La Città. Com'era, com'è e come la vorremmo 9788878146136

Questo volume ha con lo scopo di favorire una più approfondita conoscenza della città antica e del suo rapporto con le c

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Italian Pages 171 Year 2014

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La Città. Com'era, com'è e come la vorremmo
 9788878146136

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Flos Italiae Documenti di archeologia della Cisalpina Romana 13

Comitato Scientifico † Cesare Saletti, Maria Teresa Grassi,

Maria Paola Lavizzari Pedrazzini, Stefano Maggi, Sara Santoro Bianchi, Daniela Scagliarini, Gemma Sena Chiesa, Fabrizio Slavazzi Direzione Gemma Sena Chiesa

Edizione e distribuzione Edizioni ALL’INSEGNA DEL GIGLIO s.a.s., via del Termine, 36; 50019 Sesto Fiorentino (FI) tel. (055) 8450216; fax (055) 8453188; sito web www.insegnadelgiglio.it; e-mail [email protected]

Università degli stUdi di Pavia diPartimento di stUdi Umanistici

la città com’era, com’è e come la vorremmo Atti dell’Osservatorio Permanente sull’Antico: a.a. 2012/2013, Pavia Sezione di Scienze dell’Antichità a cura di Enrico Corti responsabile del progetto “Pavia-100Torri: Osservatorio Permanente sull’Antico” Cesare Zizza

All’Insegna del Giglio

Questo volume è stato realizzato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici (sezione di Scienze dell’Antichità) dell’Università degli Studi di Pavia e della Fondazione Banca del Monte di Lombardia.

Il simbolo della collana è una rielaborazione grafica di Roberto Mella Pariani di un particolare (la Tellus) tratto da un disegno ottocentesco a matita della Patera d’argento di Aquileia, ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna. La foto in copertina, di Fiorenzo Cantalupi, è tratta da P. tozzi, Le origini della leggenda di fondazione di Pavia, Pavia 2013, tav. 1.

Le abbreviazioni delle riviste, virgolettate, seguono l’Année philologique e l’Archäologische Bibliographie. Per alcune collane e opere sono state adottate le abbreviazioni più comuni: CAD, The Assyrian Dictionary of The Oriental Institute of The University of Chicago, CIL, Corpus Inscriptionum Latinarum, ILLRP, Inscriptiones Latinae Liberae Rei Publicae, LTUR Lexicon Topographicum Urbis Romae, LIMC Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, WB, Wörterbuch der Ägyptischen Sprache. I nomi degli autori antichi e i titoli delle loro opere sono stati abbreviati seguendo il Ch.T. Lewis, Ch. Short, A Latin Dictionary (Oxford 1962) per i testi latini e il H.G. Liddle, R. Scott, A Greek-English Lexicon (Oxford 1968) per i testi greci.

ISSN 1723-817X ISBN 978-88-7814-613-6 © 2014 All’Insegna del Giglio s.a.s. Stampato a Firenze nell’ottobre 2014

IndIce

stefano maggi, cesare zizza, Osservatorio Permanente sull’Antico. Il progetto, le azioni, il laboratorio, la ricerca, la didattica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 enrico corti, Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 Parte prima. La Città: com’era, com’è e come la vorremmo carlo Berizzi, Forme della città contemporanea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 caterina maria carla Bona, Junkspace Pavia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23 giovanni Bergamini, Babilonia: da metropoli a mito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 enrico corti, La città in uno sguardo: la polis eusynoptos in Aristotele . . . . . . . . . . .49 lUigi sPina, Monologo della città e discorsi del cittadino nella Grecia antica . . . . . . . . . . . 61 michel hUmm, Il Comizio del Foro e le istituzioni della repubblica romana . . . . . . . . . . .69 elvira migliario, Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 85 Parte seconda. Dalla ricerca all’insegnamento: l’Università claUdio faUstinelli, La crisi della città di Roma nella poesia latina arcaica: Lucilio e la condanna di Lupo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91 alessandro maranesi, Città dell’adventus e città della memoria in epoca costantiniana . . . . 97 elena gagliano, L’Herakles Altemps nel Foro Boario? Nota sull’identificazione dell’archetipo della statua colossale di Palazzo Altemps in Roma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .103 chiara mUssi, Archeologia in corsia: attività didattiche presso I .R .C .C .S . Policlinico San Matteo di Pavia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .113 martina di stefano, Il passato come futuro possibile . Generi letterari e discronia della città nel Crizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .119 serena Brioschi, Fare storia lungo la strada: Erodoto, il passato e la lotta all’oblio . . . . . . .125 marco de Pietri, La piazza dov’è? Un’indagine sul concetto di “piazza” nell’età pre-classica .131 Parte terza. Dalla ricerca all’insegnamento: le scuole Ticinum in 3^ G, a cura della 3^ G Scuola Media “C. Angelini” . . . . . . . . . . . . .139 La Piazza Grande di Pavia . Un progetto didattico di conoscenza e valorizzazione del territorio, a cura della 2^ C Liceo Artistico “A. Volta” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .151 Piazza della Vittoria . Percorso storico-fotografico, a cura della 2^ Liceo classico “San Giorgio” by Flag High School . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .157 Pensa che nel mio paese abbiamo solo il bar! Un dialogo a più voci sulla città, a cura della 2^ A Liceo classico “U. Foscolo” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .165

OsservatOriO Permanente sull’anticO. Il progetto, le azIonI, Il laboratorIo, la rIcerca, la dIdattIca Nessuna città d’Italia contò mai tante torri quanto Pavia, la quale fu perciò detta la città delle cento torri . Ora però ne rimangono ben poche a testimonio ch’essa sia stata turrita […] Le verdeggianti praterie che si distendono poco lungi dalla città, e le ampie campagne rese a coltivo e inaffiate coi molti canali di irrigazione che intersecano in mille guise il terreno, se hanno tolto a Pavia la rinomata sua bontà dell’aria cotanto celebrata dal Petrarca […] e dal Bernardo Sacco […], non l’hanno però gettata in quello stato tristissimo che da taluni, non sappiamo il perchè, si va esagerando; tant’è che l’attuale sua condizione atmosferica non differisce molto da quella della vicina cospicua Milano, come provò in appoggio ad esattissime osservazioni meteoriche il valentissimo professore di fisica nell’università di Pavia commendatore Giovanni Cantoni .

Così Carlo Dell’Acqua, nel 1869, diceva di Pavia: la città «delle cento torri» e delle «esattissime osservazioni meteoriche» del «valentissimo professore di fisica […] commendatore Giovanni Cantoni»1. E sono state queste proprio queste parole a suggerire il titolo dato al long-term project di cui con questo volume si vuole dar conto delle attività svolte nel corso della prima annualità (a.a. 2012/2013): Pavia-100Torri: l’Osservatorio Permanente sull’Antico . Dalla Cisalpina al Mediterraneo e all’Oriente: ‘cento’ modi per dire Antichistica pavese. Il progetto – proposto, coordinato e cofinanziato dalla sezione di Scienze dell’Antichità del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Pavia – è stato avviato nel febbraio del 2012 grazie al contributo economico offerto dalla Fondazione della Banca del Monte di Lombardia, che fin da subito ha mostrato grande interesse e apprezzamento per l’iniziativa e, in particolare, per la realizzazione – in città e per la città – del primo (e, per il momento, unico) Osservatorio Permanente sull’Antico. Si tratta, nella fattispecie, di un laboratorio ‘permanente’ istituito per fare in modo che gli studi sul mondo antico non restino chiusi tra le mura di biblioteche e università; una sorta di agorà – aperta a un pubblico di non specialisti e di giovani in formazione (dagli studenti universitari agli alunni delle scuole di ogni ordine e grado) per raccogliere e mostrare i tanti ‘volti’ della storia e della cultura antica (dal II millennio a.C. alle soglie dell’età medievale), valorizzando gli approcci diversi che si possono tentare per dar voce al passato e promuovendo la cultura della condivisione culturale e della interdisciplinarità attraverso un dialogo costante non solo tra gli specialisti (letterati, storici, archeologi, filologi, orientalisti), ma anche tra questi e i cittadini di Pavia, della Provincia, della Regione e, quindi, di altre realtà italiane ed europee (città, scuole, università, centri e associazioni culturali). È, dunque, per creare un ponte tra l’Ateneo pavese e il territorio che è nato l’Osservatorio Permanente sull’Antico. Ed è per questo medesimo motivo che l’Osservatorio, nel corso del suo primo anno di vita, ha promosso e agevolato gli spostamenti di studiosi e studenti per scambi culturali; ha provato a ridurre la distanza tra Università e cittadini, attraverso un’opera capillare di educazione all’antico in tutti i suoi aspetti (materiali e non); ha portato nelle aule delle scuole i risultati scientifici delle ricerche in corso e ha organizzato ‘azioni urbane’, workshop, mostre ed eventi scientifico-culturali. E se oggi l’Osservatorio costituisce una realtà nota e apprezzata dalle diverse istituzioni della città e della Provincia vuol dire che di questa realizzazione se ne sentiva fortemente 1 Il Comune e la Provincia di Pavia illustrati dal dottor Carlo Dell’Acqua, vice-bibliotecario nell’Università di Pavia, Milano, Dottor Francesco Villardi: tipografo-editore, 1869, pp. 13-14.

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STEFANO MAGGI, CESARE zIzzA

il bisogno e che, dunque, siamo riusciti a farci strumento per consentire a un pubblico di ‘non addetti ai lavori’ di affacciarsi da una delle cento torri di Pavia, iniziare a guardare – da angolature diverse – il passato e, quindi, a fare historia e, cioè, a fare ricerca, osservando ciò che dell’antico resta: dai testi scritti ai monumenti. Pavia, luglio 2014 stefano maggi, cesare zizza ([email protected])

IntroduzIone*

Uno degli ultimi atti compiuti dal Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Pavia prima di confluire, dal gennaio 2013, nel Dipartimento di Studi Umanistici, di cui oggi costituisce una sezione, è stato l’avvio del progetto Pavia-100Torri: l’Osservatorio Permanente sull’Antico. Questa iniziativa, nata da un’idea del prof. Cesare zizza, si inseriva nel solco di una feconda tradizione che ha visto il Dipartimento, fin dalla sua istituzione, favorire una interazione proficua tra l’Università e le scuole. Fra il 1987 e il 1996 si sono svolti a Pavia gli Incontri del Dipartimento con i docenti delle scuole secondarie. Nel corso di quel decennio, a cadenza annuale in marzo gli studenti universitari e i docenti delle scuole furono invitati a seguire seminari su temi specifici affrontati da varie prospettive metodologiche e con approcci diversi da parte di illustri studiosi (filologi, storici, archeologi, linguisti, orientalisti ecc.). Da una semplice rassegna dei quaderni, di anno in anno pubblicati, che raccolgono gli interventi delle giornate si ricava la ricchezza di spunti e idee che, grazie a questi incontri, sono stati proposti non soltanto agli studenti ma anche e soprattutto ai docenti delle scuole secondarie: Graecia capta . Roma di fronte all’ellenizzazione (1987), Primordia urbium . Forme e funzioni dei miti di fondazione del mondo antico (1988), Commercia linguae . La conoscenza delle lingue nel mondo antico (1989), Moenia mundi . Immagini e interpretazione dello spazio nella cultura antica (1990), Cedant arma . Letteratura, parole d’ordine e organizzazione del consenso nel mondo antico (1991), More atque ore . La dimensione socio-linguistica nel mondo antico (1992), Vitae mimus . Forme e funzioni del teatro comico greco e latino (1993), Reges et proelia . Orizzonti e atteggiamenti dell’epica antica (1994), Testis temporum . Aspetti e problemi della storiografia antica (1995), Tragice grande . Spazi e tempi della drammaturgia greca e latina (1996). Negli anni ’90, inoltre, nasce il Laboratorio per la Didattica dell’Archeologia che sfocia nel 2006 nella costituzione del CRIDACT (Centro di Ricerca Interdipartimentale per la Didattica dell’Archeologia Classica e delle Tecnologie antiche), fondato e diretto dal prof. Stefano Maggi. Esso ha lo scopo di favorire la divulgazione e la conoscenza dell’archeologia e della storia antica presso gli studenti delle scuole primarie e secondarie, grazie a una didattica mirata e aggiornata, che si avvale anche del supporto dei docenti delle scuole, e a strategie innovative come quella, indirizzata ai bambini delle primarie, del “Cubo archeologico” per imparare il mestiere dell’archeologo1. Nel 2000 nasce il CRIMTA (Centro di Ricerca Interdipartimentale Multimediale sul Teatro Antico), diretto dalla prof.ssa Anna Beltrametti, con l’intento non soltanto di promuovere la multidisciplinarietà nello studio del teatro antico e della sua ricezione moderna, ma anche di costituire un archivio di materiale audio-video comprendente documentari e registrazioni di messe in scene contemporanee del teatro antico e video relativi al teatro antico e un archivio * Nel dare alle stampe questo volume è doveroso da parte mia esprimere un profondo ringraziamento ai proff. Stefano Maggi e Cesare zizza che mi hanno coinvolto in questo progetto, affidandomi anche la curatela dell’opera. Un ringraziamento va anche a tutti i membri del team così come a tutti coloro hanno dato un contributo concreto nella realizzazione di questa iniziativa. 1 C. troso, e. menegatti, s. miranda, Il “cubo archeologico”, in S. maggi (a c. di), Archeologia a scuola, Cava Manara (Pv) 2001-2002, pp. 9-32 e S. maggi, Per una didattica dell’archeologia, in Pratica della didattica per il patrimonio archeologico: esiste una specificità? (Atti Roma 2003), in “Edu@rcheo”, 1, 2003.

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ENRICO CORTI

cartaceo contenente volumi sul teatro antico e riviste specializzate, il tutto a disposizione non soltanto degli studenti e dei ricercatori ma anche di studenti e docenti delle scuole di ogni ordine e grado. Appariva, dunque, inevitabile la nascita dell’Osservatorio Permanente sull’Antico che, grazie al cofinanziamento della Fondazione Banca del Monte di Lombardia, ha potuto realizzare la sua prima annualità nel corso dell’a.a. 2012/2013, concentrando i propri sforzi su un tema specifico, la città tra passato e presente: realtà fisica e realtà politica, modello utopistico e modello mentale, città immaginata e radicata nella memoria, città del passato e città del futuro.

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Più di altri luoghi Pavia alimentava interrogativi sulla città, su com’era, com’è e come la vorremmo. Era naturale che gli antichisti pavesi invitassero i ragazzi delle scuole a porsi i fondamentali quesiti: perché? perché qui? perché così? perché non altrove e non diversamente? Della Pavia romana in alzato rimane certo ben poco, ma se si sale sulle torri – le nostre cento torri – e da quella prospettiva si osserva il paesaggio urbano, si vede la pianta di una città romana, ampliata e trasformata nel tempo. Occorre vederla dall’alto e che qualcuno inviti a farlo, perché diversamente, forse, non sarebbe nemmeno facile accorgersene. Pavia, insomma, meglio di altre realtà urbane, assomiglia alle città antiche, quelle che, come spiega Stefano Maggi, sono concretamente città a misura d’uomo2, una di quelle realtà in cui sembra ancora in vigore quella face to face society che gli storici hanno ritenuto caratterizzasse, almeno in parte, le società antiche3. Del resto, una delle finalità dell’Osservatorio, come afferma il suo statuto, è l’essere al servizio di questa città, facendo da ponte fra l’accademia e i cittadini, almeno per quel che riguarda la diffusione della conoscenza del mondo antico. In questo gli antichisti godono, infatti, della privilegiata condizione ben descritta da Serenus zeitblom, il biografo del musicista Adrian Leverkühn, protagonista del Doktor Faustus di Thomas Mann4. Facendo ricorso al termine filologo (che può essere esteso a tutti gli studiosi dell’antico), zeitblom afferma che chi studia filologia antica è naturalmente predisposto all’educazione (alla bildung): Qui, come tante altre volte, non posso far a meno di contemplare di passaggio il nesso intimo e quasi misterioso fra lo studio della filologia antica e un senso vivamente amoroso della bellezza e della dignità razionale dell’uomo, – nesso che si manifesta già nella definizione di “humaniora” data agli studi delle lingue antiche, ma anche nel fatto che la coordinazione spirituale della passione per le lingue e della passione per i sentimenti umani è coronata dall’idea dell’educazione, ed è quasi ovvio che chi si sente portato alla filologia abbia anche la vocazione a formare i giovani.

Con i lavori dell’Osservatorio si è inteso compiere questa missione al servizio della città e lo si è fatto interpretando la Bildung in senso gadameriano come «Heimkehr zu sich»5 ed effettivamente, parlando di città antica dall’osservatorio privilegiato di Pavia, si è percorso un «ritorno a se stessi». 2 S. maggi, Giocare con i piedi, giocare con le mani …, in S. maggi (ed.), Educare all’antico . Esperienze, metodi, prospettive (Atti Pavia-Casteggio 2008), Roma 2008, pp. 195-202. 3 M.I. finley, Democracy Ancient and Modern, New Brunswick, N.J. 1973, pp. 17-18. 4 D. lanza, Il filologo immaginato, in “QS”, 19, 1984, pp. 3-6. 5 H.G. gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen 1960, p. 20.

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INTRODUzIONE

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Con la pubblicazione di questo volume si chiude simbolicamente un’azione articolata in più fasi che ha visto impegnati studenti e docenti di alcune scuole primarie e secondarie della città6 e studiosi e docenti dell’Università di Pavia. Nello spirito che ha caratterizzato le iniziative promosse anche in passato dal Dipartimento, l’Osservatorio si è avvalso della collaborazione scientifica di un team di giovani antichisti pavesi, dotati di specifiche competenze (storici, filologi, archeologi e orientalisti)7, per proporre alle scuole seminari didattici sul tema della città antica. Essi hanno costituito la premessa per lavori che in autonomia le singole classi hanno svolto nel corso dell’anno scolastico e che sono stati presentati, prima, in occasione del convegno dell’8 febbraio 2013 nell’Aula del ’400 e, poi, della chiusura dell’annualità il 31 maggio 2013 nell’Aula Scarpa. Di particolare rilievo è stata la giornata di febbraio (La città . Com’era, com’è e come la vorremmo), poiché le presentazioni degli studenti delle scuole si sono alternate alle relazioni di studiosi dell’antico e della contemporaneità, la maggior parte delle quali sono state raccolte nella prima parte di questo volume. Dopo i saluti delle autorità e le premesse degli organizzatori, si sono succeduti, infatti, gli interventi di diversi studiosi, ciascuno dei quali ha affrontato il tema della città dalle sue differenti prospettive di ricerca, garantendo sempre una visione ampia che non si limitasse a uno sguardo “sull’antico dall’antico” ma anche “sull’antico dal moderno”. Questo volume, che rispecchia nella sua suddivisione in tre parti l’articolazione del progetto, si propone di essere, oltre che un documento e un bilancio delle iniziative didattiche e scientifiche svolte nel corso della prima annualità, anche una base per future riflessioni, proposte ed esperienze didattiche, fondate su una conoscenza critica del passato e uno sguardo consapevole sul presente. La correzione delle bozze del presente volume ha coinciso con l’avvio della seconda annualità del progetto, grazie al cofinanziamento della Fondazione Banca del Monte di Lombardia; a questa va il ringraziamento dei membri della sezione di Scienze dell’Antichità dell’Università di Pavia. Pavia, luglio 2014 enrico corti

6 Il progetto ha coinvolto i bambini della classe 5^B dalla scuola primaria del ‘Vallone’ (terzo circolo didattico di Pavia), i ragazzi della 3^G della Scuola Secondaria di I grado ‘C. Angelini’, i ragazzi della 2^ C dell’Istituto Volta, della 2^ A del Liceo classico ‘U. Foscolo’ e della 2^ del Liceo classico San Giorgio by Flag High School. 7 Claudio Faustinelli, Alessandro Maranesi, Elena Gagliano, Chiara Mussi, Martina Di Stefano, Serena Brioschi e Marco De Pietri, coordinati dai Proff. Stefano Maggi e Cesare zizza e con il supporto di tutti i docenti della sezione di Scienze dell’Antichità.

parte prIma La Città: com’era, com’è e come la vorremmo Atti del Convegno (Pavia, 8 febbraio 2013, Aula del ’400)

Carlo Berizzi*

Forme della cIttà contemporanea Il sIgnIFIcato dI Forma urbana Il titolo apparentemente semplice di questo intervento nasconde in realtà una serie di complessità che stanno alla base del pensiero architettonico contemporaneo sul tema dell’abitare. Forme, al plurale, ammette una pluralità di risposte; caratteristica della fase storica che stiamo vivendo che offre soluzioni e modelli differenti a una medesima questione confondendo o mischiando libertà, autonomia di pensiero, convenienza e necessità dell’operare. Nello stesso tempo la parola forma rimanda, almeno per chi ancora crede che si possa utilizzare questo termine, ad una questione formale, estetica e organizzativa, portatrice di senso in quanto tale e capace di sintetizzare e rappresentare la complessità dell’architettura nel suo insieme. Il voler dar forma alla città significa resistere alla tentazione di affidarsi unicamente a quei pensieri di natura positivista che determinando scientificamente lo sviluppo della città hanno indebolito l’azione progettuale di natura formale. Già Argan nel 1965, in Progetto e Destino, aveva rivendicato il ricorso al progetto come caratteristica del fare umano che ha determinato la fase storica del progresso, mettendo in allarme la fiducia incondizionata alle soluzioni meccanicamente predeterminate che rischiano di interrompere il processo evolutivo. Ricorrere alla forma della città vuol dire rivendicare il ruolo dell’architettura anche nelle questioni urbane, considerare, così come ha fatto Aldo Rossi con L’architettura della città, la città come una architettura ribadendo l’universalità dell’azione progettuale che supera gli aspetti dimensionali e gli usi e trova risposte all’interno della propria disciplina che, secondo Renzo Piano, rimane «in bilico tra scienza e arte». Per architettura qui si intende la costruzione dello spazio adeguato alla vita dell’uomo e, parlando di questioni urbane, significa la modifica del territorio per renderlo abitabile, creando un habitat per gli uomini contemporanei. Nel passato il legame tra uomo e architettura, sia essa un singolo edificio o una città, era scontato: basti pensare al rapporto di forma, proporzioni e misura della colonna greca o delle città romane, o dell’uomo di Leonardo e delle città ideali del rinascimento. La forma della città dalla classicità fino alla modernità è cambiata poco, era fondamentalmente predeterminata dai suoi limiti, quasi sempre le mura difensive o daziarie, e organizzata attorno a una o più centralità con un sistema stradale che, ad eccezione dei tessuti medioevali, era strutturato secondo il modello ortogonale o radio centrico. La forma corrispondeva così a modelli ideali che si adattavano alle caratteristiche del territorio, alla presenza di fiumi, colli, monti o del mare. Guardando le città italiane dalle mappe storiche o dall’alto è quasi sempre riconoscibile la struttura del nucleo più antico dove le tracce della forma storica permangono nonostante le modificazioni.

* Università di Pavia.

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CARLO BERIzzI

Se invece guardiamo dall’alto le forme del territorio antropizzato attuale difficilmente riusciamo a ricondurle a figure geometriche, ne riusciamo a determinare dove finisca una città e dove ne inizia un’altra. Le forme che ci appaiono oggi più chiare sono quelle delle infrastrutture o dei parchi che rappresentano il negativo della forma urbana dei modelli storici.

la Forma della cIttà moderna come esIto dI una lettura retroattIva del terrItorIo urbanIzzato

Il cambiamento delle forme urbane rispetto ai modelli classici avviene all’inizio dell’era moderna dove una serie di innovazioni legate soprattutto ai sistemi della mobilità, hanno stravolto i principi e i modelli sui quali si basavano le città. Assieme allo sviluppo dell’industria, che ha favorito il processo di crescita urbana spostando la popolazione dalle campagne alle città, sono i sistemi di trasporto quelli che hanno permesso crescite, prima impensabili, del territorio abitato, permettendo rapide connessioni anche a grandi distanze, con ad esempio la costruzione di ferrovie, metropolitane e autorstrade. Ma è nel percorso verticale che risiede la vera rivoluzione. L’ascensore alla fine del XIX secolo ha permesso alle città americane, prima Boston e poi New York, di concentrare la popolazione e densificare la città. In Delirious New York Rem Koolhaas descrive lo sviluppo di New York che rappresenta un manifesto mai scritto per le città metropolitane contemporanee, evidenziando come la congestione urbana sia il fenomeno determinante della forma delle architetture e delle città di oggi, anche in considerazione del fatto che nel primo decennio di questo secolo è stata superata per la prima volta la soglia del 50% di persone che vivono in aree metropolitane. Proprio la lettura di New York, che Koolhaas chiama la “stele di rosetta” del XX secolo, vene interpretata come un manifesto retroattivo che giustifica a posteriori le logiche non pianificate di una delle città più belle della contemporaneità. I sistemi di trasporto, verticali o orizzontali, svincolano la forma della città dal suo modello centripeto basato sulla distanza percorribile a piedi o comunque a velocità limitata. Si inducono così sviluppi lineari, accumulazioni in nodi infrastrutturali e la possibilità di sviluppare il modello urbano all’infinito. Gli esiti formali di queste condizioni si allontanano sempre di più dai principi geometrici euclidei e ritrovano le loro ragioni nelle nuove scienze fisico-matematiche, dalla teoria della relatività a quella dei frattali, e in quelle psicologiche e fenomenologiche, tra forme mentali e forme percettive. Per tutto il XX secolo, nonostante modelli teorici rivoluzionari del Movimento Moderno come i piani di Le Corbusier per Algeri e Rio, o il Plano Piloto realizzato da Lucio Costa a Brasilia, la forma urbana nel suo complesso è apparsa incontrollabile ed è stata studiata a posteriori, non come principio progettuale predefinito, ma come esito dello sviluppo del territorio abitato. Oswald Mathias Ungers ha raccolto nel suo libro Morphologie . City Metaphors alcune letture metaforiche delle città per comprendere i principi formali imposti o derivati sostituendo a forme pure principi ordinatori derivanti da diverse discipline. Così le diverse città assumono forme che si basano sui principi come ad esempio l’accumulazione, il parallelismo, la ramificazione, l’articolazione, la connessione, la duplicazione, la linearità, l’espansione.

FORME DELLA CITTà CONTEMPORANEA

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Il sIgnIFIcato del termIne cIttà e la sua crIsI nel dIbattIto attuale Se come affermato in precedenza si può considerare vasto, in termini di scala, il campo operativo dell’architettura, nel senso che si può pensare di progettare una città con gli stessi principi logici con i quali si progetto un edificio, è opportuno interrogarsi se anche la parola città possa comprendere piccoli insediamenti e aree metropolitane sotto la stessa definizione. Questa impossibilità di ricomprendere all’interno del concetto di città gli esempi storici assieme alle aree metropolitane e ai piccoli insediamenti ha portato alla perdita di senso del termine stesso quasi come se senza forma non esistesse la città. Uno dei più significativi dizionari di architettura contemporanea The metapolis dictionary of advanced architecture definisce la parola City come «An old word. See’m. city (or multi city)» (città: una vecchia parola, vedi multi-città, tda). È chiaro che c’è un punto di ambiguità, da una parte non esiste il termine città ma esiste un termine composto dalla parola stessa, dall’altra il sottotitolo del dizionario è City, technology and society in the information age; è chiaro che città diviene un termine latente, fondamentale ma di cui non si riesce a dare una definizione chiara. In effetti a parte il testo di Rossi, che rivendita una sorta di effetto città in continuità con il passato e di cui si parlerà dopo, a partire dagli ultimi decenni il termine città tende a scomparire dal dibattito di architettura a favore di nuove categorie dello spazio come il territorio, descritto da Vittorio Gregotti nel 1966 nel libro Il territorio dell’architettura, il paesaggio, che nella sua indeterminatezza ha ricompreso ogni categoria dello spazio, o la megalopoli, come La Megalopoli Padana descritta nel 2000 da Eugenio Turri che identifica un territorio continuo urbanizzato da Torino a Venezia in cui le città non si distinguono più l’una dall’altra. La crisi del concetto di città deriva dal cambiamento del modo di abitare. L’uomo contemporaneo, rispetto alle condizioni passate, ha bisogno di un nuovo habitat e i modelli precedenti, che mantengono il loro valore e nei quali si può ancora vivere benissimo, non risultano però ripetibili per le modificate condizioni sociali ed economiche. Il primo dato è quello già riportato per cui più della metà degli abitanti della terra si sono spostati dalla campagna in aree metropolitane mentre in passato solo una piccola parte della popolazione viveva nelle belle città. Inoltre le città del passato si sono costruite nei secoli mentre oggi i tempi del mercato e degli stili di vita sono molto più veloci e destinati a modificarsi nel tempo. Se vogliamo provare a capire la differenza tra una città attuale, come ad esempio ci appaiono oggi Milano, Pavia, Bergamo, per limitarci al caso lombardo, e le città del passato (anche considerando le stesse città qualche secolo), possiamo partire proprio dalla etimologia e dalla definizione che si trova nel Nuovo dizionario della lingua italiana scritto nel 1865 da Nicolò Tommaseo. Città è «Per primo l’idea di Civile convivenza», richiamando la corrispondenza e la coincidenza, anche nei termini, tra la città e i suoi abitanti. Prosegue il Tommaseo citando Cicerone: «Città è ordine di case molte, compartite in istrade e contrade, sovente circondate da muro comune o da altro recinto». La città storica ha infatti un limite ben preciso rappresentato qualche secolo prima nella maggior parte dei casi dalle sue mura che ne conferiscono anche la forma. Come ulteriore definizione la «Città è contrapposizione di Casa propria […] Casa dice le faccende e gli usi privati; Città, del Comune o dello Stato. Infine «È anche contrapposta a quanto è fuori del recinto di quel che si intende col nome di città. […] in contrapposizione a Campagna». Queste quattro definizioni, che sono in qualche modo venute a cadere, possiamo riassumerle e analizzarle attraverso quattro coppie dialettiche: interno/esterno, città/cittadini, pubblico/

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CARLO BERIzzI

privato, città/campagna. Prima di affrontare analiticamente le quattro coppie dialettiche bisogna comprendere però quali siano le ragioni per le quali l’uomo ha costruito le città.

la costruzIone delle cIttà come dIFesa dalla natura Il filosofo Nicola Emery, autore di numerosi saggi sull’architettura, nel suo testo Distruzione e progetto richiama il mito di greco di Epimeteo per spiegare il perché l’uomo fonda le città. Il mito racconta di Epimeteo, che vuol dire “colui che agisce prima di pensare”, che viene incaricato dagli dei di distribuire tra gli esseri viventi gli istinti e i caratteri per resistere alle forze della natura. Epimeteo distribuisce così al leone la forza, ai pesci la capacità di vivere sott’acqua, alla gazzella la velocità per sfuggire agli altri animali, e così via; quando però arriva all’uomo si accorge di aver esaurito tutti i caratteri e gli istinti condannando l’uomo ad essere sopraffatto dalla natura. Così mentre gli animali incontrano nella natura luoghi adatti alla loro sopravvivenza, gli habitat, gli uomini si ritrovano senza un luogo adatto a loro. Il mito racconta successivamente del fratello di Epimeteo, Prometeo, che dona la tecnica agli uomini con la quale cacciano gli animali usando le loro pelli per riscaldarsi e costruiscono le loro abitazioni. L’uomo, a differenza degli animali, modifica profondamente la natura per creare il suo habitat. Il mito racconta poi come gli uomini inizino a utilizzare la tecnica per sopraffare gli altri uomini e così zeus interviene donando loro prudenza e giustizia; è da questo momento che l’uomo amplia il suo concetto di casa alla città dove grazie alle leggi trova il modo di convivere con altri uomini in comunità.

Interno/esterno La città nasce così come allargamento del concetto di abitazione destinato a più nuclei familiari, accomunati da medesimi obiettivi. Come la casa ha i muri che la separano dall’esterno così le città si dotano di mura segnando un limite di difesa nei confronti della natura e degli altri uomini oltre che un concetto di condivisione di chi vive all’interno. La forma della città nel suo complesso coincide così con la forma delle sue mura mentre all’interno sono principi insediativi differenti che connotano la forma degli spazi aperti. Il muro rappresenta un passaggio di stato dalla città, univocamente determinata da ciò che sta all’interno delle mura, e la campagna o comunque l’ambito dove governa la natura con le sue leggi. Se consideriamo una delle più significative rappresentazioni di città, gli affreschi di Siena di Ambrogio Lorenzetti che rappresentano “gli effetti del buon governo in città”, ci rendiamo conto di come sia brusco il cambio di scena tra la città e la campagna divise chiaramente da un muro. La rapida espansione del territorio urbano e la perdita di importanza del sistema murario come elemento difensivo o daziario ha portato alla scomparsa delle mura e con essa alla perdita della forma complessiva con la possibilità di aggiungere infinite addizioni alla città. Si ha così la perdita della forma finita della città alla quale non sappiamo più dare confini certi. La necessità di una forma deriva dal bisogno di rendere riconoscibili i luoghi e orientarsi; così nell’800 i grandi piani urbanistici come quello di Parigi creano poli di attrazione at-

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traverso la forma degli spazi aperti e l’uso dei monumenti. Così l’arco di trionfo o la Torre Eiffel diventano segni territoriali, punti di riferimento per l’orientamento, sostituendo al sistema continuo delle mura quello puntuale dei luoghi notevoli. La città cresciuta attorno al suo centro trova ora nuove centralità in punti dislocati sul territorio urbano e si sviluppa la città per nodi. Ogni nodo diviene un elemento catalizzatore di urbanità. La forma della città diviene in alcuni casi, come per le grandi città europee la forma dell’insieme dei suoi nodi, come ad esempio rappresentato dalle mappe delle metropolitane, oramai veri e propri loghi con i quali le città si identificano. Proprio la rappresentazione sintetica di una mappa di un tracciato di mobilità e delle sue fermate, quasi sempre nodi urbani, diviene l’unico strumento di definizione urbana. È questo un chiaro esempio di forma mentale di una città. La città per nodi consente dei cambi di scena improvvisi, cambi di stato che segnano discontinuità. Il tessuto contemporaneo non è infatti più omogeneo come nel passato causando la perdita di identità dell’insieme ma offrendo la potenzialità di poter proporre modelli formali differenti sullo stesso territorio. In questa nuova ottica gli strumenti pianificatori delle città contemporanee, come ad esempio il nuovo Piano di Governo del Territorio di Milano che prevede la città composta da 88 nuclei di identità locali, come fossero delle città autonome per forma tipologia e uso del suolo, portano a quella che il dizionario Metapolis definisce una Multicity.

cIttà/cIttadInI Una caratteristica della città antica, come è evidente anche nella etimologia latina di civitas, è la coincidenza della città e dei suoi cittadini. Il cittadino non è solo chi vive nella città ma è chi appartiene alla civitas e ne condivide le regole. Così persone unite dai medesimi obiettivi si uniscono per formare le città le quali assumono inevitabilmente un carattere specifico. Così ogni città esprime il carattere dei suoi cittadini. Sempre nell’affresco del Lorenzetti a Siena è evidente in basso un gruppo di cittadini che danzano tenendosi per mano accomunati da un modo di vestire comune, così come simili sono le loro case private che si vedono sullo sfondo a sinistra. Le piccole differenze del colore dei vestiti o della disposizione delle finestre rende ancora più forte la assonanza dei caratteri comuni. Ogni città antica è così uniformata dalla forma dell’insieme ma anche dalle forme dei singoli edifici e dal linguaggio; così assolutamente identificata e riconoscibile è Venezia, Firenze, Siena e tutte le altre città fino al XVIII secolo. Il carattere della gente e della città coincideva. Oggi la società liquida descritta da zygmunt Bauman non è più stanziale e l’uomo spesso cambia città molte volte nell’arco della sua vita vivendo in una condizione di nomadismo urbano. La presenza di culture diverse e di cittadini poco radicati nella realtà locale ha effetti anche sulle modalità di vita e sulle forme delle architetture e degli spazi. È in questo contesto che la città composta da più città, la Multicity, ha le sue ragioni di esistere, per poter rispondere a cittadini in continua trasformazione e ad esigenze mutevoli. La compresenza nelle città di forme diverse, anche nelle architetture, non è che un naturale aspetto dell’attuale condizione. È probabilmente tramontata per sempre la possibilità di imporre uno stile comune alle case, cosa che, nonostante i cambiamenti già innescati nell’800 relativi alle espansioni urbane, era comunque rimasta all’interno dei nostri regolamenti che fissavano per ogni città altezze massime uniche e modelli insediativi precostituiti.

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pubblIco/prIvato Nella città storica la divisione tra proprietà pubblica e proprietà privata era netta. Lo spazio pubblico era lo spazio della collettività e mostrava un aspetto condiviso, era accessibile da tutti, e in esso si svolgevano le attività comuni. Questa divisione nell’affresco di Siena è espressa dalla parte pubblica nella zona bassa, dove sulla piazza affacciano la scuola e il mercato rappresentati come edifici aperti, e dalle case private sullo sfondo chiuse e senza spazi aperti rappresentativi. Nella città contemporanea è difficile definire quali spazi siano pubblici e quali non lo sono a causa della presenza di molti spazi intermedi, più o meno collettivi, e di spazi comuni gestiti privatamente e di luoghi pubblici inaccessibili. Così gli spazi dei centri commerciali diventano luoghi collettivi sostituendo in alcuni casi la funzione della piazza; questo fenomeno di apertura degli spazi privati sta sempre di più interessando porzioni ampie di città dove i parchi pubblici sono di proprietà e gestione privata, così come le piazze o le strade, come nel caso del nuovo quartiere di Porta Nuova a Milano. È il privato che, anche per i suoi interessi personali, costruisce in alcuni casi lo spazio della collettività. La mancanza di una civitas come quella del passato impedisce infatti la possibilità di scelte condivise per la gestione dello spazio pubblico oltre al fatto che l’amministrazione pubblica, nei paesi democratici occidentali, non ha più le risorse per creare spazi e servizi pubblici.

cIttà/campagna Con la scomparsa di un limite fisico alle città si è perso anche la netta separazione tra città, o territorio costruito, e campagna, o ambito naturale. Se da un lato la città di pietra contrastava e rappresentava una difesa nei confronti della natura creando un habitat adatto alla vita dell’uomo, dall’altra la campagna era il sostegno imprescindibile per la città. Un tempo la campagna era il luogo produttivo per i beni che venivano utilizzati e venduti in città. Oggi il rapporto con la natura si sta modificando a causa dell’utopia ecologica del pensiero contemporaneo con la volontà di ibridare città e natura evidente nella necessità di aree verdi, di pratiche urbane legate all’agricoltura e delle spinte ambientaliste. Nelle ultime biennali di Venezia, il tema ecologico è stato molto presente come nei progetti di Andrea Branzi, Stefano Boeri e Aldo Cibic solo per citare gli architetti italiani, che hanno proposto per il futuro delle nostre città il riequilibrio del rapporto uomo natura verso una nuova forma di architettura e di territorio abitato.

multIcIty, le cIttà e l’habItat dell’uomo contemporaneo La città contemporanea definisce un nuovo habitat per l’uomo contemporaneo interpretandone esigenze e caratteristiche. Così la multipolarità risulta essere una condizione imprescindibile così come la compresenza di forme e modi di abitare differenti che portano ad un elevato grado di complessità in cui la necessità di ristabilire un rapporto diretto con una natura addomesticata porterà inevitabilmente a riconsiderare ragioni, figure e forme delle nostre architetture e dei nostri spazi. Multicity sembra essere l’unica possibilità di mantenere in vita anche il patrimonio storico che caratterizza le nostre città, ponendo gerarchicamente sullo stesso piano aree nuove

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o trasformate con aree consolidate, permettendo all’esperienza storica di evolversi e di mantenere le proprie tracce. Multicity non sostituisce il concetto di città che permane nelle singole parti di cui l’insieme è costituito, rappresentando il luogo dell’esperienza quotidiana e assumendo per ciascuno dei suoi abitanti confini e significati differenti.

le Forme per la cIttà contemporanea Le considerazioni sulle trasformazioni delle città storiche in territori estesi e difficilmente identificabili ci inducono a pensare che nel suo insieme la città può solo avere una forma mentale legata a sistemi infrastrutturali, ad ambiti naturali o a condizioni specifiche dei luoghi, ma raramente descrivibili in termini geometrici. Se ammettiamo l’esistenza di una città formata da più città, cioè parti definite di dimensioni tali da essere controllabile coi sensi e l’esperienza dall’uomo nelle sua azioni quotidiane, possiamo ancora accettare la sfida di definirne una forma. Così per ognuna delle 88 parti in cui sarà divisa la città di Milano secondo il nuovo Piano di Governo del Territorio si avrà ancora la possibilità di parlare di forma di un insieme e quindi di riportare il problema del progetto urbano nell’ambito dell’architettura. Parallelamente mai come oggi la forma del singolo edificio, in una società che si basa sull’iniziativa individuale, ha assunto una importanza fondamentale anche per l’insieme, rivelando la bellezza della compresenza di esperienze diverse. Il tema strategico sarà però sempre di più quello della forma dello spazio aperto, che deve essere capace di coniugare le complessità dell’abitare contemporaneo. È in questo ambito che si gioca il futuro delle nostre città o delle Multycity, creando nuove figure dello spazio aperto, sia esso pubblico o privato, in sostituzione delle figure urbane tradizionali. Abbreviazioni bibliografiche argan g. c. 1965, Progetto e destino, Milano. BaUman z. 2006, Modernità liquida, Roma-Bari. emery n. 2011, Distruzione e progetto, Milano. gaUsa m. 2003, The Metapolis Dictionary of Advanced Architecture, Barcelona. gregotti v. 1993, Il territorio dell’architettura, Milano. Koolhaas r. 2001, Delirious New York, Milano. rossi a. 1966, L’architettura della città, Padova. tommaseo n. 1865, Nuovo dizionario della lingua italiana, Torino. tUrri e. 2000, La Megalopoli Padana, Venezia. Ungers o. m. 1982, Morphologie . City Metaphors, Koln.

Caterina Maria Carla Bona*

Junkspace pavIa Junkspace Pavia-Viaggio nella città periferica è un progetto1, fotografico e non solo, nato all’inizio del 2012 per indagare la natura complessa e spesso contraddittoria degli spazi periferici della città contemporanea attraverso il caso particolare pavese, ponendo particolare attenzione agli aspetti architettonici, sociali e simbolici. Gli ideatori dell’iniziativa sono membri dell’Associazione culturale MoreThanArch, nata nel novembre del 2011 da un’idea di alcuni studenti del corso di Laurea di Ingegneria Edile/ Architettura dell’Università di Pavia. Il titolo del progetto si ispira al testo Junkspace che l’architetto olandese Rem Koolhaas ha pubblicato nel 20012: è stata la guida nella riscoperta dello spazio urbano quotidiano e nella lettura della sua ricchezza e fertilità. MoreThanArch definisce Junkspace Pavia un “osservatorio suburbano”, cioè uno strumento di analisi soggettiva del contesto, rappresentato in questo caso dalla periferia della città di Pavia. L’Associazione ha organizzato uscite fotografiche di gruppo in aree eterogenee del territorio comunale, guidate da un dettagliato programma che ne descrive i maggiori “punti di interesse”, classificati con stelle di qualità come gli hotel di lusso. «Il linguaggio architettonico è quello dei render dei pannelli pubblicitari: grandi superfici ipersaturate, pochi enormi dettagli, un tocco di stile cascina e un po’ di stile Disneyland» è la descrizione di un punto di interesse da cinque stelle; «Alta espressione di junkspace pavese sgargiante e risplendente. C’è tutto: rotonda capolavoro, iconografie commerciali, fondali prospettici, Bigness, parcheggio invitante, architettura spettacolarizzata», ne merita addirittura sei. Hanno preso parte al progetto una ventina di fotografi, quasi tutti dilettanti, e ognuno ha scelto di intraprendere un percorso fotografico personale utilizzando i mezzi a propria disposizione: macchine fotografiche reflex e compatte sono state affiancate dagli smartphone di ultima generazione, che hanno trasformato le immagini con filtri ed effetti tanto estranianti quanto affini alle emozioni che i luoghi sono in grado di suscitare. I percorsi tematici intrapresi sono svariati, ma tutti contribuiscono a formare un affresco del junkspace pavese nella sua totalità e specificità: architettura, bigness, infrastruttura, materiali, spazio pubblico, confini urbani, abitanti del junkspace, parcheggi, sono descritti con materiale eterogeneo. Non solo fotografie infatti, catalogate scientificamente con titolo descrittivo, data e posizione geografica del rilevamento, ma anche testi: descrizioni tra il delirante, il filosofico e l’ironico cercano di svelare possibili riflessioni e sensazioni, e di stimolare un attivo coinvolgimento da parte dell’osservatore. In una di queste, Pablo Colturi riflette sull’era che la contemporaneità si ritrova incoscientemente a vivere: «L’asfalto sta al contemporaneo come il cemento armato è stato al moderno. La madre tecnica ci ha dato lo strumento per antropizzare facilmente l’intero mondo * MoreThanArch – Università di Pavia. 1 Hanno partecipato al progetto Caterina Maria Carla Bona, Riccardo Bruno, Giacomo Carena, Pablo Colturi, Annamaria Franco, Paolo Gatti, Simone Ludovico, Alessandra Manini, Maila Pellegrino, Giovanni Pancotti, Ruggero Pedrini, Massimo Toesca, Giovanni zanaboni. 2 R. Koolhaas, Junkspace . Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, trad.it., Macerata 2006.

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Fig. 1 – I partecipanti alle uscite fotografiche.

Fig. 2 – Spazio pubblico.

Fig. 3 – Parcheggi.

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Fig. 4 – Architettura e facciate.

Fig. 5 – “Supersuperfici”, ovvero grandi ostacoli visivi portatori di significati muti.

Fig. 6 – Confini urbani.

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CATERINA MARIA CARLA BONA

Fig. 7 – Gli abitanti del Junk space.

(s)conosciuto. L’asfalto rende insediabile un territorio all’uomo nello stesso momento in cui lo rende inabitabile alle altre specie animali: quale soluzione più vincente? La scoperta tecnologica si rivela straordinaria ed è paragonabile solo all’invenzione del fuoco, della ruota o del ferro. Nei libri di storia vedremo probabilmente un giorno scritto: ‘Età dell’Asfalto’, e milioni di bambini scopriranno di credere di non poter vivere in un mondo privo di manto bituminoso nero. […] L’asfalto nella sua sconfinata indeterminatezza, non da misura allo spazio che percorriamo, perché non è più lo spazio a essere autonomo protagonista della città, siamo noi con la nostra presenza (e quella della nostra automobile, moto, bimbo, cane, trolley, triciclo) a dargli l’unico possibile significato». La riflessione passa poi alle architetture: «Oggi nelle nostre città assistiamo ad un processo costante di omogeneizzazione, di perdita di identità, di appiattimento. In una sola parola di “disumanizzazione”. E dove, se non nelle facciate, cioè le superfici con le quali più spesso siamo ‘costretti’ ad avere a che fare, questo processo potrebbe essere più evidente? Andando per strada siamo come bombardati da una serie di piani, colori, insegne; alcune di esse ci sfiorano, qualche altra ci attira per i neon sgargianti, ma nessuna ci rimane veramente impressa: manca una gerarchia, manca un’organizzazione. Bisogna andare alla ricerca di ciò che di ‘umano’ è rimasto in questa apparente (?) disorganizzazione generale, dei piccoli gesti di libertà che ci sono rimasti: persiane aperte o chiuse, tapparelle su o giù, un crocifisso su una parete che non gli rende giustizia…», osserva Giovanni zanaboni. A concentrarsi sulla presenza umana nelle città è invece Massimo Toesca: «Il junkspace, all’apparenza inospitale, pullula in realtà di vita; peculiare (e negativa) caratteristica è il suo brulicare solo ad orari cadenzati (zone commerciali attive di giorno e quartieri dormitorio ove non si può far altro). In pochi sfidano questo dogma, personaggi spesso solitari immersi in scenari da film post-apocalittico (o girone infernale). Essi possono essere anziani dall’aria smarrita (e dall’elevato tempo libero), ragazzini che giocano tra rifiuti e detriti, distinti signori che usufruiscono (in apnea) dello spazio pubblico urbano solo per assecondare i bisogni dei propri cani o semplici passanti (e usufruitori di centri commerciali), incuranti di quel che hanno intorno e determinati a “riveder le stelle” nel proprio quartiere d’origine».

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Ruggero Pedrini fornisce una personale lettura delle decorazioni per le festività natalizie: «Gli addobbi di Natale rappresentano uno dei punti più alti del manifestarsi del junk space, infatti ne sono un concentrato, amplificano le sue contraddizioni, la sua ripetitività. I più rumorosi sono generalmente quelli presenti nelle rotatorie stradali, nelle concessionarie, nei grandi centri commerciali: l’addobbo frenetico è humus per l’acquisto compulsivo. Più sinceri e forse più malinconici gli striminziti addobbi di case, scuole, giardini. Ma la matrice è comune. In tutti i casi l’assenza di una progettazione lucida e razionale si mescola ad episodi di inattese perfezioni geometriche, a modularità celate, a delicate architetture che si assiepano, parassite, sopra i più anonimi tra i capannoni industriali. Si materializza un mondo padroneggiato dall’invenzione, in cui tutti sono architetti, tutto è terreno fertile per l’addobbo, ogni cosa si presta alla trasformazione: l’altissimo lampione del centro commerciale, nel corso dell’anno totalmente estraneo alle vicende umane, diviene durante il Natale il più sgargiante degli alberi ed insieme agli altri suoi simili genera una preoccupante foresta di luce. Ogni ringhiera si trova ad ospitare un affaticato babbo natale intento in risalite infinite; le pensiline, le grondaie e le insegne vengono stritolate da minuziosi anelli luminosi. Le chiome degli alberi, quelli veri, vengono private della forma da nervose spirali luminose, mentre un secondo misterioso cielo, probabilmente schiantatosi contro una selva di pizzerie e distributori della benzina, si illumina, poco convinto, di stelle cadenti. Ogni luogo muta nelle proporzioni, ogni oggetto è reso irriconoscibile? Il percorso diventa allucinato ed incerto? È Junk. È il Junk Space». Una ulteriore interpretazione svela le potenzialità degli spazi marginali delle città: Spaziospazzatura: non è spazzatura nello spazio, ma lo spazio che si fa scarto. Il concetto di scarto presume quello di progetto, perché senza l’esistenza dell’ultimo, il primo non potrebbe essere tale. Un progetto spesso dimentico di ciò che esiste oltre l’ultima linea di inchiostro, dentro gli spazi bianchi dei fogli. L’imprevedibilità non prevista del resto, di quello che rimane, sono tutte occasioni mancate. La percezione dello scarto implica la visione del progetto come processo, come punto infinitesimo in un infinito flusso di tempo che continuamente si trasforma, e trasforma il reale. Un tempo lineare che però concede un senso al valore del ritorno su ciò che esso stesso ha portato nel presente. Tracce nascoste, esibite, dimenticate, ma pervasive e invadenti. Perché il passato è ovunque nel presente. Progetto – realizzazione – uso – scarto – reperto: la sensibilità nei confronti dello scarto permette il passaggio, concreto e simbolico, alla fase successiva, il suo riciclo. Un riciclo non solo di materiale, ma di storie interrotte, frammenti di senso, che sono stati ma che non sono più: spazi potenziali». L’utilizzo dei fotomontaggi ha permesso, inoltre, la formulazione di alcune proposte di riuso degli spazi urbani, quali i prati verdi che ricoprono le grandi rotatorie urbane o i parcheggi a strisce blu, protagonisti di sogni iconici popolati di bambini che giocano, ponticelli pedonali che sorpassano le strade e famiglie riunite in picnic. Il blog Junkspace Pavia-Osservatorio Suburbano (http://junkspacepavia.tumblr.com) ha cercato di riprodurre, durante l’esperienza della visualizzazione, una atmosfera simile a quella che si è quotidianamente costretti a subire durante l’attraversamento degli spazi delle città: un bombardamento costante di immagini e luoghi poco o per nulla coerenti tra loro che disorientano, dominano e attraggono nello stesso momento. Il progetto è confluito nell’allestimento, nel mese di maggio del 2012, di una mostra fotografica al Motoperpetuo di Pavia, una manifestazione arricchita da una serie di conferenze serali alle quali hanno preso parte fotografi e docenti universitari di progettazione, quali

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Marco Introini, Chiara Merlini, Marco Morandotti e Filippo Romano. L’allestimento ha voluto ricreare in un interno le spazialità del parcheggio di un centro commerciale, con le poltrone di un vecchio cinema posizionate all’interno degli stalli individuati da strisce di nastro adesivo. Questa finzione è divenuta realtà poi in occasione della manifestazione Park(ing) Day che si è svolta a Milano in Largo Cairoli il 22 settembre 2012. MoreThanArch ha ripresentato il progetto Junkspace Pavia, che per l’occasione si è trasformato in un “osservatorio (sub)urbano” per stimolare i passanti a guardare anche il centro della città, e non solo le periferie come era stato nel caso pavese, con occhi nuovi. L’allestimento a costo zero ha occupato per un giorno lo stallo di un vero parcheggio, e i visitatori hanno interagito con l’installazione dimostrando la possibilità di applicare il metodo di analisi utilizzato a Pavia anche in altri territori. Junkspace Pavia ha cercato di dare una risposta alle questioni ‘La città com’è, e come la vorremmo’, fornendo strumenti altri per imparare a osservare gli spazi urbani del presente con uno sguardo diverso, e stimolare a riflettere in modo positivo sul loro futuro, nella certezza che guardare quello che ci circonda quotidianamente in modo critico sia un primo passo nell’intenzione di migliorarlo. La facoltà del fotografo di osservare la realtà in modo personale può fornire ai progettisti nuovi spunti di riflessione: nella storia, infatti, molte missioni fotografiche sono state commissionate fin dal XIX secolo da istituzioni sia private che pubbliche prima dei grandi interventi di trasformazione a scala architettonica e urbana, e non solo per la garanzia di tramandarne la memoria.

