La giustizia come virtù 9788869291531


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La giustizia come virtù
 9788869291531

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Antonio Sacco

Antonio Sacco

La giustizia come virtù

© 2017 Effatà Editrice Via Tre Denti, 1

10060 Cantalupa (Torino) el (0121°535:34:52

Fax:012135:33.39 E-mail: [email protected] www.effata.it ISBN 978-88-6929-153-1

Collana: Studia taurinensia

In copertina: Luca Corbellini, La Giustizia (1662-1664), Chiesa Collegiata di Sant'Elena, Villafranca d’Asti Grafica: Silvia Aimar, Vito Mosca Stampa: LegoDigit — Lavis (Trento)

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La carta utilizzata per questo prodotto è ottenuta con cellulosa proveniente da

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RINGRAZIAMENTI

Questa pubblicazione è il frutto di una tesi di Dottorato in Teologia presso la

Pontificia Università S$. Tommaso — Angelicum in Roma, la cui discussione è avvenuta in data 17 giugno 2015. Ringrazio il professor padre Francesco Compagnoni O.P. che mi ha guidato, con la saggezza e l’esperienza dei suoi studi attraverso numerosi scambi e confronti, come moderatore nel lavoro di elaborazione della tesi.

Inoltre ringrazio il professor padre Serge-Ihomas Bonino O.P., censore della tesi, per le preziose indicazioni in sede di discussione. Voglio anche ringraziare il professor don Giuseppe Abbà SDB, le cui lezioni ed approfondimenti sono stati fondamentali per questa ricerca.

Ringrazio Mons. Tullio Citrini, allora rettore, e tutta la comunità presbiterale del Pontificio Seminario Lombardo in Roma dove ho vissuto un fecondo scambio intellettuale negli anni degli studi. Infine ringrazio l'Arcivescovo di Torino, Sua Eccellenza Mons. Cesare Nosiglia, l’allora direttore della Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale sezione di Torino, Mons. Valter Danna, i suoi successori don Ferruccio Cera-

gioli e don Roberto Repole, tutti i professori della stessa, che mi hanno proposto di completare gli studi teologici e sostenuto nel corso degli stessi fino al frutto conseguito con questo testo.

Digitized by the Internet Archive in 2022 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/lagiustiziacomev0000sace

ABBREVIAZIONI

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= Tommaso D'Aquino, Summa Theologiae.

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Summa

Theologiae, Parte Prima, questione prima,

articolo primo, soluzione della difficoltà prima.

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Summa Theologiae, Sezione Prima della Parte Seconda.

II II

=

Summa Theologiae, Sezione Seconda della Parte Seconda.

III

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Summa Theologiae, Parte Terza.

I brani tratti dalla Somma Teologica sono tratti dall’edizione con testo italiano a fronte, curata dai Domenicani Italiani, ESD, Bologna 1985.

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INTRODUZIONE

Un interrogativo sostanziale ha condotto questo lavoro di ricerca: la giustizia è necessaria per la realizzazione del soggetto? È una qualità fondante perché quest'ultimo esplichi in pienezza quello che lo contraddistingue come soggetto umano? La prospettiva che mi è sembrata più adatta per rispondere a queste

domande è stata quella dell’etica delle virtù e della giustizia come virtù, come ricorda il titolo del libro. Comunemente la giustizia non viene però individuata come una virtù, piuttosto sono le prospettive procedurali, ad esempio di tipo contrattualistico, che sono utilizzate per una comprensione della stessa. La giustizia si pensa senza il riferimento al soggetto agente. Individuare la medesima come virtù ha significato collocarsi sul piano soggettivo, nella prospettiva etica della “prima persona”, senza cadere in un soggettivismo. L'etica delle virtù è un'etica del soggetto agente che si dirige nel suo agire in maniera teleologica classica, cioè per raggiungere il fine proprio che lo caratterizza. Per avvicinare questo fine, che in una modalità parziale può essere definito come la vita buona, occorre indirizzarsi al bene grazie alle capacità virtuose — alle virtù — acquisite nella crescita morale e non possedute come caratteristiche già presenti all’inizio della condotta vitale. Le virtù sono disposizioni uniformi e permanenti che determinano una trasformazione delle facoltà operative del soggetto e che lo indirizzano al bene proprio, detto altrimenti conducono lo stesso soggetto ad una realizzazione piena dell’umano. Questa ricerca si è sviluppata seguendo due linee di carattere generale. La prima in riferimento a Tommaso. Le riflessioni compiute hanno un legame con il pensiero di Tommaso, mediato da alcuni studiosi contempo-

ranei dello stesso, attraverso cui ho presentato l'impostazione generale di un'etica delle virtù.

INTRODUZIONE

La seconda individua in quest'ultima una proposta generale per l’intero discorso morale. Il testo che presento si articola in tre passaggi fondamentali. Il primo — nel secondo capitolo — riguarda il fatto che la giustizia venga indagata nel legame con la legge naturale, struttura interpretativa che permette di legare le virtù ad una dimensione oggettiva. La giustizia è un cambiamento nella volontà del soggetto che aspira al bene altrui come al bene proprio. La sua caratteristica è quella di dirigersi a dei fini che vengono riassunti nei principi di eguaglianza e non maleficenza. Inoltre realizza la tendenza alla socialità, inclinazione che appartiene naturalmente al soggetto, in una maniera pienamente umana: la socialità è umana solo se c'è giustizia.

Il secondo passaggio — nel capitolo terzo — si concentra sul concetto di tradizione. I principi che indirizzano la socialità sono ancora un aspetto formale della giustizia.

Per entrare nella dimensione della prassi occorre esprimere questi principi con delle modalità che possono essere differenti a seconda dei contesti vitali e comunitari, ovvero della tradizione in cui si acquisiscono le virtù morali. Poiché queste ultime non sono qualità innate, il loro formarsi dipende sempre dalla tradizione in cui avviene questa crescita. In particolare questa spiegazione delle tradizioni ha precisato che cosa significa una tradizione cristiana — e poi nello specifico cattolica — in cui comprendere come si articola, quali “contenuti” possiede, una virtù di giustizia specificata in senso cristiano. Nella tradizione cattolica sono state individuate tre espressioni della giustizia: quella commutativa, quella distributiva e quella sociale. Sono risalito nelle analisi a quella che ho individuato come fonte della prospettiva cattolica della giustizia: la tradizione tommasiana. In essa il concetto di bene comune è parte delle caratteristiche costitutive del soggetto e la giustizia è necessaria per la tutela della persona. Nella tradizione cristiana ho potuto constatare che uno dei fini che indirizzano la giustizia — in concomitanza con le espressioni antropologiche che sono ovviamente quelle della socialità indirizzata dai principi di giustizia e adottati in modo esplicito dalla stessa tradizione — è quello dell'amore per il prossimo legato all’amore di Dio. I principi di giustizia vengono declinati nell’amore perché la stessa tradizione ha dato corpo ed è stata costituita dall’amore del prossimo. 8

INTRODUZIONE

Allo stesso tempo l’amore per il prossimo, almeno nelle relazioni con alcuni soggetti più vicini, è caratterizzato dalla giustizia. >

.

.

Il terzo passaggio — nel capitolo quarto — nasce dal voler approfondire da un punto di vista teologico la relazione tra la carità e la giustizia. La tradi-

zione cristiana di giustizia, descritta nel capitolo precedente, era stata studiata

dal punto di vista dei contenuti: l'oggetto materiale della virtù di giustizia in ambito cristiano. Ma come è possibile descrivere l’apporto della prospettiva teologica? In che modo la qualità della virtù viene rinnovata dalla dimensione teologica? Qual è l'oggetto formale della giustizia come virtù in senso cristiano? Per comprendere dunque la valenza dell’amore cristiano rispetto alla giustizia nell'ultima parte di questo lavoro ho proposto un approfondimento di tipo teologico che ha comportato l’analisi della concezione tommasiana delle virtù infuse. Questo tema non è stato molto studiato anche nella ripresa del discorso delle virtù. In questo lavoro invece è stato un’analisi centrale che ha permesso di spiegare il significato di uno specifico cristiano della giustizia. Il fine ultimo, la grazia e la carità sono tre elementi necessari per giungere a definire la giustizia infusa. La giustizia viene trasformata dalla carità, l’amore di Dio, che raggiunge il

soggetto e che diventa qualità etica, cioè amore verso il prossimo. Essa agisce sia nelle intenzioni che guidano la giustizia, cioè nell’indirizzo a Dio delle azioni di giustizia, che nella trasformazione dei principi della stessa. In particolare l'eguaglianza diventa insufficiente. Un altro principio che nasce dalla carità, il principio di gratuità, indirizza la giustizia nell’oltre il dovuto.

Questa ricerca, in uno sguardo di sintesi a partire dalla prospettiva tommasiana seguita, ha voluto dunque mettere in evidenza tre temi che insieme

danno una prospettiva complessiva sulla virtù di giustizia in senso cristiano: — — —

la giustizia come virtù in se stessa nell’ambito della legge naturale; la tradizione cristiana nella quale si declina la giustizia; i doni della grazia e della carità, nella tradizione cristiana, che conducono alla presenza della virtù infusa di giustizia.

Questi passaggi hanno permesso, attraverso le analisi avanzate, di sottolineare una necessità della virtù di giustizia per la pienezza della realizzazione umana e cristiana del soggetto.

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CAPITOLO PRIMO

ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

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A) Premessa al concetto di giustizia come virtù aa

giustizia in senso soggettivo

Il tema della giustizia è stato nella morale moderna, nella morale che solitamente indichiamo come la morale dei manuali, un argomento molto impor-

tante. Le pagine dedicate alla giustizia sono in essi abbondanti e questa evidenza segnala una dimensione della morale molto simile ad una concezione giuridica. Molti manuali, in aggiunta, si limitavano all’esame dei possibili esiti di una giustizia commutativa, che regola i rapporti tra gli individui e impone delle obbligazioni, a scapito del tema della giustizia generale che invece nell’epoca contemporanea diventa argomento centrale della filosofia politica. Perché allora è possibile affermare che la giustizia è una virtù? Quale concetto si intende proporre con questa affermazione? Per rispondere a questa

domanda affronto un lungo approfondimento del concetto stesso di virtù che vorrebbe comprenderne la natura ed il significato e considerare poi cosa comporti per la specificazione della giustizia. Nel primo capitolo di questo lavoro mi propongo come obiettivo di delineare che cosa sia in senso generale un'etica delle virtù spiegando i termini e i concetti morali che questa teoria comporta. Credo che innanzitutto occorra interrogarsi su una questione generale.

Vista un'idea di giustizia basata su una serie di regole, ha senso proporre una giustizia dal punto di vista soggettivo, cioè nella sua azione nell’indirizzo della volontà del soggetto e della razionalità che si può individuare nell’agire giusto del soggetto? I paragrafi che seguono tentano di precisare i termini di questa questione.

! S. PINCKAERS, Zefonti della morale cristiana, Ares, Milano 1985, 50.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Una prima grande distinzione nell’analisi della giustizia può essere rappresentata dalle categorie di soggettivo ed oggettivo, il che equivale anche a chiedersi se la giustizia possa essere considerata propriamente una virtù o meno.

L’approccio soggettivo è legato al concetto della giustizia come virtù. Nella Summa Theologiae la discussone sulla giustizia occupa circa ottanta questioni: è l'argomento più complesso ed esteso rispetto al tema delle virtù.? Se da un lato la giustizia tocca direttamente il desiderio razionale del soggetto, cioè la

volontà; dall’altro essa riguarda azioni esterne al soggetto stesso che sono regolate in modo oggettivo da alcuni criteri generali. Proprio questa distinzione — soggettivo e oggettivo — vuole specificare come la giustizia presenti due aspetti diversi. Essa può venire studiata come

una delle principali virtù cardinali. Tuttavia viene spesso analizzata attraverso le norme morali, senza particolari relazioni con il discorso sulle virtù, dove le regole di giustizia sono criteri imparziali ed oggettivi per definire l’azione dei soggetti.

Le teorie della giustizia contemporanee, in quanto procedurali e formali, sembrano non avere possibili termini di confronto con un'interpretazione della giustizia come virtù, in modo più specifico con la proposta della giustizia di Tommaso. In questo lavoro non mi propongo di affrontare direttamente questo confronto, ma più semplicemente di approfondire l’idea di giustizia come virtù dalla quale emerge anche una possibile interpretazione di questo confronto. Qui voglio anticipare che anche per Tommaso la giustizia presenta dimensioni oggettive. Nel capitolo terzo esaminerò come la giustizia sia legata al concetto di tradizione e come la dimensione soggettiva ricomprenda, anche nella tradizione tommasiana, una dimensione sociale e comunitaria che in fondo si avvicina alla prospettiva oggettiva. Infatti se si prendono, ad esempio, le idee di John Rawls, l’esponente più significativo delle contemporanee teorie della giustizia, emerge come la giustizia sia la prima virtù delle istituzioni sociali.* Essa intende stabilire delle procedure eque per la regolamentazione della dinamica sociale. Le concezioni di Tommaso iniziano da un altro punto di vista: la giustizia è sempre una qualità individuale, che si esprime in quelle azioni che possiamo chiamare giuste o al contrario ingiuste. Non esiste un'analisi delle strutture sociali che si possa astrarre dall’azione individuale, cioè per Tommaso l’idea

2 S'ThAIlN158-1227 3 J. PorTER, Zhe virtue ofJustice (II Il 58-122), in S. Pope (ed.), The Ethics of Aquinas, Georgetown University Press, Washington D.C. 2002, 272.

‘ A. Da Re, Filosofia Morale, Bruno Mondadori, Milano 2008, 237-239.

12

CAPITOLO

PRIMO

— ETICA DELLE VIRTÙ

E GIUSTIZIA

delle istituzioni sociali è sempre legata alle persone che danno vita a queste strutture.

Esiste però una caratteristica diversa tra la giustizia e le altre virtù. L'azione

delle virtù, la rettitudine che procurano, si riscontra principalmente nel sog-

getto, invece l'atto di giustizia si definisce in rapporto agli altri e viene regolato da principi che presentano una loro oggettività. La differenza sta nella

maniera di rettitudine, cioè il modo di essere giusti, che non è appunto solo

in rapporto al soggetto, alle sue modalità di sentire e desiderare, ma alle situa-

zioni che si creano al di là dell’attore, nelle relazioni che implicano le azioni

di giustizia. Oggetto della giustizia sarà il giusto (iust4), che non è altro che il diritto (715)?

Segnalo inoltre che la prospettiva soggettiva non si riduce ad un'indagine sul soggetto ma riguarda le azioni virtuose, le azioni giuste, che i soggetti compiono e che sono azioni che contraddistinguono le virtù: le azioni che

sono proprie di un agire virtuoso. Da queste notazioni introduttive si comprende che la giustizia come virtù, ed in particolare l’analisi della stessa nella tradizione tommasiana, presenta una ricchezza riguardante il soggetto ma anche richiama ad un'importanza

della dimensione oggettiva precisata dai criteri che regolano le azioni dei soggetti. 1.2. Il perfezionamento della volontà

La giustizia come virtù è radicata nell’analisi dell’agire soggettivo: la giustizia è il perfezionamento della volontà riguardo all’aspirare il bene per l’altro.8 La volontà per sua natura si indirizza al bene razionale proporzionato ad

essa stessa. La volontà deve essere perfezionata perché lasciata a sé — come Tommaso ribadisce — non è capace di muovere verso il bene per l’altro. La

ragione può scoprire questo bene, ma questa scoperta lascia indifferente la volontà. La volontà è attratta solo dal proprio bene. Questa autonomia è tuttavia irrazionale, intendendo con questo termine l’allontanarsi dalla dimensione razionale verso il bene che guida la volontà stessa” Dunque occorre

3 J. PorTER, Zhe virtue ofJustuce, 277.

6 Sono i temi del principio di eguaglianza che viene ampiamente discusso nel capitolo secondo (ir..cap-2,b)}1.3.2, 7 STA II II 57,1. Questa distinzione è solo accennata in questa introduzione. SSL lb. 9 Irrazionale nel senso che è irrazionale rispetto al bene proprio, che rispecchia il bene antropologico come compimento del soggetto, ricercare solo il bene individuale.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

l’'“habitus” della giustizia che accresca l’aspirare razionale del soggetto nell’attenzione agli altri. Per arrivare a definire dei criteri razionali che determinano la giustizia come virtù, che cioè ne specifichino le funzioni, occorre un percorso articolato a partire dall’agire concreto che inizia con quella che viene indicata come “situazione pratica originaria”. La tesi che adotto è quella dove specificare dei criteri oggettivi per la virtù di giustizia significa porre dei criteri che rispecchino una razionalità propria del soggetto. La giustizia non avrà dunque dei criteri indirizzati solo dalle leggi positive o dalle convenzioni sociali, non corrisponde solo a dimensioni comunitarie o convenzionali, ma è legata all’identità morale della persona. 1.3. Necessità delle virtù

Le nozioni introdotte richiedono un ampliamento ed una collocazione teoretica più estesa per essere davvero comprese: come le virtù indirizzano l’agire;

in che senso deve essere intesa la loro rettitudine; chi è il soggetto agente e quali sono le sue determinazioni nello scegliere; che cosa significa situazione pratica originaria; quale impostazione seguo quando parlo della volontà, quale è la sua natura; che cosa è un habitus; a che cosa lego la razionalità e quale è la sua funzione rispetto alle virtù; come si giustificano i principi razionali; che cosa è un “ordo rationis”. Queste sono solo alcune delle possibili domande che emergono da quello che ho espresso nei paragrafi precedenti. Sorge la necessità di sospendere l'indagine diretta a riguardo della giustizia e offrire un quadro sintetico sull’etica delle virtù che possa aiutare a collocare le domande che sono sorte. Vista la complessità della dimensione teoretica in merito alle virtù, ho

scelto quattro autori che possano fornire degli argomenti teoretici che poi permettano di affrontare con maggior facilità l’analisi specifica della giustizia. Il primo di essi, Alasdair MacIntyre, ci aiuta a comprendere le radici profonde del discorso dell’etica delle virtù. Come essa sia centrale, anzi necessaria, per una proposta della morale che porti ad una riscoperta dell’intero discorso etico. Attraverso questo autore voglio mostrare la profondità e l’ampiezza di una ripresa dell’etica delle virtù che si coglie collocandola nel grande cammino della filosofia e teologia morale che da secoli ci accompagna. Oggi l'etica delle virtù propone una produzione vastissima di temi e interpretazioni, attraverso MacIntyre, all’inizio di questo capitolo, sono comprensibili le origini della riscoperta delle virtù e si intuisce tutto il fascino del suo riproporcele. 14

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

Le tre proposte successive, di Giuseppe Abbà, di Martin Rhonheimer e di Jean Porter, vogliono invece fornire il quadro teoretico per le virtù, più in generale per la riflessione della morale. L'analisi del pensiero di questi autori ha permesso di fornire un quadro generale per comprendere in che senso la giustizia potrà essere studiata come virtù. Le tematiche esposte presentano una sintonia di fondo. Gli studiosi ricordati vogliono esprimere infatti una proposta comune usando, in parte, terminologie e punti di vista diversi. Questa omogeneità nasce dal fatto che essi hanno come riferimento condiviso sempre la stessa matrice tommasiana. Non ho voluto intrecciare le tre riflessioni per non perdere la specifica visuale di ciascuna ed essere fedele alle idee degli autori che ho seguito. Alla fine di questa analisi, avendo acquisito le capacità teoretiche di comprensione per l’etica delle virtù, potrò poi affrontare, nei capitoli successivi, lo studio della giustizia per comprendere come essa risponda all’idea stessa di virtù quale indirizzo per la volontà del soggetto al bene umano.

B) La proposta di A. MacIntyre 1.1. L'etica delle virtù Ci sono molti modi di guardare all’etica filosofica e all’etica teologica, o altri-

menti alla scienza morale e alla teologia morale, prospettive deontologiche, teleologiche in senso consequenzialista, fenomenologiche ed esistenzialiste.!0 Tutti questi approcci hanno in parte trascurato il discorso sulle virtù. Ma se si guarda all’agire concreto, alla vita quotidiana, si constata che in realtà occorre una teoria in grado di spiegare più direttamente come si struttura questo agire e come si indirizzi il soggetto. L'etica delle virtù sembra rispondere in modo più appropriato alle questioni sollevate. Infatti specie nell’area anglosassone è stata condotta un’ampia discussione sul suo ruolo nella filosofia e teologia morale, costruita sul pensiero dell’Etica Nicomachea di Aristotele e negli sviluppi di questo pensiero nell’epoca medievale in Tommaso d’Aquino. Per rendere conto del per-

!0 E. KACZYNSKI,

Circa virtutes, Angelicum University Press, Roma 2007, 11. L'etica

deontologica, altrimenti etica delle norme, accentua il ruolo delle regole e delle norme in una regolazione etica che tiene conto del dovere come concetto prioritario; quella teleologica-consequenzialista porta l’attenzione sulle conseguenze dell’agire che determinano la qualità, buona o meno, dell’agire medesimo; l’impostazione fenomenologica classica si con-

centra sui valori; l’esistenzialismo sulle decisioni legate alla persona ed alla sua autenticità.

15

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

ché l’etica delle virtù è così necessaria al discorso morale moderno mi avvalgo della proposta del filosofo che più ha determinato, almeno a livello di diffusione del pensiero, il ritorno delle virtù in questo stesso discorso a partire dagli anni ’80 del secolo passato: Alasdair MacIntyre." 1.2. Teorie morali a confronto

Per il filosofo scozzese il dissenso sembra essere l'andamento normale degli argomenti morali. Questi dissidi dipendono dall’utilizzare parti e discorsi della morale che provengono da tradizioni passate, causando un'incompren-

sione profonda di termini quali giustizia, bene e simili. Le argomentazioni antagoniste non posseggono nessuno strumento razionale per dire quale teoria può essere più valida di un’altra. Il nostro autore identifica questa situazione come: «incommensurabilità concettuale degli argomenti antagonisti [nelle discussioni morali]».!?

Adottare una prospettiva o un’altra è una questione di semplice affermazione o contro-affermazione. Il confronto, tra queste diverse teorie morali, è l'oggetto della riflessione

filosofica, ma uno dei difetti della stessa riflessione è poi la mancanza di una prospettiva storica. Questi dissidi infatti risentono di un’obiezione fondamentale: l’argomentazione morale contemporanea è sostanzialmente indetermina-

bile perché qualsiasi argomentazione che non valuti la dimensione storica in cui si è affermata pone dei valori di riferimento che restano senza appoggio, cadono nel vuoto, e dunque sono razionalmente indeterminati. La teoria che più incalza in questo senso è l’emotivismo.!* Coloro che condividono questa prospettiva etica, con il suo correlato di arbitrarietà, considerano come normali i dissidi morali perché i giudizi a partire da questo punto di vista non potranno mai essere razionali, la non razionalità è intrinseca a questa proposta. "A. MacIntvrE, Dopo la Virtù (After Virtue), Armando, Roma 2007 (orig. ingl. 1984);

Cfr. B.J. KALLENBERG, 7he master argument ofMacIntyre» After Virtue, in N. C. MurpHY B. J. KALLENBERG - M. NatION (edd.), Virtues and Practices in the Christian Tradition: Christian Ethics After MacIntyre, University of Notre Dame Press, Notre Dame Ind. 2003, 7-29. Anche in C. E. Curran - L. FutLam (edd.), Virtue, Paulist Press, Mahwah, New Jersey, 2011, 21-50.

A. MacINTYRE, Dopo la Virtù, 37. !9 Per MacIntyre nell’emotivismo un soggetto giudica una sua scelta, un valore, il bene in base alle sue scale preferenziali. Il giudizio di valore esprime sempre quello che piace a chi lo afferma. Ivi, 41-44. Cfr. Ivi, 55-68.

16

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

MacIntyre non offre solo una teoria che critica l’emotivismo, ma sostiene

che esso è possibile solo all’interno di un certo contesto. Questa è infatti una delle sue tesi principali: ogni filosofia morale vive in un certo contesto ed in quel contesto è radicata e comprensibile. All’emotivismo si possono però, ribadisce MacIntyre, fare tre critiche, a partire dalle tesi centrali che afferma. La prima è legata al fatto che quando si dice «questo è bene», secondo l’emotivismo significa «io approvo questo, approvalo anche tu». Ma di fronte a questa affermazione ci si può chiedere quali siano i motivi per cui si approvano certi giudizi morali a livello personale e comunitario. Se infatti i giudizi morali dipendono da sentimenti di approvazione, i sentimenti di approvazione dovranno avere una motivazione. Quest'ultima da che cosa dipenderà? La risposta emotivista vede le motivazioni dell’agire nei sentimenti di approvazione: le tesi emotiviste non riescono a rompere questa circolarità.

La seconda critica è invece quella di non distinguere tra espressioni di preferenza personale ed espressioni assiologiche che la teoria emotivista vorrebbe rendere uguali." Un terzo aspetto dell'emotivismo è legato all’idea di fare una cosa perché indotta dalla preferenza di un altro. Così si vorrebbe anche spiegare perché esistono espressioni di dovere. La critica nasce dalla riflessione sulla situazione in cui si ordina a qualcuno di fare qualcosa. Sono possibili due modalità diverse. Il primo è il caso dell’ingiunzione perché qualcuno svolga una certa azione, un comando. In questo caso chi comanda impone una sua preferenza su colui che è chiamato ad eseguire. Questa è la tesi emotivista. In questo caso l’azione nasce solo da una relazione fra chi ordina e chi è chiamato ad eseguirla, relazione che ne determina la riuscita ed il senso. 14 Ivi, 44-45. Per comprendere l’emotivismo occorre ricordare come esso nasca in contrasto di un’altra dottrina, l’intuizionismo — secondo l’idea di MacIntyre su come vanno comprese le teorie filosofiche, in risposta e in relazione ad altre teorie — il cui esponente principale è George Edward Moore (1902). Tre capisaldi di Moore sono: 1) il termine buono, 0

bene, designa una proprietà semplice, non naturale, diversa dal termine piacevole, o utile. Dire che una cosa è bene è un'intuizione, un qualcosa di simile alla proprietà visiva. 2) Definire giusta un’azione equivale a dire che, fra le possibili alternative, da essa otteniamo il

bene maggiore. Questa è un'ulteriore teoria utilitarista, dunque, come in ogni teoria utilita-

rista, nessuna azione si può ritenere giusta o sbagliata in sé, ma valutabile solo attraverso le

conseguenze che produce. 3) Gli affetti personali e i godimenti estetici comprendono tutti i massimi beni che possiamo immaginare. Dunque amicizia e bellezza sono gli unici scopi giustificabili dell’azione umana. La teoria di Moore è non coerente nei tre punti visti. Uno contraddice due, inoltre è falsa la prima affermazione, la seconda e la terza sono discutibili.

L’emotivismo vuole rispondere a queste teorie sostenendo che non esiste alcuna proprietà semplice chiamata bene. Ciò che si afferma non fa altro che esprimere i propri sentimenti e atteggiamenti, mascherandoli con un’impressione di universalità.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Ma al contrario — e questa è la critica dell'autore che seguo — potrebbe essere che il comando dipende dal fatto che quella azione porta a qualcosa che è utile per il soggetto o per altri; oppure perché è un dovere ineludibile. In casi di questo genere il motivo addotto è un buon motivo per compiere l’azione indipendentemente da chi ha espresso quel comando. Questa argomentazione presuppone dei modelli impersonali, ovvero modelli di giustizia, di generosità, di dovere indipendenti dalle preferenze o dagli atteggiamenti di chi parla e di chi ascolta. Dunque ci si allontana da dimensioni che sono solo emotivistiche. Per il filosofo scozzese il problema centrale della nostra cultura è V’esistenza di residui di tradizioni diverse che sono assimilate nel dibattito etico a delle tesi di natura emotivista. Se ci si aspetta che esse vengano giudicate da una visione terza, questa non potrà mai sorgere solo dalle premesse emotiviste. Accanto a questo, l’emotivismo genera socialmente un individuo che non discute di fini sociali, perché dati, e che invece si ritiene libero nel discorso individuale di perseguire i fini che lui stesso si propone in modo totalmente autonomo. L’emotivismo in fondo non è riuscito a rispondere ad una critica fondamentale: dimostrare che cosa accadrebbe se fosse davvero riconosciuto come una teoria accettata da tutti. Perché questo fatto dovrebbe portare ad abbandonare, nella pratica, il linguaggio morale così come l’abbiamo conosciuto

finora. Questo giudizio è il motivo per cui ad esempio i filosofi analitici lo hanno rifiutato: la teoria emotivista non dava conto del significato autentico dei termini morali. Infine l’autore che seguo ricorda che la maggior parte delle persone oggi agisce e ragiona come se le tesi dell’emotivismo fossero quelle da cui dipende il discorso morale. 1.3. Il fallimento del progetto illuministico

Se l’emotivismo è una qualità della cultura contemporanea, MacIntyre fa un percorso a ritroso cercando di comprendere quale sia la cultura che lo ha pre> Ivi, 50-51. Proprio la filosofia analitica ha costruito i giudizi morali come una serie di catene logiche, alla cui origine deve esserci un assioma, una regola, che non può essere addotta ad un'ulteriore ragione. Dunque alla domanda, «ma perché dovrei vivere in questo modo?», non è possibile dare alcuna ulteriore risposta: il processo approda sempre a una scelta non ulteriormente giustificabile. È la volontà individuale che adotta una serie di giudizi morali,

che conferisce loro una autorità, quindi una teoria abbastanza simile all’emotivismo. In realtà molti analitici si dedicano specificatamente al tentativo di dimostrare che il concetto stesso di razionalità giustifica il discorso morale. I tentativi, ad esempio, di Rawls, Donagan, Gert, Gewirth. MacIntyre giudica che nessuno di questi studiosi riesca in questo progetto.

18

CAPITOLO

PRIMO

— ETICA DELLE VIRTÙ

E GIUSTIZIA

ceduto e risale al progetto illuminista. Questa cultura racchiude espressioni variegate. Esse vanno dalla cultura liberale scozzese, alla impostazione razionale kantiana, passando dalla tradizione francese dell’enciclopedia. Il filosofo scozzese usa la terminologia forte del fallimento del progetto morale illuminista che nasce dall’incapacità di giustificare razionalmente la moralità, obiettivo primario di questo progetto. Con l’illuminismo il termine morale viene utilizzato in maniera a noi conosciuta cioè riferito ad un certo numero di argomenti, azioni e giustifica-

zioni morali.!° Morale, dunque, diventa il nome di quelle regole di condotta — o norme universali — che non sono né teologiche, né giuridiche a cui è concesso uno spazio culturale autonomo. Un progetto di giustificazione razionale indipendente, quello morale, che diventa la questione centrale della cultura illuministica. In particolare MacIntyre riporta il pensiero di tre autori che possono raccontare l’indirizzarsi della morale in questo senso: Kierkegaard, come già ripensamento dell’illuminismo, Kant e Hume. L'analisi di Kierkegaard avviene attraverso la sua opera più famosa, Aut Aut (Enten Eller, 1842). Questo testo viene suggerito come un chiaro esem-

pio del rifiuto della giustificazione razionale delle norme. Egli condivide la morale kantiana, nei contenuti, ma la definisce in base alla differenza fra etico ed estetico: la scelta morale non è in alcun modo giustificabile razionalmente. La ragione per scegliere moralmente sta nell’autorità che essa ha per me.!8 L’etico è presentato come quella sfera i cui principi hanno un'autorità su di noi indipendentemente dai nostri atteggiamenti, preferenze, sentimenti. Come io “sento” in qualsiasi momento è dato irrilevante dal punto di vista della questione di come debbo vivere. La tesi di Aut Aut è quella per cui i principi che !6 Fv1, 71-72. MacIntyre ricorda che il termine morale prima dell’illuminismo non viene utilizzato in questo senso. Lo stesso termine greco “ethikòs” significa attinente al carattere nel senso di predisposizione a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro. La parola cui si avvicina più fortemente è la parola pratico, nell’accezione dell’agire pratico. Nella sua storia successiva, nei secoli XVI e XVII, esso viene dapprima usato come parte dell’espressione virtù morale, quindi sempre più con un significato indipendente, fino ad essere usato in contesti più ristretti, ad esempio quello della dimensione sessuale.

NIVEA

18 Posso, ad esempio, scegliere di digiunare. La motivazione può esprimere dei motivi di salute oppure motivi religiosi. L'autorità deriva dalle ragioni della mia scelta, dal valore che si attribuisce a tale scelta. Un principio che non avesse nessuna motivazione per il soggetto non avrebbe autorità. Potrebbe essere adottato arbitrariamente, senza una motivazione, ma se poi il soggetto scegliesse in seguito di non seguirlo più sarebbe nella piene libertà di farlo: Kierkegaard usa la definizione di estetico per questa seconda possibilità.

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definiscono la vita etica devono essere adottati senza alcuna ragione, ma in base ad una scelta che trascenda la ragione, perché è la scelta in sé che deve

valere come una ragione. MacIntyre osserva che nel sostenere questa tesi, il concetto di autorità e di

ragione si eliderebbero a vicenda: ci appelliamo all’autorità proprio perché non

abbiamo ragioni. Questa concezione dell’autorità opposta alla ragione è una concezione dell’età moderna.! Una terza idea, che in Aut Aut è interessante, è legata al concetto di scelta radicale: unisce l’idea della scelta radicale con quella di una concezione asso-

luta delle etiche.?° Un soggetto che si affidi ad una scelta senza che questa sia in qualche modo fondata su qualche elemento motivazionale e della razionalità del bene conduce ad una probabile contraddizione. Questo terzo aspetto per il filosofo scozzese segnala come le tesi di Kierkegaard facciano intravedere il sostegno filosofico della tradizione antica — e delle virtù — perché in essa la scelta virtuosa è sempre razionale. Il filosofo danese pensa implicitamente ad una qualche razionalità che riesce a condurre al bene del soggetto. La dimensione volontaria dunque identifica le tesi della scelta radicale, ma per comprenderne le radici è necessario guardare alla tradizione illuministica e naturalmente a Kant. In fondo la filosofia morale di Kant sta alla base della contro-tesi di Kierkegaard.

Assunto principale della prima è che «se le regole della morale sono razionali, devono valere per ogni essere razio-

nale esattamente come le regole dell’aritmetica e se le regole della morale sono vincolanti per ogni essere razionale, non importa Egli capacità contingente

di un tale essere di seguirle, ma la volontà di seguirle».?!

La morale deve scoprire un criterio, che sappia individuare quelle massime, gli assunti morali, che sono veramente razionali, cioè che determinano la volontà dei soggetti in quanto espressioni della legge morale.

MacIntyre mette in evidenza che per Kant, come quasi un secolo dopo per Kierkegaard, queste massime, nella pratica sociale, erano note e condivise da tutti: la volontà buona era conosciuta e condivisa, acquisita dalla tradizione.

Kant esclude, per determinare la moralità, la possibilità che le massime !? La tesi di MacIntyre è che per ridare forza alla morale dobbiamo ritrovare un’altra concezione di autorità che non era arbitraria in origine. °° Si tratta ad esempio di mantenere le promesse legate alla verità e del bene verso il prossimo. Come puntualizzazione però essi sono in Aut Aut intesi in modo ingenuo: sono una scelta iniziale radicale ed una volta scelti non ci sono conflitti di interpretazione. ay

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conducano alla felicità. La legge morale ha carattere incondizionato e catego-

rico, non può avere la felicità come risultato. Si impone ai soggetti una certa azione non sotto un ipotesi, per una motivazione, si impone in modo catego-

rico. Inoltre la morale non ha fondazione nei desideri e nemmeno nelle credenze: rifiuta di considerare una massima come comandata da Dio. Si deve obbedire a Dio solo se quello che Egli comanda è moralmente degno. Dunque il fondamento dell’etica è nella ragione che è pratica perché indirizzata

all’azione.

La morale non ha bisogno: di criteri esterni, non ricorre ad alcun conte-

nuto di esperienza. Essa esprime principi categorici, universali ed interamente coerenti: il principio della morale, il criterio di validità delle massime, sarà allora quello per cui una massima è quell’espressione per cui tutti i soggetti vogliono, coerentemente, agire in base ad essa. Il criterio di universalizzazione è quello che rende razionalmente doverose le massime. Esempi di massime possono essere: dire sempre la verità, mantenere sempre le promesse, essere caritatevoli con i bisognosi, non commettere suicidio. Tutte proposizioni che reggono il vaglio del criterio di universalità individuato sopra. Se poniamo ad esempio l'affermazione: mantieni le promesse solo quando ti conviene, il criterio non viene rispettato perché non viene accettato da chi è nella posizione di destinatario di una promessa. Infine il terzo pensatore che viene citato da MacIntyre, per spiegare il progetto illuminista, è Hume: per quest'ultimo le passioni e i desideri guidano la vita dei soggetti e dunque la morale, che in teoria poteva dirigersi anche secondo la ragione, viene invece condotta solo dalle passioni.” La morale, per le tre impostazioni indicate, è data o dalla scelta radicale, o dalla ragione, o dalle passioni. Ma è interessante il fatto che ciascuno dei tre filosofi escluda allo stesso tempo le cause che gli altri affermano. Per ognuno di loro la vita morale ha solo una di queste ragioni proprio perché le altre si rivelano insufficienti. Alla fine però nessuna di queste tre tesi ha una forza logica per imporsi sulle altre; nessuna delle tre tesi ha potuto prevalere nella giustificazione razionale del discorso morale: la questione dell’emotivismo ne è il frutto. 1.4. Le ragioni di un fallimento

MaciIntyre sostiene che il progetto della morale illuminista non solo è fallito per motivi contingenti, ma era destinato a fallire. Questo non solo per delle aporie che dipendevano dai singoli pensatori, ma a partire da delle caratteri 22 TvI, 82-83.

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stiche comuni legate alla loro prospettiva filosofica.?? Occorre sempre ricordare, come detto in precedenza, che essi condividevano, in maniera talvolta implicita, una serie di valori e norme comuni: sul matrimonio e sulla famiglia, sull’adempimento delle promesse fatte e sulle questioni inerenti la giustizia, e altre ancora, premesse che ereditarono dal passato cristiano condiviso.

Essi pensavano che alcuni tratti della natura umana costituissero le strutture personali della morale. Se prendiamo come esempio Kant, il carattere rilevante della natura umana è il carattere universale e categorico di certe regole della ragione.” Per comprendere perché ci sia stato un fallimento occorre considerare il metodo: i pensatori illuministi partono da una concezione dell’uomo per derivare regole e precetti morali, tuttavia questo modello di uomo ha per loro perso un elemento fondamentale: il fine. Per recuperare dunque questo legame con il telos occorre riandare ad un altro schema generale della morale che sta alla radice di questo paradigma più moderno. L'epoca in cui esso ha la sua maggior fioritura è quella medioevale con elementi sia classici che teistici. La struttura essenziale è quella elaborata da Aristotele nell’Etica Nicomachea. È uno schema teleologico che individua una distanza tra l’uomo come è, nella contingenza, e come potrebbe essere se realizzasse la sua natura essenziale. L'etica è quella scienza che deve permettere agli uomini di passare dal primo aspetto al secondo, che ha lo sguardo sul telos, sul fine: sul come deve essere la vita umana. In questa visione inoltre sono implicati il passaggio dalla potenza all’atto — dalla potenza di una vita buona all’atto che realizza la stessa — e una dottrina dell’essenza dell’uomo come animale razionale. Sono le virtù che consentono il passaggio dalla potenza all’atto. Inoltre le eccellenze virtuose a cui sono chiamati i soggetti impongono anche una doverosità e dei precetti.

Se il soggetto non mette in atto queste eccellenze virtuose si pone in una frustrazione profonda. MacIntyre sottolinea come non possedere le virtù sia: «Non riuscire a conseguire quel bene della felicità razionale che è il fine particolare che dobbiamo perseguire come specie». In questa prospettiva è la ragione che ci insegna quale sia ilnostro vero fine

e conseguentemente come ordinare emozioni e desideri, passioni e volontà, 2% [V1;.85: °* MacIntyre precisa, per evitare giustamente degli equivoci, come Kant non parli di

natura umana, perché per lui questa è solamente la parte psicologica del soggetto, e dunque irrazionale. © Ip., Dopo la virtù, 87.

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per raggiungerlo. A questo schema danno dunque vita tre elementi cardine : la natura umana nelle sue potenzialità spontanee, l’azione della ragione che diventa pratica e che dirige, la natura che realizza il proprio fine. In fondo si può affermare che i precetti dell’etica e le qualità virtuose — entrambi espressioni della razionalità umana — sono i “mezzi” per transitare dall’una all’altra situazione della nostra umanità. L'intellegibilità dei tre elementi va vista in una prospettiva unitaria. Come fa rilevare MacIntyre, questo schema verrà arricchito in una prospettiva teistica, in senso cristiano.” Il riferimento a Dio

entra nello schema classico arricchendo il fine ultimo, che è ora la “beatitudo”

in Dio. In aggiunta j precetti, che portano alla realizzazione del te/os, vengono arricchiti dalla presenza normativa della legge divina. L'espressione morale doverosa si costituisce di due elementi: da un lato la normatività razionale, il

‘cosa debbo fare”, esprime l’agire che porterà il soggetto al vero fine umano,

dall’altro la stessa razionalità è interprete della “legge” eterna istituita da Dio

che indirizzerà sempre al fine ultimo. In queste tesi ragione e rivelazione sono intimamente legate.?” Il protestantesimo e il giansenismo cambiarono questo schema.

La ragione ora viene depotenziata, non può più raggiungere il fine auten-

tico. Il peccato impedisce all’uomo di comprendere quale sia il suo fine autentico. La ragione è impotente ad indirizzare le nostre passioni, non a caso, ricorda l’autore che seguo, Hume è di tradizione calvinista. Le due condizioni umane

rilevate sopra rimangono,

ma ora è la legge

morale divina a portare dall’una all’altra, anche se solo la grazia consente obbedienza ai suoi precetti. La questione fondante della scienza antiaristotelica è legata all’azione della ragione. Quest'ultima nel XVII secolo è solo quella calcolatrice, in grado cioè

di accettare verità di fatto o logiche. Questa logica propone il rifiuto di ogni

ragion pratica, ragione che non può cogliere passaggi dalla potenza all’atto, chiaramente legati ad una impostazione essenzialistica che ora viene abbandonata. Nella sfera della prassi l’attenzione è ai mezzi. Scompare il poter individuare i fini. In fondo un filo rosso collega Pascal, Hume, Kant, Smith, Kierkegaard. Tutti affermano l’impossibilità di attribuire un fine alla natura umana, una 26 Secondo l’autore che seguo in un'estensione più ampia di quella cristiana, dove significative sono le opere di Tommaso, in cui riscontriamo le influenze di un pensatore ebreo come Maimonide, oppure di uno islamico come Averroè. 2 Ip., Dopo la virtù, 88. MacIntyre a questo punto riconosce il debito verso la G. Elisabeth Anscombe per l’incipit di queste tesi, che sono però poi anche lontane da quelle della filosofa inglese.

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COME

VIRTÙ

determinata visione teleologica, qualsiasi visione che attribuisca all'uomo un'essenza che definisca il suo vero fine. Ecco il motivo per cui la loro ricerca di un fondamento alla morale è destinato al fallimento. Lo schema rimane con due termini dopo aver perso il concetto di relos: da un lato la natura umana spontanea, dall’altro un insieme di obblighi morali

senza la prospettiva di un fine proprio. Le regole morali volevano migliorare la natura umana, non erano dedotte da essa come si presenta in una dimensione natural-reale. Legare il dovere morale a delle caratteristiche naturali diventa un tentativo che non riesce a dare ragione precisa della loro esi-

stenza. MacIntyre sottolinea la nascita di un paradosso: i filosofi morali del XVII secolo volevano giustificare le norme morali come qualcosa di aderente

alla natura umana, quando invece quelle che ereditano, e sono l’ehos comune, non sono altro che qualcosa che voleva correggere la natura umana secondo Ì lo schema più antico.

La tradizione classica riconosce pienamente l’idea di fine. Aristotele, quando tratta dell’uomo, parla dell’uomo “buono”. Questa idea nasce da una esperienza che è basata su delle qualità: ad esempio quando diciamo che l’agricoltore è un buon agricoltore, lo possiamo dire grazie alle qualità che egli possiede: impegno, capacità, esperienza e simili. Allo stesso modo, come esempio, il filosofo scozzese offre quello dell’orologio: se non funziona fallisce quello per cui è fatto, dunque è un cattivo orologio. Aristotele sostiene, in un altro esem-

pio classico, che l'indagine etica nasce nello scoprire la relazione tra “l’uomo e il suo vivere bene”: un legame della stessa natura della relazione tra il suonatore di arpa ed il suonare bene l’arpa.?*

Nella tradizione classica, dunque, uomo è in legame con il comprendersi come uomo buono. Questo vale anche per gli altri termini esemplificati: orologio per buon orologio, agricoltore per buon agricoltore. Se queste affermazioni le consideriamo in maniera più astratta diventano affermazioni che si possono legare alla natura generale del soggetto: è quella che MacIntyre chiama, con termine riassuntivo non adottato direttamente dallo Stagirita, “biologia metafisica” di Aristotele. Per il nostro autore però questo legame tra l’uomo e le sue funzioni non viene da sé, nasce dalla vita sociale, dove ciascuno ha il suo com-

pito e scopo specifico: padre, lavoratore, cittadino, servo di Dio. °° x

2% IvI, 93. La citazione di Aristotele indicata da MacIntyre è: EN 1095 a 16. 2° Questo allontanarsi dalla “biologia metafisica”, una sorta di naturalismo in Aristotele, è in fondo il giustificare le virtù attraverso le pratiche, la narrazione e le tradizioni. Cfr. A. MacIntyrE, Dopo la virtù, 93. In una nota del testo si segnala però una successiva evoluzione di MacIntyre: da una “ontologia sociale”, che è quella che contraddistingue After Virtue, a un ritorno ad una metafisica, dove però la prospettiva morale è legata alla stessa in maniera non direttamente deduttiva.

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Se da un lato cade il fine ultimo, dall’altro la secolarizzazione che tocca la morale illuministica non accoglie più lo statuto dei giudizi morali come resoconti della legge divina, e dunque nemmeno l’autorità di cui venivano investiti. La scomparsa della finalità della natura umana, fine proprio dell’uomo, e della legge morale derivante da Dio stesso, fa emergere la domanda sul perché sottostare ad una dimensione morale. Se sparisce il concetto di fine, sparisce anche quello di una necessità dell’agire per non frustrare quelle che sono le qualità autentiche e i desideri veri del soggetto stesso. Lo stesso problema vale per l'obbedienza alla volontà di Dio. In sintesi: «Se priviamo i giudizi morali in virtù di ciò che erano ipotetici ed in virtù di ciò che erano categorici, cosa rimane? [...] parallelamente gli enunciati che li esprimono perdono qualsiasi significato incontestabile ... [l'io emotivista] ha smarrito la sua strada sia linguistica sia pratica nel mondo». 3°

In realtà questo smarrimento appariva a molti filosofi come il conseguimento della autonomia dell’“io”. Cessavano così forme di organizzazione sociale che avevano imprigionato il soggetto in una prigione teistica e teleologica del mondo.” 1.5. L'alternativa delle virtù

1.5.1. L'esempio delle società “eroiche”

Visto che l’etica della modernità non è riuscita a fornire un progetto coerente di giustificazione di se stessa, come visto nelle considerazioni precedenti,

MacIntyre ritorna su quella che ritiene essere l’alternativa delle virtù per tutta l'impostazione della riflessione morale. E lo fa a partire dall’analisi di quelle situazioni sociali dove le virtù, anche se con significati ed espressioni categoriali diverse, sono state centrali: per comprendere che cosa siano le virtù egli descrive un panorama che pone accanto le dottrine filosofiche con quella che è la risultanza storica delle stesse, sviluppando un processo tipico della sua indagine. Seguirlo in queste sue pagine è la modalità più corretta per riportarne la ricchezza del pensiero. La virtù è intesa come «eccellenza di qualsiasi genere»? = Ivi; 557 8! Ivi, 96. Le correnti filosofiche che segnano il progetto illuminista tratteggiano un cambiamento che nella modernità avviene anche nella prassi, ritroviamo in essa gli stessi passaggi della filosofia, naturalmente con un legame bi-univoco. Invece a livello riflessivo, dice MacIntyre, emerge la difficoltà al riconoscimento del legame tra le idee e la prassi, segnalata ad esempio dalla separazione tra filosofia e storia accademiche. 3 Ivi, 160. Usare eccellenza come sinonimo di virtù non è automatico perché possiamo

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Interessante soprattutto che questa eccellenza abbia come contenuto elementi diversi: dall’eccellenza dell’atleta, a quella del soldato, a quella dell’intelligenza.® Tutti questi aspetti virtuosi sono legati ad un certo ruolo sociale, non hanno senso se non compresi pensando al ruolo che ricopre chi è chiamato ad acquisirle. Inoltre è impossibile separare queste virtù dal contesto in cui vengono esercitate, infatti certi atti sono virtuosi perché sono in relazione

con chi fa parte del contesto vitale del soggetto, cioè i suoi amici o i suoi parenti: le virtù che sono “eroiche” valgono nella sola società eroica. È il tipo sociale descritto dall’epica greca classica, ad esempio dell’Iliade o dell’Odissea. La dimensione sociale determina totalmente queste virtù. Questo fatto segnala la mancanza in questo contesto di un'idea etica che sia maggior mente universale e che si sleghi da quello che accade, per eventualmente giudicarlo.?* Le società eroiche esprimono dunque dei tipi di virtù che sono funzionali al ruolo sociale e totalmente coerenti con i caratteri che sono chiamati a possederle. 1.5.2. La polis greca e la prospettiva platonica

Un'altra caratterizzazione del discorso sulle virtù è quella della società “ateniese” del V secolo a.C., la società della “polis” greca. La comunità ritiene giuste tutta una serie di proposizioni etiche che ne regolano la vita, ha una sua visione etica fondamentale, ma allo stesso tempo sviluppa la possibilità di autogiudizio, il poter criticare le scelte comuni in base al fatto che siano giuste o meno, infatti: «La città è un guardiano, un padre e un maestro, anche se ciò che essa inse-

gna può condurre alla messa in discussione di questo o quel tratto del suo stile di vita».

Questo significa che le virtù non sono qualcosa di legato al solo ruolo sociale, ma ad una dimensione che è congiunta all’essenza della vita umana.

In realtà, il mondo ateniese è molto meno omogeneo di quello che ci appare. Ne sono testimoni le differenze pratiche, cioè tra elenchi di virtù, e

non solo con le virtù omeriche, ma con quelle che coesistono in una stessa DI

intendere eccellenza come una qualità che è slegata dalla dimensione morale, come la forza che è una qualità fisica e non morale. Cfr. Ivi, 225-226. 3 Il coraggio è forse la virtù umana più grande proprio per questo motivo. 3 Un esempio della valenza “interna” dell’etica nella società eroica è ad esempio l’omicidio. Quest'ultimo non è proibito in universale, ma se accade, ha come conseguenza che la morte della vittima deve essere ripagata da chi gli è amico o parente con la morte dell’as-

sassino. ? Ivi, 173. La caratteristica segnalata era impossibile nelle società eroiche.

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polis — l’Atene del V secolo — e poi tra città diverse. Questo è stato ben compreso dai sofisti che identificarono come virtù tutte quelle qualità che erano

funzionali ad una riuscita politica e sociale del soggetto. Dunque le virtù,

secondo la critica sofista, non fanno altro che giustificare l’interesse del più forte. La confutazione di questi argomenti da parte di Platone è classica.39 Per quest'ultimo, secondo il filosofo scozzese, l’essere un buon cittadino e l’essere un uomo virtuoso sono attività congiunte, non esistono l’una senza l’altra. Inoltre elemento centrale di queste tesi è il legame tra la virtù e la felicità, tra la bontà e il soddisfacimento dei desideri, solo chi si indirizza al bene può essere

felice.” Il problema concreto è che nessuna città nella realtà potrà rispondere a quei requisiti che comporta un modello “ideale” della città. Il filosofo greco rivendica che le virtù non possono essere le virtù terrene di uno stato, anche ideale. Esse sono invece legate a quelle della città ideale con una costituzione

ideale. Per la sua visione, inoltre, non ci può essere conflitto tra te virtù, perché prudenza (sophrosyne), saggezza (sophia), coraggio (andréia) sono virtù che

guidano le parti dell'anima umana a loro inerenti, per esempio la prudenza la dimensione più pratica, la saggezza la parte razionale e intellettiva, il corag-

gio la virtù che guida nelle situazioni di difficoltà all'emergere della ragione. Infine la giustizia (dikaiosyne) è una sorta di virtù che armonizza le varie parti dell'anima. Non esiste per Platone la possibilità di conflitto tra diverse virtù o l'affermarsi della dimensione tragica della vita in scelte che possono essere

problematiche. MaciIntyre fa l’esempio con la tragedia, con Sofocle, nelle cui opere invece emerge chiaramente una possibilità di conflitto e di incomprensione tra beni da raggiungere. L’Antigone ne è un paradigma. °* Il ritenere che ci sia la possibilità di unità delle virtù è richiamarsi ad un

complesso di valori assoluti ricomposti in un unico ordinamento morale, un indirizzo armonioso e unitario della vita umana, idea che, con molte differenze, appartiene a Platone, Aristotele e Tommaso.

La modernità invece ha rifiutato l’idea dell’unità dei valori umani che

si esprime in un “ordine morale”, inoltre ha mosso l’accusa che quando un ordinamento sociale tenta una ricomposizione di tale ordine esso diventa 36 Iv, 182-185. 37 La prospettiva kantiana, in seguito, separa proprio questo legame, dicendo che ciò che è morale non deve unirsi con i desideri umani e con la felicità. 38 Questo sarà uno dei temi, quello delle scelte dei beni possibili che diventano scelte antagoniste, che è una delle problematiche sempre presenti nelle questioni dell'etica, e la cui soluzione divide anche oggi ad esempio alcune analisi basate sulla legge naturale.

DA)

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

un sistema imposto e anche totalitario.” Infine, proprio dalla differenza del genere letterario dell’epica omerica rispetto alla tragedia sofoclea, MacIntyre afferma quello che sarà poi uno dei punti salienti della sua visione delle virtù, ovvero che queste ultime sono legate alle modalità narrative che si adottano per descrivere la vita umana. Le virtù nascono e si alimentano nella narrazione di una storia in cui le virtù permetteranno di affrontare le difficoltà, la ricerca del bene e i fallimenti nella stessa, gli obiettivi che ciascuno si propone. Esse saranno allora quelle qualità che assicurano di poter portare a termine il progetto della vita umana.‘° 1.5.3. L'approfondimento aristotelico

Naturalmente non si possono comprendere le virtù se non ci si affida ad una

analisi del pensiero di Aristotele, e MacIntyre fa proprio questo. Innanzitutto per Aristotele la riflessione sulle virtù*nasce da una dimen-

sione pratica, è quell’agire migliore che vivono i cittadini della “polis”: «La voce razionale dei migliori cittadini nella migliore città Stato; perché è

convinto che la città Stato sia l’unica forma politica in cui le virtù della vita umana possono manifestarsi».

Questo non vuol dire che l’etica debba solo rispecchiare la dimensione politica, ma ha in essa il suo punto di partenza che si può definire sociologico e che, secondo il filosofo scozzese, Aristotele avrebbe detto politico.'*? Ma se lo

sguardo parte dalla polis, va molto più in profondità rispetto ad un'etica che si limita alla stessa. Gli esseri umani sono esseri “teleologici”, agiscono per un fine determinato. Ogni agire nasce in una catena di fini parziali che si inseriscono nei fini maggiormente generali, detto altrimenti una serie di beni per l’uomo che hanno, nella catena logica del perché sono voluti, un bene che li “riassume” tutti: il bene perfetto. Esso sarà dunque uno scopo ultimo che rag-

3 In realtà questo imporre un ordine morale dispotico è il contrario del riconoscerne uno legato alla soggettività umana. L’'impossibilità dell'unità dei valori morale deriva, per MacIntyre, dagli scritti di Max Weber ed ha avuto in Isaiah Berlin il suo più importante

portavoce. Mi pare che proprio su come vada intesa questa unità dell’ordine morale, le differenze che ricorda il nostro autore siano centrali. ‘° Naturalmente le virtù saranno differenti per Omero e per Socrate, perché diversa è

la comprensione della vita: diversi sono i fini e le realizzazioni per i quali dipende una vita riuscita o fallita, il progresso oppure il declino. i Ivad39: ‘° Cioè mentre la visione platonica è guidata dall’alto, dalla dimensione delle “idee”, Aristotele pensa ad un ordine morale che si forma dall’interno di ciò che significa essere uomo. Cfr. B.J. KALLENBERG,

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Zhe Master Argument, 14.

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gruppa tutti i fini parziali. Questo fine è l’“eudaimonia” — tradotto come beatitudine, felicità, prosperità — una condizione, afferma MacIntyre, dello stare bene e dell’agire bene stando bene. Il contenuto di questa eudaimonia è però non precisato.‘ Le virtù sono quelle qualità che consentono di raggiungere questo telos. Non sono della natura di un mezzo per raggiungere un fine, sono qualcosa che di per sé porta a quel compimento, non possono essere sostituite da altro. Questo perché componente della eudaimonia è la vita umana vissuta nel modo migliore, ed essere virtuosi è una componente irriducibile di questo essere buoni, della vita buona.

Questa impostazione presuppone un legame con la natura umana, perché anche l’uomo come gli altri esseri possiede un natura specifica. È la natura degli esseri che definisce i confini del fine di ciascuno di essi. La natura degli esseri umani, dalla quale dipende la nozione di fine umano, è determinata dalla struttura metafisica dell'anima. Con gli altri esseri condividiamo la dimensione vegetativa, sensitiva e ci distinguiamo per la parte intellettiva: la

dimensione razionale dell’anima. Il nostro fine è raggiunto razionalmente e per la dimensione dell’agire si esprimerà nelle virtù che ci permettono di vivere in accordo con la ragione e

di raggiungere il bene proprio del nostro essere. Un individuo raggiunge l’eudaimonia solo se il suo agire è virtuoso. Ciascuno agisce per qualcosa che ritiene bene per lui: l’individuo virtuoso individua i comportamenti possibili e agisce in vista di quello che veramente è un bene. Ma qui, per MacIntyre, si manifesta quella che è la dimensione fondante di un'etica della prima persona: l’etica di Aristotele, infatti, presenta raramente una serie di regole a cui adeguarsi. Le azioni che sono proibite dalle legge o imposte dalla città rispecchiano il bene del cittadino. Si può affermare che le azioni compiute da un uomo virtuoso corrispondono alle leggi della polis. La ragione di fondo delle regole assolute — Aristotele non è consequenzialista — è basata sul fatto che le virtù trovano la loro espressione in un soggetto che vive nella città e che è animale politico (politikòn zoon). E

l’idea che una comunità, attraverso le condotte dei suoi cittadini, porti a termine un progetto comune che dà origine al bene reale e condiviso.‘ 5 È un “fine formale”, senza che ci sia cioè un contenuto a priori per esso. 44 Ad esempio se la capacità funzionale di un cavallo è correre, il suo fine è la corsa, la virtù sarà la velocità. 5 A. MacINTYRE, Dopo la virtù, 191. Questa distinzione tra etica della prima persona e della terza persona è quella tra etica del soggetto agente e delle norme. 4 Questa concezione è lontana dell’idea moderna di Stato. MacIntyre dice che la ritro-

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

MacIntyre richiede due elementi che faranno parte determinante di questo progetto: da un lato le virtù, qualità del carattere e della mente dei soggetti. Dall'altro una serie di regole che stabiliscano quali azioni non sono possibili, sono cattive. In fondo commettere una mancanza fondamentale rispetto alla comunità significa comunque danneggiare il progetto comune. Anche chi è virtuoso può commettere una violazione della legge, ma questo accade con maggior difficoltà. Allo stesso tempo essere privi delle virtù conduce a non riuscire ad individuare quali siano gli obiettivi da perseguire nella comunità. Virtù e proibizioni sono dunque vitali per la vita comune. Infine per Aristotele il ragionamento pratico è ragionamento morale.” Per questo egli distingue tra virtù pratiche ed intellettuali. Le prime si acquisiscono con la prassi, le seconde con l’insegnamento. Ma senza la phronesis (analoga alla sophrosyne platonica), le virtù del carattere non possono essere eserci-

tate. Le disposizioni naturali del soggetto vengono guidate a raggiungere una disposizione virtuosa grazie all’azione della razionalità, in quel giusto mezzo che esprime proprio la misura della ragione. La dimensione intellettiva è certamente l’attività più specifica del soggetto tanto che la contemplazione, l’attività razionale per eccellenza, è di per sé raggiungimento della felicità. Ma essa è possibile solo se si pongono delle premesse di ordine materiale e sociale. Come afferma il filosofo scozzese: «La stirpe e la città stato rendono possibile il progetto metafisico dell’uomo, ma i beni che essi forniscono, per quanto necessari e per quanto essi stessi

parte della vita umana nella sua interezza, dal punto di vista metafisico rimangono subordinati».'?

Per la contemplazione si deve ottenere un bilanciamento di questa attività con il lavoro, i doveri civici, e i piaceri. Dunque se l’essenza umana è razionale essa si esprime in due forme: teoretica e pratica. Entrambe hanno i loro scopi, la contemplazione e la vita buona, Aristotele ha fornito una sorta di riconciliazione delle due attività che specificano la natura umana. Un altro punto che caratterizza il ragionamento aristotelico è il sillogismo pratico. La conclusione del ragionamento pratico porta all’azione. In fondo

viamo nelle comunità specifiche: si può pensare per scuole, ospedali, chiese, gruppi sociali e simili. Sa lva195: 1 La contemplazione è un livello che nella pienezza è irraggiungibile totalmente dal soggetto umano. Essa è attività divina più che umana. Accanto ad essa permane sempre la ricerca, anch'essa attività razionale, della “vita buona”. £ Iviy200;

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CAPITOLO

PRIMO

— ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

il sillogismo pratico aristotelico afferma le condizioni per ritenere un'azione umana intellegibile?® Un'azione che non rispettasse la premessa maggiore e minore del sillogismo stesso sarebbe contraddittoria, rispetto alle affermazioni — credenze — espresse nelle premesse del ragionamento, e il soggetto che la esprime diverrebbe incomprensibile. Questo tipo di ragionamento, che non viene accolto se sottoposto ai canoni “humeani” di giudizio per i quali da premesse fattuali non può seguire nessuna azione doverosa, rilancia anche le virtù. Il soggetto virtuoso saprà che cosa è bene fare ed il suo agire dipenderà dalle sue disposizioni virtuose.” In sintesi: «Letica consiste appunto nell’educazione delle passioni in conformità con il perseguimento di quello che il ragionamento teoretico identifica con il “telos”

e il ragionamento pratico come l’azione giusta da compiere in ciascun luogo e tempo particolare».??

La visione dell’etica Aristotelica è il culmine dell’approccio delle virtù. Proprio questa definizione delle virtù presenta però per Maclntyre un ostacolo centrale: è costruita su una biologia metafisica in base alla quale si individua il fine del soggetto.” MacIntyre, in questa fase del suo pensiero, non accoglie un'idea maggiormente sostanziale del soggetto, e quindi deve giustificare le virtù in un altro modo da Aristotele? 1.5.4. Le virtù per MacIntyre L’etica del filosofo scozzese si specifica in base ad alcune nozioni che sono all’origine teoretica e fattuale delle virtù: le pratiche, le narrazioni di una sto-

50 Il sillogismo pratico — in un mio esempio, che rispecchia quello di MacIntyre — è: per

vivere occorre mangiare quasi tutti i giorni (premessa maggiore), una bistecca è un buon

minore), mangiare, la cucinano al ristorante all’angolo e ieri non ho mangiato (premessa

mi reco là per pranzare (conclusione). MacIntyre ricorda che nella premessa maggiore sono contenuti ifini e i desideri del soggetto agente: cioè io voglio vivere. 51 È in fondo un ragionamento che presenta una certa circolarità: per essere razionale chiarisce devo essere virtuoso, e per essere virtuoso debbo essere razionale, ma MacIntyre passioni. dalle dominata viene non ragione la che che in fondo questo significa solo 52 Ivi, 204. il pensiero 53 Nello sviluppo di quello che possiamo definire come «After Virtue’s project”, virtù. delle tazione di Tommaso è il culmine di questa interpre di Aristotele significa che 54 Questo termine che MacIntyre usa per definire la prospettiva questa è un'essenza razionale. tutti gli esseri umani condividono un'essenza comune, e che riappropriandosi della stessa ivo success o svilupp 5 Ricordo che questo pensiero avrà uno zione italiana). prospettiva metafisica. Cfr. Ivi, 17 Untroduzione all'edi

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

ria personale e la tradizione.”® Questi concetti non si susseguono in una successione lineare, ma piuttosto si intrecciano e sono complementari per fornire

una comprensione del reale. Questo risultato nasce dall’apprezzamento dei caratteri della tradizione medioevale, che nel perseguire il bene, meglio nel delineare il fine umano come bene, pensa le virtù come caratteristiche dei soggetti che non si possono separare della tradizione in cui si formano, tradizione che spesso dipende dalla narrazione che la tramanda e che prende vita in forme di attività sociali che sono le pratiche. Riepilogando possiamo elencare le pratiche come imprese sociali condivise, l’unità narrativa della vita in una storia personale, la comunità sociale e la tradizione che la anima, come tre elementi fondanti la ricerca umana del bene: le tre valenze che caratterizzano il discorso delle virtù all’inizio dell'“After Virtue’s project”.

1.6. L’alternativa tra Nietzsche o Aristotele

Finora le tesi di MacIntyre sono apparse molto articolate. Si soffermano nelle analisi delle teorie etiche che si susseguono dentro la storia. Soprattutto a partire dal fatto che le filosofie morali non solo esprimono un pensiero teoretico, ma sono legate alla situazione culturale in cui prendono forma.” Per uno sguardo complessivo su di esse, ricordo che una delle idee principali è quella dove si afferma la presenza di residui di teorie etiche senza che queste stesse vengano più giustificate dall'ambiente culturale e sociale dove sono nate. Per questo anche le discussioni riguardo a queste teorie etiche non possono che portare all’incomprensione o anche allo scontro tra posizioni opposte.

°° Cfr. Ivi, 225-272. In queste pagine iniziali non seguo la discussione di questi temi in modo più dettagliato, perché queste argomentazioni saranno utilizzate poi nella parte teoretica del lavoro che vuole mettere in relazione le virtù, naturalmente in particolare la giustizia, e l’ethos sociale. Fornisco solo una breve spiegazione di questi termini: l’idea delle pratiche è la pietra angolare della analisi del nostro autore. Le pratiche sono una attività cooperativa umana per realizzare un determinato scopo, in collaborazione con gli altri soggetti. Le narrazioni significano che una storia personale è non intellegibile al di fuori della narrazione della stessa, cioè senza una storia che caratterizza i soggetti. Il carattere è legato all'idea del personaggio in una rappresentazione teatrale. Infine le tradizioni. Esse sono a livello della vita della comunità quello che il carattere è per il singolo. °” Non entriamo qui in quella che viene definita come la problematica “metaetica” che sollevano le questioni poste da MacIntyre sui rapporti tra filosofia, storia delle idee, storia in sé. Cfr. Ip., Dopo la virtù. Poscritto alla seconda edizione, Ivi, 315-330.

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CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

Delle tradizioni morali rimangono dunque dei frammenti che non hanno più la loro giustificazione nel sistema di riferimento in cui erano nate.’® Una delle idee chiave di MacIntyre è questa: quando le possibilità di interpretazione di una certa regola sono troppo poche per una certa cultura allora il compito della giustificazione diventa impossibile.” Per il filosofo scozzese è Nietzsche colui che dice l’inutilità di tutto quello che la morale e il suo linguaggio rappresentano contro tesi che invece tentano di giustificare un senso.°® In fondo il filosofo tedesco contesta che le regole in sé forniscano un campo di indagine autonoma, che siano il frutto della razionalità, e le vede già espressione della volontà di chi le esprime. Inoltre Nietzsche mostra chiaramente come il modello emotivista sia insufficiente. L’'emotivismo crea un vuoto che viene riempito da coloro la cui volontà è più forte. Se la morale è ciò che viene creato dalla mia volontà, perché essa dipende da ciò che voglio, allora

la volontà alla fine diventa creatrice. Essa si dirige ad un limite che diventa

quello degli eroi che costruiscono da se stessi il loro destino. La fiducia nelle norme e regole della morale, sia essa kantiana che nella ver-

sione religiosa, è un mascheramento di aspetti della volontà. Nietzsche propone la possibilità di instaurare una modalità diversa di uomo, quello che si afferma da sé, che si libera dalle costrizioni, che rifonda la morale. MacIntyre vede la causa della possibilità di una affermazione del genere in una morale delle regole, che ha dimenticato il tipo di soggetto morale che sta alla radice dell’agire morale: che cosa dobbiamo fare è infatti diventata la domanda che ha sostituito quella su chi dobbiamo essere. Inoltre, altra causa

trova 58 IvI, 147; 307. Le esemplificazioni più chiare quando una norma universale non una ad legato è che asserto un più la sua giustificazione nella razionalità kantiana, oppure

prospettiva teleologica non ritrova più alcuna finalità legata alla natura e attività umana. 59 Ivi, 150. Nel testo l’esempio migliore è la questione legata agli studi dell’antropologia ne ricomculturale sulla questione del “tabu” che manca di un possibile contesto in cui se

prende il senso del divieto che esprime.

una precisazione sulla 60 Cfr. Ivi, 151. La questione del “tabu” permette ancora di fare

naturale. Per Moore filosofia analitica. Essa l’avrebbe espresso come una proprietà non

rio e giusto sono nomi buono è una proprietà non naturale. Per Prichard e Ross obbligato

i termini del tipo di proprietà del genere. Altri invece come Stevenson ed Ayer ritengono i emotivistico: «lo disapprovo questo, disapprovalo anche tu». abbandofu perché solo e possibil 61 MacIntyre afferma che la prospettiva di Nietzsche è sosteessere può le Aristote di tesi nata la tradizione che risale al pensiero aristotelico. Se la a problem Il . efficacia di perde nuta, l’intera visione che comporta l’irrazionalità della morale la lmente raziona care giustifi di nasce tutto con il tentativo fallito del progetto illuminista dimensione morale, come detto in precedenza.



LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ

è il fatto che la teoria liberale provoca in modo chiaro la rottura tra il bene

essenziale dell’uomo e le regole morali: queste non debbono mai essere giustificate per un fine da raggiungere, perché questo fine è indicibile, non si può giungere ad esso, siamo nel regno dei mezzi, mai dei fini. Le disposizioni

interiori del soggetto — le qualità del carattere come virtù — vengono ridotte a capacità di seguire più facilmente le norme stesse.®? In realtà le virtù non

seguono le norme e le regole, ma piuttosto le seconde si comprendono solo se si evidenziano le prime. L'analisi delle virtù porta a comprendere lo scopo delle norme quale sostegno nel raggiungere la razionalità soggettiva. Ecco perché tutta l’analisi del pensiero di Aristotele, a partire dalla grande tradizione classica che eredita e nella consapevolezza dello sviluppo tommasiano che lo segue, è stata l’oggetto centrale di analisi di MacIntyre rispetto

alle virtù.

Infine MacIntyre mostra come sostenere la tesi nietzschiana significhi ricadere in un totale individualismo, perché il bene è irraggiungibile sia nel

mondo sociale, sia in quella dimensione che può trascendere il soggetto. Solo il mondo interiore del soggetto può essere lo scenario dove trovare tutto

quello che egli necessita per dirigersi nella “nuova morale”. Ma le virtù che MacIntyre ha presentato, nel susseguirsi dell’idea di pratiche, di unità narrativa della storia personale e di tradizioni, vogliono proprio rompere questo isolamento: «E l'isolamento e la concentrazione esclusiva in se stesso del “grande uomo”

a imporgli il fardello di essere la propria autorità morale autosufficiente».

Sono infatti i rapporti che instauriamo nel contesto sociale in cui siamo chiamati a vivere che ci permettono di scoprire le virtù che ci guidano, comunità che permettono di acquisire ai soggetti le virtù e di integrarli con le norme che rispecchiano valori fondanti i soggetti. La visione della posizione classica è capace di contestare la pretesa di Nietzsche di proporre un modello unico della morale, anche se la sua posizione ha il pregio di far comprendere come l’emotivismo non abbia in sé la capacità, anzi è obbligato a dirigersi verso la posizione volontaristica e del dominio di chi è più forte. \

© Ivi, 158. MacIntyre cita Rawls come uno degli esponenti contemporanei per cui vale questa idea. vr, 308:

S##1v1f309;

34

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

C) La proposta di G. Abbà

1.1. L'etica della prima persona 1.1.1. Il punto di vista del soggetto agente In queste pagine voglio analizzare la proposta di Giuseppe Abbà, filosofo salesiano, il quale propone un'etica delle virtù e del soggetto agente.® Il suo contributo seguendo la tradizione classica, in particolare Tommaso e la Summa Iheologiae, e dialogando con gli autori contemporanei di filosofia e teologia morale, specie di area nord-americana, tenta di proporre un modello teoretico omogeneo e completo. Per quest’autore, seguendo Aristotele, la costruzione del discorso etico ini-

zia con il punto di vista del soggetto agente. La prospettiva etica, ritornando alla tradizione classica, dona nuova attenzione al soggetto che agisce e si distingue subito da quella che di consuetudine è denominata etica normativa. Molti sono gli elementi che sono implicati da questa visione, in prima battuta, ad esempio, ripensare i concetti moderni di dovere e di obbligazione. Spesso si può giungere ad un’'equivocità dei termini etici usati; ne è esempio lo stesso concetto di virtù che a partire soprattutto

dalla modernità viene utilizzato in una valenza diversa da come lo intendevano i medievali a seguito della prospettiva classica. Si individua addirittura una sorta di frattura tra l’etica antica e quella moderna. La spiegazione di questi problemi è legata proprio al punto di vista attraverso il quale viene elaborata una teoria etica: è il passaggio che sostituisce il punto di vista della prima persona, del soggetto agente, con il punto di vista della terza persona, di colui che giudica l’azione. L’autore che seguo non è certo l’unico che riporta questa distinzione, ma sicuramente la sua proposta è anche a livello terminologico originale, ripresa poi da molti altri autori.” Abbà ricorda che la prima enunciazione terminologica di questa questione fu fatta da Stuart Hampshire in un articolo uscito nel 1949.9 Essa delineava 6 G. ABBÀ, Felicità, vita buona e virtù. Saggio di filosofia morale, LAS, Roma 1995. Questo è il suo libro teoretico più importante e noto. Non faccio riferimento solo a questo lavoro ma anche ai successivi: Ip., Quale impostazione per la filosofia morale? Ricerche di filosofia morale, LAS, Roma 1996 e In., Costituzione epistemica della filosofia morale. Ricerche di filosofia morale, LAS, Roma 2009. 66 Ip., Felicità, 101; In., Costituzione epistemica, 104. 9 Cfr. M. RHonHEMER, La prospettiva della morale, Armando, Roma 2006, 34 (nota 2). 68 G. ABBÀ, Felicità, 102 (nota 37): A. MacINTYRE

- S. HAUERWAS

” (ed.), Revisions:

59)

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

da un lato il soggetto agente, dall’altro l'osservatore critico. Nell’articolo si ribadiva che nell’Erica Nicomachea si studiano i ragionamenti pratici del soggetto agente per delineare e per scegliere; neglì autori moderni si adotta invece il punto di vista dell’osservatore che valuta e critica le azioni compiute dagli altri. Questo cambiamento divenne comune anche nella tradizione della morale cattolica. Nella seconda scolastica il punto di vista del Dio legislatore e dei precetti da applicare che derivano dalla legge naturale e rivelata è prioritario. Nella manualistica post-tridentina la casuistica con lo spostamento sul giudizio, legato al sacramento della confessione, accelera quest’aspetto: occorre

poter giudicare gli atti esposti dal penitente. Inoltre l'atto umano è legato al concetto di libertà di indifferenza, e dunque non può che essere rilevato il frutto di questa libertà: l’azione giusta o sbagliata. Il punto di vista del soggetto agente che era protagonista della // Pars della Summa Theologiae scompare. Ci ritroviamo in una prospettiva che nelle cause remote è possibile ricondurre al nominalismo: di fronte alle richieste di un Dio legislatore il soggetto deve obbedire. Dal secolo passato questa dimenticanza del soggetto vorrebbe essere recuperata mettendo in maggiore evidenza il suo valore, ma senza in fondo abbandonare la prospettiva dell’etica della terza persona. Quest'attenzione cresce anche tra i moralisti cattolici.”® Si rivalutano concetti quali: a) atteggiamenti etici legati a motivazioni psico-affettive; b) motivazioni ad osservare le norme;

c) le intenzioni fondanti il comportamento del soggetto agente che sfociano nella chiave interpretativa dell'opzione fondamentale: decisione della libera volontà ad agire secondo i principi morali. In particolare i primi due punti sono assimilati alle virtù, ma non nella tradizione della comprensione aristotelica e tomista, piuttosto in una ricom-

prensione moderna delle stesse. Inoltre per molti teologi morali sarà soprat-

tutto centrale la questione dell’opzione fondamentale, lasciando il categoriale all’etica normativa.

1.1.2. La prospettiva dell'etica della prima persona Qual è il cambiamento del concetto di virtù? Esse non sono più capacità eccellenti che determinano e sostengono il processo che nasce dalle inten-

Changing perspectives in Moral Philosophy, University of Notre Dame Press, Notre Dame/ IN1988552:

°° Per una ricognizione storica approfondita, cfr. G. ABpà, Quale impostazione, 74-85. 7° Cfr. Ip., Felicità, 86 (nota 6).

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CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

zioni, prosegue nelle scelte e sfocia in un’azione, ma sono poste a servire con

docilità l’osservanza della norma morale. La virtù rende facile e costante il lavoro della volontà del soggetto. Il concetto di virtù utilizzato dall’etica moderna è riduttivo: è guardar e alla virtù con un ritardo temporale. Infatti quando l’azione giusta è già stata ideata, allora la virtù viene utilizzata per tradurla in azione. Ad essa manca

il processo decisionale, in fondo perché non importante per gli osservatori

esterni, ma che è decisivo per l’agente. Il soggetto approda ad azioni che non

sono scollegate, ma sono invece esemplificazioni successive di interessi perma-

nenti e generali che grticolano la sua concezione di vita buona e la sua volontà di realizzarla: «La virtù non mira ad un buon stato di cose se non con volontà buona»?!

Faccio notare come in fondo la pretesa di un'etica della prima persona sia in particolare un ribaltamento dell’etica kantiana. Per questa la virtù rende buona la volontà. Se però considero solo la volontà si ottiene un concetto stoico della medesima piuttosto che aristotelico. Secondo questa impostazione non esistono le virtù al plurale, ma esiste la virtù. È l'atteggiamento dell’animo a conformarsi alla legge morale. Il concetto di virtù rivive in una forma moderna secondo la quale essa è una decisione fondamentale, un voler agire secondo le leggi e regole morali: cioè il decidere di se stessi nell'essere morali in una scelta apriori.”? A questa visione si oppone la complessità del soggetto umano che non riassume se stesso in un'unica dimensione, la virtù, ma costruisce la sua azione attraverso l’esercizio di ragion pratica, volontà e passioni. Anticipo qui quello che sarà un altro aspetto originale delle riflessioni di Abbà e che egli fa derivare dalla proposta di Tommaso: ciascuna capacità operativa del soggetto può essere impreparata al compito di costruire la vita buona.” La vita buona è il fine dell’agire umano, tutte le sue articolazioni avvengono seguendo questo fine. Solo se le facoltà operative dell’agente sono potenziate dalle virtù possono adempiere il loro compito. Detto altrimenti l’individuo non è “naturalmente” preparato al compimento della vita buona e alle attuazioni eccellenti in cui essa consiste.

Lelwn 407. ? Ip., Quale impostazione, 188-190. In queste pagine la distinzione tra valori trascendentali e norme categoriali. 73 Ip., Felicità, 108 (nota 55): S Th LII 51,1; 63,1.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Afferma Abbà: «Con i termini di virtù si designano appunto eccellenze, e con i termini di

vizio deficienze, della volontà, della ragion pratica, dei desideri passionali, in ordine alla vita buona»?

Un'altra precisazione è necessaria: nella teoria tommasiana le virtù sono tutte connesse. Cioè non è possibile perseguire una violando un’altra. La virtù produce solo atti buoni e non è mai in contrasto con la regola morale.? Ogni etica della terza persona si preoccupa di dare principi oppure regole. Possono essere in una prospettiva utilitarista che intende massimizzare il benessere per il maggior numero, oppure una prospettiva delle regole di giustizia dove la libertà è autonoma e la sua capacità di azione è senza limiti fin quando almeno non tocca la libertà dell’altro. Essa però subisce una sorta di traslazione nella riptesa in chiave attuale: sicuramente è possibile individuare un'attenzione spostata sui soggetti e sui loro desideri. Tuttavia il problema centrale è legato al fatto che sul senso della vita di questi soggetti liberi si tace. Qui Abbà tocca il punto centrale della sua

impostazione perché invece la proposta dell’etica della prima persona è attenta al soggetto e alla sua ricerca della vita buona. L'intento fondamentale di un'etica della prima persona è di rispondere alla domanda: «Perché essere morali? (why to be moral?)». Una domanda che deve guidare l’impostazione del discorso morale.?® Alcune volte il discorso filosofico viene come depotenziato rispetto alla domanda sul perché essere morali a causa della difficoltà a trovare un consenso sulla risposta da dare. Naturalmente non è eliminando la domanda che possano scomparire le difficoltà rispetto ad un consenso etico.

Dal punto di vista della prima persona l’attenzione va a tutti gli atti della stessa che diventano atti della sua condotta: essi sono l’insieme ordinato delle scelte rispetto ai beni sostanziali. Contengono un sapere pratico originale che conduce il soggetto a perseguire uno scopo nelle sue scelte. Questo sapere pratico è centrato sul problema del senso da donare alla propria vita.

Le fonti a cui Abbà si ispira per il suo percorso sono l’etica aristotelica ma soprattutto la rivisitazione tommasiana della stessa, in particolare la I/ Pars

74 Ip., Felicità, 151. ? Ivi, 132. Al contrario in Aristotele le virtù possono anche essere in contrasto con un

dovere mancando una elaborata teoria dei criteri della ragion pratica. MiO;

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CAPITOLO

della come Il vono gono

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— ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

Summa Theologiae. Voriginalità della proposta di questo autore è offrire interlocutrice del dibattito morale l’etica di Tommaso. filosofo salesiano dialoga poi con gli autori contemporanei che descril'etica della prima persona arricchendo le loro idee che spesso non tenin considerazione l’apporto di Tommaso.?*

1.1.3. La situazione pratica originaria

Per meglio cogliere la proposta di Abbà sottolineo come momento “generativo” della stessa quella che viene definita “situazione pratica originaria”. Il punto di vista soggettivo implica un agire e uno scegliere del soggetto. Si tratta di individuare il punto di partenza di ogni discorso inerente la vita etica in una situazione pratica originaria, quella condizione nella quale il soggetto si trova ad agire, e su cui si innesta la riflessione etica.”?? Il soggetto vuole con la sua intelligenza perseguire dei beni che realizzano la sua persona; fonda una relazione con il mondo in vista di quello che potremmo definire un perfezionamento di se stesso. La teoria etica deve riflettere su questa dimensione, che è molto più complessa della teoria dell’obbedienza ad una legge, in quanto deve dare conto sia dei soggetti umani che delle situazioni complesse: «La filosofia morale è distinta e diversa dalla conoscenza pratica del sog-

getto agente, e tuttavia la chiarisce e la spiega appunto in quanto conoscenza pratica».5°

Una serie di distinzioni è allora necessaria per precisare questo assunto: a) la ragion pratica può essere indagata sotto una duplicità di sguardo: diretto — riflesso. Questa è una prima possibile distinzione. Diretto per l’agire del soggetto, riflesso che comporta l’analisi riguardante come si agisce. b) Il particolare operabile, cioè il processo che porta all’azione compresa come risultato finale di questo processo, ha poi in sé un'ulteriore divisione:

e

esso ha una valenza “in universali” per gli aspetti che potremo chiamare normativi o di indirizzo generale — dei principi e delle norme di condotta generali — che presentano un livello alto di astrazione, sia dalle

77 Ivi, 136. Essa va presa globalmente, con tutti i suoi correlati antropologici e teologali: ad esempio la deatitudo, la condotta, la grazia. 78 Ivi, 100-101; cfr. Ivi 153-155. Ad esempio una delle argomentazioni più dibattute è quella della doverosità del discorso morale tra autori che privilegiano il dovere morale, che in fondo è il punto di forza dell’etica della terza persona, ed altri che vedono invece una spontaneità che nasce dalle virtù. iva g28. 80 Ip., Quale impostazione, 310.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

circostanze singolari sia dal carattere dell’agente. Non è una riflessione

teoretica ed astratta generale, ma il livello “universale” dell’agire pratico.

*

È valido “in particulari” perché è il soggetto che dirige se stesso in una situazione pratica.

La ragion pratica nel primo caso del particolare funziona come “scienza” di criteri universali e fini definiti genericamente, nell’altro caso, con un termine riassuntivo, come saggezza pratica. “In universali” è quel livello di analisi, che prevede l’astrazione, in cui si

elaborano dei principi e delle norme. Inoltre descrive l’azione in base all’in-

tento principale, cioè guidata da un principio regolatore e non immediatamente riferita ai modelli di azioni che la specificano.

“In particulari” è invece la prospettiva che pone attenzione alle azioni particolari, dalla parte del soggetto agente. Diventa importante come egli si ponga

affettivamente e nello sviluppo dei suoi desideri: deve decidere cosa è conveniente a lui, nel senso più impegnativo del termine, cioè non nel significato di quello che gli è utile ma di ciò che è consono, conforme, anche rispetto alle sue disposizioni affettive. L'azione sarà conveniente al modo di essere effettivo

del soggetto guidato dalla saggezza pratica. Di fronte a questo tipo di razionalità — nel duplice senso precisato — la riflessione sulla stessa dovrà studiare la ragion pratica in connessione con gli

altri principi operativi della condotta volontaria, cioè con le disposizioni virtuose o viziose. Il campo di indagine riflesso ha come oggetto il “come” si agi-

sce, “cosa si fa” quando si prende la decisione di agire.!! Per Abbà, a partire dalle scelte del soggetto per l’azione, la filosofia

morale deve fare emergere i presupposti, i fini e i principi che sono contenuti nell’esperienza pratica e morale e d’altra parte rendere esplicite le dinamiche soggettive delle medesime scelte: questa impostazione della filosofia morale

verrà dunque sempre preceduta dall’esperienza morale. Emergono tre grandi temi che analizzo in questo lavoro: i fini, le virtù e la

razionalità pratica. Il tema dei fini — del fine — è quello della felicità che è trattato di seguito. Le virtù, senza le quali non si dà la possibilità della regola morale, sono

oggetto del paragrafo seguente. Infine a partire dall’esercizio diretto della razionalità pratica, la riflessione

morale cerca di esplicitare dei criteri guida della stessa, cioè i principi che permettono di discernere la vera vita buona e conseguentemente la vera felicità. 8! Ip., Felicità, 157-158.

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CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

1.2. La felicità

1.2.1. Il compimento ottimale del soggetto

La questione della felicità come fine ultimo voluto dal soggetto è impresc indibile per cogliere l’orientamento essenziale di un'etica della prima person a. Se la situazione pratica originaria è la struttura da cui parte la riflessione etica, occorrerà precisare il meccanismo dell’agire soggettivo. L'intenzione indirizza l’agire del soggetto verso ciò che essa giudica come un bene. È la definizione di bene ‘intellegibile”..* Abbà compie un ulteriore passaggio che porta al suo compimento questo desiderio di bene: il soggetto vorrà raggiungere il fnassimo bene nel suo agire, la più alta possibilità di bene che può raggiungere. Se il principio dell’azione sta nell’intelligenza e nella volontà del bene come bene, allora, in un processo di “massimizzazione”, fine ultimo dell’azione sarà la felicità. Infatti questo desiderio di bene non ha limiti. Usando un’altra espressione, il soggetto desidera raggiungere la vita buona che è quella vita che permette di essere felici: «Ottimale sarà la condizione del soggetto nel mondo che dia al soggetto il massimo di perfezione, in proporzione alle disponibilità del mondo e alle

capacità del soggetto».® La felicità sarà il fine ultimo della condotta umana.8° Nella filosofia morale, come filosofia pratica della condotta umana, il concetto di felicità è centrale. La condotta ha il suo principio guida in un volere

razionale, il volere si specifica in base ad uno scopo, e se lo scopo naturale della volontà è la felicità, lo scopo della condotta è la felicità: quest'ultima sarà sem8° Questa è naturalmente l’impostazione tommasiana. Cfr. Ip., Quale impostazione, 63: «La ricerca tomista sul fine muove dal presupposto che [...] ogni azione viene scelta in quanto è compresa come un bene [...], viene scelta in ragione della felicità che essa contribuisce a realizzare». Inoltre voglio segnalare che i temi e i termini morali introdotti — condotta, vita buona, intenzioni — saranno ulteriormente precisati sia in queste pagine che in seguito.

83 Nello scegliere non si segue un impulso solo del desiderio. Non ci sarebbero dei soggetti attori. Ma sui desideri viene pronunciato un giudizio di bontà. Le tendenze, tra cui le passioni, sono valutate, nel senso che non si segue una passione perché non la si ritiene un

bene più generale. Più precisamente però questo bene sarà ogni realtà che in base alla sua natura può contribuire al compimento della persona o alla sua perfezione. 84 La condotta è l’insieme ordinato dei beni conseguiti che si indirizzano nel voler perseguire il bene massimo. Inoltre questa prima spiegazione della felicità o beatitudo non tiene ancora conto dell’apertura teologale. 85 Ip., Felicità, 31. Abbà intende capacità come naturali e soprattutto acquisite nel processo Virtuoso.

str

86 Voglio puntualizzare che il discorso logico è qui ancora a livello formale. Cioè l’affermazione della felicità andrà ancora precisata nella distinzione tra bene e male morali.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

pre il fine della condotta. Il nostro autore segnala che occorrerà ancora comprendere se questa è una felicità giusta, degna e doverosa, veramente buona: vi può essere infatti vera e falsa felicità; come vi può essere un bene solo apparente che attrae l’azione singolare. Seguo dunque l’indagine sulla natura della felicità precisando tre aspetti: una concezione inclusiva di felicità; la felicità come fine ultimo naturalmente e necessariamente voluto; il senso della distinzione tra vera e falsa felicità. 1.2.2. Una felicità inclusiva: “eupraxia”, “eudokia”

e le disponibilità del mondo

Il tema della felicità presenta delle difficoltà di approccio che nascono dal fatto che la definizione di felicità è molteplice, è un concetto complesso.” L'autore che seguo adotta una nozione inclusiva di felicità, che cioè assume in sé un insieme complessivo di prospettive in merito alla stessa, una specie di sommatoria dei suoi significati.8 La nozione inclusiva sarà quella più adatta per giustificare la pretesa di definire il termine in modo globale.® In questo paragrafo l’analisi sviluppata nei sei punti seguenti è introduttiva e propone argomenti che verranno precisati nei paragrafi che continuano

e riprendono le stesse argomentazioni. a) Innanzitutto l’aspetto dell’“eupraxia”: attuazione di una potenzialità del soggetto di fronte alle disponibilità del mondo. Essa è formata dalle azioni del soggetto che si dirigono ai beni umani. Questi sono beni intellegibili che

sono oggetto dell’intenzionalità razionale del soggetto.” L'eupraxia significa da parte di quest'ultimo attuarsi in una vita veramente buona che si realizza nei beni umani:

87 Ip., Felicità, 33.

88 La lingua inglese ha, per esempio, due modi per esprimere la felicità che mostrano le due differenze principali del concetto: b) happiness: soddisfazione; godimento; b) fu/filment: adempimento;

compimento;

realizzazione. Queste differenze linguistiche rispecchiano la

prima il pensare la felicità solo come qualcosa che guarda alla dimensione della soddisfazione dei bisogni soggettivi; la seconda una concezione “eudaimonistica” che riflette situazioni che valgono la pena di essere vissute per la pienezza del soggetto. ® Come metodo Abbà sempre, all’inizio dei grandi temi che affronta, si confronta con il pensiero di uno o più interlocutori moderni che hanno, con metodo filosofico, dato ragione di un determinato aspetto etico. Il filosofo salesiano riprende alcune di queste tesi e poi le integra con l’arricchimento della prospettiva che nasce soprattutto da Tommaso. In questo caso ascolta le analisi fenomenologiche di Hans Kràmer: «La vita qualificata si realizza nella relazione tra l’uomo e ciò che gli sta di fronte». Vita qualificata è un altro modo per dire felice. Ip., Felicità, 35 (nota 59): H. KrAMER, Prolegomena zii einer Kategorienlehre des richtigen Lebens, in «Philosophisches Jahrbuch» 83 (1976), 80. 20 G. ABBÀ, Felicità, 36.

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— ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

«Le attuazioni eccellenti di cui consta la vera felicità sono pertant o le attuazioni che realizzano i beni basilari con buona volontà».?!

Questa definizione deve perseguire due aspetti: la felicità è volere i beni che realizzano il bene come compimento del soggetto. Inoltre le attuazioni rispetto a questi beni devono essere moralmente eccellenti, cioè debbono essere realizzate con una volontà buona. Questi due elementi si comprendono attraverso la differenza tra punto di vista pratico e quello morale in merito ai beni? Il punto di vista pratico precisa quali sono i beni da perseguire da parte del soggetto. Porta all’individuazione dei beni basilari. Si definiscono come beni operabili: sono fini dd realizzare dall’uomo nelle attuazioni.? Il punto di vista morale dice invece con quale volontà devo perseguire questi beni: per essere morale deve essere buona. Significa considerare i beni basilari come un insieme unitario dove la volontà desidera gli stessi con l’ordine dato dalla ragione. b) Le disponibilità o indisponibilità del mondo che si incontrano di fronte alla prassi buona. c) La necessità di una “misura” tra i beni e la volontà. Questa attitudine

può essere definita commisurazione. Essa è un metro di giudizio, una capacità regolatrice: in fondo è il contributo della ragion pratica. Questa concezione si oppone alla massimizzazione di ogni desiderio ed alla soddisfazione incondizionata dei bisogni. . Segnalo che questo è un tema importante: nel seguito di questo lavoro si preciserà come questo concetto non sia altro dall’attività virtuosa. d) Sulle considerazioni dell’eupraxia e dei beni disponibili vanno fatte le

seguenti precisazioni: le realtà che stanno di fronte al soggetto dispiegano la loro natura. Esiste la possibilità di riconoscere il bene, di riconoscere la verità,

eli Ae) ® Ivi, 56 (nota 97): G. Griesez,

Zhe Way of the Lord Jesus, I: Christian moral princi-

ples, Franciscan Herald Press, Chicago 1983, 178-189. Per la classificazione dei beni umani ancora quest'opera: Ivi, 115-140. 9 “Basic goods” in inglese. Sono i generi supremi di beni, non specifici, per identificare i fini globali, dove ci si ricollega ad una serie di beni che si apre al bene supremo. Si scoprono dei fini che immediatamente riguardano il soggetto: beni in se stessi desiderabili per l’uomo. % G. Apà, Felicità, 58. Quei beni che sono legati direttamente a dimensioni volitive sono detti esistenziali: essi sono voluti come fonte di armonia con le altre persone: amicizia, civiltà; — armonia con se stessi nelle scelte; — armonia con la realtà sovraumana principio di senso per l’uomo e per il mondo. Quei beni che non derivano dalla libera volontà, ma dipendono da altre facoltà sono i beni esperienziali: la vita; la conoscenza; l’esperienza del

bello; il gioco; l’arte, il lavoro.

43

LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ

di un giudizio. Prendendo questi beni come oggetto della sua attenzione e della sua attività il soggetto attualizza le sue potenzialità.?° Inoltre il soggetto deve confrontarsi, beneficiare ed essere limitato dalle disponibilità del mondo: ad esempio la situazione in cui non ci sono risorse sufficienti è frustrante perché impedisce alle capacità, individuali e collettive, di trovare una applicazione nel mondo. e) Occorre precisare quale sia il legame tra felicità e virtù. L'eupraxia ha bisogno delle virtù. Per poter attendere e raggiungere la felicità l’uomo deve necessariamente possedere le virtù: «Vi è dunque nella vita umana una felicità accessibile, non immediatamente, ma solo in forza di un potenziamento, una elevazione, di uno sviluppo delle capacità operative che le porta ad apprezzare e ad interessarsi ai beni nel modo

doveroso e degno per l’uomo». f) La felicità è infine il frutto della benevolenza intesa in senso generale,

sia delle altre persone che di Dio. Questa caratteristica prende il nome di “eudokia”: la buona disposizione dell’altro nei miei confronti. Essenziale sarà, in questo aspetto, l'accoglienza verso qualcosa che mi viene incontro. Questa distinzione permette di allargare la visione soggettiva della stessa felicità.* In sintesi l’eupraxia e le disponibilità del mondo, che costituiscono la cate-

goria fondamentale della vita felice in quanto rapporto tra soggetto e mondo, vengono dunque arricchite dalla benevolenza degli altri nei confronti del singolo. Questa, che è stata delineata in queste pagine, è dunque la nozione inclu-

siva di felicità, un-punto centrale della filosofia morale come filosofia pratica della condotta umana.” Sottolineare un rapporto tra il soggetto ed il mondo che non sia qualsiasi, ma ideale, significa ragionare nei termini di una felicità inclusiva: una misura di adeguamento al mondo e di adeguamento del soggetto. ? Negare la possibilità di riconoscere dei beni da parte del soggetto impedisce qualsiasi discorso etico, crea una indifferenza radicale. °° Ivi, 37. Oltre il saper individuare dei beni, occorre una capacità di “intelligere”, la bontà dell’oggetto viene svelata dall’intelligenza: apprezzata voluta e cercata. Il soggetto è cosciente, intelligente, capace di scelta. È l'intelligenza che conosce la bontà dell’oggetto, dell’azione, e poi che vuole questa bontà, voluta e cercata come tale. P4lv;3% °* Questo aspetto fondante la felicità non viene sempre tenuto in considerazione e, ad

esempio, sia Platone che Aristotele fissano la loro attenzione principalmente sulla vita di bene che il soggetto interpreta come componente della felicità: sull’eupraxia. °° Nozione che vuole comprendere tutti i possibili aspetti della felicità.

44

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

1.2.3. La felicità come fine ultimo naturalmente è necessariamente voluto dall'uomo Dopo le considerazioni introduttive sulla felicità intesa in senso inclusi vo, mi

addentro in un’analisi maggiormente puntuale seguendo gli approfondime nti di Abbà.

Il primo riguarda la prospettiva della felicità come fine ultimo inclusivo

voluto dall'uomo. Infatti è sempre possibile affermare che, oltre la felicità,

nell'azione umana ci sono molti altri obiettivi e fini.!°° Per affermare la felicità come fine ultimo l’autore che seguo spiega che cosa voglia dire, che senso abbia dire, che in ogni atto volontario il soggetto ha come scopo la felicità.

