricità. Ma può essere che valga la pena di impegnarsi a mantenerlo in vita ancora un po' – almeno finché non si sia trova

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to di meglio - senza meritare con questo una denuncia per accanimento terapeutico. E forse il tentativo è tanto più opportuno, o addirittura necessario nel contesto della vita politica italiana, dove la morte dell'antifascismo rischia di significare non già una rinascita, ma l'agonia della democrazia.

Il nostro è l'unico paese del mondo occidentale in cui l'odierna incarnazione del cittadino - l'homo videns, il tele-elettore – sia soggetta all'impero comunicativo di un premier che non soltanto controlla i canali dell'informazione e dell'intrattenimento pubblici, ma possiede quelli dell'informazione e dell'intrattenimento privati. Singolare primato, che uno studioso di storia fatica a non confrontare con quello acquisito dall'Italia nella seconda metà degli anni venti: quando un colpo di genio di Mussolini – la creazione dell'Istituto Luce - permise al duce del fascismo, con netto anticipo su qualsiasi altra forma moderna di organizzazione del rapporto fra politica e propaganda, di disporre a proprio uso e consumo di una formidabile «fabbrica del consenso».

L'eccezionalità della situazione italiana entro il paesaggio delle democrazie occidentali non si riduce peraltro alla sfera dei massmedia: investe frontalmente il problema del rapporto - cruciale nella vicenda dei fascismi – fra legittimità e legalità. Quante volte lo abbiamo letto nei libri di storia? Sia Mussolini nell'Italia del 1922, sia

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Hitler nella Germania del 1933 conquistarono il potere senza bisogno di un colpo di stato, rispettando le modalità previste dallo Statuto albertino e dalla costituzione di Weimar; formalmente il loro avvento politico fu legale, anche se fu reso sostanzialmente illegittimo dalla maniera spregiudicata o addirittura criminosa con cui entrambi gestirono l'appuntamento elettorale decisivo. Inutile dire che per quanto attiene sia alle circostanze della sua «discesa in campo», sia al successivo rispetto delle regole del gioco democratico, il caso di Silvio Berlusconi non ha nulla a che fare con quello del duce o del Führer. Tuttavia, si tratta pur sempre di un fenomeno straordinario nella storia delle grandi democrazie contemporanee.

Giunto al governo, nel 1994, in occasione di un cataclismatico passaggio di regime (la transizione dalla cosiddetta Prima Repubblica alla Seconda) oltreché sotto la spinta di un cogente imperativo personale, Berlusconi dovette presto scontrarsi con uno « spirito delle leggi» che gli era totalmente estraneo. Sordo ma feroce, il conflitto del neo-presidente del Consiglio con il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro - un ex deputato dell'Assemblea costituente dal pedigree così integralmente antifascista che Sandro Pertini in persona ebbe a suggerirlo per il Quirinale - rappresentò il riflesso della sua concezione personalistica (per non dire “sfascista”) delle istituzioni repubblicane: qualcosa di

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profondamente diverso da una semplice adesione alla logica anglosassone dello spoils system. Da subito, Berlusconi cercò di elevare il proprio avvocato di fiducia, Cesare Previti, al rango di ministro della Giustizia: prima mossa di una dinamica che lo avrebbe portato, dopo il ritorno a palazzo Chigi nel 2001, a presidiare con altri suoi avvocati le commissioni Giustizia della Camera e del Senato, mentre il responsabile di Forza Italia per le questioni della giustizia ascendeva al soglio di palazzo Madama. Fin dall'inizio, Berlusconi fece della lotta contro l'attuale assetto della magistratura il nocciolo duro di una battaglia inestricabilmente politica e legale.

La costituzione della Repubblica si è finora posta come un limite alla realizzazione di tale disegno pubblico e privato: non foss'altro, perché l'esperienza fascista e prefascista aveva convinto i deputati della Costituente a limitare al massimo, o addirittura ad azzerare i poteri dell'esecutivo nei confronti della magistratura. Anche per questo, durante l'esperienza di governo del centro-sinistra – quando ancora non poteva essere certo che sarebbe rientrato a palazzo Chigi da vincitore - Berlusconi colse al volo l'occasione offertagli da D'Alema in sede di Commissione bicamerale per porre all'ordine del giorno la questione di una radicale riforma della giustizia in Italia: riforma da lui pensata come tappa intermedia verso una revisione del dettato costituzionale in materia di ordinamento giudiziario.