Giovanni Bergamini*

babIlonIa: da metropolI a mIto Nel nostro immaginario collettivo, risultato di una sedimentazione plurisecolare di storia e di mito, Babilonia viene identificata attraverso pochi ma suggestivi elementi: la Torre di Babele, i Giardini Pensili, la regina Semiramide. Sono temi in gran parte desunti dalla Bibbia e dalle fonti greco-romane, che reinterpretano con inevitabili distorsioni la più antica tradizione babilonese, espressa in accadico e trascritta in cuneiforme.

la torre dI babele Il mito della Torre di Babele e della confusione delle lingue ha fonte biblica e forse origina da un fraintendimento più o meno consapevole del toponimo in accadico babilonese: Baˉ b- ˉlu ı = “Porta degli Dèi” che si assimilerebbe con l’ebraico bilbél = confusione. Tuttavia, qualcosa dell’antica sacralità babilonese, e dei suoi miti fondanti, come vedremo, traspare: se per i nativi Babilonia costituiva il modello della città primordiale, per la Bibbia si conferma la prima città costruita dagli uomini1. «Ora tutta la terra aveva una sola lingua e parole uguali. Quando vagarono nella parte d’Oriente, gli uomini capitarono in una pianura […] e vi si stabilirono. E si dissero l’un l’altro: […] “[…] Costruiamoci una città e una torre, la cui sommità sia in cielo […] per non essere dispersi sulla faccia di tutta la terra”. Jahve disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una sola lingua; questo è l’inizio della loro opera, e ora non sarà loro impossibile tutto ciò che hanno meditato di fare. […] Confondiamo laggiù la loro lingua, così che essi non comprendano più la lingua l’uno dell’altro”. E Jahve li disperse di là sulla faccia di tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo si chiamò Babel, perché là Jahve confuse la lingua di tutta la terra e Jahve li disperse di là sulla faccia di tutta la terra».

Erodoto, attorno al 458 a.C., aveva a suo modo descritto una torre enorme e massiccia, con otto terrazze sovrapposte e imponenti scalinate esterne, non molto dissimile dall’aspetto di una tipica ziqqurat mesopotamica, ma alcune incongruenze fanno dubitare che lo storico greco abbia mai visitato la città (rollinger 1993; dalley 1996). Mancando di precisi riferimenti visivi, ogni epoca ha immaginato il monumento sulla base del costruito visibile nel contesto contemporaneo: così il Medioevo preferì adattare l’immagine mitica allo skyline tipico del proprio tempo (Fig. 1). Così non manca la Torre ‘esotica’ disegnata da viaggiatori ottocenteschi al cospetto di imponenti vestigia islamiche, come la Malwiyya di Samarra (c. 835 d.C.) (Fig. 2). Curiosamente, la rappresentazione che più si avvicina a forme mesopotamiche non è quella, famosissima, di un Brueghel ma l’opera di un altro fiammingo, Maarten van Heemskerck che sulla fine del ’500 produce per l’officina grafica di Philip Galle una serie di tavole dedicate alle Meraviglie del Mondo (Fig. 3).

* Già Direttore della Missione Archeologica del Centro Scavi di Torino a Babilonia. 1 Gen . 11, 1-9.

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GIOVANNI BERGAMINI

Incredibile a dirsi, l’unica rappresentazione grafica coeva alla torre è una scoperta emersa solo di recente dal mercato antiquario, e di ignota provenienza: una stele che rappresenta il re Nabu-kudurri-usur benedicente il monumento appena completato2 (Fig. 4).

semIramIde e I gIardInI pensIlI Qui entra in campo una grande confusione da parte degli autori classici tra mondo assiro e mondo babilonese: la mitica regina babilonese è il riflesso di una energica sovrana assira: Sammuramat, sposa del re Shamshi-Adad V (811-808 a.C.) e reggente per il figlio AdadNirari III. Il mito di Semiramide grande costruttrice, che non si addice a Sammuramat, si attaglia invece perfettamente al re babilonese Nabû-kudurri-usur, il Nabuccodonosor della Bibbia, che fonti classiche diverse trasformeranno in un’altra mitica regina, Nitokris. Quanto ai Giardini Pensili, non sono citati dalle fonti cuneiformi, lo stesso Erodoto li ignora. Esistevano però nelle città assire (Ninive, palazzo di Sennacherib/Assurbanipal). Celebre era l’orto botanico della corte assira, modellato a forma delle montagne dell’Amano, verso il Mediterraneo, e ricco d’ogni tipo di essenze locali. Forse qualcosa di simile fu realizzato anche a Babilonia, sull’acropoli reale, ma l’archeologia non fornisce indicazioni. Scartata ormai l’ipotesi che vedeva nell’impianto di magazzini all’estremità nord-est del palazzo di Nabuccodonosor le fondazioni dei Giardini, più recentemente Wiseman li ipotizzava nell’area a Nord dei palazzi (Wiseman 1985, pp. 45 sgg.) (Fig. 5).

babIlonIa, la sua storIa e Il suo mIto Fondante Babilonia assume preminenza attorno al 1800 a.C. Hammurapi fu il più energico monarca della Prima Dinastia babilonese e fece di Babilonia la città egemone. Celebre il suo Codice di leggi, non certo il primo ma il più importante, che lo consacrò alla posterità come re di giustizia, cui si atteggiarono monarchi posteriori come Nabuccodonosor in un anelito di recupero del glorioso passato. Purtroppo, non sappiamo nulla della Babilonia del tempo, ormai immersa sotto la falda d’acqua. L’assetto urbano della città più antica si deduce dalle fonti cuneiformi coeve: si estendeva su entrambe le rive dell’Araktu, un ramo dell’Eufrate che scorreva più a ovest. Sappiamo che Babilonia era già percorsa da due grandi vie processionali, di Ishtar e di Nabû, e che esisteva già il tempio di Marduk, l’Esagil (Fig. 6). Nippur, la città santa del gran dio Enlil, aveva schema analogo, secondo una tipologia a quanto pare prestabilita (Fig. 7). Con il sedicesimo secolo a.C. inizia un lungo periodo di crisi: nel 1595 il re ittita Muršili I devasta la città; i Cassiti poi, calati dai monti zagros, dominano fino al 1160. Infine, sommo oltraggio, nel 1158 l’elamita Šutruk-Nakhunte saccheggia Babilonia e ‘deporta’ la statua di Marduk. Non a caso, la stele del codice di Hammurapi, ora al Louvre, fu trovata dagli archeologi francesi nella capitale elamita Susa (Iran).

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Shøyen Collection, Oslo, MS 2063 cfr. http://www.schoyencollection.com/historyBabylonian.html

BABILONIA: DA METROPOLI A MITO

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La riscossa babilonese comunque non tarda: Nabû-kudurri-usur I (1127-1105) finalmente vittorioso sugli Elamiti riporta a Babilonia la statua di Marduk. La fine della ‘cattività’ del dio segna la rinascita di Babilonia come centro politico e religioso preminente. Alla fine di un lungo processo di elaborazione teologica Marduk viene proclamato Re degli Dei (lamBert 1964, pp. 9 sgg.; sommerfeld 1982). Proprio ora viene composto l’Enûma Elish, il poema della Glorificazione di Marduk, o almeno riceve redazione scritta, canonica. Marduk emerge come Dio creatore e ordinatore del mondo, il vincitore del Caos rappresentato dal tremendo mostro marino Tiamat. Babilonia viene idealmente rifondata, divenendo modello urbano e ‘ombelico’ del mondo, sacralizzata e assimilata alla ‘città primordiale’, come riflesso terreno dell’ordine cosmico generato da Marduk. Non è un caso che appaia sempre più probabile la contemporaneità tra l’Enûma Elish, l’Inno sincretistico a Marduk (in cui gli déi del Paese sono concepiti come aspetti singoli della personalità del dio), e la prima redazione organica della serie di testi topografici TIN. ı Queste composizioni avranno un’enorme diffusione nell’Oriente antico, TIRKI= Bab- ˉlu. e costituiranno parte integrante della formazione degli scribi e dei sacerdoti, copiate e ricopiate anche quando la città aveva ormai perso centralità politico-religiosa e mutato la propria fisionomia. Babilonia, secondo i testi Tin.Tir, è opera dell’urbanista divino: Tin .Tir IV 1-4: «E-sag-il, la replica dell’Apsû E-temen-an-ki, la replica dell’E-šarra Nel quartiere Eridu»

Apsû è sede sotterranea dell’antico dio Enki, creatore del mondo, replicata dal grande santuario di Marduk, l’Esagil. E-šarra è la sede dei grandi déi del cielo, replicata a sua volta dalla grande torre a gradoni, E-temen-an-ki, la “casa di fondazione di cielo e terra”. Il cuore di Babilonia è poi assimilato a Eridu, la città primordiale; altri quartieri, come Kullab (parte della vetusta Uruk) avranno il nome delle più antiche città sumeriche, a sottolineare un remoto e venerato retaggio. La cinta di mura che ora forma un quadrato, a suo modo, rifletterà in terra la costellazione IKU, Pegaso (Fig. 8). La serie incessante di guerre tra Assiri e Babilonesi prende buona parte dell’inizio del primo millennio, e culmina nella terribile distruzione di Babilonia da parte delle armate assire di Sennacherib, nel 689 a.C. La Torre viene (parzialmente) distrutta e le macerie versate nel fiume. La potenza assira sarà stroncata dopo qualche decennio da una impressionante successione di eventi culminati nel 612 a.C. nella distruzione delle città e nella strage degli abitanti sotto i colpi di Babilonesi e Medi. Babilonia resta la potenza egemone, erede di un vasto impero; il periodo, detto “neobabilonese”, segna la massima estensione territoriale e la città registra la più ampia espansione urbana. La gestione del potere di Babilonia non è meno dura di quella assira. Nabû-kudurri-usur II (605-562 a.C.) conduce incessanti campagne nel Levante che registrano nel 597 una prima presa di Gerusalemme, e nel 587 l’assedio finale della città, la distruzione del Tempio e la deportazione degli Ebrei. La città fenicia di Tiro dovrà sottomettersi nel 572, dopo ben 13 anni di assedio.

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Il messaggio propagandistico trasmesso da Babilonia è totalmente diverso da quello assiro: non rappresentazioni cruente di assedi, battaglie, esecuzioni di massa, ma un insieme organico di immagini simboliche e rassicuranti, come si conviene a una città santa, in cui vigevano particolari garanzie civili, i kidinnu. In occasione dell’Akˉtu, ı la Festa del Nuovo Anno, le principali divinità del Paese venivano portate in processione, attraversavano la Porta d’Ishtar per sostare alla fine nelle cappelle loro riservate nel santuario di Marduk, l’Esagil. Buona parte del percorso avveniva tra quinte particolari, dalle decorazioni pregnanti di significato. La monumentale rampa della Porta d’Ishtar, decorata con i leoni passanti realizzati in mattoni smaltati (Fig. 9); la Porta stessa, ornata con tori e draghi3 (Fig. 10); la fronte del Palazzo davanti alla sala del trono, adorna di palme e rosette, tutti questi luoghi veicolavano i simboli extratemporali del rinnovarsi della vita grazie a Marduk, e l’affermazione del potere reale fondato sulla sacralità della metropoli egemone. Questo colossale programma decorativo costituisce il primo esempio nella storia di “immagine coordinata” di una città, sviluppata in una prospettiva di livello urbanistico, e l’ideologia sottesa rifiuta il rilievo narrativo, contingente. Babilonia è ora veramente il luogo ‘dove vivere era bello’, la città che i Babilonesi sognavano. La ziqqurat Etemenanki, la “casa di fondazione di cielo e terra”, un colosso alto dai 60 ai 90 m, era sormontata dal tempio alto, color oro e azzurro, che splendeva nel cielo; il recinto del santuario si presentava nei giorni di festa come oggi il cortile della Ka’aba alla Mecca: gremito di pellegrini in visita al Tempio di Marduk. La città al suo apogeo (608-539 a.C.) contava oltre seicentomila abitanti e rappresentava il centro politico e commerciale dell’Oriente antico. Divisa in due da un ramo dell’Eufrate, era tuttavia unita da un ardito ‘ponte di barche’ in muratura: l’invenzione della poderosa macchina da guerra assira si convertiva in monumento della città santa per eccellenza. Il recupero del passato, della gloria di Hammurapi, impronta la cultura e l’arte della dinastia dei re Nabopolassar, Nabuccodonosor, Nabonedo (608-539 a.C.). Si ricostruiscono templi e ziqqurat nello stile antico, e la Processione, nel giorno nel Nuovo Anno, rinnova la vitalità della tradizione. Il segno della continuità è imperativo nelle iscrizioni reali4: «Per il rispetto di Marduk, mio Signore, che il mio cuore nutre, non deviai a Babilonia, la città fedele che amo, il percorso delle vie per ingrandire la mia reggia, non abbattei il mio santuario, non deviai il fiume: per la mia nuova dimora mi feci guidare dal rispetto di tutto ciò che preesisteva».

Impressionanti le opere di difesa, con un nuovo tracciato di mura e nuovi più potenti argini. Babilonia aveva già sofferto devastanti alluvioni, e l’acqua di falda accelerava la risalita. Tutti i templi, le vie principali, i palazzi saranno rialzati di più metri (Bergamini 2008, pp. 7-9). Le iscrizioni reali registrano anche questa preoccupazione. Scrive Nabuccodonosor5: «A Babilonia […] c’era il Palazzo […] che Nabû-aplam-usur […] aveva costruito in mattoni crudi […] a causa dell’innalzarsi delle acque le sue fondazioni erano divenute troppo deboli, e a causa del riempimento della Via delle Processioni […] le porte del palazzo erano divenute troppo basse […] Io ho distrutto le sue murature in mattoni crudi, ne ho dissotterrato la pietra di fondazione e ho raggiunto l’Abzû, la profondità delle acque; in considerazione dell’acqua, ne ho fondato solide le fondazioni portandole ad altezza di montagne […]». 3

Un’iscrizione del re Neriglissar (560-556) svela il significato di questi mostri: «Ho fatto fondere sette selvaggi mush-hush di bronzo che spargono il terrore nel nemico e lo mettono in fuga col loro veleno mortale». 4 Nabuccodonosor: WeissBach 1906: Waˉ di Brîsa I. 5 Nabuccodonosor: K.B. III 2, col. V, 57-VI, 21.

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l’InIzIo della crIsI La dominazione persiana segna uno spartiacque storico per la città. Nel 539 a.C. Dario prende Babilonia senza colpo ferire. Il nuovo potere si insedia nell’antico Palazzo di Nabucodonosor, dove viene costruita una sala ipostila, una apadana, in stile persiano. Sebbene sia prescelta come sede invernale della corte itinerante achemenide, Babilonia ha ormai perduto il ruolo politico dominante. Ricorrenti sono le rivolte, tese a restaurare la monarchia e il potere sacerdotale: nel 522 e nel 521 sotto Dario, con due ribelli che si fanno chiamare Nabuccodonosor III e IV. Altrettanto sfortunata, ma molto più violentemente repressa è la rivolta del 484. Stavolta il re, Serse, è spietato, e punisce la città ‘distruggendo’ la torre e forse anche la statua di Marduk, abbattuta e fusa. Difficile pensare che in questo caso i resoconti delle fonti classiche esagerino la durezza della reazione persiana: la documentazione locale indica che anche le aree abitate paiono soffrire. Non è un caso che buona parte degli archivi cittadini si arresti proprio in quell’anno. Vista l’enorme mole della torre, e l’antieconomicità dell’impresa, è probabile che il re si sia limitato a rendere inagibile il monumento smantellandone le rampe scalari. Quando Erodoto descrive la ziqqurat, attorno al 458 a.C., ne parla in termini relativamente imprecisi forse perché era già stata danneggiata. Un’altra affermazione di Erodoto fa discutere, quando indica il “Tempio di zeus Belos” (cioè il Tempio di Marduk) e il Palazzo rispettivamente su rive opposte del fiume, fatto che non corrisponde alla situazione idrogeologica della città in età neobabilonese. Erano entrambi situati sulla riva sinistra dell’Arakhtu. Gli scavatori tedeschi, sulla base di Erodoto, datarono ad età persiana le tracce – peraltro inconfutabili – di una grande divagazione del fiume che avrebbe rotto gli argini a Nord distruggendo le mura ad oriente della Porta d’Ishtar, per poi scorrere tra i palazzi e il tempio dopo aver interrotto la via delle processioni (Fig. 11). Oggi si tende a scartare questa ipotesi, anche perché nuovi dati sembrano suffragare un assetto urbano sostanzialmente invariato all’epoca. Alcune fonti cuneiformi sembrano invece indicare un momento lievemente posteriore per il dissesto, e una causa non naturale.

la domInazIone macedone tra lucI e ombre Alessandro occupa Babilonia nel 331. Si apre ancora una volta un orizzonte politico nuovo per la città. Nonostante la pietas del nuovo sovrano, che si propone di ripristinare la funzionalità del santuario, l’impresa durerà decenni. Ci fu disinteresse dei Diadochi? É quanto affermano gli storiografi classici più tardi (Str. XVI 1, 5.; D.S. II 9, 9.; Plin. Nat. VI 121-2). Dice Strabone: «Alessandro aveva l’intenzione di riparare questa piramide; ma sarebbe stato un impegno enorme che avrebbe preso molto tempo (la sola ripulitura del cumulo aveva impegnato 10.000 uomini per due mesi), cosicché non poté concludere il progetto; perché subito il re si ammalò e morì. Nessuno dei suoi successori si curò più della cosa; ed anche ciò che restava della città fu tralasciato e ridotto in rovina, in parte dai Persiani e in parte dal tempo e dall’indifferenza dei Macedoni per questo genere di cose, e soprattutto dopo che Seleuco Nicatore aveva fortificato Seleucia sul Tigri presso Babilonia […]»

Le fonti cuneiformi, cioè i Diari Astronomici e le Cronache, ci informano invece che il lavoro proseguì ogni qual volta le risorse e la situazione politico-militare lo permettevano, tanto

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che l’effettuazione o meno delle operazioni di ripulitura del sito divenne un Leitmotiv costante nelle annotazioni cronografiche del tempo. Essenzialmente, queste ci permettono di distinguere due fasi, distinte per potenzialità e per tecnologie messe in campo. Fase I: rimozione con mezzi tradizionali. Si accorda con quanto afferma Strabone circa la forza-lavoro: «10 000 uomini per 2 mesi». Il lavoro tuttavia durò di più; i testi cuneiformi inoltre precisano che le macerie furono scaricate sulla riva Ovest, sull’altro lato del fiume, in luogo non lontano (Diario Astronomico – 321: rev. 14’). Secondo la Cronaca dei Diadochi (ABC 10) le operazioni proseguirono ancora nel 310-9 a.C. « […] per portar via le macerie dall’Esagila ». La sospensione dei lavori è menzionata per gli anni 320 e 311 a.C. ma occorre precisare che diversi anni non sono coperti dalle fonti superstiti. La destinazione finale delle macerie fu comunque il tell di Homeira, all’angolo NE della città interna, molto più lontano, e il trasporto in questo caso richiedeva ben altre risorse. Il nuovo terrapieno, formato da milioni di mattoni con bollo laterizio di Nabuccodonosor, sarebbe poi stato usato per appoggiarvi la cavea del teatro. Le macerie furono ammucchiate per formare un grande argine dove il fiume aveva rotto. Contrariamente a quanto supponevano gli scavatori tedeschi, le difficoltà di un trasporto con mezzi tradizionali via terra sarebbero state quasi insormontabili ed economicamente insostenibili. Altrettanto sconsigliabile un trasferimento per via fluviale, oltretutto controcorrente e attraverso un nuovo alveo ancora instabile. Si può ragionevolmente dubitare che siano queste, anche in parte, le macerie portate via da Alessandro, come è altrettanto ragionevole dubitare della datazione tradizionale – sempre ad Alessandro – della costruzione del teatro che su queste macerie poggia: non esistono prove archeologiche, e stranamente nessuna fonte attribuisce al Macedone un’iniziativa di tale importanza politica. Le fonti classiche insistono invece sulla sua pietas nei confronti dei templi cittadini. Lo sbancamento effettuato nel 1976 in occasione del raddoppio della statale Hilla-Baghdad evidenzia le modalità e le proporzioni gigantesche dello scarico in età antica (Fig. 12). Chi avrebbe potuto intraprendere un tale sforzo? Difficile pensare a Seleuco, impegnato nella costruzione della nuova metropoli, e a quanto pare non molto amato a Babilonia (grayson 1975: ABC 17; grayson 1975a: p. 18). Crediamo di intuirne le ragioni, come vedremo. Il miglior candidato è Antioco I. Gli indizi sono forniti dalla Cronaca della Rovina dell’Esagila (BCHP 6) databile agli anni 297-281 a.C.: Antioco è ancora chiamato il «mâr sharri», “figlio del re”, principe ereditario di Seleuco I Nicatore. Assurgerà al trono nel 281: «Ai Bab[ilon]esi (dell’) [assemblea dell’Esagila egli [offrì do]ni ed essi [organizz]arono un sacrificio sulle macerie dell’Esagila. Sulle rovine dell’Esagila egli inciampò e cadde. Buoi [e ] un’offerta secondo il rito greco egli fece. Il figlio del re, le sue [trup]pe, i suoi carriaggi, elefanti rimossero le macerie dell’Esagila. sul lotto libero dell’Esagila essi mangiarono».

La Fase II contempla una nuova strategia: il padre Seleuco I aveva ottenuto 500 elefanti da Chandragupta Maurya nel 303, alla fine della Campagna Indiana (Str. XV 2, 9). Di essi, 480 furono utilizzati nella battaglia di Isso del 301. All’epoca della cronaca gli animali erano ancora pienamente idonei a un uso civile. La Cronaca della fine di Seleuco, del 281, cita altri 12 elefanti forniti dal «satrapo di Battriana». Il Diario Astronomico – 273B registra altri 20 elefanti indiani, provenienti anch’essi dalla Battriana, usati dallo stesso Antioco I contro i Tolemei nella prima guerra siriaca. L’utilizzo militare e civile di elefanti è documentato nella Mesopotamia seleucide sino al II secolo a.C.

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La nuova possente forza-lavoro permette ora di trasportare l’enorme quantità di macerie ben più lontano, e per via di terra: è l’unico mezzo con cui si poté ragionevolmente realizzare il cumulo di Homeira. Secondo i dati in nostri possesso, la scelta di Homeira appare la più appropriata per rimediare a un gravissimo dissesto idrologico che aveva colpito la parte nord-orientale della città, molto probabilmente ad opera di Seleuco durante la guerra contro Antigono Monoftalmo (311/310 a.C.). L’esondazione del fiume non pare proprio un fatto naturale (Figg. 13, 14). La Cronaca dei Diadochi (ABC 10, BCHP 3) (~ 311/10 a.C.) è terribilmente illuminante nel delineare la situazione: Antigono tiene la città, mentre Seleuco attacca dall’esterno. Entrambi i palazzi sono sotto attacco. Uno di essi è preso. La città è inondata «kıˉma abuˉ bu»,“come il Diluvio” . 4 Alessandro (IV) e Seleuco il generale. Mese Simanu (31 Mag-29 Giu 311) [.. ..] 5 Seleuco [.. .. ..] lo šatammu di Emeslam [.. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. ..] 6 Egli non catturò il palazzo. Quel mese, 30 talenti d’argento, che [. .. .. .. ..] 7 Mese Âbu (29 Lug-27 Ag.). Seleuco, per prendere il palazzo, and[ò a X, le difese con acqua [co]me un diluvio 8 egli spianò e non arginò l’Eufrate. … 13 Quell’anno, le macerie di Esagila n[on furono] rimosse.

Seleuco fece inondare la città interna per minarne le difese, probabilmente rompendo una diga a monte. Scelse il principale punto debole del sistema idrico, a monte del Palazzo Sud, dove le Cronache da secoli avevano registrato instabilità6. Presa la città, non ripristinò gli argini: per anni la parte est di Babilonia rimase senza protezione dalle inondazioni. L’uso delle acque come arma d’impatto è uno stratagemma millenario in Mesopotamia, e qui ha determinato il ‘dissesto irreversibile’ di vaste zone dell’area urbana. La città ne fu sconvolta. Non è un caso che i quartieri nord-orientali scompaiano nelle notazioni cuneiformi. Anche i rispettivi templi non vengono più menzionati (Bergamini 2011, pp. 30 sgg.) (Figg. 15, 16). Numero templi Ovest Est Totale

Età neobabilonese 13 30 43

Età ellenistica 6 11 17

Un tale scompenso non si può spiegare soltanto in base al raffronto tra la completezza documentaria delle fonti neobabilonesi rispetto alla relativa frammentarietà della documentazione di età ellenistica. Del resto, a parte traumi come quelli della guerra tra Antigono e Seleuco o tragedie come il tremendo sacco del 246 a.C. da parte dei Tolemei7, ignoto alle 6

Cronaca religiosa (1033-933 a.C.), copia di età seleucide (ABC 17, BCHP 3): 20’ … il quindicesimo giorno del mese Simanu, nel 18° anno, 21’ quando un’onda d’acqua scese attraverso la Porta d’Ishtar verso l’Eufrate 22’ ed entrò a Babilonia ad ovest e 23’ due soldati furono uccisi. 7 BCHP 11: La Cronaca babilonese ci informa di una popolazione in preda al panico, che si rifugia nelle fortezze, tenta di attraversare il fiume senza successo per trovar rifugio nel palazzo e viene massacrata per le strade mentre le truppe nemiche perpetrano sacrilegi nei templi. A questo punto i redattori fanno trasparire tutta la loro rabbia e disperazione: gli assalitori vengono definiti «Chanei che non temono gli Déi», «che por-

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fonti classiche ma registrato dagli scribi babilonesi, il periodo ellenistico fu caratterizzato da una situazione economica fuori controllo. Fame e carestie ricorrono con inusitata frequenza nelle notazioni cuneiformi, soprattutto nei periodi di massima belligeranza tra i regni ellenistici. Per Babilonia, il rarefarsi delle citazioni relative al tessuto urbano, abitativo e monumentale, può aver significato disgregazione e spopolamento. In età ellenistica la tradizionale “Festa del Nuovo Anno”, celebrata un tempo ogni primavera, si tenne saltuariamente, e di rado un sovrano vi partecipò. Antioco I fu particolarmente solerte, e gli studi attuali lo danno tra i più impegnati a favore della città, per mitigarne il tracollo derivato dal drenaggio di risorse umane ed economiche a favore della nuova capitale Seleucia. L’intervento di Antioco, già devoto al dio lunare Sîn di cui fece restaurare il tempio cittadino, fu risolutivo per il risanamento delle aree disastrate, permise la fondazione del teatro (che, come già detto, nessuna fonte né dato archeologico permette di datare ad Alessandro) e, sulla base di quanto emerso dalla Cronaca del 311, rimediò in parte alla ferita inferta alla città dalla decisione strategica del padre Seleuco che, inviso alla città, aveva optato per una nuova fondazione, più a nord, sul Tigri: quella metropoli avrebbe preso il suo nome. Babilonia, privata di ogni ruolo politico, aveva mutato irrimediabilmente il proprio panorama urbano e, ormai sconvolta, poteva serbare solo nel ricordo e nel rituale l’immagine ideale del passato (Fig. 17). Per molto tempo ancora le tavolette storiche della Topografia di Babilonia continuarono a essere copiate e anche tradotte in greco, come esercizi scribali. Esse non corrispondevano più alla città reale, né tanto meno al modello terrestre dell’ordine divino. La stessa ziqqurat, un tempo elemento ideale di contatto tra cielo e terra, era ormai scomparsa. Spianata l’area dell’antica rovina grazie agli elefanti, la torre non fu più ricostruita: di essa non rimane che una gigantesca orma dentro un pantano (Fig. 18). Babilonia tutta aveva perduto per sempre le connotazioni di città santa, e le stesse ragioni di esistenza come simbolo di una millenaria, coltissima civiltà. La città ‘dove vivere era bello’ non esisteva più, ridotta a una vasta distesa di rovine (Fig. 19). Abbreviazioni bibliografiche Bergamini g. 1977, Levels of Babylon Reconsidered, in “Mesopotamia”, 12, 1977, pp. 111-152. id. 1988, Excavations in Shu-Anna, Babylon, 1987, in “Mesopotamia”, 23, 1988, pp. 5-17. id. 1990, Preliminary Report on the 1988-89 operations at Babylon, Shu-Anna, in “Mesopotamia”, 25, 1990, pp. 5-12. id. 2008, La mission italienne, 1974-1989, in B. André-Salvini (ed.), Babylone, Paris, pp. 529-531. id. 2011a, Fondations dans l’eau (Atti Parigi 2008), in “Studia Asiana”, 9, 2011, pp. 1-21. id. 2011b, Babylon in the Achaemenid and Hellenistic Period: The changing Landscape of a Mith, in “Mesopotamia”, 46, 2011, pp. 23-34. Boiy t. 2004, Late Achaemenid and Hellenistic Babylon, OLA, 136, Leuven. dalley s. 1996, Herodotos and Babylon, in “OLz”, 91, 1996, pp. 525-532. george a.r. 1979, The Cuneiform Text Tin.tirki Ba-bi-lu and the Topography of Babylon, in “Sumer”, 35, 1979, pp. 232-226. tano armi in ferro nei templi» e così via. E il termine “Chanei” (Macedoni), che letteralmente significherebbe soltanto “occidentali”, si carica in questo contesto di un’accezione ancor più negativa, perché nella memoria storica del Paese altri “barbari Chanei” venuti dalla valle dell’Eufrate, cioè dall’Occidente siriano, avevano posto fine a una dinastia babilonese del passato.

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Fig. 1 – Rappresentazione della torre nel Medioevo (da Meister der Weltchronick, c.1370).

Fig. 2a – La torre secondo C. Foster, 1897.

Fig. 2b – La Malwiya di Samarra.

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Fig. 3 – La torre secondo Heemskerck.

Fig. 4 – La stele di Oslo.

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Fig. 5 – I Giardini Pensili secondo Wiseman.

Fig. 6 – Babilonia ai tempi di Hammurapi, secondo le fonti storiche.

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Fig. 7 – Mappa della città santa di Nippur.

Fig. 8 – I quartieri di Babilonia.

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Fig. 9 – I leoni a fianco della rampa della via delle processioni.

Fig. 10 – Tori e draghi alla Porta di Ishtar.

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Fig. 11 – Sistema idrico e dissesti a Babilonia.

Fig. 12 – Il cumulo di detriti di Homeira: sezione di scavo e foto dello sbancamento (6.1.1976).

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Fig. 13 – Homeira: particolare da foto aerea: IAF 1974.

Fig. 14 – Homeira: rilievo topografico 1914.

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Fig. 15 – Distribuzione degli edifici religiosi in età neobabilonese.

Fig. 16 – Distribuzione degli edifici religiosi in età ellenistica.

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Fig. 17 – Babilonia. Foto area IAF 1974.

Fig. 18 – L’impronta della torre. Le aree depresse segnano i contorni delle murature in cotto, smantellate nei secoli.

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Fig. 19 – La “city” babilonese con i principali assi viari, rilievo Istituto italo-iraqeno di archeologia, 1974-76.

Enrico Corti*

la cIttà In uno sguardo: la POlis eusynOPtOs In arIstotele** Nel 1936 Sigmund Freud in una lettera allo scrittore francese Romain Rolland per il suo settantesimo compleanno scrive di un fatto capitatogli nel 1904, «un disturbo della memoria sull’Acropoli», come lui stesso lo definisce. Freud e suo fratello Alexander avevano deciso di trascorrere alcuni giorni di vacanza a Corfù. Giunti a Trieste per imbarcarsi per l’isola greca, ricevono da un collega del fratello di Sigmund il suggerimento di indirizzare il loro viaggio su Atene e quasi involontariamente lo seguono, rinunciando ai precedenti propositi. Racconta Freud (freUd 1989, p. 474): «Quando poi il pomeriggio dopo l’arrivo mi trovai sull’Acropoli e abbracciai con lo sguardo il paesaggio (mein Blick die Landschaft umfaßte), mi venne improvvisamente il pensiero singolare: ‘dunque, tutto questo esiste veramente, proprio come l’abbiamo imparato a scuola?!’»1.

da tucIdIde al FetIccIo urbano Sono a tutti note le parole che Tucidide attribuisce a Nicia nel settimo libro delle sue Storie (77, 7). Siracusa, 413 a.C.: la flotta ateniese è pronta a salpare dal porto Grande, ma un’eclissi di luna spinge Nicia a rinviare la partenza. Di quanto mal fu matre questa decisione: bloccata l’uscita dal porto, i Siracusani battono in due scontri navali gli Ateniesi che perdono così l’intera flotta (VII 69-71). L’esercito ateniese, privato delle navi, è costretto a fuggire via terra – fatto singolare per una città abituata a vincere per mare fin dai tempi di Salamina. Prima della partenza, Nicia passa in rassegna le truppe e, nella perorazione rivolta a soldati ormai scoraggiati, sostiene che città siano gli uomini, non le mura che la circondano o le navi, mura (cioè i sistemi di fortificazione adottati per l’assedio della città siciliana) e navi che l’esercito ateniese aveva appena perduto negli scontri con i Siracusani. Il discorso di Nicia è innervato del topos, che risale almeno ad Alceo (fr. 112, 10 V.), consistente nell’identificazione metaforica fra la città e gli elementi che la costituiscono (in questo caso sono gli uomini a essere la città). Infatti, prima della perorazione, così densa di significato anche per le sue implicazioni ideologiche2, Nicia aveva affermato (VII 77, 4): «guardate voi stessi, quali opliti siete e in quanti avanzate schierati insieme, non fatevi spaventare troppo e pensate che voi sarete subito città (autoi te polis euthys este) ovunque vi fermiate, e nessun’altra città della Sicilia potrebbe facilmente resistere al vostro attacco o farvi andare via, una volta stabilitivi da qualche parte» e poi aggiunge (77, 5): «[…] ciascuno pensi che, se avrà la meglio, non dovrà avere come patria e mura (kai patrida kai teichos) nessun altro luogo se non quello in cui sia costretto a combattere». * Università di Pavia. ** Desidero ringraziare il prof. Cesare zizza per i preziosissimi suggerimenti e il mio maestro, il prof. Diego Lanza, per aver avuto voglia, ancora una volta, di leggere e commentare questo mio scritto che alla sua lezione deve moltissimo. 1 Per un’analisi complessiva di questa lettera si veda vermorel, vermorel 1993, pp. 400-419 e pp. 461590, mentre per le sue implicazioni a proposito del senso del tempo e sul tema delle rovine si veda il saggio di aUgé 2004, pp. 27-32. Sul passo si veda anche matteini 2009, p. 47. 2 Per un esame del passo e per le questioni generali si veda longo 1975 (in part. pp. 91-97).

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Alla luce di queste parole si comprende il senso della parte finale dell’allocuzione di Nicia ai soldati: «sono gli uomini a fare una città, non le mura non le navi prive dell’equipaggio (andres gar polis, kai ou teiche oude nees andron kenai)». Venute meno le condizioni necessarie per prevalere su Siracusa, gli Ateniesi si trovano a vivere quello che Tucidide definì «il più grande mutamento capitato a un esercito greco (megiston to diaphoron)» (VII 75, 7), perché da assedianti si trasformano in assediati in fuga, ormai privi di uno spazio territoriale con il quale identificarsi al punto di considerare patria lo spazio ristretto in cui si trovano a combattere. È stato peraltro notato che le parole di Nicia descrivono una situazione che ricorda da vicino quella presentata da Erodoto nell’imminenza della battaglia di Salamina. Racconta lo storico di Alicarnasso che, dopo che Atene era stata presa dai Persiani, il corinzio Adimanto rivolge un duro attacco a Temistocle che stava cercando di convincere Euribiade, il capo della flotta, a resistere con le navi nel golfo di Salamina. In particolare, definisce Temistocle un apolis, un «senza patria/senza città», dato che Atene era appena stata presa dai Persiani; l’Ateniese reagisce, tuttavia, con parole affini a quelle che saranno pronunciate da Nicia a Siracusa: «gli Ateniesi disponevano di una città e di una terra più grande della loro [dei Corinzi], fintanto che fossero stati in possesso di duecento navi equipaggiate» (Hdt. VIII 61, 2). Le navi garantiscono la sopravvivenza di Atene, anche nel caso di una sua distruzione, secondo un piano politico analogo a quello che sarà proprio di Pericle che, proponendo la rinuncia alla difesa dell’Attica, si esprimeva a favore di una Atene-isola geograficamente protesa, mediante il Pireo, verso il mare e politicamente intenzionata a istituire una talassocrazia (Thuc. I 143, 5, su cui longo 1974). La città, pertanto, non coincide necessariamente con le sue strutture edilizie ma si può identificare con le parti che la costituiscono come il suo esercito o la sua flotta e, qualora uno di questi elementi venga meno, come nel caso della sfortunata spedizione siracusana, essa si identifica con i suoi cittadini. Nel corso del tempo questa famosissima frase (hornBloWer 2008, p. 720), ἄνδρες γὰρ πόλις, καὶ οὐ τείχη οὐδὲ νῆες ἀνδρῶν κεναί, è stata usata, forzandone un po’ la portata ideologica, come chiave interpretativa dell’idea di città del mondo greco (amPolo 1996; schnaPP 1996; flensted-Jensen et al . 2000; giangiUlio 2001; hansen 2012). Con essa solitamente si intende dire che la città antica, prima che di strutture e di edifici, è fatta di persone che la abitano e che, solo in seconda istanza, la edificano in modo funzionale alle loro esigenze. Si può parlare di città solo se esiste qualcuno in grado di considerarla come tale, indipendentemente dunque dalle sue caratteristiche strutturali, come si evince anche dalla celebre descrizione di Panopeo, fatta da Pausania (X 4, 1), un luogo che, benché privo di quegli elementi che convenzionalmente permettono di identificare un’area urbana (ginnasi, teatro, agorà, fontane ecc.), i suoi abitanti non esitano a riconoscere come città, perché ben delimitato da cippi di confine e dotato di un passato illustre, garantito dalla memoria di chi ci vive3. Si tratta di una prospettiva non dissimile da quella espressa, in un contesto molto diverso, dallo psicologo tedesco Alexander Mitscherlich che in un libro del 19654, tradotto in italia3

Su Panopeo si rinvia alla relazione di Luigi Spina e al recente articolo di moggi 2011. A. mitscherlich 1965, Die Unwirtlichkeit unserer Städte . Anstiftung zum Unfrieden, Frankfurt am Main (L’inospitalità delle nostre città . Istigazione alla discordia). A proposito di questo volume si vedano le parole di saragosa 2011, pp. 108-114. 4

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no nel 1968 col significativo titolo di Il feticcio urbano . La città inabitabile istigatrice di discordia, lamentava che le tendenze dell’urbanistica della sua epoca portavano ad avere, complice il pesante ammassarsi di persone nelle metropoli, agglomerati residenziali inospitali, dove un bambino «sopravvive, certo – ma non ci si deve poi meravigliare se non imparerà mai più determinati fondamentali comportamenti sociali, per esempio senso di appartenenza a un luogo e iniziativa» (pp. 23-24 dell’edizione del 1968). E aggiunge: «non sono i bei mobili, i soffici tappeti, le grandi stanze, le finestre luminose, la posizione o l’arte dell’architetto, i fattori in primo luogo decisivi; tutto questo m’è occorso di vederlo in combinazioni addirittura ideali e mai mi sono potuto convincere che quella casa o quell’abitazione fossero per qualcuno veramente una patria. Tale una casa diventa, a mio parere, grazie ai rapporti umani legati a un determinato luogo» (p. 110). Come la città antica, così la città moderna, la «patria» di Mitscherlisch, dunque, può dirsi tale solo se in essa si istaurano fra gli uomini che la abitano delle relazioni sociali e affettive.

la cIttà eusynOPtOs nella POlitica All’interno della Poetica nel dare avvio alla descrizione del primo elemento della tragedia, la systasis ton pragmaton, Aristotele, intenzionato a chiarire le caratteristiche dei racconti ben composti, offre una definizione del bello che merita una certa attenzione. Ciò che è kalon lo è se le parti che lo compongono sono ben ordinate (taxis) e le sue dimensioni o, per meglio dire, la sua estensione (megethos) non sono casuali (lUcas 1968, p. 113). Ma non è tutto: «è sempre più bello», aggiunge Aristotele, «ciò che è più grande finché si mantiene perspicuo nel suo insieme» (1451a 10-11); in altre parole la bellezza (del mythos inteso come trama) presuppone sempre l’esistenza di un osservatore (tois theorousi) capace di coglierne con lo sguardo la giusta estensione, senza perderne di vista l’unità (dUPont-roc, lallot 1990, pp. 212-213). Con un’efficace similitudine Aristotele spiega, infatti, che come per i corpi e gli animali deve esserci una grandezza che sia eusynoptos, cioè abbracciabile con uno sguardo, così deve accadere anche per i racconti che devono avere mekos, una durata, un limite (horos) che ne consenta la memorizzazione. In ambito poetico, dunque, ciò che è eusynoptos è eumnemoneutos5 . Analogamente nella Retorica, parlando della cosiddetta lexis katestrammene, Aristotele definisce periodos, elemento costitutivo di questo tipo di lexis, come «una forma di espressione che abbia di per se stessa un inizio e una fine e una dimensione che possa essere abbracciata con lo sguardo (eusynoptos). Un’espressione di questo genere è piacevole (hedeia) ed è facile da comprendere (eumathes): è piacevole perché si trova nella condizione opposta di quella illimitata e perché l’ascoltatore ritiene di volta in volta di acquistare qualcosa e che qualcosa sia stato concluso, mentre è sgradevole non prevedere o non raggiungere la fine; facile da comprendere (eumathes) perché facilmente ricordata (eumnemoneutos), e questo accade poiché lo stile del periodo ha un numero (arithmos), che è ciò che è più facile da ricordare» (1409a 35-1409b 7; trad. di M. Dorati)6. 5 Del resto che per Aristotele il bello coincida con l’ordine si ricava anche da Metaph., XIII, 1078a 36: «Le più alte forme del bello sono l’ordine (taxis), la simmetria (symmetria) e il definito (horismenon)», dove horismenon ha la stessa radice di horos, che in greco vale sia come ‘limite’ che come ‘definizione’. 6 Una discussione di questo passo nel quadro di una più ampia riflessione sul senso della vista in Aristotele si trova in lanza 2013, pp. 289-290.

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Come si vede, l’estensione ideale di un periodo è quella che ne consente la memorizzazione e che permette all’osservatore di coglierlo nella sua interezza. Le categorie adottate nella Poetica per definire un buon racconto (grandezza e ordine) ritornano nella Retorica per definire la struttura ordinata di un periodo, caratteristica della lexis katestrammene, una forma di elocuzione che nell’opinione di Aristotele ha soppiantato nell’uso l’antica forma, la cosiddetta lexis eiromene, di cui il proemio delle Storie di Erodoto sarebbe un autorevole esempio (1409a 24-34). Passando dal piano poetico a quello politico, le medesime categorie trovano applicazione nella definizione della forma di città nella quale possa realizzarsi la miglior costituzione (ariste politeia)7. Si tratta del settimo libro della Politica, dove Aristotele traccia il profilo della sua proposta di città. Sia detto per inciso che si possono riscontrare analogie tematiche e richiami fra questa sezione della Politica e la Poetica: si pensi, per esempio, all’accenno presente nell’ottavo della Politica (1341b-1342a) a una forma di catarsi (secondo donini 2000, pp. 459-467 da non identificarsi con la catarsi tragica di cui si parla nella Poetica), preannunciando una trattazione più estesa di questo tema in un’opera di argomento poetico8. Ma torniamo al settimo della Politica. Le due condizioni fondamentali, la materia (hyle), di cui il legislatore deve disporre per la realizzazione della città migliore9, sono la fissazione del numero dei cittadini e l’estensione del territorio (plethos politon kai chora)10. A proposito del primo punto Aristotele afferma che è necessario che la città non soffra di sovrappopolamento (1326a 26ss.), perché, in base all’evidenza dei fatti, gli stati ben governati non sono indifferenti al problema della popolazione. E poiché «la legge è una forma di ordine (nomos taxis tis esti)», aggiunge lo Stagirita, «la buona legge è necessariamente buon ordine (ten eunomian anagkaion eutaxian einai)» e, continua con un ragionamento molto vicino a quello proposto nella Poetica, «il bello di solito nasce nel numero (plethos) e nella grandezza (megethos). Per questo è necessario che sia bellissima la città (polis) che ha insieme alla grandezza (megethos) il limite (horos) cui si è fatto riferimento». Ma la consonanza con il pensiero espresso nella Poetica si fa ancora più esplicito nel seguito quando Aristotele scrive: «Ma c’è una misura per la grandezza anche della città, come per ogni altra cosa, animali, piante, strumenti: nemmeno una di queste cose, se troppo piccola o eccessivamente grande, manterrà la propria capacità di agire, ma o rimarrà assolutamente priva della propria natura, o si troverà in un cattivo stato […]. Allo stesso modo una città formata da un esiguo numero di abitanti non è autosufficiente (e la città deve essere autosufficiente), mentre una formata da un numero troppo elevato sarà autosufficiente nelle esigenze indispensabili, come un ethnos, ma non sarà una città, perché difficilmente avrà 7 Parlando, nel quinto della Politica, del giusto mezzo nelle varie costituzioni, Aristotele propone un’analoga similitudine tratta dal corpo umano: come un naso finisce col non sembrare più nemmeno un naso a causa dell’asimmetria provocata da un’eccessiva deviazione così una costituzione democratica o oligarchica non sembra tale se è degenerata e non osserva l’armonia fra le parti (Pol. V 1309b 19-30). 8 Per gli aspetti generali si vedano lord 1982; halliWell 1986, lanza 1987 e donini 2000. 9 A proposito della complessa traduzione di polis, polites e politeia in Aristotele si vedano Berti 2000 e di recente Besso, cUrnis 2011, pp. 67-74 e accattino, cUrnis 2013, pp.147-170. 10 10 Anche per Platone questi sono due aspetti fondamentali nella definizione della sua città: nelle Leggi, infatti, Platone afferma che il territorio dovrà avere dimensioni tali da garantire il sostentamento di persone con un tenore di vita moderato, mentre il numero degli abitanti dovrà essere tale da poter respingere le aggressioni dei nemici e da portare aiuto ai vicini (Lg. 737d). Va tuttavia notato che le scelte lessicali e in generale il tessuto narrativo delle Leggi sono privi di quel rigore definitorio che caratterizza il dettato aristotelico. Sulla lingua di Aristotele si veda Beltrametti 1977.

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una costituzione (politeia) […]. Quindi la prima condizione per l’esistenza di una città è che abbia un numero tale di abitanti che sia il minimo indispensabile per bastare a se stessa in vista di una vita felice (pros to eu zen) in conformità alle esigenze di una comunità sociale (ten politiken koinonian)» (1326a 26-1326b 9)11. La conclusione cui giunge il filosofo, secondo cui «è chiaro, quindi, che il limite migliore (horos aristos) di una città è una crescita della popolazione compatibile con una vita autosufficiente e facilmente abbracciabile con un unico sguardo (eusynoptos)», ci aiuta a comprendere come per Aristotele la perfezione sia sul piano poetico che su quello politico coincida con l’esistenza di una delimitazione – che peraltro a causa dell’ambivalente valore di horos è al tempo stesso una definizione – che presuppone un punto di osservazione e un osservatore. La polis eusynoptos è una città degli uomini e fatta di uomini, che, proprio perché intesa come koinonia ton politon, per esistere richiede vi sia qualcuno in grado di coglierla in quanto tale12. Questo ha delle ricadute anche sul piano della comunicazione, dal momento che solo in una città dotata delle caratteristiche descritte da Aristotele i cittadini possono avere accesso a quella che è stata definita la “comunicazione verbale diretta” (longo 1981, pp. 13-25) e dunque avere accesso in modo ‘immediato’ alle informazioni. È stato notato, infatti, che «l’area di accesso alla comunicazione segna il limite della città greca, la circoscrive e identifica come organismo compiuto» (longo 1981, p. 113). È lo stesso Aristotele a sostenere che una città deve avere delle dimensioni contenute per essere raggiunta facilmente dalla voce dell’araldo, senza che questo debba avere una voce tanto potente quanto quella di Stentore (Pol. VII 1326b 6-7). Le cose stanno in modo sostanzialmente analogo (paraplesios) anche per quanto riguarda il territorio (chora). Dopo aver parlato, infatti, del limite fissato per il numero dei cittadini, Aristotele passa a discutere della seconda condizione fondamentale per la definizione della città migliore, cioè la sua estensione spaziale (1326b 26ss). Così si esprime il filosofo: «La configurazione del territorio (eidos tes choras) non è difficile dire (in taluni punti bisogna dipendere anche da chi è esperto nell’arte militare) che deve essere di difficile accesso (dysembolon) per i nemici, agevole (euexodon) per gli abitanti che la volessero lasciare. Inoltre, come a proposito del numero degli abitanti abbiamo detto che doveva essere tale da poter essere abbracciato con un unico sguardo (eusynopton), ciò vale anche per il territorio: poterlo facilmente abbracciare con uno sguardo (eusynopton) significa poterlo facilmente difendere (euboetheton)». E poco oltre, riguardo alla posizione della città, aggiunge che essa deve avere due requisiti: il primo è che la città sia collocata in modo da avere contatti con tutti i luoghi per poterli difendere e il secondo è che disponga di facili vie di accesso (euparakomiston) per i prodotti dei campi e per la legna. Queste sono le ragioni per le quali, per esempio, Babilonia per le sue eccessive dimensioni non può essere definita polis ma ethnos (moggi 2014), al punto che, scrive Aristotele (Pol . III 1276a 27-30), «di essa [di Babilonia, scil .] si narra che, quando fu presa, al terzo giorno una parte della città non se ne era nemmeno accorta»13. 11 La similitudine fra corpi e città, entrambi composti da parti fra loro proporzionate, si trova già in Pol. V 1302b 34-1303a 2, dove Aristotele discute del fatto che il cambiamento di forma di governo in una città può essere causato dalla crescita sproporzionata di una delle parti che la costituiscono. È già espressa in nuce l’idea che una città deve essere caratterizzata da symmetria e taxis. La similitudine è estesa anche ad altri ambiti quando, per esempio, Aristotele afferma che un’imbarcazione può pregiudicare la sua navigazione se le sue dimensioni non sono adeguate o per eccesso o per difetto (VII 1326b 1-4). 12 Pol. III 1276b1-2. 13 Aristotele trae la notizia da Hdt. I 191, 6. Delle dimensioni di Babilonia Aristotele parla anche in Pol. II, 1265a 15.

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Come si può vedere, nello sforzo di definire le caratteristiche fondamentali della sua città, Aristotele fa largo uso di aggettivi composti con il prefisso eu- che la qualificano in modo tale che sia la migliore in ciascuno degli aspetti presi in considerazione: essa è euexodos, eusynoptos, euboethetos, euparakomistos e – più avanti (1331a 4) – euembolos. Sparsi nella sezione dedicata a questi aspetti della città si trovano altri aggettivi costruiti in modo analogo: parlando della disposizione delle abitazioni private, Aristotele afferma che sarebbe preferibile se essa fosse regolare e ispirata ai moderni principi dell’urbanistica ippodamea e la regolarità è resa in greco con la forma eutomos (1330b 23); nel celebre passo in cui Aristotele propone due agorai per la sua città14, separando nettamente l’agorà con funzioni commerciali da un’agorà di rappresentanza (nUzzo 2011, pp. 231-267), sostiene che questa sarebbe un luogo piacevole (eucharis ho topos) se vi venissero aggiunti i ginnasi (1331a 36) e che l’agorà con funzioni di mercato dovrebbe avere una ubicazione tale da facilitare l’accesso di tutti i prodotti (eusynagagon, 1331b 2). Come la città non debba essere viene espresso sempre mediante prefissazione, ricorrendo a dys- come nel caso di dysembolos del passo prima citato (1326b 41): in questa sezione del libro settimo fanno la loro comparsa forme come dysexodos kai dysexereunetos (1330b 26), dysprosodos kai dysperileptos (1330b 2-3) e dyseisodos (1330b 26), il tutto in relazione ai sistemi difensivi della città. Significativamente la gran parte di queste forme, sia positive che negative, non sembra attestata con frequenza nei testi a nostra disposizione e certamente è scarsissima la loro presenza nella letteratura prearistotelica, tanto che in alcuni casi esse sono degli hapax aristotelici (per esempio, euembolos), mentre forme come euboethetos e euexodos compaiono complessivamente solo tre volte in Aristotele – due delle quali in questa sezione della Politica; vi sono, inoltre, degli hapax assoluti, come eusynagogos o dyseisodos e dysereunetos. Vien dunque fatto di pensare che Aristotele stia disegnando la mappa lessicale della sua città, creando un sistema di qualificazioni autonomo dalla tradizione precedente di argomento politico – quella platonica, per esempio, con la quale non sembra condividere molte forme lessicali (in luogo delle forme platoniche eubatos/dysbatos, attestate in Lg. VI 761a, Aristotele adotta, per esempio, gli aggettivi euembolos/dysembolos15) –, avvalendosi, tuttavia, di espressioni, presenti anche nel Corpus hippocraticum, la cui valenza semantica pregnante in ambito medico viene talora confermata dalla tradizione successiva16. Si pensi ad aggettivi nati probabilmente17 all’interno della scuola medica per l’esigenza di creare una lingua della medicina che si differenziasse dalla lingua letteraria o dalla lingua di altri saperi specialistici, quali: euakestos, eualthes, euanasphaltos, euapolytos, euaporrhytos, euboethetos, eudiexodos, eudiorthotos, euekbatos, euekkritos, euembatos, euembletos, euembolos, euexanalotos, euepaisthetos, eukataschetos, euyperbatos e così via. La maggior parte di questi aggettivi è attestato per la prima volta nel Corpus Hippocraticum

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Sull’agorà in Aristotele si veda moggi 2012. Forma già presente in Xen. Hell. VI 5, 24 per qualificare la Laconia. 16 Euboethetos è, per esempio, attestato in Ps.-Dsc. 8, 4 e 31, 5; Gal . in Hipp . de victu acutorum comm ., 15, 783, 12; Ps.-Gal. Ven . Sect . 19, 528, 3; Aët. XIII 58, 7; Paul. Aeg . Epit . V 36, 1. 17 Non è dato sapere se siano stati effettivamente i medici ippocratici a creare questa ricca terminologia; a loro dobbiamo senz’altro, stante la documentazione disponibile, le prime attestazioni scritte di essa. Che si tratti di neoformazioni è solo una possibilità: in alcuni casi può essere che siano i medici ad aver ricavato da altri ambiti (militare, per esempio) un lessico per arricchirlo di una valenza strettamente medico-scientifica mediante estensioni metaforiche (lanza 1979, p. 118). 15

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e ricorre unicamente nelle opere di medici, quali Dioscoride, Eroziano, Areteo, Galeno, Oribasio, Ezio di Amida, Paolo di Egina. A conferma della stretta relazione tra lessico medico18 e lessico aristotelico si osservi che, per esempio, la forma euboethetos, cui si è già fatto riferimento, compare in Hp. Acut., 5, 15, e in Arist. Probl. 862b 6 con il valore di ‘facilmente curabile’, mentre in Arist. Pol. 1327a 3 e 1327a 27 con il significato di ‘facilmente difendibile’ (van BrocK 1961, pp. 245-246). Del resto, non meraviglia la presenza in opere schiettamente politiche di espressioni comuni all’ambito medico-scientifico19 dal momento che l’autore è anche un esperto di anatomia, come ben dimostrano le capitali opere aristoteliche di argomento zoologico, specie la Historia animalium (lanza 1972, pp. 417-423; lanza 1979, p. 113). Quale che sia l’origine di questo lessico, il ricorso a composti in eu-/dys- (lanza 1979, p. 95) in opere tecniche (in questo caso di argomento politico e medico20) sembra rispondere a un intento definitorio e alla volontà comune tanto al Corpus Hippocraticum21 quanto alle opere aristoteliche di fornire una nomenclatura. Insomma, descrivendo la polis come holon e come koinonia di cittadini Aristotele ne propone quelle che, secondo lui, sono le caratteristiche fondamentali che garantiscano ai cittadini (a patto che siano homoioi, accattino 1986, pp. 6-9) il miglior tipo di vita, cioè la felicità come esercizio della virtù. Dal quadro delineato dal filosofo si ricava che all’aggettivo eusynoptos, più volte utilizzato per descrivere le dimensioni della città e l’entità del popolazione, egli attribuisce un valore semanticamente rilevante coerente con l’idea stessa di città alla base della Politica.