Alla fine di questi ragionamenti egli constata che la felicità è qualcosa di natu-

ralmente e necessariamente voluto. Importante però che questa risultanza sia intesa come un criterio formale, non di contenuto, rispetto alla felicità stessa. La tesi espressa dall’autore che seguo afferma la felicità come il fine della ragione e della volontà: la felicità è necessariamente e naturalmente voluta in ogni scelta.!0! L'argomentazione troverà i suoi punti di forza innanzitutto nella necessità di un fine ultimo che si articola nei punti seguenti:

a) il soggetto non solo desidera fare una qualche esperienza, ma vuole giungere a qualcosa, essere qualcuno; b) la vita ha una continuità: se cambia il criterio ultimo di riferimento non ci potrebbe essere un’unitarietà; c) le continue alternanze nell’azione, specie se contraddittorie, porterebbero ad una mancanza di senso.

Questo fine ultimo è la felicità: poiché il soggetto vuole il massimo bene possibile. La volontà desidera la vita buona. La necessità di un fine si combina con l’incompatibilità di una volontà indifferente, neutra, che non vuole nulla o

che vuole qualsiasi cosa in maniera identica. Cioè se il soggetto non vuole una vita buona non si capisce perché desideri qualcosa di sensato. Anzi senza una motivazione originaria per la vita buona non ci potrebbe essere nemmeno l’azione puntuale che scaturisce dal voler governare la propria vita. !°°

100 Ip., Felicità, 40. 91 Ricordo che l’atto umano nella serie degli atti ordinati forma la condotta umana. Il soggetto per essere felice deve realizzare l’“ordine” che la sua vita dovrebbe avere. Quest or dine è quello con cui ripartisce i beni che gli si presentano — e che sceglie — nella sua esid

.

>

e

stenza. 102 Questa tesi è innanzitutto opposta alla libertà di scelta indifferente, opzione radicale.

45

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Questa felicità come fine avrà quattro caratteri che ne riepilogano la natura: a) fine naturale: esiste un dato originale, la volontà naturale di condurre una

vita buona, che opererà come movente all’azione e genererà una continuità

nella condotta. Esso è un presupposto delle scelte particolari: è la volontà inclinata al bene; b) fine formale o inclusivo: la felicità, come fine ultimo, deve essere priva di

contenuto, puramente formale. I soggetti poi danno, volta per volta, un contenuto. L'interesse per la vita buona è un'idea formale ed originaria:

non è oggetto di una serie di atti di scelte già stabiliti, ma il presupposto. Detto altrimenti non è un atto compiuto, ma il principio che permette gli atti compiuti; la condizione di possibilità di atti compiuti;

c) fine necessario: la felicità è non solo qualcosa di naturale ma necessario per le ragioni viste; necessità di una condotta tendente alla felicità per la possibilità di essere sensata ed umana. d) fine ultimo: se la volontà è inclinata al bene, lo è anche al massimo di perfezione, orientata ad un fine ultimo che è bene supremo. La nozione di

bene ammette dei gradi di perfezione. Se bene è quella condizione del soggetto nel mondo che arreca perfezione al medesimo, allora bene supremo

sarà la condizione ottimale del soggetto nel mondo. Dunque la motivazione originaria alla vita buona ha come oggetto formale il bene: in una prima accezione semplice saranno fini perseguiti, in una più generale sarà il bene vitale, infine nel grado ottimale si guarderà alla felicità. Abbà pre-

cisa che per “ultimo” si vuole dire che esso non può essere superato da altre aspirazioni. In particolare, introducendo la prospettiva di una filosofia teologale, in rapporto a Dio Creatore, la felicità costituisce la partecipazione massima, creata e naturale, alla perfezione divina.

Il filosofo salesiano esprime tutti questi passaggi in una definizione riassuntiva di felicità naturale e necessaria:

In particolare Abbà critica l’idea di Bruno Schiiller sulla decisione pura. Questi sostiene l’idea della opzione radicale o fondamentale: la decisione per la moralità sarebbe una decisione pura che fonderebbe se stessa. Invece nell’etica della prima persona la decisione pura è un arbitrio o una preferenza soggettiva. Cfr. Ip., Felicità, 42 (nota 74): B. ScHULLER, Der

menschliche Mensch, Diisseldorf 1982, 82-85. Per una spiegazione dettagliata di come Abbà legge questo autore: Cfr. G. ABBÀ, Quale impostazione, 177-185. !° Cfr. G. ABBÀ, Felicità, 63-65: fine inclusivo è quello che ricomprende la presenza di vari beni. Fine dominante è invece quello costituito da un unico bene concreto. Le attuazioni eccellenti che integrano la figura della vera felicità umana sono piuttosto parti di essa e insieme costituiscono la mediazione concreta in cui si realizza questa felicità. Non sono mai mezzi per la felicità, ma il modo in cui la vera felicità si realizza nella vita umana.

46

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

«La felicità, intesa in senso inclusivo e formale, è dunque fine naturalmente

e necessariamente voluto da ogni uomo,

nell’azione, l'intelligenza e la volontà».!% >

.

Da

.

nella misura in cui egli esercita,

É

1.2.4. Vera e falsa felicità

Finora si è individuato il concetto di felicità come necessaria e naturale. Que-

sto aspetto lascia ancora aperti i problemi su come realizzare questa felicità:

esiste infatti una vera felicità che si oppone ad un concetto artefatto della stessa. Il nostro autore segnala alcune espressioni del linguaggio comune che indicano come l'utilizzo del termine possa diventare ambivalente: ad esempio il

caso in cui si afferma che per un bene doveroso si è sacrificata la felicità del soggetto adempiente a quel bene. In realtà è per la felicità, intesa in senso inclusivo e formale, che una persona sceglie un bene doveroso, un impegno oneroso, una fedeltà all’amicizia ed altre situazioni di valore.! Anche le appa-

renti situazioni di sacrificio segnalate dal linguaggio comune - sacrificare la

propria felicità per una determinata causa — sono in realtà componenti della

realizzazione della vita felice: senza attendere ad esse la vita in realtà fallisce, non raggiunge la felicità inclusiva. Per realizzare la felicità condizione necessaria è condurre bene la vita. Ecco perché in queste circostanze la parola feli-

cità è compatibile con sacrificio: è possibile compromettere dei beni perché altri sono più grandi, i beni vengono ordinati in base ad una nozione inclusiva di felicità.!9

Le situazioni linguistiche illustrate hanno il presupposto teorico nel fatto che il giudicare come bene un oggetto dell’azione costituisce la ragione formale per cui esso è voluto. Questo giudizio è però solo una condizione necessaria perché esso sia voluto dal soggetto, è imprescindibile scoprire se inoltre

sia un bene reale, cioè per poter dire se esso appartiene o meno alla dimensione dell’eupraxia. Dunque per la nozione inclusiva di felicità è centrale

l’identificazione al bene autentico.! Il soggetto può cercare dei rapporti con il mondo in modo degno, retto, giusto, doveroso oppure indegni, ingiusti, da cvilorci 104 Tv1, 43. 105 Ivi, 44.

106 Questa tematica viene indicata con la questione del dovere del bene o del motivo

morale: già Duns Scoto elimina questa prospettiva e si concentra solo sul dovere. Essa è ripresa nella prospettiva kantiana del dovere per il dovere, invece che per la felicità. Se si afferma la felicità scompare lo scopo morale. 107 Un soggetto può giudicare bene quello che non è tale e quindi equivocarsi su vera e falsa felicità.

08: Ivi,:d5. 47

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Coloro che sostengono una tesi soggettivista non accettano questa distinzione: non si può affermare una felicità oggettiva.!°° La differenziazione nasce tra la sensazione dell’essere felici e la questione dell’essere felici, del condurre una vita veramente felice. Una prima spiegazione della differenza tra azioni è legata al punto di vista della prassi dei soggetti, senza ancora introdurre un punto di vista morale.

Infatti Abbà si interroga se qualcuno potrebbe volere una vita fatta solamente di sensazioni, senza attività, riuscite e compimenti.!!°

Queste tesi fanno parte della dimensione di fondazione del discorso morale: le realtà da cui parte la riflessione morale. La questione è quella della possibilità di affermare un senso in merito alla esperienza vitale. Indicare solo il piacere come il centro dell’interesse umano si può proporre con il ragionamento filosofico, ma non regge il confronto con il pre-filosofico: l’uomo non è fatto per avere esperienze piacevoli, o gratificanti, ma per realizzare una vita veramente buona che porti a compimento le sue potenzialità. Per sostenere una felicità vera occorre invece proporre una concezione oggettivista della stessa.!!! Essa è quella dove la vita felice corrisponde alle caratteristiche della natura del soggetto. Abbà afferma un oggettivismo che non è legato direttamente alla natura umana, ma piuttosto ad una oggettività della ragion pratica. Siamo in una determinazione dell’oggettivo né dettata dalla deduzione metafisica, né determinata da criteri empirici dei soggetti la cui generalizzazione sarebbe illecita; nemmeno, al contrario dei precedenti,

dettata da parametri razionalistici che non implicherebbero alcuna relazione con le dimensioni globali dell’umano. A chi afferma che non è possibile determinare cosa appartiene e cosa non appartiene alla vita ideale, l’autore che seguo risponde che l’insieme dei fini, compresi nella loro bontà e che forniscono le ragioni ultime per agire, costituisce l'ideale della vita felice. La sua critica agli autori che non riescono a legare l’oggettività dell’ideale della vita felice con la vita del soggetto si svi!° I teorici della felicità empirista sono su questa linea di pensiero. Questa concezione è

vera se pensiamo una felicità legata alla soddisfazione o al piacere. "© Un primo passo per contestare questa teoria è preso da un'interessante proposta di Robert Nozick. Essa critica il piacere come il senso della vita, che ad esempio è una delle

dominanti della teoria soggettivista in chiave utilitarista. È l’ipotesi della macchina delle esperienze. Se si immagina che qualcuno possa inventare una macchina che crei il piacere e dunque far sperimentare tutte le esperienze desiderate, un soggetto sceglierebbe razionalmente quel tipo di vita che si limita a una irrealtà? La risposta razionale è ovviamente negativa. Cfr. Ip., Felicità, 45 (nota 78): R. NozicH, Anarchy, State and Utopia, Oxford 1968,

42-45, in J. FinnIs, Fundamentals of Ethics, Clarendon Press, Oxford 1983, 37-42.

Ml Cfr. G. ABBÀ, Felicità, 50-55.

48

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

luppa discutendo il concetto stesso di questo ideale. Se si considera come un qualcosa di perfettamente definito e chiuso in se stesso, allora questi autori avrebbero ragione. Esso è invece una sorta di direzione che orienta la condotta, ma non è un traguardo già realizzato: piuttosto definisce la crescita personale. Si realizza in una pluralità di modi che devono essere compatibili con il fine ultimo. Inoltre se oggettivamente è individuabile un ideale di felicità oggettiva, a cui tende la natura specifica, vi è poi la felicità concreta e possibile a livello individuale. La concezione oggettivistica deve tenere conto degli insuperabili limiti individuali e qui si fanno strada degli standard soggettivi nello spazio lasciato aperto dagli standard oggettivi della felicità.!!° 1.2.5. Criteri per la determinazione della vera felicità Per riassumere il concetto di felicità nell’impostazione seguita presento tre aspetti: a) una concezione inclusiva di felicità; b) la felicità come fine ultimo naturalmente e necessariamente voluto; c) il senso della distinzione tra vera e falsa felicità. In sintesi: «La felicità intesa in modo

inclusivo, costituisce

la motivazione

formale

ultima delle scelte, ma appunto per questo non può essa stessa essere il criterio di scelta retta, né da essa si possono dedurre criteri di scelta retta: la felicità, che è lo scopo formale della condotta, non può essere regola di condotta».!!5

Egli ha affrontato in precedenza la distinzione — da un punto di vista pratico — tra vera e falsa felicità e la proposta di una felicità oggettiva. Occorre però un criterio che dica come mostrare questa differenza: esso sarà il giudizio della ragion pratica e giustamente per Abbà occorre chiedersi quali siano allora i criteri razionali o principi guida della medesima.!! 112 Ivi, 66-67. Questo non significa che i due aspetti non debbano essere legati, altrimenti cadrebbe ogni possibilità di oggettivo. Ivi, 01593. 4 Cfr. infra cap. 1, c) 1.4. Nello sviluppo della teologia morale ci sono diversi modi di intendere la ragion pratica: quella della scuola suareziana che mette in legame legge naturale e situazioni. In questo modello la ragione è anzitutto speculativa, nel senso che individua la legge che scaturisce dalla natura e giudica se un’azione è conforme o meno alla natura umana: diventa pratica quando trasmette il comando del legislatore divino di realizzare simili azioni. Abbà dice che la natura non fornisce alcun preciso criterio di condotta, è largamente indeterminata rispetto alle azioni, inoltre in questa logica si deduce il dover essere dall’essere di fatto. Nemmeno la prospettiva kantiana di ragion pratica è utile al fine di essere un criterio per individuare una vita buona: si definisce questo modello quisle della ragion pratica pura. Essa prescinde da ogni inclinazione della natura umana. laine è insufficiente il principio che rende pratica questa ragione, una motivazione alla libertà che

49

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Il principio che rende pratica la ragione e fornisce una motivazione alla volontà può essere solo l’apprensione del bene come tale. Quando l’azione della ragion pratica è guidata da questo principio è indirizzo per la regola morale: «[La ragion pratica] diventa regola morale discriminante tra bene e male, tra vera e falsa felicità per il fatto che da se stessa [...] concepisce un ordine intenzionale dei beni umani in modo da costruire l’ideale della perfezione umana».!!5

Questa definizione indica l’azione della ragion pratica per la vita moralmente o veramente buona. L’analisi dei due paragrafi che seguono riguarderà le virtù e l’individuazione dei criteri guida della ragion pratica. Tutti questi aspetti saranno quella parte di felicità che dipende dal soggetto e che si deve confrontare poi con le disponibilità della realtà e la benevolenza degli altri. Vedremo in chiusura di queste riflessioni come si può parlare di vera felicità integrando questi tre aspetti. 1.2.6. Tre componenti della felicità

Nelle sue riflessioni Abbà fa emergere una domanda fondamentale: se sia sufficiente l’eupraxia a realizzare la felicità. La vera felicità, da un lato, sarà sempre attuarsi in modo eccellente: realizzare i beni pratici e morali, detti altrimenti beni basilari, con la volontà buona. È la condotta del soggetto, la sua eupraxia. Se questo è il lato della felicità che riguarda il soggetto, occorre tener presente il versante del mondo: cioè la disponibilità dei beni sostanziali e le attuazioni di “eudokia” — benevolenza — da parte delle altre persone e di Dio nei confronti del soggetto. Il nostro autore mette fra parentesi l’analisi della vita buona e si chiede se, in fondo, esista una possibilità reale di un progetto di felicità come quello descritto finora. Da un lato una rettitudine necessaria. Dall’altro la questione della felicità inclusiva, cioè le componenti che stanno “di fronte” al soggetto: gli altri e Dio, il mondo e i beni. Le migliori eccellenze virtuose del soggetto possono trovare l’insufficienza della disponibilità dei beni sostanziali, la componente dell’eudokia — la benepossiamo definire “pura”, senza condizioni. In realtà solo l’apprensione al bene come bene può fornire una ragione alla libertà. In Kant vi è un'autonomia della libertà, che significa però il permanere in una indifferenza e dunque incapacità naturale a muoversi verso il bene. Neanche la concezione “humiana” empirista è adeguata. Parte dal desiderio dell’uomo e non sa giudicarlo, in fondo nega la possibilità all'uomo di determinarsi. Cfr. Ip., Quale impostazione, 83-85 (Suarez); 96-102 (Kant); 129-138 (Hume).

!D Ip., Felicità, 53-54. Intenzionale nel senso di oggetto di volontà.

50

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

volenza degli altri e di Dio che viene incontro al soggetto — non esserci. Abbà menziona tre componenti per la felicità: la buona getto, la buona sorte, il buon volere altrui o la benevolenza che tutte queste componenti siano collegate. Non è possibile

che può esserci o volontà del sOgdi Dio. Occorre arrivare alla vera

felicità senza una connessione.

Se non c'è una garanzia, una possibilità di affermazione, di questa felicità inclusiva allora si perde la condizione per affermarla.!! Abbà sottolinea che questo problema è risolvibile solo se viene adottato un criterio filosofico, riguardante la natura della filosofia, che si amplia attraverso la conoscenza di Dio. La filosofia può essere cristiana nel senso che amplia il suo ragionare assumendo anche l’esistenza di Dio: «Ragionare sul senso della vita umana non esclusivamente a partire dall’uomo come soggetto pratico, ma dall’uomo che è soggetto pratico in un mondo che ha Dio per principio e che in qualche modo ha rivelato se stesso».!!”

Occorre qui l’intervento del filosofo cristiano. Solo se l'approccio è quello della filosofia cristiana si può ipotizzare Dio nel ragionamento riguardante la felicità. Essa è inscritta nell’ordine delle creature: il filosofo cristiano non può parlare di casualità del mondo. Esiste allora un'armonia creazionale che prevede l’intervento benevolo di Dio. È la filosofia teologica che dà ragione del primo argomento. Solo se acquisisce la consapevolezza che Dio governa il mondo e le azioni umane secondo un ordine sapienziale, una legge eterna che ha come principio d’ordine lo scopo ultimo con cui Egli crea e conserva le persone umane, cioè la loro vera felicità, il soggetto è come garantito per una prospettiva di felicità inclusiva. Da un lato l’eudokia divina è la stessa volontà di Dio in quanto vuole per

l’uomo un compimento integrale in Lui. Dall’altro l’uomo partecipa alla legge eterna. Quest'ultima è un dono con cui Dio governa le persone al loro fine: i soggetti hanno per partecipazione razionale una conoscenza del fine e dell’ordine divino come lo intende Colui che regge le sorti dell’universo. Tale coscienza è costituita dalla regola morale, “ordo rationis”. Attenendosi alla regola morale i soggetti collaborano al governo di Dio. Ora se

116 Ad esempio solo se ha un senso amare, se questa è una possibilità per il soggetto, possiamo dire che l’amore ha un senso per la persona: in caso contrario cadremmo in una contraddizione. avant

SI

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

l’effettivo successo nella condotta felice integrale non dipende dalle possibilità umane, dipende però dalla volontà di Dio. La volontà di Dio è volontà

di compimento di un soggetto umano capace di collaborare attivamente per realizzare la vera felicità: l’eudokia del Creatore. Grazie ad essa nel piano della creazione è contenuta l’intenzione che l’uomo sia felice e che la vera felicità sia realizzabile. Abbà si interroga sulla “garanzia” di questa felicità. La risposta vede

nell’azione creatrice di Dio stesso questa garanzia. Se la felicità è il fine della creazione occorre che Egli porti a compimento questa realizzazione: essa è

possibile in forza della benevolenza divina, Dio non viene meno. Di fronte a questo progetto però occorre l’apertura umana. Dio non può rendere felici senza adesione soggettiva ad una vita virtuosa: l'attuazione del

bene riconosciuto e voluto come tale dal soggetto. Dunque Dio vuole comunicare la propria bontà. Affinché le creature godano di questa benevolenza. La creatura razionale partecipa della bontà divina stabilendo una unione con Lui.

Questi temi sono espressi nel rimando all’opera iniziale dell’autore Lex et Virtus.!!8 In essa ricorda che per l’insegnamento cristiano anche le opere virtuose sono secondo la grazia di Dio.!! La vita virtuosa rende l’uomo degno di vera felicità. Il nostro autore sottolinea il fatto che affermare la felicità come “merito dell’uomo” è un concetto che va spiegato a fondo. Infatti dire che è un merito dell’uomo può voler dire

obbligare Dio. In realtà lo si comprende non nel senso dell’obbligazione da parte di Dio, ma come un ulteriore atto di attenzione da parte di Dio nei confronti dell’uomo. Affermare che l’uomo è degno dell'amore di Dio è riscoprire

la dignità che questo amore gli conferisce e che l’uomo riconosce nell’indirizzarsi al fine sommo. Per comprendere questa “degnità” è possibile una analogia tra vita virtuosa ed amicizia tra esseri umani. Nell’amicizia non c'è costri-

zione, ma libertà, eppure si può dire che un soggetto merita, se virtuoso, di essere amato dall’altro. Nella buona volontà del virtuoso troviamo basato sulla fedeltà e benevolenza di Dio.!?°

un merito di convenienze |

118 Ivi, 73 (nota 113): G. ABBÀ, Lex et Virtus, LAS, Roma 1983, 142-173.

!° Cfr. S ThIII 100,2. In questa quaestio l’espressione fondante: «Ordo virtutis, qui est ordo rationis». 12° Ip., Felicità, 74. Per approfondire queste questioni di una filosofia che ha una apertura teologale, in particolare in una reinterpretazione di Tommaso, cfr. Ip., Costituzione epistemica, 292-309.

pp)

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

1.3. L'azione delle virtù 1.3.1. Necessità delle virtù

Lanalisi di Abbà in merito alla felicità ha mostrato la necessità del dirigersi moralmente per il soggetto. Voglio ora soffermarmi sul perché sono necessarie le virtù per questo dirigersi moralmente. La tesi del filosofo salesiano, ripresa da un'originale e autentica interpretazione di Tommaso, sostiene che l’individuo non può accedere alla vita buona se non potenziando le sue capacità operative mediante le virtù.!2! Per la vita buona non basta che il soggetto attui le sue capacità in modo ridotto o parziale, oécorre che le attuazioni siano eccellenti. Abbiamo allora una duplicità del significato di virtù: a) atto che è virtuoso; le virtù sono qualità esibite nelle attuazioni eccellenti dei soggetti; b) virtù come “abito” — habitus: trasformazioni delle potenzialità operative che assumono qualità morali permanenti. Nella storia della morale dopo Tommaso le virtù sono state ridotte a delle caratteristiche che permettono alla volontà di attuare la legge, la stessa riduzione che ha avuto la filosofa morale ridotta ad etica normativa: di fronte alla fissità di una decisione morale, decisione motivata dal dovere, la volontà è libera e le virtù spingono e sostengono la volontà nel decidere secondo le norme.! L'approccio delle virtù invece richiede una filosofia dell'educazione morale adatta. Se non vi è un'adeguata educazione all’interesse per condurre una vita buona, l’interesse per queste attuazioni eccellenti viene meno. Inoltre le capacità operative del soggetto vanno potenziate, elevate, per poter garantire un buon governo della vita umana. Senza una appropriata educazione l'individuo non comprende l’interesse e l’attrattiva per le attuazioni eccellenti. Come se le sue capacità operative, che costituiscono la sua dotazione naturale, fossero insufficienti a garantire una condotta che implichi il bene autentico. La vita buona consta di azioni concrete che devono mostrare una qualità morale rilevante, le innate convinzioni umane sono qualità troppo

generiche, occorre sviluppare una conoscenza morale più alta. Riassumendo, è possibile vedere delle mancanze a due livelli: a) nella natura specifica umana. Essa non effettua scelte concrete al bene da se stessa nonostante la regola morale innata, fai il bene ed evita il male, e le tendenze naturali ad una serie di beni. Le inclinazioni naturali non sono

121 Ip., Felicità, 67-69.

22 Questa è l'impostazione kantiana sulle virtù.

DI

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

necessitanti come lo è invece la tendenza alla felicità in senso inclusivo e formale;

b) nella natura individuale. Essa manifesta una pluralità di dimensioni viziose. Se manca delle virtù questa natura soggettiva nell’uomo mostra l’incapacità a raggiungere il bene. Le inclinazioni naturali nel soggetto, lasciate a

se stesse, non portano a raggiungere il fine, ma nell’eventualità peggiore anche ad un disordine. Occorre educare le inclinazioni con le virtù. La crescita delle virtù si radica nell’intelletto razionale e nelle passioni. 1.3.2. I tratti di carattere come qualità del soggetto

Il soggetto non riesce a giungere ad un giudizio ultimo pratico moralmente corretto se non dispone delle virtù sia nella ragion pratica che negli appetiti che caratterizzano le sue facoltà operative. La filosofia morale non deve sostituirsi a ciò che avviene “praticamente”, ma spiegare come funziona questo legame tra ragion pratica e necessità delle virtù per l’agire buono-morale.!?* Per donare ragione delle virtù un primo passo che compie l’autore che seguo è quello di un'analisi dell'esperienza morale che si riscontra a partire dal linguaggio descrittivo inerente ad essa. L'abbondanza terminologica di virtù e di vizi viene ad esempio testimoniata dalla narrativa dove incontriamo dei “caratteri in azione” di fronte a dei problemi esistenziali che spesso manifestano delle attitudini positive o negative. Se ci rifacciamo a questo tipo di esperienza è sintomatico il fatto che in essa non si troveranno norme di comportamento, non obbligazioni ma descrizioni di caratteri, che poi, ma solo in

maniera derivata, hanno anche una loro doverosità. Considerare una serie di qualificazioni in merito al carattere, ad esempio pigro, solerte, tirchio, lento, precipitoso, permette di comprendere che

esse sono qualità particolari del soggetto esibite nelle azioni umane. Il tratto di carattere non fa parte della natura specifica, ma attualizza le potenzialità della natura specifica in una certa direzione. La determinazione introdotta dai tratti di carattere avviene nei diversi principi di condotta, cioè nelle facoltà operative: sono disposizioni che operano un coordinamento funzionale di differenti principi di comportamento." Abbà distingue tra due tipi di tratti di carattere: morali oppure attitudinali. Questi ultimi indicano il grado di abilità rispetto al saper fare una certa cosa; essi non sono una qualità morale: sono legati a certe caratteristiche, ivi 159: 124 Se osserviamo, ad esempio, la tenacia, essa comporta una valutazione, una decisione, un contrastare una passione opposta al bene come la noia: una disposizione che coordina diversi tipi di comportamento.

54

CAPITOLO

PRIMO

— ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

anche tecniche, oppure legati alle attuazioni della ragione o delle passioni , perspicacia, intelligenza acuta, comprensione empatica.

Invece i tratti morali derivano dalle scelte del soggetto di tipo volontario che fanno conseguire una certa forma di vita, una certa condotta di vita: ad esempio avarizie o generosità, egoismo o altruismo e simili. 1.3.3. Dai tratti di carattere alle virtù Poiché i tratti di carattere sono delle qualità, esse potranno essere qualità posi-

tive o negative. Proprio questa. valutazione permette di passare dai tratti di carattere alle virtù.!? I tratti di carattere rendono attuali le potenzialità del soggetto agente o in modo conforme alla sua natura specifica o in modo contrario ad essa: nel primo caso sono delle eccellenze, nel secondo deficienze. I tratti attitudinali creeranno una qualità tecnica di eccellenza (ski//s) ed infatti sono espressi con dei termini che designano un’abilità o maestria. I tratti morali nelle loro eccellenze o deficienze sono invece definiti virtù o vizi. Il soggetto esibisce le une o gli altri nella sua condotta e nelle facoltà che

intervengono nel generare la stessa: nella volontà, nell’intelligenza pratica e nelle passioni che sono coinvolte nella generazione delle scelte libere. 1.3.4. Analisi del linguaggio morale: virtù e massime

L'autore che seguo è riuscito a dare una prima testimonianza dell’esistenza delle virtù attraverso la descrizione dei tratti di carattere. Un secondo passo sarà comprendere più a fondo il linguaggio morale, o meglio che esprime l’esperienza morale, il linguaggio attraverso cui si esprime la ragion pratica, in quanto regola di condotta. Esso ha infatti due tipologie principali: le proposizioni prescrittive — le massime della ragion pratica; nel massimo livello di astrazione — e i termini di virtù e di vizi.!°° Il problema è che se esiste perfetta identità tra virtù e massime non avrebbe senso distinguere tra prescrizioni morali e virtù, e più in generale non si capirebbe che cosa caratterizza etica della prima persona. In una prima spiegazione sommaria per comprendere virtù e vizi — come

eccellenze che esprimono la vita buona — occorre ricorrere alle massime. In esse è inclusa la razionalità pratica che regola la vita buona e che ha la sua espressione nel primo principio e nelle massime che ne esplicitano il senso. Tuttavia non è corretto identificare le massime totalmente con le virtù. Que-

sto perché le virtù sono — viste da un’altra ottica — qualità del soggetto agente

|

125 Ivi, 147-148.

126 Le massime: sono quelle proposizioni prescrittive che corrispondono al livello di astrazione cui appartengono i termini di virtù o di vizi. Cfr. infra cap. 1, c) 1.4.5.

DO

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

e della sua condotta. Occorre collocarsi dal punto di vista dell’“attore” che usa qualità morali per elaborare le sue scelte e le conseguenti azioni. Abbà ha compiuto un riscontro della presenza delle virtù con la precedente analisi dei tratti di carattere e del linguaggio morale. Ora propone una successiva specificazione che permette di precisare il significato dei termini di virtù dal punto di vista descrittivo e valutativo per approdare ad una definizione delle stesse virtù. 1.3.5. Le virtù come qualità del soggetto agente ed in riferimento all'azione Riferite al soggetto le virtù designano una qualità che lo caratterizza nell’agire

volontario. Questa qualità deve essere:'?” —

stabile: in particolare non solo estrinseca, cioè un’abitudine; ma intrinseca, recante una stabilità dovuta a motivazioni buone;!?8



uniforme: si tratta dell’uniformità dell’atteggiamento, con questo termine

significhiamo un criterio regolatore interno identico in comportamenti concreti del soggetto che resta lo stesso di fronte anche alla varietà delle situazioni.

Essa si caratterizza inoltre per questi secondi due punti:





determinazioni: le virtù introducono nel soggetto una determinazione che orienta la volontà in un modo ben preciso al bene. Abbà giustamente osserva che il concetto di determinazione delle virtù non è assoluto. Le virtù permettono sempre di scegliere anche in un senso contrario al loro orientamento: il soggetto rimane libero; disposizioni: esse sono connesse, per spiegarne una occorre servirsi anche

delle altre. Il termine disposizioni intende proprio questo coordinamento reciproco.

Qual è la differenza tra termini di virtù e di vizio? Essa nasce con una valutazione morale opera della ragion pratica in vista della vita buona vera. Una virtù deve avere un criterio all’esterno della stessa che ne giudichi l'idoneità al raggiungimento della vita buona. In caso contrario esiste il rischio che le virtù

127 !2* frutto !°

Tvr, 149-150. Ad esempio un individuo non desiste da ciò che è giusto nonostante la difficoltà. Il di questa disposizione è la stabilità. I termini di virtù sono molti: alcune, ad esempio, sono relative alla ragione (saggezza,

diligenza, docilità), alla volontà (giustizia, obbedienza, gratitudine, rispetto), altre alle passioni (coraggio, mitezza, castità, sobrietà).

56

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

entrino in contrasto tra di loro proponendo obiettivi contrari e differenz iati al

fine autentico del soggetto.!50

1.3.6. Definizione inclusiva e massimale di virtù

Come momento sintetico e riassuntivo del percorso proposto l’autore che seguo propone questa definizione di virtù inclusiva e massimale: «Le virtù sono disposizioni stabili e uniformi (a livello di atteggiamento) che introducono una determinazione nei principi operativi della condotta volontaria, in modo tale che questa eccelle nel realizzare la vita veramente e doverosamente buona, conforme alla regola della ragionevolezza pratica».!5!

In sintesi le virtù sono: qualità morali del soggetto; condizioni richieste per l'eccellenza. Le virtù definiscono la qualità morale del soggetto agente, qualificano moralmente il carattere dell'autore di condotta. Rimangono inoltre in lui come propensione ad intenzioni e scelte dello stesso tipo, definiscono chi egli sia a livello di scelte volontarie, determinano il suo essere morale che si manifesta nell’agire. Il nostro autore ricorda come le scelte siano il frutto di un processo che

risente anche della fragilità degli agenti. Talvolta vedere una decisione di fondo che permane immutata e coerente in ogni contesto è raro. Ancora di più si comprende come un soggetto esitante senta la forza delle virtù e sperimenti dunque l’attrattiva delle azioni che realizzano la vita buona. La vita veramente buona richiede non solo di compiere azioni giuste quanto all’intento immediato, ma anche rispetto alle circostanze e per dei fini globali

giusti: solo le scelte eccellenti realizzano questa prospettiva. Queste scelte eccellenti saranno le scelte virtuose, che sono caratterizzate dalla virtù: «La bontà morale delle scelte che esemplificano la vita veramente buona è una qualità complessa, alla quale contribuiscono la bontà morale del fine, dell’intento, delle circostanze. Dunque occorre che emerga una eccellenza (un essere virtuosi, una virtù) nello scegliere il fine, nel capire le circostanze, nel com-

piere azioni giuste in quanto all’intento (come oggetto di scelta)».!? 130 Abbà segue propriamente questa via, anche per rispondere a quei teorici della virtù che però la riducono ad un’autosufficienza che non riesce a risolvere conflitti morali generati da un contrasto tra diverse virtù. 131 Jvt, 155-156. Questa definizione necessita ancora delle spiegazioni in merito all’indirizzo della ragion pratica guidata dal primo principio della razionalità. Cfr. infra cap. 1 OA:

vi, 179,

57

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

È quanto ben affermato nelle riflessioni in merito alla felicità: occorre essere virtuosi per essere felici. Nel prossimo paragrafo seguo il filosofo salesiano nell’indagine su come si possa costruire la personalità del soggetto, un compito cui deve ri-appro-

priarsi la teologia morale, soffermandosi sulle dinamiche soggettive che vanno ricomprese da un punto di vista dell’analisi morale e non lasciate semplicemente all’analisi psicologica sperimentale. 1.3.7. Virtù ed agire del soggetto

La definizione delle virtù che ho riferito finora è esaustiva. Merita un approfondimento il descrivere le dinamiche del soggetto nell’indirizzarsi all’azione. Le virtù riguardano le facoltà operative del soggetto. Abbà esplicita le dinamiche interne che portano all’agire e che sono generate dall’indirizzo virtuoso. L'analisi si incentra sul legame tra l’agire del soggetto, in termini complessivi la sua condotta, e le virtù. Il fine di questa dinamica è raggiungere quella vita buona a cui il soggetto aspira. Il nostro autore, utilizzando l’analisi di Tommaso dell’agire umano, elabora una “psicologia” dell’azione nell’ottica delle eccellenze della condotta.!53 L'analisi si concentra sul soggetto in quanto autore delle proprie azioni. La teoria che meglio spiega questa prospettiva è quella di Tommaso: il processo di generazione delle scelte a partire dal desiderio di felicità.!54 1.3.8. Dalle intenzioni alle scelte

La ricerca procede dall’attore all’azione. L'analisi di Abbà parte dalla scelta che compie il soggetto agente: egli ha sempre delle ragioni per scegliere, giudica la convenienza all’azione in base a quella della ragione se vuole raggiungere la condotta ottimale. L'individuo ritiene nel particolare che quell’azione è conveniente a lui. Con la scelta il soggetto assume un giudizio come suo, inoltre esprime con essa quello che vuole essere. Con la scelta rende attiva e tangibile una certa intenzione buona. La concretizzazione dell’intenzione nella scelta è un'opera complessa e se ne dà conto vedendo l’opera di diverse facoltà, ad esempio posto che io voglia essere umile, giudico l’azione che più traduce questa umiltà. Avviene un giudizio in merito all’azione: se convenga all’intenzionalità generica. Questo momento prende il nome di deliberazione. Essa è principalmente opera della ragion pratica: sarà la ragion pratica che valuta l’idoneità di possibili corsi di azione per realizzare, nelle circostanze concrete, la concezione che il soggetto ha della vita buona e le intenzioni in 155 Psicologia nella visione della filosofia classica. 134 Cfr. STh I-II, 6-21.

58

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

cui essa si articola. Questa valutazione deve essere moralmente corretta, cioè

indirizzarsi a un bene reale per il soggetto, giudicato tale in base al fine di rea-

lizzare i beni umani basilari secondo la regola morale.!55

Una precisazione importante, che arricchisce questo punto di vista, è il

fatto che la ragione non valuta indipendentemente dai desideri raziona li e passionali e dalle disposizioni caratteriali del soggetto: il processo intenzi onescelta-azione dipende dallo stato appetitivo ed affettivo del soggetto. In particolare le passioni si fanno sentire maggiormente quando si avvicina il bene particolare e possono influenzate profondamente la deliberazione. Infine la ragione potrebbe moltiplicare all’infinito il processo a favore oppure contro una certa azione. Deve intervenire la volontà razionale per adempiere la deliberazione, essa cioè è chiamata a concludere il processo: sceglie una delle ragioni possibili per l’azione, si giunge così alla scelta. L'esecuzione dell’azione

richiede nuovamente l’intervento delle altre facoltà, ad esempio le passioni si fanno sentire di fronte all’attrazione di un bene in particolare. Esse non tengono conto del bene generale. La ragione sarà indotta dalle passioni: solo se ben ordinate muovono al bene vero.

In questa lunga analisi del processo deliberativo l’autore che seguo, utilizzando ampiamente la riflessione della Summa Theologiae in merito all’atto umano, ribadisce che la decisione che emana da una volontà neutra e indifferente non esiste. In fondo la decisione pura del soggetto — secondo la concezione kantiana — la libertà che decide in modo indifferente, volontà indifferente ed incondizionata da passioni ma anche senza spinta al bene, non esiste. Il processo della scelta è sintetizzabile attraverso uno schema che parte dal soggetto per giungere all’azione.'5°

sente 1] Intenzioni (scopo) ITA

Loc DI I A TI

TI

Siamo di fronte ad un processo complesso e delicato che può portare a dei fallimenti. !35 Il criterio della ragion pratica per effettuare questa scelta sarà specificato in seguito:

cfr. infra cap. 1,0) 1.4.2. 136 Cfr. G. ABBÀ, Felicità, 171-173.

DI

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Solo nelle scelte compiute e particolari si mostra il vigore o la debolezza morale del soggetto agente, le sue eccellenze o deficienze morali. Egli è un decisore forte (strong evaluator).!” È insufficiente stabilire una volta per sempre un'opzione fondamentale irrevocabile, mentre essa è revocabilissima proprio nelle intenzioni, nelle scelte e nelle azioni del soggetto.'**

1.3.9. Le virtù nelle dinamiche di scelta

Attraverso questi processi, che hanno descritto le dinamiche dei soggetti e l’azione delle loro facoltà operative, il filosofo salesiano può ora giustificare l’azione delle virtù quali disposizioni stabili ed uniformi che introducono una determinazione nei principi operativi — ragione, volontà, passioni — della condotta volontaria. A partire dall’analisi psicologica dell’agente vista prima, le virtù fissano le

stesse intenzioni su scopi giusti che specificano la vita veramente buona ed inoltre consentono di cercare e scegliere azioni che rendono concreta l’intenzione in un modo appropriato sia alle circostanze che conveniente al soggetto. Le virtù sono “habitus”. Questo termine connota sia una qualità del soggetto che un modo di essere disposto verso qualcosa.!?? 139 Le virtù introducono

nelle facoltà operative della condotta volontaria una disposizione stabile che le caratterizza in modo permanente. Esse forniscono una preparazione adeguata che permette la scelta morale più articolata e ricca, permette di scegliere

in modo moralmente perfetto. Nella dinamica dell’azione le facoltà operative devono essere virtuosamente formate. Le virtù per l'agire pratico si distinguono in saggezza e virtù morali riguardo la volontà e gli appetiti.!4 Ripercorrendo le dinamiche dell’azione si individua la collocazione delle virtù.

LENTA MIRI 198 Abbà attraverso il processo descritto critica l’opzione fondamentale,

negandone

l’esistenza effettiva. In sintesi in questa teoria il soggetto determina se stesso in un atto in

cui prende posizione di sé di fronte al bene. Questa opzione avviene alivello trascendentale di coscienza, in opposizione a quello categoriale. Essa non cade sotto la nostra conoscenza, è previa alla conoscenza oggettiva. L'opzione fondamentale è indipendente dalle scelte categoriali. La psicologia classica dell’azione descritta fa da contrasto a questa concezione perché sempre nel categoriale il soggetto si indirizza moralmente. 159 Tv, 175 (nota 23): S Th I-II 49,1.

4° G. ABBÀ, Felicità, 177. Questa eidetica delle virtù, la loro specificazione e comprensione non è troppo approfondita dall’autore proprio perché il suo intento è di fornire un quadro teoretico generale per le virtù.

60

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

È la ragione che è naturalmente capace di fornire i principi regolatori della vita veramente buona, ed in particolare nell’azione del primo principio. Le virtù intervengono nel fissare questi scopi, nel far sì che siano in un desiderio stabile del soggetto: occorre poi determinare volontà e passioni verso questi scopi retti, perché entrambe le facoltà possono modificare gli scopi stessi, fanno apparire “in particulari” uno scopo conveniente al soggetto piuttosto che un altro. È importante il ruolo degli appetiti passionali poiché le passioni sono moti cognitivi di tipo sensitivo: ciò che piace e non piace. Esse attraverso

le virtù sono “educabili” verso una persuasione razionale. Attraverso le virtù il soggetto può modificare il suo atteggiamento cognitivo. A questo punto re-interviene la ragione: non più nel prescrivere scopi, ma a

servizio delle rette intenzioni. Mossa dalla retta volontà e dalle rette passioni cerca di concretizzare gli scopi: perché la ragion pratica fissi un'azione giudicata conveniente dovrà utilizzare una speciale virtù che favorisca questo giudizio pratico ultimo. Essa è la saggezza: phronesis o prudentia.!*' La struttura psicologica della virtù appare sempre complessa: essa è perfezione del carattere che implica sempre ragione, volontà ed appetiti in una loro azione ordinata e comune. 1.4. Criteri di razionalità che dirigono le virtù

14.1. Vita veramente buona e razionalità

Come ho riportato, nel seguire il discorso di Abbà sulla felicità, egli reinter-

pretando Tommaso costruisce il suo pensiero morale su un fine che il soggetto ha per il suo agire pratico. Sarà il realizzare la vita buona, componente della felicità legata al soggetto. I soggetti si indirizzano in un tipo di ricerca che è pratico. La filosofia morale studia l’esercizio diretto della conoscenza pratica per chiarirne i prin-

cipi guida. Essa vuole ricuperare i principi propri della razionalità e conoscenza pratica.! In queste pagine la preoccupazione è allora di far emergere,

o meglio esplicitare, a partire dalla situazione pratica originaria, i criteri di

una razionalità morale che conduca al fine proprio del soggetto, cioè alla feli-

cità vera.

Infatti la felicità cercata, il dirigersi al bene che porta alla felicità, può

condotta anche essere non autentica. Il problema che sorge è quello se nella tutte le ciascuno esprima un proprio concetto della vita buona perché non concetto Il buona. te concezioni della stessa corrispondono a quella veramen 41 “Practical wisdom” in inglese. 142 Ip., Quale impostazione, 313.

61

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

di vita buona è uguale per tutti, la concezione di vita buona è diversa: varia il modo in cui essa si realizza.

Nelle pagine seguenti Abbà individua il criterio della vita veramente buona, cioè la possibilità di regolare la vita veramente buona attraverso il primo principio della moralità. Se la vita buona è lo scopo della prassi essa sorge implicitamente nei beni che cerco e nell’ordine che dono loro. Centrale diventa individuare un criterio giusto in base a cui il soggetto deve ragionare praticamente, volere, sentire

affettivamente, nella ricerca e nell’ordine dei beni umani operabili.!# La giustezza di questo criterio si desume dalla sua razionalità pratica, cioè dalla sua coerenza con la nozione di bene. “In pratica” la ragione giudica che una certa realtà del mondo e l’azione del soggetto nei confronti di essa costituiscano un

perfezionamento per il soggetto: un bene come compimento, un realizzare la vita buona.

Ì

«Principio di moralità [sarà] quel criterio di ordine tra i beni umani maggiormente coerente con la nozione di bene».!9°

Inoltre deve rispondere ancora ad una caratteristica, deve essere un appren-

dimento del bene massimale: cioè un compimento ottimale dell’ordine dei beni possibili. Questo vuol dire, ad esempio, che il principio della moralità permette di

valutare i propri desideri per poter raggiungere una vita buona: il soggetto diventa un valutatore forte (strong evaluator), capace di valutare i suoi desideri

dal punto di vista superiore di una concezione vera della vita buona. Il termine “principio” esprime questo presupposto alla argomentazione morale. Esso è all’origine della stessa. Alcuni autori lo identificano attraverso un'induzione — astrazione — dalle proposizioni morali che il soggetto incontra, dall’ezhos di gruppo, dalla tradizione che mostri il fondamento ultimo di questi giudizi morali.!49 Il filosofo salesiano critica questa impostazione. Il principio deve essere unico: altrimenti nascono dei conflitti tra norme, doveri, virtù. Il percorso per 143 Ip., Felicità, 188 (nota 4): S Th HI 1, 7c; I-II 5, lc.

N

‘44 Ragionare, volere, sentire non sono scelti a caso perché indicano la sfera di azione delle virtù. 15 Ip., Felicità, 191.

© Ivi, 192. Può essere fondato sulla tradizione della propria comunità come per MacIntyre o sul carattere del soggetto formato dalla sua storia personale in Hauerwas, per

ricordare due autori che hanno contribuito in modo notevole a queste tematiche. La critica dell’autore è che la tradizione in cui si generano i principi rischia di creare una pluralità di principi buoni e dunque una pluralità di concezioni della vita buona.

62

CAPITOLO

PRIMO

— ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

individuare un unico principio è nel guardare prima alla volontà, non ai beni, non ad uno stato di cose.” La volontà non può sostenere un conflitto morale irresolubile: non può volere il bene e il non bene contemporaneamente. Il conflitto sarebbe possibile se il principio della moralità riguardasse uno stato di cose e non principalmente la volontà. Uno stato di cose può comportare dei mali fisici. La ragion pratica opererà in base al primo principio, esso è costitu-

tivo per la ragione, i suoi giudizi pratici sono coerenti con tale principio. Ora

se la volontà aderisce a tali giudizi pratici, nelle sue intenzioni e scelte, sarà

conforme al principio della moralità. Dunque la volontà non potrà contemporaneamente volere e non volere quell’ordine dei beni che rappresenta il compimento integrale dell’uomo. 1.4.2. Il primo principio della moralità

Il filosofo salesiano inizia la sua riflessione inerente il primo principio con una definizione di Germain Grisez: «Agendo volontariamente per i beni umani ed evitando ciò che si oppone ad essi, uno deve scegliere (o volere in qualche altro modo) quelle e solo quelle possibilità, il volere le quali è compatibile con una volontà rivolta al compimento umano integrale».! Egli arricchisce questa formulazione in cui sono coinvolti i beni umani e

le persone. Manca in essa l’aspetto dell’agire umano, cioè dell’agire in vista di un fine.' Nell’agire volontario è presente un fine ultimo unico come visto: una subordinazione infinita di fini non darebbe origine ad una volontà definita. Allo stesso tempo è indubbio che l’uomo tenda a molti beni, e che molti

beni sono necessari al suo compimento." Per tenere assieme molteplicità e fine ultimo occorre determinare un ordine tra i beni: ogni bene riceve una nuova dignità dalla sua ordinabilità a un bene

più eccellente, perché più perfetto. Allo stesso tempo mantiene il suo specifico

147 Ivi, 193. Ricordiamo che la volontà è l’appetito il cui oggetto è il bene così come è giudicato dalla ragione: dunque a questo livello non ci può essere conflitto. Alla volontà i beni umani sono presentati dalla ragione pratica come un certo ordine che presenta il compimento ottimale dell’uomo. 148 Tv, 194: G. GriEsez, Zhe Way of the Lord Jesus, I: Christian moral principles, 183-189. Gemain Grisez è l’autore di riferimento per la formulazione contemporanea del primo principio di razionalità e dei beni basilari. Egli è uno degli autori principali della "New Natural Law Theory” insieme a John Finnis. 149 Ancora una volta con l’apporto dell’Aquinate: cfr. S Th I-II,1-5. 150 Questo processo spiega il valore delle realtà terresti nella impostazione di Tommaso, cfr. G. ABBÀ, Felicità, 195 (nota 15).

63

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

non diventando cioè un mezzo in vista di un fine. Dunque unico criterio coe-

rente con la nozione di bene è il criterio della perfezione." Se si considerano i beni dal punto di vista dell’eccellenza, allora entrano

in gioco quei beni che sembrano avere le caratteristiche del bene perfetto: piacere, ricchezze, fama, onore, scienza fino a Dio.!? Alle capacità naturali

dell’uomo non è consentito però un rapporto perfetto o immediato con il bene perfetto; è solo consentito un rapporto imperfetto Questo non vuol dire che allora Dio è un fine ultimo concreto — fine dominante — e determinato, capace di terminare insuperabilmente ogni desiderio della volontà: significa una capacità imperfetta della conoscenza di Dio mediante la ragione ed allo stesso tempo il mantenere un ordinamento volontario di tutte le realtà a questa che rimane quella suprema. È sufficiente che il soggetto nelle sue scelte si indirizzi a qualcuno dei beni umani e che la sua volontà, in tale azione e per tale bene, resti ordinabile al compimento umano ed al coronamento nel bene perfetto. Grazie a tutte queste argomentazioni è possibile una nuova formulazione del primo principio di moralità: «Agendo volontariamente per i beni umani ed evitando ciò che si oppone ad essi, uno deve scegliere (o volere in qualche modo) quelle e solo quelle possibilità, il volere le quali è compatibile con una volontà intenta alla perfezione in

Dio per ogni persona umana».

Questa definizione globale del primo principio della moralità umana regola la ragion pratica e conseguentemente la vita veramente buona. Se il soggetto vuole il compimento umano integrale non vi è preclusione a volere la perfezione in Dio. Anche se quest'ordine a Dio non è attualmente intento, il modo di volere un bene umano in uno stato di cose deve essere di per sé ordinabile a Dio. Cioè la perfezione di una persona in Dio deve restare intenta anche se non attualmente realizzabile in uno “stato di cose”. Invece un bene che non è ordinabile al bene sommo si sottrae a questa razionalità. Il primo principio appena enunciato fa riferimento solo alla volontà, ma la condotta è frutto delle capacità operative dell’agente. Dunque il primo principio sarà criterio di indirizzo per la ragione, la volontà e le passioni del soggetto ed attraverso la regolazione dello stesso il soggetto raggiunge la vita veramente >! I beni umani in vista della perfezione sono preceduti dai beni basilari, la volontà li vuole perché senza di essi, dice Tommaso, non si crea questa gradualità, e non si accede al bene più eccellente. Cfr. $STh I II 10, 1ad; 2, 3; S ThIII 94, 2 ad.

2 Tommaso stabilisce che il bene perfetto dell’uomo consiste nella beatitudine in Dio. 153 G. ABBÀ, Felicità, 196.

64

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

buona. Nella definizione del primo principio sono esplicitati i criteri secondo cui si esprime la verità della vita buona: essi sono i beni umani, la perfezione e le persone. Quindi un'ulteriore precisazione dello stesso può essere: «La vita veramente buona è pensare, volere, sentire affettivamente in modo da

essere aperti alla perfezione di ogni persona in Dio».

1.4.3. I principi di regolazione delle singole virtù La necessità di un primo principio della moralità è al centro della riflessione di Abbà. Il passaggio logico successivo deve spiegare come rendere questo criterio, che resta ancora privo di contenuto, un criterio che entra nell’ottica della scelta pratica: come il soggetto si orienta attraverso il primo principio della moralità per poter giudicare ed effettuare delle scelte molteplici buone.! Questo legame si forma attraverso le virtù. Esse permettono di pensare,

volere e sentire affettivamente in modo conforme al primo principio. Le virtù sono disposizioni ad azioni eccellenti guidate dal primo principio della moralità.!5° Voglio ricordare che le virtù rappresentano una componente necessaria per dirigersi moralmente perché il soggetto è impreparato a raggiungere un bene autentico senza l’apporto delle medesime. Tommaso, nella // pars della Summa Theologiae, proprio per risolvere questo problema si dota di una teoria delle virtù.” 14.4. Gli habitus virtuosi

Riepilogo alcuni passaggi dell’impostazione, in merito alle virtù, fino a qui seguita dal filosofo salesiano: 1) la condotta umana è un modo di volere, in connessione con un modo di pensare ed un modo di sentire affettivamente, in relazione ai beni umani. Nella condotta si distingue una regolazione attiva da parte della ragione

fino al giudizio pratico giusto. Anche volontà e passioni sono facoltà rego-

late dalla stessa ragione. Esse sono in parte indeterminate per raggiungere scelte moralmente perfette: 23 Vi1198. 155 L’ordine dei beni che il soggetto persegue attraverso le scelte è regolato dal principio primo.

Pan

il 156 Un'azione virtuosa quando è regolata dal primo principio può essere, ad esempio, la bisogno; nel è chi soccorrere il come intesa coraggio di un atto buono; la misericordia generosità intesa come il donare delle cose a chi ne necessita. o che corrisponde !57 Per Abbà questa idea è il vero apporto del contributo di Tommas i da altre teorie trascurat sono ti altrimen che all’esperienza morale, recuperando aspetti dell’etica della prima persona e delle virtù.

65

LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ

a) la ragione ha la possibilità di errare nel giudizio, risente dell'intervento delle passioni, può incontrare difficoltà nella ricerca del bene; b) la volontà, per natura, è aperta al bene, ma può subire delle incertezze: fa fatica a scegliere quello che viene proposto dalla ragion pratica, nascono altri interessi; c) le passioni possono rimanere isolate, chiuse su un obiettivo preciso,

orientate al semplice piacere. 2) Non è da escludere che esista una dotazione naturale alle virtù che può venire definita come un'attitudine ad acquisire le medesime. Essa è già presente nel soggetto. Ma se lasciate a se stesse queste inclinazioni — habitus naturali — possono rimanere solo ad un livello embrionale e causare anche il contrario dell’azione virtuosa.!58 Una definizione di virtù è quella che segue: «Un potenziamento delle facoltà operative dell’individuo per metterle in grado di produrre le scelte moralmente eccellenti conformi alle richieste della natura specifica, cioè della ragion pratica».

Questa definizione viene arricchita da Abbà con un'importante distin-

zione che ha percorso il significato di virtù in tutta l’analisi precedente. Le virtù sono:!°0 — eccellenze esibite negli atti, una qualità buona, una perfezione, immanente —

ad essi; gli habitus che l’individuo umano delle sue facoltà.

deve acquisire come potenziamento

Le virtù nel primo senso sono specifiche eccellenze del vivere bene. Sono specificazioni richieste della regola morale quando questa viene intesa come regola della vita veramente buona. L'etica delle virtù spiega la regola morale

precisamente come regola delle virtù: gli appetiti vengono regolati perché la vita sia veramente buona. Nel secondo senso le virtù completano le facoltà coinvolte nella produzione

delle scelte, ognuna consisterà in una inclinazione regolata dalla ragione. Il soggetto virtuoso guiderà le sue scelte ed azioni in modo da realizzare dei fini virtuosi. S

158 Abbà non approfondisce in modo sistematico la questione delle inclinazioni, anche se ne riconosce la presenza indicandole con i beni basilari che si devono perseguire e sottolinea la necessità che siano indirizzate dalla razionalità pratica attraverso le virtù. te Ivig216: 160 Cfr. Iv, 244-250. L'autore la specifica in una aggiunta della seconda edizione del testo perché era rimasta implicita formalmente.

66

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

La definizione specifica di virtù dovrà dunque indicare: a) il principio razionale secondo cui avviene la regolazione delle stesse ovvero le massime virtuose. Attraverso le massime, le virtù vengono esplicitate in una definizione specifica; b) mostrare a che cosa inclinano: gli scopi virtuosi. 1.4.5. Le massime

Per definire meglio i criteri guida delle virtù, un interessante rimando di Abbà è in merito all’analisi del linguaggio morale. In esso abbiamo dei termini che indicano le virtù ed altri che indicano delle proposizioni prescrittive, quelle che poi il nostro autore definisce come massime che saranno la declinazione del primo principio della moralità. Virtù oppure vizi, non designano le singole azioni, ma la qualità gene-

rica che singole azioni esibiscono. Esse non rimangono solo nella descrizione astratta, ma vengono utilizzate per definire il soggetto a cui viene attribuita la qualità generica delle azioni che egli compie: un certo individuo è coraggioso. Il linguaggio della ragion pratica comprende anche proposizioni prescrittive. Il soggetto logico è costituito dalla descrizione dell’azione; il predicato logico qualifica l’azione da un punto di vista morale: restituire agli altri è doveroso, essere riconoscenti ai beneficiari è giusto. Queste proposizioni prescrittive possono essere astratte o concrete. L’astrazione è il criterio per dire se

abbiamo a che fare con principi generalissimi, intermedi, norme. Ad un certo livello di astrazione il soggetto logico delle proposizioni prescrittive, le massime — fare questa determinata cosa — descrive l’azione allo stesso modo che corrisponde ai termini di virtù o di vizi, cioè rilevando una qualità generica che può essere esplicata in azioni concrete differenti. Ad esempio: moderare i desideri — per il punto di vista del bene — è doveroso: individuando così la temperanza; dare a ciascuno il dovuto è giusto; individuando la giustizia. Questa corrispondenza tra virtù e massime va meglio precisata, e per questo seguo innanzitutto il legame tra massime e razionalità, per poi vedere

come l’analogia linguistica esprima una corrispondenza nella dinamica della ragion pratica stessa.

Il termine “massime” è una specificazione del primo principio, specificazione legata alle virtù che indirizzano le facoltà operative. Le massime stanno 161 Questa specificazione ci permette di non incorrere nell’errore di pensare che le virtù siano qualcosa di “materiale”: sono inclinazioni razionali per le scelte della vita buona. .

.

Di

D

.

.

x

67

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

a metà strada tra il primo principio e le norme più specifiche. È possibile defi-

nire le massime principi regolatori delle virtù nell’insieme delle proposizioni pratiche. I principi che regolano le virtù però non sono ancora delle specificazioni morali precise. Essi sono i criteri attraverso cui avviene la valutazione morale: le virtù si indirizzano attraverso queste massime per regolare le facoltà operative.! Bisogna indicare come il primo principio regoli tutte le facoltà operative: volontà, passione, ragione. Ognuna di queste facoltà operative avrà una massima specifica. I principi regolatori possono anche essere detti massime.!93 Riepilogo nei punti seguenti:

a) massima è una determinazione della volontà legata al perseguimento dei fini e non solo alla legalità di un comportamento esteriore;'* b) hanno la caratteristica dell’unità: un’'uniformità; c) “regole” generiche che il soggetto assume intenzionalmente per se stesso

come criteri che intende seguire: ad esempio un autore di condotta vuole realizzare la giustizia; d) non sono regole delle nostre azioni, ma regole del nostro modo di volere; e) formano una catena di sillogismi, dove esse sono le proposizioni pratiche più elevate, servono a dedurre senza essere dedotte;

f) se una massima è per esempio: “sopportare un insulto senza vendicarsi” ad

essa potranno corrispondere delle regole di condotta diverse a seconda di soggetti.! Non si può una volta per tutte stabilire come una massima corrisponda a delle realizzazioni in azioni precise.!°

!6 Tvi, 217-218. C'è analogia tra i principi regolatori e quello che G. Grisez definisce come i modi di responsabilità. Dal primo principio della moralità nascono dei modi di responsabilità che permettono la specificazione del medesimo. Manca però una considerazione delle virtù. Esse sono posteriori alle scelte buone, mancando una teoria dello sviluppo delle scelte, manca l’idea che le facoltà umane non sono preparate per produrre eccellenze morali. Come afferma Abbà i modi di responsabilità non specificano «il modo in cui le facoltà operative devono essere regolate, ma [solo] il modo in cui la volontà deve volere per

restare aperta nelle scelte al compimento umano integrale senza interferenza o ostacolo da parte delle passioni». : !9° Ivi, 219 (nota 58): O. HòrrE, Introduction à la philosophie pratique de Kant, Albeuve

1985, 82-94. Quest’autore segue un approccio kantiano. '64 Ricordo come il primo principio non sia legato ai beni, ma alla volontà. '° G. ABpà, Felicità, 220. Segnalo che se una massima deve essere, secondo quanto detto sopra, “simile” alla virtù sarebbe: «Sopportare un insulto senza vendicarsi è fortezza». Il predicato esprime una qualità morale. Questo esempio è derivato da Kant: Ivi, 220 (nota 62): KANT, Critica della ragion pura, $ 1. ‘°° Questo perché le regole di condotta debbono poi confrontarsi con il particolare delle

68

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

1.4.6. Gli scopi virtuosi

Il nostro autore pone però un ulteriore chiarimento apportato dalla prospet-

tiva tomista. Le massime sembrano simili a delle norme generali, sono analo-

ghe a delle regole generali. In realtà le massime sono qui osservate da un’altra prospettiva e vengono definite “scopi”. Gli scopi virtuosi non sono qualcosa di diverso dalle massime, ma solo riguardano il processo decisionale all’agire del soggetto. Per ogni virtù morale il proprio atto virtuoso, definito genericamente tramite massima, costituisce lo scopo virtuoso; esse inclinano a pensare, volere,

sentire affettivamente secondo le massime.!7

Le virtù rispondono alle massime, ma non solo “leggi astratte”, ma eccellenze esibite nella condotta virtuosa. Abbà cita questa bella definizione che riprende da William Frankena: «I principi senza i tratti di carattere sono impotenti, i tratti di carattere senza

i principi sono ciechi».!98

Decidere significa una dimensione non in “universali”, ma in “particulari”, cioè non solo sulla base di principi, ma sui desideri e caratteri dell’agente e in circostanze precise. Le azioni che saranno determinate dalle virtù — che incorporano la razionalità delle massime — costituiscono lo scopo cui tendono le intenzioni virtuose. Gli scopi possono essere delle intenzioni rappresentate in modo generico: sono le massime. Lo scopo ha di mira una dimensione

morale in vista di azioni concrete, ma ancora in modo generico.” Gli scopi virtuosi, quando sono oggetto di intenzioni, ad esempio intendo essere giusto, sono ancora generici, sono al livello delle massime.!”?

Infine la prudenza li tradurrà in una determinazione circostanziata rispondente all’essere giusto. A questo livello la ragione non delibera solo sulla base delle massime, in universali, ma sulla base delle intenzioni della volontà e

degli appetiti, cioè con le disposizioni volitive ed affettive. Solo grazie alle situazioni, perché potrebbero nascere delle eccezioni profonde, delle determinazioni concrete diverse. Le massime hanno una validità che non si riferisce al particolare. 167 Se vedessimo le virtù solo come eccellenze ci sarebbe il pericolo di ricadere in unetica della prima persona. 168 G. ABBÀ, Felicità, 225: W. FRANKENA, Ethics, 1973, trad. it., Ip., Etica, Edizioni di

Comunità, Milano 1981, 143. 19 Queste considerazioni debbono tener conto del processo di decisione morale del sogl getto: intenzioni, scelte, azioni. Cfr. supra, cap. 1, c) 1.3.8. 170 Ad esempio, la volontà che vuole realizzare la giustizia è guidata dallo scopo di dare all’altro il dovuto. 171 G. ABBÀ, Felicità, 226.

69

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

intenzioni virtuose attualmente operanti il soggetto riconoscerà come conve-

niente a lui l’azione, regolata secondo giusta misura e messa a punto dalla prudenza.” Le motivazioni giuste — gli scopi virtuosi — consentono al soggetto di scegliere le azioni giuste che diventano allora mediazioni concrete delle proprie intenzioni virtuose. Questi scopi virtuosi possono essere anche impliciti.

1.4.7. La regola morale Le virtù sono indirizzate dalle massime, la razionalità pratica che è inerente a ciascuna virtù le guida e viene identificata attraverso quelli che Abbà definisce scopi virtuosi. Un elemento che viene precisato per capire più a fondo il

discorso morale è quello della regola morale. L'etica delle virtù spiega la regola morale come regola delle virtù, cioè come “ordo virtutis”. Per comprendere più a fondo questa affermazione, e le virtù stesse, occorre ricordare che esse possono assumere due significati, duè punti di analisi diversi:

— sono eccellenze esibite negli atti, una perfezione immanente ad essi; —

sono gli habitus che l’individuo umano mento.

deve acquisire come potenzia-

l’autore che seguo afferma: «L'etica delle virtù spiega la regola morale precisamente come regola delle virtù [...] poiché il soggetto virtuoso intende regolare le sue scelte e le sue azioni secondo diversi modi di regolazione, questi possono essere designati

come fini virtuosi».!7*

Essa è diversa dall’etica normativa che spiega la regola morale come un insieme di norme. Gli scopi virtuosi indirizzano, ma poi le azioni susseguenti derivano sempre da una dimensione inventiva. Le eccellenze non sono concretizzabili se non attraverso una saggezza pratica. La regola morale in termini di virtù significa riferirsi sempre all’azione razionale della prudenza, che esercita

qualità inventive e compositive rispetto alle singole azioni. La regola morale come regola delle eccellenze virtuose richiede una specifica: in questo caso Abbà spiega direttamente la proposta di Tommaso. Per

l’Aquinate il primo precetto della moralità naturale è «il bene è da fare ed il male da evitare»; ma anche primari sono i precetti di amare Dio ed il prossimo.!7* È di fondamentale importanza comprendere che la regola morale non è però immediatamente nota alla ragione umana. La sua conoscenza si sviluppa

‘7? Intendo essere giusto, allora capisco prudentemente che posso fare x. 178 Ivi:245.

17 S Th I-II 94, 2. Per l’amore del prossimo e di Dio, cfr. S Th I II 100, 3.

70

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

da dimensioni generiche — i principi — alla perfezione nella ragione di chi pos-

siede le virtù perfette. Le eccellenze virtuose si sviluppano a partire da “semina virtutum”. Il soggetto agisce perché spinto dalla sua volontà: desiderio naturale di quello che può essere riconosciuto come un bene, fino al bene perfetto che sazia questo

desiderio. Occorre regolare il desiderio, gli affetti e le passioni che i beni suscitano e questa operazione sarà possibile solo attraverso azioni che siano

compatibili con le eccellenze virtuose. Esse sono l’unico modo di raggiungere

la regola morale.!7° I beni raggiunti seno il contenuto. Le virtù la forma. In altri termini le eccellenze virtuose danno forma alle inclinazioni, al desiderio, agli affetti, alle passioni che si indirizzano ai beni: forma, cioè ordine, richiesta perché il desi-

derio venga determinato nelle singole scelte dei beni in modo da essere coerente con il bene perfetto.!” Se invece si discutono le virtù come disposizioni delle facoltà operative, la

ragion pratica mostra a queste degli obiettivi razionali, in funzione cioè del vero bene umano e della vera felicità. Le potenze appetitive per raggiungere questo bene autentico sono rettificate dagli habitus virtuosi, detto altrimenti

danno loro forma secondo la regola morale.

La regola morale va spiegata in termini di eccellenze virtuose perché essa regola, ordina gli appetiti in vista del vero bene umano: prima indica i fini virtuosi generici a cui gli appetiti devono indirizzarsi, poi con la saggezza pratica precisa obiettivi concreti appropriati ai fini virtuosi. La scelta nasce da previ appetiti rivolti a fini generici da concretizzare.

175 Questo è un desiderio della volontà e della ragione. Svolge funzione cognitiva: la volontà spinge al bene che la ragione ricerca guidata dal primo principio. Cfr. anche S Th I-II 8-10.

76 Il bene altrui perseguito con giustizia; il bene personale perseguito con temperanza e fortezza. 177 G. Apzà, Felicità, 248. Qui si definisce il problema del bene perfetto. Le eccellenze

sono virtù imperfette se non si aprono al bene perfetto. Cfr. S Th HI 65,2; Il Il 23,7. Esistono degli individui che ignorano la verità su Dio. Le virtù sono compatibili con un desiderio ordinato a Dio come fine ultimo, ma non ancora effettivamente ordinate a Dio. Perché questo avviene solo se si arriva a conoscere la verità su di Lui. Cioè riconoscimento del bene perfetto, unico bene che corrisponde al desiderio sconfinato di Dio. Egli corrisponde al naturale e infinito desiderio di bene, e tutto va amato in rapporto a Lui, affinché tutti siano beati e perfetti in Dio. La conoscenza della regola morale con questa perfetta conoscenza perfette dell’amore a Dio e al prossimo è giunta alla sua perfezione. Le virtù vere diventano

e S ThIII 100,3: perché ordinate a Dio e al prossimo. Cfr. G. ABBÀ, Felicità, 248 (nota 129)

la regola morale come regola delle virtù dal punto di vista della perfezione.

JA

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

D) La proposta di M. Rhonheimer 1.1. L’aspirazione alla felicità

1.1.1. Qualità formale della felicità I temi che questo autore propone sono in parte simili a quelli di Abbà. Entrambi gli autori puntualizzano e precisano la proposta tommasiana. Preciso qui il pensiero di Martin Rhonheimer perché egli riesce a rendere maggiormente esplicite alcune tematiche già affrontate con intuizioni nuove e per-

ché affronta direttamente la questione della legge naturale che è uno degli assunti centrali del mio lavoro per l’analisi della giustizia. Rhonheimer, nel seguire Aristotele e soprattutto Tommaso, vede come centrale per la “prospettiva della morale” il fatto che essa debba essere compresa quale etica “eudemonistica” e teleologica: il soggetto si dirige sempre verso il fine ultimo che corrisponde alla beatitudo. Occorre però subito fare una precisazione: «Un'etica è eudemonistica quando sostiene che l’agire bene e la virtù coincidono con la felicità e che la felicità della vita consista dunque nell’agire bene, nella “eupraxia”».!78 >

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Se la felicità è intesa come uno stato di soddisfazione a cui mira l’agire del

soggetto si confonde la prospettiva eudemonistica con quella edonistica. Questa confusione ha portato al rifiuto nell’etica moderna, in particolare kantiana, di questa proposta. La felicità non è direttamente un fine determinato.!”? Significherebbe una relazione tra mezzi e fini dove in modo determinato si sceglie un mezzo, si fa qualcosa, per quel fine. Esistono infatti delle connessioni di tipo intenzio-

nale che strutturano le azioni: ad esempio un soggetto lavora per ricevere una retribuzione. Se penso guadagnare come fine penultimo ed essere felice come ultimo, questa logica intenzionale viene a cadere. Il problema è che non è possibile dire allo stesso modo — cioè logicamente — «vado al lavoro per essere

felice». Non esiste qui nessun nesso riconoscibile direttamente dalla ragione. Dal voler essere felici non si può giungere ad un fare che specifichi questo desiderio in modo razionale, non si può dedurre un fare “razionale” che sod-

disfi l’essere felici.!8° Nell’esempio fatto prima, se il soggetto pone il nesso 78 M. RHONHEIMER, La Prospettiva della morale, Armando, Roma 2006, 81. 172 Ivi, 83-84. 18° In fondo questo autore sta affermando che la felicità può avere una pluralità di contenuti. Non è esauribile direttamente in una serie di contenuti oggettivi, che cioè rispettino un nesso logico del tipo, ad esempio, lavoro-retribuzione. In questo senso la razionalità

16)

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

tra lavoro e guadagno, si compie un passaggio logico coerente. Se individ uo la felicità come fine ultimo diretto, preceduto da un mezzo che vuole essere coerente razionalmente con quel fine, la connessione logica si interro mpe. Per esempio, se per il soggetto guadagnare soldi è ciò che rende felici, il fine ultimo è guadagnare, ed essere felici una qualità dell’azione stessa. Voler essere felici è dunque una qualità di ciò a cui si tende, in quanto fine

ultimo: è corretto affermare «faccio questa cosa», perché la sua qualità è per

me fine ultimo. La felicità di per sé sarà dunque una qualità formale, cioè un motivo formale per il quale noj scegliamo qualche cosa, riguarda una qualità che è “forma” di una certa azione. Qualità che appaga l’aspirare.!8! Essa non è mai un motivo di azione contingente necessaria, cioè un motivo per cui non fac-

ciamo questo e facciamo quello. Si può dire che la felicità è il motivo di un desiderare del soggetto, motivo per fare qualcosa valido per tutti, in questo senso allora è fine ultimo: l’aspirazione generale alla felicità è un fine ultimo.!8° Di fronte alla felicità occorre però subito dire che cosa veramente rende felici. Questa domanda implica chiedersi a che cosa possiamo aspirare razionalmente, che cosa viene a “riempire” di contenuto la “forma” della felicità. 1.1.2. Felicità e razionalità

Rhonheimer spiega l’idea che è alla base di tutta l’etica aristotelica: occorre sapere quale è il bene attraverso cui possiamo essere felici. Aristotele evidenzia come il retto aspirare dipenda dalla ragion pratica, ma allo stesso tempo

la verità della ragion pratica dalla giustezza dell’aspirare. Questo è evidentemente un rimando circolare che non permette di comprendere cosa determini i due elementi del discorso. Per sciogliere questa circolarità l’autore utilizza il pensiero di Tommaso. Quest'ultimo risolve questa circolarità con l’accento sulla ragione: la ragion pratica coincide con il retto aspirare, è la ragione che scopre l’agire che porta al fine a cui aspiriamo. dell’etica in cui si discute in questo lavoro è una razionalità in vista del bene e del fine ultimo e non quella di una logica totalmente astratta. 181 L’autore usa questo termine per dire desiderio di qualcosa, volere qualcosa. 182 L’arricchimento della prospettiva teologale proporrà Dio come fine ultimo, oggetto di questa felicità. Questa affermazione va compresa a partire dal fatto che egli è la pienezza della felicità, ma non la motivazione dell’agire in quanto mi rende felice. Il “bene supremo” che Dio rappresenta come pienezza della felicità è in sé oggetto della stessa, non motivo per raggiungerlo. Cfr. Ivi, 86: «Il motivo Dio è pensato non edonisticamente solo se Egli è conosciuto e amato come ciò che è in sommo grado buono nel senso delle parole di Agostino: non amare Dio per ricompensa, Egli è la tua ricompensa».

73

LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ

Tutte la considerazioni che seguono cercheranno allora di determinare che

cosa è buono, quali siano i criteri che determinano un “voler fare il bene” autentico e che dona l’essere felici. Mi sembra però interessante riesprimere una precisazione sulla felicità come fine, che comporta un tener conto dei fini parziali che il soggetto si pro-

pone. Emergono due elementi, come puntualizzazioni del paragrafo precedente sulla qualità della felicità: — il fine è già dato. Il soggetto si comprende solo nell’appartenere ad una fondamentale struttura teleologica. Questo implica che i soggetti si indirizzano ad un fine che è già stabilito: sempre il loro agire si muove, è determinato in vista di un fine. Poi il contenuto materiale dello stesso, il fine ed i mezzi che sono a disposizione per esso, dipendono dal soggetto: da scelte ulteriori che concretizzano quel fine. I fini che come soggetti — dotati di disposizioni naturali ed acquisite, queste ultime subordinate al tipo di umanità conseguita — si perseguono sono punti di partenza ineludibili;

— la qualità del fine. Interrogarsi su di essa nasce dal fatto che i fini primari corrono il rischio di essere arbitrari, soggettivi.!5* Viste queste due considerazioni, una volta compreso che il fine è dato, si

dovrà dunque affrontare un ulteriore problema che significa determinarne la natura: il fine del “virtuoso” è retto, il fine del “vizioso” sbagliato. In altri termini occorrerà comprendere la “giustezza” — su che cosa si fonda — di questo aspirare al fine. Rhonheimer si interroga:

«Esiste un bene cui aspiriamo per natura e che allo stesso tempo è capace di guidare le nostre azioni? Se esistesse sarebbe infatti il principio di azione che noi cerchiamo. Sarebbe un criterio della giustezza dell’aspirare al fine».!84

La ricerca è dunque quella di un criterio di ragionevolezza che permetta di cogliere il bene reale che è desiderato dal soggetto. Detto altrimenti la ragione permetterà di discernere tra un modo giusto di volere un certo fine ed un

\ 5 Aristotele evita il rischio di relativismo con il ricorso agli “habitus naturali”, quelle disposizioni naturali dei soggetti che sono come un germe delle virtù, anche se non sono ancora le virtù vere e proprie. Aristotele afferma che noi non abbiamo le virtù morali per natura, ma neppure contro natura, ma siamo per natura disposti ad acquisirle. Per Aristotele ogni virtù naturale deve essere accompagnata dalla prudenza, cioè la disposizione naturale viene diretta dalla prudenza che ne perfeziona l’aspetto naturale. In., La Prospettiva, 226 (nota 3): En II, 1.

184 Ip., La Prospettiva, 227.

74

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

modo invece parziale o errato: vediamo dunque come Rhonheimer propone questa individuazione. Il filosofo svizzero, rispondendo ad un’obiezione, individua la qualità cercata del fine perseguito razionalmente.!8 Egli riprende infatti il concetto per cui la ragione, per natura, riconosce come bene ciò a cui si aspira, nella logica della struttura dei giudizi pratici del tipo “p è buono”. Il bene che scopre non è solo un bene naturale, ma sempre un bene della ragione, “bonum rationis”.!86

Quando diciamo “p è buono” questa affermazione deriva da un giudizio

della ragione e, tramite la volontà razionale, il soggetto è in grado di dirigersi

verso questi beni individuati: beni veramente buoni. Bene e male, giusto e

sbagliato, nell’agire umano si determinano secondo ragione secondo l’impostazione di Tommaso segnalata all’inizio di questo paragrafo.!8” Se la ragione comprende, per natura, qualcosa come bene o male, una corrispondente aspirazione a questo bene, o fuga da questo male, sono necessariamente rette.!88 Tutte le argomentazioni che seguiranno serviranno solo per specificare quello che per “natura” è ragionevole: ad esempio come individuare un primo principio della ragione. Il pensiero di Aristotele in quella circolarità tra essere virtuosi ed essere razionali non permette una risposta adeguata. Il filosofo svizzero invece ritrova nel pensiero di Tommaso la via di indagine per giungere a scoprire quale sia il bene vero che possa portare alla felicità vera nel senso precisato in queste pagine.

185 L’obiezione che riconoscere questo bene sarebbe solo un “fatto” e non un principio. Scopriamo un bene: questo potrebbe essere un fatto contingente che affermiamo o neghiamo. Cfr. In., La Prospettiva, 227. 186 La distinzione secondo Rhonheimer si specifica nel fatto che il bene naturale è solo individuato dall’aspirare dei sensi, dirigersi cioè verso un bene immediato e non razionale. 187 Questa affermazione rimanda alle osservazioni presenti in Legge naturale e ragion pratica, dove l’autore contesta la possibilità di una deduzione metafisica diretta per l’etica, nel senso che il processo di conoscenza non può venire dedotto da elementi naturali. M. RHONHEIMER, Legge naturale e ragione pratica, Armando, Roma 2001, 60: «L'atto è il

primum cognitum per l’intelletto conoscente. Se esso viene interrogato circa il proprio fon-

damento, si tratta di una domanda metafisica. Se esso invece [...] viene indagato circa il suo

contenuto normativo pratico, ci troviamo nell’ambito dell’etica filosofica».

188 L’autore discute criticamente le tesi di Kant sull’autonomia della libertà, cioè la libertà trascendentale, e della volontà che dirige l’azione prima ancora della ragione stessa. Etica kantiana è per Rhonheimer un'etica della volontà: «sic volo, sic iubeo». La volontà si esprime della in una datità, una coscienza di questa volontà che ha bisogno della auto-legislazione La In., bene. del scoperta ragione: non esiste una originaria ragionevolezza guidata dalla Prospettiva, DIZIB-229.

75)

LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ

1.2. Legge naturale in Tommaso

1.2.1. Legge naturale, razionalità ed inclinazioni

Per risolvere il problema del criterio della struttura razionale dell’agente è fruttuoso il concetto di legge naturale secondo la visione di Tommaso. Attraverso essa si può individuare un bene che sarà un bene razionale a cui il soggetto aspira." Tommaso precede alla legge naturale le considerazioni sulla virtù. La legge naturale emerge dopo che la qualificazione morale delle azioni umane, attraverso la ragione e le virtù, ha ampiamente occupato la parte precedente della Summa Theologiae!®® Solo dopo questi temi si volge al concetto di legge. L'uomo si trova inserito in un ordine naturale come tutte le creature, ma la sua partecipazione a questo ordine naturale avviene attraverso la ragione." Il centro di questa concezione della legge naturale non è una dimensione esterna al soggetto, ma è quella legata alla ragion pratica: ogni legge è “ordinatio rationis”. Cosa si intende nello specifico? Significa che esiste un orientamento del soggetto verso il bene, guidato dalla ragione, che è naturale all’uomo, una “ordinatio rationis” verso il bene: «[Legge Naturale] è invece qualcosa che per “natura” possiede il carattere di una legge, cioè un ordinamento della ragione verso il bene».!?°

La legge naturale non è niente di diverso dalla teoria della ragion pratica come misura. Per Tommaso cioè la “lex naturalis” non è una determinante della ragione: invece essa è la teoria della ragion pratica come misura, della teoria delle azioni

umane, dell’antropologia delle facoltà operative e delle virtù. Rhonheimer propone questa definizione:

18° Il concetto di legge naturale non è affatto univoco nelle fonti di Tommaso: da una

parte lo “ius naturale” di tradizione romana antica, dall’altra la tradizione cristiana della lex aeterna. Rhonheimer cita Abbà per lo sviluppo del concetto di “lex naturalis”. Cfr. In., La prospettiva, 229 (nota 13): G. ABBÀ, Lex et Virtus, LAS, Roma 1983. 19° M. RHONHEIMER, La Prospettiva, 230 (nota 14): S Th I-II, 90,1.

‘ Questa può essere interpretata come tesi principale di Rhonheimer: il fatto che egli indichi la spiegazione dell’ordine morale attraverso un insieme di principi e giudizi della ragione. Cfr. In., Zhe Moral significance ofpre-rational nature in Aquinas: a reply to Jean Porter, «American Journal of Jurisprudence», 48 (2003), 255. Occorre ancora esplicare il

legame con le inclinazioni che amplia questa parte della sua riflessione e di cui darò conto nelle prossime pagine. "°° Ip., La Prospettiva, 231. Non è una legge naturale nel senso di una legge “scritta” nella natura, neanche una legge come decreto positivo divino o umano.

76

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

«[La legge naturale] è un regolamento che è misura attraverso la ragion pra-

tica dell’uomo, in riferimento ad aspirazioni ed ad azioni umane e alla distinzione tra bene e male in esse».!93

Questa legge naturale viene individuata nei principi della ragion pratica, inoltre i principi della legge naturale sono identificati con i principi delle virtù morali, cioè l'insieme dei principi cognitivi delle virtù.!9*

Quando Tommaso afferma che i fini delle virtù sono “determinati per natura” rivela il loro vero senso: è importante comprendere come non si tratti di principi della natura che la ragione riconosce e poi segue. La ragione invece “naturalmente” percepisce quelli che sono i principi primi da cui deriva ogni conoscenza pratica. Quest'ultimo è il significato autentico del “naturaliter cognitum”. Dire che esiste una “ragione come natura” o ragione naturale significa che esiste qualcosa che è base per la ragionevolezza seguente. Rhonheimer afferma che senza questa prospettiva in etica non esiste che l’aspirazione cieca, il condizionamento affettivo, convenzioni e costrizioni sociali nel caso peggiore interiorizzate, diritto del più forte. L'autorità non potrebbe essere che una minaccia alla libertà, la mancanza

di ogni verità pratica.! Il bene ed

il male diverrebbero una differenza etica che si impone dall’esterno legata alla forza dell’imposizione stessa. La ragione “senza natura” sarebbe uno strumento senza fondamento e senza orientamento. La ragion pratica dunque non ha come oggetto le norme previe della legge naturale, piuttosto il bene nell’ambito dell’agire. Esso diventa “praeceptum” della /ex naturalis: ciò che è bene nella pratica viene oggettivato come comandamento.!

Se la legge naturale è fondata principalmente sulla capacità della ragion pratica, sia come atto precettivo in merito all’agire, che come riflessione mediata sul medesimo che si concretizza nella modalità della legge, come ritrovare un

> Vi 2321 19 Inoltre questa legge naturale è espressione della razionalità che è quella della legge eterna. Slegando invece la nozione di legge naturale dal contesto teologico in cui è inserita, se ne è fatta una categoria a sé: al posto della prospettiva della ragione si è messa la prospet-

delle “leggi di tiva della natura. Lo slittamento, derivato con le scienze moderne, al concetto

natura” e la fusione con il “giusnaturalismo”. Per Tommaso la legge naturale non è altro che i principi primi della ragion pratica. !95 Cioè la ragione che è ragione dell’uomo, radicata in lui. 196 Ip., Legge naturale, 77.

7%

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

legame con la legge eterna?! La risposta è quella di una lettura attenta di Tommaso: la legge naturale non è qualcosa di diverso dalla legge eterna, bensì una determinata partecipazione ad essa.!* Questo legame comporta il fatto che la ragione non si muova in uno spazio totalmente libero ed abbia un campo di indagine prefissato.!? Non si tratta però di un “ordine naturale” stabilito dalla legge eterna. Ma di un “ordo rationis” che viene proposto attraverso la ragione umana. Nelle creature non razionali tutto si gioca attraverso quelle inclinazioni naturali che permettono di indirizzarsi ad un fine proprio. I principi di ordine per le inclinazioni degli esseri non razionali sono ad esempio gli istinti. l’uomo partecipa a questa dimensione della “lex aeterna”, trascendentale rispetto alla natura stessa, in una duplice modalità: nel senso affermato della sua razionalità attiva, ma anche in un legame, maggiormente passivo, che

viene espresso dalle inclinazioni naturali. In fondo Rhonheimer afferma che la partecipazione alla legge eterna avviene per l’uomo con una modalità estremamente diversa dalle altre creature. Il suo partecipare avviene nell’ordinazione razionale delle inclinazioni naturali. Egli si muove in un sistema che lo indirizza al bene proprio, dove però questo non è un dato che lo determina in modo assoluto e previo, ma deve venire esplicitato proprio dalla razionalità. In una sintesi finale è possibile affermare che la legge naturale è il frutto dell’azione della ragione, di quella ragione che nelle specificazioni della volontà e della guida dei desideri sensibili non godrà di una autonomia assoluta, ma

piuttosto legata ad una naturalità di cui essa stessa è parte: partecipazione alla legge eterna.

1.2.2. Il primo principio della ragion pratica Se la ragione “naturale” è espressione fondamentale della legge naturale, è necessario comprendere se esista un precetto della stessa che possa essere

guida all’agire del soggetto.?°0 Il filosofo svizzero mette in evidenza un principio fondamentale espresso da Tommaso: la ragione è all’origine delle azioni umane, ma anche regola e 17 Ivi, 86-92. Questa idea è spiegata da Tommaso come il piano della provvidenza divinatCiraSMbIMIL9I1: Reiss In 19192pad 1: ‘° Pensare questa totale libertà è all’origine di quella che nella riflessione etica prende il nome di autonomia teonoma. 200 Ip., Legge naturale, 93. Cfr.

78

SThI II 94,2.

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

misura delle stesse. Questa misura sarà in vista del fine, il suo compito sarà

quello di ordinare le azioni verso il fine.20 Inoltre Rhonheimer afferma che:

«Principio — archè — è ciò in cui tutto ciò che segue ha il suo punto di partenza».?°°

La ragion pratica è pratica perché i suoi principi sono un “imperium” o “praeceptum”: per la ragione, un principio è un atto cognitivo che muove all’agire. Il primo principio della ragione pratica è quello da cui prende inizio l’azione della stessa. Per comprendere la natura del primo principio della ragion pratica il parallelo è quello con la ragione speculativa. Come per questa esistono dei principi, allo stesso modo esistono dei principi che guidano la ragion pratica. Questi principi o giudizi sono noti a tutti: «Una simile descrizione dei giudizi pratici — come affermazioni normative — è sensata solo nella riflessione sull’atto della ragion pratica»?

Un'obiezione potrebbe essere quella che ogni principio pratico dovrebbe basarsi su di una conoscenza teoretic

q,204

La tesi di Rhonheimer a questo pro-

posito è quella che, per sapere cosa è l’uomo, occorre sapere che cosa è buono per l’uomo, ciò a cui si può ragionevolmente aspirare come buono. Solo dalla riflessione sugli atti della ragion pratica riusciamo a dire cosa è buono per l’uomo.

Rhonheimer puntualizza che quando un soggetto aspira razionalmente ad un fine dato non occorre chiedersi se questa aspirazione sia ulteriormente buona, se deve essere scelta, come giustificarla, ma fa parte di quel processo che ha come guida la ragione, nella sua valenza naturale, descritto in precedenza.

201 Ip., Legge naturale, 82 (nota 9): De Verit., q.22, ah.

202 M. RHONHEIMER, La Prospettiva, 233. 203 Ip., Legge naturale, 94. 204 Se il punto fontale fosse quest'ultima si potrebbe affermare una conoscenza antropologica, cosa è l’uomo, e poi si direbbe qualcosa del suo agire. Ma come fondiamo questa dimensione antropologica? In modo empirico? In chiave sociale? Metafisico? 205 Una esemplificazione potrebbe essere: ogni essere umano è un essere che si mantiene in vita con la nutrizione. Quest'ultima affermazione è un dato teorico. Da esso non deriva

che allora per me è buono nutrirmi: «p è buono». Solo se esprimo un giudizio pratico — «per me» — posso sostenere che è buono mantenermi in vita. Il sillogismo pratico sarà: È bene per me mantenermi in vita, dunque poiché gli alimenti, mangiare, mantengono in vita, per me è buono mangiare. Cfr. In., La Prospettiva, 102-103.

na

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

In sintesi:

«La ragione riconosce l’aspirare [all’autoconservazione ad esempio] come buono, [...] Il suo essere buona [ci si riferisce in qui all’autoconservazione] è la

prima cosa che viene colta dalla ragione».?°°

Una possibile obiezione vede solo nell’impulso la motivazione di questo aspirare: il bene o il male sarebbero solo il frutto di quello che i soggetti desiderano.?07 In questo caso non si darebbe nessuna etica, ma solo una scienza naturale “degli impulsi”. Un impulso però può essere decisamente “cattivo”. Questa obiezione permette di precisare che per Rhonheimer la sola dimensione naturale non è un criterio sufficiente per il bene morale. Solo se il soggetto, dicendo che un certo aspetto è buono, esercita un giudizio della ragione

riesce ad individuare ciò che è veramente buono per l’uomo. Il comprendere un’aspirazione come buona è il contributo della ragioh pratica, perché non si

agirebbe mai in base a quei principi che sono formulati solo nella dimensione dell’essente.?9% La ragion pratica deve possedere un punto di partenza: il primo principio si basa sulla struttura del bene, non dell’essente.?°

209

Il bene è ciò a cui ogni cosa

tende, afferma Aristotele.?!° La ragion pratica si costituisce attraverso l’aspirare: conosce “un qualcosa” a cui il soggetto aspira. Il correlato di questo aspirare lo concretizza come bene. Poi invece simmetricamente esiste qualcosa che

la ragion pratica vuole evitare, aspetto che viene definito come male. Da questo volere — o voler evitare — si individua il primo principio della ragion pratica: «Il bene è da farsi, male è da evitarsi».?!! Se fosse un’affermazione teoretica sarebbe scontata, ma in quanto affermazione pratica invece è

fondante: perché presuppone l’esperienza di questo principio come pratico.

20° Ip., La Prospettiva, 234. Esiste una critica naturalista alla tesi esposta: cioè quando diciamo «p è buono», seguiamo un impulso. Allora non si darebbe neanche una dimensione morale, umana, ma solo scienza e soggetto biologico. 207 È la teoria del non cognitivismo morale. 2° Come nell’esempio precedente della nutrizione. 1 20° Ip., La Prospettiva, 236 (nota 20): S Th I-II 94, 2. Inoltre la stessa nota riporta riferimento a: G. GriesEz, Zhe First Principle of Practical Reason: A Commentary on the Summa Theologiae, 1-2, Question 94, article 2, «Natural Law Forum», 10 (1965), 168-201. Quest'ul-

timo è l’autore di riferimento di questo aspetto del primo principio della moralità, come ampiamente spiega Abbà. 21° M. RHONHEIMER, La Prospettiva, 236 (nota 21): cfr. EN I, 1 1094a 3.

2!! «Bonum est faciendum et prosequendum, et malum vitandum». Tommaso chiama, nel contesto, primo precetto della legge naturale: S Th I-II 94,2.

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CAPITOLO

PRIMO

— ETICA DELLE VIRTÙ

E GIUSTIZIA

Questo “perseguire” il bene o allontanarsi da esso diventa una dimensione precettiva dei giudizi pratici. Inoltre questo principio non è una legge scritta a priori, ma viene espresso

con una formulazione esplicita solo in una dimensione riflessa. Significa che il principio emerge dall’agire pratico: è prima nei fatti che nella riflessione. L'espressione dello stesso deriva dal fatto pratico che la ragione si avvicini al bene e si allontani dal male. Inoltre i principi non sono delle norme da applicare, ma i criteri regolatori, impliciti, nella ragion pratica stessa. L'espressione linguistica del principio si fonda su di un fatto che in essa viene ricondotto in maniera riflessa. 7 Inoltre questo “volere p” è già nell’ambito del “fare p”. Il primo principio

ci porta a fare il bene, ed a evitare il male. Si definisce qui la differenza pratica che è differenza morale. Il primo principio muove all’agire: esso sta sempre alla base di ogni giudizio del tipo “p è buono”, “p è da fare”?! 1.2.3. I principi pratici specifici

Il primo principio manifesta una razionalità che diventa espressione di tutta la legge naturale. Però esso si trova ancora ad un livello generale e deve essere declinato nei vari ambiti di azione, perché di per sé resta privo di contenuto. Rhonheimer mostra come S Th I II 94,2 offra indicazioni preziose, poiché da un lato sul primo principio si basano tutti i precetti della legge naturale: «E su di esso sono fondati tutti gli altri precetti della legge naturale: per cui tutte le altre cose da fare o da evitare appartengono ai precetti della legge di natura in quanto la ragione pratica le conosce naturalmente come beni umani».?!5

Dall’altro per specificare questi beni umani, si potrebbe dire, il contenuto dei principi, Tommaso afferma che l’uomo segue le sue inclinazioni naturali: «Poiché il bene ha un carattere di fine [...] tutte le cose verso le quali la ragione

ha una inclinazione naturale, la ragione le apprende come buone, quindi da farsi, [...] perciò l’ordine dei precetti della legge naturale segue l’ordine delle inclinazioni naturali».?!*

22 M. RHONHEIMER, La Prospettiva, 237.

213 S Th I-Il 94,2. L'autore che seguo fa osservare che nella citazione di Tommaso il termine precetti della legge naturale significa principi della ragion pratica dati naturalmente. naturali 214 IgipeM. Cfr. M. RHONHEIMER, La Prospettiva, 237 (nota 24). Le inclinazioni

della sembrano implicare un ritornare alla natura di per sé, cioè quasi contraddire il ruolo la nemmeno ragion pratica. Per Rhonheimer la natura non deve essere trascurata ma non è fonte dei principi. Egli mette come primo logico quella ragione che è natura.

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LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ

Questi due aspetti vanno considerati insieme nell’analisi della legge naturale.

Quali sono queste inclinazioni naturali??!° Il filosofo svizzero, attraverso Tommaso, indica innanzitutto quelle legate all’autoconservazione della esistenza e vita. Sono derivate da esse l’istinto alla nutrizione, alla autodifesa ed alla autoaffermazione. Inoltre anche l’istinto sessuale. Esistono poi delle inclinazioni che derivano dalla ragione: riguardano la convivenza in comunità con i simili con i correlati di amicizia, benevolenza, comunicazione; la conoscenza della verità; la venerazione a Dio. Ancora altre inclinazioni natu-

rali come l'inclinazione al gioco, l’esperienza creativa ed estetica. Queste inclinazioni naturali diventano beni umani nella misura in cui sono voluti, vi si

aspira nell’ordine della ragione. Significa che i beni razionali sono oggetto di aspirazione — di volontà — da parte del soggetto e diventano inizio dell’intenzionalità dell’agente: «Anche l’autoconservazione e la sessualità — come

beni umani

e non solo

come inclinazioni naturali — sono sempre volontà di autoconservazione e il

volere (o amare) un’altra persona».?!7

Inoltre i beni umani non sono mai presi singolarmente, ma in rapporto ad altri beni: l’autoconservazione ha che fare con la convivenza, con la benevolenza, con l'amicizia. Le inclinazioni naturali nella totalità del soggetto umano

— corporeo e spirituale — diventano comprensibili come bene per l’uomo nella loro integrazione e totalità. Ogni inclinazione ha la sua prospettiva che nasce da considerare l’uomo nella sua interezza:

«L'inclinazione all’unione tra maschio e femmina è qualcosa che la natura ha insegnato a tutti gli animali, la natura non lo ha insegnato a tutti gli animali nel modo in cui questa inclinazione è da comprendere come bene umano,

cioè integrato nell’ordine della ragione».?!8

Non è possibile comprendere una singola inclinazione se non in un approccio che tenga conto del loro complesso, un ordine complessivo: una singola 22 Il pensiero di Rhonheimer sull’insieme di razionalità ed inclinazioni viene ancora esplicitato nel secondo capitolo nell’analisi della giustizia. Cfr. cap. 2, a) 1.4. 2° Piacere, godimento e soddisfazione non sono direttamente beni umani. Sono derivati dalle attività che li procurano. Non è uno stato di soddisfazione, ma l’attività che procura questa soddisfazione. 2! Ip., La Prospettiva, 242. Le inclinazioni come oggetti della volontà del soggetto mi sembra dicano che non sono i beni al centro del discorso morale, ma sempre l’aspirare del soggetto che si dirige verso certi beni.

218 Ivi, 243.

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CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

inclinazione non può essere assolutizzata di per sé.!? Il processo inventivo

della ragione naturale, che si svolge ancora nell’ambito dei principi, trasforma le inclinazioni naturali in beni umani. Questa ulteriore precisazione permette di comprendere come i principi, di cui si discute in questo paragrafo, in fondo non sono che una componente riflessa di questo processo. Rhonheimer sottolinea come un altro modo per affermare questa tesi sia quello dove la ragione sta alle inclinazioni naturali come la forma alla materia. Quando un’inclinazione viene compresa come bene dalla ragione è sempre oltre la sola “naturalità”, Seguendo il discorso fatto finora potrebbe sembrare che le inclinazioni ed i principi della ragion naturale siano la stessa cosa, in realtà precisa il nostro autore: «I principi pratici [...] non sono identici all’inclinazione naturale [...] in quanto principi di ragione essi sono piuttosto regolamenti, misure, ordinamenti in

queste inclinazioni».??°

Siamo giunti dunque a comprendere che i principi non sono la stessa cosa delle inclinazioni, ma giudizi pratici universali in riferimento alle stesse, il

soggetto cercherà nel suo agire di dirigersi guidato dai principi, che “attualizzano” le inclinazioni, per raggiungere il bene proprio.??! 1.2.4. L’unitarietà della relazione tra inclinazioni, principi, virtù

Segnalo un terzo passaggio dopo la specifica del primo principio e delle inclinazioni. Esso è fondamentale perché collega principi, inclinazioni e virtù. Rhonheimer sottolinea: «I principi pratici costituiti in base all’esperienza delle inclinazioni naturali come beni umani, convergono con i fini delle virtù morali».???

219 Sono ordinate verso un fine. 220 Ivi, 240. La differenza morale si costituisce grazie alla ragione e non solo attraverso il fatto della naturalità. Infine la ragione senza l’inclinazione naturale che le è propria non avrebbe alcun oggetto. 221 Giudizi del tipo «p è buono», giudizi della ragion pratica, permettono di raggiungere un bene proprio in vista del fine autentico. Detto altrimenti, con un'espressione non in questi testi, ma sottesa ad essi, che in questo caso mi dirigo “moralmente”, cioè nel raggiunsa gimento del bene autentico. dire che è fondo In 3. ad 94,2, II I Th S di ne precisazio una ancora è Questa 222 [vi, 239. il fatto esplicita l’Aquinate articolo questo in 94,3: II S'ThI Cfr. virtutis. l’ordo rationis è ordo che agire secondo ragione equivale ad un agire guidato dalle virtù.