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Oggi, le bordate del premier contro l'« impronta sovietica» della costituzione repubblicana rappresentano l'esito logicamente coerente e ideologicamente naturale di un'offensiva revisionistica scatenata da almeno dieci anni (o da venti, laddove si voglia considerare la ratio della sua alleanza di ferro con Bettino Craxi).

La legittimità politica di Berlusconi aumenterebbe nel momento in cui gli riuscisse di riscrivere titoli interi della nostra carta fondamentale, a partire da quelli sull'indipendenza della magistratura, il primato del Parlamento, le prerogative del presidente della Repubblica, lo statuto della Consulta: cioè sui poteri di garanzia. Per un paradosso soltanto apparente, se la costituzione repubblicana dovesse perdere i suoi caratteri più genuinamente antifascisti, l'anomalia nel diritto pubblico rappresentata dal «fattore B.» cesserebbe come per incanto di essere tale. Salvo rinnovare - almeno in chi ha letto l'Esprit des lois di Montesquieu - la memoria del folgorante apologo sui «selvaggi della Louisiana»: i quali, per cogliere dall'albero il frutto del dispotismo, non esitavano ad abbatterne il tronco.

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Ringraziamenti. Un abbozzo di riflessione intorno alla materia di questo saggio è apparso – sotto in titolo Il Verbo post-antifascista – negli atti di un ciclo di conferenze organizzate dal comune di Brescia nel corso del 2003: Revisioni e revisionismi. Storie e dibattiti sulla modernità in Italia, a cura di Inge Botteri, Grafo, Brescia 2004. Oltre alla curatrice del volume, tengo a ringraziare per quell'invito il sindaco di Brescia, Paolo Corsini.

All’Einaudi, Walter Barberis e Ernesto Franco hanno (una volta di più) riposto fiducia in quanto potevo fare, guidandomi poi nel percorso di scrittura. Sono loro estremamente grato, come pure sono grato agli amici che dentro e fuori la casa editrice hanno avuto la pazienza di leggere il dattiloscritto in successive stesure, discutendolo con me parola per parola: Irene Babboni, Alberto Melloni, Gabriele Pedullà.

Paolo Viola è stato come da sempre – il mio sparring partner intellettuale. Qui, mi ha aiutato moltissimo a guardare al di sotto delle cose, rendendo le mie pagine (spero) meno furiose e più profonde. Anche Miguel Gotor ha condiviso la mia riflessione passo passo, sostenendola la sicurezza della sua andatura critica e orientandola con la severità stessa dei suoi giudizi: la mia riconoscenza verso di lui non può essere contenuta in quattro righe. Con più che mai in questo caso, vale la precisazione che la responsabilità di quanto scritto è comunque e soltanto mia. 96

Nota bibliografica Qui di seguito, una bibliografia propriamente essenziale: soltanto vengono indicati i testi che ho tenuto - per così dire - aperti sulla scrivania durante la stesura del saggio.

Sui trascorsi di Almirante come propagandista della «Difesa della razza» e della Repubblica di Salò, G. Fabre, L'elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Zamorani, Torino 1998; G. Mughini, A via della Mercede c'era un razzista, Rizzoli, Milano 1991. La citazione di De Felice è tratta da E. Gentile, Renzo De Felice. Lo storico e il personaggio, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 13. Sul nesso tra antifascismo e comunismo, A. De Bernardi e P. Ferrari (a cura di), Antifascismo e identità europea, Carocci, Roma 2004. Il canto del cigno comunista è mirabilmente intonato in uno scambio di lettere fra Vittorio Foa, Miriam Mafai e Alfredo Reichlin: Il silenzio dei comunisti, Einaudi, Torino 2002. Trasparente poi l'allusione a Giorgio Amendola: Una scelta di vita, Rizzoli, Milano 1976.