Isocrate, la Paideia e la cIttà eusynOPtOs Pur a fronte dello scarso numero di occorrenze di questo aggettivo (eusynoptos), si può comunque osservare che l’ambito nel quale esso viene usato con maggiore frequenza, in coerenza con il suo valore etimologico, è quello delle indicazioni spaziali, di cui l’uso aristotelico è un’estensione figurata; ciò appare chiaro anche da altre testimonianze grosso modo contemporanee a quella di Aristotele. Si tratta di un passo della Contro Ctesifonte di Eschine e di uno dell’Antidosis (Sullo scambio) di Isocrate. Il passo eschineo non sembra particolarmente utile per questo discorso, perché l’autore assegna all’aggettivo eusynoptos una valenza piuttosto neutra, legata al contesto geografico della descrizione della pianura di Cirra: «Mi venne però in mente di far menzione dell’empietà degli abitanti di Anfissa nei riguardi della terra sacra, e dal posto in cui stavo ritto in piedi la mostravo agli Anfizioni; la pianura di Cirra si trova, in effetti, ai piedi del tempio ed è facile da abbracciare con un unico sguardo». Eschine usa questo aggettivo con il valore di ‘ben 18 Sulla lingua della medicina e le sue relazioni con la produzione letteraria si vedano van BrocK 1961; dUmortier 1975; lanza 1972, pp. 407-412; lanza 1979, pp. 88-125; mazzini 1997; gUardasole 2000; sconocchia 2004. 19 Tale caratteristica non meraviglia, anche tenendo conto del precedente rappresentato da Tucidide, che per primo introduce il lessico medico-scientifico in un’opera di carattere storico-politico. Si veda, per esempio fantasia 2003, pp. 431-441. Tucidide del resto è un punto di riferimento imprescindibile per Aristotele, come è stato chiarito da amBaglio 2010. 20 Utile esempio della fecondità di questo procedimento di arricchimento lessicale si trova in Hp. Alim . 28 (van BrocK 1961, p. 185): euanasphaltoi/dysanasphaltoi. 21 Anche se Lanza ritiene che complessivamente nelle opere ippocratiche l’intento classificatorio e nomenclatorio sia meno cogente rispetto a quello presente nelle opere aristoteliche (lanza 1979, p. 115).

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visibile’, anticipando il sistematico impiego polibiano sia della forma eusynoptos (peraltro, attestata solo due volte: V 24, 6 e VI 41, 9) che della forma synoptos (p. es. I 76, 2; II 28, 9; VII 17, 4; XI 12, 1; XIV 10, 5; XXI 28, 7): in tutti i casi l’aggettivo significa, infatti, ‘ben visibile’, così come la forma dyssynoptos, attestata due volte soltanto (III 84, 2 e VIII 26, 7), significa ‘scarsamente visibile’. Al contrario, il passo tratto dall’orazione di Isocrate merita maggiore attenzione. Scrive il retore: «Non c’è da stupirsi se alcuni degli studi liberali non siano conosciuti e vengano trascurati, e che alcune persone se ne siano fatta un’idea sbagliata: infatti, noi ci troviamo ad avere questa disposizione d’animo sia riguardo a noi stessi sia riguardo a moltissime altre cose. La nostra città che peraltro è ora ed è stata in passato fonte di molti benefici tanto per i suoi cittadini quanto per gli altri Greci ed è piena di tante delizie presenta tuttavia questo notevole svantaggio: a causa delle sue dimensioni (megethos) e del numero dei suoi abitanti (plethos ton enoikounton) non si riesce ad abbracciarla con uno sguardo (eusynoptos) né con precisione, ma, come un torrente, qualunque cosa le capiti di afferrare, siano persone o cose, li porta via con sé e assegna ad alcuni una fama contraria a quella a loro adatta, proprio come è accaduto al nostro sistema di educazione» (Isocr. Ant. 171-172). Argomento centrale del discorso Sullo scambio è la difesa della paideia. Si tratta di un discorso giudiziario fittizio (nicolai 2004, pp. 49-58; Pinto 2003, pp. 10-14), in cui Isocrate, attorno al 354, come si ricava da un’indicazione interna all’opera (Ant. 9), compie l’apologia del suo magistero, reagendo, come sostengono alcuni studiosi, anche al corso di retorica tenuto da Aristotele nell’Accademia. Sarebbe, infatti, datato al periodo del primo soggiorno ateniese del filosofo proprio un presunto scontro fra Aristotele e Isocrate (Pinto 2003, pp. 62-63). Per quanto questo discorso sia incentrato sul tema dell’educazione, sono numerosi i richiami all’ambito politico presenti nell’opera, al punto che in uno dei manoscritti della tradizione isocratea, il Laurenziano plut. 87.14 (prima metà del XIII secolo), contenente solo undici orazioni, il discorso Sullo scambio è accorpato a quelli di argomento politico e chiude la collezione (Pinto 2003, p. 50 e p. 62). Nel passo proposto Isocrate svolge un confronto fra l’ambito politico e quello dell’educazione, accomunando i destini della sua paideia a quelli della polis di Atene. In breve, le eccedenti dimensioni della polis, da tutti riconosciuta storicamente come un punto di riferimento, la portano a ottenere una fama contraria a quella che le spetterebbe. Se eccedere un dato limite rappresenta un difetto, significa che, secondo Isocrate, una buona polis dovrebbe rimanere entro certe dimensioni, cioè dovrebbe essere ‘abbracciabile con uno sguardo’. Significativamente essa deve essere eusynoptos tanto nella sua grandezza (megethos) quanto nell’entità della sua popolazione (plethos ton enoikounton), come affermato da Aristotele che, nei passi del settimo della Politica già esaminati, dice che territorio (chora) e numero dei cittadini (plethos ton politon) debbono essere appunto eusynoptos. Impossibile stabilire se esista una relazione diretta fra le parole di Isocrate e il pensiero della Politica aristotelica. È probabilmente da escludere che all’epoca della composizione dell’Antidosis Aristotele avesse già tracciato le linee della sua ‘città ideale’ in quelli che con la tradizione sono divenuti settimo e ottavo libro della Politica (per quanto, secondo alcuni studiosi, essi dovessero appartenere al nucleo più antico dello scritto aristotelico, al punto da essere collocati subito dopo il terzo libro22). 22 neWman 1902 nel suo commento colloca settimo e ottavo libro della Politica dopo il terzo, facendo così scalare quarto, quinto e sesto (vedi in particolare pp. XXXIV-XXXVI).

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Certo però la consonanza è molto forte. Si trattava probabilmente di concetti e categorie comuni a diverse scuole e presenti nel dibattito politico ateniese di V e IV secolo sul tema della città, di cui le opere di Platone, Isocrate e Aristotele offrono un’ampia testimonianza. Del resto, sono molti i punti di contatto fra il pensiero politico di Isocrate e quello di Aristotele23: per esempio, nell’Areopagitico Isocrate immagina che il demos ceda il governo a coloro che, essendo in grado di vivere nella scholé, sono naturalmente destinati a ricoprire i ruoli di comando, «chi ha tempo e mezzi sufficienti deve occuparsi degli affari pubblici» (Areop., 26); a sua volta, Aristotele afferma che in una città che voglia essere governata con delle buone leggi ci deve essere il tempo (scholén) di non pensare continuamente a procurarsi il necessario per vivere (Pol. II 1269a 34-35) e in numerosi altri passi afferma che i migliori, cioè coloro che sono destinati a governare, devono disporre della ricchezza, la condizione necessaria per la libertà dalle preoccupazioni giornaliere (Pol. II 1273a 33-37; VII 1329a 1-2; 1334a 11-14). Ancora, come Isocrate nell’Areopagitico (35) ritiene che la proprietà privata vada mantenuta, così Aristotele nella Politica critica (II 1262b 37-1263b 41) il progetto collettivistico della Repubblica di Platone. Infine, non pare privo di significato il fatto che, come per Isocrate in città debba regnare la sophrosyne (gastaldi 2000, pp. 446-457), così Aristotele sostenga, in una sezione della Politica assai vicina al pensiero isocrateo, che la città debba essere sophron (VII 1334a 19).

vedere e rIcordare Ciò che accomuna ogni riflessione dei Greci sulla città è la presenza di un modello di città presupposto, una sorta di paradigma ‘mentale’, come quello che induce Freud a riconoscere e ricordare nell’Atene abbracciata con lo sguardo dall’Acropoli (una città dove ancora era visibile un perimetro perché non si era ancora estesa, come oggi, a perdita d’occhio) l’Atene studiata sui libri. Come i Greci di V/IV secolo avevano in mente il sistema poleico a loro famigliare, cioè un’organizzazione politica essenzialmente caratterizzata da rapporti faceto-face, dove inevitabilmente erano le relazioni fra i cittadini a determinare la misura stessa della città e le caratteristiche delle sue istituzioni, così nelle epoche successive la riflessione sulla città ha dovuto tenere conto di ciò che di volta in volta si intendeva per città; tanto per il senso comune quanto per la speculazione politico-filosofica la polis è rimasta comunque un parametro, benché spesso implicito, così come in ciascuno rimane nella mente un modello implicito di città tratto dal proprio vissuto. Eusynoptos è dunque sia ciò che si può abbracciare con uno sguardo sia, conseguentemente, ciò che ci si è fissato nella memoria e che per noi rappresenta un paradigma. Come in fondo già diceva Aristotele, eusynoptos è la premessa di eumnemoneutos e, proprio in virtù di questo, eusynoptos è anche la molla che fa scattare la sorpresa di Freud che ricordava ancora prima di aver visto. Alla città come paradigma, ben fissato nella memoria, allude anche Marco Polo in un passo fortemente evocativo della cornice de Le città invisibili (VI) di Italo Calvino24:

23 In generale si veda gastaldi 2000. Si possono rintracciare punti di contatto fra i due anche in altri ambiti, come viene sottolineato, per esempio, a proposito della nozione di metafora in gastaldi 2002, p. 83. 24 I. calvino, Le città invisibili . Presentazione dell’autore con uno scritto di Pier Paolo Pasolini, Milano 2012, pp. 85-86 .

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– Ti è mai accaduto di vedere una città che assomigli a questa? – chiedeva Kublai a Marco Polo sporgendo la mano inanellata fuori dal baldacchino di seta del bucintoro imperiale, a indicare i ponti che s’incurvano sui canali, i palazzi principeschi le cui soglie di marmo s’immergono nell’acqua, l’andirivieni di battelli leggeri che volteggiano a zigzag spinti da lunghi remi, le chiatte che scaricano ceste di ortaggi sulle piazze dei mercati, i balconi, le altane, le cupole, i campanili, i giardini delle isole che verdeggiano nel grigio della laguna. L’imperatore, accompagnato dal suo dignitario forestiero, visitava Quinsai, antica capitale di spodestate dinastie, ultima perla incastonata nella corona del Gran Kan. – No sire, – rispose Marco, – mai avrei immaginato che potesse esistere una città simile a questa. L’imperatore cercò di scrutarlo negli occhi. Lo straniero abbassò lo sguardo. Kublai restò silenzioso per tutto il giorno. Dopo il tramonto, sulle terrazze della reggia, Marco Polo esponeva al sovrano le risultanze delle sue ambascerie. D’abitudine il Gran Kan terminava le sue sere assaporando a occhi socchiusi questi racconti finché il suo primo sbadiglio non dava il segnale al corteo dei paggi d’accendere le fiaccole per guidare il sovrano al Padiglione dell’Augusto Sonno. Ma stavolta Kublai non sembrava disposto a cedere alla stanchezza. – Dimmi ancora un’altra città, – insisteva. – … Di là l’uomo si parte e cavalca tre giornate tra greco e levante… – riprendeva a dire Marco, e a enumerare nome e costumi e commerci d’un gran numero di terre. Il suo repertorio poteva dirsi inesauribile, ma ora toccò a lui d’arrendersi. Era l’alba quando disse: – Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco. – Ne resta una di cui non parli mai. Marco Polo chinò il capo. – Venezia, – disse il Kan. Marco sorrise. – E di che altro credevi che ti parlassi? L’imperatore non batté ciglio. – Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome. E Polo: – Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia. – Quando ti chiedo d’altre città, voglio sentirti dire di quelle. E di Venezia, quando ti chiedo di Venezia. – Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia. – Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi dalla partenza, descrivendo Venezia così com’è, tutta quanta, senza omettere nulla di ciò che ricordi di lei. L’acqua del lago era appena increspata; il riflesso di rame dell’antica reggia dei Sung si frantumava in riverberi scintillanti come foglie che galleggiano. – Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano, – disse Polo. – Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d’altre città, l’ho già perduta a poco a poco.

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monologo della cIttà e dIscorsI del cIttadIno nella grecIa antIca «Abitare…Uno strano verbo a pensarci bene. Si associa agli abiti, e alle abitudini. Mi piacerebbe che ogni città fosse come un abito, la si indossa, poi se ne esce e la si posa su una sedia, facendo attenzione che non si sgualcisca per poter tornare a indossarla. Una città è fatta anche di abitudini; ogni città è composta di abitudini diverse per la stessa persona. Una città è anche un posto che serve a nascondersi». Sono parole di Italo Calvino, tratte da una risposta a un questionario, apparse su L’Europeo, allora settimanale, nel novembre 1980. Italo Calvino ha giocato spesso, alla fine del 1972, sul titolo del libro che stava per pubblicare (calvino 1972), Le città invisibili. «Forse», dice in una sorta di auto-intervista pubblicata su vari giornali fra ottobre ’72 e gennaio ’73, «Forse il vero senso del mio libro potrebbe essere questo. Dalle città invivibili alle città invisibili». Per chi non avesse mai letto quel libro di Calvino, il mio è un invito a leggerlo; per chi l’avesse già letto, a rileggerlo. Ma è anche un invito a curiosare, per riprendere, per così dire, i contatti con Italo Calvino – un po’ colpevolmente allentati negli ultimi anni – nelle sue interviste rilasciate tra il 1951 e il 1985, pubblicate da Mondadori nel 2012, a cura di Luca Baranelli e con una introduzione di Mario Barenghi, col titolo: Sono stato in America. Un incontro con un vero scrittore è un appuntamento da non mancare. Tanto più che proprio nel 2012, in occasione di un concorso di scrittura che ha coinvolto i licei del Veneto, la classe II C del liceo XXV aprile di Portogruaro ha partecipato (ricevendo una menzione particolare) con brevi composizioni che riecheggiavano le città invisibili di Calvino: Aguratrat, Aracnia, Cetralia, Gargalia, Intralia, Tesselia1. L’influenza dei classici, del mondo antico, di Greci e Romani, ma dovremmo anche dire di Greche e Romane, classici immersi e calati anche spregiudicatamente nella nostra realtà quotidiana, continua, a dispetto di allarmi di crisi incombenti, che pure sono spesso realistici. Ma torniamo alle nostre città, a città e cittadini, poleis e politai. Nella bibliografia molto affollata sulla polis si può scegliere, ovviamente, seguendo sia le proprie inclinazioni sia le ricostruzioni più prudenti e plausibili, e anche quelle più chiare, anche se non per questo meno problematiche. Vi offro, dunque, solo due consigli di lettura, M. Giangiulio, Alla ricerca della polis, e il recente C. Bearzot, I Greci e gli altri . Convivenza e integrazione (giangiUlio 2001; Bearzot 2012). Mi sono spesso chiesto quale fosse il suono, il sound, per dirla in termini musicali, delle città antiche; la fonosfera, per dirla con Maurizio Bettini (Bettini 2008, pp. 3-8), il quale dà una prima, approfondita risposta antropologica a questo quesito. Faccio subito un esempio sul * Università di Napoli “Federico II”. 1 Ho avuto il grande piacere di essere presidente della Giuria. I testi premiati sono pubblicati sul n. 14 dei Quaderni di Agorà, a c. di S. Strazzabosco, dall’assessorato alla cultura del comune di Vicenza (2012). L’iniziativa complessiva, Classici Contro, curata da Alberto Camerotto e Filippomaria Pontani, grecisti dell’Università di Venezia Ca’ Foscari, ha già al suo attivo una pubblicazione (camerotto, Pontani 2012) e si è riproposta ad aprile 2013 con due vivacissime giornate culminate nelle due serate al Teatro Olimpico di Vicenza. Notizie, testi e video sul sito: http://classicicontro.wordpress.com. L’iniziativa è continuata anche nel 2014.

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quale avevo riflettuto qualche anno fa (sPina 2002). Un famoso frammento lirico di Alcmane (159 Calame; 89 Davies), messo in musica anche da Angelo Branduardi (“Dormono le cime dei monti, dormono le valli, i mostri degli abissi del rosso mare ecc.»), è stato ripreso, imitato, alluso e così via fino ai nostri tempi, da Dante a Milton, da Goethe a Auden. Ebbene, siamo sicuri che sia sempre lo stesso silenzio notturno quello del quale leggiamo e che immediatamente ci raffiguriamo e ascoltiamo? È possibile, cioè, che una notte (o un pomeriggio) dei tempi di Alcmane potesse avere le stesse risonanze uditive, visive, culturali, di una notte goethiana o di un notturno inglese del Novecento? Qualcosa vorrà anche dire il rombo di un aereo, o il fischio di una locomotiva a vapore, o altri rumori impensabili in altre epoche; qualcosa anche lo sguardo del poeta ‘industriale’, ‘tecnologicamente avanzato’: una riflessione, questa, che può essere corroborata, e contrario, forse, solo dal riferimento a una distanza spaziale e non più solo temporale, per esempio le notti della savana africana, quel ‘silenzio ferino’ al quale, chi l’ha provato, racconta che è molto difficile abituarsi. Insomma, intitolando questa conversazione Monologo della città e discorsi del cittadino, quasi un omaggio alla parola, al suo suono mentre si diffonde nello spazio della città antica, spazio politico e non solo letterario, ho pensato anche a questa distanza, a questa diversità, che può aiutarci, se tenuta presente nelle nostre letture, analisi, ricerche, a comprendere meglio sia il passato che il nostro presente. Torniamo per un attimo a quell’ultima frase di Calvino: «Una città è anche un posto che serve a nascondersi». Ebbene, come non associarla subito alla città moderna, alla nostra città e alle possibilità che abbiamo di nasconderci nei suoi luoghi esclusivi, ma anche risentirvi dentro l’eco di una famosa massima prescrittiva epicurea (fr. 511 Usener), lathe biosas, quel ‘vivi nascosto’ con traduzione sintetica ed efficace, che rappresenta il contraltare, l’antidoto, al politeuesthai del cittadino greco, almeno nei decenni precedenti, all’attivismo quasi per mestiere di cui Pericle, nel famoso epitaffio, sembra tracciare i contorni, forse solo ideologici. Ricordate? Tucidide II, 40: «Siamo i soli a tacciare non solo di disimpegno, ma di inettitudine chi a nulla di ciò [cioè affari privati e pubbliche incombenze] prende parte» (trad. O. Longo). La città, dunque, come spazi e come elemento umano, i cittadini. Gorgia, il retore di Lentini, nostro antico compatriota, apre il suo Encomio di Elena proprio con l’omaggio a un modello di città: è il primo termine del suo elenco di eccellenze, cui vengono opposti i relativi disvalori: per la città, per la polis, il kosmos, cioè l’equilibrio delle sue parti, la perfezione strutturale, il valore ordinatore, è costituito dalla euandria, da una compagine di uomini di valore. Eccola, la città del V secolo, vista sia ad Atene che dalla periferia delle colonie. Ma sentiamo anche cosa pensa, qualche secolo dopo, Pausania il Periegeta, nella sua Guida della Grecia, un geografo dei tempi antichi (siamo già in pieno Impero Romano): sta parlando di Panopeus (X 4, 1), che chiama città della Focide, a venti stadi da Cheronea, sempre che, riflette Pausania, si possa dare il nome di polis a chi (toutous) non possiede sedi del comando/potere: ginnasio, teatro, agorà, né acqua corrente da una fontana, ma vive in dimore spoglie, quasi capanne di montagna, presso un corso d’acqua. Il nome di città si dà dunque a raggruppamenti umani purché abbiano determinate caratteristiche abitative e architettoniche (edifici e risorse naturali). Vero è, continua Pausania, che gli abitanti di Panopeus hanno confini che li dividono dai vicini e inviano dei delegati all’assemblea dei Focesi. Funzioni sovrapolitiche, però – uso questo termine nel senso di funzioni che superano lo spazio della singola polis, investendo un territorio più ampio –, assegnano a questo gruppo, a questa comunità, la stessa identità di una polis che abbia edifici e risorse naturali.

MONOLOGO DELLA CITTà E DISCORSI DEL CITTADINO NELLA GRECIA ANTICA

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L’osservazione mi pare vada tenuta presente, anche se siamo già molto avanti nella storia del fenomeno polis. E forse si può ricordare un’osservazione simile in campo romano, di un paio di secoli prima, nel de officiis di Cicerone (I 17, 53, utilizzo la recente traduzione di Rosa Rita Marchese), all’interno di un’antropologia delle forme sociali: «[Forma] ancora più ridotta [della società umana] è quella degli appartenenti alla medesima comunità (eiusdem esse civitatis); molte cose infatti sono comuni ai cittadini tra loro, come il foro, i templi, i portici, le vie, le leggi, il diritto, i processi, i voti, e inoltre le consuetudini e i rapporti di familiarità, e i rapporti contratti da molti con molti altri». Anche in questo caso, luoghi strutturati e contatti umani, in rapporto interattivo fra loro. Infatti, gran parte di questi luoghi è legata a pratiche di discorso, da quelli pubblici, sedi di attività collettive istituzionali, a quelli privati. Non solo: alla contiguità dei luoghi fisici (Oddone Longo, uno dei maestri della lettura dell’antichità con occhi e saperi moderni, ha parlato spesso del teatro greco come metafora spaziale della polis), alla contiguità dei luoghi fisici, a volte plurifunzionali e intercambiabili, si accompagna la contiguità dei discorsi: politico e teatrale, giudiziario e medico, filosofico e celebrativo. Nella città classica, inoltre, il discorso entra a far parte dello scenario architettonico: l’ambiente epigrafico che si offre agli occhi e alla lettura (ad alta voce) del cittadino alfabetizzato, con l’esibizione di decisioni o di formule sancite e valorizzate anche dalla scrittura, rappresenta la prova evidente di una stratificazione storica, dà le coordinate di una memoria non solo più orale. Perfino nella mitica Atlantide l’immaginario greco prevede che l’attività politica e giudiziaria, ristretta ai dieci re, si svolga intorno alla colonna di oricalco, custodita nel centro dell’isola, nel tempio di Posidone, sulla quale sono scritte la legge e le lettere dei primi re (lo racconta Platone nel Critone, 119 c-d). Ecco quello che ho chiamato il monologo della città, prendendo a prestito l’efficace espressione da uno studio dello storico francese Jean-Marie Bertrand (Bertrand 1985), della città che si autorappresenta, anche attraverso graffiti, iscrizioni funerarie e altri testi incisi ed esposti alla vista e alla lettura di cittadini e stranieri. Il discorso epigrafico, nel quale la città si pone quasi come sovra-autore e voce recitante, a sintesi delle voci dei suoi cittadini, costituisce una sorta di arredo permanente, a un tempo premessa e conclusione dei discorsi del cittadino, del dialogo che lo impegna quotidianamente con altri cittadini. E non solo negli spazi deputati, che abbiamo sentito (anche se in traduzione) elencati sia in lingua greca che latina, da Pausania e da Cicerone. Non solo, tengo a ribadire, perché, se è vero che la polis continua a essere una città di logoi, un osservatore, per quanto distante nel tempo, che voglia coglierne le tracce trova molto più comodo seguirle e annotare, contemporaneamente, i ‘caratteri’ dei parlanti. Proprio quello che fa Teofrasto, negli ultimi anni del IV secolo, dando vita a una carrellata di voci, oltre che di personaggi. Voci, perché la gran parte dei Caratteri, se ci pensate, hanno a che fare con la parola, con discorsi, privati, pubblici, ma in questo senso sempre ‘politici’. Esemplari alcune figure: quella del logorroico (Char. VII, lalos), che attraversa, disseminando discorsi, tutti gli spazi della città, da scuole e palestre, dove impedisce ai maestri e agli istruttori di fare lezione, riempiendoli di chiacchiere; al tribunale, dove impedisce di giudicare; al teatro, dove impedisce di assistere alla rappresentazione; ai banchetti, dove impedisce di mangiare. Per non parlare delle notizie politiche che riporta dall’assemblea, riferendo anche i discorsi che ha fatto lui stesso tra i consensi del demos. O la figura del mitomane (Char . VIII logopoios) che riempie la città delle ultime novità politiche e militari, quasi lontano e indegno erede del forestiero latore delle notizie sul disastro di Sicilia, che, come racconta Plutarco nella Vita di Nicia (30) le comunicò a un

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barbiere, che subito le diffuse nell’agorà, subendone le conseguenze; ma su questo episodio ritornerò. Quanto all’oligarca (Char. XXVI oligarchikos), contraltare del philoponeros (Char. XXIX), rimane il tipo politico più marcato – quasi l’ipostasi del cosiddetto vecchio oligarca pseudo-senofonteo, esperto anche lui, come i retori di professione, di citazioni omeriche, anche se il suo patrimonio memorizzato si riduce a un solo verso, quello sull’esaltazione dell’unicità del capo (Il. II 204), e i suoi discorsi più compromettenti si rivolgono solo a un ristretto uditorio, a lui omogeneo. I ‘caratteri’ teofrastei, nella loro insistita mimeticità vocale e gestuale, hanno certamente a che fare con le tipizzazioni del teatro comico. Ma costituiscono, al tempo stesso, l’accurata semiologia di una città che va, per così dire, spoliticizzandosi, e affida a una circolazione incontrollabile di discorsi concitati, di comunicazioni interpersonali condotte nel segno di iperboliche nevrosi, il nobile lascito dei discorsi della comunità, approdati ormai a luoghi più tranquilli, le scuole, o a occasioni più estemporanee, le chiacchiere dell’agorà. La città sembra, allora, poter sopportare la confusione dei discorsi, delle voci e delle lingue, senza subire, forse, particolari contraccolpi, perché già in via di trasformazione sono la sua struttura e coesione sociale2. Pensiamo, invece, nel secolo precedente, alla lucida analisi di Tucidide sulla stasis di Corcira (III 82.4), analisi della rottura anche comunicativa nella comunità, quando cioè le stesse parole che prima valevano per tutti (o quasi), assumono significati e valori diversi e contrapposti. Per una polis greca dominata dalla stasis, questo riflesso linguistico/semantico è ai limiti della sopportabilità. La scomposizione del blocco dei cittadini in fazioni, ciascuna con la propria valutazione di come ci si debba comportare, se non addirittura con il proprio lessico, è la negazione stessa della polis, almeno per quelle posizioni, che, certo, abbellite e nobilitate dall’ideologia democratica, mirano a rappresentare il patrimonio unico e indivisibile della comunità cittadina. Situazioni e riflessioni che, senza voler attualizzare nulla, non sono del tutto estranee ai nostri problemi politici, o ai problemi di quella che ancora siamo in qualche modo costretti ad accettare come la politica che ci governa o vuole governarci. La divaricazione che Tucidide segnala non è fra un passato accettabile e un presente deteriore, ma all’interno dello stesso presente. Certo, i suoni verbali della città non hanno sempre la struttura ordinata dei discorsi, per quanto differenti e contrapposti possano essere quelli dei cittadini. I discorsi pubblici che circolano nella città vanno, infatti, ‘sporcati’ e mescolati, soprattutto quelli affidati all’orecchio delle masse, con altre vocalità e sonorità, non recuperabili certamente attraverso l’ovattata ricostruzione filologica di un testo classico. Della prassi oratoria assembleare del IV secolo, come ci ricordano, a esempio, i frequenti riferimenti demostenici, fanno parte anche le interruzioni, il brusio del thorybos, le cacciate di oratori dalla tribuna, il vociare degli oppositori, quei fenomeni di contestazione organizzata che ha in mente Iperide (Adv . Dem . col. XII 14-16), quando evoca i “signori del tumulto e dell’urlo”, i retori “minori”, che operano al seguito degli oratori più importanti. Se, dunque, saremo capaci di non sovrapporre l’immagine di un’oratoria politica filtrata attraverso il testo scritto alla realtà di una pratica assembleare regolata da tattiche di gruppi consolidati, da presenze più continue ed esperte, da capacità estemporanee di controllo dell’uditorio deliberante, coglieremo anche il rapporto dialettico che si riproponeva fre2 I volumi di Diego Lanza e Mario Vegetti (e non è solo un omaggio all’università pavese), da L’ideologia della città ad Aristotele e la crisi della politica, sono stati riferimento fecondo per una lunga stagione di studi.

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quentemente tra due luoghi e spazi politici decisionali, le proposte della boule da ratificare e le proposte aperte sulle quali il dibattito poteva essere più vario nell’assemblea generale dei cittadini (maschi e liberi). Non si può, però, circoscrivere alle sole boule ed ekklesia i luoghi di circolazione del discorso politico, in senso proprio il discorso che riguarda il governo della città: negli spazi pubblici e privati della polis, i grandi avvenimenti vengono spesso accompagnati da riunioni informali, capannelli, discussioni (per esempio, i logoi che si diffondono pros to plethos, in occasione delle critiche di Teramene al regime dei Trenta, secondo Aristotele, Ath . XXXVI 1), che rappresentano forse il frutto più evidente, e più irritante per l’autore anonimo della Athenaion politeia pseudosenofontea (I 12), dell’isegoria di cui godono ad Atene «anche gli schiavi, nei riguardi dei liberi, e i meteci, nei riguardi dei cittadini». L’interpretazione della critica del “vecchio oligarca” come critica ai riflessi “sociali” della possibilità che tutti i cittadini hanno, in Atene, di parlare in assemblea, diritto che dovrebbe essere, invece, riservato solo ai chrestoi, può essere sostenuta proprio sulla base della moltiplicazione di discorsi extra-assembleari, che la stessa pratica assembleare comporta e quasi richiede. Del resto, ogni restrizione del corpo dei cittadini e della “istituzione” deliberante, incideva, nella città classica, sulle attività intercomunicative, condizionate da paure e sospetti. Anche l’anonimo opuscolo antidemocratico è, in realtà, specchio di tali paure, se dobbiamo ritenere che sia stato diffuso solo in luoghi omogenei al suo contenuto, e sia quindi esempio di quei discorsi (se non proprio di modelli argomentativi, come è stato anche sostenuto) che la politeia ateniese respingeva necessariamente ai margini della circolazione ammissibile. A testimonianza della forza dei discorsi o delle forme di comunicazione extra-assembleari che trovavano spazio nella città, magari ispirati dai protagonisti più impegnati delle sedute assembleari, si possono portare due passi della Vita di Nicia di Plutarco, relativi alla spedizione in Sicilia. Prima ancora che si riunisca l’assemblea per decidere sulla spedizione, il plethos ateniese è stato già condizionato dai discorsi e dalle promesse che Alcibiade ha fatto circolare (12.1), al punto che i giovani nelle palestre (en palaistrais) e i vecchi nelle botteghe e nei luoghi di ritrovo (en ergasteriois kai hemikyklois) siedono insieme, a disegnare per terra la figura della Sicilia, con tutte le caratteristiche geofisiche. La notizia del disastro (30.1-2) viene, poi, portata da un forestiero, che ne discute in una bottega di barbiere (koureion). La notizia si diffonde nell’agorà, e cresce la confusione, finché non viene convocata l’assemblea. Il forestiero riesce a stento a salvarsi dall’accusa di essere un logopoios (ricordiamo il carattere di Teofrasto) e dalla tortura, solo perché giungono notizie sicure sulla sconfitta. Insomma, il discorso politico, consegnato alla scrittura e alla tradizione, depurato dal chiasso assembleare, consuma, potremmo dire, la sua vendetta sugli ostacoli di varia natura che molto spesso hanno impedito la piena attuazione del suo archetipo orale: interruzioni, minacce alla libertà di parola, a volte tragiche mutilazioni, tra cui il taglio della lingua, macabra ‘attestazione’ della perduta libertà di parola. E tutto questo, nel corpo vivo e negli spazi della città, della polis. Vorrei allora terminare richiamando due locuzioni che troviamo usate a non molta distanza di tempo, nel IV secolo, quasi delle formule definitorie nelle quali i termini sui quali stiamo riflettendo, polis e politeia, si intrecciano col termine logos, individuando, pur con una sintassi assonante, due rappresentazioni abbastanza differenti. In un passo dell’orazione giudiziaria Sulla violazione dei doveri di ambasciatore, pronunziata contro Eschine nel 343 a.C., Demostene individua le responsabilità politiche che derivano agli ambasciatori (presbeis) dal controllo che essi detengono su chronoi e logoi, tempi e discorsi.

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Sottrarre tempo a una polis (ritardando l’informazione) e pronunziare discorsi non veritieri sono colpe equivalenti, da punire esemplarmente. Nel corso dell’argomentazione, Demostene mette in evidenza la caratteristica procedurale, ma potremmo dire anche strutturale, peculiare della democrazia ateniese: «per chi governa la polis fondandosi sui discorsi, com’è possibile adottare decisioni in piena sicurezza, se quei discorsi non sono veritieri?» (XIX 184). En logois he politeia: locuzione fortunata, se è vero che, pur staccata dal contesto giudiziario e dal riferimento specifico che l’ha originata – la veridicità dei discorsi degli ambasciatori –, è stata spesso richiamata, in saggi di vari autori moderni, per individuare la forte presenza, nell’esperienza democratica ateniese, delle pratiche di discorso. En logois he politeia, dunque. Se apriamo, invece, la Politeia di Platone alla fine del IX libro (592 a 10 ss.) e ci addentriamo nella configurazione della città ideale che Socrate traccia con la sua analisi antropologicopolitica, condotta attraverso strutture triadiche e dinamiche che si corrispondono (città, uomo, anima, piaceri), troviamo una rapida annotazione di Glaucone, che parla di una polis en logois keimene, una città che si fonda, o risulta dai ragionamenti e dai discorsi svolti fino ad allora dai due interlocutori; insomma, la città costruita dal e nel loro dialogo (distinta dalla patris dell’uomo reale), quella che, dice Socrate nelle parole finali del IX libro, è forse nel cielo, a fare da modello per chi voglia vederla, quella della quale occuparsi come se ci fosse realmente. Polis en logois, en logois he politeia. Uno strano gioco di parole, che forse continua a segnare, a distanza di secoli, la tensione fra un governo della città, la democrazia, che continua a fondarsi su discorsi, su parole, spesso inconsistenti o ridondanti, anche se circolano ormai attraverso i mezzi più sofisticati e rapidi, e le aspirazioni dei cittadini, che trovano spesso nell’utopia dei discorsi un modo, anche se insoddisfacente e amaro, per costruire la loro città futura. Socrates in the agora s’intitola un volumetto dell’American School of Classical Studies in Athens, a cura di Mabel L. Lang, stampato a Princeton, New Jersey, nel 1978. Lo posseggo perché mi fu regalato da un amico francesista, appassionato di grecità. È una sorta di guida alla città di Atene, in compagnia di Socrate e dei suoi interlocutori, attraverso i luoghi nei quali essi si scambiavano parole e costruivano dialoghi, quelli che Platone trasformò in scrittura filosofica. Solo che proprio l’agorà che aveva visto Socrate protagonista della sua opera educativa e della sua parrhesia allevava nello stesso tempo i demagoghi e i fondamentalisti che lo misero a morte. Un libro, questo, che sarebbe sicuramente piaciuto a Martin Luther King, il leader nero dei diritti civili che conosceva il mondo greco e i suoi pensatori più importanti, ma guardava alla sua epoca come al mondo nel quale decidere volontariamente di vivere, se l’Onnipotente gli avesse offerto la possibilità di scegliere. Lo aveva detto il giorno prima della sua morte, del suo assassinio, il 3 aprile 1968, in un discorso a Memphis, che conteneva il racconto di uno straordinario viaggio nel tempo, dall’antico Egitto fino alle epoche più recenti, ma con un’unica risposta finale: «Vorrei viaggiare per la Grecia, mirare al Monte Olimpo. Vedere Platone, Aristotele, Socrate, Euripide e Aristofane riuniti intorno al Partenone. E sentirli discutere, riuniti intorno al Partenone, dei grandi ed eterni temi della realtà. Ma non vorrei fermarmi lì»3. 3 «I would move on by Greece, and take my mind to Mount Olympus. And I would see Plato, Aristotle, Socrates, Euripides and Aristophanes assembled around the Parthenon. And I would watch them around the Parthenon as they discussed the great and eternal issues of reality. But I wouldn’t stop here».

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Martin Luther King aveva ragione. Possiamo, allora, concludere con lui che continueremo a leggere di Grecia e Roma, delle loro città e della loro cultura, ma è alla fine con le nostre città e con i nostri concittadini di questo mondo complesso che dovremo avere a che fare, per tentare di convivere insieme nel modo migliore, anche se sappiamo che è difficile. Ma possiamo sfidare ogni pessimismo, sperando che prima o poi ci riusciremo. Abbreviazioni bibliografiche Bearzot c. 2012, I Greci e gli altri . Convivenza e integrazione, Roma. Bertrand J.-m. 1985, Formes des discours politiques, décrets des cités grecques et correspondance des rois hellénistiques, in “Revue Historique de Droit Français et Etranger”, 63, 1985, pp. 469-482. Bettini m. 2008, Voci . Antropologia sonora del mondo antico, Torino. calvino i. 1972, Le città invisibili, Torino. camerotto a., Pontani f. (edd.) 2012, Classici contro, Milano. giangiUlio m. 2001, Alla ricerca della polis, in vetta m. (a c. di), La civiltà dei Greci . Forme, luoghi, contesti, Roma, pp. 59-104. sPina l. 2002, L’intertesto ‘del’ riposo (l’intertesto ‘a’ riposo?), in “Lexis”, 20, 2002, pp. 265-271.

Michel Humm*

Il comIzIo del Foro e le IstItuzIonI della repubblIca romana Nel II secolo avanti Cristo, lo storico greco Polibio, che vedeva nelle istituzioni della Repubblica romana la fonte della sua forza e della sua superiorità internazionale, definì la sua costituzione essere allo stesso tempo monarchica per il potere assoluto di cui disponevano i consoli, aristocratica per l’autorità di cui godeva il Senato nella direzione degli affari pubblici più importanti, e democratica per il potere di controllo di cui disponevano le differenti assemblee del popolo (Plb. VI 11, 4). In realtà, Roma era diretta, almeno a partire dall’instaurazione del regime “repubblicano”, da un’aristocrazia, ossia da una élite sociale e politica che pretendeva avere l’esclusività della direzione degli affari pubblici: la Repubblica romana non è stata mai una democrazia, ma piuttosto un regime aristocratico, o oligarchico, nelle mani di qualche decina di grandi famiglie per più di mezzo millennio (dal 509 al 31 avanti Cristo) (hUmm 2008, pp. 467-520). Il potere di questa aristocrazia si esprimeva nell’istituzione del Senato, che raggruppava in pratica tutti gli ex-magistrati (ivi compresi gli ex-tribuni della plebe a partire dalla 2a guerra punica), e che esercitava un ruolo di controllo e di alta autorità morale su tutta la vita politica della repubblica (coUdry 1989). Il termine “Repubblica”, di origine latina (res publica), non ha mai significato “democrazia”: res publica significa “la cosa pubblica”, cioè gli “affari del popolo dei cittadini”, in opposizione alla “cosa privata” (res privata) che definiva la monarchia (quando tutte le questioni che riguardavano la città dipendevano dal re). Nell’espressione res publica, l’aggettivo publicus si riferisce a populus, che designa originariamente il “popolo in armi”, ossia l’insieme dei cittadini maschi adulti capaci di prendere le armi per difendere la città. Il popolo disponeva di diverse assemblee “popolari” che erano chiamate “comizi” (comitia) quando “riunivano” (co-ire), all’inizio nel Comizio, l’insieme del populus patrizio-plebeo, o “consiglio” (concilium) quando si trattava dell’assemblea plebea. Però, per gran parte della sua storia, la Repubblica romana riuscì a conservare un certo consenso fra i suoi cittadini, cioè tra questa élite aristocratica e il popolo: il luogo di riunione consueto per il Senato era la Curia, quello del popolo era il Comizio. L’insieme monumentale Curia-Comizio si presume sia stato costruito dal re Tullo Ostilio (il terzo re di Roma, nella seconda metà del settimo secolo a.C.), come affermava Cicerone: fecit idem (sc. Tullus Hostilius) et saepsit de manubis comitium et curiam […] . «lo stesso (Tullo Ostilio) col bottino fece costruire e recintare il Comizio e la Curia […].» Cic. Rep . II 31.

Questo insieme Curia-Comizio illustrava in modo monumentale il motto della Repubblica romana: SQPR, “il Senato e il Popolo Romano”. Bisogna dunque partire dalla definizione del termine comitium, per poi considerare la sua evoluzione architettonica in rapporto con l’evoluzione istituzionale della Repubblica, per così meglio comprendere le sue funzioni istituzionali.

* Université de Strasbourg.

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cos’è Il comIzIo? Il Comizio era dapprima un luogo per le assemblee pubbliche. L’etimologia della parola “comizio” (comitium) accenna chiaramente all’assembramento di persone (co-ire). Varrone l’associava precisamente alla riunione dei comizi curiati e delle assemblee giudiziarie: Comitium ab eo quod coibant eo comitiis curiatis et litium causa . «Il Comitium ha questo nome dal fatto che in esso coibant (si riunivano) per i comizi curiati e per le cause giudiziarie». Var. L . V 155 (trad. di A. Traglia, Torino 1974)

Un commentatore antico all’opera di Cicerone proponeva una definizione similare: Comitium, locus propter senatum quo coire equitibus Romanis et populo Romano licet . «Il Comizio, un luogo presso il senato, dov’era permesso ai cavalieri e al popolo romano di riunirsi». Ps. Asc. p. 174 Orelli

Come vedremo dopo, l’archeologia e l’epigrafia sembrano aver confermato l’utilizzazione primitiva del Comizio come luogo di riunione per le assemblee del popolo. Il Comizio è in effetti uno dei più antichi luoghi di riunione a Roma, senza che sia necessario risalire ai tempi mitici di Romolo e Tito Tazio, come pensava Plutarco1. Secondo quest’ultimo, in effetti, sarebbe al Comizio che il latino Romolo e il sabino Tito Tazio si sarebbero incontrati per fare la pace dopo la guerra romano-sabina che seguì il rapimento delle Sabine: «Per questo, si misero d’accordo che le donne che lo volevano vivessero con i loro mariti e, come si è detto, fossero esentate da ogni lavoro e da ogni fatica, tranne la filatura della lana; che i Romani e i Sabini abitassero in comune la città, e che, mentre la città si sarebbe chiamata Roma da Romolo, tutti i Romani si sarebbero chiamati Quiriti dalla patria di Tazio; e che i due avrebbero regnato in comune e che entrambi avrebbero comandato l’esercito. Il luogo dove si stabilirono questi accordi si chiama ancora oggi comizio. I Romani infatti dicono il riunirsi comire». Plu. Rom . 19, 9-10 (trad. it. di C. Ampolo, Milano 1988)

Lo studio stratigrafico del luogo ha mostrato che il primo pavimento del Comizio è contemporaneo al prosciugamento della pianura del Foro e alla sistemazione del suo primo pavimento (in terra battuta), nell’ultimo quarto del VII secolo2. Alla stessa fase appartengono una serie di tegole ritrovate in corrispondenza della Curia Ostilia: a quest’epoca, delle tegole possono provenire solo da un edificio pubblico o da un tempio (coarelli 1977, pp. 171; id. 1983, pp. 120-122). L’insieme monumentale Curia-Comizio, che Cicerone attribuiva al re Tullo Ostilio, sembra così essere esistito fin dalle origini. Nel recinto del Comizio, sul secondo pavimento (prima metà del VI secolo), si colloca il cippo del Lapis Niger (“lapide nera”) (Fig. 1). Questo cippo porta una delle più antiche iscrizioni conosciute in latino arcaico: l’iscrizione potrebbe essere il testo di una legge sacra con una serie di prescrizioni, forse in rapporto con l’utilizzazione del posto come luogo di riunione per i comizi (calati). Le prime righe accennano alla formula d’imprecazione di una legge sacra3: 1

Cfr. ancora oggi: carafa 1998, pp. 101-120. coarelli 1977, pp. 169-191; id. 1983, pp. 119-138 (in part. p. 119-138); id. 1993b, pp. 309-314. 3 Verosimilmente, il testo prescriverebbe le precauzioni da prendere per evitare che, quando il re si presentava al Comizio, auspici sfavorevoli (iuges auspicium) ostacolassero la cerimonia che si svolgeva: dUmézil 19742, pp. 99-103 ; Palmer 1969; heUrgon 1969, pp. 205-206 ; coarelli 1977, pp. 229-236; id. 1983, pp. 178-188; 2

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quoi hoi[…] sakros es/ed sor[anoi ?] (= qui hunc sacer erit Sor) «che sia maledetto (sacer) chi violasse questo luogo» CIL VI 36840 = I2, 1 (p. 717, 739, 831, 853) = ILLRP, 3 (p. 315)

L’iscrizione, che daterebbe alla prima metà del VI secolo e che risalirebbe quindi quasi alle origini della sistemazione del Comizio, accenna alla parola rex (recei), il “re”, e a un calator (calatorem). Il calator qui menzionato era un araldo particolarmente legato alla persona del “re” oppure, nel periodo repubblicano, a quella del rex sacrorum4; più tardi, sotto l’Impero, i calatores erano ancora legati al collegio dei pontefici e dei flamini, com’è attestato da un’iscrizione di epoca imperiale ritrovata presso la Regia5. Tra le attività che il “re” poteva condurre nel Comizio in compagnia di un calator, sappiamo che egli si presentava in questo posto il 24 marzo e il 24 maggio, due giorni a priori “nefasti”, per presiederci i comizi calati (comitiare), ciò che aveva per effetto di rendere questi giorni “fasti”: essi erano indicati, nel calendario repubblicano, con le lettere QRCF che significano Quando rex comitiavit fas («Quando il re presiede i comizi, il giorno è fausto»)6. Questi comizi erano chiamati calati perché erano “convocati” (calata) dal calator del re (oppure da quello degli flamini, o ancora da quello dei pontefici): il ruolo del calator era quello di “comitia (calata) calare” (coarelli 1983, p. 180; smith 1996, p. 169). Il Comizio era quindi fin dalle origini della città, nell’ultimo quarto del VII sec. a.C., il luogo di riunione delle assemblee del popolo (i comizi) (hUmm 1999, pp. 625-694 ; in part. pp. 632-634 e pp. 637-639). Il Comizio era anche un luogo di memoria. Il sesto pavimento del Foro, sistemato all’epoca del dittatore Silla, corrisponde a una nuova ristrutturazione del Comizio repubblicano: il cippo arcaico fu tagliato e ricoperto da un pavimento in marmo nero (il Lapis niger) (Fig. 2). Secondo un’interpretazione eziologica della fine della Repubblica, questo pavimento in marmo nero indicava un luogo funesto dove Romolo sarebbe stato ucciso e smembrato dai senatori (secondo una versione della leggenda): Niger Lapis in Comitio locum funestum significat, ut ali, Romuli morti destinatum, sed non usu ob in stulum nutritilium avum Tutionem eius (integrazioni proposte da D. Detlefsen). «La lapide nera indica un luogo funesto nel Comizio; secondo alcuni, il luogo fu destinato alla morte di Romolo; però non vi fu sepolto e fu Faustolo, suo padre adottivo, ad esservi sepolto; secondo altri vi fu sepolto Osto Ostilio, nonno di Tullo Ostilio, il re dei Romani, la famiglia del quale giunse a Roma da Medullia, dopo sua distruzione». Paul. Fest. p. 184 Lindsay

Comunque il Comizio sembra essere stato, fin dal IV secolo, un luogo di memoria della leggenda di Romolo: secondo Dionigi di Alicarnasso vi si trovava una statua in bronzo del

Wachter 1987, pp. 66-69; cristofani 1990, pp. 58-59 (n. 3.39); smith 1996, pp. 167-169; BeeK 2012, pp. 17-25. 4 Palmer 1969, p. 2; BeeK 2012, pp. 20-21; cfr. Paul. Fest. p. 34 Lindsay: Calatores dicebantur servi, ¢po toà kale‹n, quod est vocare, quia semper vocari possent ob necessitatem servitutis. 5 CIL VI 31426 : [In h]onorem domus Aug(ustae) kalatores pontificum et flaminum. 6 Fast. Praenest. InscrIt XIII, 2, 17 (24 Marzo) : C VIIII [q(uando) r(ex)] c(omitiavit) f(as) hunc diem plerique perperam / int[e]rpr[e]tantes putant appellari / quod eo die ex Comitio fugerit / [rex n]am neque Tarquinius abiit ex Comitio / [in exilium] et alio quoque mense eadem sunt / [idemque s]ignificant qu[are sacris peractis] / [iudici]a fi[e]ri indica[ri iis magis putamus]; cfr. Var. L . VI 31 ; Ov. Fast . V 727-728 ; Paul. Fest. p. 311 Lindsay. Cfr. coarelli 1983, pp. 186-188; Bianchi 2010, pp. 201-208.

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fondatore di Roma, su una quadriga di trionfo e con una iscrizione arcaica in lettere che gli sembravano provenire dall’alfabeto greco7. Infine il Comizio era anche un tempio inaugurato. La scelta del Comizio come luogo privilegiato per le assemblee del popolo può spiegarsi con la dimensione sacrale della piazza: i comizi dovevano infatti riunirsi obbligatoriamente in uno spazio inaugurato, affinché gli dei potessero dare la loro approvazione alle decisioni prese che coinvolgevano l’insieme della comunità civica (della quale gli dei facevano parte: erano in effetti i primi cittadini)8. Ma cos’è uno spazio inaugurato? Uno spazio inaugurato è un tempio augurale (templum augurale), cioè uno spazio preciso che è stato definito dagli auguri al fine di poter prendervi gli auspici: l’inaugurazione di un templum rendeva un luogo sacro, liberato dagli spiriti cattivi o dalle divinità sconosciute e forse pericolose. Si trattava quindi di un tempio augurale sulla terra (a differenza del tempio celeste nel quale i magistrati romani prendevano gli auspici): In terris dictum templum locus augurii aut auspicii causa, quibusdam conceptis verbis finitus . «Sulla terra, si chiama templum il luogo delimitato con determinate formule al fine di trarvi i presagi o prendervi gli auspici». Var. L . VII 8

Secondo le nostre fonti, un tempio augurale doveva essere recintato (saeptum) in modo continuo, con un solo ingresso: Extemplo enim est continuo, quod omne templum esse debet continuo septum nec plus unum introitum habere. «Extemplo significa continuo (senza interruzione), perché ogni templum deve essere recintato in modo continuo e non deve avere più di un ingresso». Var. L . VII 13 Minora templa fiunt ab auguribus cum loca aliqua tabulis aut linteis sepiuntur, ne uno amplius ostio pateant, certis verbis definita . Itaque templum est locus ita effatus aut ita septus, ut ex una parte pateat, angulosque adfixos habeat ad terram . «I templi minori sono sistemati dagli auguri quando delimitano luoghi con tavole di legno o teli, in modo che non siano aperti da più di un ingresso, dopo essere stati definiti da certe parole. È per questo che il tempio è un luogo definito dalle parole e recinto, in tal modo che sia aperto solo da un lato e che abbia gli angoli fissati in terra». Paul. Fest. p. 146 Lindsay

Numerosi indizi mostrano che il Comizio di Roma fu un tempio augurale: – il comizio era sempre orientato secondo i punti cardinali est-ovest, nord-sud; – la testimonianza di Cicerone, che dice che Tullo Ostilio aveva recintato (saepsit) il Comizio e la Curia, suggerisce chiaramente che si tratta di un tempio; – Varrone definisce esplicitamente la Curia come un tempio; – il Comizio sembrava avere solo un ingresso, sul lato meridionale; – una statua del famoso indovino e augure Atto Navio si trovava davanti alla Curia Ostilia, di fronte al Comizio, dove avrebbe imposto al re Tarquinio Prisco il rispetto degli auspici9; – infine, l’insieme del Comizio era un santuario con il proprio dio: Vulcano, il cui culto era praticato sull’altare arcaico accanto al cippo del Lapis niger, il Volcanal (coarelli 1977, pp. 215-229; id. 1983, pp. 161-178) (Fig. 3). 7

D.H. II 54, 2; cfr. Plu. Rom . 24, 5. Cfr. amPolo 1983, pp. 19-22. coarelli 1977, pp. 166-238; id. 1983, p. 140 e p. 148; id. 1985, pp. 17-19; hUmm 1999, pp. 634-637. Contra: vaahtera 1993; carafa 1998, pp. 117-118. 9 D.H. III 71, 1-5; Paul. Fest., p. 168 Lindsay; Plin. Nat . XXXIV 21-22. Cfr. coarelli 1985, pp. 28-33; id. 1999b, pp. 365-366. 8

IL COMIzIO DEL FORO E LE ISTITUzIONI DELLA REPUBBLICA ROMANA

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Per Filippo Coarelli, la forma quadrangolare del tempio augurale del Comizio a Roma sarebbe stata preservata grazie a una serie di pozzi votivi, il cui allineamento è stato ritrovato sul lato meridionale del Comizio (M, N, S, R, Q: vedi sotto Fig. 5): questi pozzi avrebbero conservato in modo simbolico la forma quadrangolare dello spazio inaugurato che si riscontra ancora chiaramente nei comizi coloniali10.

la stratIgraFIa del comIzIo: l’evoluzIone archItettonIca Oggi non rimane niente del Comizio originario, perché esso è stato completamente distrutto e risistemato dai lavori fatti da Cesare e Augusto verso la fine del I secolo a.C.: l’attuale Curia è la Curia Giulia di Giulio Cesare, e l’antica Curia Ostilia si trovava sotto la chiesa dei Santi Luca e Martina. L’orientamento del Comizio era quindi completamente diverso di quello che si vede oggi, e rispettava l’orientamento nord-sud di un tempio augurale (Fig. 4). Il famoso archeologo Coarelli ha potuto ricostruire la cronologia del Comizio a partire della stratigrafia realizzata in occasione degli scavi organizzati da Giacomo Boni alla fine dell’Ottocento: – il primo pavimento è databile, come è stato detto, all’ultimo quarto del VII secolo: è contemporaneo alla costruzione della cloaca maxima, che prosciugò la palude del Foro, e al primo edificio pubblico coperto di tegole, identificato con la Curia Ostilia, e che corrisponde cronologicamente con l’inizio della dinastia etrusca a Roma (Tarquinio Prisco, verso il 625); – il secondo pavimento (metà del VI secolo) copre le tracce di un incendio che sembra aver distrutto la prima fase del Comizio: esso comprende il cippo arcaico del Lapis niger, e potrebbe corrispondere all’inizio del regno di Servio Tullio; – il terzo pavimento (fine VI o metà del V secolo) comprende frammenti di ceramica etrusca in bucchero nero; si vedono anche le tracce dei primi gradini sul lato meridionale del Comizio. Il Comizio ha conosciuto degli ampliamenti durante il periodo medio-repubblicano. Questo periodo corrisponde, cronologicamente, al IV e al III secolo: è l’epoca durante la quale la Repubblica romana conobbe delle trasformazioni molto importanti, nella politica interna come nella politica estera. Sul piano interno, i plebei ottennero il potere e poterono condividere il consolato con i patrizi (plebiscito licinio-sestio del 367 e plebiscito genucio del 342); questa nuova parità diede origine a una nuova aristocrazia, la nobiltà (nobilitas) patrizio-plebea, che dirigerà la Repubblica fino alla fine (hUmm 2007, pp. 101-126; id. 2008, pp. 500-504). Sul piano esterno, la Repubblica realizzò la conquista dell’Italia: il Lazio (distruzione della lega latina nel 338), la Campania (annessione di Capua nel 343, e trattato di alleanza con Napoli nel 326) e la Magna Grecia con le guerre sannitiche (che durarono un mezzo secolo), fino alla guerra contro Pirro e alla conquista di Taranto nel 272 (de cazanove 2008). Durante questo periodo la Repubblica si arricchì e divenne sempre più potente, presentandosi agli altri popoli d’Italia come una “città greca” (polis hellenis), cioè come una potenza legittimata a governare l’Italia11. Nello stesso tempo, le sue conqui10 coarelli 1983, p. 140 e pp. 151-152; coarelli 1985, p. 18; cfr. de visscher, mertens 1951-52; BroWn 1980, p. 23 e Fig. 22. 11 Heraclid. Pont. fr. 28 Voss = 102 Wehrli (ap . Plu., Cam ., 22, 2-3). Cfr. fraschetti 1981, pp. 97-115; canfora 1994; Urso 2001; vanotti 1999.

