La certezza giuridica come prevedibilità 8834854780


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6 Capitolo 4.pdf
7 Capitolo 5.pdf
8 Appendice 1.pdf
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La certezza giuridica come prevedibilità
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analisi e diritto serie teorica 68

gianmarco gometz

la certezza giuridica come prevedibilità

g. giappichelli editore

© Copyright 2005 – G. GIAPPICHELLI EDITORE – TORINO VIA PO, 21 – TEL. 011-81.53.111 – FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it

ISBN 88-348-5478-0

Progetti locali di ricerca (Fondi ex 60%).

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4 della legge 22 aprile 1941, n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000.

Le riproduzioni ad uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02-80.95.06, e-mail: [email protected]

INDICE

V

Indice

pag. Introduzione

1

Capitolo 1 L’incertezza sulla certezza 1.1. Ambiguità dell’espressione “certezza del diritto” 1.2. Vaghezza del significato di “certezza del diritto” 1.3. Importanza della precisione concettuale in materia di certezza giuridica 1.4. La certezza come prevedibilità 1.5. Certezza come fatto e certezza come valore 1.5.a. La certezza-prevedibilità come concetto fattuale disposizionale 1.5.b. La certezza fattuale: una questione di grado 1.5.c. Concezioni normative della certezza 1.5.d. La certezza come valore o come principio

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Capitolo 2 La certezza-prevedibilità tra formalismo e antiformalismo 2.1. Alcune domande sulla certezza-prevedibilità 2.2. Previsione e certezza giuridica nell’opera di Hans Kelsen 2.2.a. L’“illusione della certezza del diritto” nella Dottrina pura del 1934 2.2.b. L’inammissibilità dell’impiego delle conoscenze extragiuridiche 2.2.c. La prevedibilità della funzione giuridica negli scritti successivi al 1941

53 55 55 58 62

VI

LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

pag. 2.2.d. Il rapporto tra giurisprudenza normativa e giurisprudenza sociologica 2.2.e. Sostanziale identità di risultati tra giurisprudenza sociologica e giurisprudenza normativa 2.2.f. La certezza del diritto nella Dottrina pura del 1960 2.2.g. Due problemi per un previsore “kelsenista” 2.2.h. La previsione e i conflitti di norme di grado diverso 2.2.i. Il grado della certezza 2.2.l. Una certezza approssimativamente realizzabile 2.3. Due posizioni antiformaliste: la certezza-prevedibilità secondo Corsale e Leoni 2.3.a. Corsale e la certezza come sicurezza-prevedibilità 2.3.b. Critica alla “certezza legale” 2.3.c. Certezza-prevedibilità e ideologia sociale 2.3.d. La certezza nella storia del diritto 2.3.e. Prospettive per la soluzione di una crisi 2.3.f. La certezza come sicurezza di avere giustizia: critica 2.3.g. Leoni: certezza a lungo termine e certezza a breve termine 2.3.h. Certezza a lungo termine come espressione di diritto spontaneo 2.3.i. Differenze tra certezza a lungo termine e certezza a breve termine 2.3.l. Legislazione vs. certezza-prevedibilità?

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Capitolo 3 Per una metateoria della certezza 3.1. Una ricostruzione del concetto di “certezza del diritto” 3.1.a. Perché una ridefinizione 3.1.b. Né essenze né contestabilità essenziali: il ricostruzionismo 3.2. La certezza come disposizione 3.2.a. Una definizione condizionale della certezza 3.2.b. La riduzione come definizione parziale di “certezza del diritto” 3.2.c. La natura convenzionale dei punti terminali della riduzione 3.3. La certezza come concetto quantitativo

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INDICE

VII

pag.

Capitolo 4 Una ridefinizione di “certezza del diritto” 4.1. Quattro domande sulla certezza-prevedibilità 4.2. Chi prevede 4.3. Che cosa si prevede 4.3.a. Il carattere alternativo della previsione 4.3.b. Essere o dover essere: questo è il problema 4.3.c. Conoscenze fattuali e previsione delle decisioni giuridiche 4.3.d. Prevedere in negativo 4.3.e. Conseguenze di che cosa? 4.3.f. La certezza come prevedibilità dei tempi delle reazioni giuridiche 4.3.g. L’accuratezza della previsione 4.3.h. Una certezza diacronica 4.3.i. Ancora sulla previsione di successo: Hayek 4.3.l. Il “che cosa” della certezza 4.4. La certezza del diritto come prevedibilità qualificata nei mezzi e nei metodi (come si prevede). 4.4.a. La certezza come prevedibilità conseguibile soltanto mediante la conoscenza delle disposizioni normative 4.4.b. Critica: una certezza servente rispetto alla pianificabilità giuridicamente informata della condotta individuale 4.4.c. Una pianificabilità strumentale all’autonomia dei previsori 4.4.d. La certezza come prevedibilità conseguita mediante qualsiasi informazione disponibile 4.4.e. Certezza ed effettività delle norme 4.5. Il quanto della certezza 4.5.a. La dimensione verticale della certezza: una misura complessa 4.5.b. La dimensione orizzontale della certezza: la diffusione della prevedibilità 4.5.c. I fattori di certezza

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VIII

LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

pag.

Capitolo 5 Conclusione 5.1. Una proposta di ridefinizione

293

Appendice 1: Schema generale di previsione alternativa

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Bibliografia

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Introduzione Con qualche ironia, è possibile rilevare come pochi concetti, tra quelli considerati dalla filosofia giuridica, siano incerti come quello di certezza del diritto. In primo luogo, infatti, tale espressione è oggi usata dai giuristi e dai filosofi del diritto per indicare cose diverse: la prevedibilità delle decisioni giudiziali, la chiarezza, precisione e intelligibilità della formulazione linguistica delle norme giuridiche, l’incontestabilità dei rapporti giuridici esauriti, l’univocità delle qualificazioni giuridiche ecc. In secondo luogo, i vari sensi in cui l’espressione è usata sono sovente assai vaghi e potenzialmente ambigui. Perfino le trattazioni dedicate ex professo al nostro tema eludono spesso, inspiegabilmente, il problema di rilevare/proporre una definizione sufficientemente determinata di “certezza del diritto”. In tal modo si finisce col dire un gran bene (oppure, sempre più spesso, un gran male) della certezza, senza neppure aver precisato l’oggetto del proprio apprezzamento (o biasimo). Quel che è peggio, questo caos concettuale ha finito col generare tra i giuristi pratici, specialmente gli avvocati, un clima di divertito scetticismo sulla certezza, ormai considerata quasi alla stregua di balocco ideologico con cui i filosofi, dalle retrovie dei campi di battaglia della prassi giuridica, ripropongono semplicistiche e ingenue visioni di un diritto funzionante come un meccanismo a molla. Questo compiaciuto sarcasmo è diretto soprattutto contro le concezioni – classiche e tuttora maggioritarie – che pongono la certezza in qualche rapporto con una prevedibilità delle conseguenze giuridiche di atti o fatti, o al limite la configurano come presupposto, condizione o mezzo utile per una (miglior) previsione di tali conseguenze. L’idea della prevedibilità giuridica serpeggia spesso, in effetti, sotto le concezioni correnti della certezza, tanto da rappresentarne il comune denominatore semantico. Questa certezza è sovente (ma non sempre) considerata come un valore positivo, non fosse altro perché se agli individui è dato prevedere le conseguenze giuridiche della propria condotta, è presumibile che essi possano far uso di queste conoscenze per una più accorta e consapevole pianificazione delle loro scelte pratiche e, dunque, delle loro vite. Tuttavia, proprio contro la certezza intesa come prevedibilità si scagliano più frequente-

2

LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

mente gli strali polemici degli scettici o dei disillusi. L’argomento più frequentemente adoperato per quest’operazione di demolizione critica è, più o meno, così riassumibile: la certezza-prevedibilità del diritto è un mito (l’ha mostrato Kelsen evidenziando l’elemento creativo insito in ogni “applicazione” del diritto! Lo ribadisce ogni giorno la pratica forense!), dunque non ha senso parlarne oltre/vagheggiarne l’attuazione/tesserne le lodi. In contrapposizione a quest’atteggiamento scettico e rinunciatario, nel presente lavoro sosterrò che è possibile tentare un’operazione di recupero concettuale di questo screditato – ma, a mio parere, ancora degno – valore del liberalismo moderno. Ritengo tuttavia che il perseguimento di tale obiettivo richieda l’abbandono di alcuni assunti tradizionali, ormai a mio parere insostenibili, e la ricostruzione di un concetto disposizionale e non classificatorio di certezza che consenta di formulare delle asserzioni intersoggettivamente controllabili sul grado di certezza di un dato ordinamento o settore normativo. L’adozione di un concetto non classificatorio di certezza del diritto consente infatti di superare molte delle difficoltà rilevate dagli scettici: se la certezza non è concetto tutto-o-niente ma questione di grado, risulta possibile parametrarla alla sua maggiore o minore diffusione, nonché all’attendibilità, accuratezza ed estensione diacronica delle previsioni circa le conseguenze giuridiche degli atti o fatti che i previsori considerano. In tal modo, il concetto di certezza diventa compatibile con la constatazione della possibilità di fallimento e di elevata genericità di quelle previsioni, e dunque col riconoscimento dell’ambito di discrezionalità di cui godono i decisori giuridici (o, se si preferisce, della natura parzialmente “creativa” della loro funzione). L’obiettivo normativo di questo lavoro viene dunque perseguito attraverso un preliminare lavoro analitico, volto alla ridefinizione di un concetto di certezza giuridica il più possibile preciso, inequivoco, idoneo ad evitare le difficoltà evidenziate dai critici, ed utile sia come strumento per la rilevazione dello stato della certezza dei vari ordinamenti considerati, sia come base per l’istituzione di un metodo rivolto a variare, in una prospettiva de jure condendo, il grado di certezza di un particolare ordinamento giuridico. Occorre precisare che sono di carattere etico-politico anche alcune delle scelte che guidano la ricostruzione del concetto di certezza che viene proposta in questo lavoro. La stessa decisione di (ri)parlare di certezza in termini di prevedibilità discende invero dalla convin-

INTRODUZIONE

3

zione secondo cui la valutazione positiva della (elevata) certezza risiede principalmente nella sua funzione servente rispetto al bene della pianificabilità giuridicamente informata delle scelte pratiche individuali e, mediatamente, rispetto all’autonomia dell’individuo, inteso come soggetto capace di elaborare piani d’azione a lungo termine. Per sottrarre il nostro concetto alle facili ironie dei critici è infatti a mio parere opportuno tornare alla sua ratio originaria, ridefinendolo in modo da ripristinarne l’oramai allentato legame con la programmazione giuridicamente consapevole della vita degli individui. Ciò, come dicevo, anche a costo di mettere in discussione alcuni dei più noti luoghi comuni sulla certezza. Per rendere quest’ultima realmente funzionale al perseguimento degli obiettivi dei previsori, quali che siano, è ad esempio necessario abbandonare ogni dogmatismo volto a precludere la possibilità di sfruttare a fini predittivi la conoscenza delle regolarità fattuali e delle prassi consolidate degli organi giuridici. Soprattutto, l’idea per cui il valore della certezza risiede (e si esaurisce) nel suo ruolo strumentale rispetto alla pianificazione strategica delle scelte pratiche collide con l’affermazione, ancora piuttosto comune, di una qualche relazione necessaria tra certezza e giustizia “sostanziale”. Dire che il diritto è in qualche misura certo significa dire che è in qualche misura possibile prevedere la data soluzione giuridica, anche qualora questa sia (sentita come) immorale, inopportuna o addirittura scandalosa: la certezza di un diritto iniquo è certezza di iniquità. Dalla distinzione tra certezza del diritto e certezza della giustizia discende inoltre che la certezza-prevedibilità è un mezzo, o meglio, una situazione che può essere sfruttata dagli individui in modo strumentale al perseguimento dei loro obiettivi personali, degni o indegni che siano. Il gentiluomo se ne può avvalere esattamente come il lestofante: quest’ultimo sfrutterà le possibilità di previsione delle reazioni giuridiche per pianificare le proprie malefatte in modo da minimizzare il rischio di subire conseguenze sgradite. Il presente lavoro si articola in cinque capitoli. Nel primo capitolo si dà conto della notevole polisemia, vaghezza, ambiguità dell’espressione “certezza del diritto” e si spiegano le ragioni dell’urgenza di una riforma analitica. In questa parte del lavoro si tratta altresì della asserita necessità di distinguere tra una “certezza come fatto” e una “certezza come valore”, e si conclude che la seconda non è altro che il risultato di una valutazione, solitamente positiva, della prima.

4

LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

Il secondo capitolo è dedicato all’esame di tre note concezioni della certezza giuridica come prevedibilità. Le tesi del Kelsen delle due edizioni della Dottrina pura del diritto verranno contrapposte a quelle di due autori antiformalisti italiani – Bruno Leoni e Massimo Corsale – allo scopo di evidenziarne convergenze (la certezza del diritto deve intendersi in termini di prevedibilità, essa è desiderabile e in qualche misura realizzabile) e divergenze (soprattutto riguardanti i mezzi con cui un più elevato grado di certezza può realizzarsi entro una data comunità giuridica). Si cercherà anche di demolire il mito di un Kelsen scettico in materia di certezza del diritto. Il terzo capitolo tratta di alcune questioni preliminari ad un’opera di ricostruzione analitica della certezza. In particolare, qui si argomenta in favore di una ridefinizione della certezza come concetto disposizionale e non classificatorio. Si sostiene che una ridefinizione siffatta comporta dei notevoli vantaggi per la rilevazione empirica del grado di certezza di un dato ordinamento (o settore normativo), ed evita le gravi difficoltà cui conduce l’adozione di un concetto del tipo tutto-o-niente. Nel quarto capitolo si tenta di giustificare una proposta di ridefinizione della certezza come prevedibilità dando una risposta alle seguenti questioni: 1) chi prevede (ovvero quali sono i soggetti le cui previsioni debbono considerarsi per esprimere un giudizio sulla certezza del diritto); 2) che cosa si prevede (ovvero su che cosa vertono le previsioni che si debbono considerare per esprimere un giudizio sulla certezza del diritto); 3) come si prevede (ovvero quali sono i mezzi e i metodi attraverso cui vengono elaborate le previsioni che si debbono considerare ai fini di una rilevazione della certezza del diritto); 4) quanto si prevede (ovvero come si determina la misura della certezza del diritto). Le risposte date a tali quesiti determinano la proposta di ridefinizione che nel quinto capitolo conclude questo lavoro. Si sosterrà che la certezza del diritto può essere definita come la possibilità, diffusa presso gli individui compresi in una data classe, di prevedere la gamma delle conseguenze suscettibili di essere spontaneamente o coattivamente ricondotte ad atti o fatti, nonché l’ambito temporale in cui tali conseguenze giuridiche verranno in essere. Lo schema se-

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INTRODUZIONE

guente precisa la ridefinizione proposta e la articola secondo i quesiti sopra enunciati: Elementi della definizione

Definizione

elemento disposizionale

Possibilità,

quanto si prevede (misura orizzontale)

diffusa

chi prevede

presso gli individui inclusi in una data classe,

quanto si prevede (misura verticale)

di prevedere accuratamente, attendibilmente e a lungo termine,

come si prevede

con qualsiasi mezzo a disposizione,

che cosa si prevede

la gamma delle conseguenze giuridiche effettivamente suscettibili di essere, in virtù del diritto o del settore del diritto considerato, spontaneamente o coattivamente ricondotte ad atti o fatti, reali o immaginari, passati o futuri,

che cosa si prevede (tempi)

nonché l’ambito temporale in cui tali conseguenze giuridiche verranno in essere.

Desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno incoraggiato e aiutato nella preparazione di questo libro. Un pensiero di particolare riconoscenza va ad Anna Pintore, i cui consigli sono stati davvero indispensabili in tutte le fasi del lavoro: nessuno avrebbe potuto essere più paziente o più disponibile. Sono molto in debito con Mario Jori e Claudio Luzzati: molte delle idee contenute in questo libro non avrebbero potuto essere elaborate senza i loro preziosi contributi. Vorrei infine ringraziare Riccardo Guastini per l’attenta lettura del testo, per le utili osservazioni, nonché, assieme a Paolo Comanducci, per l’onore che mi ha accordato ospitando questo lavoro nella collana “Analisi e diritto”.

Capitolo 1

L’incertezza sulla certezza

1.1. Ambiguità dell’espressione “certezza del diritto” I giuristi e i filosofi del diritto, in luoghi e tempi diversi, hanno attribuito alla locuzione “certezza del diritto”, o “certezza giuridica” (Rechtssicherheit, legal certainty, sécurité du droit, seguridad jurídica), molteplici significati, spesso assai diversi tra loro. Senza alcuna pretesa di completezza, si possono elencare i seguenti: conoscibilità ex ante delle conseguenze giuridiche dei comportamenti degli individui, basata sulla conoscenza delle norme del diritto; prevedibilità dell’intervento (o del non intervento) degli organi con competenza decisionale o meramente esecutiva in relazione a ciascuna singola fattispecie; prevedibilità dell’esito di ciascun intervento degli organi dotati di competenza giuridica decisionale, ovvero prevedibilità della decisione giuridica concreta; sicurezza dei rapporti giuridici, in virtù di una presumibile stabilità della regolamentazione o della congruenza tra normative susseguentisi nel tempo; controllabilità ex post delle decisioni giuridiche; accessibilità alla conoscenza della legge o, più in generale, delle prescrizioni giuridiche da parte dei loro destinatari; conoscenza diffusa ed effettiva del diritto da parte dei consociati; principio che prescrive di produrre e di applicare le norme in modo da rendere possibile conoscere anticipatamente in via generale o particolare la valutazione giuridica dei comportamenti futuri; univocità delle qualificazioni giuridiche, fedeltà delle decisioni ai precedenti giudiziali, o coerenza e congruenza delle decisioni giuridiche; conformità del diritto o delle decisioni giudiziali a determinati standards di giustizia o di correttezza; coerenza e completezza dell’ordinamento considerato come sistema di qualificazioni giuridiche; stabilità del giudicato o comunque incontestabilità dei rapporti giuridici esauriti; completa definizione delle fonti di produzione delle norme giuridi-

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LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

che; chiarezza, precisione e intelligibilità delle direttive di comportamento contenute nelle norme giuridiche; determinatezza delle competenze e delle reciproche relazioni tra i pubblici poteri; protezione del cittadino contro l’arbitrio dei governanti e/o dei giudici, specie grazie alla presenza nel sistema giuridico di principi o istituti specifici, quali il principio di legalità, l’irretroattività della legge e via dicendo 1 . La semplice enumerazione di queste definizioni dovrebbe mostrare che «non è affatto chiaro che cosa debba intendersi per certezza del diritto» 2 ; ciò, del resto, è stato ampiamente rilevato dagli studiosi che si sono occupati della materia 3 . Uno dei motivi dell’inaffer1

Questo elenco non comprende solo i sensi in cui l’espressione “certezza del diritto” è usata di fatto nel comune linguaggio dei giuristi, ma include anche alcune più o meno note ridefinizioni e definizioni stipulative reperibili nella vasta letteratura teorica e filosofico-giuridica sull’argomento; per ciò che riguarda i soli contributi italiani si vedano ad esempio: BERTEA, S., Certezza del diritto e argomentazione giuridica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002; CARCATERRA, G., Certezza, scienza, diritto, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, 48 (1962), pp. 337-394; COMANDUCCI, P., GUASTINI, R., L’analisi del ragionamento giuridico, Giappichelli, Torino 1987, pp. 233-242; CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, Giuffrè, Milano 1979, pp. 30 ss.; GIANFORMAGGIO, L., Certezza del diritto, in GIANFORMAGGIO, L., Studi sulla giustificazione giuridica, Giappichelli, Torino 1986, pp. 157-169; GUASTINI, R., La certezza del diritto come principio di diritto positivo?, in Le regioni, a. XIV, n. 5, 1986, pp. 1094-1096; JORI, M., PINTORE, A., Manuale di teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1995, pp. 194-198; LONGO, M., voce Certezza del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, III, Utet, Torino 1974, pp. 124129; LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, Giuffrè, Milano 1999; LOMBARDI, L., Saggio sul diritto giurisprudenziale, Giuffrè, Milano 1967, pp. 567 ss.; PEGORARO, L., La tutela della certezza giuridica in alcune costituzioni contemporanee, in JORI, M., GIANFORMAGGIO, L. (a cura di), Scritti per Uberto Scarpelli, Giuffrè, Milano 1997, pp. 705-742. 2 GUASTINI, R., La certezza del diritto come principio di diritto positivo?, cit., p. 1094. 3 Secondo Lombardi Vallauri, ad esempio, i numerosi significati di “certezza del diritto” possono essere divisi in ben quattro gruppi, ad ognuno dei quali corrisponde un’idea fondamentale di certezza giuridica. La prima idea è quella di “sicurezza”, ovvero certezza dell’azione attraverso il diritto; la certezza è la specifica eticità e utilità del diritto. Questa concezione, su cui insisteva particolarmente Lopez de Oñate (cfr. LOPEZ DE OÑATE, F., La certezza del diritto, Gismondi, Roma 1942, con prefazione di G. Capograssi), si ricollega all’idea del diritto certo come strumento di garanzia dell’ordine e della pace sociali, in particolare contro l’arbitrio e la violenza pubblici o privati (sulla certezza del diritto come sicurezza, vedi anche CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 31-33). La seconda idea di certezza è quella di “inviolabilità delle situazioni (soggettive) giuridicamente protette”, alla cui garanzia mirano le dottrine e gli istituti posti dalla grande tradizione liberale:

L’INCERTEZZA SULLA CERTEZZA

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rabilità del concetto in esame è che non sempre si parla di “certezza del diritto” avendo cura di precisare, almeno in qualche misura, cosa s’intenda per “diritto”. È chiaro che la trattazione del tema della certezza assume connotati diversi a seconda dell’approccio teoricogiuridico adottato: una teoria della certezza giuridica viene ordinariamente elaborata facendo riferimento ad un determinato concetto di diritto, sintesi delle scelte metodiche, teoriche ed etico-politiche che costituiscono l’insieme delle tesi fondamentali di una persona, di una corrente di pensiero, o di una cultura attorno al diritto 4 . Dato che la lunga storia della filosofia del diritto coincide in larga misura con la storia dei tentativi volti ad individuare il concetto di diritto, e che in pratica ogni autore, al di là delle inevitabili “somiglianze di famiglia” con i colleghi dello stesso indirizzo o scuola, ha sviluppato (almeno) una personale concezione del diritto, è agevole rilevare come la varietà e il numero dei risultati proposti abbiano incrementato in modo esponenziale il novero dei possibili significati dell’espressione “ceril principio dello Stato di diritto, la subordinazione del giudice alla legge, il principio nullum crimen sine lege, l’irretroattività della legge, e via dicendo; questa concezione richiama le varie forme di tutela delle libertà del cittadino contro gli abusi dei pubblici poteri. La terza idea di certezza, che secondo Lombardi si pone rispetto alle altre due come condizione necessaria ma non sempre sufficiente, è quella di “conoscibilità della norma generale”, o meglio, “conoscibilità della situazione giuridica individuale (e dunque prevedibilità della norma giurisdizionale individuale) sulla base della norma generale”. Tuttavia, al contrario di quello che si potrebbe pensare, l’autore non intende riferirsi ad una conoscibilità de facto, ad un’accessibilità del cittadino alla conoscenza giuridica, bensì ad una conoscibilità-prevedibilità fondata sulla completezza del diritto, a sua volta assicurata, in astratto, dall’ideale irrealizzabile di una “casistica assoluta dotata di assoluta effettività” (ibidem, p. 583). Infine, Lombardi parla di una “certezza diacronica”, che richiama l’idea di “stabilità” della regolamentazione giuridica nel tempo (ibidem, pp. 586, 587). Questa quarta idea di certezza riguarderebbe in particolare la produzione di nuove norme, il cui contenuto dovrebbe presentare una continuità, una gradualità di mutamento, rispetto al diritto preesistente; ciò accadrebbe specialmente «là dove mutino le norme nel permanere dei principii: mi è più facile accettare la nuova norma che sconcerta i miei piani di vita se vedo che essa è posta per applicare, in una mutata situazione storico-sociale, lo stesso principio su cui si fondava la norma precedente» (ibidem, p. 587). Distingue tra certezza sincronica e certezza diacronica, ma in un senso differente, anche LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., pp. 277-284, 290-292. 4 Sulla necessità di precisare il concetto di diritto cui si allude parlando di “certezza del diritto”, vedi: COMANDUCCI, P., Aarnio ed il problema della certezza del diritto, in COMANDUCCI, P., GUASTINI, R., Analisi e diritto 1994, Giappichelli, Torino 1994, p. 112; CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 61 ss.; LONGO, M., voce Certezza del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, cit., pp. 124-125.

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LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

tezza giuridica” 5 . Con ciò non intendo affermare che ad ogni concezione del diritto corrisponda una e una sola definizione di certezza del diritto. Piuttosto, è vero che un’unica definizione di certezza, specie se molto generica, può attagliarsi a più concezioni del diritto, anche tra loro inconciliabili; per esempio, se si definisce la certezza semplicemente come “possibilità di prevedere le conseguenze giuridiche delle proprie azioni”, una tale definizione è compatibile sia con la concezione del diritto come coazione applicata in modo sistematico e organizzato con sufficiente effettività, sia con la concezione del diritto come impresa finalizzata all’assoggettamento della condotta umana a norme, sia con la concezione che considera il diritto come insieme di previsioni di ciò che faranno effettivamente i tribunali 6 . La compatibilità con queste diverse concezioni giuridiche si basa ovviamente sulla genericità della locuzione “conseguenze giuridiche”, che assume un senso diverso a seconda del concetto di diritto adottato, tanto da poter indicare sia degli accadimenti naturali, ad esempio degli atti coercitivi di qualche sorta, sia dei Sollen, ad esempio delle norme individuali prodotte nel quadro di un ordinamento dinamico inteso come concatenazione produttiva. Tuttavia, se è vero che un’unica definizione di certezza può attagliarsi a diverse concezioni del diritto, è vero anche, per contro, che una sola definizione di “diritto” può lasciare aperta la possibilità di più concezioni di “certezza” alternative e, per così dire, in competizione tra loro. Così, vari autori disposti a condividere una concezione positivistica del diritto possono avanzare ognuno una propria personale definizione di certezza

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Una precisazione si rende a questo punto necessaria circa la distinzione tra “concetto” e “concezione”: per “concetto” intendo il nucleo minimo di significato, l’elemento uniforme e costante, il denominatore comune alle varie concezioni, che viene da queste ultime diversamente sviluppato (vedi ad esempio la distinzione tra concetto e concezioni della giustizia operata da H.L.A. HART in The Concept of Law, Oxford University Press, London, 1961, trad. it. Il concetto di diritto, Einaudi, Torino 1991, pp. 186 e 187). Un concetto ha necessariamente un’intensione minore ed un’estensione maggiore rispetto alle varie concezioni che ne costituiscono la specificazione. Per chiarimenti analitici riguardo alla distinzione tra concetti e concezioni si veda PINTORE, A., La teoria analitica dei concetti giuridici, Jovene, Napoli 1990, pp. 162 ss. 6 La prima definizione è quella “minimalistica” riportata in JORI, M., PINTORE, A., Manuale di teoria generale del diritto, cit., p. 38, la seconda è in FULLER, L.L., The Morality of Law, Yale University Press 1964, trad. it. La moralità del diritto, Giuffrè, Milano 1986, p. 142, la terza è in HOLMES, O.W., The Path of the Law, in Harward Law Review, 10, 1897, p. 461.

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giuridica, intesa per esempio come possibilità di prevedere le conseguenze giuridiche delle proprie azioni, o come possibilità di prevedere, più in generale, le conseguenze che l’ordinamento ricollega ad eventi del mondo reale, siano essi comportamenti umani (o loro risultati), o meno 7 . Se ciò di cui si predica la certezza adoperando l’espressione in esame è oggetto di discussione, non meno controverso è il significato del predicato stesso. Il vocabolo “certezza”, infatti, richiama di primo acchito una totale sicurezza, una completa mancanza di dubbio su ciò che si afferma certo. L’età d’oro della certezza del diritto, quella dell’Illuminismo giuridico, è del resto caratterizzata dall’affermazione di un concetto bivalente di certezza: essa c’è o non c’è, tertium non datur 8 . Questa tendenza a considerare la certezza del diritto come concetto tutto-o-niente resiste ancora oggi ed è diffusa specialmente tra i giuristi positivi. Secondo questa concezione, l’espressione “certezza assoluta”, pur frequente nella letteratura filosoficogiuridica contemporanea, è in pratica un pleonasmo, poiché non fa altro che ribadire l’assolutezza di qualcosa che già per definizione è 7 Simile alla prima definizione è quella riportata in JORI, M., PINTORE, A., Manuale di teoria generale del diritto, cit., p. 194, per cui «la certezza del diritto consiste nella possibilità, da parte del cittadino, di conoscere la valutazione che il diritto dà delle proprie azioni e di prevedere le reazioni degli organi giuridici alla propria condotta» (corsivo mio). Un altro esempio è presente in LUZZATI, C., La vaghezza delle norme, Giuffrè, Milano 1990, p. 421, dove la certezza del diritto è definita come la «possibilità dei soggetti di conoscere, prima di agire, quale valutazione delle proprie azioni verrà data dall’ordinamento giuridico» (corsivo mio). Una definizione che identifica la certezza del diritto con la prevedibilità delle conseguenze giuridiche di atti o fatti, senza distinguere tra gli uni e gli altri, né tra azioni proprie e altrui, è invece riportata in GIANFORMAGGIO, L., Certezza del diritto, cit., p. 158. Un esempio di reazione dell’ordinamento a fatti indipendenti dalla condotta umana potrebbe essere, per quanto riguarda il diritto italiano, la dichiarazione dello “stato di calamità naturale” (cfr. L. 996/1970, L. 225/1992), ma altri ordinamenti prevedono analoghi provvedimenti d’emergenza predisposti per fronteggiare eventi naturali catastrofici o comunque eccezionali. Questo provvedimento serve per attivare un’azione pubblica volta a prestare assistenza alle popolazioni colpite da “calamità naturali” (frane, inondazioni, terremoti, siccità, ecc.) e a predisporre i mezzi necessari per ristabilire la normalità della loro vita. Ebbene, solo secondo la definizione di “certezza del diritto” come prevedibilità delle conseguenze giuridiche di atti o fatti, essa potrebbe essere valutata anche alla stregua della misura con cui è possibile prevedere che, verificatosi un certo evento naturale dannoso, sarà dichiarato lo stato di calamità naturale. Vedi anche infra, § 4.3.b. 8 Sui concetti classificatori cfr. HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 65-69.

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assoluto; d’altra parte, l’altrettanto ricorrente locuzione “certezza relativa” diventa un ossimoro in quanto accosta termini che esprimono concetti contradditori: una certezza non del tutto certa non è più “certezza”, ma “credenza”, “opinione”, e via dicendo. Come vedremo, le nozioni relativiste e graduabili di certezza del diritto sembrano peraltro godere di sempre maggior considerazione tra i teorici del diritto contemporanei, tanto che sempre più di frequente – e senza contraddizioni – essi parlano di “grado di certezza”, o di “certezza relativa” 9 . La descritta polisemia della locuzione “certezza giuridica” si traduce assai frequentemente in ambiguità, poiché spesso accade che, nonostante l’espressione sia inclusa in un contesto più ampio, non si riesca a capire quale, tra i vari possibili significati, sia quello effettivamente usato nella concreta istanza verbale. Così, l’enunciato “il diritto italiano è un modello di certezza giuridica” non chiarisce se per “certezza giuridica” s’intenda, ad esempio, la possibilità di prevedere le conseguenze giuridiche di un determinato comportamento, la stabilità della regolamentazione giuridica nel tempo, la chiarezza e conoscibilità delle norme giuridiche del diritto italiano o uno qualsiasi degli altri significati di cui si è fatta menzione in apertura di paragrafo. Addirittura, qualche volta l’ambiguità della locuzione è tale da non permettere di capire se ci si riferisca ad una situazione di fatto, ad un principio giuridico o ad un valore etico-politico, e anzi ciò ha portato molti studiosi a distinguere espressamente tra una certezza intesa come fatto e una certezza intesa come principio o come valore 10 . In effetti, se si considerano gli usi effettivi dell’espressione “certezza giuridica” si può rilevare che essa è adoperata dai giuristi e dai teorici del diritto sia per indicare una situazione di fatto (per esempio, quella per cui più spesso che no gli esperti riescono a prevedere le decisioni dei giudici, o il fatto che gli operatori giuridici applicano il diritto in modo da garantire la previsione della maggior parte delle loro decisioni), sia per indicare un principio giuridico (per esempio, la direttiva di scopo che prescrive ai giudici di applicare le norme in modo da aumentare le probabilità di previsione delle loro decisioni da parte dei giuristi o dei cittadini), sia per indicare un va9

Per tutti, vedi LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., pp. 247-249. Vedi infra, § 1.4. 10 Cfr. GIANFORMAGGIO, L., Certezza del diritto, cit., pp. 162, 165-166; LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., pp. 252 ss. All’argomento è dedicato il § 1.5.c.

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lore (certezza come virtù specifica del diritto, per cui un diritto relativamente prevedibile è migliore di un diritto relativamente imprevedibile) 11 . Quest’uso promiscuo della locuzione “certezza del diritto”, in taluni casi, può però essere fonte di confusione. Chi voglia affrontare uno studio sull’argomento o su qualche suo specifico aspetto dovrà pertanto, se desidera evitare equivoci, palesare il senso in cui intende parlare di certezza giuridica, individuandone un’accezione per quanto possibile non ambigua. Per far ciò, potrà eventualmente coniare una definizione che si discosti parzialmente o totalmente dagli usi linguistici correnti, giacché questi non solo favoriscono una certa ambiguità della nostra espressione ma, come subito vedremo, sono caratterizzati da un’indeterminatezza semantica certo non utile alle esigenze di chiarezza e di precisione del discorso scientifico.

1.2. Vaghezza del significato di “certezza del diritto” Non solo l’espressione “certezza del diritto” è potenzialmente ambigua, ma i vari significati in cui essa è solitamente usata presentano un elevato grado di vaghezza. Assai spesso, infatti, accade di imbattersi in casi-limite ai quali non si riesce a decidere se applicare l’espressione o meno. Consideriamo, a titolo d’esempio, la definizione molto diffusa di “certezza del diritto” come “possibilità di prevedere le reazioni degli organi giuridici al comportamento dei consociati”. Ebbene, una nozione di questo tipo è poco più determinata di quella per cui la giustizia è data dal «vivere onestamente, non recar danno a nessuno, dare a ciascuno il suo» 12 . Varie “aperture” semantiche rendono assai equivoco il definiens proposto, per esempio: cosa si intende precisamente per “possibilità di prevedere”? Deve trattarsi di una prevedibilità assoluta, per cui si deve sempre essere in grado di prevedere esattamente queste reazioni, oppure ci si può accontentare di una prevedibilità in qualche senso relativa, per cui si ammettono dei margini di errore o di approssimazione nell’an e/o nel quid e nel quantum della reazione dell’ordinamento? È ammessa esclusivamente una prevedibilità basata sulla conoscenza delle norme giuridiche, o si può parlare di certezza del diritto anche quando si prevede la decisione affidandosi a massime d’esperienza, a conoscenze sulla 11 12

Vedi infra, § 1.5.c. La notissima definizione è di ULPIANO (Digesto, 1, 1, 10).

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prassi o comunque a conoscenze giuridiche “private” 13 ? Che cosa s’intende per “reazioni degli organi giuridici”? Si tratta delle conseguenze giuridiche astrattamente applicabili al caso considerato o si tratta dell’atto concreto con cui l’organo investito di potestà giurisdizionale “applica” il diritto? Devono potersi prevedere solo gli atti degli organi investiti di potestà giurisdizionale oppure la previsione deve riguardare anche gli atti di altre autorità con poteri decisionali, come quelle amministrative? Deve potersi prevedere solo la reazione-decisione conforme alla legge oppure anche quella eventualmente contra legem? Cosa si intende per “comportamento dei consociati”? Si deve essere in grado di predire esclusivamente le conseguenze giuridiche della propria condotta oppure anche quelle della condotta altrui? O invece si può parlare di certezza solo quando si è in grado di prevedere le reazioni dell’ordinamento a qualunque atto o fatto, anche indipendente dalla condotta umana? Come si vede, concetti di “certezza del diritto” come quello riportato nell’esempio sono relativamente molto vaghi. Questa indeterminatezza semantica si riscontra non solo quando si considera il significato di “certezza del diritto” come uso linguistico dell’espressione, ma anche quando lo si intende come estensione 14 , come intensione 15 13 Per “conoscenze giuridiche private” intendo, genericamente, quelle conoscenze (o pseudo-conoscenze, o credenze) che pur riguardando – in senso lato – il diritto, non sono accessibili in testi pubblicamente disponibili come gazzette ufficiali, repertori giurisprudenziali, scritti dottrinali, ecc. Si tratta dunque di conoscenze cui normalmente si ha accesso solo nell’ambito di determinati ambienti di specialisti (quelli degli avvocati, della pubblica amministrazione, della magistratura, ecc.) che hanno una particolare familiarità con la prassi giuridica di un particolare ufficio o complesso di uffici (una certa Procura della Repubblica, un dato Ufficio del Catasto, ecc.). L’argomento delle conoscenze giuridiche private e il rapporto tra queste e la certezza giuridica verranno approfonditamente trattati in questo lavoro. Vedi infra, § 4.4.d. 14 Accolgo qui la tesi di Claudio Luzzati per cui a nozioni diverse di “significato” corrispondono nozioni diverse di vaghezza (cfr. LUZZATI, C., La vaghezza delle norme, cit., pp. 13-16). L’estensione, o denotazione, o riferimento, o significato estensionale di un termine, è generalmente definita come l’insieme degli oggetti cui il termine può essere attribuito in maniera veritiera (se il termine è generale, come “uomo”) o dal singolo oggetto cui il termine si riferisce (se è singolare, come “Socrate”). Due espressioni con la medesima estensione sono dette equivalenti. 15 L’intensione, o connotazione, o senso, o significato intensionale di un termine, è generalmente definita come l’insieme delle proprietà da esso evocate e possedute dai singoli oggetti che rientrano nella sua estensione, oppure come l’insieme di attributi mediante i quali le cose denotate dal segno possono venire conosciute. Si può anche dire, con Belvedere, che l’intensione «consiste nell'insieme delle proprie-

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o come elemento del sistema lessicale 16 . Molti dei significati di “certezza” proposti o usati, infatti, risultano estremamente vaghi sia a causa del relativamente alto numero di oggetti che siamo intrinsecamente incerti se includere o no nella classe denotata dall’espressione (vaghezza estensionale), sia a causa del relativamente alto grado di indeterminatezza dell’insieme delle proprietà che connotano tali oggetti (vaghezza intensionale), sia – se accogliamo la concezione del significato proposta dalla linguistica strutturale – a causa del relativamente basso grado di differenziazione rispetto a concetti “contigui” nel sistema lessicale (vaghezza come parziale sovrapposizione tra concetti classificatori limitrofi). Così, per ciò che riguarda la vaghezza estensionale di “certezza del diritto”, se tra le varie accezioni della locuzione selezioniamo quella per cui essa è definibile come “situazione di fatto per cui tra i cittadini è diffusa un’elevata capacità di prevedere correttamente le conseguenze giuridiche della propria condotta”, ci si imbatterà comunque in moltissimi casi-limite che non sappiamo se ricondurre o meno alla classe denotata dall’espressione, e ciò anche ammettendo tà o caratteristiche che un oggetto deve possedere per essere indicato con un certo termine, per essere compreso nella classe che ne costituisce l'estensione» (BELVEDERE, A., Aspetti ideologici delle definizioni nel linguaggio del legislatore e dei giuristi, in Belvedere, A., Jori, M., Mantella, L., Definizioni giuridiche e ideologie, Giuffrè, Milano 1979). L’intensione di “uomo”, per esempio, comprende tutte le proprietà che possono essere attribuite agli uomini: l’essere bipedi, intelligenti, dotati di parola, ecc.; l’intensione di “Gianmarco Gometz” comprende tutte le caratteristiche di questo individuo: l’essere figlio di Luciano Gometz, essere l’autore di La certezza giuridica come prevedibilità, avere i capelli castani., ecc. Due espressioni che hanno la medesima intensione, com’è noto, sono dette sinonime. Per uno studio di carattere introduttivo su estensione e intensione, cfr. COPI, I.M., COHEN, C., Introduzione alla logica, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 144-147; MONDADORI, M., D’AGOSTINO, M., Logica, Bruno Mondadori, Milano 1997, pp. 300-301. 16 Secondo la linguistica strutturale, il significato di un termine non è concepibile come un’entità isolata, ma dipende dalla posizione relativa che lo stesso occupa all’interno del sistema di termini solidali che strutturano un certo campo semantico. Ciascuna parola ha dunque un valore semantico puramente differenziale che viene stabilito mediante un’opposizione distintiva con le espressioni concettualmente contigue. Cfr. LUZZATI, La vaghezza delle norme, cit., p. 11. “È dimostrato che gli utenti dei segni non sono neppure in grado di percepire con precisione l’aspetto fisico dei segni, e tanto meno di ricordarli in numero significativo in isolamento dalla loro posizione del sistema: infatti per quanto la cosa sembri strana, in realtà si percepiscono direttamente non gli aspetti fisici dei segni, ma le differenze semioticamente rilevanti tra di loro …”; cfr. JORI, M., PINTORE, A., Manuale di teoria generale del diritto, cit., p. 307.

