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Italian Pages 131 [144] Year 2014
Silvia Bruti
La cortesia Aspetti culturali e problemi traduttivi
Bruti, Silvia La cortesia : aspetti culturali e problemi traduttivi / Silvia Bruti. - Pisa : Pisa university press, 2013. - (Didattica e ricerca. Saggi e studi) 418,02 (22.) 1. Cortesia - Linguaggio - Traduzione CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa
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Indice
Introduzione
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1. La
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cortesia: aspetti e problemi in prospettiva interculturale e traduttiva
1. Introduzione
5
2. Gli studi di riferimento sulla cortesia
6
2.1. Le critiche al modello pragmalinguistico: le teorie non-anglocentriche
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3. Il socio-pragmatismo degli anni Ottanta e Novanta
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4. Gli sviluppi recenti
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5. Gli studi cross-culturali e la scortesia
16
6. Tradurre la (s)cortesia
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6.1. Tradurre la (s)cortesia nel testo audiovisivo 2. I
complimenti: una sorta di “regalo verbale”
26 31
1. Introduzione
31
2. I complimenti
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2.1. La ricerca variazionista
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2.2. Per una tipologia illocutoria
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2.3. I parametri di variazione dei complimenti
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2.3.1. Gli argomenti
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2.3.2. Il sesso, l’età e lo status sociale dei parlanti
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2.3.3. Modelli lessico-grammaticali ricorrenti
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2.3.4. Le risposte
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2.4. Per un’analisi dei complimenti e della loro traduzione 2.4.1. I complimenti in un corpus di dialogo filmico
56 65
2.4.1.1. I complimenti espliciti e la loro traduzione
67
2.4.1.2. I complimenti impliciti e la loro traduzione
69
2.4.1.3. I complimenti “falsi” e la loro traduzione
70
2.5. Conclusioni
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3. Gli
insulti: apertamente minacciosi o “segretamente” solidali?
75
1. Introduzione
75
2. Gli insulti
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2.1. Per una tipologia degli insulti
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2.2. Gli insulti in un corpus di dialogo filmico
80
2.2.1. Gli insulti espliciti e la loro traduzione 2.2.1.1. Gli insulti razziali e la loro traduzione
81 83
2.2.2. Gli insulti impliciti e la loro traduzione
86
2.2.3. Il banter e la sua traduzione
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2.3. Conclusioni
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4. L’allocuzione
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1. Introduzione
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2. Alcune considerazioni sull’allocuzione in inglese e in italiano
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3. Tradurre gli allocutivi dall’inglese all’italiano
96
3.1. L’allocuzione nella versione filmica di Sense and Sensibility (1995) 3.2. L’allocuzione in due film moderni: In Her Shoes e Philadelphia 4. Conclusioni 5. Considerazioni
conclusive
Riferimenti Bibliografici
97 104 109
111 115
Ringraziamenti
Gli studi inclusi in questo volume sono il frutto di ricerche svolte nel tempo, nel corso degli anni di docenza a Pavia e a Pisa, da sola o in collaborazione, di discussioni con colleghi italiani e stranieri in vari congressi, di riflessioni scaturite nei corsi di linguistica inglese e di traduzione dall’inglese all’italiano. Sono riconoscente a colleghi e studenti di questo scambio, perché il dialogo e il confronto stimolano lo spirito critico e la curiosità, due motori indispensabili nella ricerca. Un grazie particolare alle colleghe e amiche con le quali ho condiviso più da vicino la ricerca affine alle tematiche di questo volume, con lavori a quattro o più mani, perché il lavoro di squadra è utile e piacevole: Veronica Bonsignori, Elena Di Giovanni, Silvia Masi, Maria Pavesi, Elisa Perego, Serenella Zanotti. Spesso il loro apporto anche alla mia ricerca personale è stato particolarmente importante e significativo. La mia gratitudine – insieme al mio affetto – va a Lavinia Merlini, alla quale devo la mia formazione e la passione per la linguistica inglese; a Marcella Bertucelli, con la quale ho discusso fin dai tempi della laurea all things linguistic; a Susan George, dalla quale ho imparato molto sulla didattica; alle amiche e agli amici di Pisa, con i quali ho la fortuna di condividere molto oltre al lavoro. Un pensiero, infine, a tutta la mia famiglia, alla quale ho sottratto tempo per dedicarmi allo studio, e a Tommaso, che da subito ha imparato a dividermi con i libri.
INTRODUZIONE
Questo volume affronta lo studio e l’analisi della cortesia in duplice prospettiva, interculturale e traduttiva. La tematica della cortesia, al centro della ricerca pragmatica fin dagli albori della disciplina, è stata estesa nel tempo a tutte le lingue del mondo, a diverse situazioni e modalità di comunicazione (per esempio i nuovi media e tutte le forme di comunicazione mediate dal computer o dal telefono). Il termine “cortesia” sottende un ampio repertorio di strategie e convenzioni comportamentali adottate da una comunità linguistica per mantenere l’armonia ed evitare la conflittualità aperta nell’interazione. Essendo un fenomeno socio-pragmatico, essa è regolata da fattori quali ruolo e status degli interlocutori, rapporti di potere e solidarietà, vicinanza o distanza emotiva, confidenza, coinvolgimento, fattori che determinano le scelte linguistiche, ritagliate opportunamente rispetto al contesto, al registro, al mezzo e al canale di comunicazione. Come il lungo dibattito teorico ha mostrato (di cui si dà conto al capitolo 1), la cortesia valica i confini spaziali e temporali in quanto concetto comune a tutte le epoche e a tutte le società, benché declinata in modi diversi, mirati tuttavia al perseguimento dello stesso obiettivo di evitare la conflittualità aperta. In altre parole, un’idea universale che risponde a bisogni e istinti comuni a tutta l’umanità, ma attualizzata in maniera specifica e peculiare in ogni singola comunità linguistica. Per questo, società vicine, che hanno condiviso origini e storia, possono manifestare necessità diverse e regolare i comportamenti verbali in base a norme divergenti. Da qui l’interesse per l’indagine sulla cortesia in inglese e in italiano. La prima lingua, oggetto della mia ricerca da sempre, è protagonista della scena mondiale come strumento principe della comunicazione, anche se, paradossalmente proprio per questo, è ben lungi dall’essere un oggetto uniforme e invariabile. Gli studi recenti sull’inglese concordemente rilevano la natura proteiforme di questa lingua, manipolata e modificata dalle interazioni tra parlanti che la adottano
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La cortesia. Aspetti culturali e problemi traduttivi
come lingua madre agli estremi del planisfero, ma anche da parlanti che la usano come seconda lingua o lingua straniera, e come lingua franca planetaria. L’italiano, benché geneticamente vicino all’inglese in quanto lingua indoeuropea di famiglia “sorella”, quella romanza, ha avuto una sorte molto diversa quanto a diffusione e numero di parlanti. Le culture di riferimento, tuttavia, non possono dirsi completamente divaricate, o non in massimo grado, perché sia la Gran Bretagna che l’Italia sono paesi caratterizzati da una forte matrice occidentale, sotto l’egida degli Stati Uniti. Nonostante questo, però, nella pratica di comunicazione, intesa qui in senso lato – scritta, orale, di mezzo diverso – emergono specificità e anomalie, talora marginali, talora più gravi, tanto da creare veri e propri intoppi, se non fraintendimenti. Questa discrasia si mostra in particolare relativamente ad alcuni fenomeni linguistici, in parte perché da ascriversi a differenze sistemiche tra le lingue, in parte perché, per ragioni culturali e sociali, i codici di comportamento si sono orientati e cristallizzati in modo diverso. Per questo motivo si è scelto l’ambito traduttivo, che pone la mediazione linguistica e culturale al centro della riflessione, per approfondire quest’area dai confini tutt’altro che netti. Il testo audiovisivo si presta perfettamente allo scopo per la sua stessa natura di testo pluricodice nel quale la rappresentazione di aspetti sociopragmatici e pragma-linguistici riveste un’importanza fondamentale. Qui le dinamiche di interazione sono riproposte in modo verosimile e i significati pragmatici, e la loro traduzione, svolgono un ruolo cardine nella trasmissione del messaggio comunicativo e dei valori culturali. Tra i fenomeni nei quali inglese e italiano mostrano evidenti differenze sistemiche si colloca il sistema dell’allocuzione, oggetto delle riflessione contenute nel capitolo 4. La scelta delle modalità dell’allocuzione nel passaggio dall’inglese all’italiano è notoriamente indicata come una difficoltà traduttiva legata alla mancanza di corrispondenza tra i due sistemi linguistici, poiché la lingua inglese moderna ha un unico pronome (you), mentre l’italiano ne ha tre (“tu”, “lei”, “voi”). La lacuna è colmata dall’inglese per mezzo di strategie lessicali, cioè affiancando al pronome anodino you espressioni che precisino di volta in volta il grado di potere e di solidarietà tra gli interlocutori. In italiano, al contrario, la presenza di un vocativo a specificare i rapporti tra parlanti non è strettamente necessaria. Si capisce perciò come nel passaggio dall’una all’altra lingua sia
Introduzione
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fondamentale non solo trovare una corrispondenza locale tra elementi del testo, ma anche ricreare un’analoga architettura di valori sociali. Nel caso degli atti linguistici, invece, in questo caso i complimenti, trattati al capitolo 2, e gli insulti al capitolo 3, non si rilevano differenze sistemiche tra le due lingue, ma diverse preferenze culturali: potenzialmente complimenti o insulti sono perfettamente esprimibili in entrambe le lingue o parafrasabili da una lingua all’altra. Ciò che importa è, tuttavia, stabilire cosa è appropriato nella lingua e nella cultura di arrivo. Su queste valutazioni, nel campo degli audiovisivi, soprattutto nel caso degli insulti, si innestano considerazioni di altra natura, cioè le scelte imposte dalle case di distribuzione e tra esse, in primis, la censura. Il volume si propone quindi di esplorare una selezione di fenomeni riconducibili alle norme di cortesia nella traduzione di testi audiovisivi dall’inglese all’italiano, nelle sue due modalità principali, sottotitoli e doppiaggio. Oltre all’interesse generale per la linguistica contrastiva delle due lingue coinvolte e per le possibili applicazioni didattiche, l’argomento si rivela anche di grande attualità, a causa dell’attenzione crescente nei confronti della traduzione audiovisiva, non solo per l’attrattiva esercitata dallo sbocco professionale che essa rappresenta, ma anche perché è emersa chiaramente l’esigenza di una formazione dei traduttori che curi la riflessione metalinguistica oltre che le competenze di natura pratica e professionale. Negli studi sulla traduzione audiovisiva relativamente pochi contributi hanno trattato, finora, aspetti relativi alla cortesia. Tra gli argomenti esplorati, in particolare, alcune routine conversazionali come i saluti (Bonsignori / Bruti / Masi 2011, 2012), i vocativi (Bruti / Perego 2005, 2008, 2010), le interiezioni in catalano (Matamala / Llorente 2008) e in italiano (Bruti / Pavesi 2008), e i complimenti nei sottotitoli in polacco (Bączkowska 2012; Bączkowska / Izwaini in stampa). Molti fenomeni rimangono ancora da esplorare: al di là di altri atti linguistici non molto approfonditi nella coppia inglese / italiano (le scuse, i rimproveri, i ringraziamenti), numerosi fenomeni grammaticali, tra i quali gli usi attenuativi di modi (l’uso del condizionale e del congiuntivo in italiano) e tempi verbali1 (l’uso dell’imperfetto, non solo in italiano, ma anche in inglese: si veda “I wanted to ask you…”), la Gli argomenti di deissi personale e temporale sono affrontati nello studio di Scaglia su un corpus di italiano parlato (2003).
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La cortesia. Aspetti culturali e problemi traduttivi
morfologia degli alterati (ricchissima in italiano, ma non altrettanto in inglese), la morfologia extra-grammaticale, e diversi usi marcati del lessico, quali lo slang e i gerghi.
1. LA CORTESIA: ASPETTI E PROBLEMI IN PROSPETTIVA INTERCULTURALE E TRADUTTIVA
Nel favellare si pecca in molti e varii modi, e primieramente nella materia che si propone; la quale non vuole essere frivola né vile, perciocché gli uditori non vi badano e perciò non ne hanno diletto anzi scherniscono i ragionamenti ed il ragionare insieme. Non si dee anco pigliar tema molto sottile né troppo isquisito, perciocché con fatica s’intende dai più. Vuolsi diligentemente guardare di fare la proposta tale che niuno della brigata ne arrossisca o ne riceva onta. Né di alcuna bruttura si dee favellare, comeché piacevole cosa paresse ad udire: perciocché alle oneste persone non istà bene studiar di piacere altrui se non nelle oneste cose. Giovani Della Casa (1559), Galateo
1. INTRODUZIONE Questioni riguardanti il rispetto e la tutela dell’altro e, più in generale, la cosiddetta cortesia linguistica, definibile come l’insieme di quelle norme sociali cristallizzate volte a mantenere e a creare interazioni senza intoppi o, in certi casi, addirittura solidarietà, si riflettono in maniera evidente e macroscopica nella conversazione faccia a faccia. Come si vedrà più avanti, qualsiasi parlante in qualsiasi comunità linguistica ha una nozione intuitiva della cortesia, che si palesa in una serie di giudizi metalinguistici su cosa è cortese e cosa è maleducato, su comportamenti discreti e concilianti o irrispettosi e offensivi. Queste nozioni condivise sono il risultato di sviluppi storici e hanno un elevato grado di specificità culturale (Pizziconi 2006, 680)1. Dal punto di vista teorico, la maggior parte se non la totalità degli studi sulla cortesia prende le mosse da alcune opere fondamentali che 1
Ciò che è definito come “first-order politeness” (Watts / Ide / Ehlich 1992).
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La cortesia. Aspetti culturali e problemi traduttivi
hanno tracciato la strada della ricerca successiva: in particolare Brown e Levinson (1978, 1987), Lakoff (1973) e Leech (1983), a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Negli anni Ottanta l’attenzione degli studiosi della cortesia si è appuntata soprattutto sulla comunicazione interculturale e, di conseguenza, sull’identità socio-culturale dei parlanti. Tra i numerosi studi spicca il progetto CCSARP (Cross-Cultural Speech Act Realization Patterns), realizzato da Blum-Kulka, House e Kasper (1989), dove si analizzano due atti illocutori, le scuse e le richieste, in tre varietà di inglese (britannica, australiana e americana) e in cinque lingue (francese canadese, danese, tedesco, ebraico e russo). In questi anni cominciano le critiche più circostanziate alle teorie fondanti della cortesia. Da un lato si approfondiscono aspetti legati alla psicologia sociale o alla sociologia, come ad esempio nei lavori di Fraser e Nolen (1981), dove il concetto di cortesia poggia sui diritti e doveri che ogni parlante ha in qualsiasi conversazione e che definiscono il cosiddetto “contratto conversazionale” (Fraser / Nolen 1981, 93-94); dall’altro si rileva il forte orientamento eurocentrico, se non addirittura anglocentrico, del lavoro di Brown e Levinson, mostrando che l’architettura da loro sviluppata non riesce a spiegare il funzionamento della cortesia in lingue asiatiche quali il giapponese (Ide 1989) e il cinese (Lee-Wong 2000). Negli ultimi dieci anni, infine, gli studiosi della cortesia si sono concentrati in prevalenza sull’analisi empirica di vari aspetti dell’attività verbale in una gamma di molteplici contesti culturali e linguistici, spesso in prospettiva cross- o inter-culturale. In questo capitolo metteremo in evidenza i filoni investigativi più significativi e fruttuosi, evidenziandone meriti e criticità, soprattutto in riferimento alle differenze culturali e, in ultima analisi, alle pratiche traduttive.
2. GLI STUDI DI RIFERIMENTO SULLA CORTESIA È a partire dagli anni Settanta che alcuni ricercatori cominciarono a sostenere che la cortesia è una specie di forza motrice che determina le scelte linguistiche dei parlanti e la negoziazione del significato. Di forte stampo pragmaliguistico, gli studi di Brown e Levinson (1978, 1987), di Lakoff (1973) e di Leech (1983) sostennero con forza l’idea che, oltre al giudizio di grammaticalità delle frasi, ci sono anche regole pragmatiche
La cortesia: aspetti e problemi in prospettiva interculturale e traduttiva
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che indicano il grado di appropriatezza dell’uso linguistico. Alla cooperazione tra parlanti postulata da Grice (1975) come base della comunicazione questi studi aggiunsero un corollario importante, cioè il fatto che la non adesione al principio di cooperazione e alle sue massime può essere facilmente motivata da questioni legate alla cortesia. Lakoff, in particolare (1973), attribuisce un peso fondamentale alla regola “Sii cortese”, facendone la seconda regola della competenza pragmatica, distinta da quella della chiarezza (“Sii chiaro”), che riassume al suo interno le massime conversazionali di Grice. Se la regola della chiarezza sovrintende a scambi fortemente transazionali, quella della cortesia regola ogni interazione. Robin Lakoff la declina in tre regole: 1) non importi, 2) concedi delle alternative, 3) metti l’altro a suo agio – sii amichevole, sottolineando come le diverse culture rendano prioritaria l’una o l’altra regola (1973, 303). Le prime due regole mirano a evitare invasioni del territorio, creando rispettivamente distanza e deferenza, mentre la terza crea solidarietà tra gli interlocutori. Un ruolo non meno significativo è quello attribuito da Leech alla cortesia (1983, 132 e ss.), collocata nel suo modello pragmatico nella retorica interpersonale2 a fianco del principio di cooperazione e dell’ironia. Il principio di cortesia, che integra quello di cooperazione, è articolato in sei massime, tatto, generosità, approvazione, modestia, accordo, comprensione. Ciascuna delle massime si articola in due sottomassime che rimandano rispettivamente alla cortesia negativa e a quella positiva (per esempio la massima di accordo: a) minimizza il disaccordo con gli altri; b) massimizza l’accordo). Come si accennava sopra, a volte accade che chiarezza e cortesia presuppongano scelte diverse: Leech mostra come in questi casi l’obiettivo comunicativo di non offendere l’interlocutore, cioè di non mettere a repentaglio la sua “faccia”, diventi prioritario. Un esempio illuminante dello stesso Leech (1983, 108) è lo scambio domanda / risposta A: “Where’s my box of chocolates?” B: “The children were in your room this morning”. La risposta manifesta un mancato rispetto delle massime, soprattutto di quella di relazione, ma il motivo di questa risposta indiretta è da ricercarsi nella massima di tatto, cioè nell’intento di non voler accusare direttamente i bambini di aver preso i cioccolatini. Il concetto di faccia, introdotto da Goffmann (1967), si riferisce all’immagine pubblica di ogni individuo, che, proprio in Nel modello di Leech la retorica interpersonale dipende da fattori esterni, mentre quella testuale è legata direttamente al testo.
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La cortesia. Aspetti culturali e problemi traduttivi
quanto proiezione sociale, deve essere il più possibile preservata da potenziali offese. Per esempio, nel compiere un atto aggressivo come un ordine o una richiesta, si ricorre spesso a elementi mitigatori (si veda oltre) proprio nel tentativo di tutelare la faccia. Questo concetto goffmaniano è al centro del modello sviluppato da Brown e Levinson, che distinguono l’immagine pubblica del parlante in due aspetti distinti ma correlati, la faccia positiva e quella negativa. La faccia positiva è legata al desiderio dell’individuo di essere approvato e apprezzato dagli altri, mentre quella negativa è connessa con la volontà di ogni singolo membro adulto della società di non essere costretto e di non vedersi imporre modi di agire o limitare nella libertà. I parlanti sono soggetti adulti e razionali, ma il dover gestire i bisogni legati alla faccia dell’interlocutore unitamente a quelli della propria porta spesso a conflitti. Brown e Levinson dedicano ampia parte della loro trattazione a descrivere gli atti “minacciosi” della faccia (face-threatening acts) e i fattori che determinano il rischio di offesa, elaborando un’equazione matematica per determinarne di volta in volta il valore: Wx= D(S,H) + P (H,S) +Rx, dove W (weight) indica il peso dell’oltraggio, x è l’atto in questione, P (power) il potere e D (distance) la distanza tra gli interlocutori (S per speaker e H per hearer) , R (rank of imposition) il grado di imposizione rappresentato dall’atto linguistico (1987, 76). In proporzione alla stima del potenziale di rischio iscritto nell’atto, il parlante deciderà se usare eventuali strategie di mitigazione, che riguardano essenzialmente la modalità di esecuzione dell’atto. Esse includono: la realizzazione diretta dell’atto (“on record”), indiretta (“off record”), con strategie di riformulazione volte a prendersi cura della faccia positiva (“with redressive action – attending to positive face needs”) o di quella negativa (“with redressive action – attending to negative face needs”). L’ultima strategia, in caso di un atto particolarmente oltraggioso, è quella di rinunciare all’esecuzione dello stesso (“not to do the face-threatening act”). L’esecuzione diretta di un atto cosiddetto “maleducato” comporta l’uso di atti richiestivi più o meno perentori, a seconda dell’urgenza della situazione, dell’entità della minaccia per la faccia, della superiorità sociale del parlante. La strategia indiretta si avvale di circonlocuzioni, di atti ambigui o allusivi (per esempio metafore, citazioni, ironia). Le strategie possono infine comportare una riformulazione volta a garantire l’espressione dell’apprezzamento o il rispetto dei confini del territorio dell’interlocutore, minimizzando l’imposizione e l’interferenza.
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2.1. Le critiche al modello pragmalinguistico: le teorie non-anglocentriche Il modello di Brown e Levinson è senza dubbio quello più influente, dal quale nessuno studio sulla cortesia può prescindere, ma ha anche suscitato critiche su più fronti. Una prima debolezza è che, nonostante l’analisi sia condotta, oltre che sull’inglese, su lingue come il Tamil e lo Tzeltal, la discussione del lavoro di faccia è adeguata per le culture occidentali ma non rende conto delle sfumature di cortesia nelle lingue asiatiche, specialmente dei complessi sistemi di forme reverenziali e onorifici (si veda, per esempio, Haugh 2010). Ciò mette in seria discussione non tanto la nozione di universalità della cortesia, quanto l’apparato analitico disegnato dagli studiosi e incentrato sulla nozione di faccia. Le culture orientali, in particolare quella cinese, giapponese, coreana, e diverse culture africane, non sono caratterizzate da un orientamento individualista, che poggia sulla figura della “persona modello”3, ma da un’etica prevalentemente collettivistica, nella quale l’individuo non conta in quanto singolo ma come membro di un gruppo. Mao (1994, 469) ribadisce come la nozione cinese di faccia non sia modellata sui bisogni del singolo ma risponda invece a “the harmony of individual conduct with the views and judgement of the community”. Si capisce perciò come in un panorama culturalmente lontano i concetti di faccia positiva e faccia negativa, così come sono stati definiti da Brown e Levinson, non risultino né applicabili né equiparabili alle nozioni cinese di mianzi, la percezione che la società ha del prestigio di un individuo, e di lian, la stima delle sue qualità morali. Gu (1990) rileva altre differenze: nonostante possano ravvisarsi delle saldature tra la cortesia occidentale e il concetto cinese di limao, la cortesia ha un carattere più prescrittivo che strumentale, che riflette l’organizzazione della società cinese. Perciò atteggiamenti quali rispetto, delicatezza e riserbo sono osservabili, per esempio, nell’autodenigrazione e nella sovrabbondanza di profferte rivolte all’interlocutore. Interpretare questi atteggiamenti con uno schema mentale occidentale significa percepirli come eccessivi, come esternazioni false nel primo caso o invadenti nel secondo. Considerazioni simili sono quelle avanzate da Ide (1989) sulla lingua giapponese, che vanta un sistema di onorifici molto articolato e grammaticalizzato, per cui l’espressione di questi valori non è discrezionale ma obbligatoria. La cortesia giapponese si esprime nel Così Brown e Levinson hanno designato l’agente razionale ideale e individualistico al centro della loro riflessione.
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La cortesia. Aspetti culturali e problemi traduttivi
concetto di wakimae, ‘discernimento’ (1989, 239), che risponde al bisogno si riconoscere la posizione o il ruolo dei partecipanti e all’adesione a norme di comportamento sociale dettate dalla situazione. In uno studio successivo Ide propone una spiegazione: Wakimae is carried out on two levels. One is wakimae in which the speaker indexes his / her sense of place in relation to the referent and the addressee, and in the situational context. This micro-level wakimae is a kind of ‘register’ determined according to situational factors. The other is macro-level wakimae, according to which the speaker indexes his / her own place in each situation in the society. The latter is a kind of ‘social dialect’ (1992, 299).
Il cosiddetto wakimae a livello micro consiste non solo nella scelta degli onorifici adeguati a interlocutore e situazione, ma in scelte ben più ampie, quali se e quando parlare o tacere, quali temi trattare e in che modo. A livello macro, invece, il wakimae esprime la consapevolezza del proprio ruolo sociale nella società, come parte del patrimonio culturale acquisito. All’interno del rapporto marito / moglie, dice Ide, la scelta di allocutivi non reciproci è una manifestazione di questo tipo di wakimae, così come l’uso femminile di alcuni prefissi onorifici, o- e go-, i cosiddetti “beautification honorifics”, impiegati per nessuno scopo legato all’espressione della deferenza, ma come tratto identificativo della classe di appartenenza (1992, 301). Osservazioni analoghe valgono anche per alcune lingue africane, come l’igbo, lingua nigeriana al centro della riflessione di Nwoye (1989). In questo caso la nozione di faccia è applicabile, ma all’interno di una cornice collettivistica e di norme comportamentali comunitarie. L’anglocentrismo di Brown e Levinson continua a essere messo in discussione anche dalla riflessione su lingue europee. Gli studi di Anna Wierzbicka4 (1991 / 2003) ribadiscono in maniera inequivocabile e con ricerche applicate a lingue diverse l’importanza di descrivere le norme culturalmente specifiche della cortesia e dell’interazione, che si adattano a diversi scenari culturali. Anche il pionieristico studio cross-culturale a opera di Blum-Kulka, House e Kasper (1989), incentrato su due atti linguistici, le scuse e le richieste, evidenzia molto chiaramente la netta Nel volume del 2003, che è una seconda edizione riveduta del volume del 1991, Wierzbicka conduce studi su alcune varietà di inglese, polacco, giapponese, italiano.
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specificità linguistico-culturale nella realizzazione di queste routine conversazionali. Le lingue prese in considerazione sono tre varietà di inglese (britannico, americano, australiano), francese canadese, danese, tedesco, ebraico e russo. La correlazione tra modalità linguistiche indirette e cortesia è ancora una volta al centro dell’indagine, che dà esiti diversi a seconda della lingua considerata, ma, soprattutto, della cornice situazionale. Lo stesso gruppo linguistico può preferire verbalizzazioni più o meno dirette in relazione al contesto: per esempio tra parlanti di tedesco e di inglese della varietà britannica i primi preferiscono le richieste dirette sia in interazioni con forze dell’ordine, sia nel caso di richieste tra pari. Anche ebraico e russo mostrano, in generale, una marcata propensione per le strategie dirette.
3. IL SOCIO-PRAGMATISMO DEGLI ANNI OTTANTA E NOVANTA Un altro aspetto altrettanto criticato è la gradazione delle strategie di cortesia in relazione al rischio di oltraggio alla faccia. Nello stesso enunciato possono coesistere elementi che cercano di preservare sia la faccia positiva sia quella negativa e la strategia indiretta, indicata come quella meno “rischiosa”, può non rivelarsi la più cortese in assoluto. Inoltre, la cortesia necessita di una valutazione più ampia, che scavalchi i confini dell’enunciato per inquadrarlo all’interno del macro-atto linguistico compiuto, come mostra Placencia (1996, 24 e segg.), riprendendo la nozione di macro-atto linguistico elaborata da van Dijk (1980). Placencia esemplifica l’importanza di estendere i confini all’intera sequenza riferendosi all’esempio degli inviti in cinese, così come descritto da Mao (1994): gli inviti sono piuttosto complessi e si dipanano attraverso una lunga sequenza di azioni piuttosto che con singoli enunciati. Già Robin Lakoff aveva indicato che i giudizi di cortesia sono strettamente soggettivi (1973, 303): regole comportamentali in vigore all’interno di gruppi ristretti possono rendere le strategie indirette inutili e inadeguate. Queste critiche ritornano in maniera più circostanziata negli studi successivi, sviluppatisi negli anni Ottanta e Novanta. Tra questi studi uno dei primi a postulare la stretta dipendenza della cortesia dal contesto è quello di Fraser e Nolen (1981). I due studiosi propongono la nozione di “contratto conversazionale” come una specie di postulato dell’interazione, in cui a entrambe le parti coinvolte sono
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ascritti diritti e doveri non in maniera aprioristica, ma attraverso una continua opera di negoziazione e modulazione. Tra i termini del contratto alcuni sono di tipo generale, come le regole d’uso della lingua, quelle per l’avvicendamento dei turni di parola e così via, altre più specifiche, di natura istituzionale, situazionale e storica. Il rispetto dei termini del contratto rappresenta la situazione di normalità, ma sono possibili comportamenti dissonanti. Tuttavia, l’aspetto più innovativo è che la cortesia risponde a un’azione volontaria e ha una forte dipendenza contestuale, cosicché non si può valutare se un enunciato è cortese o scortese se avulso dalla situazione enunciativa. Anche Arndt e Janney muovono critiche alle concezioni precedenti della cortesia, rigettando in primis l’idea dell’“appropriatezza”, cioè di un repertorio di formule adatte alle situazioni in base a convenzioni prestabilite. L’enfasi degli studiosi è su parlanti e ascoltatori, gli attori coinvolti nella comunicazione, una comunicazione che definiscono “emotiva”, cioè “the communication of transitory attitudes, feelings and other affective states” (Arndt / Janney 1985, 282). La cortesia si riferisce a una parte della comunicazione emotiva, cioè ai momenti in cui il parlante adotta comportamenti a sostegno (“interpersonal supportiveness”, nelle parole degli autori), che non sono l’espressione dell’adesione alle aspettative sociali, ma comportamenti dettati dall’intento di evitare il conflitto veicolando il messaggio in modo cooperativo: The key idea is that there are supportive and nonsupportive ways of expressing positive and negative feelings; the effective speaker generally attempts to minimize his partner’s emotional uncertainty in all cases by being as supportive as possible (1985, 283).
Nella definizione del modello alla fine anche Arndt e Janney usano l’idea di faccia, distinguendo tra “personale” e “interpersonale”. L’espressione della cortesia è legata solo alle strategie interpersonali cooperative. Successivamente gli studiosi (Janney / Arndt 1992) elaborano la teoria aggiungendo un componente, la “social politeness”, che sovrintende agli usi convenzionalizzati del linguaggio (paragonata alle regole del traffico), a differenza del “tact”, una nozione estesa della cooperatività, che riguarda tanto la faccia positiva quanto quella negativa.
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4. GLI SVILUPPI RECENTI La questione metodologica è il filo conduttore degli studi sulla cortesia dalla fine degli anni Ottanta fino agli inizi del nuovo millennio. Si afferma la prospettiva emica5, cioè quella secondo la quale il grado di cortesia di un enunciato può essere valutato soltanto proiettando l’agire dell’individuo su quello del gruppo al quale appartiene (Eelen 2001; Watts 2003; Mills 2003). L’atto linguistico è da valutare all’interno di una situazione precisa, secondo una serie di parametri specifici, tra i quali l’enunciato rappresenta solo il micro-livello. Questa prospettiva teorica si intreccia con un altro punto di vista metodologico, sempre proposto da Eelen 2001 e Watts 2003: gli studi sulla cortesia seguono un approccio di prim’ordine, secondo il quale la cortesia è definita in maniera intuitiva e pre-teorica, o un approccio di second’ordine, all’interno del quale la cortesia è invece concepita in senso tecnico. I due sono riconducibili rispettivamente al punto di vista emico e etico. Gli studi di prima generazione avevano tutti un chiaro orientamento teorico, come si è visto fortemente improntato alla salvaguardia della faccia, ma, soprattutto nel caso del lavoro di Brown e Levinson (1978 / 1987), completamente slegato dal giudizio di valutazione del destinatario. Come indica Locher (2013), gli studi più recenti, tra i quali Bousfield / Culpeper (2008), Terkourafi (2005), Locher / Bousfield (2008), pur aderendo a una visione della cortesia di second’ordine, sviluppano modelli teorici indipendenti all’interno dei quali il concetto “ingenuo” di cortesia, così come è percepito dalla gente comune, trova un suo spazio. Terkourafi, per esempio, elabora un modello analitico secondo il quale le pratiche della cortesia sono analizzate facendo riferimento anche alle aspettative di comportamenti adeguati. Numerosi gli studiosi che adottano un approccio alla cortesia di prim’ordine, partendo dal principio fondamentale che la cortesia non è altro che una valutazione del lavoro relazionale fondato su norme I termini “emico” e “etico” (suffissi di phonemic e phonetic) sono stati usati per la prima volta dallo strutturalista Pike a indicare l’opposizione tra il punto di vista del “nativo” e quello più scientifico dell’osservatore. L’opposizione è la stessa della coppia “fonemico” / “fonetico”. Un approccio “emico” è legato al sistema inconscio che il parlante nativo di una lingua ha delle opposizioni tra suoni e che utilizza per produrre e interpretare frasi di senso compiuto; l’approccio “etico” è quello del linguistica, che distingue suoni sordi e sonori, aspirati e non aspirati, che distingue le consonanti in base a luogo e modo di articolazione e così via. Per una discussione si veda Eelen (2001, 76-78).