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ste si tradussero in un incremento sempre maggiore del numero dei cittadini romani, per l’integrazione nella cittadinanza delle popolazioni sottomesse (BrUnt 1971, p. 13 (tav. I) e pp. 26-33; hUmm 2006). Queste trasformazioni della Repubblica si sono tradotte nella struttura architettonica del Comizio. L’incremento della popolazione cittadina ha reso necessario un ampliamento delle dimensioni del Comizio, per poter accogliere più gente. Nello stesso tempo, nel 338, il console Caio Menio distrusse la flotta di Anzio, che praticava la pirateria nel Tirreno e gli speroni (rostra) delle navi catturate ornarono la tribuna sistemata sul lato meridionale del Comizio, in direzione della piazza del Foro, per permettere ai magistrati di parlare al popolo riunito sulla piazza (Fig. 5)12. La tribuna si è allora chiamata i Rostri, e questa esibizione monumentale del bottino di guerra permise alla nobiltà patrizio-plebea di affermare il suo prestigio e la sua pretesa di esercitare il potere (hölscher 1994, p. 20; hUmm 2009, pp. 120-127). Probabilmente nello stesso momento, dopo suo trionfo del 338, Gaio Menio ricevette l’onore di una statua onorifica eretta su una colonna a fianco del Comizio: la columna Maenia (coarelli 1985, pp. 39-59 e pp. 106-110; torelli 1993). Un po’ più tardi, verso la fine del IV secolo, la forma architettonica del Comizio fu completamente modificata e la sua pianta divenne circolare: i gradini del lato meridionale del Comizio (il così detto ‘suggestum C’) furono interamente ricostruiti in blocchi di tufo di Monteverde e assunsero una forma in arco di cerchio (Fig. 6). Poiché è difficile immaginare la giustapposizione di segmenti di gradini in arco di cerchio e di segmenti rettilinei, i gradini dell’insieme del Comizio dovettero probabilmente assumere una forma circolare. Abbiamo ulteriori indizi per ammettere l’adozione della forma circolare del Comizio verso la fine del IV secolo. Plinio evoca l’erezione delle statue di Pitagora e di Alcibiade davanti alla Curia al tempo delle guerre sannitiche (quindi nella seconda metà del IV secolo o all’inizio del III): queste statue si trovavano, fino ai lavori di ricostruzione del Comizio da parte di Silla (con la costruzione della Curia Cornelia al posto della Curia Ostilia), «nei corni del Comizio (in cornibus comitii)»13. Ora, la parola latina cornu appartiene al vocabolario architettonico del teatro, e sta a designare l’estremità dei gradini in arco di cerchio della cavea di un teatro14. Plutarco evoca anche lui la collocazione delle statue di Pitagora e di Alcibiade nel Comizio15. Quest’avvenimento si colloca bene verso la fine del IV secolo, quando la nobiltà patrizio-plebea era fortemente influenzata dall’ideologia pitagorica delle città greche della Magna Grecia (hUmm 2005, pp. 541-564 e pp. 624-628). Nello stesso tempo, l’edile 12

Liv. VIII 14, 12 ; Plin. Nat . XXXIV 20 ; Flor. I 11, 10. Cfr. coarelli 1999a, pp. 212-214. Plin. Nat . XXXIV, 26: Invenio et Pythagorae et Alcibiadi in cornibus comitii positas [sc. statuas], cum bello Samniti Apollo Pythius iussisset fortissimo Graiae gentis et alteri sapientissimo simulacra celebri loco dicari . Eae stetere donec Sulla dictator ibi curiam faceret . Mirumque est illos patres Socrati cunctis ab eodem deo sapientia praelato Pythagoran praetulisse aut tot aliis virtute Alcibiaden et quemquam utroque Themistocli («Trovo scritto che furono innalzate statue anche a Pitagora e Alcibiade nei corni del Comizio, quando Apollo Pizio, durante la guerra Sannitica, ordinò di innalzare, in un luogo frequentato, una statua al più forte dei Greci, ed un’altra al più saggio. Entrambe vi restarono fino a quando il dittatore Silla vi fece erigere la Curia. Ed è strano che i senatori di allora abbiano anteposto Pitagora a Socrate, preferito per la sua saggezza dallo stesso dio a tutti gli uomini, o Alcibiade a tanti altri per il valore, e chiunque altro, per entrambe le doti, a Temistocle». – trad. it. secondo A. Corso et alii, Torino 1988). 14 Vitr. V 5, 2; 6, 5; 7, 1. Cfr. hanson 1959, pp. 37-39; KraUse 1976, pp. 34-35 e p. 66; coarelli 1983, p. 152; id. 1985, p. 120 e n. 113. 15 Plu. Num . 8, 20: «A Roma, io stesso ho sentito raccontare da molti che una volta un oracolo ordinò ai Romani di erigere nella loro città le statue del più saggio e del più valoroso dei Greci, ed essi innalzarono nel foro due statue di bronzo, una di Alcibiade e l’altra di Pitagora». (trad. it. di M. Manfredini, Milano 1980). 13

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curule Cneo Flavio dedicò nel 305/304 un’edicola in bronzo alla Concordia, trasposizione romana dell’Homonoia pitagorica: Flavius vovit aedem Concordiae, si populo reconciliasset ordines, et, cum ad id pecunia publice non decerneretur, ex multaticia faeneratoribus condemnatis aediculam aerea fecit in Graecostasi, quae tunc supra comitium erat, inciditque in tabella aerea factam eam aedem CCIIII annis post Capitolinam dedicatam . Id a . CCCCXXXXVIIII a condita urbe gestum est […] . «Flavio fece voto di erigere un tempio alla Concordia se fosse riuscito a riconciliare gli ordini con il popolo; e poiché non si destinava a questo scopo denaro dai fondi statali, egli fece costruire col ricavato delle ammende inflitte agli usurai una cappella di bronzo nella Graecostasis, che allora era al di sopra del Comizio, e fece incidere su una tavoletta di bronzo che quell’edicola era stata costruita 204 anni dopo la dedica del tempio del Campidoglio. Ciò accadde 449 anni dopo la fondazione di Roma [305 a.C.]». Plin. Nat . XXXIII 19-20 (trad. it. secondo A. Corso et alii, Torino 1988)

Quest’edicola in bronzo fu eretta su una piattaforma che dominava il Comizio e che si chiamava Graecostasis, perché lì gli ambasciatori delle città greche restavano in attesa di essere ricevuti dal Senato nella Curia (Fig. 4)16: davanti a loro, quando guardavano in direzione della Curia, potevano vedere le statue di Pitagora e di Alcibiade. Queste statue dimostravano che Roma era una “città greca” (polis hellenis) che lottava contro i popoli barbari dell’Italia, particolarmente i Sanniti: i Sanniti si presentavano allora come degli Spartani, o almeno come alleati della spartana Taranto, la grande città rivale di Roma in Magna Grecia; ora, Alcibiade era, almeno ad Atene nel IV secolo, un eroe che era riuscito a vincere ripetutamente gli Spartani, ed egli poteva quindi essere considerato come un modello dai Romani di quest’epoca17. L’adozione della forma circolare del Comizio si ispira, inoltre, alla struttura degli ecclesiasteria del mondo greco, particolarmente quelli della Magna Grecia e della Sicilia (Metaponto, Poseidonia, Agrigento): il modello architettonico era quindi greco e partecipava della stessa idea che Roma fosse una “città greca” (polis hellenis) (coarelli 1985, pp. 11-21; hUmm 2005, pp. 620-628). Un altro indizio serio sulla cronologia della forma circolare del Comizio (fine IV secolo) si trova nella testimonianza dei comizi delle colonie dedotte da Roma tra la fine del IV e l’inizio del III secolo: ad Alba Fucens (nel 303), poi a Cosa e a Paestum (nel 273), sono stati costruiti dei comizi con gradini circolari iscritti in un recinto quadrangolare, per rispettare la forma del tempio augurale (hUmm 1999, pp. 669-682; id. 2005, pp. 617-620). Ora, le colonie erano concepite come delle riproduzioni in miniatura della loro metropoli, Roma, che era necessariamente il modello originario: Quae tamen condicio […] potior tamen et praestabilior existimatur propter amplitudinem maiestatemque populi Romani, cuius istae coloniae quasi effigies parvae simulacraque esse quaedam videntur . «La qual condizione [quella delle colonie rispetto a quella dei municipi] tuttavia […] viene ritenuta preferibile e di maggior prestigio per la grandezza e la maestà del popolo romano, del quale tali colonie sembrano esser quasi delle modeste raffigurazioni e delle copie». Gel. XVI 13, 9 (trad. it. di L. Rusca, Milano 1968-1992)

16 Var. L . V 155: Ante hanc (sc. curiam) rostra […]; sub dextra huius a Comitio locus substructus ubi nationum subsisterent legati qui ad senatum essent missi : is Graecostasis appellatus a parte, ut multa («Davanti a quella [la Curia], ci sono i Rostri; sulla destra di quella, uscendo dal Comizio, si trova una costruzione sopraelevata in cui gli ambasciatori delle nazioni straniere, inviati presso il Senato, attendevano di essere ricevuti: è chiamata Graecostasis da una parte , come suole avvenire in molti casi»). Cfr. coarelli 1995, p. 373. 17 rUsso 2007, pp. 13-30 e pp. 55-115; id. 2011.

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Di conseguenza, la forma circolare dei gradini dei comizi delle colonie non poteva che essere un’imitazione di quella che doveva già esistere a Roma.

le FunzIonI IstItuzIonalI del comIzIo Il Comizio era anche sede di determinate cerimonie religiose. Abbiamo visto che il Comizio era un tempio augurale, e che vi si praticavano almeno due culti: quello di Vulcano nel santuario del Volcanal, con un altare arcaico sul lato meridionale (Fig. 3) sul quale, all’epoca arcaica, le armi nemiche venivano bruciate per distruggere le forze malefiche contenute in loro (coarelli 1983, p. 177); dall’altra parte il culto della Concordia, nell’edicola eretta da Cneo Flavio sulla Graecostasis (Fig. 4) nel 305/30418. Non è tutto: abbiamo visto che l’iscrizione in latino arcaico del Lapis niger menziona il “re” (recei). Forse si trattava già di un “re-sacerdote”, prefigurazione del “re dei sacrifici” (rex sacrorum) repubblicano, che sostituì il vero re nelle sue funzioni religiose prima la cacciata di Tarquinio il Superbo nel 509 (hUmm c.s.). Comunque, sappiamo che nel periodo repubblicano il “re dei sacrifici” compiva un sacrificio ogni anno il 24 febbraio (giorno detto Regifugium), poi fuggiva attraverso il Foro: «Sul Foro, presso il cosiddetto Comizio, si svolgeva un antico sacrificio compiuto dal re (dei sacrifici), dopo il quale egli fuggiva dal Foro quanto più velocemente possibile». Plu. Quaest . rom . 63 (Moralia 279 D)

Questo strano rituale era probabilmente collegato alla fine dell’anno civile in febbraio (il 23 febbraio era detto Terminalia), e corrispondeva all’esclusione simbolica del “re-sacerdote” dalla città durante i cinque giorni intercalari (dal 24 al 28), prima dell’inizio del nuovo anno alle calende di marzo (magdelain 1990 [1962-63], pp. 279-303; Bianchi 2010, pp. 188-193). Altre cerimonie religiose si svolgevano ancora nel Comizio. Secondo Varrone, ogni anno i Salii “saltavano” sul Comizio, colpendo il suolo con i piedi, e gli scudi con le loro armi, cantando un canto di guerra (il carmen saliare): questo avveniva nel giorno Quinquatrus (19 marzo) per svegliare Marte e le forze belliche, e così aprire la stagione della guerra, e nell’Armilustrium (19 ottobre) per chiuderla19. I Salii erano un collegio di 12 sacerdoti, custodi degli scudi di Marte (ancilia) conservati nel sacello (sacrarium) di Marte nella Regia20. Le loro cerimonie religiose erano legate alle funzioni militari del populus, che comprendeva all’inizio solo l’insieme dei cittadini in armi, cioè l’assemblea politica del populus chiamata Comitia . Abbiamo visto che Varrone traeva la parola comitium (Comizio) da coire (riunirsi), perché «in esso coibant (si riunivano) per i comizi curiati e per le cause giudiziarie» (L . V 155). I comizi menzionati da Varrone sono i comizi curiati, cioè i più antichi comizi del popolo romano; in questi comizi, i cittadini erano ripartiti nelle 30 curie in funzione della nascita e della famiglia21. Le dimensioni primitive del Comizio erano di 40 metri per 40, cioè 120 m quadrati (730 m² circa): secondo Carafa (carafa 1998, p. 140 e n. 52), lo spazio 18

Liv. IX 46, 6-7 ; Plin. Nat . XXXIII 19-20. Cfr. ferroni 1993, pp. 320-321. Var. L . V, 85: Salii ab salitando, quod facere in Comitio in sacris quotannis et solent et debent («I Salii traggono il loro nome dal verbo salitare (danzare) perché, ogni anno, sul Comizio, nel corso dei loro riti sacri, questi sogliono e debbono farlo»). Cfr. dUmézil 1974², pp. 40-43 e p. 185. 20 Serv. A. VII, 603 ; VIII 3. 21 Lael. Fel. fr. 3 Huschke (ap. Gell., XV 27, 5): cum ex generibus hominum suffragium feratur, curiata comitia esse. Cfr. mommsen 1889, pp. 98-101; taylor 1966, pp. 3-4; Palmer 1970, pp. 69-75; smith 2006, pp. 223-225. 19

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disponibile permetteva di riunire circa 3 000 persone nel Comizio; ciò corrisponderebbe agli effettivi dell’esercito centuriato costituito a partire delle 30 curie (se ogni curia fornisce una centuria di 100 uomini). Tuttavia, con la crescita del numero dei cittadini al IV secolo, successiva all’inizio della conquista dell’Italia, non era più possibile riunire 150 000 cittadini, poi 250 000 cittadini, nel Comizio! Anche se non tutti venivano dalle tribù rustiche più lontane, erano comunque troppo numerosi per entrare insieme nel Comizio. Di fatto, il grande numero di nuovi cittadini, che avevano ricevuto la cittadinanza dopo la conquista del loro paese da parte di Roma (Latini, Campani, anche Etruschi, poi Lucani, ecc.), non potevano essere inseriti nelle curie: come abbiamo detto, i cittadini erano all’origine ripartiti nelle 30 curie in funzione della nascita e della famiglia, e costituivano così il popolo dei Quirites; non si poteva entrare in una curia senza entrare in una famiglia, e non si poteva entrare in una famiglia senza esserci nato, o essere stato adottato, ed era impossibile adottare migliaia di nuovi cittadini (hUmm 2006). È la ragione per la quale il censimento si era modificato alla fine del IV secolo: nel 312, il famoso censore Appio Claudio Cieco censì per la prima volta tutti i cittadini per tribù22. Fino a quel periodo le tribù erano state solo delle circoscrizioni giuridiche per garantire la proprietà privata della terra, e solo i proprietari erano iscritti nelle tribù. Per la prima volta, nel 312, tutti i cittadini furono iscritti nelle tribù, anche i più poveri. La tribù territoriale divenne così una circoscrizione amministrativa dello stato, per l’organizzazione della raccolta del tributo (tributum), la tassa raccolta nel quadro della tribù, come anche per l’organizzazione dell’arruolamento dei soldati (dilectus). Nello stesso tempo, la tribù divenne una circoscrizione politica: l’iscrizione in una tribù indicava oramai l’appartenenza alla cittadinanza romana, perché la tribù divenne un’unità di voto nel quadro dei comizi tributi, riuniti al Comizio come gli antichi comizi curiati. A partire di questo momento (verso la fine del IV secolo), il Comizio divenne così il luogo simbolico della riunione di tutti i cittadini, cioè di tutti i membri delle 35 tribù: il Comizio è rimasto il luogo di voto dei cittadini, ma non poteva più accogliere tutti i cittadini insieme come al tempo della città arcaica. Per i comizi, si faceva votare nel Comizio una tribù dopo l’altra: quando la maggioranza era raggiunta, si fermava il voto. Il Comizio era dunque sempre il luogo di riunione di tutti i cittadini, ma in modo simbolico: questa funzione simbolica del Comizio come luogo di riunione di tutti i cittadini era espressa nella forma circolare della sua nuova architettura (già da Omero, la forma circolare evocava il cerchio sacro, rappresentazione simbolica della città)23. Il Comizio aveva pure delle funzioni giudiziarie: su una tribuna collocata in cima ai gradini del Comizio e chiamata tribunal, sedeva il pretore, il magistrato che amministrava la giustizia24. Egli dava inizio alla giornata giudiziaria con la formula sacra do, dico, addico («do le parole giuridiche, dico le parole giuridiche, attribuisco le parole giuridiche»)25. Gli imputati erano nel Comizio, ai piedi del tribunale, in una situazione d’inferiorità rispetto alla maestà del magistrato seduto sulla sedia curule (sella curulis), circondato dai littori con i fasci: gli imputati arrivavano impauriti, vestiti a lutto (david 1992, pp. 408-422; id. 1995). Alle spalle del pretore, dietro il tribunale, era il carcere (carcer): l’attuale chiesa di S. Giuseppe dei Falegnami 22 23 24 25

D.S. XX 36, 4; Liv. IX 46, 10-15. Cfr. hUmm 2005, pp. 399-439; id. 2008, pp. 504-509. hUmm 1999, pp. 675-682; id. 2005, pp. 624-628; cfr. KolB 1981, passim; coarelli 1985, p. 19. coarelli 1983, pp. 158-160; id. 1985, pp. 22-27; david 2000, pp. 70-75. Var. L . VI 30; Macr. I 16, 14. Cfr. d’iPPolito 1995, pp. 75-86.

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si colloca sopra il carcere Tullianum (coarelli 1985, pp. 59-74; id. 1993a, pp. 236-237). Ma la sedia dei tribuni della plebe (subsellium) si collocava accanto alla Curia, e un cittadino condannato e trasferito nel carcere poteva chiedere soccorso ai tribuni (thommen 1995). Alle spalle del pretore, dietro il tribunale, era la colonna Maenia, della quale abbiamo già parlato. Sotto la colonna, gli usurai pubblicavano le liste delle persone indebitate: quelle che non potevano pagare venivano condotte davanti al tribunale del pretore, per essere condannate e messe in catene (coarelli 1985, pp. 39-53). Qui avevano anche la loro sede i triumviri capitales, istituiti intorno al 288 a.C., che dovevano assistere i magistrati superiori, in particolare il pretore urbano. Però, verso la fine del IV secolo, l’usura fu progressivamente proibita dalla legge, e anche la schiavitù per debiti (nexum): queste nuove leggi erano state proposte dai tribuni della plebe provenienti dalla nuova nobiltà patrizio-plebea26. La statua del sileno Marsia, eretta accanto al Comizio, simbolizzava questa liberazione della plebe e fu un simbolo repubblicano di libertà (anche nelle colonie come Paestum, Alba Fucens o Cosa) (coarelli 1985, pp. 91-123; id. 1999b, pp. 364-365). Il funzionamento della giornata giudiziaria rivela che il Comizio funzionava come un immenso orologio solare: tabulis ortus tantum et occasus nominantur, post aliquot annos adiectus est et meridies, accenso consulum id pronuntiante, cum a curia inter Rostra et Graecostasin prospexisset solem; a columna Maenia ad carcerem inclinato sidere supremam pronuntiavit, sed hoc serenis tantum diebus, usque ad primum Punicum bellum.

xii

«Nelle leggi delle dodici tavole si parla solo di alba e di tramonto; alcuni anni dopo fu aggiunto il mezzogiorno, che era annunciato dal messo dei consoli quando scorgeva il sole fra i Rostri e la Graecostasis. Quando poi il sole si era inclinato dalla colonna Maenia verso il carcere, il messo annunziava l’ultima ora del giorno; ma questo soltanto nei giorni sereni. Tale uso durò fino alla prima guerra punica». Plin. Nat . VII 212 (trad. it. secondo A. Borghini et alii, Torino 1983) Suprema summum diei, id ab superrimo . Hoc tempus xii Tabulae dicunt occasum esse solis; sed postea lex Plaetoria id quoque tempus esse iubet supremum quo praetor in Comitio supremam pronuntiavit populo . «Suprema è chiamata l’ultima parte del giorno, e tale vocabolo viene da superrimus. Questa parte della giornata è detta nelle xii Tavole essere costituita dal tramonto del sole. Ma poi la legge Plaetoria dichiara che per ‘ultimo tempo’ s’ha da intendere quello in cui il pretore ha annunciato al popolo la fine della seduta (supremam) nel Comizio». Var. L . VI 5 (trad. it. secondo A. Traglia, Torino 1974) M . Varro primum statutum in publico secundum Rostra in columna tradit bello Punico primo a M’ . Valerio Messala cos . Catina capta in Sicilia, deportatum inde post xxx annos quam de Papiriano horologio traditur, anno urbis cccclxxxx. «Marco Varrone afferma che il primo orologio collocato in un luogo pubblico fu quello fatto sistemare su una colonna presso i Rostri durante la prima guerra punica dal console Manio Valerio Messalla dopo la presa di Catania in Sicilia; questo orologio fu trasportato da Catania 30 anni dopo la data a cui la tradizione attribuisce l’orologio di Papirio, cioè nell’anno 491 di Roma [263 a.C.]». Plin. Nat . VII 214 (trad. it. secondo A. Borghini et alii, Torino 1983)

Questo funzionamento del Comizio come un orologio è naturalmente legato al suo orientamento secondo i punti cardinali, perché era un tempio augurale27. Ma questo funzionamento 26 Nel 342 dalla legge Genucia (Liv. VII 42, 1; Tac. Ann . VI, 16); nel 326 o 313 dalla legge Poetelia Papiria (Liv. VIII 28, 1-8; Cic. Rep . II 34; D.H. XVI 5, 3 = 18.F Pittia); probabilmente verso la fine del IV sec. da una legge Marcia (Gaius Inst . IV 23). 27 coarelli 1977, pp. 191-205; id. 1983, pp. 138-145; hUmm 1999, pp. 682-689; id. 2005, pp. 628-638.

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come orologio indica anche che le istituzioni della Repubblica romana si conformavano ai principi del cosmo. Accanto al Comizio c’era un santuario sotterraneo che si chiamava mundus (la parola latina per il cosmos greco): il mundus era situato sotto l’umbilicus Urbis, l’ombelico di Roma, insieme centro della città e centro dell’impero o del mondo28 (Fig. 4). Così, il Comizio e il mundus sembravano fatti Urbi et orbi, per la città e per il mondo. Durante tutta la storia della Repubblica romana, il Comizio è stato il riflesso non solo delle istituzioni della città, ma anche della loro evoluzione: non è per caso che, quando la Repubblica sparì, verso la fine del I secolo a.C., i grandi lavori edilizi di Cesare, e poi di Augusto, hanno fatto sparire anche il Comizio. Il Comizio era quindi il ‘luogo della politica’ più emblematico della Repubblica romana, strettamente collegato al suo destino. Traduzione italiana a cura di Chiara Carsana Abbreviazioni bibliografiche amPolo c. 1983, La storiografia su Roma arcaica e i documenti, in E. Gabba (ed.), Tria corda . Scritti in onore di Arnaldo Momigliano, Como, pp. 9-26. BeeK l. 2012, Divine Law and the Penalty of sacer esto in Early Rome, in O. Tellegen-Couperus (ed.), Law and Religion in the Roman Republic, Mnemosyne Supplements, 336, Leiden-Boston, pp. 11-29. Bianchi e. 2010, Il rex sacrorum a Roma e nell’Italia antica, Milano. BroWn f. e. 1980, Cosa . The Making of a Roman Town, Ann Arbor. BrUnt P. a. 1971, Italian Manpower, Oxford. canfora l. 1994, Roma «Città Greca», in “QS”, 39, 1994, pp. 5-41. carafa P. 1998, Il Comizio di Roma dalle origini all’età di Augusto, BCAR, Suppl. 5, Roma. coarelli f. 1977, Il Comizio dalle origini alla fine della Repubblica, in “PdP”, 32, 1977, pp. 166-238. id. 1983, Il Foro Romano, 1, Periodo arcaico, Roma. id. 1985, Il Foro Romano, 2, Periodo repubblicano e augusteo, Roma. id. 1993a, Carcer, in LTUR, I (A-C), pp. 236-237. id. 1993b, Comitium, in LTUR, I (A-C), pp. 309-314. id. 1995, Graecostasis, in LTUR, II (D-G), p. 373. id. 1996, Mundus, in LTUR, III (H-O), 1996, pp. 288-289. id. 1999a, Rostra (età repubblicana), in LTUR, IV (P-S), pp. 212-214. id. 1999b, Statua Atti Navii, in LTUR, IV (P-S), pp. 365-366. id. 1999c, Statua: Marsyas, in LTUR, IV (P-S), pp. 364-365. coUdry m. 1989, Le Sénat de la République romaine de la guerre d’Hannibal à Auguste : pratiques délibératives et prise de décision, BEFAR, 273, Roma. cristofani m. 1990, in M. Cristofani (ed.), La grande Roma dei Tarquini (Roma 1990), Roma. d’iPPolito f. 1986, Giuristi e sapienti in Roma arcaica, Roma-Bari. david J.-m. 1992, Le patronat judiciaire au dernier siècle de la République romaine, BEFAR, 277, Roma. id. 1995, Le tribunal du préteur : contraintes symboliques et politiques sous la République et le début de l’Empire, in “Klio”, 77, 1995, pp. 371-385. id. 2000, I luoghi della politica dalla Repubblica all’Impero, in A. Giardina (ed.), Storia di Roma dall’antichità a oggi . Roma antica, Roma-Bari, pp. 57-83. de cazanove o. 2008, La conquista dell’Italia, in A. Barbero (ed.), Storia d’Europa e del Mediterraneo, vol. 5 : G. Traina (ed.), La res publica e il Mediterraneo, Roma, pp. 53-86. 28

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Fig. 1 – Il cippo del Lapis niger (La grande Roma dei Tarquini, Roma 1990, pp. 58-59, n. 3.39).

Fig. 2 – Il cippo arcaico sotto il Lapis niger (Disegno Cirilli, Soprintendenza Archeologica di Roma, Archivio disegni).

Fig. 3 – L’altare del Volcanal (F. coarelli, Il Foro romano, 1, Roma, 1983, p. 175).

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Fig. 4 – Il Comizio di Roma (F. coarelli, in “PP”, 32, 1977, p. 168, tav. I).

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Fig. 5 – I Rostri, secondo una restituzione di E. Gjerstad (E. gJerstad, Il Comizio romano nell’età repubblicana, in “OpArch”, vol. II, 1941, p. 143, fig. 10).

Fig. 6 – Pianta schematica del lato meridionale del Comizio (E. gJerstad, Il Comizio romano nell’età repubblicana, in “OpArch”, vol. II, 1941, p. 98, fig. 1).

Elvira Migliario*

conclusIonI I colleghi e amici dell’Osservatorio Permanente sull’Antico, ideatori e organizzatori della splendida iniziativa che oggi ci ha riunito qui così numerosi e attenti, mi hanno fatto l’onore di propormi di chiudere i lavori di questa intensissima giornata, del che li ringrazio davvero: l’emozione di ritrovarmi da invitata nell’Università dove ho compiuto i miei studi mi ha indotta a accogliere la loro proposta senza esitazione e con grande entusiasmo. Temo tuttavia che il compito prestigioso che mi è stato affidato si stia rivelando di notevole difficoltà, vista la quantità davvero impressionante di idee e di spunti di riflessione emersi oggi; dovrò quindi necessariamente tentarne una sintesi che non potrà che essere riduttiva e rapsodica rispetto alla molteplicità e alla ricchezza degli interventi a cui abbiamo assistito. Mi sembra che il senso più profondo del nostro incontro sia individuabile già nelle parole introduttive del Prorettore alla Didattica e all’Offerta formativa, G. Francioni: le città e il modello di vita associata che in esse si è inverato per più di due millenni stanno vivendo una fase di crisi che tutti sentiamo profondamente, e che induce noi umanisti a volgerci al passato quale serbatoio di esperienze a cui attingere, per interrogarlo sulle nostre origini e trarne delle risposte in grado di aiutarci a interpretare il presente e a guidarci verso il futuro. Personalmente mi sento di aggiungere che questa dialettica fra antichità e (post)modernità si carica qui di particolari significati: non solo perché Pavia può vantare una storia bimillenaria (e in questo è assimilabile alla maggioranza delle città italiane), ma perché proprio in questa Università nel 1824 si laureò in diritto Carlo Cattaneo, che con La città considerata come principio ideale delle istorie italiane (1858) avrebbe fornito una celebre interpretazione della storia d’Italia come storia delle sue città, intese come unità-base fondative e connotative di tutta la nostra vicenda nazionale; e non posso d’altronde non ricordare che, nel corso del suo lungo magistero presso questa Università, Emilio Gabba ha dedicato una serie di studi fondamentali alla storia delle città romane d’Italia e in particolare a quella di Pavia. La nostra città gode dunque di un retaggio che risale a esperienze storiche antichissime, originate nel caso specifico dal grandioso fenomeno dell’urbanizzazione che Roma promosse esportando anche nel nord della penisola italiana il modello cittadino già proprio del mondo greco-italico. Per aiutarci a meglio definirne gli aspetti peculiari sono state senz’altro preziose le relazioni proposte oggi che hanno – magistralmente – delineato la fisionomia di ‘città’ antiche che a quel modello non sono riconducibili, essendo state prodotte da civiltà ‘altre’ rispetto a quella greco-romana. La Babilonia di Hammurapi e poi di Nabukodonosor, la città-mito della Bibbia, l’ombelico del mondo orientale che G. Bergamini ha fatto rivivere in tutta la sua grandiosità, era considerata scaturire dall’opera urbanistica del dio Marduk che vi risiedeva, da una matrice religiosa dunque, e perciò costituiva il riflesso terreno dell’ordine cosmico garantito dalla divinità, non il prodotto della volontà e dei disegni di gruppi umani associati. Allo stesso modo, la Babilonia frutto della ricostruzione neo-babilonese diventerà la capitale splendida e il maggior centro politico e commerciale dell’enorme impero di Nabukodonosor II, ma costituirà la realizzazione del progetto di un grande sovrano e sarà abitata dai suoi sudditi, non da una comunità di cittadini. Neppure quella etrusca fu una * Università di Trento.

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vera ‘città’: M. Harari ci ha spiegato benissimo come i centri sviluppatisi per sinecismo in area tirrenica a partire dall’VIII secolo a.C. si siano caratterizzati per tutta la loro storia come organismi gentilizio-aristocratici, senza mai diventare vere e proprie poleis, cioè comunità civiche regolate da un sistema di norme condivise, articolate secondo funzioni e compiti diversificati ma integrati, insediate in territori definiti e inscindibilmente connessi con i rispettivi centri urbani. Così, una volta stabilito che né nel mondo orientale né in quello etrusco possiamo rintracciare l’archetipo della ‘città’ quale noi – italiani ed europei – la intendiamo, ci resta da individuare quali sono invece gli elementi che caratterizzano l’organismo definibile polis o civitas. Innanzitutto, dal punto di vista istituzionale la città greco-romana è una comunità di cittadini: per questo, come Tucidide fa dire a Nicia, «gli uomini sono la città (polis), non le mura» (VII 77, 7), e Cicerone ribadisce che la città (civitas) è «una comunità di cittadini vincolati dalla legge» (Rep. I 49). La comunità dei cittadini però esiste in quanto tale perché condivide degli spazi e degli edifici nei quali i cittadini si muovono e agiscono: in una parola, vivono, nella loro dimensione sia pubblica sia privata; la città è dunque un sistema urbanistico, architettonico, monumentale. Ma, prima di soffermarsi su quest’ultimo punto, che è quello che qui più ci interessa, va ricordato che la città non può essere tale quando non sia costituita da un nucleo urbano e da un territorio, precisamente delimitato, a quello annesso: la città è data dall’unione osmotica dell’uno (l’asty) e dell’altro (la chora), per cui sono allo stesso modo cittadini coloro che abitano il centro urbano e coloro che sono insediati entro i confini del suo territorio. Diventa così chiaro quanto Pausania (X 4, 1) dice di Panopeus nella Focide, in uno dei passi particolarmente significativi citati e commentati da L. Spina: avendo un proprio territorio distinto e delimitato rispetto a quello dei vicini, Panopeus potrebbe quasi essere considerata una città, tanto più che è sede di una comunità organizzata politicamente, in grado per lo meno di inviare propri rappresentanti all’assemblea dei Focesi; poiché tuttavia vi mancano ginnasio, teatro, agorà – gli edifici e gli spazi in cui si svolge la vita pubblica – come pure fontane di acqua corrente e case degne di questo nome, risulta impossibile considerarla una città a tutti gli effetti. D’altronde già Cicerone teorizzava (Off . I 17, 53) che non può esistere civitas in assenza di un’architettura pubblica in cui l’esercizio della cittadinanza possa effettivamente esplicarsi: foro, templi, portici, strade condivisi da tutti sono il tessuto connettivo di una comunità, così come lo è la comunanza di leggi, diritto, processi, voti; dunque la città è allo stesso tempo un sistema di rapporti (prima fra individui, poi fra gruppi) e lo spazio urbanistico e architettonico organizzato che li contiene e li rende agibili. Cicerone scriveva avendo ben presente il foro di Roma, nel quale la coincidenza fra attività politica e topografia urbana risultava immediatamente evidente: M. Humm ha illustrato con grande efficacia la funzione concreta, oltre che quella simbolica, svolta dai luoghi e dagli edifici fra i quali ci ha guidato. Nel foro si concentravano tutte le attività istituzionali della città; innanzitutto, nell’area del comitium si riunivano le assemblee popolari, vale a dire l’espressione più qualificante e qualificata dell’esercizio dei diritti connessi con la cittadinanza, sopra a tutti il diritto di voto, in virtù del quale i cittadini si riconoscevano propriamente come tali. Ci è stato perfettamente descritto come lo spazio del comitium si sia evoluto nel tempo, al pari di un organismo vivente, ampliandosi e dilatandosi in parallelo con l’allargamento e la crescita del corpo civico, e come la sua crisi funzionale non potesse pertanto non coincidere con la crisi politica e istituzionale del sistema repubblicano che per secoli

CONCLUSIONI

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vi si era incentrato: un esempio concreto di quanto è stato osservato da S. Maggi, vale a dire che la forma della città antica corrispondeva perfettamente alla forma della società. Il foro tuttavia non era soltanto centro e perno della vita politica, ma anche sede privilegiata della memoria storica, dove la città rappresentava il proprio passato e la classe dirigente si autorappresentava; il luogo della memoria culturale su cui la comunità fondava la propria identità e il proprio sistema valoriale, e i cui elementi costitutivi – edifici, monumenti, statue – erano tutti altrettanti portatori di senso. Alcuni dei tratti fisiognomici della città antica così come sono stati delineati dalle relazioni presentate oggi ci sono suonati familiari perché possiamo agevolmente riconoscerli tuttora nelle città che noi abitiamo e che di quella sono eredi: penso innanzitutto alla stessa struttura urbanistica delle nostre città, incardinate su di un ‘centro’ topografico che spesso ricalca l’antico foro cittadino e dove si concentrano gli spazi e gli edifici destinati alla politica, alle istituzioni e al culto. In alcune, e specialmente in quelle di dimensioni più ridotte, sopravvive forse anche un qualche pallido retaggio di ciò che L. Spina ha definito la ‘fonosfera’ della città antica, vale a dire l’ambiente sonoro che si produceva nei luoghi e negli spazi in cui i cittadini si confrontavano facendo circolare i loro ‘discorsi’, e che è tipico delle cosiddette face to face societies ricordate da E. Corti: comunità insediate in città che si potevano abbracciare con lo sguardo, i cui membri erano in contatto diretto, ed erano perciò in grado di parlare fra di loro esercitando così la prima arte civile dello stare insieme, che era, e ancora è, alla base di qualsiasi mediazione politica. È proprio a questo modello – perduto o solo ideale – di società cittadina e di forma urbana ad essa corrispondente che fanno più o meno consapevolmente riferimento i laureandi in architettura ideatori e organizzatori della mostra Junkspace Pavia, quando si pongono il problema dei confini che la città dovrebbe avere e che invece non ha più, essendo stata ampliata senza ragione da interventi edilizi inutilmente giganteschi, e comunque sproporzionati, che rendono le nostre periferie smisurate e disumane appunto perché non più a misura d’uomo. Quella che oggi ci è stata illustrata ed evocata così bene è dunque la città che costituisce l’antecedente delle città che noi abitiamo, in quanto possiamo rintracciarvi la matrice degli elementi che ancora oggi caratterizzano una comunità di individui, associati sulla base di un insieme di regole e di valori generalmente condivisi, che si identifica con un luogo definito da, e organizzato in, ben precise strutture urbanistiche e architettoniche. Così, inevitabilmente, lo stato di crisi e di degrado urbano che spesso lamentiamo è misurabile con la lontananza da quel modello ideale, inteso in primo luogo nel senso della ‘forma’ che vorremmo che la città avesse: non per caso gli studenti del Liceo Foscolo sembrano associare il disagio contemporaneo innanzitutto al declino strutturale, urbanistico e architettonico, delle città, visto come una causa, prima ancora che un aspetto, dell’indebolimento del patto sociale su cui si fonda la cittadinanza; ugualmente, i loro colleghi del Liceo San Giorgio rilevano con preoccupazione che i luoghi e gli spazi cittadini tradizionalmente destinati alla socialità pubblica e privata sono sostituiti dalla piazza virtuale dei social networks. Quindi, la città com’è oggi non ci piace; ma come vorremmo che fosse? Anche i bambini della Scuola Primaria del Vallone si sono posti questa domanda, e hanno risposto progettando una ristrutturazione della piazza del loro quartiere che prevede spazi e monumenti a misura loro e delle loro attività preferite, esprimendo così un’esigenza che credo sia comune tutti noi: quella di vivere in luoghi appaganti innanzitutto perché gradevoli, funzionali alle necessità di ciascuno, adatti alla socializzazione. A. Cibic ci ha aiutato, brillantemente, a

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meglio definire di che cosa sentiamo davvero la mancanza, spiegandoci quanto il nostro benessere possa essere garantito solo dall’interessamento e dalla cura che siamo disposti a prestare alla comunità di cui facciamo parte, e come questi si esplichino innanzitutto attraverso il rispetto per quella che ha chiamato ‘l’anima dei luoghi’: se non impariamo a (ri)conoscerla, a tutelarla e a valorizzarla, non saremo in grado di ricostruire quel rapporto fra cittadini e città che sentiamo pericolosamente allentato. Mi sembra che proprio in questa direzione si siano mossi i ragazzi della Scuola Media Angelini, che ci hanno mostrato il racconto per immagini delle visite esplorative da loro compiute in città, come pure gli allievi del Liceo Artistico Volta, che mediante le competenze tecniche loro proprie hanno eseguito i rilievi della Piazza della Vittoria entrando nel vivo della vicenda storica cittadina, quale è narrata dalle stratificazioni architettoniche e urbanistiche che si sono succedute a partire dall’impianto del foro della Ticinum romana fino ai giorni nostri: gli uni e gli altri con i propri lavori hanno dimostrato un interesse concreto per la città e per la sua storia, la quale per l’appunto è ciò che nel tempo ha creato l’anima di un luogo. Per quanto riguarda invece il futuro delle nostre città, non sappiamo se esse evolveranno secondo le linee auspicate da A. Cibic, che ci ha fatto immaginare nuovi possibili confini urbani in sostituzione delle mura antiche, spazi pubblici alternativi alle piazze tradizionali, luoghi di scambio e di socializzazione da inventare dentro e intorno alle nostre città: di certo, oggi abbiamo avuto un’ulteriore conferma del fatto che se alle nostre città vogliamo dare un futuro, un futuro che possa essere ‘civile’ perché costruito, appunto, a misura di una comunità di cives, potremo farlo soltanto partendo dalla consapevolezza dell’eredità che abbiamo ricevuto e che abbiamo l’obbligo a nostra volta di tramandare.

parte seconda Dalla ricerca all’insegnamento: l’Università

Momento centrale dell’azione proposta alle scuole dall’Osservatorio Permanente sull’Antico è stata la serie di seminari che alcuni antichisti pavesi, tra novembre e dicembre 2012, hanno tenuto nelle scuole che hanno aderito al progetto . Gli argomenti dei seminari, concordati con gli insegnanti e calibrati sul livello e sul grado di istruzione degli studenti, hanno costituito la base per i lavori che nel corso dell’anno scolastico le classi hanno svolto sotto la guida dei loro docenti . I risultati di questi lavori sono stati prima annunciati nel convegno dell’8 febbraio 2013 e poi concretamente presentati nella giornata conclusiva del progetto il 31 maggio 2013 . Nello spirito che ha animato l’Osservatorio fin dai suoi primi passi, la sezione di Scienze dell’Antichità del Dipartimento di Studi Umanistici ha individuato sette studiosi, formatisi presso la scuola pavese, per costituire un team in cui fossero rappresentate tutte le anime del curriculum di antichistica: Claudio Faustinelli, dottorando in letteratura latina presso l’Università degli Studi di Torino, e Alessandro Maranesi, già assegnista in storia romana presso l’Università degli Studi di Pavia, hanno presentato ai ragazzi delle scuole superiori un lavoro sull’agorà e sul foro nelle fonti antiche mettendo in luce continuità e discontinuità fra questi spazi della città antica e i loro corrispondenti nella città moderna; Elena Gagliano, perfezionanda in archeologia classica presso la Scuola Archeologica Italiana di Atene, ha proposto agli studenti delle scuole superiori un quadro della situazione topografica dell’agorà di Atene e del foro romano, mettendo in evidenza la relazione fra gli edifici pubblici e la loro funzione; Chiara Mussi, laureata in archeologia classica e collaboratrice del CRIDACT dell’Università di Pavia, ha presentato ai bambini della scuola primaria il caso particolare del foro di Pavia romana; parimenti, ai bambini della primaria Martina Di Stefano, laureata in letteratura greca, e Serena Brioschi, dottoranda in storia antica presso l’Università degli Studi di Pavia, hanno proposto rispettivamente delle riflessioni sulle funzioni dell’agorà e in generale sulle caratteristiche della polis come comunità e delle considerazioni sulla funzione reale e simbolica della strada e delle vie di comunicazione nel mondo greco; Marco De Pietri, laureando in orientalistica, ha presentato tanto ai bambini della primaria quanto ai ragazzi delle scuole superiori un breve quadro del caso singolare di alcune città orientali, prive di strade e di piazze . In occasione del convegno dell’8 febbraio sono stati esposti nell’Aula di Disegno dell’Università di Pavia dei pannelli didattici, predisposti dai membri del team, in cui sono stati sintetizzati e corredati di immagini i principali problemi e argomenti discussi con gli studenti delle scuole nel corso dei seminari . Non potendo dare conto in questa sede di tutto questo, ai collaboratori dell’Osservatorio è stato riservato uno spazio, dove proporre contributi che prendono spunto dagli argomenti presentati alle classi .

Enrico Corti

Claudio Faustinelli*

la crIsI della cIttà dI roma nella poesIa latIna arcaIca: lucIlIo e la condanna dI lupo La poesia latina è figlia dell’esperienza culturale greca e nasce come letteratura di traduzione; il mondo che ne traspare è spesso legato più ai modelli letterari che all’effettiva realtà della città di Roma, sulla quale, a livello documentario, non offre che pochi indizi, limitati soprattutto a famosi eventi storico-militari, di cui le celebrazioni epiche e tragiche trasmettono un filtrato ricordo. Al di là d’alcuni memorabili ma eccezionali episodi plautini, i primi schietti ritratti poetici della vita quotidiana dell’Urbe si devono a Gaio Lucilio, il cavaliere romano che, tra il 133 e il 102 a.C., inaugura il fortunato genere della satira latina. Dei suoi trenta libri restano solo un migliaio di frammenti, di limitata estensione ed ostica interpretazione; per comprendere l’arte luciliana, dunque, è indispensabile ricorrere anche alle testimonianze di altri autori, in particolare di quelli che seguiranno la scia della sua esperienza letteraria. Nella riflessione metapoetica che chiude il primo libro dei Sermones, Orazio risponde alle critiche di chi, leggendo la satira I 4, non aveva apprezzato l’aspro giudizio espresso sull’inventor del genere satirico: «Sì, ho detto che i versi di Lucilio scorrono con ritmo zoppicante. Chi può essere un fan di Lucilio tanto sciocco da non volerlo riconoscere? E comunque, nella stessa pagina, lo lodo per aver frizionato la città con molto sale» (Hor. S. I 10, 1-4). Orazio distingue il piano dello stile, antiquato e fangoso all’orecchio dei letterati del I secolo a.C., da quello del contenuto, che invece ritiene degno di laus. L’elegante immagine sale multo urbem defricuit illustra con efficacia la missione luciliana – curare le ferite morali della città senza rinunciare al piacere delle facezie (fedeli 1994, p. 511) – ed insieme fornisce un’utile indicazione: target di Lucilio, e sfondo della sua poesia, è l’Urbs, la città di Roma. Nella satira, un genere vantato come creazione originale latina (Quint. Inst. X 1, 93), nonché programmaticamente realistico ed autobiografico, il discorso poetico nasce dalla proiezione dell’hic et nunc dell’autore sulla persona satirica: Roma, i suoi eventi, costumi, abitanti e istituzioni divengono così la grande scena del teatro satirico, in cui persino i temi tradizionalmente letterari, come quello mitico, subiscono una decisa metamorfosi romanizzante. Nell’esordio del secondo libro, lo stesso Orazio indaga le licenze concesse all’aggressione satirica, e ricorda che Lucilio «prese di mira i notabili e il popolo tribù per tribù» (Hor. S. II 1, 69); la cura morale della città consiste dunque in un attacco frontale, condotto su due livelli distinti e complementari: da una parte il popolo, dall’altra i primores, la classe dirigente dell’Urbe che aveva ormai assunto il controllo sul Mediterraneo. L’atteggiamento satirico cui Orazio fa riferimento è ben visibile in un vasto frammento luciliano: «Ora invece, dalla mattina alla sera, nei giorni festivi e in quelli feriali, allo stesso modo e per tutto il giorno, tutti, popolo e senatori, si agitano nel foro, non se ne allontanano mai, e si dedicano tutti alla stessa occupazione e alla stessa arte, quella di riuscire a imbrogliare in modo tranquillo; combattono con gli inganni, gareggiano in lusinghe, fingono di essere persone oneste, fanno agguati, come se fossero tutti nemici di tutti» (1228-34 M). In questo lucido esame di una crisi politica che mostra i segni dell’imminente guerra civile e che si invera nel forum, * Università di Torino.

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centro della vita pubblica di Roma, si conferma l’importanza della dimensione cittadina. La popolazione dell’Urbe è divisa in patres e populus, due classi sociali distinte, ma accomunate dalla medesima, deleteria condotta. La fonte (Lact. Inst. V 9, 20) non dice in quale libro si collocasse questo crudo affresco; autorevoli studiosi (Pierini 1990, mazzoli 2009c) hanno proposto di attribuirlo al libro I, in cui, come si vedrà, l’intera città assurge a protagonista. L’arma luciliana viene però rivolta anche verso singoli cittadini: Orazio ne nomina due (Hor. S. II 1, 67-68), Q. Cecilio Metello Macedonico e L. Cornelio Lentulo Lupo, consoli, rispettivamente, nel 143 e nel 155 a.C. Nella licenza di criticare personaggi pubblici di alto livello risiede la più rilevante differenza tra Lucilio, detentore di una libertas unica, legata anche alla sua condizione sociale, ed Orazio, Persio e Giovenale, che attaccheranno nominatim solo esponenti di classi inferiori, oppure notabili defunti da tempo. Questo libero esercizio dell’onomastì komodèin, unito alla dimensione politica (in senso etimologico) della poesia di Lucilio, permette ad Orazio, in un celebre incipit, di forzare i termini eidetici ed affermare che la produzione luciliana «dipende completamente» dalla commedia arcaica attica (Hor. S. I 4, 1-6). Numerose conferme giungono anche da Persio, che, nella satira d’apertura, ritiene opportuno agitare, per giustificare la sfrontatezza propria del genere, la bandiera dell’inventor (Pers. 1, 114-115): «Lucilio fustigò l’Urbe, e te, Lupo, te, Mucio». Gli oggetti – anche grammaticali – delle metaforiche sferzate di Lucilio sono ancora la città ed i suoi esponenti di primo rango, nelle persone di Q. Mucio Scevola l’Augure (console nel 117 a.C.) e, di nuovo, di Lupo. Costui era dunque la vittima di un’aggressione satirica particolarmente memorabile: le testimonianze ed i frammenti consentono, in questo caso fortunato, di ricostruire il contesto di quest’attacco, nonché di collocarlo nel libro che apriva la seconda raccolta di satire (libri I-XXI), la prima, nella letteratura latina, ad esser composta di soli esametri. Le testimonianze di Servio e Lattanzio (Lact. Inst. IV 3, 12; Serv. A . 10, 104) permettono di inquadrare i frammenti del libro I in un’unica satira, un Concilium Deorum (parodia di ben più seriosi consessi divini dell’epica greca e latina) in cui le divinità «tenevano un’assemblea sugli interessi supremi degli uomini» (4 M), per stabilire «in che modo si potessero preservare il popolo e l’Urbe romana» (5-6 M): l’ottica, nel frammento che presenta l’unica occorrenza luciliana del sostantivo Urbs, è da subito romano-centrica (charPin 1978, p. 194). Peraltro, l’assemblea divina è presentata come esatto corrispettivo della massima assemblea romana: la procedura è quella delle sedute del Senato, e i partecipanti, tutti di sesso maschile, sono ironicamente tutti patres, come i senatori romani, poiché quello è l’appellativo con cui vengono chiamati nei culti. Tutti, tranne Apollo, che, unico tra le principali divinità romane a mantenere il nome originario anche in latino, protesta per questa discriminazione: nei riti è chiamato non pater (19-22 M), ma pulcher (traduzione di kalòs), titolo di cui non va per nulla fiero, poiché alle orecchie dei romani suona come un epiteto da effeminati (23 M). Si nota, in questo dissacrante siparietto ambientato in un pantheon romanizzato (charPin 1978, pp. 199-200), un primo pesante scherno nei confronti dei costumi greci. Per i vizi in cui è sprofondata, Roma rischia di non avere più speranze di salvezza; gli dei cercano il modo di «rinviare» la catastrofe, «se non di più, almeno per la durata di questo solo lustro» (7 M), o, in caso disperato, di capire «come poter onorare comunque il compito, e salvare almeno le mura» (8 M). Nell’assemblea vi sono dissensi; i vivaci scambi dialogici assumono tratti decisamente umani, e fa capolino, nell’argomentazione, la parodia della retorica e della filosofia: gli dei, sedicenti viri sapientes (30 M), si lanciano in giochi logico-

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retorici (40-42 M), giungendo a mettere in dubbio la propria capacità divinatoria (33-35). Tutto questo cavillare rende ancor più complesse le questioni trattate, tanto che Nettuno ammette che il problema non potrebbe essere risolto «neppure se l’Orco ci rimandasse indietro Carneade» (31 M), campione di sottigliezza argomentativa; qualcun altro fa notare che, così facendo, si creano solo difficoltà inesistenti (36 M). Non è difficile leggere, in questi dialoghi, un attacco alle istituzioni repubblicane e ai suoi rappresentanti, persi in discussioni futili, intenti a sfoggiare apparente sapienza piuttosto che a risolvere i cogenti problemi dello Stato. Gli dei prendono in esame le colpe mortali dell’Urbe. Nella vita pubblica – civile e militare – dilaga la mera ricerca del guadagno (10 M), e persino i provvedimenti politici calpestano candidamente il terreno dell’illegalità (48 M). La condotta dei Romani tuttavia non è migliore nella sfera privata. Le sane abitudini del tempo andato, in cui gli uomini solevano «odiare la bettola infamante, impura e turpe» (11 M), sono soppiantate da una dilagante passione per gli eccessi di gola; ancor più deleterie, per la morale, sono le conseguenze dell’accettazione supina della cultura orientale: a una diffusa brama di possedere oggetti di lusso provenienti dall’oriente grecofono (12-4 M) si somma una dilagante mania di chiamare con nomi greci oggetti già da tempo esistenti nella tradizione romana (15-7 M). Al termine della faticosa riunione, benché non vi sia unanimità, si giunge a una decisione comune (51-2 M); è necessario punire con la morte (3 M) colui che, scatenando l’ammirazione dei delinquenti (37-9 M), come una malattia infettiva (53 M) corrompe il popolo di Roma col suo pessimo esempio: l’uomo, il cui solo aspetto rivela corruzione di carattere e costumi (43-46 M), è Lucio Cornelio Lentulo Lupo. Politico tanto potente quanto oscuro, Lupo sarà ricordato a lungo come simbolo della mutevolezza delle sorti umane (Val. Max. VI 9, 10): passato in breve tempo dal consolato (156 a.C.) ad un’infamante condanna per peculato, viene poi riabilitato con rapidità, tanto da ottenere la prestigiosa carica di censor (147 a.C.), che gli consentirà poi di raggiungere (131 a.C.) l’incarico quinquennale di princeps senatus (Ps.-Acr. ad Hor. S . II 1, 67), che fatalmente non riuscirà a terminare1. Proprio la morte di Lupo dà a Lucilio (come avverrà per Seneca) lo spunto per comporre, a brevissima distanza, questo libello, in cui la ferocia satirica rilegge la scomparsa del princeps senatus come l’esito di una salvifica decisione divina: la morte, sentenzia il concilium, avverrà in un banchetto, per indigestione di pesce (53-4 M). Se Lupo è scelto come capro espiatorio dei mali della città in quanto esempio negativo contagioso, è probabile che i vizi dell’Urbe individuati dagli dei siano, nel discorso satirico, rinfacciati anche all’uomo della gens Cornelia. Il tema dell’illegalità pubblica ben si attaglia ad un politico condannato de repetundis; inoltre, nonostante non si abbia notizia di una particolare passione di Lupo per i banchetti, la modalità di morte decretata – per contrappasso? – dagli dei fa pensare che nel libro si insista anche sulla voracità del personaggio, una caratteristica che, nell’ottica di un motteggio satirico avvezzo allo sfottò onomastico (cUcchiarelli 2001, pp. 24-25), ben si sposa con il suo cognomen (mazzoli 2009, p. 490). Si potrebbe dunque pensare che anche l’insistita accusa di ‘grecomania’, cioè la passione per il lusso ed il lessico ellenico (sintomo d’accettazione supina del maggior prestigio dell’altrui cultura, un volontario complesso d’inferiorità che Lucilio disprezza), sia diretta non solo al 1

tovani

Per la complessa, ma risolta, questione prosopografica, cfr. marx 1904, pp. XXXVI-XXXVII; man2009, pp. 30-35.