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la nostra completa conoscenza di quella particolare situazione e delle regole d’uso dell’espressione stessa. Si pensi al caso in cui le nostre indagini statistiche stabiliscano che nello stato X il 50% dei cittadini riescono a prevedere con successo le conseguenze giuridiche delle proprie azioni (prescindiamo per ora dal problema di come condurre quest’indagine e di cosa si intenda per “previsione di successo”). Questa situazione rientra nella classe di quelle in cui è “diffusa” la capacità di prevedere con successo le conseguenze giuridiche della propria condotta? O è necessario, diciamo, il 60%? O è sufficiente il 40%? O ancora, supponiamo che le nostre statistiche indichino che i cittadini, in media, riescono a prevedere con successo le conseguenze giuridiche delle loro azioni nel 50% dei casi (una previsione corretta ogni due avanzate). Possiamo allora dire che la loro capacità di prevedere le conseguenze giuridiche della propria condotta è “elevata”? Ecco dei casi in cui siamo indecisi se adoperare o meno l’espressione “certezza del diritto”, pur avendo completa conoscenza della situazione di fatto e delle regole d’uso delle espressioni “diffusa” e “elevata” nel contesto considerato. Il nostro dubbio potrebbe in teoria essere superato riducendo la vaghezza della definizione di partenza, ad esempio modificandola in modo da denotare solo gli ordinamenti in cui almeno il 66% dei cittadini sia in grado, almeno due volte su tre, di avanzare una previsione corretta delle conseguenze giuridiche delle proprie azioni. Come vedremo in seguito, tuttavia, le ridefinizioni di “certezza giuridica” che fanno ricorso a valori numerici non sono affatto d’uso corrente tra i giuristi e i teorici del diritto 17 . Inoltre, adoperando una definizione di questo tipo ridurremmo sì la vaghezza estensionale dovuta all’uso delle espressioni “diffusa” e “elevata”, ma lasceremmo aperti altri varchi all’indeterminatezza semantica del definiens, per esempio quelli corrispondenti alle espressioni “capacità di prevedere”, “con successo” e “conseguenze giuridiche della propria condotta”. Che dire, infatti, dell’ordinamento T, in cui tutti i cittadini riescono a prevedere nel 100% dei casi alcune soltanto delle conseguenze giuridiche della loro condotta, ad esempio solo quelle relative a certe materie relativamente non controverse, o dell’ordinamento Z in cui tutti i cittadini riescono a prevedere nel 100% dei casi solo i giudizi sulla rilevanza o sull’irrilevanza penale della propria condotta, senza aver alcuna capacità di anticipare gli altri contenuti della pronuncia giudiziale, tra cui il quantum della eventuale pe17

Vedi infra, § 1.5.b.

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na? O ancora, è certo, sempre secondo la definizione proposta, l’ordinamento R in cui tutti i cittadini riescono a prevedere nel 100% dei casi le decisioni giuridiche solo a istruzione conclusa, dunque nella frase processuale immediatamente precedente la sentenza, e non anche prima del processo, a partire dal momento immediatamente successivo alla messa in atto della condotta le cui conseguenze giuridiche si intendono prevedere? Ed è certo l’ordinamento H in cui i cittadini riescono a prevedere nel 100% dei casi solo le decisioni conformi con quanto stabilito dalle norme superiori (“sostanziali” o “procedurali” che siano) e non anche quelle in qualche modo da esse difformi e tuttavia di fatto adottate dal giudice 18 ? Anche considerando il significato intensionale dell’espressione “certezza del diritto”, dato dall’insieme delle proprietà che connotano tutti gli oggetti denotati dall’espressione stessa, ci troviamo spesso di fronte ad un elevato grado di vaghezza 19 . Si pensi ai dubbi che sorgono quando dobbiamo decidere quali siano esattamente le proprietà presentate da tutti gli ordinamenti che consideriamo “certi”. Rientra davvero tra queste proprietà, ad esempio, la prevedibilità da parte dei cittadini delle conseguenze giuridiche delle proprie azioni? Oppure può essere chiamato “certo” anche il diritto che non presenta per nulla tale caratteristica, ma che pure viene applicato in modo meccanico e costante dagli organi che esercitano la coazione 20 ? Si 18 Le domande potrebbero continuare. Ad esempio, è certo l’ordinamento in cui i cittadini sono in grado di prevedere le conseguenze giuridiche delle loro azioni solo grazie a mezzi diversi dalle conoscenze giuridiche “ufficiali”, ad esempio grazie alla conoscenza delle patologie e dei malfunzionamenti dell’ordinamento? (si pensi ad un ipotetico ordinamento in cui i cittadini sono in grado di prevedere una decisione giudiziale favorevole ai loro interessi in tutti i casi in cui le somme offerte al giudice per ottenerla sono maggiori di quelle offerte dalla controparte). Tali questioni verranno discusse nel quarto capitolo (vedi specialmente i §§ 4.4.a-d). 19 Qui si accoglie una nozione intuitiva di vaghezza intensionale, vicina a quella proposta da Pap (cfr. PAP, A., Semantics and Necessary Truth. An Inquiry into the Foundations of Analytic Philosophy, Yale University Press, New Haven, Londra 1966, p. 430), secondo cui un termine generale è vago se “l’insieme delle proprietà che connota non è fisso”. Si può obiettare, tuttavia, che secondo questa nozione la vaghezza intensionale ridonda in vaghezza estensionale; cfr. LUZZATI, La vaghezza delle norme, cit., p. 16. 20 Incidentalmente, si può rilevare che determinate proprietà tradizionalmente considerate caratterizzanti il diritto “certo”, come la generalità delle norme, la conoscibilità, l’irretroattività, l’intelligibilità, ecc., sono da alcuni autori elevate a condizioni necessarie perché si abbia diritto tout court. Si veda, ad esempio, FULLER, L.L., La moralità del diritto, cit. Per Fuller, quelle che molti autori ritengono essere esclusivamente caratteristiche del diritto “certo”, cioè la generalità delle norme, la cono-

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pensi ad un diritto costituito da norme in larga parte tenute segrete ai cittadini, eppure applicato in modo rigoroso e formale da un’esigua casta di monopolisti del sapere giuridico. Un diritto siffatto è esistito storicamente in più occasioni, sia nell’antichità sia in epoche a noi ben più vicine. È il caso, ad esempio, del diritto della Roma preclassica, col monopolio della conoscenza dei formulari delle legis actiones detenuto dai pontefici, veri e propri depositari di un sapere giuridico-sacrale segreto. I dubbi derivanti dalla vaghezza intensionale del concetto di “certezza del diritto” permangono, inoltre, anche passando alle concezioni che la definiscono come un principio. Potremmo infatti chiederci: il principio di certezza è (cioè presenta la proprietà di essere) interno o esterno al diritto? Detto in altri termini, si tratta di un principio metagiuridico, etico-politico, che prescrive di produrre e applicare il diritto in modo da realizzare una qualche forma di certezza come prassi effettiva, oppure tale principio deve ritenersi interno all’ordinamento giuridico? E inoltre: è un principio rivolto primariamente al legislatore o agli organi dell’applicazione 21 ? Infine, se si accoglie la teoria del significato avallata dalla linguistica strutturale, si deve rilevare che l’espressione “certezza del diritto” è vaga perché la sua area di significato coincide in parte, nella zona detta di frangia o di penombra, con aree che il sistema linguistico assegna al significato di espressioni confinanti, come “legalità”, “stabilità della regolamentazione giuridica”, “irretroattività della legge penale”, “tassatività della legge penale”, “sicurezza giuridica”, “Stato di diritto”, “effettività” ecc. In questi casi, anzi, non sempre è chiaro se tali espressioni siano intese come iponime, sinonime o iperonime rispetto a “certezza del diritto 22 . scibilità, l’irretroattività, la comprensibilità, la non contradditorietà, la possibilità di adempimento, la stabilità, l’applicazione fedele, sono in realtà delle esigenze che il diritto stesso (inteso come enterprise, come attività finalizzata) deve soddisfare per tendere alla realizzazione del fine che gli è proprio, cioè assoggettare la condotta umana al governo di norme. La mancata soddisfazione di tali esigenze non sfocia semplicemente in un cattivo diritto, ma in qualcosa che non si può nemmeno chiamare diritto (cfr. ibidem, pp. 56, 255). Secondo Herbert L.A. Hart, intelligibilità, possibilità e normale irretroattività, sono caratteristiche necessarie di ogni forma di controllo sociale attuato per mezzo di norme generali, dunque anche del diritto; cfr. HART. H.L.A., Il concetto di diritto, cit., pp. 240-241. 21 Vedi infra, § 1.5.c. 22 Per esempio, è stato affermato che “certezza del diritto” è addirittura sinonimo di “efficienza del sistema giuridico”, se con quest’ultima espressione s’intende la

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1.3. Importanza della precisione concettuale in materia di certezza giuridica Tutti i dubbi riportati nei paragrafi precedenti dimostrano che la locuzione “certezza del diritto”, oltre che polisenso e frequentemente ambigua, presenta dei significati molto vaghi. Per trattare di certezza del diritto è necessario pertanto non solo specificare l’accezione in cui se ne parla, ma anche precisare il significato scelto riducendo (almeno in certa misura) il suo grado di vaghezza mediante ridefinizioni via via più precise. La potenziale ambiguità dell’espressione, infatti, rende altamente probabile l’insorgenza di quelle sterili dispute – veri e propri dialoghi tra sordi – che frequentemente, in filosofia del diritto e tra i giuristi positivi, si sviluppano a causa di malintesi, capacità di un ordinamento giuridico di raggiungere l’obiettivo di “realizzare un ordine nella società organizzandola al fine di permetterle il raggiungimento di quei fini che le sono propri” (cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 39-41). Un altro esempio può essere dato dal modo in cui parte della dottrina penalistica configura il “principio di legalità”. Secondo alcuni, infatti, questo principio avrebbe come destinatari sia il giudice sia il legislatore e sarebbe articolato in quattro sottoprincipi: il principio di riserva di legge, il principio di tassatività o sufficiente determinatezza della legge penale, il principio di irretroattività della legge penale e il divieto di analogia in materia penale (cfr. FIANDACA, G., MUSCO, E., Diritto penale, Zanichelli, Bologna 1995, pp. 47 ss.). Si noti come ciascuno di questi quattro sottoprincipi abbia parecchio in comune con molte delle accezioni di certezza giuridica riportate nel paragrafo 1.1. Altro esempio ancora è dato dalla presunta contiguità semantica tra “certezza” ed “effettività”: è stato sostenuto che la certezza del diritto manca nei casi in cui le norme vengano troppo spesso disobbedite, i giudici siano ignoranti o troppo spesso corrompibili, i processi risultino troppo lunghi e costosi, perdurino forme di autotutela o di vendetta privata arbitrarie, non abbiano forza sufficiente gli organi esecutivi e di polizia, o ancora negli stati di guerra o di emergenza (cfr. LOMBARDI, L. Saggio sul diritto giurisprudenziale, cit., p. 570). Infine, sulla sovrapposizione tra Stato di diritto e certezza-prevedibilità, vedasi KELSEN, H., Reine Rechtslehre, Verlag Franz Deuticke, Vienna 1960, trad. it. La dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1975, p. 283, dove si afferma tra l’altro che «il principio in base al quale si ricollega la risoluzione di certi casi concreti a norme generali precedentemente prodotta da un organo legislativo centrale può essere esteso in modo conseguente anche alla funzione degli organi amministrativi: in questa generalità, esso rappresenta il principio dello stato di diritto, che è essenzialmente il principio della certezza del diritto»; vedasi anche WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, in Ratio Juris, Vol. 2 No. 1, Marzo 1989, pp. 79-96.

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equivoci, o mancati accordi sul significato da attribuire alle parole. Così, in passato, molti filosofi, indubbiamente con la loro buona parte di ragione, hanno qualificato la certezza del diritto come un mito, un ideale irrealizzabile, o un obiettivo indegno di essere perseguito, mentre altri, con altrettanto valide argomentazioni, hanno sostenuto posizioni di segno diametralmente opposto, affermando l’esistenza, la necessità o la bontà della certezza giuridica. Si pensi alla polemica a distanza che, intorno alla metà del secolo scorso, vide impegnati Jerome Frank e Norberto Bobbio, il primo – conformemente alla sua immagine di vilain della filosofia giuridica – tutto teso ad insinuare dubbi su questa mitica certainty, considerata mera manifestazione di un infantile bisogno di protezione e di sicurezza 23 , il secondo arroccato su posizioni di difesa di una certezza considerata elemento costitutivo dell’idea stessa di diritto 24 . Come ha rilevato Gianformaggio, entrambi i contendenti avevano in realtà perfettamente ragione, o comunque portavano – se tralasciamo alcune provocatorie affermazioni di Frank, poi parzialmente sconfessate dallo stesso autore – buoni argomenti per sostenere le rispettive tesi 25 . L’aporia è solo apparente, e si spiega col fatto che i due scrittori, pur adoperando la medesima espressione, alludevano in realtà a cose diverse: Bobbio, dicendo che la certezza del diritto è «un elemento intrinseco del dirit23

FRANK, J., Law and the Modern Mind, Coward-McCann, New York 1930; rist. Peter Smith, Gloucester, Massachusetts 1970, pp. 14-23. Va detto che le posizioni di Frank, pur alquanto rozze ed estreme nel loro scetticismo, sono state talvolta riportate in modo caricaturale dalla critica. Ciò che tuttavia è senz’altro censurabile, e che in effetti è stato il bersaglio polemico preferito dai detrattori dell’autore americano – tra cui lo stesso Bobbio – è l’interpretazione in chiave pseudo-psicologica della certezza come surrogato della figura paterna. I critici hanno avuto buon gioco a dimostrare la superficialità e la non scientificità di questa impostazione. Bisogna precisare, peraltro, che Frank ritiene la sua solo una partial explanation, cioè una spiegazione che individua solo una concausa, spesso non la più importante, oltretutto non sempre presente e largamente inconscia, per cui le persone sono propense a credere in una illusoria certezza assoluta. Inoltre – e ciò è ancor meno evidenziato dalla critica – il nostro autore ammette che un certo grado di certezza sia realizzabile e anche socialmente desiderabile (J. FRANK, Law and the Modern Mind, cit., p. 12). Ciò che non è né realizzabile né desiderabile, secondo Frank, è la prevedibilità assoluta delle decisioni giudiziali (da lui intese come i comportamenti reali ed effettivi, che gli individui, nella loro veste di organi giudicanti, concretamente tengono). 24 BOBBIO, N., La certezza del diritto è un mito?, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, 28, 1951, pp. 146-152. 25 Cfr. GIANFORMAGGIO, L., Certezza del diritto, cit., p. 164. Vedi anche DICIOTTI, E., Verità e certezza nell’interpretazione della legge, Giappichelli, Torino 1999, pp. 5 ss.

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to, sì che il diritto o è certo o non è neppure diritto» intendeva riferirsi alla certezza come generale osservanza di un insieme di regole provviste di un campo d’applicazione ragionevolmente determinato 26 ; Frank, quando brutalizzava la certezza qualificandola come “legal myth”, la intendeva come possibilità di prevedere esattamente l’esito concreto di un processo muovendo soltanto dalla conoscenza dei testi di legge o di precedenti decisioni giudiziali 27 . In sostanza, Bobbio e Frank, argomentando pro o contra la certezza giuridica, affermavano il primo l’opportunità politica e la possibilità pratica di conoscere ex ante ciò che deve essere deciso in astratto, relativamente a ciascuna singola fattispecie, affinché il diritto sia rispettato, il secondo l’imprevedibilità di quella che sarà la decisione giudiziale concreta, imprevedibilità dovuta alla complessità dei fattori che intervengono ad influenzare la decisione stessa. La certezza-prevedibilità di Bobbio riguardava il Sollen, quella di Frank il Sein. Per questo motivo, le due tesi, per quanto apparentemente opposte, non sono, come vedremo, del tutto inconciliabili 28 . Il dibattito che ho appena richiamato è solo uno tra i tanti che, soprattutto dall’epoca di Montesquieu in poi, si sono incentrati sul tema della certezza del diritto, toccando questioni che vanno dalla teoria del ragionamento giuridico all’epistemologia e all’etica. Ora, la polemica tra Bobbio e Frank, per quanto in buona misura viziata da fallacie di ambiguità, ha visto impegnati due autori lontanissimi per formazione culturale e scuole filosofiche di appartenenza. Del resto, Bobbio non lesina all’avversario l’accusa di “scientismo ingenuo”, ovvero di incauto entusiasmo per l’applicazione delle scoperte biologiche e psicologiche al campo della scienza della società umana e del suo sviluppo storico 29 . Spesso, peraltro, analoghi dibattiti filosofici e

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BOBBIO, N., La certezza del diritto è un mito, cit., p. 150. J. FRANK, Law and the Modern Mind, cit., pp. 3-14. Anche Hans Kelsen, da posizioni affatto diverse, quasi vent’anni prima parlava di «illusione della certezza del diritto che la teoria scientifica tradizionale coscientemente o incoscientemente si sforza di mantenere», alludendo alla concezione assolutistica della certezza per la quale il comportamento dei tribunali è in ogni suo aspetto determinato da un diritto le cui norme, lungi dal dover essere prodotte mediante un atto di volontà, devono solo essere scoperte tramite un atto di conoscenza (KELSEN, H., Reine Rechtslehre (1934), trad. it. Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1952, p. 125). Vedi infra, § 2.4. 28 Vedi infra, § 4.4.d. 29 Cfr. BOBBIO, N., La certezza del diritto è un mito?, cit., p. 150. 27

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politici sono compromessi non già da più o meno insanabili divergenze di punto di vista fondamentale, di valori, o di teorie di sfondo, bensì da più banali malintesi, questioni terminologiche sovente imputabili ad ormai noti vizi del discorso, che soprattutto la filosofia analitica del XX secolo ha avuto il merito di evidenziare e denunciare: il non precisare, almeno in certa misura, il significato dei termini su cui si sta dibattendo, non specificando se si stiano adoperando delle definizioni lessicali o stipulative, il non distinguere chiaramente ed esplicitamente le descrizioni dalle valutazioni e dalle prescrizioni, il non distinguere i discorsi dai metadiscorsi, e via dicendo 30 . Ci si rivolge così, il più delle volte inconsapevolmente, all’attacco o alla difesa di cose completamente diverse, come due squadre di giocatori di tiro alla fune che, invece di tirare ognuna un’estremità della stessa corda, esercitino i propri sforzi su funi diverse, ignari del fatto che il capo opposto, nascosto alla vista, è saldamente fissato ad un muro.

1.4. La certezza come prevedibilità In questo lavoro, come ho detto, non intendo occuparmi della certezza giuridica in tutte le sue accezioni, ma vorrei limitarmi a considerarne solo una: la certezza come prevedibilità delle conseguenze giuridiche di atti o fatti 31 . Ciò, naturalmente, mantiene ben divaricate le aperture semantiche ricollegabili a “prevedibilità” e a “conseguenze giuridiche”; per esempio, la definizione appena enunciata non precisa se la previsione debba essere elaborata solo facendo ricorso alla conoscenza delle norme giuridiche ovvero anche a conoscenze ulteriori, se l’oggetto delle previsioni sia un Sollen o un Sein, 30 C’è da dire, peraltro, che la necessità e l’opportunità di queste distinzioni, care alla maggior parte dei filosofi analitici non sono affatto pacifiche, ma dipendono a loro volta da scelte fondamentali: qualcuno, per esempio, potrebbe annunciare di aver finalmente scoperto una definizione reale di “certezza del diritto”, pretendendo di aver colto con essa l’intima essenza di questo fenomeno! 31 Stefano Bertea afferma che la nozione di certezza giuridica come prevedibilità è quella tipicamente adottata e diffusa dal giuspositivismo normativista (BERTEA, S., Certezza del diritto e argomentazione giuridica, cit., pp. 57 ss.). Può comunque agevolmente rilevarsi che di certezza come prevedibilità (sia pure basata sulla conoscenza di “norme” che non sono affatto intese alla maniera giuspositivista) parlano anche autori ben lontani dal positivismo giuridico, dal già citato Frank, ad Alf Ross (vedi nota 36), ai giusliberisti Massimo Corsale e Bruno Leoni (di cui si tratterà diffusamente nel secondo capitolo; vedi infra, §§ 2.3.a-i).

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se dunque ciò che si prevede sia una norma individuale o un comportamento (una decisione intesa come fatto storico), né, in quest’ultimo caso, se si preveda la semplice occorrenza di una decisione giudiziale, ovvero si predetermini più o meno esattamente il contenuto della decisione stessa 32 . Nel corso della presente trattazione, si cercherà di affrontare e risolvere tali questioni anche attraverso il ricorso a stipulazioni. In ogni modo, anche una definizione ampia e generica come quella sopra riportata è sufficiente ad evitare alcune ambiguità, quantomeno perché esclude dal novero delle possibili accezioni di “certezza” alcune definizioni pur diffuse, per esempio quella per cui la certezza consiste nella stabilità del giudicato, nell’incontestabilità dei rapporti giuridici esauriti o nella chiarezza del dettato normativo. D’altra parte, se si accetta l’ampia definizione ora proposta ci si accorge che molte delle nozioni riportate in apertura di capitolo fanno riferimento a situazioni o caratteristiche che possono essere considerate circostanze, condizioni o mezzi necessari per realizzare un dato (o un più elevato) grado di certezza-prevedibilità, e dunque, se fatte uscire dalla porta in qualità di definizioni di “certezza del diritto”, rientrano dalla finestra nella veste di presupposti o di elementi di sostegno per la prevedibilità delle conseguenze giuridiche di atti o fatti. Proprio la certezza intesa come incontestabilità dei rapporti giuridici esauriti, ad esempio, può essere considerata assai utile ai fini della previsione giuridica; si pensi a ciò che accadrebbe qualora qualsiasi res iudicata potesse essere ribaltata da nuove pronunce giurisdizionali: i giudicati non potrebbero servire né da base per la previsione (è stato accertato con sentenza passata in giudicato che l’immobile è di mia proprietà; quindi prevedo di poterne ottenere il rilascio), né potrebbero essi stessi costituire stabile oggetto di previsione. Altri esempi: la certezza intesa come completa definizione delle fonti di produzione delle norme giuridiche può essere vista come mezzo usato dal legislatore costituzionale per consentire una più efficace attività di previsione; la certezza intesa come accessibilità dei cittadini alla conoscenza giuridica e la certezza come relativa stabilità della regolamentazione giuridica possono essere invece considerate vere e proprie condizioni necessarie per una previsione della valutazione giuridica di atti o fatti che abbia qualche probabilità di aver 32

A questo proposito, si parla talvolta di una “certezza dell’intervento” distinta da una “certezza di comportamento” del pubblico potere; cfr. LONGO, M., voce Certezza del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, cit., pp. 126-127.

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successo, dato che la loro mancanza priverebbe gli interessati di qualunque base su cui costruire le loro previsioni, a meno di non accedere ad una concezione di “certezza del diritto” concepita tout court come situazione in cui, in qualunque modo, si riesce a prevedere la decisione giuridica; in questo caso dovrebbe dirsi che v’è certezza del diritto anche in mancanza di qualsiasi stabilità della regolamentazione giuridica o di accessibilità alle conoscenze giuridiche… sempre che i previsori abbiano altri mezzi (intimidazioni, lusinghe, o altre forme di contatti extra ordinem con i decisori), per conoscere in anticipo il contenuto della decisione giuridica 33 . La prevedibilità delle conseguenze giuridiche di atti o fatti è dunque al centro della problematica della certezza del diritto 34 . Nel cor-

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L’ipotesi è meno peregrina di quanto si potrebbe pensare a prima vista. Si pensi alle frequenti e deprecate “fughe di notizie” grazie alle quali certi cronisti particolarmente inseriti negli ambienti giudiziari riescono ad anticipare il contenuto di provvedimenti ritenuti di particolare interesse giornalistico. Mi occuperò più diffusamente in seguito della questione dei mezzi impiegabili ai fini della previsione; cfr. infra, §§ 4.4. 34 Numerosissimi sono gli autori che rilevano o propongono una definizione di certezza del diritto che contempla un qualche richiamo alla possibilità di prevedere le conseguenze giuridiche di atti o fatti; tanto numerosi, in effetti, da far ritenere che la nozione di certezza-prevedibilità rivesta un ruolo egemonico nella letteratura filosofico-giuridica dedicata al nostro argomento (di questo parere anche GUASTINI, R., La certezza del diritto come principio di diritto positivo?, pp. 1095 ss.). Kelsen, come vedremo nel prossimo capitolo, adotta una nozione graduabile di certezzaprevedibilità, e la stessa cosa fanno Hart (cfr. HART, H.L.A., Il concetto di diritto, cit., p. 152) e Raz (cfr. RAZ, J., The Authority of Law: Essays on Law and Morality, Clarendon, Oxford 1979, pp. 210 ss.). Jeremy Waldron si spinge ad affermare che la prevedibilità giuridica, in quanto essenziale all’autonomia individuale, rappresenta il principale valore dell’ideale di Stato di diritto (WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., pp. 79 ss.). Tra gli autori italiani che parlano di certezza come prevedibilità basterà per ora citare Ferrajoli (cfr. Diritto e ragione, Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 81-82), Jori e Pintore (cfr. Manuale di teoria generale del diritto, cit., p. 194). Si noti, come già si è osservato, che le definizioni di certezza come prevedibilità non sono appannaggio esclusivo degli autori giuspositivisti. Sia il realismo giuridico che il giusliberismo annoverano numerosi autori disposti a parlare di certezza giuridica in termini di possibilità di prevedere le conseguenze giuridiche di atti o fatti. In questi casi, naturalmente, sia le “conseguenze giuridiche” sia le modalità della previsione vengono concepite in modi toto coelo differenti rispetto alla tradizionale impostazione giuspositivista. Si pensi alla concezione di certezza adottata da Alf Ross in Diritto e giustizia (cfr. ROSS, A., On Law and Justice, Steven & Sons, Londra 1958, trad. it. Diritto e giustizia, Einaudi, Torino 1965, spec. pp. 41 ss.), a quella considerata da Jerome Frank (cfr. FRANK, J., Law and the Modern Mind, cit., pp. 14-23), o alle due concezioni

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so della presente ricerca, si cercherà di trattare la questione precisandone via via i termini. Dapprima verranno prese in esame diverse note concezioni di certezza come prevedibilità (capitolo 2), e in seguito verrà proposta una ridefinizione relativamente precisa di certezzaprevedibilità (capitoli 3, 4 e 5). Prima di ciò è però necessario individuare, se possibile, il concetto che sottende tutte le varie e numerose concezioni della certezza-prevedibilità. A ciò è dedicato il resto di questo capitolo.

1.5. Certezza come fatto e certezza come valore 1.5.a. La certezza-prevedibilità come concetto fattuale disposizionale Nel § 1.1, ho accennato alla tendenza diffusa ad affrontare il problema della certezza del diritto sotto un duplice profilo. Il primo è quello che parte dalla considerazione della certezza giuridica come fatto, il secondo trae le mosse dall’accostamento alla certezza giuridica come principio o eventualmente come valore 35 . Limitando, come anticipato, la nostra attenzione alle accezioni di certezza intesa come prevedibilità, si può rilevare che il comune denominatore del primo tipo di concezioni è dato dal riferimento immediato ad una situazione di fatto sussistente nell’ambito di una certa comunità giuridica e caratterizzata dalla possibilità, da parte di alcuni o tutti i consociati, di prevedere le conseguenze giuridiche di fatti o comportamenti. In questo senso, si dice che il diritto è certo quando effettivamente gli individui sono in grado di avanzare previsioni giuridiche corrette. Questo riferimento ad una più o meno spiccata e diffusa attitudine alla previsione giuridica è l’unico elemento comune alle varie concezioni fattuali, e come tale va a connotare il antiformaliste di certezza che sono dettagliatamente esaminate nel prossimo capitolo (cfr. infra, §§ 2.3.a-i). La nozione di certezza come prevedibilità è frequentemente adottata anche in giurisprudenza: per citare solo un esempio, in Italia la notissima sentenza della Corte cost. n. 364 del 1988 (che ha disconosciuto l’assolutezza del principio “nemo censetur ignorare legem” in ambito penale) ha evidenziato che l’esigenza di certezza non è fine a sé stessa, ma è strumentale alla prevedibilità dell’applicazione delle norme giuridiche. 35 Della questione mi occuperò più diffusamente nel § 1.5.c.

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concetto fattuale di certezza come prevedibilità 36 . La definizione di “certezza del diritto” in senso fattuale che provvisoriamente adotterò è dunque la seguente: possibilità diffusa di prevedere le conseguenze giuridiche di atti o fatti. Definire la certezza come possibilità diffusa di prevedere equivale a fornire un concetto disposizionale di “certezza del diritto”; esso esprime una pura e semplice potenzialità e pertanto soltanto indirettamente può essere ricondotto all’esperienza. I segni disposizionali, infatti, sono quelli che designano caratteristiche o proprietà la cui sussistenza può essere controllata solo se si verificano alcune condizioni 37 . Si pensi al concetto di “solubilità”: quando si afferma che lo zucchero è solubile in acqua non si dice che esso presenta certe caratteristiche immediatamente osservabili, ma che esso, se sarà immerso in una certa quantità d’acqua, allora si scioglierà. È noto che la forma di definizione appropriata per i concetti disposizionali è la cosiddetta “definizione condizionale”, con la quale si determinano le condizioni d’impiego del definiendum. La definizione del concetto disposizionale di “certezza”, dunque, fornisce una regola d’uso del termine che specifica le condizioni al verificarsi delle quali si conviene di poter parlare di “certezza”; se queste condizioni si verificano, allora si può correttamente (e cioè conformemente alla regola convenuta) impiegare quell’espressione. È chiaro che nel caso del suesposto concetto di “certezza del diritto” (certezza come disposizione diffusa alla corretta previsione delle conseguenze giuridiche di atti o fatti), tali condizioni sono assai generiche. Ciò non deve sorprendere: un concetto ha necessariamente un’intensione minore ed un’estensione maggiore rispetto alle varie concezioni che ne costituiscono la specificazione. La definizione del concetto fattuale di “certezza del diritto” come “possibilità diffusa di prevedere correttamente le conseguenze giuridiche di atti o fatti” lascia infatti aperte le questioni relative a cosa debba intendersi per “diffusa”, “effettiva”, “prevedere”, “correttamente” e per “conseguenze giuridiche”. Sono le varie concezioni della certezza che forniscono una risposta ad alcune o tutte queste domande, incrementando l’intensione del concetto, diminuendo la sua estensione e dunque specificando le condizioni d’impiego del definiendum. Come vedremo, un efficace sistema per classificare le varie concezioni della cer36

Sulla distinzione tra concetto e concezioni cfr. supra, nota 5. La materia della definizione dei concetti disposizionali è più diffusamente trattata infra (§§ 3.2.a-c). 37

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tezza-prevedibilità e per scoprire le loro a volte sottili differenze consiste proprio nel tentare di determinare esattamente le condizioni d’uso implicite nella loro definizione 38 . Così, per quanto riguarda le concezioni fattuali, sarà utile scoprire che le condizioni d’uso dell’espressione “certezza del diritto” riguardano il chi prevede, il che cosa si prevede, il come si prevede, il quanto si prevede e, talvolta, perfino il perché si prevede. Si consideri la concezione, in verità ancora abbastanza generica, che definisce la certezza del diritto come la «possibilità, da parte del cittadino, di conoscere la valutazione che il diritto dà delle proprie azioni e di prevedere le reazioni degli organi giuridici alla propria condotta» 39 . Questa definizione può essere riformulata in forma condizionale dicendo che se il cittadino può conoscere la valutazione che il diritto dà delle proprie azioni, prevedendo le reazioni degli organi giuridici alla propria condotta, allora sussiste una situazione di “certezza del diritto”. L’analisi delle condizioni d’uso dell’espressione “certezza” rivela che la definizione appena enunciata precisa il nostro concetto di partenza solo in due punti, quelli relativi al “chi prevede” (risposta: i cittadini) e al “cosa si prevede” (risposta: le reazioni degli organi giuridici alla propria condotta); nondimeno, sempre di precisazione si tratta: per accertare se il diritto X sia qualificabile come certo in base alla definizione appena riportata, infatti, non dovremo limitarci ad accertare una generica diffusione della prevedibilità giuridica, ma dovremo appurare se (non chiunque, ma) i cittadini riescano a prevedere (non qualunque conseguenza giuridica di atti o fatti, ma) le reazioni dell’ordinamento alla propria condotta. Questo discorso ci conduce direttamente alla questione del controllo empirico dell’effettiva sussistenza della situazione denotata da una definizione condizionale di “certezza del diritto”. Come si può accertare la solubilità di una sostanza in un liquido immergendola nello stesso e osservando se si scioglie o meno, così si può verificare la certezza effettiva di un diritto (di un suo settore, di una sua norma) raccogliendo o formulando delle previsioni sulla sua applicazione a casi concreti e osservando se esse abbiano successo o no. Ciò può essere fatto ad esempio tramite indagini statistiche che confrontino ex post le previsioni effettuate da un certo campione di soggetti rap38

Vedi infra, § 2.1, e soprattutto § 4.1. Questa definizione di certezza è in JORI, M., PINTORE, A., Manuale di teoria generale del diritto, cit., p. 194. 39

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presentativi con le conseguenze giuridiche che essi erano stati chiamati a prevedere 40 . Naturalmente, più sarà precisa la definizione di “certezza del diritto” che consideriamo, più saranno determinate le attività che dovremo compiere per accertare la sussistenza della situazione designata tramite quell’espressione. Se accogliamo una definizione contenente un definiens che specifica tutte le condizioni d’uso del definiendum, e che dunque fornisce informazioni precise sul chi deve poter prevedere, cosa, come e quanto, affinché possa parlarsi di “certezza del diritto”, i nostri compiti di accertamento saranno ben più determinati rispetto a quelli che dovremmo assolvere qualora adottassimo una definizione più ampia o generica. Se ad esempio affermiamo che un diritto è certo se gli avvocati riescono nella maggior parte dei casi (poniamo nel 50% più uno) ad anticipare le decisioni di un giudice scelto a caso in ordine ad una fattispecie nota in tutti i suoi elementi, abbiamo compiuto diversi passi verso la determinazione delle condizioni d’uso dell’espressione “certezza del diritto” in ordine al “chi”, al “che cosa”, e al “quanto” della previsione. In questo caso i nostri compiti di accertamento dell’effettiva sussistenza della situazione corrispondente alla definizione saranno abbastanza precisi: per accertare empiricamente la concreta sussistenza della situazione designata come “certezza giuridica” sarà opportuno raccogliere un buon numero di previsioni di avvocati sulla decisione giudiziale, effettuate in un momento successivo al termine dell’accertamento processuale dei fatti ma antecedente alla deliberazione della decisione, confrontandole poi con le decisioni che effettivamente ad esse seguono 41 ; se si riscontra una conformità tra previsione e decisione nel 50% più uno dei casi considerati allora si potrà affermare che la certezza del diritto, in base alla definizione convenuta, è presente 42 . 40 Trascuro per il momento le problematiche relative alle modalità di raffronto tra le previsioni raccolte e le decisioni effettive. Mi occuperò della questione nel § 4.5. 41 Nell’ordinamento processuale italiano, ad esempio, si potrebbero scegliere delle previsioni avanzate immediatamente dopo alla chiusura del dibattimento. 42 Resterebbe da chiarire quando una decisione è “conforme” alla previsione: si richiede una corrispondenza esatta o si ammette un margine di errore? E quale margine d’errore è tollerabile affinché una previsione possa continuare a dirsi “conforme”, o “corretta”, o “di successo” e via dicendo? Come ho detto parlando della vaghezza del concetto di certezza del diritto, la questione pone più di un problema. Mi soffermerò sull’argomento nel § 4.3.b.

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Altro esempio: se si conviene di considerare un ordinamento certo quando tra i giuristi si registra un certo grado di accordo (ad esempio una media del 70% di responsi simili) in merito alle conseguenze giuridiche di fatti scelti tra quelli sui quali i cittadini chiedono un parere ai loro avvocati, si può raccogliere un buon numero di quesiti giuridici concernenti tali casi, sottoponendoli poi all’attenzione di un certo numero di avvocati, magistrati, docenti di diritto ecc. affinché questi esprimano un parere in ordine alle conseguenze giuridiche che i fatti prospettati produrrebbero qualora fossero portati in giudizio; se almeno il 70% degli intervistati fornisce delle soluzioni similari, allora si può dire che il diritto è certo in base alla definizione di “certezza” convenuta 43 . È agevole rilevare che nell’uno e nell’altro esempio si procede ad accertamenti ben più determinati, nel loro oggetto, rispetto a quello che dovremmo condurre per accertare semplicemente se “i soggetti abbiano la possibilità, prima di agire, di conoscere quale valutazione delle proprie azioni verrà data dall’ordinamento giuridico” 44 . Dunque, più una definizione di certezza-prevedibilità è precisa, più determinati sono i compiti di coloro che devono accertare la diffusione e l’intensità di una disposizione alla previsione giuridica, minori sono le probabilità che costoro facciano dipendere l’esito dell’accertamento da proprie scelte discrezionali sul significato da attribuire al definiens. Per usare un gioco di parole: più precisa è la definizione di certezza più intersoggettivamente certi sono i risultati del suo accertamento; al contrario, una definizione vaga di certezza aumenta inevitabilmente le probabilità di dispute sull’esito del suo controllo empirico.

1.5.b. La certezza fattuale: una questione di grado Negli esempi immaginari che ho sopra prodotto si stabilisce arbitrariamente uno standard di prevedibilità al di sotto del quale si conviene di non poter parlare di “certezza del diritto”. Negli usi linguistici dei giuristi positivi, tuttavia, non è dato riscontrare questo tipo di stipulazione. È sì abbastanza comune la tendenza a considerare la 43

Anche qui resta da precisare quando due soluzioni possono definirsi “similari”. Vedi infra, § 4.3.b. e § 4.3.g. 44 Definizione di “certezza del diritto” simile a quella data da Luzzati in La vaghezza delle norme, cit., p. 421.

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certezza-prevedibilità come un concetto del tipo tutto-o-niente, ma non è affatto determinata con precisione la soglia oltre la quale una certa attitudine diffusa alla corretta previsione delle decisioni giuridiche si può definire sicuramente “certezza del diritto”. Tutto ciò che si può rilevare è l’inclinazione ad attribuire la qualifica di “certo” ad ordinamenti giuridici, a settori dell’ordinamento o a singole norme la cui esecuzione/applicazione risulti in buona misura prevedibile, e la qualifica di “incerto”, ad ordinamenti o a parti di ordinamenti la cui esecuzione/applicazione sia ritenuta poco o per nulla prevedibile. Nonostante la labilità dei confini tra certezza e incertezza, dunque, i giuristi e i teorici del diritto continuano ad esprimersi il più delle volte in termini di alternativa assoluta, prospettando un dualismo certezza-incertezza in verità tutt’altro che scontato. Il concetto di certezza del diritto può infatti anche essere costruito come concetto polivalente che non ammetta solo l’alternativa certo-incerto, ma contempli vari gradi di certezza, rendendo possibile l’impiego di espressioni come “per nulla certo”, poco certo”, “abbastanza certo” ecc. Rifacendoci all’esempio degli avvocati svolto nel paragrafo precedente, si potrebbe così stabilire che un diritto è “per nulla certo” quando non si registra alcuna loro previsione corretta, “poco certo” quando la percentuale di previsioni corrette è inferiore al 33%, “abbastanza certo” quando le previsioni corrette sono superiori al 33% ma inferiori al 66% ecc. Ovviamente, però, siamo ancora nel campo delle stipulazioni, non in quello della rilevazione degli usi linguistici effettivi dei giuristi e dei teorici del diritto. Il concetto di certezza-prevedibilità non è infatti – almeno nell’uso corrente – costruito come concetto quantitativo; non vi sono affatto delle proposte universalmente accettate su come determinare la misura della certezza, su come pervenire alla sua quantificazione attraverso l’impiego di una qualche scala di valori, sui metodi da usare per il calcolo della medesima ecc. Anche nelle concezioni non classificatorie della certezza, come quella adottata dal Kelsen della seconda edizione della Dottrina pura o quella presupposta da Alf Ross in Diritto e giustizia, non vengono pressoché mai indicati i criteri per pervenire ad una esatta determinazione quantitativa della prevedibilità giuridica 45 . 45

Come vedremo (cfr. Infra, § 2.3.), Hans Kelsen, nella seconda edizione della Dottrina pura del diritto, adotta una concezione relativistica della certezza, affermando che essa è «solo approssimativamente realizzabile» e che il «massimo grado

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Peraltro, alcuni autori hanno proposto concezioni della certezzaprevedibilità che ben si presterebbero ad essere convertite in termini quantitativi. Si consideri ad esempio il caso di Hayek, che non solo accoglie una nozione graduabile di certezza del diritto, ma indica anche il criterio in base al quale determinare il suo quantum. L’autore afferma in proposito che il grado di certezza del diritto (intesa sempre come prevedibilità delle decisioni delle corti) deve essere giudicato secondo la quantità delle dispute che non sfociano in lite giudiziale a causa del fatto che il loro esito è praticamente certo nel momento in cui i termini legali della questione vengono esaminati da un esperto 46 . Hayek parla esplicitamente di “misura” della certezza: «Sono i casi che non arrivano mai di fronte alle corti, e non quelli che ci arrivano, a dare la misura della certezza del diritto» 47 . Una sorta di indice numerico di certezza dell’ordinamento O (o della sua branca B o della norma N), basato sulla concezione proposta da Hayek, potrebbe dunque essere costruito prendendo in considerazione il numero dei casi riguardanti O (o B, o N) che vengono sottoposti all’attenzione degli avvocati, confrontandolo col numero dei casi che, tra questi, effettivamente vengono sottoposti all’attenzione delle corti. Il rapporto tra questi valori fornirebbe la misura della certezza di quell’ordinamento (o della branca o norma considerata). Quella appena proposta è però una forzatura delle tesi di Hayek; né lui né altri, almeno a quanto mi consta, hanno seriamente proposto di calcolare la certezza di un ordinamento giuridico facendo ricorso a valori numerici. Sebbene non si riscontri tra i giuristi o tra i teorici del diritto la tendenza ad occuparsi della certezza-prevedibilità in termini numerici, le nozioni graduabili di certezza giuridica sembrano nondimeno

di certezza del diritto» è assicurato dalla formulazione per quanto possibile chiara e univoca delle norme giuridiche; cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 389-390 (corsivi miei). Sulla certezza relativa secondo Kelsen vedi anche LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., pp. 244-248. Anche Alf Ross adduce una nozione non classificatoria di certezza, negando che la scienza giuridica possa mai pervenire ad una certezza assoluta circa la futura applicazione di una norma e parlando a più riprese di gradi di certezza (ovvero, nella sua trattazione, di grado di probabilità con cui la decisione giudiziale può essere prevista); cfr. ROSS, A., Diritto e giustizia, cit., pp. 41 ss. 46 Cfr. HAYEK, F.A., The Constitution of Liberty, Routledge & Kegan Paul, London 1960, p. 208. 47 Ibidem, corsivo e traduzione miei.