83

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Ed inoltre: «L'uomo virtuoso quando fa ciò che gli sembra bene, fa anche sempre spontaneamente il vero bene, in ciò sta in effetti proprio l’efficienza morale della virtù morale».??5

La ragionevolezza che dà forma alle virtù — giustizia, temperanza, coraggio — fa sì che l’aspirare del soggetto, detto sinteticamente l’aspirare intenzionale delle virtù, non sia irrazionale. Inoltre dalle intenzioni virtuose la prudenza rende retto il giudizio di azione. Le virtù morali sono dei “principi affettivi” per intenzioni e giudizio.” Così si individua un complesso di principi specifici di azione, che saranno anche guida delle virtù, in cui il primo principio della morale è presente come causa della differenza morale — evidentemente in maniera implicita — in ciascun principio: una serie di principi che diranno “p, q} r è da fare”. Segnalo infine che esprimere i principi esplicitandoli come principi delle singole virtù resta ancora da una tematica da sviluppare ed è in gran parte l’analisi di come, per l'oggetto di questa ricerca, esprimere un principio di giustizia. 1.3. Precisazioni sui principi razionali

1.3.1. La genesi e l'applicazione dei principi pratici

l’autore che seguo affronta il problema se quella che ha delineato non sia un'etica deduttiva che non trova poi la possibilità di una corrispondenza effettiva al reale. Primo argomento contro questa obiezione è quello che sottolinea come i principi pratici non sono presenti totalmente nel soggetto, non si

rendono all'improvviso presenti nella coscienza morale, neanche immediatamente determinano l’agire: «Per la formazione dei principi e per la guida concreta all’azione abbiamo bisogno dell’esperienza mediata situazionalmente, strutturata narrativamente

e integrata all’interno di una biografia personale, ed in contesti sociali definiti; proprio come una ragione che abbia ad oggetto il particolare [...] la cui perfezione è la virtù della prudenza».??

23 M. RHONHEIMER, Legge naturale, 75. 224 Ip., La Prospettiva, 225. Aftettivi nel senso che esprimono le dimensioni volitive e passionali. Qui Rhonheimer usa la prudenza per definire l’intero processo razionale. Nel testo sopra ho voluto distinguere l’azione della ragion pratica nelle intenzioni e l’azione della prudenza per il giudizio. 22 Ivi, 251. Questa precisazione è importante nel momento in cui si lega il discorso delle virtù a quello dell’“ethos” comunitario.

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CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

L'azione della ragione nella dimensione categoriale, per la scelta dell’azione da compiersi, necessita della virtù della prudenza e in questo modo può trovare il retto agire. >

.

.

.

.

.

.

1.3.2. La relazione tra principi e virtù

Tra un sistema di principi e le situazioni particolari può esistere una incom-

patibilità? Rhonheimer vuole contrastare nel suo pensiero quella opposizione assoluta tra norme e situazioni, tra universale e particolare che presuppone

una “confusione” nei fatti dell’uomo e del mondo che porterebbe a negare qualsiasi universale etico. Questa affermazione sarebbe vera se si porta all’assoluto sostenere che un principio non può essere declinato per una situazione concreta. Il rischio concreto è quello di dividere un'etica dei principi dall’etica guidata dalle virtù, in particolare dalla prudenza.??9 Se è sbagliato il voler sussumere sempre una situazione sotto una norma, occorre ribadire che la ragion

pratica si volge al particolare, ma guidata dai principi. In seguito alla direzione cognitiva dei principi pratici traduce le intenzioni virtuose del soggetto nella particolarità della situazione. È importante ricordare come un principio necessiti ancora una traduzione guidata dall’azione esercitata dalla prudenza che tenga conto della singolarità situazionale e dei soggetti.” Attraverso questo processo un principio diventa allora rilevante in una situazione contingente e diventa effettivamente pratico.??* Rhonheimer dona una sorta di definizione sintetica affermando che i principi pratici ordinano l’agire del soggetto a quei beni, oppure fini, che la ragione intuisce come buoni pet l’uomo, a partire dalle sue inclinazioni naturali: essi sono la “lex naturalis” nel senso precisato sopra.??? 226 IgrpEM (nota 42). Rhonheimer cita una serie di autori, ad esempio Martha Nussbaum,

che affermano questa idea. 227 Si tratta dell’individuazione del processo di scelta, che anche Rhonheimer compie, già descritta da Abbà, derivandola entrambi dalla Summa Theologiae. Cfr. M. RAONHEIMER, La Prospettiva, 175-184. 228 Nella dimensione umana, non ci sono, è primis, elementi universali, ma elementi

particolari e concreti, questi però si comprendono, a posteriori, sotto la luce dci principi

universali intuiti in essi. Tra principio e particolare esiste una connessione cognitiva interna. Siamo di fronte ad un processo riflessivo, non deduttivo. Prudenza e “lex naturalis” — i prin-

cipi pratici che derivano da essa — non si oppongono. 229 [v1, 253. L’acquisizione di questi principi è naturalmente legata al contesto culturale,

questo educativo e dei costumi. Determinati contesti possono orientare in senso opposto

apprendimento. Il processo della ragion pratica che utilizzaiprincipi maggiormente univeril suo», che sali non è però un processo deduttivo. Se osserviamo il precetto «dare a ciascuno Piuttosto si tratta indica il principio di giustizia, non ne si ricava una conclusione pratica.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Nasce a questo punto la necessità di esplicitare il rapporto tra principi e virtù. Quello che implicitamente è stato affermato finora è che i principi sono i fini delle virtù.?9° I principi indicano la giustezza dell’aspirare che si traduce in concreti atti di scelta: i fini delle virtù si individuano in questi principi. Voglio precisare la dimensione morale della convergenza dei principi con i fini delle virtù. Per determinare questa relazione, l’autore che seguo mostra una relazione di tipo “affettivo-cognitivo”, come connaturalità al bene. Il punto di partenza è ancora una volta la prospettiva aristotelica dove si afferma che il vizio corrompe il principio. I giudizi legati all’affetto, quelli della ragion pratica, corrono il rischio di essere distorti.??'

Rhonheimer definisce qui le virtù — ed i vizi — come disposizioni affettive e dunque che hanno un ruolo determinante sia nel conoscere i principi che nel guidare all’azione concreta. Sorge per il virtuoso una connaturalità affettiva con il bene. Chi è “incontinente” sa che cosa è il bene, ma viene deviato nella sua scelta di azione, nel suo giudizio pratico. Il “vizioso” invece non parte dal principio che indirizza al bene, per lui il principio sono solamente le sue disposizioni affettive. L'esem-

pio aristotelico è illuminante: l’incontinente è come una città che ha buone leggi, ma non le applica, il vizioso applica le leggi, ma ne applica di cattive.?? Aristotele però non sviluppa una teoria etica dei principi. Essa si trova accennata in Tommaso. Dalla sua prospettiva di filosofo cristiano egli esalta la somiglianza dell’uomo con Dio e ne accresce dunque la capacità cognitiva: esistono dei principi la cui conoscenza è incancellabile. Non viene meno neanche attraverso il cambiamento affettivo anche se nella prassi possono venire come dimenticati o come non considerati.?83 Tommaso dice che questi principi sono la regola d’oro e il primo principio della ragion pratica stessa. Certamente poi alcuni principi possono essere oscurati da certe abitudini sociali. L'ingiustizia viene mascherata da un essere lecito di certi comportamenti. di un processo che muove ad un'intuizione nel particolare e nel concreto del principio. Poi nuovamente arricchisce il principio stesso da quello che viene appreso dall’esperienza del particolare. Tommaso mostra come questo processo sia opera della prudenza che partecipa in un certo modo alla formazione dei fini delle diverse virtù e quindi anche alla formazione dei principi pratici. 250 Ivi, 285. Queste considerazioni diventeranno fondative per individuare un principio di giustizia che governa l’azione. 231 Ivi, 256 (nota 49): EN VI, 1140b 13-21.

22 Ivi, 257 (nota 54): EN VII, 11, 1152a 20-24. 233 Ivi, 258 (nota 57): S Th I-II 94,4.

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CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

Queste considerazioni sulla non possibilità di elidere totalmente i principi primi allontanano una possibile interpretazione riguardo la perdita degli stessi che significherebbe la cessazione di ogni discorso etico. Esiste invece la possibilità di recuperare i principi che indirizzano al bene a partire dall’ethos che vivono i soggetti che compiono il bene nel loro agire pratico. 1.3.3. Le virtù e la ragion pratica

La ragione che coglie i principi e la ragione che diventa habitus nelle virtù è una distinzione che caratterizza ‘una riflessione epistemologica. A monte c'è unità della facoltà conoscitiva o intellettiva. Unità che riguarda anche l’unità intenzionale dei mezzi con il fine da raggiungere. Le azioni sono la concretiz-

zazione particolare del bene, gli atti della ragion pratica infatti vengono compiuti per agire bene. Il filosofo svizzero ribadisce:

«La ragione che determina l’azione diventa prudenza — la recta ratio dell’agire — e forma l’aspirare affettivo al fine. Il soggetto agente acquista infatti quell’aspirare al fine proprio della virtù morale — aspirare conforme a ragione — tramite atti che corrispondono alla virtù».?84

La virtù morale ha come fini i principi che la guidano al bene, ma solo scegliere il bene concreto porta ad avere una qualità che è capace di “scoprire” il bene nella molteplicità delle situazioni particolari. L'etica classica delle virtù riunisce insieme l’essere buono della volontà e la giustezza dell’agire. I principi pratici non sono regole formulate linguisticamente, che esprimerebbero solo la logica del discorso. Non sono principi della ragione che indicano l’azione, ma principi in un soggetto che guarda alla riuscita della propria vita. Principi per la giustezza dell’aspirare. «Chi contravviene ad essi non è uno che pensa scorrettamente e commette un errore nel decidere, ma un soggetto che poiché il suo aspirare manca ciò che è retto, possiede una cattiva volontà».??°

Quello che è mancante non è il piano razionale, ma il piano soggettivo, cioè la volontà che non viene indirizzata razionalmente. Nell’etica della prima persona le scelte morali non dipendono dalla valutazione delle conseguenze ma dalla razionalità del bene che tiene anche conto delle relazioni del soggetto, del suo mondo e dei rapporti di responsabilità che si creano situazionalmente.

234 vi, 308. 235 Tv, 309.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Le azioni sono sempre anche moralmente qualificate da un aspirare giusto e dunque buono, con le persone con cui il soggetto sta in un rapporto moralmente qualificato. Inoltre ogni azione trasforma anche l’agente stesso. In conclusione la dimensione morale per Rhonheimer, come etica delle virtù, rimanda sempre alla domanda “che cosa è sempre veramente bene per me”. E non solo il tipo di azione che è nelle possibilità di azione del soggetto, ma il tipo di soggetto che è possibile diventare compiendo una certa azione: «Diventiamo ciò a cui aspiriamo».?°°

E) La proposta di J. Porter 1.1. Razionalità analitica della morale 1.1.1. Il parallelo tra concetti morali e concetti empirici

Il tema della razionalità del discorso morale è una delle questioni di fronte alle quale si interroga Jean Porter. 237 Non esiste una razionalità morale globale:

quell’idea per cui la filosofia morale può essere simile ad un paradigma matematico.?88 L'ideale kantiano della filosofia morale rispecchia quello della matematica, come nella scienza fisica una funzione matematica può rappresentare un fenomeno, così una regola morale è esempio chiaro della razionalità morale stessa: dunque secondo questo modello, se applicate correttamente, le regole morali determinano l’unica soluzione etica possibile. Se questo assunto

è problematico, la teologa americana

indaga in che

modo sia possibile proporre una qualche idea di razionalità che all’opposto non riduca all’arbitrarietà l’intera proposta morale. La prima argomentazione che viene introdotta, proprio per affrontare questa questione, è quella dei cosiddetti casi difficili.?5? Questo argomento implica sempre la domanda se esista la possibilità di dire che una certa azione sia sempre sbagliata. Essi saranno presi in considerazione per verificare se esprimere

un giudizio morale su di essi non assuma totalmente i caratteri dell’arbitra-

2 Ny5lD: 237 J. PorTER, Moral Action and Christian Ethics, Cambridge University Press, New York 1095; 21,181 29° Per “casi difficili” si intendono quelle azioni umane in cui non sappiamo dire se un determinato agire sia un bene o un male, non sappiamo cioè esprimere un giudizio morale certo. Cfr. Ivi, 13-17.

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CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

rietà. Per capire le fatiche delle argomentazioni morali — in particolare dei giudizi, quando si crea un conflitto morale — si deve esaminare nel dettaglio il caso delle azioni sempre moralmente ingiustificabili, in qualsiasi circostanza o secondo qualsiasi intenzione.?*° Queste questioni portano immediatamente ad una problematicità di giudizio. L'autrice che seguo per uscire da queste difficoltà apre la riflessione; amplia le prospettive del ragionamento. Riprende infatti le idee di Friedrich Waismann — un filosofo analitico — che definisce i concetti morali, ed in generale i concetti empirici generici, “open-textured” (aperti nella loro trama) o “open ended” (aperti rispetto ad un finale), il che significa la loro incapacità di esprimere totalmente la realtà che vogliono esprimere.” Nello specifico dei concetti morali significa il non poterli applicare identificandoli sempre e totalmente a tutte le possibili situazioni pratiche che dovrebbero rappresentare perché le stesse non potranno essere sempre circoscritte dal concetto stesso. Una situazione, un agire, sarà sempre più complesso di quello che ci permette una descrizione concettuale della stessa. Si dicono concetti “open-ended” nel senso che non permettono di dire in anticipo il caso in cui possono essere applicati o meno. 1.1.2. Un nucleo imprescindibile dei concetti morali

La Porter in una lunga discussione con diverse posizioni — tra cui alcune idee di Ludwig Wittgenstein — ha fatto emergere come i concetti empirici siano sempre inferiori alle possibili osservazioni della realtà del mondo.?! Il passo successivo che ha compiuto è legato al fatto che non solo i concetti empirici sono “open textured”, ma lo sono anche quelli morali: questa assunzione è essenziale anche per il discorso morale. 240 Poiché le difficoltà nascono proprio dai casi limite, l’argomentazione che la Porter sviluppa verte su un caso paradigmatico che li può riassumere tutti: il confronto tra l’assassinio

realtà (murder) e le eventuali uccisioni legittime. Uccidere un uomo è sempre sbagliato. In particocasi dei su riflette si se specie condiviso, così questo non è per niente un assunto

lari come l’autodifesa, i casi di malattia estrema, la pena di morte. Esiste in questi discorsi ragione, almeno la convinzione che un assunto centrale, uccidere volontariamente senza una

tutti quelli sia un’azione legata al male, tesi che può essere condivisa e che viene accettata da dell'umano. za all’esperien lega si che hanno una razionalità del bene che of Aristotelian 241 [v1, 23 (205, nota 29): F. Waismann, “Verifiability”, «Proceedings sempre insufè empirica one dimensi una di one Society», 19 (1945), 119-150. Cioè la descrizi ficiente rispetto alla realtà della stessa. 242 Cfr. Ivi, 24-34.

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LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ

Riporto qui in sintesi alcune osservazioni sulle difficoltà del discorso etico per invece giustificare la consistenza del discorso medesimo. Una prima argomentazione riguarda uno degli assiomi che più sono stati usati per far perdere di senso l’idea dei concetti morali: l'impossibilità del legame tra essere e dovere. La teologa americana evidenza come la differenza tra descrivere e valutare sia una questione posta male perché rispecchia una questione molto più ampia.” Dall’analisi di Waismann infatti deriva che quando si propone una distanza tra essere e dover essere dobbiamo tener conto che c'è una distanza tra concetti e realtà empirica. Il conoscere attraverso dei concetti una realtà empirica non permette di risolvere ogni possibile questione in merito a quella stessa realtà. Le dimensioni descrittive non esauriscono l’oggetto descritto. In realtà questa affermazione senza una ulteriore riflessione sembra comunque a favore del soggettivismo e del non cognitivismo in particolare nei casi limite: non è possibile giungere ad un'idea sostenibile di moralità proprio perché una realtà non è mai definibile totalmente con una regola.?** Invece la Porter ricorda come ci sia un altro argomento, a partire sempre da queste tesi, che permette di ancorarsi ad un'idea meno soggettivista: le discussioni attorno ai casi limite danno per acquisito un consenso di una parte centrale di quel concetto che viene discusso. Non c'è infatti incertezza totale sui concetti morali ma un consenso fondato su quello che normalmente avviene nella realtà attorno ad un “minimo” condiviso di quell’atto.?9 Sostenere dunque i concetti morali come concetti “open textured” contiene tre affermazioni centrali:

a) La comprensione delle regole morali non è un apriori logico rispetto alle situazioni reali, nelle quali applicare o non applicare le stesse. Un’etica delle regole, apprese in una misteriosa via analitica, che vengono applicate a certe situazioni è debole. Per identificare una regola occorre partire da una serie di casi dove questa stessa è a-problematica ed attorno a cui si crea un consenso condiviso. Questo consenso inoltre deve avvenire all’interno di 75 Ricordiamo che questa tesi è l’assunto centrale del non-cognitivismo. Essa ha naturalmente molte altre critiche classiche a partire dai lavori dell’area analitica. 244 Il fatto di mettere in discussione l’inesistenza del rapporto tra essere e dover essere, attraverso la questione della relazione tra concetti empirici e realtà, relativizza la grande acquisizione del non-cognitivismo inserendola in un discorso più complesso. 25 Ivi, 34. Questo apre lo spazio alla possibilità di senso anche per il dover essere. Inoltre è possibile notare che la discussione, fatta fino ad ora, va contro l’indirizzo kantiano: non è possibile equivalere una regola morale ad una procedura decisionale che necessariamente determina un'unica e sola soluzione per ogni problema morale.

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CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

comunità morali che sono l’ambiente in cui esiste un accord o in merito ai concetti morali?

b) Equiparare regole morali e concetti morali con la loro formulazione linguistica non è esatto. In realtà un concetto morale è legato all’azione di ragione, e di volontà. Esse consentono che l'oggetto di un concetto — “quello di cui si parla e che si vorrebbe fare” — diventi una realtà fattuale.2!” c) Certi tipi di azioni non sono mai moralmente giustificati, cioè certe azioni sono sempre sbagliate. Inoltre esiste sempre un nucleo centrale di concetti che serve ad individuare questi atti.2# Ne emerge che le idee generali che descrivono alcuni concetti morali — le regole morali — sono sempre esemplificate in una serie di casi paradigmatici.*° Il discorso morale si è evoluto lungo i secoli in una esemplificazione del concetto stesso di morale attraverso dei casi paradigmatici. La Porter inoltre osserva giustamente che questa idea non è il frutto di un’'obbedienza ad una concezione religiosa, ma che le regole morali generi-

che sono sempre legate alla specificazione di casi esemplari. Nelle riflessioni che seguono è illustrata proprio questa concezione generica della moralità.?90

24° La Porter farà riferimento in generale alle comunità morali interagendo con le tesi di MacIntyre e Hauerwas.

27 Ivi, 35, (206 nota 44): L. WirTGENSTEIN, Philosophical investigations, New York 1958, (n° 198), 98: il significato autentico di una regola viene espresso solo in un’azione intellegibile (inze/ligent). 248 Situazioni in cui nessuno dubita del male procurato. Questa tesi ha una sua formulazione, ormai classica, che nasce attraverso le riflessioni di G. Elizabeth Anscombe. Questa

autrice afferma che nella visione della tradizione, che abbiamo ereditato dal nostro passato culturale, alcune azioni sono sempre sbagliate, e che questa tradizione è la tradizione cristiana. La Porter argomenta che non è la tradizione cristiana la ragione per dire questo, ma essa ha raccolto quello che era in sé evidente come esemplificazione di casi fattuali, senza incertezza morale. J. PorTER, Moral action, 206, (nota 47): G.E. AnscoMmBE, Modern Moral

Philosophy, 36-37, in «Philosophy», 33. 2 Ancora la Anscombe, da Wittgenstein, mostra come le esemplificazioni dei concetti che sono paradigmatici siano a loro volta generali. 25 L'eccezione è legata però al problema di quelle azioni che non vengono riconosciute entro i confini di quei casi che fanno parte del concetto di moralità. Una determinata azione non viene associata a quelle ricomprese tra un certo tipo esemplare, ad esempio l'eutanasia non viene ricompresa come una morte procurata. Questo accade perché solo con gli strumenti logici impiegati — razionalità analitica, concetti morali di base, descrizioni di eventi — non si definisce un concetto di moralità sempre valido in ogni situazione. Un aggravante della complessità è che queste azioni che non sono ricomprese in un nucleo centrale oggi non

sono più socialmente così marginali, ma diventano importanti questioni per il nostro vivere

in società con delle visioni collettive condivise.

Al

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

1.1.3. Il principio di non maleficenza A partire dalle argomentazioni svolte, la teologa americana indirizza la discussione sul concetto di moralità. Questo concetto si riassume nella “non maleficenza” (non maleficence), che significa un'attitudine fondamentale nel non causare del male facendo una determinata azione.??! Un atto sarà morale se non causerà del male ai soggetti coinvolti, compreso il soggetto agente. È sbagliato infliggere dolore o una “perdita” ad un altro essere umano.” Il concetto di non maleficenza è un concetto che viene esemplificato in una serie di azioni da cui è possibile individuare quelli che si definiscono “concetti morali di base” o insiemi morali di base (basic moral notions) e da cui derivano una serie di “regole-norme morali di base” corrispondenti (basic

moral rules).?>

Un'altra importante specificazione della non maleficenza è che essa non è “prima”, in via logica, dei concetti morali di base, ma anzi nasce dal racco-

gliere la caratteristica comune a questi, che è appunto il causare male a qualcuno. “Moral action and Christian Ethics” ha nel concetto di non maleficenza una delle idee centrali.

Dire che è possibile avere un modo per esprimere la moralità, il concetto di non maleficenza, permette di sottrarsi ad una arbitrarietà nella concezione morale, allo stesso tempo confrontandosi con gli approcci analitici alla stessa.294

Le nozioni morali di base — uccisione, furto, inganno, tradimento e simi-

lari — corrisponderanno ad alcune azioni — assassinare, rubare, mentire, tradire — che potranno essere in certi casi chiaramente individuate come malvagie. In altri casi sarà determinante il contesto in cui si situa una determi-

nata azione ed altri fattori legati ai soggetti coinvolti. Ma se qualcuno negasse la loro esemplarità nella prima situazione ricordata — sono cioè un male — si giungerebbe ad un rifiuto del concetto stesso di moralità e si cadrebbe nell’irrazionale cioè nel dis-umano.?

2! Utilizzato nel seguito come principio guida della giustizia. Cfr, cap. 2, b) 1.3.1. 22 ]. PoRTER, Moral Action, 52.

23 vt} 58: 24 Nell’originalità della proposta, mi sembra che questa impostazione abbia dei punti di contatto con quelle che specificano il primo principio della moralità. In fondo la stessa “non maleficenza” può essere pensata come una ridefinizione del primo principio della moralità, che nella versione semplificata è «fare il bene ed evitare il male». Cfr. M. RHONHEIMER, La Prospettiva, 233. 2° Questa idea di moralità sarà — ed è questa un’altra importante constatazione della

92

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

Siamo allora di fronte non alla certezza di un discorso di norme = o di un sistema di regole — che sicuramente dicono come comportarsi in certe situazioni, ma si acquisiscono nozioni generali delle azioni morali attraverso cui cercare di comprendere le azioni individuali confrontandole con queste nozioni generali. Nel prosieguo delle argomentazioni l’autrice che seguo rileva come questo concetto rimanga insufticiente, se non arricchito da una pro-

posta “metafisica” — come la definirà la Porter e che sarà la visione morale di Tommaso - sul significato fondativo del soggetto umano, in mancanza della quale risulta arduo affrontare i dilemmi della morale. Per il discernimento,invece delle nozioni morali di base rispetto alle azioni fattuali legate alle stesse ci si trova di fronte ancora alla incapacità dei concetti empirici generici di esprimere totalmente tutte le caratteristiche dei fatti empirici. Di fronte ad una singola azione talvolta non si riesce con certezza a scorgere la presenza o meno del principio di maleficenza, detto altrimenti se una certa azione è una violazione di un concetto morale di base o meno. Infine voglio rilevare un'ultima questione. Il principio di non maleficenza deve tenere conto della proporzionalità del bene. Cioè per vederne la violazione occorre indagare sulla natura delle azioniin cui emerge una prevalenza del male sul bene. Questo modo di procedere sembra rispondere ad un modello consequenzialista ma, come ribadisce la Porter, si tratta invece di individuare se una determinata azione possa essere un certo concetto morale di base o un altro tipo di azione.??° 1.2. Argomentazioni analitiche e analisi tommasiana 1.2.1. La questione dell'oggetto di azione

Il paragrafo precedente segnalava la problematicità dei giudizi morali, l’au-

trice cerca una teoria che possa rafforzare la ricerca morale e lo fa servendosi dell’indirizzo di Tommaso, proprio perché questo permette un discernimento tra giudizi morali giusti o sbagliati, per dire se un atto è morale o meno. Il pensiero tommasiano permette di raggiungere un indirizzo della morale, della

questione di come individuare il bene, più chiaro. Una prima constatazione è come di fronte ad un disaccordo morale sia insufficiente un ricorso ad argomenti logico-razionali: le argomentazioni non

ma Porter — di tipo analogico, cioè una razionalità che non è quella del tipo causa-effetto, i espression esso in ere comprend di permette perché proprio validità che mantiene la sua diverse e in apparenza non confrontabili. l'oggetto di 256 Ricordo le importanti analisi in merito di Rhonhcimer riguardanti 87-91. azione: aspetto che caratterizza la moralità o meno di un atto. Cfr. Ivi, 84;

DO

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

riescono di per sé a prevalere in modo illuminante le une sulle altre.?” La Porter vuole allora ricorrere ad una prospettiva che possa riguadagnare una razionalità che esprime un radicamento maggiore al soggetto di fronte alla debolezza della razionalità morale analizzata. Lo fa ricordando come l’unica via sia quella di collocare l’insieme delle concezioni morali in un contesto più ampio, cioè andare oltre le considerazioni della razionalità morale in senso analitico: introdurre un ordine di priorità nel confronto tra diverse tesi morali. La teologa americana sostiene che per fare questo occorre riprendere una tradizione morale inclusiva, individuandola in quella cristiana, perché per queste problematiche essa può offrire un contributo importante alla filosofia morale.?98 La storia dell’etica cristiana è in fondo una riflessione sull’ordine morale che è stato compreso giustamente come precedente ed in parte indipendente rispetto alla sola visione cristiana, ma proprio per questo posto suc-

cessivamente in un più ampio contesto teologale che permette di comprendere quest'ordine morale con uno sguardo più complessivo.??? Questa tradizione ha in Tommaso uno dei suoi interpreti illustri. La teologa statunitense per questo effettua una analisi puntuale dell’atto morale nella Summa Theologiae. Una questione centrale che emerge da essa riguarda quali siano i criteri per dire se un'azione è morale o meno — buona o meno — e trova una prima risposta dall’analisi della quaestio 18 della Prima secundae: oggetto, fini, circostan-

ze.6° È la ragione che definisce questi aspetti a partire dal senso dell’azione del soggetto. Perché sia valida questa razionalità per Tommaso occorre una corretta descrizione dell’azione, cioè dell'oggetto, dei fini e delle circostanze. Questa descrizione comporta dei criteri razionali per poter effettuare la stessa: una circostanza, ad esempio, se compresa in modo razionalmente sbagliato può portare a descrivere l’azione diversamente e comprendere che un atto, ad esempio, non è morale.?° 27 L'autrice che seguo mostra, ad esempio, che sull’eutanasia un confronto razionale di argomenti incontri ad un certo punto uno stallo insuperabile. 2 ]. PORTER, Moral Action, 88. Porter si riferisce alla lunga tradizione della morale cristiana che comprende il pensiero cristiano classico, in particolare della scolastica. 2° Credo che questa tesi precisi l'opinione della Porter in merito allo specifico della morale cristiana e che si possa applicare come criterio di ricerca anche ad altri argomentazioni, ad esempio nell’analisi delle virtù. È anche in fondo cogliere il senso del titolo del suo

libro: Moral Action and Christian Ethichs. Penso che questa idea del discernimento dell’ordine morale nell'ampliamento della prospettiva teologica sia il modo giusto per vagliare quello che già nasce da una prospettiva della morale filosofica.

SI

LILAS:

201 Cfr. J. PoRTER, Moral Action, 95-102.

°°? Esiste una difficoltà nello specificare sempre il tipo di azione in base alla descrizione.

94

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

1.2.2. Cosa individua la moralità: le “basic moral notion s”

La descrizione dell'oggetto di azione è tuttavia insufficiente. La Porter rileva

un'osservazione fondamentale: non è l’atto in se stesso che dona una valutazione morale, ma essa deve scaturire dal confronto tra l’azione stessa e i criteri razionali, e le norme conseguenti agli stessi, generati dalla ragione .?° Cioè i criteri di valutazione morale — l’individuazione dell’oggetto, il legame con le circostanze e gli scopi che si riflettono sull’oggetto stesso — sono legati ai

principi razionali ed il confronto tra questi due termini conduce al constatare il carattere morale dell’azione stessa.26* Dunque l’oggetto di un'azione, per

Tommaso, non è altro”che il concetto generico che racchiude la descrizione della azione stessa, ma considerata dal punto di vista della ragione morale.?5

L'oggetto che individua il centro di un’azione — la qualità morale dell’atto —

è offerto in termini di descrizione e ricompreso attraverso il confronto con i concetti morali di base: sarà infatti valutato in base ai criteri della non maleficenza.?°° Detto altrimenti l'oggetto di azione cade o meno nei confini —

descrittivi — delle regole morali di base, che esprimono il principio di non

maleficenza e viene così ad individuare il carattere morale dell’azione.?9”

Questo per due ragioni: il tradurre i principi universali in principi pratici è un passaggio complesso a causa delle variabili individuali e circostanziali; le possibilità di errore vicino al particolare crescono. 2 A mio giudizio questa è una critica riguardante il definire certi oggetti di azione come non morali, che è un passaggio tipico del discorso analitico. La Porter stessa in Nature as Reason rileva che ha in parte cambiato opinione dando maggior rilevanza all’oggetto di azione in se stesso e meno alle altre componenti dell’atto morale. Cfr. J. PORTER, Nature as reason, Wm. B. Eerdmans Publishing Co., Grand Rapids — Cambridge, 2005, 270. 26 Ivi, 97: «The key to understand Aquinas at this point is given at I II 18,10 in the passage quoted above. As his remarks indicate the object of an action is nothing other than a generic concept under which an action is correctly described, when considered from the stand point of moral reason». 25 Cfr. S Th II 18, 5. Seguo analiticamente i passaggi che compie la teologa statunitense: a) Per dire se un atto è buono o cattivo, il criterio di giudizio sarà il valutare l'oggetto in legame con il criterio di non maleficenza; b) l'oggetto è confrontato con ciò che descrivono i concetti morali di base; c) è l'oggetto che offre la qualità morale dell’atto: la comprensione dell’oggetto di azione permette di giudicarla moralmente. 266 La Porter afferma che alcuni autori propongono una visione di Tommaso dove l’oggetto di azione è sempre dato in modo non ambiguo dalla globale descrizione dello stesso. Un giudizio morale su di un'azione non può basarsi unicamente sulla descrizione della stessa, perché per individuare un’azione occorre aver capito il suo oggetto, cioè il significato che è all’interno della descrizione della stessa. In riferimento agli oggetti di azione, cfr.

M. RHONHEIMER, La Prospettiva, 125-128. 267 Inoltre la Porter accanto alla non maleficenza propone il principio di eguaglianza.

95

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Per Tommaso — secondo questa interpretazione originale della Porter per questa tematica — i termini di paragone nell’analisi di un’azione si avvalgono di generiche nozioni morali (basic moral notions), che identificano una certa categoria di azioni, che esemplificano lo sbagliato o il lodevole, e che possono

applicarsi in modo razionale, attraverso le corrispondenti regole morali. Le considerazioni precedenti mostrano un accordo con quello che possiamo individuare come comune tra Tommaso e la visione morale contemporanea: una compatibilità tra la proposta analitica e quella di Tommaso nel comprendere la morale.?° La Porter si chiede tuttavia cosa contraddistingua il pensiero di Tommaso visto che eguaglianza e non maleficenza sono le due componenti presenti nella costruzione morale analitica e in quella di Tommaso. Sembra che l’impostazione tommasiana non abbia niente da aggiungere all’impostazione analitica delle nozioni morali di base. In realtà lo specifico di Tommaso sta proprio nel concetto di un agire secondo ragione. Il significato dell’agire secondo ragione è analogico nel senso che è cercare una “perfezione” come avviene per tutte le creature. Per il soggetto umano questa perfezione è legata alla ricerca razionale del bene proprio.’ Affermare la razionalità significa far vedere come il soggetto si indirizza razionalmente dirigendo le sue passioni e la sua volontà.?7° La prospettiva di Tommaso oftre un arricchimento perché si ottiene anche una determinazione di questa razionalità: infatti le specifiche del soggetto, quello che lui è come essere umano, influenzano i criteri della razionalità morale, ispirano le dimensioni delle regole morali di base.?”! 1.2.3. Inclinazioni, legge naturale e razionalità morale

Ne è esempio il principio di eguaglianza che è complementare a quello di non maleficenza. La sua espressione assume una profondità differente se arricchito dalla prospettiva tommasiana che non propone solo una razionalità logica, ma quella propria del soggetto umano. Le conclusioni comportano che la speciLI

Non ne sviluppo in questo capitolo la comprensione dettagliata che sarà ripresa nell’analisi specifica dei temi della giustizia. Cfr. cap. 2. 26 J. PoRTER, Moral Action, 102-102. CGS LINO drads 27° In particolare per l’oggetto di questa ricerca, se ci si sofferma sulla volontà, per essere razionale, sarà guidata dalla virtù della giustizia. 27! Questi criteri non sono altro che quelli che nel linguaggio di Abbà sono indicate come massime della stessa ragion pratica. Cfr. G. ABBA, Felicità, 217 ss.

96

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

ficità di certe dimensioni dell’umano precisi il principio di uguaglianza e che dunque i concetti basilari della moralità ne vengano plasmati.?”?

I principi di razionalità riflettono la struttura metafisica nella quale si esprime l’intero pensiero del teologo medievale, cioè la visione che riguarda che cosa sia una creatura.??3 Il pensiero morale di Tommaso è governato da una comprensione chiara di chi sia la creatura umana, nell’ambito generale del concetto di creaturalità allargato a tutti gli esseri. A questo proposito Tommaso non deriva direttamente delle norme morali dalla struttura della persona umana. Però usa questa struttura per portare un ordine nelle scelte ed azioni del soggetto che trovano poi espressione nelle norme morali di base.??* Questa tematica delle inclinazioni naturali è detta altrimenti la riflessione che riguarda la legge naturale. La Porter per spiegare la struttura della persona si richiama ai passi di Tommaso sulla legge naturale, analizzando la, forse, più nota quaestio della Summa Theologiae che tratta la legge naturale: S Th HI 94, 2. Passaggio celebre, ma molto frainteso. Tommaso, per la Porter, afferma l’esistenza di un unico indirizzo della legge naturale, un precetto che sta alla base di tutti gli altri e dona coerenza alla vita

morale: come c'è un primo principio della ragionevolezza teorica (first principle ofreasoning) allora deve esistere anche un primo principio della ragion pratica: «Il bene è da farsi il male da evitarsi».?? Tommaso mostra come questo orientamento verso il bene assuma delle inclinazioni fondamentali nei soggetti, alcune uguali a quelle delle altre cre-

ature, altre proprie.” Esse aiutano a elaborare un ordinamento per i precetti

della stessa legge naturale. Tommaso indica che le inclinazioni creano un ordine nei precetti della legge naturale.?”” 272 Non approfondisco, in questo quadro iniziale che ha come oggetto la riflessione della

a come criterio Porter, l’esemplificazione sull’uguaglianza che è associata alla non maleficenz

del razionale perché sarà oggetto della riflessione in merito alla giustizia. 273 J. PortER, Moral Action, 107-108.

alle inclinazioni si 274 Dire ciò è ricollegarsi alle inclinazioni del soggetto, dove in base

ottiene un ordine tra i beni che il soggetto deve scegliere nel suo agire. 275 Per la ragione teorica è il principio di “non contraddizione”. beni basici. Rimanere 276 La Porter descrive queste inclinazioni come aspirazione verso i diamo con altre creature. nell’esistenza e continuare la specie sono componenti che condivi in società. Anche la Porter proAltre sono solo umane e saranno contemplare Dio e vivere retazione della legge naturale pone, come Abbà e Rhonheimer, il confronto con la reinterp offerta dalla “new natural law theory”. i della legge naturale compor277 In precedenza la Porter ha fatto notare come i precett assume un contenuto nella compotino il fatto di amare Dio e il prossimo. Quest'ultimo

97

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Come il nostro essere orientati verso il bene — i beni — viene guidato dalle inclinazioni, così le norme morali — radicate nei precetti della legge naturale —

esprimono l’orientamento delle inclinazioni. Le inclinazioni non sono i beni in sé, ma l’aspirare a quei beni, l'orientamento verso di essi. Le inclinazioni

rappresentano le aspirazioni, o i fini delle creature; caratterizzano dunque gli stessi esseri umani ad un certo livello di partecipazione dell’essere del cosmo. Ci sono inclinazioni di base — comuni a tutti gli esseri — ed inclinazioni

più elevate. Il soggetto partecipa a questo ordine naturale. Inoltre scopre delle inclinazioni che indirizzano ad una perfezione: nella partecipazione alla dimensione metafisica dell’essere.??* Ad esempio il legame tra le inclinazioni, la socialità in particolare, e la giustizia conduce a qualificare il bene umano

nella sua piena espressione.??? Le inclinazioni per essere perseguite nella dimensione morale necessitano della razionalità — meglio delle virtù che guidano l’aspirare — la quale, ad esempio, sancisce “il come” si vogliono realizzare certe inclinazioni che se

rimangono ad un livello di generica aspirazione non esprimono il bene specifico da perseguire secondo i singoli individui e le circostanze. Le inclinazioni

permettono di migliorare il discorso razionale affinando i concetti morali basilari e i concetti generali della morale. In generale l’indirizzo metafisico della moralità, nella Summa Tbeologiae, permette a Tommaso di determinare i confini e le limitazioni della respon-

sabilità morale: quindi consente di distinguere tra azioni che cadono entro i limiti della responsabilità morale — di una delle norme morali di base — e che nente di evitare di fare ad altri del male: i precetti della legge naturale rispettano e possono essere ridetti con l’idea della non maleficenza. Cfr. S Th I- II 100,1; 3; 5. 278 ]. PoRTER, Moral action, 109. In particolare J. Finnis è contrario a questa idea dell’ordinazione delle inclinazioni. Egli afferma che non sarebbero tenute adeguatamente in conto inclinazioni solo legate alla sensibilità per preferire quelle razionali in quanto superiori. In realtà, risponde la Porter, è giusto dire che le inclinazioni lasciate a se stesse, solo al livello

naturale, possono non portare al bene del soggetto. Tutta questa questione è ben specificata in: Ip., Recovery of virtue, Westminster/J. Knox press, Louisville-Kentucky 1990, 92. Gli

esponenti della “new natural law theory”, Finnis e Grizes in particolare, sostengono non solo che il primo principio della ragion pratica sia autoevidente, ma anche che lo sia la bontà dei beni che sono oggetto delle inclinazioni. Nessuno può agire in modo da escludere razionalmente la possibilità di usufruire di qualcuno dei “basic goods”. La teologa americana ricorda come la differenza morale si costruisca, per Tommaso, non nel fare il male distruggendo un bene fondamentale, ma in merito alle azioni che possono causare il male delle persone. Inoltre viene ribadita la necessità delle virtù per l'agire buono. 279 La razionalità diventa maggiormente fondata a partire dall’orientamento delle inclinazioni. Un altro esempio può essere quello del preservare la vita come qualcosa che viene prima che preservare la proprietà.

98

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

dunque hanno il carattere di azioni morali e quelle che invece non vi ricadono e che sono azioni non morali. In generale è giustificata ogni azione

che esprime — può essere descritta secondo — la pienezza razionale (rational fulfillment) delle inclinazioni primarie.?8° Tommaso definisce un certo comportamento come morale se conduce alla pienezza del bene autentico. 1.3. Azioni e virtù 1.3.1. L'associazione tra azioni e virtù

La Porter introduce ed/analizza la funzione delle virtù nel dirigersi alla mora-

lità: come la loro azione sia importante perché il soggetto operi il bene autentico.?8! Due sono i temi centrali:

a) il primo il rapporto tra virtù e dovere. Si presentano alcune precisazioni sulle questioni della determinazione dell’azione che corrisponde ad una logica delle prime o del dovere;

b) il secondo la funzione delle virtù rispetto al potenziamento delle capacità operative che la Porter stessa riprende soprattutto da G. Abbà.?8°

Esiste un'imprecisione delle virtù rispetto alle regole morali. Non è possibile dire se una certa azione scaturirà sicuramente da una virtù posseduta dall’agente. La Porter qui critica in particolare E. Pincoffs, uno degli autori che hanno più scisso virtù e dovere.?83 Le virtù non sanno indicare direttamente un'azione cattiva. Se diciamo che il linguaggio delle virtù è indeterminato significa nella sostanza negare che un

certo tipo di azioni sia incompatibile con determinate virtù. Questa indeterminazione corrisponde all’incapacità delle norme di interpretare totalmente una realtà. Inoltre esiste, come analizzato in precedenza, lo scarto tra con-

cetti empirici e possibilità descrittive. Dunque indeterminato non vuol dire 280 Esempio che fa Tommaso è legato alla dimensione procreativa come primo fine dell’unione sessuale: l’adulterio è non morale (è irrazionale), perché la procreazione legata

all’atto sessuale non godrebbe della forza della dimensione genitoriale legata al matrimonio. Cfr. S Th II II 154,2. Voglio sottolineare come non sia tanto importante il contenuto dell’affermazione ma la questione della razionalità. Questo esempio ha un rigore logico solo se la premessa riguardante il primo fine dell’unione è posta come primaria, cosa che per Tommaso è scontata, molto meno per un contesto culturale differente come quello contemporaneo. 281 Cfr. J. PoRTER, Moral action, 126-166. 282 Ivi, 152 (218 note 24; 25).

283 Ivr, 125 (216 nota 2): E. Pincorrs, Quandaries and Virtues: against reductivism in Ethics, University Press of Kansas, Lawrence 1986.

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LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ

totalmente incapace di esprimere una azione buona o malvagia, di indicare una dimensione morale in generale, ma solo la difficoltà di esprimerle tutte. Anche alle virtù corrisponderanno comunque una serie di azioni che sono legate alle stesse: se una persona è coraggiosa saprà — in generale — rispondere alla possibilità di fare il bene in determinate situazioni e non il male corrispondente. Questo genere di azioni riescono ad indicare una paradigma per le virtù, cioè individuano quello che può essere percepito come virtù del coraggio nell’esempio utilizzato. Da questa considerazione nasce una descrizione di aspetti delle virtù in rapporto alle norme: a) le virtù non esprimono di per sé un’azione non morale certa che invece è

sempre presente nelle “basic moral rules”: le regole che determinano l’appartenenza di alcune azioni al campo delle azioni buone o cattive. Detto altrimenti una virtù non individua direttamente un male; b) alcune azioni sono comunque ricollegabili sicuramente alle virtù;

c) per determinare l’azione promossa dalla virtù occorre sempre inserirla in una dimensione razionale intesa come individuazione del bene; d) l’eidetica delle virtù è legata ai vizi corrispondenti. Aspetto che segnala la necessità di legare le virtù al contesto corrispondente, per comprenderne la specificità. La Porter a questo punto ritorna alla sua tesi fondante: le virtù andranno

inserite in un contesto più ampio che è l’approccio “metafisico” secondo il pensiero più autentico dello stesso Tommaso. Solo così le stesse virtù potranno esprimere un ordine e una forza normativa. Infine comprendere la moralità non sarà solo la questione del linguaggio delle virtù, ma sarà sempre invece agire moralmente, virtuosamente. 1.3.2. Funzione e caratteristiche delle virtù

La trasformazione necessaria delle qualità del soggetto agente per raggiungere la moralità è forse la tesi della Porter che ci è più familiare proprio perché ripresa dagli studi di Abbà. È una disamina delle virtà che mette in luce il legame con il potenziamento delle facoltà operative. In questo modo è possibile giungere alla felicità tramite l’agire razionale per il bene.?84 Il rapporto tra la prudenza e le altre virtù è determinante per comprendere la dinamica del soggetto verso l’azione: nella visione aristotelica le virtù sono adeguate al “giusto mezzo”. Significa che sono in accordo con il giusto mezzo 284 J. PoRTER, Moral action, 151-157.

100

CAPITOLO PRIMO — ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

fornito dalla razionalità. La prudenza è da un lato una virtà intellettuale, ma che inerisce la sfera del “pratico” e agisce come le virtù morali. Riguar da la dimensione pratica dell’intelletto.?85 Le altre virtù morali non perseguono solamente quello che viene dettato dalla prudenza, ma sono esse stesse dirette dalla ragione a perseguire il bene. Questo avviene attraverso una propria azione razionale, indirizzando gli appetiti e la volontà. Cioè le virtù non sono solo delle facilitazioni a perseguire il bene, come si pensa in altre impostazioni ad esempio quella kantiana, ma sono esse stesse capaci di determinare questo bene. Il rischio è di incorrere in due interpretazioni errate: a) la prudenza discerne e le virtù morali favoriscono il raggiungere quello scopo. Nella Summa Theologiae Tommaso dice esplicitamente che la prudenza non fissa lo scopo delle virtù: è la ragione, che funziona come “synderesis”, che fissa gli scopi, i fini delle virtù. Le virtù morali dispongono l'agente verso il bene, perché è insufficiente che il bene venga colto intellettualmente senza la spinta della volontà e delle passioni.?8° b) a questo punto sembra che il processo si sia invertito, che lo scopo dell’azione venga fissato dagli appetiti razionali e passionali e che alla prudenza non resti che il passaggio di trovare mezzi appropriati. In realtà l’azione della prudenza è sempre anche sul versante delle intenzioni generali del soggetto. Dunque non si deve cadere in un riduzionismo e dimenticare una relazione dialettica e relata tra i punti sopra esplicitati. Se si privilegia una o le altre come determinanti uniche dell’azione virtuosa si incorre in una interpretazione errata.

In sintesi il soggetto la cui volontà è orientata al bene ha una nuova capacità di discernimento; una sensibilità nuova per comprendere ed agire in determinate situazioni che manca invece in chi non possiede questa caratteristica. Un'altra precisazione si presenta quando la teologa americana propone la compatibilità tra norme e virtù. Viene espressa con tre considerazioni: a) anche le norme non sono applicabili come un processo decisionale di tipo logico-matematico; b) l’uomo saggio si differenzia da chi segue solo una norma — che fra l’altro anche lui deve seguire — per il fatto che le norme debbono essere applicate con un itinerario legato alla prudenza;

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101

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

c) applicare una norma razionale non vuol dire risolvere tutti i casi possibili. Piuttosto applicare un certo concetto nella maggior parte dei casi. La Porter ha mostrato così che le norme hanno una dimensione maggiormente simile alle virtù, meno netta in queste ultime, nel riuscire a definire

certe azioni. Dall’altro lato la persona prudente coglie con certezza il centro di una certa nozione morale. Esiste un ultimo aspetto che viene posto all’attenzione: è quello della connessione tra le virtù. In fondo significa dire che ciascuno deve possedere la pienezza delle virtù. Questa idea sembra ardua, difficile, vista l’imperfezione umana, ma il possesso delle virtù vuole essere innanzitutto una qualità per la dinamica delle scelte, per la moralità. Se manca un indirizzo comune degli

appetiti e della prudenza, un atto con difficoltà potrà esprimerà il bene, cioè essere un atto virtuoso. L'insieme delle virtù sarà necessariamente legato a tutte le facoltà operative. Connessione delle virtù non significa solo l’atto virtuoso in sé, piuttosto un rimando al soggetto agente. Non perfezione attuale

dello stesso, ma nell’affermazione che la totalità delle virtù è quell’insieme armonico che conduce, nel contingente, all’azione buona, e in prospettiva guarda a raggiungere un compimento nel bene proprio del soggetto. 1.3.3. Disposizioni del soggetto e virtù

Il tentativo della teologa americana è quello di mostrare come nonostante la non corrispondenza — o meglio una corrispondenza parziale — della descrizione “psichica” dell’impostazione di Tommaso rispetto alle concezioni contemporanee, l'impianto delle virtù possa essere invece ancora profittevole per la morale.?5” La distinzione tra facoltà diverse ha infatti la sua debolezza. In aggiunta Tommaso non attribuisce molta importanza alla dimensione della crescita umana ed inoltre non riconosce il ruolo primario delle dinamiche delle forze sociali nel condurre l'identità individuale. Nonostante questi difetti la sua rimane un'impostazione morale impor tantissima ancora oggi per i soggetti, basata sul nucleo portante dell’impostazione delle virtù, attraverso la loro capacità di indirizzo del soggetto nel cer-

care ed attuare il bene che corrisponde alle sue dimensioni proprie in quanto soggetto umano razionale. Ha senso riproporre l'indirizzo tomista alla luce della comprensione dell’uomo contemporanea perché la possibile riformulazione mette comunque in luce due punti che rimangono immutati:

287 J. PoRTER, Moral action, 167-169.

102

CAPITOLO

PRIMO

— ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

a) la persona è capace di critica razionale del suo agire contingente proprio tramite le virtù; b) il giudizio morale attraverso le virtù mostra una teoria razionale che permette la critica delle idee morali. Essa può essere definita come auto-riflessione morale (selfreflectiveness).?88

La conclusione generale è in sintonia con tutta l’etica della prima persona: innanzitutto l'indirizzo di Tommaso rimane valido oltre una possibile riformulazione psicologica e pedagogica. Rimane centrale il fatto che le virtù cardinali siano perfezioni dell’azione umana “per sé”; sono un perfezionamento dell’attività intellettuale, volitiva e passionale per il raggiungimento del bene

proprio, cioè la pienezza della moralità. In sintesi emergono tre aspetti che caratterizzano l’idea di virtù: — la connessione tra le virtù ed il bene dona un modo di proporre le stesse che è la prospettiva che permette di comprenderne davvero il significato;

una virtù cardinale può prendere forme diverse a seconda delle situazioni e dei caratteri degli agenti: la stessa virtù può avere degli esiti pratici in apparenza opposti; -— la virtù è sempre collegata ad un agire. Un concetto di virtù che ponga il soggetto in un agire oltre le sue possibilità non avrebbe senso.??°



La Porter infine offre a questo punto un argomento che opera una sorta di sintesi per tutto il percorso fatto finora. Esso è in fondo comune ad Abbà e

Rhonheimer: il concetto stesso di bene per il singolo si arricchisce dalla pra-

tica delle virtù. Detto altrimenti l’ideale di vita umana si trasforma grazie alla pratica delle virtù. Le moderne teorie morali offrono un'impostazione basata sui giudizi

morali razionali e sui modi per ordinare gli stessi che sono proficui per la moralità?”. Senza questa impostazione la morale sarebbe solo orientata dai

bisogni o dalle emotività delle persone. Tuttavia gli stessi lavori contemporanei nella filosofia del linguaggio ed e in filosofia morale hanno stabilito che una teoria morale in una accezion

moderna, cioè solo basata sulle regole razionali, non riesce a risolvere i proproblemi morali che sono sempre più all’attenzione delle discussioni morali, Porter perché essi toccano 288 Non seguo qui i passaggi di questa riformulazione della

ondimento — e di critica — e che non dimensioni pedagogiche che necessiterebbero di approf se non marginalmente. sono state approfondite nelle riflessioni di questo lavoro 282 Tv, 196-199.

pericolo. 290 Ad esempio essere guidati dal coraggio non è sfidare il 291 Ip., Moral action, 200.

h05

LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ

prio per la natura incompleta dei giudizi razionali stessi. Il contributo di Tommaso riapre da capo questa questione — la moralità come totalmente capace di preordinare l’agire attraverso i teoremi morali — perché ribadisce che tale teoria non è necessaria: esiste infatti una teoria più flessibile ed utile ed in

parte simile anche alla analitica delle regole morali. Essa è una alternativa che rispetta la razionalità morale, pur non offrendo le certezze kantiane, e che

offre una prospettiva sufficiente per l’agire buono. La Porter conclude dicendo che Tommaso propone — al di là del linguaggio e di certe sue categorie concettuali desuete — una via profondamente umana e liberante alla morale: quella di una razionalità arricchita dal proprio dell’umano, la razionalità della teo-

ria delle virtù.

F) Prospettiva sintetica

Esprimo una serie di punti che vogliono in modo riassuntivo offrire una prospettiva sintetica degli autori proposti e che utilizzerò come prospettiva generale della ricerca sulla giustizia nei capitoli successivi. a) Un primo aspetto che emerge ascoltando gli autori di riferimento scelti per questo sguardo, introduzione generale all’etica delle virtù, è un legame

profondo tra teologia e filosofia morale.??° In questo lavoro questa continuità è la premessa per l’indagine. Se l’indagine filosofica si apre ad un arricchimento teologale è possibile dare un senso più globale alle riflessioni proposte giungendo ad una vera e propria teologia morale. Questa è in fondo la logica della Summa Theologiae. In essa l’analisi delle virtù che riguardano l’uomo necessita del guadagno di quello che giunge dalla prospettiva teologale come compimento dell’umano. L'esempio migliore di questa logica è nelle pagine di Abbà e della Porter. Il primo mette come condizione necessaria per una felicità possibile il fatto che Dio si faccia garante di essa. La seconda vede nell’intera struttura metafisica di Tommaso la possibilità di risposta ad alcuni dilemmi morali. Questa considerazione è complementare al discorso dell’indagine pratica in merito all’agire del soggetto. Ò Attraverso soprattutto il lavoro di Abbà ho mostrato che la situazione pratica originaria è la fonte dell’indagine morale. La riflessione filosofica renderà 2°? In questo far emergere i punti salienti delle analisi dei quattro autori visti, non pro-

pongo un resoconto analitico delle idee che vengono espresse, e rimando per questo alle sintesi che ho fatto di ciascuno nei paragrafi precedenti.

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CAPITOLO

PRIMO

— ETICA DELLE VIRTÙ

E GIUSTIZIA

esplicito il concetto di azione, i principi che la dirigono e le caratteristiche del

soggetto agente. b) Gli autori esaminati ci ricordano che questo tipo di indagine morale ha carattere teleologico. La possibilità di affermare un fine ultimo formale, la felicità, trova una realizzazione nel bene perseguito dal soggetto: questo bene è la condizione necessaria ma non sufficiente per raggiungere questo fine.

Voglio sottolineare come questa premessa teleologica classica, in fondo propriamente aristotelica che viene arricchita dell’apporto tommasiano per uscire da una circolarità di spiegazione della condotta morale altrimenti non vincibile come ha precisato Rhonheimer, non sia superabile da altri approcci teoretici e soprattutto senza di essa non si possa dar conto di una teoria delle

virtù che diverrebbe contraddittoria. c) Affermare l’“eupraxia” o vita buona significa affermare il dirigersi, nella condotta vitale, verso una serie di espressioni del bene che diventano il fine ultimo del soggetto. In particolare Abbà e Rhonheimer hanno spiegato come questi concetti restino al livello formale e debbano assumere un contenuto concreto nel bene autentico del soggetto. Definire questo bene proprio, autentico, è una delle complessità di questa visione teoretica. Quale sarà l’espressione di questo bene introduce una pluralità di risposte. In queste pagine il termine “moralità” vuole indicare questo indirizzo al bene proprio del soggetto. Nei nostri autori esistono delle differenze nella spiegazione di questa individuazione del bene proprio: -— Abbìà utilizza in fondo l’idea di “ordo rationis” che è “ordo virtutis”: le virtù

avranno una duplicità nel senso di essere eccellenze dell'agire ed un perfezionamento delle disposizioni del soggetto. Solo con l’acquisizione delle

stesse sarà possibile giungere alla moralità. Solo chi è virtuoso è capace di -

indirizzarsi al bene. Rhonheimer e la Porter affermano la presenza di quella che viene detta

“legge naturale”. In realtà siamo di fronte ad un concetto simile al precedente, ma espresso in modo diverso. L’affrontare la questione della legge naturale non è l’oggetto di questa ricerca. Dalle sole considerazioni dei nostri autori ne emerge però la complessità.

In via riassuntiva la comprensione di diverse componenti — le inclinazioni naturali, i beni che vi corrispondono, la volontà buona rispetto ad inclinazioni e beni, la razionalità come indirizzo al bene — deve essere tenuta insieme perché questa teoria sia esaustiva. Questi quattro clementi si fronteggiano e relazionano per determinare che cosa possa essere il bene proprio del soggetto. Rhonheimer è maggiormente sbilanciato in una comprensione razionale della legge naturale: la razionalità propria dell’uomo è capace di individuare 105

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

le dimensioni proprie del bene umano. I soggetti hanno una capacità di guida razionale che si esprime nell’azione delle virtù. I precetti della legge naturale non sono altro che i principi della ragion pratica. Egli vede nelle inclinazioni umane come una sorta di suggestione iniziale, ma che solo nella interpretazione razionale, e non naturalistica, ha poi la capacità di dirigersi moralmente. La legge naturale non è il movente della razionalità, ma ne è piuttosto

il frutto. La Porter invece sottolinea l’esistenza delle inclinazioni che hanno una presenza determinante nell’individuazione del bene da conseguire. Abbà lega le virtù al loro indirizzo razionale, caratteristica che permette

di conseguire la moralità del soggetto. Inoltre sottolinea che non basta volere i beni che sono buoni, ma occorre volerli con una volontà buona. Solo una volontà che si indirizza al bene è capace di dirimere conflitti tra beni o addirittura tra virtù. d) Tutti e tre gli autori danno molta importanza al primo principio della razionalità — o altrimenti detto primo principio della legge naturale — che permette di uscire da una soggettività in merito al bene. È importante comprendere che questo principio nasce dal fattuale, emerge cioè dalle scelte che i soggetti fanno per l’azione ed esprime la moralità dei medesimi. e) Abbà ricollega i principi della ragion pratica, quelle che egli chiama massime, agli scopi delle virtù. Soprattutto quest'ultima assunzione — che è anche

quella di Rhonheimer e della Porter con sfumature diverse come ho precisato nel testo — è centrale, perché permette il legame tra bene e autenticità di questo bene attraverso la razionalità delle virtù. Senza questo legame — tra inclinazioni, beni e virtù — non si capisce in che senso i principi si distinguano da una razionalità che sarebbe indipendente ed a priori dal soggetto stesso e che poi si esprimerebbe nella consueta dimensione normativa. Mi pare che questa assunzione sia anche importante per comprendere un

criterio oggettivo di indirizzo delle virtù: le massime sono dei principi guida delle virtù. Infatti il problema è teorizzare un legame tra virtù e moralità. Le virtù riescono ad indirizzare al bene se guidate dai principi razionali o massime. È così possibile individuare un'idea di virtù che non sia generica, ma che risponda ad una dimensione oggettiva. Se la virtù è soggettiva, ognuna sarà diversa e inconfrontabile, se risponde ad un principio razionale, diventa confrontabile e dunque è possibile comprendere quali modalità virtuose è auspicabile che il soggetto acquisisca per dirigersi moralmente. f) Un'ultima considerazione, comune agli autori proposti, è la presenza

delle virtù in un soggetto che si indirizza al bene. Proprio perché il soggetto è mancante, impreparato a condurre una vita veramente buona, occorre che 106

CAPITOLO

PRIMO

— ETICA DELLE VIRTÙ E GIUSTIZIA

acquisisca le virtù. Non c'è moralità senza l’arricchimento delle virtù. Se questa affermazione è al centro dell’impostazione dell’etica di Abbà, essa trova riscontro nelle analisi di MacIntyre: quando il filosofo scozzese descriv e la natura umana nelle sue potenzialità iniziali essa è incapace di giungere al fine proprio. Solo grazie alla direzione impressa dalle virtù può raggiungere il medesimo. La Porter riassume tutto questo dicendo che il concetto stesso di bene per il singolo si arricchisce dalla pratica delle virtù, detto altrimenti l’ideale di vita umana si trasforma grazie alla pratica delle virtù. Dunque senza le virtù non si riesce ad individuare una prospettiva per l’etica che sia sostenibile. Proseguire questo lavoro sarà nei capitoli successivi vedere come tutto

quello che è stato affermato in via generica per le virtù possa declinarsi per lo specifico della giustizia. Ricordo che la sfida di questa ricerca è dire cosa significhi affermare la giustizia come virtù, cioè sul piano soggettivo, e come relazionarla invece con un

piano oggettivo, quello dove la giustizia è per così dire già disponibile nelle regole e norme che stanno di fronte al soggetto. Da tutto quello che è emerso finora non esiste l'opposizione tra soggettivo e razionale. Di qui l’approdo alla moralità. Questa ricerca si indirizzerà nell’individuare quali sono le massime che guidano la giustizia e come esse si traducano nella virtù medesima. Quali saranno i beni ed inclinazioni che essa comporta e verso cui il processo di riconoscimento del bene si orienta. Cosa significa proporre come condizione necessaria per il bene dell’uomo che egli possieda la virtù della giustizia. Voglio segnalare che nel quadro generale delle virtù attraverso alcune delle pagine dei quattro autori affrontati mancano naturalmente alcune prospet-

tive, o meglio esistono alcuni accenni che non sono stati sviluppati e che desidero poi inserire nell’analisi della giustizia che segue. Un primo aspetto, in particolare a partire dall’etica di MacIntyre, dice che il discorso sulla giustizia deve tenere conto della dimensione sociale e di quella storica: la questione delle tradizioni e delle pratiche senza le quali le virtù non troverebbero una loro vitalità. Detto altrimenti è esprimere come l’“ethos” si inserisca nella comprensione razionale delle virtù.?? Questo aspetto chiede di 29 Abbà propone un capitolo intero di Felicità, vita buona e virtù dove fa rilevare che le massime non sono l’unica componente della ragion pratica, la regola morale nasce anche dal confronto con un altro elemento che fa parte della ragione morale del soggetto: è la “visione” — una conoscenza sapienziale — che egli ha del mondo ed essa influisce profondamente sulle

107

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

approfondire le comunità dove prendono corpo le virtù, in particolare come l’aspetto comunitario della vita cristiana comporti una caratterizzazione delle stesse nel senso di uno specifico di questa. Un secondo aspetto è quello della acquisizione delle stesse virtù. Esso è stato finora solo accennato in alcuni brevi spunti di Rhonheimer e della Porter. Naturalmente non può che essere intrecciato con le considerazioni pre-

cedenti. Non esiste virtù che non cresca e si formi nella storia del soggetto. Questi temi saranno oggetto del terzo capitolo di questo lavoro. Infine un ultimo tema riguarda l’aspetto cristiano delle virtù. Qui non si è approfondita quell’apertura di cui dicevo all’inizio di queste considerazioni, apertura che comporta l'apporto delle virtù teologali. Vedere come la dimensione teologale fornisca un compimento delle virtù che è non raggiungibile attraverso un'etica solo umana e che resta comunque indispensabile premessa

per questo compimento sarà oggetto di studio nel quarto capitolo di questo testo.

virtù. Cfr. G. ABBÀ, Felicità, 256. Questa dimensione sapienziale è determinante in particolare per la prudenza.

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CAPITOLO SECONDO

RAZIONALITÀ NATURALE DELLA GIUSTIZIA

A) Le inclinazioni naturali per la giustizia 1.1. Premesse

Per giustificare la tesi della giustizia come virtù compio una prima analisi che vuole delineare la giustizia stessa come un perfezionamento della volontà del soggetto. Perché però è possibile individuare la giustizia con parte delle azioni virtuose che portano al fine proprio del soggetto umano?! Come può giustificarsi il fatto che la giustizia sia necessaria a questo fine, cioè alla pienezza dell’esperienza umana?

Queste due questioni ci aiutano a riflettere sull’ipotesi di proporre la giustizia innanzitutto nell’ambito del raggiungimento del fine proprio umano. La prospettiva che seguo dunque ha una profonda radice teleologica sulla scia dell’impostazione degli autori cui ho fatto riferimento nel capitolo primo di questo lavoro e naturalmente, alle spalle di questi, in relazione a Tommaso. Per una visione che mette in luce il fine occorre però precisare i contenuti del medesimo: un fine della natura umana e non di qualche altra specie. Non voglio qui reintrodurre le distinzioni, che ho cercato di spiegare attraverso il pensiero di G. Abbà e di M. Rhonheimer, sulla felicità perfetta e imperfetta.? La seconda necessiterà di un contenuto, quali sono le componenti ovvero i beni che la realizzano, e della spiegazione di come nasce un indirizzarsi a quei beni. ! In questo caso l’uso del termine virtù dice le azioni virtuose, nel primo dei sensi che Abbà attribuisce al termine: sono le eccellenze esibite negli atti del soggetto agente, una perfezione immanente ad essi. Le virtù sono specifiche eccellenze del vivere bene; specifiche perché richieste per raggiungere la vita buona. Cfr. G. Abpà, Felicità, 244. ilbiriciplleeNli2 2escapr 10) 1,12. Inoltre anche nel seguito: cfr. cap. 4, byales:

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Le questioni sui fini non sono indipendenti dalle virtù. Solo il soggetto virtuoso ha la capacità di indirizzarsi ai fini umani propri. Inoltre nell’impostazione seguita il tema delle virtù è legato all’interesse per la legge naturale. Quest'ultima può essere il modo in cui è possibile affrontare il rapporto tra natura umana e ricerca del bene e che come conseguenza comporterà il tema della doverosità della seconda per la realizzazione della prima. Senza interrogarsi sulle questioni della legge naturale, la prospettiva delle virtù che ricomprende la giustizia non può dare i frutti sperati. Le virtù necessitano di un radicamento nella prospettiva del fine, di una natura, quella umana, che può essere espressa nella categoria sintetica della legge naturale. Allo stesso tempo le virtù stesse possono essere viste come specifiche della medesima legge naturale. Non è oggetto di queste pagine inoltrarci nelle dispute in merito alla stessa.* Sarebbe da un lato un tema che fuoriesce dall'oggetto proprio di questa ricerca, dall’altro troppo ricco di proposte alternative di difficile sintesi.

Scelgo di affrontare, attraverso alcuni autori, dimensioni parziali della questione della legge naturale che però mi permettono di tentare di rispondere alle domande sulla giustizia che ho posto all’inizio del paragrafo. La prima questione riguarda le inclinazioni naturali: come si comprendano nell’indirizzare la legge naturale. 1.2. Introduzione alle inclinazioni naturali

Questo paragrafo sulle inclinazioni si articola in una presentazione generale delle stesse. Si sviluppa poi attraverso il pensiero di alcuni autori che le hanno precisate, anche con idee diverse, sottolineando il ruolo delle virtù e della legge naturale in rapporto alle stesse. Infine lo specifico di questa ricerca vede quale sia l'inclinazione legata alla giustizia e quale valenza abbia per essa. Ogni inclinazione, che può anche essere definita come tendenza antropologica fondamentale, fa desiderare — “inclina a” — un bene generico che è uno dei fini dell'umano in senso teleologico. A questi fini corrispondono dei beni cioè quei beni — nel senso di attività virtuose — che conducono ad una felicità imperfetta.‘

* Esemplare il titolo del volume prodotto dall'Università di Notre Dame — Indiana sul

tema della legge naturale in occasione della sollecitazione di Benedetto XVI, nel 2004, sulla promozione dell’indagine in merito alla stessa legge naturale: L. CUNNINGHAM (ed.),

Intractable disputes about the natural law, University of Notre Dame Press, Notre Dame — Indiana 2009. ‘' G. SAMEK Lopovici, L'emozione del bene, Vita e Pensiero, Milano 2010, 179.

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CAPITOLO

SECONDO

— RAZIONALITÀ

NATURALE

DELLA

GIUSTIZIA

La quaestio, molto nota e molto dibattuta, di riferimento della Summa Iheologiae è S'Th I Il 94, in particolare l’articolo secondo.5 Le inclinazioni riportate nell’articolo sono specificate da una tendenza generale al bene che ha delle qualificazioni concrete: a) l'inclinazione all’autoconservazione che caratterizza tutti gli esseri. Essa ha come risultato il fatto che l’uomo tende a salvaguardare la propria vita; b) la tendenza a continuare la propria specie, comune anche agli animali, che

si caratterizza nell'unione tra maschio e femmina, ma anche in quello che comporta la crescita e la cura dei “piccoli”

c) la tendenza a vivere secondo ragione, meglio a raggiungere il bene che è

conforme alla ragione. Essa ha due inclinazioni specifiche citate: il cono-

scere la verità, naturalmente Tommaso dice la verità su Dio, ed il vivere in società. Mi sembra interessante che nel testo la prima inclinazione venga

precisata come abbandono dell’ignoranza: significa che il processo del conoscere la verità da parte del soggetto è caratterizzato da una dinamica progressiva condotta dall’intelletto umano.

La socialità viene invece arricchita dalla prospettiva del rispetto della convivenza con gli altri. Come spiego in seguito sarà soprattutto quest'inclinazione che sarà al cen-

tro del legame con la giustizia. Il pregio di questa impostazione è proprio quello di partire dalle inclinazioni maggiormente basilari per l’esistenza a quelle più proprie del soggetto umano secondo il susseguirsi di vita, sensitività e infine di razionalità. Il fatto che il soggetto umano esista, viva e voglia

continuare a farlo è la maggior testimonianza, fondata nell'esperienza pratica,

che egli è “orientato” al bene. Questo essere attratti dal bene è la fondamentale ragione del dinamismo morale umano.°

5 S ThI II 94,2. Non ho riportato tra le inclinazioni il primo principio della moralità, che viene indicato, perché occorre dedicare ad esso una riflessione specifica che affronto in seguito con i principi di razionalità. Cfr. infra cap. 2, b) 1.2.3. 6 Le inclinazioni sono sempre inclinazioni che vanno comprese in relazione al soggetto umano. In particolare esse saranno perseguite razionalmente, il che significa comprenderle in una “maniera” umana. In questo lavoro il termine razionalità — come conforme a ragione — che in generale delinea la dimensione logica, razionalità intesa come un processo logico, ha il significato anche di intelligibile, in particolare qui il bene che in modo intelligibile può essere rilevato a partire dalle inclinazioni naturali. Il bene è per il soggetto il frutto di una capacità di discernere razionalmente il fine proprio che lo caratterizza. Cfr. J. Porter, Nature as reason, Wm. B. Eerdmans Publishing Co., Grand Rapids — Cambridge 2005, 116-122.

Lele

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

1.3. Legge naturale e inclinazioni 1.3.1. Introduzione Per comprendere il valore delle inclinazioni occorre riferirsi alle problematiche della legge naturale. Mi avvalgo per questo scopo delle riflessioni di Aldo Vendemiati sulla legge naturale in Tommaso.” La premessa fondante che richiamo è quella che individua la legge naturale come una “participatio legis acternae”.8 Ci si riferisce all'ordine divino che indirizza l’intera creazione; la legge eterna è il frutto della sapienza divina: fondamento dell’ordine giusto della realtà e del cosmo. L'orizzonte di comprensione della questione della legge eterna è quello neoplatonico. Tommaso corregge il neoplatonismo attraverso la conoscenza del naturalismo aristotelico. La conoscenza della legge eterna è legata alle caratteristiche delle creature stesse che ne hanno una comprensione diversa a seconda delle loro caratteristiche. Per quanto riguarda l’uomo, nel considerare la partecipazione delle creature alla luce divina, essa è ottenuta grazie all’intelletto agente. L'uomo giunge ad essa grazie alla dinamica razionale. In sintesi si può affermare che la creatura razionale partecipa della legge eterna in modo speciale. Tale partecipazione è la legge naturale." Quest'idea di una partecipazione intellettuale va ben compresa perché essa va precisata nel rapporto con le inclinazioni naturali. Le inclinazioni sono già moralmente qualificate nel senso che posseggono in sé un'indicazione verso il bene.! Allo stesso tempo le inclinazioni non sono sufficienti per raggiungere la pienezza del bene del soggetto: possono solo essere buone o cattive, in pienezza, in base alla successiva caratterizzazione virtuosa. 7A. VENDEMIATI, San Tommaso e la legge naturale, Urbaniana University Press, Roma 2011, 268-270.

SCtaSTTUrFi to.2: ° Le creature irragionevoli sono semplicemente guidate dalla provvidenza al loro fine. !° A. VENDEMIATI, S. Tommaso e..., 260. !! In questo senso si potrebbe dire che non sono beni pre-morali..L’uso di questa terminologia richiede una particolare attenzione perché “pre-morale” è un termine ambiguo. Esso è utilizzato da alcune teorie, come quella della morale autonoma in senso teleologico non classico, per affermare che certi beni ed azioni non hanno una caratterizzazione virtuosa, sono indifferenti, e solo successivamente ad una specifica situazionale si capisce se possono essere giudicati come buoni o cattivi. Cfr. M. RHONHEIMER, Legge naturale e ragion pratica,

359-360. A. VENDEMIATI, San Tommaso e..., 271. Questo autore sottolinea che le inclinazioni per Tommaso sono una partecipazione alla legge eterna. Dunque elementi già moralmente

Le

CAPITOLO SECONDO — RAZIONALITÀ NATURALE DELLA GIUSTIZIA

Mi sembra di poter concludere che esiste una duplice questione che va specificata. La prima riguarda il fatto che le inclinazioni, e i beni a cui indirizzano, sono una realtà di cui il soggetto può disporre a piacimento. La second a se esse necessitino di un giudizio ulteriore per indicare un bene umano autentico.!? La differenza della risposta, ad esempio di Rhonheimer e di Vendemiati, verte sull’intensità — o qualità — del secondo termine in questione e concorda invece pienamente sul primo, cioè che le inclinazioni sono già un punto di partenza nell’indirizzo al bene o al male e che dunque il soggetto non può disporre a piacimento delle stesse: le inclinazioni sono un indirizzo fondamentale ai beni morali, 1.3.2. I precetti della legge naturale

Voglio ritornare su alcune precisazioni di S'Th III 94,2. Tommaso nell'articolo ha come punto di partenza della sua riflessione la domanda su quali siano i precetti della legge naturale. La risposta nasce a partire dall’utilizzo dell’analogia con la ragione speculativa. Anche la ragion pratica ha, nell’ordine pratico, una serie di principi simili a quelli della ragion speculativa e per la prima questi non sono altro che i precetti della legge naturale. Tommaso afferma che essi sono “per se notum”: nella duplice modalità “secundum se”; “quod ad nos”. Significa che alcuni di questi precetti sono autoevidenti, perché la natura del soggetto stesso implica il predicato, tuttavia se non si ha conoscenza del soggetto sorgeranno delle difficoltà nel comprendere a che cosa si riferisca una definizione dello stesso. L'aggiunta successiva vede alcuni precetti conosciuti da tutti, altri invece noti solo ai sapienti: considerazione importante per la questione etica perché, a mio giu-

dizio, indica un soggetto che si apre alla ricerca del bene che è uno dei compiti dell’etica stessa. La realtà che nell’ordine pratico è fondante è quella che in questo articolo della Summa Theologiae viene identificata con il primo principio. Il bene è da farsi, da “perseguire”, e contrariamente il male da evitare.

qualificati. Esse sono inclinazioni ad “habendum virtutes”. Il valore orientativo delle inclinazioni vede una pluralità di interpretazioni. In particolare nelle diverse teorie viene discussa la loro funzione prima che l’intelletto le indirizzi ad un bene umano. 13 Cfr. M. RHONHEIMER, La Prospettiva, 238-239 (nota 25).

!4 Il constatare che il primo principio — «fa' il bene ed evita il male» — è al centro dell’ar-

ticolo dei precetti della legge naturale mostra, a mio giudizio, il fatto che la razionalità che

ricerca il bene è elemento chiave per l’interpretazione delle inclinazioni stesse che vengono esplicitate nel seguito dell’articolo.

113

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

La ragione apprende alcune realtà come beni umani. Dove si collocano allora le inclinazioni e in che senso appartengono alla legge naturale? Cioè perché le inclinazioni sono legate ai precetti della stessa? Una risposta possibile, ad esempio quella di Vendemiati, dice che l’apprendimento dei “bona” avviene grazie alle inclinazioni.” In primo luogo Vendemiati riconosce come primario il fatto che il bene è al centro del discorso etico: concetto che permette di indicare il valore delle inclinazioni. Egli afferma che: «Nell’ordine pratico la realtà prima e più fondante è il bene, ed il predicato implicito nella nozione di bonum è faciendum, infatti la ratio boni consiste nell’appetibilità e l’appetibilità è data dalla perfezione».!0

Le inclinazioni sono centrali perché esprimono quell’“ordo naturae” che è uno degli elementi costitutivi della legge naturale.” La quaestio della Summa Theologiae che indica in questi termini il problema è S Th I 60,5: le inclinazioni naturali sono importanti perché rispecchiano il fatto che la natura è finalizzata in se stessa. L'apprendimento dei beni avviene grazie alle inclinazioni naturali: mi sembra che si possa dire che esse entrano nella dinamica dei fini; indicano al soggetto i fini propri. Precisare questa questione è comprendere se la legge naturale è innata cioè opera di una ragione che pensa se stessa. Questa posizione è all’origine della separazione tra etica e metafisica poiché qui essa dà origine al formalismo della morale, ovvero un ragionamento morale a priori cioè kantiano."

13 In particolare sostenuta da S Th I II, 94,2: «Poiché il bene ha ragione di fine ed il male

contrario, avviene che la ragione apprende come beni, e di conseguenza come cose da perseguire con l’azione tutte le cose verso cui l’uomo ha una inclinazione naturale. Dunque l’ordine dei precetti della legge di natura segue l’ordine delle inclinazioni naturali». (Originale

latino; «Quia vero bonum habet rationem finis, malum autem rationem contrarii, inde est

quod omnia illa ad quae homo habet naturalem inclinationem, ratio naturaliter apprehendit ut bona, et per consequens ut opere prosequenda, et contraria eorum ut mala et vitanda. Secundum igitur ordinem inclinationum naturalium, est ordo praeceptorum legis naturae»). !6 A. VENDEMIATI, S. Tommaso e..s, 277. !7 Ivi, 284. L'autore cita il classico lavoro di D. Composta, Le inclinationes e il diritto naturale in S. Tommaso D'Aquino, in A. PioLANTI (ed.), S. Tommaso e la filosofia del diritto

oggi, Città del Vaticano 1975, 41: «Non si dà legge naturale che non presupponga alla base nessi oggettivi corrispondenti. La lex naturalis presuppone insomma un “ordo naturae”, la deontologia presuppone un’ontologia e una assiologia». Mi sembra che proprio questa sottolineatura sia quella che presenta le maggiori differenze interpretative tra gli autori. In particolare è utile il confronto con Rhonheimer, il quale ha una concezione più legata alla intellegibilità delle inclinazioni. Cfr. infra cap. 2, a) 1.4. !* Cfr. A. VENDEMIATI, San Tommaso e..., 276-277. La prima considerazione di S Th

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CAPITOLO

SECONDO

— RAZIONALITÀ

NATURALE

DELLA

GIUSTIZIA

1.3.3. Lanalogia delle inclinazioni

La funzione delle inclinazioni, il loro peso nel determinare il bene, deve essere arricchita con le considerazioni seguenti. Vendemiati infatti aggiunge un passaggio ulteriore ricordando che le inclinazioni sono analogiche, come per il concetto di ente. Gli animali e gli uomini — e le altre creature spirituali — sono indirizzati tutti al fine proprio, ma in modalità differenti. Per Tommaso è la ragione umana che deve scoprire i precetti a partire dalle inclinazioni; una visione molto diversa dal concetto di illuminazione agostiniano. Proprio il concetto di analogia aiuta a comprendere quello di naturalità. Infatti in questo senso pensare un concetto di natura che insegna alle creature

la via al loro bene, come sostenuto in precedenza, non vuol dire un determinismo cieco. L'analogia permette di non cadere in un naturalismo perché l’indirizzo umano è sempre legato alla specifica razionale: «La ragione apprende gli oggetti delle inclinazioni naturali come “beni umani” e non semplicemente animali».?°

La comprensione delle inclinazioni necessita di una guida razionale. Que-

sto aspetto caratterizza il soggetto umano poiché, secondo l’antropologia di Tommaso, ha una forma sostanziale unica che è la sua anima razionale. A questo proposito, come considerazione generale, aggiungo che la razio-

nalità in questione non è legata alla sola dimensione logica ma piuttosto ad una dimensione antropologica.

L’etica da sola è in parte insufficiente. Occorre rimandare a delle questioni che sono inerenti alla dimensione antropologica. Cioè indagare come le costanti antropologiche che appartengono al soggetto — tendenze naturali

I II 94,2 sottolinea una analogia tra ragion speculativa e pratica. Nella prima è l’ente che è al centro, nella seconda è il bene. Il passaggio fondamentale è quello teleologico: il fine dell’uomo è il bene ed il fine ultimo è il bene in forma massimale. Affermazione che giustifica anche il primo precetto della moralità. Detto altrimenti seguendo il testo di Vendemiati: «La ratio boni consiste nell’appetibilità e l’appetibilità è data dalla perfezione». 9 Anche J. Porter ricorda esplicitamente questo aspetto: cfr. J. PORTER, /Vature as reason, 212. Il tema della analogia delle inclinazioni è utile per definire la questione della socialità: essa è una delle inclinazioni specifiche dell’umano, o piuttosto la ritroviamo presente anche

per altre creature? Cfr. infra, cap. 2, a) 1.5.1. 20 A, VENDEMIATI, San Tommaso e..., 285. Alla luce della sottolineatura dell’analogia credo che ci sia meno distanza, di quella che appare, tra l’interpretazione di Rhonheimer

(nature as e quella di Vendemiati, tra come direbbe la Porter una ragione come natura

cap. 2, reason) e natura come natura (nature as nature). Per questa terminologia cfr. infra, aelo

LI

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

e comprensione razionale delle stesse — possono esprimere la prospettiva del fine umano.” L’antropologico non è l’ultima parola perché poi si passa al metafisico, quello che è un bene in sé, e di per sé: a Dio stesso. In sintesi:

a) le tendenze naturali non conducono direttamente ad un fine proprio, cioè senza una mediazione — una comprensione — legata all’intelletto umano; b) un bene umano diventa bene razionale solo quando il soggetto lo persegue nella sua prassi vitale: il passaggio è dall’antropologico all’etico. In fondo ciò che viene messo in discussione è il paradosso di Moore. Non accettarlo significa riportare ad una più profonda comprensione dell’importanza della natura umana e di che cosa essa esprima. 1.3.4. Differenziazione delle inclinazioni individuali

*

Le inclinazioni sono uguali per soggetti che appartengono a contesti etici molto differenti? Come si spiega questa differenziazione delle inclinazioni se tutte appartengono all’unica natura umana??? Queste domande portano ad individuare una pluralità di situazioni nell’espressione della legge naturale, almeno a partire dal livello pratico. La risposta di Vendemiati aiuta a capire come anche per lui: «non è l’inclinazione in quanto tale a costituire la legge, bensì l'ordine razionale delle inclinazioni».

La differenza nell’analisi di Vendemiati, rispetto ad un'impostazione solo razionale, risulta dal fatto che l’inclinazione esprime già l’ordo: la ragione, mossa dall’inclinazione, constata l’ordo.?* Significa che le inclinazioni permettono di individuare una serie di tendenze con i corrispettivi oggetti — beni — di riferimento che sono conformi all’uomo e dunque sono doverosi per il fine del soggetto. Il risultato è però lo stesso perché quello che la ragione ha constatato ed interpretato diventa bene proprio del soggetto, una corrispondenza tra atto umano ed oggetto, commisurato e dunque obbligante.

2! Se posso dire che è un bene la tendenza a nutrirmi, lo dico solo comprendendo che cosa è il fine dell’uomo. ?° Una ulteriore problematica è legata al fatto che, ad esempio, nell’inclinazione alla socialità si constatano degli individui che sono per natura più inclini alla stessa di altri soggetti.

°° A. VENDEMIATI, San Tommaso e..., 286. 25 Cfr. SIh1 109444 355 IhoIII1:69;43ad4%:

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CAPITOLO

SECONDO

— RAZIONALITÀ

NATURALE

DELLA

GIUSTIZIA

1.3.5. Inclinazioni comuni ad altre specie animali e specifiche-razionali

Le inclinazioni comuni tra specie umana e altre specie hanno dci tratti similari: esse corrispondono all'orientamento specifico di ciascuna creatura. Per il soggetto umano le inclinazioni possono essere definite come una guida per la ratio nell'individuare quei beni che completano il soggetto nel suo specifico umano. Una corrispondenza che è ben descritta dal rapporto materia-forma, dove la materia è data dalle indicazioni materiali e somatiche della natura umana e la forma è la razionalità che orienta al bene.” Questa distinzione è in realtà soprattutto utile per le inclinazioni comuni. Tommaso in STh I II 94,2 indica che le inclinazioni specifiche per l’umano sono direttamente razionali riferendosi alla socialità e alla ricerca della veri-

a Senza cadere in una dicotomia corpo e spirito che non esprime quello che è l’uomo, il concetto tommasiano vuole sottolineare che la struttura fisico-corporea è comune ad altre specie mentre lo specifico dell’umano sono le caratteristiche dell’intelligenza e volontà. Mi pare, poiché la socialità è oggetto di queste pagine, che questa que-

stione vada ulteriormente precisata: che cosa significa l’affermazione di Tommaso che la socialità è una inclinazione “secundum naturam rationis”?”” 1.4. La razionalità e le inclinazioni 1.4.1. Le tesi di Rbonheimer

Poiché nell’analisi delle inclinazioni fatta finora ho spesso citato una funzione

della razionalità nella comprensione delle stesse, ora intenderei riportare qui il pensiero di M. Rhonheimer che ben sintetizza un approccio in parte diverso da quello riportato nei paragrafi precedenti, naturalmente sempre indirizzato dal pensiero tommasiano.?*

Le inclinazioni naturali sono naturali e non acquisite. Qualcosa che

appartiene alla natura del soggetto e che ritroviamo nell’esperienza globale 25 Ivi, 288.

Questa

analisi, anche

a livello terminologico,

la segnalo anche

in

ni naturali M. RHONHEIMER, La Prospettiva, 240: «La ragione umana sta alle inclinazio come la forma alla materia». che il sog26 I] desiderio di sapere e l’attitudine a vivere con gli altri non è qualcosa Cfr. l'umano. istingue getto decide e poi attua, ma nasce da una caratteristica che contradd Washing Press, America R. MceInerny, Aqguinas on Human Action, Catholic University of ton 2012, 120. 275 Th1.II 94,2.

dove M. Rhonheimer è uno 28 Per alcuni di questi aspetti rimando al capitolo primo, discorso delle virtù. Cfr. cap. 1, d). degli autori che ho scelto per le questioni introduttive al

ELY

LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ

dell'umano. Questa considerazione è primaria. Vuol dire che ci sono una serie di tendenze naturali che si possono riscontrare nei soggetti.

Un primo argomento è capire se queste tendenze si recuperano in via ontologica oppure epistemologica.” Che cosa significa quest'ultimo termine, cosa vuole esprimere? Rhonheimer ricorda che l’inizio della domanda etica non è quello della conoscenza teoretica o naturale: «Poiché l’etica non scaturisce dalla domanda su ciò che l’uomo è, bensì dalla

domanda su come deve agire e sulla perfezione a lui propria».?

Molte sono le prospettive che si potrebbero adottare per affrontare la questione della radice dell’etica: ad esempio una chiave antropologica, adottando direttamente la prospettiva metafisica, oppure in un'epistemologia induttiva di raccolta di dati che potrebbero delineare poi una figura di umano ed una a specifica dimensione morale. Rhonheimer propone una via che riguarda direttamente la ricerca del bene in via pratica."

29 Cfr. J. PorTER, Nature as reason, 188 (nota 53): la differenza nella comprensione delle inclinazioni e dell’intera legge naturale è maggiormente “ontologica” per la teologa americana, viceversa più “epistemologica” per Rhonheimer. In questo caso epistemologica ha il significato di conoscenza da parte del soggetto del bene. 3° M. RHONHEIMER, Legge naturale e ragion pratica, Armando Editore, Roma 2001, 51. Cfr. Ip., La Prospettiva, 102-103. In sintesi questa differenza si esprime nel sillogismo pratico, che qui applico alla giustizia per esplicitarne il senso. Il sillogismo pratico si articola, in un primo esempio, nel modo seguente: se posso dire «per me è bene nutrirmi», allora nasce la constatazione che comprende l’inclinazione alla conservazione della vita. Non viceversa. Allo stesso modo potrei dire — esempio mio — per me è bene essere un individuo che vuole avere relazioni buone — sociali — con gli altri, allora si individua l'inclinazione alla socialità. Per esplicitare meglio, un esempio di sillogismo che non è pratico, sempre inerente la socialità, potrebbe essere: tutti gli esseri viventi sviluppano se stessi con gli altri; io sono un essere vivente; io ho bisogno degli altri per vivere. Quest'ultima non è una affermazione pratica, ma una affermazione teorica sul soggetto. Affinché possa seguire un'azione in base ad una conclusione manca una premessa “pratica”: voglio vivere bene e per questo voglio vivere con gli altri. Questa ultima proposizione è un atto dell’aspirare cioè della volontà. Il sillogismo pratico viene illustrato da questo esempio: a) è bene per me mantenermi in vita; b) visto che nutrirsi mantiene

in vita; c) dunque voglio nutrirmi

(è bene per me

nutrirmi). Qui sono

presenti la volontà e la scelta di un'azione conseguente. è! La filosofia morale astrae il proprio oggetto di indagine dall’esperienza morale, cioè riflette su quell’“ordine” che permette di raggiungere il bene: è l’ordine attraverso cui si compongono le scelte perché esse siano eccellenze virtuose. È possibile individuare un’operazione epistemica propria della filosofia morale. Cfr. G. ABBÀ, Costituzione epistemica della filosofia morale, LAS, Roma 2009, 245.

118

CAPITOLO SECONDO — RAZIONALITÀ NATURALE DELLA GIUSTIZIA

La domanda più importante per questo autore è come di fronte a queste inclinazioni agisca la ragione. La risposta si può articolare in due punti: a) la razionalità è in relazione con i fini delle inclinazioni. Essi sono qualcosa a cui essa non si può sottrarre: «I fini delle inclinazioni naturali sono parimenti oggetti naturali — appetibilia — della ragione naturale».

Essa non può disporre delle inclinazioni e non può determinarne Vesistenza. Afferma Rhonheimer: «Le inclinazioni naturali scaturiscono dalla costituzione della persona conforme all’essere».33

Ma a questo livello “ontico” esse non sono ancora “bona rationis”: cioè Rhonheimer afferma che esse sono solo indirettamente regola per l’agire, sono invece una regola per la “ratio naturalis”.8‘

b) Le inclinazioni naturali sono comprese come “bene umano” proprio (bona humana), ma solo attraverso la specificazione della ragione che le rap-

porta al bene umano complessivo. In sintesi per Rhonheimer la conseguenza notevole dei due punti espressi è che i precetti della legge naturale non sono direttamente le inclinazioni, ma risultano dalle medesime: sono le inclinazioni ordinate ai loro fini ed atti in modo conforme alla ragione. Detto altrimenti, seguendo il discorso fatto

finora, può sembrare che le inclinazioni ed i principi della ragion pratica siano la stessa cosa; in realtà precisa l’autore che seguo: «I principi pratici [...] non sono identici all’inclinazione naturale [...] in quanto

principi di ragione essi sono piuttosto regolamenti, misure, ordinamenti in queste inclinazioni».

La modalità maggiormente esplicita con la quale Tommaso afferma questo concetto appare in S Th I II 94,4, ad 3: «Poiché nell’uomo la ragione domina e comanda alle altre potenze, è necessa-

rio che tutte le inclinazioni naturali delle altre potenze siano ordinate secondo la ragione. Perciò presso tutti questa è la norma, comunemente accettata, che

tutte le inclinazioni umane siano guidate dalla ragione». ® M. RHONHEIMER, Legge naturale, 97. 3 IBIDEM. 34 Cfr. S Th I-II 91,3,ad 2: «La ragione umana di per sé non è regola o misura delle cose, però in essa sono innati certi principi che sono regole o misure generali delle azioni che l’uomo deve compiere, e di cui la ragione naturale è regola e misura, sebbene non lo sia di quelle cose che derivano dalla natura». 3 M. RHONHEIMER, Za Prospettiva, 240.

119

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Ma dove l’azione della ragione — regola della ragione — troverà una sua esplicitazione maggiormente evidente? Nell’esistenza delle virtù, perché i principi pratici della ratio convergono con i fini delle virtù morali. In sintesi si può sostenere che una pluralità di inclinazioni, e di beni a cui esse inclinano, debbono essere indirizzate dalle virtù. Tutte le considerazioni che propongo nei paragrafi che seguono non sono altro che specificazioni dei due punti centrali esplicitati in precedenza. 1.4.2. L'azione della volontà

La volontà che per natura è indirizzata al bene, in questo caso la volontà che scopre un certo bene umano come primario, è un appetito razionale. I fini delle inclinazioni una volta che sono stati colti come fini propri della persona, vengono indirizzati dalla ragione ed assunti dalla volontà. Afferma Rhonheimer: «Divengono così oggetto di una tensione intellettiva della volontà».?° Un'interpretazione naturalistica di S Th I II 94,2 viene evitata se si pensa che le inclinazioni da sole non forniscono quel carattere morale che viene richiesto. Se una parte dell’articolo due, della quaestio 94, recita: «Tutte le cose verso le quali l’uomo ha una inclinazione naturale sono da farsi» significa

che esse sono buone. L'origine del “da farsi” è la spinta della volontà — dell’appetito razionale — “actus humanus”. La volontà vuole non solo un bene sensibile, ma un bene della ragione: a mio giudizio questo significa che un bene sensibile può essere un male morale se non inquadrato nel rapporto con il bene complessivo del soggetto. L'azione della ragione sta in primo luogo nella

capacità di ordinare i beni possibili nell’ordine del bene complessivo. In particolare il filosofo svizzero mette in rilievo i beni-inclinazioni del “terzo livello”. La loro determinazione è razionale secondo quanto Tommaso afferma: «Troviamo nell’uomo un’inclinazione verso il bene che è conforme alla natura della ragione e, che è propriamente umano: l'inclinazione a conoscere la

verità, per esempio su Dio, e a vivere in società».

Rhonheimer sottolinea che quando un bene viene voluto vi è sempre un passaggio da una dimensione naturale ad una umana e dunque razionale. La differenza è proprio in questo attivarsi della volontà che viene indirizzata dalla ratio: essa comporta per il suo specifico una appetizione razionale.?8 Questa

°° Ip., Legge naturale, 99. Giustificato in base a S Th I II 94,4 ad 3. ASINI]

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°* L'approfondimento può essere condotto in parallelo sugli oggetti di azione, dove la

120

CAPITOLO SECONDO — RAZIONALITÀ NATURALE DELLA GIUSTIZIA

ratio è una “ordinazione” dei beni verso il fine proprio, una ratio che ha in sé il guardare ad un telos. Le inclinazioni sono dunque legate ad un certo modo

di comprendere la persona indirizzata ad un fine proprio o ultimo. Esse indicano caratteristiche dell'essere personale: senza il perseguirle si giunge ad una perdita delle condizioni costitutive del soggetto, cioè non accedere alla libertà

creaturale che è libertà solo a partire dal rispetto delle inclinazioni fondanti e in caso contrario diventa alienazione del soggetto. La libertà in sé non è mai punto di partenza assoluto, ma una libertà che si indirizza nell’ambito creaturale.

Però mentre l’animale è costretto a raggiungere certi fini propri, costrizione che nasce dall’istinto, l’uomo invece interpreta queste inclinazioni con

la “ragione” che appartiene alla sua natura. Ragione naturale che prende forma di principi e che non è altro che la “legge naturale”. Rhonheimer aggiunge:

«Questo “ordo” delle azioni umane è dunque l’oggetto [...] della legge naturale [...]. A questo “ordo rationis” corrisponde come Tommaso subito dopo sottolinea l’“ordo virtutis”: la virtù morale è espressione dell’“ordo rationis” e

in una certa misura è opera della legge naturale».??

I fenomeni legati alla natura “animale” dell’uomo non devono far pensare ad un qualcosa di “sub-umano”, di inferiore.* Le inclinazioni dicono delle linee di fondo nelle quali la vita umana scorre. “Ordinare” le inclinazioni da parte della ragione significa comprenderle e valorizzarle. Non esiste un passaggio da un sub-umano, che sarebbe espresso nelle inclinazioni, all’umano. Ancora come ribadisce il filosofo svizzero: «L'uomo non deve in un primo tempo umanizzare conformemente all'essere queste inclinazioni [...] Egli le deve mettere in ordine “praticamente e cognitivamente” nel loro senso umano e corrispondentemente seguirle».

Le inclinazioni sono un bene naturale fondativo — o di base — imprescindibile per il “bonum umanun? che viene colto in pienezza dalla ragion pratica. specificazione di un certo oggetto di azione, cioè di che cosa sia veramente un atto, è sempre condotta in via razionale. 39 M. RHONHEIMER, Legge naturale, 103. Cfr. S Th III 100,2. ‘0 Questa è una critica all'idea rahneriana: l’uomo è un animale razionale, non uno spirito incarnato. Anche sottolineare la natura animale e la razionalità rischia il dualismo cartesiano che impedisce la realizzazione umana unitaria. Invece dire uno spirito incarnato rischia di trascurare in parte quello che è la dimensione della autentica natura umana

espressa nei fini propri della stessa. # vi, 106.

1

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Inoltre una singola inclinazione rimanda sempre anche alle altre. L'analisi

razionale deve considerare il loro complesso, un ordine complessivo, una singola inclinazione non può essere assolutizzata di per sé.‘ Rhonheimer sottolinea come un altro modo per affermare questa tesi sia

quello dove la ragione sta alle inclinazioni naturali come la forma alla materia. Quando una inclinazione viene compresa come bene dalla ragione è sem-

pre oltre la sola “naturalità”.

»

43

1.4.3. Inclinazioni come semina virtutum

Un ulteriore passaggio è quello dove nella comprensione delle inclinazioni si introduce il concetto di virtù.‘ Le inclinazioni sono infatti legate all’azione delle virtù: il soggetto diventando virtuoso realizza la potenzialità che è presente nelle inclinazioni in vista della pienezza del bene che può raggiungere. Come precisa Rhonheimer: «[La ragione] dà all’appetitus la sua forma e la sua determinazione, il cui habitus si chiama virtù morale, la quale si sviluppa come seconda natura, verso il “bonum rationis’».!°

Tommaso

in accordo con la dottrina stoica pensa alle inclinazioni vir-

tuose come “semina virtutum”.'° Questa considerazione può essere interpretata anche in senso negativo per cui una inclinazione naturale non indirizzata in modo virtuoso può, nella sua dinamica naturale, produrre conseguenze disumane”. Occorre determinare l’“ordo rationis” nelle inclinazioni che non

(

.

>I° b) amare il prossimo è la modalità che specifica il nostro essere “animali sociali”. Giustifica in modo profondo la realtà sociale.” L'amore al prossimo della dimensione cristiana approfondisce un carattere della natura umana: il modo in cui si è “animali sociali per natura” (nazurally social animals); 258 c) una conferma della radice dell’amore del prossimo in una naturalità sociale è possibile considerando la non maleficenza. Essa, come primo principio, 2° Il rapporto di causa-effetto in senso stretto è insufficiente per spiegare questo legame. L'amore del prossimo è la fonte della giustizia, una delle sue determinanti per Tommaso, non la sola, perché è necessario anche rimandare al discorso della legge naturale e delle inclinazioni, in particolare quella della socialità. Una seconda constatazione è quella che vede la presenza del precetto dove si scorge la giustizia: in una serie di casi, in un certo dominio,

la scoperta di quest'ultima è una condizione sufficiente per dire che è presente l’amore del prossimo. Ogni volta che ci si trova in presenza dell'amore del prossimo deve essere rispettata la giustizia. Queste considerazioni sono approfondite nel rapporto tra giustizia e carità. Cfr. cap. 4, d) 1.3.2.