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popolo, ma anche a Lupo. A tale passione si collegherebbe anche quella, non infrequente tra i primi cittadini dell’epoca, per le filosofie ellenistiche2: nell’analogia parodica istituita dal poeta tra Olimpo e Roma, lo sterile filosofeggiare del ‘Senato degli dei’ sembra proprio voler bersagliare un reale atteggiamento del Senato romano, tipico forse anche del suo princeps. La proiezione della variegata grecomania cittadina sulla figura di Lupo, limitandosi a questi frammenti, appare poco più di un’avventata ipotesi, il cui valore però aumenta se si apre lo sguardo alle intere reliquiae luciliane: essa può infatti trovare un avallo in un secondo luogo luciliano in cui si nomina il medesimo personaggio e, soprattutto, può aiutare a meglio comprenderne un terzo. Il frammento 1312-3 M, tramandato nel De natura deorum, «incasella Lupo in una degna compagnia di periuri, impuri e negatori di dei» (mazzoli 2009, p. 489): è decisamente probabile che questa nomea di miscredente sia dovuta non ad un professato ateismo, bensì all’interesse di Lupo, anche solo amatoriale, per la speculazione delle scuole filosofiche ellenistiche (molte delle quali non evitano di discutere l’esistenza degli dei tradizionali: cfr. Cic. N .D . 1, 61), magari con quell’atteggiamento eclettico che contraddistingue tutta la prima fase dell’acculturamento filosofico della civiltà romana. Non va peraltro tralasciato un dato importante, cioè che Lupo compì una legazione in Grecia ed Asia (mantovani 2009, p. 30): si può pensare che egli abbia maturato tale passione durante questa esperienza, ritenendo poi di poterla sfoggiare una volta tornato in patria. L’appoggio più forte a questa lettura, e l’apporto più utile della stessa, viene però dal confronto con il fr. 784-790 M3, tramandato da Servio: «quando avrai fatto ciò, il reo, insieme con gli altri, sarà consegnato a Lupo. Non si presenterà: egli priverà l’uomo contemporaneamente dei principi e degli elementi primi, quando l’avrà interdetto dall’acqua e dal fuoco; gli restano due elementi. Si presenterà: se così avrà preferito, Lupo lo priverà comunque dell’anima e del corpo (il corpo è terra, l’anima è spirito), gli altri elementi». Il testo presenta un discorso diretto in cui il locutore prospetta l’andamento di un futuro processo capitale, di cui non conosciamo né l’imputato né il capo d’imputazione: sappiamo che il giudice sarà Lupo, e che entrambi gli esiti prospettati saranno negativi per il reo. La genialità poetica del frammento risiede nella reciproca intersezione lessicale e tematica tra due sfere tecniche, quella giuridica e quella filosofica: con un esemplare gioco di traslazione semantica, partendo dalla metafora legale dell’ignis et aquae interdictio, l’autore giunge, attraverso il passaggio mediano della riconcretizzazione, alla rimetaforizzazione dei due concetti in ambito filosofico. Secondo una teoria empedoclea adottata (ed adattata) da diverse correnti filosofiche antiche, nonché presente in diversi precedenti letterari (mantovani 2009, pp. 39-44), fuoco ed acqua, insieme ad aria e terra, costituiscono i rizòmata, i quattro elementi primi della materia. Nel frammento, da un punto di vista strettamente filosofico, si riscontrano diverse incoerenze: i rizòmata sono designati da Lucilio con due termini greci (archài, stoichèia) posteriori ad Empedocle e tra loro non equivalenti, eppure uniti in endiadi, senza specifica differenza di uso (terzaghi 1934 p. 179; mantovani 2009, p. 40); inoltre, nel finale, lo pnèuma dell’a2 Il poeta, tutt’altro che privo di doctrina (mariotti 1960, pp. 3-40), non vuol certo condannare in toto la filosofia greca, di cui è un colto appassionato (conobbe, peraltro, Panezio e Clitomaco), ma piuttosto sbeffeggiare, come i successori, una certa filosofia dilettantesca, vuota e fine a se stessa. 3 Seguo il testo di shacKleton Bailey 1980.

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nima stoica viene assimilato, in modo anomalo, all’aria. La ragione di queste incoerenze è evidente: Lucilio non vuole presentare la dottrina di una determinata setta filosofica, ma intende dare al suo witz (la cui perfezione d’insieme richiede di per sé approssimazione nei termini) una generica coloritura di filosofia e di grecità che risulti, grazie all’accumulo comico di vocaboli tecnici ed insieme stranieri, umoristicamente efficace. Torniamo al contenuto. Nel frammento, con impeccabile lessico giuridico, vengono prospettate due possibilità per il reo; se non si presenterà al processo, subirà l’interdictio, con cui verrà privato di due elementi (l’acqua ed il fuoco), ritrovandosi, nella paradossale logica fisico-aritmetica adottata dal giudice Lupo, a possedere solo gli altri due, la terra e l’aria, cioè l’anima ed il corpo. Fuor di metafora: il reus, se deciderà di non comparire al processo, sarà punito severamente con l’esilio, ma riuscirà comunque a conservare la vita. Se invece sceglierà di difendersi nel processo, il giudice lo priverà anche dei due elementi con cui si è presentato al giudizio, vale a dire anima e corpo: l’imputato, insomma, subirà la condanna a morte. La critica luciliana ha sempre visto, in questa alternativa apparentemente anomala, un attacco alla probitas di Lupo, giudice tanto ingiusto da condannare ad una pena inferiore un imputato contumace; la tesi veniva avallata da (e insieme avallava) un errato emendamento che permetteva di leggere, in Servio, la notizia di un Lupo iudex improbus4. Tale interpretazione, tuttavia, oltre ad avere il limite di interpretare la veste filosofica del frammento come mero espediente per creare un witz del tutto slegato dall’attacco satirico, si scontra con un’obiezione decisiva: approfondendo il contesto giuridico del II sec. a.C., si è recentemente dimostrato che la scelta tra la contumacia e la comparizione, in simili processi, è nelle mani del reus, il quale può decidere in questo modo se sottoporsi o meno alla legge e, dunque, all’eventuale pena capitale, che è comunque comminata ma, in caso d’esilio volontario, ovviamente non eseguibile (mantovani 2009, pp. 44-62). Non vi è alcun tipo di ingiusto arbitrio da parte di Lupo, che deve solo sancire l’automatica conseguenza della decisione del reo: «di sicuro, il suo comportamento è ineccepibile sul piano della legalità» (mantovani 2009, p. 62, n. 130). Perciò, in questi versi Lucilio non dipinge il suo proverbiale inimicus come un giudice ingiusto; se l’autore menziona Lupo per schernirlo (come sembra ovvio), lo scherno va ricercato su un piano diverso: una nuova possibile soluzione può derivare da quanto detto in precedenza. L’esordio del frammento è gremito di sintagmi giuridici, espressioni tecniche tipicamente latine che designano procedure orgogliosamente romane. Non appena Lupo diviene soggetto attivo del periodo e del prospettato processo, emergono invece temi e lessemi della speculazione filosofica greca; il giudice, secondo il parlante (e Lucilio) che intende schernirlo, interpreterà la sua funzione pubblica in modo estraneo alla concezione indigena del diritto, e tenterà di dare al proprio provvedimento, mediante un gioco di spostamento semantico, una lettura pseudo-razionalizzante, utilizzando categorie filosofiche non specifiche di una singola scuola, ma esplicitamente connotate, grazie all’accumulazione incoerente di grecismi e parole greche, come genericamente elleniche. Il ripensamento del diritto romano sulla base della filosofica greca aveva conosciuto un’espansione proprio nel corso del II sec. a.C., ma non è questa grande operazione culturale ad essere evocata nel frammento: Lucilio presenta un immaginario, dilettantesco e ridicolo 4

Serv. A. 10, 104; mUrgia 1970 e mazzoli 2009, p. 478.

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tentativo di Lupo di nobilitare ed ingigantire, mediante il conferimento di una patina di generica grecità ideologica e linguistica, i suoi provvedimenti, la sua funzione e la sua stessa figura. L’attacco satirico sferrato dall’autore al suo avversario appartiene dunque, qui come nel libro I, alla tipologia, comune nell’opera di Lucilio, della critica alla sempre più diffusa moda di affettare atteggiamenti (comportamentali e linguistici) e gusti (intellettuali e materiali) ispirati alla Graecia capta. Abbreviazioni bibliografiche charPin f. 1978, Lucilius, Satires . Tome I (livres I-VIII) . Texte établi, traduit et annoté par F . Charpin, Paris. cUcchiarelli a. 2001, La satira e il poeta . Orazio tra Epodí e Sermones, Pisa. fedeli P. 1994, Q . Orazio Fiacco . Le opere . Tomo secondo: le satire, Roma. mantovani d. 2009, Un giudizio capitale nelle Satire di Lucilio (vv . 784-790 M . = fr . XXVIII .29 Ch .), in B. Santalucia (ed.), La repressione criminale nella Roma repubblicana fra norma e persuasione, Pavia, pp. 25-62. mariotti i. 1960, Studi luciliani, Firenze. marx f. 1904, C . Lucilii carminum reliquiae . Recensuit enarrauit Fridericus Marx . Volumen prius, Lipsiae. mazzoli g. 2009, Fra diritto e poesia . I primi due libri delle Satire di Lucilio, in B. Santalucia (ed.), La repressione criminale nella Roma repubblicana fra norma e persuasione, Pavia, pp. 475-492. mUrgia c.e. 1970, Lucilius, Fragment 3 (Marx), in “TAPhA”, 101, 1970, pp. 379-386. Pierini r. 1990, Le battaglie del foro (per l’esegesi e la collocazione dei vv . 1228 ss . M . di Lucilio), in “Maia”, 42, 1990, pp. 249-255. shacKleton Bailey d. r. 1980, Stray Lights on Lucilius, in “CJ”, 76, 1980, pp. 117-118. terzaghi n. 1934, Lucilio, Torino.

Alessandro Maranesi*

cIttà dell’adventus e cIttà della memorIa In epoca costantInIana Un’acuta osservazione di Edward Gibbon pone in rilievo uno degli elementi che meglio differenziano il sistema della comunicazione politica del primo impero e quello instaurato tradizionalmente a partire da Diocleziano: «L’alterigia di Diocleziano, come l’affettata modestia di Augusto, era una commedia; ma si deve riconoscere che delle due commedie, la seconda era di un carattere molto più nobile e virile della prima. L’uno voleva nascondere l’infinito potere degl’imperatori sul mondo romano, l’altro ostentarlo» (giBBon 1967, p. 346). L’obiettivo di questo testo è di contribuire, sullo sfondo di tale affermazione, a fornire una proposta di lettura sul ruolo tenuto dalla città, intesa sia come spazio di realizzazione di una dimensione rituale e liturgica di ambito urbano sia come concetto astratto nella comunicazione politica nei primi anni dell’era di Costantino. In particolare, ci si concentrerà su questi temi: – La legittimazione del potere e la rappresentazione dell’imperatore nella città della prima epoca costantiniana (anni 307-321); – Il ruolo di Roma nella produzione del consenso politico e della rappresentazione retorica di un modello di valori. Anche per il primo punto si può trarre spunto da un’affermazione di Edward Gibbon: «Un osservatore filosofo potrebbe scambiare il sistema di governo romano con uno splendido teatro, pullulante di attori di ogni genere e levatura, che ripetono gli accenti e imitano le passioni dei loro modelli originali» (id., p. 170): è qui mia intenzione riprendere questa affermazione per sottoporre ad analisi storica il rapporto tra la più tradizionale delle manifestazioni pubbliche imperiali romane (l’adventus) e la dimensione spaziale in cui tale cerimonia avveniva (la città)1. Com’è ben noto, gli imperatori a partire dal III secolo furono sempre più lontani da Roma ma anche dalle altre capitali imperiali, impegnati su fronti di guerra lungo i confini o residenti in altre città strategicamente molto importanti. In simili condizioni, il ritorno nelle capitali assumeva il carattere di un avvenimento talmente eccezionale che sia il popolo sia la curia erano soliti accorrere per accogliere il loro imperatore. L’origine dell’adventus non è chiara, sappiamo però che Augusto, nelle Res gestae, parla di onori mai «decretati a nessuno eccetto che a me»2 riferendosi all’ingresso a Roma del 19 a.C., secondo modalità che erano state stabilite addirittura da un senatoconsulto. Già Cicerone, però, parlando del suo adventus a Roma dopo l’esilio del 57 a.C., utilizzava una terminologia ancora più roboante, a tal punto da dire che uomini e donne di ogni età, condizione e ordine si rallegravano per il suo ritorno3. In ogni caso, come registra Augusto Fraschetti, «gli adventus degli Augusti * Università di Pavia. 1 Riprendendo maccormacK 1981, p. 26: «Il momento di contatto diretto fra l’imperatore in visita e la comunità permette di chiarire quale fosse il giudizio della tardo-antichità su quegli elementi del consensus, in termini di incontri e accoglienza, su cui si basava sia in teoria che in pratica, il potere imperiale». 2 Aug. R .G . 12, 1: honos [ad ho]c tempus nemini praeter [m]e es[t decretus . 3 Cic. Pis . 52: «Sembrò non solo che tutti gli uomini di tutte le famiglie, le età, e le classi sociali e le donne di ogni sorta e schiatta, ma anche le mura stesse e i tetti della città e i templi si rallegrassero».

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erano destinati a divenire in epoca imperiale avanzata momenti fondamentali nella vita cerimoniale urbana, con propri ritmi e proprie scansioni» (fraschetti 1999, pp. 243-244). A tal proposito, Ramon Teja (teJa 1993, pp. 613-15) ha affermato che è lecito vedere nell’atteggiamento anche nel corso degli adventus di Diocleziano che soppresse la maschera posta a coprire il potere assoluto degli imperatori, «l’origine di nuove forme di relazione fra il potere e i sudditi e che tale mutamento è da intendersi come un tema centrale per comprendere la vita sociale e politica del Basso Impero». Lo studioso omette però di individuare quali siano stati i processi simbolici e sociologici che hanno portato a questo cambiamento di relazione. Non si può infatti non sottolineare che l’aspetto spettacolarizzato del potere diventava nel tardo impero, da un lato, cerimonia e ostentazione, dall’altro presupponeva la presenza e il governo diretto, seppure per un periodo di tempo limitato, del più illuminato attore dello “splendido teatro”, l’imperatore. Lo “splendido teatro” in questione era la città, oggetto della sua visita e luogo deputato in quell’occasione a farsi palcoscenico di una vera e propria liturgia del potere (maccormacK 1981, p. 27). Il rapporto tra adventus e città è condizione necessaria per il suo stesso svolgimento, come propone la serie di passaggi di seguito esposta, secondo il modello di Lehnen (lehnen 1997, p. 405): 1. Preparativi; 2. Occursus (un gruppo di senatori e notabili cittadini va incontro all’imperatore); 3. Introitus (l’imperatore entra in città da una delle porte); 4. Passaggio attraverso la città; 5. (Fino all’ingresso di Costantino a Roma nel 312, l’imperatore sacrificava agli dèi); 6. Discorso dell’imperatore davanti al senato e al popolo; 7. Giochi. La città diventava in questo contesto una sorta di scenografia nel processo dell’adventus: i suoi luoghi e i suoi spazi venivano, ad esempio, sontuosamente decorati, come spiega Cassio Dione in riferimento ad un’entrata di Nerone (D.C. 63, 4, 3). Giuseppe Flavio ci ricorda invece come per l’adventus di Vespasiano la città venisse trasformata, addirittura, in un enorme tempio, con ghirlande e incensi distribuiti lungo tutte le strade (Ios. Bell . Iud. VII 71). Sempre Cassio Dione ci racconta che durante l’entrata in città di Settimio Severo Roma venne riempita di alloro e fiori ed adornata di grandi teli colorati (D.C. 74, 1, 4). L’età costantiniana, da questo punto di vista, non fa eccezione: in visita alla città di Autun nel 311/312, appena terminati gli scontri con Massimiano e subito prima della battaglia di Ponte Milvio, narra un anonimo panegirista che le strade furono abbellite e arricchite di decorazioni in occasione dell’arrivo dell’imperatore (Pan . Lat . VIII 8, 4). Strade e palazzi, riempiti di simboli, ma anche le tante persone di ogni ceto sociale che attendevano l’imperatore, diventavano così decorazione all’interno della liturgia, tutto questo almeno fino a quando Teodosio primo non decise di vietare le ghirlande in occasioni dei suoi arrivi4. Questi aspetti decorativi, uniti a fiaccole condotte da chi guidava il corteo (alföldi 1970, p. 113) e una particolare attenzione per gli abiti con cui veniva rappresentato il rito (interessante a tal proposito la descrizione di Marziale sulla veste bianca di Domiziano durante il suo adventus a Roma5), rappresentano un aspetto di continuità nel rapporto città/adventus 4 5

Cod . Theod . 16, 10, 12: (nullus) serta suspendat. Mart. VIII 65.

CITTà DELL’ADVENTUS E CITTà DELLA MEMORIA IN EPOCA COSTANTINIANA

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che caratterizza sia la prima età imperiale sia quella più tarda e tocca quindi anche il mondo costantiniano. Durante il quale avviene però, come noto, una delle entrate imperiali più discusse dell’intera storia romana: quella del 312, immediatamente successiva alla battaglia di Ponte Milvio, durante la quale Costantino si sarebbe rifiutato di compiere il tradizionale sacrificio a Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio. La fonte in nostro possesso a riguardo, un anonimo panegirico del 313, ci ricorda come Costantino abbia assistito ai giochi (Pan . Lat . IX 19, 6), abbia visitato la curia (Pan . Lat . IX 20, 2) e abbia preso parte ad una seduta del Senato (ivi). Manca invece la descrizione dell’ascesa al tempio, tanto da aver fatto affermare in tempi recenti ad Augusto Fraschetti che le informazioni a noi pervenute rappresenterebbero un «dossier su un ‘silenzio’» (fraschetti 1999, p. 63): il retore sorvola infatti sospettosamente sulla parte religiosamente più significativa dell’adventus pagano proprio all’indomani della visione e della conversione che ci sono testimoniate da Lattanzio (De mort . 44, 5) ed Eusebio (H .E . IX 9, 1) e, pur tenendo conto della autorevole posizione di Alföldi (alföldi 1970, pp. 140-143), ormai buona parte della critica è convinta che quello compiuto da Costantino fu una scandalosa omissione nel rituale di celebrazione dell’arrivo imperiale. A ciò si aggiunga, come già individuato da Johannes Straub (straUB 1939, p. 98), che non mancò il vociare infastidito da parte di alcuni per l’eccessiva velocità con cui Costantino pareva voler mettere fine a questo rito. Sempre il panegirista del 313, infatti, ci dice che: «Alcuni osarono anche chiedere che tu ti fermassi e lamentarsi che avessi raggiunto il Palazzo con tanta fretta e, quando fosti entrato, non solo osarono seguirti con gli occhi, ma quasi anche superare la sacra soglia»6 (trad. it. a cura di A. Fraschetti).

In altri termini questo adventus è stato testimone di un vero e proprio doppio ‘scandalo’, in grado di turbare gli equilibri politici e rituali su cui si costruiva l’ordinamento cittadino. Tali due episodi, se comparati, sono significativi proprio perché sintomatici della centralità della ritualità nel mondo urbano tardoantico. Essi inoltre testimoniano il valore di questa dimensione all’interno di un ampio sistema, nel quale la città diventava il palcoscenico. Su di esso andava in scena una rappresentazione del potere imperiale (maccormacK 1995, p. 28), secondo dei codici simbolici (flaig 2003, pp. 9-12) che non potevano essere sviliti o, peggio, non rispettati. Patrizia Arena, a tal proposito, ha notato che «la nuova vita cerimoniale, che si sviluppa a partire dall’età di Costantino, una volta eliminata l’ascesa al Campidoglio (più in particolare al tempio di Giove Ottimo Massimo), tende a privilegiare altri luoghi come spazi d’incontro dello stesso Augusto con la sua città: la visita nella curia, là dove si raccolgono i senatori; nelle sue immediate vicinanze la zona degli antichi rostra, la tribuna degli oratori, intorno al quale affluisce il popolo composto e festante in attesa dell’adlocutio imperiale, il circo, dove questo stesso popolo può esprimersi all’evenienza più liberamente, anche se con manifestazioni di dissenso politico soprattutto in materia religiosa» (arena 2011, p. 31). I fatti narrati (e omessi) nel panegirico del 313 sottintendono però anche una realtà dei fatti che, almeno subito dopo la battaglia del Ponte Milvio, dovette essere meno pacifica e certo non di immediata soluzione. Gli abitanti di Roma innalzarono le loro lamentele quando venne a mancare il rispetto per una dimensione spazio-temporale (la processione imperiale doveva percorrere determinate vie ad una ben precisa velocità così da esporsi al pubblico secondo una 6 Pan . Lat . IX 19, 3: Ausi etiam quidam ut resisteres poscere et queri tarn cito accessisse palatium et, cum ingressus esses, non solum oculis sequi sed paene etiam sacrum limen inrumpere .

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chiara liturgia) della vita cittadina che avrebbe potuto permettere una interazione tra populus e imperator. Considerare la città puro fatto decorativo all’interno della semantica del rito (flaig 2003, pp. 9-12), con la popolazione caratterizzata soltanto dall’essere parte di una scenografia durante il passaggio dell’imperatore o le acclamazioni (D.C. 74, 1, 4), è da intendersi quindi come riduttivo. Lo testimonia il momento in cui una delle due parti in causa, in questo caso Costantino, non rispetta un equilibrio sociale determinato da «rituali della vicinanza e cerimoniale della distanza» (ronning 2007, p. 266). Immediatamente la città diviene terra di proteste, poiché l’imperatore, sottrattosi al dovere rituale dell’esposizione del proprio corpo davanti al pubblico, si era anche rifiutato di auto-rappresentare il suo ruolo davanti alla città. C’è un secondo aspetto su cui vale la pena di soffermarsi in un’analisi della simbologia politica sulla città di età costantiniana, ovvero quello della trasfigurazione di Roma da città a modello concettuale e ideologico. In più occasioni, infatti, l’Urbe diviene un modello funzionale a creare consenso e a legittimare il potere politico dell’imperatore, nonostante questa ormai da tempo avesse perso di centralità come spazio di gestione del potere. Nella retorica filo-costantiniana e di encomio, Roma assume il ruolo di strumento di creazione del consenso e occasione di ricostruzione della memoria storica in quanto luogo di legittimazione politica. Attraverso la figura retorica della prosopopea, alla città viene così attribuito un nuovo significato, quello di terreno di crescita di un immaginario collettivo. L’anonimo retore del 313, che compose il suo testo encomiastico subito dopo la battaglia di Ponte Milvio e lo recitò di fronte alle classi urbane più elevate di Autun7, così evoca la presenza e la protezione fornita dalla città durante il vittorioso scontro contro Massenzio: «Ma la mente divina e la maestà eterna della Città stessa tolsero a quell’uomo scellerato il bene dell’intelletto: dopo essere stato così a lungo in quel torpore e in un vergognoso nascondimento, d’un tratto decise di venire fuori e di segnare il suo giorno anniversario con l’estrema sua rovina (trad. it. a cura di D. Lassandro e G. Micunco)»8.

Nello stesso testo, anche il Tevere personificato diviene parte dello stesso disegno: «Sacro Tevere: un giorno mettesti sull’avviso il profugo Enea; poi salvasti Romolo abbandonato; al nostro tempo tu non hai permesso che vivesse a lungo un falso Romolo e che potesse salvarsi a nuoto il parricida della Città. Tu che nutri la tua Roma trasportando gli approvvigionamenti, tu che la difendi bagnando le sue mura, giustamente hai voluto prendere parte alla vittoria di Costantino: lui ha ricacciato nelle tue acque il nemico, tu l’hai finito (trad. it. a cura di D. Lassandro e G. Micunco)»9.

Nazario, che scrive il suo lungo panegirico nel 321 e lo recita a Roma in assenza dell’imperatore ma davanti ai figli Crispo e Costantino II, fornisce un saggio, rievocando la battaglia di Ponte Milvio, di quale ruolo potesse ormai avere Roma in un’epoca di crisi politica ma anche di formalizzazione di una retorica del potere in senso tradizionalistico10: 7 noè 2007, p. 498: «Ci si è chiesti l’ambito di diffusione di questa propaganda: può forse valere l’immagine di un uditorio selezionato, soprattutto di ceti dirigenti cittadini, uditorio che faceva da cassa di risonanza per le altre categorie sociali». Interessante ad esempio è il caso di Pan . Lat. V 10, 2: maximorum principum facta celebrare (quis enim melior usus est eloquentiae)? . 8 Pan . Lat . IX 16, 2: Sed divina mens et ipsius Urbis aeterna maiestas nefario homini eripuere consilium, ut ex inveterato illo torpore ac foedissimis latebris subito prorumperet et consumpto per desidias sexennio ipsum diem natalis sui ultima sua caede signaret, ne septenarium illum numerum sacrum et religiosum vel inchoando violaret . 9 Pan . Lat . IX 18, 1: Sancte Thybri, quondam hospitis monitor Aeneae, mox Romuli conservator expositi, tu nec falsum Romulum diu vivere nec parricidam Urbis passus es enatare . Tu Romae tuae altor copiis subvehendis, tu munitor moenibus ambiendis, merito Constantini victoriae particeps esse voluisti, ut ille hostem in te propellere tu necares . 10 giorcelli Bersani 2007, p. 485: «Fornire coordinate ideologiche alla luce delle quali interpretare il

CITTà DELL’ADVENTUS E CITTà DELLA MEMORIA IN EPOCA COSTANTINIANA

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«O Roma, felice finalmente per una vittoria in una guerra civile! Un tempo fecero irruzione in città Cinna pieno di furore e Mario colmo d’ira, che, non sazi solo della morte del console Ottavio, soppressero gli uomini più luminosi della città e lasciarono un esempio, che per questi sei anni interi tu hai dovuto vedere riproposto. Già un’altra volta, presso la Porta Collina, fu Silla a riportare la vittoria, ma felice sarebbe stato per la città, se fosse stato più moderato nella vendetta; e invece riempì i Rostri di molte teste. Solo Costantino, ponendo termine alla guerra, ha posto fine anche alle intemperanze che seguono una vittoria; le spade non permise di impugnarle neppure per uccidere coloro che tu volevi fossero mandati al supplizio (trad. it. a cura di D. Lassandro e G. Micunco)»11.

Come è evidente, il passo evidenzia rimandi storici e letterari propri del mondo repubblicano e della prima età imperiale (con particolare riferimento alla dinastia giulio-claudia). La presenza di Roma nella retorica del potere di inizi IV secolo era divenuta non più solo descrizione di uno spazio urbano, ma parte di un’idea di memoria e di tradizione. Questa doveva rappresentare, senza ombra di dubbio, un insieme di valori e reminescenze care al pubblico, composto in larga parte dalle classi sociali più elevate della parte occidentale dell’impero. Roma, svuotata della sua centralità politica, diviene ideologia, formalizzazione di un modello di civiltà, mostrando così come anche lo spazio urbano fosse ormai diventato, all’inizio del IV secolo, strumentazione retorica da usare all’interno di un discorso politico12 e nella formazione degli “ordini normativi” dell’impero nel difficile percorso di riunificazione post-tetrarchica. In conclusione, è lecito dunque affermare che durante la prima età costantiniana l’ambito urbano fosse da un lato luogo deputato a una vita rituale che coincideva in buona parte col problema della semantica della politica, con una codificazione dei modelli comunicativi tale da non permettere al pubblico presente di accettare mutamenti nella messa in scena del personaggio dell’imperatore. Dall’altro lato, è possibile constatare come la città fosse anche oggetto di trattazione retorica e comunicativa: essa si fa intrinseca portatrice di un sistema di valori e di una vera e propria ideologia. Roma, in particolare, supera il proprio ruolo di mero ‘spazio urbano/ luogo vissuto’ per diventare oggetto della propaganda e paradigma di un sistema di valori in grado anche di supportare posizioni identitarie. Abbreviazioni bibliografiche alföldi a. 1970, Die Monarchische Repräsentation in römischen Kaiserreiche, Darmstadt. arena P. 2011, Feste e ritualità a Roma . Il principe incontra il popolo nel Circo Massimo, Bari. flaig e. 2003, Ritulisierte Politik . Zeichen, Gesten und Herrschaft im alten Rom, Göttingen. fraschetti a. 1999, La conversione . Da Roma pagana a Roma cristiana, Roma-Bari. giBBon e. 1967, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, trad. it., Torino 1967 [ed. or. History of the Decline and Fall of the Roman Empire, London 1909-1913].

passato e determinare il presente, definendo una vulgata storica rassicurante i contemporanei e un ottimistico giudizio sul futuro inaugurato dall’avvento del nuovo princeps». 11 Pan . Lat . IX 20, 3-4: O tandem felix civili, Roma, victoria! Inrupit olim te Cinna furiosus et Marius iratus, qui non solo se Octavii consulis capite satiarunt sed luminibus civitatis exstinctis exempla, quae nunc toto sexennio passa es, reliquerunt . Vicit iterum tibi ante portam Collinam Sulla, felix si se parcius vindicasset; enim multis capitibus rostra complevit . Constantinus victoriae licentiam fine proelii terminavit; gladios ne in eorum quidem sanguinem distringi passus est quos ad supplicia poscebas . 12 noè 2007, p. 497: «Siamo così di fronte all’invenzione di una tradizione, al tentativo di fondare una dinastia imperiale che costruisce una memoria pubblica di se stessa».

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giorcelli Bersani s. 2007, «Ancient», «recent», «immediate past»: ricostruire il passato e legittimare il presente nei Panegyrici latini, in P. Desideri, S. Roda, A.M. Biraschi (a cura di e con la collaborazione di A. Pellizzari), Costruzione e uso del passato storico nella cultura antica (Atti Firenze 2003), Alessandria, pp. 483-494. lehnen J. 1997, Adventus Principis. Untersuchungen zu Sinngehalt und Zeremoniell der Kaiserankunft in den Städten des Imperium Romanum, Frankfurt a/M. maccormacK s. 1981, Art and ceremony in late antiquity, Berkeley [= Arte e cerimoniale nell’antichità, trad. it., Torino 1995]. noè e. 2007, Cultura della memoria e costruzione di immagine in un retore del IV secolo, in P. Desideri, S. Roda, A.M. Biraschi (a cura di e con la collaborazione di A. Pellizzari), Costruzione e uso del passato storico nella cultura antica (Atti Firenze 2003), Alessandria, pp. 495-510. ronning c. 2007, Herrscherpanegyrik unter Trajan und Konstantin . Studien zur symbolischen Kommunikation in der romischen Kaiserzeit, Tübingen. teJa r. 1993, Il cerimoniale imperiale, in AA.VV., Storia di Roma, III, t. I, Torino, pp. 613-642.

Elena Gagliano*

l’herakles altemps nel Foro boarIo? nota sull’IdentIFIcazIone dell ’ archetIpo della statua colossale dI p alazzo a ltemps In roma** La presenza di Hercules nel Foro Boario a Roma è stata oggetto di numerosi studi, riguardanti la topografia, come il culto1, anche alla luce di una interessante testimonianza di Plinio (Nat . Hist . XXXIV 57), che riferisce di una statua di Mirone rappresentante Hercules, esposta, al suo tempo, nella aedes Pompei Magni, nei pressi del Circo Massimo. È questa uno dei tre edifici dedicati a Hercules nell’area del Foro Boario, magistralmente studiata da Coarelli attraverso la comparazione tra le fonti letterarie e le fonti archeologiche. Essi sono: la Aedes Herculis Invicti in foro Boario, altrimenti nota come aedes Aemiliana Herculis, identificabile con il tempio rotondo, distrutto nel XV sec. da Sisto IV, sito a N dell’attuale chiesa di S. Maria in Cosmedin; la Aedes Herculis Invicti ad circum Maximum, corrispondente alla Aedes Pompeiana Herculis, sorta accanto all’Ara Maxima Herculis, con le caratteristiche di un tempio tuscanico arcaico; infine la aedes Herculis ad portam Trigeminam, originariamente dedicata ad Hercules Victor, identificata con il c.d. tempio di Hercules Olivarius (coarelli 1988, pp. 60-105; id. in LTUR III, pp. 15-17). La statua mironiana, che Plinio dice esser stata esposta all’interno della Aedes Pompeiana Herculis, è stata riconosciuta (Palagia in Boardman et al . 1988, pp. 772-773; Palagia 1990) nell’archetipo della statua colossale di Herakles esposta a Palazzo Altemps2, in Roma, anche sulla base del confronto con alcuni documenti di età adrianea3 * Università di Pavia – SAIA. ** Desidero ringraziare: il direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene, Prof. Emanuele Greco, per i preziosissimi consigli e per avere agevolato le mie ricerche ammettendomi alla frequenza dei ‘Seminari di Formazione Avanzata per Dottorandi e Specializzandi’ durante l’anno accademico 2012-2013; la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma – Museo Nazionale Romano – per il permesso di pubblicazione della Fig. 1; i Musei Vaticani – Reparto Antichità greche e romane –, nelle persone del Direttore, Prof. Antonio Paolucci, e della Dott.ssa Claudia Valeri, per avermi accordato il permesso analizzare autopticamente (per quanto possibile) e di studiare la scultura esposta presso il Museo Chiaramonti; il Prof. Nicola Parise, la Dott. ssa Annalisa Polosa e il Dott. Federico Barello per gli utili consigli e suggerimenti. 1 Tra gli interventi più recenti si possono citare coarelli 1988; Brands 1995; levi 1996; mertens-horn 1997; Coarelli in ltUr passim; torelli 2006 con bibliografia precedente. 2 Sulla storia della collezione Altemps cfr. de angelis d’ossat 2002, pp. 17-18. Acquistata nel 1599 dal cardinale Marco Sittico Altemps, la statua fu restaurata da Sillo Longo e Stefano Del zoppo, e dal Petersen 1889, pp. 331-333 che la ritenne copia di un tipo di età traianea, dall’heydelmann 1887, p. 25 n. 4, che la vide vicina all’Herakles Epitrapezios di Lisippo, nonché dal KalKmann 1893, p. 74 e dal fUrtWängler 1895, pp. 202-204, recentemente ripresi dalla Palagia 1990, secondo i quali sarebbe copia di un’opera di Mirone. Successivamente a prendere posizione fu Arndt in arndt, amelUng 1912, nn. 612-613 che per caratteristiche stilistiche la considerò vicina alla scuola fidiaca, mentre per lehmann 1946, pp. 43-47, tav. 10, figg. 2, 3 si tratta della copia marmorea di una variante ellenistica derivata da un originale della metà del V sec. a.C. de visscher 1962, p. 68, tav. 25, Fig. 22 la associa all’Herakles Epitrapezios, ma solo per l’aspetto assunto a seguito del restauro, e ne propone la dipendenza da un originale mironiano. La de angelis d’ossat 2002, pp. 38-39 ne ha pubblicato una sintetica scheda nel catalogo delle sculture di Palazzo Altemps (l’autrice suggerisce il confronto con una scultura rinvenuta nella ‘Villa dell’Ercole fanciullo’ di Guidonia, che si è però rivelata essere copia del c.d. Dioniso tipo Philadelphia. Cfr. Taglietti in ademBri et al . 2001), mentre da ultimo corso 2006; id. 2012 si è occupato della statua attribuendola a Mirone e identificandola con un Herakles realizzato dal maestro per un committente occidentale e sottratto da Verre dalla casa di Heius di Messana. 3 Si tratta di due monete, un denario aureo e uno argenteo, e il tondo lavorato a rilievo oggi parte dell’arco di Costantino in Roma. Cfr. Palagia 1990, pp. 59-60.

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e della presenza della dedica a Hercules Invictus4 su una statuetta esposta a Liverpool, simile all’Herakles Altemps5. La statua di Palazzo Altemps, a partire dalla metà del XIX secolo, è stata altresì riconosciuta come copia dell’Herakles bronzeo mironiano che Cicerone, nella seconda orazione delle Verrine (4, 3-5)6, racconta esser stato sottratto da Verre dall’antichissima cappella interna all’abitazione di C. Heius di Messana7. Tale era l’opinione del Furtwängler (fUrtWängler 1895, p. 202); di diverso avviso il Lehmann (lehmann 1946, pp. 43-47), che vi riconobbe l’unico testimone marmoreo disponibile dipendente dalla statua di Herakles Oikistas riprodotta sugli stateri argentei crotoniati coniati tra il 420 e il 370 a.C., che recano un Herakles imberbe, seduto su una roccia coperta dalla leontea con la clava nella mano sinistra appoggiata alla medesima roccia e un ramo di ulivo nella mano destra protesa in avanti. La capigliatura è riccia e cinta da una corona di foglie d’ulivo; dietro la roccia e appoggiati ad essa sono l’arco e le frecce, mentre davanti alla figura vi è un altare. Recentemente Baldo (Baldo 2004, p. 230), nel commento alla seconda orazione contro Verre di Cicerone, facendo riferimento ad un passo di Strabone (XIV 1, 14) nel quale viene citata una statua di Herakles, opera di Mirone, di dimensioni superiori al vero, originariamente parte di un gruppo con zeus e Athena esposto nell’Heraion di Samos e condotto a Roma da Antonio, sembra alludere alla possibilità che fosse questa statua, e non quella di Heius di Messana8, quella esposta nel sacello di Hercules Invictus nei pressi del Circo Massimo, senza, però, sbilanciarsi circa l’identificazione della statua da Samos con l’archetipo dell’Herakles Altemps. L’Herakles Altemps, databile per caratteristiche tecniche in età antonina, è una statua colossale di Herakles imberbe seduto su una roccia, con braccio destro (di restauro, ma restituito nella posizione corretta) proteso verso lo spettatore a mostrare un attributo, integrato dal restauratore con i pomi delle Esperidi. Con la mano sinistra tiene la clava appoggiata verticalmente alla roccia su cui è adagiata la leontea; la testa, di proporzioni piuttosto ridotte rispetto al corpo, è cinta da una corona tortile, e presenta capigliatura a chioccioline, che sul cranio risultano levigate, tanto da sembrare solo sbozzate (probabilmente per effetto della levigatura contestuale al restauro), mentre le due file parallele che incorniciano il volto conservano ancora le incisioni che definiscono i dettagli dei singoli ricci. La fronte, non particolarmente spaziosa, presenta la parte bassa all’attaccatura del naso pronunciata; le 4 CIL VI 1, 322. Gli epiteti Victor e Invictus, sono stati introdotti a Roma tra la fine del IV e l’inizio del III sec. a.C. e corrispondono al greco καλλίνικος/νικάτωρ/νικηφόρος e ἀνίκητος. Cfr. WeinstocK 1957, da ultimo coarelli 1988, pp. 81-82. 5 La statuetta di Liverpool è stata considerata replica del c.d. Herakles Epitrapezios lisippeo, cfr. da ultimo zaccagnino 2004. Sull’argomento vd. de visscher 1962; e, più recentemente, zadoKs-Jitta 1987; moreno 1995, pp. 140-147; latini 1995. 6 La bibliografia sul passo e sulla sua interpretazione è amplissima. Si riportano solo gli interventi più recenti e specificatamente incentrati sull’analisi della collezione di Heius: neUdecKer 1988, pp. 24-25; zimmer 1989; Palagia 1990, pp. 58-59; Baldo 2004, p. 230; lazzaretti 2006; Privitera 2009; corso 2012. 7 stePhani 1854, pp. 193 sgg.; zimmer 1989, pp. 493-520. Contra six 1886, pp. 142-147 che ritiene che le statue di Mirone rappresentanti Herakles fossero tre: quella di Samos, quella di Heius e quella esposta nell’aedes Pompei Magni. Per l’identificazione della statua cfr. corso 1988, p. 179, n. 10; Palagia 1990; Coarelli in LTUR III, pp. 11-12. 8 Del fatto che le statue esposte presso il sacrarium di Heius fossero originali greci e non copie romane si dicono certi zimmer 1989, pp. 504-505; Baldo 2004, p. 230; corso 2012 anche in virtù dell’alto valore pecuniario che Cicerone attribuisce loro, ingiustificabile per delle copie, e della notizia circa la frequentazione, a fini didattico formativi, da parte dei giovani della nobiltà romana.

L’HERAKLES ALTEMPS NEL FORO BOARIO?

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sopracciglia sono rese a spigolo vivo, gli occhi, grandi, hanno palpebre metalliche e sacco lacrimale leggermente rivolto verso il basso; il naso, di restauro, risulta regolare e le labbra, piuttosto piccole, sono leggermente dischiuse. Le spalle, decisamente larghe rispetto al corpo, presentano chiara definizione tanto della muscolatura, quanto della struttura ossea. Il torso, leggermente inarcato in avanti, è caratterizzato dai muscoli pettorali (con i capezzoli resi plasticamente) e addominali dettagliati e resi coerentemente alla posizione: il pettorale sinistro è disteso in relazione al braccio sinistro sollevato e gli addominali, contratti al di sopra delle due pieghe della pelle all’altezza dell’ombelico, distesi nella parte bassa del ventre. La cresta iliaca è molto marcata, i peli pubici (oggi visibili, dopo la rimozione della foglia di fico) si dispongono su due file di chioccioline parallele con il centro reso al trapano. Le gambe, poderose, sono piegate con i muscoli delle cosce allargati, relativamente alla parte appoggiata alla roccia, i polpacci in tensione e una dettagliata resa delle rotule e delle caviglie; il piede destro poggia completamente a terra di fronte alla figura, mentre il sinistro, di cui solo le dita poggiano al suolo, è notevolmente arretrato rispetto al destro. Le dita dei piedi sono affusolate e abbastanza lunghe. La leontea su cui la figura siede, relativamente alla parte originale, presenta particolari degli occhi e della criniera resi a basso rilievo, zampe e coda non particolarmente dettagliate e, alla destra della figura, pieghe che la avvicinano più ad un tessuto che ad una pelle. La statua presenta, da un punto di vista tecnico, alcune caratteristiche che sembrano rimandare direttamente all’originale bronzeo (il trattamento metallico di sopracciglia e palpebre e la posizione del braccio destro9), a fronte delle quali ve ne sono altre non riconducibili in alcun modo a un prototipo metallico. Il trattamento della capigliatura a riccioli dai contorni arrotondati e dall’aspetto quasi a meandro, mal si accorda con la riproduzione del lavoro di rifinitura a bulino dell’originale bronzeo, così come la resa della bocca, parimenti sfumata nei contorni. Dal punto di vista stilistico è stato notato come, se le caratteristiche del corpo (la sua frontalità e il trattamento della muscolatura ancora schematico e analitico) possono essere ricondotti a quelle tradizionalmente attribuite a Mirone di Eleutere10, così come alcuni tratti del viso (sopracciglia lunghe e dal contorno netto, occhi grandi e larghi), al contrario la capigliatura dall’aspetto forzatamente arcaizzante, sarebbe più coerente con l’ipotesi di una Umbildung di età antonina. I tentativi di individuare una tradizione copistica che consentisse di isolare un tipo scultoreo (Palagia in Boardman et al . 1988, pp. 772-773; Palagia 1990), si sono rivelati, ad un rapido riesame, forzati, in quanto, da una parte la statuetta di Liverpool (vermeUle, von Bothmer 1959, n. 2; Palagia 1990; granino cecere 1988, pp. 133-134, gregori 2000, pp. 446-449; granino cecere 2005, pp. 608-609, n. 832), difficilmente confrontabile anche solo per via dell’eccessivo scarto dimensionale, presenta postura parzialmente diversa e una resa stilistica più massiccia, marcatamente chiaroscurale; dall’altro il frammento di figura seduta oggi esposto presso i Musei Vaticani (Museo Chiaramonti) (amelUng 1903, pp. 186-187, n. 25; Palagia 1990; de angelis 1993, p. 109; andreae et al . 1995, tav. 1055) non sembra essere dirimente per via dell’esiguità della parte conservata. Non pare quindi possibile individuare una tradizione copistica; una 9 Il braccio destro è in realtà, come si è detto, di restauro, ma sembra, in base alla muscolatura della spalla, restituito nella posizione corretta. Il puntello, necessario nella copia marmorea, non era certamente presente nell’originale bronzeo. 10 Descrizione dello stile del maestro si trova in Plin. Nat . Hist . XXXIV 57. Su Mirone si vedano da ultimi corso 2006; thliveri 2011; JenKins 2012 con bibliografia precedente.

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ricerca ad ampio raggio, però, ha consentito di datare il tipo iconografico, la cui comparsa sembra testimoniata, come già notato dal Lehmann11, dagli stateri crotoniati del 420 a.C.12, alla diffusione dei quali seguì una significativa serie di riproduzioni, su vario supporto, in ambiente magnogreco13. Il confronto iconografico stringente dell’Herakles Altemps con la statua raffigurata sullo statere crotoniate legittima l’ipotesi che vi sia rappresentato un agalma e che, di conseguenza, il tipo iconografico che da esso può derivare il nome di Herakles Oikistas14, possa essere datato approssimativamente tra il 430 e il 420 a.C.15.