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condivise da membri di una “comunità di pratica”6 (community of pratice, si vedano Mills 2003, Locher / Watts 2005). Questo comporta che il giudizio sul valore di cortesia di un enunciato vari in rapporto al destinatario, come già anticipato già da Lakoff nel 1973. Il destinatario è, tuttavia, solo uno degli elementi variabili della situazione comunicativa7. Holmes (2006, 689) sottolinea l’importanza dei fattori contestuali nella valutazione della cortesia: tra questi la formalità dello scambio, la presenza del o dei destinatari dell’atto, il rapporto tra gli interagenti, non solo coniugato secondo potere e distanza, ma anche in base alla simpatia e all’affinità. Ciò che accomuna gli approcci post-moderni alla cortesia è proprio una visione “dinamica” (Eelen 2001; Mills 2003; Locher 2004; Holmes 2006, 689 e 691), sia in senso diacronico, sia in senso sincronico. Nel primo caso, come si vedrà anche dalle esemplificazioni discusse in questo volume (si veda il cap. 4), l’accezione della cortesia e dei comportamenti cortesi subisce continue ridefinizioni legate al momento storico e all’orizzonte culturale di riferimento. In questo senso cambiano anche le definizioni “popolari” del termine cortesia, come si può evincere dalla citazione in epigrafe a questo stesso capitolo. Questi aspetti sono affrontati in dettaglio anche da Watts, al quale si deve una nuova distinzione, quella tra comportamento “politico”, l’adesione a norme socialmente determinate, e “cortese”, che va al di là di ciò che è richiesto e risponde a strategie adottate dal parlante (2003, 4). Il comportamento politico è la norma attesa, ciò che appropriato e prevedibile, mentre quello cortese è “behaviour in excess of politic behaviour” (2003, 259), e, come tale, manifesta apertamente la volontà del parlante di esprimere preoccupazione o riguardo per l’ascoltatore. Nel secondo caso, la cortesia si costruisce turno dopo turno, in una negoziazione in fieri che si perfeziona per tutta la durata di un’interazione. È questo uno dei punti che Holmes sostiene con La definizione che ne dà Mills (2003, 30) è quella di un gruppo di persone che sono impegnate in attività interconnesse e che condividono “a shared repertoire of negotiable resources accumulated over time” (Wenger in Mills 2003, 30). 7 Normalmente il termine “situazione comunicativa” indica i ruoli dei partecipanti, la collocazione spazio-temporale dello scambio e le strategie di comunicazione delle quali i partecipanti si possono servire; con “evento comunicativo” si designa l’azione verbale e non verbale. Anche se la componente “situazione” è di norma considerata statica, in realtà status e ruolo dei partecipanti sono elementi dinamici e negoziabili, che vengono continuamente ridefiniti nel dispiegarsi dell’interazione. 6
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convinzione nell’elenco di criticità del modello di Brown e Levinson. Le altre falle del modello, secondo Holmes (2006, 688-689), riguardano aspetti metodologici della ricerca linguistica, come, ad esempio, la disomogeneità dei dati analizzati, spesso anche indefiniti quanto a provenienza8, e il diverso livello di analisi applicato alle singole strategie. In generale, visto il taglio fortemente anglocentrico, alle strategie di cortesia negativa sono concessi più spazio nella trattazione e più precisione nella descrizione, tanto che se ne indicano anche i più tipici strumenti linguistici (gli hedges, le nominalizzazioni, le strategie di esclusione messe in atto dai pronomi personali di prima e di seconda persona, ecc.). Anche nel mondo ispanofono si è imposta una linea di ricerca che concepisce la cortesia come fenomeno socioculturale che si avvantaggia di prospettive di studio interdisciplinari, all’intersezione di antropologia sociale, sociologia e psicologia. In questa direzione gli studiosi hanno superato le critiche ai modelli precedenti e hanno proposto quadri teorici nuovi e più efficaci, mediando tra la visione marcatamente pragmalinguistica degli inizi e la prospettiva sociopragmatica sviluppatasi in seguito nei primi anni Ottanta. Nei lavori di Bravo e Briz (per citare solo due degli esponenti degli studi recenti sulla cortesia in ambito ispanofono; si vedano Bravo / Briz 2004; Briz 2004 e Mariottini 2007, 47 e segg.), la dimensione contestuale ha un ruolo di primo piano. Per Bravo (2005), la cortesia è definita da quattro aggettivi qualificativi: linguistica, comunicativa, conversazionale e strategica. L’ultimo è forse il più importante, perché evidenzia differenze tra la cortesia normativa, rappresentata dalle forme standardizzate e routinarie del linguaggio, e la cortesia volitiva, cioè quella impiegata per scelta del parlante. Anche gli studi di Briz e del gruppo VAL.ES.CO (= Valencia español coloquial) hanno come oggetto l’analisi della cortesia nelle interazioni quotidiane in luoghi diversi della penisola spagnola, stabilendone così la variazione secondo fattori culturali, geografici, sociologici e situazionali.
Brown e Levinson stessi descrivono i dati utilizzati nell’analisi come “an unholy amalgam of naturally-occurring, elicited and intuitive data” (1987, 11).
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5. GLI STUDI CROSS-CULTURALI E LA SCORTESIA Un altro aspetto osservabile negli studi recenti è l’ampliamento dell’orizzonte di analisi, che riguarda da un lato un numero sempre maggiore di lingue analizzate, dall’altro anche l’interesse per fenomeni non necessariamente legati alla salvaguardia della faccia, ma anzi, proprio al suo contrario. Già a cavallo tra anni Ottanta e Novanta i lavori di Blum-Kulka / House / Kasper (1989) e di Wierzbicka (1991) avevano aperto la strada al confronto dell’uso di strategie pragmatiche in lingue e culture diverse, a volte in comunità che usano varietà diverse della stessa lingua, mettendo in evidenza le potenziali insidie della comunicazione cross- o inter-culturale. I due termini, benché utilizzati in molti studi come sinonimi, lo sono solo parzialmente: la comunicazione cross-culturale presuppone una tendenza a confrontare i fenomeni nell’ambito delle scienze sociali. Negli studi sulla comunicazione, ad esempio, lo scopo è quello di enucleare le modalità specifiche della comunicazione di parlanti con diverso background. Così se il termine “cross-culturale” è inteso come un’applicazione del paradigma cross-culturale, come una risposta alle enormi pressioni della globalizzazione, si può utilizzare anche l’aggettivo “interculturale”, anche se quest’ultimo è un termine più preciso che descrive puntualmente cosa avviene quando due o più gruppi culturalmente distanti vengono in contatto, interagiscono e comunicano9. La natura sempre più multilingue e multiculturale della società moderna pone in primo piano la riflessione sulla comunicazione tra parlanti che non condividono o non condividono appieno lo stesso retroterra linguistico e culturale. Nelle parole di Pütz e Neff-Aertselaer (2008, ix): in the era of globalization communication is destined to become increasingly cross-cultural because it involves interactants who have different cultures, different conceptualisations, and different first Una definizione precisa della terminologia è quella tratteggiata da Myron W. Lustig e Jolene Koester nel volume Intercultural Competence: Interpersonal Communication Across Cultures. La comunicazione interculturale è definita “a symbolic, interpretative, transactional, contextual process,” che implica il coinvolgimento di popoli di diverse culture, mentre la comunicazione cross-culturale è descritta come “the study of a particular idea or concept within many cultures […] in order to compare one culture to another” (1993, 51).
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languages, and who use a grammatically common language or lingua franca, but a pragmatically highly diversified instrument of communication representing, not only different cultures, but also different norms and values.
Se da un lato è vero che l’inglese è utilizzato da un numero sempre crescente di parlanti di lingue madri diverse come strumento di mutua comprensione, dall’altro le interazioni tra persone che non condividono lo stesso patrimonio linguistico e culturale possono favorire dissensi, evidenziare stili, funzioni e obiettivi comunicativi che sottendono un sistema valoriale diverso: In different societies people speak differently; these differences in ways of speaking are profound and systematic; they reflect cultural values, different communicative styles, can be explained and made sense of in terms of independently established different cultural values and cultural priorities (Trosborg 1995, 45).
Sono numerosissimi gli studi contrastivi sulla cortesia, che si diversificano tanto per i fenomeni studiati, quanto per le lingue analizzate. Non potendo qui dare conto di tutti, se ne indicano solo alcuni significativi: Sifianou per la coppia inglese / greco (1992), Márquez-Reiter (2000) per inglese britannico e spagnolo parlato in Uruguay, Bayraktaroğlu / Sifianou (2001) per turco e greco, Placencia sullo spagnolo parlato in Ecuador con riferimenti all’inglese britannico e allo spagnolo peninsulare (1996). Due studi recenti sono BargielaChiappini / Kádár (2011) e Hickey / Stewart (2005). Il primo è una raccolta di studi sulla cortesia in lingue diverse, non solo nelle due più studiate, inglese e giapponese, ma anche in lingue meno diffuse e note come il georgiano. Il secondo, intitolato Politeness in Europe, contiene ventidue studi teorici e descrittivi sulla cortesia in altrettanti paesi europei che forniscono una mappa storica, socio-politica e linguistica del fenomeno nel vecchio continente. A sancire l’importanza crescente degli studi sulla cortesia nell’alveo della pragmatica nasce nel 2005 il “Journal of Politeness Research”, pubblicato dalla Mouton de Gruyter. In ambito italiano si ricordano i lavori del gruppo di ricerca PIXI (Pragmatics of X-cultural Interaction), dedicati sia alla raccolta di dati linguistici (Gavioli / Mansfield 1990), sia all’analisi della pragmatica nelle interazioni di servizio in italiano e in inglese. In una prima fase gli
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studiosi hanno identificato le modalità strategiche nel perseguire gli scopi transazionali10 tipici degli incontri di servizio, ma anche quelli propriamente interazionali, volti a stabilire un terreno comune, mantenere la faccia e creare un rapporto benevolo e vantaggioso (cfr. Aston 1988, 1988a, 1988b, 1988c; George 1988; Merlini Barbaresi 1988; Vincent Marrelli 1988). Nell’ultima fase sono emerse le differenze più significative negli incontri di servizio in Inghilterra e in Italia, con alcune riflessioni generali sui i rapporti tra procedure discorsive e stili culturali (Anderson 1990; Zorzi Calò 1990; Zorzi Calò / Brodine / Gavioli / Aston 1990). Nonostante la centralità della cortesia negli studi sulla comunicazione, non sono molti gli studi contrastivi inglese / italiano condotti in questa direzione o forse sono spesso studi isolati non raccolti in volumi tematici. Tra gli argomenti finora esplorati le regole e le strutture dell’interazione in uno studio a cura di Orletti (1983), tra cui alcune formule di cortesia (Pierini 1983), alcuni atti illocutori, per esempio i complimenti trattati da Alfonzetti (2006) e Bruti (2006, 2007), la gestione del terreno comunicativo e dello spazio personale (George 1990), l’aderenza alla verità (Vincent [Marrelli] 1994). Come si accennava sopra, di pari passo all’estendersi delle indagini a lingue e contesti diversi, si assiste, a cavallo tra la fine e l’inizio del nuovo millennio, soprattutto in ambito anglosassone, a un proliferare di studi dedicati all’altra faccia della cortesia, la scortesia. L’aspetto innovativo di questi studi è che la scortesia non è intesa come l’assenza di strategie di costruzione di consenso, ma come l’impiego volontario di atti minacciosi e aggressivi (si vedano Bousfield / Culpeper 2008; Bousfield / Locher 2008). Nel 2003, Watts evidenzia che, anche se la mancanza di cortesia è un tratto saliente della comunicazione, a quella data gli studi sulla scortesia sono assai limitati. A parte il saggio di Kienpointner (1997), dedicato a vari tipi di enunciati scortesi, i pochi studi si concentrano sula scortesia linguistica in alcune comunità, tra le quali i neozelandesi bianchi della classe media (Austin 1990) o i quaccheri in America 10 La distinzione tra funzione “interazionale” e “transazionale” è nota in linguistica e ne danno conto, tra gli altri, Brown / Yule (1983). La funzione transazionale è preposta alla trasmissione di informazioni precise o, più in generale, è incentrata sulla realizzazione di un negozio, mentre la funzione interazionale registra semplicemente la disposizione dell’individuo alla conversazione per stabilire e consolidare relazioni sociali.
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(Baumann 1981), o ancora sull’uso di forme “particolari” di scortesia, come nel racconto di barzellette (Kotthoff 1996), o della falsa scortesia rappresentata dal banter11 (Culpeper 1996). Austin, per esempio, partendo dal quadro di riferimento della Relevance theory (Sperber / Wilson 1986), introduce il concetto di “face attack act”, cioè quello che la studiosa chiama “the dark side of politeness” (1980, 277)12. La questione metodologica e teorica è, come ben argomenta Mills (2003), molto articolata. All’inizio la tendenza è stata quella di applicare gli stessi paradigmi utilizzati per l’analisi della cortesia. La maggior parte degli studi condivide l’assunto che la scortesia non è una proprietà intrinseca degli enunciati, ma piuttosto la valutazione di un comportamento (Culpeper 1996; Kienpointner 1997), in quanto anche il più offensivo degli insulti può essere impiegato in un contesto amichevole per consolidare la confidenza e il senso di appartenenza al gruppo (si veda il capitolo 3, paragrafo 2.2.3.). Kienpointner, per esempio, propone opportunamente il criterio della volontarietà e distingue perciò tra scortesia motivata, che si applica ai casi in cui il parlante voglia essere scortese e recare offesa, alla scortesia immotivata, che è di contro il risultato di scarsa competenza, linguistica o sociale. La valutazione del grado di scortesia è strettamente dipendente dal contesto, come si diceva, ed è un concetto graduale. Anche se Culpeper adotta le stesse “superstrategie” di Brown e Levinson rovesciandole nell’applicarle alla scortesia (“bald on record impoliteness”, “positive and negative impoliteness”, “mock politeness” ecc.), i due concetti non sono uno l’opposto dell’altro. Sempre Kienpointner discute il caso della falsa cortesia, quella usata cioè per scopi manipolatori, che non può certo essere considerata cooperativa. Inoltre, la scortesia non deve essere giudicata come il polo marcato dell’opposizione, perché questo assunto avrebbe come corollario il fatto che solo la scortesia è osservabile e la cortesia “invisibile”. I due concetti sono invece 11 La nozione di banter è ampiamente sviluppata da Leech (1983, 184). Si tratta di un fare discorsivo apparentemente offensivo che è in realtà caratterizzato da un intento scherzoso e dalla volontà di consolidare i rapporti. A uno strato superficiale apparentemente scortese corrisponde uno strato soggiacente, quello che rappresenta le intenzioni del parlante, cortese. È molto usato dai giovani. 12 Alla nozione di “face threatening act”, emblematica di una visione “overly pessimistic – verging on a ‘paranoid’ vision of exchanges” (Kerbrat-Orecchioni 2005, 30), Catherine Kerbrat-Orecchioni contrappone quella di “face enhancing act” (1997), rinominata successivamente “face flattering act” (Kerbrat-Orecchioni 2005, 31).
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collocabili lungo un gradiente scalare il cui valore è da stabilirsi in base ai parametri contestuali della cornice e dell’evento comunicativo. Come sostiene Mills (2003, 125), si tratta comunque di giudizi di cortesia o scortesia e non di un valore assoluto assegnabile alle singole espressioni linguistiche. Oltre al marcato orientamento verso il polo della scortesia, gli studi più recenti sottintendono una prospettiva più ampia, che include la cortesia all’interno del lavoro relazionale e della costruzione del rapporto tra interlocutori. La cortesia diventa quindi uno dei vari fattori che intervengono nel lavoro interazionale a tutela della faccia, quella continua negoziazione fatta di pesi e contrappesi, di misure e contromisure modellate su situazione e interlocutori (Locher / Watts 2005). Anche Spencer-Oatey (2000, 2011) sviluppa un modello della gestione del rapporto da applicare all’interazione sociale. Nel modello si risponde all’esigenza di specificare meglio la nozione di faccia, dando peso sia all’individuo come agente indipendente, sia ai gruppi sociali. Si intrecciano così due assi dimensionali, quello personale (o indipendente) e quello sociale (interdipendente), e due componenti, la faccia e i diritti. Rispetto al modello di Brown e Levinson, come si diceva, questa distinzione permette di discriminare tra i bisogni della faccia, che rimandano al valore personale e sociale del singolo, e i diritti sociali, che si riferiscono ai diritti e alle prerogative personali e sociali. Ciascuno dei due livelli si articola in ulteriori distinzioni: “quality face”, che riguarda le qualità personali e l’autostima (grosso modo corrispondente alla nozione di faccia positiva), e “identity face”, che si connette invece ai valori collettivi. Tra i cosidetti “sociality rights” ci sono gli “equity rights” e gli “association rights”. I primi includono il grado di sfruttamento del parlante (“cost-benefit”) e delle imposizioni (“autonomy-imposition”). I secondi, i cosiddetti “diritti di associazione”, si riferiscono al tipo di coinvolgimento e alla condivisione di idee e sentimenti, tali da regolare, per esempio, la giusta maniera di conversare (per esempio lunghezza e profondità dei temi toccati nella conversazione) e l’empatia (Spencer-Oatey 2000, 14-15). Il rapporto è costruito congiuntamente dagli interlocutori secondo le aspettative socio-culturali e quelle specifiche degli interlocutori stessi. La definizione del concetto di (s)cortesia secondo precisi parametri contestuali porta all’affermarsi di studi che si rifanno alla nozione di “comunità di pratica” (vedi paragrafo 4) nella direzione degli studi sul genere (figure di riferimento in questo campo sono quelle di Deborah
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Cameron, Jennifer Coates, Penelope Eckert, Janet Holmes, Deborah Tannen − tra i moltissimi lavori si vedano il già citato Mills 2003; Holmes / Meyerhoff 2003; Christie 2000; Coates 2004), e di quelli legati all’ambito lavorativo (Holmes / Stubbe 2003). Queste opportune aperture nei confronti dei correlati sociali (classe, genere, età, etnia, appartenenza a comunità discorsive), di fattori socio-psicologici (tra i quali lo stile, il repertorio, il senso di identità, gli atteggiamenti) e sociopolitici (tra i quali l’ideologia dello standard vs le forme non standard, l’influenza dei media) rendono necessario un approccio multidisciplinare, che permetta di tenere in giusto conto tutti i singoli elementi che compongono il quadro. Come hanno ben evidenziato gli studi di ultima generazione, gli apporti più fecondi giungono dalle scienze sociali e cognitive. La psicologia e l’antropologia sociale discutono i modi in cui i parlanti negoziano i significati interpersonali in specifiche comunità o gruppi sociali, mentre gli studi cognitivi disvelano i processi cognitivi sottostanti ai comportamenti cortesi, per stabilire, ad esempio, se il comportamento che pare più “avanzato” sottintende sempre processi più complessi e se invece quello più convenzionale e routinario è più facile e immediato (si veda Axia 1996). Queste riflessioni rivestono grande importanza perché, gettando luce sui processi mentali e sulle norme sociali che regolano i comportamenti linguistici, hanno applicazioni immediate nell’ambito della didattica delle lingue, soprattutto nella didattica della competenza pragmatica, sia nella lingua materna, sia, a maggior ragione, nelle lingue seconde o straniere. L’interesse applicativo era già ampiamente presente nel lavoro di Blum-Kulka / House / Kasper (1989), che ha dato l’avvio alla difficile ma utilissima ricerca in pedagogia pragmatica (si vedano, tra tanti, Bardovi-Harlig / Hartford 2005; Pütz / Neff-Aertselaer 2008; Walkinshaw 2009).
6. TRADURRE LA (S)CORTESIA La traduzione di tratti sociolinguistici e pragmatici costituisce da sempre una sfida insidiosa, perché il mediatore deve conoscere perfettamente il profilo socio-culturale della lingua di partenza e di quella di arrivo e scegliere soluzioni strategiche, considerati gli obiettivi comunicativi dell’originale, il pubblico dei destinatari, il momento storico, le richieste del committente e così via. Grazie a decenni in cui
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gli studiosi hanno mostrato la pertinenza della saldatura tra testo e contesto, è ormai postulato indiscusso che il testo debba essere valutato sia nella sua dimensione macrostrutturale, considerando cioè la situazione comunicativa in cui nasce, e più in generale questa all’interno del contesto socio-culturale, sia nella sua dimensione microstrutturale di realizzazione specifica (Snell-Hornby 1988)13. Con il “cultural turn”14 del 1976, l’attenzione negli studi traduttologici si è appuntata su fatti culturali, accrescendo la consapevolezza che il passaggio tra due sistemi linguistico-culturali più o meno vicini rende necessaria un’operazione di adattamento: House (1977 / 1981) e Katan (1993), tra gli altri, hanno parlato di “cultural filter”, cioè di meccanismi che orientano e strutturano la percezione, l’interpretazione e la valutazione del testo da tradurre. Questi meccanismi sono in parte generali e condivisi, patrimonio di schemi mentali e strategie di gruppo, e in parte sono invece strumenti applicati dai singoli individui. Altrettanto dibattuta è la questione di quale di questi filtri sia dominante e in quale tipo di testo in particolare: secondo House, per esempio, il filtro risulta essere attivo specialmente in alcuni tipi di testo, come quelli turistici e i manuali di informatica, mentre Nida (1964) sostiene che il fattore prioritario a determinarne la presenza sia la distanza tra il sistema della lingua fonte e di quella di arrivo. Nella comunicazione interlinguistica, la mutua comprensione non si fonda soltanto sull’accessibilità del tessuto verbale dello scambio, ma anche sull’attenta osservazione di tutti i fattori extralinguistici rilevanti ai fini dello scambio stesso, come ha fatto osservare l’etnografo Malinowski, il primo a definire il “contesto situazionale”, con le sue ricerche sul campo in Melanesia (1923). In realtà, oltre a tutti i fattori contestuali dell’enunciazione, legati quindi sia alla situazione comunicativa, sia all’evento comunicativo (vedi nota 7), è essenziale avere accesso alla storia culturale che uno scambio sottende. 13 In questa sede non si discuteranno i vari approcci alla traduzione, pur collocandosi idealmente all’intersezione di approcci diversi ma strettamente relati sviluppatisi a partire dagli anni Settanta – Ottanta del secolo scorso: da un lato gli studi traduttologici che pongono il testo come unità di analisi nella tradizione della linguistica testuale e dell’analisi del discorso (per una sintesi si rimanda a García Jiménez 2011 e Foschi Albert 2011), dall’altro le teorie funzionaliste della traduzione di matrice tedesca (si veda al riguardo Masi 2011). 14 Per un approfondimento si rimanda a Bruti (2011a, 93 e segg.) e alla bibliografia indicata e discussa in quella sede.
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Il processo di comprensione / interpretazione di qualsiasi messaggio comporta varie fasi che si intersecano l’una con l’altra. La comprensione include, necessariamente, oltre alla decodifica del messaggio, quella del co-testo, cioè la sequenza in cui esso si situa, del contesto situazionale e culturale e degli scopi per i quali è realizzato. La comprensione del codice non è sufficiente, non solo per tutti i fattori contestuali, ma anche a causa di una serie di informazioni non esplicite non contenute né nella grammatica dell’enunciato, né nella semantica degli elementi lessicali impiegati. Questi dati sono in parte condivisi e noti sia all’emittente sia al ricevente come parte della conoscenza enciclopedica o conoscenza del mondo. Si tratta di “pacchetti” preconfezionati di informazioni che rendono possibile ed economica la comunicazione. Tuttavia, la condivisione funziona di norma all’interno di una medesima comunità linguistica; inoltre, mentre è naturale presupporre da un interlocutore la competenza semantica, non altrettanto può dirsi per la competenza enciclopedica (cfr. Violi 1997; Bertuccelli Papi 2000), sulla cui ampiezza non ci sono certezze. È evidente che la disparità tra le competenze enciclopediche di parlanti di lingue diverse sarà maggiore rispetto a quella di parlanti della medesima lingua: se per esempio per i parlanti anglofoni John Bull, personaggio fittizio di numerose vignette dell’Ottocento, personifica l’essenza dell’essere inglese e certe virtù del suo popolo, sarà per lo più sconosciuto al parlante italofono medio, cioè difficilmente farà parte della sua enciclopedia. La conoscenza enciclopedica si acquisisce attraverso forme di socializzazione e acculturazione nella società di appartenenza. Talune informazioni hanno carattere generale, quasi universale, mentre altre sono invece specifiche di alcune culture. La segnaletica stradale, come ad esempio le strisce pedonali (con lievi variazioni nella forma, nel colore e nella disposizione), ha un significato più o meno universale, mentre le forme di saluto nelle varie lingue sono diverse. Si pensi al contatto fisico (bacio, stretta di mano, pacca sulla spalla) che accompagna la formula verbale nelle culture mediterranee rispetto alla maggior distanza fisica degli anglosassoni, specialmente dei britannici. Questo tipo di conoscenza si organizza in base all’esperienza. Katan, riprendendo un modello di Hall (1959 / 1990), quello della “triad of culture”, elabora una rappresentazione interessante del sistema “cultura”, visualizzato come un iceberg, con alcuni quadri (i “frames” di Goffman 1974, cioè insiemi ordinati di conoscenze stereotipiche del tipo “festa di compleanno”) visibili, altri semi-visibili e altri ben al di
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sotto della superficie delle acque, ma allo stesso tempo di natura più universale. Il grado di intervento del traduttore tra questi livelli di profondità è oggetto di discussione: come nota Katan (2009, 79), i teorici della traduzione si concentrano sui livelli più nascosti, mentre i traduttori di solito su quelli più visibili. Esistono, inoltre, aspetti culturali connessi alla pratica di agire, verbale e non, in modo conforme alle aspettative di una determinata società, come di recente ha messo in evidenza il filone di studi che fa capo alla retorica contrastiva (si veda, tra i molti, Connor 1996; per un’utile panoramica Foschi Albert 2011). Anche culture relativamente vicine come quella inglese e quella italiana mostrano nella pratica quotidiana una certa sfasatura nella strutturazione dei testi, nelle modalità di azione presupposte e nelle norme di cortesia che regolano gli scambi. Si consideri il seguente testo parallelo, un cartellone informativo bilingue affisso tempo addietro alla stazione ferroviaria di Firenze: Voglio le mie valigie all’aeroporto Galileo Galilei di Pisa I want my baggage taken to ................................................. In entrambi gli enunciati si privilegia la “condizione di sincerità” (Searle 1969), cioè una delle condizioni necessarie affinché un enunciato valga come tale e sia interpretato dal ricevente nel giusto senso. Il parlante vuole dirigere l’azione dell’ascoltatore, ma l’espressione manifesta della volontà del parlante (“want”) e la mancata considerazione della faccia dell’interlocutore rendono la traduzione in inglese inadeguata perché troppo “invasiva”. La scelta più naturale e opportuna sarebbe stata Please send my baggage to…, con l’uso dell’imperativo reso possibile dal fatto che si tratta di un testo scritto, in cui ci si rivolge a una pluralità di destinatari ignoti e non a un unico destinatario che possa pertanto sentirsi “oltraggiato” dalla richiesta. Inoltre, l’imperativo è mitigato dall’elemento “please” in posizione iniziale (George 2008). Ciò indica massimo rispetto per la faccia negativa, lasciando cioè all’interlocutore libertà di azione. Anche Hatim / Mason (1997a, 78 e segg.), riflettendo sulla traduzione di aspetti pragmatici, si soffermano in particolare sulla “gravità” degli atti scortesi, spesso realizzati attraverso imperativi categorici. Katan (1999 / 2004) rileva a proposito che gli imperativi coercitivi costituiscono una delle principali fonti di fraintendimento e di contrasto nella società
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britannica, soprattutto ad opera degli asiatici, che usano formulazioni dirette con un’intonazione perentoria. Un altro esempio interessante tratto dalla pratica quotidiana è citato da Severgnini (1992, 220-221): se per un italiano è normale, trovandosi al ristorante, dire al cameriere “Voglio cambiare tavolo”, pronunciare l’enunciato equivalente in un ristorante inglese, rivolgendosi direttamente al cameriere, sarebbe inadeguato e sanzionabile dal punto di vista delle regole di cortesia. Si dovrebbe arginare in qualche modo il potenziale “scortese” dell’enunciato usando una formula del tipo “I am afraid this table is not entirely convenient”. Questi trasferimenti di comportamenti linguistici da una lingua all’altra si configurano come errori pragmatici e non linguistici: nel caso specifico, il parlante ha pieno controllo delle strutture lessico-grammaticali della lingua, ma non ha sufficiente familiarità con la pratica di azione nella cultura meta. Anche gli studi del gruppo di ricerca PIXI (vedi paragrafo 5) sugli incontri di servizio avvenuti in librerie in Inghilterra e in Italia hanno evidenziato una diversa percezione dei ruoli dei commessi e dei clienti, così come profili interazionali e strategie di azione diversi. Il cliente italiano parte normalmente dalla propria prospettiva e chiede aiuto con formule del tipo “Volevo…” / “Sto cercando…”, mentre il cliente inglese prova prima a cercare il libro da solo, chiedendo al massimo indicazioni per la sezione con brevi sintagmi pronunciati con intonazione interrogativa “Chinese art?” / “Archeology?”. Se non trova il libro, il cliente inglese si rivolge al commesso con domande del tipo “Do you have?” / “Have you got?”. Altrettanto diverso è il modo del commesso di comunicare cattive notizie, cioè il fatto che il libro non è disponibile. La strategia inglese è di attenuare la cattiva notizia attraverso formule diversive preparatorie, anche non verbali, mentre quella italiana è di comunicare la notizia in maniera esplicita, senza tergiversare. Questo tipo di studio, fondato sull’analisi sociolinguistica di scambi perfettamente equivalenti dal punto di vista comunicativo, rileva abitudini verbali diverse, non legate a singoli aneddoti (che in quanto tali avrebbero poco valore scientifico), ma veri e propri pattern ricorrenti, e offre pertanto una base comparativa preziosa al traduttore, suggerendogli cosa è appropriato e naturale nella cultura di partenza e in quella di arrivo. Per fornire un ultimo esempio sulla cortesia positiva, ricordiamo un esempio di Nida (1997) citato da Katan (2009, 83) a proposito dei testi persuasivi: negli Stati Uniti è pratica comune che le segretarie rivedano i
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testi, stemperando le espressioni iperboliche di convenevoli all’inizio delle lettere dei latini e scegliendo opportune formule di saluto da parte degli uomini di affari nordamericani, in modo da rendere la comunicazione equilibrata e prevenire intoppi. Infatti, i nordamericani potrebbero essere disturbati dalle espressioni eccessivamente adulatorie dei latini e giudicarli perciò falsi, mentre i latini, in assenza di adeguate formule di saluto, potrebbero pensare che i nordamericani non siano interessati a stabilire relazioni commerciali con loro. Questo conferma una tendenza osservata anche in altri ambiti dell’espressione della cortesia positiva, per esempio i complimenti: se la cultura italiana è propensa a un’esternazione iperbolica (Alfonzetti 2006) – spesso non sentita e dunque solo di superficie – del consenso e della lode, quella anglosassone (come si vedrà nel capitolo 2) è nella maggior parte dei casi caratterizzata da maggior riserbo nell’espressione degli affetti, perché percepiti come una violazione dello spazio personale. Quanto più distanti sono le culture, tanto più evidente sarà l’intoppo comunicativo, a volte incolmabile. Gli atti linguistici performativi espliciti15 (Austin 1962) sono spesso legati a rituali specifici della cultura in questione. Jenny Thomas (1995, 43) riporta un interessante esempio accaduto in Pakistan. Un attore di soap, Usman Pirzada, divorzia dalla moglie televisiva pronunciando la formula solenne Talaq per tre volte. Il problema, in questo caso, è legato al fatto che la moglie fittizia era in realtà anche la moglie reale, Samina, e nel proferire la formula Usman aveva sancito il proprio divorzio, anche se l’aveva fatto per motivi artistici. Il dettato religioso pakistano prevede che in tre materie, matrimonio, divorzio e liberazione degli schiavi, la parola data non possa essere ritirata, nemmeno per scherzo o incautamente.