23 Come già detto uso qui il termine principio nel senso usato da Abbà equivalente a criterio, o a massima. Cfr. cap. 1, c) 1.4.5.

24 Poiché non adempiere ad un obbligo nei confronti del prossimo sarà un modo di causargli del male, l’amore del prossimo— attraverso la giustizia che lo manifesta — può essere espresso nel principio di non maleficenza: principio fondante la ragion pratica. Questo aspetto però non esaurisce tutte le caratteristiche dell'amore stesso. Cfr. S Th III 100,5, ad 4. 2° J. PORTER, Nature as reason, 272. 2° In questo senso accettare l’amare Dio è un accettare una proposizione metafisica generale che vale per l’intera creazione. 27 La società umana prevede poi anche le istituzioni: esse ordinano la vita comune secondo modelli differenziati che quando sono indirizzati al bene dei soggetti permettono alla medesima di svilupparsi e prosperare. 25 -fr sapa capil2, a).

188

bi

CAPITOLO SECONDO — RAZIONALITÀ

NATURALE DELLA GIUSTIZIA

non dovrebbe permettere di fare del male in nessun caso. Questa è invece una delle difficoltà presenti quando Tommaso giustifica o permette certe tipologie di male. È il caso in cui la violenza pare talvolta necessaria. Come si spiega questa contraddizione?

Innanzitutto il principio di non maleficenza deriva dall’amore del pros-

simo ed allo stesso tempo lo esprime.?° Se fosse l’unico criterio per proporre

questo amore, allora violarlo sarebbe contraddittorio. Invece se l’amore per il prossimo è qualcosa che ha anche altri criteri di giudizio, come l’insieme

del bene espresso dalla vita sociale, allora il principio di non maleficenza talvolta può essere violato,per un bene superiore. In fondo però questa violazione del principio è apparente. Perché la non maleficenza è tale se riesce a tutelare

complessivamente il bene di tutti i soggetti. Fare del male in questo caso rap-

presenta un atto che vuole tutelare il bene complessivo, cioè dell’insieme dei membri della società.?9

In sintesi l’amore a Dio ed al prossimo sono razionali perché presentano quella razionalità che esprime la dimensione della persona nella sua totalità e apertura oltre se stessa nell’indirizzo al fine ultimo inerente la nostra natura. Sono anche paradigmi che strutturano la società umana ideale, principi indimostrabili in quanto a priori, sorgenti della dinamica della razionalità morale.

1.5. Considerazioni su decalogo e giustizia

L'insieme delle considerazioni fatte nei paragrafi precedenti ha permesso di constatare che il nucleo del decalogo è il proporre la giustizia. AI centro dell’impostazione di Tommaso sulla giustizia vi è l’idea di ret-

tificare le disposizioni del soggetto nei confronti degli altri: devono sorgere delle relazioni adatte e sostenibili con gli altri grazie alla virtù della giustizia. I precetti del decalogo — in particolare la seconda tavola — sono necessari per la vita della comunità. Sono aspetti che manifestano la giustizia nelle

espressioni delle azioni virtuose che i soggetti pongono in atto. Quello che mi interessa sottolineare è il fatto che i comandamenti, sia nella parte riguardante

Dio che il prossimo, sono diretti ad una tutela del bene che va verso l’altro o si indirizza al ritrovare e venerare l’Altro.

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seIh LI 100;8:

260 Non siamo qui nella prospettiva consequenzialista che soppesa gli effetti degli atti per comprenderne la qualità morale. Siamo piuttosto in quella che cerca di identificare quale è la “natura” dell’atto in questione, di che cosa si tratta. Tommaso non è mai consequenzialista: certi tipi di male — ad esempio verso l’innocente — non possono essere mai attuati anche in vista di un bene comune. Cfr. S Th II Il 64,6.

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Queste relazioni saranno ancora oggetto di analisi nel paragrafo successivo dove prendono forma nelle specie di giustizia?! Prima è ancora necessaria una precisazione sulle realizzazioni o concretizzazioni della giustizia. 1.3. Le realizzazioni della giustizia cristiana

La giustizia, che diventa teoria della giustizia, traduce reciprocità ed amore nel particolare dei soggetti e delle situazioni: si stabiliscono dei diritti e dei doveri singolari e collettivi. Hollenbach rileva che il tentativo di una determinazione della giustizia rappresenta proprio la differenza tra l’etica protestante e quella cattolica. Quest'ultima ha spesso utilizzato le categorie del “naturale” per identificare proposte di giustizia che rispettassero dimensioni antropologiche fondative.?!” Accanto a questa dimensione naturale la presenza dell'amore, come dono e impegno per il prossimo, ha però sempre integrato la prospettiva cristiana

della realizzazione della giustizia. Un ulteriore problema è quello di poter affermare se la tradizione cattolica sia stata uno strumento diretto per la realizzazione di giustizia. Non è suffi213 D. HOLLENBACH, Justice, peace, 22. Questi tre passaggi permettono una critica serrata e sempre attuale ai concetti di potere e di ricchezza. 214 Reciprocità significa individuare dei criteri che dicono questa reciprocità come il criterio di eguaglianza. 215 Il criterio di eguaglianza è guida alla giustizia. Si aggiunge ora la prospettiva dell’amare il prossimo come se stessi.

I Gfriinfracap.Brd)4.L'&k42. 217 Ivi, 23. Hollenbach fa notare che la giustizia nella tradizione cattolica è stata fondata sulla legge naturale che stabiliva le dimensioni portanti dell’umano e della sua espressione sociale. Agli inizi della tradizione sociale spesso il passaggio tra dimensioni espresse dalla legge naturale e la giustizia è stato fatto adottando come “naturale” una struttura sociale storica. L'accettazione da parte della tradizione cattolica della struttura sociale che, nei primi decenni del secolo scorso, vedeva nell’ineguaglianza un modello sociale è l'esempio più significativo, anche se quell’adozione era avvenuta in parte credendo che potesse garantire una certa reciprocità.

259

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

ciente dire che la tradizione cristiana del pensiero sociale sia stata ispirata da una antropologia sociale e dalla norma dell’amore. Occorre verificare come questo tipo di proposta sia diventata fattuale attraverso le strutture sociali e le realizzazioni negli ambiti politici, economici ed istituzionali.?!5 Hollenbach ricorda che i critici della legge naturale sostengono che essa è in fondo un tentativo di trovare un incondizionato nel mutare storico, ma soprattutto di giustificare la struttura sociale che guida il presente di ogni epoca storica.?!° Assumere una struttura sociale storica come portatrice di giustizia in senso assoluto si scontra con la prospettiva della storia. Una ricerca razionale della giustizia, ad esempio un’attuazione del principio di equità in via teorica, deve poi confrontarsi con i ruoli, gli status, le classi sociali. Esiste il pericolo di identificare le incondizionate obbligazioni della giustizia con delle prospettive storiche condizionate.??° La complessità delle realizzazioni della giustizia non deve però nascondere che la tradizione sociale sia riuscita ad elaborare una visione della giustizia stessa che ha avuto innumerevoli realizzazioni, o tentativi di realizzazione, nella struttura sociale. Le specie di giustizia che sono oggetto di indagine nelle pagine che seguono sono il modello teorico che ha guidato queste realizzazioni concrete. 1.4. Tre tipi di giustizia nella tradizione sociale 1.4.1. Tipi di giustizia

La tradizione del pensiero sociale cattolico ha elaborato una divisione tra aspetti diversi della giustizia che è ormai entrata nella consuetudine. Essa

può essere distinta in giustizia commutativa, distributiva e sociale rappresentando la forma concreta attraverso cui la tradizione del pensiero sociale ha

delineato la virtù ricollegandola alla proposta dell’amore cristiano. La divi-

2! Limitandosi all’esplicarsi della giustizia al campo economico ed al periodo classico del pensiero sociale mi sembra che si possa affermare che l’azione sociale del cattolicesimo è stata ispirata da criteri di giustizia teoretici ma è anche riuscita a produrre condizione di maggior giustizia sociale. Cfr. M. ParIGI - P. BaruccI, Cultura e programmi economico-sociali nel movimento cattolico, in F. TRANIELLO - G. CAMPANINI (edd.), Dizionario storico (III Ifatti e le idee), 232-240.

2° Ad esempio Hauerwas, e alcuni suoi maestri come Richard Niebuhr, appartengono a questo gruppo. 2°° L'autore ricorda un aspetto che è certamente condivisibile: anche un ribaltamento di quest'approccio, cioè il non poter esprimere delle regole o norme di giustizia, rischia di esporsi al relativismo. Questa incapacità genera una mancanza, peggiore, di giustizia perché conduce a risposte di emergenza situazionali che non riescono quasi mai ad essere giuste.

260

CAPITOLO

TERZO

— TRADIZIONI

E GIUSTIZIA

sione, in parte, è quella classica della Summa Iheologiae®® Essa ha poi avuto riscontro nel concreto sociale ispirando i rapporti tra i singoli e tra i singoli e le entità collettive. Le pagine di Hollenbach fanno emergere un legame tra la giustizia e la reciprocità.*** Mi sembra che occorra allora analizzare questa relazione per poi vedere come la reciprocità possa essere compresa dalla prospettiva dell'amore cristiano. La prima specificazione riguarda la giustizia commutativa. Il carattere della reciprocità è una componente intrinseca alla stessa. Infatti siamo di fronte ad una forma di giustizia che prevede un accordo in merito

all'eguaglianza, a quello che è dovuto. Questa specie di giustizia è quella che i soggetti stabiliscono nello scambio degli accordi e dei contratti.??3 Alla base della possibilità di un accordo che sia equo vi è la fondamentale eguaglianza tra i soggetti. La giustizia fondata sull’uguaglianza presume anche l'assenza di una posizione dominante o di privilegio di uno dei soggetti convolti nello scambio. Se invece uno di questi assumesse una posizione dominante scomparirebbero le condizioni di eguaglianza: anche se le parti raggiungessero un accordo, quest'ultimo avverrebbe perché si impongono delle condizioni di coercizione.” Una seconda specifica della giustizia, affermata dal pensiero sociale, è quella distributiva. Essa riguarda la vita sociale. In quest'ultima sono presenti dei beni comuni, in senso lato, di cui devono godere tutti i soggetti, e per questo appunto devono essere condivisi, distribuiti a tutti i membri di una certa comunità. Questi beni vengono prodotti dal sistema sociale nel suo complesso.??° Non solo chi produce questi beni ha un diritto a riceverli, ma lo stesso diritto appartiene ai soggetti sociali che non partecipano alla loro produzione. 221 Cfr. S Th II II 61,1. Le distinzioni di Tommaso in merito alle specie di giustizia sono analizzate in seguito. Cfr. infra cap. 3, e). 2? D. HOLLENBACH, Justice, peace, 26. 223 Se la reciprocità è assicurata da questa forma di giustizia, invece più complesso è stabilire se ad essa appartenga anche una motivazione legata all’amore cristiano. Questa è

la questione centrale del poter dire se la tradizione cattolica caratterizza la giustizia secondo l’amore. Cfr. infra cap. 3, d) 1.4.2. 224 L’esemplificazione tipica è quella delle questioni di equità legate allo stabilire la misura dei salari per i lavoratori. 225 Non entro qui in una descrizione analitica delle componenti della struttura dei beni. Essi sono ad esempio tutti i beni che lo stato “produce” e che distribuisce ai cittadini: sicurezza, salute, educazione e simili. Ma anche tutti i beni che si producono nelle comunità intermedie: assistenza, crescita, promozione sociale e simili.

261

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Ancora una volta anche questo aspetto della giustizia è fondato sulla reciprocità tra la società, comunità, ed i soggetti: infatti ciascuno ha diritto a ricevere

i beni che vengono definiti come pubblici. La terza distinzione della giustizia viene definita come giustizia sociale. Per la giustizia sociale gli individui devono, promuovere le dimensioni collettive della loro vita. Hollenbach lo ribadisce sostenendo che: «It refers to the obligations of all citizens to aid in the creation of mutually and participation by all in social life».??9

Essa riguarda tutti i cittadini che possono sostenere con la loro azione il bene sociale. Lo stato stesso promuoverà e talvolta imporrà agli stessi di cooperare per il bene di tutta la società, in particolare attraverso le leggi che promuovono il bene sociale. La reciprocità è proprio in questo dovere del singolo verso la società intera, reciprocità indiretta che sta nell'impegno di ciascuno per questa promozione: ogni soggetto deve agli altri questo impegno.??” In sintesi mi pare che si possa affermare che i tre tipi di giustizia ricordati presentano ciascuno delle istanze di eguaglianza (muzuality): — la reciprocità che è necessaria nei rapporti tra le parti; — i diritti dei soggetti nel ricevere parte dei beni collettivi; — un dovere nel creare ed alimentare una struttura sociale di cui tutti sono responsabili. I tre tipi di giustizia si richiamano a vicenda. Ad esempio non è possibile che la giustizia commutativa sia rispettata se esistono delle posizioni sociali,

economiche e di potere dominanti, che impediscono una certa possibilità di uguaglianza tra le parti. Senza la presenza della giustizia distributiva poi non è possibile una reciprocità reale che permetta la componente commutativa. Infine le condizioni che sono poste per la giustizia commutativa e distributiva dipendono anche dall’esistenza delle istituzioni sociali che possono prosperare solo se è presente la giustizia sociale. Dunque senza la presenza contemporanea delle tre specificazioni della giustizia la medesima non è espressa in tutte le sue componenti e sarà una giu-

stizia parziale.

N

#6:Iy1027 7 Hollenback, per una necessità a mio giudizio di schematicità, non riporta un altro significato che è presente nella giustizia sociale che è quello dell’ordinare nel senso del dovuto le relazioni tra le entità sociali intermedie e quelle superiori. Il processo della giustizia sociale si esercita nelle relazioni tra questi corpi sociali oltre che nelle relazioni dei singoli cittadini. Appartiene alla giustizia sociale il principio di sussidiarietà.

262

CAPITOLO

TERZO

— TRADIZIONI

E GIUSTIZIA

1.4.2. Tipi di giustizia e amore cristiano

Dalle riflessioni di Hollenbach è emerso che nella tradizione sociale cattolica la giustizia è indirizzata dalla reciprocità; intesa come eguaglianza. Questa assunzione non è nuova in questo lavoro: rimanda ai criteri che guidano la

giustizia, in particolare il principio di uguaglianza, che sono stati oggetto di indagine nel secondo capitolo di questo lavoro. Il passaggio successivo deve indagare se la tradizione sociale cattolica caratterizzi la giustizia secondo l’amore e che cosa questa affermazione significhi propriamente, guardando anche ai tre tipi di giustizia individuati. Qual è l’influenza dell’amore sulla giustizia? La risposta si indirizza, attraverso il pensiero di Hollenbach, in un duplice senso. Da un lato si ricollega l’amore all’uguaglianza che crea reciprocità. L'espressione concreta dell'amore è il fatto che i soggetti non rimangano chiusi nelle loro prospettive individualistiche, ma crescono nella ricerca del

bene reciproco perché sentono una compartecipazione ad una comune umanità.

Dall’altro le motivazioni profonde per la giustizia si ricollegano alla fede: è l’amore di Dio verso l'umanità, che si è manifestato in maniera esemplare nel mistero pasquale, che diventa motivazione del soggetto per essere giusto

e fare la giustizia. È la prospettiva dell’amore cristiano che forma la giustizia. La motivazione che anima la giustizia è l’amore cristiano al prossimo che ha come sorgente l’amore di Dio verso questo prossimo. Nelle pagine che seguono approfondisco l’azione dell’amore sulla giustizia in particolare nel cambiamento della reciprocità, nell'apertura al gratuito e nell'aspetto motivazionale del soggetto. 1.4.3. Reciprocità generata dall'amore La reciprocità (mutuality) ha come fattore costitutivo l’attenzione alle persone

nella loro particolarità ed unicità che si incontrano nelle tre forme di giustizia

analizzate. In questo caso sono espressioni dirette dell'amore cristiano stesso. Ricordo che reciprocità è intesa in queste pagine anche come “mutualità”, cioè un aiuto reciproco; una ricerca del bene per i soggetti coinvolti in una relazione. È ovvio che siamo di fronte ad uno specifico cristiano di giustizia: è l’amore al prossimo che crea reciprocità. Uno dei pericoli dell’affermare un amore cristiano è quello di rimanere in un'espressione generica dello stesso. Invece la tripartizione della giustizia in commutativa, distributiva e sociale permette di rendere concreta questa dimensione dell’amore.

263

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Afferma Hollenbach:

«Justice explicates the response that love calls for in the differentiated but related relationship of social and interpersonal interdependence».??*

Penso che sia utile esplicitare i passaggi del rapporto tra giustizia ed amore cristiano che sono stati descritti finora con uno schema che vuole ampliare le idee seguite finora:

a) l’amore è la fonte che sta al centro della tradizione cristiana. Amore che evidentemente è la carità; b!) l’amore si esprime con uno speciale riguardo rispetto all'attenzione al prossimo;

b?) l’amore si esprime in una dimensione relazionale. L’oblatività dell'amore

cristiano si esprime nella reciprocità. Questo concetto

prevede sem-

pre un’oblatività — un donarsi ed un aiuto reciproco — tra soggetti che si

corrispondono;??° c) la giustizia è reciprocità per la definizione: dare all’altro quanto a lui dovuto; d) la giustizia nella tradizione cristiana è espressione dell'amore. 1.4.4. Gratuità generata dall'amore

In che modo si esprime la manifestazione dell’amore cristiano nei tre tipi di giustizia analizzati? L'amore cristiano si esprime solo nella reciprocità e nel mutuo aiuto? La risposta a queste questioni viene dall’analisi dei tre tipi di giustizia osservati. La giustizia commutativa è per definizione caratterizzata dalla reciprocità. Se questa reciprocità viene vissuta come generata dall'amore esce da una prospettiva puramente di eguaglianza formale, il dovuto, ma viene caratterizzata dall’essere espressione propria dell’amore cristiano: l’amore di Dio stesso che diventa amore del prossimo e crea lo spazio vitale della reciprocità tra sogSetti. Oltre il pensiero di Hollenbach mi pare di rilevare che gli altri due tipi di giustizia sono legati ad un aspetto ulteriore: la dimensione del gratuito.

MT00, 229 In queste considerazioni manca in realtà una caratteristica dell'amore espresso maggiormente come dono e come gratuità. Hollenbach nelle sue considerazioni per la giustizia non si sofferma molto sul supererogatorio e sull'amore senza la reciprocità. °°° Per i non cristiani si potrebbe vedere la reciprocità non a causa dell'amore ma generata da un riconoscimento dell’eguaglianza tra i soggetti. In fondo per la giustizia commutativa siamo sul piano delle intenzioni dei soggetti.

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TERZO

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E GIUSTIZIA

Quest'ultima richiama immediatamente una caratteristica dell’amore che è

sempre dimensione di gratuito, di dono, oltre il dovuto. L'individuazione nella giustizia distributiva di questa condizione di oblatività è immediata. La reciprocità asimmetrica della giustizia distributiva è in questo caso espressione del gratuito dell’amore cristiano che conduce una parte sociale o un soggetto a redistribuire beni, materiali o immateriali, ad altri soggetti che ne sono privi. La giustizia distributiva diventa dunque espressione diretta dell'amore cristiano. Anche la giustizia sociale esprime un donarsi che è richiesto al singolo perché altri in senso collettivo possano godere del bene di cui dispone. Questa

giustizia risponde anche alle caratteristiche di reciprocità in particolare indiretta. Il soggetto si impegna nel ridonare quello che ha in parte ricevuto dalla sfera sociale nel suo complesso. In questo tipo di giustizia l’amore è per il bene comune ed ha come conseguenza una crescita dell’uguaglianza tra i soggetti. In sintesi si può affermare che nelle tre specificazioni della giustizia incontrate l’amore cristiano è sempre presente come origine e causa delle stesse. Un ulteriore problema è poi quali siano le regole che è possibile far derivare dall’amore cristiano come reciprocità e come oblatività. Questa questione è complessa poiché l’amore cristiano si esprime in una normatività e con dei parametri che si confrontano con il divenire storico degli eventi. L'amore deve mediarsi attraverso delle espressioni storiche.?° Nella tradizione sociale cristiana l’influenza dell'amore si è mostrata in modo più evidente, ad esempio, quando è divenuta un parametro di critica per le strutture sociali esistenti. Ad un certo stadio della tradizione sociale si è rafforzata la consapevolezza che un modello sociale che in teoria può garantire la giustizia deve essere messo a confronto con le realizzazioni nella prassi dello stesso. In particolare con l’esperienza che alcuni soggetti possono essere penalizzati nel medesimo modello: ad esempio una struttura della proprietà privata, che presenta degli aspetti di giustizia in senso commutativo, deve essere riformata se alcuni soggetti subiscono le conseguenze negative di questa struttura e sono in estrema povertà.

23! Le considerazioni sulla giustizia come virtù infusa propongono nell’ultimo capitolo la visione teologica sulla medesima. Cfr. cap. 4, d) 1.5. 23 Hollenbach ricorda in particolare le riflessioni di James Gustafson che sostengono il fatto che la moralità cristiana è sempre una moralità in ricerca dell’oggettività, ma senza essere di fronte a delle affermazioni assolute a priori che chiuderebbero il discorso in merito alle diverse prospettive storiche.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

1.4.5. Amore come motivo della giustizia

Un ultimo aspetto riguarda gli aspetti motivazionali dell’amore cristiano. Il rapporto tra giustizia e amore cristiano vede come componente motivazio-

nale della prima quest'ultimo. Questo rapporto di causa vale in generale per ogni aspetto della vita cristiana e per la giustizia cristiana, in particolare, è una sorta di fonte originaria che vale nelle specificazioni della stessa. La ragione per essere giusti e fare giustizia si identifica con il voler amare il prossimo. Hollenbach va alla fonte dell'amore cristiano: Dio, che è Amore, stabilisce la sua alleanza per amore. La risposta a Dio da un punto di vista di fede e l’attenzione al prossimo nell’incarnazione dell'amore sono due aspetti che entrano nei vissuti dei credenti. Nella tradizione sociale la fede nel mistero pasquale di Cristo diventa parte fondante dell’azione per promuovere la giustizia e dello sforzo di definire la medesima. Le espressioni della giustizia commutativa, distributiva e sociale forniscono agli individui i beni che permettono di vivere con dignità e di soddisfare i bisogni fondamentali quali salute, cibo, condizioni di lavoro dignitose, sicurezza sociale e simili. Le motivazioni cristiane per soddisfare questi aspetti nascono dal progetto di condivisione di Dio stesso con l’umanità, quel progetto che è la comunione dell'amore divino stesso e che diventa cura, sostegno e salvezza per l'umano da parte di Dio.?5° La fede cristiana, nella tradizione cattolica, vede nella giustizia una dimensione salvifica che diventa un obbligo per il soggetto ed esprime la concretezza dell'amore per il prossimo. 1.4.6. Sintesi sulla tradizione cristiana di giustizia In fondo tutte le considerazioni ed il tentativo di analisi delle questioni sui tipi di giustizia, elaborate a partire dalla sistematizzazione di Hollenbach, giungono alla conclusione che le dimensioni di giustizia non derivano solo da una

risultante della riflessione filosofica, ma proprio dal centro della fede. Voglio precisare però che questo concetto è valido secondo tre aspetti. Il primo riguarda il collocarsi all’interno della tradizione cristiana: l’affermazione che la giustizia è determinata dalla fede non è assoluta ma è valida per chi appartiene a questa tradizione.

5 Le esigenze di giustizia rimangono condivise con tutti quelli che credono in una dignità umana e in un valore del soggetto partendo da altre premesse che non quella della fede.

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TERZO

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E GIUSTIZIA

Il secondo vede l’amore come componente motivazionale. Le intenzioni dei soggetti — sia per la giustizia commutativa, distributiva e sociale — nell’agire secondo giustizia sono trasformate dall'amore. Nella prospettiva del soggetto agente ad intenzioni diverse, presupposte buone, possono corrispondere delle prassi buone simili nelle applicazioni pratiche: in base a questa considerazione si possono riscontrare azioni identiche tra chi appartiene alla tradizione cristiana e chi non vi appartiene.?34 Un terzo aspetto riguarda invece lo specifico della prassi di giustizia cristiana: Hollenbach ha una riflessione teoretica che afferma l’amore come una reciprocità nella benevolenza e non tanto un gratuito della benevolenza.?* In sintesi afferma Hollenbach riassumendo le sue idee:

«There is, in short, a Cristian theory of justice and an explicitly Cristian obligation to seek justice, both of which are rooted in the covenant love of God for all persons and in the fulfilment of this love in the death and resurrection of Christ».259

La via, i mezzi cristiani, per assicurare la giustizia si ricollegano in qualche modo alla croce stessa di Cristo. Questo avviene perché la dimensione della reciprocità si raggiunge solo se da parte dei soggetti ci sono significativi cam-

biamenti dello stile di vita. La solidarietà e l’impegno per il prossimo richiedono sempre un’autoconsegna e un sacrificarsi. Hollenbach puntualizza che non si tratta di una via utopistica, di un pensiero utopistico.” Sacrificarsi per il prossimo risponde al compimento del soggetto in senso della realizzazione dei suoi fini più propri.?? Proprio questo ultimo aspetto è il nodo centrale fra tradizioni di ricerca diverse: quale sia il fine adeguato per il soggetto, verso quale tipo di compimento sia indirizzato.’ In parte la dimensione utopica, cioè idealistica, della giustizia in senso cri234 Questo è uno degli assunti delle riflessioni sull’agire pratico e sulle virtù presenti in questo lavoro. 235 Sui rapporti tra carità e giustizia: cfr. cap. 4, d) 1.5.3.

pd: 237 Tale sembrerebbe di fronte a gran parte del pensiero utilitaristico che vede nel persevECdO: guimento dell'interesse proprio (se/Finterest) la ragione dell’azione umana. bisogni dei negazione una significa non l’altro per — consegna — 238 Sacrificio ed interesse permangono. fondamentali del soggetto che 239 Il gratuito è uno specifico contenuto della giustizia in senso cristiano che mi sembra

un emergere in modo netto in particolare nella giustizia sociale. Ho usato in questi paragrafi

lessico — tradizioni di ricerca — che appartiene a MacIntyre.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

stiano esiste se si ricollega alla dimensione della pienezza del Regno che è sempre ancora da raggiungere e raggiungibile solo in una dimensione escatologica. Ma questa dimensione escatologica non impoverisce l'affermazione della giustizia, piuttosto la rafforza. È la stessa ricerca della giustizia che diventa un

mostrare la fede pasquale e allo stesso tempo un'espressione della grazia e della speranza. Infine il pensiero di Hollenbach ricorda il legame tra la giustizia e la fede nel mistero di Dio realizzatosi nel Cristo: «Efforts toward the fulfilment of minimum human needs and the realization of structures of genuine mutuality are consequences of faith in Jesus Christ».249

E) Rivisitando le radici della tradizione sociale

1.1. Le divisioni della giustizia nella tradizione tommasiana La riflessione sulla giustizia che emerge dalla Summa Zheologiae rappresenta una proposta classica per interpretare la medesima. Mi sembra di poter aftermare che questa proposta abbia profondamente influenzato tutto l’indirizzo del pensiero sociale cattolico sulla giustizia, essa è una fonte delle tematiche presentate nei paragrafi precedenti e per questo motivo la propongo ora

all’analisi. Si può dunque individuare una tradizione di comprendere e vivere nel concreto sociale la giustizia che può essere indicata come tradizione tommasiana.”! Qui mi limito, più che seguirne l’evoluzione da un punto di vista storico e della prassi, ad affrontare la specificazione teorica vedendo direttamente le quaestiones sulla giustizia. Alla fine del paragrafo dedicherò alcune pagine al rapporto tra giustizia e bene comune perché la tradizione tommasiana ha legato profondamente la giustizia al tema del bene comune.

La divisione e spiegazione in merito alla giustizia, esplicitata nella tradizione del pensiero sociale, si distingue in commutativa, distributiva e sociale. Quest'ultima prende anche secondo alcuni autori la definizione di legale o generale. Le tre distinzioni individuano diversi aspetti*della giustizia: N Vaddb: 2! La giustizia in questa tradizione risponde direttamente a criteri razionali, ma viene compresa più ampiamente in un discorso teologico che caratterizza la globalità del pensiero tommasiano. 22 A. Ropricuez Luno, Scelti in Cristo per essere santi. III. Morale speciale, Edusc, Roma 2008, 63.

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E GIUSTIZIA

— la giustizia sociale ordina le relazioni tra i soggetti e delle entità sociali intermedie — associazioni, partiti, chiese e simili — rispetto alla società nel suo complesso. Emerge un voler contribuire alla giustizia generale da parte dei singoli e delle entità intermedie; — la giustizia distributiva regola le relazioni — in questo caso intese in un senso ampio che ricomprende le relazioni che passano anche attraverso i beni — della società rispetto alle persone; — la giustizia commutativa ordina le relazioni delle persone tra di loro. Questa divisione viene in parte adottata dallo stesso Tommaso quando distingue le parti della giustizia nella divisione tra giustizia commutativa e distributiva.? Egli però propone anche un’altra ripartizione tra i tipi di giustizia che analizzo nelle pagine che seguono. 1.2. Giustizia generale e particolare 1.2.1. Il duplice senso della giustizia generale

Finora in questo lavoro ho seguito maggiormente l’idea della giustizia come una virtù particolare, cioè inerente la volontà e i criteri di indirizzo associati alla stessa.?# La divisione tommasiana tra giustizia generale e particolare permette di

approfondire il significato della giustizia e di vederne aspetti in parte nuovi. Emergono alcuni contenuti della stessa che hanno generato alcuni temi fonda-

tivi della tradizione del pensiero sociale cattolico, in particolare riguardanti il bene comune. È possibile individuare una tradizione di giustizia nel pensiero tommasiano, in particolare qui limitata all’analisi della Summa Theologiae, che riguarda la società nel suo complesso. Essa arricchisce le considerazioni in merito alla giustizia come virtù, nelle quali la prospettiva parte maggiormente

dal soggetto per giungere al complesso sociale. Tommaso suddivide dunque la giustizia in generale o legale da un lato, con un significato però diverso rispetto al termine della tripartizione precedente, e in giustizia particolare dall’altro. Egli riceve questa distinzione da Aristotele e

definisce questi argomenti come le differenti specie della giustizia?! #2 SIRIMICEI:

244 S Th II II 58,5, ad 1: «La giustizia viene enumerata accanto alle altre virtù non in quanto è una virtù generale, ma in quanto è una virtù specifica». 5 T. PorTER, Zhe virtue ofJustuce (Ila Ilae, qq. 58-122), in S. J. PoPE (ed.), The Ethics of Aquinas, Georgetown University Press, Washinton D.C. 2002, 273-276. La Porter in tutto

questo articolo segue le quaestiones della Summa Theologiae.

269

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

La giustizia particolare è precisata nella Secunda Secundae alla quaestio 58, in specifico gli articoli 4 e 7, e si riconduce agli aspetti già presentati in questo lavoro.?‘9 Mi soffermo invece sulla giustizia generale. Essa viene trattata nell’articolo 5, sempre della stessa quaestio, che appunto risponde alla domanda se la giustizia sia una virtù generale.” Tommaso ribadisce che la giustizia ordina il singolo soggetto nel rapporto con gli altri. Dove questi altri possono essere considerati sia come singoli oppure possono essere considerati collettiva mente, nel senso di un insieme di soggetti.‘ In particolare S Th II II 58, 5, ad 3 ricorda che: «I doveri verso se stessi sono ordinabili al bene altrui, specialmente poi al bene comune».

Tutti gli atti dei soggetti, anche quelli che paiono avere un carattere strettamente personale, sono ricollegabili con il bene comune. La giustizia per Tommaso può essere detta generale per due motivazioni: a) essa è in funzione della dimensione sociale in senso lato riguardando le relazioni con gli altri nel loro insieme;

b) è una caratteristica presente in tutte le virtù. Queste due considerazioni principali devono poi ricollegarsi al bene comune che si genera attraverso la giustizia. Per Tommaso la giustizia generale è in relazione con il bene comune come esplicita nell'articolo 6 della quaestio 58.24 Il bene comune è quella componente della dimensione sociale a cui si riferisce la giustizia, cioè è oggetto della giustizia.??°

1.2.2. Giustizia generale nelle virtù specifiche Per prima affronto la seconda delle due argomentazioni proposte in precedenza sulla giustizia generale: se siamo di fronte ad un atto di fortezza o di temperanza siamo anche di fronte ad un atto che riguarda la giustizia in senso

SMI

58070

fap:

247 S Th II II 58, 5. Può anche essere definita come giustizia legale. S Th II II 58,5, ad 3:

la giustizia legale, ordinando l’uomo al bene comune, può essere considerata una virtù generale. 248 Collettivamente riferito ad una collettività. 29 S Th II II 58,6: «Come infatti la carità può considerarsi una virtù generale in quanto ordina gli atti di tutte le virtù al bene divino, così è generale la giustizia legale in quanto ordina gli atti di tutte le virtù al bene comune». 2° Oggetto qui significa uno dei fini che realizza la giustizia. Preciserò ancora il discorso sul bene comune in queste pagine: cfr. infra cap. 3, e) 1.3.

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E GIUSTIZIA

generale. La giustizia è generale perché indirizza gli atti delle altre virtù morali verso il suo oggetto che è il bene comune. Questo argomento sembra in apparenza quasi contraddittorio perché le virtù morali citate sono inerenti alle passioni e la giustizia non riguarda direttamente un cambiamento delle disposizioni passionali del soggetto. Tuttavia ogni virtù morale si esprime con degli atti esteriori: in senso derivato fortezza e temperanza producono delle azioni che sono azioni coraggiose o tem-

peranti.??! Queste azioni saranno anche giuste perché conducono al bene comune, cioè ricadono a vantaggio di tutti i soggetti.

Tommaso adotta una specifica ontologica per precisare in che senso la giustizia è generale: essa è tale secondo l’ordine delle cause.??° La giustizia infatti ordina — causa — gli atti di tutte le altre virtù verso un fine che è un fine superiore: il bene comune. La giustizia generale è una caratteristica di ogni virtù poiché gli atti delle stesse generano sempre anche il bene comune.” Occorre ancora spiegare perché un atto di un soggetto singolo è causa del bene comune. Questo avviene in quanto secondo Tommaso, ancora con una specificazione ontologica, un qualsiasi bene di una parte è anche a favore del tutto. Tutti gli atti delle virtù, che conducono al bene del singolo, hanno

come frutto il raggiungere il bene comune. Ogni parte che appartiene ad un tutto se è oggetto di bene lo ottiene anche a favore del tutto.?* Come in sintesi ribadisce la Porter: «In other words, justice, understood in this sense is architectonic with respect

to the other virtues».?95

25 S Th III, 60,2. Le operazioni — un produrre un'azione — si possono riferire alle virtù come effetti. In questo senso, dice Tommaso, qualsiasi virtù morale ha delle buone operazioni. 25 Cfr. S Th Il II 58,6. Nella visione di Tommaso una causa universale è generale per tutti i suoi effetti. Essa non è identica, non si identifica, con gli effetti che produce. Un

esempio, che è presente in questa quaestio come causa generale rispetto a tutti i suoi effetti, è il sole rispetto a tutti i corpi illuminati sotto il suo influsso. 253 Cfr. T. CENTI, Nota I alla Quaestio 58,6, in Tommaso D'Aquino, Summa Theologiae II II (57-79), 62 (nota 1), Edizione a cura dei Domenicani Italiani, vol. XVII. Intesa in

questo senso la giustizia ha un aspetto globale, che supera il suo essere elencata solo come una virtù morale, perché ordina tutte le virtù al bene comune. Inoltre se la carità orienta

virtù l’uomo a Dio, nella dimensione dell’ordine soprannaturale, la giustizia è la suprema

umana. Pi CipiSàIt JE 153,5: 255 J. PoRTER, he virtue ofJustuce, 273.

201

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Le specificazioni ontologiche ricordate guidano ad una considerazione piena della socialità umana e della responsabilità che nasce da essa: ogni atto umano ha una portata sociale profonda. Nell’agire il soggetto persegue un bene proprio che però è sempre in vista di un bene comune. Il primo non può essere in contraddizione con quest'ultimo per venire individuato come bene del soggetto perché ne intaccherebbe la natura sociale. Detto altrimenti la giustizia generale prende forma in tutti gli atti virtuosi specifici che conducono al bene comune. Allo stesso modo un atto ingiusto per il soggetto è anche un'ingiustizia sociale. Il dovuto del singolo alla società non si realizza quando egli viene meno ad un dovere personale o ad una mancanza di bene che rientra nella sfera personale.??° 1.2.3. Le modalità della giustizia generale

Tre precisazioni sono ancora necessarie per evidenziare questa idea della giustizia generale presente in tutte le virtù.

La prima considerazione sottolinea come le relazioni con gli altri possano essere mediate solo da azioni esteriori non interiori.??” Nella giustizia che ha come relazione due soggetti, che possono essere sia collettivi che individuali, si inserisce un “oggetto” che indica e misura la tipologia dell’obbligazione reciproca. Si può affermare che la relazione viene ordinata in base ad un oggetto che fornisce il parametro assolto il quale — ad esempio una somma di denaro restituita per un prestito ricevuto — la relazione tra i soggetti è giusta: quell’oggetto misura sia il diritto di un soggetto che il dovere dell’altro.??* Inoltre Tommaso ricorda che l’ordine della ragione, in questo caso, non viene costituito in base al rapporto con gli “affetti” del soggetto, ma in base all'oggetto in sé.??? Quello che il soggetto deve all’altro è ciò che costituisce la giustizia. Le azioni che si intrecciano tra i soggetti per essere morali devono rispettare gli aspetti della giustizia. Questa medietà rispetto alla cosa dovuta (medium rei) è dunque un’altra ragione per cui possiamo dire che la giustizia

2° J. TH. DeLos, Notes et appendices, in Sarnt Thomas D’AqUIN, Summa Theologiae — La Justice (II Il 57-62), Edition de la Revue Des Juenes, Desclèe et Cie, Paris 1932, 194.

2ASUNIFII 58,10: 25 Qui emerge un tema che non viene particolarmente analizzato in questo lavoro. Questa nozione di giustizia è alla radice di una concezione della realtà giuridica e del diritto che sono basati sull’oggettività delle implicanze degli stessi. 2° Diversamente per virtù quali la temperanza o il coraggio dove la considerazione della qualità del soggetto è massima. La natura dell’atto virtuoso è legata alla natura individuale e alle circostanze che si incontrano nel soggetto.

22,

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E GIUSTIZIA

ha un carattere generale, la giustizia è tutto quello che si riferisce ad un dove-

roso compenso. La seconda considerazione ribadisce che la giustizia generale è la più nobile di tutte le virtù morali;?9° perché il bene comune è superiore al bene individuale.” La terza considerazione è per ribadire che occorre un'attenzione nel non sostenere una tesi che sarebbe riduttiva: tutte le virtù si riducono alla sola prospettiva della giustizia. Tommaso permette più di un senso per la giustizia, essa è sicuramente una virtù morale specifica. L'affermazione dell’influenza della giustizia generale rispetto a tutte le virtù è compatibile con l’esistenza di una giustizia come una determinazione virtuosa del soggetto, anche nell’acce-

zione di giustizia generale.” Tommaso ribadisce che essa è, si trova, in chi ha una funzione sociale di guida politica, e in questi soggetti ha un ruolo primario, ma si incontra anche in chi appartiene alla società come cittadino, dunque giustizia generale come una qualità di chi vuole farsi promotore del bene

della società in generale.?9 In conclusione la giustizia, in una prima accezione della caratteristica che la indica come generale, può essere identificata come un correlato di ogni atto virtuoso, cioè si intende che ogni atto temperante, oppure di coraggio, è anche un atto di giustizia.?°* Ogni atto che è frutto della determinazione delle virtù morali è un atto di giustizia. La spiegazione di questa affermazione è quella già espressa prima. Deriva dal fatto che ogni atto virtuoso realizza il bene del soggetto ed è dunque parte del bene comune. Rimangono però contemporaneamente le caratteristiche di essere un atto

temperante, di fortezza. Il primato della giustizia generale non significa che tutto quello che guida un certo atto dipende direttamente dalla virtù della giustizia. Il moderare le passioni attraverso la temperanza non vuol dire esercitare una particolare giustizia. Solo nel senso del legame con il bene comune 260 S Th II II 58,12. Tommaso qui cita Aristotele nell’elogio della virtù della giustizia come quella più importante. Cfr. EN, 1,15. In particolare in S Th II II 58,12 ad 1 Tommaso afferma: «La giustizia invece dà ad altri ciò che loro appartiene mirando al bene comune». 261 Voglio ricordare che questa affermazione deve essere completata con le considerazioni generali sui fini del soggetto. Cfr. infra cap. 3, €) 1.3.1. 262 A questo proposito è importante la connessione delle virtù. Essa è una concezione che può arricchire e spiegare l’idea di una giustizia generale. Tema ribadito inS IR III GI, 4: ogni virtù è collegata per raggiungere il bene morale del soggetto. Cfr. J. PORTER, Moral Action

and Christian Ethics, Cambridge University Press, New York 1995, 156 ss. 263 S Th II II 58,6. Tommaso non parla di cittadini, ma di “sudditi”.

264]. PoRTER, Ze virtue ofJustice, 276.

275

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

si giunge a vedere ogni atto virtuoso come atto di giustizia. La giustizia gene-

rale è realizzare il bene comune. 1.2.4. Giustizia generale sociale

Ritorno ora sulla prima precisazione della giustizia generale: la giustizia può essere specificata come generale quando è in relazione con la dimensione sociale in senso lato, cioè l’azione di giustizia riguarda gli altri non pensati singolarmente, ma collettivamente. In questo secondo senso la giustizia generale può essere detta anche sociale con l’avvertenza di non identificarla, se non parzialmente, con la giustizia detta sociale nella tradizione del pensiero sociale cristiano.

Detto altrimenti, la giustizia generale nasce dall’equità che riguarda la comunità nel suo complesso. Questa seconda accezione di giustizia generale comprende sia la concezione della giustizia distributiva che quella sociale, viste nella tradizione del pensiero sociale, perché entrambe presuppongono l’idea di una giustizia che riguarda l’insieme dei soggetti. In sintesi, giustizia è in questo secondo caso il bene che prende forma comune, a favore della collettività, è un bene che ricade su tutti i suoi membri. Queste considerazioni sono legate all’idea che il soggetto è, nelle sue costanti antropologiche, un essere sociale. La giustizia generale o sociale ordina i suoi atti nella realizzazione di questa inclinazione fondante l’umano: essa ha degli atti che propriamente sono atti dei soggetti che direttamente favoriscono la crescita e lo sviluppo del bene sociale.’ Questo è un concetto diverso dall’idea di bene comune espressa nell'accezione di giustizia generale dell’analisi precedente: là era il bene del singolo che diventava un bene di tutti perché tutta la società godeva dell’arricchimento dell’agire virtuoso del singolo. Qui la giustizia generale è invece quella che regola i rapporti dell’insieme dei soggetti, della collettività, nella direzione del bene comune. Essa si indirizza ad un fine collettivo, vuole realizzare un bene collettivo, che è il significato proprio del suo carattere generale. In questo senso giustizia generale ha come sinonimo il termine giustizia legale: infatti la giustizia vede la realizzazione del bene comune nella mediazione della legge nel senso che la legge deve esprimere e fondarsi sul bene comune della società. Tommaso, analizzando la giustizia generale, non si occupa direttamente della funzione della legge, piuttosto il suo interesse si concentra sul bene comune. Quel bene che

solitamente le leggi se rispettate contribuiscono a determinare.” La giustizia 2© Nella prima accezione la giustizia generale ha stessi risultati in modo indiretto, cioè con atti singolari virtuosi non appartenenti alla sola giustizia. 2° Cfr. S Th III 90, 2. In esso si ribadisce che ogni legge è ordinata al bene comune.

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generale può anche essere detta legale proprio per questo legame della giustizia generale con le leggi. Questa idea della giustizia generale a mio giudizio propone un confronto con i principi e i criteri della giustizia come virtù. Dire che la giustizia ha un orientamento sociale cambia il significato, la realtà, della stessa oppure siamo in una dimensione puramente di specificazione direi quasi linguistica, ma che non cambia nulla rispetto alla dimensione della giustizia come virtù che è indirizzata dai principi e dalle costanti antropologiche? Per rispondere parzialmente a questa questione ritorno alla specificazione tra giustizia commutativa e distributiva offerta da Tommaso, che è stata affrontata in precedenza, in senso generale, nell’analisi del pensiero sociale cattolico. Questa domanda troverà poi una risposta implicita nell’affrontare il tema della relazione tra giustizia e bene comune. 1.2.5. Giustizia distributiva e commutativa

Tommaso spiega anche la differenza tra giustizia distributiva e commutativa nella distinzione delle parti della giustizia.”8 La giustizia distributiva in particolare è una specificazione del concetto di giustizia generale visto in precedenza. La giustizia commutativa risponde ai rapporti tra gli individui nel senso di quello che è dovuto nei rapporti tra le parti. In fondo è la definizione della stessa che meglio rende comprensibile il principio di equità che è guida alla virtù di giustizia. Non

mi soffermo

qui sulle numerose

quaestiones che specificano e

segnalano le violazioni nei confronti della giustizia commutativa, come omicidio, furto, ingiustizie verso le persone, del giudice e simili vizi oppostalla stessa?” Piuttosto voglio individuare come Tommaso intenda la giustizia distributiva e quali siano le caratteristiche di quest'interpretazione. La giustizia generale, quando assume una dimensione propria ed è in se stessa una virtù specifica, può essere identificata come giustizia distributiva. Tommaso affronta questa tematica in S Th II II 61,1. La giustizia distributiva viene presa in considerazione quando all’interno di una società si vuole confrontare il tutto sociale in relazione alle parti che lo compongono. 24 Sono quelle che ho indicato nel secondo capitolo di questo lavoro. DIG;1 2: STI 26 S Th II Il 64-78.

275

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Quali sono i rapporti tra i singoli componenti della società ed il tutto sociale? Ci sono due possibili risposte. Da un lato la società non ha unesi-

stenza che è indipendente da quella dei suoi membri: essi sono sempre delle costituenti singole della dimensione sociale. Dall’altra, se la società è totalmente distinta dai suoi componenti, come potranno questi ultimi avere un diritto proprio ad una parte di bene sociale? La risposta di Tommaso sottolinea che il “tutto” è distinto dalla “parte”. Il tutto è costituito dalle diverse parti ma quando queste vengono messe assieme allora si crea un'unità che è superiore a quella della semplice somma delle parti e che ha una sua autonomia specifica. Se esiste una realtà propria, sia per le parti che per il tutto, la possibilità di una relazione tra le medesime è possibile e con essa l'applicazione della nozione di giustizia distributiva.?”° Sempre in questo articolo primo della quaestio 61 della Secunda Secundae Tommaso, seguendo la sua consueta modalità di argomentazione, raccoglie ed espone una serie di opinioni opposte al fatto di poter riconoscere una forma di giustizia che abbia le caratteristiche distributive. La prima ricorda che il fatto di distribuire dei beni comuni alla collettività danneggia il bene comune perché i beni comuni, intesi nel senso delle ricchezze collettive, si esauriscono e poi perché — citando Cicerone — corrompono i buoni costumi, con ciò intendendo la diminuzione delle capacità dei cittadini di generare da sé i beni necessari ai loro bisogni.?”! La seconda sottolinea che la giustizia distributiva non è affatto un atto di giustizia perché i beni comuni non appartengono a chi li riceve e dunque i beneficiari della distribuzione non ne hanno diritto. Di fronte a queste possibili obiezioni Tommaso riafferma invece l’accettabilità della giustizia distributiva perché essa risponde al principio di eguaglianza, non nei rapporti tra singoli, ma regolando la relazione tra la colletti-

vità ed i soggetti che la compongono.??? La differenza tra giustizia commutativa e distributiva è nel senso di una modalità differente di esprimere il principio di eguaglianza. L’intera prospettiva della virtù di giustizia viene regolata dal principio di eguaglianza, sono le modalità di comprendere questa eguaglianza che differiscono.??9 LI

270 J. TR. DELOS, Notes et appendices, 204-205. 2! S Th II 61,1. Due obiezioni che, a mio giudizio, sono tuttora a fondamento della prospettiva del liberalismo classico. 2 Isipem. In particolare: «Tali rapporti [tra la collettività ed i singoli] sono guidati dalla giustizia distributiva, che ha il compito di distribuire le cose comuni in modo proporzionale». 273 Questa è anche una risposta alla domanda posta alla fine del paragrafo precedente se

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Le differenze riguardano le modalità con cui il principio di eguaglianza assume criteri diversi di proporzionalità, argomento specificato in S Th II II 61,2. Vi sono due aspetti che meritano attenzione. Il primo è il tipo rapporto di proporzionalità a cui ci si riferisce. Non è una proporzionalità di tipo aritmetico ma geometrico, cioè è il rapporto di equità che rimane immutato.?”* Il secondo aspetto rispecchia l’idea aristotelica della differenza tra i membri che compongono la società: il criterio di equità è quello della “proporzionalità” delle persone alle cose. Come afferma Tommaso: «Nella giustizia distribfitiva viene dato ad una persona tanto più del bene

comune quanto maggiore è la sua importanza nella collettività».??

Queste riflessioni di Tommaso sono di difficile comprensione, almeno ad una prima lettura, e meritano di essere analizzate meglio.

Egli parte dall'assunzione che la società ha una struttura gerarchica che è organica al suo funzionamento. Queste differenze di funzioni sociali esistono tra individui ma anche tra classi e gruppi. Dunque di fronte al com-

plesso sociale gli individui ricoprono posizioni che difficilmente sono le stesse, cioè godono di condizioni sociali paritarie. Queste differenze in realtà sono necessarie perché i ruoli e le funzioni diversi che ricoprono i singoli permettono il funzionamento sociale. La giustizia distributiva che vuole raggiungere una distribuzione equa dei beni sociali — intesi in senso lato anche come compiti ed opportunità sociali — si basa sulla differenziazione sociale. Per essa un

concetto è centrale: l'uguaglianza della distribuzione sarà basata sulla proporzionalità. Se un soggetto occupa un ruolo sociale che può essere sintetizzato con un numero quantitativo, ad esempio quattro, e riceve una serie di beni

pari a sei ed un altro che ha un ruolo pari a due riceve dei beni corrispondenti a tre, allora l'uguaglianza, di proporzione, è rispettata. Anche se uno ha rice-

vuto il doppio dell’altro, entrambi hanno ricevuto una misura uguale perché proporzionata.?”° Importante tuttavia ricordare che quando Tommaso sottolinea la diseguai criteri direttivi della giustizia generale rimangano immutati o meno. Per quanto riguarda lo specifico della giustizia distributiva quale componente della giustizia generale il criterio di eguaglianza non può che essere riaffermato come criterio universale per l'indirizzo della giustizia.

274 Tommaso usa l’esempio matematico: 6:4=3:2. Il rapporto è sempre 1,5.

275 S "Th II II 61,2. Nel terzo “sed contra” — S Th II II 61,2, ad 3-si specifica che la

condizione della persona nella giustizia distributiva è considerata direttamente per se stessa. 276 Nella giustizia commutativa invece è la qualità aritmetica dell’uguaglianza che viene messa in evidenza. I due soggetti hanno un diritto all’uguaglianza reciproca.

27%

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

glianza tra le persone, in particolarità la superiorità di una persona su di un'altra, intende una superiorità della funzione sociale non ontologica: un primato nell’“onore”, non nella “dignità”.

In sintesi si può affermare che il principio di eguaglianza risponde a delle determinazioni qualitative e non quantitative.

Egli sottolinea che questa diseguaglianza qualitativa va compresa nel senso politico ed in particolare secondo la concezione della “polis” che deriva da Aristotele: l’importanza delle persone è attribuita dalla forma politica. Il possesso delle virtù per la “polis aristocratica”, le ricchezze nelle oligarchie e la libertà in una democrazia sono gli elementi che guidano l’attribuzione dei beni secondo giustizia. Mi pare che questo criterio apra delle possibilità di interpretazione della giustizia distributiva che si ricollegano ad interpretazioni contemporanee della stessa. Presa in senso letterale la classificazione di Tommaso — polis, oligarchie e democrazie — ha solo un valore storico poiché sottolinea delle classificazioni dei regimi sociali coevi che non possono valere per il presente. Se si riflette sulla classificazione espressa da Tommaso per cogliere il significato attuale, è evidente che la giustizia distributiva presenta sempre degli aspetti sociali che riguardano modalità diverse e complementari di costruzione sociale. Per esercitare la giustizia distributiva occorre tenere unite le fattualità economiche e politiche delle società contemporanee con la ricaduta delle scelte di distribuzione nella crescita virtuosa, intesa come crescita del soggetto nella ricerca del bene. Infine è interessante che Tommaso sottolinei la libertà come fattore di distribuzione della giustizia nelle democrazie. Cosa intende affermare? In particolare quell’uguaglianza tra soggetti che viene sottolineata dalle società contemporanee. Come, in sintesi, sottolineaJ.Thomas Delos commentando questa quaestio: «La justice distributive s’inspire tour a tour des inégalités sociales pour substituer a l’égalitarisme l’idée de proportion — et de l’égalité humaine qui persiste sous les inégalités sociales, pour garantir chaque citoyen les conditions de vie pleinement humaines auxquelles il a droit, en justice distributive, au nom de l’égalité naturelle des personnes».?77

1.3. J. Maritain: la persona ed il bene comune 1.3.1. Società e persona La relazione tra la giustizia ed il bene comune, che è emersa nelle pagine precedenti dalla proposta tommasiana, va ulteriormente analizzata. Essa si arti277 J. TA. DELOS, Notes et appendices, 208.

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cola in un significato aperto ad una duplice direzione, trascendente e categoriale, sul senso del bene proprio del soggetto. Per questo approfondimento utilizzo in particolare le riflessioni di Jacques Maritain sul significato del bene comune.73 Il filosofo francese ricorda tre punti centrali per la comprensione del rapporto tra la persona e il bene comune del pensiero dell’Aquinate: a) Tommaso dà rilevanza sia al bene comune che all’ordine intrinseco del cosmo, ma li relativizza guardando ad un bene, comune e sommo, trascendente. Inoltre vuole séttolineare che l’ordine cosmico non è necessitato a

priori e che le creature intellettuali sono volute e governate per se stesse, pur essendo riferite primariamente a Dio e poi alla perfezione dell’universo stesso. Questa prospettiva viene arricchita dalla provvidenza con cui Dio si occupa delle sue creature, attenzione che però non avviene mai in modo

meccanicistico.???

b) L'oggetto della beatitudine della creatura è Dio, in quanto tale nella sua trascendenza, nella tripartizione delle Persone divine. Egli è il fine ultimo o bene ultimo a cui è destinato l’uomo nella condizione della visione bea-

tifica. Condizione che è anche comunione delle creature che godono del

bene comune sommo, una comunità di beati. Questa verità metafisica è il massimo della condizione che caratterizza il bene comune trascendente, stato che è donato da Dio stesso.?50

c) La contemplazione del bene sommo avviene attraverso l’intelletto speculativo: il bene da contemplare.?8!

Le tre osservazioni indicano come per Tommaso esista una superiorità della vita contemplativa su quella politica. Essa è la più elevata delle attività umane. Il rapporto tra contemplazione ed azione è uno degli assunti centrali

della dottrina in merito alla filosofia sociale di Tommaso. La vita contemplativa, proprio per le ragioni metafisiche, è superiore alla vita politica.?*? Esiste una vocazione della persona umana alla contemplazione.

278 J. MARITAIN, La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia 1983 (orig. fr. 1948).

279 Tv, 11. Prima di essere riferita al bene comune dell’universo la persona nella sua capacità intellettiva è riferita al Tutto divino trascendente. Secondo la prospettiva metafisica la creatura intellettuale ha la capacità di avvicinarsi a Dio più profondamente di qualsiasi altra creatura, è maggiormente simile alla perfezione divina.

5, 45: 281 Ricordo che l’intelletto pratico ha come compito quello di un bene da fare. 222

nl/NCfraS CI INIFI88, 8.

29

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Allo stesso tempo sussiste una forte attenzione al bene comune che è superiore al bene privato. Tommaso rileva il primato del bene comune nell’ordine pratico o politico della vita della “città” (polis). Egli avvalora quest'idea, per esempio, affermando: «Il bene dell’universo è superiore al bene particolare di un singolo, come in ogni ordine in cui si ritrova la distinzione tra bene privato e pubblico, in rapporto ad una medesima categoria di bene».?5

La questione del bene comune sembra rilevare una tensione tra il medesimo e il bene personale del singolo. Fondamentale per risolvere questa tensione è l’idea che il bene comune è sempre in riferimento alla persona umana: a servizio della persona umana. Questa constatazione necessita di essere spie-

gata nel dettaglio con le considerazioni che seguono. Carattere tipico della persona è la sua dimensione sociale: tendere alla relazione e alla comunione tra soggetti, come pienezza di relazione, è essenziale

per la personalità umana.?8 Quest'ultima può essere individuata attraverso due caratteristiche principali: la dignità che le appartiene e i bisogni vitali a cui è soggetta. Bisogni e dignità sono le due qualità che richiedono la dimensione sociale per il soggetto: egli necessita per vivere di appartenere a dimensioni collettive che ne valorizzino la dignità e che consentano una risposta ai bisogni vitali. La dignità della persona richiede di portare a compimento tutti i caratteri che contraddistinguono il soggetto.?* La dimensione sociale realizza gli aspetti della comunione — in senso lato — e dell’amore che sono fondanti la vita umana, ne realizzano la dignità. I bisogni vitali sono le condizioni che, se soddisfatte, permettono ai soggetti di esistere.?*° Essi non sono solo i bisogni materiali, che richiedono necessariamente la collaborazione di altri perché nessuno può fare tutto da se stesso, ma anche tutto quello che è necessario per fare opera di ragione e di virtù.?8” Con CSS IIS x9 aa) 284 J. MARITAIN, La persona, 29. _

25 Tommaso vuole far risaltare la dignità (digritas) della persona umana. Quest'ultima non deve mai essere usata o esposta a quello che è contrario a questa dignità. Esprime in termini etici un assunto metafisico. La creatura umana è voluta per se stessa. Cfr. S Th II II 64,6; cfr. anche G. CHALMETA, La giustizia politica in Tommaso d'Aquino: un’interpretazione del bene comune politico, Armando, Roma 2000, 76.

25° Tommaso individua una dimensione sociale che eccede immediatamente le categorie del bisogno. In fondo Tommaso afferma che il vivere insieme agli altri fa parte di questo bene comune e la legge deve esprimere l’ordine della felicità comune. Cfr. S Th III 90,2. 287 J. MARITAIN, Zapersona, 30.

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questi due termini — ragione e virtù — Maritain intende il fatto che le dimensioni educative, culturali e anche spirituali non possono essere raggiunte senza una portata sociale, senza una relazione autentica dei soggetti. La dimensione sociale della persona ha dunque un fondamento materiale per soddisfare i bisogni, ma ha soprattutto un fondamento che tocca la natura intima dell'essere uomo, la sua dignità, che richiede la presenza degli altri. Non siamo solo di fronte a ragioni che giustificano la socialità per motivi

strumentali, ma a delle ragioni che toccano la profondità ontologica del soggetto. Se la persona possiede una caratterizzazione sociale, un’“unità” sociale secondo il termine usatordal filosofo francese, il suo fine avrà una relazione

forte con il fine del tutto sociale che è il bene comune. Occorre allora descrivere alcune proprietà di quest'ultimo. 1.3.2. Caratteristiche del bene comune

Una società — intesa in senso ampio di collettività e di gruppo sociale — non cercherà di raggiungere solo il bene individuale dei soggetti che la compongono, ma cercherà di proporre un bene che li riguarda preso in senso collettivo. Fine della società è dunque il bene sociale.?8* Questa affermazione si presta a delle ambiguità se interpretata come un bene del tutto che vada a scapito di quello degli individui: il bene sociale, per essere tale, deve intrecciarsi con il bene delle singole persone. Non siamo né di fronte ad un’organicità che riduce a sé le parti, né ad una sommatoria dei beni individuali.

Il bene comune è la vita buona della moltitudine: comunione del loro vivere bene. Il bene comune si esprime nella contemporaneità del bene del tutto e delle parti. Il bene del tutto si “riversa” sulle parti che lo compongono. Se si considera un bene collettivo, inteso come la sommatoria dei beni individuali, questo bene non si redistribuisce alle parti perché non esiste un bene dell’insieme che ricade sulle parti. Invece il bene comune è tale se è presente il concetto di ridistribuzione: il vivere bene delle persone in una comunità è qualcosa che fa vivere bene contemporaneamente la comunità e membri della stessa. Ricorda Maritain: «Il bene comune della società politica non sono soltanto l’insieme dei beni

o servizi d’utilità pubblica [...] Il bene comune comprende tutte queste cose, ma anche qualcosa di più e di più profondo, di più concreto e di più umano:

perché racchiude anche ed anzitutto la somma stessa [...] di tutto ciò che c'è di coscienza civica, di virtù politiche e di senso del diritto e della libertà, e 288 Se una società si propone come unico compito il tutelare il bene individuale, nel senso dove ad esempio della salvaguardia delle libertà individuali, siamo di fronte ad una società prevale l’individualismo liberista.

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di tutto ciò che c'è di attività e di prosperità materiale e ricchezze dello spirito, di sapienza ereditaria messa in opera, di rettitudine morale, di giustizia,

d’amicizia, di felicità e di virtù, di eroismo nelle vite individuali dei membri della comunità, e in quanto questo sia in una certa misura comunicabile e si riversi in una certa misura su ciascuno».?5 .

*

».

.

.

9

Il bene comune non sarà una serie di vantaggi in senso utilitaristico, ma il “bonum honestum”, cioè la rettitudine della vita in se stessa. In una espressione di sintesi il bene comune è il riversarsi del bene globale sui singoli; quello che si realizza a livello sociale è poi una condizione costitutiva del realizzarsi del bene del singolo. Un ultimo passaggio, che riguarda il bene comune, è quello di vedere la comunità umana in un'apertura trascendente.??0 Il bene comune è quello dei membri della società che creano un'unione tra di loro nel senso che condividono i beni, materiali ed immateriali, più importanti. Ma questa comunione, per quei fini che si aprono alla prospet-

tiva della contemplazione, non è autosufficiente. Le persone necessitano di comunicare le une con le altre, ma in vista di una comunicazione più piena e perfetta presente nella contemplazione del mistero divino nella vita eterna. Il bene comune sostiene lo slancio verso la vita eterna. Il bene comune non è fine ultimo, ma fine che ha valore primario nella realizzazione del bene proprio del soggetto ed aperto ad una dimensione sovratemporale.??! Il bene comune della società politica è un bene onesto ed un bene pratico — cioè da realizzare — ma non il bene assoluto. In sintesi la persona ed il bene comune, bene della parte e bene del tutto,

non sono in opposizione, piuttosto si esprimono in una comunione di pro-

spettive che si richiamano e completano. In questa tensione Maritain spiega il senso profondo dell’affermazione di Tommaso, ripresa da Aristotele, dove il bene della città è più nobile, più

divino di quello dell’individuo. Il detto aristotelico in fondo necessita di un arricchimento che gli viene dalla prospettiva cristiana. Secondo la giustificazione ontologica certamente il bene della parte è inferiore al bene del tutto. Questo è il principio che giustifica l’affermazione fatta da Tommaso e la causa la ritroviamo nella constatazione che vede la persona parte del tutto sociale. 29241832) 220 Tvr, 36-40,

2 E sottesa l’idea che questo ordine assoluto trascende quello terreno, trascende la società politica, perché la persona stessa è ordinata ad un fine sovrannaturale.

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Ma non va dimenticato il fatto che la persona, a motivo del carattere trascendentale, si eleva al di sopra della comunità stessa, e.in questo caso il suo diritto rispetto alla società è più intenso.?” Il bene della città e della persona sono entrambi aperti ad un bene trascendentale.

1.3.3. Vita politica ed impegno della persona La vita politica ha un carattere personale e comunitario allo stesso tempo. Persona e bene comune non sono in opposizione ma in armonia. Esiste una

7 duplicità. Da un lato la persona impegna tutta se stessa per la vita della comunità ed è disposta anche al sacrificio per questo bene comune. Dall’altro il bene comune non annulla mai la persona e non può essere costrizione che ne limita la profondità dell’esistenza.?% Questa duplicità è ben sintetizzata da Maritain, che afferma: «L'uomo trova se stesso subordinandosi al gruppo, ed il gruppo raggiunge il suo fine soltanto servendo l’uomo».?9

Se la vita stessa dell’uomo può essere sacrificata per un bene più grande — per il tutto, nel sacrificio ragionevole di sé per una salvezza più grande — non può essere sacrificata per ragioni utilitaristiche, come mezzo per altri

fini. Inoltre la persona sacrificandosi per il tutto mostra anche il suo carattere sovratemporale in questa subordinazione perché richiama delle ragioni che trascendono la fattualità dell’esistenza. Essa non può essere mai costrizione imposta dall’esterno, per esempio dallo stato totalitario. Due affermazioni di Tommaso debbono essere unite per comprendere il rapporto tra la persona e la comunità. La prima sostiene: «Ogni persona si riferisce alla comunità come la parte al tutto».??°

La seconda invece: «L’uomo non è ordinato alla società politica secondo tutto se stesso e secondo tutto ciò che è in lui».?9°

292 Tvi, 49. 293 S Th IT II 68, 3. «Nessuno deve danneggiare un altro per promuovere il bene comune». Uomo non è mai una parte che si può sacrificare per il bene del tutto, per il bene del “tutto” sociale. 294 J. MARITAIN, Lapersona, 40. SIN IL11 64,2. 2° Th III 21, 4,243.

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Queste due precisazioni permettono di distinguere il fatto che l’uomo si impegna tutto per il bene comune, ma non secondo tutto se stesso.??” L'uomo per Tommaso si impegna nella comunità in pienezza, perché parte del tutto della comunità politica, ma non impegna tutto se stesso. L’esempio è quello dello studioso che mette tutta la sua capacità intellettiva nello studiare, secondo dunque una funzione speciale, ma la sua persona mantiene aspetti che eccedono il lavoro intellettuale. 1.4. Bene comune e giustizia

Per chiudere questo paragrafo sulla giustizia, che emerge dalla tradizione tommasiana, credo importante sottolineare come, dall’insieme delle considera-

zioni fatte in precedenza sulle diverse specie di giustizia e grazie all’approfondimento del bene comune seguendo il pensiero di Maritain, possa emergere

la constatazione che il bene comune si riferisce sempre alla giustizia sociale e distributiva.?°8 Per quanto riguarda la giustizia sociale il soggetto impegna se stesso per

la costruzione e il mantenimento nell’ordine sociale: attraverso l’edificazione della comunità e del bene comune, in modo libero, tende alla propria pienezza. Mi sembra che il richiamo tra la giustizia sociale, in sintesi quanto gli

individui devono alla società stessa, ed il bene comune sia immediato. Anche la giustizia redistributiva ricade positivamente sul soggetto che riceve una serie di beni di cui necessita per il realizzarsi del bene proprio.??? Essa è il dovuto, da parte della società come debitrice nei confronti del soggetto, che rappresenta quell’espressione concreta del bene comune a cui ha diritto il singolo. Giustizia distributiva e giustizia sociale realizzano il bene comune nella sua natura contestuale di bene del tutto e delle parti. Entrambe sono parti costitutive del bene comune. Giustizia distributiva e sociale sono due aspetti della giustizia che non possono essere separati. La società deve proporsi come fine la promozione della vita buona o virtuosa dei suoi membri.° Ma questa proposta può essere anche capovolta. Per 297 J. MARITAIN, Lapersona, 44. 298 Ivi, 46-47.

°°° Occorre ricordare che la giustizia distributiva non è una caratteristica solo legata alle dimensioni fattuali, ma esprime il bene comune. Una certa tensione è presente tra giustizia distributiva e sociale che in fondo rappresenta la tensione tra persona e società che emerge nelle riflessioni sul bene comune.

39° Cfr. G. CHALMETA, La giustizia politica, 95-98.

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vivere bene il singolo deve proporsi la realizzazione del bene della comunità: la vita virtuosa o buona di tutti i suoi membri. La prima dimensione sottolinea come il singolo appartenga ad una dimensione sociale che deve operare per il suo bene: il bene del singolo viene realizzato in una comunità — la famiglia, le entità sociali intermedie, lo stato e simili

— che favoriscono e permettono l’attuazione di questo bene. La comunità deve garantire al singolo certi beni. Siamo nell’ambito della giustizia distributiva. La seconda invece vede il singolo incapace di raggiungere questo bene in via solitaria, da solo. Essendo parte di una comunità deve partecipare alla crescita della comunità, ricercare il bene della comunità. Siamo nella dimensione del promuovere la giustizia sociale.3" Mi pare che questo equilibrio tra giustizia distributiva e sociale sia importante per il bene del soggetto. Non si può pensare un individuo che sia interamente assorbito dal sociale o dedicato interamente ad esso senza riceverne dei beni, materiali ed immateriali, in cambio.

Ma non si può neanche pensare un soggetto che riceva solo dei beni dalla comunità e non contribuisca per nulla al sostegno ed alla crescita della stessa. Che non pensi alla ricerca del bene dell’entità collettiva a cui appartiene. Giustizia distributiva e sociale sono inscindibili per la realizzazione del bene proprio del soggetto.

F) Sfere di giustizia 1.1. Molteplicità della giustizia

La molteplicità del concetto di giustizia distributiva viene affrontato da un

importante pensatore comunitario contemporaneo, Michael Walzer, che ha dedicato una delle sue opere principali proprio a questo tema.?? Inserisco qui le sue riflessioni perché mi sembra che quest'autore tenti, in un modo secolarizzato, un consenso sulla giustizia con una prospettiva diversa da quella che ho seguito finora. La sua indagine infatti non ha radici antropologiche e meta-

fisiche dirette, cioè una ricerca perseguita attraverso le inclinazioni e la loro indagine razionale che si esprime nei fini delle virtù i quali sono espressione 301 Cfr, S Th II II 47,10, ad 2: «Chi cerca il bene comune di una collettività cerca indidella rettamente il proprio bene [...] il bene proprio non può sussistere senza il bene comune bel, riferisce come famiglia, della città o del regno. Per cui anche gli antichi romani,

impero povero ». Massimo, “preferivano essere poveri in un impero ricco, che ricchi in un

302 M. Warzer, Sfere di giustizia, Laterza, Roma-Bari 2008 (orig. ing. 1983).

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VIRTÙ

della legge naturale. La sua concezione della giustizia avviene nella determinazione di una serie di regole distributive, derivanti da dimensioni fattuali e politiche, che regolano i rapporti interni di una certa comunità.? Walzer spiega la giustizia legandola ad una proposta distributiva dei beni che è sempre inserita in una tradizione. La giustizia è tale perché si crea giustizia in un determinato ambito comunitario, detto altrimenti ha senso affermare la

giustizia se l'individuo è inserito in una tradizione specifica. Tuttavia questo assunto non è assoluto perché egli individua un minimalismo morale che vale nei diversi contesti culturali e sociali. Una seconda ragione del proporre queste riflessioni si lega alla specificazione della giustizia in senso distributivo che è stata indicata, nei paragrafi precedenti, come uno dei concetti primari della tradizione sociale cristiana ed in particolare cattolica. l’analisi della tradizione tommasiana ha evidenziato come la giustizia distributiva risponda a dei criteri di eguaglianza che sono caratterizzati da alcuni parametri diversi da quelli ad esempio della giustizia in senso commutativo.5° Il principio di eguaglianza rimane centrale per la spiegazione della giustizia ma può essere specificato in modalità differenti.?9 Le considerazioni del filosofo americano mi sembrano un esempio valido di una modalità di comprensione ed interpretazione dei principi, in particolare dell’eguaglianza, che è sempre necessaria: i principi che regolano la giustizia hanno bisogno di un'ulteriore specificazione che dipende dal contesto, dalla tradizione, in cui si inseriscono. Necessitano di una tradizione precisa per passare ad un’esplicazione che tocchi le intenzioni, le scelte e le azioni di giustizia di una certa comunità.?° Le sue riflessioni sulla giustizia distributiva, che ha una delle sue affermazioni più importanti nel pensiero della tradizione sociale, permettono di comprendere che fare giustizia, creare delle situazioni di eguaglianza, comporta tenere in considerazione una molteplicità di aspetti quali i soggetti, i beni, le modalità di scambio, i criteri guida del medesimo. Il tentativo di Walzer è quello di occuparsi della giustizia distributiva non a partire da quello che l’in-

39 J. C. MerLE, Michael Walzer: evitare la problematica “sovra -positiva” del liberismo, in G. DaLLe FRATTE (ed.), Concezioni del bene e teoria della giustizia, Armando, Roma 1995, 2015

dep capo det 3° Il pensiero dell’autore che seguo permette di far comprendere come il concetto di giustizia distributiva venga elaborato da una tradizione diversa rispetto a quella del pensiero sociale. 39° In questo caso il concetto di tradizione riguarda l’elaborazione dei concetti etici derivati dai principi e non solo l’esplicitazione fattuale dei medesimi.

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sieme globale sociale deve ai soggetti — singoli o collettivi — come accade nella tradizione sociale cattolica, ma riflettendo principalmente sui beni o meglio interrogandosi sul significato che determinati beni assumono per i soggetti in una prospettiva comunitaria.397 Sono le “distribuzioni” stesse di questi beni che individuano “sfere” distributive differenti secondo la terminologia dell’autore. Il tipo di distribuzione realizzata, il modo in cui un certo bene viene attribuito tra i soggetti, è il fattore che determina la giustizia.3°8 Il primo elemento del pensiero di Walzer che necessita di essere spiegato riguarda i beni. Questi ultimi si identificano con le “cose del mondo”.3 I beni, materiali ed immateriali, caratterizzano la vita sociale dei soggetti: l'istruzione, il lavoro, le cariche pubbliche, la vita politica, la ricchezza, la sicurezza personale e simili. Sono beni anche entità più astratte quali l’affetto e la grazia.?!0 Idea fondamentale del filosofo americano è che la giusta distribuzione di un determinato bene non può essere definita senza sapere come i beni stessi sono concepiti e valutati dai soggetti che li “generano” oppure che li ricevono. Poiché i beni sono al centro del suo discorso filosofico, egli vuole mettere in

luce quale sia il sistema di distribuzione degli stessi: tutti i soggetti ricevono e offrono qualcosa, ma ciò avviene con criteri diversi e strutture di eguaglianza che non possono essere ridotte ad un unico principio come lo scambio o ad un'unica struttura come quella di eguaglianza semplice.?!! Ai diversi beni corrispondono ragioni differenti che spiegano il perché essi vengano distribuiti in

quella modalità. Quando si realizza la giustizia? Essa prende corpo quando ad un certo bene corrisponde la modalità adeguata di distribuzione e non si realizza quando essa è determinata da altri criteri o strutture che non corrispondono ai beni in questione.?!? 397 Ricordo che la proposta di Walzer in merito alla giustizia è “formale”, non si pone la questione del dovuto ai soggetti in base a ragioni ontologiche o metafisiche. 308 M. WaLzER, Sfere di giustizia, 15. Per precisare il concetto si può affermare che nella giustizia commutativa la distribuzione giusta viene realizzata rispettando il principio di eguaglianza. Walzer con il suo pensiero vuole in parte rispondere alle teorie dove la giustizia è assicurata dalle procedure di scambio commutative riguardanti soggetti individuali 0 collettivi che entrano nello scambio con delle condizioni iniziali generali che sono omogence tra le parti. 309 Ivi, Introduzione, 2. 310 Quest'ultima considerata alla stregua di altri beni immateriali. 31! Il significato di principio e di struttura di eguaglianza viene specificato in seguito. i 3! Mi pare che mettere al centro il significato sociale dei beni per i soggetti ricada in una proposta che non riesca a dire il perché, le ragioni, della scelta e dell’ordine di questi

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Un'altra assunzione di Walzer, da un punto di vista epistemico, è che non basta una ricerca filosofica — intuitiva o speculativa — per indagare le sfere di giustizia, ma occorre indirizzarsi verso una ricerca empirica. Confrontarsi cioè

con le esperienze nelle quali un certo bene viene distribuito seguendo una determinata struttura distributiva che risponde ad un certo criterio?! Un esempio può servire a chiarire quanto affermato finora: se si può essere d’accordo che un bene negativo, come la punizione, venga espresso con un verdetto e non politicamente, occorre ancora precisare con quali modalità

avviene nei fatti questa distribuzione. Ovvero bisogna ancora comprendere, nell’esempio, chi esprime questo verdetto, che cosa lo costituisce, che tipo di giustizia necessitano gli accusati. Tutti questi aspetti sono questioni che

richiedono un'analisi empirica delle sfere di distribuzione. La tesi di Walzer sostiene che solo se le sfere distributive rispondono a certe caratteristiche possono diventare sfere di giustizia: è la tesi centrale del pensiero dell’autore. Infatti i molti modi di distribuire i beni possono essere anche ingiusti. Ma che cosa significa una distribuzione giusta? La risposta a questa domanda è possibile solo seguendo l’articolazione del pensiero del filosofo americano perché le sfere di giustizia si precisano con quattro caratteri che si ritrovano in ciascuna di esse e che permettono di comprendere la qualità delle distribuzioni. Propongo dunque un'iniziale visione di sintesi che sarà poi approfondita per ciascuno di essi nelle pagine successive: — Oggetti di scambio: sono i beni sociali oggetto di distribuzione. Comprendono ad esempio i capitali, i beni materiali, le persone, i ruoli. In fondo ogni aspetto che sia oggetto di distribuzione, dove quest'ultima è un termine che non si riferisce al solo mercato, ma che abbraccia l’intera l’esperienza umana. Riguardano realtà materiali ma anche immateriali. — Mezzi di scambio: prioritario è il denaro, ma non esclusivo. In alcune sfere il denaro non può comprare nulla perché alcuni beni non sono in vendita, ma vengono scambiati con altri mezzi.



Entità di controllo dello scambio: ad esempio il mercato. Quest'ultimo però non è l’unica entità distributiva. Accanto ad esso il potere politico che può tentare di regolare la distribuzione dei beni oppure la forza delle oli-

garchie che creano un monopolio. beni. Senza questa premessa mi sembra che le “sfere di giustizia”, dove cioè la distribuzione rispetta le qualità che i soggetti attribuiscono agli stessi e che per questo sono distribuzioni giuste, non riescano a raggiungere il risultato di assicurare realmente una giustizia per il bene proprio dei soggetti. DA [ats21

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Criteri distributivi: merito, bisogno, scambio. L’idea di un unico criterio distributivo, in particolare l’eguaglianza che caratterizza lo scambio in senso commutativo, viene messa in discussione dall’esistenza di una plura-

lità di criteri.3!4

Walzer a partire dai quattro aspetti appena ricordati vuole affrontare la questione della giustizia distributiva. La sua tesi centrale in merito alla stessa afferma che «i beni sociali devono essere distribuiti per ragioni diverse, secondo procedure

diverse, e che tutte queste differenze derivano da concezioni diverse dei beni sociali stessi, risultato inevitabile del particolarismo storico e culturale».3!

Voglio ora ritornare sui quattro punti elencati per un'analisi più precisa degli stessi. Seguendo l’analisi puntuale di questi quattro aspetti affiorano le ragioni che esprimono una “sfera” di giustizia, il modo in cui si realizza la medesima. 1.2. Una teoria dei beni

Spesso la distribuzione dei beni viene vista in modo semplicistico, perché, come sostiene il filosofo americano: «I beni, con i loro significati e a causa di essi, sono il mezzo cruciale delle relazioni sociali; i beni sono nelle teste delle persone prima che nelle loro mani».?!°

Le distribuzioni dei beni devono esprimere le diverse concezioni che i soggetti hanno dei medesimi. Questa sarà la prima espressione della giustizia. I

diversi significati dei beni si basano su due premesse: — i beni sono sempre sociali: i significati dei beni hanno la necessità di essere

condivisi. Per Walzer qualsiasi tipo di bene ha un significato che dipende dalla dimensione sociale;8!

— la struttura della distribuzione di un determinato bene non dipende dal bene preso nella sua materialità, ma dal significato sociale. In sintesi:

314 Questo concetto riguarda immediatamente la giustizia perché adottare un unico criterio per la stessa, ad esempio quello dell’equità dato dalla razionalità della scelta imparziale, è riduttivo e rischia di non tenere conto di una complessità delle situazioni che riguardano la realizzazione della medesima. 35.Ivi; 17:

lvgt18 317 Si potrebbe dire che dipende dalla “tradizione” seguendo il linguaggio di MacIntyre che non è presente in Walzer, ma lo è il concetto.

289

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

«Ogni distribuzione è giusta o ingiusta rispetto ai significati sociali dei beni in gioco».?!5

Il filosofo americano corregge però questa affermazione, che se presa in senso assoluto ridurrebbe la giustizia a tutto quello che accade, attraverso un principio critico. Le distribuzioni fattuali possono essere giuste o ingiuste. Sono i beni stessi che presentano delle caratteristiche sociali che affermano

quale possa essere la “sfera” di giustizia in cui avviene la loro distribuzione. I beni hanno dei criteri di distribuzione alternativi: alcuni tutelano quei beni,

esprimono cioè una distribuzione giusta degli stessi, altri invece riducono il significato sociale e creano un possesso ingiusto degli stessi. Una certa sfera

di distribuzione è legata ad un determinato bene e quel bene non può essere distribuito altrimenti perché ci sia giustizia. Altri criteri di distribuzione per

quel bene, se adottati, svaluterebbero il bene stesso. L'esempio è in merito al fatto che certi beni non possono essere venduti e comprati, perché la sfera distributiva della compravendita non appartiene al loro significato sociale. Se

comprati o venduti perderebbero il loro significato.?!° Queste analisi vengono arricchite dal fatto che: — ogni bene sociale prevede una sfera distributiva; —

la natura dei significati sociali dei beni è storica: le distribuzioni degli stessi

possono cambiare con il tempo e questo spiega perché alcune sfere considerate giuste siano successivamente viste come ingiuste o viceversa.??9 1.3. Dominanza di un bene

Un secondo aspetto — forse il principale — perché venga tutelata la giustizia distributiva afferma che, in base ai significati sociali dei beni, le sfere di distribuzione devono rimanere autonome. Nella realtà ciò che accade in una sfera può influire sull’altra, ma non deve “dominarla”. Esiste dunque un’autonomia relativa. Una giustizia distributiva è presente quando ciascuna sfera non viene invasa da componenti l’altra sfera. Il concetto di dominanza riguarda la conquista di una sfera di distribuzione da parte di un bene o di un criterio distributivo?! 2elvai20: ; 2° Esempio che propone l’autore che seguo è la pratica della simonia nel Medioevo. 2° Walzer però sottolinea che alcune dimensioni storiche permangono nel tempo: alcuni beni sono distribuiti con ragioni che sono pertinenti ai loro significati essenziali. Una possibile critica nasce dal fatto che non si precisa il rapporto tra i beni e i soggetti che necessiterebbe di introdurre caratteristiche che riguardano le inclinazioni dei soggetti e la loro capacità razionale di trovare dimensioni virtuose che interpretino le inclinazioni.

N22:

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La dominanza non è in relazione agli attori sociali, ma, in accordo con l’im-

postazione dell’autore che seguo, è un concetto che riguarda i beni in se stessi. Cioè alcuni beni occupano o tendono ad occupare tutte le sfere di distribuzione. Non sono per primi i soggetti che determinano una certa imposizione di un bene in una distribuzione, ma alcuni beni hanno una forza di imposizione propria: ad esempio, a seconda delle dimensioni sociali e storiche, questo è accaduto per la forza, la ricchezza, la carica religiosa e politica, il prestigio

familiare, la tecnica. Essi poi attraggono tutte le cose di valore che appartengono ad altre sfere. Ai soggetti che detengono il bene dominante affluiscono tutti gli altri beni: ad esempio se il capitale è dominante viene convertito in potere e prestigio. La dominanza crea una corrispondenza tra il bene dominante posseduto e la classe dominante che lo possiede: nasce un controllo monopolistico dei beni.??? Questa acquisizione del bene dominante tuttavia provoca il nascere di condizioni di conflitto, in particolare da parte dei soggetti che sono esclusi dal possesso del bene stesso, che provocheranno un dinamismo in senso redistributivo. Le situazioni di conflitto e competizione sociale fanno sì che il bene stesso abbia un’assegnazione più equa. Inoltre il conflitto ricrea l'autonomia delle sfere distributive rompendo solitamente il monopolio. Queste considerazioni permettono di comprendere la tesi più importante di Walzer: la dominanza è ingiusta perché non assicura la giustizia distributiva. 1.4. Eguaglianza semplice e complessa Un terzo passaggio per la realizzazione delle “sfere” di giustizia avviene nell’intreccio tra i concetti in merito ai beni dominanti e le sfere di distribuzione.

Abbiamo due tipi di possibili strutture distributive e poi una specificazione in merito alla qualità delle stesse.??*

La prima struttura è quella dell’eguaglianza semplice.??4 In via teorica sembra essere una struttura di distribuzione che assicura sempre la giustizia. Essa

si basa sullo scambio reciproco e volontario che i soggetti stabiliscono tra di loro. 22 Lo schema è naturalmente più complesso perché prevede l’analisi dei meccanismi con cui ci si può impadronire di un bene dominante. L’impadronirsi di un bene dominante crea un’ideologia corrispondente. Ad esempio l’aristocrazia è il principio di quelli che rivendicano per sé intelligenza e nascita illustre e solitamente posseggono anche le rendite economiche. cia pa Ivip25: offerte distributive strutture delle spiegazioni dettagliate sulle qui soffermo 34 Non mi guida. linee alcune solo indico dall’autore che seguo,

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Eguaglianza semplice significa che nessun bene è dominante: ad esempio la ricchezza, il potere e l’istruzione sono largamente condivisi. Walzer mostra come questa condizione non possa durare nel tempo perché lo scambio presto porterà a delle profonde diseguaglianze. La giustizia distributiva può affermarsi come rottura del monopolio, ma i monopoli tendono a riprodurre se stessi nell’appropriarsi delle tre caratteristiche di ricchezza, potere e status. Il regime di eguaglianza semplice è quello dove tutto è ugualmente scambiabile — tutto è “in vendita”, afferma Walzer — e tutti hanno la stessa quantità iniziale di un bene. L’eguaglianza semplice per durare nel tempo richiederebbe l’intervento di un'autorità esterna, dello stato per esempio, per essere ciclicamente riportata alle condizioni iniziali di eguaglianza.??° In sintesi questa modalità, se è l’unica adottata nel complesso dei beni da distribuire, è incapace di assicurare la giustizia per due motivazioni: — in certe sfere non può valere come forma distributiva; — si trasforma presto in una situazione di monopolio. Una seconda struttura distributiva è quella che Walzer individua come eguaglianza complessa e che egli afferma essere la struttura più adatta per assicurare la giustizia distributiva nel suo complesso.??° Per assicurare la giustizia occorre che ciascuna delle sfere delle distribuzioni dei beni mantenga la sua autonomia: cioè i beni sono convertibili solo all’interno di quella sfera, che li accomuna, con i criteri appropriati agli stessi. Se un bene invade altre sfere può diventare dominante e creare situazioni di ingiustizia.

L'idea centrale è che nessun bene sia convertibile in senso universale. Associato a quest'aspetto occorre considerare la presenza di una società egualitaria complessa: una pluralità di beni differenti corrisponde a diverse classi di possessori.

3° Alcune espressioni della dominanza cercheranno, spesso riuscendoci, di monopolizzare lo Stato, secondo le leggi delle oligarchie, così consolideranno il controllo su altri beni sociali. La politica per Walzer è sempre la via più breve per la dominanza, il potere politico il bene più importante, e pericoloso, per la vita dell’umanità. Il potere politico per affrontare la dominanza deve essere distribuito largamente. Questo fatto si scontra ancora con due ulteriori complicazioni: il dominio della maggioranza e soprattutto il fatto che la politica deve subire la pressione di tutti gli altri beni che i cittadini hanno acquisito, o sperano di

acquisire, e che permettono di esercitare un potere di controllo su di essa. 2° La condizione dove questa eguaglianza complessa viene a cessare crea quello che Walzer chiama “tirannia” di una certa sfera e del bene che la rappresenta.

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Si avranno esiti distributivi di prevalenza di una sfera sull’altra, ma non di monopolio globale. Queste due componenti, come afferma l’autore, favoriscono la giustizia distributiva, perché «sebbene vi siano molte piccole diseguaglianze, il processo di conversione non le moltiplicherà, né si sommeranno a quelle relative a beni diversi perché l’autonomia delle distribuzioni tenderà a creare una quantità di monopoli locali in mano a gruppi diversi».3?7

All’interno di una sfera distributiva ci possono essere delle diseguaglianze che corrispondono alle cafatteristiche proprie dei beni, ma non saranno un’ingiustizia, perché saranno richieste dal significato del bene stesso e dai suoi criteri di distribuzione. Nell’eguaglianza complessa, all’interno di una sfera di distribuzione, una componente dominante è lecita. Ad esempio il potere politico può essere posseduto da alcuni per contrastare con fermezza altri poteri.?°* È l’uso di questo potere che viene scambiato per accedere ad altri beni che diventa tirannico. Un bene non può essere scambiato con altri beni sociali che appartengono ad altre sfere, in modo che diventi dominante nel senso visto in precedenza.??°

Si possono solo convertire quei beni che hanno una connessione intrinseca. Ogni sfera di distribuzione di un certo bene avrà delle situazioni eccellenti, dei soggetti che date le loro qualità riusciranno ad avere molti beni di quella sfera, ma che dovranno confrontarsi con attori simili in altre sfere e questo

tenderà a fornire una sorta di equilibrio tra le medesime. Il criterio centrale che l’autore che seguo propone per l'eguaglianza complessa è: «Nessun bene sociale X deve essere distribuito a uomini e donne che possiedono un altro bene sociale Y solo perché possiedono Y e senza considerare il significato di Y». 330 In questo senso un bene non è universalmente convertibile se si vuole assicurare giustizia.

DA [vas28: 28 Ci può essere cioè all’interno di una sfera una detenzione monopolistica di un certo bene che può favorire il complesso delle distribuzioni in altre sfere. 329 Ivi, 30. Walzer esemplifica dicendo che è possibile che X sia preferito a Y per un determinato ruolo, ad esempio politico, e che questa non sarà una disuguaglianza. Lo sarà se quel soggetto utilizzerà quel ruolo per ricavare beni che appartengono ad altre sfere: ad esempio nell’assistenza medica, nell’istruzione e simili.

o vago

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

1.5. Criteri di distribuzione

Il quarto concetto che viene preso in considerazione per la giustizia distributiva riguarda i criteri di distribuzione. Questo è uno degli aspetti delle analisi di Walzer che, a mio giudizio, permettono da un lato di comprendere meglio la sua teoria della giustizia e dall’altro di specificare il criterio di uguaglianza che è stato utilizzato in questo lavoro.?! I criteri possono essere visti come delle qualità per rendere il principio di eguaglianza più adatto a guidare la giustizia come virtù, delle qualificazioni che lo rendono meno generico.

Voglio illustrare la proposta del filosofo americano in merito ai criteri. Nelle sfere di giustizia non ci può essere un criterio distributivo unico rispetto a tutti i beni sociali. Piuttosto vengono spiegati tre tipi di criteri adottati per le teorie di distribuzione. Essi sono: libero scambio, merito e bisogno.

Il primo criterio è quello del libero scambio. Esso, all’interno di una possibile struttura che è il mercato, crea una possibilità, almeno teorica, di scambiare tutti i beni possibili. In questo caso lo scambio è altamente sensibile ai significati attribuiti ai beni stessi dai soggetti che partecipano al medesimo. Inoltre il denaro funziona solitamente come mezzo di scambio universale. Tuttavia proprio quest'ultima caratteristica è un limite inerente lo stesso criterio. Infatti il denaro non è un bene neutrale, ma dominante, ed influenza a sua volta la distribuzione dei beni da parte di chi lo possiede in abbondanza. La critica più importante per lo scambio però riguarda il fatto che esistono dei limiti su che cosa si possa scambiare o meno. In sintesi il libero scambio è un criterio che non può valere per tutte le distribuzioni, alcuni beni non potranno essere oggetto di scambio perché non possono essere comprati o venduti. Essi, se rientrano nella logica del libero scambio, perdono il loro significato intrinseco. Gli esempi più importanti riguardano alcuni beni immateriali come ad esempio l’amore e gli affetti. Il secondo criterio è quello del merito. In apparenza, come quello precedente, anche questo sembra un criterio aperto e pluralistico perché collegato alle capacità e alle dimensioni individuali che vengono ricompensate. Esistono però delle dimensioni personali nelle quali questo criterio non può funDI

?" Detto altrimenti quali siano le modalità diverse di esprimere il criterio di eguaglianza — dare all’altro ciò che è lui dovuto — a seconda del contenuto, della materia, a cui è inerente. Per il criterio di eguaglianza Cfr. cap. 2, b) 3.2. 22 Ivi, 33. L'esempio è ancora una volta quello del potere politico dove la carica politica non può essere comprata attraverso lo scambio con altri beni in una contrattazione privata. Questo crea una “tirannia” rispetto a tutti quelli che subiscono questo sistema.

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zionare. Perché la giustizia sia rispettata ci sono determinate sfere dove vale il criterio del merito, altre dove questo criterio non è significativo, anzi sarebbe ingiusto. Si presentano situazioni in cui, anche se certe categorie di persone

meritano certi beni, viene accettato come non ingiusto il fatto che altre per-

sone, che non hanno le condizioni di merito per quei beni, posseggano un

certo ammontare, maggiore rispetto alle prime, degli stessi. Per effettuare una distribuzione di certi beni con il criterio del merito occorrono sempre delle persone che organizzino questa distribuzione dall’esterno di essa e che posseggano delle capacità di giudizio per questo scopo. Ad esempio quando una commissione esaminatrice sceglie dei candidati per un ruolo pubblico. L'autore dunque ricorda che «il merito è una valida rivendicazione ma richiede giudizi difficili e dà luogo a distribuzioni determinate solo in condizioni molto particolari».

Infine il terzo criterio è quello del bisogno.

Questo criterio risulta importante per rafforzare le situazioni di giustizia. Infatti nella struttura sociale ci saranno dei soggetti che producono dei beni e altri che sono incapaci di farlo, ma hanno necessità di usufruire dei medesimi, cioè la necessità di ricevere un bene senza poter dare niente in cambio. L'idea per realizzare la giustizia, che appartiene anche all’orientamento

marxiano, è quella che propone di distribuire la ricchezza di una società secondo i bisogni di ciascuno dei suoi membri.

Anche questo criterio però non può essere universale. Alcuni beni non possono essere distribuiti secondo il criterio del bisogno. L'esempio riguarda un bene come il lavoro. Il bisogno diventa un criterio che è inutile per la distribu-

zione del medesimo, infatti è difficile determinare quali siano le qualità che si richiedono per individuare coloro che ne devono beneficiare e scegliere poi i soggetti da impiegare. Solo in termini generici si può dire che esiste il bisogno di lavorare ma che è valido in generale per tutti i soggetti.?° Inoltre esistono

dei beni dei quali nessuno ha un bisogno in senso stretto.??” 333 È il caso, ad esempio, in cui una persona si merita di essere amata per le sue carat-

teristiche personali. Ma questo non può corrispondere alla doverosità di un’altra persona concreta di rispondere a causa di questo merito. 34 L'esempio di Walzer riguarda l’arte. Gli “intenditori” di arte meriterebbero di possedere i dipinti, ma non si può dire ingiusto che non siano i principali possessori degli stessi che invece sono distribuiti seguendo le regole dello scambio.

70.119 36 A mio giudizio il bisogno può essere un criterio di distribuzione del lavoro quando

un gruppo di soggetti è riconosciuto come incapace di essere titolare di criteri di scambio normali per questo bene. 357 Sono ad esempio il potere politico, la fama, gli oggetti preziosi e simili.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Due precisazioni finali sono ancora necessarie.

I tre criteri esaminati riguardano e guidano diverse sfere di distribuzioni,

ma non possono essere scelti senza tener conto della loro presenza congiunta in diversi campi di appartenenza. Inoltre i criteri non sono mai indipendenti dai significati sociali che si attribuiscono ai beni, non possono essere applicati e compresi se non si ha presente il tipo di valore che viene attribuito al bene oggetto di distribuzione.

1.6. La giustizia nelle distribuzioni Il pensiero di Walzer si articola in quattro elementi che spiegano la questione della giustizia distributiva come visto nei paragrafi precedenti. Essi sono: il significato sociale nella differenziazione dei beni, la dominanza, la struttura distributiva dell’eguaglianza semplice e complessa, i criteri di distribuzione. I quattro aspetti trovano applicazione in sfere distributive diverse ed il loro rapporto riesce ad assicurare la giusta distribuzione delle risorse. Questo modo di raggiungere la giustizia è in fondo basato sulla differenza tra le qualità dei diversi beni. Il fatto di poter dare un certo significato ad un bene implica una struttura distributiva ed un criterio adatto al significato attribuito a quel bene. L'assenza di dominanza è una condizione necessaria perché la sfera mantenga la sua autonomia e permetta di raggiungere una distribuzione influenzata esclusivamente dalle caratteristiche proprie. Infine voglio segnalare che il significato dei beni non è tuttavia assoluto, universale, ma sempre relativo alle diverse tradizioni e dinamiche sociali. 1.7. Una sfera distributiva: le cariche pubbliche 1.7.1. Merito ed eguaglianza L'autore propone un'analisi dettagliata di ciascuna sfera, legata ad un bene particolare, descrivendo le esperienze empiriche che la caratterizzano e gli

elementi teoretici che la determinano. Per comprendere la complessità di quest’analisi è utile riportare lo studio di una di esse. Ho scelto, come esem-

pio notevole, la distribuzione delle cariche pubbliche. La definizione più consueta di carica, pubblica e non, è quella per cui un

soggetto viene scelto da autorità preposta per ricoprire un certo ruolo o funzione — una “posizione” — a favore della comunità che è presieduta dalla medesima autorità. 38 Analizza: appartenenza, sicurezza e assistenza, denaro e merce, cariche pubbliche,

lavoro duro, tempo libero, istruzione, parentela e amore, grazia divina, riconoscimento, potere politico. 2 Ivia 135

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Il significato della distribuzione delle cariche è centrale perché con esse

vengono redistribuite onore, status, ricchezza, potere. La carica può diventar e

spesso un bene dominante. Le cariche pubbliche possono essere assegnate secondo la visione di un'uguaglianza semplice: una certa carica è accessibile a tutti coloro che hanno le caratteristiche per quella data posizione. Tutti i concorrenti a quella carica godono di una parità iniziale che viene stabilita in base alle loro qualità, attestate solitamente da titoli che ne garantiscono l’idoneità. Le cariche non sono ereditarie e non possono essere comprate o vendute. Una prima considerazione rileva una distinzione importante: la distribuzione delle cariche ed il mercato sono sfere separate. Per approfondire il concetto di cariche pubbliche occorre seguirne in breve l’evoluzione storica. L'idea delle stesse nasce in ambito ecclesiastico e viene trasposta in ambito politico. Anche molte dimensioni lavorative, specie nell’età contemporanea, corrispondono al sistema delle cariche. Ad esempio il complesso stesso delle lauree conferite dalle università, la cui qualità è garantita dallo stato, è strutturale per il sistema delle cariche poiché per assumere un determinato compito o lavoro occorre avere una certa qualifica che viene attestata dalla laurea stessa. Le cariche sono collegate ad un sistema di selezione che prevede degli “esami” che devono essere superati per accedere alle stesse.8‘° Il concetto di cariche può essere valido anche per le libere professioni perché per poter essere qualificati all’esercizio delle stesse esistono complesse procedure di selezione. Le cariche non possono essere né ereditate, né comprate o vendute, come detto.*! Nell’attività pubblica ricoprire una carica significa indipendenza dal potere politico, in quanto questo sistema stabilisce i criteri particolari di distribuzione delle cariche stesse e può creare eventuali distorsioni nella loro assegnazione. Non ci possono essere aristocrazie che precludono l’accesso alle cariche, né forme democratiche che ricollegando le stesse al diritto di governo della maggioranza, democraticamente acquisito, rivendichino per sé l’asse-

gnazione delle cariche. 30 Qui i termini cariche, posizioni, autorità di controllo, esami e simili hanno un valore generico, cioè possono raggruppare una molteplicità di soggetti sociali o privati che interpre-

tano i medesimi e possedere contenuti formali che si differenziano nei particolari. 31 Ad esempio nepotismo e simonia sono i peccati che rilevano la possibilità di cedere le cariche ecclesiastiche a familiari o ad “acquirenti”. Walzer sottolinea che per accedere ad una carica ecclesiastica occorrono qualità di merito nei confronti della stessa: la devozione e la conoscenza dottrinale.