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godere di un successo crescente 48 . Sempre più spesso, infatti, ad una certezza fattuale assoluta, intesa come proprietà che c’è o non c’è, si contrappone una certezza relativa che ammette vari gradi di realizzazione determinati mediante il ricorso ad espressioni come “piuttosto certo”, “del tutto certo”, “molto certo” e via dicendo; diventa così possibile caratterizzare con maggior precisione (rispetto alle concezioni dualistiche certezza-incertezza) una vasta gamma di situazioni, da quelle in cui la disposizione alla corretta previsione è del tutto assente a quelle in cui la medesima è assai accentuata. Solitamente continuano a non darsi nette linee di demarcazione tra i vari gradi di certezza prospettati, per cui quando si dice qualcosa come: “Il diritto penale tedesco presenta un alto grado di certezza”, ci si limita – senza precisare alcuna grandezza misurata – ad esprimere un’impressione sull’elevato standard di prevedibilità delle conseguenze giuridiche che, in forza di esso, sono ricollegate agli atti o fatti considerati 49 . E tuttavia, un enunciato del genere, pur non contenendo valori numerici, fornisce delle informazioni aggiuntive rispetto a quello che semplicemente asserisce la certezza del diritto penale tedesco. Esso, infatti, precisa il peso approssimativo della certezza-prevedibilità, consentendo di istituire un confronto con il peso approssimativo del-

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Alcuni esempi tratti dalla letteratura giuridica italiana: Longo afferma che la considerazione di un canone assoluto di certezza è frutto di una trattazione approssimativa che tiene presente solo gli aspetti della questione tradizionalmente considerati come più rilevanti (LONGO, M., voce Certezza del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, cit., p. 126). Cfr. anche LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., pp. 262 ss.; CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 40-41 e, con riferimento alla prevedibilità delle decisioni giudiziarie, MARINELLI, V., Dire il diritto, Giuffrè, Milano 2002, pp. 151 ss. Anche la giurisprudenza della Corte Costituzionale, da diversi anni a questa parte, manifesta una tendenza all’abbandono della concezione assoluta della certezza giuridica; cfr. la sent. 364/1988, nella cui motivazione si afferma tra l’altro: «L’assoluta, “illuministica” certezza della legge sempre più si dimostra assai vicina al mito: la più certa delle leggi ha bisogno di “letture” ed interpretazioni sistematiche». Sono frequenti anche le concezioni relativistiche di “certezza del diritto” intesa come valore: «Tutti oggi ammettono che un diritto che realizzi pienamente il valore della certezza rappresenta un ideale al quale i diritti storici possono approssimarsi più o meno notevolmente senza però avere la pretesa o illusione di realizzarlo completamente» (cfr. JORI, M., PINTORE, A., Manuale di teoria generale del diritto, cit., p. 197). Cfr. anche MARINELLI, V., Dire il diritto, cit., pp. 142-143. 49 Precisione invece fornita da enunciati come: “Il diritto penale tedesco ha una certezza pari a 0,7 su 1”.

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la certezza di altri ordinamenti. Il concetto di certezza, nonostante il mancato impiego di valori numerici, può così diventare un concetto comparativo, che rende possibile usare il termine “certezza” in enunciati come: “il diritto penale tedesco è più certo rispetto a quello di Haiti”, con chiari effetti benefici per il contenuto informativo dei discorsi in cui il termine stesso figura. V’è inoltre un altro vantaggio collegato all’impiego di un concetto non classificatorio di “certezza del diritto”, almeno agli occhi di chi, valutando positivamente la prevedibilità delle conseguenze giuridiche dell’azione, tenga al ripristino di un’ideologia favorevole alla certezza 50 . Configurare un’alternativa assoluta tra diritto “certo” e “non certo” può infatti portare ad un atteggiamento fatalista e rinunciatario rispetto all’esigenza di incrementare il grado di certezzaprevedibilità di un ordinamento (e ciò proprio perchè non si è capaci di ragionare in termini di “grado” di certezza). Si può cioè arrivare a concludere che, non essendo la certezza del diritto realizzabile, è opportuno lasciar perdere questo residuo di illuminismo giuridico e andare a occuparsi d’altro. Non è un caso che la maggior parte delle posizioni scettiche in materia di certezza del diritto siano legate ad una concezione della certezza intesa come prevedibilità assoluta 51 . 50 Tale ideologia favorevole alla certezza, come vedremo, può a sua volta costituire fattore di certezza; cfr. infra, § 4.5.c. 51 Vedi ad esempio BENVENUTI, F., Caso e incertezza del diritto, in Scritti in onore di M.S. Giannini, pp. 29-46. Incidentalmente, si può rilevare come la critica rivolta alla pretesa di prevedere infallibilmente le conseguenze giuridiche dell’azione spesso tragga le mosse da posizioni antiformaliste in materia di interpretazione. Si afferma così che, poiché le norme non sono interpretabili univocamente, non è possibile prevedere univocamente la loro applicazione concreta. Da questo argomento viene poi tratta l’ulteriore conclusione per cui la certezza del diritto, intesa come prevedibilità delle decisioni giuridiche, è un utopia, o un mito, o un’illusione. Lo è, in effetti, proprio se la si definisce in termini assoluti, come prevedibilità infallibile di tutte le conseguenze giuridiche di atti o fatti. Non lo è, o almeno non necessariamente lo è, se si accoglie invece una concezione non classificatoria-bivalente di certezza-prevedibilità e si ammette un certo grado di prevedibilità del diritto, ossia la possibilità di anticipare più o meno attendibilmente le conseguenze che il diritto ricollega alle azioni individuali o a fatti determinati. Non a caso, sovente si scopre che le tesi scettiche in materia di certezza del diritto sono tali soltanto in riferimento alla pretesa di prevedere infallibilmente le conseguenze giuridiche di atti o fatti, e che all’opposto è ammessa la realizzabilità di un certo grado di certezza. Tra queste tesi è da annoverare la posizione di colui che ha finito per rappresentare il paradigma dello scettico in materia di certezza (senz’altro a causa di boutades poi parzialmente rettificate): Jerome Frank (FRANK, J., Law and the Modern Mind, cit., pp. 14-23.). “Finta-scettica”, in questo senso, è anche Letizia Gian-

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Una certa lettura della prima Dottrina pura del diritto, come vedremo, ha giustificato questo scetticismo 52 . Più di recente, uno studioso della certezza come Pegoraro ha rilevato come un atteggiamento analogo caratterizzi la timidezza, per non dire la pavidità, con cui alcune costituzioni contemporanee predispongono delle misure di tutela per la certezza giuridica 53 . L’autore adduce diverse buone ragioni per ritenere che, mentre le costituzioni più antiche non contenevano riferimenti espliciti alla certezza del diritto perché tale esigenza si riteneva comunque assicurata dalla razionalità dei codici o dalla copiosa sedimentazione del common law, nelle costituzioni moderne la certezza viene sacrificata perché considerata irraggiungibile: l’ideologia dello stato sociale richiede una penetrante ingerenza del potere pubblico nei rapporti tra i privati, ed il conseguente incremento incontrollato e caotico della produzione normativa vanifica ogni possibilità di certezza del diritto 54 . L’accoglimento di una concezione non classificatoria di certezza-prevedibilità consente di evitare questo pessimismo. Se le conseguenze giuridiche degli atti o fatti che consideriamo sono non solo prevedibili o imprevedibili, ma anche più o meno prevedibili, da parte di un numero maggiore o minore di individui, allora si può affrontare costruttivamente il problema della certezza, e considerare quali siano i mezzi rivolti a perseguire efficacemente un suo incremento, qualora questo si ritenga desiderabile, e quali siano eventualmente i costi da sopportare in cambio. Specialmente laddove siano stati fissati dei criteri per valutare la misura della certezza in un dato ordinamento sarà possibile considerare il tradeoff tra il grado in cui è possibile realizzare questa esigenza e gli altri formaggio, pronta ad affermare che la certezza come prevedibilità delle decisioni giuridiche è un mito e che il diritto, di fatto, non è certo, salvo poi ammettere che il diritto, sebbene «certo non potrà mai compiutamente essere» deve nondimeno tendere alla certezza. Le decisioni giuridiche, secondo l’autrice, sono prevedibili se e in quanto non arbitrarie, dunque controllabili alla luce delle regole generali che restringono l’ambito di ciò che può essere correttamente deciso; cfr. GIANFORMAGGIO, L., Certezza del diritto, cit., pp. 164-166 (corsivo mio). 52 Lo scetticismo di Kelsen si riferisce non alla certezza tout court bensì solo alla concezione assoluta propostane dalla “giurisprudenza dei concetti”. Kelsen infatti, come dimostrato dalle opere successive, accoglie una concezione non classificatoria di certezza del diritto. L’argomento è diffusamente trattato nel cap. 2. 53 Cfr. PEGORARO, L., La tutela della certezza giuridica in alcune costituzioni contemporanee, cit. 54 Cfr. PEGORARO, L., La tutela della certezza giuridica in alcune costituzioni contemporanee, cit., pp. 718-728, 740-741.

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valori ritenuti meritevoli di tutela 55 . Con questo siamo però entrati nel campo delle concezioni normative della certezza del diritto, cui è dedicato il prossimo paragrafo.

1.5.c. Concezioni normative della certezza Alle concezioni della certezza-prevedibilità come fatto si aggiungono (o sovrappongono) altre concezioni orbitanti attorno ad un concetto normativo; in quest’accezione, la certezza viene considerata o come un valore specifico del diritto, un bene per cui il diritto certo (o più certo) è in qualche modo migliore del diritto non certo (o meno certo), oppure come un principio normativo che prescrive ai giudici o al legislatore di operare in modo da favorire la prevedibilità attuale delle valutazioni giuridiche future 56 . Così, capita spesso di imbattersi in argomentazioni giuridiche che si rifanno alla violazione di un presunto “principio di certezza”, talvolta addirittura considerato di rango costituzionale 57 , o al «valore che si connette alla prevedibilità della valutazione che il diritto darà delle azioni o situazioni concrete» 58 . 55

Sulla ricostruzione di un concetto non classificatorio di certezza vedi infra, § 3.3. Non è affatto scontato, peraltro, che la prevedibilità delle valutazioni giuridiche delle proprie azioni sia considerata come un valore positivo. Si pensi al caso limite del dittatore interessato a infondere nella comunità un sentimento di timore rispetto alla propria persona, magari attraverso un uso scopertamente arbitrario e terrorista dell’apparato coercitivo dello Stato. Costui potrà considerare la prevedibilità giuridica come dannosa perché diffonde presso il popolo la fiducia nell’esistenza di limiti al proprio potere dispotico (una situazione del genere è descritta, con riferimento soprattutto allo Stalin degli anni 1929-30 e 1937-38, da Alexsandr Solzenicyn in Arcipelago Gulag, Mondadori, Milano 1974). Vari autori hanno messo in guardia contro i drawbacks della certezza come prevedibilità. Neil Duxbury, ad esempio, osserva come ben difficilmente gli avvocati darebbero il benvenuto ad un diritto più certo e prevedibile, e dunque meno litigioso e… remunerativo (cfr. DUXBURY, N., Law and Prediction in Realist Jurisprudence, in Archiv für Rechts und Sozialphilosophie, Vol. 87, pp. 405 ss.). In ogni caso, bisogna riconoscere che la gran parte delle valutazioni negative sulla certezza dipendono, più che da giudizi sfavorevoli sulla sua bontà o opportunità intrinseche o strumentali, sulla sua presunta irrealizzabilità. Su questo vedi infra, § 3.3. 57 In Italia, la giurisprudenza della Corte costituzionale fornisce molti esempi in tal senso; vedi ad esempio: sent. n. 210/1971, dec. n. 36/1985, e soprattutto la sentenza n. 101 del 1986, commentata da Riccardo Guastini in Le regioni, a. XIV, n. 5, 1986, pp. 1091-1093. 58 Cfr. voce “certezza del diritto” in Enciclopedia del diritto e dell’economia Garzanti, corsivo mio. Di certezza come valore, eventualmente in conflitto con altri 56

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Alcuni autori, come già accennato, hanno rimarcato la necessità di distinguere le concezioni fattuali della certezza da quelle normative. Letizia Gianformaggio afferma così che la certezza «può essere accostata come fatto e come valore» e, in quest’ultimo caso, considerata come un «valore specifico del diritto, […] funzione dell’esistenza, e del rispetto da parte dell’organo decidente e di altri organi, delle regole alla cui stregua si valutano come corrette o come scorrette delle decisioni» 59 . Secondo Gianformaggio, da un lato ci si può chiedere se, in una determinata cultura giuridica, gli interventi degli organi «competenti in base al diritto a produrre diritto applicando diritto» siano di fatto prevedibili, dall’altro lato ci si può interrogare sulla funzionalità del valore della certezza all’uno o l’altro progetto di politica del diritto, nonché sulla compatibilità dell’obiettivo della certezza del diritto con altri obiettivi 60 . Pure per Claudio Luzzati «il termine “certezza del diritto” può essere anche usato non per indicare un fatto, ma per indicare un valore eticopolitico o un principio giuridico, riferendosi alla direttiva di scopo che prescrive di produrre e applicare le norme in modo tale che sia possibile conoscere anticipatamente in via generale la valutazione giuridica dei comportamenti futuri» 61 . Secondo l’autore, «occorre tracciare una netta distinzione tra la certezza come fatto e la certezza come valore» 62 : i giuristi e i teorici del diritto di solito impiegano l’espressione in un’accezione fattuale, ma è rilevabile anche un’accezione normativa, secondo cui la certezza è una direttiva, rivolta a valori, parlano moltissimi autori (vedi ad esempio CATTANEO, M.A., Illuminismo e legislazione, Comunità, Milano 1966; COTTA, S., Certezza di essere nel diritto, in AA.VV., La certezza del diritto, un valore da ritrovare, Giuffrè, Milano 1993, pp. 77-79; LEVI, A., La certezza del diritto in rapporto con il concetto di azione, in AA.VV., Scritti giuridici in onore di Francesco Carnelutti, CEDAM, Padova 1950, I, pp. 81-95; LERNER, S., La certezza del diritto, il diritto naturale e il magistero della chiesa, ivi, pp. 346-387; GUARINO, A., L’incertezza del diritto, in AA.VV., Scritti in onore di Guido Capozzi, Giuffrè, Milano 1992, I, pp. 657-675; LOMBARDI, L. Saggio sul diritto giurisprudenziale, cit., pp. 568 ss., 590; LOPEZ DE OÑATE, F., La certezza del diritto, Gismondi, Roma 1942, con prefazione di G. Capograssi, pp. 171-179); una breve rassegna di posizioni sull’argomento è contenuta in CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 15-25). 59 Cfr. GIANFORMAGGIO, L., Certezza del diritto, cit., pp. 162, 165-166. 60 Si noti che per Gianformaggio il valore della certezza consiste nella controllabilità delle decisioni giuridiche; cfr. ibidem, p. 166. 61 Cfr. LUZZATI, C., La vaghezza delle norme, cit., p. 421. 62 Cfr. LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., p. 252.

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tutti gli organi che influiscono sulla formazione e sull’attuazione del diritto, che prescrive di contribuire alla realizzazione della certezza come fatto 63 . In quest’ultimo senso, aggiunge Luzzati, la certezza del diritto è a sua volta configurabile come valore esterno oppure come valore interno rispetto all’ordinamento giuridico. Nel primo caso essa è considerata come un valore metagiuridico, un principio politico con una portata de iure condendo; nel secondo caso, essa è trattata come principio giuridico vigente, in una prospettiva de iure condito. I rilievi di Gianformaggio e Luzzati colgono nel segno: se si considerano gli usi effettivi dell’espressione “certezza giuridica” si può rilevare che essa è adoperata dai giuristi e dai teorici del diritto sia per indicare una situazione di fatto (quella per cui gli individui riescono effettivamente a prevedere in qualche misura le conseguenze giuridiche di atti o fatti), sia per indicare un principio giuridico (per esempio, la direttiva di scopo che prescrive ai giudici di applicare le norme in modo da aumentare le probabilità di previsione delle loro decisioni da parte dei giuristi o dei cittadini), sia per indicare un valore più o meno diffuso o sentito (certezza come virtù specifica del diritto, per cui un diritto relativamente prevedibile è migliore di un diritto relativamente imprevedibile). L’importanza della distinzione tra concezioni normative e concezioni fattuali della certezza, pure utile per la chiarezza dei discorsi e per evitare le già denunciate ambiguità, non va però sopravvalutata. In primo luogo, infatti, le correnti concezioni fattuali non sono adiafore, ma includono una carica valutativa che di solito ha segno positivo; in questo senso esse sono almeno in qualche misura “normative”. In secondo luogo, le concezioni considerate normative rimandano a prescrizioni o valutazioni che vertono sempre, in ultima analisi, sulla certezza intesa come situazione di fatto, configurata come obiettivo degno (o indegno) di essere perseguito; in questo senso esse sono in qualche misura “fattuali”. Seguendo l’insegnamento di Hare e di Scarpelli, si potrebbe dire che le concezioni normative della certezza, quelle che la definiscono in termini di norma o valore, hanno un campo di riferimento

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Facilmente si reperiscono affermazioni come: «La certezza del diritto è dovere del legislatore, è impegno imprescindibile dell’esecutivo che deve fare e rispettare le leggi, è compito essenziale del magistrato» (SCALFARO, O.L., Messaggio del Presidente della Repubblica, in AA.VV., La certezza del diritto, un valore da ritrovare, cit., p. XV.

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che in buona misura è comune a quello delle corrispondenti concezioni fattuali. Quando si parla di valore della certezza in espressioni quali «la certezza si presenta come un valore sempre positivo» 64 , si allude infatti alla certezza come situazione fattuale che qualcuno (i filosofi politici, il ceto dei giuristi, il legislatore ecc.) fa oggetto di una qualche valutazione (in questo caso positiva). Il “valore della certezza”, altro non è che l’exitus di un giudizio di valore sopra una situazione di fatto, ipotetica o reale: quella per cui gli individui hanno la possibilità di prevedere con qualche successo le conseguenze giuridiche della propria condotta 65 . Anche il campo di riferimento, o frastico, del principio che prescrive di agire in modo da favorire la prevedibilità, da parte degli individui, delle conseguenze giuridiche che i loro comportamenti determinano, rimanda in ultima analisi a quella diffusa possibilità di prevedere correttamente le conseguenze giuridiche di atti o fatti che abbiamo visto essere il nucleo delle concezioni fattuali di certezza: l’incremento di tale prevedibilità è l’obiettivo cui tende l’azione di chi produce o applica il diritto in conformità al principio. In altre parole, il frastico del principio di certezza, pur facendo immediatamente riferimento ad un modello di comportamento del legislatore, dei giudici e degli amministratori, include, col ruolo di fine dell’azione di costoro, un riferimento al concetto fattuale di certezza 66 . Il nostro principio, oltre a tutto ciò, comprende naturalmente un neustico che gli assegna funzione prescrittiva, quel “così deve essere” che determina la sua natura normativa e che fa sì che l’enunciato che lo incorpora sia inteso come una guida del comportamento dei suoi destinatari verso l’incremento della certezza come fatto. 64

Cfr. CONSO, G., La certezza del diritto: ieri, oggi, domani, in Rivista di diritto processuale, 1970,p. 547. 65 O meglio, quantomeno della propria condotta. Vedremo che la limitazione di tale possibilità all’anticipazione delle conseguenze giuridiche della propria condotta (e non anche alla condotta altrui o ad altri fatti giuridicamente rilevanti) è un omaggio alla tradizione che non ha più ragione di essere perpetuato; cfr. infra, § 4.3.e. 66 “Pietro chiudi la porta” e “Pietro chiude la porta” hanno in comune il frastico “chiudere la porta da parte di Pietro”. Allo stesso modo, la prescrizione “agisci in modo da far progredire la certezza del diritto” (formulazione semplificata del principio di certezza) e l’asserzione “agisce in modo da far progredire la certezza del diritto” hanno in comune il frastico “agire in modo da far progredire la certezza del diritto”. Tale modello d’azione contiene un riferimento alla certezza come fatto, il cui incremento ha il ruolo di fine dell’azione. In questo senso, la certezza come fatto è elemento costitutivo del frastico del principio di certezza.

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È dunque senz’altro possibile, una volta individuato un concetto fattuale di certezza, trovare il corrispondente concetto normativo, intendendo con quest’espressione il denominatore semantico che è comune a tutte le varie concezioni normative della certezza giuridica come prevedibilità. Questo minimum è davvero esiguo e può essere individuato aggiungendo al concetto fattuale di certezza proposto nel paragrafo 1.5.a (diffusa possibilità di prevedere correttamente le conseguenze giuridiche di atti o fatti) il neustico “così deve essere”. Si tratta dunque di un concetto il cui contenuto, assai vago e generico, consiste nella prescrizione di incrementare la diffusione e l’estensione della capacità predittiva in ambito giuridico. Tutte le concezioni normative costruite a partire da questo concetto includono pertanto la funzione di guidare in qualche modo il comportamento di qualcuno verso la realizzazione di tale obiettivo, includendo una prescrizione diretta (comando, consiglio ecc.) o indiretta (poiché risulta da una valutazione positiva o negativa) volta ad ampliare la diffusione e/o l’estensione della possibilità di prevedere le conseguenze giuridiche di atti o fatti 67 . Allargando la nostra analisi anche alle (rare) qualificazioni negative, possiamo concludere che le concezioni normative della certezza hanno sempre una componente del campo di riferimento che richiama la maggiore o minore diffusione ed estensione della capacità predittiva degli individui; tale situazione viene normativamente qualificata (imposta, consigliata, proibita ecc.) come obiettivo dell’azione umana (certezza come principio), oppure viene fatta oggetto di un giudizio di valore positivo o negativo (certezza come valore) e in tal modo suggerita come risultato degno o indegno di essere perseguito. Nel rilievo attribuito a questo plus di qualificazione è da ricercarsi l’unica differenza considerevole tra concezioni fattuali e normative della certezza del diritto: le prime privilegiano l’analisi del referente empirico dell’espressione “certezza del diritto”, le seconde si focalizzano sulla qualificazione normativa della situazione di fatto designata dall’espressione stessa. Tale differenza di focus si palesa soprattutto a livello metadiscorsivo. Di certezza come fatto parlerà perlopiù chi sia interessato a determinarne il grado di sussistenza in un dato contesto e dunque, per dirla con Gianformaggio, chi si interroghi circa l’attuale prevedibilità degli interventi degli organi giuridici; di certezza come valore (o disvalore) parlerà prevalentemente chi si chieda se la certezza sia o meno un obiettivo degno 67

Sulla distinzione tra concetto e concezioni vedi supra, nota 5.

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di essere perseguito, se sia funzionale o no ad un dato progetto politico, se sia o no compatibile con altri valori ritenuti meritevoli di realizzazione ecc. Preme rilevare, tuttavia, che tali questioni possono essere poste solo una volta che si sia proceduto all’individuazione e all’esplicitazione del referente empirico del concetto di certezza: chi dice che la certezza è cosa buona e giusta deve prima dire cosa intende per certezza; diversamente le sue valutazioni debbono essere degradate al rango di pregiudizi (se non ha in mente alcuna chiara situazione fattuale corrispondente all’espressione “certezza del diritto”) o quantomeno di bombe a orologeria prima o poi destinate a generare esplosioni di confusione filosofica (quando ha più o meno chiara l’idea di un referente empirico del concetto di certezza del diritto, ma non la palesa). Purtroppo, deve rilevarsi una tendenza degli autori che si sono occupati di certezza del diritto in chiave eticopolitica a celare o a mantenere sul vago l’oggetto delle loro valutazioni, ponendo peraltro grande enfasi su queste ultime. Proprio (e forse solo) per questo è utile distinguere tra la certezza come fatto e la certezza come valore: la distinzione serve a ricordare ai filosofi politici che è opportuno occuparsi del principio o del valore della certezza soltanto dopo aver preliminarmente individuato, precisato ed esplicitato il modello di situazione fattuale cui le loro valutazioni si riferiscono, e dunque – per dirla con gli assertori della distinzione – solo dopo aver “accostato la certezza come fatto” 68 . L’unica altra utilità della distinzione consiste in un monito rivolto a coloro che aprioristicamente considerano la certezza come un valore degno di essere perseguito: chi accoglie la Grande divisione tra essere e dover 68 Nessuno, del resto, darebbe credito all’amico che, dopo aver elogiato le virtù del “catoblepa” raccomandandone l’acquisto, non sia in grado di dire se si tratti di un animale, di un mezzo di trasporto o di un prodotto per la pulizia della casa (Plinio il Vecchio – Naturalis Historia, VIII, 32 – narra che ai confini dell’Etiopia, non lontano dalle fonti del Nilo, è possibile osservare il catoblepa, «fiera di media statura e andatura pigra. La testa è di peso considerevole, e l’animale fa molta fatica a portarla; la tiene sempre chinata a terra. Se non fosse per questa circostanza, il catoblepa annienterebbe il genere umano, perché qualunque uomo gli vede gli occhi, cade morto». Catoblepas, in greco, vuol dire “che guarda in basso”. Cuvier stimò che la sua immagine fosse stata ispirata agli antichi dallo gnu (contaminato col basilisco e con le gorgoni). In una delle ultime pagine della Tentazione di Sant’Antonio di Flaubert si legge: «Il catoblepa: bufalo nero, con una testa di maiale che gli ciondola fino a terra, attaccata com'è alle spalle mediante un collo sottile, lungo e floscio come un budello vuoto. Sta appiattato nel fango, le zampe appena visibili sotto la gran criniera di peli duri che gli copre il muso». Borges, infine, include il catoblepa nel proprio Manuale di zoologia fantastica).

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essere non può inferire dalla certezza come fatto sociale un giudizio di valore sopra la sua bontà o desiderabilità; abituarsi a pensare alla certezza come situazione di fatto, prima che come valore e principio, evita dunque d’incorrere, magari inavvertitamente, nella fallacia naturalistica 69 . A tal proposito, è forse utile aggiungere una considerazione. Precisare se si stia menzionando un concetto fattuale o normativo di certezza come prevedibilità è senz’altro utile per la chiarezza dei discorsi dei giuristi e dei filosofi sopra la nostra materia, tuttavia importanza ancora maggiore riveste a mio parere l’esplicitazione dell’uso che si fa di tale concetto, e dunque della funzione del discorso in cui esso compare. Si pensi alle affermazioni per cui la certezza del diritto è «elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto» 70 , o l’«intrinseca moralità del diritto» 71 , o il «bene per il quale le leggi sono così benefiche» 72 , o un interesse pubblico «preminente» 73 o un’esigenza «fondamentale» 74 . Potremmo in questi casi domandarci: si sta descrivendo la certezza, la si sta valutando, oppure la si sta descrivendo e valutando al contempo, compiendo un’operazione che ha insieme una componente cognitiva e una componente eticopolitica? Né dobbiamo limitarci a questo interrogativo. Se consideriamo che la certezza può essere accostata come fatto, come valore o come principio, non possiamo che assistere alla moltiplicazione dei nostri quesiti. Si può infatti descrivere la certezza come fatto, asserendo ad esempio la sua realizzazione in certo grado in una situazione data, oppure la si può valutare come fatto, enunciando ad esempio il proprio apprezzamento per l’alto livello di certezza di un dato ordinamento; la stessa distinzione può ovviamente interessare anche la certezza come valore o principio: si può asserire che nella data situazione ordinamentale i giuristi, in generale, valutano positivamente la certezza del diritto oppure si può apprezzare il fatto che

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Cfr. LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., p. 254. Cfr. decisione Corte cost. n. 349/1985. 71 Cfr. LOPEZ DE OÑATE, F., La certezza del diritto, cit., pp. 171-179 (corsivo mio). 72 Cfr. SAVIGNY, K., System des heutigen Romischen Rechts, vol. I, Berlino 1840, p. 332 (corsivo mio). 73 Cfr. sent. Corte cost. n. 129/1957 e 63/1968 (corsivo mio). 74 Cfr. sent. Corte cost. n. 73/1958 e 232/1975 (corsivo mio). 70

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l’ordinamento dello stato x riconosca esplicitamente un principio di certezza giuridica (allo stesso modo, un filosofo può prescrivere al proprio allievo di valutare positivamente la certezza del diritto; oppure una data costituzione può prescrivere di prescrivere la certezza del diritto, ad esempio imponendo al legislatore l’adozione di una normativa finalizzata ad incrementare o estendere la prevedibilità delle conseguenze giuridiche di atti o fatti). Insomma, si può descrivere la certezza come fatto e la certezza come valore o prescrizione e, allo stesso modo, la si può valutare o prescrivere come fatto e valutare o prescrivere come valore o come principio 75 . L’importante è che chi si accinge a parlare di certezza espliciti, o quantomeno non nasconda, i propri intenti teorico-descrittivi o politico-prescrittivi, precisazione che come è noto viene sovente omessa da chi persegue surrettiziamente i secondi usando i primi come copertura, scusa o pretesto. Se la certezza del diritto sia un principio (o un valore) oppure un fatto è dunque questione che rivela le convinzioni essenzialiste di chi la pone. Nulla impedisce di definire la certezza contemporaneamente sia come un valore sia come principio sia come fatto. Non a caso accade spesso che, nello stesso contesto, la certezza sia definita dapprima in termini fattuali-disposizionali (ad esempio come «possibilità da parte del cittadino, di conoscere la valutazione che il diritto dà delle proprie azioni e di prevedere le reazioni degli organi giuridici alla propria condotta»), sovrapponendo poi a questa nozione una concezione normativa («Tale prevedibilità è considerata pressoché unanimemente un valore positivo dei diritti che la rendono possibile») 76 . Come abbiamo visto, la costruzione delle concezioni norma75

In quest’ultimo caso si prescrive di valutare in un certo modo o di prescrivere la realizzazione della certezza come fatto, oppure si valuta in certo modo un giudizio di valore sopra la certezza come fatto o la prescrizione che guida verso la sua realizzazione. 76 Cfr. JORI, M., PINTORE, A., Manuale di teoria generale del diritto, cit., pp. 194-195. Consideriamo più estesamente questa definizione. Secondo Jori e Pintore: «La certezza del diritto consiste nella possibilità, da parte del cittadino, di conoscere la valutazione che il diritto dà delle proprie azioni e di prevedere le reazioni degli organi giuridici alla propria condotta [riferimento alla certezza come fatto, o più precisamente certezza come disposizione alla previsione giuridica]. Tale prevedibilità è considerata pressoché unanimemente come un valore positivo dei diritti che la rendono possibile: infatti il diritto dotato di certezza fornisce al cittadino la garanzia che gli spazi di libertà, piccoli o grandi, a lui riconosciuti saranno effettivamente rispettati. La certezza è pertanto un valore (…) [riferimento alla certezza come valo-

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tive della certezza non può peraltro prescindere dall’analisi del referente empirico del concetto di certezza. Il contenuto di tali concezioni può essere ricondotto a prescrizioni che direttamente o indirettamente ci guidano verso la migliore o più estesa realizzazione di quella che gli assertori della distinzione di cui ci stiamo occupando chiamano “certezza come fatto”. Ciò implica che, se si riconosce che tale situazione fattuale è irrealizzabile, i corrispondenti principi e valori sono accomunabili al comando di toccare il cielo con un dito 77 ; essi si riducono a prescrizioni che, seppure intelligibili sul piano semantico, sono destituite di qualsiasi efficacia sul piano pragmatico: del resto, ad impossibilia nemo tenetur 78 .

1.5.d. La certezza come valore o come principio Nel paragrafo precedente ho parlato di certezza come valore o principio. Ci si potrebbe ora domandare: che differenza corre, se ve n’è alcuna, tra il principio e il valore della certezza del diritto? Posta così, la domanda non ha molto senso: in primo luogo, la questione è afflitta da un certo caos terminologico: ciò che alcuni autori (ad esempio Dworkin) considerano “principio” è da altri indicato col termine “valore” e viceversa. Inoltre, coloro che si sono occupati ex professo di certezza del diritto hanno sovente parlato di valore della certezza, di principio di certezza, di esigenza di certezza o di interesse alla certezza, adoperando le espressioni in esame come sinonime 79 , seguiti in ciò dalla giurisprudenza (almeno, da quella costiture della previsione giuridica]. (…) Nel diritto penale la realizzazione del valore della certezza del diritto è legata al principio nullum crimen, nulla pena, sine lege, che vieta la posizione di reati e di pene effettuata altrimenti che tramite una legge non retroattiva [riferimento al principio di legalità come prescrizione che impone al legislatore e al giudice di tenere determinati comportamenti finalizzati alla “realizzazione” della certezza come valore, e dunque alla realizzazione di ciò che essa valuta positivamente (la certezza come fatto)].»; cfr. JORI, M., PINTORE, A., Manuale di teoria generale del diritto, cit., pp. 194-195, corsivi miei. 77 La convinzione circa l’irrealizzabilità della certezza ne presuppone una concezione assoluta (classificatoria). Vedremo come a questa sia preferibile una nozione non classificatoria; cfr. infra, § 3.3. 78 Così anche Luzzati: «il principio della certezza in qualche modo presuppone la possibilità di realizzare, almeno parzialmente, la certezza giuridica come prassi effettiva»; LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., p. 254, corsivo mio. 79 Vedi ad esempio PEGORARO, L., La tutela della certezza giuridica in alcune costituzioni contemporanee, in Scritti per Uberto Scarpelli, Giuffrè, Milano 1997,

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zionale italiana 80 ). Infine, si registra una certa tendenza ad adoperare il concetto di “valore” come equivalente a quello di “principio”, per poi contrapporre, nella veste di elemento fondante dell’ordinamento giuridico, la diade valori-principi alla norma giuridica positivisticamente intesa 81 . Nel dibattito contemporaneo, in effetti, più che la contrapposizione tra principi e valori, è dato riscontrare quella tra contenuti “prenormativi” e “valoriali” da una parte (spesso indifferentemente denominati “principi” o “valori”) e “regole” o norme positive dall’altra: nei primi, e non nelle seconde sarebbe da rintracciare, specialmente secondo alcuni critici del giuspositivismo normativista, la “base” o “il fondamento” del diritto 82 . Le cose sono ulteriormente complicate dal fatto che mentre taluni autori parlano di “principi” come prodotto della storia, della cultura, del costume e delle istituzioni sociali o come elementi normativi “presupposti”, “indicati” o “dedotti” dai testi normativi 83 , altri sono propensi a considerarli come norme positive 84 . Lo stesso atteggiamento riguarda il tema dei valori, talvolta considerati espressione delle disposizioni normative 85 , talaltra considerati fondamento delle norme positive 86 . Se la certezza del diritto sia un valore o un principio è dunque questione mal posta, specialmente in mancanza di una chiara enunpp. 2, 12, nonché i contributi raccolti in AA.VV., La certezza del diritto. Un valore da ritrovare, cit. 80 Vedi ad esempio le decisioni della Corte cost. n. 129/1957, 63/1966, 63/1968, 55/1971, 80/1971, 210/1971, 36/1985. 81 Vedi ad esempio, per ciò che riguarda la dottrina costituzionalistica, le posizioni degli autori che sostengono le tesi ascrivibili all’idea dell’“ordinamento per valori”, di cui un resoconto è presente nel saggio di PIZZETTI, F., L’ordinamento costituzionale per valori, in Diritto ecclesiastico, 1995, pp. 66-109. 82 Un resoconto delle tesi di costoro è presente nel citato saggio di PIZZETTI, F., L’ordinamento costituzionale per valori, cit., pp. 66-109. Il tema è ovviamente troppo ampio perché se ne possa dar conto in questa sede andando oltre le precedenti scarne notazioni. 83 Cfr. MODUGNO, F., Principi generali dell'ordinamento, in Enciclopedia giuridica, 1991, pp. 1 ss.; ZAGREBELSKY, G., Il diritto mite, cit., pp. 147 ss. 84 Cfr. BARTOLE, S., Principi generali del diritto, in Enciclopedia del diritto, vol. XXXV, 494 ss.; GIANFORMAGGIO, L., L’interpretazione della costituzione tra applicazione delle regole e argomentazioni sui principi, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, 1985, pp. 65 ss. 85 BASILE, S., Valori superiori, principi costituzionali fondamentali ed esigenze primarie, in Giur. Cost., 1993, 2201 ss. 86 BALDASSARRE, A., Costituzione e teoria dei valori, in Politica del diritto, 1991, pp. 639 ss.

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ciazione di ciò che si intenda per “principio” e per “valore”. Qualora poi con questi termini si indichino degli elementi normativi ritenuti giuridici in quanto positivizzati, la domanda apparirà sensata solo ove si precisi pure quale sia l’ordinamento giuridico cui essa viene riferita. Non basterà allora domandarsi: “La certezza è un valore o un principio?”, ma ci si dovrà domandare piuttosto: “La certezza è un valore o un principio nell’ordinamento che stiamo considerando?”. Solo una volta operati tali chiarimenti potremo stabilire se nell’ordinamento considerato la certezza del diritto abbia fondamento positivo e in quali termini. È dunque necessario riconoscere l’assoluta libertà di definire la certezza in termini di valore, principio, esigenza, interesse ecc. magari adottando indifferentemente una qualsiasi di queste definizioni? Una qualche limitazione a quest’arbitrarietà definitoria potrebbe forse provenire dalla filosofia analitica, che ricollega la distinzione tra principi e valori alla distinzione tra due sottospecie del linguaggio normativo in senso lato: il linguaggio prescrittivo (o normativo in senso stretto) e il linguaggio valutativo 87 . Semplificando molto, si può dire che entrambe le specie di linguaggio normativo hanno una funzione di guida del comportamento, ma mentre nel linguaggio normativo in senso stretto tale funzione viene esercitata direttamente, tramite l’enunciazione di norme di condotta, comandi consigli ecc., nel linguaggio valutativo la funzione di guida è soltanto indiretta. Altre volte si preferisce dire che il linguaggio valutativo è comparativamente più vago di quello prescrittivo poiché non determina con precisione quale comportamento si debba, non si debba o si possa tenere, oppure che il linguaggio valutativo, a differenza del prescrittivo, stabilisce non dei comportamenti, ma solo dei fini da perseguire, omettendo di indicare i mezzi 88 . Accogliendo quest’ultima sinte-

87 La terminologia è peraltro varia. Hare ad esempio usa la locuzione “linguaggio prescrittivo” per indicare il genere e “imperativi” e “giudizi valutativi” per indicare le specie che nel testo ho indicato rispettivamente con “linguaggio prescrittivo (o normativo in senso stretto)” e “linguaggio valutativo”. Cfr. HARE, R.M., Il linguaggio della morale, Ubaldini, Roma 1968, p. 17. Sulla distinzione tra linguaggio prescrittivo e valutativo si rimanda ad ibidem, capitoli 1, 8, 11, 12; ROSS, A., Direttive e norme, Ed. di Comunità, Milano 1978, spec. p. 91. 88 In quest’ultimo senso si esprime Ross (Direttive e norme, cit., p. 91): «I giudizi di valore sono diversi dalle direttive, in quanto non presentano uno schema di comportamento definito. Infatti i giudizi di valore esprimono attitudini favorevoli o contrarie a qualcosa, che possono indurre a promuovere alcuni fini, ma non espri-

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si 89 , si sarebbe tentati di dire che il principio normativo di certezza si distingue dal valore della certezza perché, diversamente da questo, fornisce una guida diretta per i suoi destinatari, determinando anche quale sia il comportamento da tenere affinché la certezza del diritto si realizzi (meglio: risulti incrementata). Alla luce di quanto detto nel paragrafo precedente, potremmo pertanto concludere che la nostra distinzione si basa esclusivamente sulla considerazione che il principio di certezza, pur eventualmente caratterizzato da elevati livelli di generalità e astrattezza, include l’enunciazione di un modello di comportamento diretto, esplicitamente o meno, alla realizzazione di una situazione fattuale di maggiore o minore diffusione ed estensione della capacità di prevedere correttamente le conseguenze giuridiche di atti o fatti, mentre nel caso del “valore” della certezza l’azione umana è guidata verso tale fine solo indirettamente, attraverso manifestazioni di apprezzamento o di biasimo per la prevedibilità giuridica. In verità, bisogna guardarsi dal considerare questa distinzione come una cesura chiara e netta: quella tra norme e valori «è una distinzione di cui, in realtà, risulta assai difficile, se non impossibile, tracciare i confini con precisione concettuale. […] Se si cerca di essere più precisi, la distinzione svanisce» 90 . Adottando con le dovute cautele questa evanescente distinzione, qualora rilevassimo che un ordinamento contiene una disposizione costituzionale che definisce esplicitamente la certezza come dovere del legislatore di produrre leggi in modo da garantire per quanto possibile la prevedibilità della loro applicazione, ben potremmo dire che la certezza giuridica è, in quell’ordinamento, un principio di diritto positivo. Né è necessario che vi sia sempre questo riconoscimento mono alcuna decisione sui mezzi per raggiungere i fini, e non sono in grado di compiere una valutazione comparativa dei fini in conflitto tra loro. […] Le direttive descrivono un modello di comportamento (per esempio “il chiudere la porta da parte di Pietro”. I giudizi di valore descrivono degli scopi (per esempio realizzare la libertà nella vita di una comunità) che dovrebbero guidare le nostre azioni in congiunzione con altri scopi determinanti». 89 La sintesi appena riportata riprende quella di GUASTINI, R., La certezza del diritto come principio di diritto positivo?, cit., pp. 1100-1101, che afferma anche: «Potremmo dire, con molta approssimazione: appartengono al discorso prescrittivo enunciati che esprimono norme di condotta, imperative o permissive, del tipo “Nelle circostanze x, si deve/può compiere l’atto y”, appartengono al discorso valutativo enunciati che esprimono approvazione o disapprovazione nei confronti di alcunché, del tipo “L’atto x è buono”, “il fine y merita di essere perseguito”, e simili». 90 Cfr. ibidem (corsivo mio).