6.1. Tradurre la (s)cortesia nel testo audiovisivo Finora la ricerca sulla traduzione del testo audiovisivo si è concentrata in prevalenza sulla traduzione di tratti morfosintattici, lessicali e retorici, in buona parte perché questi fenomeni sono più facilmente identificabili e consentono di osservare pratiche traduttive consolidate (si vedano, per esempio, Brincat 2000 e Alfieri / Contarino / Motta 2003).
15 Enunciati il cui proferimento equivale al compimento di un’azione, del tipo “Scommetto 50 euro che non hai sparecchiato la tavola”.
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Nel contesto della globalizzazione la traduzione filmica viene ad assumere un ruolo determinante, da un lato perché riguarda un prodotto di consumo che non ha confini nazionali ma, appunto, diffusione globale, dall’altro, nell’educazione linguistica, perché risponde a esigenze emerse su ampia scala, europea e internazionale. Già sul finire del secolo scorso i prodotti audiovisivi, soprattutto filmici, e la loro traduzione hanno suscitato grande interesse, tanto da diventare oggetto di discipline accademiche16. Nel testo audiovisivo, nel quale interi eventi comunicativi contestualizzati vengono trasposti, gli aspetti sociolinguistici e pragmatici dell’interazione faccia a faccia codificano linguisticamente anche veri e propri spaccati culturali e sono preposti a rappresentare un’ampia gamma di variabili situazionali. Per questo motivo è assai raro che nel passaggio da un sistema linguistico a un altro si ottengano equivalenze biunivoche, casi in cui a segni linguistici equivalenti corrispondano profili socioculturali affini o strettamente comparabili. In questo tipo di testo la priorità è mantenere una certa aderenza con il testo di partenza e di ricalcarne l’impianto linguistico nel rispetto dei vincoli imposti dalla pluralità dei codici comunicativi17 e dalle condizioni di ricezione e interpretazione del messaggio. Questo obiettivo comporta a volte inevitabili slittamenti e frizioni sul piano dei significati sociali e culturali, quando non addirittura la loro totale cancellazione. Le due principali modalità traduttive, doppiaggio e sottotitoli18, sono entrambe fortemente condizionate, ma in modo totalmente diverso. Il doppiaggio, o post-sincronizzazione, è la 16 Per un’introduzione sintetica si veda Bruti 2011b e la bibliografia indicata; per un resoconto aggiornato sull’espansione degli studi e delle pratiche traduttive audiovisive in Europa si veda il recente Bruti / Di Giovanni 2012. 17 Mayoral / Kelly / Gallardo (1988) parlano di “constrained translation”, intendendo con tale definizione una traduzione nella quale il testo è solo uno dei componenti del messaggio comunicativo e rappresenta uno stadio intermedio tra la pianificazione e la recitazione. La specificità della traduzione di testi filmici viene affrontata anche da Delabastita (1989), che traccia un quadro dettagliato dei vincoli imposti dai vari canali comunicativi e delle strategie operative utilizzabili. Due tra i maggiori teorici della traduzione audiovisiva, Yves Gambier e Henrik Gottlieb, hanno usato il termine “polysemiotic” per indicare la pluralità dei canali semiotici coinvolti nel testo audiovisivo (si vedano Gottlieb 1998 e il volume Gambier / Gottlieb 2001). 18 Una rassegna delle specificità delle modalità traduttive del doppiaggio e dei sottotitoli è al di fuori dello scopo del presente lavoro. Per una discussione delle caratteristiche tecniche si rimanda a Pérez-Gonzalez 2008; Chiaro 2009; Bruti 2011b.
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modalità più diffusa in Italia, anche a causa di scelte politiche risalenti al regime fascista, e i suoi vincoli nascono dalla necessità di mantenere coerenza tra le immagini e il sonoro. Questo comporta che si ricreino le stesse dinamiche dell’originale quanto a velocità di eloquio e movimenti degli organi fonatori (il famoso problema del sincronismo; cfr. Herbst 1994). La pertinenza di questo vincolo varia in ragione di diversi fattori, primo tra i quali l’inquadratura: si capisce come nei primi piani e nei piani medi sarà prioritario rispettare i movimenti labiali, mentre lo sarà meno nei piani lunghi, nelle scene collettive e in quelle frenetiche. In un film d’azione, ad esempio, incentrato prevalentemente sul dinamismo e sulla fisicità, l’enfasi sui primi piani sarà molto ridotta e, di conseguenza, meno stringenti saranno i condizionamenti nel sincronismo19. Nei sottotitoli interlinguistici, invece, i vincoli sono di natura spaziale e temporale, in quanto sono legati al numero di caratteri che è possibile includere nei sottotitoli e alla permanenza del sottotitolo sullo schermo, un tempo tale che tenga conto sia della velocità di lettura del pubblico, sia del susseguirsi delle immagini (ma intervengono anche altri fattori quali la velocità e il ritmo dell’eloquio, l’intensità dei dialoghi, ecc.)20. Questo implica che il testo sottotitolato sia spesso notevolmente condensato rispetto all’originale, con una percentuale di riduzione che oscilla tra il 40 e il 70%. Benché le modalità della riduzione dipendano da numerosi fattori interrelati, quali il genere del testo audiovisivo, le caratteristiche delle lingue proto e meta, il destinatario ideale, e, non ultimo, il gusto del sottotitolatore, gli elementi che sono espunti più di frequente sono quelli che fanno capo alla funzione espressiva, cioè non strettamente essenziali a veicolare l’informazione principale. Tra questi, come è stato indicato in diversi studi dedicati (cfr., in particolare, Kovačič 1994; Blini / Matte Bon 1996; Hatim / Mason 1997b) e come si vedrà nei capitoli seguenti, i significati emotivi espressi dai vocativi, i complimenti, gli insulti, le marche dell’oralità – cioè le disfluenze, le false partenze, le riformulazioni, gli elementi ridondanti, i fatismi.
19 È opportuno notare che di recente l’importanza del sincronismo è stata ampiamente ridimensionata rispetto ad altri requisiti, quali l’autenticità e la verosimiglianza dei dialoghi (Whitman-Linsen 1992; Chaume 2004 e 2012). Lo scopo principale di un prodotto doppiato è non tradire la natura di testo tradotto, ma sembrare, al contrario, un testo originale. 20 Una trattazione ampia ed esplicativa di tutti gli aspetti tecnici e linguistici è contenuta in Díaz Cintas / Remael 2007.
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La traduzione di un film è un processo che interessa vari livelli di comunicazione: quello della vicenda ficta, rappresentato nel film, quello del pubblico al quale il film è destinato nella versione originale e quello del pubblico per il quale è tradotto. I primi due non sono coinvolti nel processo traduttivo, ma è possibile che vi siano divaricazioni di natura spaziale e temporale per cui la realtà rappresentata è molto distante da quella degli spettatori. Questo può riverberarsi sulla lingua del film, marcata in diatopia e in diacronia rispetto a quella dello spettatore. Di ben altra entità sono invece le modifiche che interessano il passaggio dei parametri contestuali del testo filmico originale a quelli della sua traduzione. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla resa del sistema dell’allocuzione dall’inglese all’italiano che sarà oggetto di approfondimento nel capitolo 4. Semplificando molto, la problematicità traduttiva è dovuta al fatto che si deve passare da un paradigma a un solo elemento, you, che codifica lessicalmente (cioè attraverso i vocativi che gli si accompagnano) i significati di potere e solidarietà (Brown / Gilman 1972), a una lingua come l’italiano, che si avvale sia della grammatica, sia del lessico. Nel tradurre si deve perciò considerare il fenomeno linguistico nelle sue varie sfaccettature nel codice di partenza, verificare l’eventuale corrispondenza strutturale nella lingua d’arrivo e stabilire delle equivalenze tra le due. È in questa direzione che gli studi qui raccolti tenderanno a fare emergere i modi in cui si fanno corrispondere forme espressive e contenuti socio-pragmatici della cultura di partenza e di quella di arrivo, attraverso un esame di fenomeni riconducibili all’area della cortesia, i complimenti (capitolo 2), gli insulti (capitolo 3), gli allocutivi (capitolo 4).
2. I COMPLIMENTI: UNA SORTA DI “REGALO VERBALE”
Nowadays we are all of us so hard up, that the only pleasant things to pay are compliments. They’re the only things we can pay. Oscar Wilde (1892), Lady Windermere’s Fan, Act One Women are never disarmed by compliments; men always are. Oscar Wilde (1899), An Ideal Husband, Act Three
1. INTRODUZIONE In questo capitolo si analizzano i complimenti e la loro traduzione nel testo audiovisivo. Dopo una riflessione sull’atto linguistico del complimentarsi e sulle sue caratteristiche specifiche, si considera una casistica di esempi, confrontando i complimenti con le traduzioni sia nei sottotitoli interlinguistici, sia nel doppiaggio. Infine, si prende in esame un corpus parallelo di dialoghi filmici originali (di film britannici e americani) accompagnato dai dialoghi doppiati in italiano (Freddi / Pavesi 2009a). Questa indagine permetterà anche di mettere a confronto i complimenti con gli insulti (oggetto del capitolo 3), appartenenti alla stessa classe illocutoria – gli atti espressivi. I due atti linguistici, che contribuiscono entrambi all’espressione della (s)cortesia, hanno due scopi perlocutori opposti, rispettivamente mirati a sostenere e tutelare la faccia dell’interlocutore, o, al contrario, a minacciarla e a metterla a repentaglio. L’analisi nei capitoli 2 e 3 mostrerà che, in realtà, spesso i veri scopi perlocutori sono esattamente invertiti rispetto alle previsioni, cioè i complimenti possono rivelarsi falsi e crudeli mentre gli insulti possono costruire solidarietà. Nel testo filmico, un testo che mette in scena lo snodarsi dinamico dell’interazione in tutti i suoi risvolti socio-pragmatici, piccole variazioni
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nella trama linguistica possono ripercuotersi sull’ordito sociale riprodotto. Il confronto puntuale tra originali e versione tradotte è volto a verificare se l’articolazione della cortesia – in particolare dei complimenti – è stata trasposta in maniera fedele al progetto illocutorio originale.
2. I COMPLIMENTI I complimenti nell’interazione sono atti linguistici volti a mantenere, tutelare o rafforzare la faccia del destinatario. Essi sono usati per una sere di motivi, tra i quali il principale è l’espressione di ammirazione o approvazione per l’operato di qualcuno, per il suo aspetto o per il suo gusto, ma ve ne sono altri altrettanto diffusi e importanti: si usano anche per stabilire o rafforzare la solidarietà, per sostituire o intensificare saluti, scuse, congratulazioni e altri atti linguistici espressivi (Searle 1969), per mitigare atti scortesi quali scuse, richieste e critiche, per avviare e sostenere la conversazione, per rafforzare comportamenti “preferiti” (nel senso di Sacks / Schegloff / Jefferson 1974). In letteratura i complimenti sono descritti come atti flessibili, che oltre ad avere uno status loro proprio possono anche assumere funzioni secondarie ancillari e intensificare, o in alcuni casi anche sostituire, un altro atto discorsivo. Nelle parole di Nessa Wolfson (1983, 88), i complimenti possono “strengthen or even replace other speech-act formulas”, per esempio le scuse, i ringraziamenti, i saluti, e mitigare il potenziale offensivo inscritto in atti di critica, rimprovero, o in atti direttivi perentori (Holmes 1986, 488). Il quadro è in realtà assai più complesso, perché a volte i complimenti non si avvalgono di un lessico esplicitamente “positivo” e non sono molto diversi da un’asserzione neutrale. Per quanto essi possano ricoprire una gamma molto ampia di ruoli in vari contesti, gli studiosi sono concordi nel riconoscere loro la natura di “social lubricants” (Wolfson 1983, 89), strategie che stabiliscono o rinforzano l’accordo, la reciprocità, o la solidarietà sociale. Spesso i complimenti – o per essere più precisi l’intera coppia costituita dal complimento e dalla replica, vedi paragrafo 2.3.4. – sono indipendenti dal cotesto nel quale sono collocati, anche se hanno attinenza con lo sviluppo tematico del discorso. La loro flessibilità li rende adeguate aggiunte a sequenze di apertura, quali i saluti (si vedano
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Bonsignori / Bruti / Masi 2011, 2012), o ai ringraziamenti (di solito in posizione finale di sequenza). I complimenti sono usati di preferenza nella negoziazione delle identità sociali degli individui e delle loro relazioni. Di conseguenza, una scelta infelice di una replica a un complimento potrà avere come conseguenza la perdita della faccia. La risposta “preferita” ai complimenti è perciò l’accettazione, ma nella varietà americana dell’inglese, per esempio, in due terzi dei casi i destinatari dei complimenti adottano un tipo diverso di replica, cioè mitigare, sviare, rifiutare o chiedere chiarimenti. Come si vedrà più avanti, la ricerca pragmatica ha messo in luce che ci sono modalità di realizzazione diverse da lingua e lingua, soprattutto per quanto attiene alle variabili della situazione comunicativa. Al pari di ogni altro atto linguistico, i complimenti si inseriscono nel tessuto del discorso e, nonostante essi siano flessibili e si prestino a occupare diverse posizioni, come puntualizza Golato (2005), necessitano di qualche “aggancio” (Golato parla infatti di “hooks”). Quando un parlante rivolge un complimento a un ascoltatore, è necessario che quest’ultimo conosca e riconosca l’oggetto che è valutato, cioè il bene posseduto, l’abilità, la caratteristica su cui è incentrato il complimento (Golato 2005, 27). Secondariamente, l’altro requisito ineludibile è che un certo grado di “positività” deve emergere dall’enunciato, o in superficie, se è codificato nel lessico e nelle strutture sintattiche scelte, oppure deve essere recuperabile inferenzialmente grazie a informazioni contestuali. La ricerca sui complimenti è molto prolifica, specialmente in alcuni settori privilegiati. Si possono individuare tre filoni principali ai quali ricondurre quasi tutte le ricerche sull’argomento. Uno dei più fertili è quello delle modalità di realizzazione in alcuni ambiti linguistici particolari, come per esempio le diverse varietà di inglese parlate nel mondo (la ricerca sulla linguistica variazionista, cioè la variazione pragmatica intra-linguistica, come mostra Barron 2008 per l’ingleseinglese e l’inglese parlato in Irlanda) o gli studi contrastivi che mettono in evidenza le differenze tra lingue. Un’altra linea investigativa fertile è la classificazione dei complimenti in base al tipo illocutorio e alle forme linguistiche impiegate. Una terza considera invece i parametri sociolinguistici correlati con l’uso dei complimenti, cioè, come dice Jucker in un suo recente lavoro sull’argomento, “who uses compliments to whom on which occasions” (Jucker 2009, 165). Jucker propone un
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nuovo modo di studiare i complimenti come atti linguistici, raffrontando i diversi metodi di ricerca in pragmatica e valutando l’adeguatezza di ciascuno di questi in relazione agli scopi della ricerca stessa. I metodi passati in rassegna sono: “armchair”, “field” e “laboratory”, ciascuno dei quali ha pregi e difetti a seconda della domanda di ricerca alla quale si vuole rispondere. Come si vedrà più avanti e come ha messo in evidenza Anita Pomerantz in un articolo del 1978, essenziale alla ricerca successiva sui complimenti, questi atti espressivi pongono al destinatario un serio dilemma interazionale: accettare il complimento e allinearsi così al parere espresso dall’emittente (che, riprendendo la terminologia di Leech 1983, risulterebbe consono alla Massima dell’accordo) ma violare dall’altro la Massima della modestia, che imporrebbe invece di minimizzare l’apprezzamento di sé. Questo doppio vincolo può essere risolto in modi diversi a seconda delle culture. Per esempio, nelle culture orientali, per le quali modestia e umiltà sono tratti comportamentali essenziali, i complimenti sono di norma accolti in forma mitigata, con espressioni volte a minimizzare e ad autodenigrarsi (Chen 1993). Nei paesi occidentali si tende piuttosto all’accettazione, anche se spesso si mettono in atto soluzioni di compromesso, tra le quali accordi parziali o mitigati, strategie diversive per evitare il complimento, domande volte a verificarne la sincerità (Alfonzetti 2006, 104-106), o anche lo spostamento della lode su altri (2006, 94 e segg.) o la descrizione delle proprietà dell’oggetto lodato (Alfonzetti 2006, 106 e segg.).
2.1. La ricerca variazionista I complimenti e le repliche sono stati sinora studiati in un grande numero di lingue. La maggior parte degli studi ha riguardato l’inglese nelle sue molte varietà: l’inglese parlato negli Stati Uniti (Herbert 1989, 1990, 1991; Holmes 1986, 1988, 1995; Holmes / Brown 1987; Wolfson 1981, 1984; Wolfson / Manes 1980), l’inglese britannico (Lewandowska-Tomaszcyk 1989; Creese 1991; Ylänne-McEwen 1993; Lorenzo-Dus 2001), l’inglese parlato in Sudafrica (Chick 1996; Herbert 1989, 1990; Herbert / Straight 1989), in Australia (Cordella / Large / Pardo 1995) e in Nuova Zelanda (Holmes 1986, 1988, 1995; Holmes / Brown 1987).
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Lo studio a oggi più completo sui complimenti è quello di Golato (2005), una monografia ben organizzata, aggiornata e completa sui complimenti e le repliche in tedesco1. Nella prima parte la studiosa fornisce un quadro molto dettagliato della ricerca precedente sui complimenti e sulle repliche, rispetto alla quale colloca la propria, che si differenzia soprattutto per la diversa metodologia impiegata nell’analisi dei dati (ottenuti con registrazioni di conversazioni spontanee in ambito familiare e tra amici), che le permette di far emergere i rapporti tra grammatica e interazione. Per quanto riguarda l’italiano si ricordano lo studio di Frescura (1996), dedicato alle sequenze di risposta ai complimenti, e quelli di Alfonzetti (2005, 2010, 2013), tra i quali un volume (2006 / 2009). A quanto ci consta, a parti gli studi di impronta traduttologica di chi scrive, non ci sono studi sul confronto tra inglese e italiano, eccezione fatta per un breve contributo di Biancolini Decuypère (2002). La scarsità di dati sull’italiano non consente di fare generalizzazioni, ma solo di prevedere alcune tendenze ricorrenti. Frescura (1996) ha osservato che il complimento è ritenuto a tutti gli effetti un “dono verbale” e riconosciuto come atto iniziatore di uno scambio. Nelle risposte gli italiani sembrano prediligere una via intermedia tra il consenso con il parlante che si complimenta e il diniego. Frescura ha però notato un forte senso dell’umorismo e una consapevolezza degli attori coinvolti delle regole del gioco nella loro “lingua-cultura” (1996, 107). Osservazioni utili anche quelle in Alfonzetti (2006; 2010), che evidenziano una grande diffusione dei complimenti tra le popolazioni mediterranee, oltre che negli Stati Uniti e nei paesi slavi (2010, 2). I dati italiani analizzati dalla studiosa sono infatti relativi a conversazioni avvenute a Catania e a Roma. Se gli atti direttivi tendono convenzionalmente a essere caratterizzati da processi attenuativi (in maniera più o meno evidente nelle varie lingue) per contenere il rischio di minaccia della faccia, la categoria degli espressivi, di cui i complimenti fanno parte, è invece contraddistinta dall’enfasi sugli “stati emotivi” (Sbisà 2001). Avremo quindi diverse forme di intensificazione applicabili a vari livelli: dall’intonazione enfatica, al tono amichevole ed espansivo, all’uso di gesti e sguardi solidali e positivi, fino a tutta una gamma di fenomeni di rafforzamento lessicale, quali aggettivi valutativi iperbolici, superlativi, avverbi intensificatori (2006, 182-190), e all’uso di 1
Sempre sui complimenti in tedesco si vedano Golato (2002; 2003).
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strutture sintattiche marcate (dislocazioni, topicalizzazioni, ecc.)2. La ridondanza tra livelli è, infine, un ulteriore indice di rafforzamento. Fenomeni di mitigazione3 si osservano di contro nelle repliche, dove è prioritario minimizzare la lode di sé. Alcune osservazioni sulla traduzione dei complimenti e sulle norme sottese alle due culture coinvolte, inglese (anglo-britannica) e italiana, sono contenute in Bruti (2006). I risultati parziali di quello studio indicavano che la traduzione dei complimenti impliciti nei sottotitoli italiani può essere convincente se si riproduce fedelmente la verbalizzazione dell’originale, mentre se, come spesso accade, si espunge qualcosa4, l’effetto può essere poco efficace, specie in una cultura dove domina l’enfasi sul rafforzamento5. Riprenderemo la discussione in 2.4.1.1..
2.2. Per una tipologia illocutoria Un aspetto che ha attirato grande attenzione è la tipologia dei complimenti (Kerbrat-Orecchioni 1987; Boyle 2000; Bruti 2006), cioè i tentativi di classificare i complimenti in base al punto illocutorio, più o meno esplicito, o in base a una serie di fattori sociali e all’identità ideologica e culturale di un gruppo etno-linguistico. In effetti, anche se gli scopi comunicativi sono universalmente condivisi, le funzioni possono essere attuate in modi assai diversi (Trosborg 1995, 39). Gli studi di pragmatica cross-culturale hanno tentato di chiarire i diversi atteggiamenti dei parlanti, le gerarchie valoriali e i modi in cui sono costruite le identità discorsive. Le norme culturali si riflettono nel tessuto linguistico, o, come ha affermato Wierzbicka (1991 / 2003, 26), “different speech acts become entrenched, and, to some extent, codified in different languages”. Anche Trosborg (1995) chiarisce che le Sull’interessante e ancora poco esplorato ambito dell’intensità e dell’intensificazione si veda il volume a cura di Gili Fivela / Bazzanella (2009) e in particolare i saggi di Merlini, Mondada, Bazzanella e Magris. 3 Non si può qui dare conto del pervasivo e frequente fenomeno della mitigazione. Si rimanda, nell’ampia bibliografia, alla recente monografia di Caffi (2007). 4 Si è accennato brevemente alle caratteristiche dei sottotitoli interlinguistici e ai forti vincoli tecnici cui sono sottoposti al paragrafo 6.1. del capitolo 1. Si veda Bruti (2011b) per una sintesi; per una descrizione approfondita si rimanda invece a Díaz Cintas / Remael (2007). 5 Su questi aspetti si veda il contributo di Mattiello (2013), dedicato ai due fenomeni opposti di understatement e overstatement nei discorsi dei politici. 2
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norme pragmatiche riflettono i modi specifici in cui ogni cultura articola i propri valori, o per riprendere un’espressione usata da Brown e Levinson, che risale a Bateson (1958 in Brown / Levinson 1987), mostrano un “ethos” culturale distinto, cioè una diversa “quality of interaction characterizing groups, or social categories of persons, in a particular society” (1987, 243). Le classificazione sono diverse, alcune con confini non molto definiti tra una tipologia e l’altra, ma su due categorie sembra esserci consenso generale: i complimenti diretti e quelli indiretti. Più problematica, come vedremo, la tipologia dei complimenti impliciti. Il complimento diretto è il complimento prototipico, cioè quello in cui l’espressione dell’apprezzamento è esplicita e inconfutabile e il destinatario chiaramente identificato: si può, anche se abbastanza raramente, ricorrere a formule performative del tipo “complimenti!”, o utilizzare aggettivi positivi tipo “bello”, “bravo”, “splendido”, “fantastico”, o anche forme verbali e avverbiali, quali “fare bene”, “stare magnificamente” o nomi, quali “genio”, “meraviglia”. Nei complimenti indiretti6, invece, come spiega Kerbrat-Orecchioni (1987, 5), l’elogio riguarda una persona legata al parlante, e pertanto il giudizio positivo si riflette metonimicamente anche sul parlante. Questa coppia diretto / indiretto si sovrappone spesso nelle classificazioni a un’altra distinzione, quella tra complimenti espliciti e impliciti. Nei complimenti espliciti il giudizio positivo è espresso apertamente, come per esempio in “Come sei bella!”, mentre nei La terminologia impiegata per distinguere i tipi di complimenti non è sempre omogenea. Quelli che Kerbrat-Orecchioni (1987, ma anche Jucker 2009) chiama complimenti “indiretti” sono indicati come “third-party compliments” in parte della letteratura in lingua inglese (per esempio Golato 2005), poiché si preferisce indicare con il termine “indirect” un tipo di complimento che si affida a una formulazione meno esplicita, che necessita di una operazione di decodifica attraverso inferenze. In questo studio si adottano per i complimenti le seguenti etichette: “espliciti”, “impliciti” e “falsi”. In un altro studio, Bruti (2009), scritto in lingua inglese, le etichette impiegate sono: “overt”,”covert” e “dishonest”. Si veda, per un’ulteriore discussione, Bruti (in press), dove, per semplificare la questione, in linea con la proposta di Bączkowska e Izwaini (cfr. Bączkowska / Izwaini in stampa), i complimenti sono stati classificati in “direct”, “indirect” e “implicit”, aggiungendo la categoria dei “false compliments”. Il criterio distintivo è il seguente: i complimenti sono considerati indiretti se attribuiti non direttamente all’interlocutore, impliciti se lo sforzo interpretativo poggia su un divario epistemico tra gli interagenti, falsi se lo scopo illocutorio vero, spesso non superficiale, è di altra natura. 6
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complimenti impliciti il giudizio è presupposto anziché direttamente espresso e comporta un lavoro interpretativo più o meno “costoso” da parte del ricevente. Anche Herbert (1991) ricorda questa distinzione, descrivendo i complimenti espliciti come quelli che possono essere identificati fuori contesto, i secondi “those in which the value judgement is presupposed and / or implicated by Gricean maxims” (1991, 383). Possiamo ipotizzare diversi gradi di “implicitezza”: un esempio come “Ciao, splendore”, implicito, ma facilmente decodificabile, con il giudizio presupposto; un caso come “Tuo marito ha buon gusto”, altrettanto facilmente interpretabile, ma in questo caso il giudizio è implicito; e, infine, casi in cui si fa riferimento a conoscenze condivise di tipo enciclopedico (Alfonzetti 2010, 1), come in “Sei sulla copertina di Glamour di questo mese”, che presuppone che il destinatario sappia che Glamour è una rivista di moda tra le più popolari e che la foto di copertina appartiene di solito a una modella di fama, o comunque a un’icona della bellezza femminile moderna. Dall’esempio del giudizio positivo espresso nei confronti di un terzo si palesa una possibile distinzione tra destinatario – il ricevente di un turno discorsivo – e destinatario del complimento – la persona di cui si tessono le lodi. Nei complimenti diretti ed espliciti le due figure coincidono, mentre in quelli indiretti possono rimanere distinte. Come si diceva, i complimenti possono appartenere contemporaneamente a diverse tipologie. Per esempio, un complimento indiretto esplicito come il seguente può contenere un complimento diretto presupposto “Tua figlia è molto bella. Ha gli stessi begli occhi della madre”7. Un altro caso proposto sempre da Kerbrat-Orecchioni è quello dei “complimenti crudeli” (compliments perfides in 1987, 7), nei quali un contenuto apparentemente positivo può nascondere un anticomplimento implicito: “Ti sta bene questo vestito. Ti fa molto più magra” oppure “Come può essere che i vostri figli siano così intelligenti?” (si veda oltre per una discussione più approfondita). Un’ultima coppia, ma non molto rilevante, individuata da KerbratOrecchioni (1987) è quella dei complimenti “sollecitati” o “non sollecitati”. In realtà, come la studiosa stessa ammette, i complimenti richiesti o “sollecitati” non meritano lo status di complimenti, perché Gli esempi relativi ai complimenti impliciti e indiretti sono tratti da KerbratOrecchioni (1987, 7) e tradotti in italiano.
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l’espressione dell’apprezzamento deve essere spontanea, tant’è che l’atto di sollecitare i complimenti è socialmente sanzionato. Inoltre, un complimento che risponde a una richiesta è un atto reattivo e non un atto iniziatore di sequenza, cosa che caratterizza invece i complimenti. Ciò che necessita invece più attenzione sono i complimenti impliciti di vario tipo, sia perché assai frequenti, sia perché più interessanti da un punto di vista retorico in quanto più elaborati e ambigui. Nell’immenso panorama degli studi sui complimenti, o meglio, sulla coppia complimenti / risposte, gli studiosi sono unanimi nel riconoscere una certa regolarità nel lessico e nelle strutture sintattiche usati, oltre che una scelta ristretta di argomenti (un oggetto posseduto dal destinatario, un’azione da lui compiuta, o una sua qualità personale; cfr. Holmes 1988; Herbert, 1991), perlomeno nelle lingue occidentali (si veda il paragrafo 2.3.1.). Tuttavia, come argomenta Boyle (2000), non è affatto necessario che i complimenti siano formulari: anzi, in certi generi c’è una marcata propensione all’uso di forme “implicite” (cfr. anche Herbert 1991, 383). Per implicito Boyle intende due diversi atti linguistici: un primo che si riferisce a risultati ottenuti dal destinatario, il cui riconoscimento dipende fortemente dalle conoscenze contestuali; e un secondo in cui il destinatario è confrontato con qualcuno che gode della sua stima. Quest’ultimo tipo richiede parimenti un buon livello di conoscenze indessicali in modo che il complimento sia interpretato come tale. L’espressione di lode si fonda su un paragone, la cui interpretazione dipende da quanto bene il destinatario conosce l’oggetto del paragone. Vediamo qualche esempio8 di varia natura.
8 Nel trascrivere i sottotitoli si sono rispettate le regole di segmentazione proposte. Gli “a capo” sono perciò quelli che compaiono nel sottotitolo per la versione su supporto DVD del film in oggetto. Il simbolo / indica la fine del sottotitolo, mentre invece il trattino breve, -, indica due turni di parola appartenenti allo stesso sottotitolo, sovente disposti su due righe di testo. I complimenti sono indicati con il sottolineato sia nell’originale, sia nei sottotitoli. Per far notare la corrispondenza si usa la sottolineatura anche quando la traduzione non è più un complimento, o è un complimento di tipo diverso. Gli esempi sono tratti da Bruti (2006). Più avanti nel capitolo si considererà la traduzione dei complimenti nel doppiaggio.
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Personaggi MAGDA MARY MAGDA
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Originale So, who’s the lucky guy? His name’s Pat. I met him at the driving range. Is he good-looking?
Sottotitoli Allora, chi è il fortunato? Si chiama Pat./ L’ho incontrato al golf. È attraente?
Esempio 1 There’s Something about Mary
Personaggi CHARLES WHEELER
ANDY CHARLES
ANDY
CHARLES
ANDY CHARLES
Originale That’s why as of 9.03 this evening, right after the dessert course, Highline Incorporated is now represented by Wyant, Wheeler, Hellerman, Tetlow & Brown. Outstanding! And more specifically our senior associate Andrew Beckett. Yes! Charles I sincerely appreciate your faith in my abilities. Faith Andy is a belief in something for which we have no evidence. It doesn’t apply in this situation. […] Thank you, Charles. No sweat, buddy.
Sottotitoli Per questo, dalle 9.03 di stasera, proprio dopo il dessert,/ hanno deciso di affidarsi a Wyant, Wheeler, Hellerman,Tetlow & Brown./
Magnifica decisione!/ E in modo più specifico al nostro giovane socio Andrew Beckett./ Charles, grazie per avere così tanta fede nelle mie capacità./ Aver fede vuol dire credere in qualcosa che non si può provare./ In questo caso, credimi, la fede è fuori questione./ […] Grazie, Charles. Te lo sei meritato.
Esempio 2 Philadelphia
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Personaggi JULIE
Originale Well, the baby and I are gonna up to my dad’s farm upstate. It’s not exactly the fast lane, but it’s kind of fun. Maybe you’d like to come along? You know, since my dad met you he’s your biggest fan.