DOH

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COME

VIRTÙ

Il principio delle cariche è il merito. L’eguaglianza semplice è associata a questo criterio.

In questo senso la giustizia accompagna tutte le fasi di assegnazione delle cariche. L’eguaglianza è semplice nel senso che le cariche devono essere aperte ed accessibili a tutti coloro che ne possiedono i requisiti, cioè a tutti i soggetti che meritano le stesse.**? Se fossero rispettati questi elementi il risultato sarebbe una distribuzione di un bene — le cariche — che è giusta. L’idea della meritocrazia perfetta è una concezione che ha uno dei suoi capisaldi nella rivoluzione francese e che prosegue in tutta la sociologia organica positivista: tutti coloro che hanno le capacità occuperanno la posizione sociale dovuta e adatta al progresso sociale. Quest'idea di una struttura distributiva come quella descritta pare creare immediatamente una sfera di giustizia.’ Essa diventa meno evidente quando l’analisi deve tener conto delle effettive condizioni attraverso cui questo modello si realizza.#‘ Il filosofo americano infatti propone una serie di precisazioni “empiriche”. Le dinamiche di questo processo sono garantite da un'autorità, di solito lo stato. Esso contrasta il privilegio corporativo e gli interessi individuali discrezionali. Walzer descrive questa condizione come pubblico impiego universale. La struttura distributiva individuata dall’eguaglianza semplice può avere due tipi di caratterizzazioni per le cariche. La prima forma di eguaglianza semplice si può indicare come forma meritocratica.

Nella realtà empirica avrà molte imperfezioni: soprattutto riguardo la selezione dei candidati scelti con principio meritocratico. Questa selezione è basata in sostanza sugli esami che non sempre riescono a determinare i candi-

dati adatti per una carica.3 Le procedure per la selezione sono sempre imperfette in senso troppo generico o troppo escludente. Esiste anche una seconda forma di uguaglianza semplice. Essa esprime una scelta casuale delle posizioni: le cariche sono assegnate a soggetti che sono generici, non hanno particolari qualifiche. Essa è una forma di un radiO)

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342 Quella descritta, sottolinea il filosofo americano, è in particolare una concezione che

si lega alle teorie di Rawls sulla giustizia.

ilva 138: 344 In questo senso Walzer propone una ricerca con dei tratti descrittivi del reale che egli definisce empirici. 2° A mio giudizio qui un altro elemento di disturbo, la frode, non viene neanche preso in considerazione perché automaticamente esclude ogni possibile discorso di giustizia. Qui Walzer ragiona sulle imperfezioni interne ai criteri di merito.

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calismo populista di protesta contro i detentori di cariche pubbliche, contro in sostanza i funzionari.*‘° In questi casi le cariche stesse sono viste come un bene dominante, un monopolio che deve essere rimosso. Ma questa democratizzazione delle cariche si scontra con il fatto che le stesse necessitano di una preparazione, di un processo di acquisizione di competenze, per le funzioni che devono adempiere coloro che accedono ad una certa carica. La giustizia di una distribuzione che preveda eguaglianza semplice e merito associati appare assicurata a priori: sembrerebbe che questa combinazione possa garantire, di per sé, la giustizia perché corrisponde in pienezza al significato del bene analizzato, le cariche pubbliche. Infatti in questa sfera il merito permette una distribuzione giusta delle cariche associata all’eguaglianza semplice, cioè il pieno accesso alle “posizioni” da

parte di tutti i soggetti.3!” L'autore spiega però che la realtà è più complessa: lo stesso criterio di merito avrà delle specificazioni che rendono meno semplice affermare una distribuzione giusta in generale a prescindere dall’analisi particolare della distribuzione stessa. Inoltre esiste la possibilità di contrasto tra la struttura di distribuzione, l'eguaglianza, ed il criterio di distribuzione, il merito. Una prima difficoltà riguarda la mancanza di uniformità tra merito e qualifica. Mentre il merito è un aspetto per un qualcosa che è già stato compiuto, questo non vale per la qualifica. Il soggetto è qualificato in modo generico e per dei compiti che in parte sono da svolgere. Inoltre il riconoscimento della qualifica è ancora soggetto, in alcuni casi, ad una scelta ulteriore. Perché un soggetto assuma una certa carica si devono tenere in conto anche caratteristi-

che che non sono solo quelle rappresentate dalla qualifica. Ma queste qualità ulteriori non creano particolare ingiustizia se influenzano la scelta del candidato.5** Una seconda osservazione è il fatto che rispetto ad una carica il merito è soggetto alla limitazione generale di questo criterio, cioè il non poter sempre invocare il principio di eguaglianza che richiede di dare il dovuto se questo spetta ad un soggetto. Infatti anche se un soggetto ha quel merito poi non vi è obbligo stringente da parte dell’autorità di assegnare a lui, e non ad un'al 346 Esse svolgono una funzione importante di giustizia nelle loro forme più ragionevoli quali quelle del pensiero protestante, democratico e socialista. 347 Ivi, 142. Si potrebbe affermare la validità del principio di eguaglianza specificato in base al merito: dare a ciascuno il dovuto a seconda del merito che gli appartiene. 348 Ad esempio una commissione esaminatrice ha la possibilità di valutare dei criteri per i candidati che esprimono attitudini che vanno oltre la qualifica.

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tra persona che abbia le medesime caratteristiche, la posizione che potrebbe occupare. L'idea di meritocrazia non esiste come principio di giustizia assoluto. Walzer ripete che le uniche scelte possibili per assicurare una giustizia reale devono avvenire con l’unire la valutazione delle persone qualificate ed il giudicare le qualità umane delle stesse per quella posizione.?*° Inoltre la giustizia distributiva è legata alla concezione di vita. Un esempio concreto quello delle carriere lavorative legate al criterio del merito.?° Quest'ultimo è un principio, già espresso nell’analisi delle cariche pubbliche. Il merito associa ad ogni carriera un certo talento degli individui che ricoprono quel ruolo, privato o pubblico. Il talento deve essere la causa dello status sociale. Una teoria dell’eguaglianza semplice prevede che le opportunità iniziali devono essere aperte a tutti e le ricompense per le acquisizioni di certi talenti essere giuste in se stesse. Queste modalità si ‘esprimono in un'ottica di autorealizzazione dei soggetti. Ogni soggetto si troverà in una posizione ini-

ziale neutrale dalla quale può intraprendere un progetto di vita.?”' Pensare la realizzazione di una vita come carriera non è una concezione universale, ma particolare. Appartiene in particolare al modello sociale che nasce con la modernità e continua fino al nostro presente basato sull’economia di mercato.? Pensare la vita come una serie di opportunità da individuare e realizzare, “fare carriera”, appartiene alla dimensione del costruire un qualche oggetto, un fare che pensa il soggetto in modo strumentale. Essa presume inoltre l’abbandono di altre visioni. Come in parte visto la distribuzione delle carriere come beni prevede una serie di procedure per creare giustizia 3 Lo stesso Walzer precisa che valutare le qualità personali è più soggettivo che valutare le qualifiche pertinenti ad una particolare carica. Chi sceglie le persone per occupare una carica deve saper valutare le specifiche qualità per quella carica, ovvero valutare le qualifiche. Questo si fa soprattutto escludendo tutte quelle qualità che non sono pertinenti con quella carica e dunque non debbono essere valutate. Ad esempio essere inseriti in un certo gruppo sociale o meno. Uomini e donne possono essere discriminati — la distribuzione non diventa più giusta — per la loro appartenenza. 39° In altri casi, che riguardano situazioni inerenti sempre le condizioni vitali, il merito

non è affatto un criterio distributivo: ad esempio nel caso del malato da curare, oppure in una guerra. ?! L'autore afferma che queste sono le riflessioni di Rawls sull’eguaglianza. ©? Ad esempio si possono pensare diverse alternative. Una vita in cui un soggetto eredita il lavoro, lo status familiare, e permane in esso. Un'altra dove la società dispone la

distribuzione del merito in base alle capacità o alla nascita. Una terza alternativa legata a cambiamenti vitali spontanei. Infine un’obbedienza ad un piano divino prestabilito a cui posso obbedire o meno. L'idea di carriera nasce per la prima volta, come termine, in Francia all’inizio dell'Ottocento.

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secondo il principio del merito: esami, divieti di legami familiari, riserva delle cariche e simili. Tutti questi elementi non dipendono in assoluto dal principio

di merito, piuttosto da come viene pensata la vita. Per alcuni la vita è nell’ordine della carriera.

Infine un'ultima considerazione riporta che l’eguaglianza semplice non esiste in via generale? Può esistere solo in un gruppo ristretto a priori. Un esempio può chiarirne le motivazioni: in via teorica un bambino che volesse assumere una certa posizione avrebbe le stesse possibilità di tutti i bambini che volessero assumere quella posizione. Questa possibilità dipenderà innanzitutto dalle capacità di giustizia del sistema di istruzione che dovrebbe offrire le stesse opportunità a tutti i soggetti.?”* In realtà le capacità che si possono acquisire dipenderanno da molti fattori nel solo percorso scolastico: nella differenza tra scuole, studenti ed insegnanti. Ma anche al di fuori del percorso scolastico ci saranno i fattori che differenzieranno la possibilità di qualifica,

infatti centrale è sempre l’appartenenza sociale dei soggetti. Non esiste una teoria della distribuzione giusta a priori della dimensione sociale, e quindi in

via derivata delle cariche pubbliche, che possa essere espressa dall’eguaglianza semplice.’

1.7.2. Riservare le cariche

Per alcune cariche è necessario riservare alcune quote di accesso.? Proprio questo tipo di scelta viene discussa da Walzer perché in apparenza sembra una

realizzazione giusta in ogni caso, ma in realtà presenta diverse complessità che rendono meno semplice questa constatazione. L’assunto di base è che le cariche siano distribuite secondo giustizia, proprio per questo occorre che se esse vengano assegnate ad un gruppo di soggetti che è dominante, per lo stesso principio devono essere redistribuite: giudici e legislatori devono stabilire la giusta proporzione. Il modello delle cariche

vi il, 354 Walzer tratta il tema dell’istruzione e delle uguali possibilità in un capitolo a parte. Cfr. Ivi, 210-229. 355 L’autore riferirà nel seguito delle sue osservazioni che è una società che prevede una distribuzione generale di status, ricchezza e potere in modo equo che può rappresentare un’'uguale opportunità nell’ottenere la qualifica per una certa carica. 356 Ivi, 154. Ci possono essere delle forme del riservare le cariche che sono illecite. DO immeprincipale è la questione del nepotismo. L'illiceità del nepotismo sembra un modo abbiano che diato per assicurare l’uguaglianza. Significa però anche discriminare i soggetti le qualifiche necessarie e non si avvalgono della posizione di vantaggio nella selezione.

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riservate servirebbe per favorire un riequilibrio dell’assegnazione delle stesse secondo equità. Ma occorre pensare che il riservare delle quote ad un certo gruppo sociale porta con sé la conseguenza di discriminare in generale chi avrebbe la qualifica per quella posizione.??” Con questo argomento l’autore che seguo mostra che anche la riserva delle posizioni non è immediatamente una correzione che crea una sfera di giustizia. Soprattutto perché non si possono stabilire delle quote senza violare comunque i diritti dei candidati.??8 Le cariche riguardano le persone e non possono essere distribuite come altri beni quali i sussidi. Come precisa Walzer: «Sono [beni] che riguardano troppo da vicino le individualità e l'integrità personale. Ma se la comunità comincia a distribuirli deve stare attenta al loro significato sociale, e ciò significa prendere in considerazione allo stesso modo tutti i candidati egualmente seri».???

L'opzione di riservare delle cariche deve essere misurata con tutte le possibili misure alternative.

Un'altra considerazione più complessa è quella che la “riserva” dovrebbe rispecchiare la composizione sociale di un paese intero. In questo modo il rischio è che ciascun gruppo etnico, di razza e religione, abbia i suoi funzionari e che le funzioni svolte siano influenzate da questo fattore. In realtà il problema della discriminazione di certe categorie o gruppi

sociali è di tipo politico. Occorre garantire integrità ai gruppi disagiati e ridare loro dignità.

Un discorso complessivo in merito alla giustizia riguarda il problema delle cariche. Infatti riservare delle posizioni è un'opzione di giustizia meno impe®7 Cfr. Ivi, 157. Questo discorso da teorico assume una valenza maggiormente pratica se riferito alla questione dei neri americani. La questione del principio di uguale considerazione prevede assunzioni eque, procedure di ricerca e selezione pubbliche, scoperta non

convenzionale delle qualità. Questi diritti si intrecciano con il fatto che la riserva delle cariche è un passaggio obbligato. Il problema è quello della non considerazione di candidati — bianchi — con uguali caratteristiche. \ ?* Obiezione è quella delle tesi di giustizia di Dworkin secondo cui una certa spesa pubblica per un intervento a favore di una area economica depressa non può essere considerata una violazione dei diritti di coloro a cui viene negata questa agevolazione. PI Tv (158: 390 Ma questo fa pensare ad una società divisa in senso sociale, e non una società aperta dove gli individui possono naturalmente “attraversare confini” di gruppi sociali. In fondo Walzer non pensa ad uno Stato composto da individui, ma uno Stato composto di gruppi.

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gnativa del redistribuire un insieme di caratteristiche come le ricchezze e le

risorse che avrebbero effetti più stabili nel tempo. ©



°

6 b, E l’intera concezione del mondo sociale che deve venire messa in gioco se la questione è la successiva sfera di giustizia che riguarda le cariche.

1.8. Universale e particolare nella giustizia 1.8.1. Minimalismo 0 massimalismo morale Le considerazioni che ho seguito nelle pagine precedenti vengono arricchite da una serie di riflessioni che sono a monte del discorso sulle “sfere di giustizia” e che rappresentano iffondamenti teoretici di quest’autore.59! Una concezione consueta del pensare una dimensione morale universale comporta un tentativo di tracciare un minimo comune per i termini morali:

se per gli stessi è possibile un accordo minimale sul loro significato e contenuto si pensa di poter raggiungere un livello morale minimo condiviso da tutti, universalmente, che indirizzi con sicurezza al bene umano.

Per Walzer questo nucleo fondamentale della morale non ha senso perché i termini morali hanno due tipi di valenza: per essi sono possibili due tipi di

interpretazione che coesistono e che hanno un significato diverso. Infatti una delle sue idee principali è quella dove i termini morali hanno un aspetto che è fine (in) ed uno che è spesso (thick).59 La caratteristica “spessa” (thick) degli elementi della morale suggerisce una

complessità della stessa che dipende dall'ambiente culturale e sociale dove prende forma. Ad esempio il concetto di giustizia è sempre legato alle condizioni sociali e storiche che danno seguito ad una determinata società. Non è possibile individuare delle prospettive di giustizia senza contestualizzarle, senza ricondurle ad un ambiente di vita. La caratteristica “fine” (in) invece riguarda il fatto che ci può essere una

comprensione di un certo termine morale che è condivisa sia da tutti coloro che appartengono ad un certo contesto, sia da soggetti che non condividono quell’ambiente sociale.

361 M. WarzeR, Thick and thin: moral argument at home and abroad, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1994. Non mi prefiggo qui di discutere in modo critico questi di temi, ma solo di riportarli per favorire la comprensione del discorso sulle distribuzioni giustizia.

362 Questa in parte è la teoria dei diritti umani. 363 Ivi, 2. “Thick e Thin” potrebbero anche venire tradotti come “massimale e minimale”, perché il senso riferito ai termini morali è anche questo.

303

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Ad una prima impressione queste due caratteristiche appaiono quasi con-

traddirsi. L’esempio chiarificatore è quello delle lotte per sostenere valori come giustizia, pace, libertà, verità e simili.5% Immediatamente questi termini hanno un significato condiviso per tutti se espressi, ad esempio, da chi protesta contro

una dittatura. Ma questa condivisione è nel senso “sottile” (shin) degli stessi

valori morali. Allo stesso tempo però i soggetti che protestano e quelli che approvano la protesta, condividendo ad esempio la stessa idea sottile (477) di giustizia, non avranno poi la stessa idea globale — spessa (tick) — di giustizia inerente problemi sociali più complessi e che dipendono dai contesti storici e culturali. Un concetto minimale della morale, che abbia un carattere universale, sca-

turisce di fronte a particolari problemi morali come ad esempio di fronte a palesi ingiustizie. Se ad esempio la tirannia è un'ingiustizia diffusa o comprensibile in tal modo in contesti diversi, allora la parola libertà, da parte di coloro che la

usano contro la tirannia, diventa evidente nel suo significato morale condiviso. Quando un popolo afferma i propri diritti contro la tirannia presenta un concetto morale universale. La stessa popolazione può avere invece un concetto di giustizia diverso da quello di un’altra popolazione per quanto riguarda la distribuzione delle risorse disponibili, delle politiche a sostegno dei poveri, del rapporto delle distribuzioni tra stato e cittadini e problemi simili. Ed anche all’interno di gruppi che appartengono alla stessa cultura possiamo avere prospettive molto differenti che indirizzano la giustizia. Il filosofo americano rileva come la morale non sia tuttavia un processo che comporta inizialmente una serie di norme e di valori leggeri (#4i7) che poi evolvono in qualcosa di maggiormente pesante (thick).

Infatti sostiene che «morality is thick from the beginning, culturally integrated, fully resonant, and in reveals itself chinly only on special occasion, when moral language is turned to specific purposes».

Per la giustizia le qualità di sottile (thin) e spesso (?4ick) trovano piena

applicazione.

3% Walzer in particolare si riferisce alle proteste, avvenute nel 1989, da parte degli abitanti di Praga per la libertà dal regime comunista. salva:

304

CAPITOLO

TERZO

— TRADIZIONI

E GIUSTIZIA

La stessa idea di giustizia appare essere una costante del pensiero umano. Maproprio il concetto di giustizia a partire dalla sua costante affermazione ha

questa duplicità di significati. Due esempi tratti dalla Scrittura possono essere interessanti. Quando il Deuteronomio ed il profeta Isaia affermano che la giustizia e la difesa dei poveri devono essere promosse ed attuate, affermano concetti che trovano largo consenso, a distanza di secoli e culture, in coloro che ascoltano queste parole.?° Il problema nasce se si indaga su quale tipo di giustizia preveda il Deuteronomio con le sue prescriztoni normative oppure quale tipo di azioni in soste-

gno dei poveri erano pensate nella cultura coeva del profeta Isaia in Israele. La giustizia non ha un nucleo sottile (#4in) che si arricchisce poi con una serie di assunti e norme, differenti a seconda delle tradizioni, che conducono ad una serie di concezioni spesse (#hick) della medesima. Le due concezioni

sono in tensione, sono presenti nello stesso ambiente storico e culturale e sono due modalità differenti di comprendere la giustizia. Mi sembra che l’affermazione di una componente comunque condivisa da qualsiasi punto di vista rimandi all’interpretazione della giustizia data in questo lavoro attraverso i principi di equità e non maleficenza. Il ragionare sull’ingiustizia ne è la controprova. In qualsiasi società e tradizione l’ingiustizia è comunque identificabile quando è palese: si tratta della violazione della giustizia che è immediatamente condivisibile ed immediata se si vuole mantenere un senso, spesso senza bisogno che sia teorizzato, all’umano. Violazione della giustizia che riporta al male fatto agli altri.3 Walzer afferma: «The sum of these recognitions is what I mean by minimal morality».?9

Allo stesso tempo l’importanza che viene attribuita rispetto alla violazione della giustizia in senso minimalista o massimalista è molto più elevata nella prima che nella seconda. Violare il minimale previsto per la giustizia provoca una reazione più acco-

rata che il discutere di accordi e specificazioni complesse e differenziate sul realizzare in un certo contesto la giustizia.

366 Gli esempi sono Dt 16,10 e Is 3,15.

367 Queste considerazioni sono riconducibili alla violazione del principio di non maleficenza che è stato descritto in questo lavoro come criterio di individuazione della giustizia. 368 M. WaLzer, Thick and thin, 6.

305

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

1.8.2. Valenza massimale della giustizia distributiva

Il concetto di “sfere” di giustizia affrontato in precedenza è riconducibile ad una valenza massimale (rbick) della stessa. Distribuire socialmente dei beni

è qualitativamente complesso. Una possibile interpretazione delle idee di Walzer è il suo voler criticare l'assunto che esista un unico principio, o un'unica struttura, che sia in grado di assicurare la giustizia distributiva.?”?° Se poi analizzati nelle loro complessità, che nascono dal particolare empirico, i criteri distributivi non sono astratti ed assoluti, ma legati alle condizioni storiche e particolari. La giustizia distributiva ha tutta una serie di criteri e di strutture distributive interne per ogni sfera considerata. Ed in particolare: «Distributive justice must stand in some relation to the goods that are being distributed».?”!

Ma questa giustizia che si realizza all’interno di ogni sfera ha poi un rimando ulteriore che è inerente il senso che i soggetti in modo sociale e collettivo attribuiscono alle loro vite. È questo il senso più profondo dell’affermare che i beni esistono solo per il valore che viene attribuito loro dai soggetti. Il punto di partenza è la concezione della vita e dunque come i beni entrano nella determinazione di essa. La giustizia deve confrontarsi più profondamente con la concezione di vita che appartiene ai soggetti che la vogliono promuovere. Dunque in modo ancor più evidente essa avrà una valenza massimale. «So we are distributing lives of certain sort, and what counts as justice in distribution depends on what that “sort” is or, better the meaning of lives».?”? Le distribuzioni di giustizia non sono assolute ma sono profondamente legate ad una tradizione, utilizzando la terminologia adottata in questo capi-

tolo. In precedenza si è osservato che il merito è di per sé un criterio distributivo che dovrebbe assicurare la giustizia.” Questo concetto necessita di essere integrato con la constatazione che un criterio è associato al tipo di concezione che la tradizione elabora per quel bene. In generale le “sfere” di giustizia, caratterizzate da una concezione in senso massimale (#4ick) della giustizia, non potranno condurre ad un unico signi2A a RAR 97° Criteri come merito, scambio, mercato oppure la struttura dell’uguaglianza semplice. dalia. val

37? Non sempre questo accade per la complessità delle distribuzioni: Cfr. supra cap. 3, f) 1.6.1

306

CAPITOLO

TERZO

— TRADIZIONI

E GIUSTIZIA

ficato per la medesima ma occorrerà sempre un confronto con il significato che i soggetti attribuiscono alla loro vita ed alle distribuzioni che ne seguono

rispetto ai beni.

1.8.3. Giustizia distributiva e particolarismo

Dalle osservazioni fatte sembrerebbe dunque che per quanto riguarda le sfere di giustizia il concetto successivo di giustizia minimale (#4ir) non abbia alcuna valenza. Egli fa una precisazione per evitare di non avere alcun parametro di confronto tra distribuzioni in tradizioni differenti. Se infatti la distribuzione dipende dalla concezione di vita e dalla particolarità dei beni, il risultato sarà

un'idea di giustizia totalmente particolare e culturale. In parte questa concezione è necessaria nel modello di Walzer perché proprio la presenza di sfere di giustizia diverse ottiene un bilanciamento tra le stesse ed impedisce la dominanza che sicuramente crea ingiustizia. Per uscire però da un'idea di completo particolarismo ci sono tre aspetti

che debbono essere complementari alla determinazione culturale della giustizia

Il primo afferma la concezione sottile o minimale (thin) di giustizia. Il par-

ticolarismo della giustizia si accompagna sempre con un'idea sottile (thin) della giustizia stessa. Alcune distribuzioni di beni sono sempre colte come

immediatamente ingiuste, specie se di beni negativi. Se ad esempio si pensa all'omicidio, inteso come uccidere un innocente, siamo sempre di fronte ad un evento che viene colto come ingiustizia.” Una seconda osservazione è necessaria per stabilire se una certa distribu-

zione di un bene sia giusta pur dipendendo dalla dimensione sociale e storica. Essa sottolinea che i significati sociali non posso essere la risultanza di una coercizione. I significati sociali che attribuiamo ad una distribuzione non sono assoluti nel senso che non sono indipendenti da come vengono costituiti.

Se ad esempio subiscono delle coercizioni oppure se sono costruiti artificial mente per uno scopo che avvantaggia determinati soggetti, non ci sarà nessuna distribuzione giusta dei beni. Un terzo elemento sottolinea come di fronte ad una disputa morale ci

sarà comunque un consenso su alcuni aspetti della stessa che non vengono

37 Comprendere un’azione come gravemente ingiusta è più facile in generale per un'azione che viola immediatamente il principio di non maleficenza piuttosto che stabilire se una certa distribuzione sia giusta o meno in base alle caratteristiche dei beni. SA i

20:

07]

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

messi in questione e che significano una dimensione etica condivisa in quella società.

Spesso le dispute sulla giustizia distributiva hanno tre aspetti: —

presentano un accordo di fondo su alcuni beni principali per l’esperienza umana;



esiste una comprensione del principio di distribuzione;



si discute solo sulla questione di cosa significhi un'applicazione pratica del

principio a seconda delle circostanze. 1.9. Una giustizia procedurale Un esempio finale di sfera distributiva permette di proporre una sintesi finale del pensiero di Walzer e di rilevarne alcuni aspetti critici. Questa sfera è quella della distribuzione di due beni immateriali che presentano dei tratti di simili tudine: salute e salvezza. Essa propone inoltre un parallelo tra cura dei corpi e cura delle anime. Egli afferma che «what we have here is a maximalism morality, a thick understanding of life and death, a human culture».57°

In sintesi l’autore rileva come ci sia stato un passaggio storico dall’importanza dell'anima all’importanza del corpo. Ma entrambe queste prospettive viste nell’ottica di due distribuzioni di beni, che sono la salvezza in senso religioso — la vita eterna — e la salvezza dal punto di vista della salute — l’essere sani —, sono entrambe lecite poiché possono identificare delle sfere di giustizia.” Vita eterna e longevità sono i due tipi di beni che vengono distribuiti nelle sfere della salvezza e della salute: sono apprezzati nelle società in cui sono distribuiti.??8 Essi trovano una collocazione importante nella vita di coloro che li ricercano.?? In questa impostazione non si riesce a riconoscere nessun fine ultimo in

senso dominante e neanche una gerarchia tra i beni che si indirizzano ad un iva29. 7 Salute e salvezza sono sicuramente ingiuste se frutto di coercizione, cioè di interessi che ne manipolano la realizzazione. Ad esempio l’ideologia del corpo e della salute da parte di potentati per interessi economici o l'ideologia religiosa per costringere l’adesione alla fede. 778 A mio giudizio qui emerge la problematica della questione della salvezza: è necessario per una dimensione morale poter individuare una distinzione tra salvezza effimera ed una reale. Un'altra argomentazione di critica è in merito alla totale separazione tra anima e corpo in vista della salvezza che è dubbia dal punto di vista teologico, anche se nelle pagine di Walzer viene posta come una sorta di schematizzazione per la comprensione concettuale e non vuol essere discussione di temi teologici propri. #° [va,:d2,

308

CAPITOLO

TERZO

— TRADIZIONI

E GIUSTIZIA

fine ultimo.?5° Il fattore che rende giustizia è l’autonomia delle sfere distribu tive causato dalle esigenze che caratterizzano gli stessi beni: ad esempio chi ha talento riceve le cariche che sono a lui dovute, chi è malato l'assistenza medica, chi è mancante di qualcosa dei beni di consumo corrispondenti, i fedeli la loro salvezza e simili. Il modello dell'uguaglianza complessa è rappresentato da queste diverse distribuzioni che debbono rispettare i confini che si creano. Inoltre all’interno delle sfere le strutture di distribuzione, regolate da criteri diversi, creano giustizia a seconda delle caratteristiche dei beni. L’ingiustizia si crea quando una di queste sfere diventa dominante sulle altre e ne invade i confini: «Justice requires the defense of difference — different goods distributed for dif: ferent reason among different groups of people — and it is this requirement

that makes justice a thick or maximalist moral idea».88! Un ultimo concetto va sempre considerato: esiste un’idea di giustizia sot-

tile (4i7) che permane in tutte le sfere. Significa un pensare la giustizia entro un livello minimo oltre il quale non si può scendere senza creare gravi ingiustizie. A mio giudizio da queste riflessioni emerge che la critica maggiore dell’autore seguito è nei confronti del principio di equità come incapace di rispondere ad una complessiva proposta di giustizia. L’eguaglianza, criterio minimale, può servire a mostrare delle ineguaglianze evidenti quali discriminazioni dell’essere umano in quanto tale oppure le discriminazioni razziali. Ma se il principio di eguaglianza semplice deve essere il principio che guida tutte le distribuzioni diverrà un fattore di ingiustizia. Delle ineguaglianze, per così dire naturali, saranno possibili all’interno delle sfere che le richiedono, e non violeranno la giustizia distributiva. Esempi

di queste dimensioni gerarchiche sono innumerevoli, sostiene Walzer: ad esempio il prevalere degli istruiti su chi non lo è. In una dimensione dove il bene in gioco è il sapere, o l’istituzione scolastica, essa rappresenta una diseguaglianza necessaria. È il concetto di eguaglianza complessa. Sc invece le ineguaglianze occupano tutte le sfere si creeranno delle situazioni dominanti che sono per questo ingiuste: un bene che condiziona la distribuzione di tutti gli altri:

380 Tommaso invece riconosce proprio questo tipo di gerarchia. Cfr. T. Hi8ss, /nserpretations ofAquinas’ ethics since Vatican II, in S. J. PopE (ed.), The ethics ofAquinas, Georgetown University Press, Washington, D.C. 2002, 414.

381 M. WaLzER, Zhick and thin, 33.

909

LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ

«Then the deployment of one good outside its sphere — money is the obvious example — is a kind of illegitimate boundary crossing, an act of distributive aggression».*°

La giustizia dunque sarà un argomento complesso che deve considerare

sempre contemporaneamente in modo spesso (tick) significati sociali dei beni, strutture di distribuzione e criteri distributivi. Tuttavia non diverrà totalmente particolaristica perché godrà della possibilità di un significato sottile (#4i) contro l’ingiustizia evidente. Rilevo come notazione critica che la teoria della giustizia di Walzer rimane

nella dimensione procedurale: non spiega perché certi beni corrispondano a delle dimensioni umane che conducono ad un bene proprio dei soggetti. Egli in fondo vuole rimanere indipendente dalla caratterizzazione antro-

pologica della giustizia, ma intende sempre derivarla dalla pratica politica e sociale. Ma che cosa differenzia valori condivisi e pratica sociale? Per poter affer-

mare che certe pratiche sociali rappresentano un bene proprio, anche solo nell'accezione di un bene condiviso da altri soggetti e dunque sociale, occorre

far riferimento a dei criteri esterni alla pratica sociale stessa poiché in caso contrario l’affermazione della giustizia corrisponde sempre all’agire fattuale presente in una pratica sociale.

Mi sembra che la proposta di Walzer sia altamente positiva perché permette di uscire da una visione semplicistica del principio di eguaglianza semplice per la giustizia e di comprendere la complessità, ma anche la necessità, di declinare il principio — la stessa giustizia in termini sintetici — in una tra-

dizione.

i

Rimane però una proposta dove il particolarismo della tradizione, nono-

stante il concetto di “minimale” (thin) per giustizia, rimane molto accentuato:

la giustizia dipende dal significato sociale che si attribuisce ad essa. L'autore che ho seguito considera la morale in una prospettiva che è quella delle scienze sociali ed empiriche, nella valenza delle scienze positive, cioè nell’ambito sostanzialmente descrittivo dei fenomeni; e non pone una dimensione della morale come valutativa e di conseguenza prescrittiva e normativa.?85

Questo perché ipotizza situazioni di giustizia che si realizzano se accadono certe condizioni e nel gioco degli interessi dei soggetti, îna rifiuta la norma-

tività di un'etica che in questo caso riguarderebbe soprattutto la giustizia.88‘ 382 Ivi, 34. 383 J. C. MERLE, Michael Walzer, 263. 384 Questo concetto deriva dall’impostazione liberale di fondo che caratterizza il pensiero di Walzer.

310

CAPITOLO QUARTO

VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

A) Grazia 1.1. Caratteri generali e teologici della grazia

La giustizia è una virtù guidata da alcuni principi razionali e fondata su alcune costanti antropologiche. I principi esprimono una razionalità che è tendenza al bene proprio del soggetto e sono indirizzo alle inclinazioni naturali, come visto nel secondo capitolo di questo lavoro. Ora è necessario precisare come l'apporto della grazia possa determinare degli aspetti di questa virtù che la caratterizzeranno in una prospettiva teologica.

Anche il processo formativo ed educativo alle virtù si compone di tre elementi che sono analoghi a quelli appena ricordati: la natura personale del soggetto, l'apporto che proviene dall’ambiente, ciò che deriva dalla prospettiva teologica. Se l’indagine precedente, in questo lavoro, ha studiato i primi due aspetti,

ora analizzo il terzo: il contributo teologale alla giustizia che è spiegato attraverso la categoria della grazia.

Una prima distinzione che deriva dalla riflessione scolastica è centrale per

tutte le precisazioni successive in merito alla grazia: occorre distinguere tra grazia increata e creata.” ! E. KaczyNSKI, Circa Virtutes, Angelicum University Press, Roma 2007, 93.

? A. Ganoczy, Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto. Lineamenti fondamentali della dottrina della grazia, Queriniana, Brescia 1991, 136. La teologia cattolica del XX secolo può essere vista come una lunga discussione sulla grazia. Gli anni ’50 del secolo e non scorso sono la riscoperta della grazia “increata” come fondamento di quella creata procome conseguenza della stessa, in particolare l’opera di K. Rahner si distingue a questo natura posito. Viene messa in discussione l’idea di natura e grazia come due piani separati: nella originaria umana “natura” della concezione sulla l’attenzione e sovrannatura. Si pone

Sila

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

La prima accezione in merito alla grazia, quella increata, riguarda Dio stesso nel suo comunicarsi nell'amore. — La seconda, grazia creata, consiste nell'amore di Dio: nella sua opera inerente al soggetto umano. Grazia creata o increata è una distinzione che deriva da Agostino.? Que-

ste espressioni in merito alla grazia vanno arricchite in una prospettiva trini-

taria: l’idea di grazia increata sottolinea il carattere teologale della grazia; essa

è l’amore divino in riferimento al Cristo ed al Padre con la presenza dello Spirito Santo. Questo amore diventa principio di vita nuova nell’uomo: la grazia creata. La fecondità dell'amore divino investe l’uomo e lo riconcilia a sé, lo rende giusto, lo santifica.

La distinzione tra grazia creata ed increata può essere interpretata attra-

verso un duplice sguardo che prevede una differenza temporale. a) Il primo riguarda il carattere escatologico. In particolare il rapporto che da un lato vede le realizzazioni umane e i beni terreni, dall’altro il confronto

con i beni ultraterreni.

Giampiero Bof afferma che «la storia della coscienza cristiana documenta come la mancata coniugazione tra i due momenti sia all’origine dell’alternativa tra terreno ed ultraterreno».*

Non pensare una continuità tra le due sfere ha prodotto unestraneità pro-

fonda fra le stesse. Nella questione della grazia la separazione tra beni terreni e quelli ultraterreni rispecchia in parte la divisione tra grazia creata e increata. La prima inoltre può essere descritta come un cambiamento ontologico che trasforma le qualità fondamentali del soggetto. Un'interpretazione ontologica della grazia significa sottolineare la trasformazione antropologica mettendo in luce il fatto che il soggetto partecipa dell’essere trinitario di Dio medesimo. Una proposta di un’“ontologia escatologica” sembra impedire che la grazia venga intesa entro i quadri di un’ontologia statica. Per quest'ultima il dover essere è un qualcosa che si aggiunge dall'esterno al soggetto e non riscontra

sua vocazione alla grazia a partire dalla creazione. Cfr. O. H. PescH, Grazia, in P. EtcHER (ed.), / concetti fondamentali della teologia, Queriniana, Brescia 2008, 421. ? G. Bor, Grazia, in F. COMPAGNONI - G. PIANA - S. PRIVITERA (edd.), Dizionario di

Teologia Morale, S. Paolo, Cinisello Balsamo 1990, 534. Il tradurre l’interiorità agostiniana con le categorie della metafisica aristotelica ha interpretato la grazia creata come accidente reale. Queste concezioni hanno dato poca rilevanza alla prospettiva cristocentrica che vede Gesù come colui nel quale abita la pienezza della grazia. 4‘ G. Bor, Grazia, 537.

DIO

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

un dovere del bene che di fatto comporti la dimensione del coinvolgimento personale. b) Il secondo vede il contributo della grazia nella fondazione dell’etica.

Se le riflessioni espresse nel punto precedente mettono in luce un cambiamento ontologico, occorre poi prestare attenzione alla ricaduta inerente la dimensione etica. La grazia diventa un aspetto che arricchisce il soggetto e che ha riflessi profondi nell’esistenza del medesimo. Rappresenta nella vita morale, fatta di scelte e di decisioni, la gratuità dell’amore che proviene da Dio stesso: un dono trasformante. Il legame tra la dimensione della grazia e la dimensione etica esprime “Paccadere” della grazia nel soggetto. La grazia donata trasforma esistenzialmente il soggetto che agisce. Essa è qualcosa che «è il riferimento alla sovrabbondanza della vita: dinamismo vita che prende corpo».

interiore della

L'appello all’interiorità segnala il carattere personale della grazia e della dimensione etica. La presenza della grazia diventa un elemento che unisce l’uomo a Dio. Essa esclude quella separazione che porta, e che ha portato storicamente, a privile-

giare ora Dio oppure l’uomo; due poli di questo rapporto che sono apparsi a molti antitetici. La grazia non può separare l’uomo dal rapportarsi alla dimensione vitale che riguarda le realtà terrene: siamo di fronte ad una separazione indebita.

Il rapporto con Dio, che essa propone, non si pone in uno spazio diverso

da quello vitale ed allo stesso tempo non è mai chiusura della verità divina negli spazi angusti dell'umano. Ribadire l’alterità di Dio ha spesso voluto sottolineare come Egli sia irriducibile all’orizzontale, all'uomo. Ma non è

appropriato neanche affermare che Dio non appartenga e non debba essere coinvolto nelle dimensioni che spiegano e guidano questo orizzontale. Come ancora precisa Bof: no, ne «Superando ogni barriera, la grazia investe invece la totalità dell'uma e segno presenza, della luogo fa assume regole e ritmi, possibilità e limiti, ne strumento del suo donarsi: sacramento».

na Alla luce delle considerazioni dei due punti precedenti, l'etica cristia impegno: diventa opposizione al male e la grazia illumina e sostiene questo predella to nella situazione concreta e nell’azione del soggetto l’accoglimen 5 IBIDEM. 9 ii, Sa

315

LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ

senza della grazia, quale benevolenza del Dio trinitario, si dispiega in una sinergia e forza reciproche. Lo stesso lessico della grazia rivela una certa difficoltà di comprensione nel contesto che nasce dall'epoca moderna.” Infatti la grazia ad un livello termi nologico esprime in generale, ad esempio, il ricevere qualcosa che proviene da un altro.8 Libertà ed etica sono esenti da grazia, nella modernità, proprio perché l’uomo afferma un'autonomia profonda. Ma in realtà questo contrasto tra grazia e libertà è senza motivazioni. Se ci si confronta con la definizione teologale della grazia, ad esempio quella di Otto H. Pesch, se ne comprende la ragione:

«La grazia è il dono dell’amore di Dio all'uomo in maniera gratuita, inattesa, incomprensibile, che lo conduce alla salvezza nella comunione di vita con Dio perché mette a nudo la resistenza a Dio come prigionia dell’uomo in se stesso e la vince con un intervento liberatore».

Essa esprime il fatto che la grazia propone un'’interpretazione dell’autonomia umana che non viene limitata dalla sua presenza: uno sguardo più profondo sull’esistenza, che voglia esprimere una totalità della vita ed in partico-

lare il suo senso, necessita della presenza della grazia. In sintesi alcuni caratteri della grazia possono essere riassunti nei punti seguenti: a) la grazia è una realtà di e in Dio (1Gv 4,16); non una realtà dell’uomo: è l’amore di Dio; b) si presenta come dono all’uomo: libero atto non necessitato di Dio;

c) essa viene elargita in maniera gratuita al soggetto. Non appartiene alle qualità essenziali — naturali — dell’uomo. La sua gratuità è in contrasto anche

con il fatto che sia rifiutata innumerevoli volte dal soggetto umano; d) una realtà inattesa: ci si aspetterebbe, secondo la logica umana, un abban-

dono da parte di Dio nell’elargizione della stessa per la difficoltà e resistenza del soggetto umano nella ricezione di questo dono. Esiste la perseveranza, da parte di Dio, nella sua elargizione; 70. H. PescH, Grazia, 422. $ Ne offre una testimonianza l’espressione “per grazia ricevuta”. Questa espressione, che ha un radicamento nella prassi giuridica premoderna, trova una difficile collocazione, ad esempio, nelle istituzioni e nei sistemi giuridici moderni. Un cittadino che dipende dalla grazia di un altro uomo, dalla benevolenza del re ad esempio, non rientra nelle categorie consuete della prassi giuridica basata sulla imparzialità della legge. La ragione ultima è che non si esercita più il potere regale per grazia divina, ma un potere, ad esempio per la forma democratica, a tempo ed elettivo, normato dalle leggi istituite dalla volontà collettiva. RIVINAZ:

314

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

e) in parte incomprensibile nella sua dinamica ricettiva: ci si attenderebbe

un'accoglienza del dono più immediata. Invece l’amore di Dio scende tra le difficoltà che gli uomini fanno per riceverlo, nelle distorsioni di questa relazione di amore tra Dio e l’uomo; f) crea una

comunione

di vita: un amore

che nella sua essenza rimane

un'espressione della bontà di Dio. Nella sua efficacia viene invece pensato

come un fattore che raggiunge l’uomo. La grazia è dunque questa comunione di vita tra Dio e l’uomo. Essa è distinta di per sé dalla creazione. Anche essa però ha le caratteristiche di essere libera, immeritata, incomprensibile;

g) il soggetto prende ftto della sua incapacità a raggiungere una pienezza della vita: la resistenza al bene e all'amore lo aiuta a comprendere che le proprie possibilità sono troppo limitate se non si apre all'amore di Dio. La capacità di dare da parte dell’uomo un senso globale alla sua vita è limitata ed il suo fallimento, in questo suo volersi determinare totalmente, porta

infine a riconoscere il bisogno della grazia;

h l’intervento liberatore non è nella sfera della violenza, ma dello sciogliere i x

vincoli che imprigionano l’uomo. Potere delicato ed armonioso dell'amore

di Dio. Dunque grazia è il Vangelo. 1.2. Eticità della grazia nella Summa Tbeologiae

Il fatto che la dottrina della grazia si collochi nella parte finale del lungo percorso che Tommaso compie nella Summa Theologiae per il discorso morale segnala l’importanza della stessa: questa collocazione ne sancisce la funzione perché la riflessione sulla grazia è posta all’interno e come uno dei fondamenti dell’etica stessa.!°

Uno dei cardini della questione sulla grazia è quello dell’eticità della stessa,

in altre parole della comprensione di come essa trasformi l’agire, il determinarsi al bene, dei soggetti. Tommaso in tutta la Secunda Pars intende interessarsi del soggetto umano

comprendendolo quale immagine di Dio. Proprio per questo non propone mai un'etica puramente naturale che potrebbe essere pensata e separata dall’ap-

porto della grazia ovvero da una dimensione teologica." 10 S. PrncKaErs, Le fonti della morale cristiana, Ares, Milano 1985, 265. , !! Nella prima parte della Summa Theologiae Tommaso tratta dell’esemplare (exemplar) propri i governa che l’uomo, (ago), immagine Dio stesso, e nella seconda parte della sua intelligenza, atti per quelle qualità che gli appartengono e che gli derivano da Dio stesso: // Pars Nella Il,1. I Th $ di prologo il ricorda libero arbitrio e dominio sui propri atti come relazione in e medesim delle autore è l’uomo Dio è ancora principio e fine dellè opere umane;

315

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Un altro elemento da sottolineare è ricordare che l’idea stessa di grazia, che è trattata in questo luogo della Secunda Pars, non vuole essere esaustiva dell’analisi della medesima." Cioè Tommaso non vuole approfondire la grazia in tutti i suoi aspetti teoretici, ma solo alcuni elementi peculiari della stessa.'* Qui in particolare Tom-

maso individua la grazia come principio — movente — dell’agire umano: l’apporto della grazia in riferimento all’azione delle virtù. Questa relazione rispetta l’approccio generale del suo discorso morale che non si concentra sull’azione divina per disattendere l'umano o viceversa. Un modo per descrivere questa unitarietà è quello della partecipazione alla vita trinitaria: la morale ispirata a Tommaso è una morale che tenta di comprendere la maniera in cui Dio, nella Trinità delle persone divine, chiama il soggetto umano ad un’assimilazione alla sua vita." 1.3. La grazia come principio esterno

Il proemio a tutta la problematica della grazia della Summa Zbeologiae — S Th I II 109, pro/— esordisce ricordando che dopo aver trattato dei principi interiori dell’agire, con la problematica della grazia, vengono considerati quelli esterni.! Precedentemente nell’introduzione alle questioni che trattano i principi esterni dell'agire umano — legge e grazia —, dopo aver ampiamente discusso della questione delle virtù come indirizzo al bene, Tommaso ricorda: a Dio in dipendenza a Lui. Dell’agire umano, individuato in una scienza pratica e nella conseguente filosofia morale, si può fare un vero e proprio discorso teologico. Dio continua ad essere considerato come autore della legge e della grazia, ma in funzione dell’uomo virtuoso. Quest'ultimo è soggetto che attua la vita beata perché attraverso le virtù partecipa alla legge eterna. Cfr. G. Appà, Quale impostazione per la filosofia morale?, LAS, Roma 1996, 60-61. !° O. E. PescH, Liberi per grazia, Queriniana, Brescia 1988, 106.

!? Uno dei rischi di interpretare esaustivamente queste quaestiones sulla grazia è slegarle all’apporto della stessa legata all’azione del Cristo che non trova spazio in questo luogo di trattazione, ma ha una sua collocazione nella Z// Pars. ‘ D. Tusrro, La multiforme grazia di Dio, Editrice Domenicana Italiana, Napoli 2013, 144. In queste pagine quest’autore ricorda il contributo del lavoro di Dalmazio Mongillo a questi temi. Per quest'ultimo la teologia morale «approfondisce e* illustra il processo che fa diventare cittadini della Gerusalemme del cielo, eredi del Regno, fa appello alla persona [...] perché, nelle situazioni quotidiane consenta alla mozione di Dio e decida di sé in relazione al fine beatificante, descrive l’opera dell’umanità in Dio e di Dio nell’umanità». Cfr. D. Moncitto, L'unità della Prima Secundae, in Ip., La dimensione etico-teologica nella Summa Theologiae di Tommaso d'Aquino, Angelicum University Press, Roma 2006, 94. ! Questo aiuto è Dio stesso come specificato in S Th I II 109,1: «Il principio esterno degli atti umani è Dio, in quanto ci aiuta ad agire rettamente per mezzo della grazia».

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

«Eccoci a trattare dei principi esterni dei nostri atti. [...] Il principio che spinge al bene dall'esterno è Dio, il quale ci istruisce mediante la legge, e ci aiuta mediante la grazia. Perciò prima tratteremo della legge, quindi della grazia».!°

Queste affermazioni innanzitutto permettono di precisare che le riflessioni che precedono il discorso sulla grazia, in particolare quelle sulle virtù umane, rimangono con tutta la loro validità. Occorrerà allora comprendere quale sia la necessità della grazia. Chiedere come fa Tommaso, nella prima questione riguardo la stessa, se la grazia sia necessaria e la risposta affermativa a questa domanda segnalano il complessivo approccio teologico,della Summa Theologiae. Infatti solo in questo caso, con la presenza della grazia, il soggetto umano può giungere al fine ultimo stesso: Dio nella sua vita trinitaria. Tutta la vita dell’uomo si indirizza al fine ultimo che è Dio stesso, ma questo fine non può essere raggiunto se non con l’apporto della grazia. La beatitudine finale è un culmine per il destino umano. L'uomo nel suo cammino vitale si indirizza ad una molteplicità di beni che anche quando esprimono il suo bene autentico — la vita buona secondo la definizione classica — non esauriscono in sé il desiderio di una beatitudine più grande che trova solo in Dio il suo compimento ultimo.

1.4. La grazia come principio interno 1.4.1. Grazia abituale Se da un lato, come ho appena esplicitato, la grazia può venire identificata come un principio esterno della dinamica umana, dall’altro possiamo indi-

viduare la stessa quale principio interno. Quando Tommaso vede la grazia in una dinamica trascendente e trasformante le possibilità umane — cioè le potenze, o facoltà, dell'anima e le relative virtù — essa viene riconosciuta come

un qualcosa di interno.” La grazia rinnova il soggetto che la riceve diventando un principio che lo rende, in un certo modo, connaturale alle persone divine.

In questa specificazione la grazia assume la definizione di abituale. Proprio il significato di questa distinzione viene preso in considerazione nel paragrafo seguente. Per confrontarsi sull’eticità della grazia occorre ricordare la distinzione

16 8 Th I II 90,pro. San Tom7 E. KaczvyNSKi, La legge nuova: l'elemento esterno della legge nuova secondo caso questo in Esterna 81. 1974, Roma ane, Francesc maso; Libreria Internazionali Edizioni significa anche trascendente.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

delle due concezioni della grazia che permangono nella storia di questo concetto teologico.!* Da un lato abbiamo una concezione dinamica della stessa, dall’altra una

maggiormente statica. Nella prima l’accento è in particolare non alla grazia in se stessa, oppure nell’essere permanente “in grazia” da parte del soggetto, ma nell’attività della grazia, cioè il suo manifestarsi ed essere efficace nella vita dell’uomo. Se l’analisi va alla grazia da un punto di vista maggiormente statico, il

tema dell’essenza della grazia, occorre comprendere se essa “ponga” qualcosa nell’anima come precisa il linguaggio ontologico. La grazia in questo caso è

amore speciale di Dio per l’uomo come esplicita S Th I II 110,1: «C'è poi un amore speciale, di cui Dio si serve per innalzare la creatura ragio-

nevole, sopra la condizione della natura, alla partecipazione del bene divino. E in questo ultimo caso si dice che Dio ama una persona in senso assoluto: poiché con questo amore Dio vuole senz'altro alla creatura quel bene eterno,

che è lui medesimo. Ecco perché quando si dice che uno ha la grazia di Dio, si vuol indicare un dono soprannaturale prodotto da Dio nell’uomo».

Il cambiamento qualitativo dell’anima umana è il modo che Tommaso utilizza per spiegare la presenza della grazia come una caratteristica oggettivamente presente nel soggetto. La grazia, amore di Dio descritto nell’articolo citato sopra, muta le capacità dell’uomo in particolare per l'indirizzo ai suoi fini. Il dire che l’anima umana viene arricchita dalla grazia significa una trasformazione del soggetto ed è il senso più profondo del concetto ontologico della stessa. L'uomo non è come tutte le altre creature in riferimento alla relazione con Dio. Pur godendo di caratteri simili alle creature non umane, quindi beneficiare di “un amore naturale” da parte di Dio, è chiamato ad una comunione di vita con Lui, cioè alla condivisione della sua vita eterna e beata.?° La grazia rappresenta l’amore speciale che Dio nutre per l’uomo. La grazia è un dono gratuito di Dio perché non è dovuta ad una qualità umana che genera questo dono: non è una risposta di Dio ad una qualità umana.” !* O. E. PEscH, Liberi per grazia, 310. °° Tommaso in S Th III 110,2 interpreta la presenza della grazià ricollegandola al fatto che tutto deve essere originato da altro. Questa interpretazione richiama la filosofia della natura aristotelica: Dio muove la volontà del soggetto. 2° L'amore naturale è legato alla dimensione della creazione: Dio ama le sue creature, e gode di quella corrispondenza implicita che le creature hanno verso di Lui in modo inconsapevole partecipando al disegno generale della creazione. ?" O. E. PrscH, Liberi per grazia, 315. Si può invece interpretare l’amore naturale come un amore che Dio ha per la creatura — umana e non — in quanto Creatore.

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

È il donarsi di Dio in un modo originale rispetto alle altre creature naturali che diventa la particolarità della grazia per gli esseri umani. Detto altrimenti l’amore di Dio non risponde a qualità umane, ma le crea. L'amore di Dio — la grazia — provoca quella che Pesch definisce una dilatazione creaturale.?° Proprio per esprimere l’idea della grazia Tommaso la definisce come una ‘qualitas” dell’anima.?* La teoria della qualitas viene impiegata da Tommaso per interpretare antropologicamente — e con le categorie ontologiche — il modo in cui la creatura umana può incontrare Dio: la comunione personale con Lui. Quattro precisazioni sono utili per il concetto della grazia:

a) la qualitas è quello che permette ad un soggetto di acquisire una determinata caratteristica rispetto ad una certa operazione. Ricordo in questo senso

che l’habitus è una specificazione del concetto di qualitas: una delle caratteristiche dell’habitus è quella di essere ottenuto con la prassi, cioè con la ripetizione, ad esempio, di un'attività virtuosa. Nel caso della grazia non vi è alcuna necessità di acquisizione attraverso la ripetizione: la grazia è un tipo di qualitas in senso lato. Tommaso la definisce in questo modo proprio per far comprendere che essa qualifica il soggetto destinatario della stessa anche se non possiede tutti gli aspetti generali che appartengono alla qualitas.?? Ma qual è questo tipo di caratterizzazione, di pre-connotazione per il soggetto stesso? È il fatto che il soggetto, che è destinatario della grazia, provi la

gioia di essere amato da Dio e con facilità si orienti ai beni eterni, cioè a Dio stesso. Spiega Pesch: 2° Tommaso sottolinea che non basta pensare la grazia specificandola concettualmente e terminologicamente come accettazione. Questo perché non ci sarebbe una differenza tra l’amore umano e quello divino. È l’amore stesso di Dio che rende il soggetto umano “gradito” a Dio, non una sua qualità naturale. GS

UnI UNIONE

dn

23 Occorre sempre considerare però la concezione che al di là delle tante distinzioni esiste un'unità fondamentale tra i diversi aspetti della grazia. 2 Ricordo che il concetto di qualitas è in parte simile a quello di habitus. Ne differisce anche perché riguarda l’anima direttamente e non una facoltà operativa. La grazia di per sé non è direttamente un habitus perché questi ultimi toccano singole facoltà operative del soggetto quali intelligenza, volontà o stati passionali. può 2 Cfr. A. Ganoczy, Dalla sua pienezza, 137. In questo senso “gratia habitualis”

del essere considerata come una condizione donata da Dio. In particolare però è l'aspetto “Qualitas” permanere della grazia nel soggetto che è in evidenza in questa terminologia. un è una caratteristica stabile dell'anima umana di percepire gli interventi connaturali:

l’amore influsso familiare e non estraneo alla condizione di chi li riceve. È descrivere come di Dio viene ricevuto dal soggetto.

SO

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

«Se si suppone, quindi, che l’amore speciale di Dio nella sua estensione creaturale nell’uomo, renda possibile una vita vissuta nella pura gioia di Dio, questa estensione creaturale dell'amore divino dovrà essere pensata secondo il modello di una “qualitas”».?°

La ragione più importante è che se il soggetto umano non potesse godere

di un amore privilegiato di Dio nei suoi confronti, sarebbe uguale a quello di tutti gli esseri che godono dell’amore “generale” di Dio stesso e soprattutto non riuscirebbe a rispondere con facilità a questo amore.?” b) La tesi della grazia come qualitas non deve far dimenticare che questa

qualità dipende e non può essere pensata senza l’amore divino, cioè senza quel legame con l’amore di Dio stesso che, in modo privilegiato rispetto ad altre creature, arricchisce il soggetto umano.

Infatti la grazia può anche essere descritta sottolineando l’origine in Dio e la risultanza nel soggetto: essa induce in quest'ultimo una somiglianza a Dio. Essa non modifica i caratteri che appartengono a Dio stesso ma solamente

quelli che caratterizzano la persona umana. La grazia è una realtà che unisce dono, destinatario del dono e donante.’

In sintesi si può affermare che la teoria della qualitas dell'anima significa proprio che questo cambiamento non è un qualcosa che deriva dall'uomo stesso. L'uomo non è capace senza la relazione con Dio di scoprirsi destinata-

rio della grazia “creata”, la grazia come qualitas. La forza per il cambiamento antropologico deriva solo da Dio stesso. c) La grazia non è un'aggiunta all’esistenza umana che ha già in sé una completezza. Se la natura dell’uomo viene pensata come un elemento che esiste in sé autonomamente la grazia diventa solo un'aggiunta: qualcosa che arricchisce ma in modo complementare. La proposta di Tommaso invece è una trasformazione del soggetto nel suo legame con Dio stesso, ma senza per questo eliminarne l’umanità, anzi arricchendola.

d) Il tema del dono di grazia risolve il problema di una presunta opposizione tra personale ed ontologico.?° L'idea che la grazia sia qualcosa che 2° O, E. PEscH, Liberi per grazia, 318. 7 Cfr. S TRI II 110,2: «Perciò a-maggior ragione egli [Dio] infonde forme, o qualità

soprannaturali in coloro che muove al conseguimento di un bene soprannaturale, mediante le quali li muove a raggiungere i beni eterni con soavità e con prontezza».

?* ?° dono, dono

D. Tusio, La multiforme grazia, 161. Per la grazia “gratum faciens” la presenza di Dio assimila a Sé la persona attraverso il mentre nella mozione della grazia “gratis data”, pur essendo legata all’azione di Dio, il non rientra nell’idea della similitudine a Dio. Cfr. Ivi, 164.

3° T. KoBuscH, Grace (I Iae, qq. 109-114), in S. J. Pope (ed.), The ethics of Aquinas, Georgetown University Press, Washington, D.C. 2002, 212.

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

riguarda l’intera persona, non una proposta che ne spiega solo l’ontologia, viene guardando al fatto che il trattato sulla grazia giunge a conclusione del discorso sull'intero agire morale: il soggetto che dirige se stesso nella dimensione morale è colui che realizza nel modo più autentico la sua umanità. La tradizione della teologia morale che si è sviluppata successivamente a Tommaso spesso non ha dato sufficiente importanza all’adottare la prospet tiva morale, il soggetto che si indirizza moralmente, nell’analisi dell'umano.

L'etica spesso è stata derivata direttamente da temi ontologici che le donavano un carattere universale ed immutabile. Tuttavia questi argomenti hanno sempre avuto un significato ampio, guardando ad esempio al coniugare natura e razionalità.?! Ricomprendere ampiamente il significato dell’ontologia in Tommaso indica un rivalutare la dimensione morale, la scelta del soggetto, cioè la libertà nell’indirizzo al bene, che prevale sulla dimensione di un naturalismo in chiave fisicista che limita questa possibilità. Tommaso inoltre afferma per il dono di grazia una sorta di nuova creazione del soggetto che gli permette di crescere nella libertà per il bene.®? La grazia è dunque l’avvento nell’animo dell’amore di Dio che libera il soggetto. Pesch lo ridefinisce in termini moderni: «La sua venuta [di Dio] nell’Io centro dell’essere umano».?*

1.4.2. Necessità della grazia e possibilità di compiere il bene

Tommaso non inizia il suo trattato con la questione dell’essenza della grazia, ma si interroga sulla sua necessità. Questo argomento si ricollega ad un tema

ontologico: il soggetto umano deve essere “proporzionato” al fine sovrannaturale. Un altro tema viene poi presentato con la discussione della necessità della grazia ed è quello della capacità del soggetto umano di compiere il bene. Questi due concetti, che qui vengono introdotti, saranno quelli principali per comprendere la questione delle virtù infuse. Solo con l’intera disamina di che cosa sono le virtù infuse ci può essere una risposta maggiormente esaustiva sull’indirizzo morale del soggetto. 3! Il vero problema non è legare l’etica ad una dimensione ontologica, ad esempio le virtù con le inclinazioni, ma la modalità attraverso cui questo legame viene posto. 2561110, Za dik

grazia, 321. per ri 8 O, E. PescH, Libe sui temi 34 Rimando al paragrafo successivo l’approfondimento di alcune precisazioni

b) Atti natutrattati nel seguente. Sono: a) Stato di natura e condizione prima del peccato;

e) Bontà di Dio attrarali buoni; c) Amore naturale e amore sovrannaturale; d) Il peccato;

verso l’opera della creazione.

SA

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

L’argomento in merito alla necessità della grazia è affrontato in S Th I II 109: in particolare l’articolo due pone inizialmente la domanda se l’uomo possa volere e compiere il bene senza la grazia. Prima però di discutere se l’uomo sia capace, lasciato a se stesso, di fare il

bene, si trova la domanda, nell’articolo precedente, se sia capace di conoscere la verità senza la grazia. Mi pare utile approfondire, brevemente, una comparazione tra questi due tipi di potenzialità conoscitiva.” La luce dell’intelletto ha due possibilità: una comprensione delle realtà che appartengono alla dimensione naturale e l’altra quelle che la sorpassano. Per la prima è sufficiente quella capacità che appartiene di per sé all'uomo. Per la seconda è necessario invece un potenziamento, una crescita.?° Le verità che sorpassano una capacità naturale sono innanzitutto le verità di fede. Esse necessitano di una capacità conoscitiva, “luce”, che viene donata: è la grazia che inabita il soggetto. Questa grazia è quella che rende l’uomo gradito agli occhi di Dio — per gratiam gratum facientem” La presenza del dono di grazia, cioè della grazia inabitante o santificante, ha come primo effetto la cono-

scenza naturale per le verità di fede. Ritorno infine sul problema se l’uomo possa conoscere e soprattutto attuare il bene come detto a partire da S'Ih III 109,2. Nelle obiezioni — secondo il procedere normale delle questioni -f Tommaso ricorda che sembra sia possibile fare il bene senza la grazia soprattutto perché il soggetto ha una capacità generale di volere e anche quella di volere il bene. Capacità che sembra dunque permanere nella natura del soggetto. La sua risposta — il corpo dell’articolo — sottolinea invece che solo con l’aiuto offerto da Dio l’uomo può raggiungere il bene. Propone però una distinzione: la condizione che riguarda il soggetto prima e dopo il generarsi del peccato. In tutti e due i casi la natura ha bisogno dell’aiuto offerto da Dio e questa affermazione viene giustificata con una ragione metafisica: Dio è il

? Ricordo che la conoscenza del bene è diversa da quella della verità perché il bene entra poi nella prospettiva dell’azione del soggetto. 3° S ThIII 109,1 ad 1: «Qualsiasi verità, da chiunque sia detta, viene dallo Spirito Santo che infonde la luce naturale (dell’intelligenza), e muove ad intendere e ad esprimere la verità.

Non deriva però da lui in quanto inabita mediante la grazia santificante, o in quanto elargisce un dono abituale aggiunto alla natura: ma ciò avviene solo nel conoscere e nell’esprimere certe verità; e specialmente verità di fede, alle quali l’Apostolo si riferisce». 7 Cfr. S'ThIII 109, 1 in particolare ad 1 e ad 2; S Th 109, 7 ad 2. * Tommaso considera l’intelletto meno corrotto dalla forza del peccato che la volontà. Cfr. A. Ganoczy, Dalla sua pienezza, 139.

DIO

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

primo movente nei confronti di tutti gli altri esseri e dunque è Lui che muove al bene. Una ragione che deriva dall’utilizzo del pensiero aristotelico ed in particolare proviene dalla filosofia della natura: Dio origine di tutto e tutto originante. Nella condizione della natura integra le facoltà umane erano in grado di volere e compiere pienamente il bene con le loro forze naturali: cioè il bene reso possibile dalle virtù acquisite. Non erano però in grado di raggiungere un bene “superiore” per il quale sono necessarie le virtù infuse. Tommaso dunque distingue il bene delle virtù infuse dal bene delle virtù acquisite. ; Queste seconde sono in grado di raggiungere solo un bene proporzionato alla natura del soggetto. Le virtù infuse portano al bene ultimo, Dio stesso. Esse permettono al soggetto umano di indirizzarsi in un ordine sovrannaturale. La persona, nel suo

agire, entra in relazione con Dio che rappresenta il bene proprio più grande. Tuttavia dopo la caduta — nella condizione di peccato — il soggetto si trova di fronte a numerose difficoltà per raggiungere un bene umano più profondo. Nello stato di natura decaduta, corrotta dice Tommaso, il soggetto umano non è in grado di realizzare nemmeno il bene che in precedenza raggiungeva con le sue forze naturali. Nello stato di natura decaduta, dopo il peccato, l’uomo deve essere come guarito. L'esempio di Tommaso sottolinea che una persona malata non è in grado di compiere tutti imovimenti che può fare un sano: necessita dell’aiuto esterno della guarigione attraverso la medicina. AI di là della lettera di S'TTh III 109,2 qui, a mio parere, si apre una tematica che ha sfumature diverse e che può portare ad affermare la perdita di ogni capacità di compiere il bene oppure all’opposto a non riconoscere alcuna valenza alla grazia ed alle virtù infuse. Questo è uno dei nodi teorici più difficili da risolvere perché alcune precisazioni di Tommaso, e una parte della tradizione successiva, hanno affermato che nell’uomo permangono delle capacità naturali di compiere il bene che sono integre. Invece Pesch interpreta Tommaso,

sempre alla luce di S Th I II 109,2,

nel senso che il soggetto è mancante per compiere generalmente il bene.?? Si afferma cioè che nella dimensione di natura “caduta” l’uomo ha bisogno sempre dell’aiuto di Dio che dona la “mozione” per raggiungere il bene. 3 Il teologo tedesco afferma che in Tommaso non c'è quell’ottimismo sulle capacità viene naturali di fare il bene; idea che invece è uno sviluppo degli interpreti successivi e che 169. grazia, per Liberi PESCH, E. O. Cfr. Trento. recepita dal concilio di

320

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

La Porter assume una spiegazione che è una mediazione tra una capacità morale piena e una inesistente: segnala, infatti, che alcune capacità naturali

permangono, ma sono insufficienti al bene pieno. Un'idea che non viene messa in discussione, nell’analisi del pensiero tom-

masiano, è quella che individua un soggetto che è creato in stato di grazia, e l'umanità, perdendo poi questa condizione, è invece debole, menomata, per gli effetti del peccato.! La teologa americana ribadisce che Tommaso individua scopi e funzioni umane, guida all'agire pratico, che sono fondamentali per giungere al bene: alcune di queste funzioni sono legate all’azione della grazia, altre sono indirizzate da potenzialità già presenti nell’umano. l’uomo, poiché è dotato di alcune inclinazioni naturali che indirizzano al bene proprio, può perseguire poi razionalmente alcuni beni particolari. Gli esempi di Tommaso in S'IhIII109,2 si articolano nel descrivere alcune attività materiali: piantare vigne, costruire case e simili.

Mi sembra che la considerazione più importante a favore del permanere di capacità naturali al bene sia soprattutto l’impianto delle virtù acquisite che, se presenti, realizzano un certo tipo di bene e consentono al soggetto di raggiungere la vita buona. Alcuni aspetti della problematica, afferma la Porter, riguar-

dano la stessa teologia, come il tipo di beatitudine goduta prima del peccato e quella goduta in seguito allo stesso." Credo che la questione posta da S Th I II 109 all’articolo secondo, ma anche all’articolo terzo, possa essere affrontata solo a partire da una rilettura del fine ultimo e della funzione delle virtù infuse. Nel frattempo però è possibile giungere ad individuare quattro concetti, punti fermi della riflessione sulle capacità di fare il bene, che propongo come sintesi parziale. Il primo afferma che alcune tendenze al bene permangono ed altre possono essere chiaramente identificate come non appartenenti alla natura stessa. Alcune tendenze umane dopo la caduta, ad esempio quella di un amore di sé egoistico, possono essere individuate come sicuramente contrarie a dimensioni proprie della natura umana. Quest'ultima infatti è contraddistinta da 1° ]. PorTER, Nature as Reason, Wm. B. Eerdmans Publishing Co., Grand Rapids — Cambridge 2005, 384.

Cirio SOSTE; ‘° Questi temi sono ripresi con le considerazioni sugli atti naturali buoni e sullo stato di natura nel paragrafo successivo.

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

alcune inclinazioni fondamentali quali la socialità, ed anche dai primi principi della moralità, che segnalano la non naturalità di tendenze avverse al bene

autentico. Il secondo vede la necessità della grazia per il bene sovrannaturale.‘ La Porter ricorda che la capacità di fare il bene viene ricompresa nella più importante distinzione tra natura e grazia. Questa però riguarda la distinzione tra

felicità perfetta e imperfetta: raggiungere la visione beatifica richiede un arricchimento delle capacità operative del soggetto. Anche nella natura integra il bene soprannaturale era raggiunto: solo con l’aiuto, gratuito, di Dio che superava quello delle virtù naturali. A maggior ragione ora, dopo il peccato, il soggetto necessita dell’apporto della grazia per raggiungere il fine ultimo. Il terzo riguarda il fatto che nel pensiero di Tommaso si individuano tre aspetti generali della condizione umana: — una generale che vede Dio come colui che muove ogni cosa e dunque anche l'orientamento e l’azione verso il bene. Nozione generale che vale per ogni ente; — uno stato di natura integra che vede l’uomo capace di fare il bene naturale e abbisogna dell’aiuto diretto di Dio per quello sovrannaturale; — la terza condizione è quella della natura decaduta che necessita di aiuto sia per il bene naturale che quello sovrannaturale.*

Il quarto vede riaffermata un'idea classica di tutta la riflessione sul pensiero di Tommaso: per una felicità imperfetta sono sufficienti le virtù acquisite, per quella perfetta necessitano le virtù infuse, cioè l’azione della grazia. Il significato e le riflessioni che sostengono questa affermazione richiedono di capire dunque il ruolo delle virtù infuse.

4 Questa tesi si basa sul valore delle inclinazioni che permangono come carattere speal bene cifico della natura dell’uomo. La volontà umana che si orienta secondo giustizia una dice che acquisita virtù una dell’altro è il perfezionamento dell’apertura al prossimo,

portata a pienezza dalla capacità naturale del bene, detto altrimenti la socialità che viene poi

funzione della ragion pratica. 44]. PorTER, Nature as reason, 385.

109, 2, ad 1: l’uomo nella 55 I] senso della prima condizione viene precisato in S Th III

questo principio vale sua libertà è “mosso” da un principio esterno, cioè da Dio. Tanto più pensiero dei principi della per una libertà decaduta. Qui siamo nelle spiegazioni legate al

filosofia della natura di Aristotele. 46 Quest'ultima tenendo conto delle problematiche precedenti.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

1.5. Cinque precisazioni sulla bontà naturale Il paragrafo precedente ha trattato diverse tematiche sul bene che necessitano alcune precisazioni. Esse riguardano: a) stato di natura e condizione prima del peccato; b) c) d) e)

atti naturali buoni; amore naturale e amore sovrannaturale; il peccato; bontà di Dio attraverso l’opera della creazione.

1.5.1. La condizione precedente ilpeccato per Tommaso Le questioni che riguardano, come intitola Tommaso, l'innocenza e la grazia del primo uomo sono interessanti per precisare la funzione della grazia medesima.

In particolare analizzo qui alcune di esse riguardanti la condizione del primo uomo, anteriormente alla caduta: $ Th I 95,2; S Th I 95,3.

Nella prima quaestio — S Th I 95,2 — Tommaso sottolinea che le passioni presenti in uno stato naturale erano armonizzate con il bene, in quanto non esisteva una dimensione contraria ad esso: ad esempio l’amore e la gioia erano sempre legati assieme. Non essendo alcun male presente o incombente non ci potevano essere dimensioni come il timore o il dolore che appaiono solo nel successivo confronto con il male. Le passioni erano indirizzate totalmente al bene Nella seconda quaestio — $ Th I 95,3 — viene precisato che nello stato di natura le virtù sono tutte presenti. Alcune sia come abiti che come atti, altre solo come abiti perché non c'è bisogno dell’atto che le riguarda visto che non c'è bisogno di correggere un certo tipo di azioni. La causa di questa pienezza risiede nel fatto che la ragione è capace di ritrovare il giusto ordinamento dei beni e delle attività che rispecchia l’ordine buono voluto dal Creatore." Le virtù non sono altro che perfezioni che indirizzano a Dio e disponenti le potenze inferiori secondo la regola della ragione, quindi nello stato del primo

1 S Th I 95, 2: «Nello stato di innocenza l’appetito inferiore era totalmente sottoposto alla ragione; cosicché allora vi erano soltanto le passioni, che tengono dietro al giudizio della ragione». ‘* Tommaso afferma in questo senso che la ragione è direttamente subordinata a Dio prima della caduta. Importante ricordare il fatto che egli limita la perfezione naturale: non vi è capacità naturale di vedere Dio stesso, la perfezione naturale non si estende alla beatitudo. La perfezione dello stato primitivo non si estendeva alla visione di Dio per essenza.

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

uomo non incontravano ostacoli per realizzare la loro funzione ed in alcuni casi rimanevano in potenza.

In particolare la giustizia esisteva sia come abito che come atto in quanto per il bene proprio, che si indirizza all’altro, è una virtù necessaria nell’azione buona del soggetto umano.

Le due quaestiones viste rimandano invece al fatto che per compiere il

bene dopo la caduta è necessaria la presenza della grazia. Essa è principio che permette di compiere il bene come precisato in S Th I II 109,2.

Ma anche fanno capire che le virtù acquisite sono qualcosa di diverso nella condizione attuale rispetto alla presenza delle stesse nello stato originario.

Esse sono presenti in quella condizione ma non operanti perché il soggetto

non trova l'ostacolo del male e trova delle passioni già orientante al bene pro-

prio, le passioni non seguono beni apparenti. 1.5.2. Atti naturali buoni dopo la caduta Tommaso stesso indica che il soggetto può raggiungere alcuni beni: la volontà priva dell'apporto della grazia, dopo la caduta, può comunque tendere ad un bene parziale, ad un “bonum particulare”, un bene come costruire vigne o case secondo S Th I II 109,2. Altri beni perseguibili sono indicati anche da S Th II II 23,7. La carità è

necessaria per poter attestare che il soggetto è virtuoso in modo pieno indirizzandosi al fine ultimo. Allo stesso tempo viene individuata la possibilità di raggiungere dei beni autentici ed altri apparenti da parte del soggetto in un

perseguire un fine parziale. In particolare S ‘Th II II 23,7 ad 1 ha la definizione “vera virtus sed imperfecta”. Sono citati come beni nell'ordine naturale la difesa dello stato o l’occuparsi dei genitori. Il soggetto che non è ordinato dalla grazia al fine ultimo può raggiungere una bontà in certi suoi atti. Ma

questa bontà è parziale, incompleta. Inoltre Tommaso aggiunge, in S Th III 109,5, come un bene naturale perseguibile il contrarre amicizie. Occorre infine considerare in questo discorso sulle possibilità naturali di fare il bene S ThI II 65,2 — se le virtù morali possano esistere senza la carità — che afferma: «Come abbiamo già detto, le virtù morali, in quanto si limitano a compiere il

bene in ordine a un fine che non supera la capacità naturale dell’uomo, si pos.

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; : 5 umana». 49 sono acquistare per industria

o Sbihelal]:69;2:

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Tutti questi testi, raccolti in questo paragrafo, sono solo alcuni esempi che nascono a partire da S Th I II 109,2 e mi sembra permettano di indicare come Tommaso stesso mostri la possibilità parziale da parte del soggetto di raggiungere una certa qualità di bene. In sintesi ci sono in fondo due aspetti coesistenti in questi discorsi di Tommaso che riguardano la natura e la capacità umana. Da un lato anche la natura, ferita dal peccato, mantiene delle capacità di operare il bene, anche se in maniera relativa.

Dall’altra la fragilità e la debolezza di questa natura impediscono di realizzare un bene più pieno che corrisponda all’amore di Dio. Per fare questo il soggetto necessita assolutamente della grazia e delle virtù infuse. 1.5.3. Amore naturale e sovrannaturale

Distinguere l’amore di Dio nei confronti delle sue creature, e la conseguente risposta delle medesime, in naturale o sovrannaturale merita un'ulteriore chia-

rificazione. Quest'amore vede appunto una differenza tra i soggetti umani e le altre creature.

Come ampiamente ripetuto, per praticare la “virtù soprannaturale” il soggetto umano ha bisogno della grazia. È interessante a mio parere provare a definire quali siano queste dimensioni sovrannaturali: sicuramente la vita di carità intesa come amicizia con Dio stesso come Tommaso ribadisce diffusa-

mente. Questa vita di carità, di amicizia con Dio, è un fine in se stessa per il soggetto. Le “operazioni” che provvedono a questa debbono essere toccate dalla grazia”! Quest'ultima trasforma il soggetto ed il bene che è in grado di compiere, in particolare qui interessa il suo agire secondo giustizia, in modo

che questo bene venga così ordinato direttamente a Dio.

L’attributo principale di questo orientamento soprannaturale è amare Dio al di sopra di tutto. L'articolo di riferimento è S Th I II 109, 3 che ha come titolo «se l’uomo possa amare Dio sopra tutte le cose con i soli mezzi naturali, senza la grazia».??

In specifico occorre tenere presente la prima risposta alle obiezioni di

SThIII

109, 3° Amare Dio è già una qualità naturale che è condivisa con l’universo

2° Sul tema della carità cfr. infra cap. 4, 0) 1.1. °! Il fine viene raggiunto attraverso delle “operazioni”: non l'oggetto a cui si indirizza la volontà del soggetto, ma la dinamica dell’agire per raggiungerlo. Cfr. S Th III 4; S ThII 5. °° Questo articolo è in parte problematico perché pare mettere in evidenza una capacità naturale di amare Dio senza la grazia. In realtà va compreso alla luce delle osservazioni fatte in precedenza sull'amore naturale del Creatore per la creatura e viceversa. ? SIhIII 109, 3 ad 1: «La carità ama Dio sopra tutte le cose in una maniera superiore

328

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

intero, con tutte le creature, nel senso di un amore naturale per il Creatore.

Diverso è però un amore di carità da uno naturale. ‘L'amore sovrannaturale si identifica con l'amicizia di Dio, e visto che per

Tommaso la carità è proprio questa forma, esso sarà in sostanza espresso dalla carità.

La dimensione naturale dell'amore verso Dio è qualcosa di generale, essa

esprime, traducendolo in altro modo, il legame esistente tra Dio e l'universo creato. Però senza la grazia, che ha come correlato il dono divino della “caritas”, la volontà non può nutrire un amore per Dio che comporti la dimensione spontanea € beatificante,per il soggetto.

Questa specificazione dell’amore come naturale o sovrannaturale rimanda al fatto che Dio è fine ultimo della creazione e dell’umanità. Per la creazione,

che non ha un approccio mediato dall’intelletto alla realtà, il fine ultimo è Dio in quanto perfezione. Questa perfezione è la realtà originaria. Essa ha come caratteristica la similitudine — in senso lato — tra la creatura ed il Creatore a cui tendono le creature nella loro esistenza. Per l'umanità siamo invece di fronte ad un fine ultimo in quanto beatitudine, cioè derivante da conoscenza ed amore.” Infatti Tommaso sottolinea in S Th I 60,5 ad 4:

«Dio è amato con dilezione naturale da tutte le cose, in quanto è il bene universale da cui dipende ogni bene di natura. È amato invece con amore di carità, in quanto è il bene che a tutti secondo la natura [di ciascuno] comu-

nica la beatitudine soprannaturale». 1.5.4. Il peccato

Il peccato è tradizionalmente una limitazione che caratterizza il soggetto nel suo indirizzarsi al bene autentico. Le riflessioni che seguono hanno

alla natura. Infatti la natura ama Dio sopra tutte le cose in quanto principio e fine dei beni naturali: la carità invece lo ama in quanto egli è oggetto della beatitudine, e in quanto l’uomo forma con Dio una certa società spirituale». 54 Cfr. G. BuiLet, Vertus Morales infuses et vertus morales acquises selon Saint Thomas

come lo DAquin, Editions Universitaires, Fribourg (Suisse) 1958, 64. In un senso classico,

del bene studio qui citato, l’amore naturale è l’amore a Dio in quanto realizzazione perfetta conosciuto ma e, dell'universo, amore naturale di un fine ultimo non conosciuto direttament naturale è in quanto realizzazione del bene universale. Tuttavia l’oggetto di questo amore che da ale allo stesso tempo il Dio conosciuto ed amato nella carità. Un amore sovrannatur da disegnate linee un lato sorpassa quello naturale ma che non lo annulla: si inserisce nelle

esso. Cfr. anche A. Ganoczy, Dalla sua pienezza, 140. 5 D. Tusito, La multiforme grazia di Dio, 98.

529

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

come scopo in particolare di aiutare la comprensione e la portata di questo limite.0° Il peccato per Tommaso è innanzitutto avversione a Dio in quanto misura

e fine ultimo della vita umana.” Il peccato ha una valenza che riguarda la dimensione intra-umana: nasce all’interno dei rapporti con Dio, con se stessi e con gli altri. La sua presenza è legata al fatto che le energie che traggono alimento dal fine ultimo, indirizzando il soggetto a Dio, sono invece deviate verso la persona in una maniera scorretta e verso una sorta di autosufficienza. Il fine parziale, inteso come cura egoistica di se stessi, diventa fine ultimo. La

conseguenza è che alcune forze umane, che nella condizione originaria erano capaci di avvicinare il bene, ora non sono più in grado di raggiungerlo spontaneamente. Tutta l’analisi dell’azione delle virtù può essere individuata anche come una “rieducazione” delle possibilità di azione del soggetto. Egli viene, attraverso le virtù, reso nuovamente capace di scelte buone. Questo processo inoltre ha bisogno di essere favorito da una forza esterna che è la grazia. Quest'ultima è quella qualità che richiama l’uomo alla comunione con Dio stesso. Per quanto riguarda il peccato la descrizione dello stesso come mancanza e difetto del soggetto può essere definita come una svolta antropocentrica.* La domanda fondamentale per la questione etica è di quali forze il soggetto dispone nello stato attuale della condizione umana. Per Pesch la risposta è piuttosto negativa come visto in precedenza: non solo il soggetto non ha le energie per rispondere alla vocazione salvifica, ma nemmeno quelle per perseguire in pienezza il bene. A mio giudizio non bisogna incorrere nell’errore contrario: Tommaso vuole precisare che la natura conserva le sue componenti fondamentali. Se questo non avvenisse non si potrebbe più individuare una natura umana: scomparirebbe perché non sarebbero presenti caratteri fondanti per definirla.? In realtà questa osservazione è riconosciuta anche da Pesch il quale afferma: «Anche dopo il peccato l’uomo rimane un uomo, in caso contrario sarebbe un animale».90

°° O, E. PescH, Liberi per grazia, 161.

L

viCfreSeIh 111778:

°8 Antropocentrica nel senso che il peccato non è un qualcosa che sta di fronte all’uomo, una forza autonoma ed indipendente. Pesch definisce questa una concezione mitologica del

peccato. °° Cfr. S Th I 95,1; S Th I 98,2; S TAI II 106,3 ad 3. In quest'ultima — S Th III 106, 3 ad 3 — si afferma esplicitamente che la natura non è distrutta dal peccato. ° O. E. PescH, Liberi per grazia, 168.

330

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

Questo avviene per tre ragioni che permettono di riconoscere il valore della naturalità dell’uomo. Esse sono: a) la creazione ha bisogno di rimanere nella sua integrità comunque un’opera

buona di Dio. Il volere di Dio creatore ha una sua forza che non può venire meno; b) una seconda considerazione è che solo l’uomo può peccare e non l’animale. Questa considerazione può essere allargata nel senso che solo l’uomo | è buono; c) la grazia deve comunque inserirsi in una realtà che è incapace di darsi da sé, l’uomo non può che riceverla, ma deve trovare una collocazione, un’accoglienza per cui è già stata pensata: la natura umana. 1.5.5. Bontà di Dio attraverso |opera buona della creazione

Per Tommaso la grazia non svaluta la natura, ma è qualcosa che dona alla natura una salvaguardia perché ne dice una sorta di esistenza propria, in dipendenza dalla creazione." Dunque la natura ha una sua intellegibilità: le creature che rappresentano l’ordine creato hanno una loro comprensibilità. Attraverso la creazione e le creature si può cogliere qualcosa dell’esistenza di Dio stesso perché attraverso di esse possiamo riflettere sulla fonte di tutta la bontà e la razionalità del mondo: Dio stesso nella sua bontà e razionalità. La questione della grazia vuole far comprendere cosa significhi una natura che viene arricchita dalla presenza agente di Dio. Proprio la distinzione tra natura e grazia permette di individuare, oltre lo specifico della natura, anche quello della grazia, anche se esiste sempre il limite di una incommensurabilità della stessa. La grazia rischia se staccata dai suoi effetti di essere espressa in un linguaggio che non dice nulla, riferente a se medesimo. La grazia non è facilmente descrivibile in generale, dire che cosa sia in modo oggettivo, perché la sua azione sorge dalla partecipazione alla vita divina la quale rimane sempre in una dimensione altra da quella umana. A partire dalla distinzione tra natura e grazia è possibile precisare meglio i contorni di quest'ultima. La grazia è maggiormente comprensibile perché la sua “azione” ed i suoi “effetti” sono collocati entro un contesto della conoscenza — secondo le possibilità umane — di Dio stesso. Questa conoscenza di Dio a partire dalla creazione rende possibile scoprirne la bontà: è possibile una conoscenza intellegibile, per quanto lo sia attraverso l’intelletto umano, della bontà di Dio. La 5 J. PoRTER, Nature as reason, 387. 6 Importante precisare questo discorso del conoscere Dio a partire dalle possibilità umane perché non sarà mai una conoscenza dell’essenza di Dio.

331

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

grazia ha degli effetti che le sono propri. La Porter ribadisce che l’unico modo per scorgere la grazia deriva dai suoi effetti. Inoltre, afferma ancora che «we have reason to expect that God’s grace will be continuous with, or at least not a perversion of, God's creative goodness». Sostenere che la grazia è compatibile con la bontà della creazione significa che essa indirizza al bene pieno del soggetto. Da un lato permetterà di raggiungere l'amicizia con Dio; dall’altro di raggiungere il bene, la beatitudine, che esprime questa amicizia. 1.6. La grazia attuale

Vi è un aspetto della grazia che non è stato ancora analizzato e che comporta l’aspetto dell’aiuto (adiutorium) puntuale al soggetto nel compiere il bene. Finora in questa ricerca e negli argomenti trattati successivamente la que-

stione della grazia come aiuto è un aspetto in parte diverso dal legame tra grazia e virtù, perché esso riguarda il bene che si raggiunge nell’atto singora La grazia è mozione attuale di Dio stesso. Certamente questo aspetto entra nella dinamica della scelta per l’agire buono del soggetto, ma in generale è un aspetto diverso da quello della qualitas visto in precedenza. La grazia in questo caso è una forza, un aiuto di Dio, che ad esempio tocca la vita del soggetto lontano da Dio, a causa del peccato, ed aiuto per chi ha scelto un cammino di cambiamento. Qui ci si sofferma su una concezione dinamica della grazia; si osservano gli effetti che essa produce.

Alla dimensione abituale si aggiunge dunque quella attuale. L'articolo di riferimento è S Th I II 109,9 dove si ricorda che il soggetto ha bisogno di essere mosso da Dio per ben operare. Inoltre, anche se il soggetto beneficia 53 Ivi, 388. © Questa è una concezione maggiormente agostiniana perché il che cosa sia la grazia lo si comprende maggiormente dal fatto che il soggetto, liberato da Dio dal suo essere sottomesso al male e al peccato, si converte e si indirizza nuovamente a Dio stésso. Cfr. O. E. PESCH, Liberi per grazia, 309-310. ® Occorre tenere in conto che la presenza della grazia si riferisce sempre all’unitarietà della persona. ° In questo caso l’idea della mozione divina è fondante ogni possibilità di mozione delle creature. Questo concetto è recuperato dalla fisica aristotelica. La mozione divina corrisponde alla grazia che precede ed abilita la dinamica di indirizzo della volontà. Cfr.

T. KoBuscH, Grace, 214.

332

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

già del dono della grazia abituale, nondimeno ha la necessità di essere protetto e guidato da Dio. Il soggetto che già gode della grazia abituale riceve dalla grazia attuale una forza ulteriore che può essere individuata come perseveranza nel bene secondo quanto affermato in I II 109,10. Questa perseveranza sarà sostenuta da due componenti: frutto dell’habitus della grazia attuale ed anche originata dall’aiuto di Dio che protegge il soggetto dall’assalto delle tentazioni e lo aiuta appunto a perseverare. In particolare la grazia attuale viene messa in evidenza da S Th III 110,2:

«Quando si dice che uno ha la grazia di Dio, si vuole indicare che in lui si trova un effetto della gratuita volontà di Dio. Ma sopra abbiamo già visto che l’uomo è aiutato in due maniere dalla gratuita volontà di Dio. Primo, in quanto l’anima umana viene mossa da Dio a conoscere, a volere, o a compiere

qualche cosa. E allora codesto effetto gratuito che si opera nell'uomo non è una qualità, ma un moto dell’anima: infatti, a detta del Filosofo, “l’atto di chi

muove è un moto in chi viene mosso».

Una analogia che propone Tommaso può aiutare a precisare questi ter-

mini: la cura basta per guarire, non per rimanere sani. La salute ha bisogno di una assistenza continua.° Chi è guarito è comunque limitato nel godere del proprio stato di salute. Il crescere del bene, nella ripetizione di questo bene, è ciò che apporta una qualità stabile nel soggetto, ovvero l’habitus.

B) Grazia e virtù, teologali e morali, infuse 1.1. Virtù teologali e morali

Questo paragrafo, dopo una disamina della grazia in relazione alla dimensione etica, entra più a fondo nella questione delle virtù. L’idea del legame tra virtù e grazia necessita di essere ulteriormente esplicitato.

Il rapporto tra grazia e virtù teologali, e poi tra virtù teologali e virtù infuse, sta a significare primariamente il voler evitare un’autosufficienza dell’uomo nella capacità di fare il bene.® 57 Nell'articolo — S Th I II 109,9 = si ricorda la necessità della preghiera in relazione alla

grazia: «Ecco perché anche coloro che la grazia ha rigenerato come figli di Dio hanno il in cielo, così dovere di ripetere: “Non cindurre in tentazione”, “sia fatta la tua volontà come

in terra”, e le altre domande del Pater Noster, che si riferiscono a questo». ©. GfrSeIh:LID109p8!

9 O. E. PescH, Liberi per grazia, 446.

D08

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

In senso lato, a motivo della grazia che le origina, le virtù infuse comprendono anche le teologali. Per chiarezza linguistica occorrerebbe specificare sempre tra virtù teologali infuse — fede, speranza e carità — e virtù morali infuse.?® Sostenere l’esistenza delle virtù infuse vuole indicare primariamente la non possibilità di un'esistenza che si indirizza al bene senza l’apporto della grazia: ad esempio quest'ultima attraverso la carità dona una nuova capacità per l’agire buono che si arricchisce della prospettiva teologica e che riguarda in particolare la giustizia. La grazia è l’entità che sorregge le virtù teologali. Fede, speranza e carità nascono e sono sorrette dalla grazia, sussistono nel soggetto perché la grazia le

genera e dona la possibilità di permanere nel soggetto. Questi concetti sono espressi in particolare in S Th I II 110,3: questo arti-

colo afferma che la grazia non si identifica con le virtù infuse poiché è una qualità presupposta alle medesime. La grazia è principio e radice delle stesse. Il paragone è poi tra la ragione principio che agisce nelle virtù acquisite guidandole al bene, proprio, del soggetto e la grazia che le indirizza al rapporto con Dio. Se infatti, come specifica l’articolo citato, le virtù acquisite sono disposizioni che pongono il soggetto in un agire conforme con la natura umana in

maniera simile le virtù infuse uniscono l’uomo ad un fine più alto, alla beatitudine sovrannaturale, che riporta il soggetto nella relazione e comunione con Dio." 1.2. Fine ultimo, fini parziali e virtù

Per comprendere in pienezza il discorso sulle virtù infuse occorre analizzare meglio il tema del fine ultimo. In particolare la differenza tra un fine ultimo perfetto, la beatitudine, ed il fine ultimo imperfetto e fini parziali che si ricollegano ad esso. Un'altra terminologia che in modo classico, a partire dal linguaggio tommasiano, si adotta per queste questioni è la distinzione tra fine naturale e fine sovrannaturale.

°° In genere però si indicano semplicemente come virtù teologali‘quelle che sono immediatamente indirizzate alla relazione con Dio: fede, speranza e carità. ? Cfr. STI II 110,3: «Invece le virtù infuse dispongono l’uomo in una maniera superiore, e a un fine più alto: perciò è necessario che esse si ricolleghino anche a una natura superiore. E cioè alla natura divina partecipata, di cui così parla S. Pietro: “Ha donato a noi grandissime e preziose promesse, affinché per mezzo di queste diventiate partecipi della natura divina”. Per aver noi ricevuto codesta natura, possiamo dire di essere stati rigenerati come figli di Dio».

334

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

La beatitudine è quella condizione che trascende la condizione attuale del soggetto e le sue possibilità per raggiungerla. Essa si realizza nell’attività — operazione secondo il linguaggio tommasiano”? — che è la più specifica, o propria, per il medesimo soggetto ovvero la contemplazione dell’essenza di Dio stesso.?? Questa operazione implica non solo l’azione dell’intelletto, ma anche il desiderio del fine che dipende dalla volontà.” Se Dio può essere il bene ultimo dell’uomo è perché solo Lui può essere il bene che soddisfa la volontà stessa del soggetto. Indicare la volontà del soggetto nella questione del fine ultimo riporta in primo piano il discorso morale.”

In particolare mi sembra rilevante S Th I II 4,4. In questo articolo Tommaso attesta che la beatifudine richiede la rettitudine della volontà, che viene compresa in una modalità duplice: a) c'è una volontà retta che è effetto della visione beatifica, frutto della bontà di Dio: essa è elemento concomitante alla contemplazione; b) c'è contemporaneamente una rettitudine della volontà che è antecedente

alla beatitudine: essa è una qualità per raggiungere il fine ultimo. Egli ricorda che «la rettitudine della volontà consiste nel debito ordine verso l’ultimo fine. E il fine sta al soggetto che tende a conseguirlo, come la forma sta alla materia. Perciò, come la materia non può conseguire la forma, senza la dovuta predisposizione a riceverla, così nessuna cosa può conseguire il fine, senza il debito ordine verso di esso. Quindi nessuno può raggiungere la beatitudine, senza la

rettitudine della volontà».”°

fa GhiS Hol 133;

73 Cfr. M. RionHEIMER, La Prospettiva della morale, Armando, Roma 2006, 62. La questione dell’intenzione è per questo autore ciò che caratterizza razionalmente un oggetto di azione. Cfr. M. RHONHEIMER, Legge Naturale e Ragion Pratica, Armando, Roma 2001, E22;

7 Occorre tener presente S Th I II 3,4. In essa Tommaso dice che propriamente nella sua essenza la felicità stessa non è un atto della volontà. Perché la volontà desidera il fine, ma l’individuazione dello stesso e l’intenzione per conseguirlo è un atto dell’intelletto. 75 Occorre tenere presente che il poter raggiungere la beatitudine da parte del soggetto comporta un atto dell’intelletto contemplativo. La volontà poi indirizza alla beatitudine. Non approfondisco però questa questione, ricordo solo che questa è una possibilità che supera le capacità naturali di cui è dotato il soggetto stesso. Individuare nel soggetto l’attitudine alla visione di Dio significa allo stesso tempo che egli pur di fronte all’infinito di Dio forze rimane un uomo. Però egli non è in grado di raggiungere questa visione con le sole per grazia sua la con naturali. La beatitudine perfetta non è un bene pratico, Dio interviene permetterla. Cfr. M. RHONHEIMER, La Prospettiva, 65-66.

76SThII4,4.

955

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

La rettitudine piena della volontà consisterà precisamente nell’amore di Dio. Perché nella visione il soggetto non potrà fare a meno di amare Dio stesso.” Questa situazione è però una conseguenza della condizione del sog-

getto umano nella beatitudine perfetta: volontà retta come capacità di amare quello che Dio ama. Nella vita presente, quando il soggetto non vede ancora l’essenza divina, la rettitudine della volontà significa, come prosegue Tommaso nell’articolo, la capacità di amare quello che viene riconosciuto sotto la ragione universale del bene che la volontà conosce. Mi pare che questo articolo sia illuminante per comprendere che il bene è oggetto della volontà. La volontà è aspirazione razionale al bene e dunque raggiungere la beatitudine perfetta viene preceduto dall’ordinario di una condotta che desidera il bene attuale e la vita buona. La visione di Dio, il contemplare la sua essenza, è il massimo bene ovvero condizione di bene massima per il soggetto. Prima di questa condizione sarà l’orientarsi al bene raggiungibile nella situazione umana. Ma vi è una sorta di articolazione tra il bene sommo e il bene pratico. La volontà di bene è la stessa per entrambi e il dirigersi al bene ultimo comporta un indirizzo, un rispettare il debito ordine, al bene pratico che diventa un aspetto correlato al primo.

J. Pieper ricorda: «Il primo presupposto di ogni efficacia della volontà è la conoscenza del fine ovvero, il che è lo stesso, del bene che deve essere raggiunto o realizzato».”*

Lo stesso autore indica poi, attraverso S Th I II 5,2 ad 2, che il bene comporta l’idea di fine.

La domanda che vuole approfondire i temi fin qui ricordati riguarda quali saranno dunque i fini imperfetti. Detto altrimenti occorre specificare la differenza tra fine naturale e sovrannaturale.

Per precisare questa questione seguo l’interpretazione di Rhonheimer dei concetti tommasiani arricchendola con la lettura diretta delle questioni della Summa Theologiae in merito. Il seguire questo autore mi permette di riferirmi alle concezioni di Aristotele e di Tommaso sul tema del fine.?? x

7 G. WieLAND, Happiness (la Ilae, qq. 1-5), in S. J. Pope (ed.), The etics of Aquinas, Georgetown University Press, Washington, D.C. 2002, 64.