1. Il post-antifascismo. Sui decaloghi, C. Galeotti, Mussolini ha sempre ragione. I decaloghi del fascismo, Garzanti, Milano 2000. Per i processi, A. Dal Pont e S. Carolini (a cura di), L'Italia dissidente e antifascista. Le Ordinanze, le Sentenze istruttorie e le Sentenze in Camera di consiglio emesse dal Tribunale speciale fascista contro gli imputati di antifascismo dall'anno 1927 al 1943, La Pietra, Milano 1980, 3 voll. Sulla cultura del «post-», E. Berselli, Post-italiani, Mondadori, Milano

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2003. La doppia intervista a De Felice: G. Ferrara, Le norme contro il fascismo? Sono grottesche, aboliamole. A colloquio con Renzo De Felice, lo storico del ventennio nero, in «Corriere della Sera», 27 dicembre 1987; Id., De Felice: la Costituzione non è certo il Colosseo..., ivi, 8 gennaio 1988. Il saggio di A. Baldassarre è in «Problemi del socialismo», 1986, n. 7. Il manifesto più compiuto sull’inattualità dell'antifascismo secondo un ex comunista è quello di Massimo De Angelis: Post. Confessioni di un ex comunista, Guerini, Milano 2003.

2. La scomparsa dei fascisti. Su neofascismo e post-fascismo, P. Ignazi, Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano, il Mulino, Bologna 1989 e Id., Postfascisti? Dal Movimento sociale italiano ad Alleanza Nazionale, il Mulino, Bologna 1994. Poi: N. Gallerano (a cura di), L'uso pubblico della storia, Angeli, Milano 1995. Per l'ipotesi sul centenario di Mussolini, T. Mason, Il fascismo «made in Italy». La mostra sull'economia italiana fra le due guerre, in «Italia contemporanea», 1985, n. 158. Sulla biopolitica: G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1998. Per Pasolini, il fascismo e Moro: S. Luzzatto, Il corpo politico, in Storia d'Italia, Annali 20, L'immagine fotografica 1945-2000, a cura di U. Lucas, Einaudi, Torino 2004; Id., Pasolini, Moro e il fascino del fascismo, in R. Alonge (a cura di), Il sogno di cambiare la vita. Modelli sociali, educativi e artistici dal cuore del '68, Carocci, Roma 2004. Per le citazioni pasoliniane: P. P. Pasolini, Fascista (1974), in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, pp. 51819. Sui nessi neofascismo-stragismo, F. Ferraresi, Minacce alla democrazia. La Destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, Feltrinelli, Milano 1995. Per il carattere decisivo del quinquennio 1975-80, spunti nella conversazione fra Vittorio Foa e Carlo Ginzburg, Un dialogo, Feltrinelli, Milano 2003. Per la battuta di Berlusconi sul confino di polizia come vacanza, G. Luzi, Berlusconi choc su Mussolini, in «la Repubblica», 12 settembre 2003.

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3. Il calendario conteso. Per un approccio al tema, M. Ridolfi, Le feste nazionali, il Mulino, Bologna 2003. Poi, P. Nora (a cura di), Les lieux de mémoire, Gallimard, Paris 1984-93, 6 voll.; M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria, Laterza, Roma-Bari 1996-97, 3 voll. Sulla logica e sui limiti dell'investimento patriottico del presidente Ciampi, G. Nevola, From the Republic of Parties » to a «Fatherland for Italians » the Italian Political System in Search of a New Principle of Legitimation, in «Journal of Modern Italian Studies», 8/2003. Sui soldati di Mussolini, M. Knox, Alleati di Hitler. Le regie forze armate, il regime fascista e la guerra del 1940-1943, Garzanti, Milano 2002.

4. Elogio della memoria divisa. Il memoriale di R. Vivarelli: La fine di una stagione. Memoria 1943-1945, il Mulino, Bologna 2000. Sulle debite differenze fra storia e memoria, A. Tarpino, Memoria e crisi della società del ricordo, in «Memoria e ricerca», 10/2002; W. Barberis, Il bisogno di patria, Einaudi, Torino 2004. Per le categorie platoniche, Y. H. Yerushalmi, Riflessioni sull'oblio, in aa. Vv., Usi dell'oblio, Pratiche, Parma 1988. La «smemoratezza patteggiata» è formulazione di Barbara Spinelli, Il sonno della memoria. L'Europa dei totalitarismi, Mondadori, Milano 2001, p. 157. Intorno alla comunione nella dimenticanza, A. Cavaglion, Sui vuoti di memoria, in Q. Antonelli e A. Iuso (a cura di), Vite di carta, l'ancora del Mediterraneo, Napoli 2000. Per Pende razzista, G. Israel e P. Nastasi, Scienza e razza nell'Italia fascista, il Mulino, Bologna 1998; R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze 1999. Sul fascismo degli ebrei italiani, A. Cavaglion, Ebrei senza saperlo, l'ancora del Mediterraneo, Napoli 2002. Per le memorie divise, G. Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997. Infine, ovviamente, Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986.