Sottotitoli Beh, io e la mia bambina andiamo alla fattoria di mio padre, su al nord./ Non è esattamente prima classe, ma ci si diverte./ Non vorresti venire con noi?/ Sai, da quando mio padre ti ha vista è il tuo più grande ammiratore./
Esempio 3 Tootsie
I complimenti negli esempi (1) e (2) vertono su qualche azione pregevole ad opera dei destinatari dei complimenti stessi. I commenti positivi non riguardano il destinatario in maniera diretta, ma si riflettono in qualche modo su di lei o su di lui. Nell’esempio (1) Mary riceve un complimento indiretto, che è anche implicito, attraverso l’espressione “the lucky guy”, riproposta fedelmente anche nei sottotitoli in italiano. Il complimento è indiretto perché transita attraverso un terzo attore, e implicito perché si allude soltanto a una serie di caratteristiche positive di Mary senza però farne menzione. Nell’esempio (2) il discorso di Charles Wheeler sulla fede contiene un riconoscimento obliquo del talento legale di Andy Beckett, che Andy ha appena dimostrato conquistando un cliente molto difficile. In questo esempio, la traduzione in italiano opta per l’espressione “avere fede” invece del più consueto e appropriato “avere fiducia” proprio perché altrimenti il complimento implicito contenuto nell’ultimo turno di Wheeler andrebbe perduto. L’esempio (3) è un caso particolare di complimento implicito, perché il focus dell’enunciato sembra essere sul padre di Julie piuttosto che su Dorothy (Tootsie), che è invece la destinataria dell’enunciato stesso. Tuttavia, nel momento in cui Julie sostiene che il padre è divenuto uno dei sostenitori più accaniti di Tootsie le rivolge un complimento. Il nesso è ovviamente che chi ha dei fan è oggetto di ammirazione e lode. Il complimento, come si vede, si ricostruisce per via inferenziale, come se fossimo davanti a un caso di ellissi pragmatica, nella quale il significato implicato è accessibile
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grazie alle conoscenze contestuali e interpersonali condivise dai parlanti9. Si consideri inoltre (4). Personaggi DAVID
LINUS
Originale Well, I may know nothing of Dow Jones, but I do know something about kisses. You could lecture on that at Vassar.
Sottotitoli Non ne saprò nulla del Dow Jones ma di baci sono esperto./ Potresti tenere un corso universitario./
Esempio 4 Sabrina
L’esempio è di natura fortemente implicita, visto che nessun elemento ha in sé un valore denotativo positivo. Linus si complimenta con il fratello per il suo successo con le donne, ma, in realtà, si può leggere tra le righe una vena ironica e polemica, per il suo disinteresse per tutto ciò che esula da divertimento, donne e auto. Il sottotitolo tiene fede alla natura dell’originale, mantenendo il complimento implicito, ma applicando una delle leggi universali della traduzione, la normalizzazione (Laviosa Braithwaite 1998, 289): il riferimento culturale a Vassar, prestigioso ed esclusivo college lungo la valle dell’Hudson, è trasformato in un generico riferimento all’ambito universitario. Il tipo di complimento implicito che fa riferimento a un confronto tra il destinatario e qualcuno che gode della sua stima si manifesta a volte come un’estensione del complimento a qualcuno che il destinatario apprezza, con l’effetto benefico riflesso quindi specularmente su di lui, oppure come inclusione del destinatario del complimento in un gruppo. In quest’ultimo caso il destinatario è apprezzato proprio per l’appartenenza al gruppo. Si considerino gli esempi (5) e (6). Personaggi SABRINA LINUS
Originale You don’t object? To you? It’s as though a window had been thrown open and a lovely breeze swept through this stuffy old house.
Sottotitoli Non disapprova?/ Disapprovare? Di lei? È come se fosse stata spalancata una finestra/ e in questa casa fosse entrata una fresca brezza./ Come potrei disapprovare?
Esempio 5 Sabrina
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Sui diversi tipi di significati impliciti si veda Bertuccelli Papi (2000).
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Personaggi GAYLE
BILL
GAYLE BILL GAYLE
Originale You don’t remember me, do you? You were kind to me once. Only once? That sounds like an oversight. Do you know what’s so nice about doctors? Usually a lot less than people think. They always seem so knowledgeable about all sorts of things.
GAYLE / BILL
GAYLE
BILL
Una sola volta? Una svista imperdonabile./ Lei lo sa perché i medici piacciono tanto?/ Piacciono molto meno di quel che la gente si immagina./ Sembrano sempre così…/
-Consapevoli. Ci capite. -Oh, veramente riusciamo a capire/… -… un sacco di cose. -Ma lavorate troppo./
BILL / GAYLE BILL
Sottotitoli Lei non si ricorda di me, vero? Fu molto gentile con me una volta./
They are very knowledgeable about all sorts of things. But I’ll bet you work too hard. Just think of what they miss. You’re probably right.
Pensi a tutto quello che vi perdete!/
Probabilmente è così./
Esempio 6 Eyes Wide Shut
L’esempio (5) mostra un tipico caso di paragone, nel quale Sabrina è posta a confronto di una piacevole e lieve brezza che porta aria fresca e nuova in un ambiente asfittico. Nei sottotitoli si preserva il complimento, anche se l’effetto è alquanto attenuato, perché si perde il contrasto tra “lovely breeze” e “stuffy old house”, in quanto la casa è descritta in termini neutrali. In (6), invece, il complimento è del tipo descritto poco sopra, cioè legato all’appartenenza a un gruppo di persone, in questo caso di medici. Il fatto che Bill faccia parte di questo gruppo è esplicitamente dichiarato da Gayle, nel passaggio dal pronome “they” con il quale ha fino a quel momento descritto la categoria, all’uso di “you” inclusivo nella battuta “I bet you work too hard”. In italiano l’identificazione di Bill come medico è resa ancora più esplicita, poiché al posto di “they” è usato più di frequente il pronome di
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seconda persona plurale “voi”: “Ci capite… ma lavorate troppo. Pensi a tutto quello che vi perdete”10. Entrambi i tipi discussi da Boyle sembrano strategicamente adeguati a risolvere l’impasse individuata da Pomerantz (1978) come tratto tipico dei complimenti, cioè riconciliare la necessità di esprimere accordo e di evitare al contempo l’auto-celebrazione. Rispondono inoltre alla funzione fatica, non solo perché impiegano lo small talk11 per creare o consolidare un rapporto, ma perché ottengono un grado più elevato di solidarietà con l’altro. Anche Lewandoska-Tomaszcyk (1989, 77) prende in considerazione forme di complimenti non strettamente “canoniche”, giungendo alla conclusione che meno fissa e più indiretta è l’espressione delle lodi, più efficaci sono gli effetti sociali ottenuti in termini di solidarietà. In altre parole, la scelta di un linguaggio non routinario presuppone nel parlante un’attenzione particolare nella formulazione dell’enunciato di supporto alla faccia, e, di conseguenza, il suo coinvolgimento e la sua sincerità. D’altro canto è anche vero che i casi di complimenti non convenzionali e impliciti possono essere fonte di ambiguità e richiedere maggiore sforzo interpretativo da parte del destinatario (Lewandoska-Tomaszcyk 1989, 82). Le modalità di comunicazione indirette sono indicate anche da Thomas (1995) come rischiose e costose dal punto di visto dello sforzo interpretativo. Rischiose perché non vanno sempre a buon fine e possono indurre a errori; costose perché un enunciato indiretto richiede più inferenze in fase di decodifica. Ciononostante, le strategie di comunicazione indiretta sono riconosciute come un fenomeno universale comune a molte lingue del mondo, che privilegiano di volta in volta diverse variabili specifiche, quali potere, distanza, diritti e doveri, gravità dell’imposizione, urgenza della situazione, ma sempre in vista di ottenere “some social or communicative advantages” (1995, 143), spesso proprio raggiungendo maggiore cortesia e salvaguardando la faccia dell’interlocutore. Altri scopi comunicativi possono essere la volontà di rendere il proprio contributo discorsivo più interessante (o 10 Per una casistica più ampia di esempi di complimenti impliciti si rimanda a Bruti (2006). 11 Small talk è un’espressione che indica la conversazione fine a se stessa, o per scopi prevalentemente fatici, che avviene di solito tra persone che non si conoscono molto bene e che verte, di conseguenza, su argomenti poco impegnativi e generici, quali il tempo, lo sport, la situazione politica, senza che però i parlanti dichiarino le proprie credenze. Si veda Coupland (2000).
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anche meno interessante, sviando l’attenzione dell’interlocutore se questo è funzionale agli scopi del parlante) e rafforzare la forza illocutoria dell’enunciato e raggiungere gli obiettivi perlocutori prefissi. Tuttavia, come si è visto nel corso del primo capitolo, non è sostenibile che vi sia una proporzionalità diretta tra cortesia e strategie indirette. I parlanti possono decidere volontariamente di essere scortesi usando modalità estremamente dirette e perentorie; inoltre, le modalità indirette non si usano esclusivamente in atti linguistici potenzialmente maleducati o aggressivi. Quest’ultimo è proprio il caso dei complimenti, atti di per sé cortesi e solidali, volti soprattutto a rafforzare la faccia positiva del destinatario. Infatti, come si è visto, a volte le persone si sentono a disagio nel ricevere un complimento perché lo avvertono come un’invasione del proprio territorio, cioè come se un “unwarranted degree of intimacy [is assumed]” (Spencer-Oatey / Ng / Dong 2000, 98). Di conseguenza, essere indiretti nel proferire complimenti può sortire effetti positivi perché si ripristina maggiore equilibrio tra la faccia positiva e quella negativa, riducendo il rischio di avvicinarsi troppo all’interlocutore, imbarazzandolo, e, al contempo, si incrementa la forza dell’enunciato proferito usando locuzioni non convenzionali e prefabbricate e si coinvolge l’interlocutore attivamente nell’atto interpretativo chiamandolo a recuperare i significati implicati. Vediamo adesso due casi diversi di complimenti indiretti, gli esempi (7) e (8) Personaggi MARY’S MOTHER
MARY’S STEPFATHER
Originale Oh, here she comes. Oh, honey, you look beautiful. Oh shit look at that! You better be careful, boy!
Sottotitoli Oh, eccola. Cara, sei bellissima./ Merda guarda lì. Farai meglio a stare attento, ragazzo!/
Esempio 7 There’s Something about Mary Personaggi MRS SHANAHAN HAL
Originale Nice to meet you, Hal.
Sottotitoli -Piacere, Hal.
The pleasure is mine, Mrs Shanahan. Wow. I can see where Rosemary gets her figure.
-Piacere mio, Mrs Shanahan./ Adesso capisco da chi ha preso la sua linea Rosemary./
Esempio 8 Shallow Hal
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Nell’esempio (7) il complimento, che allude alla bellezza di Mary, è sfruttato per ammonire Ted, il ragazzo che sta per portarla al ballo di fine anno, mentre in (8) l’apprezzamento per la figura di Rosemary sembra un complimento indiretto fatto alla madre. In realtà, in questo caso sarà la trama del film a chiarire la natura di questo atto linguistico. Hal, sotto l’effetto di un incantesimo, vede una realtà distorta, e, soprattutto, vede Rosemary e sua madre come due donne snelle e graziose, quando invece sono entrambe ampiamente sovrappeso. Questo atto ha dunque una natura illocutoria molto articolata e diversificata sui due assi comunicativi: lungo quello interno, tra personaggi, ha due modalità, quella di Hal, che vede la sua realtà ed è perciò onesto, e quella della madre di Rosemary, che si sente offesa; sull’asse esterno che si estende dal personaggio al pubblico, è di nuovo un atto sincero e genuino da parte di Hal, mentre sia Mrs Shanahan che il pubblico lo interpretano come una crudele forma di ironia. Tutti e due gli esempi mostrano la sovrapposizione di varie tipologie in un unico esempio: i complimenti in oggetto sono indiretti e anche impliciti, in quanto l’espressione della lode non è affidata a nessun elemento del tessuto linguistico superficiale e sono perciò ricostruiti inferenzialmente, ma si rivelano anche complimenti “falsi”, in quanto tradiscono una natura illocutoria diversa.
2.3. I parametri di variazione dei complimenti Come si accennava sopra, i complimenti variano in ragione di una serie di fattori legati al contesto e alla situazione enunciativa. Tra questi l’argomento del complimento, saldamente connesso alla situazione enunciativa, il sesso dei parlanti, la loro classe sociale.
2.3.1. Gli argomenti In letteratura è stato ampiamente riconosciuto che i complimenti vertono principalmente su alcuni argomenti privilegiati e tendono a essere piuttosto fissi e formulari (Wolfson 1981, 1984; Manes / Wolfson 1980; Wolfson / Manes 1980; Holmes 1988 tra i molti), una caratteristica che fa sì che possano a pieno titolo essere inclusi tra le cosiddette “routine pragmatiche o conversazionali” (Coulmas 1981; Bardovi-Harlig 2012, 2013). La ricerca ha inoltre evidenziato che, anche se un’ampia gamma di argomenti è teoricamente possibile, la maggior
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parte dei dati analizzati indica chiaramente una preferenza per pochi argomenti (cfr. Holmes 1988; Ishihara 2001). Gli argomenti più frequenti sono pertanto aspetto fisico, abilità o azioni effettivamente compiute, oggetti posseduti, tratti personali e caratteriali. I complimenti sull’aspetto fisico sono quelli più frequenti, ma sono più ampiamente rappresentati nell’interazione tra donne. Wolfson (1983, 90) indica tra i complimenti più “sicuri” quelli sugli oggetti (del tipo That’s a beautiful car), o quelli legati a qualche aspetto di un’azione visibile pubblicamente (come ad esempio I really enjoyed your talk yesterday). Nell’inglese parlato in Nuova Zelanda, a differenza dell’inglese americano, gli uomini ricevono molti complimenti sull’aspetto fisico. Complimentarsi sull’aspetto tra parlanti di sesso diverso può essere percepito come troppo intimo o può essere interpretato come strategia seduttiva. Per questo gli uomini preferiscono rivolgere alle donne complimenti sulle azioni o sulle capacità, non solo come riconoscimento del loro status sociale, ma proprio per evitare di essere ritenuti inappropriati o sessisti. Riassumendo, i dati di Holmes (1988, 1995) rilevano che poco più del 60% dei complimenti scambiati tra donne sono sull’aspetto e quelli sulle abilità o sulle azioni solo un 20%; gli uomini, invece, scambiano tra loro il 36% di complimenti sull’aspetto e il 32% sulle abilità o sulle azioni compiute. È evidente che il divario è molto meno cospicuo rispetto a quello riscontrato tra le due categorie in interazioni al femminile. Nelle diadi miste, cioè uomini / donne e donne / uomini, lo scarto tra le prime due categorie, aspetto e capacità, è minimo (47% vs 44% nel primo caso, 40% vs 35 nel secondo). Lo studio comparativo tra inglese australiano e spagnolo di Cordella / Large / Pardo (1995), più incentrato su altri parametri sociolinguistici, cioè l’identità del destinatore e del destinatario dei complimenti, evidenzia una stretta relazione tra argomento ed età degli interagenti. Con destinatari giovani, di età inferiore ai trent’anni, si privilegia l’uso di complimenti sull’aspetto, mentre con destinatari più adulti la categoria preferita è quella del talento e delle capacità. Comunque, benché la letteratura sugli argomenti dei complimenti sia unanime nel riconoscere l’aspetto come l’argomento principe, il confronto tra la varietà britannica e quella americana condotto da Creese (1991, 53) rimarca tendenze diverse. Tenuto conto della limitatezza del
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corpus analizzato12, Creese ha rilevato comunque una preferenza specifica per i complimenti sulle abilità nell’inglese britannico. Complimenti su cibo e bevande, specialmente in eventi sociali come cene e ricevimenti, sono scambiati molto frequentemente, sia tra amici, sia tra estranei. I dati commentati da Golato sul tedesco (2005, 83) indicano che i complementi sul cibo coprono il 37% di tutti i complimenti raccolti. Un aspetto rilevante, spesso sottovalutato, ha a che fare con la realtà socio-culturale, le norme comportamentali e i valori della società. Come rileva Alfonzetti (2010, 2), l’oggetto del complimento dipende da che cosa è valutato positivamente in una specifica società. Illuminante è l’esempio dell’età: mentre nel modello occidentale, al quale l’Italia aderisce saldamente, domina la valutazione positiva della giovane età, connessa ovviamente al bell’aspetto, nelle società orientali si apprezza l’età adulta o avanzata, come prova di giudizio e di equilibrio. Stessa osservazione vale in Italia per la magrezza, alla quale è oggi (ma non in passato) attribuito un valore estremamente positivo ed è perciò oggetto di numerosi complimenti.
2.3.2. Il sesso, l’età e lo status dei parlanti Molti degli studi sui complimenti sono dedicati all’interfaccia tra argomento e sesso dei parlanti. La letteratura sull’uso linguistico legato al sesso mostra che, in generale, le donne adottano un focus molto più 12 La questione metodologica della raccolta dati è discussa in un contributo di Yi Yuan (2001), nel quale l’autore compara diversi metodi di raccolta di complimenti (ma ovviamente la discussione è estendibile ad altri atti linguistici), i cosiddetti DCT (= discourse completion tasks, cioè ‘attività di completamento di testi’) scritti o orali, le note sul campo, cioè l’approccio più frequentemente usato e tipico degli studi etnografici (gli studi di Wolfson e Manes, per esempio) e le registrazioni di conversazioni spontanee. È comunque evidente che registrare conversazioni spontanee non dà nessuna garanzia che al loro interno si verifichino determinati tipi di atto linguistico, o che si verifichino con frequenza. I DCT sono mirati e, anche se mancano di tanti tratti dell’interazione spontanea, vertono sul fenomeno oggetto dell’interesse specifico. Le note sul campo hanno lo svantaggio di non conservare l’esatta sequenza e formulazione dell’enunciato (perché per questo e per i dettagli sui parametri sociolinguistici di età, sesso, status sociale e sul contesto si affidano alla memoria e allo spirito critico del ricercatore) ed è probabile che amplifichino la frequenza di espressioni formulari (vedi anche Alfonzetti 2006, 42). Inoltre, poiché l’annotazione segue sempre almeno di qualche ora lo scambio, si verificano inevitabilmente perdite qualitative e quantitative. Ridondanze, disfluenze ed elementi modalizzanti quali segnali discorsivi e mitigatori sono quasi sempre trascurati, insieme con gli elementi non verbali (Golato 2003, 95).
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personale degli uomini, sono più inclini a mosse concilianti e più orientate alla cortesia positiva (cfr. Holmes 1988, 451; Herbert 1990, 204-205)13. Visti gli stili comunicativi dell’uno e dell’altro sesso, non sorprende riscontrare il maggior numero di complimenti come fatti e ricevuti da donne (Holmes 1988, 449-450). I dati sull’inglese parlato in Nuova Zelanda indicano che il 67,7% del totale di complimenti sono fatti da donne e il 74,3% da loro ricevuti. I complimenti tra maschi sono solo il 9% dei dati raccolti, ma se si considerano anche i complimenti rivolti dalle donne agli uomini, rimane comunque vero che gli uomini sono destinatari di un minor numero di complimenti, circa il 25,5%. Alcuni ricercatori ritengono che la sproporzione a favore del genere femminile dipenda dalle procedure di raccolta dei dati: se i ricercatori che raccolgono i dati sono donne, è assai più probabile che i dati raccolti siano interazioni al femminile (Holmes 1988, 450; 1995; Golato 2005, 84). Al di là di queste riserve, la frequenza resta comunque fortemente ancorata al fatto che le donne percepiscono l’atto di complimentarsi come solidale e cooperativo, mentre per gli uomini è spesso competitivo e “maleducato”. Si può concludere al riguardo che le donne sono destinatrici e destinatarie di un numero incomparabilmente maggiore di complimenti, grazie al fatto che entrambi i sessi sono consapevoli dell’atteggiamento femminile di buona predisposizione al complimento (Holmes 1988, 451), così come della tendenza a privilegiare la componente affettiva delle relazioni interpersonali. Wolfson offre una spiegazione socioculturale (1984, 241), imputando questa frequenza ai ruoli pressoché fissi della società americana – ma la caratteristica è estendibile a tutte le società occidentali – nella quale ci si attende che le donne si preoccupino di essere giudicate attraenti e di rendere gradevoli cose e persone intorno a loro (in particolare, figli e casa), e, di conseguenza, di ricevere complimenti per questo, a prescindere dallo status. Se da un lato è indiscutibile che le donne reputino i complimenti una strategia adeguata per consolidare i rapporti in un ampio ventaglio di situazioni comunicative, è altrettanto vero che spesso sono ritenute destinatari privilegiati dei complimenti a causa del loro status sociale inferiore (Wolfson 1984, 243). L’espressione di approvazione o 13 Più in generale, sugli stili comunicativi di uomini e donne si vedano, nell’amplissima bibliografia, Preisler (1986) e Tannen (1991).
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riconoscimento contenuta nel complimento sarebbe cioè indirizzata verso il basso, a persone socialmente inferiori (Holmes 1988, 452). Il fatto che agli uomini di status elevato si debba soprattutto deferenza pone parecchi freni all’uso di complimenti da parte di subordinati. Bisogna inoltre notare che gli uomini trovano i complimenti perlopiù imbarazzanti, quando non addirittura irritanti, ed esprimono la solidarietà in modi diversi. Nei numerosi studi sugli stili comunicativi di uomini e donne, si riconosce a queste ultime l’uso di strategie linguistiche personalizzate e di routine di cortesia positive. Golato, tuttavia, sostiene che questa generalizzazione non è applicabile ai dati da lei esaminati per il tedesco (Golato 2005, 84), lingua nella quale i complimenti non presentano differenze di frequenza ascrivibili al genere e coprono una grande varietà di argomenti. La sua spiegazione è che la sproporzione dipenda dal paradosso del ricercatore, cioè ricercatrici femminili influenzerebbero la raccolta dati verso una sovra-rappresentazione dei complimenti in scambi tra sole donne (cfr. sopra). Risultati diversi sono contenuti nello studio di Hobbs (2003) sui messaggi di posta: in questo tipo di comunicazione unidirezionale le strategie di cortesia positiva sono più usate dagli uomini. L’autore spiega che fattori quali la situazione (per esempio l’ambito legale) e lo status del parlante (si tratta di avvocati) spiegano ampiamente i risultati. Altri studi si concentrano sulle differenze tra l’inglese e altre lingue. Il contributo sull’arabo di Nelson / El Bakary / Al Batal (1993) mostra sia affinità che divergenze con l’inglese: da un lato in arabo spicca l’orientamento a indirizzare i complimenti alle donne, ma dall’altro gli arabi, gli egiziani in particolare, tendono a dirigere i complimenti su tratti caratteriali (cosa che non si verifica in inglese americano, né per gli uomini, né per le donne). Dati sul giapponese sono presentati sia da Barnlund / Araki (1985), sia da Matsuoka (2003). Nel primo studio appare chiaramente la maggior propensione degli americani per i complimenti, la preferenza per aspetto e tratti caratteriali rispetto al solo aspetto utilizzato dai giapponesi, e una gamma di espressioni positive (aggettivi, in particolare; si veda il paragrafo successivo, 2.3.3.) più limitata. Nelle risposte, alla pressoché generale accettazione degli americani corrisponde il ridimensionamento dei complimenti attraverso la contestazione della loro sincerità, l’impiego di strategie di evitamento o l’assenza di risposte dei giapponesi.
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Matsuoka (2003), invece, rileva che, contrariamente alle aspettative, gli interlocutori femminili non necessariamente richiedono modalità di complimentarsi esplicite. La spiegazione di questi risultati potrebbe avere a che fare con alcune variabili trascurate, quali l’età, l’istruzione e il contesto. Un ulteriore aspetto che tratteremo nel corso del paragrafo successivo è la stretta correlazione tra sesso e schema sintattico usato. Come vedremo, essendo i complimenti spesso affidati a formule quasi fisse, poche strutture lessico-sintattiche coprono quasi per intero la gamma di complimenti usati. Alcune di queste strutture, quelle esclamative, sono di preferenza usate da parlanti di sesso femminile. Il parametro dello status è direttamente connesso con quello del genere. Uno dei risultati più rilevanti di molte delle analisi sui complimenti è che essi si verificano raramente in diadi miste di parlanti di status disomogeneo. Holmes (1986), per esempio, indica che il 79% dei complimenti nell’inglese neozelandese sono scambiati tra pari, un risultato confermato da Wolfson (1983) per l’inglese americano. Quando al contrario i complimenti sono scambiati in diadi asimmetriche, sono preferibilmente rivolti a donne di status sociale più elevato, probabilmente perché sono considerate meno ostili dei loro corrispettivi maschili. Anche l’argomento è in co-variazione con lo status: Wolfson (1984) riferisce che i complimenti sulla bellezza e sugli oggetti posseduti sono raramente indirizzati agli uomini, a prescindere dallo status, parametro ininfluente. Quelli che vertono sulle azioni in coppie asimmetriche seguono di norma la direzione dall’alto verso il basso. Sempre Holmes (1986) ha notato che nell’inglese neozelandese le donne socialmente più in alto ricevono complimenti due volte più dei maschi della stessa classe. Complimenti sulla bellezza in diadi miste sono rari, mentre quelli sulle abilità sono scambiati tra maschi di classi basse e rivolti dagli uomini alle donne, a prescindere dallo status.
2.3.3. Modelli lessico-grammaticali ricorrenti Uno degli aspetti dei complimenti cui è stato dedicato più spazio è la loro natura formulare, in buona misura pre-codificata e fissa, come molte routine conversazionali quali i saluti (Coulmas 1981)14. Gli studi 14 Le “routine conversazionali” (cfr. Coulmas 1981 e Aijmer 1996) sono state definite da Coulmas come “pre-fabricated linguistic units used in a well-known and generally
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pionieristici di Manes e Wolfson (Manes / Wolfson 1980; Wolfson / Manes 1980) sull’inglese parlato negli Stati Uniti mettono in luce proprio la fissità delle formule lessicali e sintattiche impiegate nel corpus da loro raccolto presso le Università della Virginia e della Pennsylvania15. Manes e Wolfson hanno identificato nove modelli sintattici che ricorrono di frequente nei dati da loro esaminati. Di questi i tre più frequenti rappresentano l’85% di tutti i complimenti da loro raccolti16. Dal momento che le due linguiste hanno lavorato sull’inglese, si riportano di seguito gli schemi così come proposti nell’originale, con tanto di esempi. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.
NP is/looks (really) ADJ I (really) like/love NP PRO is (really) (a) ADJ NP You V (a) (really) ADJ NP You V NP (really) ADV You have (a) (really) ADJ NP What (a) ADJ NP! ADJ NP! Isn’t NP ADJ!
Your sweater is really nice I like your car That’s a good question You did a great job You sang that song very well You have a beautiful living room What a pretty shirt! Good shot! Isn’t that ring pretty!
accepted manner” (Coulmas 1981, 1). Così, in situazioni ricorrenti, i parlanti usano espressioni più o meno identiche che ben rispondono alla funzione comunicativa che si intende realizzare. Tuttavia, Coulmas sottolinea che “competent language use is always characterized by an equilibrium between the novel and the familiar”(Coulmas 1981, 12). Queste routine sono perni centrali nell’interazione per diversi motivi: svolgono una funzione sociale basilare, in quanto consentono ai parlanti di rapportarsi gli uni agli altri in maniera conforme alle convenzioni stabilite e ai comportamenti rituali, ma riescono al contempo a trovare un equilibrio tra convenzione e creatività (cfr. Coulmas per un confronto tra routine e idiomi). La loro natura universale è ampiamente riconosciuta, sebbene con forme linguistiche diverse per meglio rispondere alle esigenze socioculturali delle diverse lingue (Verschueren 1981, 134). Si vedano i lavori di Bonsignori / Bruti / Masi (2011, 2012) dedicati ai saluti e alla loro traduzione nel testo audiovisivo; sulle presentazioni e sugli auguri si veda Bonsignori / Bruti in stampa. 15 Il corpus è stato raccolto dalle studiose e da loro allievi. Consiste in 686 complimenti scambiati in interazioni quotidiane. 16 “Really stands for any intensifier; look stands for any linking verb other than be; like and love stand for any verb of liking; ADJ stands for any semantically positive adjective; NP stands for a noun phrase that does not include a positive adjective; PRO stands for you, this, that, these, or those”(Wolfson / Manes 1980, 408).
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La ricorsività è da osservarsi anche nel lessico: gli aggettivi nice e good, di contenuto positivo ma entrambi abbastanza generici, coprono il 42% dei complimenti aggettivali. Se includiamo anche beautiful, pretty e great la percentuale passa ai due terzi di tutti i complimenti aggettivali. I verbi più frequenti sono like e love, che appaiono nel 90% dei complimenti verbali17. I nomi semanticamente positivi e gli avverbi (per esempio genius, well) sono usati sporadicamente, mostrando che i complimenti sono espressi preferibilmente con un aggettivo positivo e con un verbo che esprime gradimento (Wolfson / Manes 1980, 400-401). Gli avverbi intensificatori (really, very, such) si trovano spesso a fianco dei verbi di apprezzamento, mentre la presenza di elementi deittici (soprattutto this e that) rende possibile l’identificazione referenziale dell’oggetto del complimento. Poiché i complimenti possono ricorrere a ogni stadio di una conversazione, indipendentemente dalla scelta dell’argomento corrente di discussione, Wolfson e Manes ritengono che sia la loro natura formulare a consentire ai parlanti di decodificarli come espressioni di solidarietà e di riconoscerli in qualsiasi contesto (1980, 405; cfr. anche Herbert 1991, 382). Anche gli studi sull’inglese sudafricano (Herbert 1989) e sul polacco evidenziano risultati simili quanto a schemi lessico-grammaticali (Herbert 1991)18. Anche Janet Holmes (1988, 453) propone uno schema di tipi ricorrenti di complimenti dedotto dai dati di inglese neozelandese19. Holmes identifica sei tipi, anche se il tipo 1 e 3 includono sotto-categorizzazioni. Confrontando il modello di Holmes con quello di Manes e Wolfson, emerge l’assenza di alcuni tipi sintatticamente completi, per esempio i numeri 4, 5 e 6 del modello di Manes e Wolfson. In questi casi l’espressione di lode è affidata rispettivamente a diversi costituenti frasali, un aggettivo (4 e 6), un avverbio (5), e un verbo semanticamente positivo (specialmente 4 e 5). Nella tipologia di Holmes dominano invece schemi frasali incompleti, come 4 e 5, e formule esclamative, come 4, 5 e 6. 17 Golato mostra che in tedesco raramente i verbi esprimono valori positivi (2005, 78): il 35% dei complimenti non contiene verbi, il 35% impiega il verbo sein (‘essere’) e il 10% il verbo haben (‘avere’), verbi semanticamente neutri. L’unica eccezione è il verbo freuen (‘essere lieti, rallegrarsi’). 18 Herbert mostra che, a differenza dell’inglese, i complimenti in polacco non sono quasi mai espressi alla prima persona singolare. La formula più usuale è, infatti, Masz (‘tu hai’) (Herbert 1991, 391). Di conseguenza, è evidente che la maggior parte dei complimenti in polacco riguardi gli oggetti posseduti, specie quelli nuovi. 19 I dati sono raccolti con lo stesso metodo etnografico usato da Manes e Wolfson.
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1.a 2. 3.a 3.b 4. 5. 6.
NP be looking (INT) ADJ I (INT) like NP PRO be a (INT) ADJ NP PRO be (INT) (a) ADJ NP What (a) (ADJ) NP! (INT) ADJ (NP) Isn’t NP ADJ!
You’re looking terrific! I simply love that skirt That’s a very nice coat That’s really great juice What lovely children! Really cool ear-rings Isn’t this food wonderful!