78]. PiePER, La realtà e il bene, Morcelliana, Brescia 2011 (orig. ted. 1949), 67.

? Le spiegazioni in merito al fine di Rhonheimer hanno una loro unitarietà e per questo non ho voluto inserire altri autori che invece riprendo al termine di queste pagine.

336

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

1.3. Un approfondimento teleologico

1.3.1. La duplice felicità di questa vita per Aristotele

Per lo studio del concetto di fine non solo è necessario riferirsi a Tommaso ma in precedenza guardare alla teleologia di Aristotele stesso.8° Per Aristotele la felicità è un bene perfetto il cui conseguimento rende la vita degna di essere vissuta. Ma qual è il contenuto di questa felicità? Essa sarà «un'attività dell'anima secondo la virtù migliore e più perfetta».®! L'uomo si distingue per la ragione, la sua anima è razionale, conseguen-

temente l’attività che porta alla felicità sarà proprio quell’attività dell'anima razionale. Questa attività è, in primis, la contemplazione della “verità”, la “theoria”, la sola attività che non dà niente materialmente, ma che in realtà è

l’attività umana per eccellenza perché può essere compiuta per se stessa.*° Oltre la contemplazione, visto anche che questa occupazione sembra più divina che umana, anche le altre virtù — le altre attività eccellenti — che prendono corpo nell’ambito della “polis” saranno anche esse attività guidate dalla ragione. Queste attività portano ad un tipo di felicità che non comporta un'unica modalità di attuazione, piuttosto una molteplicità di operazioni guidate dalla ragione. Dunque la prospettiva è quella di una duplice felicità: a) contemplare “Dio” come elemento che è contemplabile, di per sé, massimamente (teoria);

b) la felicità data dall’attività razionale. Orientarsi razionalmente nella vita della “polis”.5 80 Tutta l’impostazione di Rhonheimer mette in luce l’azione della ragione ed in particolare la ragion pratica. Per non fraintendere il pensiero di questautore che mi permette di precisare la questione del fine, nel seguito di questo paragrafo, mantengo immutati i riferimenti all’azione della ratio come capacità e determinante per individuare il bene proprio del soggetto. Rimando tuttavia ai discorsi del capitolo secondo sulla legge naturale che vedono anche la componente delle inclinazioni naturali e dell’antropologia soggiacente. Per Rhonheimer il fine ultimo sarà sempre individuato da un aspirare razionale: una volontà razionale guidata dai criteri della ragione. Chi cerca la felicità senza i parametri della ragione non sarà semplicemente uno che cerca un’altra via, ma sarà uno che si inganna e che è irrazionale. La felicità presuppone una regola guidata dalla ragion pratica per scegliere il bene veramente autentico. Cfr. M. RaonHEIMER, La Prospettiva, 54. Mi sembra che con questa naturale e precisazione la proposta di chiarificazione tra felicità perfetta ed imperfetta, fine sovrannaturale mantenga intatta la sua validità. 8! M, RHONHEIMER, La Prospettiva, 54 (nota 43): EN I, 7 1089a.

Slo:

che il piacere non è 8 Come corollario alla seconda affermazione, Rhonheimer ricorda Ciò a cui GoRIaO mai isolato, ma sempre il piacere che viene prodotto da un'esperienza. — e perciò dona è un bene pratico, un'attività. L'attività soddisfa il nostro aspirare — volere

DO

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

La domanda che guida queste riflessioni riguarda l’attività migliore per l’uomo. La scoperta di una duplice via alla felicità avviene attraverso la chiave antropologica: la vita secondo ragione.** Infatti la razionalità è la caratteristica fondante il soggetto umano. Ne derivano allora due conseguenze già segnalate: — per prima, l’attività principale della ragione sarà la contemplazione, la theoria;

— per seconda, la vita buona seguendo le virtù morali. Inoltre, ed è la tematica del corollario sul piacere, il virtuoso nell’attività

migliore — secondo ragione — proverà la gioia della vita. Queste due realtà sono però, in Aristotele, difficile la prima, precaria la

seconda. Resta, nonostante queste difficoltà, valida la sua teoria; occorre valorizzare la parte più nobile del soggetto umano: l’intelletto — o ragione — che apre al bene, alla verità, al divino, all’assoluto.

1.3.2. Tommaso e la duplice felicità

Rhonheimer analizza la proposta di Tommaso sulla duplice felicità. Tommaso tratta la questione della beatitudine descrivendola come “metafisica dell’agire”. Essa porta ad un'integrazione completa della dottrina aristotelica dirigendola in chiave teologica. Il punto cruciale è il poter raggiungere “la beatitudine perfetta”: il massimo poter essere dell’uomo. Il possesso, la ricchezza, l’onore, la reputazione, non possono essere questo punto massimo. La constatazione che questi non possano essere fini ultimi avviene attra-

verso una discriminazione che nasce dal discorso morale: questi caratteri sono piacere. Allora essere felici non sarà voler provare piacere e poi cercare le esperienze che lo procurano, che è in fondo il principio dell’utilitarismo. Ma il contrario: cercare esperienze che siano buone. Nel testo viene riportata la sostanza dello stesso esempio della macchina delle esperienze piacevoli di Nockzic, in questo caso con l'esempio della musica di Mozart. Cfr. IBIDEM. 34 Ivi, 57. Esiste un’attività a cui è possibile aspirare in sé e che dona felicità? Sarà quella che sarà massimamente ragionevole. Aristotele ha un'etica fortemente impostata sul piacere, ma non il piacere fine a se stesso, ma legato all’attività che lo procura. La perfezione del piacere segue alla perfezione dell’attività che lo procura. ® Essa, secondo il teologo svizzero, propone un lungo ragionamento sulla “visione beatifica” ed a che cosa corrisponda l’appagamento dell’aspirare dell’uomo, per dire poi che in realtà questa possibilità è limitata in questa vita e ci si deve concentrare sulla vita guidata dalla ragione, perché poi questa capacità viene gratuitamente donata da Dio stesso con la sua grazia rivelata. Ne seguo i passaggi principali.

338

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

presenti anche tra gli uomini cattivi.8° Inoltre dipendono da elementi esterni all'uomo. La “beatitudo” non può consistere nemmeno nei beni che riguardano il corpo — autoconservazione, salute — perché ordinati e relativi ai beni superiori

dell’anima.8” Riprendendo l’assunto che il piacere è conseguenza di un bene, conseguenza del possesso di quel bene, l’Aquinate mostra come neanche il piacere possa essere causa della beatitudo. Inoltre il piacere dei sensi è sempre un bene ° finito.8$ Egli giunge così a cenfrontarsi con il fatto che il bene che procura la beatitudo può essere un bene riferito all'anima. È necessaria però una distinzione. Se considerato come “finis cuius”, un bene per se stesso cioè un bene, un oggetto, attraverso cui viene appagato il nostro desiderare, allora non soddisfa pienamente questa caratteristica. L'appetito umano, la volontà, desidera

un bene che sia universale — come quello dell’intelletto è il vero — sotto tutti i possibili punti di vista e da infiniti punti di vista. In un certo modo un bene finito, anche se riferito all'anima, non appaga l’aspirare al bene. Ma se invece consideriamo un “finis quo”, un fine per qualcosa, un bene pratico, cioè da realizzare, allora dobbiamo dire che questo consiste in un bene dell’anima. Un bene che l’uomo raggiunge attraverso e nelle attività della sua anima.

Questa è la prima parte del ragionamento di Tommaso: la beatitudo si incontra nell’aspirare della prassi, un aspetto da realizzare come bene dell'anima, oppure detto altrimenti è la volontà razionale di bene sotto ogni punto di vista. Tommaso propone poi un secondo argomento di riflessione: obiettivo di questa seconda parte è dire che la contemplazione è il fine dell’uomo. La domanda di partenza è se esista un bene in sé, che stia di fronte all'uomo

e che possa donargli la beatitudo. Il ragionamento parte dalla costatazione che il bene umano è aspirazione al bene universale, niente può appagare la volontà se non un bene preso nella sua universalità, un bene che sia infinito. Dunque solo Dio può soddisfare 86 Ivi, 60, (nota 60): S Th I-II 2, 4.

ad esso, 87 Solo per chi è esso stesso bene sommo, che è già in se fine ultimo o che è giunto allora l’autoconservazione può essere “beatitudo”. aa. 4, 5, 6, 88 S Th I II 2 è la questione centrale per queste considerazioni. In particolare 79: .

x

.

»

209

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

questo criterio. Solo Dio può riempire la volontà di bene infinita presente nell’uomo.8° Questa risposta è legata all’“essenza della intellettualità” umana. L'intelletto è capace di cogliere tutta la realtà e di aprirsi all’infinito, pur nella finitudine di non poter comprendere tutto contemporaneamente.?® Il desiderio umano può soddisfarsi solo raggiungendo l’infinito. Il nodo centrale dell’argomentazione è quello che a partire da una volontà infinita di bene occorre partecipare ad un bene che sia buono in modo infinito. In questa visione di Tommaso Dio non è presente in quanto creatore o come “essere sommo”, che si identifica con il bene massimamente voluto, ma in quanto bene inesauribile. Finora Rhonheimer, attraverso Tommaso, ha risposto a quale bene può soddisfare l’aspirare del soggetto. Un terzo passaggio affronta la domanda in cosa consista questa “soddisfazione”?! Quale sarà allora il rapporto possibile tra la beatitudine che appartiene al desiderare del soggetto, dunque finita, ed il bene infinito? La

beatitudine essendo legata al soggetto, anche se la sua causa fosse increata, è qualcosa di creato, presente nell’uomo.

Questa beatitudine è un “finis quo”; essa consiste in un “fare”: sarà un dinamismo, un'operazione? Raggiungere la beatitudine è per il soggetto un compimento. In particolare esso sarà immanente, cioè non sarà solo la forma più alta del poter fare qualcosa — produrre — ma la forma più alta della prassi come processo del condurre la propria vita che trasforma il soggetto stesso. Scartando l’attività dei sensi, giungiamo a dire che questa attività sarà un

fare dell’intelletto. La volontà si realizza quando si troverà di fronte, meglio quando possiede,

il bene che desidera: volere, e poi gioire, è sempre volere qualcosa, gioire di qualcosa. La presenza del voluto fa sì che il volere si acquieti. Questo possesso può solo essere un atto dell’intelletto: contemplazione della verità.?? Siamo giunti dunque alla prospettiva aristotelica. L'intelletto ha la capacità di contemplare il bene infinito. L'atto dell’intelletto contemplativo giunge alla beatitudine: quell’atto in cui trova la sua perfezione.” St

111258:

°° M. RHONHEIMER, La Prospettiva, 62. L'apertura dell’uomo è questa tendenza all’infinito, che non può essere riempita se non di fronte all’infinito, in fondo in accordo con il pensiero di Agostino. 2 IsipEM, (nota 67): S Th II, 3. Questa “quaestio” è al centro della sintesi riportata.

26h L113,2: % M. RHONHEIMER, La Prospettiva, 77 (nota 77): S Th I-II, 3,5. 2 La questione centrale per queste tematiche è S Th I II 3. In particolare gli articoli 5,6,8.

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

In sintesi se si congiunge l’atto conoscitivo dell'intelletto ed il bene massimo — Dio — che è oggetto dello stesso, la conclusione è che nella visione dell'essenza di Dio consiste il fine ultimo dell’uomo come il suo massimo poter essere ed operare. Siamo giunti alla visione beatifica, che rende beati in maniera perfetta. Visione di Dio vuole dire prendere su di sé ogni perfezione, ogni verità ed ogni bellezza. Conoscere Dio è qualcosa di superiore al dire il “che cosa” sia questo conoscere. Rhonheimer riepiloga queste pagine affermando che l’uomo in base alla sua natura è capace di contemplare Dio. Questo vuol dire che la natura dell’intelletto umano è “capax Dei”: capace attraverso l’intelletto di cogliere Dio attraverso la conoscenza.” L'uomo, come uomo, riesce a cogliere l’essenza di Dio. Questa è una “capacità” della sua natura, desiderio di infinito: l’anima del soggetto può cogliere intellettualmente l’essenza di Dio. Tuttavia se questa capacità appartiene alle forze naturali del soggetto essa è solo una “potenza oboedentialis”: una facoltà che in potenza permette al soggetto di poter venire innalzato al livello di Dio. In seguito egli necessita della grazia di Dio stesso. Questi si unisce, con la sua grazia, all’intelletto che eleva.” Essere innalzati per grazia presuppone la natura e la perfeziona. La natura umana viene condotta al suo massimo poter essere ma rimane sul versante

dell'umano. Perciò la beatitudine perfetta non può essere un bene raggiungibile senza che Dio intervenga con la sua grazia per renderla tale. Si giunge alla costatazione che l’uomo è per natura disposto ad una felicità che non è in grado di raggiungere con le sole sue forze.?® A questa considerazione è necessaria quella complementare della teologia. La riflessione della teologia aggiunge, attraverso la rivelazione, che la “beatitudo” è perfettamente raggiungibile con la grazia in un orizzonte che comporta anche la fede e la speranza. La rivelazione ci dice che la beatitudo è una meta raggiungibile grazie al comunicarsi di Dio.

9% M. RHONHEIMER, Za Prospettiva, 65 (nota 83): S Th I-II, 5,1. 9% IBrpEM, (nota 84): SCG III cap. 51. 9 M. RHONHEIMER, 66 (nota 86 ): S Th I, 12. In particolare gli articoli 4,11,12.

98 Questa è una constatazione a cui giunge il pensiero filosofico. 9 Dunque l’etica filosofica non può da sola dare la risposta globale alla verità sull'uomo. non è Essa è una teoria della prassi che offre un frammento di spiegazione: l’etica filosofica l’ultima parola sulla verità dell’uomo.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

1.3.3. La sintesi di Tommaso ed Aristotele: due gradi di felicità in questa vita Tommaso ricupera totalmente la prospettiva di Aristotele in merito alla

“duplex felicitas”.!° La felicità — beatitudo — si presenta in due modi: a) la beatitudo totale, contemplare Dio come massimo bene possibile, è condizione futura rispetto all’attuale condizione umana; b) la beatitudo parziale ha a sua volta una duplicità. Come prima caratteri

stica ritroviamo la contemplazione; essa però consiste anche nelle operazioni dell’intelletto pratico che regolano le azioni e le passioni umane e che individuano il bene che la volontà persegue." Ridette altrimenti le due distinzioni sono:

a) beatitudine perfetta: legata alla visione degli esseri beati riguardo l’essenza di Dio stesso; b) beatitudine imperfetta, cioè la beatitudine della vita terrena: — la contemplazione possibile nella condizione umana; — la vita pratica secondo ragione.'°°

Rhonheimer fa notare come per Tommaso descrivere una beatitudine imperfetta non sia una contraddizione perché la dimensione terrena è arric-

chita dalla speranza di quella sovratemporale. Infatti la beatitudine imperfetta, se lasciata a se stessa, è molto parziale perché dipende dai tanti fattori

esogeni che possono limitare questa possibilità. Invece assume una valenza più forte nello sguardo a quella perfetta.!9

Cis

iL.

10! M, RHONHEIMER, La Prospettiva, 67 (nota 91): letterale di S Th I-II 3, 5.

102 Cfr. Ivi, 46-47. Esercitando una prassi si perseguono dei fini che possiamo chiamare fini pratici e beni pratici. Questo fare trasforma il soggetto agente. L'autore che seguo nota che questa prospettiva della prassi è anche sempre la prospettiva della morale, perché è realizzazione di ciò che possiamo essere, realizzazione del proprio essere umano. L’agire bene fa dell'agente un uomo buono. L'agire e la prassi infatti significano sempre diventare qualcuno: la prospettiva della prassi è sempre quella inerente alla realizzazione del bene nel soggetto agente. Si tratta di quella che i greci chiamavano la vita buona: essa non è una vita di soddisfazioni e neanche una condizione della società, ma quel modo di condurre la propria vita da parte dei soggetti agenti, attraverso cui questi sono veramente buoni, perfino se

debbono rimetterci la vita. Quando un qualcosa è buono in questo senso non ha bisogno di giustificare se stesso dal punto di vista dell’utile, conveniente per qualcosa di altro: Platone lo descrive come “bene dell'anima”. Etica diventa allora dottrina della “buona vita”. Quest'ultima diventa il termine di confronto ideale con l’agire di ciascuno: se un soggetto è a-sociale,

violento, o ingiusto lo si biasima perché non è un uomo buono e non persegue la vita buona. 103 Si tratta di un complemento alla concezione della vita buona che senza il discorso teologale rimane limitata. Cfr. infra cap. 4, b) 1.3.7; 1.4.

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

Rimane, nella beatitudine imperfetta, l’aspirare ragionevolmente ad un fine come precisa Rhonheimer: «E ragionevole limitarsi ad un ethos della conditio humana come risposta al desiderio umano di beatitudine».!°

Per Tommaso questo non è un problema perché egli vede la beatitudine imperfetta come uno stadio per raggiungere la beatitudine perfetta: la sua è una visione d’insieme teologica. Si può affermare che la beatitudine perfetta si presenta in una forma parziale nell'esistenza terrena e sempre attraverso l’apporto della grazia: il massimo desiderabile uman$ non è raggiungibile con soli mezzi umani. Tuttavia questa non è una possibilità teorica ma reale grazie all’apporto teologale. Allo stesso tempo è ragionevole affermare nella condizione terrena una beatitudo imperfetta: la condotta che giunge alla vita buona.!®

1.3.4. Oggetto dell'etica filosofica L'analisi teologica comprende ogni realtà — il tutto — ma dal punto di vista della rivelazione: ha come prospettiva la vita dell’uomo chiamato alla grazia.'°° L'oggetto della teologia è dunque anche la vita terrena illuminata da quello che possiamo sperare, ovvero la beatitudine perfetta, ma sempre in relazione con quello che questa illuminazione può donarci. Invece l’etica filosofica è un'etica che non parte dalla rivelazione, potrebbe infatti avere come oggetto lo stesso oggetto di ricerca di un'etica del non credente, tuttavia è consapevole che il suo discorso è frammento; non il tutto ma una sezione del tutto. In caso contrario, se non si accetta questa parzialità,

l’etica filosofica considera un frammento il tutto. Questa assunzione porta

come risultato il ridurre l’uomo a solo protagonista del cosmo oppure il ricorrere alle ideologie intramondane di salvezza.!” L'etica filosofica, che si consi-

!04 Ivi, 68. A mio parere questo “ragionevole” va interpretato nel senso che risponde ragionevolmente ad un indirizzo al bene, ma imperfetto perché nel limite delle possibilità

umane. 105 Prendo il termine “vita buona” nel senso inteso da Abbà. Rhonheimer sottolinea, secondo la sua impostazione che mette al centro la capacità di indirizzo della ragione pratica, che l’orientamento della vita del soggetto, il fine parziale da raggiungere, è la vita secondo

ciò che è migliore in noi: una vita ragionevole, la vita secondo ragione. 106 Non è corretto un modello per cui la teologia morale dovrebbe occuparsi della contemplazione di Dio ultraterrena, mentre l’etica filosofica occuparsi della “duplex felicitas 1 107 Ivi, 69 (nota 92). Oppure conduce ad uno scetticismo radicale: ne è esempio, come

afferma l’autore che seguo, la teoria freudiana che constata la felicità come un qualcosa di imprevisto nella natura dell’uomo.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

dera una parte della verità, sarà sempre critica verso quelle verità che pretendono di spiegare da sole il tutto. 1.3.5. Questione del fine naturale e sovrannaturale Quest'ultima parte, il discorso del fine naturale o fine sovrannaturale, è fon-

damentale per il discorso etico elaborato in questo capitolo perché riguarda la questione delle virtù infuse che avranno come distinzione proprio l’indirizzo ai fini diversi ricordati. L'etica filosofica non si occupa del fine naturale, lasciando quello sovrannaturale alla teologia, in una sorta di divisione dei compiti tra discipline, come ha dimostrato la dissertazione sulla visione beatifica vista sopra. Infatti la distinzione tra fine naturale e sovrannaturale, se interpretata come opposizione o autonomia di due fini è senza senso. Per spiegare questa distinzione Rhonheimer affronta brevemente il discorso

sulla natura pura: ordine della natura e ordine della grazia.!°* La coesistenza di un fine naturale ed uno sovrannaturale, che sarebbero opposti o autonomi, potrebbe significare, se travisata, la presenza di due nature nell’uomo. Natu-

ralmente, poiché è impossibile affermare due nature, allora non ci sono nemmeno due fini, perché una natura implica sempre un solo “telos”. Un altro aspetto di queste considerazioni è che se l’“elevazione per grazia” significasse che la natura dell’uomo ne diventa un’altra, non sarebbe più possibile proporre un'idea di natura umana: tutto diverrebbe “soprannaturale”, anche la natura. Qui Rhonheimer tocca un punto discusso: infatti alcuni teologi affermano che la natura diventa soprannaturale, non distinguendo più un ordine della natura da un ordine della grazia. In questo caso significherebbe che la natura “pura” — o semplicemente umana — sarebbe una costruzione dei filosofi. L'uomo non avrebbe una natura umana. Invece fine naturale e sovrannaturale sono in una profonda continuità. Rhonheimer infatti ricorda come Tommaso indichi la natura umana come già in potenza disposta per ricevere la grazia. La natura, che viene elevata per grazia, è quella natura che è da sempre e che in se stessa possiede l'apertura dell’intelletto alla contemplazione.! L'uomo rimane, anche con l’elevazione,

quell’uomo che è da sempre: egli però raggiunge il massimo del suo poter essere uomo.!!° IORFTWAAZ0] ‘°° Questa potenzialità è poi realizzata dal dono gratuito della grazia che viene elargito da Dio. Nel piano storico-salvifico questo dono è all’inizio della relazione tra Dio e l’uomo. "© Se però ci limitiamo alla sola considerazione filosofica, consideriamo comunque un

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

A questo darsi della natura umana risponde l’elevazione della grazia, che nel discorso filosofico non è oggetto di indagine. Attraverso di essa l’uomo può raggiungere realmente questo fine ultimo — sovrannaturale — in modo concreto, la realizzazione del potenziale massimo dell’umano. In sintesi il fine sovrannaturale è una condizione di apertura che appartiene alle caratteristi che naturali.!!! Non avremo dunque un'opposizione o autonomia di due fini, ma un poter coesistere di due prospettive che sono necessarie e complementari per dare ragione del soggetto umano.!!° Tuttavia occorre pregisare che esiste un’accezione in cui fine naturale e

sovrannaturale possono essere usati come distinti. Qui si può introdurre la distinzione fine naturale oppure sovrannaturale. Limitarsi al fine naturale significa guardare solo a quello che l’uomo può raggiungere con le sole forze della natura. Detto altrimenti la filosofia non rileva quello che si può raggiungere con l’aiuto della grazia. Si limita all'uomo riconoscibile dalla ragione. La teologia guarda invece, grazie alla rivelazione, alla

vita soprannaturale, esistenza nella grazia: è il fine che si raggiunge effettivamente con la grazia, che era già il fine, solo potenziale, della natura.!! La distinzione dei fini è teorica ed ha un senso nel dire che non esiste una “doppia natura”, ma nella distinzione tra ciò che si può raggiungere con le sole forze naturali e ciò che invece necessita della grazia: perché senza di essa non si può partecipare alla beatitudine della visione e neanche all’anticipo di que-

sta nella vita presente.!!4 uomo che rimane aperto al conseguire il fine ultimo beatificante. Questa acquisizione è una verità scoperta filosoficamente senza il discorso teologico. Potremmo dire che il desiderio di conoscere dell’intelletto non si ferma finché non arriva a quello che pienamente lo appaga: questo è proprio della natura umana. !!! Mj pare che allora dire che esista un unico ordine sovrannaturale, come affermano molti teologi, significhi allo stesso modo che la natura umana è aperta alla grazia che eleva. L'uomo raggiunge il massimo del suo poter essere umano nel fine sovrannaturale, ma questa apertura è naturale. Inoltre la grazia giunge a toccare sempre l’uomo nel piano salvifico di Dio. Un altro problema è individuare il come riesce a raggiungere ciascun uomo anche al di fuori della rivelazione. 2 Questa è la distinzione che compie anche la Porter dicendo che per Tommaso un unico fine è raggiunto in un duplice modo: possiamo parlare di fine naturale e sovranna-

turale. parziale, 3 Senza la grazia non si raggiunge il fine sovrannaturale nemmeno in senso indicare possibile è che stesso Dio cioè non si giunge a quella comunione più profonda con Ù nella vita presente attraverso la presenza delle virtù teologali. a e non più filoso114 Con questo concetto si entra in una dimensione totalmente teologic la teologia. riguarda che aspetto fica: l’uomo può raggiungere certe mete solo con la grazia,

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

1.3.6. Desiderio naturale di infinito

Constatata la presenza della beatitudine imperfetta occorre precisarne le caratteristiche.!! La risposta teologica è chiara perché fin dall’inizio della creazione Dio pensa all’uomo come innalzato al piano eterno, con la grazia, fin dalla creazione chiamato a poter contemplare Dio.!!° Il problema filosofico invece permane: l’uomo possiede una finalità interna che rimanda oltre ciò che è da lui raggiungibile. Aristotele ricorda che l’uomo deve riconoscere la sua finitudine accogliendo la possibilità di una felicità imperfetta e vivere razionalmente per raggiungere questa vita buona. Se l’uomo vuole raggiungere un infinito — senza naturalmente che gli sia donato, ma questo è il discorso teologico — allora si condanna alla infelicità. In Tommaso il desiderio naturale di infinito rivela, dimostra, qualcosa al di là di se stesso: sarebbe vano e futile se non esistesse elevazione.!!” Ma siccome esiste — come dettoci dalla rivelazione — allora proprio questo desiderio è l’argomento più forte per dimostrare la ragionevolezza della fede cristiana. Ma non è una necessità. È una possibilità. Esso avrebbe dunque la funzione di mantenere l’uomo nella sua condizione di essere finito. Nell’intelletto dell’uomo vi è questo anelito di infinito, desiderio naturale di vedere Dio. Senza di esso non sarebbe affatto uomo. L'uomo, senza essere inserito nel progetto elevante di Dio, senza la risposta a questo suo desiderio naturale, rimane come un cercatore di quella felicità che gli può spettare in quanto essere finito: in quanto uomo “umile” perché conscio del limite del finito. Questa è l’umiltà aristotelica, ragione accessibile anche al non credente.!!8 Il discorso sul fine sovrannaturale non priva di significato l’agire, ma lo

La filosofia invece rimarrà sul piano di quello che è conoscibile dalla ragione. Ricordo che la filosofia propone un'etica della beatitudine imperfetta, l’uomo non può raggiungere il massimo che è disposto in lui. Inoltre Rhonheimer fa notare che solo nella risposta della fede si giustifica questa antropologia che appartiene ad una realtà allargata al trascendente che non si raggiunge da se stessi. La ragione di fronte a questa impossibilità si rifugia spesso nelle ideologie che assolutizzano l’umano. '° Non affronto in queste considerazioni la questione della “natura pura”: cosa significhi pensare teoreticamente un uomo non elevato per grazia. !!° Una natura che è aperta — una “potentia oboedentialis” — all’azione della grazia. Cfr. Ivi, 72 (nota 93).

7 Ivi, 4: ibefeloipslo le

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

caratterizza perché valorizza le azioni e i beni umani senza lasciarli finire in

un'insignificanza: nello sguardo ai singoli beni umani c'è sempre in gioco il tutto. A questo proposito è utile la distinzione tra fine inclusivo e fine domi-

nante.!! Il primo consiste in una molteplicità di beni, la cui unità si fonda sul principio ordinatore comune. Dominante è invece il fine ultimo che ci spiega

in che cosa può consistere il principio ordinatore della stessa prassi: questo fine dominante è la contemplazione della verità.!?0

Questa distinzione permette il coesistere di fine naturale e sovrannaturale. La “felicità” dunque ha un significato, in senso pratico, molteplice, ma

trova unità grazie all’azione della razionalità che costituisce l’uomo in quanto uomo.

In sintesi il fine naturale è la felicità poiché «ogni forma di felicità è sempre solo quello che può rendere ragionevole la vita, degna di essere amata per se stessa».!?! La contemplazione invece, in senso cristiano, è realizzazione dell’impossi-

bilità naturale e si fonda sulla amicizia tra l’uomo e Dio: la vita contemplativa è sempre imperfetta in questa vita cioè prima di giungere all’incontro beati-

fico finale con Dio. Tuttavia Tommaso mostra che la “beatitudo” è presente sempre come “telos”, il massimo poter essere dell’uomo e che c'è una sorta di anticipo della stessa per l’oggi del soggetto." 1.3.7. Fine ultimo teologale

Nelle considerazioni viste in precedenza ho osservato che il fine naturale è incompleto. Aristotele ricorda come una felicità naturale possa essere legata solo all’azione della fortuna, perché in particolare occorre appartenere al ristretto numero di quelli che possono dedicarsi alla contemplazione.” assoluto e la 119 Qui viene usata in maniera diversa dal distinguere un bene che diventa

molteplicità dei beni.-Piuttosto riguarda il principio ordinatore della prassi. 120 Cioè di Dio stesso nella visione beatifica. umana riesce a 121 Jv1, 78. Ragionevole è la chiave in Rhonheimer nel senso che la ratio lo specifico scopre che ratio la ricercare il bene proprio. Deve essere inteso in senso ampio umano e lo traduce in prassi buona. come un bene pratico. 122 Anche se nella dimensione filosofica non può presentarsi ro, // fine, in Ip., La Moncit Ricordo che profonde riflessioni su questo tema sono in D. per il fine ultimo è volersi che dimensione etico-teologica, 119-120. Quest'’autore ribadisce o e del discerprossim il per volersi in comunione con Dio, è riconoscersi capaci dell'amore r la vita del soggetto. pe i effimer nere i beni autentici sopra quelli maggiormente apparenti ed

123 M. RHONHEIMER, La Prospettiva, 351.

347

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

La felicità è nelle realizzazioni che comportano la vita buona, ma è anche

legata ad una serie di aspetti esterni che rendono parziale la libertà di dirigersi al bene. L’agire moralmente quale elemento per raggiungere la beatitudine imperfetta, fine naturale, diventa fortemente condizionato da elementi esterni ed aleatori.!?‘

La prospettiva della dimensione teologica è un opporsi a questa aleatorietà. Mi sembra che l’interpretazione di Rhonheimer possa ben essere adattata all’idea di fine sovrannaturale. Infatti nella prospettiva cristiana la pro-

spettiva della felicità è ora garantita dall’esterno come nella prospettiva aristotelica era messa in discussione dall'esterno. E nella prospettiva credente

dall’esterno significa garantita da Dio stesso. La felicità umana viene garantita da Dio stesso. Rhonheimer ricorda che «la fortuna che Dio ci ama, ce l’abbiamo tutti. Non dipende dalla tyche, ma

dalla provvidentia divina che — senza condizioni e come regalo — è amore per tutti e attraverso la Grazia [...] L'aspettativa cristiana della felicità si basa sull’iniziativa della misericordia divina».!?

La grazia caratterizza la realtà della Geatitudo non solo nella prospettiva

della beatitudo perfecta, che significa la comunione con Dio oltre la vita terrena, ma anche del trasporsi di questa beatitudo in forme imperfette che godono però di aspetti di anticipo della contemplazione di Dio e che raggiungeranno solo in seguito una pienezza della vita eterna. Dal punto di vista teologale siamo di fronte a un raggiungimento attraverso le virtù teologali della dimensione dell’inizio della beatitudine. La teoria della

felicità imperfetta che vede una “duplex felicitas” in Aristotele viene modificata dall’apporto di Tommaso. Nella vita cristiana è possibile un accesso alla dimensione sovrannaturale: il fine sovrannaturale è anticipo della partecipa-

zione alla beatitudine perfetta. Questa partecipazione alla vita divina non è una possibilità umana, ma frutto dell’azione della grazia. In particolare sarà la caratterizzazione delle virtù teologali. La fede che conosce la rivelazione e diventa arricchimento della sola ragione. La speranza

che anticipa la presenza di Dio che rende felici. La carità che salda il legame tra il soggetto umano e quello divino.

124 In realtà questi ostacoli non mettono in discussione il bene da farsi che rimane intimamente legato ad una prospettiva del senso dell’umano, che dà senso all’umano. Senza una risposta affermativa, assunta a priori, sulla domanda del perché fare il bene ogni discorso morale perde di significato. 125 TvI, 354.

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

1.4. La prospettiva sovrannaturale come orientamento ai fini

L'analisi del tema dei fini, attraverso le considerazioni di Rhonheimer nel paragrafo precedente, ha permesso di approfondire il tema delle capacità umane per compiere il bene ed ha rilevato che solo parzialmente il soggetto umano riesce ad indirizzarsi al bene. Per raggiungere la pienezza della beatitudine,

che corrisponde al bene più grande, è necessario l'indirizzo a Dio che è componente nello strutturarsi del movente ad agire. L'intenzione dell’azione di bene si arricchisce del fine ultimo: la comunione con Dio che viene assicurata dalla grazia. Allo stesso tempo il soggetto è attratto, vuole raggiungere, quello che comprende come il spo fine beatificante: Dio stesso. Il dono di Dio, la grazia, rende il soggetto umano più saldo nel cammino delle virtù.!?9 Mi pare che in questo senso sia illuminante quello che afferma Tommaso ih:S81h],11:109,8: «Il fine deve regolare tutti gli atti umani; come il giudizio della ragione deve regolare i moti dell’appetito inferiore. Ora, come quando l’appetito interiore non è pienamente sottoposto alla ragione, certi moti disordinati nell’appetito sensitivo sono inevitabili; così, quando la ragione umana non è del tutto sottoposta a Dio, sono inevitabili molteplici disordini negli atti della ragione. Infatti, se l’uomo non ha il cuore ben fisso in Dio, così da non volersi da lui separare, né per conquistare un qualsiasi bene, né per evitare qualsiasi male;

capiteranno troppe cose, per raggiungere e per evitare le quali, egli si allontanerà da Dio trasgredendone i precetti, peccando così mortalmente. E questo specialmente perché nei casi improvvisi l’uomo agisce secondo il fine prestabilito, e secondo l’abito preesistente, come dice il Filosofo; sebbene possa agire scostandosi da quel fine, e dalle inclinazioni abituali, con la riflessione della ragione. Ma poiché l’uomo non sempre può riflettere in tal modo, non può trattenersi a lungo dall’agire secondo la spinta della sua volontà non orientata verso Dio, a meno che dalla grazia non venga presto ristabilito nel debito ordine».

la Le virtù, la giustizia in particolare ed i principi razionali che regolano astessa, assumono una stabilità maggiore proprio in ragione del fine sovrann

turale. La ragione di questa stabilità è il fatto che Dio stesso dona la sua grazia che rende più salde le virtù. prima con lo stuQuesta spiegazione sintetica necessita di essere esplicitata

appartenente dio delle virtù infuse in generale e poi della giustizia in quanto alle stesse.

che tocca le virtù acquisite. 126 In questo caso si tratta del cambiamento del fine

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

1.5. Virtù infuse 1.5.1 Le virtù infuse nella Summa Theologiae La distinzione tra natura e grazia, fine parziale e fine pieno, apporta una distinzione nella comprensione delle virtù. Le virtù acquisite permettono di giungere a una forma di beatitudine parziale.” Infatti le virtù acquisite, come visto, muovono il soggetto nel suo indirizzarsi alla beatitudo imperfetta. Invece le virtù teologali — fede, speranza e carità — sono principi operativi

che derivano dalla grazia e che si inseriscono nel processo intenzioni, scelte ed azioni del soggetto indirizzandolo direttamente all’unione con Dio stesso. Allo stesso tempo si rileva la presenza delle virtù morali infuse che trasfor-

mano il soggetto, come quelle acquisite, nel senso del potenziamento delle facoltà del medesimo. L’attenzione si concentra sulle virtù infuse cercando di

spiegarne la funzione in un'etica del soggetto che si indirizza al fine ultimo. Ricordo che la grazia è la sorgente delle virtù infuse per Tommaso. La grazia assume la qualità di una “quasi natura”, cioè attraverso l’apporto delle virtù cardinali e delle infuse è una dimensione che appartiene al soggetto.

128

L'ap-

porto della grazia non viene ad elidere il soggetto umano: legarla alle virtù significa ricordare che l’importanza del soggetto permane comunque perché le virtù, anche infuse, sono sempre disposizioni delle facoltà operative del soggetto. Inoltre mi sembra importante sottolineare che in generale proporre l’esistenza di virtù infuse significhi dire che la fede e la grazia trasformano le virtù, nel senso di uno specifico della morale cristiana. Le differenze che intercorrono tra virtù infuse ed acquisite, ad esempio riguardo la giustizia,

comportano un nuovo modo di agire in modo giusto. Si tratta di una modalità in parte diversa di realizzare la giustizia: la grazia possiede capacità trasformante.'?? Questa influenza della fede sull’agire e le conseguenze antropologiche che seguono vanno ripensate ulteriormente.'° Tentativo che questo 127 Questa è la tesi classica del fine ultimo.

18 T. O'MEARA, Virtutes in the theology of Thomas Aquinas, «Theological Studies» 58 (1997), 258. ° 1° Siamo di fronte anche a quell’ethos cristiano delle prime comunità che ha fortemente favorito l’adesione al cristianesimo. 15° O. E. PescH, Liberi per grazia, 444. La tradizione che nasce da Agostino, e che in

parte confluisce in Tommaso, non pone l’accento sul nuovo modo di agire in forza della fede perché appare ovvio che la vita cristiana implichi nuove modalità dell’agire. Piuttosto Agostino si pone la questione di comprendere più a fondo da dove venga questo nuovo modo di agire: dalle possibilità dell’uomo stesso o dalla forza trasformante di Dio. La risposta della

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

studio proporrà soprattutto attraverso le sezioni dedicate alla giustizia come virtù infusa.!5! Qui per analizzare le caratteristiche delle virtù infuse seguo come schema direttamente le questioni della Summa Theologiae che Tommaso impiega per descriverle.!?

Un primo articolo, che riguarda le virtù infuse, contiene una definizione generale di virtù: si tratta di S Th III 55,4: «Sembra che non sia buona la definizione che si è soliti dare della virtù, e cioè: “La virtù è una qualità buona della mente umana, con la quale rettamente si

vive, e di cui nessuno malamente usa, e che Dio produce in noi senza di noi”».

Tommaso invece accetta pienamente questa definizione per tutte le virtù perché qualità e bontà sono gli elementi che nel quadro ontologico dicono il genere e la differenza specifica. Per cui le virtù in senso generale sono una “qualitas” che è specificata dalla bontà. Inoltre hanno come fine l’operazione, cioè semplificando l’agire, buona. Questa definizione generale contiene un'ultima espressione del testo dell’articolo che vede l’azione di Dio quale causa della virtù, un’azione della sua grazia, anche se qui non citata in modo esplicito, e dunque individua le virtù infuse. Esse hanno una causa che si ricollega direttamente a Dio.!5 Inoltre in S Th III 55, 4 ad 6 viene precisato che le virtù infuse sono causate da Dio senza la nostra opera, ma non senza il nostro consenso. La seconda riflessione sulle virtù infuse viene dal discorso sulle virtù teologali. 134 tradizione agostiniana è che la grazia è “efficace”, una grazia che sola rende possibile l’agire dell’uomo. 131 Cfr. infra cap. 4, d). 13° Eventuali osservazioni mie o di alcuni autori che si sono occupati di questo tema verranno puntualmente segnalate nel testo. 133 A prescindere da questa parte finale la definizione di virtù di S'ThIII 55, 4 possiede una sua validità anche per le altre virtù: esse sono disposizioni necessarie per l’indirizzo morale. In realtà questa è la classica definizione di virtù che Tommaso deriva dalle Sentenze di Pietro Lombardo, come indicato nel testo della quaestio, è che ha una radice in Agostino. Per Tommaso questa definizione nella sua interezza è valida solo per le virtù infuse. “se le nostre virtù 134 Questo tema viene introdotto da S Th I Il 63,1 che ha come titolo né che provengano siano innate”. Tommaso non ritiene che le virtù siano interne al soggetto

sostiene la positotalmente dall’esterno da una dimensione altra, divina ad esempio. Egli alla natura, ma non zione di Aristotele che vede le virtù come attitudini che appartengono parzialmente, in potenza sono allo stato di perfezione. Un accenno di virtù è già posseduto

SS

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Le virtù infuse per eccellenza sono quelle teologali che non possono formarsi senza l’intervento divino. Esse permettono al soggetto umano di raggiungere la pienezza della beatitudine che sorpassa le capacità naturali e orientano lo stesso direttamente nel rapporto con Dio. Ma questo rapporto con Dio è un rapporto che necessita di essere generato e sostenuto da Lui stesso. Mentre la natura ha in sé le capacità per raggiungere il bene proprio, man-

cano quelle per raggiungere il bene sovrannaturale, come indicato in S Th I IG2d«Perciò è necessario che da parte di Dio all’uomo vengano elargiti altri principi, che lo indirizzino alla beatitudine soprannaturale, come dai principi naturali viene indirizzato, sia pure con l’aiuto di Dio, al fine connaturale.»

Indicare le virtù teologali come indirizzo alla beatitudine perfetta significa che esse hanno Dio per oggetto e conducono il soggetto alla relazione permanente e vitale con Lui. Sono conosciute attraverso la rivela-

zione divina. Le virtù teologali appartengono dunque all’insieme delle virtù infuse anche se accanto ad esse si trova un’altra tipologia delle stesse: le virtù morali infuse. Il tema dell’ordine sovrannaturale viene ripreso in $ Th I II 62,3. Questo articolo ricorda l’esistenza di principi primi universali che sono conosciuti dall’intelletto e che indirizzano la ragione in campo sia speculativo sia pratico. Anche la volontà ha un indirizzo al bene che è generale, guidata

da primi principi: si afferma la rettitudine della volontà che per natura tende verso il bene di ordine razionale. L'azione di queste due facoltà non riesce però a raggiungere l’ordine sovrannaturale, quindi: «Era necessario che rispettivamente all’una e all’altra facoltà l’uomo ricevesse soprannaturalmente qualche cosa che lo indirizzasse al fine soprannaturale. Primo, rispetto all’intelligenza l’uomo riceve alcuni principi soprannaturali,

conosciuti mediante la luce di Dio: sono questi i dogmi, oggetto della fede. — Secondo, la volontà viene ordinata al fine suddetto, sia per il moto dell’intenzione, che forma l’oggetto della speranza; sia per una certa unione spirituale,

mediante la quale uno viene trasformato in qualche maniera rispetto a codesto fine, il che avviene in forza della carità. Infatti l’appetito di qualsiasi essere

o come uno stadio germinale, dai soggetti sia in quanto appartenenti alla natura specifica che individuale. n Re . ® Questa distinzione tra ordine naturale e sovrannaturale è3 proposta in numerose

quaestiones. Va compresa non come separazione totale ma come complementare.

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA si muove e tende naturalmente verso il fine che gli è connaturale: e codesto moto dipende da una certa conformità di ogni essere col proprio fine».!°

Voglio rilevare il ragionamento parallelo che riguarda intelletto e volontà. I primi principi stanno all’intelletto per il fine naturale come le verità rivelate (“credibilia”) stanno all’intelletto stesso per il fine soprannaturale. Queste verità rivelate sono il contenuto della fede. Lo stesso accade per la volontà. Essa normalmente viene diretta verso il bene razionale ma diventa una volontà che è indirizzata al bene sovrannaturale dalla speranza e dalla carità. Soprattutto quest'ultima conduce il soggetto

ad un'unione più profonda con il bene trascendente; principio che guida al bene sovrannaturale. Questo bene, o fine, sovrannaturale non è altro che Dio stesso. Le possibilità di una comunione con Lui, in quanto fine, possono solo essere, come visto, un dono generato dall’azione della grazia.!97 Una terza quaestio che prendo in esame è la 63 che riguarda, in generale, le

cause delle virtù. Nell’articolo due — S Th I II 63,2 — si ribadisce che certi atti

umani sono ordinati al bene dalla legge divina e devono essere causati direttamente da Dio. Il riferimento alla legge divina in questo caso significa l'ordine sovrannaturale. Tutto ciò che si riferisce ad un bene ultimo è legato all’azione

di Dio, al bene che la legge divina esprime.! L’articolo 3 — S Th I II 63,3 — vuole rispondere alla domanda se alcune virtù sono presenti nei soggetti per infusione.

Questo articolo è forse quello che più chiaramente indica che le virtù infuse non sono solo quelle teologali. Utilizzo uno schema sintetico che mostra l’articolazione tra la grazia e le virtù infuse e che vuole mostrarne la relazione reciproca:

LIESETASE 1196255: 137 Ancora sui principi guida delle virtù infuse e acquisite è rilevante S Th I Il 110,3. Essa afferma: «Perciò, come la luce naturale della ragione è distinta dalle virtù acquisite, che si ricollegano a codesta luce; così la luce della grazia, che è una partecipazione della natura divina, è distinta dalle virtù infuse, che da essa derivano e che ad essa sono ordinate. Infatti l’Apostolo così si esprime: “Una volta eravate tenebre, ma ora siete luce nel Signare camminate come figli della luce”. Poiché, come le virtù acquisite predispongono l’uomo a cammio nare in conformità con la luce naturale della ragione; così le virtù infuse lo predispongon a camminare conforme alla luce della grazia». 138 Qui il significato di legge divina va inteso in una accezione generale.

353

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Grazia

Vv Virtù teologali infuse Virtù morali infuse

Le considerazioni sulle virtù infuse non hanno un significato se non sono inserite in una teoria della duplicità dei fini: naturale e sovrannaturale, che non sono altro che il fine perfetto ed imperfetto. È possibile individuare una sorta di anticipo del fine perfetto, della bea-

titudine perfetta. Si tratta dell’agire del soggetto che persegue direttamente il legame con il fine perfetto, possiamo individuare in questa anticipazione l’azione generale delle virtù infuse teologali. Esse sono la vita di fede, speranza e carità che indirizzano a Dio in questa dimensione terrena. La loro azione riguarderà anche un cambiamento nelle virtù che normalmente sono acquisite: le virtù infuse si collocano sul confine naturale e sovrannaturale. Avranno degli aspetti che appartengono alle caratteristiche delle virtù acquisite, ma comporteranno un anticipare parzialmente la dimensione della beatitudine piena.!? Un'indicazione ulteriore di questo tema viene offerta dalla risposta alla seconda obiezione di questa quaestio — S Th I II 63,3 ad 2 — la quale ribadisce che le virtù teologali indirizzano al fine sovrannaturale, cioè in riferimento a Dio in se stesso, ma l’anima ha bisogno di essere dotata di altre virtù infuse,

in riferimento ad altre “cose”, come definite nel testo, sempre in ordine a Dio. Queste “cose” citate sono le attività intra-mondane, l’agire che viene realizzato dal soggetto nella sua condotta vitale. Significa che la necessità delle caratteristiche delle virtù acquisite deve rimanere anche nelle virtù infuse per poter svolgere una funzione di indirizzo al bene.!90 1.5.2. Argomenti ontologici sulle virtù infuse

Molti dei ragionamenti di Tommaso sulle virtù infuse sono originati da degli argomenti ontologici che esprimono un approfondimento delle stesse. Mi Ù)

1° Occorrerà comprendere nel seguito di questo lavoro che cosa significhi il fatto che le virtù infuse hanno come principi le virtù teologali. Una delle questioni riguarda la possibilità di esprimere con delle massime le virtù teologali, in particolare la funzione della carità rispetto alla giustizia. 4° Oppure significa che virtù acquisite e infuse sono presenti allo stesso tempo nel soggetto. Anche questo argomento viene discusso nel dettaglio per la relazione tra la carità e la

giustizia.

354

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

sembra utile seguendo un lavoro classico sulle virtù infuse, quello di Gabriel Bullet, darne brevemente conto.!!

Il primo argomento ontologico che Tommaso sostiene per le virtù infuse è la proporzione che deve esistere tra un effetto ei suoi principi, tra ciò che è e quello che lo origina. Se il soggetto è chiamato a raggiungere un fine sovrannaturale, nella sfera

di Dio, allora è necessario che sia per lui possibile, che abbia le capacità per raggiungere quel fine. L'argomento di tipo metafisico è la stretta corrispondenza, la proporzione, tra natura e fine. Le virtù naturali permettono di raggiungere il bene nelle dimensioni natutali. Nell’ordine naturale è la grazia che orienta al fine sovrannaturale come viene ribadito in S Th III 63,3:

«È necessario che effetti proporzionati corrispondano alle loro cause e ai loro principi».

La visione classica vede i principi che guidano le virtù stesse come “semina virtutum”: sono le inclinazioni ed i principi primi della ragion pratica che sono presenti nella dimensione razionale e appetitiva e che devono però prendere forma razionale nel soggetto dando vita alle virtù che competono loro. Esse sono capacità naturali, che contraddistinguono la dimensione naturale del soggetto.!** A queste capacità naturali devono corrispondere delle capacità sovrannaturali che svolgano la stessa funzione. Bullet sottolinea che come le virtù acquisite vengano causate dalla mozione della ragione e della volontà, così per le virtù infuse, sono le virtù teologali — derivanti dalla grazia — che donano le caratteristiche proprie delle stesse.!* Le virtù morali infuse sono un'esigenza del soggetto trasformato dalla grazia. Come il soggetto acquisisce, con le virtù morali, una maggior capacità dell’appetito di sottomettersi alla ragione, un'esigenza della sua natura razionale, così attraverso il dono della grazia riceve una potenzialità ad un bene orientato a Dio stesso. Il rapporto tra fine e natura stabilisce la necessità dell’infusione delle virtù: senza delle cause adeguate non è possibile poter raggiungere un certo fine. 1.5.3. Principi e fini delle virtù infuse Lo studio delle virtù infuse presenta un aspetto fondamentale che ne approfondisce la comprensione. Questo punto centrale può essere sintetizzato in 4 Utilizzo qui un lavoro classico: G. BurLet, Vertus, 101-102. 142 Qui natura è da intendere nel compimento apportato razionalmente ad essa.

3 G. BuLLET, Vertus, 104.

355

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

questi termini: le virtù infuse propongono solamente un cambiamento di fine, l'orientamento a Dio, rispetto a quelle acquisite, oppure si tratta di un cambiamento dei principi operativi e dunque delle modalità in cui si realizza il bene dato dal loro potenziale?

Una prima risposta giunge da S 'Ih I II 63,3. In essa si tematizza

che nelle virtù infuse morali

le virtù teologali

sostituiscono i principi razionali che ineriscono intelletto e volontà, i primi

principi della razionalità in particolare morale, ed indirizzano al fine sovrannaturale. Un confronto parallelo permette di riassumere che:

a) i principi indirizzano le virtù acquisite; b) le virtù teologali indirizzano le virtù infuse.

Una successiva chiarificazione deriva da S Th I II 63,4. Tommaso in questo articolo si interroga propriamente sul fatto che le virtù infuse potrebbero non essere altro che le stesse virtù acquisite, ma con un fine ultimo, un orientamento ultimo diverso. Su questo tema mi soffermo prima sulla quaestio in se stessa e propongo successivamente le considerazioni della Porter che sono in parte un punto di vista diverso perché vedono le virtù infuse soprattutto caratterizzate da un cambiamento di fine. 1.5.4. Virtù infuse secondo S Th II 63,4 e S Th II 65,3

Tommaso ricorda che l'oggetto di una virtù è il bene che compete propriamente a quella virtù, cioè il bene che viene individuato attraverso l’oggetto

della stessa, in particolare attraverso la ragione formale di quell’oggetto.!* L'esempio di un oggetto di virtù è quello della temperanza: il poter conseguire il bene relativo ai piaceri sensibili secondo ragione. Il motivo formale di

tale oggetto dipende dalla ragione che stabilisce, afferma Tommaso, la “regola delle concupiscenze”. Significa che è la ragione che indirizza al bene e prende

forma nell’opera della temperanza.! Oggetto materiale sono i desideri o piaceri sensibili. Inoltre si ricorda che la ragione umana ha un modo diverso di regolare i desideri — in merito al piacere — rispetto alla regola che può venire dalla legge divina.!# ui

sa nor ul Per Tommaso l’oggetto di un'azione, di una virtù per analogia, è la caratteristica principale che ne individua la moralità. Cfr. S Th I II 18,2. 15 Le virtù assumono un indirizzo tra razionalità e inclinazioni al bene proprio. "© In questo caso mi pare che legge divina si debba intendere soprattutto come legge

356

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

Secondo questo articolo le virtù infuse vedono un cambiamento anche di contenuti: al di là del linguaggio, usato da Tommaso, significa che l’indirizzo

sovrannaturale orienta, come saggezza ulteriore rispetto alla saggezza umana,

le virtù acquisite, ne trasforma i fini. Questa trasformazione dei fini non è solo rispetto al fine ultimo beatificante, ma anche dei fini parziali che ricordo non sono altro che i principi che indirizzano le virtù. Non si tratta cioè solamente di una modificazione nell’intenzione ultima ma un cambiamento dei principi che indirizzano attualmente le virtù. L'esempio, nell’articolo, ricorda la differenza tra digiuno cristiano, pratica della spiritualità, e quello che si attua per ragioni, ad esempio, di salute fisienti Queste differenze sono originate da una trasformazione riguardante la ragione formale delle virtù, la causa formale, come ricorda un passaggio di S ThIII 63,4: «Ora, è evidente che la regola (misura) imposta dalla ragione umana in code-

ste concupiscenze è differente da quella imposta dalla legge divina».

Per le virtù infuse la legge divina viene intesa come causa formale. La conclusione è importante per le virtù: il giusto mezzo della ragione non è uguale al giusto mezzo della fede o della carità. Ricordo infatti che per le virtù acquisite il “medium rationis” è un’opera, un costrutto, razionale.!#8 La saggezza divina, che è uguale alla retta saggezza umana e tuttavia la supera in molti aspetti, rappresenta la medietà delle virtù infuse.!° Infine la soluzione delle difficoltà di questo articolo - S'Th I II 63,4 ad 1 — afferma che gli atti delle virtù infuse e acquisite non si identificano perché non solo hanno un fine ultimo diverso, ma perché sono diverse anche nell'oggetto che perseguono cioè nei fini intermedi.

Questa affermazione non va fraintesa in senso di una assoluta differenza tra virtù infuse ed acquisite dal punto di vista materiale. Queste considerazioni sono riprese in particolare dalle teorie studiate da Rhonheimer sugli rivelata e in particolare la legge nuova. Vedi al capitolo secondo la questione della razionalità dei comandamenti: cfr. cap. 2, c) 1.2. 7 L’esempio propone il legame tra legge divina e trattare duramente il proprio corpo secondo 1 Cor 9,27. Al di là del contenuto materiale dell'esempio, che sembra poco in sintonia con la spiritualità contemporanea, esso ci fa comprendere come una dimensione cristiana reinterpreti la temperanza per una ragione diversa da quella del raggiungere un #1 bene naturale. virtù. sulle discorso del base alla ragione della ordine è che quello 148 Che rispecchia 49 Nell’impostazione tommasiana l’ordine della ragione e quello sovrannaturale non sono contraddittori, anzi il secondo è comprensivo del primo.

35)

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

oggetti di azione. Un’intenzione diversa cambia il senso globale di una certa azione a parità delle condizioni ed azioni che la realizzano.!?°

Provo ad anticipare questo concetto per la giustizia a partire dalle questioni viste finora. Se i principi di giustizia — come equità o non maleficenza — sono all’origine della realizzazione della virtù di giustizia, sia come atti eccellenti che come trasformazione del soggetto, si può affermare lo stesso della carità

rispetto al concetto della virtù infusa della giustizia. Essa è all’origine di certi atti e della trasformazione del soggetto per quanto riguarda l’aspetto della giustizia come virtù infusa.

Tuttavia proprio S Th I II 63,4 si chiude con un'affermazione che in parte propone una prospettiva diversa ed apre anche ad un’interpretazione più generale delle virtù infuse che sarà quella ripresa dalla Porter. Essa parte dalla constatazione che le virtù cambiano proprio in vista dei.fini che devono ordinare — cioè permettere ai soggetti di dirigersi al bene — che saranno in parte diversi a seconda della specificazione del bene che si intende realizzare: «In questo senso il Filosofo scrive che le virtù dei cittadini sono diverse, in

base alle loro buone disposizioni rispetto ai diversi sistemi di governo. E anche

in questa maniera differiscono specificamente le virtù morali infuse, le quali fanno sì che gli uomini siano ben disposti come “concittadini dei santi e fami-

liari di Dio”, dalle virtù acquisite, mediante le quali l’uomo è ben disposto in ordine alle cose umane».!!

Per le virtù infuse cambia l’interpretazione del bene principalmente in quanto bene che si realizza in vista dell’indirizzarsi del soggetto a Dio. Un cambiamento che riguarda soprattutto la causa finale. Soggettivamente si osservano le intenzioni dell’agente che sono diverse se guidate dalla saggezza cristiana. Il soggetto può agire mosso dalla carità, ma anche mosso da intenzioni generali di apertura all’altro: i due modi di agire, pur rappresentando un bene, saranno due azioni diverse nella loro identificazione.!?? Inoltre nel testo, citando Ef 2,19, Tommaso ricorda che le virtù morali infuse operano in quanto, come credenti, si diviene «concittadini dei santi e ‘5° Cfr. M. RHONHEIMER, La Prospettiva, 87. PI S IhIII 63,4: (orig. latino) «Et eodem modo dicit philosophus, in III Polit., quod diversae sunt virtutes civium, secundum quod bene se habent ad diversas politias». 5° Nella parte sul rapporto tra carità e giustizia ritornerò sul fatto che l’azione di giustizia, mossa dall’intenzione di realizzare la carità, presenta un aspetto di unione a Dio esplicito e quindi è in parte diversa dalla giustizia mossa solo dal desiderio del bene naturale. Cfr. infra cap. 4, d) 1.1.

358

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

familiari di Dio». Con questa affermazione egli ribadisce come le virtù infuse

presuppongano e richiedano un ethos comunitario cristiano: l’infusione è un concetto che è legato al realizzarsi effettivo della vita cristiana, come vita di fede del soggetto, che si compie attraverso l’opera della grazia.

Un'ultima indicazione sulle virtù infuse deriva da S Th III 65,3. In particolare la seconda soluzione delle difficoltà, S Th I II 65,3 ad 2, sot-

tolinea che ci possono essere nel soggetto delle disposizioni acquisite contrarie alle stesse virtù infuse che non permettono a queste ultime di far valere la loro potenzialità. Questa condizione accade quando nella vita morale del soggetto si sono radicate delle tendenze opposte alle virtù. Il soggetto perde la facilità ed il piacere del fare il bene che sono causate da una virtù acquisita. L’esempio che propone Tommaso riguarda la virtù intellettiva della scienza che può essere ridotta nel suo operare a causa di una serie di difficoltà ed impedimenti all’apprendere. Mi sembra che queste affermazioni siano ora alquanto problematiche perché sembrerebbe che le virtù infuse non abbiano la stessa stabilità in relazione al bene che posseggono gli abiti acquisiti. E questo renderebbe le virtù infuse secondarie rispetto a quelle acquisite: proposizione che è in contrasto con il fatto che le virtù infuse siano le virtù in pienezza, in un indirizzo ad un bene maggiore. Inoltre non è chiaro come possano coesistere virtù infuse ed acquisite nel soggetto, in particolare quale sia la relazione che le caratterizza.! La risultanza sarebbe che le virtù infuse debbono comunque coesistere con le virtù acquisite, anche se forse in questo caso ci si riferisce maggiormente alle virtù infuse che producono un cambiamento del fine ultimo. Il tema del rapporto tra carità e giustizia riaffronterà questi temi tentando una miglior com-

prensione degli stessi, precisando anche la problematicità della relazione tra virtù infuse ed acquisite che è emersa a partire da $S Th I II 65,3. 1.5.5. Virtù infuse e cambiamento di fine

Come segnalato, una riflessione in parte diversa da quella appena osservata in merito alle virtù infuse deriva dalle considerazioni della Porter.!* 153 L’affermazione sicura è che questa divisione si riferisce alla divisione tra fini naturali e sovrannaturali. ha 154 ]. PortER, Nature as reason, 378-379. Per la teologa americana la legge naturale Nature Porter, della libro il Tutto o. riferiment di lato, senso sempre un contesto culturale, in come as Reason, intende offrire una prospettiva che vuole dare conto dell'etica teologica: senso in naturale legge della teoria una da partire a un'etica teologica trovi il suo senso l reflection on tomista. Quest'ultima in particolare diventa: «as a framework for theologica

359

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Mi sembra che essa vada tenuta in conto come complementare alle osservazioni fatte finora perché segnala la similitudine delle virtù infuse con quelle acquisite: esiste un legame stretto tra i due tipi di virtù senza il quale non si giunge a comprendere la realtà delle stesse. L’azione delle virtù teologali per la Porter in particolare riguarda la carità che tocca il soggetto. La presenza della carità apporta specifiche forme di virtù cardinali infuse, legate tra loro, che orientano le facoltà, intellettive o appetitive, verso l’unione con Dio.!° 156 Il soggetto cui conviene la carità pos-

siede differenti modalità di espressione delle virtù cardinali che orientano le sue potenze o facoltà operative alla beatitudine piena nell'amicizia con Dio stesso. Le virtù infuse in parte sono differenti da quelle acquisite, ma in parte hanno in queste ultime una sorta di riferimento e di modello. La teologa americana segnala che l’idea guida pet questo legame è uno dei temi maggiori dell’opera tommasiana: distrugge. 157

la grazia perfeziona la natura, non la

Le virtù acquisite non perdono il loro specifico significato; non sono annullate dalla trasformazione in virtù infuse. La motivazione è che, per la Porter, le virtù si definiscono in base ai principi, ma sono anche legate ad una serie di azioni paradigmatiche senza le quali la loro comprensione è mancante. Per questo motivo un insieme di azioni che corrispondono alle azioni delle virtù acquisite è necessaria per comprendere l’azione ed il senso delle virtù infuse. L'analisi si sofferma ancora su S Th I II 63, 4.8 La Porter afferma: the moral life, rather than as a basis for moral arguments». Questo contesto (framework) è in fondo affermare che una visione completa della legge naturale è sempre tra la creazione e la provvidenza di Dio. Le virtù infuse appartengono a questo contesto della visione ampia della legge naturale.

!° Anticipo qui alcune assunzioni sulla carità ricordando inoltre che a monte della stessa carità si trova l’opera della grazia: grazia da cui scaturiscono le virtù teologali che influiscono sulle virtù infuse.

° La quaestio di riferimento è la medesima vista sopra: cfr. S Th III 63,3 e S Th III 63,4. i ‘7 La troviamo, ad esempio, come affermazione esplicita in S Th I 1,8 ad 2. La Porter

ricorda che sul rapporto grazia-natura importanti sono S Th II Il 26,2 e S Th II II 31,3 che analizzo nello specifico nelle pagine sulla carità. In queste quaestiones si afferma che la grazia non è meno ragionevole della natura stessa. 5 La riporto in parte in questa nota per facilitare un confronto con quanto sostenuto prima. S ThI II 63,4: «Gli abiti si possono distinguere specificamente in due maniere. Primo, in base alle ragioni formali e specifiche dei loro oggetti, come abbiamo visto. Oggetto però di qualsiasi virtù è il bene relativo alla materia propria di quella virtù: così oggetto della

360

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA «

“N

Nature as reason” È,

pe

informs the infused as well as the acquired virtues, even GL)

.

though the two kind of virtues are specifically different, insofar as they are

directed towatd distinct ends»,!5°

La differenza tra azioni che scaturiscono dalle virtù acquisite e dalle virtù infuse è rappresentata dal fatto che il fine è diverso. Però solo a partire dalle virtù acquisite comprendiamo quelle infuse. Questa distinzione tra virtù va sempre legata all'affermazione che la grazia perfeziona la natura. Essa ha un duplice significato: —

nonla distrugge;



non la rende inutile. /

Le virtù infuse e quelle acquisite sono legate da una serie di azioni paradigmatiche che sono similari. A partire da quello che afferma la Porter mi pare che questa similarità possa diventare una sorta di sostegno reciproco tra virtù acquisite ed infuse. Alcuni aspetti e contenuti delle virtù acquisite sono componenti principali delle virtù infuse e senza di essi non potrebbero essere neanche descritte. Da un altro punto di vista anche le virtù acquisite vedono ampliato il loro modo di perseguire il bene, che solitamente rimane di per sé solo sul piano naturale, e possono essere comprese in un senso più generale e profondo.!99 La Porter propone un'interpretazione di Tommaso seguendo gli argomenti della legge naturale oggetto del suo studio: le virtù infuse sono permeate, prendono forma anche se non totalmente, dalle esigenze che derivano dalla legge naturale. Questa affermazione ha un duplice senso. Da un lato le virtù infuse hanno lo stesso “contenuto” delle virtù acquisite. Ad esempio la temperanza infusa — come quella acquisita — è un qualcosa che è legato alle necessità fisiche della persona. La temperanza è la virtù cardinale che meglio si presta a questa riflessione: posso esercitare la temperanza rispetto al cibo per ragioni di salute o per ragioni spirituali, saranno i fini diversi che rendono diverse le virtù. Dall’altro la legge naturale viene posta in un contesto, quello cristiano, che la qualifica e trasforma le virtù in questa

temperanza è il bene relativo ai piaceri cui mirano le concupiscenze o desideri del tatto. Il motivo formale di codesto oggetto dipende dalla ragione, la quale stabilisce la regola in codeste concupiscenze: mentre l’oggetto materiale sono le concupiscenze medesime. Ora, è evidente che la regola imposta dalla ragione umana in codeste concupiscenze è differente da quella imposta dalla legge divina». 159 JT. PorTER, Nature as reason, 389. 160 Forse questo può essere interpretato come il punto di incontro tra chi segue solo un bene naturale e chi segue un bene sovrannaturale.

361

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

modalità. La temperanza che diventa astinenza o digiuno indirizza immediatamente al fine ultimo del soggetto e non solo in un fine intermedio, la salute

nella temperanza acquisita, che poi in via derivata contribuisce all’indirizzo al fine ultimo. Aggiungo un'ulteriore considerazione. Come precisato dallo stesso Tommaso le esigenze dell’umanità del soggetto, detto altrimenti quelle che compongono le inclinazioni naturali, non possono essere danneggiate da altri fini, anche spirituali o più immediatamente in relazione al fine ultimo, perché contraddirebbero la legge naturale ovvero “l’ordo rationis”.!°! Come ribadisce la Porter: «The body can and should be disciplined and even chastised, but non harmed, in pursuit of spiritual aims». 162

La temperanza come virtù infusa deve rispettare le stesse esigenze che presenta quella acquisita. Ad esempio il fatto che vengano rispettate le necessità di non danneggiare la salute fisica dei soggetti che fruiscono di questa virtù. Uno degli elementi della corrispondenza tra virtù infuse ed acquisite è rappresentato da un nucleo comune. Esso talvolta divergerà anche in maniera profonda viste le caratteristiche delle virtù teologali che dirigono quelle morali. Però non potrà mai superare la razionalità e le inclinazioni richieste dalla legge naturale per tutelare le componenti fondamentali che costitui scono l’umanità del soggetto. Questo significa che in particolare la giustizia acquisita sarà una compo-

nente che disciplina razionalmente la virtù infusa di giustizia come verrà precisato nei paragrafi seguenti.!9 Per la Porter dunque vi è una vicinanza tra virtù infuse e acquisite molto marcata. Un ultimo aspetto riguarda il fatto che la teoria della legge naturale indica come alcune caratteristiche del soggetto umano lo rendono capace della grazia e dunque della carità.!* Una natura che è già orientata teologicamente Cie

III 471

162 J. PORTER, Nature as reason, 390.

163 Cfr. infra cap. 4, d) 1.3.2.

ì

‘6 Ricordo che la teoria della legge naturale, nella prospettiva che offre Tommaso, ha di

per sé un prospettiva teologica perché in generale i pensatori scolastici usano il dato biblico dell’uomo come “immagine di Dio” per definire alcuni tratti della sua natura. Questo grazie alla loro comprensione delle scritture, in particolare di Rm 2,14 che ribadisce una presenza della legge nei pagani, i quali per natura agiscono secondo la legge. J. PoRTER, Nature as reason, 395: «The conception ofhuman nature informing a Thomistic account ofthe natural law is finally a theological conception, insofar as it considers what it means to be human

362

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

: dunque.! 165 La Porter ricorda che guardare alla legge naturale e all’apporto della grazia ha come conseguenza il fatto che «I have been defending the claim that reflection on human nature informed by the rheological virtues and contextualized by Scripture and doctrines does give rise to an distinctively theological ethic of the natural law».!96

Queste considerazioni sulle virtù infuse hanno richiamato l’azione della

carità. Per comprendere a fondo il ruolo della carità occorre un’analisi puntuale della stessa. 7

C) Carità come virtù infusa 1.1. Carità e grazia

Prima di vedere le specificazioni per una giustizia come virtù infusa, analizzo gli aspetti della carità che riguardano l’apporto della stessa alla giustizia. Me ne occupo qui non volendo spiegarne tutte le valenze, ma per dire quale sia la sua funzione come virtù teologale in relazione da un lato al fine ultimo e dall’altro in merito ai principi guida della giustizia. L'attenzione alla carità necessita ancora di ritornare al tema della grazia: la carità ha come fonte la grazia.!” L'amore di Dio, la carità, si indirizza all'uomo e desidera una corrispondenza da parte sua, tuttavia già l'accoglienza dell’amore divino è resa possibile dalla grazia. La carità designa non solo le azioni puntuali che la manifestano, ma un rapporto permanente tra Dio e l’uomo. L'amore di risposta che il soggetto umano esprime per Dio deriva già dall’azione divina.!8 Ricordo che per Tommaso la grazia ha il proprio supporto (subiectum) nella stessa “essentia animae”. Da qui essa si estende alle diverse facoltà ope-

in the light of theological perspective showed by the motif of the image of God». Allo stesso tempo dire immagine di Dio come caratteristica umana non significa non riconoscere

aspetti propri di questa natura. 16 Questa ultima osservazione rispecchia sempre quell’approccio teologico che appartiene alla natura della Summa Theologiae. 166 J. PORTER, Nature as reason, 394. 167 Queste distinzioni che sono presenti in Tommaso non pregiudicano il fatto che grazia e carità siano, come detto, aspetti relazionali che permettono in modo analogico di spiegare i la relazione tra il soggetto divino e quello umano. 168 Pesch ricorda che il rapporto tra grazia e carità, dell’azione puntuale di Dio che suscita

i 310. per grazia, l’amore, è una teoria agostiniana. Cfr. O. E. PescH, Liber

363

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

rative dell’uomo attraverso la mediazione delle virtù teologali.!? Le virtù non

sono mai la grazia stessa ma scaturiscono da essa.?° Ed in particolare S Th I II 110,4 sottolinea che la grazia non riguarda direttamente le facoltà umane.!”!

Tra l’uomo e Dio nasce una relazione fondamentale che è frutto della “qualità” della grazia: è la carità.!”? Il tema che riguarda la carità, più in generale della grazia come il venire di Dio presso il soggetto, non è un dare qualcosa all'uomo, come il dono dell’esistenza di cui godono tutte le creature compresa

quella umana, ma Dio che dona se stesso. A partire da questo dono, che diventa virtù, la volontà umana

diventa

capace di amare intensamente Dio stesso: l’uomo redento da Dio è quel soggetto che entra nell’unico movimento che viene da Dio e a lui ritorna.!”? 1.2. Fini e carità

Il rapporto tra carità e fini riassume quello che è stato detto in precedenza in merito ai fini: la distinzione tra fine naturale o sovrannaturale, felicità per-

fetta o imperfetta, può essere espresso con l’analisi della funzione della carità quale movente all’agire. Il tema classico delle virtù senza la carità, senza un indirizzo al fine ultimo,

vede Tommaso rispondere indirettamente ad Agostino che vede le virtù umane Sancio NERO, 170 Unità e distinzione tra grazia e virtù sono presenti nella prospettiva di Tommaso. La grazia può essere scoperta e compresa nella prospettiva anticipante delle virtù. 17! Cfr.SThIII 110, 4, ad 1: «Come dall’essenza dell'anima emanano le facoltà, che sono principii degli atti, così dalla grazia emanano le virtù nelle varie facoltà dell’anima, le quali muovono all’atto codeste potenze. Ecco perché la grazia viene riferita alla volontà come il motore alla cosa mossa, cioè come il cavaliere al cavallo: non già come un accidente al suo subietto (subiectum)». !? O. E. PescH, Liberi per grazia, 320. La grazia come qualità è stata spesso interpretata,

ricorda Pesch, ben prima della polemica contro la riforma, in modo riduttivo in un focalizzarsi sulle opere dell’uomo a favore del prossimo e come opere di pietà nei confronti di Dio stesso. 13 Cfr. Ivi, 340-342. I teologi che hanno seguito l’ispirazione di Scoto hanno sempre ritenuto la grazia e l’amore direttamente legati, senza quasi distinzione possibile. Per rispondere a questa mancata distinzione, la tarda scolastica propone l’idea della grazia come qualità, o in una specifica ulteriore come habitus. La tradizione successiva, che continua in parte quella scolastica precedente, in particolare si dovrà confrontare con Lutero, per il quale non

possono esistere nel soggetto umano contemporaneamente dimensioni corrotte ed integre perché tutto l’uomo è corrotto nel rapporto con Dio. Per questo si soffermerà maggiormente sul rapporto tra grazia e libertà che sulla questione delle virtù acquisite o infuse, anche a motivo di un generale abbandono di un'etica della prima persona.

364

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

senza prospettiva, mancanti di significato, perché mancanti della carità che costituisce l’intenzione dell’agente.” Tommaso invece basa la sua prospettiva sul duplice fine. Alcuni beni ed azioni possono essere ulteriormente ordinati al fine ultimo, piena beatitudine — compimento ultimo — per gli esseri umani. Siamo nell’ottica del fine inclusivo, perché i beni ed i fini parziali sono compatibili con il fine ultimo. I fini virtuosi, compiuti nelle virtù morali, fini di giustizia, di coraggio e simili, conducono ad una felicità imperfetta e possono essere diretti dalla carità alla pienezza della comunione con Dio. Inoltre accanto ai fini virtuosi permane la possibilità da parte del soggetto di realizzare dei fini apparenti che escludono a priori una realizzazione della felicità come compimento.

Inoltre il perseguire questi falsi beni impedisce di raggiungere il fine ultimo. Quando un fine parziale è incompatibile con il fine ultimo, allora abbiamo un atto che non ha carattere di bontà. Tommaso in S Th II II 23,7 descrive le false virtù che caratterizzano, ad esempio, l’avaro. In particolare la falsa giustizia che porta gli avari come sottolinea il testo a «disinteressarsi delle cose altrui per paura dei danni che ne potrebbero subire».

175

Viceversa, se c'è questa compatibilità, il soggetto realizza un fine che non è

perfetto ma è pur sempre un bene reale anche se parziale. In sostanza Tommaso attraverso la duplice possibilità di raggiungere una

beatitudine — perfetta ed imperfetta — precisa la sua diversità di pensiero rispetto ad Agostino. Per quest'ultimo la mancanza di carità rende qualsiasi azione malvagia. Tommaso invece ritiene che le azioni, indirizzate dalle virtù umane, conservino un loro significato profondo per la ricerca del bene.!7°

4 E. ScHOCKENHOFF, The Theological Virtue of Charity (Ha IHae, qq. 23-46), in S. J. Pope (ed.), 7he ethics of Aquinas, Georgetown University Press, Washington, D.C. 2002,

250. Un atto in questa prospettiva dipende dall’intenzione dell’agente: quando questa intenzione non è buona tutto l’atto non può dirsi buono. 15 S Th II II 23,7: «Avarorum

iustitia, qua gravium damnorum

metu

contemnunt

aliena».

176 Tommaso in fondo mitiga i due eccessi agostiniani che le virtù dei pagani sono splen-

didi vizi e che occorre solo amare e si può fare quello che si vuole. Ricordo tuttavia che

quest'ultima affermazione si riferisce sempre alla ricerca di un bene autentico da parte del soggetto.

365

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

1.3. Aspetti fondamentali della carità

In sostanza la carità è uno speciale tipo di relazione tra il soggetto umano e quello divino. Analizzo come Tommaso identifichi questa relazione. Egli assume l’idea di amicizia, che corrisponde all’idea aristotelica della stessa, per definire la carità. L'amicizia per Tommaso è la forma di amore più alta perché è una realizzazione dell’amore che desidera l’amico in sé (dilectio)

e non un amore che desidera qualcosa o qualcuno come apporto all’amore di se stessi. Dunque la carità, afferma Tommaso, è una certa amicizia dell’uomo con Dio.! Essa viene utilizzata per definire la relazione tra Dio e l’uomo: il soggetto umano è oggetto dell’amore di Dio e corrisponde a quest'amore. Tre caratteristiche fondamentali segnano l’amicizia. In essa è primaria la componente della relazionalità intesa come rapporto tra amici. Inoltre l'amicizia è contraddistinta dall’uguaglianza delle persone ed' infatti la benevolenza, il volere il bene dell’altro, è fondata su una qualche comunanza. Infine l’amore di amicizia richiama anche l’amore scambievole (mutua amatio).

Queste tre qualità dell'amicizia segnano ugualmente l’amicizia tra Dio ed il soggetto umano, come ricorda S Th II II 23,1.

Per Schockenhoff l’aspetto più importante è il tema della comunanza, come ricorda la quaestio: «Tale mutua benevolenza è fondata su qualche comunanza. Ora, essendoci una certa comunanza dell’uomo con Dio, in quanto questi ci rende partecipi della sua beatitudine, è necessario che su questo scambio si fondi un’amicizia».!78

Il testo latino dell’articolo dice: «Aliqua communicatio hominis ad Deum».

Il centro dell’espressione è l’idea di “communicatio”. Essa non è di semplice traduzione, esprime una duplice dimensione: da un lato relazionale, dall’altro una dimensione ontologica che tocca la forma essenziale del soggetto umano.”

Propriamente, nel senso aristotelico, non sarebbe possibile

l'amicizia tra l’uomo e Dio perché mancherebbe di una caratteristica necessaria che è l’uguaglianza tra amici. Invece proprio l’amore di Dio, e per Dio, è una amicizia che ha come sorgente l’impegno di Dio stesso nel suo manifestarsi e donarsi all'uomo. È il Dio cristiano che permette di definire il concetto di “communicatio”: una possibile somiglianza tra il soggetto umano e quello divino che supera le

177 E. SCHOCKENHOFEF, WES TOILIRt231, 17? E. SCHOCKENHOFF,

366

he Theological Virtue, 246.

7he Theological Virtue, 247.

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

possibilità umane e viene dall'azione di Dio. Dio comunica se stesso al sog-

getto umano, attraverso l’azione della grazia, e questo fatto permette al soggetto di entrare in un'amicizia intensa con Lui. La difficoltà aristotelica viene

superata perché la grazia trasforma il soggetto ponendolo in una nuova condizione che permette una comunione più profonda con Dio stesso. La carità

funziona come un supremo principio nella persona che ne viene toccata, non solo le azioni ma anche desideri ed impulsi vengono diretti a Dio.!8° Il termine “communicatio” dunque presenta una duplicità di significato: abbraccia sia un significato attivo-dinamico, ma anche uno intransitivo-onto-

logico e può così rendere ragione dell'idea di carità presentata come amicizia. Le considerazioni précedenti possono essere completate dall’apporto di SiadeLk65,6, Anche in questo articolo la carità viene definita come un'amicizia con Dio: essa è un amarsi in modo reciproco e scambievole. Tommaso propone il termine di “società” (societas) dell’uomo con Dio che ha già un inizio nella vita presente attraverso la grazia. Non si può avere con qualcuno un'amicizia se non C'è la speranza e la fiducia di avere con lui una comunione più profonda.

Se manca la fiducia in questa “societas” manca la possibilità che si instauri la carità, questa amicizia. In fondo questa fiducia non è altro che la fede nella presenza amicale di Dio nella vita del credente. 1.4. L'indirizzo antropologico della carità

Un secondo tema in merito alla carità giunge da S Ih II II 23,2. Questo articolo riporta come titolo se la carità sia qualcosa di creato negli esseri umani.

Esso mitiga in parte l'articolo primo, che è maggiormente centrato sull'azione di Dio e sulla relazione con Lui, e pone il suo interesse maggiormente sugli

aspetti dell'esercizio della carità o meglio quelli riguardanti il fatto che la carità è amore verso l’altro. Il definire la carità come relazione di amore del

soggetto con Dio rischia di mettere in ombra la prospettiva che vede la carità presente nella vita dell’uomo come amore verso il prossimo. Un interessante rilievo è che in

STh II II 23,2 Tommaso risponde indiretta-

mente ad Agostino, come talvolta accade nella Summa Theologiae, discutendo le tesi delle Sentenze di Pietro Lombardo. Per quest'ultimo la carità fluisce direttamente attraverso l’opera dello Spirito Santo. Una sorta di sostituzione dell’umanità con la terza persona della Trinità divina.!8!

180 Cfr. S Th II II 45,1 e SThII II 45,2.

:

)

e sull’impor181 Anche sulla scia dell’autorevolezza che Rm 5,5 ha nell’epoca medioeval 249. tanza dello Spirito Santo. Cfr. E. SCHOCKENHOFE, The Theological Virtue,

367

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Per Tommaso la carità invece è sempre un elemento che tocca la volontà e che salvaguarda l’agente umano: la volontarietà, in un atto di carità, non viene mai esclusa e quindi è il soggetto che è egualmente responsabile, accanto all’azione di Dio, dell’agire in carità. Il punto più importante dell’azione di carità, come per le altre virtù, è che, di per sé, la potenza operativa è incapace di un atto — quello di carità — se non viene potenziata dalla virtù: la carità è una forma abituale — una virtù infusa — che trasforma ed indirizza la volontà del soggetto. La carità è una partecipazione creata all’amore che è Dio stesso: l’amore umano come risposta all’amore di Dio deve scaturire da un principio interno o interiore. Questo principio è componente che appartiene alla struttura dell’anima, che tocca le facoltà operative della stessa, un elemento creato. La carità può essere compresa come un atto umano libero in risposta all'amore di Dio che lo precede.!* La carità, se deriva dalla grazia, non può però aggirare la volontà umana e sostituirla: occorre una libera risposta dell’essere umano ed in questo senso l’amore come amicizia nel senso aristotelico mantiene tutta la sua validità. 1.5. La carità come virtù

Dopo aver compreso la carità come amicizia con Dio e la sua implicazione nell’agire, nell'amore verso gli altri, mi soffermo sul fatto che la carità possa essere definita una virtù.

Questo concetto è presentato in S Th II II 23,3. La carità è una virtù perché come le virtù naturali permettono di raggiungere il bene, individuato razionalmente, così la carità permette di rag-

giungere il bene nella sua pienezza essendo indirizzata al bene sovrannaturale. Se uno dei modi di esprimere la virtù è che essa è un abito che conduce ad un’eccellenza dell’agire umano, allora la carità sarà l’atto buono per eccellenza.!5°

Naturalmente non è una virtù acquisita, perché totalmente superiore alle capacità della natura umana, ma è una virtù infusa teologale. Essa non può

ritrovarsi nel soggetto attraverso le forze naturali ma attraverso il dono di Dio:

Sao 231043: ! Cfr. S Th II II 4,5. Inoltre in S Th II Il 23,4 Tommaso spiega ancora che se si ama quello che è bene, in modo ancor più intenso si amerà quello che è Sommo bene. Il soggetto si indirizza al bene divino come oggetto di beatitudine. #6 Cfr

368

STA

1242, SS IMIIL24

3:

CAPITOLO

QUARTO

— VIRTÙ

INFUSA

DI GIUSTIZIA

La questione della carità come virtù riguarda anche il fatto che essa possa

aumentare. Il crescere della carità si lega all’idea se possa essere perfetta.!® In particolare essa non può crescere in rapporto all'oggetto, Dio stesso, ma solo al soggetto. Tommaso

ricorda che siamo “viatori”, cioè siamo in cammino

verso Dio, fine ultimo della beatitudine, ed in questo cammino la carità può crescere proprio narsi a l’anima

ed eventualmente aumentare. La vita umana è un cammino che vede la possibilità che la carità stessa cresca: questo avanzare è un avvici-

Dio stesso. La carità compie questo avvicinamento perché con essa

si unisce a Dio. Infine secondo S Th III 109,3 ad 1 la carità ha come caratteristica quella di aggiungere prontezza e piacere nell’amare, in particolare nell’amare Dio. Come attraverso le altre virtù il bene è realizzato con maggior facilità perché

l’habitus permette al soggetto di essere attratto da questo bene, così avviene che la carità aggiunge all’amore naturale, quello che in modo indistinto provano tutte le creature per il Creatore, una facilità ulteriore. 1.6. L'amore di se stessi, di Dio, del prossimo 1.6.1.

Amore per Dio

Per Tommaso

nel Nuovo Testamento vi è un’unitarietà profonda dell’amare

Dio, gli altri e se stessi. Questa unitarietà è rispettata allo stesso modo nelle questioni inerenti la carità.!59 In particolare è significativa S Th II II 25,1:

«Come sopra abbiamo detto, gli abiti devono la loro diversità solo alla diversità specifica dei loro atti: poiché tutti gli atti di una data specie appartengono al medesimo abito. Ma siccome la specie dell’atto si desume dalla ragione formale dell’oggetto, è necessario che l’atto il quale mira a codesta ragione e l’atto che coglie l’oggetto sotto codesta ragione siano della medesima specie: come sono della medesima specie l’atto visivo col quale si vede la luce, e quello con cui si vede il colore in ragione della sua luminosità. Ora, la ragione

che motiva l’amore del prossimo è Dio: infatti nel prossimo dobbiamo amare il suo inserimento in Dio. Perciò è evidente che sono identici nella specie l’atto col quale si ama Dio, e quello col quale si ama il prossimo. Per questo l'abito della carità si estende non solo all’amore di Dio, ma anche a quello del

prossimo». !*”

ke GfrS*IhdLI244:8; 186 E, SCHOCKENHOFF, 7he Theological Virtue, 251. dalla ragione 187 S'Th II II 25,1. Faccio rilevare l’originale di «la specie dell’atto si desume formale dell’oggetto» — «Cum autem species actus ex obiecto».

369

LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ

Ho riportato questa citazione dell’articolo piuttosto lunga per far comprendere come la carità sia una virtù identica sia nell’amare Dio che nell’amare il prossimo, poiché ha la stessa ragione formale dell'oggetto secondo il linguaggio ontologico. Detto altrimenti, l’amore per l’altro è radicato nell’amore di Dio che si indirizza a tutti. Tommaso, analizzando la virtù di carità, unisce amore di Dio e del prossimo perché vede una sorgente unica dell’amore di Dio che chiama alla comunione con Lui e che diventa una comunione reciproca tra i soggetti. Egli pre-

cisa che la distinzione presente nel Nuovo Testamento è motivata dal fatto che le persone semplici, che ne rappresentano i primi destinatari, non avrebbero compreso con facilità l’unitarietà dell’amare Dio e amare gli altri come aftermato in S Th II II 44,2.

In questa ultima quaestio, richiamando anche S Th II II 23,7, si riafferma che il principio guida della carità è il fine e questo fine è l’amore di Dio. La ragione formale della carità — che può essere detta principio guida della stessa — è essere amati ed amare Dio. Gli esseri umani diventano suoi amici:

tutti coloro che condividono il cammino verso un unico fine, la beatitudine, condividono anche questo amore reciproco gli uni per gli altri. 1.6.2. Amore di se stessi

La questione della carità si amplia guardando oltre l’amore di Dio, e del prossimo, all'amore verso se stessi.!85 Il tema dell’amore di se stessi ha come pri-

maria riflessione il fatto che esso viene prima dell’amore rispetto agli altri.!8° Come sempre l’amore di sé può suscitare una confusione con un atteggiamento che sembra il contrario dell'amore, cioè l'egoismo, la chiusura nell’autosufticienza. La prima considerazione per fugare questa confusione è osservare come anche il peccato del soggetto non sia causato dall’amore di se stessi, che ci deve sempre essere, ma dal fatto che questo amore di sé è indirizzato ad un oggetto sbagliato. Il peccatore ama se stesso indirizzandosi ad un bene che non è quello autentico e perde così il percepire il bene proprio più vero che lo riguarda. L'amore di sé è lecito e benefico se è l’amore di sé del virtuoso. Inoltre esso non è un amore che si basa sul sentimento o con caratteri mistici. L’amore di sé è qualcosa che è radicato nel soggetto e che lo indirizza nella ricerca del bene. !** Cfr. cap. 2, b) 1.1.3. In quel paragrafo è stato affrontato il tema della giustizia acquisita e dell’amor proprio. 1 E. SCHOCKENHOFF, 7he Theological Virtue, 253.

370

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

Tommaso già all’inizio della Secunda pars in S'Ih III 2,7 ribadisce questo concetto: per gli amici desideriamo quel bene che il soggetto cerca per se stesso come bene proprio. Nella sistemazione descritta l’amore di sé viene prima dell’amore altrui. Ma non in un senso del trionfo dell’egocentrismo. Tommaso non intende né svalutare il comandamento biblico né aprire una via all’egoismo. La prima ragione di una giusta comprensione dell’amore di sé è rappresentata — come espresso in S Th IT Il 26,4 — dal fatto che prima comunque dell'amore anche verso se stessi viene l’amore di Dio: Se Dio è principio di ogni bene, dunque il compartecipare a questo bene rende possibile amare e questo avviene nella duplice modalità di prima amare se stessi e gli altri. Il primato dell’amore di e verso Dio ordina il giusto amore verso se stessi.

Abbiamo allora due caratteristiche che sono sottolineate da S Th II II 25,4: a) l’amore di se stessi è un paradigma per l’amore verso gli altri: Tommaso afferma che ci comportiamo verso gli altri seguendo come paradigma l’amore che abbiamo verso noi stessi. Questa affermazione deriva da una regola fondante le questioni ontologiche che ribadisce: “unitas est potior unione” (l’unità è principio dell’unione). Significa che con gli altri si ricerca una condizione di unione, mentre con se stessi si possiede una condizione di unità." L'amicizia verso l’altro — la carità verso l’altro secondo la definizione di S Th II II 23,1 —

viene preceduta e trova radice nell’amore di sé. È importante ricordare che per Tommaso l’ordine della carità è fondato in un oggettivo, la priorità dell’essere un soggetto, non in un soggettivismo. Una prospettiva egocentrica — termine qui usato con valenza positiva — non va letta

in un atteggiamento psicologico, ma è originata da una dinamica strutturale del soggetto: la volontà è naturalmente orientata al bene proprio. Amare se stessi è una priorità ontologica che diventa modello all'amore cosciente dell’ordine etico. b) Un secondo argomento che giustifica l’amore di sé è l’indirizzo primario

all’amore di Dio. La carità è l’amore che Dio prova per il soggetto umano; un amore di amicizia che ha la sua sorgente in Dio. Il soggetto partecipa di questo amore ed allo stesso modo in cui viene chiamato ad amare gli altri è spinto ad amare se stesso perché è oggetto dell'amore di Dio.

190 Ritengo che per il pensiero moderno questa sia una delle dimensioni del pensiero medioevale e classico che vengono meno accettate. Il soggetto della modernità è un soggetto ad esempio le diviso anche in se stesso in quanto condizionato da divisioni interiori, penso alienanti che i dimensioni psichiche inconsce, e condizionato esternamente da dimension talvolta causano divisione nel soggetto medesimo.

A

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ In sintesi amare

non

significa solo amare

se stessi

o amare

gli altri ma

orientarsi verso Dio; poiché i soggetti umani sono uniti a Dio come il loro

bene più elevato, essi divengono capaci dell’amore reciproco. 1.7. Carità e virtù morali infuse

Un ultimo argomento sulla carità che voglio esaminare scaturisce da S Th I II 65,2. In questo articolo Tommaso si chiede se le virtù morali possano esistere senza la carità. È interessante perché dal punto di vista della carità permette di riconsiderare le tematiche sulle virtù morali infuse. Infatti l'articolo afferma da un lato che esistono delle virtù umane che sono acquisite, dall’altro che queste virtù sono imperfette. Le possibilità umane di compiere il bene, che sono state ricordate precedentemente nella parte che riguardava la grazia e gli argomenti generali sulle virtù infuse, trovano qui da un lato una conferma; dall’altro viene ribadita una non piena realizzazione di questo bene perché esiste un’incapacità di giungere al fine ultimo." Tommaso afferma che un'attitudine al bene, nell’ambito del bene che è raggiungibile dalle capacità dell’uomo, è possibile attraverso le virtù acquisite in quanto habitus, acquisite cioè senza necessità della grazia e della carità. Se invece si guarda alla prospettiva soprannaturale occorre la presenza delle virtù infuse teologali. Tra queste primaria sarà la presenza della carità che indirizzerà i desideri — l’appetibile — del soggetto verso il fine ultimo.!? Questa virtù dirigerà il soggetto all'unione con Dio come Egli è in se stesso. Questi temi ricordano che le sole virtù infuse hanno un grado di perfezione piena, sono virtù vere e proprie.

Inoltre l’articolo successivo — S Th I II 65,3 — ribadisce che con la carità vengono infuse tutte le virtù morali. Una sintesi della necessità delle stesse è indicata nella risposta alla prima obiezione — S Th I II 65,3 ad 1 — che afferma che non basta avere l'intenzione giusta di un fine globale, attraverso la virtù che orienta il soggetto a quel fine, in questo caso la carità, ma occorrono anche delle virtù infuse che favoriscano e creino le azioni ordinate a quel fine. Mi pare che questa risposta mostri la via pratica dell’etica tommasiana. Il fine ultimo, in questo caso assicurato dalla carità, è un aspetto del dirigersi del soggetto. Sono però importanti anche le virtù morali infuse che permet19! Cfr. supra cap. 4, a) 1.4.2. Anche supra cap. 4, b) 1.5.4. 1°? Se le virtù acquisite sono precedenti alla prudenza per realizzare il bene allora ancor di più i fini della prudenza stessa, per raggiungere il fine ultimo, sono influenzati dalla carità. Inoltre senza quest'ultima non può esistere la prudenza infusa.

DUR

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

tono al soggetto di indirizzarsi alle azioni che sono componente di quel fine medesimo. Viene così, a mio giudizio, meglio spiegata l’affermazione classica che la carità è la forma di tutte le virtù come intitola S Th II Il 23,8: significa propriamente che la carità, se infusa cioè presente, ordina tutte le altre virtù nell’indirizzo al fine ultimo, essa dà forma agli atti di tutte le altre virtà dirigendoli a Dio.!* In questo caso l’attenzione non è sui fini parziali ma direttamente sul fine ultimo, le virtù infuse si caratterizzano innanzitutto perché il soggetto acquisisce, attraverso la carità, il desiderio del fine ultimo nelle intenzioni che lo spingono ad LAgire.!?*

D) Giustizia come virtù infusa 1.1. Giustizia e carità: aspetti generali Dopo aver visto gli aspetti generali della grazia, delle virtù infuse, della carità e le loro relazioni reciproche, in particolare seguendo la proposta tommasiana, ora intendo analizzare la giustizia come virtù infusa. Poiché l’opera della carità trasforma la giustizia, secondo il modo delle virtù infuse, le pagine che seguono tematizzeranno il rapporto tra queste due virtù." Ci possono essere diversi modi di interpretare la relazione tra giustizia e CATA Un primo modo è quello di pensare le due virtù in modo indipendente,

come due componenti diverse del percorso morale proposte dall’etica delle virtù.

Oppure, secondo lo schema teorico presentato finora, vedere le virtù in una relazione che nasce dall’apporto delle virtù teologali alle virtù acquisite. Questo secondo approccio è quello che seguo in questi paragrafi coerentemente alle analisi effettuate finora. 193 In particolare S Th Il II 23,8 ad 1: «Si dice che la carità è il fine delle altre virtù, perché le indirizza tutte al suo proprio fine. E si dice madre delle altre virtù, perché, come una madre concepisce da altri, dal desiderio dell’ultimo fine la carità concepisce gli atti delle p altre virtù». delle parziali fini i occasioni molte in 19 Questo non toglie che la carità tocca anche virtù infuse. !9 Non ripeto i concetti generali espressi sinora che richiamo solo dove sono utili per illustrare le particolarità della giustizia infusa e della funzione della carità.

ethics of 196]. PoRTER, Zhe virtue ofJustice (Ia Hae, qq. 58-172), in S.J. Pope (ed.), Zhe

Aquinas, Georgetown University Press, Washington, D.C. 2002, DIRDI

370

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Per Tommaso, come ampiamente ripetuto, la condotta umana è diretta verso un fine ultimo: occorre comprendere attraverso quali modalità la carità trasformi i fini che il soggetto persegue in modo più immediato e che sono indirizzati dalle virtù. Questa riflessione si sofferma sul pensare la giustizia come una virtù infusa. Poiché la giustizia ha dei propri fini, oggetto della virtù, essi saranno modificati dalla presenza della carità. Prima di studiare più a fondo le modalità di questo cambiamento occorre presentare alcuni punti generali del loro rapporto espressi nei punti che seguono.

a) La carità non cambia le proprietà delle virtù. Una prima osservazione riguarda la giustizia come virtù acquisita: le virtù,

ed in particolare la giustizia per le sue caratteristiche derivanti dalla medietà dell’oggetto, senza la carità mantengono un loro significato preciso, non scom-

paiono. La presenza della carità non eliminerà le caratteristiche basilari della giustizia perché sarebbe contraddittorio per il funzionamento delle virtù; permangono anche i correlati di questa impostazione dell’etica, quali la legge naturale, elementi che contraddistinguono la proposta morale tommasiana. Questa riflessione comporta il fatto che la giustizia mantenga sempre un nucleo che possiede delle azioni caratteristiche e dei principi propri che la gui-

dano. b) Fini parziali che si indirizzano ad un fine ultimo.!”

La giustizia a partire dalle caratteristiche che possiede come virtù presenta un nucleo, i principi e le azioni ricordate al punto precedente, che può essere ampliato proprio per l’azione della carità: la giustizia come virtù infusa. Eftetto della carità riguarderà il congiungere il potere effettivo per il bene già presente nella giustizia per guidarla al fine ultimo che trascende le possibilità della sola volontà.!? c) Crescita della stabilità delle due virtù.

Un aspetto che riguarda il rafforzamento reciproco delle due virtù, la modalità del loro funzionamento, ha due specificazioni.!? Le virtù, in particolare la giustizia, possono rendere più stabile la carità. La loro qualità di habitus, disposizioni permanenti, permettono alla carità di trovare una disposizione favorevole del soggetto analogamente a come, usando 17 Questa considerazione è ormai familiare nel senso che la carità porta a pienezza un bene parziale nell'amicizia con Dio a cui è chiamato il soggetto. 1° Ricordo che la giustizia e la carità riguardano una sola facoltà operativa, l’appetito razionale cioè la volontà. Un’unitarietà dell’azione delle due virtù è necessaria quando si rileva la presenza di entrambe, la distinzione è per spiegarne la funzione diversa. ‘°° Queste considerazioni sono analoghe per il rapporto tra grazia e libertà. Cfr. S'Th Il LIKK3,6:

374

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

categorie ontologiche, una materia è disposta ad accogliere una certa forma.