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esplicito o che il principio abbia rango costituzionale: esso potrebbe avere fondamento positivo anche se sprovvisto di un’espressa formulazione linguistica e “disperso” in diverse norme dell’ordinamento, variamente collocate nell’ambito della gerarchia delle fonti. Così, ove rinvenissimo nel corpus normativo di un certo ordinamento delle disposizioni che, pur non menzionando direttamente il fine della garanzia della prevedibilità, enunciassero il dovere degli organi giuridici di produrre delle leggi non retroattive, di chiara formulazione, pubbliche, prive di antinomie, con limitate aperture alla discrezionalità degli organi dell’applicazione, e via dicendo, potremmo affermare il fondamento positivo di un principio implicito di certezza, inteso come prescrizione che impone al legislatore di produrre leggi in modo da garantire per quanto possibile la prevedibilità della loro applicazione. Se poi molte o tutte queste norme fossero consacrate nella costituzione, allora si potrebbe affermare anche il rango di principio costituzionale della certezza del diritto 91 . Un discorso in parte analogo può essere fatto per la certezza come valore. Gli ordinamenti contemporanei contengono frequenti rinvii a valori socialmente diffusi (si pensi al “buon costume” nel diritto italiano) che, appunto in quanto richiamati da norme, acquistano una specifica rilevanza giuridica. Ci si potrebbe dunque domandare se, in un dato ordinamento, la certezza abbia o meno questa rilevanza; per trovare una risposta dovremmo controllare se le norme di quel diritto, esplicitamente o implicitamente, contengano dei riferimenti al valore in esame, magari attraverso delle disposizioni che qualificano positivamente la prevedibilità, da parte degli individui, delle conseguenze giuridiche della loro condotta 92 . 91

Naturalmente, l’individuazione dei principi impliciti in un ordinamento e la collocazione di tali principi nella gerarchia delle fonti pongono molteplici problemi. Tali principi, infatti, vengono ricavati dalle norme mediante una sorta di ragionamento induttivo in cui si procede dal meno generale al più generale in modo non logicamente stringente. La determinazione dei principi impliciti in un ordinamento è dunque questione assai incerta ed elastica, quasi sempre condizionata da (non sempre dichiarate) scelte di valore. Altrettante difficoltà possono in questi casi incontrarsi nella collocazione del principio della certezza nella gerarchia delle fonti. 92 Anche gli esiti di questo procedimento sono tutt’altro che certi (vedi nota precedente). Si può inoltre facilmente immaginare un ordinamento che contemporaneamente riconosca la certezza del diritto sia come principio (inteso come prescrizione di un modello di comportamento che tende alla realizzazione di uno stato di fatto) sia come valore giuridicamente rilevante (ossia come qualificazione positiva o negativa di uno stato di fatto). Si pensi a questa ipotetica disposizione costituzionale, di

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In Italia, la questione certezza-valore vs. certezza-principio è stata sottoposta all’esame della Corte costituzionale 93 . Nell’occasione, il Governo, facendo perno sull’asserita natura di principio generale dell’ordinamento della certezza del diritto, sostenne l’illegittimità di una legge approvata dalla Regione Sardegna che non identificava esattamente quali fossero i “precedenti atti e provvedimenti” da essa richiamati 94 . Il contrasto con il principio della certezza del diritto era ravvisato dagli avvocati dello Stato nel «supporto normativo […] a situazioni e disposizioni non chiaramente definite» 95 . La Regione Sardegna a ciò oppose la considerazione per cui la certezza del diritto non è principio generale dell’ordinamento bensì semplice valore da perseguire, un’esigenza del sistema che non può assurgere a parametro autonomo del giudizio di costituzionalità delle leggi 96 . La controversia sul carattere prescrittivo o valutativo della certezza giuridica era qui, come si vede, del tutto strumentale all’affermazione del carattere vincolante o non vincolante della stessa rispetto all’attività del legislatore regionale. Le parti presupposero che la qualificazione della certezza come principio generale dell’ordinamento avrebbe comportato l’affermazione della sua forza vincolante e che, per converso, l’accertamento della sua natura di valore avrebbe escluso ogni possibilità di censura dei provvedimenti non ad essa conformi. Come rilevò Guastini, nonostante le parti menzionassero la distinzione principi/valori, ad essere chiamata in causa era in realtà la contrapposizione, pure assai sfuggente, tra comandi (vincolanti) e consigli (non vincolanti, ma meramente orientativi) 97 . Che la certezsapore vagamente ingenuo-illuministico, liberamente ispirata all’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale: “Lo Stato riconosce l’importanza della possibilità dei cittadini di prevedere le conseguenze giuridiche delle proprie azioni; il giudice deve pertanto operare in modo da agevolare la prevedibilità delle proprie decisioni, non attribuendo alla legge altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”. 93 Cfr. sent. Corte cost. 101 del 1986, commentata da Riccardo Guastini in La certezza del diritto come principio di diritto positivo?, cit., pp. 1091-1099. 94 Le leggi regionali, secondo la formulazione del vecchio testo dell’art. 117 della Costituzione, dovevano essere poste “nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato”. 95 Cfr. sent. Corte cost. n. 101 del 1986. 96 Cfr. ibidem., pp. 1091-1093. 97 Cfr. GUASTINI, R., La certezza del diritto come principio di diritto positivo?, cit., p. 1101.

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za giuridica sia un principio anziché un valore non implica affatto il suo carattere giuridicamente vincolante; ben potrebbe immaginarsi un ordinamento comprendente un principio normativo di certezza che non comandi, ma raccomandi agli organi che influiscono sulla formazione e sull’applicazione del diritto di favorire per quanto possibile l’incremento della prevedibilità delle conseguenze giuridiche della condotta dei consociati 98 . Inoltre, ancor prima del carattere vincolante della certezza del diritto rilevano la sua positività, la sua coattività e il suo rango nella gerarchia delle fonti. La regione Sardegna, per resistere all’istanza volta a far dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge in esame, anziché impelagarsi nella sfuggente (pseudo-)questione circa la natura valutativa o prescrittiva della certezza del diritto, avrebbe dunque potuto sostenere o che l’ordinamento italiano non comprende un “principio generale” di certezza del diritto che prescrive ai legislatori regionali di emanare delle norme chiare, oppure che tale prescrizione, pur trovando cittadinanza nel nostro ordinamento, non è vincolante ai fini della legittimità costituzionale dei provvedimenti adottati (cioè non comanda ma, al limite, raccomanda) 99 . La Corte, in ogni caso, eluse la questione che Regione sarda e Governo avevano posto circa la natura valutativa o prescrittiva della certezza del diritto, e soprattutto non si pronunciò circa il suo carattere di norma vincolante per il legislatore regionale 100 . Tirando le somme del discorso fin qui condotto, deve ripetersi per le concezioni normative della certezza quanto si è detto in materia di concezioni fattuali: non esiste qualcosa come il principio o il valore della certezza del diritto, ma diverse versioni del principio e del valore stessi, variabili a seconda dell’ordinamento, del momento storico

98 Si pensi ad un principio costituzionale esplicito di questo tenore: “Il legislatore ordinario deve preferibilmente emanare leggi chiare, pubbliche e non retroattive, al fine di favorire la prevedibilità della loro applicazione ai casi concreti”. Le disposizioni programmatiche della Costituzione italiana, secondo una parte della dottrina costituzionalista, debbono appunto intendersi come semplici consigli al legislatore e non sarebbero idonee a provocare l’illegittimità costituzionale delle leggi adottate senza tenerne conto. 99 Quanto al deficit di coattività: si immagini un ordinamento che, pur stabilendo nella costituzione un obbligo di legiferare in modo da favorire la certezza delle leggi prodotte, non contempli alcun organo o procedura di censura costituzionale. 100 Nella circostanza, la Corte dichiarò infondata la questione di legittimità semplicemente adducendo la sufficiente determinatezza del contenuto normativo della legge regionale contestata.

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considerato e perfino dell’indirizzo dottrinale prescelto. I destinatari del principio, nonché i comportamenti ad esso conformi e la loro stessa qualificazione (obbligatori, vietati, consigliati ecc.) variano a seconda di come lo stesso viene di volta in volta configurato. Si può immaginare un ordinamento contenente un principio che imponga ai giudici di operare in modo da favorire per quanto possibile la prevedibilità delle proprie decisioni, magari conformandosi agli indirizzi giurisprudenziali più radicati; oppure si può pensare ad un ordinamento contenente un principio che raccomandi al legislatore ordinario di produrre leggi in modo da garantire per quanto possibile la prevedibilità della loro applicazione, evitando leggi retroattive, non pubbliche, contraddittorie, o di oscura formulazione. Anche la collocazione del principio in esame nella gerarchia delle fonti o addirittura il suo fondamento giuridico-positivo sono caratteristiche contingenti che possono variare nello spazio, nel tempo e nell’opinione degli interpreti. La certezza, infatti, potrebbe al limite essere intesa non come principio giuridico ma come principio politico, morale o sociale, magari molto diffuso e sentito ma comunque esterno al diritto. Si tratterebbe in questo caso di un principio meta-giuridico, una direttiva di scopo che, pur priva di fondamento positivo e di sanzione giuridica, avrebbe la funzione di indirizzare il comportamento degli organi giuridici (dal legislatore ai giudici agli amministratori) verso la produzione di un diritto con caratteristiche che consentono una più diffusa o efficace previsione delle conseguenze giuridiche di atti o fatti. Questo principio, sebbene non giuridicamente vincolante, potrebbe essere caratterizzato da una sorta di coattività sociale, magari perché chi non vi si conforma va incontro ad una diffusa disapprovazione, o subisce una diminuzione del proprio prestigio personale o professionale ecc. Se non esiste il principio o il valore della certezza, può però individuarsi il concetto normativo che sta alla base delle varie concezioni normative della certezza del diritto. Tale concetto, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, è comune alle concezioni valutative e prescrittive in senso stretto della certezza e consiste nella generica prescrizione che guida il comportamento dei suoi destinatari verso la realizzazione di una situazione di fatto in cui è più (o meno) diffusa ed estesa la prevedibilità giuridica. Tutti gli altri caratteri, dalla forza vincolante alla positività, dal rango gerarchico alla stessa giuridicità, sono accessori e contingenti e come tali costituiscono parte integran-

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te non del concetto bensì delle varie concezioni normative della certezza.

Capitolo 2

La certezza-prevedibilità tra formalismo e antiformalismo

2.1. Alcune domande sulla certezza come prevedibilità Nel presente capitolo intendo esaminare tre concezioni della certezza giuridica come prevedibilità che offrono più di uno spunto utile per la discussione cui sarà dedicata la parte finale di questo lavoro. Esse provengono l’una dall’alfiere del giuspositivismo normativista, Hans Kelsen, le altre da Massimo Corsale e Bruno Leoni, autori antiformalisti che propongono delle concezioni affini tra loro ma per molti versi antitetiche rispetto alla concezione normativista-kelseniana della certezza. L’antitesi, sorprendentemente, non riguarda il piano della desiderabilità politica della certezza, e neppure, sotto molti aspetti, quello analitico della definizione di “certezza del diritto”. Le concezioni in esame, infatti, sono accomunate dal riferimento ad una generica prevedibilità giuridica intesa in senso conoscitivo, ossia come possibilità di conoscere le conseguenze giuridiche di fatti o atti prima (logicamente e/o cronologicamente) del loro venire in essere. Tutte si rifanno dunque al concetto di certezza-prevedibilità che ho individuato nel capitolo precedente, nucleo semantico che costituisce una sorta di massimo comun denominatore tra tutte le concezioni di certezza giuridica come fatto, valore o principio. Questo elemento comune viene naturalmente corredato dalla enunciazione delle condizioni che i vari autori ritengono dover sussistere affinché possa correttamente parlarsi di “certezza del diritto”, ed è tale aggiunta che determina le differenze tra le rispettive concezioni. L’antitesi tra le teorie qui esaminate non riguarda neppure il loro “segno”: esse sono tutte, per così dire, “positive”, ossia asseriscono la possibilità di conseguire, a certe condizioni, un determinato grado di prevedibilità giuridica. L’incompatibilità tra le concezioni che figurano nella presente

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rassegna riguarda allora soprattutto, come vedremo, i mezzi che meglio permettono di conseguire l’obiettivo della prevedibilità: formulazione delle disposizioni normative condotta in modo da ridurre al minimo l’inevitabile pluralità dei loro significati secondo Kelsen, conoscenza/condivisione dell’ideologia sociale e comprensione del diritto spontaneamente formatosi in seno alla comunità secondo, rispettivamente, Corsale e Leoni. Tutti i contributi saranno esaminati secondo uno schema comune: dopo una trattazione generale delle opinioni dell’autore in materia di certezza-prevedibilità, si cercherà di chiarire se egli intenda affrontare l’argomento adottando (solo) un’accezione fattuale o (anche) un’accezione normativa di “certezza del diritto”. In particolare, per ciò che concerne la certezza-prevedibilità fattuale intesa come capacità predittiva diffusa, si esamineranno le idee dei vari autori in merito alle seguenti condizioni d’uso dell’espressione “certezza del diritto” 101 : 1) chi prevede (ovvero quali sono i soggetti le cui previsioni debbono considerarsi per esprimere un giudizio sulla certezza del diritto); 2) che cosa si prevede (ovvero su che cosa vertono le previsioni che si debbono considerare per esprimere un giudizio sulla certezza del diritto); 3) come si prevede (ovvero quali sono i mezzi e i metodi attraverso cui vengono elaborate le previsioni che si debbono considerare ai fini di una rilevazione della certezza del diritto); 4) quanto si prevede (ovvero come si determina la misura della certezza del diritto). È il caso di avvertire che non sempre gli autori presi in considerazione nella presente rassegna forniscono una risposta a tutte queste domande. Alcuni improntano il loro ragionamento soprattutto in termini negativi o critici rispetto alle pratiche predittive esistenti, ad esempio analizzando la questione del “come non si prevede” e mantenendosi sul generico per ciò che riguarda la pars construens del loro discorso, altri concentrano tutta la loro attenzione su un aspetto molto specifico della questione della prevedibilità giuridica, ritenuto centrale o particolarmente controverso, e tralasciano tutti gli altri ele-

101

Vedi supra, § 1.5.a. e infra, § 4.1.

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menti, considerati irrilevanti, pacifici o scontati. Si tratta, in ogni caso, di tesi che rivestono una notevole importanza per il prosieguo del nostro discorso sulla certezza. Come vedremo, infatti, mentre le tesi di Kelsen servono soprattutto a farci riflettere sul carattere necessariamente alternativo della previsione giuridica, le idee di Corsale e Leoni contengono interessanti spunti circa la questione della prevedibilità svincolata dalla conoscenza delle norme giuridiche considerate in senso formale e circa la necessaria stabilità del quadro normativo da impiegare come base per la previsione.

2.2. Previsione e certezza giuridica nell’opera di Hans Kelsen 2.2.a. L’“illusione della certezza del diritto” nella Dottrina pura del 1934 Com’è noto, nella prima edizione della Dottrina pura del diritto, Hans Kelsen liquida sbrigativamente la questione della certezza del diritto, bollandola come «illusione» che «la teoria giuridica tradizionale coscientemente o incoscientemente si sforza di mantenere» 102 . È sintomatico il fatto che Kelsen affronti il tema della certezza nel capitolo dedicato all’interpretazione giuridica. Il suo obiettivo critico diretto non è, invero, la certezza del diritto come possibilità di prevedere con qualche probabilità di successo le conseguenze giuridiche di atti o fatti, bensì la pretesa di poter individuare attraverso un’attività meramente conoscitiva l’unica interpretazione “esatta” o “giusta” della norma da applicare. Il bersaglio polemico dell’autore è dunque la credenza avallata dalla giurisprudenza tradizionale secondo cui, «mediante una qualsiasi conoscenza del diritto vigente, si potrebbe ottenere quella determinazione dell’atto giuridico che la norma superiore da applicarsi non ha ancora effettuato» 103 . La certezza giuridica viene ora considerata da Kelsen in un’accezione estrema, come prevedibilità assoluta del contenuto delle norme individuali e concrete prodotte dai tribunali, e comunque è presa in esame solo in quanto mistificazione indotta da una ingenua teoria dell’interpretazione – il 102 103

KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 125. KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 123.

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formalismo interpretativo – secondo cui è sempre possibile individuare un’unica soluzione esatta dei problemi esegetici attraverso una mera ricerca di norme che, in quanto già esistenti, devono essere solo “scoperte” mediante un determinato procedimento. Tale illusoria pretesa deriva, secondo Kelsen, da una falsa rappresentazione dell’ordinamento giuridico come ordinamento fisso, che determina il comportamento umano in ogni suo aspetto: secondo i criticati formalisti, l’atto giuridico con cui si “applica” la legge al caso concreto sarebbe interamente determinato dal diritto non solo per ciò che riguarda il procedimento attraverso il quale l’atto stesso deve essere prodotto, ma anche per ciò che concerne il suo contenuto. Tale contenuto sarebbe pertanto conoscibile anche in un momento anteriore alla produzione dell’atto, ciò che giustificherebbe la credenza nell’ideale di una certezza giuridica intesa come prevedibilità assoluta, e non già parziale o relativa, degli atti “applicativi” del diritto (come le sentenze e gli altri provvedimenti giurisdizionali o amministrativi). È chiaro che una prevedibilità così concepita collide con la dottrina kelseniana dell’ordinamento giuridico come concatenazione produttiva: l’ordinamento giuridico, a differenza della morale, è caratterizzato da una costruzione a gradi (Stufenbau) in cui le norme di un certo grado, lungi dal poter essere semplicemente dedotte dalle norme superiori tramite un atto di conoscenza, devono essere prodotte per mezzo di un particolare atto di volontà, sia pure nel rispetto dei limiti formali e sostanziali stabiliti dalle norme di grado più alto. Secondo Kelsen, la norma giuridica non determina mai compiutamente il contenuto dell’atto di produzione o di esecuzione di grado inferiore: rimane sempre un margine più o meno ampio di potere discrezionale riservato agli organi inferiori, in modo tale che la norma superiore ha sempre e soltanto il carattere di uno schema che deve essere riempito per mezzo dell’atto di grado più basso. L’atto giuridico con cui una norma viene eseguita è dunque determinato da questa solo in una parte, nell’altra rimane sempre indeterminato. Tale indeterminatezza può essere addirittura intenzionale, può cioè essere voluta dall’organo di grado superiore, il quale attribuisce in tal modo all’organo inferiore il potere di specificare il “come” o il “che cosa” dell’atto da realizzarsi 104 . In ogni caso, dato che la norma superiore costituisce soltanto uno schema entro il quale si trovano molteplici possibilità di 104

Cfr. KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 118.

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esecuzione, il risultato della sua interpretazione (scientifica) non può essere altro che il riconoscimento delle varie possibilità che entro tale schema sono date. Qualsiasi atto corrispondente ad uno dei possibili significati linguistici della norma deve pertanto, dice Kelsen, essere considerato conforme ad essa 105 . Così, se si prende in esame il grado della legislazione, si deve rilevare che l’interpretazione di una legge non conduce necessariamente ad un’unica decisione “esatta” o “giusta”, bensì, possibilmente, a varie decisioni aventi tutte il medesimo valore in quanto conformi allo schema rappresentato dalla legge da applicarsi. Soltanto una di queste decisioni corrispondenti a norme individuali parimenti possibili entro lo schema indicato dalla legge diventerà diritto positivo nell’atto della sentenza, e ciò accadrà appunto a seguito di una scelta discrezionale compiuta dall’organo che applica il diritto 106 . La funzione del giudice non ha pertanto carattere semplicemente dichiarativo, come pure il termine “giurisdizione” suggerirebbe, bensì costitutivo; essa «è produzione del diritto nel vero senso della parola» 107 . In questo senso, la sentenza giudiziale rappresenta la continuazione del processo di produzione del diritto dal generale all’individuale, ponendosi allo stesso tempo come atto di esecuzione e come atto di produzione del diritto. La conclusione di Kelsen, cruciale per il suo discorso sulla certezza, è che non solo il legislatore, ma pure il giudice crea diritto. Anch’esso è relativamente libero in questa attività, sebbene i suoi limiti siano generalmente più ristretti rispetto a quelli del legislatore. La differenza tra le funzioni di questi due creatori del diritto ha dunque carattere esclusivamente quantitativo, non qualitativo 108 . Ciò comporta ovvie difficoltà per le tesi della certezza-prevedibilità assoluta: se il giudice crea diritto in maniera relativamente libera rispetto alle norme che è chiamato ad applicare, com’è possibile prevedere esattamente il contenuto dei suoi provvedimenti? Se la scelta tra le possibilità di esecuzione date entro lo schema della norma generale è discrezionale, come se ne può predire con precisione l’esito 109 ? 105

Cfr. KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 120. Cfr. KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 121. 107 Cfr. KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 109. 108 Cfr. KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 123. 109 Come vedremo nel paragrafo 2.4.g, la questione è inoltre complicata dal fatto che il numero di tali possibilità di esecuzione può non essere finito. 106

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2.2.b. L’inammissibilità dell’impiego delle conoscenze extragiuridiche Questi argomenti sembrano assestare un colpo mortale alle teorie formaliste legate ad una concezione ingenua e assolutistica della certezza-prevedibilità. Tuttavia, una volta abbandonate le tesi che vagheggiano una certezza assoluta, non è detto che si debba rinunciare tout court all’ideale di una qualche prevedibilità dell’applicazione del diritto. Si potrebbe infatti sostenere che, sebbene sia impossibile prevedere con esattezza le reazioni dell’ordinamento partendo dalla formulazione linguistica delle norme giuridiche, vi sono delle altre conoscenze la cui padronanza aumenta di molto le probabilità di una previsione corretta. Un giusnaturalista incurante di qualunque censura di fallacia naturalistica, per esempio, potrebbe affermare che la Giustizia gioca (o deve giocare) un ruolo fondamentale nella determinazione del contenuto della decisione del giudice, e che pertanto la previsione più attendibile è quella che, nell’ambito delle alternative possibili nello schema della norma da applicare, individua la decisione assiologicamente migliore, ovvero quella oggettivamente più giusta. Un giusrealista, d’altro canto, potrebbe sostenere che i giudici, nel decidere, vengono di fatto influenzati non solo dalla (volontà di applicare la) norma giuridica, ma anche da un’ampia gamma di fattori “extragiuridici” (norme sociali, morali, altri stimoli di vario tipo) e che dunque la conoscenza di tali fattori e dei meccanismi tramite i quali essi operano garantisce un incremento delle probabilità di previsione corretta. Insomma, ponendosi fuori dall’ottica della dottrina pura, si potrebbe affermare che il contenuto e/o la stessa occorrenza delle decisioni dei giudici non dipendono solo dalle norme del diritto positivo, ma anche da altri fattori (valori di giustizia, idee socialmente diffuse sulla giustizia, considerazioni di vantaggio o svantaggio personali ecc.) la cui conoscenza è utile ai fini della previsione delle decisioni stesse. Tuttavia, sull’impiego di tali conoscenze extragiuridiche e, più in generale, sul merito della scelta tra le varie possibilità date entro lo schema rappresentato dalla norma da applicare, la dottrina pura del diritto nulla pretende di poter dire (né predire) 110 . La scelta del deci110

A maggior ragione perché c’è sempre la possibilità che il giudice ponga delle norme individuali che esorbitano dai limiti di contenuto stabiliti dalle norme supe-

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sore tra i possibili significati letterali della disposizione, dice Kelsen, è funzione della volontà, ed è libera anche quando il giudice, nel decidere, oltre alla constatazione dello schema stabilito dalla norma superiore, tenga conto di altre norme socialmente diffuse ancorché non giuridicamente valide (norme morali, sociali, di giustizia ecc.) 111 . Infatti, in primo luogo, egli non è giuridicamente obbligato a considerare tali norme (a meno che esse non siano espressamente richiamate dal diritto, diventando così giuridiche a loro volta); in secondo luogo, anche qualora il giudice decidesse facendo ricorso alla conoscenza di simili norme extragiuridiche, la dottrina pura del diritto, potendole caratterizzare soltanto come determinazioni che non muovono dal diritto positivo, non potrebbe certo usarle come base per una previsione 112 . In rapporto ad esse, dice Kelsen, la realizzazione dell’atto è libera, cioè risiede nella libera opinione dell’organo chiamato a realizzare l’atto 113 . Così, per lo scienziato “puro”, non godrebbe di alcun credito la pretesa di individuare la soluzione interpretativa “corretta” basandosi sull’assunto che il giudice sceglierà quella più conforme a giustizia sostanziale: la giustizia, secondo il notissimo motto kelseniano, è un «ideale irrazionale»; essa non è soggetta a conoscenza razionale e non può pertanto essere oggetto di una teoria “scientifica” del diritto. Dal punto di vista della conoscenza razionale, dice Kelsen, esistono solo interessi e conflitti di interessi la cui soluzione è data dalla prevalenza di uno di essi a spese dell’altro o da forme di compromesso stabilite da un certo loro ordinamento 114 . Quando il giudice decide (meglio: crede o dice di decidere) “secondo giustizia”, egli o segue una norma socialmente diffusa ma non giuridicamente vincolante, o applica le proprie credenze o preferenze personali su un certo ordinamento d’interessi, o fa entrambe le cose asriori. Com’è noto, secondo la concezione kelseniana del conflitto tra norme di gradi diversi, in questi casi non si ha una non-norma o una norma nulla, ma una norma valida ancorché “difettosa”. La sua validità continuerà a sussistere fino a quando un altro atto, posto nelle forme stabilite da una prescrizione “alternativa” condizionata, la farà eventualmente venir meno. In tal modo viene fatta salva l’unità dell’ordinamento giuridico. Cfr. KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., pp. 112-116. Si tornerà tra poco sull’argomento (vedi infra, § 2.4.h). 111 Cfr. KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., pp. 123-124. 112 Cfr. KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 124. 113 Cfr. ibidem. 114 Cfr. KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., pp. 56-59.

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sieme; sicuramente, però, non compie una scelta necessariamente giusta e dotata di valore oggettivo. Secondo il noncognitivista Kelsen, infatti, adottando il metodo scientifico non c’è modo di sapere quale sia, tra le varie soluzioni interpretative possibili in un dato caso, quella più giusta in senso assoluto. È ben probabile che le varie possibilità di esecuzione date entro lo schema indicato dalla norma che si interpreta soddisfino interessi diversi, o li soddisfino in misura diversa, tuttavia non è possibile stabilire una volta per tutte che l’interesse X è più degno di tutela dell’interesse Y. La soluzione di questi problemi, dirà un Kelsen un po’ più recente, è data in ultima analisi da giudizi di valore determinati da fattori emozionali di carattere soggettivo, validi solo per il singolo soggetto che giudica e perciò, come tutti i veri giudizi di valore, relativi 115 . È vana, dunque, qualunque pretesa di prevedere la decisione giudiziale affidandosi ad un criterio assiologico dotato di valore oggettivo. Si potrebbe però pensare (e gli scritti successivi di Kelsen, come vedremo, lasciano in qualche modo aperta tale possibilità) ad una previsione basata non sulla ricerca della decisione più giusta in senso assoluto, ma sull’assunto per cui i giudici solitamente decidono nella maniera che essi ritengono più giusta. In altre parole, si potrebbe trasferire la questione della prevedibilità della decisione dal piano assiologico a quello sociologico, assumendo che i giudici optino frequentemente per quelle scelte interpretative che (non sono, ma che) essi ritengono in qualche senso o per qualche ragione giuste. Rilevando attraverso delle indagini statistiche le credenze in materia di giustizia diffuse tra i giudici, sarebbe possibile avanzare delle previsioni sulle loro decisioni che tenessero conto non soltanto delle norme giuridicamente valide ma anche delle norme morali, sociali o d’altro tipo che costoro, più frequentemente, considerano per qualche ragione vincolanti 116 . In questo modo si potrebbero infatti avanzare 115

Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto e la giurisprudenza analitica (titolo originale: Pure Theory of Law and Analytical Jurisprudence, Harvard Law Review, 1941, pp. 44-70), pubblicato in Italia in appendice a KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 175. 116 Nella seconda edizione della Dottrina pura del diritto, Kelsen rileverà che quando un organo competente alla risoluzione di un caso concreto intende pronunciare una sentenza “giusta” può farlo soltanto applicando una norma generale da esso ritenuta a sua volta giusta: «La norma su cui si fonda il valore della giustizia deve, per sua natura, avere carattere generale». (cfr. KELSEN, H., La dottrina pura

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pronostici su quella che, tra le possibilità di esecuzione date entro lo schema della norma superiore, sarà probabilmente l’opzione sentita come più “giusta”, cioè più conforme alle norme generali di giustizia riconosciute dai decisori; ciò, dato l’assunto di partenza, aumenterebbe in modo notevole l’attendibilità della previsione della decisione adottata nel caso di specie. Ovviamente, anche questa strada è preclusa allo scienziato puro del diritto 117 : la dottrina pura non può dire quale scelta sarà probabilmente adottata poiché essa non di essere tratta, ma di dover essere. La previsione di un qualcosa che sarà, più o meno probabilmente, non è per Kelsen un problema giuridico, bensì un problema propriamente sociologico. Oggetto della scienza normativa del diritto non sono i fenomeni del Sein, la determinazione delle loro cause o la predizione dei loro effetti, ma esclusivamente le norme che, in quanto entità del Sollen, non sono collocabili nello spazio e nel tempo (anche per questo non risultando prevedibili). Le norme giuridiche, raccomanda Kelsen, non devono essere confuse con gli atti tramite i quali sono stabilite, esse appartengono ad una categoria che non trova applicazione nel campo della natura 118 . L’atto di volontà con cui il soggetto preposto dall’ordinamento, a qualsiasi grado dello Stufenbau, determina compiutamente il contenuto della norma, è invece un accadimento naturale causalmente determinato, un “fatto nella coscienza” dell’uomo che pone la norma, e in quanto tale non può essere studiato o previsto dalla dottrina pura del diritto, bensì – al limite – dalla sociologia giuridica, scienza sul cui valore e sulle cui possibilità tuttavia Kelsen, almeno in questa prima edizione della Dottrina pura, non si sofferma 119 .

del diritto (1960), cit., p. 284). La soluzione del caso, per essere davvero giusta, deve pertanto essere universalizzabile, cioè deve essere suscettibile di applicazione a casi uguali a quello considerato; essa è quindi espressione di una norma generale, eventualmente “ricercata” o elaborata ad hoc dallo stresso decisore. La previsione di decisioni sentite come giuste, pertanto, non può che basarsi sulla considerazione delle norme generali di giustizia che vengono applicate dai decisori. 117 Non però, come vedremo nei paragrafi seguenti, al cultore della giurisprudenza sociologica. 118 KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., pp. 51-52. 119 Cfr. KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 54.

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2.2.c. La prevedibilità della funzione giuridica negli scritti successivi al 1941 Mentre la preoccupazione prevalente del Kelsen del 1934 sembra essere quella di evidenziare il carattere della “purezza” della sua dottrina, distinguendola il più possibile sia dalla politica sia dalla sociologia del diritto, negli scritti successivi al 1941 il nostro autore riserva uno spazio ben maggiore alle tematiche della previsione e della certezza del diritto, sempre però nel quadro – come subito vedremo – di un radicato normativismo. L’espatrio negli Stati Uniti, avvenuto proprio in quell’anno, e i conseguenti contatti con alcune dottrine giuridiche americane assai lontane dal formalismo dell’Europa continentale, sarebbero all’origine di questo aumento di interesse per gli aspetti “realistici” e “sociologici” del diritto, così vicini alla mentalità giuridica anglosassone 120 . In effetti, già nel saggio La dottrina pura del diritto e la giurisprudenza analitica del 1941, Kelsen manifesta una nuova attenzione nei confronti della sociologia del diritto e dei suoi rapporti con la giurisprudenza normativa 121 . Questa tendenza è ancora più evidente nella Teoria generale del diritto e dello stato del 1945, opera attraverso la quale l’autore si propone di riformulare la propria dottrina in modo da renderla accessibile ai (e accettabile dai) lettori avvezzi alla tradizione giuridica di common law 122 . In particolare, in questo periodo Kelsen dedica molto spazio alla “giurisprudenza sociologica”, individuando negli esponenti del realismo giuridico americano i suoi rappresentanti più caratteristici 123 ; mentre nella prima edizione della

120 Vedi il saggio introduttivo di M.G. Losano pubblicato nell’edizione italiana della Reine Rechtslehre del 1960 (cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. XIV). 121 Per “giurisprudenza” Kelsen intende la scienza del diritto, dunque lo studio del diritto avente carattere scientifico; la “giurisprudenza normativa” è la scienza che studia il diritto in quanto sistema di norme valide. Non tutte le dottrine che studiano il diritto sono “giurisprudenza”, ad esempio, non lo sono le dottrine del diritto naturale. 122 Cfr. KELSEN, H., General theory of law and State, Harvard University Press, Cambridge 1945, trad. it. Teoria generale del diritto e dello stato, Etas, Milano 1984. 123 Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto e la giurisprudenza analitica, cit., p. 183, in nota; KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 165.

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Dottrina pura il nostro autore aveva evitato di pronunciarsi sul valore e sulle possibilità di una scienza sociologica del diritto, adesso egli ammette che la dottrina pura del diritto «non nega in nessun modo la validità di questa giurisprudenza sociologica, ma si rifiuta di vedere in essa l’unica scienza del diritto come fanno molti suoi rappresentanti» 124 . Insomma, non si contesta alla giurisprudenza sociologica il diritto di esistere e di operare, bensì la sua pretesa di porsi come scienza giuridica unica ed esclusiva. Vi è dunque, nel Kelsen americano, il riconoscimento di una scienza del diritto distinta e parallela rispetto alla giurisprudenza normativa 125 ; in nessun modo l’una può sostituire l’altra perché esse soddisfano differenti esigenze di conoscenza e trattano problemi diversi: la giurisprudenza normativa risponde al bisogno di una teoria che descriva il “dover essere” del comportamento umano, ciò che le persone devono fare; la giurisprudenza sociologica, invece, operando con metodo analogo a quello con cui la fisica descrive e prevede i fenomeni naturali, è rivolta allo studio dell’“essere” del comportamento umano, considerando ciò che le persone effettivamente fanno o faranno. Kelsen ammette che, a differenza della dottrina del diritto naturale, che è (solo) metafisica, sia la giurisprudenza normativa sia la sociologica sono scienze a tutti gli effetti e, in quanto tali, descrivono (e non valutano) ognuna il proprio oggetto particolare 126 . Tuttavia, mentre la giurisprudenza normativa considera il diritto come un sistema di norme valide e formula proposizioni di “dover essere” che descrivono come gli uomini devono comportarsi in determinate condizioni, la giurisprudenza sociologica studia il diritto come insieme di norme efficaci e formula proposizioni di “essere” attraverso cui si descrive come gli uomini si comporta124 Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto e la giurisprudenza analitica, cit., p. 183. 125 Ibidem. 126 Anche la giurisprudenza normativa, afferma Kelsen, è scienza, e non meno empirica della scienza naturale. Anch’essa infatti studia la realtà, sebbene non la realtà della natura – che costituisce l’oggetto della scienza naturale e di quella sua particolare branca che è la sociologia – ma quella specifica realtà del diritto che “si manifesta in un fenomeno che viene inteso perlopiù come la positività del diritto”. Il diritto “reale” studiato da Kelsen non è pertanto lo stesso studiato dai giusrealisti, ma è il diritto positivo, reale in quanto contrapposto al diritto ideale, o “giustizia”, vagheggiato dai vecchi e nuovi giusnaturalisti. Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., pp. XXII-XXIII; 13; 166.

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no effettivamente e come probabilmente si comporteranno in futuro. La giurisprudenza normativa è dunque, secondo Kelsen, scienza della validità del diritto, mentre la giurisprudenza sociologica è scienza dell’efficacia del diritto 127 . Esiste un’analogia tra le proposizioni nelle quali la giurisprudenza normativa descrive il diritto e le leggi naturali di cui si serve la giurisprudenza sociologica. In entrambi i casi si tratta di proposizioni ipotetiche generali: se si evitano alcune insidiose confusioni terminologiche, afferma Kelsen, si deve riconoscere che le formulazioni della giurisprudenza normativa non sono norme bensì asserzioni su norme, non sono diritto ma descrizioni del diritto 128 . Inoltre, sia le proposizioni giuridiche sia le leggi naturali,

127 Qualche cenno sulla nozione di “efficacia” secondo Kelsen. L’efficacia dell’ordinamento è data dal fatto che “il comportamento degli uomini a cui l’ordinamento giuridico si riferisce corrisponde a tale ordinamento fino a un certo grado”; cfr. KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 101. E inoltre: “Efficacia del diritto significa che gli uomini si comportano effettivamente come devono comportarsi secondo le norme giuridiche, che le norme sono effettivamente applicate ed obbedite”; cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 39. Per quanto riguarda l’efficacia della norma: “Il dire che una norma è valida per un individuo […] non significa che l’individuo necessariamente si comporti in modo tale che la sua condotta effettiva corrisponda alla norma. Quest’ultimo rapporto si esprime dicendo che la norma è efficace”; cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto e la giurisprudenza analitica, cit., p. 181. Infine, un esempio dell’uso del termine “effettività” da parte di Kelsen: “Non si può quindi sostenere che, giuridicamente, gli uomini devono comportarsi in conformità di una data norma, se l’ordinamento giuridico totale, di cui quella norma è parte integrale, ha perduto la sua efficacia. Il principio di legittimità è quindi limitato al principio di effettività”; cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto e la giurisprudenza analitica, cit., p. 120. 128 Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 167. È invece da respingere, secondo Kelsen, l’assimilazione tra leggi umane e leggi naturali proposta da T. H. Huxley, che asserisce che anche le prime, al pari delle seconde, possono essere impiegate come strumenti di previsione, con riferimento al comportamento umano da esse regolato. Kelsen rileva che in realtà le leggi umane non contengono conoscenze rivolte al nostro intelletto, ma precetti rivolti alla nostra volontà. Esse non sono descrizioni ma prescrizioni (cfr. ibidem, pp. 168-169). Carattere descrittivo hanno invece le proposizioni tramite le quali la giurisprudenza normativa rappresenta le norme giuridiche. Queste proposizioni che riproducono descrittivamente il dover essere sono talvolta chiamate da Kelsen “regole giuridiche usate in senso descrittivo”; cfr. ibidem, pp. 166-167; KELSEN, H., La dottrina pura del diritto e la giurisprudenza analitica, cit., p. 182. Nella seconda edizione della Dottrina pura del diritto, Kelsen adotterà una terminologia idonea a distinguere ancora più chia-

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avendo la medesima struttura logica di giudizio ipotetico, esprimono una connessione tra fatti (che oltretutto, precisa Kelsen, sono esattamente gli stessi nei due tipi di regole), collegando una conseguenza ad una condizione 129 . Tuttavia, nei due casi è diverso il senso di questa connessione. Mentre la legge naturale afferma che se si verifica un evento A (la causa), si verifica o si verificherà – necessariamente o probabilmente – un evento B (l’effetto), nella “regola giuridica usata in senso descrittivo”, la condizione è connessa alla conseguenza mediante un “dover essere” per il quale se un individuo A si comporta in un dato modo, l’individuo B deve comportarsi in un determinato altro modo 130 . La giurisprudenza normativa non è dunque interessata alla conoscenza o alla previsione di ciò che accade o accadrà nel mondo dell’essere, di ciò che è o sarà, ma solo alla descrizione di ciò che deve essere. Al contrario, dice Kelsen, la giurisprudenza sociologica astrae dall’osservazione dei fatti sociali un sistema di regole che si assume siano della stessa specie delle leggi di natura e le impiega appunto per predire la condotta futura caratterizzata come giuridica entro una certa comunità 131 .

2.2.d. Il rapporto tra giurisprudenza normativa e giurisprudenza sociologica Oggetto della previsione della giurisprudenza sociologica è dunque un Sein, un comportamento umano che è o sarà; non però qualramente le norme giuridiche (Soll-Normen) dalla loro descrizione (Soll-Sätze); cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 87-92. 129 Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 175. 130 Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 167; KELSEN, H., La dottrina pura del diritto e la giurisprudenza analitica, cit., p. 182. Altrove Kelsen evidenzia un’altra importante differenza tra leggi naturali e asserzioni normative descriventi il diritto: un fatto in contrasto con la legge naturale costringe la scienza a respingere tale legge come falsa e a sostituirla con un’altra concordante con l’evento reperito. Per contro, un comportamento in contrasto con la norma giuridica (a meno che la frequenza delle violazioni non superi una certa misura) non costituisce per la scienza giuridica una ragione per considerare tale norma invalida e per sostituire la proposizione che la descrive con un’altra; cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 107. 131 Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto e la giurisprudenza analitica, cit., p. 183.