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Cfr. supra. Allo stato attuale, gli stateri crotoniati rappresentano il documento più antico che attesti l’esistenza della statua da cui trasse ispirazione l’Herakles Altemps; la loro emissione è stata considerata prossima alla creazione dell’archetipo scultoreo e deve essere considerata terminus post quem non per la realizzazione dell’archetipo in oggetto. 13 Tra le attestazioni più antiche si registra una kylix apula a figure rosse al British Museum di Londra (Inv. F 131), un cratere a calice campano a figure rosse attribuito al Pittore della Scacchiera (la cui attività si data al 410-390 a.C.) e conservato al Museo Nazionale di Stoccolma (Inv. MN – A11) e un secondo cratere a calice attribuito alla medesima officina, dal mercato antiquario, dove la figura di Herakles appare semipanneggiata (trendall 2002, pl. 66, 3. Devo la segnalazione di quest’ultimo testimone al Dott. Marco Serino, che ringrazio). Cfr. Palagia 1990, p. 64. Quanto ad Atene e all’Attica, la prima attestazione fino ad oggi individuata sembra essere un rilievo proveniente dal santuario di Pankrates (Inv. P 75 A) che reca il dio rappresentato di profilo con il braccio destro proteso in avanti e il sinistro sollevato in posizione simile a quella dell’Herakles Altemps. Nonostante la superficie del rilievo risulti particolarmente consunta, appare comunque abbastanza evidente un inspessimento del rilievo sul volto, tra l’attaccatura dei capelli e il mento, che non può essere spiegato in altro modo, se non con la presenza della barba: tale particolare non consente di ritenere il documento un testimone della diffusione nel terzo quarto del IV sec. a.C. del tipo iconografico imberbe ad Atene (cfr. viKela 1994, pp. 39-40; 207-210; tav. 23, 1). La presenza della barba, inoltre, è tratto assolutamente coerente con l’iconografia di Herakles Pankrates testimoniata negli altri rilievi provenienti dal santuario. Cfr. per il santuario di Pankrates ad Atene viKela 1994; Marchiandi-Privitera in greco 2011, pp. 501-503; gorrini 2014, pp. 219-236. Sulla base di quanto osservato e delle considerazioni testé esposte, è da presumere la presenza della barba anche relativamente al rilievo P 17 A, rappresentante un Herakles iconograficamente molto simile (fatta eccezione per la posizione invertita delle gambe e la leontea sulle spalle) mutilo della parte alta con la testa del dio. Cfr. viKela 1994, pp. 38-39, n. 31. Esistono poi alcune attestazioni ceramografiche, la più significativa delle quali è un cratere a calice attico datato al IV sec. a.C., conservato presso il Museo Nazionale di Atene (Inv. 12.682), che reca un Herakles rappresentato nella medesima posizione riscontrata sullo statere crotoniate, ma con un kantharos, in luogo del ramo di ulivo, tenuto dalla mano destra e un mantello a coprire la roccia su cui l’eroedio siede (Vd. de visscher 1962, p. 43, n. 67 che vi vede un astrochitòn proprio dell’iconografia di Melqart). La datazione del pezzo, successiva a quella del terminus post quem non individuato nello statere crotoniate per l’archetipo scultoreo, e il supporto ceramografico non consentono, nonostante la stretta somiglianza della posizione, di considerare il cratere 12.682 un testimone della presenza ad Atene di una statua iconograficamente affine. L’assenza di una rappresentazione che possa essere ragionevolmente ricondotta ad un contesto cultuale, quale sarebbe potuta essere quella su un rilievo votivo o su una moneta, renderebbe aleatoria e opinabile qualsiasi ipotesi in merito. Le medesime considerazioni, unitamente all’osservazione di talune differenze iconografiche (la figura di Herakles è girata verso destra e tiene la clava nella mano destra; il braccio destro è abbassato e piegato a squadra per impugnare la clava e la leontea è sostituita da un mantello che copre anche la coscia sinistra), sono applicabili al lato A della Pelike attica attribuita al Pittore di Meidias, rinvenuta in Sicilia e conservata al Metropolitan Museum di New York (Inv. 37.11.23), datata al 420-410 a.C. (Cfr. la scheda dell’opera con bibliografia essenziale in http://www.metmuseum.org/Collections/search-the-collections/130014035). 14 La questione esula dai fini di questa ricerca e, perciò, non sarà approfondita. Sulla presenza di un bronzo rappresentante Herakles seduto a Crotone nel terzo quarto del V sec. a.C. e sulle ragioni della sua rappresentazione sul conio degli stateri argentei cfr. lehmann 1946, pp. 43-47; Jeffrey 1961, p. 256; stazio 1984, pp. 385-388; id. 2011, pp. 477-479; sul tipo monetale vd. da ultimo Barello c.s. La fondazione di Crotone da parte di Herakles è raccontata da D.S. IV 2, 47. Cfr. giannelli 1963, pp. 135-151. 15 Cfr. supra. 12

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Da un punto di vista tecnico, l’attribuzione dell’archetipo dell’Herakles Altemps a Mirone, seppur suggestiva, non può essere sostenuta in questa sede, in quanto, non avendo potuto isolare un tipo scultoreo, non si dispone dei dati tecnici sufficienti. Se, infatti, è corretto considerare la frontalità della statua, il trattamento della muscolatura e degli occhi affini allo stile mironiano, non può essere taciuto il fatto che il carattere eclettico della testa dell’Herakles Altemps rende vano ogni tentativo esegetico16. Quanto all’identificazione di tale statua con quella esposta presso il larario di C. Heius di Messana, citato da Cicerone, e di questa ultima con la statua dell’aedes Pompei Magni, la revisione degli studi che la riportano ha messo in evidenza come tale interpretazione, ormai entrata in letteratura, sia in realtà basata su un assunto pregiudiziale che trova giustificazione solo nel fatto che tanto la statua di Heius sottratta da Verre (Ver. II 4, 3-5)17, quanto quella esposta nel tempio di Hercules nel Foro Boario erano opera di Mirone (Nat . Hist . XXXIV 57). Non solo, come anticipato, non si può attribuire con certezza l’archetipo dell’Herakles Altemps a Mirone per via dell’assenza di tradizione copistica, ma non è nemmeno possibile dimostrare che la statua da cui lo scultore eclettico di età adrianea trasse ispirazione fosse quella esposta nella aedes Pompei Magni. D’altro canto non è necessario ipotizzare un riuso dell’archetipo in un tempio di Hercules Invictus per giustificare l’evoluzione iconografica che portò allo schema del vincitore seduto sulle armi, poiché le premesse a tale evoluzione possono essere rintracciate, a ben vedere, già nello statere crotoniate, che mostra arco e faretra appoggiati alla roccia su cui siede Herakles, chiaramente rappresentato trionfante, ormai a riposo e con le armi deposte18. Gli studi sulla topografia del foro Boario, inoltre, come si è visto, hanno dimostrato che i culti di Hercules Invictus nell’area erano almeno due19, con relativi due distinti edifici, uno dei quali, la c.d. Aedes Aemiliana Herculis, verosimilmente, custodiva il colosso bronzeo oggi esposto al Palazzo dei Conservatori (Inv. 1265) 20, iconograficamente molto diverso dall’Hercules di Liverpool, che riporta in epigrafe l’identificazione come Hercules Invictus (CIL VI 1, 322). L’esistenza di più di un’iconografia rappresentante Hercules Invictus vanifica, dunque, il ragionamento deduttivo che dalle rappresentazioni di guerrieri vittoriosi con spolia, diffuse dall’età adrianea all’età di Massimiano, procedendo a ritroso, riconduce lo schema iconografico a una statua di Hercules Invictus21, pregiudi16 Il trattamento della capigliatura è generalmente considerato elemento importante per l’attribuzione di una statua. Per una sintesi metodologica cfr. hölscher 2010, pp. 181-188. 17 Cicerone, nelle Verrine, non riferisce dove siano state portate le statue sottratte dalla casa di Heius. Non abbiamo, perciò, alcuna ragione per presumere che la scultura di Mirone sia stata portata a Roma e che, una volta recuperata, sia stata collocata all’interno del tempio del Foro Boario. 18 Sull’origine dell’iconografia dell’Hercules Victor seduto su trofeo di armi vd. sqUarciaPino 1949-50; de lachenal 2011 e da ultima giannetti 2013 che pubblica una statuetta di Hercules Victor imberbe rinvenuta nel 1985 nel santuario dedicato all’eroe a Tivoli e, sulla base del confronto con una simile statuetta delia, ne contestualizza la produzione e la data al I sec. a.C., proponendo che l’elaborazione del tipo iconografico sia tiburtina e da ricondurre a questo contesto cronologico, non all’età adrianea. 19 Cfr. nota supra. Il tempio ad portam Trigeminam doveva originariamente essere dedicato a Hercules Victor, come suggerisce la menzione che ne resta nei fasti Antiates; l’epiteto sarebbe poi stato progressivamente confuso con Invictus, come compare nei fasti Allifani. Cfr. Coarelli in LTUR III, pp. 22-23 con bibliografia precedente. 20 La scultura viene catalogata da Kansteiner come variante del tipo Lenbach. Cfr. Kansteiner 2000, pp. 37-40, 124 con bibliografia precedente. Circa la sua provenienza dall’edificio distrutto da Sisto IV alla fine del XV secolo e identificato con la aedes Aemiliana cfr. martin 1987, pp. 90-98. 21 Vd. Bayet 1926, pp. 325-332; craWford 1974, p. 714, n. 7. La prima menzione dell’iconografia del vincitore seduto sulle armi dei vinti si ha in Paus. X 18, 7 che descrive la statua di Etolia dedicata dagli Etoli a Delfi dopo la vittoria sui Galli del 278 a.C. che si trova rappresentata su talune monete. Cfr. nachtergael 1977,

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zialmente identificata con quella esposta nella aedes Pompeiana. Seppure l’ipotesi non possa considerarsi in assoluto inverosimile, i dati a nostra disposizione non sono sufficienti per supportarla e inducono alla cautela. Inoltre non bisogna dimenticare la testimonianza delle fonti22, che ricordano, nella aedes Pompeiana Herculis, una statua di Hercules col capo coperto dalla leontea, particolare di cui tenne conto Moreno, nel proporre di riconoscerla nell’Herakles a riposo, tipo Pozzuoli-Antinori (moreno 1991, pp. 550-573). Come si è cercato di mettere in evidenza, l’unico confronto iconografico stringente per l’Herakles Altemps resta, allo stato attuale, lo statere crotoniate, che verosimilmente riproduce una statua esposta in città, rappresentante l’eroe-dio ecista, come si evince dalla legenda. Non esiste ragione per pensare che l’archetipo scultoreo del tipo iconografico Herakles Oikistas sia stato spostato da Crotone a Messana e, da qui, a Roma23. Abbreviazioni bibliografiche ademBri B. et aL. 2001, Hercules Sospitalis da una villa del suburbio romano, in “RendPontAc”, 74, 2001, pp. 127-176 amelUng W. 1903, Skulpturen des vaticanischen Museums I, Berlin. andreae B. et aL. 1995, Museo Chiaramonti, Bildkatalog der Skulpturen des Vatikanischen Museums I, Berlin-New York. androniKos m. 1984, Vergina: the royal tombs and the ancient city, Athens. arndt P., amelUng W. 1912, Antiker Sculpturen, VI, München. Baldo g. 2004, M . Tulli Ciceronis in C . Verrem actionis secundae liber quartus (de signis), Firenze. Barello c.d.s. = Barello f., Eracle ecista su uno statere di Crotone, in E. Panero (ed.), Il grande in piccolo . L’influenza dell’arte negli oggetti di uso quotidiano in età classica (Atti Grinzane Cavour 2012), La Morra c.d.s. Bayet J. 1926, Les Origines de l’Hercule romain, Paris. Boardman J. et aL. 1988, Herakles, in LIMC, IV, 1, pp. 728-838; 2, pp. 444-559. Brands g. 1995, Der Tempel des Hercules Invictus, die Porta Trigemina und die Porta Triumphalis, in “RdA”, 19, 1995, pp. 102-120. coarelli f. 1988, Il Foro Boario . Dalle origini alla fine della Repubblica, Roma. corso a. 1988, Prassitele: fonti epigrafiche e letterarie . Vita e opere . Fonti epigrafiche; fonti letterarie dall’eta dello scultore al medio impero . 4 . Sec . a .C .-circa 175 d .C ., Roma. id. 2006, Mirone ovvero dell’arte animata, in “NumAntCl”, 35, 2006, pp. 475-504. id. 2012, Heius di Messana e le statue del suo sacello, in “NumAntCl”, 41, 2012, pp. 91-96. craWford m. h. 1974, Roman Republica Coinage, Cambridge. de angelis m. a. 1993, Il primo allestimento del Museo Chiaramonti in un manoscritto del 1808, in “BollMusPont”, 13, 1993, pp. 92-117. de angelis d’ossat m. (ed.) 2002, Scultura antica in Palazzo Altemps, Milano. de lachenal l. 2011, La figura di Ercole nell’arte antica tra mito e ideologia, in M. Bona Castellotti; A. Giuliano (edd.), Ercole . Il fondatore dall’antichità al Rinascimento (Catalogo della Mostra, Brescia, Museo di Santa Giulia, 11 febbraio-12 giugno 2011), Milano, pp. 26-47. fUrtWängler a. 1895, Masterpieces of Greek Sculptures, London. pp. 201-204. Iconografia affine si trova anche nell’affresco sulla facciata di una tomba macedone nei pressi di Verghina (androniKos 1984, p. 36, Fig. 15) e nelle molte raffigurazioni della personificazione di Roma vittoriosa o di Vittoria (craWford 1974, p. 302, n. 287; hölscher 1967, pp. 17-34, pl. 3, 1). Cfr. Palagia 1990, pp. 59-61. 22 Macr. Satur. III 6, 16; Serv. A. III 407; VIII 288, 8-10. 23 Circa l’esiguità delle indicazioni offerte da Cic. Ver . II 4, 3-5 che non consentono alcuna identificazione dell’Herakles di Heius cfr. Baldo 2004, p. 230. Anche l’ipotesi dell’arrivo a Messana dell’Herakles Oikistas a seguito della conquista romana di Crotone nel 277 a.C. resta, appunto, solo un’ipotesi. Cfr. Palagia 1990, p. 64.

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Fig. 1 – Herakles Altemps (foto dell’autore su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo – Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma).

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Fig. 2 – Statere argenteo di Crotone (da lehmann 1946, pl. X, 1).

Chiara Mussi*

archeologIa In corsIa: attIvItà polIclInIco san matteo dI pavIa

dIdattIche presso

I.r.c.c.s.

Dal settembre 2012 il CRIDACT, Centro di Ricerca Interdipartimentale per la Didattica dell’Archeologia Classica e delle Tecnologie antiche dell’Università di Pavia, ha iniziato una collaborazione con il Dipartimento di Scienze Clinico-Chirurgiche, Diagnostiche e Pediatriche, sezione di Pediatria1, del Policlinico San Matteo di Pavia, consistente nell’introduzione in corsia di quelle attività didattiche archeologiche normalmente tenute nelle aule scolastiche. Lo svolgimento di tale attività all’interno di un contesto così particolare ha portato alla luce una serie di problemi, non ultimo quello dell’apprendimento dei nuclei familiari. Infatti, il reparto di Pediatria non ospita solo piccoli degenti ma anche uno dei genitori; inoltre l’orario delle visite coincide, parzialmente, con l’orario di apertura della scuola durante il quale vengono svolte le attività didattiche: non accade di rado che i bambini siano impegnati nei laboratori quando l’altro genitore o, più in generale, i parenti vengano a trovarli. Ma i piccoli pazienti, la maggior parte delle volte, non vogliono rinunciare all’attività che stanno svolgendo e chiedono ai familiari di partecipare al laboratorio insieme a loro: ci si trova, quindi, in una situazione didattica per nulla canonica in cui si è costretti a lavorare su più livelli, sull’intero nucleo familiare. L’attività didattica svolta da un gruppo familiare è un’esperienza altamente educativa: questo è un tipo di apprendimento sociale e collaborativo che può contribuire a cementare i rapporti interpersonali e che si fonda sull’interazione tra i componenti del gruppo, che condividono le loro esperienze, quello che sanno e quello che scoprono (giBBs, sani, thomPson 2007, p. 62). Adulti e bambini si dimostrano attratti dall’opportunità di esplorare tematiche importanti, quali quelle storiche; ma il principale fattore di successo in questo genere di attività sembra essere l’aspettativa di vivere una esperienza divertente (esperienze tattili, attività di disegno e laboratorio, giochi di ruolo a sfondo storico, congegni interattivi sono tra i più importanti fattori di motivazione, uniti alla possibilità di trattenere e portare a casa un souvenir), e questo indipendentemente dal livello di istruzione e dalla condizione sociale delle persone coinvolte. Le attività laboratoriali proposte all’interno della clinica pediatrica sono principalmente due: il cubo archeologico e un percorso incentrato su Pavia romana. Mentre il primo, che prevede la spiegazione ai bambini dell’attività dell’archeologo attraverso lo smontaggio di un cubo composto da strati di gommapiuma che simulano la stratigrafia del terreno, viene proposto, di solito, ai soli bambini, il secondo viene svolto, la maggior parte delle volte, anche alla presenza dei genitori o dei parenti. Infatti, tale percorso può rientrare nella sfera della ‘conoscenza del patrimonio’, che contribuisce ad aumentare negli individui il senso di appartenenza e rispetto ad un luogo (giBBs, sani, thomPson 2007, p. 77), aspetto fondamentale per la conservazione e la tutela del patrimonio. L’esigenza di tutelare, di conservare e di offrire alla memoria le testimonianze del passato, devono poter contare sulla condivisione della società (Proietti 2008, p. 181); ma una società che non conosce * CRIDACT, Università di Pavia. 1 Si vuole qui ringraziare il Prof. Gian Luigi Marseglia per il supporto offerto e la squisita sensibilità

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non può riconoscere l’importanza del patrimonio e, dunque, non può tutelarlo. Il fine delle attività didattiche condotte è proprio questo: far conoscere, sottolineare l’importanza del patrimonio e della storia. Un aspetto interessante di questa esperienza di ‘laboratorio della storia’ è dato dal forte orientamento degli adulti a riportare il concetto di storia al livello della propria famiglia (mi ricordo: mio padre mi raccontava…; mio nonno ha visto….), che è una bellissima via per sviluppare una comprensione condivisa tra i diversi membri di quest’ultima. È questa, passando su un piano critico, la posizione di Ambaglio, quando in merito ai problemi di comprensione della cronologia indica nella concretezza di un’empiria dapprima soggettiva «la chiave di accesso alla comprensione del tempo, l’inferno delle date» (amBaglio 2008, p. 205): per un ragazzino che, in termini quantitativi non va oltre l’esperienza personale di un decennio, sarà più facile afferrare il concetto di generazione umana e il concetto di “catena parentale ininterrotta”, in virtù della quale può esser certo, ad esempio, che uno dei suoi padri era al mondo quando Ticinum fu fondata2. La cultura è conseguenza di un processo dinamico di attribuzione di un significato e un valore a cose e idee. Individui accomunati da condizioni, circostanze ed esperienze simili sviluppano una cultura di gruppo, al di là della famiglia, nazione, genere, ecc…(giBBs, sani, thomPson 2007, pp. 77-81). Vi è un altro problema: in Pediatria vi sono i casi più diversi, bambini pavesi o provenienti dalla provincia di Pavia, bambini italiani e bambini stranieri. Per ognuno di loro la conoscenza della città in cui vivono o in cui si curano, dei suoi monumenti e della sua storia assume sfumature diverse, ma egualmente importanti. Il discorso della città e del suo patrimonio si 2 In tempi in cui la storia subisce attacchi violenti e rischia la cancellazione dall’esperienza non solo scolastica degli italiani rappresenta una piacevole sorpresa trovare un romanzo contemporaneo, seigle J.-L. 2013, Invecchiando gli uomini piangono, Milano, pp. 80-82, parole che sono in perfetta sintonia con quanto qui andiamo scrivendo. All’interno di una vicenda ambientata in Francia negli anni ’60, spicca l’esperienza di un giovanissimo di fronte all’insegnamento della storia: «Per lui la storia, quella prima della sua nascita, era una cosa strana, fatta di una sostanza elastica, disgiunta, che allontanava gli anni più prossimi lanciandoli in uno spazio temporale impossibile da dominare, uno spazio in cui erano fianco a fianco dinosauri preistorici, crucchi, cavalieri medievali, Napoleone e il D-Day. Il passato era per lui qualcosa di estremamente confuso; e siccome gli era impossibile darsi una spiegazione non esitò a riprendere una frase che aveva ascoltato di frequente da sua madre. ‘Il passato, a che cosa serve?’ … Il sig. Antoine si rese conto che la domanda era alquanto rilevante. Gilles osservò colui che suo padre gli aveva indicato come tutore, notando che l’uomo non aveva risposte fatte. Era rassicurante. ‘È una domanda importante, … allora, se hai voglia ti propongo di vivere un’esperienza di trasmissione del passato’. … Antoine lo invitò a sedersi e si mise di fronte a lui; prese una mano del ragazzo e la collocò nella propria. … ‘Ora, immagina, questa pelle macchiata si è formata nel 1896. Conta, siamo nel 1961! Quanto fa?’ ‘65’ ‘Eh sì! Quindi sono nato nel secolo scorso. E, pensa che questa pelle e questa mano sono state toccate da mia nonna. Si chiamava Étiennette Antoine ed era nata a Combronde! Nel …’ … ‘Sì, nel 1830! Ma ti rendo conto? 131 anni fa! E ho avuto la fortuna di conoscere il mio bisnonno, il padre di mio nonno, che era nato nel 1804, l’anno dell’incoronazione di Napoleone, pensa, l’uomo che ha toccato la stessa mano che tu hai toccato oggi ha conosciuto gente nata nel XVIII sec., nel millesettecento, … fa venire le vertigini come l’infinito quando guardi il cielo e le stelle. Le date, a rifletterci bene, non sono altro che un modo di nominare il tempo e di non perdersi. … Allora, vedi, con questo semplice gesto, attraverso la mano … diventi contemporaneo di un’epoca antica, contemporaneo di Napoleone, Hugo, Racine, Molière… e di tutti gli altri, anche se tutti gli altri in gran parte non sapevano né leggere né scrivere. Sai, i grandi uomini non sono gli unici a fare la storia, loro, … ispirano la storia.’ Dopo avergli lascito la mano, come se la riponesse nei primordi, prima di proseguire fece un profondo respiro: ‘Ebbene … quando, tra non molto, tu ed io parleremo di Hiroshima, dei campi di concentramento e di quello che succede ora in Algeria, significherà che tutti i miei antenati ne parleranno con i tuoi, che verranno a chinarsi sul tuo orecchio. Capisci, la storia degli uomini, è l’opposto della solitudine. E poi il passato, quando sappiamo leggerlo e capirlo, certifica quello che è giusto…’».

ARCHEOLOGIA IN CORSIA: ATTIVITà DIDATTICHE PRESSO I.R.C.C.S. POLICLINICO SAN MATTEO DI PAVIA

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amplia: ogni città ha la propria storia, le proprie tradizioni ed è quindi importante stimolare anche i bambini e gli adulti, una volta tornati a casa, ad indagare sulla propria città per scoprirla, per conoscerla e, di conseguenza, per rispettarla. L’apprendimento interculturale (come scambio aperto di conoscenze e di esperienze) rappresenta una grande sfida per costruire una società dinamica e complessa, fondata sul riconoscimento e rispetto delle differenze, da un lato, delle somiglianze, dall’altro. Si arriva per questa via ad una più autentica idea di patrimonio culturale, che è tale quando è condiviso non per ragioni di etnia, censo ecc…, ma di principi e valori condivisi. Nel caso dei cittadini stranieri, si può parlare quindi di apprendimento interculturale: per questi la conoscenza del patrimonio non sarà un fatto di identità o di appartenenza, ma sarà un fatto di cultura, che andrà a formare un bagaglio culturale che porteranno con sé quando torneranno nei propri paesi di residenza, potendolo confrontare con la loro cultura. Tale processo non è certamente univoco: queste persone condividono con me la loro cultura e ciò che sanno delle proprie città e dei loro paesi di origine: ne risulta uno scambio da cui anch’io traggo qualcosa di nuovo del patrimonio culturale di altri paesi. Questo apprendimento interculturale non viene applicato solo agli extracomunitari: l’interculturalità si basa, fondamentalmente, sulla diversità ed è applicabile anche ai cittadini italiani. Infatti, alcune persone possono anche appartenere allo stesso gruppo etnico ma, al tempo stesso, possono far parte di diversi gruppi culturali: ogni persona a un proprio background che lo porta a scegliere di entrare in un determinato gruppo in ambito professionale o sociale, ma proviene da altri gruppi, come ad esempio la famiglia, il genere, ecc… Questi aspetti possono assumere significati diversi a seconda dei contesti e sono modellati in base alle idee, ai valori, alle abitudini del vivere quotidiano. Dunque, si può considerare apprendimento interculturale qualsiasi scambio aperto di conoscenze (giBBs, sani, thomPson 2007, pp. 77-81). Tornando all’apprendimento interculturale nel senso più comune del termine, questo può essere di aiuto alle famiglie straniere sotto un altro punto di vista: quelli dell’apprendimento della lingua italiana. Molti bambini, e di conseguenza le loro famiglie, che sono stati costretti a trasferirsi in Italia per le cure mediche, non hanno dimestichezza con la lingua italiana: l’attività didattica condotta può essere di grande aiuto in questo senso, aiutando le persone che lo svolgono a comprendere la nostra lingua. In questo caso, gli oggetti, punto cruciale della didattica archeologica, aiutano molto, anzi sono fondamentali: io posso dire il nome dell’oggetto in italiano e far dire al bambino o al genitore il nome dello stesso oggetto nella loro lingua. A tale proposito, mi è accaduto di vedere lo stesso bambino, di nazionalità ungherese, più volte nel corso della mia esperienza in clinica: se al primo incontro in piccolo degente, appena arrivato in Italia, non capiva una parola, già al secondo nostro incontro, avvenuto la settimana successiva, il bambino ricordava esattamente le parole italiane per descrivere gli oggetti che analizzavamo. Queste esperienze sul piano metodologico hanno delle forti implicazioni formative che, sulla scorta del manuale europeo di Gibbs, Sani e Thompson (giBBs, sani, thomPson 2007, pp. 103-104), possiamo così riassumere: 1. Preparazione: dare forma alle idee, analizzare il contesto, identificare i bisogni formativi. 2. Ideazione e pianificazione: project management e produzione materiali per insegnamento/apprendimento. 3. Realizzazione: organizzazione e conduzione delle attività educative. 4. Valutazione: monitoraggio e verifica delle attività, misurazione degli esiti di apprendimento, verifica della soddisfazione.

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CHIARA MUSSI

Abbreviazioni bibliografiche amBaglio d. 2008, Dall’archeologia alla storia: atrofia di saperi in S. Maggi (ed.), Educare all’antico . Esperienze, metodi, prospettive, Roma, pp. 203-208. giBBs K., sani m., thomPson J. 2006 (ed.), Musei e apprendimento lungo tutto l’arco della vita . Un manuale europeo, Bologna. Proietti e. 2008, Educazione e tutela in S. Maggi (ed.), Educare all’antico . Esperienze, metodi, prospettive, Roma, pp. 181-182.

Fig. 1 – “Cubo archeologico”.

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Figg. 2-3 – Smontaggio del “Cubo archeologico”.

Martina Di Stefano*

Il

passato come Futuro possIbIle.

della cIttà nel

generI

letterarI e dIscronIa

crIzIa

Negli ultimi decenni gli studiosi di Platone hanno rivolto sempre maggiore attenzione alla dimensione letteraria dei dialoghi e alla relazione tra questa specifica forma e altri generi1. Un simile approccio non ha soltanto il merito di segnalare il punto da cui partire nell’interpretazione dei dialoghi, ma può, in alcuni casi, fornire soluzioni alternative o conferme alla comprensione di aspetti specifici del pensiero platonico. Centrali sono ad esempio la definizione e lo statuto del progetto politico, tradizionalmente definito utopico, alla cui esposizione sono dedicati la Repubblica, le Leggi e il Crizia2; tra questi, in realtà, soltanto l’ultimo può essere correttamente definito utopico3. Questo dialogo, il cui studio è rifiorito in tempi recenti, è spesso parso agli interpreti inspiegabile o quantomeno anomalo; analizzare due aspetti del suo impianto letterario, cioè la natura di pastiche di generi e l’ambientazione della storia nel passato, potrebbe perciò fornire una chiave di lettura a un dialogo così anomalo, da un lato, e confermare la possibilità di realizzazione effettiva che l’autore attribuiva al proprio progetto politico, dall’altro. Se, come è stato fatto, si legge il dialogo con l’attenzione rivolta al suo aspetto formale, il Crizia risulta la summa di generi diversi4: vi è senza dubbio presente l’intenzione di riprodurre una rapsodia epica, con particolare riferimento a Esiodo, e sono stati chiariti anche i suoi rapporti con la storiografia e con l’oratoria5. Non bisogna inoltre dimenticare che la creazione di mondi fantastici era stata una prerogativa di alcune commedie di Aristofane, i cui legami con le opere platoniche sono stati messi in luce6. Sebbene siano state esplicitate le ragioni dell’impiego di ogni specifico genere, bisognerà tuttavia tentare di spiegare la loro compresenza; da ciò si potranno trarre anche alcune considerazioni sul significato della sua discronia. Come è stato esaustivamente mostrato, il Crizia può essere considerato una forma di “rapsodia filosofica”7 e Desclos ne ha evidenziato la funzione di «poésie en acte» (desclos 2006b, p. 177)8, il cui scopo sarebbe quello di raggiungere una mediazione fra l’immutabilità e il * Università di Pavia. 1 Con il termine letterario ci si intende qui riferire non soltanto alle composizioni scritte (in verso e in prosa), ma anche a quelle orali. 2 La narrazione su Atlantide trova una prima introduzione in Ti . 17a-27b. Per una definizione e una sintetica rassegna dei diversi punti di vista in proposito si vedano vegetti 2000 e zUolo 2012. 3 Con questo termine si fa riferimento all’utopia come genere letterario. Per la limitazione nell’impiego di questo termine al Crizia si vedano helmer 2012 e zUolo 2012. Tratti comuni a tutte le utopie letterarie sono la descrizione dettagliata della società, la rappresentazione quanto più possibile completa di tutti gli aspetti della vita pubblica e privata e la dislocazione nel tempo e/o nello spazio, cioè la sua distopia e/o discronia (zUolo 2012, p. 42). 4 Gill lo definisce «an elaborate literary collage» (gill 1979, p. 75). 5 Si vedano gill 1979, morgan 1998 e desclos 2006a per i rapporti con la storiografia, cui anche morgan 1998 fa accenno, dedicandosi però più diffusamente ai punti di contatto con l’oratoria di Isocrate; desclos 2006b e caPra 2010 per il carattere di composizione rapsodica. 6 Si vedano in particolare i lavori di Beltrametti citati in bibliografia. 7 Così sia desclos 2006b che caPra 2010; fa parte di questa “rapsodia filosofica” anche Ti . 17a-27b. 8 L’espressione è la traduzione francese dell’inglese «poetry as performance»; la categoria è ripresa da nagy 1996.

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cambiamento, fra il modello e gli oggetti sensibili, fra la fissità del testo scritto e la mobilità del discorso filosofico (desclos 2006b, p. 195). In questo senso, la narrazione su Atlantide risulterebbe un esempio di ‘continuità nella varietà’, un tentativo di riattualizzare, tramite una forma di “buona mimesis”, il modello, cioè la città della Repubblica (desclos 2006b, p. 193 e p. 196). La duplice capacità di questa “rapsodia filosofica” di porsi in continuità e di generare allo stesso tempo uno scarto comporta però delle conseguenze sulla natura dell’utopia platonica. Come ha sottolineato Capra, infatti, nel testo viene costantemente messo a confronto il florido territorio dell’Atene di un tempo e l’Attica impoverita di oggi, rimandando in questo modo a un aspetto caratteristico dell’epica, quello di instaurare un confronto fra il passato illustre, e il presente, risultato di una colpevole decadenza9. Si individua, dunque, una prima implicazione sullo statuto dell’utopia platonica: la volontà di porsi innanzitutto come critica del presente. La descrizione dell’Atene del passato, infatti, costringe a un salto all’attualità, in base al quale il mondo contemporaneo appare per contrasto decaduto e, perciò, deprecabile10: una funzione in un certo senso analoga a quella dei mondi fantastici di Aristofane, che trovavano la loro parziale e temporanea realizzazione nel presente della rappresentazione11. Ma come dice Beltrametti, la commedia si configura «non solo [come] la denuncia e la caricatura delle contraddizioni reali che stritolano i cittadini – […] –, ma anche, forse soprattutto e più specificatamente, [come] la messa in scena delle fantasie in cui si traducono e si riducono i grandi temi dell’immaginazione religiosa, filosofica e politica visti dalla prospettiva delle strade e delle case della città» (Beltrametti 2000, p. 244). Questi ‘altrove’ letterari, cui sarebbe potuto essere demandato il compito di creare e di prescrivere una realtà politica e sociale nuova, ponevano tuttavia dei limiti alla credibilità del progetto platonico, se importati senza variazioni; fonte di riso, perché contraria al senso comune, una simile ‘utopia’ sarebbe stata esposta alle critiche sulla propria effettiva realizzabilità, quelle stesse critiche che verranno formulate apertamente da Aristotele12. La sua messa in scena sarebbe risultata perciò non soltanto incredibile (apiston), ma anche del tutto risibile (geloion). Se da un lato, dunque, Platone riconosce alla commedia un forte potere ‘eversivo’ rispetto al senso comune, dall’altro sembra essere perfettamente consapevole della portata limitata della satira13.

9 «All that is fully consonant with the spirit of epic poetry, which constantly, if implicitly, compare the vastness of the heroic world to a diminished and disappointing present.» (caPra 2010, p. 218). Si veda, a partire da 110d6, la densità degli avverbi “allora, un tempo” (tote) e “ora” (nun). 10 L’utopia «n’est pas tant d’inviter – […] – à imiter une structure sociopolitique fondée sur des principes abstraits qui seraient redéfinis dans le récit, […], que d’éclairer, pour faire prendre conscience de ses bons comme de ses mauvais aspects, un contexte historique, social et politique contemporain, pour l’effet de décalage que produit une société imaginaire fondée sur des principes nouveaux.» (helmer 2012, p. 64). 11 La fondazione di Nubicuculia negli Uccelli, ad esempio, presenta alcune consonanze con la fondazione delle due città: l’attribuzione del nome (vv. 818-20); il riferimento al territorio – cursorio in Aristofane, dettagliato, in Platone (vv. 824-25); alle divinità protettrici (vv. 826-28); alla dea armata, il cui significato è in Platone totalmente capovolto (vv. 829-31); alla stirpe dei guerrieri (vv. 832-35). Si può qui inoltre brevemente notare che le due città del Crizia, sebbene contrapposte, sono in realtà, almeno in partenza, molto simili, ad eccezione della loro costituzione politica. 12 La critica delle proposte della Repubblica platonica è contenuta nella prima parte del II libro della Politica (1260b 27-1264b 25). 13 «Il riso della satira è un forte strumento di conservazione degli usi e dei costumi […]. Privo di radici etiche, questo riso […] non può avere esiti politici, non determina una visione del mondo.» (Beltrametti 2000, p. 238).

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Proprio un’obiezione presente nella Politica può però chiarire una delle ragioni di questa duplice presenza e l’attenzione rivolta da Platone all’epica, la forma comunicativa e pedagogica più tradizionale: in questo passo, infatti, Aristotele contesta la realizzabilità del progetto platonico, perché non si ha notizia di una città del genere storicamente esistita14. Come ha osservato Ferrari, se già nella Repubblica Platone sembra consapevole di questo problema,15 il Crizia, con il prologo presente nel Timeo, sembra costituire un tentativo da parte di Socrate di «vincolare la possibilità stessa che la città progettata si realizzi nel futuro alla sua stessa esistenza storica nel passato» (ferrari 2012, p. 105). In questa narrazione, dunque, il passato non svolgerebbe soltanto la funzione di critica dell’esistente, innegabilmente presente, ma tenterebbe di porsi come fonte di autorità e dunque di possibilità di un simile progetto16. Se non c’è volontà di evasione, di fuga nel sogno apolitico, non c’è però neanche passatismo, perché il passato si caratterizza per la “continuità nella varietà” di cui parla Desclos. Il progetto politico platonico è dunque immerso in quel tipo di temporalità che instaura un rapporto ‘tradizionale’ tra presente e passato, in base al quale ogni innovazione è ricompresa nel presente senza stacchi netti e senza grosse rotture. La cosiddetta utopia platonica poteva così godere dell’autorità e della credibilità che le venivano attribuiti proprio dalla sua collocazione temporale, analoga alle narrazioni dei miti; allo stesso tempo, sfruttando le potenzialità insite in entrambi i generi, capaci di riprendere e modificare, a volte impercettibilmente (come nel caso dell’epica), a volte radicalmente (come nel caso del teatro), a partire dall’esistente, permetteva di immaginare un mondo diverso, criticando e insieme ricreando. Un indizio di questo uso del passato è l’attenzione e l’accuratezza con cui viene riportata la genealogia17, modalità propria sia del “regime di temporalità”18 che delle strategie di narrazione delle società tradizionali19. Collocare il proprio progetto di rifondazione politica nel passato corrisponde quindi a un’attribuzione di verità, perché, per la maggior parte dei contemporanei del filosofo, «soltanto una città che è già stata potrà essere di nuovo» (ferrari 2012, p. 112): Platone sembra consapevole, particolarmente in questo momento della sua produzione, del fatto che la filosofia riesca ad argomentare, ma non a persuadere, almeno non sempre e non tutti20. La commistione fra generi, tuttavia, non si limita a questo e, come hanno mostrato Gill e Desclos, Platone utilizza il modello storiografico per dotare di verosimiglianza la descrizione delle città antiche: la ricchezza e l’accuratezza dei dettagli trovano paralleli nelle trattazioni storiografiche coeve o di poco antecedenti e in diversi punti il lessico richiama quello tipico 14

Pol . 1264a 1 sgg. R . 499c-d. ferrari 2012, p. 105. 16 «En l’absence d’une croyance qui la soutienne, la rationalité purement théorique, qui garantit ici la possibilité objective de cette cité mais reconnaît sa faible probabilité, est insuffisante pour faire agir en sa faveur» (helmer 2012, p. 74). 17 Criti . 113b 7 ss. 18 Si ricorre qui all’espressione di hartog 2002. 19 Come ha mostrato l’antropologia, nelle società orali le genealogie sono percepite come qualcosa di sempre immutato, sebbene siano specchio di nuovi assetti (ad esempio politici). 20 Si veda la continua preoccupazione di Socrate nel presentare il proprio progetto come non impossibile e diverso perciò da semplici “pii desideri” (euchai, citati per esempio in R . 456c, 499c e 540d). Che quello descritto nel prologo del Timeo e nel Crizia sia il progetto della Repubblica, è confermato dal riferimento esplicito all’eguaglianza fra i sessi e alla proprietà in comune per la classe dei guerrieri). Per i luoghi del Timeo in cui vi si fa accenno si veda ferrari 2012 (pp. 107-109), che persuasivamente sostiene la presenza anche della terza ondata. Anche nel Crizia troviamo il riferimento esplicito alle prime due ‘ondate’ (110b8-110c2 e 110c5-110d4). 15

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della fondazione di una colonia21. Questi rilievi possono portare a una conseguenza analoga alla precedente riguardo allo statuto dell’utopia, anche se da una prospettiva diversa: se la città descritta assomiglia o può assomigliare a qualsiasi città esistente, la possibilità della sua fondazione non è del tutto remota. Tramite alcune strategie della narrazione storiografica, quindi, Platone sembra voler assegnare al racconto la verosimiglianza dei fatti più recenti, da cui discenderebbe, in questo caso in maniera empirica, la possibilità del proprio progetto politico. Che Platone fosse in competizione col modello oratorio e sofistico è cosa nota, più difficile da accettare e meno corrente è l’idea che abbia talvolta fatto uso nei suoi dialoghi di meccanismi analoghi a quelli della retorica a lui contemporanea22: puntuali sono comunque i richiami che Morgan ha individuato rispetto all’opera di Isocrate (morgan 1998, pp. 104-108). Garante della verità è dunque una finzione narrativa, che, servendosi degli strumenti tradizionali, da un lato, e delle nuove strategie comunicative, dall’altro, può dimostrarsi allo stesso tempo “persuasiva” (pithanon) e “vera” (alethes):23 in questo senso col racconto del Crizia Platone ha come obiettivo più l’efficacia comunicativa che il grado di verità filosofica di cui si fa portatrice la narrazione24, anche se va ribadita la straordinaria consonanza con le novità della Repubblica . A questo scopo il progetto politico va reinserito nelle prassi educative che la città ha sempre riconosciuto e su cui ha sempre fatto appoggio e deve, al contempo, fare i conti con le nuove forme di sapere. Ma se la commedia si traduce in un nulla di fatto, in una risata liberatoria, ma inefficace; se l’epica ha una pretesa di autorità e verità su un contenuto falso e contrario alla giustizia; se la storiografia si limita in un certo senso a registrare nel dettaglio e a giudicare l’immediato presente, senza aspirare a cambiarlo; se la sofistica, con l’oratoria, promuove un’azione politica che non è in grado di fondare, questo tentativo platonico può spiegarsi come ricerca di un sistema persuasivo più efficace e alternativo, che consenta molteplici livelli di lettura. La commistione di più generi letterari è infatti necessaria, se si vuole raggiungere la gamma più vasta possibile di destinatari25. A ciò non sono sufficienti le strategie della storiografia, in grado certo di convincere gli uomini della levatura di Timeo ed Ermocrate (e Crizia stesso)26, ma non il resto 21 Per gill 1979, p. 76, Platone vuole raccontare una storia «that constitues a plausible simulacrum of human behavior»; a proposito della città delle Leggi (ma le considerazioni possono essere estese anche al Crizia), Desclos parla della volontà di Platone di «fonder historiquement, par une reconstitution vraisemblable, les institutions légales de la future cité de Magnètes» (desclos 2006a, p. 126). Si veda anche morgan 1998. Alcuni esempi del lessico coloniale sono il verbo “colonizzare” – katoikizon e katoikisantes (109b6), katoikisen (113c3) –, la divisione in lotti assegnati per sorteggio – klerouchesantes (109c5) –, la definizione di Atlantide come città-madre – metropolin (115c5) –, la cui traduzione come metropoli può generare spiacevoli anacronismi, oltre che celare il riferimento all’isola come potenza colonizzatrice. 22 Un lavoro convincente in questo senso, che proprio a partire da considerazioni testuali permette di fornire una soluzione alternativa alla millenaria banalizzazione dell’avversione di Platone per la retorica, è costituito da fUssi 2006. 23 Criti . 110d5. 24 Come dice inoltre F. zuolo: «An ideal theory is focused on abstract reasons backing principles that ground a social order, while a utopia tries to persuade us of its preferability by describing it concretely» (zUolo 2012, p. 57, il corsivo è mio). 25 Vegetti parla, a proposito della Repubblica, di «un atto discorsivo di persuasione etico-politica, i cui destinatari si collocano per così dire in cerchi concentrici, e i cui esiti possono dilazionarsi su tempi indefinitamente lunghi». (vegetti 2000, p. 139). 26 Morgan ritiene invece che gli unici destinatari del mito di Atlantide siano i personaggi del dialogo (morgan 1998, p. 107).

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dei cittadini. Anzi, proprio gli interlocutori del dialogo, uomini esperti e nobili, sembrano assumersi l’onere della poesia, da cui normalmente dovrebbero astenersi, salvo in un caso, molto significativo, quello della “Nobile Menzogna”. La contaminazione fra generi, dunque, lungi dal presentarsi come un raffinato quanto inutile gioco letterario, aspira a diventare il più efficace strumento di persuasione all’azione politica: un’impresa certo non facile, in cui può essere vista un’ambizione letteraria pretenziosa da parte di Platone27. Come per il passato, anche per la dimensione letteraria si possono dunque individuare queste due funzioni che potremmo definire politiche: quella critica, che individua i nodi problematici del proprio tempo, e quella ‘creativa’, che tenta di fornire soluzioni, senza cadere nella trappola del disimpegno. Si può forse perciò affermare che, insieme al primo esempio di fiction consapevole (gill 1979, p. 76), sia possibile ravvisare in questo racconto la prima manifesta consapevolezza della funzione politica della letteratura: quella letteratura concepita non come propaganda, bensì come capacità di criticare, di risignificare, di immaginare. Abbreviazioni bibliografiche Beltrametti a. 1991, Variazioni del fantastico . Aristofane, Platone e la recita del filosofo, in “QS”, 34, 1991, pp. 131-150. ead. 2000, L’utopia dalla commedia al dialogo platonico, in M. vegetti (ed.), Platone . Repubblica, vol . IV, Libro V, pp. 233-256. ead. 2004, La vena comica . Extrema ratio o principium sapientiae?, in “Itaca”, 20, 2004, pp. 87-113. Boys-stones g. r., haUBold J. 2010 (edd.), Plato and Hesiod, Oxford. caPra a. 2010, Plato’s Hesiod and the Will of Zeus . Philosophical Rhapsody in the Timaeus and the Critias, in G.R. Boysstones, J. haUBold (edd.), Plato and Hesiod, Oxford, pp. 200-218. desclos m.-l. 2006a, Représentations platoniciennes du temps d’avant, in “Anabases”, 3, 2006, pp. 111-135. ead. 2006b, Les prologues du Timée et du Critias: un cas de rhapsodie platonicienne, in “Études platoniciennes”, 2, 2006, pp. 175-202. ferrari f. 2012, Il passato come pharmakon in Platone: La kallipolis e l’Atene del tempo di Atlantide, in F. lisi (ed.), Utopia, ancient and modern . Contributions to the history of a political dream, Sankt Augustin, pp. 99-112. fUssi a. 2006, Retorica e potere . Una lettura del Gorgia di Platone, Pisa. gill c. 1979, Plato’s Atlantis History and the Birth of Fiction, in “Philosophy and Literature”, 3, Number 1, Spring, pp. 64-78. hartog f. 2002, Régimes d’historicité . Présentisme et expériences du temps, Paris. helmer é. 2012, La cité possible ou l’usage rationnel de la croyance et de l’imagination en politique, in F. lisi (ed.), Utopia, ancient and modern . Contributions to the history of a political dream, Sankt Augustin, pp. 61-78. lisi f. (ed.) 2012, Utopia, ancient and modern . Contributions to the history of a political dream, Sankt Augustin. morgan K. 1998, Designer History: Plato’s Atlantis Story and Fourth-Century Ideology, in “JHS”, 118, 1998, pp. 101-118. nagy g. 1996, Poetry as Performance . Homer and beyond, Cambridge. vegetti m. 2000, Beltista eiper dynata . Lo statuto dell’utopia nella Repubblica, in M. vegetti (ed.), Platone . Repubblica, vol . IV, Libro V, Napoli, pp. 107-147. zUolo f. 2012, Plato’s Political Idealism and Utopia in the Republic, the Laws, the Timeus-Critias, in F. lisi (ed.), Utopia, ancient and modern . Contributions to the history of a political dream, Sankt Augustin, pp. 39-60.

27 «Plato’s literary agenda was no doubt an immensely complex and ambitious one. However, one thing is clear: a careful observance of the ‘moralizing’ and ‘broadening’ rules fully vindicates Plato’s claim to poetic excellence and his later fame as a sublime writer – if not his alarming ambition to replace all existing literature» (caPra 2010, p. 218).

Serena Brioschi*

Fare storIa lungo la strada: erodoto, Il passato e la lotta all’oblIo La storia – quella che, per noi, in Grecia inizia sostanzialmente con il nome di Ecateo; voglio dire quella che ci è pervenuta in maniera frammentaria, ma non disperatamente tale; quella di Erodoto, Tucidide, Senofonte, come pure quella di un Polibio (III-II a.C.) o di un Pausania (II d.C.) – è il risultato di un lavoro di indagine condotto prevalentemente (ma non esclusivamente) su fonti orali: tradizioni (logoi) e testimonianze. Anche se col tempo si utilizzano sempre di più canali informativi di altro tipo e di altra natura (penso alle fonti scritte, come opere letterarie e storiografiche, ‘documenti’ ufficiali, epigrafi, lettere; e penso anche all’uso delle cosiddette tracce archeologiche: monumenti, opere d’arte, strutture urbane ecc.), il lavoro dello storico non cambia nella sostanza: per raccontare in maniera ‘originale’ il passato (da quello più prossimo a quello più remoto) e per non ripetere quanto già detto (o scritto) da altri, occorre preliminarmente cercare testimoni e interrogarli, raccogliere e vagliare tradizioni (scritte e orali), visitare città, ascoltare gente, percorrere e misurare strade, saper trovare (e leggere) indizi, tracce, segni. D’altra parte, non si può ‘salvare’ il passato se prima non si prova a conoscerlo e, quindi, ad osservare ciò che resta, ad ascoltare ciò che si racconta e a porre le domande giuste alle fonti giuste: occorre, in altri termini, fare historia (così i Greci definivano l’indagine); e chi scrive ‘storia’ in Grecia non può che essere un historikos (un ricercatore), a prescindere dal modo in cui ciascun autore decide di comunicare e di (tra-)scrivere i risultati del proprio lavoro1. La storia dei Greci, dunque, è una ricostruzione indiziaria del passato; è un’operazione volta a preservare tradizioni, fatti, personaggi e monumenti; è un modo di contrastare l’oblio e, quindi, di porre ‘rimedio’ all’azione distruttrice del tempo2. E la storia in Grecia è tutto questo fin dai suoi esordi: se, infatti, di Ecateo sappiamo che scriveva le cose come a lui stesso (e non ad altri) sembravano ‘vere’ («i racconti dei Greci […] sono molteplici e ridicoli»: FGrHist 1 F1a = fr. 1 Nenci), con Erodoto e con la sua opera – che a noi è pervenuta sostanzialmente per intero – siamo in grado di seguire meglio e più da vicino il mestiere dello storico e, nella fattispecie, il lavoro di colui che Cicerone considerava il padre della storia (De legibus I 1, 5). Tutto questo fin dall’inizio delle Storie; fin dal famosissimo incipit metodologico e programmatico: qui, tra le altre cose, l’idionimo e il poleico dell’autore, che si assume – così – la responsabilità di quanto scoperto e ricostruito; qui, il compito affidato alla storia e la consapevolezza della propria identità di «storico in quanto soggetto scrivente» (hartog 1997, p. 960); qui, ancora, la presentazione della ‘storia’ come il risultato del lavoro di ricerca (historie) e, dunque, le Storie come histories apodexis3 (il resoconto documentato) delle inchieste, dei viaggi e della raccolta/selezione delle informazioni, affidata alla scrittura per ‘vincere’ * Università di Pavia. 1 Sull’argomento, qui solo accennato, cfr., tra i numerosi e interessanti lavori, nenci 1953; momigliano 1982; BUtti de lima 1996; zamBrini 2010; zizza 2007; PUJol 2008. Sono inoltre molto utili gli spunti offerti dal volume collettaneo L’uso dei documenti nella storiografia antica (Incontri Perugini di Storia della Storiografia XII, Napoli 2003, a cura di A.M. Biraschi, P. Desideri, S. Roda, G. zecchini) . 2 momigliano 1982, p. 84: «La lotta contro l’oblio si combatte cercando le testimonianze». 3 Su questa espressione cfr. zamBrini 2009, pp. 65-73 e id. 2010.

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SERENA BRIOSCHI

il tempo – il «grande cancellatore» (hartog 1997, p. 965) – e per riuscire a consegnare il passato al futuro: «Questa è l’esposizione [argomentata] delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso [di Turi], perché gli eventi umani (τὰ γενόμενα ἐξ ἀνθρώπων) non svaniscano con il tempo (τῷ χρόνῳ ἐξίτηλα γένηται) e le imprese grandi e meravigliose (ἔργα μεγάλα τε καὶ θωμαστά), compiute sia dai Greci che dai barbari, non restino senza fama (ἀκλέα γένηται) […]»4. È noto che i debiti contratti dalla storiografia nei confronti della poesia, in generale, e dell’epica, in particolare, non siano pochi e che riguardino soprattutto gli ‘ingredienti’ (erga e logoi), le tecniche narrative e l’ambizione letteraria, nonché le finalità (dare luce – κλέος – al passato e renderlo per sempre ‘presente’)5. Ma è altrettanto vero ed evidente che la storia – rispetto alla poesia – presenta diversi elementi di discontinuità e di innovazione: primo tra tutti, il metodo; intendo dire la strada percorsa e i mezzi messi in campo da un historikos per riuscire a fare in modo che le ‘parole’ e i ‘fatti’ del passato (gli erga megala te kai thomasta) non diventino ἐξίτηλα6 e ἀκλέα, cioè evanescenti, sbiaditi, oscuri, senza fama e senza ‘futuro’. Il fattore di radicale novità proposto da Erodoto rispetto all’epica consiste proprio nella scelta del passato recente e della contemporaneità come temi da eternare nel ricordo, ovvero nel trasferimento della narrazione “nel tempo degli uomini” (desideri 1996, p. 970). Gli strumenti dell’ἱστορίης ἀπόδεξις sono, come dichiara programmaticamente Erodoto nel celebre proemio al logos egizio, la ὄψις, e cioè l’autopsia, e l’ἀκοή (Bettalli 2004), l’ascolto7. Questo metodo di ricerca è reso possibile proprio dal dinamismo dell’autore: Erodoto carpisce i frammenti della storia ‘lungo la strada’, durante i suoi viaggi. Se si osserva il ricorrere delle dichiarazioni esplicite di autopsia da parte dello storico, si noterà che queste sono limitate quasi esclusivamente a quei casi in cui la sua autopsia sarebbe passibile di sospetti da parte del fruitore, ovvero in situazioni difficilmente verificabili, ‘lontane’ nello spazio rispetto al suo pubblico8. Molto più numerosi sono, invece, i loci in 4 Hdt., proemium (asheri 2005, p. 7, nella traduzione di V. Antelami). Non è mia intenzione commentare il brano appena citato, che gode – tra l’altro – di una ricchissima e autorevolissima bibliografia: mi limiterò soltanto ad alcune osservazioni, mettendo in evidenza alcuni aspetti più pertinenti alle riflessioni che qui si presentano. Per alcune recenti osservazioni sul passo cfr. fra gli atri, vattUone 2006, pp. 12-44. 5 Le imprese narrate nei poemi epici, così come nelle Storie, devono essere salvate dalla dimenticanza – alla quale sarebbero irreversibilmente condannate – proprio perché grandi e mirabili: si impone, cioè, la necessità di sottrarle all’azione del tempo attraverso la narrazione, come se l’impresa stessa, se non fosse narrata, cessasse di esistere (Brillante 2009, pp. 31-33). Cfr., al riguardo, zamBrini 2010. 6 Il termine compare in alcuni frammenti di Eschilo ed Euripide (Aesch. Fr. 162, 5 Radt; Eur. Fr. 497, 6 Kannicht). Erodoto fa uso di questo vocabolo, oltre che nel proemio, in un altro solo caso, a V 39, 9, dove l’aggettivo viene adottato in riferimento alla stirpe regale di Anassandrida ed al rischio che questa possa estinguersi. Da Erodoto in poi, il termine verrà spessissimo utilizzato nell’espressione ἐξίτηλα γενέσθαι, “cadere nell’oblio”. 7 Hdt. II 99, 1: «Fin qui ho esposto ciò che ho visto (ὄψις τε ἐμή), le mie riflessioni (γνώμη) e le mie ricerche (ἱστορίη). A partire da qui, esporrò i racconti degli Egiziani, come li ho ascoltati (κατὰ [τὰ] ἤκουον)». Sebbene l’ἀκοή svolga sicuramente un ruolo essenziale in una società ‘aurale’ come quella greca, gli storici rimasero sempre fedeli ad una precisa ‘gerarchia dei sensi’: «le orecchie – afferma Erodoto (I 8, 2) – sono per gli uomini più infide (ἀπιστότερα) degli occhi» (trad.: fraschetti 1989; il corsivo è mio). Cfr. zamBrini 2009, pp. 33-36. Al fine della nostra ricerca, comunque, ci soffermeremo in particolare sulla opsis; in proposito, la critica si è pronunciata in diverse occasioni, o per dubitare dell’autopsia di Erodoto (cfr., tra gli altri, fehling 1989 e armayor 1985), o, invece, a favore dell’onestà dello storico (ad. es. Pritchett 1993). 8 La maggior parte delle dichiarazioni esplicite di autopsia si trova concentrata tra il II libro (44, 1; 44, 3; 73, 1; 75, 1; 106, 1; 148, 1; 156, 2) ed il III (12, per tre volte); il libro I vanta una sola occorrenza (nella fattispecie, negativa: οὐκ εἶδον, a 183), come il V (59) ed il VI (147), mentre nei libri VII, VIII e IX la forma

FARE STORIA LUNGO LA STRADA: ERODOTO, IL PASSATO E LA LOTTA ALL’OBLIO

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cui la ὄψις di Erodoto è adombrata dietro espressioni meno esplicite, come ἔτι ἐς ἐμέ («ancora ai miei tempi») o καὶ νῦν («ancor oggi»)9. In ogni modo, è verosimile che, talvolta, lo storico non dica di aver visto un monumento proprio perché, di fatto, non lo ha visto; cionondimeno, è messo al corrente ‘per sentito dire’ (ἀκοή) dell’esistenza, «ancora ai suoi tempi», di oggetti, costruzioni, usanze e monumenti10. Ciò che è certo, comunque, è che il ricorrere, nell’opera erodotea, di espressioni simili, designa chiaramente la consapevolezza, da parte dell’autore, del sussistere di un rapporto tra passato e presente. Dire che qualcosa esiste ἔτι ἐς ἐμέ significa sapere che gli oggetti, le costruzioni umane, sono deperibili, ma, soprattutto, significa porre come pietra di paragone fra il ‘prima’ e il ‘dopo’, come ago della bilancia, la propria persona: alcuni γενόμενα ἐξ ἀνθρώπων si sono persi per mano del “grande cancellatore” prima dell’io autoriale; altri, invece, si possono salvare proprio in virtù dell’azione conservativa di questo, proprio perché esistono καὶ νῦν e possono dunque essere mantenuti in vita dalle parole di Erodoto. Una possibile chiave interpretativa per comprendere il rapporto di Erodoto con gli oggetti provenienti dal passato è la verifica della presenza, nel testo delle Storie, di quei vocaboli che, da altri storici (amBaglio 1987, pp. 33-46), vengono impiegati per descrivere e qualificare le reliquie, le rovine. Nonostante possa sembrare sorprendente per un’opera come le Storie, dove le descrizioni di monumenti ‘antichi’ sono frequentissime, a un esame lessicale emerge che l’unico termine che, nei nove libri, si riferisca in maniera generica alle ‘reliquie’, ai ‘resti’ di monumenti od oggetti antichi è ἐρείπια. Il sostantivo, non attestato – a quanto pare – prima di Erodoto11, compare, per di più, soltanto due volte12: sono pochissimi, dunque, i casi in cui il nostro storico sembra interessarsi ad oggetti del passato giunti fino a lui (μέχρι ἐμεῦ; ἐς ἐμέ) in una forma non integra, corrosi dal “grande cancellatore”. In tutti gli altri contesti in cui lo storico descrive monumenti ‘nati’ nel passato, l’interesse per i cambiamenti subìti da questi nel tempo è praticamente inesistente, e, spesso, la funzione di questi oggetti rimane invariata rispetto al momento in cui, presumibilmente, sono stati ‘prodotti’: si tratta, per esempio, di doni votivi dedicati in un santuario13, epigrafi atte a definire un confine14, statue celebrative15; sono, per così dire, oggetti ‘vivi’. Gli oggetti ‘morti’ trovano, nelle Storie, uno spazio pressoché nullo. L’attenzione verso il passato remoto non diventa culto, il passato non è oggetto di feticcio, non vi è, nelle Storie, nostalgia dei tempi passati. Il verbale non ricorre mai. Questi dati numerici dipendono probabilmente anche dalla diversa natura dei vari libri, alcuni più descrittivi, come il II, altri, come gli ultimi tre, più narrativi. 9 Per alcuni esempi, si vedano I 50, 3; I 52; I 92, 1; I 93; I 181, 2; II 103, 1; II 141, 6; IV 124, 6. Sull’argomento, cfr. Beltrametti 1986, pp. 27-103. 10 A conferma di questa possibilità, si osservi il caso di I 183, 2-3: «Fuori dal tempio c’è un altare d’oro; ed esiste un altro grande altare, dove sono sacrificati gli animali adulti […]. E in quel tempo (ἔτι τὸν χρόνον ἐκεῖνον) in questo santuario c’era ancora una statua di dodici cubiti, d’oro massiccio. In verità, io non l’ho vista (ἐγὼ μέν οὐκ εἶδον): ripeto quello che dicono i Caldei» (trad. Antelami). 11 In Omero ed Esiodo ritroviamo il verbo ἐρείπειν, ma con un significato generico come rovesciare, abbattere, distruggere, e dunque, non specificamente in riferimento all’azione del tempo sugli oggetti (cfr., ad es., Hom. Il. XII 258; XV 351 e 356; Hes. Theog. 704). 12 La prima (II 154, 5) in riferimento ai resti delle abitazioni (τὰ ἐρείπια τῶν οἰκημάτων) esistenti in Egitto ancora ai tempi dell’autore (μέχρι ἐμεῦ ἦσαν), che il re Psammetico (su cui cfr. lloyd-fraschetti 1989, p. 234) aveva assegnato a Ioni e Cari sulla bocca Pelusica del Nilo; la seconda riguardo (IV 124, 1) ai forti costruiti da Dario presso il fiume Oaro. Vi è inoltre un’occorrenza del verbo ἐρείπειν a VII 140, 9. 13 Ad es., I 50, 3; I 51, 1-2; I 51, 3; I 92. 14 Ad es., I 93; II 103-106. 15 Ad es., II 141.