5. Critica della storia «bipartisan». Il best-seller di G. Pansa: Il sangue dei vinti, Sperling & Kupfer, Milano 2003. Il contributo di riflessione di A.

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Mayer: The Furies. Violence and Terror in the French and Russian Revolutions, Princeton University Press, Princeton 2000. Sull'ambiguità d'impiego dei diritti umani, D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000.

6. Carte d'identità. Sulla deprecata anomalia italiana, E. Galli della Loggia, La perpetuazione del fascismo e della sua minaccia come elemento strutturale della lotta politica nell'Italia repubblicana, in L. Di Nucci e E. Galli della Loggia (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell'Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 2003. Per la condivisione di una patria: S. Lanaro, Patria. Circumnavigazione di un'idea controversa, Marsilio, Venezia 1996. Sulla fenomenologia delle guerre civili: G. Ranzato (a cura di), Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Bollati Boringhieri, Torino 1994. La citazione di Douglass è tratta da A. Testi, Stelle e strisce. Storia di una bandiera, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 16. Poi: E. Renan, Che cos'è una nazione? e altri saggi, Donzelli, Roma 1993. Le memorie simmetriche e compatibili sono vantate da Michele Salvati: Spagna e Italia: un confronto, in introduzione a V. PérezDíaz, La lezione spagnola Società civile, politica e legalità, il Mulino, Bologna 2003. L'ultima citazione riprende uno spunto di Daniele Del Giudice: Israele e Palestina: la soglia del «non rinunciabile», in «Italianieuropei», 2004, n. 2.

7. Un terremoto di coscienza. Le citazioni di Marcello Pera sull'inutilità dell'antifascismo sono tratte dal saggio del direttore del «Secolo d'Italia», Gennaro Malgieri, La nazione condivisa, in «Italianieuropei», 2004, n. 1. Segue l'accenno a due opere già classiche: É. J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995; F. Furet, Il passato di un'illusione. L'idea comunista nel ventesimo secolo, Mondadori, Milano 1995.

8. La diseguaglianza nella vita. Per il discorso lapidario di Piero Calamandrei: Uomini e città della Resistenza. Disc Bari 1955. Poi: D. Cofrancesco, Sul gramsciazionismo e di scritti e epigrafi, Laterza,

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torni, Marco editore, Cosenza 2001. Sui limiti del martirologio partigiano: G. Schwarz, La morte della patria: l’Italia e i difficili lutti della seconda guerra mondiale, in «Quaderni storici», agosto 2003, n. 113.

9. La monumentalizzazione delle vittime. Le citazioni fra virgolette si riferiscono, nell'ordine, ai titoli di L. Longo, Un popolo alla macchia, Mondadori, Milano 1947; A. Bravo e A. M. Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne, 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995; T. Baris, Tra due fuochi. Esperienza e memoria della guerra lungo la linea Gustav, Laterza, Roma-Bari 2003. Per l'atlante delle stragi, si veda il sito www.stm.unipi.it/stragi, curato da P. Pezzino. La definizione del Novecento «penitenziale» è tratta da G. Santomassimo, Antifascismo e dintorni, manifestolibri, Roma 2004, p. 7. Sulle leggi antiebraiche del 1938, E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, RomaBari 2004. Per lo spadroneggiare della memoria vittimistica, C. Maier, Un eccesso di memoria? Riflessioni sulla storia, la malinconia e la negazione, in «Parolechiave», 9/1995.

10. Lezioni di storia contemporanea. Le ricerche evocate sono quelle di M. Canali, Il delitto Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo Mussolini, il Mulino, Bologna 1997; G. De Luna, Donne in oggetto. L'antifascismo nella società italiana, 1922-1939, Bollati Boringhieri, Torino 1995, e M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia segreta fascista, Bollati Boringhieri, Torino 1999; N. Labanca, Oltremare. Storia dell'espansione coloniale italiana, il Mulino, Bologna 2002; D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche d'occupazione dell'Italia fascista in Europa, 1940-1943, Bollati Boringhieri, Torino 2003; C. S. Capogreco, I campi del duce. L'internamento civile nell'Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino 2004; A. Portelli, è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma 1999; D. Biocca e M. Canali , L'informatore: Silone, i comunisti e la polizia, Luni, Mila-Trento 2000.