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siasi comportamento, ma solo quello che può essere qualificato come giuridico, ad esempio la decisione di un giudice. Ma quando un comportamento umano è qualificabile come “giuridico”? È qui che, a parere di Kelsen, entra in gioco la giurisprudenza normativa: essa deve essere presupposta affinché la sociologia del diritto possa definire il suo oggetto specifico come distinto da quello della sociologia generale 132 . Secondo il nostro autore, il diritto valido, così come individuato dalla giurisprudenza normativa, è per la sociologia del diritto il principio di selezione grazie al quale è possibile separare i comportamenti umani che essa intende studiare dal complesso dei fatti sociali. D’altra parte, un’analisi critica delle opinioni di Kelsen sull’argomento potrebbe portare a concludere che pure la giurisprudenza normativa, in qualche modo, presuppone la sociologica, almeno nella misura in cui la prima considera una norma giuridica valida solo se appartiene a un ordinamento giuridico nel suo complesso efficace. Kelsen stesso afferma: «Se un ordinamento giuridico perde la sua efficacia per un motivo qualsiasi, la giurisprudenza normativa non considera allora più le sue norme come valide» 133 . E ancora: La giurisprudenza normativa asserisce la validità di una norma, cioè la sua “esistenza”, solo quando tale norma appartiene ad un ordinamento giuridico efficace nel suo complesso, vale a dire quando le norme di 132

Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto e la giurisprudenza analitica, cit., p. 184. 133 Si noti che per Kelsen l’efficacia è condizione e non ragione o fondamento della validità; cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., pp. 42, 120. L’efficacia è condizione necessaria ma non sufficiente per la validità: le norme giuridiche che compongono un ordinamento non sono valide perché quest’ultimo è efficace, e tuttavia sono valide solo se esso è efficace. Nelle parole di Kelsen: «L’efficacia dell’intero ordinamento giuridico è una condizione necessaria per la validità di ogni norma dell’ordinamento. È una condicio sine qua non, non una condicio per quam. L’efficacia dell’ordinamento giuridico totale è condizione, non fondamento della validità delle norme che lo compongono. Queste sono valide non perché l’ordinamento totale è efficace, bensì perché sono state create in un modo costituzionale. Esse sono valide, tuttavia, soltanto a condizione che l’ordinamento giuridico totale sia efficace, e cessano di essere valide non soltanto quando vengono abrogate in un modo costituzionale, ma anche quando l’ordinamento totale cessa di essere efficace. Non si può quindi sostenere che, giuridicamente, gli uomini devono comportarsi in conformità di una data norma, se l’ordinamento giuridico totale, di cui quella norma è parte integrale, ha perduto la sua efficacia. Il principio di legittimità è quindi limitato dal principio di effettività»; ibidem, p. 120.

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questo ordinamento giuridico sono, in generale, obbedite da chi è soggetto a tale ordinamento o, qualora non siano obbedite, sono, in generale, applicate dai suoi organi. Le norme che la giurisprudenza normativa considera valide sono le norme che vengono di solito obbedite o applicate. […] un ordinamento giuridico è accettato come valido dalla giurisprudenza normativa soltanto se è efficace nel suo complesso, soltanto cioè se esiste un certo grado di probabilità che le sanzioni da esso dettate siano effettivamente applicate nelle circostanze che l’ordinamento prevede 134 .

La validità di un ordinamento, per esplicita ammissione di Kelsen, riposa dunque sulla sua efficacia. La validità di una norma è condizionata non solo alla sua produzione conforme alle norme di grado superiore, ma anche all’efficacia complessiva dell’ordinamento cui appartiene 135 . È però la giurisprudenza sociologica, in quanto scienza che studia l’“essere” del comportamento umano, ad avere gli strumenti per stabilire quando e quanto un certo ordinamento è complessivamente efficace; la giurisprudenza normativa, come abbiamo visto, dichiara infatti esclusivamente la propria competenza a formulare proposizioni di “dover essere”, riferendosi alla validità del diritto senza entrare nel merito delle considerazioni sulla misura della sua efficacia. Pertanto si potrebbe dire che, se in un senso la giurisprudenza sociologica presuppone la normativa, in un altro senso anche la giurisprudenza normativa presuppone la sociologica: così come senza la giurisprudenza normativa la sociologica non potrebbe isolare i comportamenti “giuridici” dalla massa dei comportamenti umani, senza la giurisprudenza sociologica la normativa non potrebbe distinguere tra ordinamenti efficaci e non efficaci, perdendo così la possibilità di individuare, nella classe degli ordinamenti, quelli (tuttora) validi (e pertanto rientranti nel proprio campo di studio e non in quello, ad esempio, della storia del diritto o della speculazione filosofica rivolta all’elaborazione di ordinamenti ideali o immaginari). Alla stessa conclusione conduce un’ulteriore considerazione. Come è noto, secondo Kelsen la validità della norma giuridica può venir meno anche per desuetudine, ovvero a seguito del protrarsi di

134

KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 173. E inoltre dalla mancata invalidazione per abrogazione o per desuetudine; cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 121. 135

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una generale inobbedienza e disapplicazione della norma 136 . Tuttavia, sull’accertamento della perdurante mancanza di efficacia che conduce alla cessazione della validità della norma giuridica per desuetudine si deve riconoscere la competenza della giurisprudenza sociologica, appunto in quanto “scienza dell’efficacia”: solo attraverso rilevazioni sull’effettivo comportamento dei destinatari della norma è possibile accertare alcune delle condizioni necessarie al perdurare della sua validità, in ispecie il fatto che essa sia nel complesso continuativamente obbedita e applicata. Da queste premesse, facilmente reperibili negli scritti di Kelsen, deriva una conclusione, peraltro non esplicitamente tratta dal nostro autore: se la giurisprudenza sociologica è scienza dell’efficacia e l’efficacia è condicio sine qua non di validità, allora la scienza della validità, vale a dire la giurisprudenza normativa, non potrà non presupporre la giurisprudenza sociologica, ovvero non potrà ignorarne del tutto i risultati. Il rapporto tra le due scienze, dunque, esiste ed è reciproco, se non paritetico 137 ; esse sono complementari, costituiscono – per ragioni diverse – l’una il princi136

Kelsen al proposito afferma: «Nell’ambito di un ordinamento giuridico efficace nel suo complesso, possono esservi delle norme isolate le quali, pur essendo valide, non sono efficaci, cioè non sono obbedite né applicate anche quando si adempiono le condizioni che esse stesse hanno posto per la loro applicazione. Ma anche in questo caso l’efficacia ha qualche rilievo nei confronti della validità. Se la norma rimane permanentemente inefficace, essa è privata della sua validità per desuetudine. […] Il problema assai dibattuto se una legge formale possa venir resa invalida per desuetudine si riduce, in definitiva, al problema se la consuetudine, come fonte del diritto, possa venire esclusa per legge nell’ambito dell’ordinamento giuridico. Per ragioni che daremo in seguito, il problema deve essere risolto negativamente. Si deve cioè ritenere che qualsiasi norma giuridica, persino una legge formale, possa perdere validità per desuetudine»; cfr. ibidem, p. 121. 137 La pariteticità potrebbe essere esclusa dal fatto che nell’ottica kelseniana, mentre la validità è ragione necessaria e sufficiente della “giuridicità” dei fatti considerati dalla giurisprudenza sociologica, la (generale) efficacia dell’ordinamento è solo condizione necessaria, e non sufficiente, per la validità delle norme giuridiche che lo compongono. La giurisprudenza normativa consentirebbe dunque di individuare in modo esaustivo ciò che costituisce oggetto della giurisprudenza sociologica; la giurisprudenza sociologica, invece, consentirebbe di accertare solo una tra le varie condizioni previste per la validità delle norme che costituiscono oggetto di studio della giurisprudenza normativa, ovvero l’efficacia (sia quella complessiva dell’ordinamento sia quelle delle sue singole norme, ai fini dell’accertamento della loro desuetudine). In questo senso, la giurisprudenza normativa si collocherebbe in una posizione di primato rispetto alla giurisprudenza sociologica, pur nel quadro di un rapporto di reciprocità tra le due scienze.

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pium individuationis dell’altra: la giurisprudenza normativa permette di selezionare, nella messe dei comportamenti sociali, quelli che, in quanto “giuridici”, costituiscono oggetto di studio della giurisprudenza sociologica; la giurisprudenza sociologica permette di selezionare tra gli ordinamenti normativi quelli che, in quanto tuttora generalmente efficaci, hanno titolo per essere considerati validi e dunque rientranti nell’oggetto di studio della giurisprudenza normativa 138 . Peraltro, Kelsen non evidenzia affatto questo carattere di reciprocità nel rapporto tra giurisprudenza normativa e giurisprudenza sociologica. Probabilmente ciò accade perché il suo intento principale, almeno nelle opere rivolte al pubblico statunitense, è quello di rivendicare la dignità e il valore di una scienza rivolta allo studio del “dover essere”, rispetto ad una mentalità giuridica tradizionalmente rivolta al pragmatismo e al predittivismo. Le pagine della Teoria generale del diritto e dello stato dedicate all’argomento, invero, contengono non solo la proclamazione dell’autonomia di una scienza giuridica intesa come conoscenza diretta ad un “dover essere”, ma anche la quasi scoperta rivendicazione di un suo ruolo di primato rispetto alla scienza giuridica sociologica. Ad essere posto in luce è infatti il ruolo della giurisprudenza normativa come presupposto della sociologica, senza che la relazione inversa venga in alcun modo presa in considerazione. Non a caso la definizione più felice, a parer di Kelsen, dell’oggetto della sociologia giuridica è quella data da Max Weber, secondo cui essa studia ciò che accade effettivamente in una società

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La giurisprudenza sociologica consente inoltre di selezionare, tra le norme giuridiche prodotte in conformità alle norme di grado superiore e non formalmente abrogate, quelle valide in quanto appartenenti ad un ordinamento efficace nel suo complesso e non desuete. Secondo Kelsen: «Il rapporto tra validità ed efficacia può essere così rappresentato: una norma è giuridicamente valida a) se è stata creata in un modo disposto dall’ordinamento giuridico a cui essa appartiene; b) se non è stata annullata in un modo disposto da quell’ordinamento giuridico, o per desuetudine, o perché l’ordinamento giuridico, preso nel suo complesso, ha perduto la sua efficacia»; cfr. ibidem, p. 121. Nella prima edizione della Dottrina pura del diritto Kelsen escludeva che la validità della singola norma venisse meno a seguito della sua mancanza di efficacia (cfr. KELSEN, H., Reine Rechtslehre (1934), trad. it. Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., pp. 103-104). Nella Teoria generale del diritto e dello stato e nella seconda edizione della Dottrina pura del diritto, invece, Kelsen ammette che la generale disapplicazione della singola norma giuridica conduca alla perdita della sua validità (cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 107; KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 177).

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allorché vi sia una certa probabilità che i suoi membri credano nella validità di un ordinamento ed orientino verso questo il loro comportamento 139 . Questa teoria implica infatti che nella mente degli uomini il diritto (pre-)esista come corpo di norme valide, come sistema normativo così come descritto dalla giurisprudenza normativa 140 . Per costituire oggetto di una sociologia del diritto, il comportamento umano deve pertanto essere determinato dall’idea di un ordinamento valido 141 . La scienza che studia la validità, secondo Kelsen, viene quindi prima della scienza che studia l’efficacia: ne costituisce il presupposto in quanto consente di delimitarne lo specifico oggetto di studio rispetto a quello della sociologia generale. La relazione inversa, quella per cui anche la giurisprudenza normativa presuppone in un certo senso la giurisprudenza sociologica, resta nell’ombra.

2.2.e. Sostanziale identità di risultati tra giurisprudenza sociologica e giurisprudenza normativa Sbagliano, dunque, secondo il nostro autore, coloro che, come Huxley, Holmes e Cardozo, ritengono che l’unica vera scienza giuridica sia quella sociologica, con il compito specifico di predire il comportamento dei membri della società. Ben potrebbe accadere, esemplifica Kelsen, che qualcuno commetta un omicidio con modalità tali da rendere estremamente improbabile l’accertamento giudiziale della sua colpevolezza. In questo caso, se si chiedesse ad un avvocato un parere su ciò che in effetti faranno i tribunali, costui risponderebbe che è assai improbabile che si emetta una condanna contro il colpevole ed è anzi probabile che lo si assolva. Tuttavia, prosegue Kelsen, questo parere non fornisce alcuna informazione sull’esistenza del dovere giuridico di non uccidere, che pure è indispensabile per la condanna del reo. Le affermazioni: “È improbabile che il tribunale condanni A; è molto probabile anzi che il tribunale lo assolva” non sono equivalenti all’affermazione: “A non ha alcun dovere giuridico di non commettere omicidio”. La regola che un giudice

139 Cfr. WEBER, M., Economia e Società, Edizioni di Comunità, Milano, 1962, citato da KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 179. 140 Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 181. 141 Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 179.

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applica in un caso concreto non contiene informazioni su come egli effettivamente deciderà, ma informazioni su come egli deve decidere: «Una regola la quale stabilisca che qualcosa è o sarà, non dice nulla ad un individuo il quale desidera sapere come deve comportarsi» 142 . Il diritto, precisa Kelsen, non è un sistema di teoremi, ma una serie di precetti; non si tratta di un insieme di conoscenze rivolte al nostro intelletto, ma di una serie di prescrizioni rivolte alla nostra volontà 143 . Le conoscenze sull’esistenza di un dover essere giuridico, dunque, sono riconducibili non direttamente al diritto, bensì alla scienza (normativa o sociologica) che lo studia; esse – diremmo oggi applicando categorie care alla filosofia linguistica – fanno capo non al discorso giuridico prescrittivo, ma al metadiscorso che lo descrive. Del tutto da respingere, pertanto, sono definizioni come quella di Holmes, secondo cui il diritto è dato dalle «profezie di ciò che faranno in effetti i tribunali» 144 . A parte le considerazioni appena riportate sul diritto come sistema di precetti e non di teoremi, definizioni di questo tenore, dice Kelsen, devono fare i conti con lo sterminato numero di casi in cui si produce un diritto “di libera creazione”, del tutto imprevedibile in quanto posto praticamente in assenza di vincoli sostanziali positivi 145 . Ciò avviene innanzitutto nel caso del diritto prodotto dal corpo legislativo, a causa della tendenza delle moderne costituzioni a porre dei limiti di carattere meramente negativo all’attività del legislatore, ma può accadere anche nel caso del diritto posto da altri organi giuridici, qualora sia ad essi attribuito un margine molto ampio di discrezionalità in ordine al contenuto degli atti giuridici da produrre (si pensi, per ciò che riguarda il diritto italiano, alle c.d. “norme penali in bianco”, attraverso cui il legislatore rimanda agli organi giuridici di grado inferiore la determinazione delle condotte concretamente punibili) 146 . In questi casi, gli atti che ven-

142

Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 172, corsivo

mio. 143

Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., pp. 168-169. Cfr. HOLMES, O.W., Collected Legal Papers, New York 1920, citato da Kelsen nella Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 169. 145 Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 171. 146 Vedi ad esempio l’art. 650 c.p., che punisce con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a lire quattrocentomila l’inosservanza dei provvedimenti “le144

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gono prodotti non possono essere previsti con un grado ragionevole di probabilità, eppure, prosegue Kelsen, non si può negare che anche essi siano diritto. Così facendo, infatti, si sarebbe costretti a negare la giuridicità della maggior parte delle regole generali di diritto statuito e consuetudinario, nonché di una parte notevole del diritto creato dal giudice. Se proprio si vuole adottare una concezione del diritto in cui la previsione giuridica rivesta un ruolo fondamentale, si deve dunque aver cura di precisare che è la scienza (sociologica) del diritto, e non il diritto stesso, a poter essere definita “scienza della predizione”; inoltre, si sarà costretti ad ammettere che il campo di ciò che può essere previsto è limitato all’attività ordinaria dei tribunali, essendo esclusa qualsiasi possibilità di previsione di atti giuridici il cui contenuto non sia determinato in notevole misura da atti normativi di grado superiore 147 . Ma come può la giurisprudenza sociologica, anche così circoscritta, prevedere con qualche successo ciò che effettivamente faranno i tribunali? Kelsen rileva che questo obbiettivo è perseguito studiando l’effettivo comportamento delle corti e tentando di ricavare un sistema di regole “reali” che ne forniscano una descrizione. Il sociologo interessato alla previsione cerca di individuare le connessioni causali tra un dato comportamento giudiziale e le circostanze di fatto che lo determinano. Se egli rileva una certa regolarità in queste connessioni, allora si sentirà autorizzato a formulare delle regole utilizzabili per predire che certe circostanze rientranti nella classe di quelle che determinano (causano) con buona probabilità un certo comportamento giudiziale, saranno presumibilmente seguite proprio da quel comportamento. Il metodo della giurisprudenza sociologica si ispira dunque a quello delle scienze naturali, nella convinzione che solo quest’ultimo sia produttivo di quella scienza “empirica” dal cui novero i sociologi escludono la giurisprudenza normativa 148 ; le regole galmente dati dall’Autorità per ragioni di giustizia, di sicurezza pubblica, d’ordine pubblico o d’igiene”. 147 Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 171. 148 Come abbiamo visto, secondo Kelsen anche la giurisprudenza normativa è scienza, e non meno “empirica” della scienza naturale: «Una descrizione analitica del diritto positivo inteso come sistema di norma valide non è però meno empirica della scienza naturale, ristretta al materiale fornitole dall’esperienza. Una teoria del diritto perde il suo carattere empirico e diventa metafisica solo allorché va al di là del diritto positivo, ed enuncia proposizioni relative ad un presunto diritto naturale»

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“reali” che la giurisprudenza sociologica si sforza di astrarre dall’effettivo comportamento umano sono, secondo i suoi fautori, del tutto assimilabili alle leggi di natura 149 . Naturalmente, come abbiamo visto, Kelsen ritiene assolutamente necessario distinguere le regole “reali” dalle regole giuridiche, le leggi di natura dalle leggi umane: è da evitare ad ogni costo qualunque confusione tra prescrizioni e descrizioni e anzi, perfino nell’ambito di queste ultime, è sommamente opportuno distinguere tra proposizioni di “essere”, che predicono ciò che i tribunali effettivamente faranno in date circostanze, e proposizioni di “dover essere”, che descrivono come i tribunali devono comportarsi. Eppure, afferma Kelsen – ed il punto è di straordinaria importanza per il nostro discorso – nella misura in cui la sociologia del diritto cerca di predire l’attività degli organi creatori e applicatori del diritto (specialmente dei tribunali), i suoi risultati non possono essere molto diversi da quelli della giurisprudenza normativa 150 : ciò che la giurisprudenza sociologica predice che i tribunali decideranno è, guarda caso, quanto la giurisprudenza normativa sostiene che essi devono decidere 151 . Dati gli stessi fatti-condizione di partenza, ben difficilmente la sociologia giuridica può fare una predizione diversa da quella secondo cui i tribunali applicheranno la legge riconosciuta valida dalla giurisprudenza normativa, decidendo sui casi concreti in modo conforme a ciò che tale legge prescrive. Kelsen ritiene che la spiegazione di questa sostanziale identità tra i risultati delle due scienze risieda nel fatto che la giurisprudenza normativa considera le norme giuridiche come valide solo se appartengono ad un ordinamento giuridico che sia generalmente efficace, cioè effettivamente (KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 166). Vedi anche ibidem, pp. XXII-XXIII; 13. 149 In particolare, si tratterebbe di “leggi di probabilità”, ovvero leggi naturali che descrivono una connessione tra causa ed effetto non configurabile «come un rapporto di necessità assoluta, ma soltanto come un rapporto di probabilità» (KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 165). 150 Kelsen precisa che la reale differenza tra questi risultati riguarda il senso delle proposizioni impiegate dalla giurisprudenza normativa e dalla sociologica: nel primo caso di tratta di descrizioni di dover essere, nel secondo caso di descrizioni di essere. Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto e la giurisprudenza analitica, cit., p. 184; KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 176. 151 Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 175.

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obbedito e applicato nel suo complesso. Se un ordinamento giuridico è nel complesso obbedito e applicato, argomenta Kelsen, allora vi sarà la maggiore probabilità che i tribunali decidano effettivamente così come devono decidere secondo la giurisprudenza normativa. Per contro, se la giurisprudenza normativa non individua alcuna norma preesistente secondo cui i tribunali devono decidere su un caso concreto, neanche la giurisprudenza sociologica potrà predire come il tribunale deciderà 152 . Manca infatti qualsiasi predeterminazione della decisione del tribunale che dunque, in modo analogo al legislatore, è autorizzato a creare nuovo (e imprevedibile) diritto. Anche quest’argomentazione di Kelsen conduce al riconoscimento del carattere prioritario della giurisprudenza normativa rispetto alla sociologica: ciò che quest’ultima è in grado di accertare autonomamente è solo l’efficacia o la non efficacia dell’intero ordinamento giuridico; per la previsione del contenuto delle singole decisioni giudiziarie, invece, essa non può fare a meno delle descrizioni del diritto valido offerte dalla giurisprudenza normativa 153 . Né potrebbe obiettarsi che in effetti la decisione del singolo giudice dipende da una moltitudine di circostanze particolari e diverse da caso in caso (il suo carattere, la sua intelligenza, la sua concezione della vita, le tesi epistemologiche e morali da esso consapevolmente o inconsapevolmente sostenute ecc.). A parte il fatto che tali peculiarità sono impossibili da ricostruire o da accertare completamente e con esattezza allo stato attuale delle conoscenze, esse non hanno, secondo Kelsen, alcuna importanza ai fini di quella valutazione delle probabilità riguardo le future decisioni del giudice di cui si interessa la giurisprudenza sociologica. L’unico problema rilevante è se il giudice applicherà o non applicherà in un caso concreto il diritto quale è stato descritto dalla giurisprudenza normativa, ossia il diritto come sistema di norme valide, e «l’unica predizione possibile, sulla base della nostra conoscenza dei fatti, è che fin quando l’ordinamento giuridico totale è efficace, nel suo complesso, esiste una certa probabilità che il giudice in questione applicherà effettivamente la legge valida» 154 .

152

Cfr. Ibidem. Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 176. 154 Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 177, corsivo mio. 153

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La possibilità di previsione da parte della giurisprudenza sociologica di ciò che Kelsen chiama “funzione giuridica” è quindi, secondo lui direttamente proporzionale all’estensione con cui questa funzione è stata descritta dalla giurisprudenza normativa 155 . Ma cosa accade se la previsione avanzata alla luce del diritto valido e nel complesso efficace non si realizza in un caso di specie? Nulla: condizione per la validità dell’ordinamento giuridico non è l’efficacia di ogni singola sua norma, ma solo la sua efficacia complessiva, quindi bisogna sempre ammettere la possibilità che in singoli casi una certa norma non venga applicata né osservata 156 .

155

Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto e la giurisprudenza analitica, cit., p. 185. L’espressione “prevedibilità della funzione giuridica” è usata da Kelsen per indicare economicamente la prevedibilità del risultato dell’attività degli organi dotati di poteri di produzione normativa, dunque la prevedibilità del contenuto degli atti da essi prodotti. Tale prevedibilità sussiste se e in quanto la funzione degli organi giuridici sia determinata dall’ordinamento. Abbiamo però visto che la funzione del legislatore, in quanto determinata dall’ordinamento quasi soltanto in maniera negativa, è secondo Kelsen imprevedibile. Cfr. Teoria generale del diritto e dello stato, cit., pp. 171, 175-176. 156 Nella seconda edizione della dottrina pura del diritto Kelsen rileverà in ciò una delle differenze tra leggi naturali e leggi giuridiche (intese qui come Soll-Sätze, asserzioni di carattere generale formulate dalla scienza giuridica): la legge naturale è falsificata da un unico fatto in contrasto con essa; la legge giuridica non può essere mai invalidata da comportamenti in contrasto con essa, a meno che la loro frequenza non superi una certa misura (cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 107). A questo discorso potrebbe opporsi che le leggi naturali, come del resto riconosciuto da Kelsen, possono assumere il carattere (per usare l’espressione dello stesso autore) di “leggi di probabilità”, in cui il nesso tra causa ed effetto non viene descritto come rapporto di necessità assoluta ma solo come rapporto di probabilità. La falsificazione di queste leggi non avviene mai attraverso l’esame di un singolo caso, ma richiede la dimostrazione che le probabilità del verificarsi dell’effetto sono diverse da quanto teorizzato nella legge. Perciò potrebbe considerarsi infondata la pretesa di cogliere nella falsificabilità per opera di un singolo caso la differenza fondamentale tra leggi naturali e Soll-Sätze. Tuttavia, l’obiezione può essere superata ipotizzando che Kelsen non abbia inteso riferirsi alla falsificabilità ad opera di singoli casi (ad esempio singole decisioni giudiziali difformi da quanto previsto dalla legge) ma, più in generale, alla falsificabilità ad opera di fatti. Secondo questa interpretazione, la differenza tra leggi naturali e Soll-Sätze evidenziata da Kelsen permane perché mentre le leggi di probabilità sono comunque falsificate da circostanze di fatto (sebbene non da un singolo caso, bensì da insiemi di casi che palesino una frequenza relativa del verificarsi

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La previsione della funzione giuridica è dunque per Kelsen possibile, sebbene essa si risolva in semplici asserzioni sulla probabilità dell’effettiva applicazione del diritto valido così come individuato dalla giurisprudenza normativa 157 . I limiti delle previsioni della giurisprudenza sociologica coincidono pertanto con l’estensione delle descrizioni del diritto valido operate dalla giurisprudenza normativa. Se questa non può dire come i tribunali devono decidere su un caso concreto, neanche la giurisprudenza sociologica può predire come un certo tribunale deciderà 158 . Con un gioco di parole si potrebbe affermare che, secondo Kelsen, si può prevedere solo ciò che le norme prevedono, e (il che è lo stesso) che ciò che le norme non prevedono è imprevedibile 159 . Ciò ci riporta alla già esaminata questione della imprevedibilità del contenuto della legislazione. Secondo Kelsen tale contenuto non può essere previsto perché la costituzione determina il contenuto delle leggi future perlopiù in maniera negativa, stabilendo ciò che le leggi non devono prescrivere; tutto questo e solo questo è dunque ciò che un ipotetico previsore potrà dire circa il contenuto delle future leggi 160 . Come il contenuto di tali leggi è determinato dell’effetto diversa da quella teorizzata), le Soll-Sätze non possono esserlo, dato che esse consistono non in asserzioni su fatti ma in asserzioni su norme. 157 «Le funzioni di una comunità giuridica sono prevedibili sono in quanto sono determinate dall’ordinamento giuridico nel senso della giurisprudenza normativa»; KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 176. 158 Cfr. KELSEN, H. Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 175. 159 Gioco, com’è ovvio, basato sulla polisemia del termine “previsione”, che può essere inteso come sinonimo sia di “predizione” (“previsione” in senso conoscitivo) sia di “statuizione” (“previsione” in senso normativo). 160 Kelsen parla di “imprevedibilità” del diritto che sia il prodotto di una “libera creazione” del legislatore o del giudice (ad es. cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 171). È però forse necessaria un’avvertenza: altro è parlare di imprevedibilità, cioè di non-prevedibilità, altro è parlare di prevedibilità, sia pur negativa; la distinzione non è oziosa: se indichiamo con Y il contenuto prescrittivo delle norme che costituiscono il prodotto dell’attività legislativa, dobbiamo ammettere che una cosa è non prevedere l’emanazione di una legge che stabilisce Y, dunque non avanzare alcuna congettura su ciò che sarà legiferato, altra cosa è prevedere l’emanazione di una legge che non stabilisce Y, dunque avanzare quantomeno una previsione su ciò che non sarà stabilito dalle future leggi. In quest’ottica, con riferimento alla funzione legislativa, si potrebbe sostenere che Kelsen, alla luce di quanto afferma sulla prevedibilità di ciò che è normativamente previsto, avrebbe dovuto parlare non di “imprevedibilità” di ciò che sarà legiferato, ma di “prevedibilità di ciò che non sarà legiferato”, le due cose non essendo affatto equivalenti. È

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negativamente dalla costituzione, anche le previsioni su tale contenuto non potranno che essere previsioni negative, della forma: “È probabile che la legge Y non stabilisca X”, dove X è una prescrizione confliggente con i divieti che la costituzione stabilisce circa il contenuto degli atti emanati dal corpo legislativo 161 . La sovrapponibilità tra previsione giuridica in senso normativo e previsione giuridica in senso conoscitivo vale anche per gli altri gradi dell’ordinamento e persino per il diritto consuetudinario 162 . Come abbiamo visto, vi sono casi in cui i tribunali sono autorizzati a creare nuovo diritto senza essere vincolati da limiti sostanziali preesistenti. In questi casi la giurisprudenza normativa non fornisce alcuna informazione sul contenuto degli atti da produrre, di conseguenza neanche la giurisprudenza sociologica può avanzare una previsione attendibile su tale contenuto. Nulla è (normativamente) previsto, pertanto nulla si può (conoscitivamente) prevedere. Se per contro esiste una norma generale di diritto consuetudinario che determina la decisione del tribunale, la più probabile previsione che la giurisprudenza sociologica può avanzare, afferma Kelsen, è quella secondo cui il contenuto della decisione sarà conforme a quanto stabilisce la consuetudine 163 . Anche in questo caso non vi è alcuna discrepanza tra giurisprudenza sociologica e normativa, perché quest’ultima riconosce validità giuridica a una norma sorta a seguito di ripetizione di una condotta accompagnata da un sentimento di doverosità della medesima: di nuovo ciò che è prevedibile coincide con ciò che è previsto 164 . ovvio che il nostro autore parla di “imprevedibilità” della funzione legislativa perché le moderne costituzioni determinano solo in parte relativamente modesta il contenuto degli atti prodotti dal corpo legislativo, rendendo praticamente impossibile prevedere positivamente il contenuto della legislazione ancora non prodotta. È dunque alla non-prevedibilità positiva del contenuto della legislazione, e non alla nonprevedibilità tout court che Kelsen si riferisce quando parla di “imprevedibilità della funzione legislativa”; è in quel senso che l’espressione verrà impiegata nel prosieguo della trattazione sulla teoria kelseniana della certezza-prevedibilità. 161 Ciò, naturalmente, non impedisce che il legislatore emani una legge non conforme a quanto previsto dalla costituzione. Di questo problema e dei suoi riflessi sulla materia della previsione giuridica in un’ottica coerente con la dottrina kelseniana parlerò nel § 2.4.h. 162 Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., pp. 175-176. 163 Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 175. 164 Kelsen, dunque, non sembra tenere in alcun conto il fatto che ci sono altre norme sociali non giuridiche che possono aiutare in una previsione di decisioni di-

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In conclusione: per Kelsen la previsione della funzione giuridica è possibile e rientra nella competenza della giurisprudenza sociologica. Tuttavia, per usare le sue parole, «questa scienza non può considerare probabile nessun’altra decisione, all’infuori di quella che la giurisprudenza normativa dichiara legittima» 165 . La giurisprudenza normativa, pertanto, benché non direttamente interessata alla previsione giuridica, diventa un ineludibile strumento indiretto di previsione; nessun previsore può sperare di ottenere successi senza tener conto dei suoi risultati, e anzi questi, se si eccettua la loro natura di proposizioni che descrivono un dover essere e non un essere futuro, sono quasi sempre conformi a quelli della giurisprudenza sociologica 166 . Per questa via essi informano ed esauriscono il contenuto delle previsioni stesse; ecco perché si può affermare che in un’ottica kelseniana ciò che è prevedibile coincide con ciò che è normativamente previsto, cioè prescritto.

2.2.f. La certezza del diritto nella Dottrina pura del 1960 Nella seconda edizione della Dottrina pura del diritto, Kelsen ribadisce quanto affermato nella Teoria generale del diritto e dello stato a proposito della giurisprudenza sociologica, con alcune precisazioni. Innanzitutto, egli sottolinea che la previsione giuridica, nella misura in cui è possibile, non rientra tra i compiti della scienza del diritto perché questa può descrivere le norme generali o individuali soltanto dopo che esse sono entrate in vigore 167 . È certamente vero che quando un ordinamento giuridico è efficace si possono avanzare previsioni del tipo: “Se le condizioni stabilite dalle norme giuridiche esistono anche di fatto, probabilmente si verificheranno le conseguenze ricollegate da queste norme a queste condizioni”, ma ancora una volta si nega che la formulazione di tali previsioni costituisca la finalità della scienza giuridica 168 . Lo scienziato del discrezionali e ci sono fattori sociali non normativi che pure possono aiutare tali previsioni (vedi infra, cap. 3). 165 Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 177. 166 Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 176. 167 Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 107-108; KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., pp. 104-109. 168 Si noti come ora Kelsen escluda la previsione dalle finalità della scienza giuridica tout court, e non solo da quelle della scienza giuridica normativa. Nella Teoria generale del diritto e dello stato i toni erano più cauti, probabilmente a causa della necessità di divulgare e promuovere la dottrina pura del diritto nell’ambito di

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ritto non ragiona in termini di causalità, ma in termini di imputazione 169 ; la norma giuridica istituisce appunto un rapporto di tale stregua tra una fattispecie condizionante e una conseguenza condizionata, e la proposizione normativa (Soll-sätz) della scienza giuridica si limita a descrivere questo nesso, senza dire alcunché sull’effettivo verificarsi della conseguenza stabilita dalla norma. Per questo, a differenza dalle leggi naturali, le proposizioni formulate dalla scienza giuridica non sono falsificate da singoli casi in cui i comportamenti effettivamente tenuti dai destinatari delle norme non sono conformi a quanto da esse previsto. Ancora una volta, insomma, Kelsen ribadisce che le proposizioni della scienza giuridica, in quanto proposizioni normative, nulla dicono sul Sein, cioè su eventi presenti, passati o futuri. Ancor più rilevante ai nostri fini è il fatto che nella seconda edizione della Dottrina pura Kelsen riprenda a parlare di “certezza del diritto”. Non si assiste però più alla perentoria condanna di un qualcosa visto come il frutto di un’illusione indotta dal formalismo interpretativo, ma al riconoscimento di una certezza intesa come parziale prevedibilità delle decisioni giuridiche, compatibile sia con la plurivocità dell’interpretazione giuridica, sia con la struttura dinamica dell’ordinamento 170 . La certezza giuridica è infatti ora concepita da una cultura giuridica come quella nordamericana, tradizionalmente orientata verso indirizzi realistici e sociologici; nella seconda Dottrina pura le posizioni di Kelsen divengono più intransigenti: si rivendica alla giurisprudenza normativa il ruolo di scienza giuridica esclusiva, o quantomeno si sminuisce notevolmente il valore teorico della giurisprudenza sociologica, non in grado – secondo l’autore – di cogliere il senso specifico del diritto (cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 104-109). 169 Già nel 1950 Kelsen aveva concluso la sua ricerca sui rapporti tra il principio di causalità e il principio di imputazione che esprime il collegamento tra condizione e conseguenza nelle proposizioni giuridiche (cfr. KELSEN, H., Causality and Imputation, in Ethics, vol LXI, 1950, pp. 1-11, trad. it. Causalità e imputazione, pubblicato in appendice ai Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., pp. 207-227). 170 C’è chi vede in ciò un completo abbandono, da parte del Kelsen della seconda edizione della Dottrina pura, delle proprie precedenti posizioni in materia di certezza giuridica (cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, Giuffrè, Milano 1979, p. 26). Il primo Kelsen avrebbe per lungo tempo mantenuto una posizione radicalmente scettica nei confronti di una certezza vista come illusoria pretesa di prevedere un diritto in realtà imprevedibile, a causa dell’ineliminabile discrezionalità di cui gli organi giuridici godono nell’applicazione delle norme di grado superiore. In seguito, Kelsen sarebbe pervenuto a risultati sostanzialmente diversi e più

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Kelsen come relativa prevedibilità del diritto prodotto dagli organi giuridici inferiori, quelli cioè che, collocati ai gradi più bassi dello Stufenbau, danno una soluzione giuridica ai casi concreti ponendo norme individuali nei limiti formali e sostanziali stabiliti dalle norme generali di grado superiore. Si tratta dunque, conformemente alle concezioni tradizionali in materia, di una certezza giuridica intesa come prevedibilità del contenuto normativo degli atti giurisdizionali e amministrativi; essa reca con sé il vantaggio di consentire agli individui di programmare la propria condotta consapevoli delle conseguenze giuridiche che ne deriveranno 171 . Ebbene, secondo Kelsen tale certezza è in qualche misura realizzabile, e lo è massimamente negli ordinamenti che si avvicinano ad un modello di sistema giuridico in cui la produzione di norme generali sia completamente accentrata in quanto riservata ad un organo legislativo centrale, e in cui la produzione di norme individuali sia demandata ad organi giuridici di grado inferiore (per l’appunto i tribunali e gli organi amministrativi), che si limitino ad applicare le norme prodotte dal legislatore 172 . Nei modelli caratterizzati da radicale decentramento nella produzione del diritto, in cui non esiste alcun organo legislativo centrale bensì spetta conformi alla tradizione del positivismo giuridico, ammettendo la realizzabilità di un certo grado di certezza giuridica almeno in quegli ordinamenti in cui la produzione di norme generali è riservata ad un organo legislativo centrale. Contro questa ricostruzione delle posizioni kelseniane in tema di certezza giuridica argomenta Claudio Luzzati, che sostiene che le apparenti oscillazioni di Kelsen su questa materia dipendono semplicemente dal fatto che egli discute sopra due concezioni diverse di certezza, una assolutistica e l’altra relativistica (cfr. LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., pp. 244-248). Il Kelsen del 1960 non avrebbe affatto cambiato idea sulla certezza intesa come pretesa di poter prevedere sempre e comunque la soluzione giuridica di un caso concreto. Piuttosto, nella seconda edizione della Dottrina pura, egli avrebbe affiancato alla critica di questa concezione fallace un’idea di certezza giuridica intesa come caratteristica relativa e graduabile, compatibile con la struttura a gradi dell’ordinamento e con la plurivocità del significato delle norme giuridiche, giungendo ad ammetterne la parziale realizzabilità. 171 Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 282-283. 172 Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 282-283. Quest’assunto si ricollega a ciò che Kelsen dice nei lavori precedenti sulla prevedibilità della funzione giuridica in generale: a poter essere previste con un grado ragionevole di probabilità sono soltanto le decisioni degli organi che siano in certa misura vincolati quanto al contenuto delle norme da produrre. Le norme poste dal legislatore, o dal giudice che agisce come legislatore, non possono essere previste (positivamente) perché prodotte in assenza o carenza di tali vincoli sostanziali (vedi anche infra, questo stesso §).

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agli organi amministrativi e giudiziari risolvere i casi individuali secondo il proprio apprezzamento discrezionale, non è invece affatto possibile prevedere il modo in cui saranno risolti i casi concreti. Tali sistemi garantiscono però una maggiore flessibilità del diritto, dato che è possibile decidere sul caso singolo in modo da tener conto delle caratteristiche peculiari che esso presenta, in conformità ad esigenze di giustizia presentate come incompatibili con qualunque predeterminazione di contenuto della decisione da parte di norme generali 173 . Tuttavia, secondo Kelsen, è assai dubbio che questa maggior flessibilità comporti un bonus di giustizia delle decisioni rispetto ai sistemi in cui le stesse sono ancorate alle norme generali di diritto legislativo o consuetudinario 174 . È invece sicuro che nei sistemi caratterizzati da una produzione normativa generale radicalmente decentrata venga a mancare ogni certezza, poiché in questi casi difetta del tutto la possibilità degli individui di conoscere in anticipo ciò che è permesso o vietato, o ciò che si è o non si è autorizzati a fare 175 . Solo dopo la sentenza, e per mezzo della sanzione, del proscioglimento, dell’accoglimento o del rigetto da questa disposti, i soggetti sottoposti al diritto potranno accedere a queste conoscenze, con l’ovvia conseguenza che prima di tale momento essi non avranno alcuna possibilità di

173 Ovviamente, tale argomentazione a sostegno della “libera ricerca del diritto” (freie Rechtsfindung) non convince Kelsen, che rileva come in questi sistemi la mancata applicazione di norme generali nel procedimento di produzione giuridica della sentenza giudiziaria o dell’atto amministrativo sia più apparente che reale. Quando l’organo competente a risolvere il caso concreto decide tenendo conto di tutte le sue particolarità, in modo da assicurare una soluzione “giusta”, esso continua in realtà ad applicare una norma generale, con la sola differenza che tale norma non è stata precedentemente prodotta dalla legislazione o dalla consuetudine, ma viene formulata ad hoc dallo stesso organo in base ad un proprio ideale di giustizia (dotato ovviamente di valore relativo). Infatti, la norma su cui si fonda il valore della giustizia, secondo Kelsen, deve avere per sua natura carattere generale. La differenza tra il sistema della libera ricerca del diritto e il sistema della ricerca ancorata alla legge o alla consuetudine consiste allora solo nel fatto che nel primo caso la norma generale costituita dall’ideale di giustizia del giudice si applica in luogo delle norme generali legislative o consuetudinarie, a loro volta frutto di ideali di giustizia di altri soggetti (quello del legislatore o quello diffuso nella comunità). In ogni caso, il valore di giustizia realizzato da tutte queste norme generali non può che avere carattere relativo. Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 283-285. 174 Vedi nota precedente. 175 Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 283.