La distribuzione dei tipi secondo il sesso non mostra differenze marcate, almeno per le tre formule più frequenti. Una differenza più evidente si osserva invece confrontando i numeri 4 e 5 di donne e uomini. Il tipo 4 è impiegato sensibilmente di più dalle donne, fatto che può essere imputato all’enfasi retorica data dall’ordine dei costituenti e dal tono. Lo schema 5, d’altro canto, è sintatticamente ridotto (cioè non contiene nessun determinante e nessun verbo) e sembra in questo modo attenuare la funzione del complimento sul destinatario. Mentre gli uomini preferiscono la forma sintetica, le donne scelgono espressioni più personalizzate, fatto che influenza la maggior frequenza di strutture sintattiche che enfatizzano la forza del complimento. Sempre sugli schemi sintattici, i dati raccolti da Herbert sono in contrasto con quelli di Holmes (1988): se per l’inglese neozelandese le donne mostrano di preferire la formula I (really) like/love NP rispetto a PRO is (really) (a) ADJ NP, mentre gli uomini le userebbero indifferentemente, Herbert (1990) rileva invece un’elevata frequenza del tipo I love X nel parlato femminile (42,7% vs 14,2%) e significativamente di più in diadi al femminile piuttosto che in diadi miste. Uno dei motivi della discrepanza può essere la preferenza delle singole varietà dell’inglese, visto che questo tipo sembra più in uso nella varietà americana rispetto sia a quella britannica, sia a quella neozelandese. Anche l’età può intervenire in maniera fondamentale a influenzare la scelta. Creese, che si concentra sulla varietà britannica (1991, 49), non rileva differenze significative. Diverso è l’ordine di frequenza degli aggettivi usati nei complimenti: good, nice, great, lovely, in inglese britannico, mentre per l’inglese americano è nice, beautiful, good, great (i risultati di Holmes 1984 sull’inglese neozelandese riportano nice, good, lovely, great, neat; Wolfson 1984 indica la sequenza nice, good, beautiful, great per l’inglese americano). Il fatto interessante è che gli aggettivi che appartengono al vocabolario di base della lingua e sono positivamente connotatati (si pensi a brilliant e terrific in inglese) non hanno frequenza
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rilevante nel corpus di Creese (138 sequenze di complimenti e risposte): brilliant appare tre volte, terrific mai20. Per quanto riguarda le formule sintattiche, i risultati per l’inglese americano confermano più o meno quelli ottenuti negli studi precedenti. Le sole differenze rilevate da Creese sono le seguenti: il tipo NP is / looks (really) ADJ è il secondo per frequenza e non il primo, che è invece I (really) like / love NP. I dati per l’inglese britannico restituiscono un quadro del tutto diverso: NP is / looks (really) ADJ è la categoria più frequente, ma la seconda contiene elementi miscellanei (1991, 52). Un altro elemento di rilievo è che le strutture complesse possono essere talvolta sostituite da brevissimi suoni di apprezzamento di natura “gustativa” come mmmh o altre interiezioni che parimenti manifestano apprezzamento, come ohh, ahh, ecc. Questi complimenti interiettivi sono usati in alcune varietà di inglese (inglese australiano, cfr. Gardner 1997; inglese americano, cfr. Wiggins 2002) e in tedesco (Golato 2005, 78-79) in contesti conviviali, in presenza di cibo e bevande. I marcatori di gusto sono articolati come suoni elongati con intonazione discendente e possono essere proferiti da soli o insieme con aggettivi valutativi (per esempio delicious). Nelle lingue considerate, il suono /m/, che è prodotto con la bocca chiusa dall’inizio alla fine, senza il coinvolgimento della lingua, delle labbra e della mascella, consente al parlante di esprimere l’apprezzamento senza smettere di bere o mangiare. Come osserva Golato, la strategia è molto fruttuosa, poiché la valutazione dell’oggetto si colloca all’inizio della sequenza, nella quale esperienza e valutazione vengono così a sovrapporsi (2005, 89).
2.3.4. Le risposte L’evento “complimento” consta, come tutte le routine conversazionali e i convenevoli (cfr. Bertuccelli Papi 2010), di due atti linguistici, ciascuno proferito da un parlante diverso, o nella terminologia dei conversazionalisti, della prima e della seconda parte di una sequenza complementare. L’aspetto parzialmente contraddittorio dei complimenti, il conflitto tra il mostrarsi solidale con il parlante che esprime il complimento e il non sembrare immodesto, evidenziato per la prima volta da Pomerantz (1978) e da allora sempre al centro della riflessione sull’argomento, si manifesta proprio nella seconda parte della 20 A titolo esemplificativo, si riporta questo dato: nel film Bend it like Beckham (Chadha 2002), l’aggettivo terrific compare dieci volte in altrettanti complimenti.
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sequenza, le risposte21. In effetti, non accettare il complimento è un segnale aperto di disaccordo, che implica dubitare del giudizio di chi ha proferito il complimento. L’espressione piena di accordo, di contro, proietta sul destinatario una luce negativa, dovuta alla manifesta presunzione. Tra questi due poli si collocano una serie di strategie intermedie di accordo e disaccordo parziale. Le classificazioni delle risposte ai complimenti sono lievemente diverse: Holmes (1988), per esempio, propone tre tipi di responso: “acceptance”, “rejection” e “deflection / evasion”. La mitigazione della forza del complimento è inclusa nella strategia di accettazione (1988, 460), mentre, per esempio, secondo Herbert (1990, 210), la modulazione attenuativa della forza del complimento fa parte delle strategie di disaccordo. Tra le strategie di accettazione parziale o condizionata, Alfonzetti (2006) enumera le seguenti: ridimensionamento dell’oggetto o delle qualità indicate nel complimento, trasferimento della lode su un altro individuo, contraccambio del complimento, richiesta di conferma e verifica della sincerità del destinatore (2006, 94-106). È poi possibile eludere il complimento stesso, dando informazioni sull’oggetto elogiato, cambiando argomento, o rimanendo in silenzio (quest’ultimo caso si associa di solito ai complimenti inappropriati, che presuppongono troppa confidenza e intimità con il destinatario, e che, proprio per questo, finiscono per provocargli un senso di imbarazzo).
2.4. Per un’analisi dei complimenti e della loro traduzione La scelta di focalizzare l’attenzione sui complimenti e sulla loro traduzione nel testo audiovisivo come manifestazione della cortesia ha molteplici spiegazioni: da un lato i risultati della ricerca sui sottotitoli interlinguistici hanno messo in luce che in questa modalità traduttiva l’universale della semplificazione (Laviosa-Braithwaite 1998; Pavesi 2002) ricorre in maniera estensiva investendo, in particolare, i valori socio-pragmatici; dall’altro se gli studi sui complimenti come routine linguistiche e sociali sono piuttosto numerosi, lo stesso non può dirsi degli studi sulla loro traduzione (come anche di altri aspetti sociopragmatici) nel doppiaggio, ambito nel quali i ricercatori si sono
21 L’analisi delle sequenze di risposta, se non in via parziale come necessario complemento alla prima parte della coppia adiacente, esula dagli argomenti del presente studio. Per una trattazione approfondita si rimanda al già citato Alfonzetti (2006 / 2009).
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concentrati piuttosto su tratti morfosintattici, lessicali e retorici (Brincat 2000, Alfieri / Contarino / Motta 2003). Come si è mostrato in 2.3.3., i complimenti fanno spesso ricorso a espressioni fisse che impiegano un numero ristretto di elementi lessicali e di strutture sintattiche, che di per sé non costituiscono un ostacolo insormontabile per i traduttori audiovisivi. I problemi che possono insorgere sono di altra natura. Il primo di questi è condiviso da entrambe le modalità traduttive: nel trasporre routine di interazione è importante non alterare la dinamica delle forze in gioco e la configurazione dei ruoli dei parlanti. Cambiamenti anche minimi possono avere ripercussioni gravi e stravolgere le intenzioni dei parlanti o l’impianto discorsivo, sia nei micro-obiettivi illocutori, sia in quelli macro. Il secondo ordine di problemi è invece specifico per ciascuna modalità traduttiva: nel caso dei sottotitoli, come si è visto in parte negli esempi in 2.2., i complimenti sono soggetti a pesanti riduzioni testuali in quanto elementi che appartengono al dominio dell’espressività e, come tali, non strettamente essenziali a veicolare l’informazione fattuale; nel caso del doppiaggio il vincolo principale è costituito dai diversi tipi di sincronismo (si veda, al capitolo 1, il paragrafo 6.1.). Vediamo qualche esempio, a partire da casi più prototipici, quelli cioè dove i complimenti sono affidati a espressioni formulari e consuete. Personaggi TOOTSIE [non si sente alcun suono ma si vedono i movimenti delle labbra] JOHN JULIE RITA [non inquadrata] DONNA JULIE
Originale Perfect.
Sottotitoli Perfetta./
Doppiaggio Perfetta.
Julie, that was great. Thanks, John. Lovely job. First rate. You were wonderful Yeah. Thanks to my coach.
-Sei stata grande. -Grazie./
Julie, sei stata grande. Grazie, John. Buon lavoro, Julie. Ottimo lavoro. Sei stata bravissima. Grazie alla maestra.
-Buon lavoro. Ottimo. -Sei stata magnifica./ Grazie alla mia maestra.
Esempio 9 Tootsie
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Personaggi HAL
La cortesia. Aspetti culturali e problemi traduttivi
COLLEGA 1
Originale And in summation, I feel that these measures will help JPS and all of our customers. Ok. Nice job, Hal.
Sottotitoli
HAL COLLEGA 2
Thank you. Nicely done.
-Grazie./ -Bravo.
HAL
I appreciate it.
-Grazie molte./
Insomma, credo che sarebbe positivo sia per la JPS che per i nostri clienti./
-Complimenti, Hal.
Doppiaggio In conclusione, credo che questi provvedimenti aiuteranno la JPS e tutti i nostri clienti. Gran bel lavoro, Hal. Oh, grazie. COLLEGA 1 Davvero. Ottimo lavoro, Hal. Grazie.
Esempio 10 Shallow Hal Personaggi ANNA
HELEN
Originale Is Gerry excited about being a daddy? I haven’t told him yet. Never seems to be the right moment somehow
Sottotitoli -Gerry è contento del bambino?
-Non gliel’ho ancora detto./ Non so perché, non mi sembra mai il momento adatto./
ANNA
Come on, let’s celebrate with a proper drink.
Avanti, festeggiamo come si conviene./
HELEN
Bloody marvellous idea. I really shouldn’t in my condition, but I’m really going to.
Questa sì che è un’idea meravigliosa./ Veramente, nelle mie condizioni non dovrei, ma lo faccio lo stesso./
Esempio 11 Sliding Doors
Doppiaggio Gerry è contento di diventare papà? Non gliel’ho ancora detto. Non so perché non mi sembra mai il momento adatto. Avanti, festeggiamo come si conviene. Questa sì che è un’idea meravigliosa. Veramente nelle mie condizioni non dovrei, ma lo faccio lo stesso.
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Nell’esempio 9 sia “perfect”, sia “was great” sono complimenti che si riferiscono a una scena che Julie, un’attrice che recita la parte di un’infermiera nella soap “Southwest General”, ha appena finito di girare. La referenza è stabilita facilmente per via esoforica. L’uso di un pronome è possibile perché il riferimento è a un evento che è sempre saliente e pertanto facilmente accessibile. I deittici sono infatti elementi tipici della conversazione spontanea, in cui i partecipanti ricorrono frequentemente a indizi extralinguistici quali le espressioni del volto, la mimica, la gestualità, la postura, e, soprattutto, al contesto situazionale condiviso, per comprendere ciò che dicono gli interagenti. L’aggettivo “perfetta”, impiegato tanto nei sottotitoli quanto nel doppiaggio, è ambiguo, in quanto può essere riferito sia a Julie, sia alla scena girata. La traduzione del secondo complimento in entrambe le modalità vede uno spostamento di attenzione dalla realizzazione di un atto a qualità personali, cioè “sei stata grande”. Un’altra osservazione pertinente solo per il doppiaggio è che l’enunciato “Buon lavoro Julie. Ottimo lavoro” non pare molto convincente: la seconda specificazione, “ottimo lavoro”, è necessaria per poter interpretare correttamente il primo complimento, “buon lavoro”, che potrebbe altrimenti essere decodificato come un augurio proiettato al futuro. Infine, l’intonazione di questo enunciato nella versione doppiata è strana e innaturale. In (10) l’argomento del complimento è la convincente proposta di Hal per migliorare le strategie di vendita della compagnia per la quale lavora. I suoi colleghi lo elogiano per il discorso ben argomentato e le idee brillanti che ha illustrato. Nei sottotitoli, invece, si attribuisce poca importanza all’azione eseguita, poiché il primo complimento è molto generico: si usa “complimenti”, appunto, una formula tanto generica quanto vuota semanticamente. Il secondo, “bravo”, è altrettanto vago e si riferisce anch’esso più alle qualità della persona che non all’azione appena compiuta; è inoltre un aggettivo che può essere applicato a una gamma molto ampia di referenti e situazioni e perciò, se non altrimenti intensificato, è poco informativo e denota scarso coinvolgimento da parte del destinatore. Le soluzioni in uso nel doppiaggio sono più aderenti all’originale in quanto i complimenti riguardano un’azione, “gran bel lavoro”, “ottimo lavoro”. C’è, comunque, una lieve differenza perché in italiano le espressioni si riferiscono a risultati osservabili, a qualcosa che permette di giudicare un lavoro come ben eseguito, mentre in inglese l’enfasi è sull’esecuzione dell’azione stessa (per l’appunto “well-done”). Infine, il doppiaggio introduce una battuta
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assente nell’originale, cosa resa possibile dal fatto che il personaggio non è presente nella scena, allo scopo di rafforzare il complimento. Nell’esempio (11) il tipo di complimento è piuttosto comune – una variazione del tipo 3 della classificazione di Manes e Wolfson – anche se l’aggettivo “marvellous” è intensificato dall’avverbio “bloody”. Entrambe le modalità traduttive sembrano conformarsi a una delle convenzioni tipiche della traduzione audiovisiva, ovvero la neutralizzazione del turpiloquio e delle espressioni tabù (Pavesi 2002; 2005, 47). Nei sottotitoli la varietà diamesica scritta è responsabile di una generale attenuazione22 di tutte le forme potenzialmente offensive, che risultano così edulcorate, mentre nel doppiaggio, fatta eccezione per certe traduzioni ormai entrate nell’uso proprio grazie a decenni di doppiaggio (si pensi a consuetudini traduttive quali “figlio di puttana”, “maledetto”, “maledizione”, ”dannato”, ecc.; Pavesi 2005, 47), all’adattatore è lasciato pur sempre un certo margine di manovra per sfruttare la propria creatività lessicale (si veda il capitolo 3, paragrafo 2.). Un tentativo di rendere l’espressione più informale e vicina al parlato-parlato si riscontra nell’uso del costrutto sintattico marcato della frase scissa, con focus su “sì” (Pavesi 2005, 112). Nel doppiaggio l’introduzione del dimostrativo “questa” risolve inoltre il problema di trovare un traducente con il suono bilabiale iniziale /b/ di “bloody”. Vediamo ora esempi meno prototipici, o almeno casi nei quali il complimento è espresso in modo più implicito o indiretto (per la classificazione si rimanda al paragrafo 2.2.). Personaggi DAVID
Originale Are you stranded?
Sottotitoli -È rimasta a piedi?
SABRINA
My father was supposed to pick me up but something must have happened.
-Papà doveva venirmi a prendere./
Doppiaggio Non vi aspettavano? Doveva esserci mio padre a prendermi, ma dev’essere successo qualcosa.
22 Tutte le forme marcate sono normalizzate o attenuate: in prima istanza quelle marcate in diastratia (che riguardano cioè la variazione sociale), come il turpiloquio, ma anche quelle marcate in diafasia (cioè la variazione legata al grado di formalità, quindi dipendente dalla situazione di enunciazione), diacronia (la variazione nel tempo) e diatopia (la variazione nello spazio).
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DAVID
Whoever your father is, whatever happened, I’ll be grateful to him.
Chiunque sia suo padre, gli sarò eternamente grato./
Qualsiasi cosa sia accaduta non posso che essere grato agli dei, se accettate un passaggio, naturalmente.
Esempio 12 Sabrina
Personaggi DAVID
LINUS
Originale Well, I may know nothing of Dow Jones, but I do know something about kisses. You could lecture on that at Vassar.
Sottotitoli Non ne saprò nulla del Dow Jones ma di baci sono esperto./
Doppiaggio Beh, forse non mi intendo d’affari, ma di baci ne so qualcosa.
Potresti tenere un corso universitario./
Se è per questo non l’ho mai messo in discussione.
Esempio 13 (vedi esempio 4, sopra) Sabrina
Come si è in parte mostrato in 2.2., strategie di verbalizzazione indiretta, o almeno non esplicita, sembrano abbastanza comuni nel parlato filmico. Nell’esempio (12) è rappresentato un incontro casuale tra David e Sabrina quando la ragazza rientra da Parigi. Lui non la riconosce, ma la corteggia non appena la incontra alla stazione. Lei accetta il passaggio, ma decide di non rivelargli la sua identità finché non arriveranno a destinazione. Il complimento nel turno di dialogo originale non mostra né la struttura sintattica né il lessico tipici dei complimenti. Sfrutta anzi ironicamente la relativa “whoever your father is” (il padre di Sabrina è lo chaffeur della famiglia di David), pronunciata da un David ignaro, ma che sarebbe giustificabile anche se avesse riconosciuto Sabrina. Le soluzioni traduttive adottate nei sottotitoli e nel doppiaggio sono parecchio distanti. La prima area di scollamento concerne la scelta dei
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pronomi allocutivi23 (si vedano Pavesi 1994; 1996), “lei” nei sottotitoli, “voi” nel doppiaggio. Ricordiamo qui sinteticamente che la forma “voi” fu imposta in Italia come forma autoctona di allocutivo cortese nel 1938, in piena epoca fascista. Il film Sabrina uscì nel 1954, quando ormai il pronome “lei” si era affermato nell’uso come tipica forma cortese. Al capitolo 4 si mostrerà che per verificare con sicurezza il grado di familiarità tra interlocutori nell’originale occorre osservare i vocativi, gli elementi che in inglese si fanno carico di precisare la relazione interpersonale tra gli interlocutori. Nelle scene immediatamente successive, che visualizzano il tragitto in macchina verso casa, la conversazione si dipana nel rispetto delle norme, per cui, trattandosi apparentemente di una conoscenza appena fatta, David si rivolge a Sabrina chiamandola “Miss”, mentre lei, pur nel rispetto delle norme, non impiega nessun vocativo. Anche nelle scene successive a quella in (12), la diade (la coppia di pronomi allocutivi scambiati dai due interlocutori) è reciproca, “lei” : “lei” nei sottotitoli, mentre nel doppiaggio è “Signorina + voi” : “voi”. Nel momento in cui David si rende conto dell’equivoco assistiamo a un brusco cambiamento nelle forme allocutive, che diventano una diade asimmetrica “tu” : “lei” nei sottotitoli (“Ti porto in città”, “Vuole vedermi?”) e un “voi” reciproco accompagnato dal nome nel doppiaggio. La soluzione del doppiaggio è abbastanza straniante: da un lato “voi” poco si armonizza con l’uso del nome proprio (lo stesso accade oggigiorno anche con “lei”), ma questa soluzione, come si vedrà, è piuttosto in voga nel doppiaggio; dall’altro si rivela anche incoerente dal punto di vista diegetico, in quanto, prima della partenza di Sabrina per Parigi, David le si rivolgeva con “tu”. La cosiddetta revocabilità dei pronomi, cioè il ritorno al pronome di cortesia una volta che si è passati a quello di familiarità, non è possibile se non, come indica Renzi (1995, 173), “con una rottura dei rapporti”. Può darsi che sia stato scelto questo ritorno alla distanza per rendere più vistoso ed efficace il passaggio al “tu” dopo la scena del ballo durante la quale i due si baciano (vedi Bruti 2007, 114-115 per una descrizione approfondita). Tornando al complimento, a parte la scelta degli allocutivi, più adeguati nei sottotitoli, si deve rilevare che la versione doppiata altera completamente il contenuto dell’enunciato di 23 L’argomento dell’allocuzione sarà trattato in dettaglio nel capitolo 4. Anticipiamo qui qualche riflessione, visto il portato che questo elemento ha sulla natura del complimento e sulla cortesia dell’intero enunciato.
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David. Il padre di Sabrina non è più menzionato e David attribuisce il merito di averla incontrata a una non precisata divinità. Così facendo, si perde il “perno” intorno al quale ruotava il complimento indiretto. Il complimento è sì mantenuto, ma in un enunciato assai più lungo e verboso, mentre nei sottotitoli il riferimento al padre rimane tale e quale all’originale. L’esempio (13) riprende un esempio già discusso, il (4), aggiungendo però il dialogo doppiato. Il complimento, come si è osservato anche in 2.2., è di natura implicita. Nei sottotitoli la sua sostanza è preservata, con un’unica trasformazione, la neutralizzazione del riferimento culturale a Vassar. Nel doppiaggio, invece, il complimento scompare proprio dal tessuto linguistico nella battuta sarcastica del fratello maggiore, che, anziché riprendere le parole di David per enfatizzarle, dice semplicemente che non intende negarle. Vediamo, infine, alcuni casi in cui la traduzione del complimento, anziché applicare le strategie della riduzione o dell’attenuazione, si muove verso il polo dell’esplicitazione o del rafforzamento. Personaggi TONY
JESS
TONY
Originale Jess, you’re not going to tell anyone? ‘Course not! It’s ok, Tony. I mean, it’s ok with me. Yeah. Well, you fancying your gora coach is okay with me. Besides... he’s quite fit!
Sottotitoli [-Chissà cosa direbbero loro.] -Non dirlo a nessuno./ Certo che no, stai tranquillo, puoi fidarti di me./
Grazie./ Io non dirò che ti piace il tuo allenatore bianco./ Fra l’altro, è un gran fico./
Esempio14 Bend it like Beckham
Doppiaggio Jess, non vorrai mica dirlo a qualcuno? Certo che no. Stai tranquillo. Puoi fidarti di me. Grazie. E se ti piace il tuo allenatore bianco, non lo dirò, fidati di me. Oltretutto è un gran fico!
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Personaggi JESS [indicando una T-shirt]
JULES [chiama l’interno di MEL] GIRL 1 [vede JESS] GIRL 2
MEL
La cortesia. Aspetti culturali e problemi traduttivi
Originale I didn’t bring anything for a club. I didn’t know they wanted to take us clubbing. I bet it’s too gloat. Mel? We need some help. Jess! Oh, wow! You look good! Does she look good?
Sottotitoli Non ho niente per uscire, non sapevo ci portassero per locali./
Mel? Ci serve aiuto./
Doppiaggio Ah, ma non ho portato niente per andare a ballare. Che ne sapevano che ci portavano in giro per locali? Ci vorranno sfottere. Mel? Ci serve aiuto. Quasi non la riconoscevo! Accidenti!
Non è una meraviglia?
Eh, che ne dite? Niente male, eh?
Esempio 15 Bend it like Beckham
In (14) Jess e Tony, due amici di origine indiana, discutono dei rispettivi problemi. Jess vorrebbe continuare a giocare a calcio in una squadra femminile, anche se i genitori osteggiano questa sua passione, mentre Tony le rivela per la prima volta la sua omosessualità. È uno scambio di confidenze, nel quale i due amici si rivelano vicendevolmente i propri sentimenti. Nell’ultimo turno di Tony, il ragazzo promette di non rivelare la simpatia di Jess per il suo allenatore e si complimenta con lei per questa sua avventura con un’espressione piuttosto neutra, o comunque poco colorita, “he’s quite fit”. Sia nei sottotitoli, sia nel doppiaggio, complice, nel caso del doppiaggio, la presenza della fricativa /f/, si opta per un aggettivo positivo più esplicito – “fico”24 – e più consono alla varietà diastratica dei parlanti, entrambi adolescenti. Anche nell’esempio (15), tratto dal medesimo film, l’espressione di ammirazione per la trasformazione di Jess, di solito sempre “acqua e 24
Si vedano sul parlato giovanile Banfi (1992) e Cortelazzo (1994).
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sapone”, diventa assai più esplicita nelle due traduzioni. La ripartizione delle battute, come si vede, è diversa, perché si tratta di una scena corale, dove ci sono tanti commenti positivi all’apparizione di Jess, ma appena percepibili come brusio di sottofondo. Quando il parlante non è inquadrato in primo piano nel doppiaggio succede spesso che si attribuisca a un altro la battuta, mentre nei sottotitoli i commenti in sottofondo sono del tutto espunti. Ad ogni modo, alla domanda di Mel contenente un complimento in forma implicita, cioè come presupposizione di apprezzamento, “Does she look good?”, corrispondono un solo sottotitolo di forma esplicita “Non è una meraviglia?”, mentre nel doppiaggio la valutazione positiva è ripartita su più turni di persone diverse, con una manifestazione di stupore (“Quasi non la riconoscevo”), un’esclamazione (“Accidenti”) e una formula eufemistica, “Niente male, vero?”.
2.4.1. I complimenti in un corpus di dialogo filmico Per concludere l’analisi dei complimenti e della loro traduzione, ci concentreremo sul fenomeno in un corpus di dialoghi filmici originali e doppiati, sviluppato all’interno di un progetto di ricerca interuniversitario, i cui risultati sono confluiti nel volume Freddi / Pavesi (2009b)25. Nel caso specifico il progetto intendeva far luce sulle caratteristiche del parlato filmico e della sua traduzione, soprattutto per quanto attiene ai significati pragmatici. Lo studio di Rose sui complimenti (2001) mette in luce come il linguaggio filmico sia rappresentativo della conversazione spontanea, soprattutto da un punto di vista pragma-linguistico (forse meno da quello socio-pragmatico, soprattutto se gli scenari rappresentati sono idealizzati e la recitazione un po’ stereotipata) e possono pertanto essere utilizzati, con le dovute cautele, per insegnare la pragmatica della comunicazione. La controversia sulla comparabilità tra dialogo filmico26 e dialogo spontaneo è al centro di un dibattito molto vivace (si vedano Taylor 1999; Rossi 2002; il capitolo 2 di Pavesi 2005; Chaume 2001, 2004, 2012). I risultati della disputa dipendono essenzialmente dalla 25 Per una descrizione della compilazione del corpus, della rappresentatività e di altre questioni metodologiche si rimanda a Freddi / Pavesi (2009a). 26 L’argomento è molto ampio e la questione, come si è brevemente accennato, irrisolta. Tuttavia, per una descrizione approfondita del dialogo filmico si veda il volume di Kozloff (2000); sulle caratteristiche specifiche dell’italiano parlato si rimanda ai già citati Rossi (2002) e Pavesi (2005), e alle indicazioni ivi contenute.
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posizione del ricercatore nei confronti del prodotto audiovisivo. Studi specialistici come quelli di Quaglio (2009a; 2009b) e Forchini (2012), entrambi basati sull’analisi multidimensionale di Biber27, evidenziano usi e formule simili nelle due modalità, per esempio relativamente alla cosiddetta “dimensione interpersonale” (Biber 1988). L’analisi di alcuni aspetti specifici, per esempio le espressioni vaghe in Quaglio (2009b), rileva che le differenze con la conversazione spontanea riguardano sì la frequenza dei fenomeni, ma vanno ben oltre, perché dipendono strettamente da due requisiti essenziali del testo audiovisivo, quello di risultare comprensibile da un lato, ma anche piacevole e divertente dall’altro. Gli studi che adottano la metodologia della linguistica dei corpora, pur senza perdere di vista le convenzioni specifiche del dialogo audiovisivo e del genere filmico in questione, come Baños-Piñero / Chaume (2009) e Baños-Piñero (2013), pervengono a conclusioni diverse: gli sceneggiatori scelgono volontariamente alcune caratteristiche del parlato che sono riconosciute prontamente dal pubblico come indici di oralità, ma si muovono comunque tra i due poli della creatività e della standardizzazione e cercano di adeguarsi ai vincoli del sincronismo nei prodotti doppiati, alle norme imposte dalle case e dagli studi di doppiaggio (tra le quali, appunto, la standardizzazione, la censura, le logiche clientelari) e all’ineludibile vincolo tra immagine e parola (Chaume 2012; Baños-Piñero 2013). Allo scopo di analizzare la resa dei significati pragmatici il corpus è stato compilato con i dialoghi originali e tradotti trascritti28 dai ricercatori del progetto, come si spiega in dettaglio in Bonsignori (2009). I film scelti sono tutti incentrati sull’interazione dialogica e offrono perciò la possibilità di osservare un’ampia varietà di situazioni in cui i parlanti si scambiano complimenti (e, come vedremo nel capitolo 4, anche insulti). Nel valutare la cortesia di un’interazione è necessario adottare una prospettiva globale, ancorata alla situazione enunciativa e quindi agli interagenti e alle loro reazioni (Eelen 2001; Si tratta di un approccio statistico utilizzato per l’analisi linguistica, che si avvale ad esempio dell’analisi fattoriale per identificare gruppi di tratti linguistici che tendono a manifestarsi congiuntamente nei testi, determinandone così la variazione di registro (Biber 1988). 28 In rete si trovano molti siti che raccolgono copioni di lavorazione o veri e propri transcript di post-edizione, ma la maggior parte non è affidabile perché i fenomeni del parlato sono spesso trascritti in maniera imprecisa, se non del tutto trascurati. Per i dialoghi doppiati, invece, non ci sono materiali. 27
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Mills 2003; Holmes / Stubbe 2003; Locher 2004). Nel testo filmico il dialogo, sebbene sia inserito in un evento fittizio, restituisce un quadro situazionale dettagliato, che si avvantaggia non solo del codice verbale, ma di tutti gli altri codici comunicativi, e rende possibile valutare l’impatto che i singoli enunciati hanno sulla costruzione del consenso (cioè crearlo, rinforzarlo, distruggerlo). Come si è mostrato in Bruti (2009), l’analisi di fenomeni pragmatici in un corpus non può beneficiare solo di ricerche automatiche condotte con un software di interrogazione29, che restituiscono alcuni dati quantitativi, ma che non possono prescindere dall’analisi qualitativa dell’analista, l’unica che garantisca di identificare tutte le sequenze nei dati, integrandole anche con la visione delle scene corrispondenti del film30. Inoltre, come si diceva sopra in 2.4., gli atti espressivi non sempre trovano una verbalizzazione formulare, ma si caratterizzano per una marcata originalità31. L’analisi qualitativa del corpus evidenzia che le tipologie più ricorrenti sono le seguenti: i complimenti espliciti, cioè quelli in cui ci sono elementi linguistici positivi, con una chiara funzione di potenziamento della faccia positiva dell’interlocutore, ma che possono creare un certo imbarazzo; i complimenti impliciti, nei quali le tracce della lode sono più nascoste, la cui funzione è parimenti di rafforzamento della faccia ma causano meno imbarazzo e mostrano il coinvolgimento e la sincerità del locutore; e, infine, i complimenti “falsi” o insinceri, cioè atti che sembrano complimenti a livello superficiale ma che a un’analisi più attenta tradiscono un diverso scopo illocutorio e si inseriscono in macrosequenze aggressive e potenzialmente oltraggiose.
2.4.1.1. I complimenti espliciti e la loro traduzione Dal punto di vista traduttivo i complimenti espliciti sono i più facili da tradurre. Alcuni studi (Bruti 2006) hanno messo in evidenza una tendenza della lingua inglese a fare complimenti sugli aspetti “performativi”, quelli, cioè, legati all’agire, mentre in italiano si tende a fare complimenti sulle qualità, attributi stabili degli individui. La casistica 29 In Bruti (2009, 150) si conduce un’analisi delle concordanze dell’aggettivo nice nel Pavia Corpus of Film Dialogue dalla quale emerge che poche delle occorrenze compaiono in complimenti. 30 Sui vantaggi di un corpus multimodale si veda Balirano (2013). 31 Lo stesso discorso vale, ovviamente, per gli insulti, come testimoniano i lavori di Azzaro (2005, 2007) e Nobili (2007), come si vedrà al capitolo 4.
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non è così numerosa da garantire l’accuratezza statistica. Un caso è, ad esempio, il (17), dove nella traduzione si dice che Roisin è un’ottima insegnante e non che ha lavorato bene. Studi sia sociologici sia linguistici hanno inoltre rilevato che la cultura britannica rifugge di solito le forme iperboliche dell’intensificazione (cfr. Fox 2004; Caffi 2007; Mattiello 2013). L’esempio (16) è un’evidente eccezione, ma l’esagerazione è legata in questo caso al personaggio e alla situazione: una giovane ragazza che conosce la sua attrice preferita, il suo idolo. Nel paragrafo successivo verificheremo la presenza di complimenti impliciti nel corpus. Anche (18) mostra l’aggettivazione positiva tipica dei complimenti espliciti nell’originale, sostanzialmente identica nel doppiaggio, se non per un cambiamento di classe da aggettivo a nome, “gorgeous” / “una bellezza”. Personaggi HONEY
Originale I absolutely, totally and utterly adore you. And I just think... you are the most beautiful woman in the world.
Doppiaggio Io, io sono una tua devota, entusiasta, sfegatata ammiratrice. E, guarda, trovo… ah, che sei la donna più meravigliosa del mondo.
Esempio 16 Notting Hill Personaggi CHARLES
Originale That’s none of my business, Roisin, and as far as I’m concerned, it’s none of that old fanatic’s business either. You’ve done a first-class job here. Look, do I have to forge that signature for you?
Doppiaggio La questione non mi riguarda, Roisin. E per come la penso io, non riguarda neanche quel vecchio fanatico. Tu sei un’ottima insegnante. Allora, se è necessario falsificherò la firma per te.
Esempio 17 Ae Fond Kiss Personaggi STUART MONICA STUART
Originale Well, it’s a big place That’s true. Too fucking big. You’re looking as gorgeous as ever, Monica!
Doppiaggio È un posto grande. È vero. Cazzo, anche troppo. E tu sei una bellezza, come sempre, Monica!