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11. Sulla senilità. La lettera di Bobbio del 1935 è ripubblicata in N. Bobbio, Autobiografia, a cura di A. Papuzzi, Laterza, RomaBari 1997 (le citazioni a p. 30). Sulle origini controriformistiche del servilismo intellettuale, G. Benzoni, Gli affanni della cultura. Intellettuali e potere nell'Italia della Controriforma e barocca, Feltrinelli, Milano 1978. Per il giuramento del 1931, H. Goetz, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, La Nuova Italia, Firenze 2000; G. Boatti, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Einaudi, Torino 2001. Poi: N. Bobbio, De senectute e altri scritti autobiografici, a cura di P. Polito, Einaudi, Torino 1996 (la citazione a p. 8). Il frammento di Quinet è ripreso da S. Luzzatto, Giovani ribelli e rivoluzionari (1789-1917), in G. Levi e J.-C. Schmitt (a cura di), Storia dei giovani, vol. II, L'età contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 283; la frase di Sand da J.-P. Gutton, La naissance du vieillard. Essai sur l'histoire des rapports entre les vieillards et la société en France, Aubier, Paris 1988, p. 182. Gli attacchi contro i senatori a vita sono riportati in Bobbio, De senectute cit., p. 19. Il comunicato ufficiale della segreteria del Psi è citato in S. Asprea, Craxi addio, Lega dei socialisti, Livorno 1984, p. 31 (il corsivo è mio).

12. Qualunquismo di ritorno e tregua civile. Per un approccio al tema, A. Lepre, L'anticomunismo e l'antifascismo in Italia, il Mulino, Bologna 1997. Poi, cenni a R. Liucci, La tentazione della «casa in collina». Il disimpegno degli intellettuali nella guerra civile italiana, Unicopli, Milano 1999; S. Setta, L'Uomo Qualunque, 1944-1948, Laterza, Roma-Bari 1975. Sul «sommerso della Repubblica», il libro eponimo di F. M. Biscione, Il sommerso della Repubblica. La democrazia italiana e la crisi dell'antifascismo, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Sulla figura storica dell'ex comunista, restano ineguagliate le pagine di Isaac Deutscher, Profilo dell' ex comunista (1950), in A. Saitta, Storia e miti del”900, Laterza, Bari 1960. La citazione di Berlusconi sulla guerra civile è tratta da A. Cazzullo, Il caso Sofri. Dalla condanna alla «tregua civile», Mondadori, Milano

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2004, p. 129. Sul delitto Moro come presunto apogeo di una guerra italo-italiana, G. Fasanella, C. Sestieri e G. Pellegrino, Segreto di stato. La verità da Gladio al caso Moro, Einaudi, Torino 2000. Per l'intransigenza antifascista di Berlinguer nei cinquantacinque giorni, le relative parti di Caro Berlinguer. Note e appunti riservati di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer, 1969-1984, Einaudi, Torino 2003. La proposta della «tregua civile» è esplicitata in A. Cazzullo, L'occasione di una tregua civile dopo la lunga guerra, in «Corriere della Sera», 2 aprile 2004.

13. Italiane. L'opera in questione è quella di E. Roccella e L. Scaraffia (a cura di), Italiane, Dipartimento per l'informazione e l'editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 2004, 3 voll. Citazioni da P. Buttafuoco, Rachele Mussolini (18901979), ibid., vol. II, pp. 117-19; P. Bianco, Tina Anselmi (1927), ibid., vol. III, pp. 15-16; S. Prestigiacomo, Presentazione, ibid., vol. I, p. iv. La domanda su Genoveffa Cocconi è ripresa dalla lettera aperta che il Coordinamento femminile dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia (Anpi) ha inviato al ministro Prestigiacomo il 18 marzo 2004.

14 I miti della Resistenza. La citazione su Cefalonia si legge in R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1953, p. 117. Per la banda partigiana come micro-democrazia diretta, G. Quazza, Resistenza e storia d'Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Feltrinelli , Milano 1976, p. 241. Sul comunismo come punto non di partenza ma d'arrivo dell'esperienza partigiana, M. Calegari, Comunisti e partigiani. Genova 19421945, Selene, Milano 2001. Sull'antifascismo popolare, Santomassimo, Antifascismo e dintorni cit. La frase di Amendola è tratta da Una scelta di vita cit., p. 13. Per la banda come luogo d'apprendistato, imprescindibile M. Calegari, La sega di Hitler, Selene, Milano 2004. Poi: S. Peli, La Resistenza difficile, Angeli, Milano 1999; Id., La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004 (la citazione a p. 240); C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991.