Le virtù permettono ordinariamente al soggetto di permanere nel bene e sono un ambiente favorevole alla carità: quest'ultima trova già un orientamento favorevole all’altro grazie alla presenza della giustizia. Più un soggetto è virtuoso — giusto — più la carità rimane in lui. 299

Viceversa più il soggetto possiede la carità e maggiormente le virtù si rinforzano nel senso che ancora più profondamente dispongono al bene autentico del soggetto. Un habitus arricchito dalla carità può rispondere meglio alla stabilità dell’habitus stesso. Le virtù, la giustizia in particolare, avranno

comunque una relazione forte con la virtù infusa corrispondente. Se l’uomo è privo della grazia esiste una certa instabilità nella dimensione della virtù

acquisita, nel senso che con più facilità perde l’habitus. In fondo questo discorso si comprende bene se pensiamo ad una componente delle intenzioni del soggetto che caratterizzano la virtù: anche banalmente la componente del “finis operantis” è sempre importante nel rafforzare la capacità di indirizzo al bene. d) Frutti delle virtù di giustizia e carità. Nel punto precedente si è precisato che carità e giustizia sono virtù inerenti il soggetto, ovvero habitus che toccano le sue potenze operative. Non va dimenticato però il concetto che è presente in tutto questo lavoro. Indicando le virtù indico anche le azioni eccellenti — virtuose — che sono frutto

dell'agire pratico del soggetto. Questo duplice sguardo sulle virtù vale anche in questo contesto. Carità e giustizia sono inerenti sia alla trasformazione vir-

tuosa del soggetto che alle azioni che in modo paradigmatico, come eccellenze virtuose, possono essere individuate come frutti delle virtù. Nelle analisi che

seguono alcune volte l'accento sarà maggiormente sull’uno o sull’altro aspetto, che però non vanno separati per non ricadere in quella opposizione tra soggettivo ed oggettivo che ha spesso creato numerosi problemi di interpretazione anche per la carità e la giustizia. e) Giustizia e carità inerenti la volontà.

Sia la giustizia che la carità sono virtù inerenti alla volontà, appetito razionale al bene.2® Secondo S Th II II 18,1 la volontà del soggetto, attraverso l’azione della carità ed anche della speranza a cui si riferisce in specifico la

quaestio citata, viene condotta oltre il bene della sfera personale ad un bene più

le dimensioni 200 Questo discorso non va frainteso quasi che fossero unicamente amente primari dipende Essa umane che permettono alla carità di permanere nel soggetto. dall'azione della grazia. Cfr. G. BuLLET, Vertus, 137. atto della volontà. 201 Cfr. S Th II II 23,2. In essa si ribadisce che l’amore è un

SID)

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

generale ed a beni che trascendono il soggetto. Questa è però anche l’azione della virtù di giustizia che fa compiere alla volontà il passaggio da un bene del soggetto al bene dell’altro. Inoltre sia la carità che la giustizia sono un potenziamento delle capacità attuali del soggetto che senza le virtù ricordate rimane al di sotto delle possibilità potenziali di compiere il bene che rappresenta il fine della sua esistenza. f) La carità è operante nella giustizia ed attraverso la giustizia. °°

Quest'ultimo punto è centrale perché serve per introdurre un’analisi dettagliata della giustizia, nei paragrafi seguenti. La duplice espressione che la carità è operante nella giustizia ed attraverso la giustizia esprime sinteticamente da un lato la giustizia come virtù infusa e dall’altro il fatto che la carità stessa ha sempre una relazione con la virtù acquisita: —

“nella giustizia” significa che la carità indirizza la giustizia in senso teologico: la giustizia in questo caso è una virtù infusa che esprime la carità.

Essa infatti trasforma la giustizia nella direzione del cambiamento del fine: armonizzata dalla carità la giustizia serve l'amicizia con Dio;

— “attraverso la giustizia” esprime un concetto diverso, cioè che aspetti della carità sono intimamente legati alla giustizia.?° Come

la rivelazione non

esclude la ragione naturale, e la grazia non

distrugge la libertà, così la carità è operante nella giustizia e attraverso la giustizia.

1.2. La carità nella giustizia

1.2.1. Giustizia infusa espressione della carità Mi sembra utile ritornare sulle riflessioni della presenza della carità nella giustizia: significa cioè pensarla come virtù infusa.?° Considerare la carità come intrinseca alla giustizia indica che la giustizia

— infusa — è una forma di espressione della carità stessa. Questa valutazione

°°° Riprendo questa definizione sintetica, la carità nella ed attraverso

la giusti-

zia, da Schockenhoff, anche se poi lè tematiche dell’interpretazione sono originali. Cfr.

E. ScHockeNHOFF, The Theological Virtue, 251: «So charity is effective in justice and through justice». 29 La giustizia è ricompresa sempre nell’azione della carità, anche se quest'ultima ha una sfera di azioni esemplificative e di principi che oltrepassano il dovuto della giustizia. 2° Le questioni della giustizia, nel rapporto con la carità, nel pensiero della tradizione etica cristiana sono state ampiamente dibattute. Cfr. R. PIZZoRNI, Giustizia e carità, ESD,

Bologna 1995, 9. Mi pare che la virtù infusa di giustizia proponga una soluzione anche alle questioni del primato della carità sulla giustizia stessa.

376

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

si riferisce alle situazioni in cui la virtù della carità è esplicitamente presente

nel soggetto.?® Una delle risultanze della carità nella giustizia comporta che quest'ultima,

proprio attraverso la carità, estenda il suo significato diventando una componente dell'amore per Dio e per gli uomini. Detto in altri termini la giustizia diventa, in se stessa, un'amicizia con Dio poiché la carità provoca nella giustizia un cambiamento di fine, l’indirizzo diretto al fine ultimo.

Naturalmente tutto questo avviene in quanto risposta all’azione primaria dell'amore di Dio, l’amore di amicizia con Lui che precede il soggetto. La giustizia non rimane ad un livello dove essa è strumento per garantire

ad esempio la socialità umana, un qualcosa di estrinseco al legame dell’amore per Dio e per gli uomini, ma diventa una delle componenti proprie di questo amore. Il soggetto giusto, colui che agisce e si indirizza al bene attraverso

la giustizia, compie la medesima per amore e realizza quest'amore: in sintesi la giustizia esprime l’amore ricevuto da Dio, e ricambiato, che diventa amore

per il prossimo.?°°

Poiché questa riflessione riguarda naturalmente le virtù infuse ed a partire dal fatto, appena esposto, che la carità può essere intrinseca alla giustizia, allora è possibile affermare che la giustizia raggiunge una pienezza solo nella carità perché solo nella carità diventa una forma di amore più alta: pienezza

tra Dio e l’uomo e con il prossimo. 1.2.2. La connessione di carità e giustizia

La virtù infusa di giustizia rappresenta in fondo la connessione delle virtù di carità e di giustizia. Ricordo che le virtù non vengono pensate in modo autonomo, ma hanno sempre un legame reciproco: l’esempio più generale è quello della prudenza come virtù che è sempre presente nell’indirizzare la scelta del soggetto in connessione con le virtù morali.? In certe situazioni vi è un coincidere di giustizia e carità; certi atti di giustizia sono frutto della carità. Una delle motivazioni di questo corrispondere, descritta nei 205 In questo caso appare ovvio che se la comprensione della carità è quella sempre in indica cioè , teologica va prospetti alla legata paragrafi precedenti essa è sempre

ne modo esplicito il rapporto con Dio. è carità la 8: 23, II II Th S da e ialment sostanz o derivan 206 Le precedenti considerazioni ; i la forma delle virtù. grazia. la a riguard à modalit stessa la virtù, una mente 207 Anche se la grazia non è diretta possiede anche la carità. La La presenza della grazia produce sempre la carità: chi ha la grazia di amicizia con Dio. grazia è la fonte della carità perché conduce alla relazione .

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

oltre quella dell’intenzione di radicarsi nella giustizia che nasce dall’amore di Dio, risulta perché esiste una radice naturale comune che appartiene ad entrambe le virtù: esse esprimono atti che vogliono essere in favore dell’altro; per il bene degli altri soggetti. Nascono due visioni del rapporto tra carità e giustizia, ovvero della spiegazione delle virtù infuse. La prima afferma che la giustizia è la virtù che riguarda il rapporto con gli altri e che la carità è espressa primariamente dalla benevolenza verso il prossimo. In modo formale, cioè per quanto espresso dalla ragione formale dell'oggetto di questi atti, essi sono simili.?®8 È l’ipotesi in cui la virtù infusa di giustizia vede una trasformazione solo nel guardare al fine ultimo. ?° Se però si considera l’aspetto del fine parziale, seconda visione, possiamo trovare una logica diversa perché ci sarà un cambiamento nelle modalità di realizzazione della giustizia.

è

Mi pare che in entrambi i casi la qualità della capacità di raggiungere il bene che le due virtù consentono sia l'elemento che specifica la distinzione proposta. Quando è presente, la carità rimane centrale nella comprensione

degli atti che sono basati sulla giustizia. Guardando unicamente alla dimensione della giustizia non si riescono a spiegare quegli atti giusti che sono toccati anche dalla carità. Detto altrimenti,

certe dimensioni fattuali e certi precetti che scaturiscono dalla giustizia come

virtù infusa rimangono incomprensibili al di fuori di una prospettiva rivelata e nell’esperienza dei soggetti che cercano di vivere secondo essa.?!0 1.3. La carità attraverso la giustizia 1.3.1. Ordo caritatis

Voglio arricchire le pagine del rapporto tra giustizia e carità con una serie

di considerazioni che ricavo principalmente dalla Porter e da Schockenhoff anche se non in modo esclusivo, e che elaboro ulteriormente.?!!

208 In questo caso le massime della giustizia corrispondono a quelle della carità. 20° L'influenza della carità sulla giustizia può riguardare la componente motivazionale: fare la giustizia, quello che è dovuto agli altri, per la “gloria di Dio”. Ed in questo caso non ci son differenze materiali con chi esercita la giustizia perché la ritiene doverosa per se stessa, come virtù acquisita: i principi sono gli stessi. 210° J. PORTER, Nature as reason, 392.

21! Le considerazioni della teologa americana sono legate al pensiero tommasiano espresso nella Summa Theologiae.

378

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

I concetti seguenti non identificano la giustizia come virtù infusa, ma piuttosto mostrano come la carità abbia degli aspetti che dipendono dalla giustizia. Questa riflessione è utile in particolare per ribadire che le forme della giustizia come virtù acquisita non possono venire meno anche in presenza della

carità. Un primo elemento viene offerto ritornando alla questione che Tommaso intitola “l’ordine della carità” (ordo caritatis): tutti gli articoli della quaestio 26

di Secunda secundae sono importanti per precisare questo rapporto, in particolare S Th II II 26,6-13. Essi permettono uno sguardo più approfondito del legame tra la giustizia e la carità. Il discorso sull’ordine della carità rappresenta un passaggio che permette di rendere più chiaro cosa significhi che la giustizia può rappresentare una forma di espressione della carità stessa, come poi verrà esplicitato nel paragrafo successivo a questo.?!? Al primo posto in quest'ordine è Dio, argomento scontato, perché come propone S Th II II 26,2: «La carità ci obbliga ad amare principalmente e sommamente Dio: poiché egli va amato come causa della beatitudine; il prossimo invece va amato come compartecipe con noi della beatitudine».

L'ordine della carità è dato dal rapporto con il bene finale: la carità è di per sé orientamento al bene ultimo nel suo essere indirizzata direttamente a Dio. Un secondo aspetto in merito all’ordine della carità ribadisce che ciascun

soggetto ama se stesso prima del prossimo.?!? Ma questa affermazione prevede una serie di precisazioni che ne forniscono l’autentica interpretazione. L’ordine della carità significa, ad esempio, che il bene del prossimo è prioritario rispetto anche ad un bene autentico del soggetto, come un bene fisico

o legato alla salute, nel caso in cui il bene verso il prossimo abbia carattere di necessità o di urgenza oppure nei casi in cui il soggetto è tenuto a provvedere

al benessere dell’altro.?** Diverso invece il caso in cui un bene proprio sia foncarità damentale per il soggetto stesso: in questo caso la priorità va data alla

verso se stessi, perché la mancanza di quel bene impedirebbe al soggetto stesso € di vivere. Un altro esempio vede i beni spirituali personali come necessari

al mai posti in secondo piano rispetto ad altri beni ed in molti casi superiori bene dell’altro. te con gli aspetti della carità 2:2 Inoltre le idee qui espresse sull’ordo caritatis vanno integra che riguardano l’amore di sé. Cfr. supra cap. 4, c) 1.6.2. 213 Cfr. SThIIII 26,4. 24 Cfr. S Th II II 26,5, ad 3; S TAI II 31,3.

379

LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ

Dunque se da un lato il desiderio del bene che il soggetto nutre per gli altri — la benevolenza per gli altri — possiede degli elementi di apertura universale, in quanto per tutti si desidera che raggiungano il maggior bene possibile, dall’altro questo stesso amore ha una diseguaglianza di fatto nel senso

che non tutti gli altri soggetti possono essere amati allo stesso modo, anzi alcuni devono essere amati più di altri; necessità che talvolta parte dall’amare

se stessi.

Questo “ordo caritatis” non è però costruito sui limiti naturali della capacità di amare, ma sul fatto che nel livello di stratificazione degli esseri alcuni sono più “vicini” al soggetto che altri. Questa stratificazione inoltre è basata sui molteplici livelli dell'indirizzo a Dio stesso. Costituisce un orientamento a Dio fondante la capacità di amare. Non è dunque limitato alla situazione terrena, ma aperto a quella divina. Come afferma Schockenhoff:

«The order of charity, accordingly, follows through into its ultimate subdivision of the ordering of its object towards God. The differentiated levels of nearness to and distance from God as the origin and end of charity at the same time supply people with a rule of preference for their practical acts».?!°

La comunione con Dio è il motivo fondamentale per cui i soggetti si amano di un amore di amicizia che rispecchia proprio quello della relazione con Lui. Un secondo aspetto che stabilisce l'ordine della carità per Tommaso sottolinea che è sempre un ordine oggettivo tra soggetti, nelle relazioni e gerarchie tra gli stessi, che segna le dimensioni dell'amore tra lontani e vicini. Tutte le distinzioni tra amare i più vicini e gli altri, oppure la priorità dei

genitori rispetto al coniuge e simili, derivano da un ordine oggettivo, detto altrimenti delle cose come sono in se stesse, dal tipo di “posizione” che ciascuno possiede per il suo status, non sociale ma ontologico, nei confronti degli altri.?!° Non si tratta dunque di una prospettiva soggettiva, in particolare nel senso di quanto un soggetto meriti individualmente di essere amato, piutto-

sto dimensione oggettiva dei rapporti che intercorrono tra soggetti diversi:

25 E. SCHOCKENHOFF, Zhe Theological Virtue, 254. 2!° Questo non esclude il fatto che le persone vicine al soggetto siano amate per una

dimensione emotiva ed affettiva. Inoltre possono suscitare nel medesimo soggetto un amore più intenso in base alla loro santità. Inoltre per Tommaso non sono tanto i sentimenti che contraddistinguono l’amore, la carità, ma piuttosto l’espressione di questi sentimenti in atti di carità. Cfr. J. PortER, De Ordine Caritatis: Charity, friendship, and justice in Thomas Aquinas’ Summa Theologiae, “The Thomist» 53 (1989), 205.

380

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

la ragione sta nel fatto che nell'ordine degli esseri alcuni sono più amabili di altri:t. 1.3.2. La giustizia forma della carità

Un articolo della quaestio 44 di Secunda Secundae aiuta ad introdurre la questione della funzione della giustizia per quanto riguarda la carità e riprende il discorso fatto in precedenza sull’ordo caritatis. Infatti $ Th II II 44,8 ad 1 precisa che se un soggetto non ama in modo adeguato colui al quale deve quell'amore, e ne ama invece un altro, allora commette un'ingiustizia rispetto al primo. Esso non fa che sintetizzare le considerazioni espresse in merito all’‘’ordo caritatis” le qufli pongono un dovuto nell’ordine della carità che corrisponde al dovuto della giustizia.” Questordine infatti stabilisce che amare significa la giustizia dovuta dal soggetto a partire dai più prossimi.?!9 In questo caso si può affermare che la giustizia dà forma alla carità.??° Questo giudizio non è assoluto perché spesso la carità trascende e supera le esigenze della giustizia trasformandola come virtù infusa. Tuttavia esiste una serie di situazioni, e di circostanze che le contraddistinguono, in cui senza la giustizia non può darsi la carità. La conseguenza, che

qui anticipo, è che la carità sarà espressa dalla stessa razionalità che contraddistingue la giustizia ed i principi di quest'ultima. Vi è in particolare una situazione in cui questo accade sempre: le obbligazioni della giustizia diventano obbligazioni della carità nei confronti di quelli 27 Cfr. S Th II II 26,6. Ne riporto qui un passaggio: «Infatti l’amore di carità, che è la tendenza propria della grazia, non è meno ordinato dell’appetito naturale, che è la tendenza

della natura: poiché tutte e due queste tendenze derivano dalla sapienza divina. Vediamo infatti negli esseri materiali che l’inclinazione naturale è proporzionata all’atto o al moto che si addice alla natura di ciascuno di essi: la terra, p. es., ha una maggior tendenza di gravità, che l’acqua, poiché è fatta per stare al di sotto dell’acqua. Perciò è necessario che l’inclinazione della grazia, che è l'affetto della carità, sia proporzionata agli atti da compiere

esternamente: in modo da farci nutrire un affetto di carità più intenso verso coloro che dobbiamo beneficare di più». 218 Ricordo che il criterio per questo ordine e quindi anche quello del dovuto è quello oggettivo, come spiegato in precedenza. Le possibili discordanze su questo dovuto tra noi e Tommaso dipendono dal fatto che questo criterio, cioè come si articolano i rapporti tra i soggetti rispetto alle concezioni di Tommaso, può essere messo in discussione, anche se solo parzialmente, e non dal fatto che la carità debba in questi casi assumere primariamente la forma della giustizia. 219 Mi ricollego e preciso il secondo termine della relazione tra carità e giustizia espressa nei paragrafi precedenti: la carità è operante attraverso la giustizia. 220 Questa affermazione è inconsueta perché solitamente, come visto, viene proposta in senso inverso.

381

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

che il soggetto è chiamato ad amare perché sono a lui maggiormente vicini. In questo modo viene rispettato l’ordo caritatis che è la strutturazione necessaria della carità. Detto altrimenti, verso i vicini la carità è formata dalla giustizia, la carità corrisponde innanzitutto alla giustizia dovuta.??! Questa affer-

mazione potrebbe essere ridetta nel fatto che non è possibile amare un soggetto prossimo se non si dà quello che gli è dovuto.??? In particolare un aspetto della carità attraverso la giustizia mostra la prima come corrispondente, in questo caso, alla seconda attraverso il principio di uguaglianza. Carità e giustizia concordano perché il principio di eguaglianza vale per entrambe. Tuttavia anche l’altro principio che guida la giustizia, il principio di non maleficenza, risulta inerente alla carità. Quest'ultima virtù non può violarlo in nessun caso. Questo viene ricordato, in particolare, da $ Th II II 59,4: «Infliggere un danno ad un altro è inconciliabile con la carità».

La non maleficenza è dunque un secondo principio razionale, appartenente alla giustizia, che indirizza la carità. La relazione con i più vicini permette, a partire dalle considerazioni tommasiane come esempio notevole, di dire che la giustizia è compresa nella carità. Questo concetto vale in senso generale se consideriamo carità e giustizia

in relazione ai principi che guidano le due virtù. Ci sono degli aspetti della carità, come quelli appena rilevati, che corrisponderanno sempre a quelli di giustizia perché i principi che guidano la giustizia sono anche validi per la carità. Senza che sia rispettata la giustizia ed i suoi principi non è possibile riscontrare la presenza della carità. L'ordine della carità implica una razionalità che deriva dalla giustizia e che struttura la carità stessa. Quest'ultima avrà le stesse caratteristiche di razionalità che sono guida alla giustizia. Elaboro uno schema visivo che può essere utile per aiutare la comprensione.??°

221 Forma ha qui il significato che nasce dalla prospettiva ontologica; detto altrimenti la carità possiede alcune azioni caratteristiche e i principi guida che appartengono alla giustizia. det (tr SAI II1:26,8; 222. G =vcarità; Gia/piustizia,

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

Secondo lo schema proposto la carità include la giustizia, oppure la giustizia è contenuta nella carità.?** Come ribadisce la Porter: «The demands ofjustice inform the normative ideals of charity in well defined

waysy.??9

La rappresentazione grafica però mostra immediatamente che se la carità include la giustizia ci saranno esempi e situazioni in cui l’esercizio della stessa

sarà eccedente quello della sola giustizia. Infatti quest'ultima è insufficiente a descrivere l’eccedente, il supererogatorio, il gratuito. Dire che la carità include la giustizia non esclude che esistano aspetti della medesima che invece sono molto

più ampi perché il bene dél prossimo non si può limitare alla sola giustizia.?°9 Aggiungo ancora due considerazioni che vogliono completare la relazione tra giustizia e carità.

La prima riguarda un altro modo di indicare quello che comporta la carità attraverso la giustizia che viene ricordato dalla Porter:

«Charity cannot function without justice and the other infused moral virtues because this latter are necessary to bring a proper orientation to the different capacities of the person and the spheres of action proper to human life».?7

La seconda sottolinea il fatto che la relazione tra giustizia acquisita e carità avrà anche una ricaduta sulla relazione tra giustizia infusa ed acquisita. Le caratteristiche della virtù acquisita saranno una componente che disciplina razionalmente la virtù infusa di giustizia. Quest'ultima avrà un significato che si lega ad aspetti come il principio di equità e di non maleficenza: in fondo le stesse considerazioni che sono state espresse finora per la carità possono valere per la giustizia come virtù infusa. Essa includerà, in certe situazioni, sempre la giustizia acquisita.

1.4. Giustizia infusa e legge naturale Ritornando agli aspetti della carità che invece opera nella giustizia, ovvero propriamente alla virtù infusa di giustizia, esiste un rapporto tra quest'ultima e la legge naturale. -.

IC

è

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e

.

5)

.

224 Se invece come precisato in seguito guardiamo alle componenti motivazionali e dei fini questa affermazione non è pienamente corretta. 225 J. PORTER, Nature as reason, 390. 226 Questi temi vengono approfonditi successivamente: cfr. infra cap. 4, d) 1.5.3. La giustizia con l’azione della carità sarà giustizia infusa nel senso che la giustizia stessa assumerà i

tratti del supererogatorio: in generale la giustizia infusa sarà guidata anche dai principi che vanno oltre non maleficenza e uguaglianza. 227 J. PoRTER, Ze virtue ofJustice, 283.

333

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Un modo per esprimere il cambiamento che la carità imprime alla giustizia viene dal modello che la Porter utilizza per descrivere la legge naturale. Ricordo brevemente che per la teologa americana la legge naturale è sempre inserita in un contesto (framework) etico particolare.??* Nel suo pensiero la legge naturale è sempre manifestata in una mediazione culturale. Nella proposta di Tommaso, che è alla base degli studi della Porter, questo contesto cristiano — che è l’unico per l’impostazione che segue l’Aquinate — significa l'orientamento del soggetto al fine ultimo e la modalità in cui i precetti della legge naturale permettono di raggiungere i fini intermedi del soggetto: un contesto che è di natura metafisica. A partire da queste osservazioni alcune costanti naturali sono comunque individuabili in ogni contesto culturale.??° Se la legge naturale viene considerata in un contesto cristiano è possibile individuare alcune caratteristiche dell'umano che sono specificate a partire dalla creazione, altre precisate attraverso l’opera della grazia abituale e conseguentemente tra aspetti della giustizia e della carità, tra giustizia acquisita e

giustizia pensata in quanto virtù infusa.??° Il risultato di questo approccio permette di riconoscere il legame tra virtù acquisite e infuse, le prime legate alla natura e le seconde alla grazia, ma allo stesso tempo consente di rilevare una distinzione delle stesse. Un approccio cristiano alla “legge naturale” (Christian natural law ethiò) propone una presenza delle virtù infuse che conducono a raggiungere la felicità imperfetta.?* Significa che la fede è in questo caso determinante per l’espressione delle virtù e dunque della giustizia. Un'altra maniera di indicare questo rapporto tra virtù e fini è osservare come la carità esprima un modo di interpretare la legge naturale, ed anche le virtù, che nasce dall’apporto delle valenze della fede cristiana. Per la relazione che viene analizzata la carità tocca la giustizia perché fa sorgere delle esigenze 228 Iv1;.385. 22° Queste costanti naturali sono nell’ambito delle inclinazioni. Ricordo che per Tommaso queste inclinazioni, le costanti naturali, trovano una realizzazione nell’ambito dei fini che guidano i soggetti. 25° Qui natura ha un significato che è espressione della legge naturale dove essa è già l’azione della razionalità che a partire dalle costanti naturali indirizza al bene. Un ambito che ricomprende già l’azione delle virtù. Alcuni aspetti dell’azione dei soggetti sono naturali, nel senso che è possibile farli derivare da caratteristiche che riscontriamo come frutto della legge naturale, e quindi nascono dalle virtù acquisite.

23! Credo che in fondo questo concetto aiuti a spiegare alcuni aspetti di S Th I Il 109, centrale per il rapporto tra grazia e virtù: la felicità, anche quella imperfetta, è un fine possibile per il soggetto in forza dell’azione della grazia sulle virtù.

384

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

che mutano la concezione di giustizia. Questa trasformazione è secondo le affermazioni della Porter «a way in which distinctively Christian ideals and beliefs can be said to inform che development of a natural law ethic in Cristian context».23?

Dunque la giustizia è inerente alla socialità come componente naturale, ma il comandamento dell'amore le offre una origine e motivazione che fonda e sorpassa la prima. Le affermazioni appena fatte possono essere ampliate guardando al rapporto fra grazia e legge naturale. Siamo di fronte ad una prospettiva dove: — da unlato possiamo pensare un indirizzo della morale sostenuto dalla grazia; — dall’altro la legge naturale può essere compresa come legge naturale in “contesto” cristiano e dunque etica teologica. Legge naturale e realtà della vita cristiana sono intrinsecamente legate.

In fondo significa che la legge naturale avrà una razionalità che si amplia per la proposta cristiana.?33 1.5. Principi della giustizia come virtù infusa 1.5.1. Principi di carità La giustizia come virtù infusa può essere pensata secondo due modalità differenti, come già rilevato: una intenzione generale al fine ultimo a motivo della carità, oppure un cambiamento dei principi che la determinano e delle azioni paradigmatiche che la esprimono. In questo secondo caso la carità agisce sulla giustizia trasformando i principi e le azioni paradigmatiche. Tentare di individuare questi principi che indirizzano la carità significa voler formulare delle massime per la stessa che sono analoghe a quelle della giustizia.?5 L’analisi delle quaestiones che seguono ha propriamente questo scopo perché i principi di carità indirizzeranno, in questo caso, la giustizia come virtù infusa.?5°

23 J. PORTER, Nature as reason, 390.

233 Il “contesto cristiano” per la virtù della giustizia significa approfondire ed esemplificare la tematica del dono. Cfr. infra cap. 4, d) 1.5.4.

234 Non è sufficiente riconoscere dei principi di carità: è necessario precisare quella serie di azioni che sono proprie alla carità. Infatti in generale una virtù può essere espressa da una serie di azioni paradigmatiche della medesima e che in questo caso permettono di identificare la carità. 23 Non va dimenticato però che la carità ha un termine di riferimento unico: quello dell'amicizia con Dio. Questa rimane la caratteristica principale della trasformazione della

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Le soluzioni alle difficoltà che sono presenti in $ Th II II 25, 1 precisano innanzitutto cosa si deve distinguere nella carità. In particolare S ‘Th Il Il 25,1 ad 1 sottolinea che la carità non può essere un amore interessato, cioè un amore fondato sulla paura o sulla cupidigia, e dunque esclude tutte quelle forme di amore che sono condizionate in fondo dalla non libertà del soggetto e dai condizionamenti esterni.? L’articolo successivo S Th II II 25, 2 sottolinea il fatto che la carità, come amore di amicizia, si contraddistingue primariamente per amare il destinata-

rio dell'amore medesimo e di volere il suo bene. La qualità di quest'amore è il bene proprio dei soggetti che vengono amati: bene che si desidera per quelli che sono amati. Un bene oggettivo — oggettivato.?? La quaestio 27 di Secunda secundae indaga sull’atto principale della carità, cioè l’amore: amore rivolto a Dio, a se stessi e agli altri. Quest'ultimo per la

gloria di Dio stesso. i In particolare S Th II II 27, pro/ afferma che l’atto principale della carità è l’amore (dilectio).

Precisamente l’articolo che meglio definisce una serie di principi per la carità è S Th II II 27,2. In esso si indica il fatto che la carità si esprime con

la benevolenza: volere il bene proprio dell’altro. Il principio, o criterio, delle azioni che individuiamo come espressione della carità è il voler bene all’altro: la benevolenza. Quest'ultima però non si identifica totalmente con la carità, essa è un principio della stessa, ma non in maniera esclusiva. 258 La benevolenza non presenta il legame affettivo che è implicato, ricorda questo articolo, sia in un amore intellettivo, il bene voluto per un giudizio della ragione, ed ancor più in un amore passionale. giustizia infusa. Questi paragrafi vanno integrati con quelli precedenti su questo tema: cfr. supra cap. 4, c) 1.7.

256 In S Th II II 25, 2 ad 2 l’amore di carità si riferisce ad una bontà comune ed ha la sua sorgente in Dio: «Amiamo con lo stesso amore di carità tutti i nostri prossimi in quanto si riferiscono ad un unico bene comune che è Dio». Questo concetto è stato precisato in prece-

denza con il tema della “communicatio”. Ricordo come detto che in tutto l’articolo 1 di S Th Il Il 25 l'elemento fondante dell’amofe di carità, nel riguardo del soggetto, è che appartiene alla sfera dell'amore di Dio. Come già espresso proprio S Th II Il 25, 1 afferma che «la specie di un atto viene desunta dalla ragione formale dell’oggetto». Si tratta di dire quello che un atto significa: in questo caso la ragione formale dell’amore del prossimo è Dio. 27 Come accade per la giustizia, le dimensioni riguardanti elementi passionali della carità hanno come motivazione il bene autentico che inerisce ai soggetti e sono una sorta di risultanza di questo bene. 238 Tommaso ricorda, nel “sed contra” di questo articolo, che per Aristotele la benevolenza è uno dei principi dell’amicizia.

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA La sorpresa è nel fatto che Tommaso ribadisce come la carità preveda invece questo legame affettivo. Essa comprende anche un legame di affetto che viene esplicitato perché «chi ama considera la persona amata come un'unica cosa con se stesso, o una

cosa che gli appartiene, e così si muove verso di essa [...] nell'amore di carità è inclusa la benevolenza, ma l’amore vi aggiunge un legame di affetto».?9?

Alla benevolenza si associa dunque un desiderare un'unione con la persona amata e nel caso della carità principalmente con Dio ma anche con gli altri e con se stessi. Sono necessarie due precisazioni. La prima il fatto che l’affetto è distinto da una dimensione passionale. Tommaso

ricorda che l’amore risiede sia nell’appetito passionale, ma anche

in quello intellettivo. Per il primo l’affetto è una componente fondamentale perché il legame con l’“oggetto” amato è la definizione stessa della passione. Anche nell’amore intellettivo però il legame con l’oggetto amato è presente. Si ama un oggetto perché il legame con lui esprime un bene razionale; si comprende che quella relazione di amore realizza le dimensioni umane proprie del soggetto.?*° Un ulteriore chiarimento riguarda l’intensità di questo affetto. S Th II II 26,2 e S Th II II 26, 6 ricordano che anche affettivamente vi è una distinzione tra il prossimo ed innanzitutto Dio, ma anche tra i prossimi alcuni vanno

amati più di altri. L’amicizia con Dio fonda l’amicizia con il prossimo perché è una partecipazione comune dei soggetti alla prima. Voglio qui evidenziare che se si esprimono dei gradi di questa dimensione affettiva significa che essa è comunque presente anche verso soggetti maggiormente lontani, anche se in misura inferiore, e che, usando il linguaggio di Tommaso, se l’affetto della carità è più forte verso quelli a cui si deve un bene maggiore — Dio, il padre, i congiunti e simili — non per questo esso scompare in relazione al prossimo in

senso generale. In sintesi la carità è determinata dalla benevolenza ma anche da un affetto per l'oggetto amato. In particolare la prima può anche essere espressa dalla massima: «Volere il bene proprio dell’altro».

volere tendente al 239 S Th II II 27,2. Inoltre S Th II II 27,2 ad 2: «L'amore è un atto del

nella benevobene, connesso però con una certa unione con la cosa amata: questo invece

lenza non è incluso». Dr 7 cosa con se stesso, 240 Cfr. STh II I 27,2: «Chi ama considera la persona amata un'unica

o come qualcosa che gli appartiene e così si muove verso di essa».

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

1.5.2. Giustizia infusa in base alla benevolenza e all'affetto Le analisi fatte finora permettono di individuare nella benevolenza un princi pio guida della carità. La trasformazione della giustizia come virtù infusa sarà fondata su questo principio. In realtà anche la giustizia acquisita possiede un certo orientamento al bene dell’altro; essa è infatti la virtù che indirizza la volontà del soggetto verso questo bene. La benevolenza presenta dunque una sorta di similitudine con le ragioni più profonde della giustizia e si può affermare che i principi guida delle due virtù hanno una radice comune.” La carità però presenta anche un aspetto che non si trova nella giustizia e che può essere sintetizzato nell’unione del legame di affetto: è un amore che comporta l’affetto. Poiché però la carità riguarda la volizione razionale e non gli stati passionali, sarà la volontà che tende verso questa unione.?*? Benevolenza e legame di affetto sono i principi legati alla carità che trasformano la giustizia come virtù infusa.

Mi pare che si possa sostenere che nella giustizia infusa la carità fa crescere la relazione con l’altro: la rende di una qualità differente. Questa osservazione spiega che cosa cambia la carità nella giustizia. Proprio perché toccato dalla carità il legame con l’altro sarà maggiormente solido: un rapporto che comporta un certo grado di unione più forte. La giustizia come virtù infusa non comporterà solo un cambiamento nei fini, indirizzata all'amore di Dio, ma un radicamento più profondo con il soggetto verso cui la giustizia produce la sua azione.?5 I principi — presi nella loro definizione formale — non sembrano essere determinati dalla dimensione teologale, potrebbero apparire come determinazioni della sola razionalità. È tuttavia proprio quest'ultima che ha nuove modalità in seguito all’azione della carità, come viene esplicitato nel paragrafo successivo descrivendo il principio di gratuità. Rilevo infine che se il principio di non maleficenza guida in generale la giustizia, la benevolenza sarà in fondo un principio simmetrico, ma di segno . , DR . h È . BLEC 241 Inoltre questo concetto può spiegare perché la carità si esprime attraverso la giustizia. Entrambe vogliono realizzare il bene dell’altro, sono orientate alle necessità del prossimo e dunque esiste una radice comune che porta meglio a comprendere una vicinanza più che una divisione tra le due virtù. 242 Il legame di affetto che caratterizzerà la giustizia infusa sarà un legame intellettivo: fondato su delle motivazioni razionali. a Questa intensità i ità dell’uni Il’altro h ha una gradualità, dualità come detto in i precedenza. dell'unione all’altro GteNSe Mi HIl2.66)

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA opposto, rispetto ad esso. Il primo espresso in termini negativi, non fare del

male all’altro, il secondo invece con una valenza positiva: fare all’altro il bene proprio.?4*

La giustizia come virtù infusa avrà una qualità che è più complessa e richiederà uno sforzo razionale più profondo, poiché realizzare la benevolenza non ha il limite minimale che invece caratterizza la non maleficenza. 1.5.3. Giustizia infusa, atti supererogatori e principio di gratuità

In questo paragrafo cerco di delineare, a partire dall’analisi delle azioni proprie della carità, come sia possibile elaborare ulteriormente dei principi che nascono dall’analisi di queste azioni e che valgono per la carità e conseguentemente per la giustizia. Come le virtù in genere, la carità comporta delle azioni che esprimono direttamente le sue caratteristiche ed in particolare l’amore a Dio ed al prossimo: la carità ha una serie di azioni notevoli che la specificano.?* Tommaso le indica come effetti esteriori della carità. In particolare sono tre: la beneficenza, l’elemosina e la correzione fraterna. Queste sono i modi di agire — le azioni esemplari — che scaturiscono dalla carità. Il fatto che vengano indicate solamente queste azioni e non altre ne segnala il valore paradigmatico più che quello esaustivo. Una di queste azioni è la beneficenza: essa possiede lo stesso oggetto formale della carità.?‘° Essa consiste nel fare del bene ad un soggetto ed è un atto che esprime l’amore di amicizia. La beneficenza è un atto della carità perché è un'azione dettata da una virtù teologale che scaturisce dall’azione della grazia. In S Th II II 31,1 ad 3 si precisa che oggetto dell’azione di giustizia è il dovuto, mentre nella beneficenza l’oggetto è il bene che si vuole realizzare per il soggetto che gode dell’azione di beneficenza. Mi sembra che questa distinzione possa indicare caratteristiche diverse della carità rispetto alla giustizia perché la beneficenza va oltre il criterio di equità. La giustizia riguarda il bene dovuto; il bene di carità, espresso dalla di azioni 244 Per certi aspetti la benevolenza, fare il bene, è caratterizzata da una serie

in con una potenzialità quasi infinita, mentre il principio di non maleficenza è più limitato delle categoriale zione determina la per quanto è una astensione dal fare il male. Tuttavia anche azioni che esprimono il non fare il male è necessaria l’opera della prudenza. Dunque attività. ed azioni di gamma l’astensione dal male si esprime attraverso una vasta 245 Cfr. J. PoRTER, Nature as reason, 199.

ratronem 246 S Th II II 31,4. Questo oggetto è la ragione universale di bene (communem

va confusa con l'elemosina. boni). Inoltre ricordo che la beneficenza, bene per l’altro, non >

EG

339

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

beneficenza, è qualcosa di maggiore rispetto al bene dovuto. La beneficenza mette in luce che la carità, pur condividendo con la giustizia l'orientamento per l’altro (24 a/terum), possiede una forma razionale che è in parte diversa da quella che vale per la giustizia: il criterio che guiderà la carità sarà in questo caso il supererogatorio ovvero l’atto gratuito che va oltre il dovuto. In questo caso il principio, che esprime la trasformazione dei criteri che guidano la giustizia per l’opera della carità, determina le caratteristiche della giustizia come virtù infusa. Il principio permette di individuare degli atti supererogatori che sono quelli oltre il dovuto, ad esempio della legge, oppure oltre il dovuto che normalmente richiede il principio di equità. Tento di esprimere questo principio del supererogatorio con una massima: “dare all’altro non solo quello che gli è dovuto ma quello che necessita per il bene autentico”. Questo criterio appena espresso può essere identificato anche come principio di gratuità.” Questo principio individua alcune azioni paradigmatiche che permettono di precisarne la natura. Un primo esempio di una serie di atti caratterizzati dal supererogatorio riguarda le dimensioni relazionali che sempre accompagnano il dovuto della giustizia.?‘8 A partire dal concetto di beni relazionali, che nascono dalle rifles-

sioni sia in campo economico che sociale, si evidenzia che alla caratteristica del dovuto della giustizia, ad esempio nel caso di una prestazione doverosa di un soggetto nei confronti di un altro, si aggiunge una dimensione relazionale che dipende dalle modalità di interazione con gli altri. In questo caso è la relazione positiva in sé che significa un bene che caratterizza la giustizia. Un esempio è quello delle attività professionali o educative dove il dovuto della prestazione — quello che comporta quella attività — non può essere separato da un gratuito che è rappresentato dalla relazione positiva tra soggetti. Un'ulteriore specificazione riguarda tutti gli atti ordinari che elevano l’altro ad una condizione migliore e che non sono strettamente a lui dovuti. Ad esempio quando un'impresa oppure un'istituzione decide di promuovere dimensioni culturali o artistiche che beneficiano una pluralità di soggetti senza essere strettamente obbligata a questa azione. Un altro aspetto, in parte differente, che caratterizza il supererogatorio è l’atto eroico. Ad esempio salvare una vita in pericolo fa parte delle azioni di

27 Cfr. infra cap. 4, d) 1.5.4. che analizza l’espressione del medesimo nella Caritas în Veritate di Benedetto XVI. 8 Cfr. L. BRUNI - S. ZAMAGNI, Economia civile: efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004, 271-276.

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

beneficenza e dunque della carità. Naturalmente in questo caso il principio di gratuità è evidente. Questi atti sono talvolta anche irrazionali quando difficilmente si riesce a raggiungere il bene che si intende raggiungere compiendoli, ad esempio salvare una vita senza i mezzi opportuni per farlo. In ogni caso suscitano ammirazione da parte di chi li osserva perché l’atto di beneficenza è così intenso che produce da sé ammirazione per la carità che esprime.?99 Tommaso ricorda ancora due tipi di categorie di azioni che sono direttamente atti della carità. Il primo è l’elemosina. Secondo S Th II II 32,1 essa è un atto di carità perché deriva dalla misericordia che è carità. Il secondo la correziofie fraterna, specificata in S Th II II 33, perché manifesta l’amore per il prossimo. Infatti quando un soggetto si allontana dal bene

autentico la correzione fraterna vuole impedire che il medesimo si faccia del male, prospettiva che non è ovvia al di fuori dell’indirizzo della carità.?°

Le caratteristiche di beneficienza, elemosina e correzione fraterna, che scaturiscono direttamente dalla carità, sono le stesse caratteristiche che contraddistinguono la giustizia come virtù infusa. Esse consentono di individuare

un principio come quello di gratuità che definisce la virtù infusa di giustizia. Un'ultima considerazione vede beneficenza, elemosina, correzione fraterna

originate da delle disposizioni che in apparenza presenterebbero aspetti che non necessitano della carità, ed inoltre dal solo punto di vista fattuale, este-

riore, queste azioni sembrano uguali a quelle senza la presenza della carità. In realtà queste tre azioni paradigmatiche senza l'apporto della carità non sono le stesse azioni: il loro significato viene trasformato perché viene cambiata

la forma dell’atto stesso. Esse derivano direttamente dalla carità e la esprimono: il fine che le indirizza è il fine della carità. Queste azioni sono scelte e poste in atto dal soggetto perché la carità è l'intenzione originante: senza di

essa siamo in presenza di azioni la cui natura è completamente differente.??! 249 In questi esempi non è direttamente implicata la virtù infusa di giustizia ma solo il principio che permette di identificarla. In alcune situazioni la giustizia acquisita è insufticiente per raggiungere un bene autentico e necessita di un atto supererogatorio. Quest'ultimo però non è legato direttamente alla giustizia infusa in quanto non vi è la presenza esplicita della carità. Per individuare una giustizia infusa occorre che la dimensione cristiana e teologica, espressa dalla carità, sia la fonte del supererogatorio. Segnalo infine che da queste considerazioni emerge una problematica che non è stata approfondita ulteriormente in questo studio riguardante la presenza implicita o atematica della carità — e della grazia —

nell’agire del soggetto. 250 Non mi soffermo nell’analisi dettagliata di questi due atti di carità. 21 Ad esempio S Th 32,1 ad 1 che riporto interamente anche per il confronto con la

391

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Queste considerazioni sul cambiamento del solo fine ultimo o dei fini intermedi valgono anche, in senso generale, per la virtù infusa di giustizia. In molti casi le azioni virtuose che nascono dalla giustizia infusa sono equiparate a quelle che derivano dalla giustizia acquisita. Anche per queste eccellenze vir-

tuose varrebbe l’obiezione che potrebbero essere atti che non sono diversi tra le due specificazioni di giustizia. Invece la presenza della carità, dirigersi al fine ultimo in risposta all'amore di Dio preveniente quale cambiamento dell’intenzione originante la giustizia, pone in essere un atto formalmente diverso.??? 1.5.4. Il principio di gratuità nella Caritas in Veritate

Per dare testimonianza di come la virtù infusa di giustizia indirizzi i soggetti in modo pratico, e rispetto alle diverse espressioni che le virtù assumono in contesti culturali differenti, è utile considerare il legame tra giustizia e realtà

economica. Questo contesto permette di verificare come i principi che regolano la giustizia infusa si traducano in alcune espressioni della vita economica che non sono riduttivamente legate alla sola giustizia.

In particolare mi sembrano pertinenti le idee che la Caritas in Veritate di Benedetto XVI propone sulla tematica del dono. In quest'enciclica, ad esempio, il numero 34 sottolinea l’idea che l’essere umano è fatto per il dono. Inoltre ribadisce il legame tra carità e giustizia. La carità trasforma la giustizia nell’eccedenza del dono.” La caratteristica propria dell’enciclica è collocare questa gratuità come costitutiva della giustizia. In una visione maggior-

giustizia: «Un atto può appartenere a una virtù in due maniere. Primo, materialmente: come è un atto di giustizia far cose giuste. E codesto atto può essere senza la virtù: molti infatti,

spinti dalla ragione naturale, dal timore o dalla speranza di acquistare qualche cosa, compiono cose giuste, senza avere l’abito della giustizia. Secondo, un fatto può essere un’azione virtuosa formalmente: un atto di giustizia, p. es., è in questo senso l’azione giusta compiuta come la compie il giusto, cioè con prontezza e con gioia. E in questo senso un atto di virtù

non può sussistere senza la virtù. — Perciò dare l’elemosina materialmente può sussistere senza la carità: ma fare l’elemosina formalmente, cioè per amor di Dio, con prontezza e con

tutte le altre doti necessarie, non può concepirsi senza la carità». °° La giustizia infusa in molti casi, come affermato in precedenza nel paragrafo, non ha solo un fine ultimo diverso, orientata all'amicizia con Dio, ma è guidata da un ampliamento dei principi che la conducono al fine parziale: la giustizia vede una trasformazione del principio di equità che si esprime nel principio del supererogatorio. 25 BeneDETTO

XVI, Lettera enciclica Caritas in Veritate, Libreria Editrice Vaticana,

Roma 2009. 24 Nel testo non si usa il linguaggio classico delle virtù, non vi è esplicitata l’espressione “virtù infusa”. Tuttavia, come segnalato, il tema dell’arricchimento della giustizia attraverso la carità esprime propriamente questa dimensione.

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

mente tradizionale la carità, in particolare nella valenza dell'amore del prossimo, è vista come complementare alla giustizia: essa è utile per lo svolgimento della vita sociale ma non può essere richiesta come una componente propria delle strutture sociali.?? Nell’enciclica si ribadisce invece che la giustizia, da sola ed in particolare nella valenza commutativa, non è in grado di assicurare la fraternità umana. A questo proposito al numero 37 della Caritas în Veritate si sottolinea come l’intero processo economico deve rispettare i criteri di giustizia e lo spirito del

dono deve essere una componente: dello stesso processo. Il dono non è una caratteristica che si aggiunge dall’esterno, ma rientra nella genesi della giustizia. Viene ricordato che se l’economia, in particolare nella dimensione globalizzata, privilegia lo scambio, che ha la sua origine nel concetto di giustizia commutativa, lo spirito del dono è una componente ugualmente necessaria della dimensione economica. La dinamica del dono può essere espressa nella gratuità. L’enciclica ricorda che «mentre ieri si poteva ritenere che prima bisognasse perseguire la giustizia e che la gratuità intervenisse dopo come un complemento, oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia».??9

La dimensione del dono si esprime in un principio che viene individuato nel principio di gratuità, anche se il testo non si sofferma particolarmente

nella definizione dello stesso.??” Come

osserva S. Zamagni, nell’enciclica la gratuità viene messa in rela-

zione anche con la reciprocità. In quest'ultima la dimensione dello scam-

bio può essere presente ma non è racchiusa a priori in un accordo previo.

Quest'ultimo riguarderebbe le dimensioni quantitative espresse solitamente da un prezzo per un bene. Neanche si prevede un’obbligazione del ricambiare a carico di chi riceve qualcosa. La gratuità dunque può essere compresa come reciprocità ma sempre nasce da un atto gratuito del soggetto che per primo dona qualcosa. Quali tipi di realizzazioni esprimono, nella sfera economica, i legami tra giustizia e gratuità?

in Carità Globale. 255 E. VioLA, Non c'è carità senza giustizia, non c'è giustizia senza carità, Commento alla Caritas in Veritate, AVE, Roma 2009, 67. 256 BenEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in Veritate, n. 38.

gatori come bene 27 Ho definito il principio di gratuità che scaturisce dagli atti superero

v che eccede quello solo regolato dall’equità. Verità. e Amore in in Veritate, 258 S. ZAMAGNI, Fraternità, dono, reciprocità nella Caritas

Paoline, Roma 2009, 76. Commento e guida alla lettura dell’enciclica Caritas in Veritate,

090

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

In proposito la Caritas in Veritate ricorda che l’impresa privata non è l’unico soggetto della vita economica. La gratuità viene espressa soprattutto dalle organizzazioni produttive che manifestano fini mutualistici e sociali. Un’interazione delle due forme di attività conduce a mettere in atto dei processi dove il profitto economico non è l’unica motivazione per l’attività d’impresa, ma essa si esercita per delle finalità di promozione dei soggetti e di tutela delle componenti dell'ambiente sociale ed umano in cui avviene questa stessa attività.

Un altro esempio che offre il documento, al numero 39, è la questione del sottosviluppo. Essa riguarda quelle nazioni che non godono ancora di una sufficienza di beni e servizi per garantire una dignità di vita ai loro cittadini. In questo caso la dimensione economica, per realizzare il bene, deve essere caratterizzata dalla gratuità e dalla comunione: lo scambio di mercato, guidato dal principio di equità, è insufficiente per un bene condiviso e umanizzante se il concetto di giustizia non si arricchisce del principio di gratuità. Si prospettano così interventi e realizzazioni economiche che sono giuste anche se non prospettano in cambio, ad esempio, un ritorno in termini di investimenti e

di profitti. Mi sembra che il punto centrale di queste affermazioni sulla gratuità nasca dal fatto che il dono, anche se non vuole essere ricambiato come visto in precedenza, è comunque fonte generativa di processi relazionali. Il dono ed il gratuito diventano una forma di scambio, in particolare relazionale, in cui tuttavia non vi è un'equivalenza prestabilita e dove spesso è presente un differimento anche temporale che rende questa equivalenza non simmetrica. S. Zamagni ricorda: «I beni di giustizia sono quelli che nascono da un dovere; i beni di gratuità sono quelli che nascono da una o/fligatio. Sono beni cioè che nascono dal riconoscimento che io sono legato ad un altro, che in un certo senso, è parte costitutiva di me».??

Inoltre questo autore ribadisce che se la giustizia è una virtù etica, la gratuità riguarda una dimensione sovra-etica dell'agire umano la cui logica è l'abbondanza. Il discorso sulla giustizia infusa permette di esprimete anche teologicamente questa dimensione che riguarda la gratuità. È la carità stessa che permette la logica del gratuito ed in questo senso si può affermare la qualità sovra-etica ricordata da Zamagni.

299 Tv; 90,

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

Sulla questione del gratuito, in aggiunta, sono utili le considerazioni della Porter che precisano la contestualizzazione della giustizia. Se la legge natu-

rale e le virtù corrispondenti necessitano sempre di un'espressione culturale significa che il principio di equità viene declinato con dei parametri che non sono esclusivamente quelli economici, quali la redditività o il profitto, ma con dei parametri maggiormente sociali e di tutela dei soggetti. Questi parametri sono propri, anche se non esclusivi, del contesto cristiano. Mi sembra che

si possa affermare che appartiene alla giustizia il fatto che se il soggetto non riesce ad attendere ad una corrispondenza che rispetti un’equità strettamente economica debba beneficiare di una giustizia basata sui parametri di cura ed attenzione che sono necessari di fronte ad esempio a condizioni di svantaggio

e che possono essere espressi dal principio di gratuità. Questo tipo di visione della giustizia è frutto distintivo della carità e della grazia, anche se non in modo esclusivo, o detto altrimenti si afferma primariamente in un contesto — almeno ideale — cristiano.

In conclusione la virtù infusa di giustizia è guidata dal principio di gratuità che permette di dire quella componente di oltre il dovuto che il principio di equità non è in grado di esprimere. La giustizia in quanto virtù acquisita regola necessariamente l’attività eco-

nomica perché non si può concepire un'attività economica ideale che non rispetti i principi di giustizia, perché in caso contrario sarebbe sempre un'attività che rappresenta un male morale. Essa rimane comunque insufficiente per raggiungere aspetti di benevolenza e di affetto come quelli descritti in precedenza; benevolenza ed affetto che derivano dalla carità. Le riflessioni sul dono, che implicano la giustizia infusa, acquisiscono come motivazioni proprio questi aspetti.

Se infatti il bene dell’altro è un bene vitale, in mancanza del quale il bene proprio del soggetto viene a mancare, la modalità del dono può essere l’unico strumento, in alcuni casi, per sopperire a questa mancanza. Un esempio con-

creto può essere quello della carenza di risorse vitali per il benessere di un paese. La giustizia commutativa richiede una restituzione delle risorse date in prestito in base a degli accordi stipulati tra stati debitori e creditori. Tuttavia e, impequando le condizioni strutturali, o quelle legate ad alcune circostanz

come discono la restituzione stessa scaturisce la logica del dono. La giustizia te virtù infusa permette più facilmente di giungere a considerare la componen se insedel dono come propria della virtù. In fondo la dimensione economica logiche che rita nella tradizione cristiana può essere compresa al di fuori delle 395

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

la guidano, in particolare determinate dal solo scambio equo raggiunto in via contrattualistica. L'espressione della giustizia come dono viene favorita dal contesto culturale in cui si dà spazio alla presenza della carità. In fondo le virtù infuse necessitano di un contesto che permetta loro di essere accessibili alla comprensione e alla fruizione dei soggetti. Quando lo spazio del dono è impedito da una tradizione che impone l'eguaglianza come unica modalità di espressione della giustizia non possiamo immaginare nessun arricchimento della stessa da parte

della carità. Ricordo infine che con l’idea di giustizia infusa abbiamo molto di più che un tipo di cultura in cui prende corpo una certa modalità di espressione delle virtù e della legge naturale. Avere presente l’azione della carità sulla giustizia significa che la giustizia infusa e le azioni che scaturiscono da essa diventano una risultanza non solo dell'ambiente culturale — anche se una componente dell’azione della carità stessa è la valenza della comunità cristiana — ma un arricchimento del soggetto che si compie attraverso la grazia di Dio stesso. Le virtù infuse non sono qualcosa che i soggetti sono in grado di acquisire in senso stretto, ma sono esse stesse un dono che i medesimi da soli non si possono dare.

1.6. Carattere teologico della giustizia infusa Ritorno su un ultimo aspetto che riguarda la giustizia come virtù infusa che sorge dalla natura teologica della carità, forse il cambiamento di maggior peso sulla stessa. Innanzitutto il cambiamento nella relazione con il prossimo. La carità come amicizia con Dio propone due aspetti a questo proposito che vanno indagati e precisati.?°° Essi sono:

— amare gli altri perché questo amore è fondato sulla partecipazione comune all’amore di Dio;? — amare gli altri come Dio li ama. La carità guarda alla persona in maniera più profonda: l’amare gli altri che nasce dall’amore di Dio dona una prospettiva diversa e più intensa al modo umano di amare. LI

290 Inoltre analizzare la carità da questo punto di vista comporta un discernimento razionale e teologico: occorre capire chi è Dio, che cosa significa che Egli ami uomini e donne, e simili questioni dell’antropologia teologica. Alla fine sarà guardare in un certo modo alla natura umana, modo che sarà molto più complesso che la sola prospettiva naturale, anzi la prospettiva umana sarà comprendere l'umano a partire dalla fede in Dio. 20! E il concetto di “communicatio”. Cfr. supra cap. 4, c) 1.3.

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

In particolare S Th II II 25,8 ricorda che la motivazione all’amare il pros-

simo è Dio stesso perché nel prossimo, come si afferma nel testo, dobbiamo amare il suo inserimento in Dio. La carità, che guida la concezione di giusti-

zia come virtù infusa, a partire da questi due punti trasforma la giustizia perché rende più intensa l’attenzione e l’amore per l’altro.

La carità indirizza la giustizia nel senso di una maggior attenzione all’eguaglianza tra soggetti. L'esercizio della giustizia non deve solo comprendere

le persone che son legate da una obbligazione, ma deve includere tutti coloro che possono godere di un diritto di uguaglianza dovuta loro perché soggetti raggiunti dall’eguale amore di Dio. Questa acquisizione deriva non solo dalla prospettiva della legge naturale ma dall’arricchimento teologico. La dimen-

sione della socialità che è presente nelle inclinazioni umane e che viene poi espressa attraverso la ricerca razionale delle forme di espressione della medesima, dove è il legame tra questi due aspetti che sintetizza la legge naturale,

riceve una pienezza ulteriore nella esplicitazione del quadro teologale in cui si inserisce.” La giustizia come virtù infusa viene indirizzata dalla carità ad aprirsi all’alterità, non solamente nel senso di una comunione

umana

che vuole essere

pienezza dell’inclinazione alla socialità, ma grazie all'unione sovrannaturale come espresso in S Th II II 25,8.

La carità nella sua dimensione teologale propone infine un ulteriore significato che riguarda la giustizia infusa. L'aspetto dell'unione con Dio, che si esprime nella carità, impedisce che il soggetto si indirizzi ad altri fini. La carità trattiene il soggetto dall’allontanarsi dal bene profondo per dirigersi verso beni apparenti: questa situazione può accadere in particolare per la giu-

stizia perché ad essa possono facilmente essere preferiti dei beni che sono più

facili a conseguirsi.

L'amicizia con Dio, la carità, rende più stabile il permanere nella giustizia perché impedisce al soggetto di distogliersi dall’intenzionalità alla stessa sostituendola con altri beni.?°

26 J. PoRTER, Nature as reason, 393.

” (framework) 26 La Porter vede la struttura teologale cristiana come una delle “strutture

to cambia in cui si declina la legge naturale stessa. Il diverso quadro culturale di riferimen composono che virtù le ntemente l’espressione della legge naturale stessa e quindi consegue nno assumera naturale, legge dalla espresso nenti della legge naturale, dell'ordine razionale modalità differenti.

24 Cfr. S'IhIII 109,8.

DIR

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

1.7. Giustizia infusa nella prospettiva del soggetto Lo studio delle virtù infuse necessita ancora di precisare come questa trasformazione avviene nel soggetto, meglio come possono coesistere una giu-

stizia acquisita ed una infusa. Questa possibilità è prevista nell’impostazione maggiormente classica sulle virtù che individua la presenza contemporanea di virtù acquisite ed infuse, giustizia come virtù infusa ed acquisita. Una realtà che riguarda il soggetto sia arricchito dalla grazia, dalla carità, che dall’habitus della giustizia. Entrambe nel loro complesso permettono un indirizzo razionale al bene.?® Mi sembra che l’utilità di questa distinzione permetta di ragionare sugli effetti dei due tipi di virtù nel realizzare il bene. Nella realtà del soggetto questa distinzione è maggiormente difficile vista l’unità della persona toccata dalla grazia. Le riflessioni che seguono mantengono la distinzione segnalata in precedenza perché permettono di puntualizzare la giustizia come virtù infusa osservandola a partire dal soggetto che possiede questa virtù e contemporaneamente di rilevare dei caratteri della stessa quando invece non è presente l’apporto della carità. Poiché è la potenza operativa che viene influenzata dalla virtù e non viceversa abbiamo il caso della simultaneità di virtù infuse e acquisite innanzitutto nel sostrato delle medesime. Infatti il “soggetto” dell’abito infuso e dell’abito acquisito è sempre la stessa potenza naturale, nel caso della giustizia

la volontà.?°° In pratica la potenza naturale che già era soggetta alla forza della virtù acquisita, ora è anche soggetta a quella infusa.

La virtù infusa è la causa formale dell’atto prodotto. Sia il bene naturale che quello sovrannaturale possono rappresentare il bene del soggetto, la volontà si indirizza a entrambi: detto altrimenti «l’oggetto adeguato della volontà è il bene universale, sia come bene naturale che come bene sovrannaturale».?9? °© Questo paragrafo è ispirato al lavoro classico di G. Bullet. La maggior difficoltà di quest’approccio è nel vedere nello stesso soggetto due modalità differenti di espressione della giustizia che non portino ad una separazione del piano naturale e sovrannaturale. 266 G. BULLET, Vertus, 146.

2 Mi sembra che questo discorso indichi un’unitarietà tra il bene naturale e sovrannaturale. Questi fini sono ordinati al bene articolato e complesso del soggetto. Quest'ultimo comprenderà adeguati a lui una serie di beni “naturali” ed allo stesso modo comprenderà come adeguati dei beni sovrannaturali. Il dirigersi della volontà — dell’intelletto e delle passioni — non sarà solo un dirigersi razionalmente, ma un dirigersi razionalmente che si arricchisce dell’apporto specifico cristiano, cioè della grazia.

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CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

L'oggetto della virtù acquisita è ricompreso nell’oggetto della virtù infusa. La facoltà operativa non è indirizzata in due maniere differenti, ma è ricom-

presa in un'unitarietà di fini ordinati uno all’altro.?88 Giustizia acquisita e giustizia infusa si esercitano simultaneamente in modo che quella acquisita è subordinata a quella infusa come disposizione favorevole. Un esempio che riporta Bullet può favorire la comprensione: nel suonare il piano le dita sono allenate, la ripetizione dell’esercizio favorisce questo modo di suonare, ma questo non sostituisce l'intelligenza musicale dell’artista e la musica che lo pregede.?°° Con una analogia, rispetto all'esempio presentato, si può affermare che la giustizia acquisita possiede la funzione di causa materiale — strumentale — per quella infusa. Infine segnalo come Tommaso stesso in S Th I II 92,1 ad 1 ribadisce che sia sulle virtù infuse che su quelle acquisite influisce un consuetudine all’operare la giustizia, l’abitudine alla medesima. Per le virtù acquisite è la causa del generarsi del habitus. Invece essa dispone alle virtù infuse, conservandole e accrescendole, se uno già le possiede. 1.8. Natura e grazia rispetto alla giustizia

Una delle risultanze che voglio evidenziare dopo aver analizzato nel dettaglio la giustizia come virtù infusa rimanda alla giustizia acquisita.??° Una prima considerazione riguarda il fatto che il confronto ed il raggiungimento della giustizia tra due soggetti — uno solo o entrambi — che non godono

della presenza della giustizia infusa avviene attraverso le caratteristiche della

giustizia acquisita.

Un secondo aspetto nota che il legame tra giustizia infusa ed acquisita è

sempre intenso perché la natura è la base su cui si innesta la grazia e nello specifico perché le inclinazioni naturali, l’inclinazione alla socialità che viene rea-

lizzata attraverso la virtù giustizia, fanno parte delle strutture fondamentali del soggetto che gli permettono di raggiungere il suo fine autentico.

Solo il soggetto umano può essere elevato dalla grazia stessa: le capacità

sono di conoscenza e di guida razionale a partire dalle inclinazioni naturali

non è eterogeneo, 26 Come considerazione aggiuntiva è il fatto che il fine naturale o. medesim al nato subordi rispetto al fine ultimo sovrannaturale, ma 269 Ivi, 148. rapporto tra natura e gra270 Ricordo che a monte di questa questione è il problema del che riguarda il tema quello per solo affronto che e zia, che necessiterebbe di altra attenzione presentato.

999

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

quelle capacità che permettono alla grazia di incontrare un sostrato su cui operancizi La presenza della carità tocca il soggetto nelle sue qualità umane: la carità che diventa giustizia infusa opera su di un soggetto che è capace, ad esempio, di indirizzarsi, in modo intellettivo ed appetitivo, al bene. Solo il soggetto che,

almeno potenzialmente, può essere giusto, ricevendo ed accogliendo la grazia ha la capacità di essere caritatevole e conseguentemente può essere arricchito nella volontà dalla giustizia infusa. Nei paragrafi precedenti è stato ampiamente indagato il modo in cui la carità trasforma la concezione della giustizia. Di fronte a questa trasformazione rimane la domanda in merito al perdurare della giustizia come virtù acquisita.?”? Questa domanda ne apre un’altra: se la proposta della giustizia come virtù acquisita si radichi su un determinato fondamento che comunque non viene cambiato neanche dalla grazia e dalla carità. Da un lato è un tema che è già stato trattato con il discorso dei principi di giustizia che regolano, in certe condizioni, la stessa carità.

Dall’altro questo fondamento è da ricercarsi, in modo abbastanza ovvio, nelle inclinazioni.’? Sempre le inclinazioni naturali portano con sé delle esigenze che vanno rispettate, anzi le inclinazioni basilari hanno una forza che

non può essere mai dimenticata: esse sono le dimensioni proprie del soggetto che chiedono un ascolto attento per realizzare il bene.” La “naturalità” della giustizia, la giustizia come virtù acquisita, si può sintetizzare in tre caratteristiche: —

la giustizia è virtù delle interazioni, degli scambi personali e sociali;



essa è guidata da principi conosciuti;

27 J. PORTER, Nature as reason, 393. 272 In fondo il confronto tra il dato antropologico di una possibile natura umana e l’idea di legge naturale “declinata” eticamente in senso cristiano. 273 La possibilità di individuare delle inclinazioni basilari, che tendono a dei beni umani basilari, permette di situare una certa possibilità di confronto tra sistemi etici diversi che però condividono degli elementi rispetto alle inclinazioni che sono simili. Questo è accaduto anche per Tommaso in quel profondo confronto culturale tra etica cristiana, mussulmana e giudaica. Ci sono degli aspetti comuni che nascono da una natura umana condivisa e che permettono il confronto etico. Se dunque non è possibile esprimere la natura umana senza un minimo di mediazione culturale, è ugualmente vero che esistono dei tratti comuni a tradizioni etiche diverse. 274 Ricordo che le inclinazioni debbono essere condotte ad una realizzazione razionale nell’indirizzo al bene. Ad esempio i principi di giustizia, equità e non maleficenza rappresentano la razionalità con cui la socialità viene portata a compimento.

400

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA



la giustizia necessita di una struttura di riferimento, cioè di un contesto

che permetta ai soggetti di interpretare i principi in vista dell’agire. Significa che i criteri di imparzialità ed equità necessitano di un'ulteriore specificazione per giungere ad individuare l’agire categoriale dei soggetti. Questa individuazione, in vista dell’azione, dipende dalla tradizione a cui i soggetti appartengono.” Questi tre punti definiscono il carattere che la giustizia può avere precedentemente ad ogni specifica etica che avviene nella trasformazione delle virtù infuse. Mi sembra che qui si ritorni alla problematica di comprensione delle virtù infuse che ho segnalato in precedenza.?” In una sintesi conclusiva la giustizia infusa può comportare due tipi di cambiamento. Un cambiamento nell’indirizzo al fine ultimo e questa possibilità accresce il ruolo della giustizia come virtù acquisita perché permangono pienamente i principi e le azioni notevoli che caratterizzano la stessa. Oppure un cambiamento nei fini intermedi, nei principi, della giustizia che la trasformano

più radicalmente con la carità. In ogni caso l’elevazione della grazia necessita sempre di una dimensione naturale che deve essere elevata: per la giustizia è espressa dalle caratteristiche che esprimono la virtù acquisita.?”

1.9. Peccato e virtù di giustizia 1.9.1. Peccato e capacità di bene Ho già trattato brevemente nelle precisazioni sulla grazia la questione della differente condizione del soggetto umano prima e dopo il peccato. Un'altra problematica riguarda invece la questione dell’attualità di questo peccato. In particolare dopo le pagine che hanno tentato di spiegare la funzione delle virtù infuse rimarrebbe ancora da trattare la possibilità di un'esistenza delle stesse, in particolare della giustizia, anche in presenza del peccato.°?? 275 Nell’impostazione di Tommaso questa è la struttura metafisica di riferimento per la legge naturale.

276 Cfessupracap.4;b) 1.5.3.

277 Ricordo che questo nucleo della giustizia è anche componente della carità, come affermato nelle tematiche della carità attraverso la giustizia. 278 Questa questione necessiterebbe di uno studio più approfondito, in particolare sullo sopratspecifico del concetto tommasiano di peccato. Qui mi limito a segnalare gli aspetti,

TA: In tutto le problematiche, che emergono dal nesso tra peccato e virtù. Cfr. $ Th Ali con lavirtù. L'ambito questo articolo Tommaso si interroga se il peccato possa coesistere

bene. generale della quaestio è quello della presenza del vizio come abito contrario al

401

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

S'ThIII 63,2 è un articolo centrale per comprendere la relazione tra virtù infuse ed acquisite: in esso si ribadisce la presenza delle virtù acquisite ed il fatto che la ragione ha una propria capacità di indirizzo al bene. Inoltre esprime un fine umano imperfetto raggiungibile: l’uomo è capace di un bene naturale. Allo stesso tempo si guarda ad un fine sovrannaturale che è il bene della legge divina, che viene raggiunto grazie all’azione stessa di Dio. In par-

ticolare qui interessa la risposta alla seconda obiezione che metteva in dubbio la possibilità di esistenza delle virtù acquisite con il peccato: «Le virtù infuse da Dio, specialmente se considerate nella loro perfezione, sono incompatibili con un peccato mortale. Invece le virtù acquisite umana-

mente sono compatibili con qualche atto peccaminoso, anche mortale: poiché l’uso degli abiti è soggetto alla nostra volontà, come abbiamo detto; ma con un atto peccaminoso non si distrugge l’abito di una virtù acquisita; infatti il diretto contrario dell’abito non è l’atto, bensì un altro abito. Perciò, sebbene senza la grazia un uomo non possa evitare il peccato mortale, così da non peccare mai mortalmente; ciò non toglie che possa acquistare un abito virtuoso,

mediante il quale si astiene d’ordinario dalle azioni cattive, specialmente da quelle che sono molto contrarie alla ragione. — Ci sono poi dei peccati mortali che l’uomo non può evitare assolutamente, senza la grazia; e sono quelli che

direttamente si oppongono alle virtù teologali, infuse in noi col dono della grazia. Ma di questo tratteremo meglio in seguito».??°

L'affermazione centrale della quaestio sottolinea che le virtù infuse sono incompatibili con il peccato mortale.?8° In fondo questa deduzione è in parte ovvia. Se si guarda alla giustizia arricchita dalla carità essa non sussiste in presenza della rottura della relazione con Dio da parte del soggetto. Non può darsi giustizia infusa se viene meno la carità. Tommaso ribadisce, nella quaestio vista, il legame con la grazia: il soggetto umano senza la grazia non può, in generale, mantenersi lontano da una realtà di peccato mortale perché senza la grazia è impossibilitato ad evitare alcuni peccati mortali che sono quelli che si oppongono alle virtù teologali. AI contrario la quaestio afferma che è possibile che le virtù acquisite possano anche essere presenti con qualche atto peccaminoso, anche mortale. La ragione è nel fatto che alle virtù come abiti si oppongono altri abiti e non all’atto puntuale. Questa a mio giudizio è una affermazione che in particolare #SKID IIS: ada 20 Non entro nelle questioni delle problematiche sollevate da questa distinzione. Ricordo solamente che il peccato mortale è per Tommaso l’allontanamento volontario dal fine ultimo ed il peccato veniale è semplicemente una distrazione dal fine. Cfr. B. MonpIN,

Dizionario enciclopedico del pensiero di S. Tommaso d'Aquino, ESD, Bologna 2000, 497.

‘402

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

può essere valida anche per la giustizia, ma che necessita di alcune importanti precisazioni e limiti. Una prima idea deriva dal fatto che un atto ingiusto non rende necessariamente ingiusto chi lo compie, come afferma Tommaso in S Th II II 59,2. La

virtù di giustizia che riguarda la volontà può essere “superata” da uno stato passionale, non guidato ad esempio dalla temperanza, e che porta a commet

tere una azione ingiusta. Invece se siamo di fronte ad una ripetizione di azioni

e comportamenti ingiusti il soggetto acquisirà un habitus che lo inclinerà con facilità, ed anche con piacevolezza, a commettere ingiustizia. Come seconda notazione rilevo che, in questo caso, la giustizia raggiunta sarà limitata. La possibilità della presenza del peccato e della giustizia acquisita segnala ancora una volta la parzialità delle virtù acquisite che realizzano solo parzialmente i fini umani e non approdano alla beatitudine, al fine ultimo.

Una terza considerazione è nel fatto che violare la giustizia appartiene di per sé alla rottura dell'amicizia con Dio. La violazione della giustizia è una azione che è sempre cattiva. Per definire queste azioni cattive Tommaso le indica come molto contrarie alla ragione. È un dato significativo di come la ragione stessa sia capace di individuare il bene. Il peccato mortale è quella condizione che rompe la relazione con Dio perché rompe con la sua volontà di bene: in Tommaso non vi è opposizione tra una razionalità che ricerca il bene e la volontà più grande di Dio che indirizza questo bene.?8! La presenza di azioni ingiuste, ripetute nel tempo, segnala che il soggetto non possiede, o ha perduto, l'amicizia con Dio ed allo stesso tempo non possiede, o ha perduto, la virtù di giustizia. Con questa terza considerazione si instaura una certa tensione con il primo

degli argomenti segnalati in precedenza. A mio giudizio sarà la razionalità, nel discernimento della qualità dell’atto di ingiustizia, che riesce ad individuare il permanere della virtù o il suo venire meno. Un quarto ed ultimo argomento riguarda il fatto che se un soggetto è giusto, cioè gode della virtù acquisita di giustizia, sarà un soggetto che agisce in modo giusto e questo fatto è già di per sé entrare in una apertura, anche implicita, al processo di indirizzo a Dio, e della presenza della carità, nel rispetto

del bene che si realizza attraverso la legge naturale.??° 281 E. SweeNEY, Vice and Sin, (1 II, 71-89), in S. J. Pope (ed.), The ethics ofAquinas,

Georgetown University Press, Washington, D.C. 2002, 164: «Disobedience of God and

abandonment of humane nature are equivalent rather than contradictory». 282 Questo argomento viene qui solo accennato. Per una trattazione iniziale, cfr. J. PorER, Ze fundamental option, grace, and the virtue of charity, in C. È. CurRAN - L. FULLAM (edd.), Virtue, Paulist Press, New York 2011, 159-187.

403

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

In parte per approfondire ancora questo tema occorre riprendere la relazione tra carità e peccato che viene affrontata nel paragrafo seguente. 1.9.2. Carità, giustizia e peccato

L’approfondimento di questa tematica avviene con l’analisi del peccato e della carità in S Th II II 24,10.283 Le virtù acquisite sono acquisite con la frequenza, la ripetizione degli atti umani che le costituiscono, la loro diminuzione ha

come risultanza il fatto che si perda questa familiarità con il loro esercizio. La carità, virtù infusa teologale, proprio perché è dono di Dio non ha questa modalità di funzionamento.

Il peccato invece può far diminuire la carità e soprattutto il peccato mortale la distrugge: agisce come causa efficiente per la perdita della stessa. Diverso è

invece l’effetto del peccato veniale: esso non elimina totalmente la carità perché non riguarda il fine, ma i mezzi: la perdita della carità sarà in relazione alla

perdita dell’amore del fine. Il bell'esempio che offre Tommaso è quello della guarigione: un soggetto continua ad amarla anche se non riesce a conservare i mezzi adatti per raggiungerla. In generale l’amicizia con Dio viene interrotta dal peccato. Le osservazioni di Tommaso sono classiche: il peccato fa perdere una amicizia più profonda con Dio.

Una ragione del fatto che la carità, come virtù, sia incompatibile con il peccato è la questione della connessione delle virtù che propone S Th III 65,1. Inoltre un’altra motivazione è che siccome il peccato non può essere un “fare del male” direttamente a Dio, Dio non si può danneggiare direttamente,?8'

25 S Th II II 24,10: «Parimenti non può diminuire la carità neppure il peccato veniale: né come causa efficiente, né come causa meritoria. Non come causa efficiente, perché esso

non tocca la carità. Infatti quest'ultima ha per oggetto il fine: invece il peccato veniale è un disordine relativo ai mezzi. Ora, non diminuisce l’amore del fine, per il fatto che si commette un disordine relativo ai mezzi: capita, p. es., che alcuni infermi, pur amando molto la guarigione, sono disordinati nell’osservare la dieta prescritta; così pure in campo speculativo le false opinioni ammesse nelle deduzioni dai principii non diminuiscono la certezza dei principii. — Inoltre la diminuzione della carità il peccato veniale non può meritarla. Infatti quando uno manca in cose piccole, non merita di soffrire menomazioni in cose grandi. Poiché Dio non si allontana dall’uomo più di quanto questi si allontana da lui. Perciò chi commette un disordine in rapporto ai mezzi non merita una menomazione nella carità, con la quale viene ordinato all’ultimo fine». 254 Questo non significa che Tommaso non consideri più gravi i peccati che si commettono contro Dio come l’idolatria, la bestemmia e simili perché dovendo il soggetto amare Dio sopra ogni cosa questi peccati sono in contraddizione con le finalità ultime, contro il bene più grande per il soggetto.

404

CAPITOLO QUARTO — VIRTÙ INFUSA DI GIUSTIZIA

il peccato è quella condizione in cui si procura del male ad un altro soggetto oppure a se stessi.?* Dunque la violazione della giustizia comporta sempre anche la perdita della carità. Un atto ingiusto, eliminando il bene proprio del soggetto, fa perdere la presenza della carità. Tuttavia ricordo che il rapporto tra carità e peccato potrebbe anche presentare una complessità aggiunta: la Porter, ad esempio, ricorda che certe ambiguità nella ricerca del bene, specie nelle relazioni con le persone maggiormente vicine, sono esposte ad un’ambiguità morale.?8° Infatti se viste nella prospettiva dell’amicizia con Dio quest'ultima sembra maggiormente forte rispetto alle possibilità di fallimento — in senso di un bene perduto — delle relazioni con il prossimo.

è in parte 285 Qui accenno solo alla questione che la differente prospettiva culturale are il particol in iano dannegg che azioni Alcune alla radice anche del concetto di peccato. ad pensa Sepa ad Se . culturali i parametr soggetto in sé sono giudicate tali in base a ad attuale, quello in che o Tommas di e atti accettati come malvagi sia nel contesto cultural appare l’evidenza dell’inesempio atti di crudeltà gratuita e simili, allora con più chiarezza male. un causa che compatibilità della carità e del peccato come atto 286 Cfr. J. PortER, Ze fundamental option, 182.

405

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ. PROSPETTIVE SINTETICHE

A) Introduzione all’etica delle virtù Per introdurre l’etica delle virtù, concezione di fondo nella quale si è delineata

l’idea di giustizia elaborata in queste pagine, sono stati presentati quattro autori contemporanei che hanno riproposto i temi e le scelte dell’etica di san Tommaso. Essi lo hanno fatto in dialogo con l’etica contemporanea, in particolare con l’etica di ispirazione analitica anglofona, per sostenere una prospettiva unitaria della morale che individua nelle virtù l’aspetto centrale. Questa scelta metodologica è stata effettuata per proporre un quadro generale dell’etica delle virtù. Vista l’enorme produzione di studi sulle medesime, a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso, il concentrarsi su alcuni autori ha permesso di focalizzare i tratti significativi di questa impostazione che sono stati il quadro di riferimento per il discorso sulla giustizia. In questa prospettiva sintetica, al termine del lavoro di ricerca, rendo brevemente conto dell’apporto generale di ciascuno degli autori che poi è stato utilizzato nello specifico del tema della giustizia.

1.1. Il pensiero di Alasdair MacIntyre Il primo di essi, A. MacIntyre, è il filosofo morale che è stato all’origine di

una rinnovata comprensione del discorso dell'etica delle virtù.' Egli ha infatti saputo indicare come essa sia centrale, anzi necessaria, per una proposta della morale che possa indirizzare globalmente il discorso etico. Attraverso questo autore si coglie la profondità e l'ampiezza di una ripresa dell’etica delle virtù che viene collocata nel grande cammino della filosofia, ed ! Nel primo capitolo ho utilizzato in particolare l’opera principale di questo autore:

A. MacInTyRE, Dopo la Virtù (After Virtue), Armando, Roma 2007 (orig. ingl. 1984).

407

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

anche della teologia morale, visto che il discorso delle virtù è stato per la tradizione cristiana un discorso prettamente teologico almeno nelle espressioni della grande scolastica.

Oggi l’etica delle virtù propone una produzione vastissima di temi e interpretazioni. Attraverso il pensiero di MacIntyre, all’inizio del primo capitolo, sono state rese comprensibili le origini e la fecondità della riscoperta delle virtù.

Il pensiero del filosofo scozzese ha mostrato la radice aristotelica di questa impostazione. Le virtù sono le qualità che arricchiscono il soggetto dal punto di vista della ricerca e dell’indirizzo al fine ultimo. Esse conducono alla possibilità di raggiungere la “vita buona”, definizione che racchiude in sé il compimento, almeno umano, del soggetto: la vita umanamente migliore.

Questa individuazione della vita buona è legatà al concetto di natura umana. MacIntyre, in After Virtue, fa rilevare come tutto il pensiero di Aristotele

sia fondato su di una biologia metafisica, un'idea sostanziale del soggetto, e

come occorra indicare una modalità differente per fondare le virtù. Egli suggerisce il determinarsi delle medesime attraverso la dimensione comunitaria. Le virtù sono legate alle tradizioni e si acquisiscono e crescono in un ambiente comunitario.

In realtà lo stesso MacIntyre proporrà, nell’evolversi del suo pensiero, un ritorno al tema della necessità del fine umano, ultimo e parziale, per sostenere la prospettiva delle virtù.

1.2. Il pensiero di Giuseppe Abbà G. Abbà è uno degli autori che meglio hanno affrontato l’etica della prima persona.° La sua proposta analizza il discorso etico a partire dal soggetto agente. L'etica normativa non riesce a rispondere alla varietà di situazioni che si presentano al soggetto: sussumere sotto una norma una serie di casi è spesso difficoltoso. Per uscire da questa difficoltà occorre compiere un passaggio da un'etica della terza persona, un soggetto che guarda e giudica dall’esterno una serie di atti, a quella della prima persona. ° Nel primo capitolo ho utilizzato in particolare: G. ABBÀ, Felicità, vita buona e virtù.

Saggio di filosofia morale, LAS, Roma 1995. Cfr. anche: Ip., Quale impostazione per la filosofia morale? Ricerche di filosofia morale, LAS, Roma 1996 e Ip., Costituzione epistemica della filosofia morale. Ricerche di filosofia morale, LAS, Roma 2009.

408

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ. PROSPETTIVE SINTETICHE

In particolare Abbà rileva in Tommaso l’autore che nella tradizione catto-

lica ha affrontato la morale da questo punto di vista. Dunque l’indagine del filosofo salesiano si riconduce all'opera tommasiana.

Scaturisce una domanda sul soggetto agente. Quali sono le sue capacità di compiere il bene? Come può trovare un compimento che si può definire come bene proprio? La risposta è nella individuazione delle virtù. Solo il soggetto virtuoso è capace di articolare una serie di azioni e di interessi — in sintesi una condotta vitale — che permettono di giungere alla vita ; buona. Il soggetto, arricchito dalle virtù, ha un desiderio che lo indirizza necessa-

riamente a cercare quello che realizza il suo fine e lo incontra, almeno parzialmente e nell’apertura al fine ultimo superiore e trascendente, nella vita vera-

mente buona. La domanda fondamentale del soggetto agente riguarda il comprendere perché essere morali. Essa lo conduce a perseguire uno scopo nelle sue scelte:

la ricerca dei fini che gli corrispondono. Dall’analisi del soggetto agente — la situazione pratica originaria — la riflessione morale deve far emergere i presupposti, i fini ed i principi che son con-

tenuti nell'esperienza pratica e morale. Quale sarà questo fine? Esso prende la qualificazione della felicità: è il fine ultimo voluto dal soggetto. Essa è un fine necessario e naturale perché tutti i

soggetti lo perseguono. Senza questo discorso in merito al fine ultimo non si capisce in che senso il soggetto possa volere un certo agire, scegliere dei beni. La felicità è il fine ultimo della condotta umana. Ricordo alcuni aspetti della stessa che sono stati utili per il lavoro succes-

sivo, in particolare per giustificare il perché una concezione della giustizia ha potuto unire una dimensione acquisita ed una infusa:



una prima componente

della felicità è raggiungere la vita buona —

“eupraxia” — realizzando il bene del soggetto. Mi sembra che il pensiero di Abbà esprima un tema che è stato centrale per la ricerca sulla giustizia. La vita buona non può essere raggiunta senza la dimensione virtuosa — senza

la giustizia dunque — che rispecchia un accrescimento morale delle possibilità operative del soggetto;

— una seconda componente è rappresentata dalle disponibilità del mondo; —

la terza componente dalla benevolenza degli altri soggetti e di Dio.

In particolare il secondo e terzo aspetto non dipendono solo dal soggetto ed aprono la riflessione sulle capacità di indirizzo morale ad una apertura che 409

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

è individuata nell’apertura teologica. Questo aspetto delle riflessioni di Abbà è stato dunque fondamentale per individuare una dimensione delle virtù che

fosse compatibile con la prospettiva teologica che introduce lo stesso Tommaso e riguarda le virtù infuse. Un altro elemento delle riflessioni di Abbà, utilizzato per la giustizia, è derivato dal fatto che la felicità non può venire solo determinata da intenzioni soggettive. Dunque le virtù non possono essere intese solo in base a criteri sog-

gettivistici, ma devono essere guidate da parametri oggettivi che identificano un concetto autentico di felicità. Esiste un modo per poter individuare l’azione delle virtù nel senso di indirizzo al bene proprio? Abbà fornisce una prima risposta che poi è stata precisata ulteriormente con le considerazioni del terzo autore preso in considerazione: M. Rhonheimer.

i

Le virtù sono guidate da alcuni giudizi della ragion pratica. A sua volta questa modalità della razionalità è indirizzata da principi o criteri razionali. L'analisi di questi ultimi viene ampiamente descritta per quanto riguarda la virtù di giustizia nel corso di questo lavoro. Qui ricordo solo il primo principio della moralità. Abbà offre una grande rilevanza alla razionalità umana come capacità intellettiva di indirizzo al bene. Essa trova espressione nel primo principio della ragion pratica o della moralità: “il bene è da farsi, il male da evitare”. Da esso si deducono dei principi conseguenti che sono le massime delle virtù: non sono solamente regole esterne di azione, ma scopi delle virtù. Infine un ultimo aspetto delle analisi di Abbà ha permesso di spiegare le caratteristiche delle virtù: esse sono da un lato delle qualità morali — cioè inerti al bene — legate ai tratti di carattere e dall’altro delle qualità delle azioni che possono essere definite eccellenze virtuose. Anche questa duplicità di significato è stata essenziale per delineare la virtù di giustizia: perché ha permesso di rilevarne gli aspetti legati sia alle dimensioni di relazione con gli altri che a quelle del soggetto giusto. I tratti di carattere indicano dimensioni morali: attitudini — morali — che guidano il soggetto. Le virtù sono habitus, disposizioni personali, che

originano nuove capacità morali del soggetto nel processo di scelta in vista dell’agire. Le eccellenze sono le azioni in se stesse: esse sono le specifiche eccellenze del vivere bene. Sono richieste dalla regola morale quando essa viene intesa come vita veramente buona. 410

LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ.

PROSPETTIVE

SINTETICHE

1.3. Il pensiero di Martin Rhonheimer

M. Rhonheimer si inserisce nel discorso dell’etica tommasiana con una ricchezza di analisi ed argomentazioni che sono complementari al discorso di Abbà. Voglio ricordare l’importanza di quest’autore per due ragioni. Da un lato le sue analisi hanno permesso un chiarimento del tema del fine ultimo e sono poi state riprese nel quarto capitolo per giustificare la distinzione tra giustizia infusa e acquisita.

Dall’altro egli ha reso esplicito il legame dei temi affrontati con la legge / naturale. Per il primo argomento ci si è misurati con il fatto che il fine del “vir tuoso” è retto; quello del “vizioso” è sbagliato. Questa distinzione è basata

sulla ricerca tra un modo giusto di volere un certo fine ed un modo parziale o errato. Per Rhonheimer la ragione, per natura, riconosce come bene ciò a cui

si aspira, nella logica della struttura dei giudizi pratici del tipo “p è buono”. Il bene che scopre non è solo un bene naturale, ma sempre un bene della ragione, “bonum rationis”.* Anche per Rhonheimer la ragione si esprime attraverso dei principi o criteri. Soprattutto egli spiega, attraverso Tommaso, che i principi si legano alla legge naturale. Quest'ultima è un ordinamento della ragione verso il bene. La ragione, nella sua qualificazione pratica, non ha come oggetto le norme della legge naturale che la precedono e che dovrebbe applicare, piuttosto conduce all’individuazione del bene che si realizza nell’ambito dell’agire. Quest'ultimo, nelle forme che si indirizzano al fine ultimo, è espresso dalle dimensioni virtuose: una teoria della ragion pratica come misura delle azioni umane, dell’antropologia delle facoltà operative e naturalmente delle virtù. Una delle idee, qui espressa, che ho ampiamente usato nella ricerca, è quella che vede il legame tra legge naturale e virtù e che si fonda sull’identità tra principi dell’una e delle altre. Un ulteriore elemento è quello in merito alla natura teologica della legge naturale. Esso ha permesso di vedere il legame tra virtù acquisite ed infuse. 3 Nel primo capitolo ho utilizzato in particolare: M. RAonHEIMER, La Prospettiva della morale, Armando, Roma 2006. Cfr. inoltre In., Legge naturale e ragione pratica, Armando, Roma 2001.

i solo è naturale bene il che fatto nel specifica si Rhonheimer secondo distinzione 4 La

individuato dall’aspirare dei sensi, un dirigersi cioè verso un bene immediato e non razionale.

411

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Rhonheimer sostiene principalmente che non è possibile delineare un ordine semplicemente naturale — anche nell’ipotesi che venga stabilito dalla legge eterna — ma che occorre interpretare questa legge eterna attraverso la ragione: si delinea un “ordo rationis” per la realizzazione della dimensione morale che viene proposto dalla ragione. Allo stesso tempo oggetto di quest'ultima sarà proprio la dimensione naturale ed in particolare le tendenze naturali: fattore che impedisce di elaborare un discorso razionale slegato dalle costanti antropologiche. Come Abbà anche il filosofo svizzero individua nel primo principio della ragion pratica il precetto centrale della legge naturale. Esso constata il fatto che il soggetto “aspira” al bene: conosce un “qualcosa” e, se lo individua come bene, viene attratto dal medesimo.

Le virtù saranno sempre indirizzate da dei principi derivati dal primo: concetto fondante per elaborare dei principi di giustizia*che permettono di individuare un nucleo imprescindibile della stessa virtù. Queste idee sono state fondanti per elaborare una delle individuazioni centrali per la giustizia: quella dei principi della stessa. 1.4. Il pensiero di Jean Porter

L'ultima autrice cui ho fatto riferimento nel primo capitolo è J. Porter. La

teologa americana è stata presente nel seguito del lavoro soprattutto con la sua opera maggiore Nature as Reason. Qui in particolare ho invece utilizzato

Moral action and Cristian Ethics perché in questo testo è stato esplicitato un percorso di confronto e chiarificazione dei principi razionali complementare ai discorsi di Abbà e Rhonheimer” La Porter mostra che il legame tra principi razionali della moralità ed alcuni atti, in cui si individua la presenza di indirizzo dei primi, è sempre necessario. È possibile identificare una serie di azioni caratterizzate da un nucleo centrale concettuale che si esprime attraverso i principi. Se i principi sono espressioni che appartengono sia alle regole morali che alle virtù, il lavoro della Porter ha arricchito la loro concezione mostrando la necessità che i criteri si radichino in un bene che esprima le dimensioni proprie del soggetto e per questo ha proposto le analisi di Tommaso. Queste ultime aggiungono alla formalità dei principi un contenuto che riguarda ° J. PorTER, Moral Action and Cristian Ethics, Cambridge University Press, New York 1995. Ip., Nature as reason, Wm. B. Eerdmans Publishing Co., Grand Rapids — Cambridge 2005. ° L'esempio più significativo è in merito al principio di non maleficenza che poi ho ampiamente ripreso nella spiegazione della giustizia.

412

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ. PROSPETTIVE SINTETICHE

direttamente le qualità fondative dell’essere umano. I principi presentano una loro intellegibilità — razionalità — perché riflettono degli aspetti fondamentali della natura umana che strutturano la moralità, individuale e collettiva, dei

soggetti. Essi hanno un'evidenza che è ancor prima della riflessione sugli stessi. Un secondo tema, adottato in seguito nelle analisi della giustizia, ha segna-

lato i principi della razionalità come espressione dei precetti della legge naturale ed il loro legame con le inclinazioni. Determinati beni che corrispondono all’indirizzo delle inclinazioni vengono perseguiti dai soggetti secondo la modalità virtuosa. Le inclinazioni per essere perseguite nella dimensione morale necessitano della razionalità delle virtù la quale sancisce “il come” si vogliono raggiungere certe inclinazioni. Queste ultime senza indirizzo razio-

nale possono anche non rappresentare il bene migliore per il soggetto. Un terzo tema mette in rilievo il processo tommasiano di determinazione dell’azione: per indirizzarsi al bene autentico il soggetto necessita delle virtù. Anche per quest’autrice l’azione delle virtù è essenziale. In particolare sottolinea la validità della proposta antropologica tommasiana basata sulla descrizione delle facoltà operative. Essa, anche se non corrisponde ai canoni antropologici attuali, mantiene la capacità essenziale di descrivere l'umano.

Un quarto tema è proposto attraverso la ripresa delle idee di Tommaso che conducono ad una tradizione morale inclusiva: l’etica cristiana si è sviluppata in fondo come una riflessione sull’ordine morale, che è stato compreso giusta-

mente come precedente ed in parte indipendente rispetto la sola visione cristiana, ma proprio per questo posto successivamente in un più ampio contesto

teologale che permette di comprendere quest'ordine morale con uno sguardo più complessivo. Questo concetto ha precisato una determinata modalità di riflettere sullo specifico della morale cristiana che è stata applicata alla giustizia come criterio di ricerca nell’individuare lo specifico della medesima in

senso cristiano.

1.5. Fondamenti dell’etica delle virtù per l’analisi della giustizia

Gli autori che ho preso in considerazione hanno utilizzato una serie di tematiche che sono in parte simili. Questo aspetto è scontato vista la comune matrice del pensiero tommasiano. Mi sembra interessante il fatto che abbiano approfondito aspetti comuni

queste con accentuazioni diverse. Voglio brevemente far rilevare alcune di a: tematiche che hanno caratterizzato l’indagine in merito alla giustizi

lità a) le idee morali proposte possiedono un carattere teleologico: la possibi

premessa teleodi affermare un fine ultimo formale, la felicità. Senza questa

413

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

logica classica non è possibile dar conto di una teoria delle virtù poiché queste ultime avrebbero una pluralità di espressioni e potrebbero divenire addirittura contraddittorie; b) per precisare il punto appena visto ricordo che affermare l’“eupraxia” o vita buona è affermare il fine ultimo parziale del soggetto. In particolare Abbà e Rhonheimer hanno spiegato come il concetto di vita buona resta a livello formale e deve dunque essere proposta una realizzazione attraverso un contenuto di bene che rispecchi il bene autentico del soggetto.” Nella spiegazione di come definire questo bene, come giungere ad una sua individuazione, esistono delle differenze di prospettiva negli autori studiati in questa ricerca.

Abbà utilizza in fondo l’idea di “ordo rationis” che è “ordo virtutis”: le virtù avranno una duplicità nel senso di essere eccellenze dell’agire e un perfezionamento delle disposizioni del soggetto. Solo con l’acquisizione delle stesse sarà possibile giungere alla moralità. Solo chi è virtuoso è capace di indirizzarsi al bene. Rhonheimer e la Porter affermano la presenza di quella che viene detta “legge naturale”. In realtà siamo di fronte ad un concetto simile al precedente, ma espresso in modo diverso. L'affrontare la questione della legge naturale non è stato l’oggetto diretto di questa ricerca. Dalle sole considerazioni degli autori seguiti ne emerge però la complessità.

In via riassuntiva la comprensione di diverse componenti — le inclinazioni naturali, i beni che vi corrispondono, la volontà buona rispetto ad inclinazioni e beni, la caratteristica della razionalità che riesce ad individuare il bene — deve essere affrontata in maniera unitaria perché questa teoria sia esaustiva. Questi quattro elementi si fronteggiano e relazionano per determinare che cosa possa essere il bene proprio del soggetto centro della legge naturale. Rhonheimer è maggiormente sbilanciato a favore di una comprensione razionale della legge naturale: la razionalità dell’uomo è capace di individuare le dimensioni proprie del bene umano. La legge naturale non è il movente della razionalità, ne è piuttosto il frutto. Anche lo stesso Abbà è propenso alla guida razionale delle virtù nel raggiungimento della moralità. La Porter invece riconosce un ruolo maggiore alle inclinazioni: esse sono

delle tendenze naturali che devono essere guidate dalle virtù nell’indirizzo alla moralità. 7 Il termine “moralità”, nelle pagine di questo lavoro, vuole sempre indicare l’indirizzo al bene proprio del soggetto.

414

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ. PROSPETTIVE SINTETICHE

c) Tutti e tre gli autori danno molta importanza al primo principio della razionalità — altrimenti detto primo principio della legge naturale — che permette di uscire da una soggettività in merito al bene. È importante comprendere come questo principio nasce dal fattuale, emerge cioè dalle scelte che i soggetti fanno per l’azione, ed esprime la moralità dei soggetti. d) Abbà ricollega i principi della ragion pratica, quelle che egli chiama massime, agli scopi delle virtù. Soprattutto quest'ultima assunzione — che è

anche quella di Rhonheimer e della Porter con sfumature diverse come ho precisato nel testo — è centrale, perché permette il legame tra bene perseguito dal soggetto e l'autenticità di questo bene attraverso la razionalità delle virtù. Senza questo legame — tra inclinazioni, beni e virtù — non si capisce in che senso i principi si distinguano da una razionalità che sarebbe indipendente ed a priori rispetto al soggetto stesso e che poi si esprimerebbe nella consueta dimensione normativa. f) Infine ricordo l’importanza della presenza delle virtù in un soggetto che

si indirizza al bene. Proprio perché il soggetto è mancante, impreparato a condurre una vita veramente buona, occorre che acquisisca le virtù. Non c'è mora-

lità, capacità di scoperta del bene, senza l’arricchimento delle virtù. Se questa affermazione è al centro dell’impostazione dell’etica di Abbà, ed anche della Porter, essa è già presente nelle analisi di MacIntyre. Egli descrive la natura umana nelle sue potenzialità iniziali e la natura realizzata in pienezza la quale, grazie alla direzione impressa dalle virtù, può raggiungere il fine proprio.

B) Inclinazioni naturali e principi di giustizia 1.1. Inclinazioni

In questo lavoro lo studio della giustizia è proseguito nel secondo capitolo con l’analisi della stessa come virtù umana. Riepilogo alcuni passaggi principali dell’impostazione teoretica per l'oggetto di quelle pagine, la virtù acquisita dal soggetto, facendo emergere i principali nodi e le risultanze della ricerca compiuta.