Esempio 18 Secrets and Lies
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2.4.1.2. I complimenti impliciti e la loro traduzione Gli esempi di complimenti impliciti sono molto diversi l’uno dall’altro. Vediamone alcuni in dettaglio. Personaggi MR WILKINSON
Originale I’ve heard a lot about you. Durham’s little Gene Kelly, eh? Your dad worked down the pit, then?
Doppiaggio Ho sentito parlare di te, il piccolo Gene Kelly di Durham eh? Insomma, tuo padre lavora in miniera?
Esempio 19 Billy Elliot Personaggi ERIN
Originale You are living next door to a real, live fucking beauty queen! And I still have my tiara. And I thought it meant I was gonna do something important with my life, that, that it meant I was someone.
GEORGE
You’re someone to me.
Doppiaggio Tu abiti accanto a una vera reginetta di bellezza in carne e ossa, cazzo! Ah, ah… Ho ancora il mio diadema. Pensavo che grazie a quello avrei fatto qualcosa di importante nella mia vita, che grazie a quello ero diventata qualcuno. Tu sei qualcuno per me.
Esempio 20 Erin Brockovich Personaggi MR BRADLEY
Originale Jamal, your test scores, to put it mildly, caught our attention. I’m here to see if you’d be interested in attending our school.
Doppiaggio Jamal, i tuoi voti, detto senza mezzi termini, ci hanno sbalordito. Io sono qui per sapere se ti interessa frequentare la nostra scuola.
Esempio 21 Finding Forrester Personaggi HAMMID [to CASIM] ANNIE [to CASIM]
Originale You’re actually dressed all right tonight. Don’t take him on, don’t take him on!
Doppiaggio Ti sei vestito da damerino, stasera? Casim, non dargli retta!
Esempio 22 Ae Fond Kiss
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Nell’esempio (19) il complimento è affidato sia nell’originale, sia nel doppiaggio al paragone con un ballerino molto famoso, Gene Kelly. Il giudizio di valore positivo si crea attraverso l’allusione alle conoscenze enciclopediche di entrambi gli interlocutori, sull’asse interno personaggio-personaggio nel mondo della storia, e a quelle del pubblico su quello esterno. In (20), addirittura, non si riscontra nessun elemento dotato di carica semantica positiva, ma è l’espressione nel suo insieme a poter essere decodificata come tale: “to be someone” significa in entrambe le lingue che la persona di cui si parla è importante per un certo numero di fattori, prevalentemente emotivi. In (21), invece, l’originale e la traduzione sono assai diversi Nel dialogo inglese i risultati conseguiti da Jamal sono descritti come “something which caught our attention”, anche se la strategia dell’understatement è stata palesemente dichiarata (“to put it mildly”). In italiano l’espressione di lode è molto più marcata, “ci hanno sbalordito”, andando a collocarsi verso il polo del massimo grado di intensità. Similmente, l’esempio (22) mostra discrepanze tra testo fonte e testo d’arrivo, ma il quadro è più complesso. Il tessuto linguistico del complimento – “you’re actually dressed all right tonight” – indurrebbe a considerarlo un complimento. Tuttavia, l’atmosfera (i personaggi si trovano un locale, scherzano e si divertono), il tono di Hammid e la reazione di Annie rivelano che l’enunciato è usato in modo scherzoso. Questo dimostra che spesso gli enunciati hanno una natura illocutoria “mista”, che rende difficile assegnarli a un tipo illocutorio preciso. Questo esempio ha alcuni tratti dei complimenti impliciti e altri della categoria che vedremo a breve, cioè dei complimenti “falsi”, senza tuttavia essere denigratorio e negativo. La traduzione nel doppiaggio italiano è troppo esplicita rispetto all’originale, a causa dell’uso del termine “damerino”, e genera un’incongruenza con i codici visivi, in quanto Casim indossa vestiti sportivi e colorati.
2.4.1.3. I complimenti “falsi” e la loro traduzione Alcune parole conclusive sui complimenti “falsi”, che sono i più difficili da identificare proprio perché non hanno segnali chiari nel testo e appartengono a sequenze illocutorie complesse, dove apprezzamenti positivi e negativi si trovano fianco a fianco. Consideriamo i casi (23) e (24).
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Personaggi PROF. CRAWFORD
Originale Your recent work? I liked it very much. No, Mr Wallace, the question concerning your most recent work isn’t whether it’s good, it’s whether it’s too good. […] I’m faced with drawing one of two conclusions. Either you’ve been blessed with an uncommon gift that it suddenly decided to kick in, or you’re getting your inspiration from elsewhere. Given your previous education and your background, I’m sure you’ll forgive me for coming to some of my own conclusions
Doppiaggio Il suo ultimo lavoro? Mi piace moltissimo. No, signor Wallace, il problema riguardante il suo lavoro più recente non è se è buono, è se è troppo buono. […] Mi trovo a dover trarre una di due conclusioni: o lei è benedetto da un non comune talento, che a un tratto ha deciso di manifestarsi, oppure lei trae la sua ispirazione da qualche altra fonte. Considerando il suo precedente curriculum, nonché il suo ambiente, lei certo mi perdonerà se giungo ad alcune mie personali conclusioni.
Esempio 23 Finding Forrester
Personaggi LARRY SY PARISH LARRY
SY PARISH LARRY
SY PARISH
Originale Sy, are you kidding me? What? I’ve got three of these fucking machines down today. I’ve gotta be in Heber Springs by three. Larry, all I’m asking you to do is look at these prints! Are you fucking threatening me? You’re breaking my balls over a plus three blue shift. Fuckin’ asshole. Next time you call me out here, that thing better be belching fire! That’s a great attitude, Larry. Thanks for your precision work.
Doppiaggio Mi stai prendendo in giro? Scusa? Ho tre di queste fottute macchine da riparare, oggi. E devo anche essere a Heber Springs per le tre. Larry! Ti chiedo solo di dare un’occhiata a queste stampe. Cosa vorrebbe essere, una minaccia? Mi rompi le palle per una dominante blu dello zero tre percento. Ma vaffanculo! E non mi chiamare più, a meno che quella cazzo di macchina non vada in pezzi. Gran bel modo di fare, Larry. È questa la tua professionalità?
Esempio 24 One Hour Photo
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In (23) il Professor Crawford esprime la sua ammirazione per le doti di scrittura di Jamal (“I liked it very much”, “too good”, “uncommon gift”), ma la sua argomentazione è completamente rovesciata alla fine del discorso, quando insinua che Jamal abbia plagiato il lavoro di qualcun altro. Alcuni indizi del sospetto si trovano in realtà anche all’inizio del suo discorso, quando dice “Your recent work … is too good”. La collocazione atipica dell’avverbio “too” con l’aggettivo “good” segnala qualcosa di strano. Il percorso argomentativo è stavolta ricalcato fedelmente nel testo doppiato, dove le manovre sordide del Professore sono riflesse nell’uso dei verbi modali: l’espressione “mi trovo a dover trarre una di due conclusioni” rappresenta la situazione come se il Professor Crawford fosse obbligato dalle circostanze a concludere che Jamal è disonesto. L’uso strategico dei modali serve a non assumere totalmente la responsabilità dell’affermazione. Anche l’esempio (24) mostra una sequenza articolata e complessa tra Sy Parish, l’impiegato del negozio di fotografie, e un tecnico. Sy tenta di catturare l’attenzione di Larry per risolvere un problema di stampa delle foto, ma Larry giudica l’imperfezione come secondaria, perché è atteso altrove a risolvere problemi di maggiore gravità. Larry reagisce aggressivamente, come si può vedere dal cumulo di termini tabù, molti dei quali hanno come destinatario Sy (“are you fucking threatening me”?, “you’re breaking my balls”, “fuckin’ asshole”). L’aspetto interessante è che il turpiloquio è addirittura enfatizzato nel dialogo doppiato, in controtendenza con quanto accade solitamente, in quanto nei film italiani la soglia di accettabilità del linguaggio volgare sembra essere posta al di sotto di quella di quelli anglofoni (si veda Pavesi / Malinverno 2000, 82; cfr. anche Chiaro 2009, 160). Nel dialogo italiano il termine neutro “that thing” è infatti tradotto con “quella cazzo di macchina”. La reazione finale di Sy nell’ultimo turno può a tutti gli effetti essere considerata un complimento “falso”, perché dice di apprezzare il comportamento di Larry e lo ringrazia, ma usa le parole ironicamente e intende esattamente il contrario. Purtroppo, l’ironia dell’originale è mantenuta solo nella prima parte del turno di Sy, mentre il tono dubitativo della domanda “È questa la tua professionalità?” tradisce la vera intenzione e l’atteggiamento del parlante.
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2.5. Conclusioni Lo studio dei complimenti in questo corpus ha rivelato una casistica differenziata, che indica linee di tendenza senza tuttavia fornire dati numericamente significativi, un limite sempre presente negli studi sulla pragmatica degli atti linguistici (si vedano le osservazioni sulla difficoltà della raccolta dei dati alla nota 12). Anche l’analisi qualitativa dovrà procedere nella direzione dell’approfondimento di categorie ambigue, quali, nel caso dei complimenti, quella dei complimenti “falsi”. È evidente però che i complimenti, anche nel parlato filmico, sono frequenti, sia come espressioni formulari, sia come forme più recondite e nascoste, che così risparmiano imbarazzo tanto al parlante quanto all’ascoltatore. Alcuni esempi hanno mostrato casi in cui la traduzione italiana enfatizza l’espressione positiva, allineandosi con una tendenza alla cortesia positiva manifesta nei paesi del sud Europa, ma il dato dovrebbe essere verificato con esempi più numerosi. Ciò che invece è apparso nella traduzione dei complimenti (e anche degli insulti come si vedrà al paragrafo 2.2. del capitolo 3), è che nell’affrontare la traduzione della cortesia è necessario considerare non l’intorno immediato del fenomeno in oggetto, ma l’intera cornice situazionale. Si è visto che i complimenti sono inseriti in sequenze aggressive e che strategie indirette possono essere usate per scopi antitetici. Come raccomandato dagli studi più recenti sulla cortesia (su tutti Eelen 2001; Mills 2003, 110), la valutazione della cortesia non può essere né aprioristica, in quanto non è un valore assoluto, ma è negoziata nella situazione di volta in volta e deve tenere in considerazione tutti i fattori situazionali e, in particolare, la prospettiva dell’ascoltatore / destinatario, né locale, cioè limitata al singolo microatto, ma all’interazione nella sua totalità.
3. GLI INSULTI: APERTAMENTE MINACCIOSI O SEGRETAMENTE “SOLIDALI”?
“You ignorant little slug!” the Trunchbull bellowed. “You witless weed! You empty-headed hamster! You stupid glob of glue!” Roald Dahl (1892), Matilda “To call you stupid would be an insult to stupid people! I’ve known sheep that could outwit you. I’ve worn dresses with higher IQs. But you think you’re an intellectual, don’t you, ape?” “Apes don’t read philosophy.” “Yes they do, Otto. They just don’t understand it.” Charles Crichton (1988), A Fish Called Wanda
1. INTRODUZIONE In questo capitolo si analizzano gli insulti e la loro traduzione nel testo audiovisivo, così come al capitolo 2 si sono trattati i complimenti. Dopo una riflessione sulla natura e le modalità linguistiche degli insulti, si prendono in considerazione vari esempi, confrontando le occorrenze con le traduzioni nel doppiaggio. Per poter confrontare gli insulti con i complimenti, l’analisi è condotta sul corpus parallelo di dialoghi filmici originali (di film britannici e americani) accompagnati dai dialoghi doppiati in italiano (Freddi / Pavesi 2009a). Fatta salva la rilevanza dell’analisi degli insulti per un confronto con i complimenti, ciò che emerge dagli studi su entrambi gli atti linguistici nel parlato filmico è una spiccata tendenza alla creatività, specialmente in film dove si mira a ottenere un effetto di verosimiglianza e dove il parlato è utilizzato come strumento per tratteggiare con precisione la fisionomia dei personaggi.
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2. GLI INSULTI Possono definirsi “insulti” tutte le parole o le espressioni che appaiono in atti destinati a offendere e ferire l’interlocutore, e, per estensione, gli atti linguistici stessi. Dal momento che l’insulto si rivolge alla persona dell’interlocutore, il bersaglio degli attacchi, e non alla causa del conflitto o del contrasto, esso può frequentemente apparire anche in atti aggressivi con scopo illocutorio diverso, quali accuse, rimproveri, minacce e così via (si veda su questo Canobbio 2010). Vari gli aspetti interessanti, anche se relativamente poco trattati, degli insulti. La loro natura illocutoria è variegata, perché uniscono all’espressione di emozioni negative del parlante un giudizio negativo, più o meno intenso, del destinatario (o, metonimicamente, di una sua caratteristica, di un oggetto posseduto o di qualcuno a lui legato). In questa direzione la letteratura anglofona è abbastanza precisa, e distingue tra insulti propriamente detti e imprecazioni (insults vs swearing vs cursing, vedi nota 2 e paragrafo 2.1.). Gli altri aspetti di interesse sono il fatto che il classificare un atto linguistico come insulto è spesso legato alla percezione che ne ha il destinatario, che, a seconda della sua personale suscettibilità, può trovare ingiurioso un atto che non è stato proferito con tale intenzionalità dal parlante. Infine, dal punto di vista linguistico, l’insulto sfrutta tipicamente alcune parole ed espressioni negative attingendo ad alcuni campi semantici specifici, quelli che culturalmente sono giudicati offensivi in una comunità linguistica. Le gerarchie valoriali, come è noto, non sono stabili né lungo l’asse temporale, poiché nel tempo mutano le ideologie e i sistemi di riferimento della società globale in genere e delle singole comunità, né lungo l’asse discorsivo, poiché alcune espressioni, in valore assoluto prive di carica ingiuriosa, possono invece caricarsi in tal senso in uno specifico contesto discorsivo. Parimenti, lo stesso termine ingiurioso può essere usato con una valenza più o meno offensiva, a seconda del contesto, dei parlanti, come si vedrà nel caso dell’insulto tra pari, che è una strategia per creare consenso, solidarietà, senso di appartenenza (Gómez Molina 2002, 115)1. La caratteristica in assoluto più singolare degli insulti è proprio questa relatività, che fa sì che lo stesso atto o la A questo proposito, Canobbio (2010) indica la frequenza della pratica del flame (uso di volgarità e forme offensive) in diverse forme di comunicazione mediate dalle tecnologie, come le chat, le e-mail, gli sms.
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Gli insulti: apertamente minacciosi o segretamente “solidali”?
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stessa espressione assumano connotati diversi, addirittura antitetici, al variare delle circostanze di enunciazione.
2.1. Per una tipologia degli insulti Gli insulti si configurano come atti “maleducati” e offensivi, che mettono spesso a repentaglio la faccia del destinatario e sfociano in inevitabili frizioni sociali, ma, come si diceva, la loro portata può essere relativa, e può anche essere ridimensionata dalla frequenza d’uso. L’impiego consuetudinario e stereotipato di un insulto può contribuire a renderlo meno ingiurioso, cioè ad abbassare il potenziale di offesa e di oltraggio alla faccia (Gómez Molina 2002) rendendolo meno pregnante. In questo caso, il parlante, per riacquistare l'incisività, deve ricorrere a strategie di rafforzamento, per esempio attraverso l’accumulazione di epiteti offensivi. Come si accennava sopra, una prima e necessaria distinzione riguarda le imprecazioni e gli insulti2 (Azzaro 2005), entrambe strategie verbali in cui si libera tensione, si esibisce un certo potere e si cerca di impressionare il destinatario. La prima categoria, che abbraccia anche le espressioni blasfeme e le bestemmie, è caratterizzata da sfoghi di emozioni forti quali rabbia e frustrazione, di natura automatica, non indirizzati a un destinatario e motivati neurologicamente. Di converso, gli insulti sono perlopiù automatici, ma indirizzati a un interlocutore preciso, e reciproci, perché richiedono una risposta, spesso dello stesso tenore della domanda. In inglese si usano di preferenza i termini cursing e swearing, e gli insulti si collocano di solito all’interno del secondo gruppo. I due termini sono quasi-sinonimi, ma la loro accezione varia nei diversi autori: per esempio, Montagu definisce swearing come “the act of verbally expressing the feeling of aggressiveness that follows upon frustration in words possessing strong emotional associations” e cursing come “a form of swearing distinguished by the fact that it invokes or calls down some evil upon its object” (1967, 105). Jay (2000) impiega il termine cursing come un sovraordinato che include al suo interno sia swearing, sia insults; lo studioso distingue inoltre tra due diversi tipi di tabù religioso, la blasfemia (contraddistinta da una forte intensità e da 2 Come sottolinea anche Nobili (2007, 2-3), la “trasgressione linguistica” si realizza in tante forme, dalle espressioni volgari, a quelle oscene e blasfeme, che trovano nelle varie lingue una terminologia assai diversificata; vedi oltre.
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una marcata intenzionalità) e la profanità. Andersson e Hirsch (1985), invece, parlano di bad language e di swearing e ribaltano il rapporto cursing / swearing: il swearing include bestemmie, turpiloquio generico e invettive. La tipologia, è, a detta degli stessi autori, una “folk taxonomy”. Per quanto riguarda il contenuto del linguaggio tabù, sia le imprecazioni che gli insulti condividono la caratteristica di servire come sfogo alle tensioni mentali, alla necessità di affermare il potere o di impressionare l’interlocutore. Questo obiettivo è spesso raggiunto grazie al riferimento ad alcune sfere semantiche connesse ai tabù culturali, come ad esempio la religione, l’immoralità, le funzioni scatologiche, alcune caratteristiche fisiche o mentali (capacità mentali, o meglio, la loro assenza, per esempio Stupid!, Idiot!, Fool!), attributi sessuali (ad esempio Fatso!, Slut!, Bastard!) e malattie3. Nonostante vi siano tendenze per così dire generali, i tabù variano di cultura in cultura, almeno quanto ad attualizzazione linguistica: Andersson e Trudgill (1990, 57) menzionano il caso delle espressioni riferite alla Vergine Maria, molto più numerose nei paesi cattolici e ortodossi rispetto a quelli protestanti. Un altro aspetto preso in considerazione in tutte le classificazioni è quello funzionale. Nella sua panoramica socio-antropologica del swearing, Montagu (1967), nonostante enumeri una serie di funzioni ascrivibili al fenomeno (1967, 105-106), dimostra l’universalità della funzione distensiva, quella usata per alleviare tensioni e pressioni di vario tipo: “in swearing, as a means of expressing anger, potentially noxious energy is converted into a form that renders it comparatively innocuous” (1967, 83). Anderson e Hirsch (1985)4 non adottano nessuna differenziazione tra imprecazioni e insulti, ma distinguono tra due diverse funzioni del swearing, “espletiva” e “offensiva”. La prima comporta di solito un’esclamazione istintiva, realizzata spesso come locuzione breve, una vera e propria imprecazione, come per esempio Shit!, Hell!, God!, Damn!, o come forma volta a rafforzare l’intensità della propria affermazione that fucking… La seconda funzione, quella “offensiva”, può materializzarsi in un insulto consapevole rivolto ad altri o a se stessi (You bastard, Go to hell!). Nel caso dell’insulto autoreferenziale (del tipo I’m really an idiot!), l’espressione può ricorrere in un turno monologico o dialogico, con funzioni distinte, spesso difensive. A volte è possibile trovare una combinazione di tutti questi parametri, ai quali può essere aggiunta un’espressione scatologica come amplificatore (per esempio Shitbrains!). 4 La stessa tipologia è ripresa anche in Andersson / Trudgill (1990, 61). 3
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Vi sono infine gli usi cosiddetti “secondari”, tra i quali quello umoristico / giocoso (per esempio Get your ass in gear), o quello volto a esprimere apprezzamento o appartenenza allo stesso gruppo, come esclamazioni tipo You son of a bitch!. In quest’ultimo caso l’insulto è usato con un diverso scopo illocutorio e diventa perciò una forma discorsiva volta a stabilire solidarietà e vicinanza. Questo uso è stato riconosciuto da molti studiosi, con diverse etichette, tra le quali quella di “banter”, in Leech 1993, ripresa da Culpeper 19965. Un ultimo uso secondario è infine quello abituale, non rivolto né a persone, né a situazioni, ma una sorta di tic verbale o “virgola orale” (Nobili 2007, 3), legato a un’espressione che il parlante usa meccanicamente senza intenti particolari (per esempio this fucking X, bloody Y). Uno studio interessante sull’argomento è quello di McEnery 2006, che analizza bad language words in un corpus di dati specifico, il Lancaster Corpus of Abuse, all’interno del quale distingue tra swearwords (per esempio fuck, piss, shit), terms of abuse (distinguendo all’interno di questi tra campi semantici, quali quello animale, con termini quali pig, cow; gli epiteti sessisti, quali bitch, slut; quelli basati su qualità intellettuali, come idiot, prat; e, infine, quelli omofobici, come queer). Studi sugli insulti nel dialogo filmico (cfr. Azzaro 2005, 2007; Pavesi / Malinverno 2000; Bruti / Perego 2008, 40-41 sui vocativi offensivi), hanno ampiamente mostrato che gli epiteti offensivi utilizzati sono particolarmente ricchi d’inventiva e servono a caratterizzare tanto il parlante quanto l’ascoltatore. In questo senso si distinguono tanto dalle imprecazioni, per loro stessa natura fisse e formulari, ma anche da un certo tipo di insulto quasi automatico, che si incentra su epiteti logori e banalizzati, che nel corso del tempo si sono almeno in parte desemantizzati. Un’altra caratteristica interessante degli insulti è che, similmente ai complimenti, non sempre essi si affidano a un linguaggio colorito: quando un parlante intende offendere qualcuno può utilizzare espressioni tabù ma può anche impiegare locuzioni superficialmente neutrali, cariche però di un intento minaccioso o aggressivo. Di contro, l’uso di espressioni apparentemente offensive può essere una strategia di cortesia empatica, che sottolinea l’appartenenza al gruppo e la condivisione di un retroterra Come nota Nobili (2007, 4), l’uso ritualizzato era già stato identificato da Labov (1972) negli anni Sessanta, nei duelli verbali tra adolescenti di colore di Harlem. Si veda Nobili (2007, 4-5) per riferimenti agli aspetti antropologici.
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comune (Andersson / Hirsch 1985, 53; cfr. Nobili 2007). Casi simili si sono visti al capitolo 2 per i complimenti, che possono sembrare tali e rivelarsi “falsi”, oppure non sembrare complimenti, cioè ricorrere a un lessico neutro, ma presupporre un giudizio di valore positivo.
2.2. Gli insulti in un corpus di dialogo filmico L’analisi degli insulti, per facilitare il confronto con i complimenti, si concentra sul Pavia Corpus of Film Dialogue, di cui si è detto al capitolo 2, paragrafo 2.4.1. Si è scelto di limitare l’analisi degli insulti al solo doppiaggio e di non considerare i sottotitoli interlinguistici per due motivi: come è evidente dagli studi sui sottotitoli (si vedano, solo come caso emblematico, gli studi di Bruti / Perego sui vocativi 2005, 2008, 2010), tutti gli elementi riconducibili alla sfera dell’espressività o dell’emotività sono interessati da un processo di compattazione che spesso porta all’eliminazione totale; nel caso degli insulti questa caducità è ulteriormente accresciuta dal forte condizionamento della varietà diamesica dei sottotitoli, che, in quanto varietà scritta, vede il parlato ripulito da tutte le coloriture e quindi, a maggior ragione, dalle volgarità. Tuttavia, la grande diffusione dei sottotitoli amatoriali, i cosiddetti fansubs, creati da traduttori non professionisti per rispondere alle precise esigenze di un pubblico attento e diffusi senza restrizioni attraverso la rete, lascia intravedere possibili sviluppi futuri. Viste una maggiore accuratezza nella resa di tratti idiolettali e una spiccata propensione per rese traduttive source-oriented, accertate almeno relativamente ad alcuni fenomeni dell’oralità (interiezioni, marcatori discorsivi, vocativi; si vedano Bruti / Zanotti 2012; 2013), è possibile prevedere che in questa pratica traduttiva anche insulti e turpiloquio siano più ampiamente rappresentati. La ricerca potrà senz’altro estendersi a un’indagine in questa direzione nel fansubbing e valutare se le norme operative emergenti in questo contesto traduttivo amatoriale non abbiano, col tempo, qualche influsso anche sulla sottotitolazione professionale. L’analisi del corpus, anche in questo caso condotta con strumenti analitici tradizionali, e non ricorrendo, se non in parte e come strategia di “controllo”, all’interrogazione automatica attraverso alcune keywords, ha evidenziato una gamma piuttosto ampia di tipi di insulti. Tra i più frequenti gli insulti apertamente denigratori, collocati in enunciati nei quali il potenziale semantico negativo è manifesto, che hanno un intento illocutorio aggressivo, il cui scopo è l’espressione del disprezzo e la derisione; di questa categoria fa parte anche un tipo particolare di
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insulto, che ha a che fare con la discriminazione razziale. Al contrario della tipologia generale, gli insulti razziali o etnici non sempre si avvalgono di termini negativi, ma hanno un intento aggressivo e esprimono giudizi sociali stereotipati e convenzionali. Gli insulti impliciti, invece, sono enunciati in cui la valutazione negativa è implicata, perché impiegano materiale lessicale neutro. La natura illocutoria deve essere spesso ricostruita dall’intera sequenza. Questi atti sono aggressivi, ma sono reinterpretati così soltanto retrospettivamente, una volta che se ne è compresa la vera natura. Infine, un ultimo tipo è costituito da forme apparentemente scortesi che si rivelano però strategie di cortesia empatica, quali indicatori di solidarietà, espressioni che costruiscono un terreno comune, che vanno sotto il nome di “banter” nella letteratura anglofona (cfr. Leech 1983, 144; Culpeper 1996, 352). Non si riscontra nessun intento offensivo ma, al contrario, promuovono solidarietà e senso cameratesco6. 2.2.1. Gli insulti espliciti e la loro traduzione La maggior parte degli insulti è realizzata attraverso il ricorso a epiteti o vocativi, scambiati tra interagenti di ogni tipo: parametri quali sesso, classe sociale, ruolo non incidono in maniera significativa sull’uso degli insulti, perché si tratta di atti immediati, istintivi, per i quali considerazioni di opportunità sociale non sono pertinenti. Sulla base di risultati conseguiti altrove (soprattutto Bruti / Perego 2010), si può dire che gli insulti più critici nella traduzione per il doppiaggio sono i cosiddetti “descrittori”, fonte di difficoltà per la forte dipendenza contestuale e per l’uso di una varietà marcata soprattutto in diastratia e diafasia. I descrittori complessi sono sintagmi nominali che contengono vari elementi in posizione di pre- e post-modificazione, la cui decodifica è strettamente dipendente dal contesto. Il vocativo, come si vedrà bene nel capitolo 4 sull’allocuzione, costituisce una risorsa dell’inglese per compensare in qualche modo la presenza di un solo pronome allocutivo. Sono i vocativi che precisano il grado di formalità, la confidenza, i ruoli degli interlocutori. Essi, tuttavia, non sono sempre necessari in italiano, dove invece è sufficiente il pronome “tu”, accompagnato da intonazione, gestualità, mimica, a veicolare i valori sociali. La seconda difficoltà, nuovamente dipendente da differenze sistemiche tra inglese e italiano, è che i descrittori generici, che sono molto 6 Gli insulti cosiddetti “delocutivi” (cfr. Nobili 2007, 29), cioè quelli proferiti in assenza dell’interlocutore, non sono stati considerati in questa sede.
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numerosi in inglese (si pensi a elementi quali buddy, chum, chap, man, mate, pal, dude, brother, sister, babe, doll, folk, guys, people e così via; cfr. Gramley / Pätzold 1992, 291), spesso non hanno un traducente vero e proprio in italiano. Come si rileva in Bruti / Perego (2005, 32), le soluzioni proposte dal dizionario per mate sono “capo”, “amico”, “compagno”, termini non propriamente consueti e naturali nell’italiano spontaneo. “Capo” è tra l’altro menzionato anche tra i traducenti di man, specialmente in contesti marcati diastraticamente tra membri delle classi sociali più basse (Pavesi 1996). Per quanto riguarda i descrittori marcati English shows an inclination to choose and even forge terms of address to meet functional requirements in a given context (Allerton 1996). In other words, English can easily exploit a given situation and the speaker’s standpoint in the selection of an appropriate referring expression, which may cause translational problems if the target language is more analytical, like Italian (Bruti / Perego 2010, 66).
A titolo di esempio, in Bruti / Perego 2010 emerge un dato interessante in traduzione: il traducente “stronzo” corrisponde a un repertorio offensivo molto più variegato in inglese, cioè prick, asshole, fucker, fuckface e jerk (in Lethal Weapon 4), slug e you cheecky twat (in East is East). Si considerino gli esempi (1) e (2)7. Personaggi BILLY DEBBIE BILLY DEBBIE BILLY DEBBIE BILLY
Originale What about your mom? Does she not have sex? No, she’s unfulfilled. That’s why she does dancing. She does dancing instead of sex? Your family’s weird. No, they’re not. They are though. They’re mental. Get off! See? You’re a nutter, you.
Doppiaggio E la tua mamma? Davvero non fa sesso? No, è insoddisfatta. È per questo che fa danza! Cioè fa danza invece che sesso? Ah, che strana famiglia! No, non è vero! Sì che è vero! Sono matti! Smettila! Vedi? Sei matta anche tu!
Esempio 1 Billy Elliot
Anche qui, come per i complimenti, gli insulti sono indicati con il sottolineato sia nell’originale, sia nel doppiaggio. Per far notare la corrispondenza si usa la sottolineatura anche quando la traduzione non è più un insulto, o è un insulto di tipo diverso.
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Personaggi LYDIA
Originale That’s what I am trying to do, you cripple!
Doppiaggio E adesso sai qual è il mio scopo, microcefalo!
Esempio 2 Sliding Doors
Nell’esempio (1) le due offese sono rese con lo stesso aggettivo, semplificando e smorzando il tono colloquiale e informale dell’originale. In (2), invece, il mutamento è meno vistoso, ma lo stesso degno di nota: in inglese l’offesa si impernia sul termine cripple, che descrive un difetto fisico, la zoppia o un problema deambulatorio simile, e per estensione metaforica, anche un deficit di tipo mentale. In italiano si cerca di seguire lo stesso percorso di estensione metaforica, ma si sceglie un’espressione poco frequente nell’italiano parlato. Ci sono altre locuzioni, ugualmente generate dall’estensione metaforica, che sono più tipicamente impiegate come epiteti offensivi: “handicappato” (che significa che qualcuno si comporta in modo irresponsabile o sciocco; questo termine sarebbe probabilmente stato soggetto a censura in quanto politicamente scorretto), o l’espressione in negativo “non sei (mica) normale”, che ugualmente allude a comportamenti sciocchi, più che a difetti permanenti.
2.2.1.1. Gli insulti razziali e la loro traduzione Come si accennava sopra, gli insulti razziali8 (Nobili 2007; Filmer 2012) sono normalmente espliciti, ma si caratterizzano per una componente ben distinta, lo stereotipo socio-culturale. Essi nascono da un giudizio di valore negativo esteso a un intero gruppo etnico e sono “il risultato della somma di connotazioni – formate da rappresentazioni iconiche, giudizi di valore e persino da emozioni – che si accumulano attorno a un nodo concettuale” (Nobili 2007, 34). Sono usati intenzionalmente per attaccare e svilire l’interlocutore e sono perciò meno immediati e più premeditati di quelli esaminati finora come appartenenti alla classe generale degli insulti espliciti. Questa categoria di insulti è molto ben rappresentata nel Pavia Corpus of Film Dialogue a causa dei vari gruppi etno-linguistici che
8 Azzaro (2007, 74) preferisce il termine “etnico” e spiega di voler evitare “razziale”, in linea con la raccomandazione degli scienziati nella Dichiarazione sulla razza dell’UNESCO (1950).
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compaiono nei film. Gli esempi (3)-(5) offrono una casistica che si riferisce a etnie diverse. Personaggi POLICE OFFICER KIM LEE RIA POLICE OFFICER RIA KIM LEE
RIA
POLICE OFFICER RIA
Originale I need to see your registration and insurance. Why? It not my fault! It’s her fault! She do this! My fault? Ma’am, you really need to wait in your vehicle. My fault? Stop in middle of street! Mexicans no know how to drive. She blake too fast. I “blake” too fast? I “blake” too fast! I’m-I’m sorry, you no see my “blake” lights. Ma’am... Officer, can you please write in your report how shocked I am to be hit by an Asian driver!