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programmare la propria condotta tenendo conto dei propri diritti, obblighi, oneri ecc. Ora, i vari ordinamenti storicamente esistenti si collocano da qualche parte tra questi modelli ideali estremi; nel loro ambito la certezza giuridica si realizza in misura direttamente proporzionale al grado di accentramento e in misura inversamente proporzionale al grado di decentramento della funzione di produzione di norme generali 176 . Ciò è presto spiegato: l’attività dei tribunali e degli organi amministrativi che operano all’interno degli ordinamenti tendenti al modello della produzione normativa accentrata è caratterizzata dalla prevalenza del momento “applicativo” del diritto su quello “creativo” o “produttivo”; qui le autorità inferiori «si limitano ad applicare ai casi concreti le norme generali prodotte dall’organo legislativo centrale» 177 ; viceversa, negli ordinamenti tendenti al modello della produzione normativa decentrata, l’attività degli organi di grado inferiore è soprattutto di creazione di diritto, se con quest’espressione si indica la posizione di atti giuridici dal contenuto normativo per nulla o solo in piccola parte determinato da atti di grado superiore. Peraltro, sappiamo che nella dottrina kelseniana ogni atto giuridico (con l’eccezione della norma fondamentale e degli atti meramente esecutivi di ordini amministrativi e sentenze) è, insieme, produzione ed applicazione di diritto 178 . Il diritto produce sé stesso, in un processo di individualizzazione e concretizzazione delle norme sempre crescente che, per usare le parole di Kelsen, «va dal generale (o astratto) al particolare (o concreto)» 179 . Qualsiasi atto giuridico è dunque, contemporaneamente, applicazione di una norma superiore e produzione di una norma inferiore secondo le modalità previste dalla prima; tuttavia, man mano che si scende lungo la costruzione a gradi, il momento dell’esecuzione tende a prevalere su quello della creazione, giacché aumentano i vincoli cui è soggetto il contenuto normativo degli atti delle autorità normatrici. Per questo motivo si osserva solitamente che il giudice determina il contenuto della sentenza con una discrezionalità relativamente minore di quella di cui gode il legislato-

176

Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 285. Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 282, corsivo mio. 178 Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 265. 179 Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 267. 177

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re nella determinazione del contenuto della legge. Nondimeno, può talvolta accadere – e nei sistemi tendenti al modello della produzione normativa decentrata accade sovente – che i giudici e le altre autorità inferiori si trovino ad esercitare una libertà di scelta in ordine al contenuto degli atti da produrre paragonabile a quella di cui godono i legislatori 180 . Naturalmente vi sono sempre delle norme di grado superiore cui tali organi debbono attenersi, ma queste pongono soprattutto – o soltanto – vincoli formali, stabilendo quali sono le autorità competenti e/o quali sono le procedure necessarie ai fini della produzione dell’atto, senza disporre alcunché su ciò che riguarda il contenuto prescrittivo dello stesso. Ebbene, in questi casi, gli individui interessati alla previsione dell’atto saranno in grado di prevedere soltanto che esso verrà posto dagli organi stabiliti dalle norme superiori e tramite le procedure da queste fissate; non saranno in grado di prevedere alcunché sul suo contenuto e non potranno programmare i propri comportamenti di conseguenza. Ora, secondo Kelsen, il vantaggio della certezza del diritto consiste precisamente nel fatto che «la decisione giurisdizionale è in certa misura prevedibile e quindi i soggetti sottoposti al diritto possono tenerne conto, comportandosi in modo conforme alla prevedibile sentenza del tribunale» 181 . Tuttavia, questo vantaggio sussiste solo se essi sono in grado di figurarsi, almeno grosso modo, ciò che la sentenza disporrà come conseguenza delle proprie azioni, assai meno rilevanti essendo, a questo riguardo, le considerazioni sulla competenza dell’organo o sulla procedura adottata per pervenire alla decisione. È soprattutto il contenuto normativo della sentenza che deve essere prevedibile affinché gli individui godano del vantaggio di operare scelte pratiche giuridicamente consapevoli, ovvero scelte che tengano conto di informazioni di carattere giuridico come elementi pro o contra una determinata linea d’azione; il fatto che Kelsen faccia esplicito riferimento alla possibilità degli individui di programmare la propria condotta tenendo conto delle conseguenze giuridiche che presumibilmente ne deriveranno implica che la certezza del diritto è da lui intesa in primo luogo come certezza del contenuto del diritto, cioè come prevedibilità del disposto del-

180

Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 266; 283. Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 282-283. Stesso discorso per gli atti amministrativi (cfr. ibidem). 181

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le norme individuali prodotte mediante i provvedimenti giurisdizionali e le decisioni amministrative. Risulta dunque chiaro perché, secondo Kelsen, i sistemi che tendono al modello della produzione normativa accentrata realizzano un maggior grado di certezza del diritto: nel loro ambito, il contenuto delle sentenze giudiziarie o delle decisioni amministrative può essere in qualche misura previsto, appunto perché determinato per la gran parte da atti normativi di grado superiore e solo in misura minore dall’imprevedibile discrezionalità degli organi inferiori. Al contrario, nei sistemi tendenti al modello della produzione normativa decentrata e della libera ricerca del diritto, la certezza non si realizza perché tutto ciò che si può prevedere sull’atto è limitato alla sua forma, ossia all’organo competente e alla procedura stabilita per la sua produzione; in questi casi il contenuto degli atti di grado inferiore non è determinato dagli atti normativi superiori bensì dalle scelte discrezionali dei giudici e delle autorità amministrative, scelte il cui esito – per tornare al nostro gioco di parole – è per Kelsen imprevedibile in quanto non normativamente previsto. Non bisogna però pensare che la “causa” della mancanza di certezza sia direttamente la discrezionalità; piuttosto, il ricorso al “riempitivo” della discrezionalità è reso necessario dalla più o meno considerevole indeterminatezza relativa del grado inferiore rispetto al superiore 182 ; maggiore è il grado di tale indeterminatezza (intenzionale o meno), minore sarà la prevedibilità del contenuto dell’atto di grado inferiore 183 . Mancanza di certezza e ricorso alla discrezionalità sono dunque entrambi, per così dire, side effects dell’indeterminatezza del contenuto degli atti inferiori, anche se operano a livelli diversi (rispettivamente sul piano dell’interpretazione scientifica, come imprevedibilità del contenuto dell’atto di grado inferiore, e su quello dell’interpretazione autentica, come plus di volontà dell’organo chiamato a scegliere tra le possibilità applicative rese possibili dallo schema rappresentato dalla norma superiore) 184 . In altre 182 Sull’indeterminatezza normativa secondo Kelsen cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 382 ss. 183 Incidentalmente, potrebbe rilevarsi che Kelsen non indica un criterio che ci consenta di stabilire se l’atto di grado di grado inferiore sia indeterminato intenzionalmente o no. 184 Ricordo che Kelsen parla di interpretazione “autentica” in un senso particolare: per Kelsen è autentica l’interpretazione del diritto operata da parte dell’organo che deve applicarlo. Da questa interpretazione deve essere nettamente distinta quella

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parole: la discrezionalità è l’effetto dell’indeterminatezza sul piano dell’interpretazione autentica (in senso kelseniano), la mancanza di certezza è l’effetto dell’indeterminatezza sul piano dell’interpretazione scientifica. Non è pertanto corretto asserire che la mancanza di certezza dipende dalla discrezionalità del giudizio; al più si può rilevare come in un’ottica giuspositivistica la discrezionalità si accompagni necessariamente ad una mancanza di certezza, in quanto entrambe sono proporzionali al grado di indeterminatezza relativa dell’atto con cui si applica il diritto. Tale indeterminatezza, sostiene Kelsen, caratterizza in misura maggiore gli atti di grado inferiore posti in essere nell’ambito dei sistemi a produzione normativa decentrata ed in misura minore quelli posti in essere nei sistemi a produzione normativa accentrata. È per questa ragione che nei secondi la certezza giuridica può in qualche misura realizzarsi mentre nei primi no 185 . In ogni caso, secondo Kelsen deve escludersi che finanche nei sistemi a produzione normativa accentrata, possa realizzarsi una certezza assoluta. Per quanto in presenza di determinate circostanze sia possibile per gli individui anticipare il contenuto degli atti a carattere prevalentemente “applicativo”, è escluso che le loro previsioni siano infallibili e dunque sempre e comunque seguite da decisioni conformi a quanto previsto. Ad impedire ciò (e qui Kelsen ribadisce quanto affermato nella Dottrina pura del 1934) è il fatto che l’indeterminatezza del grado inferiore rispetto al grado superiore non può mai essere completamente evitata: la norma superiore non può vincolare in tutte le direzioni l’atto mediante il quale viene eseguita 186 . Anche nei sistemi in cui la produzione di norme generali è riservata esclusivamente ad un organo legislativo centrale, dunque, rimane sempre un inevitabile margine di discrezionalità di cui si avvalgono le autorità inferiori nella determinazione del contenuto degli atti che rientrano compiuta da coloro che non sono investiti di alcun potere di applicazione del diritto: persone private e, in particolar modo, scienza giuridica. Quest’ultima forma di interpretazione, puramente teorica, è qui indicata come “scientifica”. Vedi anche infra, questo stesso paragrafo. 185 Nel paragrafo 4.3.g (in nota) vedremo però che l’idea di Kelsen secondo cui la certezza del diritto è funzione dell'accentramento o del decentramento della produzione normativa presenta più di un punto debole. 186 Perfino un semplice ordine, «per quanto specifico, deve affidare una gran quantità di particolari a chi lo esegue»; KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 382.

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nelle loro competenze; a questa discrezionalità, sul piano dell’interpretazione scientifica, corrisponde necessariamente una mancanza di certezza sul contenuto di tali atti. Lo schema rappresentato dalla norma di grado superiore viene riempito attraverso un atto di volontà dell’autorità inferiore, imprevedibile (in senso conoscitivo) proprio perché specifica il contenuto dell’atto in modo non previsto (in senso normativo). Da ciò segue che l’infallibilità nella previsione non è raggiungibile perché non è possibile individuare sempre un’unica interpretazione “esatta” delle norme giuridiche. La conoscenza giuridica del cittadino, come pure quella dello scienziato del diritto, non può che limitarsi alla constatazione dello schema rappresentato dalla norma da interpretare e, con ciò, al riconoscimento delle varie possibilità applicative da esso consentite. È sommamente opportuno, a questo proposito, distinguere l’interpretazione scientifica del diritto dall’interpretazione compiuta dagli organi incaricati di applicarlo 187 . Quest’ultima è autentica, nel senso che produce diritto: essa assomma all’attività di interpretazione teorica con cui si rilevano i vari possibili significati della norma da applicare un atto di volontà attraverso il quale si compie una scelta tra le possibilità rilevate. Tuttavia, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, l’esito di tale scelta non può secondo Kelsen essere conosciuto in anticipo dalla scienza del diritto: cercare di prevedere la scelta tra una qualsiasi tra le norme individuali che sono possibili entro lo schema della norma generale conduce inevitabilmente fuori dalla dottrina pura, portandoci verso considerazioni prive di carattere scientifico sulla “bontà” o sulla “giustizia” delle possibili soluzioni alternative o verso la giurisprudenza sociologica e le sue leggi probabilistiche e causali.

2.2.g. Due problemi per un previsore “kelsenista” Potremmo a questo punto raccogliere le fila del nostro discorso sulla certezza-prevedibilità secondo Kelsen e chiederci quali siano le conseguenze di tutto ciò per l’attività di un ipotetico previsore “kelsenista”, intendendo con questa espressione colui che, pur muovendo da premesse il più possibile coerenti con la dottrina kelseniana, per

187

Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 385-390.

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qualunque ragione sia interessato alla previsione del contenuto di un futuro singolo atto giuridico. Parlare di previsori “kelsenisti” potrebbe sembrare contraddittorio. Abbiamo infatti visto che la Dottrina pura del 1960 esclude recisamente che la previsione giuridica rientri tra i compiti della scienza del diritto. Un giuspositivista deve dunque abbandonare sul nascere ogni tentativo di previsione del contenuto delle future decisioni giuridiche? O è possibile “sporcare” la dottrina pura adoperandola anche come strumento predittivo, dunque rivolto alla conoscenza del Sein? Si è detto che nell’ammettere la realizzabilità di un certo grado di certezza del diritto, Kelsen riconosce il “vantaggio” della possibilità di prevedere in qualche misura le conseguenze giuridiche di atti o fatti e anzi, proprio nella conclusione della seconda Dottrina pura, raccomanda l’impiego di tecniche di legal drafting idonee a favorire la massima chiarezza delle disposizioni normative. Inoltre, almeno fino al 1945, il nostro autore riconosce il carattere scientifico dell’attività conoscitiva rivolta alla previsione di un Sein giuridico, e anzi si spinge ad affermare che i risultati di quest’attività non possono discostarsi di molto da quelli raggiunti dalla giurisprudenza normativa. Insomma, la previsione giuridica è sì esclusa dai compiti della scienza del diritto, ma quest’ultima diventa fondamentale come strumento indiretto di previsione, dato che consente di individuare le norme valide, cioè le norme che negli ordinamenti generalmente efficaci hanno la maggior probabilità di essere effettivamente applicate. A questo punto, un teorico giuspositivista interessato per qualsiasi ragione a prevedere la soluzione giuridica di un caso concreto, uscendo dall’ortodossia kelseniana, potrebbe pensare bene di sfruttare a suo vantaggio la sovrapponibilità tra ciò che è normativamente previsto e ciò che è teoreticamente prevedibile, impiegando le norme come strumento indiretto di previsione giuridica (a differenza dei realisti americani, che le impiegano come strumento diretto di previsione). In questo paragrafo e in quello successivo vorrei pertanto parlare di due problemi che un previsore di questo tipo, che continuo nonostante tutto a chiamare “kelsenista”, si troverebbe prima o poi a dover affrontare. Nel paragrafo precedente si è ricordato come l’interpretazione scientifica, secondo Kelsen, non conduca ad un unico risultato esatto, ma a più risultati possibili, ognuno corrispondente ad un atto lecito in quanto conforme allo schema fissato dal diritto che si interpreta. Da ciò segue che la previsione giuridica, ove sia basata esclusivamente

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su tale interpretazione, non potrà che assumere carattere alternativo, indicando una rosa di risultati tutti giuridicamente possibili in base allo schema rappresentato dalla norma che il decisore è chiamato ad applicare. Il nostro interprete kelsenista non potrà che limitarsi ad affermare che il giudice adotterà la decisione d1 se sceglierà il significato i1 della norma n, d2 se sceglierà il significato i2, d3 se sceglierà il significato i3, e così via per ciascuno dei significati che è possibile ricavare dalla formulazione linguistica della norma. Più ampio è lo schema rappresentato dalla norma da interpretare, ovvero maggiore è il numero delle sue possibilità applicative, più si apre il ventaglio delle previsioni alternative che saranno avanzate in ordine alla soluzione giuridica di un caso cui quella norma deve essere applicata. Si noti: 1) che un previsore le cui conoscenze sono circoscritte al diritto positivo (kelsenianamente considerato) dovrà assumere come equiprobabili le possibilità interpretative alternativamente ricavabili dallo schema della norma, essendo la scelta tra tali alternative dipendente da fattori imponderabili dal punto di vista della scienza giuridica, cioè da norme della morale, della giustizia, giudizi di valore sociali ecc. «sulla [cui] validità e determinabilità non si può dir nulla dal punto di vista del diritto positivo» 188 ; 2) che il grado di certezza sopra una singola soluzione giuridica prevista diminuisce in ragione del numero delle alternative possibili 189 . È chiaro che se la norma 188

KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto (1934), cit., p. 124. Si assuma che il grado di certezza di un previsore sopra una soluzione giuridica (sentenza, atto amministrativo) d sia P(d). Tale valore, nell’interpretazione classica della teoria della probabilità, indica il grado di credenza razionale del previsore sul verificarsi di d, e può essere rappresentato con un numero compreso tra 0 e 1 (0 indica la certezza sull’impossibilità di d, 1 indica l’assoluta sicurezza sul verificarsi di d). Ora, immaginiamo per assurdo che un caso di cui si intende prevedere la soluzione giuridica rientri nella fattispecie f della norma n, e che questa sia interpretabile univocamente, come giudizio ipotetico che ricollega alla condizione c la conseguenza d. In questo caso, si potrebbe affermare che è possibile prevedere d con un grado di certezza di 1, e che dunque P(d) = 1. Supponiamo invece, più realisticamente, che l’interpretazione di n non sia univoca, e che sia possibile anche una soluzione interpretativa che ricollega alla fattispecie f la conseguenza giuridica d1. In questo caso, volendo rimaner coerenti con le posizioni kelseniane, dovremmo ammettere che il decisore-interprete esercita un potere di scelta discrezionale tra la soluzione d e la soluzione d1, e che il previsore non ha modo di prevedere l’esito di tale scelta, in quanto questa dipende da imponderabili fattori extragiuridici. Per questa ragione, il previsore non potrà che considerare equiprobabili le due interpretazioni alternative, assegnando a ciascuna delle decisioni corrispondenti un grado di 189

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superiore non stabilisce alcun limite di contenuto per la norma inferiore, determinando soltanto la procedura necessaria per la produzione, l’autorità competente o la forma dell’atto, essa rappresenterà uno schema aperto ad un numero pressoché infinito di possibilità applicative, rendendo qualunque previsione del tutto inutile a fini pratici. Tutto ciò che potrà essere previsto in questi casi (sempre in base all’assunto per cui è prevedibile solo ciò che è normativamente previsto) è che l’atto per mezzo del quale viene posta la norma individuale sarà prodotto dall’organo a ciò competente secondo le procedure giuridicamente stabilite; il contenuto della norma sarà invece imprevedibile, o meglio, le alternative previste saranno in numero tale da rendere la previsione irrilevante per le scelte pratiche degli individui 190 . Anche al di fuori di questo caso limite, bisogna riconoscere che il carattere alternativo della previsione giuridica può costituire un problema per la realizzazione di una certezza del diritto intesa come credenza pari a 0,5. Lo stesso ragionamento vale se le interpretazioni possibili di n sono tre; in questo caso avremo che P(d) = P(d1) = P(d2) = 0,33. Se le interpretazioni possibili sono quattro, avremo che P(d) = P(d1) = P(d2) = P(d3) = 0,25, e così via, con una diminuzione del grado di certezza sopra ciascuna delle alternative proporzionale all’aumento del loro numero. 190 Si consideri il primo comma dell’art. 2 del R.D. 773 del 1931 (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza): «Il prefetto, nel caso di urgenza o per grave necessità pubblica, ha facoltà di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica». Si noti che l’inosservanza di tali provvedimenti è penalmente sanzionata (art. 650 c.p). Si tratta di un buon esempio di mancanza di prevedibilità delle conseguenze giuridiche di atti o fatti: l’incertezza riguarda infatti sia l’an di quei provvedimenti, essendo le espressioni “urgenza” e “grave necessità pubblica” che fissano la fattispecie condizionante assai vaghe, sia l’entità delle conseguenze giuridiche fissate dai “provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica”, dal contenuto non meglio specificato. Tutto ciò che i cittadini possono prevedere grazie a questa norma è che se il prefetto ravviserà una situazione che egli qualifica come d’“urgenza” o di “grave necessità pubblica” allora esso emanerà dei provvedimenti che egli ritiene essere indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica. Il contenuto di questi, e dunque la determinazione positiva dei doveri dei cittadini in una situazione di urgenza e grave necessità, è da un punto di vista giuspositivistico assolutamente imprevedibile, dato che le alternative possibili, pur nell’ambito dei limiti stabiliti dall’ordinamento considerato nel suo complesso, sono virtualmente infinite. Le possibilità di previsione, ovviamente, aumentano qualora si consideri anche la prassi degli interventi adottati in circostanze considerate analoghe a quelle attuali. Si esce però dall’ottica giuspositivista-kelseniana, l’unica di cui mi occupo in questa parte del lavoro; riprenderò in seguito questo discorso (vedi infra, capitolo 4).

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guida utile per le scelte pratiche degli individui. Infatti, più ampio e vario è il ventaglio delle alternative previste, minore sarà il contenuto informativo della previsione giuridica complessiva, se con questa espressione indichiamo la previsione che copre tutte le soluzioni validamente applicabili ad un caso singolo, e che dunque tiene conto di tutte le alternative interpretative possibili. È noto infatti che il contenuto informativo di un enunciato – descrittivo o prescrittivo che sia – diminuisce in proporzione alla sua genericità 191 . Una previsione complessiva molto generica, ovvero comprensiva di un numero notevole di alternative tutte giuridicamente possibili per la soluzione di un dato caso, ha un valore informativo ridotto rispetto ad una previsione complessiva relativamente specifica, perché risulta verificata in un’ampia gamma di situazioni, magari assai differenti tra loro e cariche di diverse conseguenze pratiche per gli interessati. Una cosa è prevedere che Tizio, a seguito del suo comportamento, subirà una condanna penale (potrebbe trattarsi di una multa di qualsiasi importo, di una pena detentiva di qualsiasi durata, di una pena accessoria di qualsiasi specie ecc.), altra cosa è prevedere che Tizio, a seguito del suo comportamento, sarà condannato alla pena della reclusione per anni 11, al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei danni cagionati alle parti civili per un totale di € 700.000. Inoltre, come abbiamo visto, la genericità della previsione complessiva riduce il grado di credenza razionale circa la realizzazione di ciascuna delle previsioni sopra le singole alternative giuridicamente praticabili: non solo le alternative previste sono varie e molteplici, ma ciascuna di esse ha minori probabilità di realizzarsi. Dunque, più è ampia la previsione complessiva, minore è la sua valenza pratica rispetto alla programmazione di una condotta futura. Kelsen è naturalmente consapevole di questo fatto; non a caso, proprio in chiusura della Dottrina pura del 1960, egli sottolinea l’importanza di una tecnica di for-

191

Ricordo che un enunciato è generico quando si riferisce indifferentemente ad una pluralità di situazioni diverse e che è ambiguo quando si riferisce alternativamente ad una pluralità di situazioni diverse e il contesto non permette di chiarire a quali di esse si riferisca. Un enunciato descrittivo generico risulta verificato indiscriminatamente sia da una situazione fattuale A sia da una situazione fattuale B diversa da A per alcune caratteristiche. Un enunciato descrittivo ambiguo risulta verificato alternativamente da una situazione fattuale A oppure da una situazione fattuale B, ma non da entrambe. Cfr. LUZZATI, C., La vaghezza delle norme, cit., pp. 46-52.

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mulazione delle norme giuridiche capace di ridurre al minimo l’inevitabile pluralità dei significati delle disposizioni, garantendo in tal modo la realizzazione del massimo grado possibile di certezza del diritto 192 . Né questo è l’unico problema da affrontare per colui che, pur non volendo rinunciare alle proprie posizioni “kelseniste”, sia interessato alla previsione del contenuto di un atto giuridico ancora non posto in essere; c’è infatti da considerare che per Kelsen le conseguenze giuridiche stabilite da una sentenza sono imputate non ad un “fatto” in sé e per sé considerato, ma ad una fattispecie accertata conformemente alle regole procedurali stabilite dall’ordinamento: «La proposizione giuridica non afferma: “Se un certo individuo ha commesso un omicidio, deve essere comminata una certa pena nei suoi confronti”, bensì: “Se il tribunale competente, in un procedimento regolato dall’ordinamento giuridico, ha accertato con forza di cosa giudicata che un determinato individuo ha commesso un omicidio, il tribunale deve comminare una certa pena contro questo individuo”» 193 . Condizione per la sanzione non è il fatto che qualcuno abbia commesso un omicidio, bensì il fatto che un certo organo, competente secondo l’ordinamento giuridico, in un certo procedimento giuridicamente regolato, abbia accertato che un dato individuo ha commesso un omicidio. È dunque l’accertamento del fatto, operato nei modi e dagli organi stabiliti dall’ordinamento, e non direttamente il fatto oggetto

192 Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 390. Qualche cenno è opportuno sui rapporti tra Unbestimmtheit e potenziale ambiguità delle disposizioni normative da una parte e genericità della previsione giuridica dall’altra. Si osservi che sia l’indeterminatezza che la potenziale ambiguità delle disposizioni normative contribuiscono ad incrementare la genericità della previsione complessiva. Se consideriamo le norme giuridiche come enunciati normativi ambigui e intenzionalmente o inintenzionalmente indeterminati (in senso kelseniano), dovremmo, coerentemente con la dottrina pura, ammettere che l’organo competente ad applicarle ai casi concreti esercita una scelta tra varie possibilità di esecuzione. Essendo, per le ragioni che abbiamo visto, tale scelta impenetrabile da parte del previsore kelseniano (cioè puro), egli sarà costretto ad avanzare una previsione che contempli tutte le alternative astrattamente praticabili. La genericità della previsione, ovvero il suo riferirsi indifferentemente a varie decisioni giuridiche applicabili ad un singolo caso e il suo essere verificata da una qualsiasi di queste decisioni, cresce dunque in ragione dell’indeterminatezza e dell’ambiguità delle norme giuridiche. 193 Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 271.

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di accertamento, a condizionare la sanzione 194 . Ciò produce importanti conseguenze per il nostro previsore kelsenista. Le previsioni delle conseguenze giuridiche di un comportamento, per essere accurate, dovrebbero infatti appuntarsi non sull’effettivo svolgimento dei fatti, ma sull’accertamento giudiziale sopra gli stessi: il previsore, per poter prevedere il contenuto del provvedimento che stabilisce (dichiara, costituisce) le conseguenze giuridiche di un fatto, non dovrà limitarsi a considerare (la propria rappresentazione de) gli accadimenti “naturali”, ma sarà tenuto ad avanzare un’ipotesi su quello che, alla luce delle norme previste dall’ordinamento, sarà più probabilmente l’accertamento operato dagli organi competenti a decidere sul caso. Essendo queste norme a loro volta interpretabili in modo non univoco e lasciando esse degli spazi di discrezionalità alle autorità competenti ad effettuare l’accertamento dei fatti, ben si capisce come si renda necessaria un’ulteriore previsione, stavolta rivolta all’anticipazione del risultato dell’accertamento da esse disciplinato: una sorta di previsione nella previsione che non può che incrementare la genericità della previsione complessiva finale, quella che comprende tutte le alternative giuridicamente possibili, riducendo nel contempo il grado di certezza sopra ciascuna di queste, se singolarmente considerate. Insomma, i previsori non devono semplicemente prevedere le conseguenze giuridiche di un fatto, ma devono prevedere le conseguenze giuridiche di ciò che si prevede essere l’accertamento giuridico sopra quel fatto. Né le difficoltà si limitano a questo: anche ammettendo che il previsore anticipi correttamente l’accertamento dei fatti operato dall’organo competente a decidere

194 In questo modo, un omicida ben potrà prevedere la propria assoluzione qualora abbia commesso il delitto in modo da rendere estremamente improbabile l’accertamento della propria colpevolezza (ad esempio precostituendosi un alibi o inscenando il suicidio dell’ucciso); nessuno meglio di lui conosce il “fatto”, e tuttavia la base che egli adopera per la previsione non è l’accadimento effettivo, ma l’ipotesi che vi sarà un accertamento giudiziale che prefigura un delitto senza colpevole o un suicidio. D’altra parte, un previsore deve sempre tenere a mente che la propria rappresentazione dei fatti potrebbe non coincidere con l’accertamento (definitivo) operato dall’organo giuridicamente competente. Così, un imputato innocente, pur sapendosi tale, dovrà prevedere una sentenza di condanna qualora vi siano ragioni per ritenere che il tribunale accerterà la sua colpevolezza (ad esempio allorché l’assassino dell’esempio precedente abbia ordito una diabolica macchinazione volta a farlo figurare come indiziato numero uno).

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sul caso, è ben possibile che la propria qualificazione giuridica degli stessi sia differente rispetto a quella adottata dal decisore. Pur partendo da uno stesso accertamento giudiziale, cioè, previsore e decisore possono attribuire ai fatti un significato giuridico affatto diverso 195 . Ciò è del resto coerente con la teoria kelseniana dell’interpretazione giuridica: le norme sono indeterminate non solo nella parte che stabilisce la conseguenza condizionata ma anche in quella che fissa la fattispecie condizionante; pure quest’ultima rappresenta uno schema aperto a molteplici possibilità interpretative che viene riempito dalla discrezionalità del decisore. Come abbiamo visto, tuttavia, il previsore “kelsenista” non può che fermarsi alla considerazione delle varie alternative possibili nell’ambito della schema fissato dalla norma da interpretare: la sua previsione, pertanto, diventerà necessariamente più ampia (e dunque meno utile a fini pratici) nei frequenti casi in cui una medesima situazione di fatto sia giuridicamente qualificabile in modi diversi 196 . 195

Vedi infra, § 4.3.a. Torniamo all’esempio riportato nella nota 189. Abbiamo là presupposto che il caso di cui si intende prevedere la soluzione fosse aproblematicamente accertabile in tutti suoi elementi e sussumibile nell’ambito di una certa fattispecie normativa. Ciò che ho riportato nel testo induce a considerare semplicistica tale ricostruzione: i previsori non devono semplicemente prevedere le decisioni d1, d2,…,dn che conseguono giuridicamente al caso c, ma devono prevedere le decisioni che conseguono alle qualificazioni possibili q1, q2,…qn dei fatti così come accertati dalle autorità competenti (anche questo accertamento essendo oggetto di previsione). Il nostro modello deve dunque essere aggiornato: un certo caso concreto potrà essere accertato in modo a1, a2,…, ax, a seconda della diversa applicazione delle norme (processuali) che regolano l’attività di accertamento giuridico del fatto; ciascuno degli x accertamenti fornirà una ricostruzione del caso che lo rende qualificabile come q1, q2,…qy, a seconda della fattispecie astratta entro cui esso viene sussunto; ciascuna delle y qualificazioni, infine, sarà ricollegabile ad un numero variabile di conseguenze giuridiche d1, d2,…,dn condizionate a quella qualificazione. La previsione complessiva si estende a tutte le n decisioni che conseguono ai vari possibili accertamenti e alle varie possibili qualificazioni giuridiche dei fatti accertati. È facile dimostrare che n cresce al crescere di x e y, e il grado di credenza razionale sopra ciascuna singola decisione prevista diminuisce di conseguenza. Supponiamo ad esempio che qualcuno sia interessato a prevedere le conseguenze giuridiche del fatto f. Egli dovrà in primo luogo prevedere in che modo il fatto f sarà accertato dagli organi competenti; ipotizziamo che il previsore ritenga che alla chiusura del dibattimento, siano alternativamente possibili due ricostruzioni giudiziali del fatto f, e indichiamo queste ultime con a1 e a2. Assumiamo che egli ritenga equiprobabili le alternative divisate; allora suo grado di credenza razionale sopra 196

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Riassumendo, le considerazioni svolte da Kelsen nella seconda Dottrina pura inducono a considerare la previsione giuridica non come una previsione di conseguenze giuridiche di fatti, ma come previsione delle conseguenze giuridiche di accertamenti su fatti, tanto più generica in quanto gli stessi non siano giuridicamente qualificabili in modo univoco. L’indeterminatezza (intenzionale o meno) delle disposizioni giuridiche, dunque, riduce la certezza perché aumenta la genericità della previsione complessiva, riducendo nel contempo il grado di credenza razionale sopra ciascuna delle alternative previste.

2.2.h. La previsione e i conflitti di norme di grado diverso Consideriamo ora il ruolo dell’efficacia del diritto nella concezione kelseniana della certezza giuridica. Kelsen precisa espressamente che «il fatto che l’ordinamento giuridico è efficace forma l’unica base di possibili previsioni» 197 . Ciò accade per almeno due ragioni. La prima è che, come abbiamo visto, se l’ordinamento non fosse nel suo complesso efficace, non sarebbe nemmeno valido per la scienza del diritto e dunque, dato che le funzioni di una comunità giuridica sono per Kelsen prevedibili solo in quanto siano determinate dall’ordinamento giuridico così come descritto dalla scienza del diritto, non sarebbe possibile alcuna previsione circa il funzionamento degli organi

ciascuna di esse sarà pari a 0,50. Immaginiamo ora che sia a1 che a2 siano qualificabili ciascuna in due modi diversi; il previsore ritiene cioè che il decisore potrebbe, in base alla propria interpretazione, qualificare a1 come q1 oppure come q2, ovvero qualificare a2 come q3 oppure come q4. Se si mantiene l’assunto dell’equiprobabilità delle interpretazioni alternative, il suo grado di credenza razionale sopra q1, q2, q3 e q4 sarà pari a 0,25 (cioe 0,50 diviso 2). Infine, supponiamo che il previsore ritenga che il decisore possa, in base alla propria interpretazione, ricollegare a q1 la decisione d1 oppure la decisione d2, a q2 la decisione d3 oppure la decisione d4, a q3 la decisione d5 oppure la decisione d6, o ancora la decisione d7, e a q4, univocamente, la decisione d8. In questo caso il grado di credenza razionale del previsore sopra le varie decisioni previste sarà pari a: 0,125 per d1, d2, d3 e d4 (0,25 diviso 2); 0,083 per d5, d6 e d7 (1/3 di 0,25); 0,25 per d8 (0,25 diviso 1). Naturalmente, secondo questa ricostruzione il grado di credenza razionale sopra il verificarsi di una qualsiasi tra tutte le soluzioni prospettate per il caso f è pari a 1. Ciò significa che il previsore è certo che la decisione concretamente adottata rientrerà comunque tra le alternative previste. 197 Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 177.

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giuridici 198 . In altre parole, la mancanza complessiva di efficacia comporta l’invalidità dell’ordinamento, dunque il venir meno dell’oggetto di studio di quella scienza giuridica normativa che, secondo Kelsen, costituisce il presupposto ineludibile per qualunque previsione. L’efficacia è però necessaria ai fini della previsione anche per un’altra ragione: se i principali destinatari delle norme (gli organi giuridici, nella dottrina kelseniana) solessero non conformarsi al loro disposto, il contenuto dei loro atti sarebbe del tutto imprevedibile, in quanto esorbitante dallo schema stabilito dal diritto di grado superiore. Abbiamo infatti già visto che Kelsen ritiene prevedibile solo ciò che è normativamente previsto; il contenuto di atti non conformi alla previsione normativa non può essere anticipato attendibilmente. A questo punto, però, si incontra una difficoltà. Come è noto, Kelsen ritiene che gli atti giuridici confliggenti con le norme di grado superiore non siano nulli: una volta rispettate determinate prescrizioni di carattere formale che assicurano che l’atto non sia del tutto aberrante, esso dovrebbe essere considerato valido, ancorché eventualmente annullabile (e/o sanzionabile) in quanto eccedente i limiti di contenuto stabiliti dalle norme di grado superiore. In questi casi, pertanto, non si ha un non-atto o un atto nullo, ma un atto giuridicamente esistente (cioè valido) ancorché “provvisorio” 199 . Tale validità continuerà a sussistere fino a quando un altro atto la farà eventualmente venir meno. La norma di grado superiore, secondo Kelsen, contiene infatti non solo il precetto per cui la norma inferiore deve essere prodotta in un determinato modo e deve avere un determinato contenuto, ma anche, allo stesso tempo, il precetto per cui una norma prodotta in modo diverso o con contenuto diverso deve valere fino a quando non sia abrogata con un certo procedimento, stabilito dal precetto stesso 200 . Tra ciò che prevede la norma superiore deve essere inclusa anche la prescrizione alternativa stabilita per il caso in cui sia violata la statuizione sui limiti formali o materiali della norma inferiore. Ecco dun-

198

Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., pp. 176-177. Vi sono però, come accennato, dei casi in cui la norma presenta dei deficit formali tali da dover essere considerata assolutamente nulla. In questi casi non vi è che l’apparenza di una norma giuridica e pertanto non esiste giuridicamente nessuna norma. Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1934), cit., p. 114. 200 Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1934), cit., pp. 114-116; KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 298 ss. 199

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que il problema: si potrebbe sostenere che l’equazione atto previsto = atto prevedibile non sia esatta, dato che gli atti in conflitto con le norme superiori sono “previsti” pur non essendo prevedibili. In verità l’obiezione è superabile, e non perché gli atti difformi da quanto stabilito dalle norme superiori siano non normativamente previsti, bensì perché pure essi, in certo modo, rientrano in ciò che è prevedibile. Nel paragrafo precedente abbiamo infatti visto che in un’ottica coerente con la dottrina kelseniana, la previsione giuridica non può che assumere carattere alternativo, e che le decisioni alternativamente prevedibili sono in numero pari a quello delle possibilità di esecuzione della norma di grado superiore. La considerazione degli atti giuridici esorbitanti rende ancora più ampio il ventaglio di previsioni alternative di colui che intenda conoscere in anticipo il contenuto della decisione giudiziale, aggiungendo alle decisioni previste i1, i2,…, in la decisione in+1, che il giudice adotta in tutti i casi in cui intenda non attenersi ai limiti di contenuto stabiliti dalle norme superiori. Il contenuto sostanziale di tale decisione (ciò che la decisione dispone per il caso concreto), ovviamente, potrà essere determinato solo negativamente; si potrà cioè solo prevedere che il giudice deciderà in modo non conforme ad alcuno dei significati possibili nello schema della norma da applicare. La previsione di in+1, dunque, raggruppa e comprende tutte le innumerevoli decisioni che esorbitano dai limiti posti dalle norme superiori. Si potrebbe a questo punto obiettare che l’inclusione di tali infinite alternative tra le previsioni possibili vanifichi senz’altro qualunque certezza giuridica, rendendo la previsione complessiva assolutamente generica, dunque informativamente nulla e praticamente inutilizzabile. Come sarebbe possibile pianificare la propria condotta, infatti, a seguito di una previsione come: “Se verrà accertato giudizialmente l’omicidio che hai commesso con quelle modalità sarai condannato alla reclusione per anni 24, ma il giudice potrebbe altrettanto validamente ordinare il tuo proscioglimento, l’erogazione di un premio in denaro in tuo favore, la tua deportazione in Bitinia, o qualunque altra cosa gli passi per la testa”? A rendere più fondata l’obiezione contribuisce il fatto che, per le ragioni che ho sommariamente esposto nel paragrafo precedente, essendo il numero delle decisioni previste praticamente infinito, il grado di credenza razionale sopra il verificarsi di ciascuna di esse sarebbe prossimo allo 0.

In verità, c’è ancora una possibilità di salvare la certezza giuridica dalle grinfie della teoria kelseniana dei conflitti tra norme di grado diverso. Si consideri che gli ordinamenti con-

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temporanei predispongono sempre degli accorgimenti di vario tipo (impugnazioni, sanzioni, varie forme di responsabilità dei magistrati ecc.) finalizzati ad evitare o quantomeno contrastare la pronuncia o il passaggio in giudicato di decisioni difformi da quanto prescritto dalle norme superiori. Questi accorgimenti altro non sono che precauzioni volte ad assicurare l’obbedienza delle norme giuridiche da parte dei loro destinatari, con particolare riferimento agli organi giuridici, cui tali norme sono primariamente rivolte. Pertanto, è legittimo concludere che, se l’ordinamento è efficace, la previsione di una decisione che esorbita dai limiti di contenuto stabiliti dalle norme di grado superiore deve essere seguita dalla previsione dell’atto che annulla (e/o sanziona) tale decisione. Ciò dovrebbe indurre il previsore a tenere in minor conto le decisioni difformi da quanto stabilito dalle norme superiori: esse, ancorché giuridicamente valide, sarebbero effettivamente e definitivamente applicabili al caso solo qualora non venissero annullate per mezzo delle procedure stabilite dall’ordinamento, o nell’improbabile eventualità in cui il decisore accettasse di subire una sanzione per aver deciso in spregio delle norme di grado superiore. In conclusione, negli ordinamenti complessivamente efficaci, le decisioni in conflitto con le norme superiori sono previste e prevedibili, sia pure negativamente; tuttavia alla loro previsione deve essere aggiunta quella dell’atto che annulla o sanziona le decisioni stesse, eventualmente sostituendole con altre che risolvono i casi in conformità a qualcuno dei significati reperibili nello schema fissato dalle norme di grado superiore, e dunque in modo normativamente previsto e conoscitivamente prevedibile. 2.2.i. Il grado della certezza Nonostante questi limiti alla prevedibilità, secondo il Kelsen del 1960, la certezza del diritto è pur sempre «approssimativamente realizzabile» 201 . L’autore accoglie un concetto non classificatorio di certezza: si tratta in ogni caso di una questione di grado, non di un qualcosa che c’è o non c’è; essa si realizza in misura maggiore o mi-

201

Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 389.