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cammino delle Storie, la strada di Erodoto, si presenta, nelle intenzioni dello storico, come un antidoto al “grande cancellatore” – che, dunque, così ‘grande’ non è –, senza tuttavia avere la pretesa di riesumare quanto è irreversibilmente scomparso. La prospettiva delle Storie non è il passato, bensì il futuro. In questo quadro, pertanto, si spiega e si giustifica pienamente la mancata elaborazione, da parte di Erodoto, di un ‘vocabolario della rovina’: la mentalità antiquaria del culto della rovina non rientra nella prospettiva erodotea; per lo storico ciò che viene dal passato non è altro che prova, traccia e segno per il futuro. A riprova di quanto detto, potrebbe essere utile un confronto con un altro ‘storico viaggiatore’, che, con Erodoto, condivide il metodo di ricerca, e che di Erodoto si sente erede: Pausania. Nonostante le evidenti analogie (una storia scritta, per così dire, in itinere; le ‘prove’ cercate lungo il cammino, ascoltando la gente e osservando monumenti; la raccolta di tradizioni e la lettura di epigrafi), non possiamo negare, in effetti, che tra i due sussistano differenze anche sostanziali (mUsti 1984): il passato di cui nostalgicamente scrive Pausania, a differenza di quello dello storico di Alicarnasso, è un passato remoto, lontano, portavoce di quell’identità culturale che l’autore sente ancora sua ma che rischia di dissolversi nel tempo; si tratta di un passato ideale, dunque (moggi 2001, pp. 910-911), che di rovine ne possiede tante, una ricostruzione della storia attraverso i resti dell’antica gloria della Grecia: il lavoro di Pausania infatti si colloca in un’epoca reduce da una svolta epocale come quella dell’ascesa di Roma e del conseguente imporsi, sui Greci, di una cultura nuova, di una potenza che toglie alla Grecia la possibilità di essere la protagonista della “storia” e, quindi, soggetto storiografico16. Al tempo di Erodoto, invece, ‘la svolta’ è ancora tutta in atto. Egli vive le Guerre Persiane in prima persona ed i fatti narrati nella sua opera avranno come conseguenza l’affermazione indiscussa di quell’universo culturale di cui lo storico si sente parte: Erodoto è, insomma, protagonista del passato di cui scrive. Per Erodoto e per i suoi immediati successori il passato si lascia leggere nelle tracce evitando che l’amnesia prenda piede ed investa intere generazioni: Erodoto non scava, ma osserva e raccoglie ciò che (si) vede e che (si) ascolta lungo la strada, e dunque dà conto di ciò che ancora vive ed è ben presente nella memoria17. Devono ancora venire i tempi in cui gli storici greci si dovranno impegnare a ‘scavare’ e a riesumare reliquie se vorranno far rivivere un passato che non c’è più e che si potrà solo ‘contemplare’, venerare e rimpiangere. Abbreviazioni bibliografiche amBaglio d. 1987, Il motivo delle città scomparse in Strabone, in Studi offerti ad A .M . Quartiroli e D . Magnino, Pavia, pp. 33-46. armayor o.K. 1985, Herodotus’ autopsy of the Fayoum: lake Moeris And the labyrinth of Egypt, Amsterdam. asheri d. 2005 (ed.) (trad. Antelami), Erodoto . Le Storie . Libro I, Milano. asheri-corcella-fraschetti-vannicelli 2003, Erodoto. Le Storie . Libro VIII, a cura di D. asheri (introduzione e commento), A. corcella (testo critico), A. fraschetti (traduzione), P. vannicelli (aggiornamento del 16 Pausania «usa la lingua del suo tempo […] e così scava un solco incolmabile rispetto al passato, cioè crea distanza proprio quando si sforza di annullarla» (cUsUmano 2006, p. 283). Cfr. anche zizza 2006, pp. 402-409; zizza 2007, p. 219, moggi 2010. 17 Hdt. III 123, 1: «Da parte mia, però, è alla base di tutta la mia storia che io trascrivo le cose udite così come vengono raccontate da ciascuno»; IV 195, 2: «Se sia vero o no, non lo so: scrivo quello che si racconta».; III 9, 2: «Questa è la più degna di fede delle versioni; ma va riferita anche l’altra, che è meno degna di fede, perché anch’essa viene raccontata» (trad. Antelami).

FARE STORIA LUNGO LA STRADA: ERODOTO, IL PASSATO E LA LOTTA ALL’OBLIO

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commento), milano. asheri-fraschetti-medaglia 2005, Erodoto . Le Storie . Libro III, a cura di D. asheri (introduzione e commento), A. Fraschetti (traduzione), S. M. medaglia (testo critico), Milano. Beltrametti a.a. 1986, Erodoto: una storia governata dal discorso . Il racconto morale come forma della memoria, Firenze. Bettalli m. 2004, ἀκοή, in Lexicon Historiographicum Graecum et Latinum (LHG&L), fascicolo 1, diretto da Carmine Ampolo e Ugo Fantasia, coordinamento di Leone Porciani, redazione di Donatella Erdas, Maria Ida Gulletta, Anna Magnetto, Chiara Michelini, Pisa 2007. Brillante c. 2009, Il cantore e la musa . Poesia e modelli culturali nella Grecia arcaica, Pisa. BUtti de lima P. 1996, L’inchiesta e la prova . Immagine storiografica, pratica giuridica e retorica nella Grecia classica, Torino. corcella-fraschetti-medaglia 2007, Erodoto. Le Storie . Libro IV, a cura di a. corcella (introduzione e commento), A. fraschetti (traduzione), S.M. medaglia (testo critico), Milano. cUsUmano n. 2006, Aspetti epistemologici e didattici della Storia Antica (alcuni spunti), in “QSA”, 6-7, 2004-2005, pp. 269-286. desideri P. 1996, Scrivere gli eventi storici, in S. Settis (ed.), I Greci . Storia Cultura Arte Società, I, Torino, pp. 955-1013. fehling d. 1989, Herodotus and his “sources”, engl. transl., Leeds. hartog f. 1997, La storiografia fra passato e presente, in S. Settis (ed.), I Greci . Storia Cultura Arte Società, II, Torino 1997, pp. 959-981. lloyd-fraschetti 1989, Erodoto. Le Storie . Libro II, a cura di A.B. lloyd (introduzione, testo critico e commento), A. fraschetti (traduzione), Milano 1989. moggi m. 2001, Passato remoto, passato recente e contemporaneità in Pausania, in Studi in onore di Michele R . Cataudella, La Spezia, pp. 903-916. momigliano a. 1982 La storiografia greca, Torino. mUsti d. 1984, L’itinerario di Pausania: dal viaggio alla storia, in “QUCC”, 17, 1984, pp. 7-18. nenci g. 1953, Il motivo dell’autopsia nella storiografia greca, Pavia. Pritchett W. K. 1993, The liar school of Herodotus, Amsterdam. PUJol l.P. 2008, Escribir historia: la lucha cotidiana contra los datos y contra uno mismo, in “Gerión”, 26, 2008, pp. 135-141. vattUone r. 2006, Historie . Lezioni introduttive al corso di Storia greca, Bologna. zamBrini a. 2009, Apodexis: quale “esposizione”?, Risposta alla recensione di Philip A. Stadter, nel sito web HistoriarumReliquiae al Lexicon Historiographicum Graecum et Latinum (LHG&L), fascicolo 2, αλ-αφ, diretto da Carmine Ampolo e Ugo Fantasia, coordinamento di Leone Porciani, redazione di Donatella Erdas, Maria Ida Gulletta, Anna Magnetto, Chiara Michelini (Pisa). zamBrini a. 2010, Raccontare argomentando: la nascita della storiografia e del principio di documentazione in Erodoto e Tucidide, in “Mediterraneo Antico”, X, 1-2, 2010, pp. 169-178. zizza c. 2006, Le iscrizioni nella Periegesi di Pausania, Pisa. zizza c. 2007, I documenti nella storiografia antica . Alcune considerazioni a proposito di un libro recente, in “Incidenza dell’antico”, 5, 2007, pp. 209-234.

Marco De Pietri*

la pIazza dov’è? un’IndagIne sul concetto dI “pIazza” nell’età pre-classIca** Se si analizzasse una città orientale tenendo come presupposto la struttura di una polis greca o di una urbs romana (o anche di una città moderna di origini antiche come Pavia), ci si accorgerebbe che non esisteva (allo stato attuale delle nostre conoscenze archeologiche) una piazza, intesa come luogo deputato allo svolgimento delle principali funzioni politiche, religiose e commerciali necessarie allo sviluppo e alla vita della cittadinanza1 (liverani 2013, p. 211); e anche se è possibile rintracciare degli spazi che assolvono, almeno in parte, ad alcuni di tali scopi (come la corte del palazzo reale, l’area della porta cittadina o il cortile del tempio), in ogni caso non si trova un luogo che corrisponda in toto a un’agorà greca o a un forum romano. In Oriente troviamo al massimo degli spazi di risulta all’interno di un agglomerato urbano, che geometricamente sembrano assomigliare a una piazza, solitamente luoghi in cui si manifestavano la magnificenza e il potere del sovrano o di un certo gruppo di persone (principalmente dignitari o sacerdoti). Sull’argomento le stesse fonti classiche sono discordi: a titolo di esempio si confrontino i seguenti passi riguardanti la civiltà persiana. Dopo che l’araldo ebbe annunciato queste cose, si racconta che Ciro avesse domandato ai presenti tra i Greci che uomini fossero gli Spartani e quanto numerosi coloro che rivolgevano a lui parole di questo genere. Dopo essere stato informato, egli disse all’araldo spartano: ‘Non ho mai temuto uomini di questo tipo, i quali hanno un luogo accettato [da tutti] che giace nel mezzo della città, nel quale essi, una volta radunatisi e trovatisi insieme per parlare, si ingannano gli uni gli altri. A questi, se io resto in buona salute, non saranno sulla bocca di tutti i mali degli Ioni, ma i propri’. Queste parole rispose Ciro contro tutti i Greci poiché essi costruiscono piazze (agoràs) delle quali si servono per comprare e per vendere; infatti i Persiani non sono per niente soliti servirsi di piazze (agorési) e non hanno assolutamente una piazza (agorè) [Hdt. I 153,1-2; tda] .

Il giudizio di Erodoto sembra categorico: naturalmente nell’ottica greca, martoriata dalle guerre persiane (499-479 a.C.), il nemico assume la valenza dello straniero che non conosce i più basilari costumi greci, simbolo dello scontro tra barbarie e civiltà. I Persiani infatti basavano il loro potere su una monarchia assoluta che aveva come fondamento una base ideologica forte, imperialista e teocratica (liverani 2011, pp. 780-803). Seguendo questi presupposti è facile capire le parole di Erodoto: Ciro, il re supremo, si stupisce del fatto che possano esistere luoghi di riunione e di associazione a scopo anche politico-legislativo, dal momento che in Persia l’unico principio di autorità è il re stesso (nel suo ruolo di esecutore della volontà ordinatrice della divinità); inoltre, Ciro fa notare come tale istituzione greca sia di per sé contraddittoria, dal momento che gli stessi cittadini sfruttano tale luogo per trovarsi insieme a parlare e a ingannarsi a vicenda.

* Università di Pavia. ** Ringrazio la Prof.ssa C. Mora per aver voluto leggere e correggere questo contributo. 1 Ci si può accorgere di quanto l’elemento fisico della piazza sia talmente radicato nel nostro habitus mentis dal semplice disegno di un bambino: se gli si chiede di illustrare una città, così come la vede lui, non tralascerà di inserirvi le strade e ‘naturalmente’ una piazza.

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[I Persiani] non si avvicinano alle piazze/mercati (agoràs): infatti non vendono e non comprano [Str. XV 3,19; tda] .

In questo contesto Strabone ci informa che i Persiani non frequentavano le piazze/mercati poiché non avevano l’usanza di comprare o di vendere. Naturalmente in questo caso sarebbe forse più opportuno tradurre il termine agoràs con “mercati”, dal momento che si sta parlando di attività commerciali. Interessante invece notare come Senofonte affermi invece che in Persia c’erano piazze: Essi [scil., i Persiani] hanno un luogo chiamato Piazza della Libertà (Eleuthèra Agorà), e lì sono costruiti il palazzo reale e gli altri edifici del potere [Xen. Cyr . I 2,3; tda] .

Segue poi una descrizione di tale luogo in cui si sottolinea che la piazza è vietata alle mercanzie e alle attività commerciali; Senofonte starebbe dunque accennando all’esistenza in Persia di una città con una piazza: ma se si effettuano ricerche sulla base dei resti archeologici, si vede che un tale luogo non esiste, sebbene qualche commentatore abbia ipotizzato che si trovasse a Pasargade, la capitale persiana proprio sotto il regno di Ciro il Grande (559-529 a.C.). Dunque, dal momento che le città orientali erano governate da un sovrano con poteri assoluti, o da suoi diretti rappresentanti locali, o da gruppi di anziani, non si sentiva la necessità di un luogo di incontro comunitario per prendere le decisioni politiche: uno spazio che, dal punto di vista del potere centrale, sarebbe stato invece focolaio di possibili ribellioni o contestazioni all’ideologia reale. Perciò acquistano maggiore importanza, come luoghi di effettivo esercizio del potere, i palazzi che riservano al loro interno spazi deputati a tale funzione: si considerino, per esempio, l’apadana, a Persepoli, un’imponente sala ipostila per il ricevimento delle legazioni straniere (schmidt 1953, pp. 70-77); o anche l’edificio D del palazzo reale della cittadella di Büyükkale, a Hattusha, la capitale hittita (Bittel 1970, pp. 78-84); o ancora la “finestra delle apparizioni” presente nei principali palazzi e templi funerari dei faraoni, un vero e proprio balcone, affacciato su una grande corte o su una strada, che era teatro delle epifanie reali (KemP 1976 e KemP 2000, pp. 212-214 e 281-285). Erano, tutti questi, luoghi in cui il sovrano poteva incontrare i suoi sudditi e, in definitiva, esercitare un effetto di conferma del proprio potere rinnovando il consenso del popolo e degli alti funzionari. L’attività religiosa era espletata all’interno dei templi cittadini o di santuari decentrati che, a ogni modo, erano piuttosto casa della divinità, luogo di propaganda politica e di svolgimento di riti legati al potere reale, che spazi di effettivo culto da parte della popolazione (BrUsasco 2008, pp. 13-43). La componente commerciale, invece, era collocata, a seconda della posizione geografica della città, fuori dalle mura (ad es., ma in proporzioni nettamente maggiori rispetto a un semplice mercato, il kaˉ rum paleo-assiro di Kanesh/Kültepe)2 o in porti situati lungo i fiumi, o in piccoli spazi aperti vicino alle porte cittadine (questo principalmente nelle città siriane); frequente era la collocazione dei mercati nelle strade, come si può ancor oggi vedere visitando il suˉq di una città mediorientale di antica fondazione. Risalendo più indietro nel tempo, in un periodo che potremmo definire “della ‘città’ prima della città”, troviamo situazioni come, ad esempio, Çatal Höyük, nell’antica Anatolia, 2 liverani 2011, pp. 299, 302-304 e 310-312. Si deve notare però che il kaˉ rum non era solo uno spazio di mercato, ma una realtà molto più complessa, con un’organizzazione e un’amministrazione ben definita che coinvolgeva istanze politiche e sociali molto differenti.

LA PIAzzA DOV’È? UN’INDAGINE SUL CONCETTO DI “PIAzzA” NELL’ETà PRE-CLASSICA

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un villaggio neolitico (per cui non si può ancora parlare di città, per la mancanza di una struttura politico-religioso-economica gerarchizzata e ben strutturata) sviluppatosi tra il VII e il VI millennio a.C.: esso risulta formato dall’accostamento quasi soffocante (che però permetteva una più facile climatizzazione) di edifici che svolgevano funzioni sia abitative (case) che religiose (santuari): tra i singoli blocchi si possono però intravedere degli spazi di risulta, a cielo aperto, definiti solitamente come “cortili” (mellaart 1967, p. 68: “courtyards”), che servivano a fornire aria, luce e uno spazio utile per la raccolta dei rifiuti domestici; un ulteriore scopo era forse quello di diminuire la densità abitativa per evitare l’insorgere di malattie eventualmente trasmissibili per contagio; non erano assolutamente usati per ricoverare gli animali né per svolgere attività domestiche (come la cottura degli alimenti) e neanche per seppellire i defunti. Quindi non si può certo parlare di piazza. Se volessimo trovare in Oriente un luogo simile, almeno spazialmente, a quello della piazza occidentale, potremmo cercarlo in una fase più tarda, nell’età del Ferro II (IX-VII sec. a.C. ca.), ma con radicamento del fenomeno già nel Ferro I (XII-X sec. a.C. ca.). In quest’arco cronologico, dopo alcuni momenti di difficoltà, che porteranno alla caduta dell’Impero degli Hittiti in Anatolia (all’inizio del XII sec. a.C.) e al passaggio dal Nuovo Regno egizio al Terzo Periodo Intermedio, 1000-945 a.C. ca. (fenomeni dovuti sia a un riassestamento interno, aggravato anche da alcuni cambiamenti climatici, sia a cause esterne, tra cui il passaggio dei cosiddetti “Popoli del Mare”) si assistette alla ripresa di alcuni grandi centri di potere che monopolizzarono il panorama politico dell’età del Bronzo. In questa fase, chiamata anche “quarta urbanizzazione”, si assistette alla nascita di nuove città o alla riorganizzazione di poli urbani già esistenti. Oltre a una nuova progettazione strutturale, su una pianta circolare o quadrangolare, con un impianto viario ben determinato3, si nota anche la presenza (in villaggi localizzati in zona siro-palestinese, non sede di abitazione regia, con pianta rotonda, ben fortificati e con un doppio cerchio concentrico di abitazioni “a casamatta”) di uno spiazzo centrale che M. Liverani dice essere «evidentemente il luogo della socializzazione, della riunione, della sosta, insomma delle situazioni comunitarie in un insediamento di comunità “egualitaria” (cioè non accentrata su un palazzo)» (liverani 2012, p. 10). Ma anche questo spazio attestato nell’età del Ferro II non può essere considerato una piazza nel senso occidentale del termine, ma solo un luogo utile allo svolgimento di alcune funzioni basilari di vita quotidiana. Se si considera la questione da un punto di vista linguistico, cercando nelle principali lingue del Vicino Oriente dei termini che possano avvicinarsi alla nostra concezione di “piazza”, si nota che alcuni lemmi sono, a volte, tradotti con i moderni “piazza”, “square”, “Platz”4: ma essi, una volta letti nel loro contesto, rivelano un significato leggermente diverso. Per esempio in egiziano troviamo tre termini: mk .t, s .t e dmj che sono tradotti anche con “Platz” (WB, s .v .; faUlKner 200210) qui non si deve tradurre il termine con “piazza”, ma con il significato base di “luogo, spazio”: dunque con un senso più generico di “posto, spazio” (ted. “Stelle”); il termine mk .t ha un senso specifico di “posto giusto”, collegato anche alla posizione in cui una parte del corpo deve essere situata (es. il cuore), una valenza assunta anche da s .t.; si riferisce anche al seggio occupato dalle singole divinità (ed è perciò sinonimo 3 Per cui alcuni studiosi sottolineano l’esistenza, già prima di Ippodamo di Mileto, di una progettazione viaria razionale e geometrica, a volte persino ortogonale: liverani 2012, pp. 1-15. 4 Si faccia però attenzione che il termine tedesco “Platz” non significa solo piazza ma primariamente “posto, luogo”.

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del più comune s .t “sede, seggio”; in rapporto a un uomo specifica il posto giusto che egli deve occupare nella vita; abbinato ad altri determinativi può anche voler dire “luogo delle esecuzioni, del supplizio”. Il termine dmj invece si riferisce a un luogo geografico, spesso un campo, una località, una città sia egiziana che straniera (o anche un suo quartiere), addirittura al molo di approdo di una nave. In accadico troviamo il termine ribıˉtu (variante rıˉbu) che è glossato come “strada, strada principale, strada transitabile” e al termine del lemma è aggiunto: «Non c’è […] evidenza che suggerisca che ribıˉtu si riferisca a una piazza o a un mercato. Al contrario, il logogramma si riferisce a una “strada ampia” e le tracce archeologiche rivelano che esistevano strade centrali più ampie e vicoli ma non piazze poste al centro» (CAD vol. 14, p. 321). Tuttavia lo stesso CAD, in alcuni esempi con tale termine, traduce con l’inglese “square” (soprattutto nel costrutto rıˉbit/rebıˉt aˉ li “city square”): per es., CAD vol. 1 parte 1, p. 326: ina rebıˉt aˉ li itta-na-al-la-ak ˉe neˉ ša, «she (the witch) is casting glances all the time on the square of the city»; oppure CAD vol. 1 parte 2, p. 7: a-mir-šú ina rebıˉt aˉ li, «may he who sees him (who breaks the contract) in the city square»; o ancora CAD vol. 2, p. 180: ribıˉt Sippar i-ba-a, «he will walk across the city square of Sippar». Tutto ciò è più chiaro se si considera che a volte il termine accadico è scritto con il sumerogramma SILA.DAGAL(.LA): in questi casi il CAD traduce ancora con “square”: per esempio CAD vol. 5, p. 9: SIL.DAGAL KÁ.GAL dutu adi kišaˉ d Ga-at-ti, «from the square (in front) of the Šamaš-gate to the bank of the Euphrates», oppure CAD vol. 15, p. 404: SILA ša ana SILA.DAGAL.LA ša LÚ.MEŠ Ì.SI.IN.NA.KI us .s .u «the street which leads to the square of the men from Isin»; in quest’ultimo esempio si vede come il termine sumerico SILA sia tradotto come “street”, mentre il composto SILA.DAGAL.LA (letteralmente “strada grande”) venga reso con “square”. Questa distinzione si può notare già nelle traduzioni dei testi sumerici: ad es., nel seguente passo tratto dall’episodio della lotta dell’eroe Gilgamesh contro il Toro del cielo: 79 AD6-zU SILA SIG9-GA H E2-EN˘ corpse ˆ AL-LA H E -EN-ŠUB, «they will throw your ŠUB 80 ŠAG4-MAH -zU SILA DAG 2 ˘ ˘ in the deserted streets, and throw your intestines in the broad square»5; se si va a verificare ˆ AL-LA viene glossato come: SILA l’analisi dei singoli termini si vede però che SILA DAG ˆ AL-LA “to be wide”. La piazza dunque risulta essere in realtà semplicemente “street”, DAG una strada (centrale) più ampia. C’è anche da considerare, sempre in accadico un altro termine: suˉqu; esso è tradotto come “strada” o, nel costrutto suˉq erbetti (lett. “strada di quattro, quattro strade”), anche “incrocio”6; il corrispettivo sumerico di quest’ultimo termine sembra essere TILLA tradotto con “crossroads, marketplace”. È interessante anche notare come in arabo tale termine abbia poi originato la parola suˉq che vuol dire “mercato”; ma è un mercato che si svolge in strada (come si può ben vedere visitando ancor oggi una città del Medio Oriente, ad esempio la città vecchia di Gerusalemme, o anche altri insediamenti nel Maghreb). Dunque uno degli scopi principali di questa ampia strada era il commercio: questo lo si vede bene in un altro esempio riportato in CAD vol. 7, p. 129: ina rebıˉt aˉ lija Nippur UDU.H IA˹NITÁ˺ lušaˉ m, «I will buy a sheep in the square of my city Nippur». ˘ 5 Si veda Pennsylvania Sumerian Dictionary Project (PSD), Gilgamesh and the Bull of Heaven (c.1.8.1.2), line c1812.1.B.79 al link: http://etcsl.orinst.ox.ac.uk/edition2/etcslgloss.php?lookup=c1812.1.B.79&charenc =gcirc e Gilgamesh and the Bull of Heaven (c.1.8.1.2), line c1812.1.B.80 al link: http://etcsl.orinst.ox.ac.uk/ edition2/etcslgloss.php?lookup=c1812.1.B.80&charenc=gcirc. 6 Si veda anche BlacK, george, Postgate 20002, p. 328 che traduce con “square”.

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LA PIAzzA DOV’È? UN’INDAGINE SUL CONCETTO DI “PIAzzA” NELL’ETà PRE-CLASSICA

Un altro dato che propende per questa interpretazione è la traduzione data per alcuni termini hittiti: happira/i- tradotto come “Stadt” ma si nota che più precisamente sarebbe “Haldelsplatz”, “luogo di commercio”, un sostantivo denominale dal verbo happirai-/happarai- “vendere” (tischler 2001, p. 40). Interessante anche il termine Éhilammar/hilamn- “gate building, ga˘ ˘ tehouse, portal” (sumerico KI.LAM, letto ŠAKANKA “luogo dell’abbondanza=mercato”), che il dizionario del Tischler traduce “Marktplatz”; un termine simile è attestato anche in luvio geroglifico con la grafia PORTA-lana- “gate-house” (KloeKhorst 2008, pp. 242-243). Tutto ciò farebbe pensare a un luogo di mercato collocato presso la porta della città. La lingua ebraica ci permette di aggiungere alcune considerazioni: il termine reh . obh (sing.) è tradotto come “piazza”, mentre al plur. (reh .obh t) con “strade” o ancora con “piazza/e” (clines 1998); per esempio, in Na 2,5 leggiamo: bah . ûs . th yitheh lelû haˉ rekhebh yišeththaqešqûn baˉ reh .oˉbh th (plur.), «per le strade sfrecciano i carri, corrono alla rinfusa nelle piazze»7; ma in Is 15,3 leggiamo: ûbireh . oˉbh theyhaˉ (plur.), “e nelle sue strade”; Est 6,9: reh . oˉbh th (plur.) haˉ ‘ir, “la piazza della città”, da confrontare con Gdc 19,15: baˉ reh .ˉobh (sing.) haˉ ‘ir, “nella piazza della città”; questi esempi sembrano suggerire che anche in ebraico la “piazza” veniva concepita come una strada grande (reh . obh è etimologicamente collegato all’agg. raˉ h . aˉ bh “vasto, ampio”, dal vb. raˉ h . abh “essere o diventare ampio, largo”) o come un punto di incrocio di strade di una città. Spesso tale luogo è localizzato presso la porta della città (cfr. supra): es. in Ne 8,3 si legge liphen e haˉ reh .oˉbh th ’a˘šeˉ r liphen e ša‘ar-hammayim, «sulla piazza davanti alla porta delle Acque» (clines 1998, p. 631: «usually immediately inside the town gate»); a volte addirittura il termine “porta” (ša‘ar) è usato per indicare la piazza stessa (clines 1998, p. 634). In ebraico troviamo anche il termine šûq, imparentato con il sopra citato accadico suˉqu (a partire dalla forma neo-babilonese šuˉqu), che è tradotto solitamente con “strada” (v. Ct 3,2: bašewaˉ qı m u bareh .oˉbh th, “per le strade e per le piazze”). Simile a quest’ultimo come significato anche il termine h . u .s, per cui si veda per es. Ger 5,1: š memû beh . u .s th Yerûšaˉ layim ûre’û-naˉ ’ ûde‘û ûbhaˉ qešû bhireh . bh theyhaˉ , «percorrete le vie di Gerusalemme, osservate bene e informatevi, cercate nelle sue piazze». Anche questi due ultimi termini, tuttavia, secondo il dizionario di F. Scerbo8 possono essere tradotti sia con “strada” che con “piazza”. In conclusione, sembra si possano trovare nel Vicino Oriente antico due aspetti che si avvicinano, almeno concettualmente e in parte funzionalmente, alla nostra idea di “piazza”: o ˘

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– la presenza di strade più grandi, che potevano anche incrociarsi e che formavano degli spazi aperti, soprattutto vicino alle porte cittadine, assumendo così una particolare valenza simbolica e potendo ospitare diverse attività utili al vivere della comunità urbana; – la presenza nelle cittadelle del Ferro I-II di uno spazio centrale risparmiato, dedicato a svolgere una funzione all’interno della vita di queste comunità in cui è assente, almeno in loco, un potere palatino accentratore. Abbreviazioni bibliografiche Bittel K. 1970, Hattusha . The Capital of the Hittites, Oxford. BlacK J., george a., Postgate n. 20002, A Concise Dictionary of Akkadian, Wiesbaden. BrUsasco P. 2008, La Mesopotamia prima dell’Islam, Milano.

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Tutte le traduzioni italiane di passi dall’Antico Testamento sono tratte dall’ed. CEI 2008. scerBo 20062, pp. 80, 386. Per h .u .s v. anche francis 1906, p. 932: “plaza”. ˘

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MARCO DE PIETRI

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clines d. J. a. 1998, Squares and Streets: The Distinction of reh .obh “Square” and reh .obhot “Streets”, in On the Way to the Postmodern: Old Testament Essays 1967-1998, vol. II, Sheffield, pp. 631-636. faUlKner r. o. 200210, A Concise Dictionary of Middle Egyptian, Oxford. francis B. 1906, A Hebrew and English lexicon of the Old Testament, Oxford. KemP B. J. 1976, The Window of Appearance at El-Amarna, and the Basic Structure of This City, in “The Journal of Egyptian Archaeology”, 62, 1976, pp. 81-99. id. 2000, Antico Egitto . Analisi di una civiltà, Milano. KloeKhorst a. 2008, Etymological Dictionary of The Hittite Inherited Lexicon, Leiden-Boston. liverani m. 2011, Antico oriente, Storia, società, economia, Roma-Bari. id. 2012, Fondazioni di città in Siria e Mesopotamia fra IX e VII sec. a.C., in “Athenaeum”, 100, 2012, pp. 1-15. id. 2013, Immaginare Babele. Due secoli di studi sulla città orientale antica, Roma-Bari. mellaart J. 1967, Çatal Hüyük: a Neolithic Town in Anatolia, London. scerBo f. 20062, Dizionario ebraico e caldaico del Vecchio Testamento, Firenze. schmidt e. f. 1953, Persepolis – Structures, Reliefs, Inscriptions, vol. I, Chicago. tischler J. 2001, Hethitisches Handwörterbuch, Innsbruck.

parte terza Dalla ricerca all’insegnamento: le scuole

In questa sezione trovano spazio i lavori delle classi coinvolte nel progetto . Hanno partecipato i bambini della classe 5^ B dalla scuola primaria del ‘Vallone’ (terzo circolo didattico di Pavia), i ragazzi della 3^G della Scuola secondaria di I grado ‘C . Angelini’ coordinati dalle professoresse Ulrica Rogolino ed Emanuela Volta, i ragazzi della 2^ C artistico dell’Istituto Volta sotto la guida del prof . Emanuele Vicini, della 2^ del Liceo classico San Giorgio by Flag High School guidata dai prof . Riccardo Giandrini, Giorgio Galeazzi e Valeria Leonardi e della 2^ A del Liceo classico ‘U . Foscolo’ guidata dalla prof .ssa Mara Aschei . È utile sottolineare che grazie al progetto alcuni studenti sono diventati maestri di altri studenti . Si tratta del felice caso degli studenti del Liceo artistico che, divenuti per alcune ore insegnanti dei bambini della primaria, hanno messo a disposizione le loro competenze nell’aiutare i più piccoli a comprendere cosa sia una piazza dal punto di vista architettonico e civico-sociale e a elaborare idee per restituire un nome e una funzione alla piazza del loro quartiere (nella periferia Nord-Est della città) . I lavori, nati all’interno delle classi, grazie anche al contributo dei collaboratori dell’Osservatorio che hanno tenuto i seminari didattici, sono stati presentati nella loro forma definitiva il 31 maggio 2013 . Qui di seguito vengono proposti i materiali prodotti dalle scuole e supervisionati dagli organizzatori dell’Osservatorio .

Enrico Corti

tIcInum In 3^ g a cura della 3^ G Scuola media “C . Angelini” presentazIone del progetto In coerenza con glI IntentI della prIma azIone dell’osservatorIo 1

L’adesione al progetto sulla città proposto dall’Osservatorio Permanente sull’Antico è nata dall’esigenza di lavorare con la classe sul metodo storiografico. L’argomento ci ha permesso di approfondire la conoscenza della nostra città, avvicinando i ragazzi a studiosi autorevoli, quali Sacco 2, Stenico (stenico 1968), Tibiletti (tiBiletti 1968), Blake, Gabba (gaBBa 1984), Gianani, Maccabruni (maccaBrUni 1991), Tozzi (tozzi 1984 e 1997), Tomaselli (tomaselli 1978). Abbiamo seguito un itinerario nella città individuando nella sua forma attuale le tracce della sua antica origine, anche attraverso la visita ai diversi musei e l’attenta analisi dei riusi di materiali e manufatti romani, con un particolare accento sull’importanza della tutela del patrimonio storico-artistico. Noi insegnanti abbiamo lavorato con l’obiettivo che le conoscenze acquisite dai ragazzi si trasformassero in competenze per il loro futuro.

IllustrazIone del lavoro svolto 1. I ritrovamenti archeologici Pavia viene fondata dai Romani con il nome di Ticinum come colonia, probabilmente nell’89 a.C., in un territorio abitato da popolazioni liguri e celtiche e in una posizione strategicamente importante per il controllo del traffico fluviale. Come numerose altre città romane, fu costruita secondo un progetto generale; i lavori durarono presumibilmente pochissimi anni. La zona di Pavia più alta era particolarmente adatta ad accogliere edifici imponenti destinati alle funzioni pubbliche, amministrative e religiose. Così si può supporre che il foro coincidesse con la piazza della Vittoria per la sua posizione di centralità, all’incrocio dei due assi viari fondamentali, visto anche il ritrovamento in loco di grandi lastre in marmo rosso di Verona. Nel Museo archeologico di Pavia, e precisamente nel cortile del Castello, sono collocate parecchie pietre di un lastricato romano, trovato in Corso Mazzini, antico Decumano. La città di Ticinum, sulla base di quanto è stato esposto, doveva trovarsi in posizione elevata sul fiume e sulla pianura, soprattutto per chi giungeva da Sud, ossia dal Ticino. I reperti archeologici che riportano al suo passato romano sono scarsissimi, in quanto il materiale archeologico è andato nel corso del tempo distrutto dall’uomo che in alcune situazioni 1 Gli alunni che, coordinati dalle docenti Prof.ssa Ulrica Rogolino (Lettere) e Prof.ssa Emanuela Volta (Arte e immagine), si sono distinti per attiva partecipazione ed impegno collaborativo sono Bacchio Davide, Marchesi Ludovica, Massa Alice, Massa Sofia, Sala Federica, Sardano Anna, Villa Martina. 2 B. sacco, De italicarum rerum varietate et elegantia libri X, Papiae 1565, trad.it. di D. Magnino, Storia di Pavia, Como 1993.

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ha volutamente cancellato le tracce materiali del passato, quali opere di muratura, fondazioni o resti di edifici, per non ricadere nelle prescrizioni delle Leggi nazionali che, attraverso la Soprintendenza archeologica, tutelano il patrimonio storico-artistico, altre volte lo ha fatto in modo inconsapevole rimuovendo il terreno edificabile, ad esempio, con una benna meccanica. La felice posizione geografica di Ticinum ha fatto sì che attraverso questa fertile ed irrigua pianura transitassero genti e popoli che spesso si sono anche stanziati, come gli Ostrogoti e i Longobardi, cosicché oggi ci si trova di fronte a una stratificazione umana e urbana molto complessa e difficile da interpretare, formatasi nel corso del tempo e dei riusi dei materiali romani effettuati in particolare con la ripresa economica e politica avvenuta intorno al Mille3. 2. Schema urbanistico e popolazione L’impianto cittadino (Fig. 2) doveva essere probabilmente di forma rettangolare, gli isolati (Fig. 3) erano all’incirca quadrati ed erano dieci nel senso est-ovest e sei, o forse sette, da nord a sud, cioè in tutto sessanta o forse settanta; è, infatti, dubbia l’esistenza originaria di una striscia edificata a sud di Corso Garibaldi e Via Cardano. Gli isolati sono ancora in gran parte conservati e misurano poco meno di 80 metri di lato. La larghezza media delle strade è di 15 piedi: le strade centrali, ovvero il cosiddetto ‘cardine massimo’ (la Strada Nuova, sboccante al ponte romano) e il cosiddetto ‘decumano massimo’ (Corsi Cavour-Mazzini) colleganti due porte (attestate dai documenti), misurano invece 20 piedi. Un piede misura circa 29,5 cm, quindi le strade avevano una larghezza di piedi 15 e 20, cioè 4,5 m e 6 m circa. Il Tibiletti (si veda lo schema della Fig. 3) aveva individuato 64 abitazioni per isolato, ipotizzando che ogni nucleo familiare fosse composto da quattro persone si ottiene una densità di 256 abitanti per isolato, che, moltiplicato per il numero degli isolati, 50, considerando i rimanenti adibiti ad edilizia pubblica, si ottiene una popolazione complessiva di circa 12.800 abitanti (tiBiletti 1968). Tale ricostruzione, alla luce dei dati più recenti, appare tuttavia superata. 3. L’impianto sotterraneo L’impianto urbano si rispecchia nella struttura della rete fognaria (tomaselli 1978), che conferma e integra quello delle vie. Quanto all’orientamento e alla pendenza, è necessario ricordare che le fognature romane vennero indirizzate secondo un disegno sapientissimo: vennero tracciate sotto le strade che vanno a Sud ma, dopo un certo tratto, vennero piegate lungo le strade che vanno a Est, poi ancora a Sud e così via: il risultato fu che esse sboccavano generalmente presso l’angolo più basso della città, riducendo, così, al minimo l’inquinamento del Ticino presso la città stessa (Figg. 4 e 5). La conoscenza delle fognature ci è giunta dalla tradizione medioevale e risale precisamente al X sec., alle citazioni di Liutprando da Cremona4. Successivamente anche Opicino5 dice: «Dell’intera città tanto le strade, quanto i condotti delle latrine, delle quali sono dotate tutte le case, se piove sono spazzati da sotterranee e profonde cloache, che con le coperture a 3 I reimpieghi furono diffusissimi in età tardo-antica e medioevale, mentre i rinvenimenti avvennero prevalentemente tra la fine del XVIII e l’inizio del XX secolo. 4 Liutprando da Cremona, Pavia, 920?-972, storico, vescovo e diplomatico italiano, al servizio del Sacro romano impero, autore di opere scritte in latino. 5 O. de canistris, Il libro delle lodi della città di Pavia, trad. dal latino e note a cura di D. Ambaglio, Pavia 1984.

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volta sono quasi begli edifici sotto terra, e in qualche luogo hanno volte tanto alte, o meglio archi, che vi può passare un cavallo con un cavaliere in groppa. Sono, poi, in tutta la città, specialmente sotto le nove strade pubbliche della città vecchia, e presentano ai quadrivi delle aperture attraverso le quali entra l’acqua pioveva e tutte si scaricano nel Ticino» (p. 16). Delle eccezionali dimensioni delle cloache parla anche Stefano Breventano6. Il sistema si articola in sei collettori, di cui cinque con direzione Nord-Est, Sud-Ovest; tutti scaricano le acque in Ticino mediante le quattro cloache di Porta Calcinara, Vetro, Porta Salara, Porta Nuova con portata e funzione diverse. Esse, quindi, furono disegnate con due finalità, l’una di non inquinare le acque del fiume presso la città, l’altra di raccogliere e di smaltire le acque meteoriche, come sostiene anche il Gabba (gaBBa 1984, pp. 204 ss.).

presentazIone del percorso eFFettuato alla rIcerca dI tIcInum (Fig. 1) Tappa I: Museo archeologico del castello e Tappa II: raccolta lapidaria del castello Nelle immagini di Fig. 6 è raffigurato un elemento di monumento sepolcrale in marmo con l’immagine di Attis7. I Romani, conquistando tante terre, vennero a contatto con numerosi culti e divinità orientali che furono assai seguiti anche a Roma a partire dal I secolo d.C. Particolare attenzione è stata riservata alla statua denominata localmente come Muto dall’accia al collo (Fig. 7). La statua in marmo è ad altezza d’uomo e rappresenta forse un personaggio ufficiale, un magistrato, sia perché indossa la toga, sia per la presenza dello scrinium contenente i rotoli dei documenti. La testa non appartiene alla statua, è staccata dal corpo, ha lineamenti femminili, fu sicuramente aggiunta successivamente; la bocca, che appare visibilmente abrasa, ha fatto assegnare alla statua l’appellativo ‘Muto’, mentre il morbido panneggio della toga, che intorno al collo sembra formare una sorta di matassa, ha generato il termine dialettale ‘accia’8. Si presume che la statua fosse stata inserita nella Porta Marica, come conferma il Robolini sostenendo l’affermazione avanzata dal Breventano il quale assicura che «Nel muro di detta Porta Marenga dalla man sinistra dell’entrare nella città c’è un’antichissima statua di marmo bianco, la quale per la molta antichità ha la faccia guasta et pare che ella habbia un’accia di filo al collo et perciò ivi volgarmente si dice dall’accia al collo ma di cui quella fusse statua non ho finora potuto intendere»9. Oltre alla statua suddetta, sulle porte vi erano altre tre statue nelle quali, in seguito, l’iconografia cristiana vedrà la rappresentazione delle quattro virtù Cardinali, le ‘pietre’ sulle quali verrà fondata la città: Fortezza, Temperanza, Prudenza e Giustizia, della quale il Muto sarebbe l’immagine. Un altro interessante esemplare è un frammento di statua femminile: si tratta della parte terminale inferiore, di una statua femminile panneggiata, in marmo di Carrara, risalente 6

S. Breventano, Istoria delle antichità, nobiltà et delle cose notabili della città di Pavia, Pavia 1570. Divinità legata a culti orientali assai seguiti a Roma a partire dal I secolo d.C. Attis (Fig. 8), considerato simbolo di rinascita dopo la morte, viene spesso rappresentato in ambito funerario. È il paredro di Cibele, un’antica divinità anatolica, venerata come Grande Madre, dea della natura, degli animali e dei luoghi selvatici. 8 ‘Azza’ o ‘accia’, vocabolo lombardo corrispondente al toscano ‘matassa’. 9 S. Breventano, Istoria delle antichità, nobiltà et delle cose notabili della città di Pavia, Pavia 1570, Libro I, f. 5 (in roBolini 1826, p. 3). 7

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all’età augustea (7-8 d.C.). Si ipotizza che si tratti del piede sinistro della statua-ritratto di Livia, moglie di Augusto; forse, originariamente, la statua apparteneva al ciclo statuario collocato sulla porta imperiale, situata nella parte orientale della città, diametralmente opposta alla Porta Marica. Sulla porta orientale (in epoca tarda detta Porta Palacensis), si trovavano le dieci statue che celebravano la gens Iulia, che vantava la discendenza diretta da Iulo Ascanio, figlio di Enea, a cui apparteneva Augusto. Dalla Scuderi (scUderi 2008, p. 249) si apprende che l’arco doveva essere a tre fornici10. Le statue, a grandezza naturale, erano quelle di Augusto, Livia, Tiberio, Germanico, Druso Minore, Nerone, figlio di Germanico con il fratello minore Druso, Claudio, Gaio Cesare e Lucio Cesare, entrambi già morti all’epoca della costruzione dell’arco stesso. La presenza dei due giovani principes, Lucio e Gaio Cesari11, ha fatto ipotizzare che la costruzione del monumento fosse da mettere in relazione con gli onori funebri promossi da Augusto a Roma così come nei municipi e nelle colonie, alla morte dei due eredi designati. (Marmo di Carrara, Pavia, da Piazza del Municipio12). Una lastra in roccia carbonatica (Fig. 8), risalente al secondo quarto del II sec. d.C., è molto importante ai fini del nostro lavoro, in quanto risponde all’esigenza di prendere in considerazione i riutilizzi avvenuti in epoche successive all’età romana e da essa si evince l’ipotesi che anche a Pavia ci fosse un anfiteatro. Il testo ricorda, infatti, che Atalarico nel terzo anno del suo regno (528-529) ne curò il restauro affrontando le necessarie opere di manutenzione: D(ominus) N(oster) Atalaricus rex/gloriosissimus has/sedis spectaculi anno regni suo tertio fieri/praecepet (Il signore nostro Atalarico gloriosissimo re comandò felicemente che queste sedi di spettacolo fossero ripristinate nel terzo anno del suo regno.) In una sala del castello è conservato un bellissimo monumento funerario (Fig. 9), risalente al I sec. d.C., in forma di aedis rotunda, in pietra di Aurisina; esso doveva poggiare su un basamento cubico ed essere completato da una copertura conica, e riproduce un tempietto a pianta circolare. Il bassorilievo decorativo divide lo spazio in sette campate, una delle quali accoglie l’iscrizione. La rarità della tipologia attestata rende singolarmente interessante il monumento, infatti, viste le importanti dimensioni, l’urna venne riutilizzata nel monastero di San Salvatore di Pavia come vera da pozzo e ciò è verosimilmente compatibile con il bordo notevolmente inciso dallo sfregamento delle corde per portare in superficie i secchi pieni d’acqua. Successivamente andò a far parte della raccolta Malaspina per essere, poi, trasferita definitivamente nel museo del Castello. Tappa III: Museo archeologico dell’Università Nel Museo archeologico dell’Università è conservato un cippo (Fig. 10), rinvenuto in un pilastro durante i lavori di demolizione della Porta San Giovanni13 in Pavia. Per poter essere 10

Aperture, destinate al pubblico transito, nelle porte urbiche, negli archi trionfali, negli acquedotti, ecc. Gaio ed il fratello Lucio Cesare furono adottati nel 17 a.C. dal nonno materno, l’imperatore Augusto, che li nominò suoi eredi. Dal momento che Lucio e Gaio erano i soli eredi di Augusto, ebbero una florida carriera militare e politica. Lucio morì a Massilia in Gallia per una malattia nel 2 d.C., 18 mesi prima della morte del fratello Gaio. Tiberio fu, dunque, adottato in seguito come erede di Augusto. 12 La statua che ammiriamo in piazza Municipio celebra Ottaviano, poi chiamato Augusto. Fu donata al Comune di Pavia nel 1936 dall’allora Capo del Governo, Benito Mussolini, in occasione della sua visita a Pavia per inaugurare il nuovo Municipio e il Ponte dell’Impero, appena terminati. 13 La porta era sita nell’attuale Corso Garibaldi, zona Est della città. Proprio attraverso questa porta entrerà in città Alboino, re dei Longobardi, che farà di Pavia la sua piazzaforte. La demolizione avvenne nel 1818. 11

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adattata al reimpiego nella porta, la pietra era stata scalpellata in basso a destra ottenendo la scanalatura ancora ben visibile. Nel 1960 il Tibiletti lo fece asportare insieme con le sovrastrutture superiori e portare in Museo. La faccia principale iscritta è riquadrata da una cornice. Sono incise solo le prime due linee e la terza ad eccezione del puntino; le linee successive sono dipinte di rosso, del quale ci sono tracce ancora evidenti. L’epiteto V. P. in epoca romana era riservato ai funzionari di rango equestre che rivestivano ruoli importanti, l’uso della sigla V. P. risale probabilmente almeno al tempo di Settimio Severo. Tappa IV: raccolta lapidaria dell’Università Sulle pareti perimetrali del cortile del Miliario sono conservate numerose lapidi, prevalentemente a carattere funerario, commemorativo o celebrativo, alcune semplici, altre fregiate. Durante la visita ci siamo soffermati ad analizzare i particolari di una di esse perché abrasa per essere riutilizzate, riducendo, così, i costi per l’acquirente; la nostra attenzione è stata attratta anche da un’altra iscrizione visibilmente corretta (Fig. 12), in questo caso si è trattato di un errore commesso dallo sculptor che o non aveva considerato i giusti spazi delle lettere o si era dimenticato di dover scrivere il dittongo “AE”, nella parola CARISSIMAE, scrivendola invece così, CARISSIMÆ, ricavando, così, la E sul tratto obliquo della A . Tappa V: Via Miani: Pusterla di San Felice In Via Miani, a livello della pavimentazione stradale, è ben visibile la piccola porta (Fig. 13), denominata dal vicino monastero di San Felice; benché ricostruita più volte in alzato, appartiene al muro romano del quale testimonia l’andamento e anche lo straordinario spessore. Tappa VI: La cripta di San Giovanni Domnarum Gli scavi effettuati all’inizio del ’900 hanno messo elementi che possono riferirsi a un calidarium romano: si tratta di laterizi cilindrici, le suspensurae, riutilizzati nei muri della cripta. Questi mattoni rotondi di epoca romana erano tipici appunto degli edifici termali e ciò è indice della probabile presenza di thermae in questa zona del centro abitato. Questo tipo di impianto necessitava di una notevole quantità di acqua, di cui la città era molto ricca. Molte suspensurae furono appunto usate durante i rifacimenti successivi della chiesa, come si può vedere nelle murature nella cripta o nella costruzione del campanile (Fig. 14), come elemento decorativo e sicuramente non per mancanza di mattoni. Tappa VII: Piazza Vittoria-foro Nel mercato sotterraneo di Piazza della Vittoria è possibile osservare una lastra di pietra, probabilmente proveniente dal foro ubicato quasi certamente nella zona del centro geometrico della città, che è proprio dove i due assi viari maggiori si incontrano. Tappa VIII: resti della torre civica e Duomo In Fig. 11 vediamo un’immagine della parte bassa della Torre Civica, dove, se da una parte è possibile osservare il riuso di pietre romane nel basamento, dall’altra è ben visibile la

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collocazione di una cimasa di monumento sepolcrale (Fig. 11) conformato a timpano. La pseudoedicola fu inserita nella torre durante i lavori di costruzione e presenta, in funzione di acroteri, tre leoni accosciati a tutto tondo. Sulle basi, che sostengono i felini laterali, sono scolpite due scene di simbologia funeraria: a destra due coppie di guerrieri (il duello mortale), a sinistra due pavoni ai lati di un Kantharos (la vittoria sulla morte). Tappa IX: Area di Strada Nuova Proseguendo nel nostro percorso cittadino alla ricerca di nuovi riusi, ci troviamo di fronte ad altre pietre di epoca romana, riusate in età medioevale nell’arco di accesso che da Strada Nuova porta in Piazzetta Arduino. Tappa X: ponte romano Dopo aver percorso Strada Nuova in direzione Sud, arriviamo al Ticino, che essendo in periodo di secca, ci permette di fotografare ciò che rimane dell’antico ponte romano (Fig. 15): tre filari di grandi pietroni squadrati terminanti con un grande sperone triangolare, posto contro corrente, sul quale fu ricostruito nel Trecento14 il ponte coperto, mentre il ponte attuale si trova più a valle, a venti metri circa di distanza. Esso era uno dei più stabili sul Ticino15 dall’uscita dal lago Maggiore alla confluenza con il Po, visto che sopportava un traffico di eccezionale volume. Tappa XI: San Tommaso: resti delle thermae A Pavia sono stati scoperti nel 1885 resti di strutture e condutture in piombo, caratteristici degli impianti termali della città romana, nella grande aula poliabsidata sotto la chiesa di San Tommaso e nell’adiacente ex caserma Nino Bixio, sita in via Siro Comi16. Recentemente lavori per la realizzazione di una biblioteca universitaria hanno portato alla luce resti delle antiche vasche termali appartenenti ad un altro impianto termale, di probabile destinazione pubblica. Tappa XII: Via Cavallotti magazzino per derrate In Via Cavallotti 9, nel piano terreno dello stabile, alla quota della città romana, sono conservati i resti di un importante edificio tardo romano, scoperti nel 1961. Si tratta di un’aula con abside semicircolare che, forse, vista la vicinanza al fiume, era un magazzino portuale per derrate (Fig. 16). Via Cavallotti si trova nella parte inferiore della città, la zona dove erano maggiormente presenti le attrezzature e le installazioni portuali.

14 Il ponte fu costruito nel 1351 sui ruderi del ponte romano, su progetto di Giovanni da Ferrara e di Jacopo da Cozzo. Il ponte, completato nel 1354, era dotato di dieci arcate irregolari e di due torri alle estremità, che servivano per la difesa. Il ponte attuale, invece, è più largo e più alto rispetto a quello precedente. Le arcate sono più larghe, quindi inferiori in numero, cinque anziché sette. La costruzione iniziò nel 1949 e fu inaugurato nel 1951. 15 Il fiume Ticino fu navigabile fino all’inizio del secolo scorso. 16 Oggi è edificio universitario comprensivo della chiesa sconsacrata di S. Tommaso.