Doppiaggio Mi dia il libretto e il tagliando dell’assicurazione. Pelché? Non è mia colpa, è sua colpa! Lei ha fatto! Colpa mia?! Signora, le ho detto di aspettare nel suo veicolo. È colpa mia? Lei felmata in mezzo a strada. Mexicana no sa guidale. Flenato di colpo. Io “flenato” di colpo? Io “flenato” di colpo? No, no, no, è lei che non ha visto le luci dei miei “fleni”! Signora… Agente, nel suo rapporto la prego di menzionare il mio shock per essere stata tamponata da un’Asiatica.
Esempio 3 Crash
Personaggi GIRL [playing in the rival team] JESS
Originale Piss off, Paki!
Doppiaggio Vaffanculo, brutta Hindi!
Sod you!
Vacci tu!
Esempio 4 Bend it like Beckham
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Personaggi PINKY
MRS PAXTON INDIAN WOMAN
TONY’S MOTHER
Originale What the bleeding hell’s going on, eh? What’s that gora going on about you being a lesbo? I thought you fancied your coach! Take your lesbian feet out of my shoes! Lesbian? Her birthday’s in March. I thought she was a Pisces. Huh uh, she no Lebanese. She Punjabi!
Doppiaggio Si può sapere che cavolo succede? Eh? Perché quella stronza dice che sei lesbica? Ma non ti piaceva l’allenatore? Leva di corsa quei piedi da lesbica dalle mie scarpe! Lesbica? Che segno è? Jess è nata di marzo. Credevo fosse dei pesci. Non è lesbica, è Punjabi!
Esempio 5 Bend it like Beckham
Nell’esempio (3) la conversazione si svolge tra una donna messicana e una cinese che hanno avuto uno scontro automobilistico. La donna cinese, che parla un inglese non del tutto corretto, come è evidente non solo dalla pronuncia di certi fonemi, ma anche da alcune forme morfosintattiche non standard, imputa la colpa a un difetto generalizzato dei messicani, il fatto che non guidano bene. D’altro canto, Ria, un’investigatrice messicana, ricambia l’offesa, condividendo la tesi che la nazionalità e le capacità di guida siano correlate. Sia nell’originale, sia nel doppiaggio Ria motteggia la pronuncia della donna cinese, l’uso consistente di /l/ per /r/, tratto tipico dei sinofoni. Nel parlato doppiato sono perlopiù mantenute anche le deviazioni grammaticali dallo standard: la flessione zero alla terza persona singolare “she do it” diventa un ordine dei costituenti sbagliato, con assenza di determinanti “Non è mia colpa, è sua colpa”, e l’uso dell’infinito passe-partout è reso con il participio passato (“felmata”, “flenato”). In (4) gli insulti razziali sono rivolti a Jess, la protagonista, che è di origine Punjabi. La sua avversaria la chiama Paki, una forma abbreviata e colloquiale per “Pakistani”, che è per Jess particolarmente offensiva in quanto sottintende che sia musulmana. Essendo del Punjab, invece, non è di religione musulmana, come è evidente in diverse scene del film, ma Hindi. Il sintagma “brutta Hindi” tradisce lo spirito dell’originale e cancella le implicazioni religiose trasformandole in un’offesa legata al solo colore della pelle e all’etnia, in cui il rafforzamento di “brutta” compensa parzialmente la perdita dell’altro aspetto. L’esempio (5), tratto dallo stesso film, si apre con un insulto in terza persona, che non è tuttavia un insulto
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in absentia, ma una strategia di scortesia aperta con la quale l’ascoltatore è “declassato” al ruolo di astante. Il termine “gora” (usato in varie forme nel film, “gora” o “goree”) è un’espressione derogatoria usata dagli indiani per designare i bianchi. Nel dialogo doppiato è reso con “stronza”, che ha simili toni aggressivi, ma certamente nessuna implicazione razziale. Nelle battute successive l’offesa sessuale si innesta su quella etnica, quando le anziane donne indiane fraintendono la parola “lesbian” e la decodificano o come un segno zodiacale (“I thought she was a Pisces”), o come un termine che indica nazionalità, “Lebanese”, sulla base di una certa vicinanza fonetica. Questa associazione tra “lesbian” e “Lebanese” non appare esplicitamente in italiano, dove l’equazione della parola “lesbian” con la nazionalità può essere ricostruita solo inferenzialmente.
2.2.2. Gli insulti impliciti e la loro traduzione Questa categoria è stata introdotta in parte come categoria speculare dei complimenti impliciti, in parte perché insulti di questo tipo sono ipotizzabili, anche se pochi esempi sono stati rinvenuti nel Pavia Corpus of Film Dialogue. Questo tipo sembra avere molto in comune con i complimenti “falsi”, ma è necessario un maggiore approfondimento. Si consideri (6). Personaggi FARLEY
SISTER HELEN FARLEY SISTER HELEN FARLEY SISTER HELEN FARLEY SISTER HELEN FARLEY
Originale So, you’ve put in a request to be the spiritual advisor to Matthew Poncelet. Yes, father. Why? He asked me. This is highly unusual. Why? Well, you would be the first woman to do it. Really? This kind of situation requires an experienced hand. This boy is to be executed in six days and is in dire need of redemption. Are you up to this?
Doppiaggio Così lei ha fatto domanda per essere il consigliere spirituale di Matthew Poncelet. Sì padre. Perché? Perché me l’ha chiesto. È una cosa alquanto insolita. Perché? Ecco, sarebbe la prima donna a farlo. Davvero? Questo genere di interventi richiedono una buona dose di esperienza, l’esecuzione avverrà fra sei giorni, come lei sa, quell’uomo ha bisogno di redimersi. Si sente all’altezza?
Esempio 6 Dead Man Walking
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Lo scambio avviene tra due religiosi, ma non si configura come una conversazione tra uguali: Sister Helen è in posizione gerarchicamente inferiore perché è donna e perché non conosce le norme che regolano la vita del carcere, nel quale invece il Cappellano Farley ha lavorato a lungo. Farley ha di conseguenza un atteggiamento paternalistico e condiscendente, tipico di chi ha potere e ama esercitarlo (fatto che si desume dal primo incontro con Sister Helen, durante il quale la rimprovera aspramente perché non indossa l’abito religioso). In queste battute egli interroga la suora in un modo che potrebbe sembrare cortese, usando repliche apparentemente neutrali, ma insinuando sottilmente che la donna non è adeguata al ruolo che riveste. La scarsa stima per Sister Helen trapela per esempio dalla forma interrogativa “Are you up to this?”, che diventa invece una domanda più genuina e meno infida in italiano, perché Farley chiede alla donna se pensa di essere adeguata come guida spirituale e non direttamente se lo è.
2.2.3. Il banter e la sua traduzione Espressioni offensive appaiono di frequente in sequenze che non intendono essere scortesi e che non sono affatto percepite come tali. Questo succede in film di ogni genere, a patto che i parlanti siano socialmente pari e vicini: il caso di amici, innamorati, colleghi, soprattutto se membri dei ceti medi e bassi. Come ben evidenzia Leech in un recente articolo (2007, 191) With banter […] the reversal of interpretation occurs because the discorteous remark cannot be treated as serious. Banter is a way of reinforcing in-group solidarity; it is a way of saying ‘we do not need to be polite to one another: I can insult you, and you will think it a joke. This proves what good friends we are’.
Gli esempi dal (7) al (10) propongono un’interazione tra colleghi di lavoro, una tra innamorati e una tra amiche. In (7) un gruppo di amici usa il turpiloquio e l’insulto scherzoso come strategia distensiva mentre trasporta un pianoforte pesantissimo su per una scala.
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Personaggi DANNY WEE RODDY DANNY DANNY BIG RODDIE WEE RODDIE BIG RODDIE WEE RODDIE DANNY
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Originale Come on! Jesus! All right, right. […] Come on! Just take the fucking weight, you fat bastard! I can’t, Danny! My arms are fucking three feet long! Hold on! Hold on! I can’t feel my fingers! I’m turning into an octopus! Ah, ah! It’s on my fingers, Danny! […] Fucking hell, wee man! You useless fucking bastard, Rod!
Doppiaggio Avanti, ragazzi, datevi una mossa. Attento. Attento, così tocca. Sta’ tranquillo, ci passa. Ma ti vuoi caricare un po’ di peso, brutto ciccione? Non ci riesco, le braccia mi si sono allungate di un metro. Fermatevi! Non mi sento più le dita! Mi sento un polipo! Ah! Danny, mi stai schiacciando le dita! […] Sei il solito stronzo, Roddie!
Esempio 7 Ae Fond Kiss
L’esempio (8) inquadra una tipica interazione tra innamorati, in cui i due giovani si prendono teneramente in giro. La sequenza si chiude in inglese con un epiteto solo apparentemente offensivo, “you mug” (‘stupidino’), che è rimosso dal dialogo doppiato. Personaggi CASIM ROISIN [risatina] CASIM ROISIN [riso] CASIM ROISIN CASIM ROISIN
Originale You’re strong, aren’t you? For a wee Irish girl, I am. 2-1 to me! Never! Ok, truce then, ok? Yeah. Truce? Promise? Swear to God. Promise me. Over my dead body, you mug!
Doppiaggio Sei forte, sei molto forte, sai? Per essere un’irlandese mingherlina. 2 a 1 per me! Neanche per idea. Va bene, tregua. Va bene. Tregua? Sì. Prometti? Te lo giuro. Ci hai creduto? Come mi dispiace Ø!
Esempio 8 Ae Fond Kiss
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L’esempio (9) mostra due fratelli che litigano anche qui scherzosamente su questioni quotidiane, senza che nessuno si offenda. La natura colloquiale e volgare dello scambio è stata mantenuta nel doppiaggio, ma le scelte sintattiche non standard (ad esempio la doppia negazione, la mancanza dell’ausiliare) sono state normalizzate. Personaggi TONY BILLY TONY BILLY TONY
Originale Fuck. You been playing my records, haven’t you, little twat? I never played naught! Ah! Knobhead! If Dad knew you smoked that stuff, he’d go mental. What? Fuck off, will ya! Little twat!
Doppiaggio Vaffanculo! Hai messo i miei dischi, no? Testa di cavolo! Io non ho messo niente! Ahi! Deficiente! Se papà sa quello che fumi, diventa una bestia! Oh! Vaffanculo, eh? Testa di cavolo!
Esempio 9 Billy Elliot
La stessa qualità conciliante del banter si osserva in (10), in cui Anna e Helen discutono le vicende amorose della seconda e Anna, amica sincera, si sente autorizzata a criticarla apertamente. Helen reagisce con un’espressione volgare, che è tuttavia priva di toni aggressivi e risulta divertente e leggera. In italiano si mantiene questa valenza pragmatica di ludicità, pur rimuovendo del tutto la volgarità, che invece sarebbe del tutto legittimata dalla vicinanza tra le donne. Personaggi ANNA
HELEN
Originale Well, two things really. One, you’re still counting how long you’ve been apart in days. And probably hours and minutes. But … the big flashing red light way of telling you’re not really over someone is when you’re still reading their horoscope, in the hope they’re going to be wiped out in some freak napalming incident Smart arse!
Doppiaggio Bè, ci sono due cose. La prima è che ancora conti da quanto non vi vedete in giorni e probabilmente ore e minuti. Poi non ci vogliono le luminose per capire che non hai chiuso con uno, quando continui a leggere il suo oroscopo nell’ardente speranza che uno strano incidente col napalm lo incenerisca. Saputona!
Esempio 10 Sliding Doors
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2.3. Conclusioni L’analisi degli insulti ha rivelato gli stessi limiti dell’analisi dei complimenti (cfr. capitolo 2, paragrafo 2.5.), per cui anche in questo caso sarà necessario esaminare più a fondo la categoria più complessa, quella degli insulti impliciti. Per gli insulti, in misura maggiore che per i complimenti, si sono riscontrate scollature tra i dialoghi originali e quelli tradotti, soprattutto nella variazione stilistica e di registro e, in particolar modo, per gli insulti più connotati socialmente, quelli razziali: variazioni anche minime mutano, come si è visto, il quadro delle relazioni sociali rappresentate. Come per i complimenti, anche per gli insulti si rammenta perciò la necessità di procedere a una valutazione del singolo caso, inquadrato nell’intera dinamica interazionale e di indagare a fondo il contesto in cui si situa.
4. L’ALLOCUZIONE
La prima persona non comprende se non me, o me con altri insieme; senza me non si puo fare. La seconda comprende voi solo, o altri con voi insieme. Ne la terza persona si chiude poi come in una voragine ogni altra cosa, che non sia io o voi. E cosi parlarò in terza persona d’un gatto, come d’un Principe, e d’un legno, come d’un Angelo; e d’ogni cosa per vile e bassa che sia si parla in terza persona, come de la piu nobile, e piu honorata che sia al mondo. Onde mi meraviglio di questi Signori del nostro secolo, che s’allegrano, e si gonfiano, quando è lor parlato in terza persona, e che senten darsi de la Signoria, e de l’Escellenza a ogni parola. Claudio Tolomei (1547), De le lettere di M. Claudio Tolomei lib. sette.
1. INTRODUZIONE Il sistema dell’allocuzione (Braun 1988; Clyne / Norrby / Warren 2009) costituisce un ambito problematico nella traduzione dall’inglese all’italiano, a causa della differenza sistemica delle due lingue, difficoltà che si riflette nella traduzione degli audiovisivi dove le dinamiche di interazione faccia a faccia hanno un ruolo di primo piano (Pavesi 1996). L’inglese da secoli si è assestato su un paradigma di pronomi allocutivi a un solo termine, you, ma questa scelta deve necessariamente essere precisata in relazione a diversi parametri una volta che si passa a lingue che, come l’italiano, hanno una pluralità di pronomi allocutivi che veicolano vari gradi di formalità e cortesia (sull’italiano cfr. Renzi 1995), per non parlare di lingue più distanti, come ad esempio il giapponese, caratterizzate da un complesso sistema di onorifici. In questa sede discuteremo la complessa trama di significati pragmatici sottesi alla scelta degli allocutivi in riferimento ad alcuni esempi identificati sulla base delle loro caratteristiche distintive, aventi a che fare con diversi generi narrativi, diversi periodi storici rappresentati
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e una difforme configurazione di ruoli sociali, in modo da offrire un quadro esemplificativo il più possibile vario e articolato. Tra i film scelti uno è l’adattamento cinematografico del celebre romanzo di Jane Austen Sense and Sensibility (1811), nella versione diretta da Ang Lee (1995)1, di cui Emma Thompson ha curato la sceneggiatura (1995). L’originale della Austen, del quale l’accurata sceneggiatura della Thompson cerca di preservare intatte le convenzioni epocali e le abitudini linguistiche, è caratterizzato da regole conversazionali assai distanti da quelle del mondo contemporaneo. Anche se agli inizi dell’Ottocento in inglese non esisteva più la distinzione tra you e thou (si veda Bruti 2000), le norme sociali imponevano un elevato grado di deferenza e di rispetto che si rifletteva nella scelta del vocativo da accompagnare al pronome allocutivo. In inglese, da allora fino a oggi, è proprio il vocativo a esprimere questi valori di vicinanza o lontananza sociale ed emotiva. Sarà perciò l’analisi dei vari epiteti utilizzati con funzione allocutiva a chiarire, di volta in volta, quale sia il significato principale da riprodurre nella versione doppiata in italiano. Come contrappunto si sono scelti alcuni film moderni, In Her Shoes (C. Hanson, 2005) e Philadelphia2 (J. Demme, 1993). La prima è una commedia gradevole e divertente, ambientata a Philadelphia ai giorni nostri. In maniera leggera, ma allo stesso tempo sincera e onesta, In Her Shoes traccia un percorso di vita al femminile, quello di due sorelle, all’inizio legate solo dallo stesso numero di scarpe. Philadelphia, premiato con molteplici riconoscimenti tra i quali diversi Oscar, Golden Globe e l’Orso d’oro al regista al Festival di Berlino, porta alla ribalta un tema scottante e delicato, di cui si cominciò a prendere coscienza in tutta la sua drammaticità nei primi anni Novanta, cioè l’AIDS. La selezione dei film, totalmente diversi per genere e ambientazione, è volta a fornire un’esemplificazione delle configurazioni e delle dinamiche interpersonali in tre cornici situazionali molto distinte, e, di conseguenza, a discutere le strategie traduttive impiegate in ciascuno.
La versione utilizzata per l’analisi è su supporto DVD. I dialoghi italiani sono stati realizzati da Marco Mete, mentre il direttore del doppiaggio è Giorgio Piazza. 2 Per In Her Shoes – Se fossi lei e Philadelphia si sono usate versioni registrate dalla televisone. I dialoghi in italiano e la direzione del doppiaggio di In Her Shoes – Se fossi lei sono a cura di Pino Colizzi; i dialoghi in italiano di Philadelphia sono a cura di Marco Mete, mentre la direzione del doppiaggio è di Giorgio Piazza. 1
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2. ALCUNE CONSIDERAZIONI SULL’ALLOCUZIONE IN INGLESE E IN ITALIANO
Come si accennava poco sopra, il sistema dell’allocuzione pronominale in inglese si riduce oggi al solo you (e a un’unica forma verbale identica per singolare e plurale), demandando a risorse lessicali, i vocativi (Braun 1988; Pavesi 1996; Bruti / Perego 2005, 2008, 2010; Clyne / Norrby / Warren 2009: 18), l’espressione dei significati sociali di cui nelle altre lingue si fa carico il paradigma oppositivo tra la forma informale e familiare e quella formale e cortese (o come, in riferimento al latino, abbreviano Brown / Gilman 1960 in T / V). Il quadro dei pronomi dell’allocuzione nell’inglese elisabettiano, l’Early Modern English, era al contrario molto complesso3: al pronome ye (il nominativo del you moderno) si affiancava l’alternativa thou. I due pronomi potevano essere impiegati in modo diverso: da un lato relazioni sociali simmetriche e reciproche, nelle quali lo stesso pronome era scambiato da parlanti pari grado, oppure relazioni asimmetriche e non reciproche, segnalate da pronomi diversi. La fluttuazione osservabile nella scelta dell’allocutivo era ascritta perlopiù alle variabili di potere e solidarietà (Brown / Gilman 1960), con la regola generale che you era usato per esprimere distanza sociale e rispetto, mentre thou era riservato per rivolgersi ai ranghi inferiori oppure per esprimere disprezzo o familiarità all’interno della cerchia familiare. Questa regola non spiega tuttavia i casi in cui l’alternanza si verificava a situazione enunciativa e parlanti invariati. Come mostra la letteratura, infatti, la fluttuazione era in parte legata a variazioni stilistiche e segnalava spesso un mutato atteggiamento nei confronti dell’interlocutore e, più in generale, un improvviso coinvolgimento emotivo (Salmon 1967; Eagleson 1971; Barber 1981). Il pronome portatore di questi significatati affettivi ed emotivi era thou, mentre you rappresentava la forma più neutra, che andò pian piano fagocitando thou. Alla fine del XVI secolo l’uso di you si era stabilito tra le classi meno abbienti al posto di thou, che rimase in vita per usi molto limitati, soprattutto nelle dispute politiche e religiose (Finkenstaedt 1963, 174-213). I Quaccheri, per esempio, adottarono thou fino al Settecento perché più consono allo spirito egalitario della Bibbia, scelta confermata peraltro dall’abolizione di titoli nobiliari e onorifici. Nell’Ottocento thou era ormai circoscritto nell’uso ad alcune 3
Per una trattazione più completa si rimanda a Bruti 2000 e alla bibliografia indicata.
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zone rurali (soprattutto nel Lancashire, nello Yorkshire e nel Somerset) e alla letteratura, dove connotava scarsa educazione e comportamenti sentimentali o anacronistici. Come nota Pavesi (1996), richiamando il lavoro di Ervin Tripp (1972), la limitatezza grammaticale – il paradigma è diventato a un solo termine – viene compensata nell’inglese moderno da una pervasività del vocativo4, che diventa un elemento quasi obbligatorio, specie in interazioni tra persone che si conoscono, e caratterizzato, tra l’altro, da una “extraordinary idiomaticity” (Zwicky 1974, 788). Da qui deriva l’importanza del rituale delle presentazioni in inglese. Nell’inglese attuale la tendenza a ridurre la distanza e a scegliere allocutivi denotanti parità si manifesta nell’adozione del nome di battesimo non preceduto da titoli o onorifici (Bargiela / Boz / Gokzadze / Hamza / Mills / Rukhadze 2002, 4; Clyne / Norrby / Warren 2009, 18 e 159). Questa, tuttavia, non è una tendenza universale, come notano Clyne, Norrby e Warren (2009), che rilevano un certo dinamismo e il ritorno a forme deferenti, per esempio in svedese5. Anche in italiano il repertorio dei pronomi allocutivi ha avuto un interessante sviluppo diacronico. Dal Cinquecento al Novecento inoltrato, l’allocuzione in italiano contava su un sistema tripartito con “tu”, “voi”, “lei” (Serianni 1989, 262). “Voi” era il pronome non marcato, anodino, mentre “lei” si caratterizzava per una forte formalità e deferenza e “tu” rappresentava l’altro polo della scala, cioè la variante non formale, utilizzata con gli inferiori, tipicamente servi, figli, bambini6. Sia I promessi sposi (1827), scritti nell’Ottocento ma con una cornice storica secentesca, sia Le avventure di Pinocchio (1883) mostrano chiaramente come il sistema fosse ancora saldamente tripartito. Ne I promessi sposi, per esempio, i due fidanzati si rivolgono l’uno all’altro con il “voi” reciproco, anche dopo il matrimonio, così come il “voi” è il pronome simmetrico scambiato tra Renzo e Agnese perché Renzo Il termine “vocativo” può essere considerato sinonimo di ciò che Gramley e Pätzold (1992, 288) definiscono come “unbound form of address”, cioè forme pronominali e nominali libere dal punto di vista sintattico. In inglese spesso si usa in alternativa l’espressione term of address (per una descrizione si vedano Davies 1986; Gramley / Pätzold 1992; Bruti / Perego 2005, 2008, 2010). 5 Anche Formentelli (2009) nota una certa resistenza, soprattutto da parte degli studenti, all’uso reciproco del nome proprio in ambito accademico (cfr. paragrafo 3). 6 Da notare che il “tu” poteva anche essere utilizzato per rivolgersi a Dio o a un’entità astratta personificata, un po’ come il thou inglese (cfr. Bruti 2000). 4
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mostra rispetto nei confronti dell’anziana madre della promessa sposa, e Agnese si rivolge a un uomo adulto, con il quale la confidenza non è particolarmente elevata. Il “voi” reciproco si usa tanto nei rapporti tra personaggi del ceto basso, come Perpetua e Agnese, quanto tra personaggi nobili, come don Rodrigo e il conte Attilio, che per esprimere maggiore solidarietà lo preferiscono al “lei” di rispetto, destinato alle persone particolarmente autorevoli (di norma ai religiosi e alle persone di indubbia reputazione). Il “tu” è il pronome in assoluto meno usato e viene impiegato reciprocamente solo in diadi maschili e di parlanti dei ceti bassi (Tonio e Renzo, Renzo e Bortolo). Analogamente, ne Le avventure di Pinocchio la maggior parte dei rapporti sono codificati dal “voi” reciproco (Geppetto / Mastro Antonio o Ciliegia), con il “tu” di solito riservato agli inferiori (Pinocchio dà del “voi” sia a Geppetto sia alla Fata, ma riceve “tu” da entrambi) e il “lei” alle personalità di spicco e degne di stima, come per esempio Mangiafuoco. Il “tu” reciproco è anche qui impiegato tra i personaggi di pari grado, per esempio tra Pinocchio e i vari animali, quali il Gatto e la Volpe e il Grillo parlante, ma è decisamente meno frequente del “voi” reciproco. Tuttavia, l’avvicendamento tra diverse forme di allocuzione era piuttosto frequente: l’alternanza pronominale era dovuta in parte alla fluttuazione del sistema, in parte era legittimata, come nell’inglese di Shakespeare (Bruti 2000), dall’“emotività occasionale” (Serianni 1989, 263). Un esempio assai significativo è al capitolo VI de I promessi sposi nel dialogo tra don Rodrigo e padre Cristoforo. Nonostante la tensione ravvisabile sin dall’inizio (“il suono delle parole era tale; ma il modo con cui erano proferite, voleva dir chiaramente, bada a chi sei davanti, pesa le parole, e sbrigati”), la conversazione si fonda su un “lei” reciproco. A un certo punto, padre Cristoforo, sconcertato dall’impudenza e dall’arroganza di don Rodrigo, passa al “voi” per prendere le distanze dalla proposta empia dell’interlocutore, mentre don Rodrigo, per affermare il proprio potere sociale e ribadire la propria forza, si rivolge al religioso con un inaccettabile quanto insolente “tu”. Anche in Le avventure di Pinocchio si riscontrano fenomeni di alternanza pronominale: al capitolo II Geppetto e Mastrociliegia, che usano di norma il “voi” reciproco, nel corso di un alterco passano al “tu”. All’inizio del Novecento esistevano ancora tutti e tre i pronomi allocutivi. Gradualmente gli usi del “tu” si ampliarono fino a includere non più solo situazioni enunciative aventi per allocutari bambini e
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sottoposti, ma l’ambito familiare, le amicizie, i rapporti confidenziali. In altre parole il “tu” divenne frequente nei contesti in cui Manzoni avrebbe usato il “voi” non marcato. Iniziò a profilarsi tuttavia una frontiera geografica, collocabile sulla linea ideale che unisce Roma e Ancona, al di sopra della quale il sistema continuava ad avere tre termini, mentre al di sotto gli allocutivi erano esclusivamente “tu” e “voi”. Nell’epoca fascista fu imposto l’uso obbligatorio del “voi” come forma autoctona rispetto al “lei”, considerato erroneamente straniero (Serianni 1989, 266; Renzi 1995, 359)7, favorendo da un lato una più ampia diffusione del “tu”, dall’altro una più rapida caduta in disuso del “voi” per reazione al regime. Nell’italiano contemporaneo, invece, l’ambito d’uso di “voi” è molto limitato ai dialetti di alcune regioni dell’Italia centro-meridionale e al linguaggio commerciale.
3. TRADURRE GLI ALLOCUTIVI DALL’INGLESE ALL’ITALIANO Dalla breve rassegna del sistema dell’allocuzione in inglese e in italiano emerge un’articolata linea evolutiva, che ha dato come esito un solo pronome nell’inglese attuale, che si avvale però di strategie lessicali di supporto, i vocativi, e un paradigma a tre pronomi, “tu”, “lei” “voi”, ancora in vigore nell’italiano contemporaneo, sebbene con restrizioni in diatopia e diacronia. Questo disequilibrio comporta una conseguenza: nel tradurre dall’inglese all’italiano si deve decidere se vi sia un momento nella diegesi in cui si osserva un maggior livello di intimità tra i personaggi, momento che può essere sancito linguisticamente il passaggio dal “lei” (o “voi”) al “tu”. Nel testo filmico, accanto ai dialoghi originali e all’eventuale presenza di vocativi che si accompagnano all’allocutivo you, saranno i codici acustici e visivi a specificare se vi sia un cambiamento nella direzione della maggiore confidenza, solidarietà, vicinanza, tale da motivare il passaggio da una forma più cortese a una meno formale, segnalato per esempio dalla prossemica, dalla gestualità, ma anche dal tono e dal timbro della voce.
Beccaria (1968) nota come alcune espressioni ritenute di derivazione spagnola sono invece di provenienza italiana, in uso addirittura dalle origini. Il periodo d’oro della Spagna sulla scena internazionale avrebbe contribuito ad accentuarne la diffusione.
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Oltre a una mancanza di corrispondenza tra i due sistemi coinvolti, inglese e italiano, è anche opportuno rilevare che le modalità dell’allocuzione, cioè i modi in cui le persone si rivolgono le une alle altre, il grado di cortesia usato negli scambi, la riservatezza o la familiarità sono tutti fattori specifici di ogni lingua e cultura. In ambito anglosassone, per esempio, non c’è grande predilezione per i titoli onorifici: nel contesto universitario, per esempio, i colleghi si rivolgono gli uni agli altri con formule simmetriche e reciproche, ma spesso questa modalità basata sull’uso del nome proprio è estesa anche nel rapporto asimmetrico tra studenti e docenti (Gramley / Pätzold 1992). In ambito italiano le gerarchie sociali sono invece più rigide e ciò si riflette necessariamente nei pronomi allocutivi e nei vocativi impiegati.
3.1. L’allocuzione nella versione filmica di Sense and Sensibility (1995) Nell’analisi delle forme allocutive pronominali e delle eventuali aggiunte lessicali presenti in Sense and Sensibility e nella sua versione doppiata sarà necessario tenere conto del genere del testo in esame. È evidente che alle criticità generali della traduzione del sistema dell’allocuzione si affiancano quelle dell’adattamento di un’opera letteraria di grande successo, fattore che influenza di norma le scelte di transcodificazione prima e quelle traduttive successivamente. La varietà linguistica dell’originale è diacronicamente e diastraticamente marcata, fatto di cui il pubblico è consapevole prima della visione del film grazie alla conoscenza dell’autrice e delle sue opere. Nonostante la lingua italiana offra una gamma ampia di scelte pronominali, specie in casi che, come questo, adottano una cornice ottocentesca, nei film in costume tradotti dall’inglese si tende a privilegiare il “voi” per la “patina arcaicizzante che conferisce” (Pavesi 1996, 119), senza considerare lo specifico momento storico e le norme d’uso vigenti. Questa scelta, come rileva Renzi (1995, 359), si riscontra con regolarità tanto nella letteratura quanto nel cinema, dove ha contribuito a creare una certa “inerzia” traduttiva difficile da ignorare. Nell’Ottocento le forme di vocativo più frequenti erano i nomi e i titoli (le cosiddette M forms), eventualmente anche in combinazione tra loro (Bruti / Perego 2008). Miss, per esempio, è usato oggigiorno da solo sia nella varietà americana sia in quella britannica in ambito familiare, a volte in modo non standard; spesso è seguito dal cognome, tranne in contesti particolari, come nell’inglese americano degli stati del sud, o nell’inglese britannico dei secoli passati. Le combinazioni Miss o
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Mr + nome sono perciò strettamente legate all’inglese dell’Ottocento, nel quale potevano esprimere tanto rispetto in termini gerarchici, quanto un maggior grado di vicinanza e solidarietà quando rivolti da un inferiore al superiore. Nel saggio di Margherita Ulrych (1996) dedicato all’analisi del film The French Lieutenant’s Woman e della sua versione doppiata in italiano se ne riscontrano molti esempi (soprattutto Miss Ernestina e Mr Charles). Ulrych nota come l’uso del titolo seguito dal nome proprio sia ancora in vigore nell’italiano contemporaneo ma con un valore nella maggior parte dei casi diverso, in quanto usato da superiore a inferiore, come espressione di una certa distanza. È probabilmente per questo motivo che queste combinazioni vengono mantenute (con qualche adattamento nella pronuncia) anche nel doppiaggio in italiano, accompagnate al “voi”. Nella versione doppiata in esame il pronome “lei” non compare, in linea con la politica traduttiva della letteratura dell’Ottocento e di film in costume da essa tratti. Inoltre, non si assiste a nessuno scivolamento pronominale da “voi” a “tu”, passaggio normalmente concomitante con l’evolversi del rapporto amoroso tra i protagonisti8. Vediamo alcuni esempi9 di allocutivi usati in relazioni familiari in Sense and Sensibility (1995). Un esempio di relazione familiare tra membri della stessa famiglia è quella tra Henry Dashwood, sul letto di morte, e il figlio John. Dal momento che la vicenda si svolge nell’Ottocento, il pronome di cortesia che si sceglie in italiano è “voi”. Nel caso del
Infatti, Ulrych rileva (1996, 151-152) come a questo passaggio nell’originale inglese corrisponda di solito quello da cognome a nome, o in altri casi da titolo + nome / cognome a nome. Per esempio, in The French Lieutenant’s Woman, nel momento della proposta di matrimonio, Ernestina chiama Charles per nome e nella versione doppiata passa al “tu”: CHARLES: Well in that case, might you take pity on a crusty old scientist, who holds you very dear, and marry me? Allora devo pensare che avrete pietà di un vecchio scienziato arrugginito a cui siete molto cara e lo sposerete? ERNESTINA: Oh Charles, I’ve waited so long for this moment. Oh Charles. Sapessi quanto ho aspettato questo momento. In italiano, tuttavia, la battuta di Charles si profila come più distante, in quanto l’uomo parla di sé in terza persona, quasi come se non fosse lui ad avanzare la proposta di matrimonio. 9 Con la sottolineatura si indicano gli allocutivi oggetto dell’analisi, inclusi i verbi nei dialoghi doppiati in italiano. 8
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L’allocuzione
rapporto tra John e il padre, la diade (si veda il capitolo 2, paragrafo 2.4.) è asimmetrica: il padre usa il “tu” ma riceve il “voi” dal figlio. Personaggi HENRY DASHWOOD
Originale John… John… You will find out soon enough from my will that the estate of Norland was left to me in a way that prevents me from dividing it between two families.