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15. Un Ventennio senza fascismo. La formula sulla «de-fascistizzazione del fascismo» è di Emilio Gentile, intervistato da C. Valentini, Ma che Storia è questa, in «L'Espresso», 29 gennaio 2004, p. 83. Sul carattere totalitario del fascismo italiano, fondamentali i vari studi dello stesso Gentile, in particolare La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1995; si vedano anche molte delle seicentosessanta voci contenute in V. de Grazia e S. Luzzatto (a cura di), Dizionario del fascismo, Einaudi, Torino 2002-2003, 2 voll. Per il sodalizio LonganesiAnsaldoMontanelli: S. Luzzatto, Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, Torino, Einaudi 1998; R. Liucci, L'Italia borghese di Longanesi. Giornalismo politica e costume negli anni '50, Marsilio, Venezia 2002.

16. Strapaese. Le prime citazioni sono tratte da G. Ferrara, Vi spiego io perché il Cav. ha vinto, in «La Stampa», 23 giugno 2003. Le successive da G. Ferrara, La fine del potere carismatico, in «Il Foglio», 2 aprile 2004, e Id., Gentile presidente, ivi, 28 maggio 2004. Poi: C. Levi, Malaparte e Bonaparte, ossia l'Italia letteraria (1932), ora Id., Scritti politici, a cura di D. Bidussa, Einaudi, Torino 2001, p. 64.

17. La rivincita dell'antipolitica. Per le statistiche sull'elettorato di Forza Italia, I. Diamanti, Bianco, rosso, verde e... azzurro. Mappe e colori dell'Italia politica, il Mulino, Bologna 2003. Sul regime fascista come trionfo dell'antipolitica, S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma 2000.

18. Una costituzione «sovietica»? Sulla revisione costituzionale, S. Bartole, Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana, il Mulino, Bologna 2004. Per la citazione di De Felice, ancora Gentile, Renzo De Felice cit., p. 13. Poi: G. Luzi, «Un'impronta sovietica nella nostra Costituzione», in «la Repubblica», 13 aprile 2003. Per i pro e i contro di una profon

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da revisione della costituzione italiana, M. Cammelli, Le riforme costituzionali, «mito» necessario, in «il Mulino», gennaio febbraio 2004; V. Onida, Il «mito» delle riforme costituzionali, ivi.

19. Via del Plebiscito. Sulla democrazia partecipativa post-bellica, P. Scoppola, La repubblica dei partiti . Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), il Mulino, Bologna 1991. Sui vaccini anti-berlusconiani, P. Sylos Labini, Berlusconi e gli anticorpi. Diario di un cittadino indignato, Laterza, Roma-Bari 2003. Per la battuta di Umberto Bossi sui «bingo-bongo», G. Passalacqua, Bossi spara su An e immigrati, in «la Repubblica», 5 dicembre 2003.

20. Il selvaggio della Louisiana. Per una fenomenologia del moderno tele-elettore, G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari 1999. Sull'invenzione mussoliniana del Luce: P. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e massmedia, Laterza, Roma-Bari 1975; S. Luzzatto, L'immagine del duce. Mussolini nelle fotografie dell'Istituto Luce, Editori Riuniti, Roma 2001. Sul rapporto tra legalità e legittimità nei fascismi, R. O. Paxton, The Anatomy of Fascism, Knopf, New York 2004. Per la centralità della questione giudiziaria nell'esperienza di governo di Berlusconi, F. Cordero, Le strane regole del signor B., Garzanti, Milano 2003. Sulla tutela del potere giudiziario garantita dalla Costituente, C. Guarnieri, Giustizia e politica. I nodi della Seconda Repubblica, il Mulino, Bologna 2003. Sulla Bicamerale, G. Sartori, Mala tempora, Laterza, Roma-Bari 2004. Per la minaccia ai poteri di garanzia: V. Onida, La Costituzione, il Mulino, Bologna 2004. Il «fattore B.» in Cammelli, Le riforme costituzionali cit., p. 37.

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