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nore a seconda delle caratteristiche contingenti di un certo ordinamento e comunque non si attua mai in toto 202 . Ma cosa intende esattamente Kelsen parlando di gradi di certezza del diritto? In particolare: si riferisce ad una misura della diffusione dell’attitudine alla previsione presso gli individui sottoposti ad un certo ordinamento? Oppure parla del livello di capacità predittiva da costoro, nel complesso, raggiunto? Il nostro autore non lo chiarisce espressamente; tuttavia la lettura di alcuni passi della Dottrina pura del 1960 suggerisce che con ogni probabilità egli avesse in mente soprattutto la seconda misura. Quando la certezza del diritto vi è, infatti, «la decisione giurisdizionale è in certa misura prevedibile e quindi i soggetti sottoposti al diritto possono tenerne conto, comportandosi in modo conforme alla prevedibile sentenza del tribunale» 203 ; d’altra parte, quando la certezza del diritto difetta, «gli individui non possono affatto prevedere in che modo saranno risolti i casi concreti, in cui fungono da accusatore o imputato, da attore o convenuto. Essi non possono quindi conoscere né quel che è loro vietato o permesso né a che cosa sono (o non sono) giuridicamente autorizzati» 204 . Kelsen, dunque, sembra riferirsi alla certezza del diritto come situazione in cui gli individui, nel complesso, sono messi in condizione di prevedere, in qualche misura, la soluzione giuridica dei casi singoli. Non viene stabilita una percentuale minima di soggetti idonei alla previsione affinché possa dirsi sussistente una situazione di certezza del diritto, né si specifica se la capacità predittiva debba caratterizzare tutti i membri di una comunità giuridica ovvero solo alcuni di essi, magari particolarmente qualificati 205 . Per Kelsen 202 In diversi passi Kelsen parla espressamente di grado di certezza del diritto o di decisione giurisdizionale in certa misura prevedibile, vedi ad esempio KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 282-283. 285, 390. 203 Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 282-283, corsivo mio. 204 Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 283, corsivo mio. 205 Ci si potrebbe chiedere, al più, se la prevedibilità sia limitata ai casi che in qualche modo investono i previsori (come parti in causa, come difensori, come titolari di un interesse legittimo, ecc.) o se possa estendersi anche a casi nei confronti dei quali essi sono del tutto estranei. Il riferimento di Kelsen alla prevedibilità dei casi in cui gli individui fungono da accusatore o imputato, da attore o convenuto, sembrerebbe avvalorare la prima ipotesi. Tuttavia il fatto che tali soggetti siano in grado di conformare i propri comportamenti alle soluzioni prospettate implica che

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coloro che prevedono in una situazione di certezza giuridica sono, genericamente, gli individui, ovvero i soggetti sottoposti al diritto senza distinzione alcuna. Il grado di realizzazione della certezza kelseniana non viene determinato avendo riguardo alla più o meno estesa diffusione, nella comunità giuridica o in una sua parte qualificata, della capacità di prevedere la soluzione giuridica dei casi concreti, ma ad una qualche misura di tale capacità, che si assume comune a tutti i soggetti sottoposti al diritto. È dunque il “che cosa” si prevede e non il “chi” prevede, a fornire la misura della certezza kelseniana. Non a caso, Kelsen parla espressamente della possibilità di prevedere in certa misura la decisione giuridica, e ricollega le variazioni nel quantum di tale prevedibilità mediatamente al grado di accentramento o di decentramento della funzione di produzione di norme generali e immediatamente alla maggiore o minore indeterminatezza del contenuto degli atti di grado inferiore rispetto alle norme di grado superiore. Il nostro autore, peraltro, non individua con precisione un minimum di capacità predittiva complessiva al di sotto della quale non è più dato parlare di certezza del diritto né indica un metodo per calcolare o per determinare in modo relativamente preciso una misura di tale capacità. Dall’impianto complessivo del suo discorso si evince solo: 1) che le possibilità di una previsione corretta dipendono dalla riduzione dell’ambito di discrezionalità intenzionalmente o inintenzionalmente concesso agli organi inferiori nella determinazione del contenuto degli atti da produrre; 2) che tale discrezionalità non è completamente eliminabile perché, anche quando mancano le deleghe esplicite al libero apprezzamento degli organi inferiori, l’imprecisione, l’incoerenza e l’ambiguità del linguaggio giuridico rendono sempre in qualche misura necessario un intervento “creativo” dell’organo competente ad applicare il diritto; 3) che tuttavia la plurivocità del linguaggio giuridico, ancorché inevitabile, può essere ridotta mediante tecniche di formulazione linguistica volte a ridurre al minimo il numero dei significati delle singole norme 206 .

essi sono in grado di rappresentarsi a priori varie soluzioni, ognuna corrispondente ad un’ipotetica linea d’azione. Non si vede la ragione per la quale essi non debbano essere in grado di estendere le proprie previsioni anche a casi riguardanti altri soggetti, ma conosciuti in tutti gli aspetti giuridicamente rilevanti. 206 Non a caso, dice Kelsen, il massimo grado di certezza si realizza laddove le norme giuridiche sono formulate con la massima chiarezza possibile o in modo tale

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2.2.l. Una certezza approssimativamente realizzabile Dal discorso che precede, sembra potersi inferire che si può parlare di “radicale scetticismo” di Kelsen in materia di certezza del diritto solo se si intenda quest’ultima come certezza assoluta, cioè come infallibile prevedibilità della decisione giuridica. Abbiamo visto nel primo capitolo che il vocabolo “certezza” legittima effettivamente una tale interpretazione, evocando una totale sicurezza, una completa mancanza di dubbio su ciò che si predica certo, in questo caso il diritto. Tale concezione, come detto, è appunto quella avallata dai formalisti della “giurisprudenza tradizionale” criticata da Kelsen. Per comprendere le posizioni del nostro autore sull’argomento è dunque necessario assumere il punto di vista proprio dei teorici contemporanei, disposti a parlare di certezza in senso relativo, come maggiore o minore probabilità di anticipare con successo una certa valutazione giuridica o una certa decisione. In quest’ottica, le opinioni di Kelsen sulla certezza-prevedibilità non sono affatto scettiche. È da ricordare ancora una volta, piuttosto, che il nostro autore ritiene che l’attività di previsione della funzione giuridica non rientri tra i compiti della giurisprudenza normativa – scienza del diritto per eccellenza – ma della giurisprudenza sociologica, scienza considerata sì legittima, ma in qualche modo cadetta, perché inidonea a produrre risultati propri senza l’impulso delle conoscenze fornite dalla giurisprudenza normativa. La certezza del diritto è dunque da Kelsen accostata alla possibilità degli individui di conoscere le decisioni giuridiche prima del loro venire in essere, prevedendo il modo in cui saranno risolti i casi concreti ed eventualmente pianificando le proprie scelte pratiche in base alle soluzioni prospettate; siamo in un quadro di piena conformità con le definizioni più ricorrenti di “certezza giuridica”, anche perché il nostro autore, in accordo con gli indirizzi più moderni, adotta una nozione graduabile di certezza, considerandola come una situazione che può essere realizzata nell’ambito di una comunità giuridica in misura maggiore o minore. La certezza kelseniana può essere in questo senso definita come relativa. Il suo grado di realizzazione, come abbiamo visto, si determina non facendo riferimento al “chi” è in da ridurre al minimo l’inevitabile pluralità dei loro significati. Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 390.

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grado di prevedere ma al “che cosa” si è in grado di prevedere, ed è inversamente proporzionale all’ineliminabile indeterminatezza relativa del contenuto degli atti di grado inferiore rispetto al grado superiore. La certezza giuridica, dunque, pur non essendo realizzabile in toto, può esserlo approssimativamente, a patto che l’ordinamento giuridico presenti determinate caratteristiche, quali un elevato grado di accentramento nella funzione di produzione del diritto, un linguaggio normativo il più possibile chiaro e univoco e un limitato ricorso intenzionale alla libera discrezionalità delle autorità di grado inferiore; in breve, quando risulti ridotta al minimo l’Unbestimmtheit del grado inferiore rispetto al grado superiore, sia quella intenzionale sia quella non intenzionale. In questo senso, si deve riconoscere che la (pur approssimativa) certezza del diritto, nell’ottica kelseniana, è un aspetto meramente eventuale degli ordinamenti giuridici, dipende da una serie di fattori contingenti ed è presente in misura diversa da ordinamento a ordinamento. Giova però ripetere che la certezza kelseniana è relativa anche in un secondo senso, non immediatamente correlato alla sua realizzazione in un dato ordinamento: come detto, infatti, una previsione giuridica coerente con la dottrina pura ha carattere necessariamente alternativo, indicando come egualmente probabili tutte le possibilità applicative ricavabili dallo schema della norma da applicare. In questo senso non può parlarsi di certezza assoluta perché non è individuabile un’unica soluzione interpretativa “esatta”, bensì un ventaglio di possibilità applicative tutte ugualmente corrette in quanto corrispondenti ciascuna ad uno dei significati ricavabili dalla formulazione linguistica della norma. I limiti della previsione delle decisioni giudiziali coincidono dunque con quelli dell’interpretazione del diritto compiuta dalla scienza giuridica, ovvero con ciò che, usando una terminologia più attuale, si potrebbe definire come l’individuazione delle varie norme contenute entro una medesima disposizione. La previsione giuridica, laddove possibile, indica pertanto una serie di decisioni alternative, e Kelsen, in polemica con il formalismo della giurisprudenza dei concetti, esclude che il numero di tali alternative sia sempre riducibile a uno. Resta ora da chiedersi: è possibile per Kelsen rendere più precise queste previsioni, uscendo dal seminato della dottrina pura e adoperando delle conoscenze capaci di individuare le soluzioni applicative che hanno le maggiori probabilità di essere effettivamente adottate tra quelle individuate dalla scienza del diritto nello schema posto dal-

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le norme? Probabilmente sì: in diversi passi Kelsen fa riferimento all’utilità dello studio sociologico dell’idea di giustizia diffusa in una data comunità ai fini della previsione dei comportamenti giuridici concreti 207 . Lo studio sociologico dell’idea della giustizia come credenza sulla giustizia è, secondo Kelsen, uno dei settori più promettenti della sociologia giuridica perché permette di indagare a fondo sui motivi che determinano i comportamenti degli uomini che creano, applicano il diritto e obbediscono ad esso. Si potrebbe dunque sostenere che uno studio scientifico di tal fatta, fornendo degli elementi di conoscenza ulteriori rispetto a quelli provenienti dalla scienza giuridica normativa, può essere utile nell’esercizio di un’attività rivolta all’anticipazione del Sein giuridico, come la previsione dell’effettiva soluzione dei casi concreti.

2.3. Due posizioni antiformaliste: la certezza-prevedibilità secondo Corsale e Leoni 2.3.a. Corsale e la certezza come sicurezza-prevedibilità Massimo Corsale è autore di uno dei contributi più conosciuti e citati, in Italia, in materia di certezza giuridica. Il lavoro in questione è La certezza del diritto (1970), ripubblicato nel 1979 col titolo Certezza del diritto e crisi di legittimità, e presenta interesse, in questa sede, soprattutto perché esemplifica come da premesse spiccatamente antiformalistiche possano essere derivate delle conclusioni possibiliste sulla realizzabilità, a certe condizioni, della certezza del diritto intesa come prevedibilità delle conseguenze giuridiche dell’azione 208 . Quando Corsale parla di “certezza del diritto” si riferisce infatti sempre, anche se non soltanto, alla prevedibilità: la certezza non 207

Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., pp. 177-178; cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto e la giurisprudenza analitica, cit., p. 185. 208 Cfr. CORSALE, M., La certezza del diritto, Giuffrè, Milano 1970; CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit. La teoria della certezza di Corsale, in effetti, rappresenta un’eccezione alla regola che prevede che all’antiformalismo e alla sfiducia nei confronti della legislazione si accompagni un atteggiamento scettico o politicamente critico nei confronti della prevedibilità delle conseguenze giuridiche dell’azione; cfr. supra, § 2.2.

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è data solo dalla possibilità di prevedere le conseguenze giuridiche della propria condotta, ma anche dalla sicurezza, da parte dei membri di una comunità organizzata in ordinamento giuridico, del fatto che le contestazioni circa i diritti spettanti a ciascuno di essi verranno risolte nella maniera più aderente al comune sentimento di giustizia, e che la soluzione prevalsa sarà praticamente operante 209 . La nozione di certezza-sicurezza proposta da Corsale prevede dunque una stretta relazione tra prevedibilità e giustizia sostanziale, due esigenze tradizionalmente considerate di ben difficile accostamento, quando non addirittura in conflitto tra loro 210 . Al superamento di questo “condo209 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 31, 41. Questa concezione di certezza sensu largo è in qualche modo “trasversale”, nel senso che la si rinviene, rappresentata nelle sue grandi linee, presso autori che si rifanno a tradizioni culturali e a percorsi di studio completamente diversi. Per esempio, vi è più di un punto in comune tra la certezza-sicurezza di Corsale e le nozioni di legal certainty proposte da Aarnio e Peczenik. Quest’ultimo afferma tra l’altro: «intendo dunque per “certezza del diritto” in senso materiale, il compromesso ottimale tra la prevedibilità delle decisioni giuridiche e la loro accettabilità in vista di altre considerazioni morali. […] Nella società moderna, la gente generalmente si aspetta che le decisioni giuridiche siano altamente prevedibili e, allo stesso tempo, altamente accettabili dal punto di vista morale». Cfr. PECZENIK, A., On Law and Reason, Kluwer, Dordrecht-Boston-London 1989, p. 32 (trad. mia). Anche secondo Aarnio, la certezza del diritto comprende sia l’elemento della prevedibilità delle decisioni giuridiche, sia quello della loro giustizia sostanziale, cioè della conformità ai criteri assiologici diffusi entro una comunità giuridica. Cfr. AARNIO, A. Argumentation Theory – And Beyond. Some Remarks on the Rationality of Legal Justification, in Rechtstheorie, 14, 4, 1983, trad.it. di Paolo Comanducci, La teoria dell’argomentazione e oltre. Alcune osservazioni sulla razionalità della decisione giuridica, in COMANDUCCI, P., GUASTINI, R., L’analisi del ragionamento giuridico, cit., pp. 221-223. Altro punto di contatto è il riferimento, sia di Aarnio sia di Corsale, alla accettabilità sostanziale della decisione come dipendente dalla visione del mondo propria di una determinata società. Nel caso di Aarnio è palese il richiamo alle nozioni wittgensteiniane di “immagine del mondo” e di “forma di vita” (cfr. AARNIO, A., the Rational as Reasonable. A Treatise on Legal Justification, D. Reidel, Dordrecht-Boston-LancasterTokyo 1987, p. 218); nel caso di Corsale, invece, siamo nel solco di una tradizione che, partendo da Savigny e passando per la scuola del diritto libero, per la sociologia giuridica e per certo istituzionalismo – nonché per vecchi e nuovi esponenti dell’evoluzionismo giuridico – tende a ricercare nella tradizione, nella società storicamente determinata e nella sua Weltanschauung le fonti del giuridico, esprimendo scetticismo nei confronti di ogni tentativo di cristallizzazione, di “cattura”, del diritto entro strutture rigide e formali; vedi anche CORSALE, M., Il giurista tra norma e senso comune. Verso un nuovo diritto giurisprudenziale?, in Ontologia e fenomenologia del giuridico. Studi in onore di Sergio Cotta, Giappichelli, Torino 1995. 210 È forse qui necessario accennare brevemente alla concezione della giustizia adottata da Corsale. Il nostro autore mutua da Chäim Perelman una definizione di

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minio antinomico” (l’espressione è di Radbruch) si addiviene, secondo Corsale, con l’abbandono della concezione della certezza come «valore accanto ad altri valori»: la certezza giuridica non è un valore o un fine, eventualmente in conflitto con altri fini o valori, che il diritto si prefigge di realizzare, bensì è un mezzo per il conseguimento della giustizia e del bene comune; essa è un carattere immanente del diritto, mentre la giustizia e il bene comune ne sono i fini trascendenti 211 . La prevedibilità delle conseguenze giuridiche dell’azione, ossia la «possibilità di tener conto, prima di intraprendere un’azione, di come gli altri consociati la giudicheranno, e di quali comportamenti terranno nei suoi confronti» in questo quadro, ha il ruolo di «premessa indispensabile perché si determini e sussista nella comunità il sentimento di sicurezza circa la soddisfazione effettiva della fondamentale esigenza di giustizia, ossia che il diritto prevalga sul torto» 212 . Sicurezza sulla effettiva attuazione della giustizia e prevedibilità delle conseguenze giuridiche dell’azione sono dunque, secondo Corsale, aspetti coessenziali al concetto di certezza del diritto. Tuttavia, la loro realizzazione dipende da un comune presupposto: l’univocità giustizia che viene definita “formale” perché svincolata da ogni contenuto storicamente determinato in quanto consistente in un mero “principio d’azione secondo il quale gli esseri di una stessa categoria essenziale devono essere trattati allo stesso modo”, dove per “categoria essenziale” s’intende una categoria di individui identificabile in base ad una o più caratteristiche essenziali. Nella pratica sorgono però delle difficoltà nel perseguimento della giustizia a causa del fatto che le caratteristiche da prendere in considerazione per determinare l’appartenenza ad una categoria essenziale sono spesso molteplici e inconciliabili tra loro. Si pone perciò il problema dei criteri che permettono di determinare una graduatoria d’importanza tra le caratteristiche essenziali (cfr. PERELMAN, CH., De la justice, Bruxelles 1945, trad. it., Giappichelli 1959, pp. 37, 59). Ebbene, secondo Corsale, tali criteri vanno desunti dall’ideologia sociale del gruppo: sono i consociati a dare la preferenza a quelle “caratteristiche essenziali” che appaiono più congrue in rapporto allo scopo o agli scopi del gruppo e alla sua ideologia. Per esempio, se lo scopo di un gruppo etnico invasore è quello di dominare un gruppo autoctono, i suoi membri tenderanno ad attribuire grande importanza alla caratteristica (ritenuta) essenziale dell’appartenenza all’etnia, e riterranno “giusto”, sulla base di tale ideologia razzista, attribuire alle persone diverso valore a seconda dell’etnia di appartenenza (cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 101-105). Il “comune sentimento di giustizia” di cui si parla nel testo è dunque un sentimento di giustizia “sostanziale” in quanto determinata nei suoi contenuti. 211 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 24-25. 212 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 32-33.

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della qualificazione delle situazioni giuridiche 213 ; solo se il singolo è in grado di dare ad una determinata situazione una qualificazione conforme a quella operata dagli altri consociati, tra cui i giudici, egli potrà 1) prevedere le conseguenze giuridiche della propria condotta e 2) sviluppare un sentimento di sicurezza sulla realizzazione della giustizia. In questo modo, ad esempio, il soggetto che, trovandosi nelle condizioni previste dall’ordinamento, compia regolarmente la serie di atti che la legge prescrive per la conclusione del negozio di compravendita in qualità di acquirente, può prevedere, in un ordinamento dotato di effettività, che verrà riconosciuto dagli altri consociati come proprietario della merce e che, in caso di contestazione, tale qualità gli verrà riconosciuta in giudizio. L’univocità della qualificazione della situazione giuridica dell’acquirente è dunque presupposto indispensabile per la prevedibilità delle reazioni del venditore, dei terzi e dell’eventuale giudice nei confronti del suo comportamento 214 . Una serie di istituti riscontrabili negli ordinamenti storicamente esistenti ed esistiti, afferma Corsale, trovano appunto nella garanzia di tale univocità la propria unica ragion d’essere (particolarmente rilevanti, a questo proposito, la prescrizione, la “cosa giudicata”, i vari tipi di trascrizione e di presunzione); di più: secondo Corsale, a ben guardare, tutti gli istituti giuridici condividono la finalità immanente di rendere possibile l’univoca qualificazione delle situazioni, contribuendo in tal modo alla diffusione della sicurezza della prevalenza del diritto sul torto 215 . La realizzazione effettiva di questo complesso di aspetti della certezza del diritto (certezza come sicurezza-prevedibilità-univocità), afferma Corsale, implica comunque una serie di ulteriori «presupposti materiali»: 1) la possibilità di conoscenza, da parte dell’agente, delle norme in base alle quali la sua azione potrà essere qualificata; 2) la consapevolezza del fatto che i consociati interpreteranno tali norme in maniera sostanzialmente coincidente con quella dell’agente stesso; 3) la fiducia nell’effettività dell’ordinamento, ossia nella con213 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 32. Secondo Corsale l’univocità della qualificazione delle singole situazioni giuridiche, oltre ad essere presupposto di prevedibilità e di sicurezza, costituisce a sua volta un aspetto particolare della certezza del diritto. 214 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 32. 215 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 31-32.

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creta adesione ad esso da parte dei membri della collettività, e nella conseguente applicazione delle prescrizioni che esso contiene 216 . Questi presupposti, continua l’autore, possono peraltro ridursi a due, dato che il secondo, ad una più attenta analisi, risulta assorbire il primo. Corsale, infatti, asserisce che ad essere realmente importante per la prevedibilità delle conseguenze giuridiche dell’azione umana non è tanto la norma generale e astratta scritta nel codice, bensì la sua concretizzazione nel caso specifico, la cosiddetta norma individuale: «Diventa relativamente poco importante per l’agente medesimo poter conoscere la norma generale, la formula astratta, se per ipotesi l’ordinamento funziona in modo tale che egli possa ugualmente prevedere le reazioni dei consociati nei confronti della sua azione» 217 . La certezza, dunque, si realizza nella misura in cui l’agente sia in grado di prevedere tali reazioni, ciò indipendentemente dal fatto che tale previsione derivi dalla conoscenza delle fonti formali (e della legislazione in particolare, come vedremo). Il terzo presupposto è per l’autore particolarmente rilevante 218 : solo un ordinamento in certa misura effettivo, afferma Corsale, può essere un ordinamento

216

Si noti che l’autore parla non di un’astratta prevedibilità ma di possibilità dell’agente di prevedere, non di interpretazione conforme ma di consapevolezza da parte dell’agente del fatto che vi sarà una interpretazione conforme, non di effettività dell’ordinamento ma di fiducia dell’agente nell’effettività dell’ordinamento. Dunque siamo nell’ambito delle condizioni materiali in cui deve trovarsi colui che prevede. Invece, quelli dell’univocità delle qualificazioni giuridiche e dell’effettività sono presupposti che attengono alle condizioni esterne, oggettive, necessarie affinché vi sia effettivamente una risposta dell’ordinamento conforme alla previsione avanzata dall’agente. Il discorso dell’autore rischia tuttavia di perdere chiarezza allorquando si afferma che il terzo presupposto “materiale” – poche pagine prima indicato come fiducia del previsore nell’effettività dell’ordinamento (cfr. ibidem p. 34) – consiste nell’effettività dell’ordinamento giuridico (cfr. ibidem p. 37), a sua volta condizione di efficacia e, nel lessico dell’autore, di certezza dell’ordinamento. La ricostruzione che ho prodotto nel testo (riferimento all’effettività piuttosto che alla fiducia nell’effettività) è un tentativo di razionalizzazione del discorso che evita di ricorrere a categorie non esplicitamente impiegate dall’autore (come quelle di “presupposti oggettivi” e “presupposti soggettivi”, la cui distinzione, in questo frangente, avrebbe forse potuto rivestire una qualche utilità, se non altro per esigenze di chiarezza espositiva). 217 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 34-35. 218 Tale presupposto, peraltro, da fiducia dell’agente-previsore nell’effettività dell’ordinamento diventa nel seguito della trattazione effettività dell’ordinamento giuridico: svista o confusione?

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efficiente, ovvero, nella terminologia dell’autore, oggettivamente in grado «di raggiungere il suo obiettivo fondamentale e imprescindibile, che è quello di realizzare un ordine nella società organizzandola al fine di permetterle il raggiungimento di quegli scopi specifici che le sono propri» 219 . L’espressione “certezza del diritto” finisce anzi per essere, secondo Corsale, sinonimo di “efficienza dell’ordinamento giuridico”, giacché solo l’ordinamento efficiente, e quindi concretamente in grado di realizzare un ordine sociale, permette di effettuare previsioni e qualificazioni giuridiche univoche, determinando così un sentimento di sicurezza nei consociati. Di più: un ordinamento assolutamente privo di efficienza, ossia di capacità di permettere previsioni e qualificazioni giuridiche univoche, non può neanche sopravvivere come tale; non potendo assolutamente raggiungere i suoi scopi esso rimane lettera morta, non è più un ordinamento giuridico 220 . In questo senso, la certezza-efficienza, depurata dei suoi aspetti “ideologici” e basata sull’univocità della qualificazione delle situazioni giuridiche e sull’effettività, è per Corsale «elemento costitutivo del concetto stesso di diritto, un elemento immanente alla sua nozione» 221 .

2.3.b. Critica alla “certezza legale” La concezione di certezza adottata da Corsale, almeno nelle linee generali che ho fin qui tratteggiato, non sembra presentare degli aspetti particolarmente originali; anche il richiamo ad una certezza come carattere immanente – o comunque necessario – del concetto di diritto, è condiviso da autori di scuole e indirizzi diversi 222 . Inoltre,

219

Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 39. Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 39-40. 221 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 58. Gli aspetti “ideologici” cui si riferisce Corsale sono quelli inessenziali al concetto e storicamente contingenti, in particolare quelli che conducono ad una rappresentazione della certezza del diritto come certezza legale. Vedi infra, § 2.3.c. Altrove Corsale parla anche di certezza giuridica come condizione essenziale di esistenza dell’ordinamento giuridico (cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. VII). 222 Cfr. ad esempio BOBBIO, N., La certezza del diritto è un mito?, cit.; LEVI, A., La certezza del diritto in rapporto con il concetto di azione, cit., pp. 81 ss.; LOPEZ DE 220

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Corsale adotta a questo proposito una posizione piuttosto moderata: affinché un certo ordinamento giuridico possa dirsi esistente, è necessario solo il raggiungimento di un dato livello di certezza, mentre non si può pretendere una certezza assoluta 223 . Non vi sono nemmeno delle notazioni particolarmente originali per ciò che riguarda la definizione del chi, del che cosa e del quanto della certezza giuridica, ovvero la fissazione delle condizioni inerenti la determinazione dei previsori, dell’oggetto della previsione e del grado di prevedibilità necessari affinché la certezza del diritto possa dirsi in qualche misura realizzata. Quanto al chi, infatti, dalla trattazione di Corsale si evince che la certezza giuridica può dirsi sussistente quando il soggetto che compie l’azione, e dunque, potenzialmente, qualsiasi individuo, è in grado di prevederne le conseguenze giuridiche 224 . Quanto al che cosa, affinché sussista la certezza del diritto il previsore deve poter prevedere le conseguenze giuridiche dell’azione, ovvero, spiega l’autore, deve avere la «possibilità di tener conto, prima di intraprendere un’azione, di come gli altri consociati la giudicheranno, e di quali comportamenti terranno nei suoi confronti» 225 . Per ciò che riguarda il quanto, gli aspetti inerenti alla definizione della capacità predittiva dei soggetti, alla sua misura e al suo grado di diffusione sono praticamente assenti dalla ricerca di Corsale, lacuna del resto comune alla maggior parte dei lavori dedicati al nostro tema. Ben diverso il discorso di Corsale sul come della certezza, ossia sui metodi e mezzi impiegati per avanzare quelle previsioni il cui successo viene considerato ai fini di una misurazione della certezza del diritto. Abbiamo visto poc’anzi che secondo l’autore la conoOÑATE, F., La certezza del diritto, cit.; RADBRUCH, G. (le opere citate in CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità cit., pp. 1-2). 223 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 40-41. Anche Corsale, dunque, afferma che la certezza del diritto è una qualità scalare, suscettibile di essere presente in una gamma di possibili gradazioni. La certezza è questione di grado: un ordinamento giuridico x può non solo essere assolutamente certo o per nulla certo, ma anche abbastanza certo, poco certo, più certo dell’ordinamento y, ecc. Tuttavia, afferma Corsale, se un ordinamento giuridico è del tutto incerto, cioè assolutamente privo di certezza, esso non può nemmeno dirsi esistente. Il nostro autore, peraltro, trascura la questione della determinazione del grado di certezza. 224 Vedremo però che esso è effettivamente in grado di prevedere solo in quanto membro di un gruppo connotato da una determinata ideologia sociale; vedi infra, § 2.3.c. 225 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 33.

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scenza della legge, della norma codificata, non è affatto indispensabile ai fini della previsione. Ad avere importanza è che l’ordinamento funzioni in modo tale che il previsore possa ugualmente prevedere le reazioni dei consociati nei confronti della sua azione. Ciò, come abbiamo visto, si realizza tanto più: 1) l’ordinamento sia – nello specifico senso che Corsale attribuisce a tale espressione – effettivo-efficiente, 2) siano univoche – cioè uniformi tra i vari consociati – l’interpretazione e le qualificazioni giuridiche. Corsale non nega che la previsione richieda una qualche conoscenza delle norme giuridiche, ma esclude la necessità di acquisire tale conoscenza facendo riferimento agli «strumenti tradizionali» della legge generale e astratta, ai codici o a fonti formali in genere 226 . Alla domanda: “Come gli individui devono prevedere la conseguenze giuridiche delle loro azioni affinché si possa parlare di certezza del diritto?”, Corsale dunque risponde che è sì necessario impiegare delle conoscenze giuridiche, ma queste, lungi dal conseguirsi attraverso la consultazione di codici o raccolte di leggi, derivano direttamente dall’ideologia sociale del gruppo cui il previsore appartiene. Vedremo tra poco che l’autore colloca i concetti sociologici di “gruppo” e “ideologia sociale” al centro della sua teoria della certezza del diritto 227 . Per ora, limitiamoci a rilevare come il veemente antiformalismo di Corsale e la sua reazione contro quella che chiama di volta in volta «concezione tradizionale» della certezza giuridica, o «certezza legale», o «concezione legalistica della certezza» emergano in tutta la loro evidenza quando, uscendo dal piano definitorio, egli passa a considerare i modi attraverso cui è possibile realizzare effettivamente questa «esigenza imprescindibile della vita del diritto» e i suoi presupposti, nonché i modi in cui essa si è concretamente realizzata nell’esperienza storica. Corsale ritiene infatti che la certezza del diritto, come pure i suoi presupposti “materiali”, non possono essere assicurati, con buona pace di Lopez de Oñate e degli illuministi del XVIII secolo, attraverso i tradizionali strumenti della legge e della codificazione: la legge scritta, a causa della sua «stessa natura di proposizione astratta, [è] suscettibile di essere riempita, all’atto dell’applicazione, di contenuti affatto diversi» 228 ; dunque non può 226

Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 34; 58. Vedi infra, § 2.3.c. 228 CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 28. 227

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assolutamente garantire che la qualificazione giuridica di una certa situazione operata da un individuo sia conforme a quella degli altri. Viene così compromessa quell’univocità delle qualificazioni che abbiamo visto costituire, secondo l’autore, requisito fondamentale della certezza-prevedibilità. Né può essere considerata essenziale per quest’ultima la codificazione: se lo fosse, argomenta Corsale, gli individui vivrebbero nella costante ed assoluta impossibilità di progettare le proprie azioni e di prevederne le conseguenze dato che, come ognuno sa, la grandissima maggioranza delle norme contenute nei codici sono ignorate dalla massa delle persone che vivono in regime giuridico di diritto legale 229 ; viceversa, nonostante l’ignoranza della gran parte delle norme di legge, i consociati possono in qualche misura programmare le loro azioni e calcolarne le conseguenze giuridiche, e ciò avviene – o è avvenuto – perfino nell’ambito di ordinamenti non basati sul diritto legale (common law, diritto romano e altri) 230 . Nel prosieguo della trattazione Corsale spinge il suo antilegalismo ancora oltre: non solo la legislazione non è una condizione essenziale per la realizzazione della certezza del diritto (nello specifico senso di prevedibilità), ma ne è un vero e proprio ostacolo, impedendo, a causa dell’eccessiva proliferazione delle leggi e del loro caotico avvicendarsi, quella stabilità normativa che gli stessi fautori della certezza legale affermano essere presupposto necessario per la prevedibilità delle conseguenze giuridiche dalla condotta 231 . La concezione tradizionale della certezza del diritto richiede che le leggi siano poche, affinché possano essere conosciute da tutti, e che siano relativamente durevoli e univoche; ebbene, afferma Corsale, la complessità della società moderna e la sua rapida evoluzione rendono impossibile il verificarsi delle prime due condizioni, la natura stessa della formula legislativa rende impossibile il verificarsi della terza 232 . Insomma, secondo Corsale si deve ammettere che la legge scritta e le codificazioni falliscono completamente l’obiettivo di realizzare la certezza, e ciò è tanto più vero nell’epoca attuale, in cui l’impetuosa e incontrollabile frammentazione del corpo sociale ed il dileguarsi 229

Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 35. Vedi infra, § 2.3.d. 231 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 36. 232 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 29. 230

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dell’idea di corrispondenza della legge con una “volontà generale” capace di rappresentare l’interesse della collettività al di sopra di tutti i particolarismi è all’origine di fenomeni patologici, come quello della universalmente deprecata “ipertrofia della legge” 233 . È dunque inutile, conclude Corsale, accanirsi su una concezione «legalistica» della certezza giuridica e sulle dottrine positivistiche del cosiddetto “sillogismo giudiziale”, dell’applicazione meccanica della legge e dell’amministrazione ispirantisi ad un principio di legalità inteso come rigorosa osservanza della norma scritta: queste teorie, grazie alle critiche della scuola del diritto libero e delle sue diramazioni, sono, sentenzia il nostro autore, oggi del tutto insostenibili 234 . Né questo 233

Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 36, 228232. Corsale aderisce alle critiche di Lombardi Vallauri al diritto legislativo citando il Saggio sul diritto giurisprudenziale e la letteratura ivi riportata. L’espressione “ipertrofia della legge” fu coniata da Carnelutti intorno al 1930, per designare la grave situazione di inflazione legislativa già allora presente. Cfr. CARNELUTTI, F., La crisi della legge, 1930, in Discorsi intorno al diritto, Cedam, Padova 1937, pp. 167 ss. 234 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 48. Queste conclusioni negative sarebbero corroborate, secondo Corsale, non solo da autori più o meno lontani dagli indirizzi formalisti, come l’ultimo Carnelutti o il neogiusnaturalista Coing, ma persino dalle ammissioni di coloro che s’inseriscono in pieno nella tradizione culturale del positivismo giuridico, primo tra tutti Hans Kelsen (su Coing cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 36; su Carnelutti cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 15-18, 28). Proprio Kelsen, sulla base di una concezione dell’ordinamento come Stufenbau, in cui le norme di grado superiore hanno la funzione di tracciare solo i confini entro i quali l’autorità di grado inferiore ha completa discrezionalità nel porre le norme di sua competenza, sarebbe pervenuto a «risultati sostanzialmente analoghi a quelli raggiunti dai giusliberisti, e cioè negativi, per quanto riguarda la prevedibilità dell’applicazione del diritto partendo dalla formulazione legislativa». Questi risultati sarebbero stati mantenuti da Kelsen lungo tutto l’arco della sua produzione nonostante alcune importanti concessioni che, nelle ultime opere, comparirebbero a favore delle posizioni paleo-positivistiche in materia di certezza; cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 28. Per una differente analisi delle presunte oscillazioni di Kelsen in materia di certezza del diritto vedi anche LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., pp. 244-248. Come abbiamo visto (supra, § 2.2.l), secondo la mia ricostruzione delle posizioni di Kelsen in materia di certezzaprevedibilità, le conclusioni dell’autore della Dottrina pura sono effettivamente contrarie solo all’ammissione di una certezza-prevedibilità assoluta, e non ad una prevedibilità relativa. Le funzioni giuridiche sono prevedibili (da una scienza giuridica basata sul Sein come la giurisprudenza sociologica), sebbene lo siano solo in quanto determinate dall’ordinamento giuridico come individuato dalla giurisprudenza normativa. Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 176.

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deve stupire: Corsale invita a riflettere sul fatto che, se si è d’accordo con lui nel considerare la certezza come elemento costitutivo del concetto di diritto, allora ammettere una relazione necessaria tra certezza giuridica e legislazione-codificazione costringe a negare che il diritto stesso sia esistito prima della relativamente recente epoca delle grandi codificazioni e delle moderne teorizzazioni illuministiche e positivistiche, e a concludere – assurdamente – che tutta la storia precedente a tale momento non sia altro che una fase di preparazione alla nascita del diritto vero e proprio 235 .

2.3.c. Certezza-prevedibilità e ideologia sociale Secondo Corsale, non è dunque nella legislazione che si devono cercare gli strumenti più efficaci per la realizzazione della certezza. La certezza “legale” non fornisce infatti alcuna garanzia di univocità nell’interpretazione giuridica e nella qualificazione delle situazioni giuridiche. E tuttavia, potrebbe obiettare il critico giuspositivista, come può un ordinamento essere effettivo ed uniformemente interpretato se le prescrizioni che i consociati sono chiamati ad osservare, interpretare ed applicare non sono esplicitate in disposizioni pubblicamente conoscibili, in norme generali e astratte, valide in quanto prodotte conformemente alle procedure stabilite da altre norme? Più in particolare, come è possibile pervenire alla previsione delle conseguenze giuridiche delle proprie azioni senza sfruttare la conoscenza dei codici e delle leggi scritte in genere? La risposta che il nostro autore dà a questi interrogativi è che l’uniformità di interpretazione e di qualificazione, l’effettività e le conseguenti prevedibilità e sicurezza, possono conseguirsi al più alto grado solo nell’ambito di un ordinamento la cui ideologia sociale sia sufficientemente condivisa dai membri del gruppo che esso regola, specialmente laddove tale ideologia sia caratterizzata dalla prevalenza di elementi cosiddetti comunitari 236 . Infatti, argomenta Corsale, l’ordinamento giuridico, i prin235

Allo stesso modo, dice Corsale, saremmo costretti a negare l’esistenza del diritto nelle società che ancora oggi non si basano sul diritto legislativo; Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 58. 236 Corsale dichiara la sua intenzione di adoperare i concetti di “relazioni comunitarie” e “relazioni societarie” in modo innovativo, superando la «antiquata teorizzazione che dei concetti di comunità e società ha operato Tönnies»; CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 99.

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cipi, le norme di cui si compone, altro non sono che l’emanazione dell’ideologia sociale del gruppo. Anzi il termine “ordinamento giuridico”, ancor prima di denotare un complesso di norme, indica un complesso organizzato di persone, un gruppo, appunto (ove per “gruppo” si intende un’aggregazione relativamente stabile, costante e organizzata di individui che, in maniera più o meno esplicitamente consapevole, perseguono uno scopo comune) 237 . Ogni gruppo, infatti, nasce proprio per perseguire un fine comune a tutti i suoi membri, per esempio la sussistenza fisica dei membri stessi, il lucro, la conquista di posizioni di potere politico, la realizzazione di un ideale religioso, la difesa da nemici esterni, il divertimento o qualsiasi altro possibile obiettivo 238 . Anzi, lo scopo comune può anche essere complesso, e dunque consistere in una pluralità di obiettivi. Ogni gruppo ha poi una propria visione del mondo, cioè presenta un complesso di nozioni culturali, di idee religiose, di concezioni circa i rapporti sociali e politici che, pur non essendo necessariamente condiviso in toto dai singoli membri, lo caratterizza come «unità organicamente integrata», costituendone la cultura comune 239 . Ebbene, combinando 237 Tutti i tradizionali criteri proposti per distinguere gli ordinamenti giuridici dalle altre forme di controllo sociale, come quelli che collegano la giuridicità alla coazione, alla sanzione o al modo di irrogarla non reggono, secondo Corsale, ad un’analisi approfondita. Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 61-71. Perfino gli istituzionalisti (Hauriou, Romano, Cesarini Sforza), nonostante l’encomiabile sforzo di pervenire a delle concezioni pluralistiche del diritto che superassero il rigido monismo dei giuristi «di ispirazione rigidamente positivistica-legalistica», non hanno compiuto sostanziali progressi in questo senso, mantenendo la tradizionale distinzione tra ordinamenti giuridici, morali e sociali e limitandosi a sostituire alla visione unitaria dell’ordinamento giuridico una concezione in cui questo è costituito da una pluralità di cerchie contenute l’una dentro l’altra e in qualche misura subordinate l’una all’altra; cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 71-78. Dunque non v’è ragione per riservare la qualifica “ordinamento giuridico” ai soli sistemi di norme emanate o riconosciute dagli stati; essa deve essere estesa anche ad indicare i sistemi di norme emanate da chiese, organizzazioni politiche e sindacali, società commerciali, associazioni culturali o sportive, e persino ai cosiddetti ordinamenti morali e sociali. Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 64, 89-91. 238 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 82. 239 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 94-95; 98. Qui Corsale, rifacendosi a Mannheim (cfr. MANNHEIM, K., Ideologia e Utopia, Il Mulino, Bologna 1957, citato in CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 93), adopera il termine “ideologia” per indicare la “visione del mondo propria di un gruppo sociale”, e considera tale Weltanschauung come elemento che,

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questa Weltanschauung con l’elemento dello scopo comune, si addiviene, secondo l’impianto teorico adottato da Corsale, al concetto di ideologia sociale, definita come «complesso organico costituito dalla visione generale del mondo propria dei componenti di un gruppo sociale – a sua volta dipendente dal livello di sviluppo culturale e dalla situazione materiale e ambientale obiettiva in cui esso opera – nonché dall’insieme degli scopi che il gruppo si prefigge di raggiungere, e che ne sono la ragione stessa di esistenza» 240 . In un’unica società vi sono pertanto tanti ordinamenti giuridici quanti sono i gruppi dotati di una propria ideologia sociale. Tali ordinamenti (per esempio, le famiglie) conservano autonomia anche se un gruppo-ordinamento più vasto (per esempio, lo Stato) prende a considerarli come una sua parte; essi vengono assorbiti in quest’ultimo, diventandone una mera articolazione, solo nel caso in cui abbandonino la propria specifica ideologia sociale per assumere esclusivamente quella dell’ordinamento più vasto 241 . Da questo intrecciarsi e sovrapporsi di gruppi sociali, osserva Corsale, deriva che il singolo individuo si trova generalmente a far parte di più gruppi contemporaneamente 242 ; il diritto, in questo schema, non è un ordinamento universale, un sistema di norme che trascende la società, bensì l’insieme empiricamente constatabile delle organizzazioni dei vari gruppi che la compongono, nonché lo strumento per l’attuazione razionale dei progetti di ciascuno di essi 243 . La certezza-prevedibilità, secondo Corsale, è dunque indissolubilmente collegata ad una visione del diritto come diretta espressione di un’ideologia sociale, vero e proprio principium individuationis del

assieme allo scopo comune, costituisce la c.d. ideologia sociale. Siamo quindi di fronte ad un uso del termine diverso rispetto a quando definisce “ideologici” gli aspetti non essenziali e storicamente relativi del concetto di certezza del diritto (vedi supra, §. 2.3.a). 240 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 113. Nell’introduzione alla seconda edizione del suo libro, Corsale propone la sostituzione del concetto di “ideologia sociale” con quello di “cultura”, definita come «sensibilità e concezione della realtà costituentesi in ciascun gruppo umano nella dinamica dei rapporti umani e socio-ambientali» (cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. X-XVI; XLV-XLVI). 241 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 109. 242 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 105-106. 243 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 96-97.