Doppiaggio John… John… Come scoprirai dal mio testamento, la proprietà di Norland mi fu lasciata in un modo tale che non mi consente di dividerla tra le mie due famiglie.
Esempio 1 Sense and Sensibility
Sempre nell’ambito della famiglia Dashwood sono utilizzati diversi vocativi per riferirsi alle tre sorelle: Elinor, la maggiore, viene chiamata da tutti “Miss Dashwood”, mentre la maggior parte delle persone si rivolge a Marianne con il vocativo “Miss Marianne”; infine, Margaret, la più piccola, viene chiamata dalla maggior parte dei personaggi per nome (ma non dalla servitù). Lo stesso paradigma è riproposto in italiano, sostituendo “Signorina” a “Miss”. Tra le sorelle e la madre in italiano le relazioni sono codificate dal “tu” familiare reciproco, anche se nell’italiano dell’epoca sarebbero state più opportune diadi non reciproche T : V. Nel secondo estratto, la Signora Dashwood, che ha con le figlie una relazione incentrata sull’espressione manifesta dell’affetto che le lega, dà e riceve il “tu”. Un’ulteriore conferma è data dall’uso del vocativo familiare e affettuoso, “mamma”. Personaggi MRS DASHWOOD
ELINOR MRS DASHWOOD
Originale Reduced to the condition of visitor in my own home! It is not to be borne, Elinor! Consider, mamma, that we have nowhere to go. John and Fanny will be here from London at any moment. Do you expect me to be here to welcome them? Vultures!
Doppiaggio Esser ridotta alla condizione di ospite nella mia casa… Non è tollerabile, Elinor! Considera, mamma, che non sappiamo dove andare. John e Fanny arriveranno da Londra da un momento all’altro… Pretendi che io stia qui a dar loro il benvenuto? Avvoltoi!
Esempio 2 Sense and Sensibility
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La cortesia. Aspetti culturali e problemi traduttivi
Un altro esempio interessante dell’uso dei vocativi consiste nell’omissione del titolo laddove sarebbe invece appropriato usarlo. Questa soppressione segnala un certo disappunto, una malcelata ostilità nei confronti dell’interlocutore. È il caso dell’incontro di Marianne, la minore delle due sorelle Dashwood, con Fanny, l’antipatica moglie del fratellastro, venuta per prendere possesso della casa di Norland. Nel doppiaggio si preserva il “voi” reciproco, inevitabile tra signore di un certo rango sociale, ma l’uso del nome da parte della più giovane Marianne qualifica il turno come maleducato e brusco. La formula “Miss Marianne” è usata da molti personaggi per rivolgersi a Marianne e distinguerla dalla sorella maggiore, alla quale si indirizzano con “Miss Dashwood”. Questo uso del titolo seguito dal nome proprio anziché dal cognome è marcato come antiquato in inglese, ma non in italiano. In ogni caso in inglese esso è più naturale se rivolto da un inferiore a un superiore, mentre in italiano se usato nella direzione opposta (Renzi 1995; Ulrych 1996). Personaggi MARIANNE FANNY
Originale Good Morning, Fanny. Good morning, Miss Marianne.
MARIANNE
How did you find the silver? Was it all genuine?
Doppiaggio Buongiorno, Fanny. Buongiorno, signorina Marianne. Come avete trovato l’argento? Era tutto autentico?
Esempio 3 Sense and Sensibility
In Sense and Sensibility l’oscillazione nella scelta dei vocativi, pur presente con diverse varianti socio-situazionali, è quasi sempre soppressa nei dialoghi doppiati. Vediamone alcuni esempi, dapprima nei due principali rapporti amorosi, tra Marianne e Willoughby e tra Elinor e Edward. La passione tempestosa tra Marianne e Willoughby si concentra nel film in pochi dialoghi: poco dopo il loro incontro i due si scambiano gli allocutivi formali imposti dalle convenzioni, cioè “Mr Willoughby” e “Miss Marianne”. Un episodio originale creato dalla sceneggiatrice Emma Thompson, assente nel romanzo della Austen, contribuisce a rappresentarli come vicini emotivamente, due spiriti affini: si tratta del momento in cui recitano insieme il sonetto 116 di Shakespeare10. Il 10 Nel romanzo, al capitolo X, si legge “His society became gradually her most exquisite enjoyment. They read, they talked, they sang together; his musical talents were
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L’allocuzione
capitolo 13 del DVD, “Courtship”, si apre con l’immagine del profilo di Willoughby dietro un paravento mentre Marianne ne disegna il ritratto. Come si evince anche da immagini successive della stessa scena, il grado di confidenza tra i due è piuttosto elevato: la prossimità fisica dei due, in una stanza separata dagli altri, il contatto, la confidenza che autorizza Willoughby a tagliare una ciocca dei capelli di Marianne. Il giovane le si rivolge con il nome proprio: Personaggi WILLOUGHBY
Originale Marianne, haven’t you finished?
Doppiaggio Marianne, non avete ancora finito?
Esempio 4 Sense and Sensibility
La traduzione italiana ricalca l’originale, ma in questo caso il valore della vicinanza potenziato dalla forte emotività in gioco autorizzerebbe il passaggio al “tu”, plausibile anche con un successivo ritorno al “voi” di distanza quando i due si incontreranno a Londra e Willoughby metterà fine alle speranze di Marianne (capitolo 18). Il rapporto tra Elinor e Edward si sviluppa lungo tutto il testo filmico. I due si incontrano a Norland Park e si crea tra di loro un’intesa immediata, resa possibile dalla condivisone degli stessi valori di misura, compostezza, modestia. Al capitolo 7, “The offer”, il destino delle sorelle Dashwood prende una piega decisiva con l’annuncio del trasferimento a Barton Cottage. Così, di fronte a un’inevitabile separazione, Edward trova il coraggio di parlare francamente a Elinor. La serietà di ciò che sta per dire, che però non completerà per l’arrivo inopportuno della sorella Fanny, e la vicinanza emotiva con Elinor, fanno sì che Edward oscilli tra l’allocutivo formale “Miss Dashwood” e “Elinor”. L’uso del nome e il modo dolce in cui Edward lo pronuncia lasciano Elinor senza parole. L’espressione del volto di lei rende chiaramente lo sbigottimento di questo passaggio. Nel doppiaggio ciò avrebbe sicuramente reso possibile la scelta del pronome “tu”.
considerable; and he read with all the sensibility and spirit which Edward had unfortunately wanted”, ma non c’è nessuna menzione del sonetto. Si tratta di una delle efficaci strategie della traduzione intersemiotica di condensare vari eventi in uno, in questo caso esplicitandone le caratteristiche e rendendo questo incontro emblematico di tutti quelli tra i due innamorati.
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ELINOR EDWARD
La cortesia. Aspetti culturali e problemi traduttivi
Originale Cannot you take him with you? [riferito al cavallo che Elinor sta accarezzando] We cannot possibly afford him. Perhaps he could make himself useful in the kitchen? Forgive me. […] Miss Dashwood – Elinor. I must talk to you.
Doppiaggio Non può venire con voi?
Non possiamo proprio permettercelo. Magari potrebbe rendersi utile in cucina. Perdonatemi. […] Signorina Dashwood – Elinor. Devo parlarvi.
Esempio 5 Sense and Sensibility
Una situazione del tutto analoga si riscontra in prossimità dell’epilogo della vicenda (capitolo 27, “Surprise visit”), quando Edward si reca a Barton Cottage a far visita alla famiglia Dashwood per chiarire la propria posizione. Dopo che Edward ha fatto luce sul matrimonio del fratello, Robert Ferrars, con Lucy Steele, Elinor ha un crollo nervoso e scoppia a piangere. I due rimangono soli e Edward sente di doverle una spiegazione. Personaggi EDWARD
Originale Elinor, Elinor. I met Lucy when I was very young. Had I had an active profession, I should never have felt such an idle, foolish inclination. My behaviour at Norland was very wrong. But I convinced myself you felt only friendship for me and it was my heart alone that I was risking. I have come here with no expectations. Only to profess, now that I am at liberty to do so, that my heart is and always will be yours.
Doppiaggio Elinor, Elinor, conobbi Lucy quando ero molto giovane. Avessi avuto una professione non avrei ceduto a un’inclinazione tanto negligente e stolta. Mi sono comportato male a Norland ma mi convinsi che voi provavate solo amicizia per me e che era solo il mio cuore che stavo rischiando. Sono venuto senza alcuna speranza solo per dichiarare, ora che ho la libertà di farlo, che il mio cuore è e sarà per sempre vostro.
Esempio 6 Sense and Sensibility
L’allocuzione
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Spesso, nella versione originale inglese, i vocativi sono una filigrana perfetta della tensione nei rapporti umani. John Dashwood e la moglie Fanny giungono a Norland per prendere possesso dell’eredità paterna, relegando la matrigna e le sorellastre allo sgradevole ruolo di ospiti nella propria casa. Non tutti i rapporti hanno una codifica allocutiva esplicita, come è normale che sia nell’economia del testo filmico, dove spesso basta un episodio a definire significativamente un rapporto interpersonale in una direzione o nell’altra. Il rapporto tra Fanny e le sorelle Dashwood non può che essere teso, vista la sgradevole rapidità con la quale Fanny impone la propria presenza e autorità. Al capitolo 3 le due sorelle parlano della moglie del fratellastro, che ha chiesto la chiave dell’argenteria, probabilmente per prenderne possesso. Le sorelle si riferiscono alla donna come “Fanny” nel momento in cui sono da sole, cosa assolutamente normale. Elinor rimprovera Marianne per non averle mai rivolto la parola. Così, quando invece poco dopo si incontrano, Marianne esibisce un eccesso di cortesia, che si nota dal tono della sua voce e dall’espressione affettata, e, soprattutto, dall’allocutivo di familiarità, il nome proprio. La destinataria è perplessa da questo atteggiamento, ma mantiene invece un’espressione più formale “Good morning, Miss Marianne”. La vera intenzionalità di Marianne si palesa dopo poco, quando la fanciulla diventa sarcastica e incalza dicendo: “How did you find the silver? Is it all genuine?” Anche nel doppiaggio è mantenuta questa scelta asimmetrica, alla quale Marianne affida l’espressione della falsa cortesia e del disprezzo nei confronti di Fanny, mentre quest’ultima si tiene saldamente ancorata a formule formali ineccepibili11. Vi sono, però, diversi casi in cui nella versione doppiata in italiano si è espunto il vocativo presente in inglese, fatto teoricamente accettabile a causa dell’obbligatorietà della scelta del pronome allocutivo in italiano. Lo studio di Pavesi (1996, 126-127) su film moderni mostra invece una tendenza di segno contrario, cioè al mantenimento dei vocativi, che appaiono così in proporzione molto maggiore di quella dei vocativi nell’italiano parlato, sia per il condizionamento del sincrono nei primi 11 Anche nel romanzo, dove la descrizione dei rapporti ha normalmente spazi più dilatati, le occasioni di dialogo tra Fanny, la nuova Mrs Dashwood, e le sorelle Dashwood sono assenti. È solo all’inizio del capitolo II che apprendiamo che “Mrs John Dashwood now installed herself mistress of Norland; and her mother and sistersin-law were degraded to the condition of visitors. As such, however, they were treated by her with quiet civility”.
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La cortesia. Aspetti culturali e problemi traduttivi
piani, così frequenti nei dialoghi, sia per la tendenza a seguire più il sistema di partenza che non quello di arrivo. In inglese, oltre a specificare il rapporto tra interlocutori, il vocativo assolve una funzione di rinforzo, esprimendo affetto o aggressività. In uno dei tanti colloqui tra Elinor e Edward Ferrars (capitolo 23), lui le si rivolge con un vocativo in posizione iniziale: “Miss Dashwood, God knows what you must think of me”, dove invece in italiano la presenza di un’occlusiva dentale (la /d/ di ‘Dio’) ne agevola la soppressione: “Dio solo sa cosa pensate di me”. Analogamente, nell’esempio che segue, in ben due casi il vocativo in fine di turno è soppresso nel doppiaggio. In uno scambio dettato dal rispetto delle convenzioni, l’uso del vocativo esprimerebbe in effetti un valore di affettività e di simpatia che tra le due donne non c’è affatto. Personaggi LUCY
ELINOR
LUCY
Originale How is your poor sister, Miss Dashwood? Poor thing! I must say, I do not know what I should do if a man treated me with so little respect. How are you enjoying your stay with John and Fanny, Miss Steele? I was never so happy in my entire life, Miss Dashwood.
Doppiaggio Oh come sta la vostra cara sorella, signorina Dashwood? Povera anima: io non so che cosa avrei fatto se un uomo mi avesse trattato con così poco rispetto. Siete contenta della vostra permanenza da John e Fanny Ø? Vi confesso che non sono mai stata così felice nella mia vita Ø.
Esempio 7 Sense and Sensibility
3.2. L’allocuzione in due film moderni: In Her Shoes e Philadelphia Nel film In Her Shoes la vicenda si sviluppa con due fili narrativi paralleli, ciascuno legato a una delle sorelle. Rose (Toni Collette), più saggia e avveduta, si innamora di un collega di lavoro, si libera progressivamente delle sue oppressioni rinunciando alla carriera forense per dedicarsi alla cura dei cani. Maggie (Cameron Diaz), invece, più sbandata e irresponsabile, si trasferisce nel centro dove la nonna trascorre la vecchiaia e si impegna con dedizione nell’assistenza agli anziani ospiti. Il dolore per la scomparsa della sorella porta Rose a chiudersi in sé, ad allontanarsi da ogni affetto, compreso il futuro marito. Sarà la nonna a far riavvicinare le due, che si scopriranno
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L’allocuzione
finalmente unite. Una volta recuperato il rapporto, Maggie si preoccuperà di riavvicinare la sorella con l’amato e futuro marito, conducendo la storia verso un prevedibile ma meritato lieto fine. La duplice lettura del titolo inglese – l’espressione in somebody’s shoes significa ‘mettersi nei panni di qualcuno’, ma può in questo caso anche essere interpretata letteralmente, perché Maggie spesso prende in prestito le scarpe della sorella Rose – si perde purtroppo in italiano, poiché il film opta per un titolo che ricalca l’originale ma gli affianca un sottotitolo, In Her Shoes – Se fossi in lei. Il film ha una natura dialogica, con una cornice moderna e una trama incentrata su relazioni familiari e prevalentemente informali. Nelle relazioni familiari entrambe le culture contano su un certo grado di confidenza, che presuppone l’uso reciproco del nome proprio in inglese e del nome proprio e del “tu” in italiano, senza che si creino perciò difficoltà traduttive. Più interessante, invece, è l’interazione tra conoscenti, in ambito lavorativo ma non familiare, che presuppone diversi gradi di confidenza e diverse formule nelle due culture. Vediamo l’esempio che segue. Nel brano Maggie, che lavora come assistente in una casa di riposo per anziani, presenta la sorella Rose agli ospiti della residenza. Personaggi MAGGIE
Originale Hello, ladies! This is my sister.
OLD LADIES OLD LADY 1 MAGGIE OLD LADY 2 MAGGIE MAGGIE OLD MEN MAGGIE OLD MEN MAGGIE WOMAN MAGGIE MAGGIE
Maggie. Hi. Ø Hi, Maggie. Yep. Have a good day. Hey, guys! Hi, Maggie! This is my sister, Rose. Hello, Rose! Looking good, Mrs Klein. Hi, Maggie. Hi, ladies! […] I call these guys The Bench. They’re all former lawyers. (to old men) Gentlemen, hey! Hi, Maggie!
OLD MEN
Esempio 8 In Her Shoes
Doppiaggio Salve, signore, questa è mia sorella. Ciao, Maggie. Ciao. Salve. Ø Arrivederci. Salve, ragazzi! Ciao, Maggie! Questa è mia sorella Rose. Rose. Ø Ciao, Maggie. Salve, signore! […] E quelli della poltrona. Sono tutti ex-magistrati. Omaggi, signori. Ciao, Maggie!
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La cortesia. Aspetti culturali e problemi traduttivi
Il rapporto tra lei e gli anziani ospiti è, come si capisce dallo scambio, familiare e confidenziale, nonostante la differenza d’età. Gli anziani chiamano Maggie per nome e lei si rivolge loro con Mr o Mrs seguito dal cognome, ma impiega formule di saluto che presuppongono grande familiarità, quali hi e hey. In italiano si oscilla tra forme meno colloquiali, quali “salve”, e altre decisamente informali come “ciao”. Tuttavia, anche “salve” registra una tendenza tipica del parlato, soprattutto giovanile, verso formule poco compromettenti, quelle, cioè, che permettono di evitare la scelta di un allocutivo. In questo senso si spiega anche l’estensione d’uso di “salve” a sequenze di chiusura o alla comunicazione scritta, dove la formula è analogamente impiegata per evitare aperture formali contenenti titoli12. In uno studio sulle routine di apertura e di chiusura (Bonsignori / Bruti / Masi 2012, 372) è emerso un altro dato interessante: “salve” è il secondo saluto in termini di frequenza nel doppiaggio italiano di un certo numero di film inglesi o americani, dopo “ciao” e prima del più formale “buongiorno”. Un confronto con i dati per le stesse routine in alcuni film italiani non doppiati evidenzia invece un uso molto limitato di “salve”, forse per una tendenza più conservativa. Nel resto della conversazione troviamo anche alcuni casi di omissione totale, come per la battuta “Looking good, Mrs Klein”. Questo turno è stato ignorato perché avrebbe determinato un evidente dislivello di formalità tra il pronome di seconda persona, che in una tale situazione sarebbe stato necessariamente “lei”, e il saluto. L’impiego di “lei” accanto a “ciao” sarebbe stato infatti fuori luogo, e così, come anche in altre scene del film doppiato in italiano, si evita di combinare il saluto informale con il vocativo o con il pronome allocutivo13 (per esempio ci sono alcune scene in cui Maggie si rivolge a signore anziane con “Ehi” + l’allocutivo “lei” ma senza usare alcun vocativo, “Ehi? È morta?”). Infine, nell’ultimo turno di Maggie, la ragazza parla alla sorella di un gruppo di signori di una certa età che lei chiama simpaticamente “The Bench”, in quanto ex avvocati, alludendo perciò allo loro posizione sociale di spicco. Subito dopo si rivolge loro con il vocativo “gentlemen”, riconoscendone lo status, ma accompagnandolo con il saluto informale “hey”, che qui è indice di un rapporto confidenziale e 12 Nelle mail ricevute dagli studenti la formula “salve” in apertura è impiegata molto più frequentemente dell’avvio più appropriato “Gentile professore”. 13 Si veda oltre l’esempio 9 tratto da Philadelphia.
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L’allocuzione
anche un po’ scanzonato. In italiano il termine “lawyers” è tradotto con un titolo diverso, quello di “magistrati”, forse per enfatizzare l’importanza della carica ricoperta. Inoltre, nel rivolgersi a questo gruppo, Maggie impiega una formula pomposa e molto formale, “rispetti”, combinata con il vocativo collettivo “signori”, che snatura il tono scherzoso delle battute dell’originale e codifica questo rapporto come deferente e rispettoso mentre è invece informale e scherzoso. L’altro film scelto per esemplificare alcune strategie di resa traduttiva degli allocutivi è Philadelphia, il primo film di successo a portare sul grande schermo il tema dell’AIDS facendone una lezione di tolleranza. Attraverso il cammino di crescita del personaggio interpretato da Denzel Washington, l’avvocato che difende Andrew Beckett, che, da eterosessuale fiero e a disagio con i gay, diventa un amico fraterno del protagonista e un convinto sostenitore della causa, il film riesce a dissipare i pregiudizi di tutti. Nell’estratto che segue abbiamo un altro esempio di come inglese e italiano sfruttino mezzi diversi. In inglese, a fianco dell’unico pronome, ricorrono spesso allocutivi lessicali, cioè vari tipi di vocativi (Pavesi 1996, Bruti / Perego 2005, 2008), tra i quali anche il nome proprio. Personaggi DR GILLMAN ANDREW BECKETT DR GILLMAN
ANDREW BECKETT
Originale Andy. Hi, Doc. Your blood work came back this morning. I will come back in a few minutes and we’ll talk about it, right? I’ll be right here.
Doppiaggio Andy. Salve, dottoressa. Abbiamo i risultati delle sue analisi del sangue. Torno fra qualche minuto, così potremo parlarne, d’accordo? L’aspetto qui.
Esempio 9 Philadelphia
In questo caso, il rapporto cordiale ma non amichevole tra Andrew Beckett e la sua dottoressa è codificato con you + il vocativo “Andy” a cui lui replica con “you” seguito da “Doc”. In italiano si è obbligati a una scelta pronominale e, vista la situazione, si opta per “lei”, accompagnato anche qui dai vocativi “Andy” e “dottoressa” rispettivamente. La scelta è in parte dovuta all’influenza del testo di partenza e in parte al fatto che la scena è un primo piano in cui i volti degli attori si vedono bene (tra l’altro pronunciano vocali che presuppongono una certa apertura della bocca). La combinazione “lei”
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La cortesia. Aspetti culturali e problemi traduttivi
seguito da nome proprio è tuttavia non perfettamente naturale in italiano (Pavesi 1996, 124), anche se ormai la consuetudine traduttiva ha ridotto questa percezione. Vediamo un altro esempio dallo stesso film. Personaggi JOE STUDENT JOE STUDENT
JOE STUDENT JOE
Originale You saw me on TV? It’s a good school, Penn. What year are you in?
Thank you. Listen, I just wanted to tell you this case is tremendously important and I wish you to know you're doing a fantastic job.
Thank you. When you graduate, give me a call.
Doppiaggio Mi ha visto in TV? È una buona università la Penn, eh? Già, ottima. A che anno è? Secondo, senta io voglio solo dirle che questa causa è terribilmente importante e voglio che sappia che credo stia facendo un magnifico lavoro. Grazie. A te. Grazie, Joe. Quando ti laurei, chiama.
Esempio 10 Philadelphia
Nella conversazione si osserva un’interazione tra due persone che si incontrano per la prima volta in un negozio: un adulto, un avvocato di colore coinvolto in un caso di grande risonanza approdato in TV, e uno studente che lo ha seguito durante le trasmissioni mandate in onda. È proprio il riferimento alla TV che permette allo studente di avviare la conversazione, menzionando anche il fatto che, visti gli studi giuridici intrapresi, è interessato al processo. La conversazione è cordiale, ma non presuppone grande familiarità tra i due interlocutori, che si sono appena incontrati, tant’è che nell’originale non c’è nessun vocativo a precisare la relazione. Nel passare all’italiano si opta per un “lei” reciproco, in virtù del fatto che le due persone, due adulti, si sono appena incontrate. Ciò che invece appare abbastanza immotivato è il passaggio al “tu” a seguito del complimento che lo studente rivolge a Joe. In italiano il passaggio al pronome di familiarità avviene normalmente dopo che la conoscenza tra due persone si è consolidata e non senza passare attraverso una fase di negoziazione, di solito innescata dalla persona che ha status generazionale e sociale più elevato (Renzi 1995, 373). Nonostante la dinamica dell’interazione subisca una certa ridefinizione nel testo filmico, dove per ragioni di economia si
L’allocuzione
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condensa la conversazione spontanea in un distillato più coerente e meno fatico (Bednarek 2010, 64), lo scambio appare in questo caso repentinamente avviato verso una cordialità e una familiarità innaturali in italiano, ribadite dalla combinazione di “tu” e del vocativo “Joe”.
4. CONCLUSIONI Queste brevi considerazioni sulla traduzione del sistema dell’allocuzione hanno messo in rilievo alcuni aspetti principali. Relativamente al primo testo esaminato, fortemente connotato in diacronia, emerge nei dialoghi italiani un’uniformità pronominale, che non è giustificata né dall’aderenza alle norme epocali, né a quelle dell’italiano contemporaneo, ma piuttosto da una radicata routine traduttiva comune a letteratura e cinema. Dall’altro lato, non sempre viene dato il giusto peso al contesto semiotico del testo filmico: come nota Ulrych (1996, 145), infatti, i termini allocutivi dovrebbero opportunamente accordarsi con i segnali non verbali nell’esprimere valori di distanza o solidarietà. Il dialogo dovrebbe impiegare traducenti coerenti con ciò che viene espresso dai volti, dalla prossemica e dalla cinesica. Infine, sebbene le tendenze generali debbano essere verificate in altri film dello stesso genere, in questo caso la soppressione del vocativo nel testo doppiato sembra testimoniare una maggior adesione alle norme della lingua italiana, dove verrebbe a veicolare significati che non sono presenti nell’originale. Negli esempi tratti dagli altri due film moderni si riscontra parimenti una certa negligenza e inadeguatezza nella scelta degli allocutivi, tanto che il quadro di relazioni presentate è caratterizzato da un diverso grado di familiarità, fatto che può trovarsi in dissonanza con i codici visivi e uditivi non verbali del film o con le norme d’uso della lingua d’arrivo. Una volta adottato un criterio, per esempio nel caso di In Her Shoes l’oscillare nella resa dei saluti tra “salve” e “ciao” (anziché scegliere un più formale ma altrettanto cordiale “buongiorno”), si è costretti a espungere alcune battute perché la loro traduzione risulterebbe fuorviante: in questo caso né “salve”, né “ciao” sarebbero compatibili con l’allocutivo “lei” (Renzi 1995, 374). In Philadelphia osserviamo invece il cristallizzarsi di una formula traduttiva resa accettabile da tanti casi di traduzione per il doppiaggio, il cosiddetto “doppiaggese” (cfr. Pavesi 2005, 42-52; Romero-Fresco
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La cortesia. Aspetti culturali e problemi traduttivi
2006; Antonini 2008), cioè la combinazione del pronome “lei” e del nome proprio come vocativo. A volte i vincoli tecnici del doppiaggio, il cosiddetto sincronismo labiale (Herbst 1994, Chaume 2004) – stringente soprattutto nei primi piani e nei piani medi e in presenza di alcuni fonemi, quali le consonanti bilabiali e le labiodentali e le vocali – possono condizionare, forzando a tradurre alcuni elementi, in questo caso i nomi dei personaggi. Anche nell’altro esempio analizzato si sono osservate alcune sfasature, soprattutto nel repentino e non sanzionato cambio di pronome dopo appena due turni di dialogo.
5. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Se la cortesia è unanimemente riconosciuta in una serie di fenomeni osservabili nelle interazioni quotidiane, siano esse faccia a faccia, mediate dal computer, in forma scritta o mista, il mito della sua universalità è stato ampiamente ridimensionato. Già Brown e Levinson (1978), pur adottando una posizione universale, avevano rilevato una dimensione di variazione crossculturale, salvo poi ricadere nel difetto segnalato, in parte per una naturale predisposizione ad analizzare i dati secondo la prospettiva più familiare, quella anglocentrica, in parte, come nota Leech in un recente articolo sulla cortesia (2007, 170), perché il loro testo, proprio perché pionieristico, ha finito per essere frainteso e manipolato, soprattutto da chi ne ha avuto notizia di seconda e terza mano. The essential idea is this: interactional systematics are based largely on universal principles. But the application of the principles differ systematically across cultures, and within cultures across subcultures, categories and groups (Brown / Levinson 1978, 288).
A vent’anni di distanza Leech (2007) ritorna sull’argomento per proporre una soluzione di compromesso sull’“East-West divide” prospettato nel titolo del suo saggio: la conclamata propensione dei paesi orientali per la cultura collettiva o di gruppo e quella dei paesi occidentali per la cultura dell’individuo non sono elementi assoluti ma gradi di una scala, in quanto ogni comunicazione tiene conto sia dei valori dell’individuo, sia di quelli del gruppo, benché con diverse priorità. Queste osservazioni hanno grande importanza, soprattutto perché riconoscono alla cortesia un valore indiscusso ma variabile in prospettiva cross-culturale, e attirano perciò l’attenzione sulla comunicazione interlinguistica, intesa in senso lato, e sulla mediazione, anch’essa in tutte le sue varianti di realizzazione. La riflessione sulla cortesia contenuta in questo volume, declinata secondo una selezione arbitraria di aspetti delle dinamiche interazionali, ha inteso mostrare come alla valutazione di questo fenomeno pervasivo
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La cortesia. Aspetti culturali e problemi traduttivi
e poliedrico concorrano molte scale di valori, quali la distanza “verticale” tra interlocutori (in termini di status, ruolo, potere, età, ecc.), quella “orizzontale” (la familiarità, la confidenza tra gli stessi), il rapporto costi / benefici nella situazione interazionale o transazionale (cfr. paragrafo 5 al capitolo 1), la pregnanza degli obblighi e dei diritti socialmente definiti (per esempio del commesso nei confronti del cliente, del padrone di casa nei confronti dell’ospite e viceversa), l’importanza del territorio proprio e altrui (nel senso di Hall 1966, che parla di “space bubble”). Ciascun fenomeno linguistico è da considerarsi secondo tutte queste dimensioni, ognuna delle quali ha valori distinti al variare della cultura di riferimento. In questa cornice l’atto di mediazione presupposto dal tradurre – in questo studio riferito al testo audiovisivo, dove la rilevanza dell’interazione è resa ancora più evidente attraverso una codificazione semiotica multipla – deve prendere in considerazione le dimensioni menzionate nella cultura di partenza e in quella di arrivo, considerando che micro-oscillazioni nel tessuto linguistico possono creare discrepanze con gli altri codici comunicativi. Si pensi, ad esempio, a una scelta linguistica che va nella direzione della distanza o dell’indifferenza tra interlocutori non supportata dalla prossimità fisica degli stessi così come mostrata nelle immagini e all’effetto straniante che ne deriverebbe. Mutamenti apparentemente insignificanti possono inoltre rendere lo scenario socio-linguistico proposto in traduzione discordante o incompatibile con quello dell’originale, o, infine, costruire uno scambio che risulta anomalo, poco “dicibile”1 nella cultura di arrivo. I risultati delle analisi qui contenute mostrano quanto sottili e insidiose siano le pieghe dell’interazione e di come la traduzione sia un processo complesso, che presuppone una dimestichezza con le norme delle due lingue e culture coinvolte nell’operazione di trasferimento. Sono emersi i condizionamenti del mezzo, la forte compattazione nei sottotitoli e il sincronismo nel doppiaggio, ai quali, però, non sono imputabili tutte le dissonanze riscontrate. Su questi vincoli tecnici si innestano le specificità linguistiche della lingua inglese e di quella italiana, nel nostro caso tendenze preferenziali nel proferire complimenti e insulti, o differenze più nette e sistemiche, come nel sistema dell’allocuzione. Quello della “dicibilità” (utterability) è un problema comune al testo drammatico, anch’esso scripted.
1
Considerazioni conclusive
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Non abbiamo qui volutamente affrontato il problema della somiglianza tra parlato filmico e parlato spontaneo, né delle differenze tra parlato filmico originale e parlato filmico tradotto, che pure sono oggetto di studio nella disciplina, nella convinzione che un certo genere di film, quello di natura “conversazionale”, sia sapientemente costruito come mimesi di oralità, con una spiccata attenzione al realismo linguistico. Oltre a ciò, un peso non trascurabile è legato anche alla tipologia narrativa del cinema, che si trova a condensare la vicenda in un tempo limitato, dosando perciò tra informazioni ineludibili e rappresentazioni verosimili. Infine, nonostante si sia riscontrata nel parlato filmico tradotto l’aderenza ad alcuni stilemi traduttivi, per esempio la scelta di impiegare l’allocutivo “voi” perché ormai divenuto consuetudinario nei film in costume per la vena arcaicizzante che conferisce (non sempre però “storicamente” motivata), i sistemi valoriali che regolano la conversazione e con essa il dispiegarsi della cortesia sono condivisi tanto dal parlato spontaneo quanto da quello “recitato” del film. Lungi dall’avere esaurito l’esame delle strategie di cortesia e dei suoi indicatori linguistici, questo studio apre la strada a ricerche in ambiti ancora relativamente poco esplorati, soprattutto in prospettiva comparativa e traduttiva inglese-italiano, quali quelli indicati nell’Introduzione, cioè alcuni atti linguistici (le scuse, i rimproveri, i ringraziamenti), l’interfaccia con fenomeni grammaticali, tra i quali gli usi attenuativi di modi e tempi verbali, la morfologia degli alterati e quella extra-grammaticale, e diversi usi marcati del lessico, quali lo slang e i gerghi.
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Finito di stampare nel mese di ottobre 2013 da Tipografia Monteserra S.n.c. - Vicopisano per conto di Pisa University Press