Il primo argomento esaminato è stato in merito alle inclinazioni che caratterizzano il soggetto. Lo studio delle tendenze ha permesso di comprendere come la giustizia ndibile riguardi l’inclinazione umana alla socialità, una dimensione impresci

per la vita del soggetto. È risultata la necessità della presenza della giustizia nell’indirizzo della socialità umana perché questa realizzi un bene umano autentico. 415

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Brevemente ricordo qui i passaggi essenziali effettuati per giungere a que-

sta affermazione. Le inclinazioni sono delle tendenze proprie dell'umano, delle costanti antropologiche, che debbono essere portate a compimento dalla componente che distingue e precisa la condizione umana cioè la razionalità. Quest'ultima, in queste pagine, non deve essere intesa in via solamente logica, ma viene specificata in senso ampio come capacità propriamente umana di indirizzo al

bene proprio del soggetto. Le tendenze naturali, lasciate a se stesse, non conducono direttamente ad un fine umano

autentico; non realizzano direttamente un bene morale. Le

inclinazioni devono essere indirizzate dalla razionalità la quale si esprime con dei criteri e dei fini che permettono di raggiungere i fini umani. Qui si presenta un passaggio che è centrale: questi criteri, questi fini, non

sono altro che i fini, o principi di indirizzo, delle stesse virtù. Il soggetto giunge alla vita buona nella sua condotta se è un soggetto guidato dalle virtù. Questo schema generale è stato applicato alla giustizia. L’inclinazione che è legata a questa virtù è la socialità. Quest'ultima è stata interpretata in modo ampio come sinonimo della dimensione relazionale tra i soggetti. In questo senso generale non si riferisce alle strutturazioni sociali e

politiche, ma ha indicato il rapporto con gli altri inteso in senso esteso. Un individuo isolato non realizza se stesso non solo perché non riesce ad esplicare le componenti funzionali del vivere, ma soprattutto perché non raggiunge quella pienezza di bene che lo contraddistingue come soggetto che si esprime sempre nel rapporto con l’altro. Essa è una delle inclinazioni: proprie dell’uomo, non tanto perché non appartiene ad altre specie animali, ma perché realizzata con quella che è la capacità specifica dell'umano: la razionalità. Tuttavia la caratteristica che più importa per una socialità umana è quella che venga conseguita attraverso la giustizia: una socialità ingiusta non è

umana. La vita buona si realizza quando l’inclinazione alla socialità si precisa come una inclinazione in cui i soggetti si caratterizzano per essere giusti, cioè sono

disposti dalla giustizia. Nello studio del legame tra giustizia e socialità ho affrontato una tematica che ha svincolato le inclinazioni da una impostazione classica e le ha introdotte nel dibattito culturale contemporaneo. Infatti osservando ancora il senso generale delle inclinazioni è possibile definirle come tendenze che si esplicitano in certi beni.* Le inclinazioni riman* Questa idea è proposta in particolare da J. Porter.

416

LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ.

PROSPETTIVE

SINTETICHE

gono astratte finché non si indirizzano a dei beni precisi. Proprio per evitare questa difficoltà sono state proposte delle analisi che ricollegano le virtù a dei “beni basilari” indicati anche come “beni del benessere” (‘well-being goods”). I beni del benessere sono la realizzazione delle inclinazioni. Essi sono un concreto, dei beni materiali ed immateriali, che indicano una componente indispensabile per raggiungere un certo benessere umano. Tuttavia, se presi in assoluto, sono insufficienti a raggiungere la prospettiva della felicità, del

fine ultimo. Il concetto di pienezza di benessere, ovvero quello che in modo classico si definisce come felicità, dipende da una proposta morale che riesce a distinguere in modg più autentico il finalismo intrinseco delle tendenze

naturali. Questa proposta indica nelle virtù la modalità di indirizzare i beni del benessere.

La socialità offre un'esemplificazione concreta di questi concetti. Non si potrebbe affermare, tranne eccezioni di situazioni particolari, che una vita veramente buona, che è componente della felicità, è una vita da isolati; la

socialità appartiene, necessariamente, ai beni del benessere. Il passaggio successivo ritorna anche in quest’analisi alla necessità delle virtù: il soggetto indirizza la socialità in un'espressione della giustizia come virtù. 1.2. Giustizia come virtù

Dopo aver ragionato sulle inclinazioni naturali il tema di ricerca si è soffermato sull’oggetto materiale della giustizia. Essa riguarda il bene dell’altro nell’ambito del processo intenzione, scelta e decisione che conduce all’azione giusta.

Si comprendono meglio queste affermazioni ricordando come le virtù trasformino le facoltà operative del soggetto. La giustizia agisce sulla volontà. Quest'ultima, in modo spontaneo, aspira ad un bene che riguarda direttamente il soggetto: vuole “qualcosa” perché la percepisce direttamente come un bene. Non accade allo stesso modo per il volere “qualcosa” per l’altro. In questo caso è necessario un cambiamento — un indirizzo differente — di questo aspirare. La giustizia è la virtù che rettifica il nostro relazionarsi con gli altri e compie quest’operazione agendo sulla volontà del soggetto. Essendo una disposizione permanente permette che l’indirizzarsi all’altro avvenga con una certa la ? Non significa che questo bene sia autentico. Sarà la razionalità che constata come delle l’azione volontà di un bene si indirizzi alla vita buona. La razionalità si identifica con virtù nell’intelletto e nelle passioni che sono raccolte poi dall’indirizzo della volontà. .

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

spontaneità e facilità. Questa è una caratteristica generale delle virtù che per la giustizia guida ad un aspirare al bene altrui quasi allo stesso modo in cui, in modo formale, ci si dirige al bene verso se stessi. Questa prospettiva ha permesso di rispondere a due obiezioni sul considerare la giustizia una virtù: a) la prima riguarda la dimensione solo oggettiva della giustizia vista come

una serie di regole e di norme; b) la seconda il fatto che le virtù riguardano solamente dei cambiamenti

negli stati passionali dei soggetti e non l’aspirare razionale.

Il soggetto agente e le sue facoltà operative — intelletto, volontà e passioni — consentono di annoverare l’azione della giustizia come virtù. La trasforma-

zione della virtù è una delle componenti del raggiungere il fine proprio, la “beatitudo”, e permette al soggetto di essere, per così dire, “attrezzato” per questo fine. 1.3. Criteri di razionalità

Un terzo aspetto, che è stato ampiamente discusso nel secondo capitolo, ha tentato di definire come si possa esprimere la giustizia attraverso dei criteri razionali che sono una formulazione sintetica della stessa. In questo paragrafo e nel successivo voglio ricordare l’importanza dei criteri — principi o norme — di giustizia che innanzitutto oggettivano questa

virtù, identificano la sua presenza o la sua mancanza. Quando in precedenza ho indicato come la volontà indirizzi sempre al bene del soggetto indicavo un modo formale di raggiungere il medesimo. Infatti si possono volere anche dei beni apparenti. Come si può evitare questa situazione nei confronti dell’altro? Come esprimere la giustizia reale nei confronti dell’altro? Questa indagine ha sottolineato la possibilità di poter indicare dei criteri oggettivi per individuare le virtù e nello specifico delineare delle massime di giustizia. In caso contrario infatti non si riuscirebbe ad esprimere cosa significa, quale significato assuma, la virtù di giustizia che si individuerebbe con

caratteristiche diverse a seconda dei soggetti oppure a seconda delle diverse tradizioni a cui appartiene: non sarebbe possibile precisare il bene oggettivo a cui la virtù indirizza. Prima di indicare direttamente i criteri — principi o massime — della giustizia sono necessari ancora due passaggi. Il primo vede i criteri che guidano la giustizia come le modalità attraverso le quali la razionalità guida le inclinazioni umane. I criteri di razionalità esprimono i fini delle virtù che è possibile denominare anche principi o massime. 418

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ. PROSPETTIVE SINTETICHE

Il soggetto virtuoso è guidato da questi criteri che esprimono le dinamiche delle virtù. 'Un secondo arricchimento concettuale è quello della tematica della legge naturale. Quest'ultima non è qualcosa di differente dalle stesse virtù, ma i fini dei precetti della legge naturale esprimono i fini delle stesse virtù.!° 1criteri di razionalità che guidano le virtù non sono altro che i precetti della legge naturale. Non si deve equivocare il concetto di razionalità con una concezione solo formale o logica. La razionalità è quella dell’intelletto che riesce ad individuare dei fini umani specifici da perseguire per realizzare il fine del soggetto a partire dal dato delle iriclinazioni naturali. Essa è propriamente umana perché è una capacità antropologica di scoperta del bene. Come vengono definiti i criteri di razionalità? La prima constatazione rileva che i soggetti sono in modo necessario orientati al bene. Questa propensione viene espressa attraverso un primo principio

della razionalità che conduce all’agire o detto altrimenti primo principio della ragion pratica.!! Da questo primo principio si possono elaborare altri principi — criteri o

massime — che sono le determinanti delle singole virtù. Il soggetto agisce guidato da una razionalità che viene detta pratica perché conduce all’agire. Le virtù entrano in questo processo dell’agire come “habitus”, una qualità che permane nel soggetto, e possono essere articolate nella loro dinamica attraverso la formulazione di principi derivati dal primo. Le massime sembrerebbero essere simili alle norme esteriori o regole di comportamento. Sono invece differenti perché sono anche gli scopi delle virtù. Questo è un passaggio centrale per capirne la funzione all’interno dell’etica delle virtù: la giustizia in questo senso viene orientata da due principi razionali che le fanno da guida. La volontà diventa retta, secondo la razionalità dei principi, ampliando la prospettiva di bene che persegue. Nel soggetto le massime di giustizia corrispondono alle intenzioni generali — scopi — che il medesimo si prefigge nel processo che prosegue nelle scelte e che sfocia nell’azione. La comprensione teoretica dei principi di giustizia permette ora l’esplicitazione degli stessi. Essi sono: il principio di non maleficenza ed il principio di equità.

!0 Nel corso del lavoro si è precisato come questa sia la conclusione che da Tommaso

spa individuano sia Rhonheimer che Abbà. determina principio primo il quale il per Abbà, di proposta la !! Ho seguito in particolare le virtù nel conseguire il bene proprio del soggetto.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Il primo può essere formulato nei termini seguenti: si constata dall’accadere di certe azioni che sono sempre una violazione dello stesso. Il principio

di non maleficenza non è solo una regola razionale che a priori appartiene alla capacità intellegibile del soggetto. Si riesce ad individuare come nucleo o contenuto formale da quelle azioni che se compiute sono sempre contro il bene. Il

principio permette di constatare la presenza della giustizia: “non fare del male all’altro”. I soggetti guidati dalla virtù possono riconoscere un valore della

persona umana che permette di tutelarne la dimensione sociale nell’orientamento al bene dell’altro.

Un secondo principio che guida la giustizia è quello dell’uguaglianza. Questo è il criterio classico che Tommaso stesso lega alla giustizia. Esso può essere definito come “dare o rendere a ciascuno il suo dovuto”. Il principio di egua-

glianza sintetizza la necessità della giustizia per la vita sociale. Ricordo che il principio ha un carattere formale. Indica un rapporto»le cui modalità concrete vanno ancora determinate e che possono presentare delle differenze materiali

anche in presenza del rispetto condiviso del principio medesimo." Infine ricordo alcune caratteristiche fondamentali dello stesso:

— il bene che la giustizia crea riguarda il dovuto e non l’eccedente; — il dovuto è in relazione al bene proprio del soggetto; —

il principio di eguaglianza non è la “regola d’oro”;

— la medietà della giustizia, espressa dal principio, è guidata da aspetti di imparzialità che non dipendono dalle qualità dei soggetti che intendono essere giusti.

1.4. Il valore dei principi di giustizia Perché è stato così importante determinare dei principi di giustizia? Il riconoscimento dei medesimi ha contribuito alla comprensione della stessa nel legame con il soggetto, ma in una valenza non soggettivistica rispetto alla proposta morale. I criteri di razionalità hanno un significato morale ovvero la loro efficacia per la giustizia significa la realizzazione del bene. La virtù di giustizia da un lato trasforma la volontà del soggetto e dall’altro risponde a dei criteri che conducono alle eccellenze virtuose — le azioni eccellenti — che\scaturiscono dalle intenzioni giuste del soggetto stesso. Questa appena espressa è una delle ragioni principali sul perché è stato proficuo, per l’analisi compiuta, utilizzare il concetto di principi guida delle , ; i A ‘* Queste differenze sono state analizzate nel capitolo terzo di5 questo lavoro dove èÈ stato affrontato il concetto delle tradizioni.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ. PROSPETTIVE SINTETICHE

virtù. Si ottengono dei criteri che permettono di confrontare espressioni della giustizia differenti sia legate ai soggetti che alle tradizioni a cui appartengono. Le azioni giuste — le eccellenze virtuose — devono sempre venir espresse con i principi di giustizia. Il concetto dei principi è collegato con le inclinazioni. Sono in parte giudizi ipotetici perché la loro realizzazione conduce al fine proprio. I principi riescono ad esprimere la virtù di giustizia in modo da poter constatare nella socialità una presenza effettiva della virtù. Infine i principi che guidano la: giustizia, eguaglianza e non maleficenza,

non sono disposizioni a compiere quello che è già determinato in precedenza, con altri criteri, come moralmente corretto. Dire che la volontà è specificata dai fini virtuosi significa ricercare un agire che rispetti la giustizia e che si traduce in una serie di azioni che sono identificative del bene rappresentato dalla medesima. Le scelte della volontà, che sono guidate dai fini di giustizia, conducono al perseguimento dei beni, ed a evitare i mali, in modo che questa scelta sia coerente con il desiderio naturale della volontà verso il bene perfetto e beatificante. Un ultimo argomento che brevemente presento è quello della “medietà della giustizia”. Quando la volontà è rettificata dalla giustizia, le intenzioni del soggetto agente sono guidate dai principi della medesima. Le virtù in generale si esprimono in una razionalità che, in senso aristotelico, viene indicata come medietà: per le virtù la misura adeguata è il giusto mezzo. Per la giustizia questa medietà è data dalla regolazione “oggettiva” di azioni: cioè ad un darsi dei fatti. Sono i criteri di eguaglianza e di non maleficenza che rispecchiano questa dimensione oggettiva. Detto altrimenti essi regolano la virtù in modo maggiormente oggettivo rispetto ad altri criteri che guidano altre virtù.! 1.5. Pluralità delle azioni di giustizia e necessità di acquisizione della virtù .

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Dai principi di giustizia scaturisce l’individuazione dell’insieme delle azioni giuste. Queste ultime tuttavia non sono omogenee in un senso universale. Esse

presentano una pluralità di espressioni che dipende in parte dal fatto che la 13 Alcune virtù come la temperanza e la fortezza hanno una dimensione soggettiva nella diversaloro definizione riguardando direttamente qualità delle facoltà che si presentano sta razionale mente a seconda dei soggetti. Per la giustizia non è così perché il suo indirizzo nella realtà dei fatti: in “medium rei”.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

giustizia si identifica con una serie di modelli di azioni — azioni paradigmatiche — che la esprimono. Queste azioni dipendono anche da come vengono elaborate e colte dall'ambiente in cui sono riconosciute come azioni giuste all’interno di una tradizione etica." Inoltre l’esplicitazione pratica dei principi di giustizia, cioè come poi si realizzano le azioni che sono giuste, ed anche lo svilupparsi della virtù di giustizia nei soggetti sono in parte condizionati dal processo di acquisizione dei medesimi. I principi sono infatti formali, cioè devono poi essere tradotti in

azioni giuste che nascono dalle condizioni dell'ambiente di riferimento in cui si concretizzano. Il fattuale delle azioni giuste è in parte convenzionale: pensiamo ad esempio come viene percepito uno scambio che rispetti il principio di equità ma che trova poi un'espressione concreta in una proporzione conven-

zionale che dipende dalla tradizione in cui si sviluppa. Questi aspetti sembrano far ricadere la giustizia inuna serie di esempi e di azioni non confrontabili e spesso in contrasto tra loro. Mi sembra che aver definito i principi sia il centro di un processo per riconoscere ed individuare quali siano le azioni di giustizia. Infine il rischio dei principi di essere solo dei criteri formali viene superato dal fatto che, come ampiamente detto, il dovuto all’altro e il non fare il male implicano un'eguaglianza fondamentale tra i soggetti, ed anche una tutela della socialità, che comportano un comprendere la giustizia come una delle virtù necessarie perché il soggetto raggiunga il bene proprio. 1.6. Virtù di giustizia e decalogo L'ultimo argomento che ho aftrontato nel secondo capitolo riguarda la relazione tra decalogo e virtù di giustizia.!'° Ho scelto di collocare questo tema in questo capitolo perché ho riscontrato una connessione tra i due elementi, del decalogo e della giustizia, che nasce dal condividere gli stessi principi di indirizzo. Non maleficenza ed uguaglianza sono indirizzo condiviso sia dei precetti del decalogo che della virtù di giustizia. Inoltre entrambi, comanda‘4 Mi riferisco per queste considerazioni al modello teorico della Porter: una volta individuata un'espressione razionale della legge naturale rappresentata dagli scopi che caratterizzano le virtù, occorre ancora confrontarsi con il modo in cui le virtù — i principi che le guidano — vengono ad assumere una valenza pratica. Detto altrimenti, uno stesso principio può avere una serie di espressioni differenti, e con esso la virtù corrispondente, che sono compatibili con quello che esprime lo stesso principio. ” Fondamentale rimane il fatto che il soggetto li deve cogliere come componenti centrali per raggiungere il bene umano proprio. Gir

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menti e virtù, si rivolgono alla tutela degli altri e vogliono indirizzare la socialità come inclinazione umana. Giustizia e comandamenti hanno relazione intrinseca perché guidano alla dimensione della socialità realizzata in senso pienamente umano. Allo stesso tempo esprimono con il loro essere legati alla socialità ed alla razionalità dei principi un appartenere ai precetti della legge naturale. Quest'ultima manifesta la tendenza ad un bene che il soggetto deve realizzare per raggiungere il fine che gli appartiene come soggetto umano. Ho seguito parzialmente la comprensione di Tommaso delle distinzioni e comparazioni tra legge naturale e.rivelata, in particolare quella antica.” Da

questo confronto è stato ricavato che anche il decalogo può essere compreso come legge naturale: i precetti del decalogo sono ricompresi nella legge naturale. La giustificazione fondamentale è la razionalità sottesa alla legge natu-

rale. In aggiunta questa razionalità si esprime nella giustizia e nei principi di

quest'ultima. L'ultimo passaggio di questa logica vede dunque i principi di giustizia validi anche per il decalogo. La prima conseguenza che deriva da questa constatazione è il fatto che il decalogo gode di una razionalità profonda.!8 La seconda vede il decalogo e la virtù di giustizia come espressioni della ricerca autentica del bene per il soggetto espresse dai comuni criteri di non maleficenza ed uguaglianza.! La condivisione della razionalità viene sostenuta anche attraverso un altro concetto. Il decalogo esprime una serie di precetti che non sono derogabili; sono sempre da osservare. Se però una certa azione contro il decalogo non è ingiusta, meglio ha un motivo che deriva dalla necessità di giustizia, allora non siamo di fronte ad una violazione di un precetto del medesimo.?® E la razionalità espressa dalla giustizia, il rispetto di non maleficenza ed uguaglianza, che permette di scoprire se un precetto del decalogo è violato o meno. Un ulteriore aspetto dell’approfondimento su questi due elementi ha fatto emergere una specificazione della giustizia importante che ha riguardato il

17 In questo lavoro l’argomentazione della legge rivelata non è stata oggetto di analisi se non in maniera marginale. 18 Questa razionalità è la stessa di cui gode la legge eterna che è alla base della legge

naturale. Essa indica un indirizzo al bene dell’opera del Creatore vista e compresa da punti di vista differenti, cioè dalla parte della constatazione della legge naturale in via razionale da parte dell’uomo o accessibile a quest'ultimo attraverso la rivelazione della legge antica. 19 Sia la virtù di giustizia che il decalogo sono componenti delle intenzioni del soggetto,

cioè trasformano la qualità etica del suo agire. Non sono solo criteri normativi esterni al soggetto. 20 L’esempio classico è il furto per rispondere ad una necessità vitale ineludibile.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

tema dell'amore del prossimo.”! Esiste un legame tra i precetti del decalogo ed il comandamento dell’amore verso Dio e verso il prossimo. Questi ultimi possono anche essere considerati precetti primari della legge naturale da cui derivano altri precetti tra cui i comandamenti. Il duplice amore diventa una fonte cui sono relazionati i comandamenti e ai quali si può far risalire anche la stessa giustizia seguendo le argomentazioni che legano decalogo e giustizia viste in precedenza. Senza addentrarmi qui nella specificazione delle analisi di quest'ultima riflessione voglio ricordare che essa ha un’implicazione centrale nella questione della comprensione della giustizia in senso cristiano: amare il prossimo è la modalità che giustifica profondamente la realtà sociale. La socialità umana è caratterizzata in senso cristiano dall'amore del prossimo.

C) Le tradizioni e la tradizione cristiana di giustizia 1.1. La giustizia e le tradizioni

Dopo aver visto come è possibile esprimere la giustizia attraverso la precisazione di inclinazioni e criteri di razionalità ho analizzato nel terzo capitolo le tradizioni, in particolare nel senso che A. MacIntyre dona a questo termine. La giustizia, che ha caratteristiche generali espresse dai principi, deve essere precisata nel suo appartenere a tradizioni diverse.” La questione della giustizia si riconduce all’ideale di perfezione umana che corrisponde al conformarsi ai precetti della legge naturale espressa dai fini virtuosi.

Ma accanto ad essa i principi di giustizia e l’inclinazione alla socialità necessitano di un contenuto — una modalità concreta di espressione — che è dettato dalla tradizione in cui il soggetto si trova ad agire in via pratica ed a ricercare il bene proprio. Esiste però una tesi che è più radicale. Essa afferma che non esiste un'etica che non sia qualificata: non è possibile individuare alcuna virtù di giustizia \ °! Queste considerazioni in merito all'amore del prossimo e di Dio, qui introdotte, sono state in seguito maggiormente approfondite dal punto di vista teologico nel quarto capitolo di questo lavoro con il tema della grazia e della carità. Ara STINO) Sad °° Questo indirizzo di ricerca è stato ispirato in parte da Abbà nella relazione tra saggezza pratica, visione del mondo e virtù ed in parte dalla Porter quando indica diverse espressioni della legge naturale che poi devono confrontarsi con dimensioni culturali differenti.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ. PROSPETTIVE SINTETICHE

generale ma solo espressioni multiformi della stessa che sono specificate da tradizioni diverse. Il capitolo terzo di questo lavoro ha voluto confrontarsi con questa tesi rifiutandola ed accogliendo invece pienamente il fatto che alcuni contenuti e specificazioni pratiche della giustizia possano essere diverse a seconda delle tradizioni e come queste ultime siano necessarie per la formazione delle virtù che si radicano in una storia ed in una comunità. A partire da quelle pagine ricordo una serie di considerazioni: —



le tradizioni non sono l’origine*della giustizia. Con questa affermazione intendo sottolineare ghe non si può declinare la virtù di giustizia senza tenere conto delle massime e delle inclinazioni; le tradizioni permettono tuttavia ai principi di cogliere l’intelligenza delle situazioni. Solo attraverso una tradizione specifica la virtù di giustizia entra

nell’indirizzo pratico del soggetto. Quest'ultimo non è un esecutore di una serie di massime in una dimensione asettica. Si deve confrontare con un

ambiente in cui declinare le massime e comprendere attraverso la saggezza pratica come realizzare le inclinazioni. Deve tenere in conto qualità individuali, caratteristiche sociali, circostanze storiche.” Il capitolo sulle diverse tradizioni specifica il fatto che la scelta etica vede un soggetto che non è un decisore di azioni in base alle norme come nell’etica della terza persona. Il

soggetto sceglie, in forza della ragion pratica che si concretizza nella guida delle virtù, quell’azione che è moralmente conveniente. Per questo occorre

un'intelligenza della tradizione e delle sue componenti, le idee e le moda-

lità di realizzazione di queste idee, moralmente rilevanti. La concezione sapienziale presente in una tradizione offre un contenuto concreto alla formalità dei principi; —

la tradizione è influenzata dalla virtù di giustizia. Esiste una sorta di cir-

colo virtuoso tra questi due aspetti. Questa considerazione, che è valida per tutto il concetto di virtù, riguarda in modo speciale la giustizia. La giustizia è una delle determinanti del modo di concepire il bene in una tradi-

zione perché riguarda i rapporti che soggetti appartenenti ad essa stabili- .

scono tra di loro.

2 Riprendendo la proposta globale della vita veramente buona, utilizzata da ADDA, o possibile affermare che da un lato questa nascerà dalla fonte della ragion pratica, perché ou fornirà fornisce l’ideale di perfezione, dall’altro deriverà dalla concezione sapienziale che

una valutazione dei beni sostanziali del mondo che consente di stabilire, al soggetto, quale rapporto ottimale intercorre con essi.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

1.2. Pratiche e giustizia

Le tradizioni permettono alle virtù di esplicitarsi.?? Esse non sono solo un insieme di idee ma specificano come queste idee prendano forma in un contesto sociale e nell’agire dei singoli. La dimensione comunitaria appartiene alle tradizioni. In particolare è il concetto di pratiche che permette alle virtù di uscire da un astratto e di assumere tratti concreti. Le pratiche sono attività collettive e collaborative che i soggetti esplicano. Nelle pratiche si perseguono dei beni interni che si raggiungono solo se i soggetti sono virtuosi. Se le pratiche debbono riuscire come impresa collaborativa è necessaria la presenza delle virtù. Nello specifico della giustizia la mancanza della stessa altera le tradizioni nella loro capacità di indirizzo ai beni. Ma se ogni tradizione elabora un proprio concetto di giustizia, come è possibile individuare una determinazione di quest'ultima che possa garantire la tradizione stessa? Questo interrogativo presuppone che la giustizia debba comunque radicarsi in un carattere di oggettività per poter essere un elemento di influenza di una tradizione. Una giustizia che si presenta come oggettiva permette il confronto fra tra-

dizioni differenti. Il poter distinguere dove la giustizia realizza un bene autentico, cioè il poter distinguere fra tradizioni diverse, presuppone il concetto di fine.?® Il delineare come una tradizione possa comprendere ed acquisire, come virtù morale, la giustizia comporta il constatare che certi atti, che si possono definire ingiusti, sono profondamente contrari al senso del bene che appartiene al soggetto umano. Ho analizzato, in particolare, il modo in cui la tradizione tommasiana mostra come la scoperta della virtù di giustizia da parte di una collettività, che in circostanze storiche anteriori ha praticato invece l'ingiustizia, presume l’accorgersi che in precedenza esisteva una violazione di alcuni beni fondamentali appartenenti alla dimensione umana propria.?” L'ingiustizia non è solo nei © Il concetto centrale dell’articolazione delle tradizioni, le pratiche, deriva dalle analisi di MacIntyre. 2° Il bene autentico in una tradizione è tale se riesce a condurre al fine ultimo del soggetto e dunque la giustizia deve avere i tratti che sono stati delineati in precedenza, legati alle inclinazioni e ai principi razionali. Lo stesso MacIntyre ha compiuto un passaggio intellettuale, nell’elaborarsi del suo After Virtue’s project, da una concezione sociale delle virtù ad una maggiormente basata sul fine ultimo del soggetto. ‘” Sono queste le considerazioni della Hall in merito all’acquisizione della legge naturale.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ. PROSPETTIVE SINTETICHE

confronti di chi subisce il male ma anche da parte di chi lo esercita perché è contraria alle potenzialità che invece il perseguire il bene attuerebbe nei soggetti. Acquisire le virtù non è solo una delle differenti e molteplici possibilità che si offrono ai soggetti, in una comunità, per poter dirigersi moralmente,

ma una necessità. Se manca il constatare che senza essere giusti, secondo una certa oggettività di questa espressione, non è possibile raggiunge alcun bene umano, non ci si accorgerà nemmeno del dover cessare dall’ingiustizia.?8 Questa riflessione va tenuta presente di fronte ed in relazione ad un passo successivo della ricerca che ha indagato la particolarità delle virtù — anche in senso cristiano — perché impedisce di cadere in un particolarismo della stessa virtù di giustizia che impedirebbe di delineare che cosa significa la medesima. Dunque una tradizione influenza la virtù di giustizia, tuttavia questo è un concetto diverso dall’affermare il dipendere della giustizia da una tradizione. Come dunque la tradizione cristiana esprime la virtù della giustizia? La risposta è oggetto dei temi che propongo nei prossimi paragrafi. 1.3. Virtù e tradizioni

Affermare un'etica qualificata in generale ha richiesto, prima di vedere lo specifico cristiano, una serie di precisazioni sulla dimensione comunitaria. Il concetto centrale che è sotteso ad una caratterizzazione in senso cristiano della giustizia è quello che evidenzia come le virtù non possano essere pensate che all’interno di una comunità e nella tradizione che segna la stessa.?? Esprimere la virtù di giustizia in senso cristiano richiede una serie di precisazioni.

a) Le virtù sono legate alla dimensione comunitaria e storica perché esse non sono caratteristiche innate nei soggetti, ma si acquisiscono in un processo

di crescita morale. Il soggetto appartiene ad una tradizione, determinata da una particolare connotazione morale, che si dispiega nello scorrere del tempo. Qui per valenza morale intendo le caratteristiche non solo di una qualsiasi condotta, ma di quella che già indirizza al bene proprio. Dunque un certo agire giusto ha espressioni diverse a seconda delle prospettive storiche e contingenti in cui accade. Il legame con la tradizione avviene perché la giustizia non è indipendente dall'ambiente comunitario in cui essa può formarsi, crescere e consolidarsi. 28 Senza la constatazione della legge naturale. gli 29 Queste considerazioni sono affrontate nel capitolo terzo di questa ricerca attraverso studi di S. Hauerwas.

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COME

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b) Accanto al legame tra giustizia e comunità si specifica il concetto di “carattere”. Esso permette di delineare l’unità morale del soggetto. Soprattutto è utile pensare la definizione di carattere, seguendo la terminologia inglese “character”, secondo una valenza di personaggio che interpreta una storia e che ha certe caratteristiche costitutive a livello morale. La giustizia si ricava guardando a come un certo “personaggio” ha attuato una condotta

vitale in cui emerge l’aspetto della giustizia. In fondo è un modo differente per affermare la presenza delle virtù. Un personaggio che avrà attuato una condotta vitale nel rispetto della giustizia possiede delle caratteristiche costitutive che non sono altro dalla virtù di giustizia: una disposizione permanente del suo carattere. c) Le vicende del soggetto possono essere sintetizzate nel concetto di storia vitale dello stesso a cui corrispondono le storie degli altri. Un soggetto sceglie

ed agisce in modo giusto in relazione all’intreccio delle aspettative di giustizia degli altri nei suoi confronti e viceversa.

d) I tre punti precedenti presuppongono dunque una crescita morale del soggetto. Ma essa deve essere segnata da un punto di approdo, da un fine.

Nell’etica delle virtù occorre tenere uniti il percorso e la meta che conducono al bene. Le tradizioni, con le loro caratterizzazioni sociali e storiche e le qua-

lità personali dei soggetti, non esauriscono il discorso morale che deve poter raggiungere i fini propri dei soggetti. In sintesi questi aspetti insegnano che la giustizia non è indipendente dalla tradizione che la sostiene: la proibizione di un atto ingiusto, oppure un soggetto che acquisisce le caratteristiche personali della giustizia, sono sempre legate alla tradizione che permette ai soggetti di indirizzarsi al bene. Questi aspetti riguardano la definizione stessa delle virtù che diventano disposizioni permanenti nel soggetto perché riescono a rafforzarsi nell’appartenere al medesimo grazie ad un sentire condiviso e comunitario dell'importanza ad esempio della virtù di giustizia. Mi sembra che una delle risultanze delle analisi sull’etica qualificata indichi come per comprendere la virtù di giustizia occorra armonizzare una prospettiva etica che riconduca al bene e la complessità della crescita morale del soggetto e delle comunità all’interno di una tradizione. 1.4. Tradizione cristiana di giustizia

L'analisi della tradizione “cristiana” di giustizia — e successivamente della specificazione “cattolica” della medesima — è stata compiuta nel capitolo terzo con uno sguardo che indicasse gli oggetti “materiali” delle virtù. Detto altri428

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ. PROSPETTIVE SINTETICHE

menti come si articola e quali contenuti possiede la virtù di giustizia in senso cristiano.5°

Un primo equivoco che è stato necessario evitare è quello di ridurre un'etica cristiana ad un insieme di norme che sono state dedotte da un insieme di verità rivelate. Una tradizione cristiana influenza e determina la giustizia inserendola innanzitutto in una storia vissuta dai singoli e collettivamente: solo

dove le convinzioni cristiane hanno preso una forma autentica, personale e comunitaria, allora è possibile delineare i tratti di una giustizia cristiana formatasi in una tradizione."

Le virtù, disposizioni permanenti che permettono al soggetto di raggiungere il bene, assumono ufia prospettiva cristiana quando si formano attraverso specifiche convinzioni e credenze che si sviluppano in una comunità e che si esprimono con delle categorie narrative. La tradizione cristiana viene alimentata dai contenuti e dagli ideali della

fede: la comunione tra soggetti, la sequela evangelica, una libertà eteronoma in risposta all’amore di Dio sono solo alcune delle caratteristiche che la contraddistinguono.

Questi aspetti, se vissuti autenticamente all’interno di una comunità cristiana, permettono di indirizzare la giustizia come virtù. Le virtù cristiane

non possono essere definite come genericamente umane, ma prenderanno forma nella struttura comunitaria, nelle comunità cristiane, in cui nascono

e si radicano.

Alcuni punti esemplificativi permettono di precisare la natura della giustizia in senso cristiano:

a) la giustizia del Regno di Dio vede i beni come un dono; b) la giustizia nasce dalla croce di Cristo: non si possono perseguire realizzazioni di giustizia se i mezzi utilizzati da essa sono ingiusti o violenti; © la virtù di giustizia è strettamente legata ad un’altra virtù, quella della pazienza, che nasce dall’attesa per la crescita del Regno nelle vicende umane;

d) la resistenza non violenta all’ingiustizia esprime la via per creare giustizia ancora nella fedeltà alla croce di Cristo;

e) la giustizia cristiana ha sempre una componente sociale che è legata alla natura comunitaria — ecclesiale — della vita cristiana. Significa che senza

una dimensione comunitaria cristiana dove è presente la giustizia la virtù

non riesce a svilupparsi pienamente. poi affron30 La questione delle determinanti teologiche della specificità cristiana è stata carità. tata nel capitolo quarto con l’analisi della grazia e della . 31 Queste considerazioni nascono ancora a partire dalle riflessioni di Hauerwas

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Mi sembra che questi punti abbiano ampiamente sottolineato in che senso la giustizia cristiana possa essere considerata come una “qualificazione” della giustizia. In modo particolare queste caratterizzazioni cristiane sono legate

ad una trasformazione dei soggetti. Non possono essere solo un agire puntuale slegato dall’identità morale complessiva del soggetto. La stessa prospettiva della fede è infatti una conversione del soggetto che nasce dalla fede. In sintesi la giustizia, che nasce nell’ambito della tradizione cristiana, è tale

se viene vissuta come una virtù che appartiene alle modalità concrete che sono poste in atto dalle comunità cristiane. Le decisioni morali che formano ed alimentano la giustizia cristiana debbono venire sostenute, necessariamente,

dall'ambito comunitario: non esiste giustizia cristiana senza che la comunità cristiana sostenga ed incarni questa virtù.

A mio giudizio la caratterizzazione legata ad un ambiente collettivo, dove ritrovare la presenza delle virtù nei soggetti che vi appartengono, è una delle qualità della giustizia cristiana. Gli aspetti della medesima, che ho mostrato come derivanti dai precetti della legge naturale, necessitano di un processo di acquisizione che si riferisce ai concetti morali che già precedono il singolo soggetto in una comunità.” Questo processo di acquisizione, comunitario e particolare, non è in contrasto

con l’universalità dei precetti che appartengono intrinsecamente alle dimensioni antropologiche espresse nei fini umani. Se le virtù — e la giustizia come virtù — trovano degli ambienti comunitari in cui prendono forma allora si radicano, proprio nel loro essere habitus, nei soggetti in forza della condivisione che è possibile delle stesse. In sintesi la virtù cristiana di giustizia deve godere di un processo di acquisizione da parte dei soggetti che richiede le dimensioni comunitarie — ovvero ecclesiali — a cui i medesimi appartengono. 1.5. Tradizione cattolica di giustizia

Nella parte conclusiva del capitolo terzo ho tentato di indagare se si potesse

definire una tradizione cattolica di giustizia e quali caratteristiche contraddistinguano la stessa.



In particolare quest'analisi ha comportato il recupero del pensiero sociale cristiano — altrimenti detto dottrina sociale della Chiesa — che ho analizzato secondo il concetto di tradizione utilizzato in precedenza. 3 i Ù : ? Questa affermazione non cade nel particolarismo perché esistono dei precetti che sono condivisi da tutte le comunità.

430

LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ.

PROSPETTIVE

SINTETICHE

Non è stata compiuta un'indagine generale sui temi e contenuti della dottrina sociale, perché non era l’oggetto di questo lavoro, ma essa è stata intesa come la tradizione in cui emerge uno specifico cristiano, meglio cattolico, per la giustizia. Nella tradizione cattolica la giustizia ha una duplice origine. Come primo momento fondativo la giustizia è in relazione con il concetto di dignità umana. Quest'ultima nasce prima di ogni relazione sociale. La dignità umana, in quanto comune a tutti i soggetti, indirizza la prospettiva sociale: indica una reciprocità tra soggetti. Quest'ultima scaturisce proprio perché esiste un’'uguaglianza tra i soggetti data dalla loro dignità, detto altrimenti la giustizia è dovuta, nelle relazioni, per l'uguaglianza dei soggetti. La tradizione sociale cristiana ha sempre affermato che se i rapporti sociali esprimono un’oppressione da parte di alcuni nei confronti di altri non ci può essere alcuna giustizia. Il secondo tema fondativo è la relazione tra la giustizia e l’amore del prossimo che nasce dall'amore di Dio. La richiesta di eguaglianza espressa dalla giustizia deriva, nella tradizione sociale cattolica, dalle esigenze dell'amore cristiano. In sintesi ci sono tre aspetti che sono necessari per delineare la giustizia

nella tradizione del pensiero sociale cattolico: — l'uguaglianza che genera reciprocità. Essa è una componente fondata sulle dimensioni antropologiche; deriva dai fini propri dei soggetti, è la caratterizzazione che deriva dalla legge naturale;8‘

— l’amore, inteso cristianamente come amore del prossimo, è un’altra parte costitutiva che è all’origine di questa reciprocità; la giustizia, che regola la reciprocità, e che viene fondata sulle due compo-



nenti — amore ed uguaglianza — che la precedono.” In particolare la tradizione sociale cattolica ha elaborato una divisione della giustizia in tre aspetti diversi: giustizia commutativa, distributiva e sociale.? .

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Queste tre costituenti sono espressioni della reciprocità ricordata in prece-

3 Ho utilizzato per queste pagine gli studi di D. Hollenback. 3 Questa affermazione è la stessa che è stata precisata in precedenza nel capitolo secondo questo di questo lavoro. La reciprocità comporta individuare dei criteri che la guidino: avviene con l’indirizzo dato dal principio di eguaglianza. va 35 Se il criterio di eguaglianza è guida alla giustizia, si aggiunge ora la prospetti dell’amare il prossimo come se stessi. i che devono 36 Commutativa è il dovuto tra le parti, distributiva riguarda i beni collettiv ità sociale collettiv la verso essere redistribuiti nella società, sociale è l’interesse dei singoli ve della costituti parti essere ed anche il fatto che i singoli e le entità intermedie possano struttura sociale.

431

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

denza. Quest'affermazione sembra più scontata per la giustizia commutativa,

ma appartiene anche alle altre due specificazioni della giustizia. Nella giustizia distributiva ai soggetti sono dovuti parte dei beni collettivi; in quella sociale esiste una responsabilità di tutti per la struttura collettiva. Se la dimensione di indagine razionale ha portato nella tradizione cattolica ad individuare le tre modalità viste, in che senso questi tipi di giustizia sono

espressione dell'amore cristiano? La risposta può venire articolata in tre aspetti: a) la reciprocità, che si incontra nelle tre espressioni di giustizia rilevate, deriva

dall’amore cristiano: dare all’altro quello che gli è dovuto è uno dei modi di amarlo; b) l’amore caratterizza la giustizia modificandola parzialmente nella qualità del gratuito: la spinge verso quello che è oltre il dovuto.?” Questo aspetto è sicuramente evidente nella giustizia distributiva perché essa propone una gratuità, che è una componente della reciprocità asimmetrica, presente in questo tipo di giustizia. Ma anche la giustizia sociale comporta l’aspetto del dono nell'impegno del soggetto per il bene comune. c) infine l’amore cristiano è una componente motivazionale per il soggetto:

voglio essere giusto perché voglio amare il mio prossimo e Dio. Nella tradizione cattolica di giustizia ho riscontrato due aspetti. Da un lato la dimensione della virtù guidata dai principi razionali e dalle

inclinazioni è una dimensione imprescindibile per spiegare e concretizzare le azioni, singolari e collettive, dei soggetti che vi appartengono.

Dall’altro è segnata dalla necessità dell’apporto dell'amore alla giustizia. In che senso l’amore di Dio, che si riversa nell’amore verso il prossimo, può essere

spiegato come determinante della virtù di giustizia? Questa analisi è quella che è stata proposta nel capitolo quarto di questo lavoro. In sintesi, i principi di giustizia vengono declinati nella tradizione cristiana — e cattolica — attraverso la modalità dell'amore del prossimo. Si declinano in una tradizione che è formata e ha dato realtà all'amore per il prossimo.

Dunque un’altra modalità di indicare in senso generale questo lavoro è quello di vederlo come un'analisi della tradizione cristiana di giustizia.

7 Queste considerazioni sono state riprese con le tematiche della grazia e della carità nel capitolo quarto di questo testo.

d

n 1 Questa conclusione è qui in fondo evidente nel senso che queste sono le componenti ; costitutive della giustizia come indicato nel capitolo secondo.

432

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ. PROSPETTIVE SINTETICHE

1.6. Le radici tommasiane della tradizione cattolica di giustizia

Tommaso propone una riflessione sulla giustizia che è all’origine della visione della stessa nella tradizione sociale cattolica. La divisione vista in precedenza tra specie di giustizia viene in parte adottata dallo stesso Tommaso quando distingue le parti della giustizia nella divisione tra giustizia commutativa e distributiva.?? Egli però propone anche un'altra ripartizione tra i tipi di giustizia che permette di precisare l’idea della stessa come virtù e di vederne aspetti in parte nuovi. Tommaso individua una distirizione tra giustizia generale e particolare. Quest'ultima ricade nellà prospettiva delle virtù adottata sinora. Diverso invece è per la prima. La giustizia generale caratterizza tutte le virtù perché le azioni eccellenti o virtuose facendo il bene del soggetto sono causa di un bene sociale o comune: ricadono a vantaggio di tutti i soggetti.

La giustizia generale prende forma in tutti gli atti virtuosi specifici che conducono al bene comune.?0 Esiste però una seconda accezione di giustizia generale: essa riguarda

l’equità della società nel suo complesso. In questo caso la virtù ha un aspetto che interessa la collettività e si ricollega sia alla giustizia distributiva che a quella sociale: essa si indirizza ad un fine collettivo, vuole realizzare un bene

collettivo, la giustizia per un insieme di soggetti. La giustizia generale viene anche definita in questo senso giustizia legale: la giustizia propone il realizzarsi del bene comune attraverso la mediazione della legge. Quest'ultima deve esprimere e fondarsi sulla tutela del bene comune di tutta la dimensione sociale. La radice tommasiana del pensiero sociale cattolico è, in special modo, in

quest’accezione di giustizia. Nello specifico Tommaso individua una prima espressione della giustizia generale nella giustizia distributiva. Anche la giustizia sociale fa parte della giustizia generale perché il soggetto deve proporsi la crescita della dimensione sociale e favorirla con il suo agire. Per precisare le questioni della giustizia generale è stato necessario introdurre una serie di considerazioni inerenti il bene comune e riprendere le caratteristiche sociali della persona." La giustizia generale realizza una socialità che è una delle caratteristiche

Si LbellIL6ly Li

‘0 Rimane allo stesso tempo lo specifico delle singole virtù. ‘1 Per queste riflessioni ho utilizzato nel capitolo terzo delle analisi proposte l’interpretazione di Tommaso offerta da J. Maritain.

433

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

fondanti l’umano. Il bene comune non è che un’altra modalità di esprimere la giustizia distributiva: esso infatti comporta il concetto di redistribuzione perché il bene globale della comunità ricade sulle parti della stessa che necessitano un sostegno. Il bene comune si riferisce inoltre alla giustizia sociale che riguarda l’apporto degli individui alla società: ciascuna parte non compie solo il bene a lei proprio ma è chiamata al bene di tutti e questo bene ha poi una ricaduta positiva sulla stessa. Si crea un circolo virtuoso: il bene personale e comune non sono in opposizione, piuttosto si esprimono in una comunione di prospettive che si richiamano e si completano. Giustizia generale e compimento del bene comune sono aspetti simili della realizzazione di un bene che esprime il bene proprio del soggetto. 1.7. Tradizione cattolica di giustizia oltre la virtù?

La tradizione cattolica di giustizia, sia nell’espressione»del pensiero sociale che nella sua radice tommasiana, ha mostrato una prospettiva in parte diversa

sulla giustizia: il tema della giustizia generale è complementare all’osservare la giustizia come virtù.

È emersa una dimensione della giustizia maggiormente formale che riguarda le dimensioni procedurali della stessa. La giustizia generale — nelle sue componenti distributiva e sociale — può essere delineata in una modalità maggiormente esterna ai soggetti che in seguito si adegueranno ad essa: siamo

sul piano dell'etica normativa piuttosto che su quella del soggetto agente virtuoso. Anche se questa differenza è autentica, nel lavoro svolto, si è rivelata più sfumata di come viene compresa solitamente. La giustizia generale infatti è determinata da due componenti che appartengono anche alla giustizia come virtù o particolare. La prima è il principio di eguaglianza. Nel pensiero sociale i tipi di giustizia — distributiva e sociale — richiamano delle istanze di reciprocità che si esprimono nel principio di eguaglianza. La seconda componente è stata individuata nella socialità. Tutto il discorso sul bene comune tutelato dalla giustizia generale non è solo un discorso funzionalistico, che serve per permettere e migliorare la convivenza sociale, ma

riguarda la realizzazione della socialità come costante antropologica dei soggetti. È sembrato di poter affermare che se i soggetti scoprono la giustizia come

virtù potranno poi nella dimensione collettiva indirizzarsi alla promozione della giustizia distributiva e sociale perché le modalità individuali saranno le stesse della realizzazione collettiva della giustizia. 434

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ. PROSPETTIVE SINTETICHE

1.8. Sfere di giustizia

Il terzo capitolo di questo lavoro si è chiuso con uno sguardo diverso sulla giustizia volendo analizzare la tradizione che viene definita come comunitaria in uno dei suoi pensatori maggiormente importanti quale Michael Walzer. Questa tradizione ripropone il valore della comunità per le determinanti dell’agire dei soggetti. In particolare il lavoro di quest'autore mi è sembrato interessante per tre ragioni che hanno anche determinato la collocazione in questo capitolo. La prima riguarda il fatto che il concetto di tradizione, anche se non presentato in una maniera ssplicita dall’autore, può essere la chiave di lettura che

permette di individuare una molteplicità di “sfere” di giustizia. Queste ultime fanno emergere una serie di criteri che indirizzano la giustizia e che sono legati ai beni che sono oggetto di “distribuzione”. La seconda invece è legata alla tradizione cattolica ed alla giustizia distri-

butiva. Walzer infatti riprende la questione della giustizia distributiva e vuole spiegare in quale maniera essa possa venire realizzata tenendo conto dei soggetti, dei bisogni e dei criteri che caratterizzano un certo bene e una certa distribuzione dello stesso. La giustizia è tale perché si crea giustizia in un determinato ambito comunitario. Detto altrimenti ha senso affermare la giustizia se l’individuo è inserito in una tradizione specifica, anche se questo assunto non è assoluto perché egli individua poi un minimalismo morale che vale in ogni ambito. L'analisi della tradizione tommasiana ha evidenziato che la giustizia distributiva risponde a dei criteri di eguaglianza che si concretizzano in una proporzionalità — quindi con dei parametri — diversa da quella ad esempio della giustizia in senso commutativo. Il principio di eguaglianza rimane centrale per la spiegazione della giustizia, ma può essere specificato in modalità differenti. Le argomentazioni proposte da Walzer hanno permesso di considerare non solo un principio, piuttosto una serie di variabili che se combinate conducono ad una situazione sociale di giustizia.

Le considerazioni del filosofo americano mi sembrano un esempio valido di una modalità di comprensione dei principi, in particolare dell’eguaglianza, che è sempre necessaria: i principi che regolano la giustizia hanno bisogno poi di un'ulteriore specificazione che dipende dal contesto in cui si inseriscono. Necessitano di una tradizione precisa per passare ad un'esplicazione che tocchi poi le scelte di giustizia di una certa comunità.!’ unt en diaz ) se: : 3 42 In questo caso il concetto di tradizione riguarda l’elaborazione dei concetti etici deri vati dai principi e non solo l’esplicitazione fattuale dei medesimi.

435

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Il tentativo è quello di occuparsi della giustizia distributiva non a partire dalla società nel suo complesso e comprendendo quali beni vanno distribuiti in una certa maniera, ma riflettendo principalmente sui beni, o meglio inter-

rogandosi sul significato che determinati beni assumono per i soggetti in una prospettiva comunitaria. In uno sguardo sintetico le determinanti delle sfere di giustizia sono le seguenti:



oggetti di scambio: sono i beni sociali oggetto di distribuzione;

— —

mezzi di scambio: prioritario è il denaro, ma non esclusivo; entità di controllo dello scambio: ad esempio il mercato, il potere politico



e le oligarchie; criteri distributivi: merito, bisogno, scambio.

Come appunto critico ribadisco che la proposta di Walzer in merito alla giustizia è “formale”. Essa infatti non si pone la questione del dovuto ai soggetti in base a ragioni ontologiche o metafisiche. Mi è sembrato che mettere al centro il significato sociale dei beni per i soggetti ricada in una proposta che non riesca a dire il perché, le ragioni, della scelta e dell’ordine di questi beni. Senza questa premessa le “sfere di giustizia”, dove cioè la distribuzione rispetta le qualità che i soggetti attribuiscono agli stessi e che per questo sono distribuzioni giuste, non riescano a raggiungere il

risultato di assicurare realmente una giustizia per il bene proprio dei soggetti.

D) Virtù infusa di giustizia Per comprendere la valenza dell’amore cristiano rispetto alla giustizia nell’ul-

tima parte di questo studio ho proposto un approfondimento di tipo teologico che ha comportato l’analisi della concezione tommasiana delle virtù infuse.

Questo tema non è stato molto studiato anche nella ripresa del discorso delle virtù. 4 Comprendono ad esempio i capitali, i beni materiali, le persone, î ruoli. In fondo ogni aspetto che sia oggetto di distribuzione, dove quest'ultima è un termine che non si riferisce al solo mercato, ma che abbraccia l’intera l’esperienza umana. Riguardano realtà materiali ma anche immateriali. 44 [idea di un unico criterio distributivo, in particolare l’eguaglianza che caratterizza lo scambio in senso commutativo, viene messa in discussione dall’esistenza di una pluralità di

criteri.

436

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ. PROSPETTIVE SINTETICHE

Qui invece è stato analizzato come una tematica che permette di spiegare la giustizia come virtù cristiana.

Il fine ultimo, la grazia e la carità sono state le ternatiche necessarie per giungere a definire la giustizia infusa. 1.1. La Grazia

Nelle considerazioni precedenti, analizzando la tradizione cristiana di giusti-

zia, ho sottolineato che l’amore del prossimo è una delle determinanti delle specificazioni di giustizia. Ritorno ora su questo tema con un approfondimento

che riguarda il

punto di vista teologico: l'apporto della grazia alla prospettiva delle virtù. Il dono della grazia, nella visione cristiana, trasforma le virtù e le arricchisce.

Ho seguito per dare ragione di questa relazione l’idea tommasiana di virtù infuse.®° La grazia può essere considerata in due modalità che riguardano gli effetti sul soggetto: la grazia attuale e quella abituale. Mentre la prima distinzione riguarda le azioni puntuali, la seconda definizione è familiare perché richiama

il concetto di virtù; in questo caso la grazia è un principio interno del soggetto: essa rinnova il soggetto che la riceve diventando una “qualità” che lo rende “connaturale” alle persone divine. La grazia è una “qualitas” che è inerente al soggetto. Essa è un dono gratuito, la presenza stessa di Dio: l’amore speciale di Dio per l’uomo che permane in lui. È una realtà che unisce dono, destinatario del dono e donante. Il passaggio successivo riguarda l’eticità della grazia. Con questa definizione è stato sottolineato come la grazia abbia una relazione con l’agire morale

del soggetto. Questa relazione è duplice viste le caratteristiche citate in precedenza della grazia: ha un aspetto di stabilità, è abituale perché permane nel soggetto come precisato e lo indirizza attraverso le virtù, oppure è un aiuto

attuale per le azioni e le circostanze discrete.

Perché nell’impostazione tommasiana la grazia è necessaria per la dimensione etica? La risposta è nell’incapacità del soggetto di raggiungere un bene adeguato ai suoi fini. Egli per raggiungere il fine proprio, che conduce alla beatitudine, ha bisogno della grazia. Tuttavia ci sono una serie di beni per i quali il soggetto non necessita della

grazia. La testimonianza migliore è tutto il ragionamento fatto dallo stesso Tommaso sulle virtù acquisite.

4 Lo schema seguito è grazia, virtù teologali, virtù infuse.

437

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Si può affermare, in sintesi, che la presenza della grazia conduce alla pienezza della possibilità di raggiungere il bene che non è data alle sole capacità umane; nel soggetto permangono alcune capacità naturali di indirizzo al bene, ma non quelle che indirizzano ad una pienezza del medesimo." Per spiegare questa tematica è stato opportuno, nell’analisi, introdurre il concetto di fine.” Il soggetto può raggiungere una pienezza, la beatitudine

perfetta, solo nella prospettiva teologale, oltre la dimensione terrena.‘* Egli ha tuttavia la possibilità di giungere ad un fine imperfetto naturale: la vita buona secondo virtù. Ricordo come Tommaso proponga una concezione che si può indicare come “duplex felicitas”.!° Per Tommaso descrivere una beatitudine imperfetta non è una contraddizione perché la dimensione terrena è legata alla speranza di quella sovratemporale, la beatitudine imperfetta in questo senso non esiste da sola, è nello

sguardo a quella perfetta. La beatitudine imperfetta vede tutta la prospettiva della vita buona ostacolata da una serie di aspetti esogeni che rendono difficile il raggiungere la medesima. L’agire moralmente quale elemento per raggiungere la beatitudine imperfetta, fine naturale, diventa fortemente condizionato da elementi esterni ed aleatori: la sfortuna, i mali personali, quelli del mondo e simili, la disponibilità dei beni e la benevolenza altrui.?° La visione teologica rappresenta una risposta per fronteggiare questa aleatorietà.

Infatti nella prospettiva del dono della grazia la beatitudine è ora “garantita” dall'esterno: nella prospettiva credente dall’esterno significa garantita da Dio stesso.

Dunque la grazia caratterizza la realtà della beatitudo non solo nella pro‘° Questo argomento sembra contraddittorio se basato solo su S Th I II 109,2 dove si afferma che il soggetto è mancante per raggiungere il bene. Occorrerà per comprendere questo problema affrontare il tema delle virtù infuse. ‘In particolare per questo argomento mi sono avvalso delle riflessioni di Rhonheimer. ‘8 La contemplazione di Dio. Cfr.

SThIII 3,5. Due realtà: a) deaztitudo perfetta, contemplarè Dio come massimo

bene possibile, è condizione futura rispetto alla attuale condizione umana: contemplare l’essenza di Dio stesso propria degli esseri beati; b) beatitudine imperfetta, cioè la beatitudine della vita terrena che si articola a sua volta in due aspetti: la contemplazione possibile nella condizione umana; la vita pratica secondo ragione ovvero la vita buona. °° Questi elementi esterni al raggiungere la felicità imperfetta non mettono in discussione il fatto che il bene è da farsi. Senza questo assunto a priori ogni discorso morale perde di significato.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ. PROSPETTIVE SINTETICHE

spettiva della beatitudo perfetta, che significa la comunione con Dio oltre la

vita terrena, ma anche nel trasporsi di questa beatitudo in forme imperfet te

che godono però di aspetti di anticipo della contemplazione e della comunione con Dio e che raggiungeranno solo in seguito la pienezza della vita eterna. In particolare la beatitudo è in relazione alla caratterizzazione delle virtù teologali. La fede che accoglie la rivelazione e diventa arricchimento della sola prospettiva della ragione umana. La speranza che anticipa la presenza di Dio che rende felici. La carità che salda il legame tra il soggetto umano e quello divino. } Questa tematica dei fini è stata utile per comprendere la relazione tra virtù infuse ed acquisite: la premessa in merito alle capacità di compiere il bene che appartengono al soggetto ha permesso di affrontare il discorso sulle virtù infuse. 1.2. Azione delle virtù infuse

Come agisce la grazia abituale nel soggetto? Come permette al medesimo di

raggiungere il bene? Il fatto di aver evidenziato che per stabilizzarsi nella vita virtuosa, per

cioè raggiungere una beatitudine imperfetta ma che abbia la possibilità teorica di essere raggiunta, il soggetto necessitasse della grazia si concretizza ora nell’azione delle virtù infuse. La grazia è la sorgente delle virtù infuse per Tommaso. L'apporto della grazia non viene ad elidere il soggetto umano: legarla alle virtù significa ricor-

dare che l’importanza del soggetto permane comunque perché le virtù, anche infuse, sono sempre disposizioni delle sue facoltà operative. Le virtù teologali — fede, speranza e carità — sono principi operativi che derivano dalla grazia e che si inseriscono nel processo intenzioni, scelte ed azioni indirizzandolo direttamente all’unione con Dio stesso.

Allo stesso tempo si rileva la presenza delle virtù morali infuse che trasformano

il soggetto, come quelle acquisite, nel senso del potenziamento delle

facoltà del medesimo.

L'attenzione si è dunque concentrata sulle virtù infuse cercando di spie-

garne la funzione in un'etica del soggetto che si indirizza al fine ultimo. Per quanto riguarda la trasformazione delle facoltà umane riporto quello che accade alla volontà. Essa normalmente viene diretta verso il bene razionale, ma diventa una volontà che è indirizzata al bene sovrannaturale dalla

speranza e dalla carità. Soprattutto quest'ultima diventa il principio che guida la persona che ne fruisce al bene sovrannaturale.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Il bene, o fine, sovrannaturale non è altro che Dio stesso. La possibilità di una comunione con Lui, in quanto fine, può solo essere, come visto, un dono

generato dall’azione della grazia. Ripropongo qui lo schema sintetico che mostra l’articolazione tra la grazia e le virtù infuse e che vuole mostrarne la relazione reciproca: Grazia

Virtù teologali infuse

v Virtù morali infuse

Le virtù morali infuse riguarderanno anche un cambiamento nelle virtù

che normalmente sono acquisite: esse si collocano sul confine naturale e sovrannaturale. Avranno degli aspetti che appartengono alle caratteristiche delle virtù acquisite, tuttavia comporteranno un anticipare parzialmente la dimensione della beatitudine piena.

Lo studio delle virtù infuse ha presentato un aspetto fondamentale per approfondirne la comprensione. Questo punto centrale può essere sintetizzato con una domanda: le virtù infuse propongono solamente un cambiamento di fine rispetto a quelle acquisite, una modificazione nelle intenzioni ultime

del soggetto agente verso l'orientamento a Dio, oppure si tratta di un cambiamento dei principi operativi e dunque delle modalità, dei contenuti, in cui si realizza il bene dato dal loro potenziale? La risposta a questa domanda conduce a precisare quali caratteristiche sono state attribuite allo specifico cristiano delle virtù. Per affrontare questa tematica è stato necessario studiare le caratteristiche della virtù teologale, cioè la carità, che influisce sulla giustizia, le cui risultanze propongo nel paragrafo seguente. 1.3. Giustizia e carità

Il rapporto tra giustizia e grazia è mediato dalla carità. Vedendo le “proprietà” di quest'ultima si comprende la trasformazione della giustizia come virtù infusa. I caratteri della carità si esprimono nei seguenti punti:



la carità riguarda l’amore di Dio. È virtù infusa teologale: dono di Dio all'uomo. Essa è una partecipazione all'amore di Dio che coinvolge la rispo-

sta amorevole del soggetto. Quest'ultima assume le caratteristiche dell’amicizia tra il soggetto e Dio stesso; 440

LA GIUSTIZIA

COME

VIRTÙ.

PROSPETTIVE

SINTETICHE



la carità ha un indirizzo antropologico. Significa che la risposta d’amore del soggetto a Dio si espande anche all’amore del prossimo; — la carità è una virtù perché tocca la volontà del soggetto e si inserisce nella sua ricerca dei fini; — nella strutturazione antropologica la carità riguarda sia l’amore per il prossimo che l’amore per se stessi: la comunione con Dio vede una sorgente unica dell'amore. Una chiamata alla comunione con Lui che diventa comunione reciproca tra i soggetti.

Queste caratteristiche generali della carità permettono di comprendere la sua influenza sulle virtù, morali infuse.

La presenza della carità indirizzerà i desideri — l’appetibile — del soggetto verso il fine ultimo! Da un lato la carità dirige sforma le virtù che prendono azioni corrispondenti ordinate Mi pare che questa risposta siana. Il fine ultimo è sempre

il soggetto all'unione con Dio. Dall’altro traforma in una serie di intenzioni parziali ed a quel fine. abbia indicato la via pratica dell’etica tommamediato anche da una serie di fini intermedi.

Questi si raggiungono se sono presenti le virtù morali infuse che permettono al soggetto di indirizzarsi verso le azioni che fanno parte di quel fine medesimo.

L’affermazione classica che la carità è forma di tutte le virtù significa dunque che se la carità è presente, cioè infusa, ordina tutte le virtù, ed anche la giustizia acquisita, nell’indirizzo al fine ultimo: è l’indirizzo delle intenziona-

lità virtuose al fine inclusivo ultimo, cioè Dio?

Viste le premesse poste, cioè le analisi sulla grazia, sulle prospettive dei fini, sulle virtù infuse e sulla carità presento l'argomento che è stato decisivo per comprendere la relazione tra carità e giustizia. Sono importanti tre considerazioni generali che poi permettono di entrare nello specifico della relazione. Una prima considerazione generale riguarda il fatto che carità e giustizia si arricchiscono reciprocamente. La giustizia — come disposizione permanente

del soggetto — crea una condizione favorevole alla presenza della carità: poiché nelle disposizioni del soggetto incontra già un orientamento al bene interper-

sonale. Naturalmente anche la carità permette alla giustizia di essere un habi-

sar Le ICfraS Tel 165;2: virtù delle parziali fini i trasforma 5 Cfr. S Th II II 23,8. Allo stesso tempo la carità infuse rispetto a quelle acquisite.

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

tus maggiormente radicato: le caratteristiche di stabilità dello stesso crescono con la presenza della carità. Una seconda premessa afferma che carità e giustizia sono inerenti sia alla trasformazione virtuosa del soggetto, hanno la caratteristica di habitus, che alle azioni virtuose che nascono dall’agire pratico, cioè le azioni paradigmatiche che sono esemplari di carità e giustizia. Attraverso questi due concetti

si comprende come venga in parte superata una distinzione tra un'etica delle virtù che riguarda solo i soggetti ed un'etica delle stesse che tocca le azioni. Una terza tematica riguarda la virtù infusa di giustizia. Attraverso l'approccio della legge naturale, la quale richiede una contestualizzazione etica nel particolare, è emerso che lo specifico cristiano della legge naturale è rappresentato da un'idea direttamente teologica che propone le virtù infuse ed in particolare la virtù infusa di giustizia? Essa presenta dei fini, un cambiamento dell’oggetto formale della virtù, che sono diversi da

quelli che mostrano altre concezioni come quella liberale, quella contrattualistica, utilitaristica o altre.

In particolare il concetto di carità trasforma le modalità di espressione dei fini della giustizia rispetto a quelli normalmente espressi dalla legge naturale: un cambiamento dei principi consueti che guidano la giustizia” Guardando alle tendenze antropologiche lo stesso tema può essere sostenuto con il dire che la giustizia sarà costruita sulla socialità come componente umana, ma ugualmente sarà fondata sul comandamento dell’amore. Viste queste premesse generali ho sostenuto un'idea che è il centro delle riflessioni sulla giustizia infusa: la carità è operante nella giustizia ed attraverso la giustizia. 1.4. La carità nella giustizia

La carità nella giustizia non è altro che la virtù infusa di giustizia. Quest'ultima estende il suo significato, diventa, in se stessa, un'amicizia con Dio poi-

ché la carità provoca nella giustizia un cambiamento di fine, l’indirizzo diretto al fine ultimo. La carità nella giustizia fa diventare quest'ultima non solo una componente della socialità umana necessaria per il bene proprio, ma qualcosa che appartiene all’amore di Dio che diventa amore per il prossimo. Essa può avere una duplice modalità: ? Questo approccio è quello, in particolare, proposto da J. Porter. °* Questa affermazione può anche essere detta come un cambiamento delle modalità in cui i fini della legge naturale sono poi interpretati in una tradizione specifica, che in questo caso è quella cristiana.

442

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ. PROSPETTIVE SINTETICHE



un cambiamento nelle intenzioni rimanendo uguali i principi e le azioni di giustizia;



un cambiamento nelle modalità di realizzazione della giustizia. Prima di affrontare queste due argomentazioni voglio sottolineare la presenza della giustizia nel darsi della carità. 1.5. La carità attraverso la giustizia L'idea della carità attraverso la giustizia è un’idea diversa dalla giustizia come

virtù infusa. Vuole piuttosto sostenere come la carità presenti una serie di

aspetti che dipendono dalla giustizia. Un primo concetto che permette di precisare quest'affermazione è quello dell’’ordo caritatis’. La carità si esercita con una certa articolazione che riguarda il grado di distanza o vicinanza del prossimo che è destinatario dell’azione di carità. È stato messo in evidenza come la carità necessita la giustizia nei rapporti con i soggetti maggiormente vicini: occorre dare loro quello che gli è dovuto. Si può affermare in questo caso che senza giustizia non si dà carità. In questo caso si può utilizzare un'espressione che è insolita, inversa a quella solitamente usata. Infatti si può affermare che la giustizia dà forma alla carità. Significa che sia il principio di eguaglianza che di non maleficenza valgono per entrambe: senza la presenza dei due principi, e dunque della giustizia, non è possibile riscontrare la presenza della carità. La relazione tra giustizia e carità implica quella tra giustizia come virtù infusa e giustizia come virtù acquisita. Si può affermare che le caratteristiche della virtù acquisita sono una componente che disciplina la virtù infusa di giustizia.

1.6. Cambiamenti dei principi di giustizia: giustizia infusa Dopo aver presentato i due aspetti complementari della carità nella giustizia e della carità attraverso la giustizia, ritorno all’analisi del primo che ricordo essere la proposta della virtù infusa. I principi che normalmente indirizzano la giustizia possono venire sostituiti

dai principi che guidano la carità. In fondo è comprendere che la giustizia quando viene interessata dalla carità non può rimanere legata al solo dovuto. Questi principi sembrano in apparenza non essere interessati dalla dimensione teologale, cioè sembrano frutto della sola razionalità. In realtà è proprio quest'ultima che viene implicitamente trasformata dall’azione della carità. I principi che sono stati elaborati sintetizzano l’azione pratica della carità e vengono di conseguenza applicati alla giustizia infusa. 443

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

Una prima valenza della carità si esprime con la benevolenza. Essa può essere affermata con la massima “volere il bene proprio dell’altro”? Alla benevolenza si aggiunge anche il legame affettivo verso l'amato: un

volere un'unione con la persona amata. Nel caso della carità principalmente con Dio, con gli altri ed anche con se stessi. La giustizia infusa sarà dunque indirizzata dalla benevolenza e dall’affetto verso l’altro. Toccato dalla carità il legame di giustizia con l’altro diventa maggiormente solido. Si rende evidente che la giustizia infusa, in questo caso, non è solamente un cambiamento nelle intenzioni o fini ultimi, ma produce un'unione più salda con colui che beneficia dell’azione di giustizia, dunque un cambia-

mento delle modalità di espressione della virtù.

1.7. Il principio di gratuità Le azioni che possono essere indicative della carità sono state utilizzate per delineare meglio il cambiamento nella giustizia. Da esse è infatti possibile estrapolare un altro principio che guida la giustizia come virtù infusa. Esistono infatti delle azioni, proposte da Tommaso, che sono delle azioni indicative della carità: beneficenza, elemosina e correzione fraterna. Sono

facilmente individuabili come le azioni paradigmatiche che esprimono una virtù.

In queste conclusioni mi soffermo in particolare sulla beneficenza, secondo Sali

La giustizia è nell’ambito del dovuto. Invece la beneficenza è oltre il dovuto che si può indicare nell'accezione del supererogatorio o gratuito. Avviene un cambiamento che è facilmente comprensibile: una delle caratteristiche più importanti che accadono con l’apporto della carità risulta dall’apertura della giustizia al gratuito, non in modo sporadico o occasionale, ma come principio fondativo della stessa. Anche il principio del supererogatorio o di gratuità può essere rappresentato con una massima: “dare all’altro non solo quello che gli è dovuto, ma

quello che necessita per il bene autentico e che non si può pretendere”. Questo potrebbe sembrare un principio del tutto inapplicabile. In realtà sono le situazioni relazionali tra soggetti che rappresentano l’applicazione favorevole di questo principio impiegato per definire il concetto di beni relazionali. Essi sono quei beni che permettono alle relazioni, che impli? Cfr. S Th IT II 27,2. Rilevo il fatto che la benevolenza è fondamentalmente il contrario della non maleficenza: non solo non fare del male, ma fare all’altro il bene proprio.

444

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ. PROSPETTIVE SINTETICHE

cano anche una doverosità, di assumere una pienezza ed una funzionalità

completandole con aspetti che sono nell’ambito del gratuito. La virtù infusa di giustizia non sarà guidata dal solo principio di equità, ma si indirizzerà grazie anche al principio di gratuità. Ho mostrato che quest'ultimo viene utilizzato in diversi passaggi della enciclica Caritas in Veritate di Benedetto XVI per spiegare come l’attività economica necessiti di una giustizia non solo commutativa ma anche di una giustizia che è guidata dal dono. Quando il bene dell’altro è un bene vitale, in

mancanza del quale il soggetto non: può raggiungere il proprio bene autentico, la modalità del dono può, essere l’unico strumento per sopperire alla carenza di risorse vitali. L'enciclica non esplicita linguisticamente la definizione di “virtù infusa” ma propone l’azione della carità nei confronti della giustizia, cioè la presenza implicita della giustizia infusa: esprime teologicamente, grazie allo specifico cristiano, l’idea del dono e del gratuito.

Mi pare che l’enciclica mostri come per soggetti che intendono raggiungere i fini propri la giustizia infusa sia una dimensione non solo teorica ma valida anche per la prassi concreta, ad esempio nella vita economica. Questi aspetti si ricollegano anche al concetto di tradizione: la giustizia infusa, pur non perdendo la sua origine trascendente, necessita di un contesto che non impedisca il suo sviluppo. Questa tradizione è sicuramente quella cristiana se accoglie in modo autentico il dono della carità. Al contrario una tradizione che preclude ogni spazio al dono non potrà apportare nessun cambiamento alla rigida commutazione stabilita dal principio di eguaglianza.

1.8. Gli aspetti teologici della giustizia infusa Alcuni aspetti complementari alle riflessioni spiegate finora mi sono sembrati ancora utili per approfondire la natura teologica della giustizia infusa. La carità viene descritta come amicizia con Dio e da questa assunzione

derivano due aspetti: — l’amore per gli altri nasce dalla partecipazione comune all'amore di Dio; -— l’amore con il quale Dio ama è modello per l’amore umano che si intensifica.

56 Un altro ambito applicativo messo in evidenza è quello tra enti sociali — in particolare tra stati — dove il gratuito fa parte della giustizia.

445

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

L'esercizio della giustizia come virtù infusa non comprende le sole persone che son legate da un’obbligazione, ma include tutti coloro che possono godere di un diritto di uguaglianza dovuta loro in quanto soggetti raggiunti dall’eguale amore di Dio. La dimensione della socialità, che è presente nelle inclinazioni umane, riceve una pienezza ulteriore nella esplicitazione del quadro teologale in cui si inserisce. La carità nella sua dimensione teologale propone inoltre un'ulteriore valenza che riguarda la giustizia infusa: trattiene il soggetto dall’allontanarsi dal bene profondo per dirigersi verso beni apparenti. Questa situazione può accadere in particolare per la giustizia perché ad essa possono facilmente essere preferiti dei beni che sono più facili a conseguirsi. 1.9. Dalla giustizia acquisita a quella infusa Infine voglio ricordare un ultimo aspetto che permette di proporre una sorta di conclusione generale delle riflessioni sulla giustizia infusa: la relazione tra giustizia infusa ed acquisita. Questo legame è sempre intenso perché la natura è la “base” su cui si innestano la grazia e la carità. La natura si esprime attraverso le inclinazioni natu-

rali che fanno parte delle costanti antropologiche del soggetto: l’inclinazione alla socialità viene realizzata attraverso la virtù di giustizia. Solo il soggetto umano può essere elevato dalla grazia stessa: le capacità di conoscenza e di guida razionale a partire dalle inclinazioni naturali sono quelle capacità che permettono alla grazia di incontrare un sostrato su cui operare.” La presenza della carità tocca il soggetto nelle sue qualità umane: la carità, che diventa giustizia infusa, opera su di un soggetto che è capace di indirizzarsi, in modo intellettivo ed appetitivo, al bene. II soggetto quando è giusto

ha una capacità più elevata per l'accoglienza della grazia e della carità e quindi più facilmente gode della virtù infusa di giustizia. Tuttavia questa affermazione non vuole diminuire la gratuità e il sopravvenire di grazia e carità che sono sempre oltre gli sforzi umani. Una domanda finale può essere utile per una sintesi conclusiva dei discorsi affrontati finora: che cosa perdura della giustizia come virtù acquisita??8 Questa domanda propone anche un altro interrogativo, cioè se la virtù acquisita 27 Queste sono le conclusioni a cui perviene la Porter.

2° In fondo ancora una volta si pone a tema il confronto tra il dato antropologico di una possibile natura umana, inclinazioni e precetti della legge naturale, e la declinazione di

quest'ultima in un contesto cristiano. Queste tematiche esprimono inoltre il confronto tra una finitudine, una parzialità, e una pienezza nella realizzazione della dimensione umana stessa.

446

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ. PROSPETTIVE SINTETICHE

si radichi su un determinato fondamento che comunque non viene cambiato neanche dalla grazia e dalla carità. Da un lato è un tema che è già stato trattato con il discorso dei principi di giustizia che regolano, in certe condizioni, la stessa carità.

Dall’altro questo fondamento è da ricercarsi, in modo abbastanza ovvio, nelle inclinazioni. Sempre le inclinazioni naturali portano con sé delle esigenze che vanno rispettate; anzi le inclinazioni basilari hanno una forza che non può essere mai dimenticata: esse sono le dimensioni proprie del soggetto che chiedono un ascolto attento per realizzare il bene? La “naturalità” della giustizia, la giustizia come virtù acquisita — virtù delle relazioni di interazione ‘scambio tra soggetti — fondata sull’inclinazione alla socialità, si può sintetizzare in due caratteristiche: — essa è guidata da principi conosciuti; — necessita di una struttura di riferimento, cioè di un contesto che permetta ai soggetti di interpretare i principi in vista dell’agire. Questi due punti definiscono il carattere che la giustizia può avere precedentemente ad ogni specifica etica che avviene nella trasformazione delle virtù infuse. Mi sembra che qui si ritorni alla problematica di comprensione delle virtù infuse che ho segnalato in precedenza. La giustizia infusa può comportare due tipi di cambiamento. Un cambiamento nell’indirizzo al fine ultimo. Questa possibilità accresce il ruolo della giustizia come virtù acquisita perché permangono pienamente i principi e le azioni notevoli che caratterizzano la stessa. Oppure un cambiamento nei fini intermedi, nei principi, della giustizia che la trasformano più radicalmente attraverso la carità. In ogni caso l’azione della grazia necessita sempre di una dimensione naturale che deve essere elevata. Per la giustizia è espressa dalle caratteristiche della virtù acquisita e che determinano in certi casi la stessa carità, come spiegato nelle pagine della carità attraverso la giustizia. E) Uno sguardo unitario

Questo lavoro, in uno sguardo finale di sintesi a partire dalla prospettiva tom-

che masiana, ha voluto mettere in evidenza tre temi che sono tre momenti razionale 59 Ricordo che le inclinazioni debbono essere condotte ad una realizzazione rappreza maleficen non e equità giustizia, di nell’indirizzo al bene. Ad esempio i principi to. compimen a sentano la razionalità con cui la socialità viene portata

447

LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

insieme danno una prospettiva complessiva sulla virtù di giustizia in senso cristiano:

— — —

la giustizia come virtù in se stessa nell’ambito della legge naturale; la tradizione cristiana nella quale si declina la giustizia; i doni della grazia e della carità, nella tradizione cristiana, che conducono

alla presenza della virtù infusa di giustizia. La giustizia come virtù è una categoria che ha permesso di manifestare l’equilibrio tra la necessità della valorizzazione della razionalità umana nel

discorso morale e l’eguale necessità dell’apporto della prospettiva teologale. Entrambe consentono di raggiungere quella pienezza del bene, il fine ultimo imperfetto che si apre a quello perfetto e definitivo della contemplazione di Dio oltre la dimensione terrena, che è il nucleo imprescindibile della riflessione morale cristiana.

La giustizia come virtù ha permesso da un punto di vista parziale ma sin-

tetico, il tutto nella parte, di tenere assieme polarità che non possono essere disgiunte e che esprimono una pienezza di significato nella tensione che si crea tra le stesse.90 In particolare sono:

— gli aspetti oggettivi della giustizia, i criteri razionali, e quelli soggettivi, la trasformazione delle capacità di indirizzo del soggetto; — il tema delle costanti antropologiche che scaturiscono dalla legge naturale e le tradizioni in cui le virtù si trovano a prendere forma nel soggetto e nella storia particolare di una comunità;



una giustizia acquisita in legame con la socialità dell’uomo ed una giustizia

infusa che partecipa dell’apporto della carità teologale, dell'amicizia con Dio.

Chiudo queste pagine sottolineando come di fronte ad un proliferare delle dimensioni legali della giustizia, delle sempre più numerose leggi che cercano di disciplinare l'ambito dell’agire umano e che anche nella morale sono state spesso il centro delle problematiche morali con le questioni dell’etica normativa appare evidente che solo se i soggetti cresceranno nell’accoglienza della prospettiva della virtù di giustizia sarà possibile una presenza effettiva della giustizia stessa sulla scena del mondo.

° Cfr. R. GuarpINI, L’Opposizione Polare, Morcelliana, Brescia 1997 (orig. ted. 1925), 29-32.

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452

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1.1.2. La prospettiva dell’etica della prima persona ..............

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1.2.1. Il compimento ottimale del soggetto .......................

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1.2.2. Una felicità inclusiva: “eupraxia”,

“eudokia” e le disponibilità del mondo ....................... 1.2.3. La felicità come fine ultimo naturalmente e necessariamente voluto dall’uomo ........................... SC IRAN a

1.2.5. Criteri per la determinazione della vera felicità ........... KR? 0lrecomponentidella icliettà lo i23*lazionedelenvirtàua lena 15.1 oNecessità dellevintà nare

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1.3.2.I tratti di carattere come qualità del soggetto .............

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1.3.5. Le virtù come qualità del soggetto agente cd&anfraferimenio Allan 1.3.6. Definizione inclusiva e massimale di virtù ................. SO00CHIO E NITEC ARA ea ria 1°3:8-Dalle intenzioniallesceltetàa 1.3.9. Le virtù nelle dinamiche.di scelta ..t.imscrerrcieneioneeea lsGrierdimazionaliteche dirisonel tte eee 1.4.1. Vita veramente buona e razionalità ...........ccosciccienizee

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1.3.1. La genesi e l'applicazione dei principi pratici ......... DE.

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1.3.2. La relazione tra principi e virtù leer

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nl'apiono std Romena ener AA I Razionaliaanalitica della morileibationdeniznco 3.) 1.1.1. Il parallelo tra concetti morali e concetti empirici ...... 1.1.2. Un nucleo imprescindibile dei concetti morali ........... 141.3-Il principio dinornmbaleficenzàa pattalialto anali 4.1. 1.2. Argomentazioni analitiche e analisi tommasiana

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1.2.1: La questione:dell'oggetto dilazione... durritalizaze..

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1.2.2.Cosa individua la moralità: les basicimoraloptitazia sita Meonien i 1.2.3. Inclinazioni, legge naturale e razionalità morale .........

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1.3.5. Inclinazioni comuni ad altre specie animali cepeciichetazionalimoa taz aan ltpi

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NiLeincinazioni naturaliper labgiustizian Albanian di EERiMmneseta eten la Lev nesdana ge) Dil 1.2. Introduzione:alle inclinazioni naturali ...i.... lari lese sihottole a inelinazioni toto een E ls.iintediziones oretta luoenasteoa caclalti

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1.5.1. Le inclinazioni razionali e la socialità ...................... 1.5.2. Caratteri naturali ed inesprimibilità normativa .......... 1.5.3. Benessere e felicità: due opposti ...............

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1.5.4. Benessere e felicità per Tommaso ....... unire 1.5.5. Benessere e felicità nel legame delle virtù ................... 1.5.6. Azioni paradigmatiche delle virtù .............. FINTE eat La Processiculturali.evittiama 1.6. La socialità umana guidata dalla giustizia ......- ii 1.6.1. Socialità come inclinazione naturale specifica ............ l.6:2-Senso.teledlogico dellasbuialitàt regno 1.6.3. Virtù della giustizia come raggiungimento dellaifelicità:. salse. comano stamani.1 1.6.4. Giustizia radicata nella socialità. 74440400 B)* Griteritrazionalicche guidano la:giustizina Rat Rat cata lle Giuseziaienoldintmieno innesti Jonisentioni E

L.J-dIlperfezionamentodella®volontiz::,z.

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200888

1.1.2. La volontà nella scelta buona ................. sine LEI

LAS GiUstizia

Ano proprio

att Riz i RARA.

l lidi (Giustiziareisocialitana ste Enna IA 1.2. Nozioni generali sui criteri o massime di giustizia ............... 1/25 Criteritditrazionalitàehedirigono levitil lia

122.La situazione praticaforiziciazalt..

04.

dona

» 128 » 130 va 131 381135 » » y

135 135 157

» 139 » 140 » 141 » 141

» 141 » 142

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147 148 148

» 149

RA TELA ATIARN L'2:34lprimo:prinich 00 Ref 1.2.4. Articolazione della massima della giustizia ................. 1.2.5. Un confronto tra le massime in generale Ca Massi MAdbgiUsuziai RO Ron

» »

150 153

»

153

1.2.6; Massime:come:scopi dellelvirtuantanta alcantara

x. 155

‘3. Remeipliorcritenitazionalidigiùstizia.... sonniRI

»

156

Li3-42liprimceipio.dinon mraleficenza pa aet Reeee TRO] eh ee l32.Ilkprincipiadiuguaglianzaateni I8.

» 156 » 162

l:3.:Sallbencielawregolatdloro i att. anctazlanos

»

CLI.

166

1.4. Precisazioni sulla regolazione della giustizia ..................

» 168

1.4.1. Eguaglianza, non maleficenza edimensioni.fondanti. l'umanonitutaltàiticenana.

» 168

1.4:2-Eguaglianza, giustizia

» 169

e.obbedienaait9. data.

1.4.3. Conscientiousness, fairness and integrity ........... uu 144 Medium.rcisstendiianiee aenianisealoni TA)

» »

171 174

1.5: Considerazioni. sui principitazionalizeta. lanterna

» 176

oncani ai anlanteni allabonni ©) Decalopo. e siustiziais 1.1. Una tesi fondante la relazione tra decalogo e giustizia .......... 1,3. Leggematiitaletmlegosirivelatanmt: ha Miauos meta eLE. 1.2.1. Una capacità limitata per la legge naturale .................

® 177 o 177 » 178 » 178

1.2.2. Legge naturale e [genica

A.E1,.)

»

179

»

180

l'odessaimornilcnaruraleetdevalogo snonlorinagnott. 3.5.) » 180 1.3.1. Precetti verso Dio e verso il PIOSSIROMOGERRAA 20.)

1.3.2. Natura razionale dei comandamenti .......................... 1.3.3. Precetti del decalogo: assoluti e relativi ...................... liberale Lita sarato ala 1.4.1. Precetti del decalogo e principi guida della giustizia ... 1.4.2. Giustizia, amore del prossimo e di Dio .............. L.5i Corisiderazioni!sudecalogp.c.giustizia ma. anni 0.

Capitolo terzo

» 181 » 182 » 183 » 183 » 186 » 189

;

WRADEZIONEBRIGIUSTIZIA enamet testato ueta on.) Rnkbosradisionitdi@ricerca... + R0nl a ei en aane tt. LL. té Uineticadeletradizionie,. Verena ni dda Lato ILA pratico at. einlianaliben alureliiaato 139ce4Pravicheesalenze comumnitatienzasti o sleanli LA

» 191 » 191 » 191 » 193 » 193

le2z4isainaanelle pratiche tanti dei DTA

» 194

lst ne aaa stri Ed) lodeCaraicigcncstitiunantadiziones sz annie! LS slradizionienaraziolitets Pene ade kl Iibuledizionie vata ros Lasa alt) DEI 14 Iradizionite nità buona... SA rin I... LAS Giiiziaenazionalite sti anananadiecaliab mag 14. Prospenivedi.siustizialetrazionalinitanstaboroatcos l'42. Ealtradizioneiatistotelicatziutinnoa delione cinteazt 1.4.3. Tradizione aristotelica e universalità ............... lo ibeadizionitetistizialelezse naturale. ansie ai l5de.lradizioni esitmanveetastsiooe Suona 21/305

» 196 » 196 » 198 » 200 » 200 » 203 » 203 » 205 » 210 A wo 21)

lopadliadizionistez:etavuraloes sapienza 1.5.3. Processo di acquisizione della giustizia .......................

ya1213 215

B}iStanlegHauerwasilatcoriadellattradizione ib. ipnini ia. benedite neiatradizioneteast enalotto ada OONBRINE A REROORI DA ST VISSPRO FRATECA MAISTO VEE DR Ta KA (ERIN ANGR Les AVirticcon uni Meet eo 55.5. de Lan ninegautentico pass et 51,7 INA catia. han ao Mx idalibarnt LO

» 219 x i219 » 220 » 220 » 221 Y0/20)

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» 226

1.3.2. Storia narrata e crescita morale .................u.

anatre 136 Catartere tradizioni tia nin ao 1834 INoime e.tridizione»tan ostato ................. schiavitù della caso 1.3.5. Tradizione e morale: il i 1.4. Nodi critici del pensiero di Hauerwas .............. suna lido dvatiidi.la ©)lletica.cristiana in'Hauerwastadaoa vani atea datare 1.k Fede fristiana edieticart 1.1.1. Specificità dell'etica:cristianani. ail

» » » » » » »

I:L2.%Agente ccomunimdami tara alari 1SaNatura‘elgrazia: alii ARA TARE AMET OM crescita moraleetvità calstianat ni e 1B=#Vistticrstane ed'umane oe AE: li3-KEticarcristiana oppure. bimana ALDIIZ:IE MII

» » » » »

1:3/2-Rapporto:tra Chiestimordoli........a.o0rtiiane

»

l'65/La:Chiesa edesuewvirttiuone.daoisibos vitltoha asini. naluuzii lA. (Gisstiziamella tradizione:cristia zii Re e e lhi lsliGiustizia:ei Regno bios alo 1.4.2. Criteri di giustizia nella tradizione cristiana ............... Mio Ato. een 1ABSGiustzia agiolenza et \\DLradizione:cristianafedecisionidisiusiziane eat ee I51\isrnedecisioniidi.eiustizia etna a eZ 152 Giustizia;cristiana einormativitaeà ca lap sGiustizia:parieci pata stan Beit bat At] 1.6. Sintesi.dellattradizione'cristiana i &ilencicn anna PD) radizionesatialeicattolicdte;gitsiziate

ni rn]

38.5) lle APensierossociale eigiustiziali prestatore nation 1.1.1. La genesi della dottrina sociale come tradizione ......... 1.1.2. La tradizione sociale

éilerdlinamiche:sociali contempasneo Rie.

» » » » » » » » » » »

» »

2397 228 229 2595 200 DO5 295 234 DOD 200 237 2571 238 238 240 240 242 243 245 245 247 249 250 251 25): 2al

» 299 1.1.3. L’interpretazione teologica della dottrina sociale ......... » 254 1:2.Amore:;cristiano.fontecli glistizialisbincne nonni » 256 13. Lercalizzazionitdella giustizialnistiona ana ea » 259 1.4. Tre tipi di giustizia nella tradizione sociale .......................... » 260 TAL [l'ipLdisiusthiacia tace aero dani) » 260 142 Lipitditgiustizia.e-amore.cristianorame:a dai » 263 a moregiastin rata.dall’a 1:4.34Rediprocitàigene del 000 » 263 aRI » 264 lid4-(Gratuità sencratadall'amote nadi re 1.4.5. Amore come: motivo della giustiziaraliiazsconnnani » 266 1.4.6. Sintesi sulla tradizione cristiana di giustizia ................ » 266 E) Rivisitando le radici della tradizione sociale ............. » 268

1.1. Le divisioni della giustizia nella tradizione tommasiana .......

124Gilsiziazgencralele particolatrenalatfiana donna

1.2.1. Il duplice senso della piustiziaseneralenz ant Adi. 1.2.2. Giustizia generale nelle virtù SPECLACheReon a anti

» 268

» 269 » 269 » 270

1.2.3. Le modalità della giustizia generale ............... uu lizd: Giustlzia/senerale:sbdialen it... alienati 1.2.5. Giustizia distributiva e commutativa ...... ice 1.3. J. Maritain: la persona ed il bene comune .......... iii LA dote persona Riina lapoloni nia 1:52. Garatteristiche-del'beneromatiebmtzion.aolimnati 1.3.3. Vita politica ed impegno della persona .......................

272 » 274 AI75 » 278 » 278 » 281 » 283

1.4. Bene comune e PIUSUZIAnE Meanath

» 284

ficicdi sisi eda Rata 148.) ll Melteplicitsdella sibstizia@. inistero been 1A Ufiatooniadetbeni den eat ota vene Banabk 30 Doerunanzazdiunibenen abarth

ie » » »

285 285 289 290

Z0, 291 id Eguaglianzassemplicefercomplessantont.inbansaanto ih almerniiteothpE. 50 Catteriidiudistibuzione Maga Fostalastziazelladistribuzioni». Segesta 51 1.4 Unalsferardistribrativa: le:casichei pubbliche vesta. lb iride: nali RIONE lA2ARiscrna telai ric lie nato I VOR nino laboia) Sy Universale palicolarenellasiustiziatmino. 1.8.1. Minimalismo o massimalismo morale ....................... 1.8.2. Valenza massimale della giustizia distributiva ............. 9 [email protected] 4.4.0). &.Auu TORU rase histizia PIOCCA LIAN RIINA Capitolo quarto ARR ENEUSADEGIOSTIZIA

iii rita PIRA

POLATIO. ELISA A O ITA ARA

ATA

1.1. Caratteri generali e teologici della grazia ..........\.\ un 1.2. Eticità della grazia nella Summa Theologiae ........uuu iii 1.3. La grazia come principio esterno

» 294 » 296 » 296 » 296 » 301 PED00 » 303 » 306 ‘» 307 » 308

A SI VA)

» 311 » 315 »

......... i

316

» 317

1.4. La grazia come principio interno ..........\ ii A

». 317

e possibilità di compiere il bene ............ 1.5. Cinque precisazioni sulla bontà naturale ...............

neogi » 326

ATEI AI 1.4.2. Necessità della grazia

O MON

III

1.5.1. La condizione precedente il peccato per Tommaso .....

» 326

1.5.2. Atti naturali.buoni dopo lalcaduta mani.

» 327

1.5.3. Amore naturale :e:ssovrannaturale

» 328

Lun:

tani taiima 0h lo dAllpeccaton etnie 1.5.5. Bontà di Dio attraverso l’opera buona Dad della:cteazione.s.. ashes

SIRENA l\Godca.sraziaatt vale,aiar,

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B)kGrazia enittàyteologalitemoralibinflsch, sirena. 1 Vintiicolosalieamoralizo carne SERVI RIE) 0A et 12 Fineultinio, fini parzialietvinba

13: Unapprofagdimentameleolozicogret.a.aeniion 20h.) 1.3.1. La duplice felicità di questa vita per Aristotele ............ i re SARRI lio: 2lomaaso:latduplice felicità

» 333 » [559 » 334

» 33 » 337 » 338

1.3.3. La sintesi di Tommaso ed Aristotele:

due.gradi:dilfelicituiniquesta. vita. Amata400 » 342 don. ignaraiatt lia. Oggetto: dell'erica filosofica... 1.3.5. Questione del fine naturale e sovrannaturale .............. ento, 1:3.6-Desidetionauirale:diinfinito. ersten ibontun eleltaniii l'3:7aFine. ultimo,teologaleas*tabinidtt

» 343 » 344 » 346

1.4. La prospettiva sovrannaturale come orientamento ai fini .....

» 349

» 347

tizia rara rai bo aa DITO) » 350 1A: Viniuinfuset 1.5.1. Le virtù infuse nella Summa Zbeologiae ....... ui » 350

15:2%Argomenti.ontologicitsullexirtàinfusereza strata). ibi.) l.5.04Principie fibisdellesietniofasen a Benzi

» 354 » 355

1.5.4. Virtù infuse secondo S Th I II 63,4 CSahLIIL 650raloioalirdivoita indi X E. 2) » 356 escambiamento 155. Mirthuinfuse:s difinenmat asini ani R.5059 » 363 C)iCarità corsa ittùluafubananis al lontane

lil Cafiioerazianiziannanrlee

adattate

» 363

RO 1.2, BinlLecaritdiaselhesediara1AZRER HLA ZILIVI

» 364

o lio Aspetiliondameniali dellaoanpute ropologieo cst.leess here! 1.4. L'indirizzosant dellalearitài

» 366 » 367

tt ranieri 1.5. La.ceritàscomeiviridiene 1.6. L'amore di se stessi, di Dio, del prossimo rtranuinatterii L6xAmorepeiDiagzzidaeeteiiahata amo e L62-Amoredussstessid Mero aten zion Db 0 aliinfusehttà 17. Carit'enietàmor east ineni0) D)iGiustizia come vitth'infusanieà linea nen lle Giustizia'e:caritaraspsttiisencralivilià seat

» » » » »

368 369 369 (370 370

». 30 » 373

IRE ASSI PRATERIE ETFILI ATTOIAT OPS GTRCPOI (OT 1.2.1. Giustizia infusa espressione della carità 'a'e:0/0/b10/p/0}a 'o\e;ala/01ale.0/0/9lvls!e libia connessione discasità e.giustizia. ue li lelacantanraversola.plustizialatvia.Tò saltem acatubati loi ndarcerifalisaenaco Peesta ih gallo v@fanob iu)

Lo 2vLa:siustizialfosmerdellabearitàlboi sncventinoriibea. CETRA I CI O RR CITTA bos Lzincipi della. giistiziartomevirtàimifusa alam anali VASI OG ETECAraita ritiro RURIRI. e ar 1.5.2. Giustizia infusa in base alla benevolenza ile Nin

» 376 »

376

) DI; » 378 » » » » »

378 381 383 385 385

» 388

1.5.3. Giustizia infusa, atti supererogatori

GHPECI PIO, LEA En IR IIITNO 1.5.4. Il principio di gratuità nella Caritas in Veritate ........... lb. Caratrere.teologico della siustiziattafusal varrazas Sis 1.7. Giustizia infusa nella prospettiva del soggetto .....................

» » » »

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grazia. rispettoralla. giustizia. SUeto i antania.i

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LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ. BROSPELILINESINIEFICH E #2 araninARIMBLRRO: eicrodozione lieti Aeris rari porpora

Iii lipisco e enie n App Ai li glNipensicro dirti Rhonhelmernt eine Re pesce 1.5. Fondamenti dell’etica delle virtù ir DE B) Inclinazioni naturali e principi di giustizia ................ COTE LL RROERCCEIAZE nni O COMICIVIFA RE ZIA COAT

1.4. Il valore dei principi di giustizia .............. ui

» 407 » 407 » 407 » 408 » 411 » 412

413 415 415 417 418 » 420

» » » » »

1.5. Pluralità delle azioni di giustizia

e necessità di acquisizione della virtù .................. 1.6. Virtù di giustizia e decalogo .............. iii C) Le tradizioni e la tradizione cristiana di giustizia .................

» 421 » 422 » 424

l.lela thistiziaielotitradizioni o,

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» 424

L2SPiaicheesiustizlaeee ioni era 13xVirttietradizioni astanti renano 1.1.5) legiradizione:cristiana di giustiziati ii

» 426 » 427 » 428

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» 430

Stranamore 000.0.)

1.6. Le radici tommasiane della tradizione cattolica »

433

ll radizione:cattolicadisgiustiziaoltrelasvitaiia abit LIPSIA RIS ZIA iii RE ZII io 1D) Nitrotofusaidipilsriziaae aetabiconzi air li a Grazianestenieelateoaaieio a io 1.2 Azione-dellevirtà.infuseb:ame sto ara 13: Giistiziare; carie ica arida. 14. Lacaritamellafgiistizionizstioi. brteantelt pistola 3: 15 Cacaritàpartiavensona:giustizia metal ato snonezii. 1.6. Cambiamenti dei principi di giustizia: giustizia infusa ........ 1.4 ll'principioidieraliitàe siente nba nia Sa 1.8. Gli aspetti teologici della giustizia infusa ........u ii

di giustizia

» » » » » » » » » » »

434 435 436 437 439 440 442 443 443 444 445

1.9: Dall giustizia acquisita;aquellavbifusatenso sane st..1 EMUno!spuardounitazio eating

» 446 » 447

Bibliografia tosti luni le IMOAAISITO Pontimagisterialiea ceclaate NR AIRSRZIOnE

» 449 » 449

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» 449

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è necessaria per una realizzazione

autentica

del soggetto? Questo volume cerca di rispondere alla domanda riprendendo la prospettiva dell’etica delle virtù. La giustizia viene spesso studiata attraverso delle prospettive procedurali, ad esempio di tipo contrattualistico, e raramente viene analizzata come virtù del soggetto: cioè come una trasformazione delle sue qualità personali per poter giungere ad una prassi di giustizia, ad un agire giusto. In questo senso la virtù della giustizia realizza la tendenza umana alla socialità. Quest'ultima è davvero un bene umano solo in presenza della giustizia.

La giustizia tuttavia non è mai isolata dalla tradizione in cui prende realtà concreta; ad esempio si declina nella tradizione cristiana. Dunque qual è lo Susstitoo cristiano di questa virtù? Esso si rileva nella relazione tra la carità e la giustizia stessa. Quest’ultima, nella prospettiva teologale, è una delle opportunità per rag| giungere il bene come compimento autentico, in Dio, del soggetto. In sintesi è possibile affermare che non esiste giustizia esteriore senza un soggetto diventato giusto umanamente e cristianamente.

Antonio Sacco è presbitero della Diocesi di Torino; ha conseguito la E in Economia presso l’Università degli Studi di Torino, la Licenza in Te morale, ad indirizzo sociale, presso il Biennio di Specializzazione della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale— Sezione parallela di Torino ed in seguito il Dottorato in Teologia morale presso la Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino— Angelicum in Roma. Insegna Teologia morale fondamentale presso .. laFacoltà Teologica dell’Italia Settentrionale— Sezione parallela di Torino.