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Tappa XIII: Vicolo Anfiteatro Il nome deriva dalla presumibile collocazione dell’anfiteatro romano (Fig. 17) Tappa XIV: Porta Palacense17 Nella zona orientale della città, la porta Imperiale, risalente al I secolo d.C., fu sostituita da una nuova Porta che prese il nome di Porta Palacensis, la più bella e monumentale porta della città medioevale. Sul marciapiedi di via Scopoli fu trovata una lapide in pietra che informava: Hic erat Porta Palacensis, “qui era la Porta Palacense”, così denominata perché da qui si arrivava direttamente al palazzo, che ospitò re ed imperatori, cancellerie e corti. La lapide, recuperata dai Lions Club affinché tale testimonianza del passato non fosse destinata a scomparire, fu posta sul muro dalla quale prese il nome, via P. Palacense (Fig. 18). Tappa XV: area Liceo Foscolo In età longobarda non si ebbe un recupero consapevole degli edifici pubblici romani. Le farae longobarde si erano stabilite nella parte orientale della città, dove si trovava, appunto, il palazzo. In questa zona lo schema urbanistico della città presenta maglie irregolari per la presenza di ampi spazi, che, probabilmente, in epoca romana erano destinati ad edifici per lo spettacolo. Forse in questa parte ariana della città i sovrani longobardi cercarono di recuperare aree e materiali per l’edilizia privata. In questo periodo potrebbero essere così scomparsi edifici come l’anfiteatro, restaurato, come si è detto, dal sovrano goto Atalarico, ed il teatro, già in rovina da secoli. Nella fotografia, scattata nel cortile del Liceo ‘U. Foscolo’ di Pavia, è visibile un tratto del muro ad andamento circolare, che rimanda alla possibile esistenza, in tale area, del teatro romano.

conclusIonI Come si è potuto capire, scarse sono le testimonianze degli antichi scrittori e poco è rimasto della Ticinum romana, anche se gli scavi più recenti hanno portato a fare alcune nuove scoperte in campo edilizio. Lo Stenico affermava che l’impianto urbano, del quale sopravvive la maglia viaria regolare, è il più eloquente documento oggi esistente di quello che era stato il sistema di assi stradali stabilito sin dall’origine in un piano preciso ed organico dai costruttori romani di Ticinum per limitare all’interno del rettangolo murario gli isolati destinati all’edilizia pubblica e privata. Gli impianti fognari sono l’unica testimonianza monumentale di Ticinum, pervenuta quasi intatta, pensata e realizzata insieme all’assetto urbano della colonia. Rimangono, inoltre, solo i ruderi del ponte romano, affioranti in periodo di secca del fiume.

17 Della più bella e monumentale porta della città antica, detta «Palacense», che fu fatta erigere da re Pertarito o Bertarido, parla Paolo Diacono. Essa consentiva di accedere al palazzo che ospitò re e imperatori, cancellerie e corti, fino a quando i Pavesi non si ribellarono distruggendola dalle fondamenta, senza lasciare che di essa restasse traccia. Il palazzo fu demolito nel 1024. Si veda P. Diac., Hist . Long ., V 36.

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Sono presenti in città numerosi reperti romani riutilizzati in epoche successive, come nelle chiese di Santo Stefano, San Giovanni in Borgo, San Pietro in Ciel d’oro, Santa Maria alle Pertiche o nella chiesa di San Giovanni Domnarum . Poco si sa dell’architettura e, in particolare, degli edifici pubblici (si suppone, per esempio, che nell’attuale piazza Vittoria si trovasse il Foro), mentre si conosce a grandi linee il tracciato perimetrale della città grazie alla localizzazione delle necropoli. Solo nel XX secolo si prende atto in modo concreto dell’importanza della salvaguardia dei beni storici e artistici. Abbreviazioni bibliografiche gaBBa e. 1984, Ticinum: dalle origini alla fine del III secolo d .C . in Storia di Pavia, vol. I L’età antica, Milano. maccaBrUni c. 1991, Pavia: la tradizione dell’antico nella città medioevale, Pavia. roBolini g. 1826, Notizie appartenenti alla storia della sua patria, vol. II, Pavia. scUderi r. 2008, Iscrizioni su opere pubbliche in transpadana, in P. Basso et al . (edd.), Est enim ille flos Italiae…Vita economica e sociale nella Cisalpina romana (Atti Verona 2006), Verona, pp. 243-261. stenico a. 1968, Elementi della documentazione urbanistica, monumentale ed edilizia di Pavia Romana, Pavia. tiBiletti g. 1968, La struttura topografica antica di Pavia, in Convegno di studio sul centro storico di Pavia (Atti Pavia 1964), Pavia, pp. 205-222. tomaselli c. 1978, Il sistema delle fognature romane di Pavia, Pavia. tozzi P. 1984, L’impianto urbano di Ticinum romana, in Storia di Pavia, I L’età antica, Milano, pp. 183-204. tozzi P. 1997, Pavia antica città, Pavia.

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TICINUM IN 3^ G

Fig. 1 – Percorso, con indicazione delle 15 tappe alla scoperta della Pavia romana.

Fig. 2 – I ritrovamenti archeologici a Pavia.

Fig. 3 – Schema di un isolato.

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Fig. 4 – Schema dell’impianto fognario.

Fig. 5 – Tratto di fognatura e disegno a sanguigna di un fognolo. Attualmente collocato nel mercato sotterraneo della piazza.

Fig. 6 – Cippo raffigurante Attis. Metà del I sec. d.C., Pavia, da S. Stefano. Alt. 176; Largh. 63,5, Spess. 52: foto e disegni eseguiti dagli alunni.

TICINUM IN 3^ G

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Fig. 8 – Fronte di sarcofago a cassapanca con “tabula ansata” sorretta da eroti: disegno a sanguigna eseguito da un’alunna.

Fig. 7 – Statua del muto dall’accia al collo: foto e disegno eseguito da un alunno.

Fig. 10 – Cippo in marmo bianco di Carrara con venature. Fig. 11 – Fotografia della Torre civica con inserito un coronamento di stele a pseudoedicola. Seconda metà del I sec. d.C. Pavia, e particolare della pseudoedicola recuperata dalle macerie della Torre Civica (crollata il 17 Marzo del 1989). Alt. 56,8; Largh. 81,5; Spess. 40-43.

Fig. 9 – Monumento sepolcrale a forma di aedis rotunda, destinata a contenere le ceneri del defunto Titius Montanus. I sec. d.C. Pavia, dal monastero di San Salvatore, quindi facente parte della raccolta Malaspina, ora nel Museo archeologico del Castello dal 1896. Alt. 57; diam. 85-88: foto e disegno a sanguigna eseguiti da un’alunna.

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Fig. 12 – Lapide con un errore corretto.

Fig. 13 – Via Miani, Pusterla di San Felice.

Fig. 14 – Campanile della chiesa San Giovanni Domnarum. Cerchiati in blu riusi di mattoni manubriati e in rosso di sospensure.

Fig. 15 – Rudere dell’antico ponte romano.

Fig. 16 – Particolare del rudere di aula poliabsidata del magazzino per derrate venuto alla luce in Via Cavallotti 9.

Fig. 17 – Area del probabile anfiteatro romano.

Fig. 18 – Lapidi che ricordano la collocazione della porta imperiale, Via Porta Palacense.

la pIazza grande dI pavIa. un progetto dIdattIco dI conoscenza e valorIzzazIone del terrItorIo

a cura della 2^ C Liceo Artistico “A . Volta” IntroduzIone Su invito dell’Osservatorio Permanente sull’Antico, la classe 2^ C del Liceo Artistico ‘Volta’ di Pavia, coordinata da chi scrive, ha partecipato a un’importante azione progettuale, volta a stimolare negli studenti una conoscenza profonda e articolata, e di conseguenza una capacità di valorizzazione e difesa, di uno spazio della città di Pavia. Il liceo Artistico, parte dell’Istituto di Istruzione Superiore Alessandro Volta, persegue da sempre obiettivi trasversali fondamentali per la formazione di cittadini consapevoli del valore del patrimonio storico architettonico. L’Istituto Volta, dall’anno scolastico 2010-2011 si è infatti dotato di un macroprogetto dal titolo “S’Volta consapevole – Riconoscimento della molteplicità della persona” sul quale si innestano le azioni formative, educative e professionalizzanti presenti all’interno della scuola, per la sua utenza e per il territorio, con l’obiettivo di perseguire le finalità di Europa 2020 la strategia comunitaria che prevede percorsi e progetti per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, adottata dal Consiglio europeo il 17 Giugno 2010. In questo contesto formativo e normativo quindi si inseriscono azioni come quella qui descritta, volte a dar vita a processi formativi i più ampi e ricchi possibile. È nato così il progetto, in collaborazione con la classe 5^ B della Scuola Primaria Vallone di Pavia, dedicato al tema della piazza, come realtà storica, spazio sociale e artistico e quindi luogo dotato di un senso architettonico e antropologico preciso. Primo obiettivo del progetto è stata l’acquisizione da parte degli studenti partecipanti di una forte consapevolezza dell’appartenenza a una storia urbanistica che affonda le proprie radici nel passato romano e, di conseguenza, la presa di coscienza dell’importanza di conoscere, di valorizzare e di difendere la memoria dell’antico, ancora oggi visibile nella forma della nostra città. Non meno importante è stata la riflessione sul rapporto tra passato e presente. Le due scuole hanno lavorato su spazi avvicinabili nelle funzioni sociali, ma del tutto lontani nella loro vicenda storico architettonica: Piazza Grande e la Piazza del quartiere Vallone (nella periferia Nord-Est della città). Il confronto sulla forma, la vicenda costruttiva, le tipologie di edifici che vi si affacciano ha permesso di avvicinare gli studenti a una metodologia di analisi dello spazio architettonico più articolata e stratificata che tenga conto di una pluralità di elementi per raggiungere una comprensione più ampia.

Il processo Per la classe II del Liceo Volta, la prima fase di lavoro, di tipo cognitivo, è stata legata alla sperimentazione delle diverse strategie applicabili per conoscere la storia della città. Dopo alcune ore di lezione, previste dalla sezione di Scienze dell’Antichità del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Pavia, sulla storia della città greca e romana, si è

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passati alla lettura della cartografia esistente, dalla più recente alla più antica, corroborata dalle descrizioni urbane reperibili nelle fonti. Queste informazioni hanno permesso di sviluppare altri percorsi di ricerca, in particolare quello sociale, sull’uso antico e moderno della piazza, come luogo di scambio e di passaggio della città. Il lavoro congiunto degli studenti più grandi e più piccoli ha permesso non solo di avere punti di vista differenti, ma anche di sviluppare aspetti specifici, adatti alle competenze di ciascuno. In particolare: gli studenti liceali, sulla piazza antica, si sono dedicati alla lettura delle mappe urbane e delle fonti scritte originali, dandone poi conto ai ‘colleghi’ più giovani che ne hanno tratto elaborazioni grafiche illustrative. Nasce così, nella terza fase, la possibilità di confrontare, tra passato e presente, il complesso rapporto tra forma urbana e funzione sociale, tra la forma architettonica e il suo uso. Terminata la fase di ricerca storica e di collazione delle fonti grafiche, gli studenti hanno elaborato un semplice strumento multimediale da presentare ai ragazzi della primaria per dialogare insieme sui temi di fondo della ricerca. Lo sforzo è stato soprattutto rivolto alla creazione di un supporto chiaro nel lessico e organico nella struttura logica, adatto a dimostrare che piazze diverse per storia e qualità architettonica possono essere legate a finalità sociali simili, ma che proprio la collocazione urbanistica e la qualità formale determinano una percezione spaziale simbolica completamente diversa. Dopo aver proposto il tema del valore e della funzione delle mappe antiche, si è proposto un esercizio di lettura, per individuare alcuni luoghi simbolo della città (il Castello Visconteo, il Ponte Coperto e la Piazza Grande) nelle carte antiche e moderne e capire le funzioni delle piazze in base alla loro collocazione urbanistica. Molto interessante si è rivelato il tema del valore di un luogo rispetto al nome che porta. Piazza Grande o Piazza della Vittoria sono indicazioni topografiche e nominali che richiamano funzioni sociali e simboliche, completamente irriconoscibili nel caso della Piazza del Quartiere Vallone, priva da sempre di un nome specifico che la indichi a livello topografico e nella pratica comunicativa quotidiana. Decisamente importante è stato infine confrontarsi sulla forma e l’uso di alcuni specifici edifici, soprattutto quelli che nel corso dei secoli hanno mutato la loro destinazione. Così è per la chiesa di Santa Maria Gualtieri, da edificio di culto a spazio laico con finalità culturali varie. Durante l’incontro con gli studenti della scuola primaria, si è optato per una forma di lezione partecipata, nella quale i liceali hanno portato i più piccoli alla comprensione dei concetti di fondo attraverso domande e un dialogo serrato. Una parte preponderante del lavoro grafico ha riguardato lo studio più ravvicinato di alcuni edifici prospettanti sulla piazza e della loro funzione in rapporto con lo spazio complessivo. In questa fase, per contribuire allo sviluppo delle competenze disegnative degli studenti, sono stati elaborati schizzi vari della superficie della piazza e altri di dettagli architettonici di particolare interesse, con l’aiuto dell’insegnante di discipline geometriche (prof.ssa Virginia Russo). Attraverso una sorta di schematizzazione dello spazio della piazza si sono rilevate la collocazione delle diverse tipologie di edificio, la loro destinazione e i flussi di persone in relazione con le vie di accesso e di transito per lo spazio in esame. Con questi diversi approcci allo studio della Piazza Grande di Pavia, gli studenti coinvolti

LA PIAzzA GRANDE DI PAVIA. UN PROGETTO DIDATTICO DI CONOSCENzA E VALORIzzAzIONE DEL TERRITORIO

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hanno sperimentato la reale complessità e articolazione di un approccio scientificamente valido allo studio di uno spazio urbano, nelle sue componenti storiche, architettoniche e sociologiche.

conclusIone Il nostro lavoro è stato nella prima parte sostanzialmente storico conoscitivo e analitico, volto a indagare la forma della piazza e le funzioni principali dei suoi edifici, ma ha avuto poi il suo baricentro nell’operazione di scambio di conoscenze tra gli studenti della scuola secondaria e quelli della scuola primaria sui rispettivi ambiti di ricerca. Anche attraverso i due momenti di incontro e condivisione (febbraio e maggio 2013), abbiamo potuto sperimentare una serie di aspetti metacognitivi e trasversali importanti. Per i liceali è stata – per esempio – piuttosto impegnativa la ricerca lessicale ed espositiva e l’individuazione, in generale, del modo più corretto con cui porsi di fronte ai colleghi più giovani; è stato anche necessario giungere all’incontro/confronto tra le due classi pronti a rispondere a qualsiasi domanda, sviluppando quindi il più possibile le conoscenza sui temi in esame. Dovendo proporre le proprie conoscenze a colleghi più giovani, i liceali sono stati chiamati a prendere coscienza di quello che sanno e di quello che sanno fare, specificamente nel campo del disegno e in quello della lettura storico architettonica. È sorta in questo modo una prima competenza autovalutativa che, nella formazione di uno studente, è sempre fondamentale. Non va infine dimenticato che il tema che l’Osservatorio permanente sull’Antico ci ha chiesto di affrontare la comprensione di alcuni fenomeni della storia antica, per imparare a conoscere con più attenzione lo spazio cittadino, a valorizzarlo e a leggerlo in relazione con la forma urbana moderna. I nostri studenti sono stati condotti a cogliere la complessità di un’architettura che trasforma uno spazio in un luogo dotato di senso antropologico. L’essenza stessa del ‘luogo-piazza’ è ontologicamente connessa con le vicende architettoniche che l’hanno caratterizzata (positivamente o negativamente). L’architettura della piazza è matrice identitaria e costituisce un’immagine precisa e fortemente connotata, nelle sue forme e nei suoi significati. Gli studenti di 2^ C si sono gradualmente avvicinati a uno dei tempi più complessi e affascinanti della riflessione filosofica moderna: abitando un luogo, a quello si dà un senso compiuto. Solo muovendo da qui, potranno arrivare a capire l’esigenza della conoscenza e la necessità della tutela e della valorizzazione dello spazio urbano.

Progetto a cura del Prof . Emanuele Domenico Vicini Abbreviazioni bibliografiche deBUyst f. 2000, Il genius loci cristiano, Milano. vicini d. 1996, Pavia e Certosa . Guida storico artistica, Pavia. vicini d. 1996, Lineamenti urbanistici dal XII secolo all’età sforzesca, in Storia di Pavia, vol. III, tomo III, Pavia, pp. 9-81.

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Figg. 1, 2, 3 – Esempi tratti dalle slide proposte agli studenti della classe 5^ B della scuola primaria Vallone. Si è optato per una modalità a domande e risposte, per rendere più dialogato e partecipato l’incontro. Particolare interesse ha suscitato negli ascoltatori la lettura delle mappe antiche della città, che si è rivelato come una sorta di ‘caccia al luogo’, per individuare siti e spazi conosciuti. Si è lavorato così anche sulla datazione delle mappe cittadine.

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Fig. 4 – La mappa di Pavia moderna, proiettata ai ragazzi della classe elementare ha invece offerto lo spunto per discutere del rapporto tra centro e periferia, attraverso la presenza di luoghi tipologicamente simili.

Fig. 5 – La foto di Santa Maria Gualtieri ha infine offerto lo spunto per riflettere sul tema del riuso di edifici antichi.

Fig. 6 – L’analisi grafia dello spazio di Piazza Grande consente di osservare destinazione d’uso degli edifici e rapporto con le vie di accesso e di transito.

pIazza della vIttorIa. percorso storIco-FotograFIco a cura della 2^ Liceo classico “San Giorgio” by Flag High School premessa Il tema di ricerca proposto quest’anno dall’Osservatorio Permanente sull’Antico dell’Università di Pavia – La Città: com’era, com’è, come la vorremmo – ha posto a noi insegnanti e studenti della classe II un problema preliminare, comune – crediamo – a tutti coloro che, vivendo e operando, come noi, in una realtà scolastica, si sentono in qualche misura tenuti ad adottare sempre nell’approccio agli argomenti di studio una prospettiva multidisciplinare. Ci riferiamo alla domanda: quale taglio dare ad un lavoro sulla città? O in altri termini: quali discipline coinvolgere in una ricerca su un tema così vasto? O ancora, in altro modo: da dove partire e dove andare? Tra le varie opzioni su cui ci siamo interrogati, che avrebbero previsto, tra l’altro, il contributo della filosofia e della letteratura antica, abbiamo infine deciso di adottare il punto di vista della storia dell’arte. Questa scelta si basa su due motivazioni di fondo: in primo luogo nella nostra scuola l’insegnamento della storia dell’arte è potenziato rispetto ai piani di studio ministeriali e dunque ci è sembrato opportuno valorizzare questa specificità didattica, cogliendo l’occasione per mettere in pratica le competenze acquisite negli anni. Così facendo, ci è parso di dare al lavoro una piega meno scontata di quella che, forse, ci si aspetterebbe da un liceo classico, i cui interessi si concentrano soprattutto sulle lingue e le letterature antiche. In secondo luogo, l’opzione storico-artistica ci è sembrata un filtro particolarmente adatto a sviluppare il tema in esame, perché la storia dell’arte permette di parlare di un luogo attraverso i suoi monumenti, rilevandone non solo le caratteristiche estetiche e architettoniche, ma anche il valore sociale, culturale e simbolico in relazione al contesto storico cui essi appartengono. Posto questo punto di vista, abbiamo stabilito di concentrare il nostro studio sulla città di Pavia e in particolare sul luogo che della città è il più carico di stratificazioni cronologiche, piazza della Vittoria. Questo ci ha permesso di conoscere più in profondità un luogo a tutti noi molto famigliare, ma mai veramente studiato e compreso nelle sue molteplici valenze culturali. All’inizio, quando la curiosità era molta e molto era anche il tempo che avevamo davanti, abbiamo immaginato e in parte programmato una serie di attività – oggi in ‘didattichese’ bisognerebbe dire “un percorso” – che, nella prospettiva storica suggerita dal titolo proposto dall’Osservatorio, cercasse di tenere insieme antico, moderno e contemporaneo e terminasse con un’apertura al futuro che ci attende o che vorremmo. Quando però abbiamo fatto i conti con gli altri impegni scolastici ed extrascolastici, sempre più numerosi nella scuola contemporanea, ci siamo accorti che, se avessimo voluto realizzare una ricerca storicoartistica in senso proprio, ricorrendo cioè ad uno studio di prima mano delle fonti scritte e iconografiche, non sarebbe stato possibile mantenere un livello di approfondimento adeguato. Ci siamo resi conto che era necessario dare al nostro lavoro un taglio più specifico: perciò, pur non rinunciando a reperire dalle fonti informazioni storiche di contesto (si veda la bibliografia), abbiamo deciso di valorizzare un aspetto particolare della ricerca, quello dei documenti fotografici d’archivio. Ciò ci ha quantomeno permesso di accostarci in modo diretto a questo particolare tipo di fonte iconografica: attraverso una accurata ricerca negli

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archivi civici della città abbiamo raccolto e selezionato un campione di fotografie d’epoca che permettono di ricostruire le diverse fasi storiche della piazza. Tutto il materiale fotografico preso in esame è conservato presso la Fototeca dei Musei Civici di Pavia: sono state consultate le fotografie delle sezioni Vie e Piazze ed Iconografia. Nello scegliere le immagini e nell’elaborare la loro presentazione abbiamo deciso di evidenziare, in coerenza con la prospettiva multidisciplinare cui si accennava sopra, più che gli aspetti artistici e stilistici degli edifici della piazza, le loro molteplici funzioni civiche, cercando di mostrare come accanto e insieme alla funzione principale e costante nel tempo, quella commerciale, rappresentata un tempo da vari edifici e oggi soprattutto dal mercato coperto, la piazza sia stata anche luogo di decisioni politiche (il Broletto) e di devozioni religiose (la Madonna di Piazza Grande, le chiese oggi scomparse o adibite ad altro uso). Dal lavoro di selezione e preparazione delle immagini è risultata una presentazione per diapositive: nelle pagine seguenti proponiamo le più significative, corredandole di un breve commento. Per rimanere fedeli alla scansione diacronica contenuta nel titolo del tema (passato, presente, futuro), non potevamo rinunciare ad un riferimento al futuro della piazza. Per far questo la cosa migliore ci è sembrata dare la parola ai giovani, che sono tra i principali fruitori di Piazza della Vittoria. Abbiamo così realizzato una serie di interviste nelle quali abbiamo posto ad amici e compagni di scuola alcune domande sul loro modo di vedere o di vivere la piazza e sulle loro idee per cambiarla e per migliorarla. Questa è stata la parte più ‘informale’ del nostro lavoro, ma, forse anche per questo, quella che ha suscitato maggior interesse: ciò non solo per i toni scherzosi che talvolta, inevitabilmente, hanno assunto le risposte degli intervistati, ma anche perché tra il serio e il faceto le battute dei ragazzi, delle quali le più significative abbiamo trascritto in queste pagine, rivelano nel modo più spontaneo il valore reale che gli adolescenti danno a piazza della Vittoria e per conseguenza illuminano almeno parzialmente le potenzialità future di questo luogo. Proprio da queste interviste è emerso un dato che ci è apparso sorprendente e che riteniamo essere il più significativo: a dispetto del luogo comune che vuole i giovani sempre desiderosi di cambiamenti, ai ragazzi, pavesi e non, cui abbiamo rivolto le nostre domande la piazza va bene così com’è. O meglio: ci sono margini per migliorarla o renderla più funzionale, ma la condizione essenziale è che rimanga uno spazio pubblico. In continuità con la cultura civica antica e medievale, anche per i ragazzi (e gli uomini) d’oggi l’identità, presente e futura, di questo luogo non è data in prima istanza dalle sue funzioni e dalle sue attrattive, ma dal suo carattere di bene comune entro il quale la libertà del singolo si incontra con la libertà degli altri. Siamo felici di aver partecipato ad un’iniziativa come quella proposta dall’Osservatorio: con esso condividiamo la necessità, sempre più urgente, di portare con determinazione e senza paura la cultura fuori dalle aule, siano esse universitarie o scolastiche, per riproporla alla società. Anche noi, come l’Osservatorio, siamo preoccupati che l’amore per il passato, stimolo essenziale agli studi classici, non si risolva in una compiaciuta passione antiquaria, ma sia piuttosto sempre e di nuovo fonte di ispirazione per una comprensione più consapevole del presente e del futuro prossimo. Con questo lavoro, che è, ne siamo consapevoli, suscettibile di numerose revisioni e miglioramenti, ci auguriamo di aver dato un contributo significativo in questa direzione.

Gli insegnanti e gli studenti della classe 2^ Hanno supervisionato il lavoro i proff . Valeria Leonardi e Giorgio Galeazzi

PIAzzA DELLA VITTORIA. PERCORSO STORICO-FOTOGRAFICO

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le orIgInI romane Le fotografie (Figg. 1-4) mostrano alcuni resti romani, rinvenuti al di sotto della piazza durante gli scavi effettuati per la realizzazione del mercato coperto tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Come è già intuibile dal sistema viario ortogonale del centro storico e come è stato ulteriormente confermato dagli scavi, la parte meridionale della piazza, quella rivolta verso il duomo, era occupata in epoca romana probabilmente dal foro: ciò conferma l’originaria vocazione sociale di questo spazio urbano e la sua continuità d’uso nel tempo.

la sIstemazIone medIevale Nel passaggio dall’epoca antica a quella altomedievale le funzioni civili della piazza vengono meno. Fino alla metà del XIV secolo lo spazio era occupato da case private appartenenti alla famiglia Beccaria (Fig. 5). Una importante svolta si ebbe nel 1376, quando i Visconti, dopo aver acquistato il lotto in precedenza occupato dalle case private, decisero di riportarlo alla sua originaria funzione di luogo pubblico: i lavori di sgombero e sistemazione proseguirono negli anni successivi fino al 1397, quando la piazza venne inaugurata. Uno dei più antichi edifici risalenti a questa nuova fase è la cosiddetta Casa Rubea (cioè Rossa), che deve il suo nome al fatto di essere stata costruita con gli stessi mattoni di cui è fatto il Castello Visconteo (Fig. 6): la ragione della coincidenza è che questo edificio era in origine la residenza di Nicolino de’ Diversi, maestro delle entrate ducali. L’esempio della Casa Rubea mostra in modo particolarmente emblematico la molteplicità di funzioni che può assumere un edificio nel corso della sua storia: da abitazione privata di Nicolino essa divenne la residenza dell’esattore delle tasse e poi alla fine del Trecento fu adibita a monte frumentario, per diventare infine sede della corporazione dei beccai. Altri esempi di mutamento di funzioni: l’antica chiesa di Santa Maria Gualtieri, fondata nel 1096, adibita a magazzino dopo il 1798, oggi sede di conferenze e iniziative culturali; la chiesa di San Nicolò della Moneta, citata per la prima volta in un documento del 1250, dopo la sconsacrazione nel periodo napoleonico ha mutato quasi completamente il suo aspetto ed è oggi sede di esercizi commerciali privati (Fig. 7).

la vocazIone commercIale moderna La vocazione commerciale della piazza, testimoniata costantemente nel tempo dalla presenza di edifici afferenti alle attività mercantili (la zecca, il monte frumentario, le corporazioni…), trova la sua espressione più popolare nell’allestimento del mercato che si avvaleva fino alla fine degli anni Cinquanta del Novecento di strutture mobili a tenda (Figg. 8 e 9). Dal 1958 fu deciso di realizzare uno spazio sotterraneo per ospitare il mercato (Fig. 10): questo intervento ha, per così dire, raddoppiato la piazza, espandendola su due livelli e creando uno spazio libero permanente in superficie, che è occasionalmente utilizzato per eventi pubblici (concerti, comizi, manifestazioni).

le IntervIste D. Vi recate spesso in piazza della Vittoria? In quali occasioni lo fate? R. Sì spesso. Siamo lì un po’ tutti i giorni. Qualsiasi occasione è buona per andare in piazza.

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D. La percepite come un luogo di incontro, dove instaurare delle relazioni? R. Sì, naturalmente lo è, ma anche in senso negativo, perché è un posto in cui spesso si va per parlare dei fatti di tutti. Inoltre alcuni vanno in piazza non per socializzare, ma per mettersi in mostra, per farsi vedere, per ostentare il proprio aspetto o la propria ricchezza. D. Che tipo di incontri si fanno in piazza? R. La piazza è frequentata da persone di tutte le età, dai bambini agli anziani, passando per i ragazzi della nostra età. Tra noi ragazzi c’è una grande varietà: si può passare dal tipo snob ad un contesto trash in dieci metri di passeggiata. Il più delle volte, però, si va in piazza per incontrare persone che si conoscono già, come i propri amici o compagni di scuola. In questo modo si formano dei gruppetti isolati e quando passi davanti a uno di questi capannelli vieni sempre un po’ squadrato. D. Secondo voi è un posto importante nella città? Qual è la sua principale utilità? R. Anche per chi non è di Pavia il punto di incontro quando ci si vede con gli amici è sempre la piazza: ci si svaga, si scaricano le tensioni della scuola. Per noi ragazzi la sua principale funzione è quello dello svago, dell’intrattenimento nel tempo libero e alla sera. C’è da dire che la piazza, un po’ come tutta la città, è abbastanza cara: al baretto di Casteggio, per esempio, ci si arrangia con meno soldi e magari ci si diverte anche di più. Però ha il pregio di essere l’unico posto di ritrovo democratico all’interno di questa città, nel senso che qui va e viene gente di ogni tipo e di ogni condizione sociale, mentre spesso altri luoghi della città sono frequentati in base alle appartenenze o alle tendenze personali. D. Credete che la piazza vada bene com’è? Dovrebbe essere cambiata in qualcosa? La piazza non ha bisogno di particolari cambiamenti: così com’è risponde alle esigenze della cittadinanza. Certo, a volte sembra un po’ vuota, ma solo perché in quel momento c’è poca gente. La città ha bisogno di uno spazio ampio e libero dove passeggiare e incontrarsi. D. Come credete che cambierà piazza della Vittoria nei prossimi anni e decenni? La piazza è sempre la stessa da molto tempo: è così perché le esigenze degli abitanti sono sempre le stesse. Dieci anni fa era così, adesso è così, tra dieci anni sarà ancora così, con lo stesso tipo di persone che la frequentano. D. Non pensate che sarebbero necessari dei cambiamenti? Se si tratta di aggiungere iniziative culturali o sociali, come concerti, mostre o spettacoli, ogni cambiamento è bene accetto. Ma la piazza in sé, la sua struttura, la sua funzione sono adeguate alla città. L’importante è che rimanga uno spazio pubblico aperto a tutti: questo è il suo valore essenziale. Quanto ad eventuali rinnovamenti o cambiamenti, la piazza è un luogo per la gente e fatto dalla gente: quindi è la gente a rinnovarla ogni giorno.

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PIAzzA DELLA VITTORIA. PERCORSO STORICO-FOTOGRAFICO

Fig. 1 – Resti di edifici romani (carraro).

Fig. 2 – Fognatura romana (chiolini).

Fig. 3 – Ancora il condotto fognario (carraro).

Fig. 4 – Resti della pavimentazione lastricata (carraro).

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Fig. 5 – Prospetto antico della città (chiolini).

Fig. 6 – La Casa Rubea.

Fig. 7 – Pianta del centro storico del 1640 (chiolini).

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Fig. 8 – Una cartolina dei primi del Novecento.

Fig. 9 – Il mercato prima dei lavori di interramento (chiolini).

Fig. 10 – Scorcio del cantiere per la costruzione del mercato coperto (chiolini).

pensa che nel mIo paese abbIamo solo Il bar! un dIalogo a pIù vocI sulla cIttà a cura della 2^ A Liceo classico “U . Foscolo” Mara – Forza Maria! Siamo qui a riflettere insieme sulla città: comincia tu. L’avevi un’idea per cominciare, no? Maria – Comincio? Ho raccolto dei sassi di forme diverse: vorrei venderli! Brusio generale di smarrimento . Mara – Sassi? Risata allegra del gruppo . Maria – In una polis uno poteva mettersi a far mercato sull’agorà senza troppi vincoli di leggi. Potremmo immaginare di essere Ateniesi del V secolo. Pensare a cose che facevano loro e che potremmo fare anche noi. Vivere nella città antica e poi tornare a discutere della nostra e dopo immaginare come sarà la vita nella postmetropoli. Mara – Ma noi possiamo davvero entrare nella coscienza di un Ateniese di V secolo? Sentire e interpretare la realtà come loro? Partiamo piuttosto da qui, da ora, dalla vostra età. Chiediamoci: ma che cos’è CITTÁ per noi? Abbiamo letto, pensato, ascoltato. Proviamo a interrogare noi stessi: cos’è il vivere associato? Per ognuno di voi: cos’è la città? Virginia – Per me che abito in un piccolo paese la città è un’esigenza: in città posso soddisfare bisogni che nel paese non posso soddisfare; la città è un’ancora di salvezza. Ho letto un libro in cui si studia il rapporto fra i poveri delle favelas e la città. Anche per i poveri delle favelas la città funge da calamita: offre opportunità. Il mio paese è molto piccolo: ci sono due bar e basta, e un macellaio che fa anche da panettiere e da mini-supermercato. Da poco hanno aperto un ristorante che non si sa quanto durerà. E un negozio di abbigliamento. È un paese di vecchi. Roberto – Pensa che nel mio paese abbiamo solo il bar! Voi avete addirittura un negozio di abbigliamento. Da me tutto è concentrato dove c’è la chiesa: chiesa oratorio e bar. Tutto lì. Ah, sì, è vero, dimenticavo: perfino una farmacia! Il resto sono campi e case. Gabriele – Anch’io abito in un paese e se mi dimentico di comperare il pane devo prendere la macchina e fare dieci chilometri. È una cosa fuori dal mondo! Uno può dire: si sta bene, si sta nella natura, vabbé. Ma è molto più grave che, per procurarsi qualcosa di cui ha bisogno, uno debba fare fatica più di chi sta in città. Un essere umano ha psicologicamente bisogno di stare con gli altri. Io ho intorno il nulla. Per me è un sollievo al mattino alzarmi e prendere il pullman per venire in città; almeno vedo qualcuno, magari che va in giro con un sacchetto del pane. Nel mio paese attorno ho il deserto. Esco per prendere l’acqua e non incontro nessuno. Sebastiano – In città c’è gente, vero. Ma sei poi sicuro che non si sia soli lì? Gabriele – Beh, almeno non vedi il nulla. C’è andirivieni. Lara – Ricordo il paese di mio nonno, quando andavo a trovarlo da bambina: si girava per tutte le case, mi salutavano, mi offrivano qualcosa. Si conoscevano tutti. Lì la comunità si sentiva. Adesso è un paese di vecchi. Mara – Sotto l’osservazione di Lara c’è un pezzo della storia d’Italia. E non soltanto d’Italia. Hai detto: adesso è un paese di vecchi. E le generazioni nuove? Cosa è successo alle generazioni successive? Lara – Non lo so. Mara – Non lo sai tu e non lo sa un sacco di gente. Mentre l’Italia cambiava nel secondo dopoguerra, e in maniera più tumultuosa dagli anni Ottanta in poi, non c’è stata una consapevolezza diffusa e meno che meno un’attenzione diffusa a percepire cosa si stesse guadagnando, cosa si stesse perdendo e cosa valesse la pena di trattenere. Se adesso, e intendo proprio ADESSO, in questi anni, o addirittura in questi

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mesi e giorni, l’attenzione di filosofi e urbanisti e sociologi all’ultima rivoluzione dell’abitare, ultima in senso cronologico, quella in atto… se l’attenzione è così forte e ci sono voci preoccupate, è anche perché in larga misura il processo scorso di smantellamento e di omologazione della vita delle comunità di paese ci ha travolti, non è stato oggetto di cura. Cura intesa non come terapia; intesa come accudimento, come consapevolezza umana che coglie e che custodisce dei significati. Non so se sia storicamente attuabile l’accudimento di un processo così complesso e profondo, ma non ci fu nelle coscienze dei cittadini. Solo poche voci isolate, importanti ma isolate, avevano richiamato l’attenzione sul fatto che si stavano spaccando certe modalità di relazione interpersonale e che c’era il rischio che non le si sostituisse con niente. Gabriele – È stato proprio quello il problema. Quando ci siamo evoluti…. Mara – Evoluti? Perché EVOLUTI? Gabriele – La città è cambiata in base ai nuovi bisogni, è andata avanti e le campagne no. L’uomo è andato avanti. Mara – È davvero secondo i BISOGNI dell’uomo che è cambiata la città? E quali sono i BISOGNI dell’uomo? Gabriele – Quelli che oggi sembrano possibili come bisogni. Non è facile da spiegare. Ormai – forse lo facciamo in modo inconscio – andiamo sempre alla ricerca di cose nuove, di qualcosa di cui abbiamo bisogno. Magari poi non ne abbiamo davvero bisogno. Però cerchiamo cose e la città si evolve insieme all’uomo. La campagna invece…. Qualche giorno fa parlavo con mio nonno, che mi raccontava la sua storia: la mia famiglia è di un buco di paese del Piemonte, sperduto nel nulla. Lui però era nato a Genova. Beh, quando gli capitava di tornarci a Genova e poi di rientrare al paese, la gente del posto gli domandava: “Nanni, ma com’è il mare?” perché non l’avevano mai visto il mare, perché avevano passato un’intera vita sul poggio, vicino alla pesa pubblica, a sparlare di tutti. Non avevano bisogno di nient’altro: coltivavano il loro orto, mangiavano quello che mangiavano. Ma crescendo, andando avanti, un uomo ha via via necessità di avere qualcosa in più. La gente di quel paese non era mai scesa neppure in città a venti chilometri da lì. Mara – Già, era la condizione di esistenza di tanti nel passato. Anche adesso magari, nei villaggi di aree interne africane… Ma forse il modello della società e delle metropoli occidentali non è l’unico scenario possibile del vivere sulla Terra. Gli uomini sono in grado di elaborare significati anche se la loro esistenza si compie in uno spazio ristretto. Forse non è una questione di spazio. A noi costerna sapere che c’è stata una generazione che non aveva mai visto il mare. Avveniva in antico. Anche se è vero che i Greci ci vivevano dentro al mare. Non so se non muoversi tolga significati all’esistere. Possiamo meditare su esperienze umane così altre da noi. Chissà se la NOSTRA esistenza, di uomini moderni sempre in movimento, elabora dei significati. Lara – Stavo pensando a quello che si diceva prima a proposito del gap fra le generazioni, del cambiamento della vita nel paese. Sono stata un po’ di volte in vacanza studio in un paese in Inghilterra. Forse perché in Inghilterra la vita delle comunità è cambiata più gradualmente e non c’è stata come da noi un’accelerazione improvvisa, lì gli spazi comuni, il verde comune dei parchi, sono frequentati anche dai giovani e la gente si incontra. Non solo vecchi, anche madri coi passeggini. Gente che cammina assieme e insieme si siede sulle panchine. Angelo – Dopo la Seconda Guerra Mondiale noi siamo stati letteralmente invasi dalla cultura americana: la gente comune la vedeva come una cultura avanzatissima, quasi di un altro pianeta. E così sono state sradicate culture locali secolari: si sono trasformate in qualcosa di non nostro ma che pensavamo fosse all’avanguardia. Mara – Vero. Anche se dovremmo guardare poi da vicino tutte le variabili delle realtà di cui è fatta l’Italia, che non è un monolito, ma un luogo caratterizzato da tante diversità quanti sono i suoi paesaggi e le sue storie locali. Alessandro T. – I rapporti fra le persone … quelli non sono autentici ora. Non so, forse lo erano in passato nei paesi. Adesso si è sviluppata una mentalità per la quale ognuno concepisce se stesso come un individuo indipendente che non ha bisogno dell’altro. Non chiediamo aiuto e non sappiamo esprimere solidarietà.

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Gabriele – Mah! Non è questione di voler essere indipendenti, è questioni di volersi realizzare. Un uomo che vive in un paese di trecento anime come fa a realizzarsi? Elena Sofia – Dipende da quel che si intende per REALIzzARSI. Gabriele – Ogni uomo dovrebbe cercare di costruire qualcosa, di lasciare un segno. In una realtà di campagna, fatta di orti, cosa si può fare? Mara – E un cittadino per esempio di Milano, che segno lascia? Gabriele – Non è detto che tutti lascino un segno, ma in un ambiente cittadino c’è più possibilità di interazione, ci sono più strumenti. Perché io, studente di un liceo classico, dovrei limitarmi a vivere in un paese? Ognuno di noi che mira a un obbiettivo perché dovrebbe limitarsi? Perché dovrei anche solo sprecare un’ora di viaggio per raggiungere la città? Mara – Aspetta: un Parigino può metterci quattro ore per raggiungere, dentro la sua città, il proprio posto di lavoro. Forse il problema non è lì. Carolina – Credo che dobbiamo tornare al tema dei rapporti di solidarietà reciproca. Io sono un paesano–a–metà, perché al paese passo i fine settimana e mi ci sento come uno spettatore, però vedo che lì l’oratorio riesce a tenere uniti i giovani. Maria – Io ripensavo all’osservazione di Alessandro e mi tornavano in mente le parole di Simmel: la metropoli è gravida di stimolazioni in eccesso e gli uomini se ne difendono chiudendosi nell’indifferenza e nella solitudine. Vivono una loro libertà, ma anche una grande distanza affettiva dal prossimo. Angelo – È stato determinante il cambiamento delle condizioni di lavoro: nelle campagne alcuni lavori dovevano per forza essere svolti insieme: per fare solo un esempio la macellazione degli animali. Ma poi la vita cittadina, il dover studiare per accedere a un’attività, hanno isolato l’individuo e hanno fatto dimenticare la dimensione della comunità; hanno fatto cercare la soddisfazione personale magari anche a scapito degli altri. Mara – Già. Mi veniva da chiedermi intanto se il nostro studiare Aristofane o il teatro attico, che hanno meditato tanto sulla città, potrebbe aiutarci a pensare in modo alternativo il NOSTRO vivere associato. Gabriele – … non riesco a capire perché la vita della città dovrebbe averci resi più ottusi… Mara – Ma non più ottusi, più chiusi in noi stessi. Nella metropoli – la nostra città non è una metropoli, ma ne risente, anche i paesi ormai ne risentono– l’individuo è un atomo che si muove dentro gli spazi; cerca oggetti che gli servano, ma non condivide. Del resto chissà se una generazione che è cresciuta in questa atmosfera può capire cosa significa e fin dove può arrivare, in un gruppo umano, la capacità di condivisione. Elena P. – Leggevo in una tesi di storia dell’architettura le parole di una studiosa tedesca della metà dell’800: la modernità è caratterizzata dalla cancellazione della sfera pubblica e dal bisogno del singolo di riconoscersi parte della massa, il che non significa affatto essere capace di relazione, anzi; e la storia è concepita come un processo di natura, non come un prodotto degli uomini, per cui non c’è più la ricerca di un significato del passato: c’è sì un guardare all’indietro ma senza cercare di capire, senza cercare di spiegarsi il presente. Clara – Più che chiudersi in se stesse le persone si chiudono all’interno del microcosmo che si creano nel tempo: vivendo, entrando in contatto con gli altri, ci definiamo progressivamente un luogo, un’area in cui ci rispecchiamo e dove stanno anche altri simili a noi, che ci aiutano a formarci un’idea di noi stessi e del mondo. La possibilità di avvicinarci la precludiamo a quelli totalmente diversi da noi. Antonio – Non mi pare di vedere nel passato una grande capacità di accoglienza del diverso. Storicamente il diverso è sempre stato una preda, salvo per alcune eccezioni positive. Per esempio: adesso il volontariato è un modo di avvicinarsi a qualcuno di completamente diverso e un mezzo per ristabilire in parte l’equilibrio distrutto dal sistema produttivo. Ma non è che in passato ci fosse amore per il diverso: l’imperialismo non è nato il secolo scorso. Il problema sta nel rapporto fra l’individuo e l’Altro e non fra la comunità e l’Altro. Filippo – La chiusura dell’individuo può anche dipendere dal fatto che la città non è sempre stata pensata per i cittadini: le città nascevano anche per altre ragioni, per esempio di natura economica.

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Mara – Infatti: l’Atene di V secolo si è concepita, si è percepita, si è descritta, si è messa in scena come uno spazio per i cittadini ma Alessandria d’Egitto fu pensata per il potere e per la cultura. L’Atene della democrazia cosa può dire a noi? Filippo – SE può dire ancora qualcosa. Le città antiche sono modelli non più attuali. Nelle città ora non c’è un gran che di interesse per la partecipazione. Elena P. – Gli Ateniesi si sentivano al centro del mondo. Elena Sofia – Ma Aristofane mostra già Ateniesi che si interessano della cosa pubblica per ragioni del tutto personali e non per amore della cosa pubblica. Caterina – Aristofane carica molto gli elementi negativi, ma accanto al dato che il cittadino vuole partecipare e che la città si fonda sul cittadino. Mara – Aristofane ha aspetti distopici, ma la distopia rimanda implicitamente a un pensiero utopico, che è ricerca di un bene comune. Filippo – L’utopia spinge al cambiamento. Quella di Atene era nel passato: l’Atene democratica, quella che funzionava bene, che si era retta sull’integrità dei suoi componenti, integrità che poi venne meno. Gabriele – Noi parliamo di Aristofane ma c’è da fare una distinzione: i protagonisti di Aristofane non sono cittadini comuni: sono individui che si dissociano dall’ambiente normale e portano avanti il loro ideale. Noi non possiamo avere nozione della coscienza di un cittadino ateniese autentico. Magari vivevano un’estraneità alla città pari alla nostra. Mara – Come te la sei immaginata una città antica ascoltando le parole degli archeologi? L’archeologia ha la capacità di evocare scenari. Gabriele – Ecco, il bello è che non me la sono immaginata. Finché mi parlano della piazzetta, d’accordo: anche il mio paese ha una piazzetta. Ma non riesco a immaginarmi come poteva essere un quartiere popolare. Clara – C’erano molti spazi comuni, spazi aperti adatti a incontrarsi. E i cittadini dovevano sentirsi parte della politica. Noi invece della politica siamo al margine: non decidiamo. Maria – I cittadini ateniesi avevano la responsabilità di partecipare alla vita politica, di andare a teatro, per esempio, e di avere cariche. Mara – Il sogno della democrazia diretta. Tornato di attualità, no? Nino – Ma non è possibile prendere un cittadino qualsiasi e metterlo a dirigere un paese! Uno che si fosse occupato sempre solo di agricoltura, per esempio, potrà capire una riforma agraria, ma non si può metterlo al governo di un Paese! Antonio – Neanche le ballerine … Tumulto generale e risate . Gabriele – Basta ridere: devo dire una cosa seria. Tutti gli ideali di partecipazione e di democrazia partono dalla persuasione che l’essere umano sia in sé buono, sia un essere morale e che se deve compiere un atto di giustizia lo compie. Per come siamo ora, mi pare improbabile. Antonio – Ritenere l’essere umano cattivo o buono in sé non ha senso. L’essere umano moralmente è neutro: non nasce né buono né cattivo e non lo DIVENTA neanche. Può comportarsi in maniera disgustosa o in maniera assolutamente ammirevole; ma gli esseri umani hanno tutti la stessa struttura di base; possono avere, a seconda della vita che hanno fatta, convinzioni e modi di ragionare diversi, ma questo non vuol dire che qualcuno sia per natura o sia stato reso inadatto a partecipare alle decisioni. Contano le competenze, ovviamente: ad Atene non c’era ancora la specializzazione di oggi perché non c’era la tecnologia di oggi. Ma ciò non comporta che si debba riproporre una società in caste. È un mito che la competenza e il merito guidino le decisioni oggi: oggi la società si basa sul principio di convenienza diretta: “faccio ciò che conviene a ME”. È un principio non dell’essere umano ma delle organizzazioni: vale per le aziende, per i governi, per gli organismi sovranazionali. Gabriele – Ma le organizzazioni sono fatte di uomini!

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Antonio – Posso capire la tua obiezione, ma ti rispondo: qualcuno qui ha sentito parlare dell’esperimento dell’Onda o della prigione di Stanford? Questi esperimenti dimostrano che un essere umano, in gruppo, può commettere azioni che da solo non commetterebbe mai. Uno studente qualsiasi può trasformarsi in un prevaricatore. Perché in certi ruoli l’Uomo il cattivo lo FA. Gabriele – Ma va là! Tutti discorsi teorici! quanta gente fa del male per il solo gusto di farlo! Lo faccio anch’io! Risate, agitazione generale e voci che si sovrastano . Antonio – Tu stesso ti stai basando proprio su quei principi morali che dici non validi… Mara – E qui il nostro Antonio da filosofo diventa dialettico! Antonio – L’Uomo ha in sé potenziale di bene o di male, quel che prevale dipende dalle sue azioni e dalle azioni di quelli intorno. Dire che di natura l’uomo è buono, è utopico, dire che di natura è malvagio è distopico. Mara – Posto che sia così, quali sono le strade percorribili per creare condizioni che favoriscano fra gli esseri umani stili di convivenza aperti al positivo? Vociare di Antonio e di Gabriele . Filippo – Bisognerebbe fare una riforma a tutti i livelli: una persona che cresce oggi cresce male. La società non ha come obbiettivo l’educazione della persona, insegna valori sbagliati, insegna solo il profitto. La scuola imbottisce di nozioni. Nessuno si cura di far crescere un uomo. Siamo abbandonati a noi stessi. Elena P. – Vero che siamo lasciati a noi stessi, ma possiamo imparare da soli ciò che non ci è stato insegnato. E allora è giusto mettersi poi a confronto con chi ha imparato altro. Mi chiedo: cresciamo come individui, nonostante la massificazione, tutti diversi fra noi; come possiamo puntare insieme a un bene comune partendo da posizioni divergenti? Filippo – Il progetto sembra in effetti costruire una società di automi, per evitare disordini… Mara – Nella ricerca del bene comune non dobbiamo farci condizionare dalla pura logica assembleare. Gli Ateniesi hanno inventato le regole della comunicazione di un’assemblea deliberante. Sono regole quantitative. E la comunicazione era controllata da quelli che SAPEVANO parlare. Non c’era davvero la ricerca collaborativa di un bene comune. I progetti erano elaborati altrove e poi bisognava farli approvare dal gruppo grosso istituzionale. Nella ricerca del bene comune specie nelle svolte storiche non è questione di decidere la tesi dominante: si tratta piuttosto di ASCOLTARE. Le specificità poi vanno elaborate così da modificare insieme il percorso e insieme elaborare il sogno. Questo i Greci non ce l’hanno insegnato. Maria – Uno si comporta solo in base a quello che conosce: le guardie di Stanford si sono comportate in modo aggressivo perché erano condizionate da un copione interiorizzato. E quanto a conciliare posizioni divergenti, non credo sia possibile: si percorre una strada o l’altra. Una tesi prevale sull’altra. Due alternative non si possono realizzare insieme. Non si percorrono insieme due vie. Jacopo – Fin qui abbiamo mantenuto l’assunto di dover guardare alla democrazia di Atene come modello. Perché non Roma, invece, che si è modificata nel tempo e che è resistita a lungo? Atene è funzionata all’incirca per tre generazioni di uomini e il suo modello è applicabile solo a una realtà piccola. Roma ha tentato un esperimento più confacente alla struttura che il mondo ha adesso. Filippo – Il modello greco presuppone un’integrità morale non ottenibile; il modello romano tiene sotto controllo le spinte negative. Flavio – Ma il modello romano tende all’utile, non a un ideale etico. Sebastiano – E a Roma il potere era detenuto da un’oligarchia, cosa per noi inaccettabile. Mara – Cos’è l’integrità morale? Filippo – Adoperarsi per il bene comune. Jacopo – Il sistema economico in atto e l’obbiettivo dell’autorealizzazione presuppongono la logica

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“uno contro tutti”; non suggeriscono il pensiero del bene comune. Un modello fondato sul bene comune è inattuabile. Mara – Col che l’idea democratica diventa inconsistente. E un’oligarchia oggi esiste o no? Filippo – C’è, ma l’importante è che non si veda: nessuno oggi accetterebbe un’aristocrazia. Mara – Noi misuriamo la democrazia in base a un concetto antico di stato territoriale ma il sistema economico che gestisce il Pianeta in termini di processi e che influenza la vita del singolo è mondiale. Fattualmente le istituzioni non possono autodeterminarsi. Elena Sofia – Il nostro sistema politico è troppo grande per occuparsi davvero della vita dei cittadini e troppo piccolo per poter agire e interagire a livello mondiale. Antonio – Anche il sistema romano non era poi così efficace e un suddito non è detto che vivesse bene. Mara – La fattualità storica è una cosa, il livello ideale è un’altra; ma almeno l’autoimmagine del gruppo dominante era orientata al bene comune. Non era forse solo una sovrastruttura ideologica. Antonio – Vero, ma un cittadino non aristocratico di quel sogno non faceva parte. Il problema del nostro mondo, se vuole mantenere un ordine democratico, è di impedire che ci siano realtà esterne ad esso fatte oggetto di sfruttamento o identificate come nemico. Mara – Trovare percorsi per gestire la communis utilitas; o, in senso cattivo, per gestire la piazza, che è pericolosa cassa di risonanza del malessere, al Cairo ma anche a Stoccolma – di cui nessuno parla. Elena P. – Ci sono stata in Scandinavia: i sistemi di integrazione e di controllo della popolazione povera lì sono efficientissimi, eccessivi. Si sono ribellati. Jacopo – E l’anno scorso nessuno parlò della rivolta dei forconi in Sicilia … Mara – Sistemi di controllo… Filippo – Anche Roma controllava. Il vantaggio di chi comanda oggi è che può comandare senza essere visto… Jacopo – A Roma c’era la coscienza che qualcuno era la classe dirigente: quelli che sono al comando ora non hanno coscienza del loro dovere di governare. Dovendo una democrazia concedere in linea di principio l’accesso al governo a una grande fetta della popolazione, è infondato pensare di dare a tutti gli strumenti per gestirlo. Sebastiano – In realtà al governo va una classe di privilegiati che cura gli interessi propri perché del bene comune non ha neppure coscienza. Elena Sofia – Che non ci sia una classe dirigente non è pensabile: il problema è come si fa a sceglierla e a che genere di principi si ispira. Lara – Modello greco e modello romano possono convivere. La nozione di bene si percepisce a livello di comunità piccole, entro le quali sia possibile conoscersi: lì può valere ancora il modello greco di partecipazione diretta. E da lì la cura del gruppo passa automaticamente al sovrasistema. Mara – Non credo che sia automatico – gli uomini scelgono – ma la tua utopia mi piace.

–––––– Docente referente: Mara Aschei Gli allievi: Virginia Barbieri, Tea Bertolotti, Clara Boggini, Maria Bottinelli, Elena Sofia Capra, Sebastiano Carli, Jacopo Celè, Alessandro Cicirello, Flavio Desanctis, Caterina Fra, Maria Chiara Ghigna, Angelo Giannattasio, Filippo Giordano, Marta Lo Vasco, Nino Mazzocchi, Lara Novaresi, Elena Paralovo, Elena Sacilotto, Antonio Scendrate, Caterina Spada, Roberto Soardi, Alessandro Trancuccio, Gabriele zaffignani Il progetto completo è descritto in un apposito website raggiungibile dall’url www .liceofoscolo .it o www . maraaschei .it

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Nota bibliografica Autori antichi cicerone, De republica Platone, Protagora Platone, Fedone

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