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giuridico 244 . Nell’ideologia sociale di un gruppo, afferma l’autore, si trova implicito l’ordinamento giuridico che lo regola. Da essa scaturiscono infatti i “principi generali dell’ordinamento”, e da questi, nonché dal condizionamento che sulla loro applicabilità esercitano le condizioni obiettive e materiali date dalla situazione storica in cui il gruppo opera, derivano le singole norme giuridiche 245 . Corsale parla addirittura di “deducibilità” delle norme giuridiche dai principi, ed anzi è proprio tale deducibilità che «conferisce diritto di cittadinanza alle norme dell’ordinamento, quanto meno sotto il profilo dell’efficacia e della giustizia» 246 . Le norme giuridiche, o – par di capire – almeno i loro contenuti prescrittivi, sarebbero dunque il risultato di un’inferenza logico-deduttiva le cui premesse sono costituite sia dai principi-criteri di valore contenuti nell’ideologia sociale (Corsale parla a questo proposito di “premesse prescrittive), sia dalle condizioni materiali, storiche, in cui il gruppo interessato opera, interpretate alla luce della cultura del gruppo stesso (“premesse fattuali”) 247 . Le modalità concrete con cui viene stabilita l’appartenenza

244

Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 89-97. Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 113-115. Si noti che, secondo Corsale, tali principi non vanno affatto ricavati in virtù di un processo di astrazione generalizzante dalle norme stesse, bensì direttamente dedotti dall’ideologia sociale: «è dai principi che si deducono le norme, non è dalle norme che si inducono i principi» (ibidem, p. 114). In un lavoro più recente, Corsale insiste sul concetto di “senso comune” come “precipitato storico” (l’espressione è di Antonio Gramsci) dell’esperienza collettiva: «Se dunque, come possiamo considerare pacifico, le norme sono un sotto-insieme delle regole e le regole a loro volta sono il deposito del senso comune, allora il diritto e il senso comune hanno un rapporto davvero strettissimo»; cfr. CORSALE, M., Il giurista tra norma e senso comune, cit., pp. 136-137. 246 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 115. 247 Corsale non si diffonde affatto sui dettagli di questa «visione “discendente” del processo di formazione delle norme» (ibidem) né sul modo in cui dalle indicate premesse prescrittive e descrittive più generali vengono dedotte le norme meno generali. L’autore si limita a sottolineare la stringenza logica di questo processo, capace di condurre infallibilmente l’interprete che conosce le premesse – e che dunque padroneggia l’ideologia sociale del gruppo – all’esplicitazione delle norme che regolano la condotta dei suoi membri. Tale stringenza logica si contrapporrebbe all’aleatorietà dei risultati cui invece perviene il processo di astrazione generalizzante tipicamente adoperato dai giuspositivisti quando cercano di indurre i principi generali a partire dalle norme. Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 114-115. 245

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formale all’ordinamento, cioè la validità delle norme giuridiche, nota Corsale, possono invece variare secondo le diverse situazioni storiche in cui il gruppo si trova ad operare e secondo le sue specifiche esigenze 248 . Così stando le cose, secondo Corsale è chiaro che la certezza del diritto come prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle proprie azioni può sussistere solo all’interno di un ordinamento la cui ideologia sia sufficientemente condivisa dai membri del gruppo che esso regola. In questo quadro teorico, la norma, scritta o non scritta, di produzione legislativa o di produzione giudiziaria o consuetudinaria, non riveste affatto un ruolo primario nella previsione giuridica: essa non ha alcuna autorità se non è riconducibile all’ideologia che pervade il gruppo. Per corroborare questa tesi, Corsale non esita a ricorrere all’auctoritas di un giuspositivista di comprovata fede come Uberto Scarpelli, citandolo testualmente: «Quando diminuisce la forza morale e sociale di un ordinamento, e questo principalmente si regge sulla forza di un apparato coercitivo, si approssima la rivoluzione. L’apparato coattivo crollerà come mucchio di terra che le termiti abbiano svuotato dall’interno» 249 . La saldezza dell’ideologia sociale, conclude Corsale, è la migliore garanzia della certezza poiché dà vigore alle norme in cui l’ideologia stessa si estrinseca; non è dunque puntando sulla norma che si persegue la certezza, bensì puntando sull’ideologia che presiede all’ordinamento 250 . Siamo ora in grado di capire perché la prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle azioni è ritenuta maggiore in quei gruppiordinamenti nella cui ideologia sociale prevalgono gli elementi che Corsale chiama comunitari, ovvero quelli che garantiscono la coesione del gruppo attraverso la preminente considerazione degli scopi collettivi rispetto agli interessi individuali. In questi ordinamenti, la presenza di un forte sentimento di solidarietà di gruppo, la consapevolezza della comunanza di scopo, la coscienza di formare una comunità che si differenzia e talvolta si contrappone ad altre comunità, la condivisione di una medesima Weltanschauung e la diffusa consa248

Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 116-119. Cfr. SCARPELLI, U., Il problema della definizione e il concetto del diritto, Ist. edit. Cisalpino, Milano 1955, p. 96, citato in CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 121. 250 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 121. 249

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pevolezza della funzionalità delle norme rispetto agli scopi comuni permettono ai membri del gruppo (e, tra questi, agli operatori giuridici) di derivare immediatamente le norme dall’ideologia sociale intendendole «nel loro senso genuino, ossia nella loro funzionalità rispetto agli scopi del gruppo, in modo coerente con la cultura dello stesso» 251 . Negli ordinamenti in cui prevalgono gli aspetti comunitari, dunque, l’elevato grado di partecipazione degli individui all’ideologia sociale rende non necessario che la stessa venga esplicitata in norme; di conseguenza è meno avvertito il problema della certezza formale di queste ultime. La certezza, dice Corsale, si realizza in questi casi automaticamente, “informalmente”, senza bisogno di leggi, di codici o di sistemi di massime giurisprudenziali. Nei gruppi-ordinamenti la cui ideologia è invece caratterizzata dalla prevalenza degli aspetti che Corsale definisce societari, cioè quelli che hanno riguardo specificamente alla tutela dell’individuo come singolo e alla considerazione dei suoi fini individuali, la coesione sociale è più debole ed è correlativamente meno intensa la partecipazione degli individui ad una comune ideologia sociale. Pertanto, da un lato è più forte l’esigenza che doveri e diritti di ognuno siano esplicitati in norme oggettivamente “certe”, dall’altro lato, non essendo le norme direttamente funzionali agli scopi del gruppo, viene meno un fondamentale elemento di univocità nell’intenderle. Diventa dunque necessario ricorrere alla formulazione esplicita delle norme con il proposito di accertare il diritto tramite leggi scritte, codici, sistemi di gerarchia delle fonti giuridiche, rigidi riferimenti ai precedenti, e così via. Peraltro, prosegue Corsale, ciò non è sufficiente a garantire la certezza, neanche quando la formula mediante la quale la norma viene espressa sia talmente precisa da non dar luogo ad equivoci: le norme, isolate dall’ideologia sociale che dà loro un senso e di cui sono esplicitazioni, non sono più funzionali agli scopi generali del gruppo-ordinamento; «se questi ultimi sono subalterni rispetto agli scopi individuali, non sono evidentemente in grado di essere sempre presenti in posizione preminente in tutti gli operatori giuridici, e quindi di esercitare una funzione unificante nell’interpretazione delle norme» 252 . Viene dunque meno la possibilità di realizzare la 251

Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 124. Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 125, corsivo mio. 252

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certezza in modo informale, ovvero attraverso l’intuizione immediata dell’ideologia sociale da parte di tutti i membri del gruppo, ed è giocoforza ricorrere alla formulazione esplicita della norma, cui peraltro, conclude Corsale, ciascun interprete tenderà ad assegnare la funzione, e dunque il senso, che ritiene più opportuno, con ovvio pregiudizio per qualsiasi esigenza di certezza-prevedibilità 253 .

2.3.d. La certezza nella storia del diritto Corsale ritiene di poter dimostrare l’ipotesi fin qui riportata attraverso il riferimento concreto all’esperienza storica. È significativo che il nostro autore indichi come golden ages della certezza le età del diritto romano pre-classico e classico, del diritto feudale, dei diritti comune e canonico altomedievali 254 . Tutte queste esperienze giuri-

253

Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 122-126. Il diritto romano è spesso citato come esempio paradigmatico di certezza giuridica realizzata tramite strumenti diversi dalla legislazione o dalla codificazione (cfr. SARGENTI, M., LURASCHI, G. (a cura di) La certezza del diritto nell’esperienza giuridica romana (atti del convegno Pavia 26-27 aprile 1985), Cedam, Padova 1985). Già nel 1961, Bruno Leoni, nel suo lavoro La libertà e la legge, aveva anticipato gran parte delle conclusioni cui Corsale arrivò dieci anni dopo. Entrambi gli autori, in effetti, rilevano la scarsa propensione dei romani dell’età classica per la legislazione statuale e per l’interpretazione letterale di testi scritti, non in grado, in base alla mentalità dell’epoca, di garantire un’adeguata aderenza alla “natura della cosa”, e pertanto non considerati utili ai fini della corretta valutazione giuridica di un fatto e delle sue conseguenze. Soprattutto, Corsale e Leoni pongono l’accento sul convincimento diffuso presso i romani di una sostanziale convergenza tra i criteri direttivi della condotta adottati da giudici e magistrati (accertati e descritti, ma non decretati dai giureconsulti) e i criteri che ciascuno dei membri della collettività avrebbe comunque fatto propri, riconoscendoli come coerenti con una visione del mondo condivisa e basata su una tradizione lentamente evolutasi nel corso di un lungo periodo storico. Nell’esperienza giuridica romana, la prevedibilità delle conseguenze giuridiche dell’azione è dunque conseguita nonostante l’assenza di norme “certe” in senso formale e senza limiti espliciti per l’esercizio del potere politico, grazie all’intuizione immediata di un’ideologia sociale fortemente condivisa e carica di elementi comunitari (Corsale) o grazie ad una concezione del diritto come eredità culturale non arbitrariamente modificabile e comune a tutti i cittadini (Leoni). Questo stato di cose si protrae, secondo Corsale, fin quasi alla fine del periodo classico: già durante il principato di Adriano la promulgazione dell’Edictum perpetuum, sorta di codificazione dell’editto del pretore, rivela un mutamento di equilibrio del diritto romano, da questo momento in poi sempre più vanamente teso verso una certezza “legalistica”; cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 254

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diche sarebbero accomunate dalla presenza di ideologie con prevalenza di elementi comunitari, e dunque da quella “certezza sostanziale” che secondo la dottrina qui esposta garantisce un più elevato grado di prevedibilità delle conseguenze giuridiche dell’azione e di efficienza dell’ordinamento 255 . L’autore fa rilevare che nelle contingenze storiche indicate, ad un elevato grado di certezza sostanziale corrisponde regolarmente una notevole “incertezza formale”, intesa come carenza di norme esplicitamente formulate o di limiti precisi all’esercizio del potere. Tale incertezza, secondo Corsale, non viene peraltro avvertita dagli uomini del tempo come un problema, almeno fino a quando rimane sufficientemente condivisa l’ideologia sociale che permea il gruppo-ordinamento, e cioè fino a quando gli elementi societari che caratterizzano le società di tipo mercantile e poi commerciale-industriale non assurgono ad un ruolo di importanza preminente. Solo in queste fasi si assiste ad una crisi della certezza sostanziale, e solo allora si cerca di ovviare a questa crisi con strumenti certificanti di tipo legalistico-formale. Si tratta tuttavia, insiste Corsale, più di ripieghi che di rimedi, giacché essi mai garantiscono lo stesso livello di certezza, di sicurezza e dunque di giustizia che si realizza negli ordinamenti con prevalenza di aspetti comunitari. È comunque soprattutto nello stato moderno, sostiene Corsale, che il problema della certezza si avverte in tutta la sua drammaticità. All’ascesa della borghesia, infatti, corrisponde l’affermarsi di un ethos individualistico e di relazioni di tipo eminentemente societario che fanno emergere un’esigenza di certezza-sicurezza-prevedibilità non soddisfacibile se non con l’uso di strumenti garantistici e “legalistici”. L’individualismo, lungi dal favorire la cooperazione interindividuale conduce ad accentuare le istanze di tutela dei singoli, e ad esigere per questi garanzie precise nei confronti degli altri individui e dei pubblici poteri. Diventa così indispensabile esplicitare preventivamente e formalmente le direttive di comportamento, perlopiù tramite leggi generali e astratte; il diritto dello stato, specie nell’Europa continentale, diventa soprattutto diritto legale, e d’altra parte solo il diritto legale-statale è considerato vero diritto. La certezza del diritto, dunque è in quest’epoca soprattutto certezza della 129-150; LEONI, B. Freedom and the law, 1961, trad. it. La libertà e la legge, Liberilibri, Macerata 1995, pp. 93-106. 255 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 127-171.

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legge: «di una legge astratta, generale, uguale per tutti, trascendente la società» 256 . Corsale svolge analoghe considerazioni riguardo ai sistemi di common law, a partire dal XVII secolo sempre più improntati, a suo parere, ad un’analoga esigenza di certezza formale. La massima contenuta nel precedente, sostiene l’autore, è infatti una specificazione formale dell’ideologia dell’ordinamento allo stesso modo della norma di diritto legale. Essa, lungi dal potersi considerare come ius singulare, va considerata piuttosto come applicazione al caso singolo di una norma astratta e generale non formulata legislativamente bensì presupposta logicamente dal giudice 257 . La spinta verso la certezza formale, afferma Corsale, scaturisce dunque dalle esigenze stesse della società moderna ed è l’ideologia sociale sottesa allo stato moderno che influenza i moderni teorici del diritto (da Bacone a Montesquieu, da Muratori a Bentham) nel senso di spingerli a considerare la certezza legale-formale come l’unico tipo di certezza giuridica. Tuttavia, prosegue l’autore, l’ideologia dello stato moderno, pur essendo caratterizzata da una prevalenza di elementi societari, presenta anche importanti elementi comunitari, come il senso di appartenenza ad una comunità-nazione omogenea dal punto di vista etnico-linguistico, culturale e religioso ed il convincimento, diffuso specialmente nei ceti dirigenti, che la dimensione nazionale-statale sia quella ottimale per l’estrinsecazione dell’iniziativa economica di tipo capitalistico. Secondo il nostro autore, sono questi elementi comunitari a perpetuare, sia pure nel quadro di un’ideologia prevalentemente societaria, l’efficienza dell’ordinamento. Essi, infatti, offrendo la possibilità di interpretare e applicare le norme in modo sostanzialmente univoco e certo, permettono di superare l’inevitabile indeterminatezza delle formulazioni legislative, per esempio quelle contenenti le cosiddette “clausole generali”, e consentono sia di fronteggiare il perenne formarsi di lacune dell’ordinamento sia di risolvere le antinomie quando falliscono i canoni prestabiliti. Questo “senso dello Stato” comunitario, dunque, è ciò che negli stati assoluti prima e in quelli liberaldemocratici poi garantisce, almeno in parte, quella coesione sociale che abbiamo visto essere, secondo Corsale, condi-

256 257

Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 224. Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 202-208.

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zione per il raggiungimento di un elevato livello di prevedibilità giuridica. La crisi della certezza si avverte pertanto solo quando anche questi residui elementi comunitari dell’ideologia sociale vengono meno, cosa che storicamente, negli stati europei, si verifica a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, a seguito dell’impetuoso sviluppo di un nuovo pluralismo sociale. Viene allora minato alla base uno dei capisaldi principali dell’ethos borghese su cui si era fondata la concezione dello stato moderno: l’individualismo. Secondo Corsale, il sorgere dei grandi trusts, dei partiti politici di massa, dei movimenti sindacali e delle corporations multinazionali, conduce inevitabilmente alla disgregazione dell’ideologia nazionale statale, alla crisi del primato della solidarietà tra i membri dello stato-nazione e all’affermarsi di gruppi portatori di ideologie sociali proprie, eventualmente in attrito o in conflitto con quella espressa dall’ordinamento statale 258 . Il venir meno dell’unità dell’ideologia nazionale e dei suoi residui elementi comunitari conduce alla fine dell’idea di corrispondenza della legge con una “volontà generale” in grado di rappresentare l’interesse collettivo al di sopra tutti i particolarismi. Ciò, sostiene Corsale, implica a sua volta la fine della fiducia nella legge intesa come strumento per realizzare concretamente un ideale di giustizia valido per tutta la collettività; lo stato si fa portavoce di volontà particolari intervenendo legislativamente nelle questioni economiche e sociali e favorendo alcuni interessi a spese di altri, con almeno due importanti conseguenze: la tendenziale supremazia dell’esecutivo sul legislativo, e la propensione a governare per mezzo di leggi sempre più simili ad atti amministrativi, “leggine” spesso promulgate ad hoc per risolvere un problema specifico. Ovviamente, tutto ciò fa sì che la produzione legislativa aumenti a ritmo sempre più frenetico, determinando quella situazione di ipertrofia della legge che oggi ben conosciamo. Viene allora fatalmente compromesso un altro dei clas258 Quando il gruppo subalterno «acquista consapevolezza del fatto che i suoi interessi (e quindi i suoi fini) sono diversi rispetto a quelli del sottogruppo dominante, che diverse sono la sua concezione del mondo della sua cultura, esso tende a rendere sempre più esplicita tale differenza, innanzitutto davanti a sé stesso e successivamente all’esterno. Esso quindi elabora strumenti e forme organizzative adatte al raggiungimento di detti fini, e, prima ancora di questi, matura criteri di valore per giudicare i comportamenti umani, e soprattutto quelli dei membri del sottogruppo stesso: insomma elabora una propria ideologia, ossia un ordinamento giuridico»; cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 227.

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sici requisiti indispensabili per la certezza legale: il numero limitato delle leggi e la loro stabilità nel tempo. Né si deve pensare, avverte Corsale, che mediante accorgimenti tecnico-legislativi sia possibile porre rimedio a questa situazione: l’ipertrofia e la precarietà della legge sono in re ipsa nel rapporto stato-società quale si è venuto instaurando a seguito del passaggio dallo stato di diritto allo stato sociale. La dinamica reale della società del nostro tempo rende tali trasformazioni irreversibili; nello stato contemporaneo, la certezza del diritto come certezza legale appare pertanto, proclama Corsale, assolutamente irrealizzabile 259 . Il nostro autore rileva almeno due tentativi di superare questa apparentemente inarrestabile crisi della certezza. Il primo di questi si è spinto fino a proporre (o meglio, come subito vedremo, imporre) un recupero degli elementi comunitari dell’ideologia statualistica a spese degli elementi societari, considerati disgregatori dell’unità dello stato-nazione. Si tratta di un programma rivolto ad esaltare il contenuto “etico” dello stato moderno, e trova nell’ideologia giuridica del nazifascismo e nel suo più significativo fautore, Carl Schmitt, i suoi fondamenti teorici 260 . L’ideale indicato da Schmitt è quello dello stato militare prussiano, in cui il popolo si raccoglie in effettiva unità attorno ai suoi capi-condottieri e in cui la classificazione dei rapporti tra gli individui avviene sulla base delle sole categorie di amicus e hostis. Il Terzo Reich viene salutato come restaurazione della vera comunità nazionale popolare in cui i valori collettivi hanno il sopravvento su quelli individualistici e centrifughi. Il pluralismo sociale viene stigmatizzato in quanto inscindibilmente collegato con un individualismo visto come elemento disgregatore dell’unità dello stato-nazione comunitariamente inteso. La certezza legale, oltre che ri259

Inoltre, afferma Corsale, dato che la certezza legale è il tipo di certezza adeguato alla natura prevalentemente societaria dello stato moderno e che essa è condizione imprescindibile di efficienza di un ordinamento, deve concludersi che la crisi irrimediabile della certezza legale nel nostro tempo è crisi irrimediabile dell’efficienza dell’ordinamento statale contemporaneo; cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 228-235. 260 Ancor prima di Corsale, fu Guido Fassò a qualificare Carl Schmitt come il più importante teorico del nazionalsocialismo; cfr. FASSÒ, G., Storia della filosofia del diritto, Il Mulino, Bologna 1970, III, p. 381; FASSÒ, G., Società, legge, ragione, Edizioni di Comunità, Milano 1974, pp. 75-87. Cfr. anche BARBERIS, M., Filosofia del diritto: un’introduzione storica, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 152 ss.

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tenuta materialmente irrealizzabile a causa della massiccia diffusione delle clausole generali nel diritto contemporaneo, è pertanto considerata contraria allo spirito dello stato-nazione appunto in quanto espressione di individualismo 261 . La certezza teorizzata da Schmitt è invece sostanziale: l’applicazione del diritto avviene in naturale sintonia con il modo di pensare del popolo; i giudici sono davvero “bocca della legge”, ma non in senso formalistico à la Montesquieu, bensì in senso materiale – «naturalistico quasi», precisa Corsale – in quanto nello stesso popolo, nell’ambito dello stesso patrimonio etnico-culturale, non c’è differenza tra bocca e bocca, e quindi neanche tra quella del legislatore e quella del giudice, né tanto meno tra quelle dei vari giudici 262 . Date le premesse, non sorprende più tanto che Corsale affermi di ritenere sostanzialmente accettabile il discorso di Schmitt, almeno laddove sottolinea l’indubbia relazione esistente tra il grado di adesione di giudici e popolo all’ideologia dell’ordinamento e la concreta attuazione della certezza del diritto. Anzi, il nostro autore si spinge ad affermare che: la realizzazione della certezza del diritto non formale, ma sostanziale, non sarebbe in teoria incompatibile con il principio anti-legalistico del Führer, la cui parola costituisce interpretazione autentica della legge anche se contrasta con la formulazione letterale di quest’ultima. L’idea di un capo carismatico che assolve le funzioni di un “profeta giuridico”, interpretando non tanto le singole norme bensì direttamente l’ideologia sociale che sta a fondamento dell’ordinamento giuridico, è un’idea compatibile con la certezza del diritto in un gruppo stretto attorno a un’ideologia sociale profondamente condivisa e caratterizzata da una prevalenza di elementi comunitari. In tal caso, infatti, l’esplicitazione dell’ideologia effettuata dal Führer tende a trovare naturalmente consenzienti gli altri consociati, appunto perché questi sono legati tra di loro e con il capo da più fattori di quanti non tendano dividerli, giacché nell’ideologia gli elementi comunitari prevalgono su quelli societari 263 .

261 Cfr. SCHMITT, C., Stato, movimento, popolo, trad. it. in Principii politici del nazionalsocialismo, Sansoni, Firenze 1935, pp. 227 ss. 262 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 240. 263 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 242-243.

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L’aspetto criticabile della concezione schmittiana della certezza del diritto, secondo Corsale, non consiste nella sua idea di fondo, cioè quella di una certezza intesa in questo particolare senso “sostanziale”, bensì nel fatto che essa non fa i conti con la complessa evoluzione della società contemporanea verso un pluralismo che comprende svariati gruppi-ordinamenti autolegittimantisi, i quali con la loro sola esistenza pregiudicano quell’unità ideologica tra Führer, amministratori del diritto e cittadini comuni che viene considerata indispensabile per la realizzazione di questo modello di certezza giuridica. La costruzione di Schmitt, prosegue Corsale, propone un’esaltazione artificiosa di elementi comunitari dell’ideologia sociale che sono in crisi non per una colpevole negligenza dei politici e dei teorici del diritto, bensì per motivi connessi con lo sviluppo della società contemporanea. Corsale avverte che c’è solo un modo di realizzare questa omogeneità ideologica portatrice di certezza sostanziale: quello di mettere a tacere i gruppi più deboli e di considerare come parte decisiva dell’ideologia nazionale popolare gli interessi e i fini dei gruppi più forti calpestando i diritti di libertà individuale e inglobando artificiosamente e coattivamente il pluralismo sociale nel quadro dello stato-nazione, ciò che, nell’esperienza storica dei regimi nazifascisti, è puntualmente accaduto. Il principio del Führer, afferma Corsale, diventa dunque una «mistificazione oppressiva» in un gruppo come quello dell’odierno stato-nazione, di natura prevalentemente societaria e complessa 264 . Presupporre una tale omogeneità ideologica come realmente operante nelle attuali società pluralistiche, in cui i cittadini si trovano a far parte contemporaneamente di più gruppi-ordinamenti aventi ideologie non sempre compatibili con quelle dello stato, lungi dal porre le basi per l’introduzione di una certezza sostanziale nella vita del diritto, crea dunque le premesse per far precipitare quest’ultima ai più bassi livelli di certezza, e per gettare l’ordinamento in preda all’arbitrio e al caos 265 . Un secondo e più recente tentativo di risolvere il problema della crisi della certezza del diritto, afferma Corsale, è quello che fa capo 264

Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 243. Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 243. Insomma, sembra di capire che la critica rivolta da Corsale al nazismo giuridico di Carl Schmitt investe soprattutto il profilo etico-politico e solo in subordine quello teorico. 265

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ad alcuni studiosi italiani che, pur partendo da posizioni critiche nei confronti della certezza legale, riconoscono, diversamente da altri assertori dell’antiformalismo, l’importanza del valore della certezzaprevedibilità nell’esperienza giuridica 266 . Secondo costoro, i giudizi di valore che, pur non scaturendo direttamente dal dettato legislativo, entrano in gioco nell’applicazione concreta del diritto, non nascono da scelte soggettive arbitrarie e imprevedibili: l’interprete «non fa che tradurre nella valutazione giuridica, interpretandola e arricchendola, quei valori normativi, e, in fondo, quelle certezze della coscienza comune, che altrimenti resterebbero escluse dall’ambito dell’ordinamento» 267 . Si tratta dunque anche in questo caso di posizioni teoriche secondo le quali è possibile garantire la prevedibilità delle conseguenze giuridiche dell’azione grazie al ricorso ad una presunta “coscienza comune” che, in quanto condivisa da giudici, amministratori e utenti del diritto, scongiurerebbe l’arbitrarietà e l’imprevedibilità di quei giudizi di valore soggettivi che hanno un ruolo decisivo nell’applicazione concreta del diritto. Anche questa teoria, osserva Corsale, è però basata su una mistificazione: la pluralità degli ordinamenti giuridici, corrispondenti ciascuno a un gruppo portatore di una propria ideologia sociale, costituisce un ostacolo insormontabile alla formazione di quella “coscienza comune” su cui la prospettiva illustrata si fonda. Così stando le cose, ogni richiamo a tale irrealizzabile comunione è vano ed anzi rischia, secondo Corsale, di aprire pericolosamente la via all’arbitrio e all’incertezza 268 .

2.3.e. Prospettive per la soluzione di una crisi Insomma, secondo Corsale le prospettive recentemente delineatesi per una considerazione in chiave antiformalistica della certezza del diritto presentano delle carenze che, oltre ad impedire la realizzazione della “certezza sostanziale”, conducono verso pericolosi arbitri. L’odierna crisi della certezza, afferma il nostro autore, non è però senza soluzione. Se si ha presente in primis il rapporto tra certezza 266

Corsale cita a questo proposito Ascarelli e Caiani; cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 245-246. 267 CAIANI, L., I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Cedam, Padova 1954, citato in CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 246. 268 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 243-247.

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non formale e forza coesiva di un’ideologia sociale con prevalenza di elementi comunitari, ed in secundis il rapporto tra certezza legale e ideologia con prevalenza di elementi societari, si riconoscerà che è necessario risolvere il problema della certezza a due distinti livelli: quello dei singoli gruppi emergenti spontaneamente nella società e quello dei rapporti tra questi ultimi, nonché tra essi e i singoli individui. A livello dei singoli gruppi di dimensioni limitate e pervasi da un’ideologia fortemente comunitaria, afferma Corsale, una certezza di tipo informale già si realizza nell’esperienza quotidiana dell’odierna società, ad esempio nell’ambito di movimenti politici, confessioni religiose, comunità locali e di villaggio, gruppi che si costituiscono in virtù della solidarietà di ceto, o di classe, minoranze etnico-linguistiche ecc. In questi gruppi la diffusa condivisione di una comune ideologia sociale si traduce in un sistema di regole di comportamento, in forme di costume e di etica sociale che consentono, pure in assenza di norme esplicitamente formulate, la calcolabilità delle conseguenze delle azioni dei singoli individui. Corsale anzi si spinge ad affermare che «se fosse possibile e compatibile con le esigenze del nostro tempo incoraggiare lo spezzettamento della società in tante collettività di dimensioni limitate e pervase da un’ideologia fortemente comunitaria, il problema della certezza sarebbe abbastanza agevolmente risolvibile, in modo antiformalistico ma assai efficace» 269 . Sennonché, egli aggiunge, la società contemporanea, mentre da una parte è caratterizzata da una tendenza all’incessante proliferazione di gruppi-ordinamenti, dall’altra parte procede verso una sempre più profonda integrazione, conformemente ad esigenze di concentrazione produttiva, di programmazione e di pianificazione dell’iniziativa (soprattutto, ma non solamente) economica. Si tratta anche di un’integrazione culturale, poiché i tempi avanzano verso l’assorbimento delle culture extraeuropee e preindustriali in una koinè sempre più comprensiva e profonda 270 . È dunque richiesta una soluzione al problema della certezza che valga anche per una collettività che comprende in sé molti gruppi e che perciò deve regolare i rapporti tra i medesimi, nonché tra questi e gli individui che li compongono. Si tratta, in altre parole, di trovare una soluzione per il pro-

269 270

Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 253. Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 253.

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blema della certezza di un diritto intergruppale: una sorta di moderno ius gentium che, in quanto puramente societario, non può garantire la sua certezza se non con procedure formali 271 . Tuttavia, dice Corsale, diversamente da quanto accade per la gran parte degli ordinamenti prevalentemente societari, l’esplicitazione delle norme del diritto inter-gruppale non costituisce ostacolo per la loro interpretazione. Infatti, tale diritto è costituito da norme che non si ispirano ad una specifica ideologia sociale, bensì ad alcuni principi generali presenti in ogni ordinamento giuridico: le libertà civili, i principi della buona fede, dell’affidamento, dell’adempimento degli impegni assunti, della tolleranza, formano un comune denominatore che sta alla base di una koinè culturale condivisa da tutte le società odierne al di là delle proprie specifiche ideologie. Si tratta invero di principi che mirano a rendere possibile la coesistenza di finalità diverse, piuttosto che ad affermarne una determinata: «I valori negativi di cui essi sono esplicitazione sono […] interiorizzati da parte di tutti coloro che vivono nella società contemporanea, e possono quindi far parte della “coscienza comune” di tutti costoro» 272 . Questo minimum di “coscienza comune”, secondo Corsale, proprio perché sottratto all’ipoteca di specifiche ideologie sociali, rende possibile realizzare in misura soddisfacente la certezza nonostante l’impiego di strumenti legalistici: le norme che ad esso si ispirano, pur esplicitate in formule, carte, codici o altro, potranno essere interpretate in modo uniforme e dunque “certo” in quanto non condizionate da contenuti ideologici propri di uno specifico gruppo, ma da principi condivisibili da parte di tutti i membri di una società 273 . La soluzione che Corsale propone per il problema della certezza, dunque, prevede un diritto intergruppale societario ma, per le ragioni appena esposte, certo, che svolge l’esclusiva funzione di coordinare e di armonizzare gli ordinamenti particolari di gruppi autonomi, certi in quanto prevalentemente basati su relazioni di tipo comunitario 274 . Ma donde scaturisce questo dirit-

271

Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 254-255. Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 255. 273 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 254-258. 274 Per “armonizzazione” Corsale qui intende l’attività che si limita a far sì che la totale autonomia e spontaneità dei gruppi non porti al bellum omnium contra omnes, non quella che pretende di coordinare i diversi ordinamenti dei gruppi in modo da 272

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to intergruppale? Non certo dallo stato così come oggi è concepito, afferma Corsale, perché allora sarebbe diritto di un gruppo complesso che integra molteplici gruppi-ordinamenti subalterni e non diritto che regola i rapporti tra gruppi reciprocamente indipendenti e non subordinati all’ideologia sociale di un ordinamento più vasto. Il diritto intergruppale può essere considerato diritto statale solo se si è disposti a far coincidere lo stato con l’ideale popperiano della “società aperta”, ossia della società «in cui c’è posto per tutti i gruppi ordinamenti, per tutte le ideologie sociali, purché si propongano fini potenzialmente universalizzabili» 275 . Secondo Corsale, il criterio fondamentale per la realizzazione dell’indispensabile armonia tra i gruppi è insomma ancora oggi quello kantiano della potenziale universalizzabilità dei fini: un diritto intergruppale ispirato a questo criterio, avente l’esclusiva funzione di armonizzare molteplici gruppi, ciascuno dei quali latore di un ordinamento certo in quanto basato su un’ideologia prevalentemente comunitaria, è dunque il paradigma che meglio realizza la certezza giuridica così come concepita dal nostro autore 276 .

2.3.f. La certezza come sicurezza di avere giustizia: critica La concezione della certezza proposta da Corsale, come abbiamo visto, comprende un elemento ulteriore rispetto alla semplice prevedibilità delle conseguenze giuridiche dell’azione: quello della sicurezza circa la prevalenza di una soluzione giuridica sentita come “giusta”, ossia conforme al «sentimento di giustizia prevalente nella evitare qualsiasi contrasto o incompatibilità; cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 258-259. 275 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 237, 263. 276 È lo stesso Corsale, nell’introduzione alla seconda edizione de La certezza del diritto, a considerare debole, ingenua e ideologicamente compromessa la conclusione che emerge dalle ultime pagine del libro e che è esposta in questo paragrafo. La soluzione proposta, afferma l’autore, è praticabile solo per società «costituite da gruppi giustapposti l’uno all’altro e limitanti la reciproca interazione a scambi paritari estremamente ridotti. […] Una società del genere non costituisce né la realtà attuale, né una prospettiva credibile in un futuro ragionevolmente breve: perciò proporla nel quadro di un discorso teorico e non utopico sulla certezza del diritto sarebbe effettivamente alquanto discutibile»; cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. XLII-XLIII.

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collettività» 277 . Secondo Corsale, può pertanto davvero dirsi “certo” solo il diritto, ad un tempo, prevedibile e giusto in questo senso specifico; la certezza si realizza nella misura in cui i membri di una comunità organizzata in ordinamento giuridico siano «sicuri del fatto che, in qualunque momento possa sorgere contestazione circa i diritti spettanti a ciascuno di essi, tale contestazione verrà risolta nella maniera più aderente al comune sentimento di giustizia, e che la soluzione prevalsa sarà praticamente operante» 278 . La certezza giuridica non è insomma solo «prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle proprie azioni», ma anche «sicurezza di avere giustizia», ossia fiducia degli individui su risposte dell’ordinamento dal contenuto conforme agli «ideali di giustizia caratterizzanti il gruppo», e dipendenti in ultima analisi dalla sua ideologia sociale 279 . Corsale – operando una scelta definitoria che mi appresto a discutere – include dunque nel concetto di certezza un riferimento alle aspettative degli individui sulla giustizia delle soluzioni giuridiche previste. L’autore pare adottare tale opzione definitoria sulla scorta della rilevazione di un uso dell’espressione “certezza del diritto” secondo cui i giuristi e i teorici del diritto sarebbero soliti considerare 277 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 33, 117, 121 ss. Corsale dichiara che il concetto di certezza da lui proposto comprende sia «la certezza che nella lotta contro il torto il diritto prevalga», sia «la possibilità per il singolo di qualificare con certezza una determinata situazione e di prevedere le conseguenze della sua azione» (cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 33). 278 CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 31. Nel seguito della trattazione, Corsale si spinge a qualificare la certezza-prevedibilità come «premessa indispensabile perché si determini e sussista nella comunità il sentimento di sicurezza circa la soddisfazione effettiva della fondamentale esigenza di giustizia, ossia che il diritto prevalga sul torto», aggiungendo che «è difficile (per non dire impossibile) essere “sicuri” che il diritto prevarrà sul torto, non avendo la certezza circa l’univocità della qualificazione giuridica delle situazioni, né essendo in grado di prevedere le conseguenze giuridiche della propria azione» (ibidem, pp. 32-33). 279 CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 121. Abbiamo visto infatti che, secondo Corsale, questo ideale di giustizia varia in funzione dell’ideologia sociale del gruppo, ed è da questa determinato nei suoi contenuti: «l’ideologia del gruppo fornisce infatti il fondamento per la scelta dei criteri onde stabilire l’uguaglianza e la disuguaglianza tra i consociati, criteri che sostanziano, in ultima analisi, l’ideale di giustizia caratterizzante il gruppo»; cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 102-105.

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“certo” il diritto le cui applicazioni ai casi concreti risultino conformi alle istanze di giustizia dei consociati 280 . È peraltro assai dubbio che quest’uso lessicale sia effettivamente maggioritario nella letteratura giuridica 281 . Innanzitutto, per ovvie ragioni, l’associazione tra certezza e giustizia (sostanziale) del diritto è rifiutata in blocco dai giuspositivisti: chi separa il diritto dalla morale, compresa quella “positiva”, distingue nettamente la certezza del diritto dalla certezza della giustizia. La posizione di Kelsen è eloquente: per “certezza del diritto” si intende una prevedibilità delle conseguenze giuridiche dell’azione, indipendentemente dalla asserita conformità a giustizia di queste ultime (su cui anzi lo scienziato “puro” del diritto nulla intende dire) 282 . In verità, non solo in ambito giuspositivista, ma un po’ in tutta la tradizione del pensiero filosofico giuridico occidentale, sembra potersi rilevare più un attrito che un’affinità tra la certezza giuridica (spesso ricondotta alla legalità) e la giustizia (intesa in senso sostanziale, come equità) 283 . Perfino tra gli autori giusnaturalisti che si sono occupati 280

I «giuristi teorici e pratici», parlando di “certezza del diritto”, si riferirebbero secondo Corsale anche alla «sicurezza, per i consociati, che i diritti di ciascuno siano effettivamente rispettati nella società e che si realizzi la giustizia»; CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 30 (corsivo mio). Vedi anche ibidem, pp. 31 ss. Vi sono, in effetti, degli autori che hanno proposto l’adozione di un concetto “ampio” di certezza del diritto, che oltre al riferimento alla prevedibilità delle decisioni applicative comprenderebbe un riferimento alla conformità di tali decisioni a criteri assiologici che definiscano quando un provvedimento sia da considerarsi legittimo da un punto di vista sostanziale. Aulis Aarnio, come abbiamo visto (supra, nota 209), afferma ad esempio che la nozione di certezza del diritto comprende due elementi: la non arbitrarietà, e dunque la prevedibilità, delle decisioni giuridiche e la conformità di queste ai criteri assiologici che affondano le loro «radici nel codice morale della popolazione»; AARNIO, A., la teoria dell'argomentazione e oltre. Alcune osservazioni sulla razionalità della giustificazione giuridica, in COMANDUCCI, P., GUASTINI, R., L’analisi del ragionamento giuridico, vol. I, cit., p. 222. 281 Tale distanza dall’uso comune è rilevata anche da Paolo Comanducci; cfr. COMANDUCCI, P, Osservazioni in margine, in COMANDUCCI, P., GUASTINI, R., L’analisi del ragionamento giuridico, vol. I, cit., p. 234. 282 Vedi supra, 2.2.b. 283 Si può agevolmente rilevare un collegamento ricorrente tra l’idea di legalità e quella di certezza-prevedibilità del diritto. I termini della questione sono noti a tutti: le tecniche di scelta pratica fondate su leggi generali e astratte considerano gli individui o i casi non sulla base di tutte le loro peculiarità, ma secondo l’appartenenza a determinate classi che comprendono individui (persone, oggetti, situazioni, ecc.) aventi tutti le stesse caratteristiche rilevanti. Dunque – sostengono gli assertori della legalità – se attraverso delle norme generali e astratte si ricollega un eguale tratta-

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mento a tutti i casi compresi in una classe, sarà possibile prevedere (in senso conoscitivo) che ad un particolare caso che presenta quella data caratteristica rilevante verrà applicato il trattamento stabilito dalla norma. Non altrettanto idilliaco sembra essere invece il rapporto tra certezza e giustizia-equità, non a caso talora descritte come esigenze antinomiche, costrette ad esercitare uno scomodo e forzato “condominio” sul diritto (l’espressione è di RADBRUCH, G., Le but du droit: bien commun, justice, securitè, Sirey, Parigi 1938, pp. 48 ss.). I sostenitori del giudizio individualizzato, della “giustizia del caso concreto”, hanno in ogni tempo manifestato ben poco afflato per le generalizzazioni compiute dai “formalisti” o dai “legalisti”, e hanno considerato la certezza-prevedibilità come un valore o un’esigenza di secondaria importanza rispetto alla necessità di garantire alle persone un trattamento “giusto”, ritenuto possibile solo se si considera ogni caso come un unicum, con proprie caratteristiche peculiari e distintive. Specialmente nelle epoche più antiche il dilemma certezza(legalità)giustizia(equità) si svolge quasi sempre a livello etico-politico, e vede contrapposti coloro che affermano sia preferibile perseguire il valore della sicurezza (data dalla possibilità di poter prevedere le conseguenze giuridiche dell’azione umana) pure al prezzo di qualche sacrificio imposto dal rigore della legge, a coloro che ritengono sia più giusto temperare tale rigore assicurando un trattamento equo, sebbene al prezzo di una minore prevedibilità. Così, i pensatori classici nella gran parte ritengono giusto limitare l’arbitrio dei governanti o dei giudici, assicurando la sovranità della legge e dunque la certezza del diritto e la tutela della libertà dei cittadini. Questo tema, già implicito nelle elaborazioni proto-contrattualistiche di alcuni sofisti, è sviluppato da Platone, per esempio in Politico, 39-41, e soprattutto da Aristotele, la cui trattazione del dilemma certezza/giustizia vorrei qui brevemente esaminare. Secondo lo Stagirita, qualunque sia la forma di governo adottata, è necessario che si mantenga la sovranità della legge e che i governanti, uno o molti che siano, esercitino il proprio potere soltanto nelle materie in cui le leggi non possono disporre con precisione per la difficoltà di prevedere con una norma generale tutti i casi particolari (cfr. ARISTOTELE, Politica, IV, 1282b.). Questa concezione, che contrappone la stabilità, l’impersonalità e la generalità delle leggi alla mutevolezza, imprevedibilità e arbitrarietà delle passioni umane è, come tutti sanno, alla base delle moderne teorizzazioni del rule of law. Aristotele manifesta sfiducia nei confronti del potere esercitato in modo arbitrario e imprevedibile anche in ambito, diremmo oggi, giurisdizionale. Proprio all’inizio della Retorica si scopre infatti una certa diffidenza nei confronti della discrezionalità dei giudici: le leggi ben stabilite devono regolamentare la maggior quantità possibile di questioni, lasciando alla decisione particolare dei giudici il minor spazio possibile (cfr. ARISTOTELE, Retorica, I, 1354b). Ciò per varie ragioni: in primo luogo è difficile trovare degli uomini con le qualità e le capacità necessarie alla buona amministrazione della giustizia; in secondo luogo, mentre le leggi sono emanate a seguito di lunghe riflessioni, le decisioni dei giudici vengono emesse in tempi brevi, ed è così più difficile che siano soddisfatte le esigenze di giustizia e di opportunità; in terzo luogo – ed è il punto più importante per il nostro discorso – mentre le leggi sono generali e rivolte al futuro, le decisioni dei giudici sono particolari e rivolte al caso attualmente in considerazione, la qual cosa rende possibile che essi si lascino influenzare da sentimenti di amicizia, di odio o da interessi privati, perdendo di vista la verità e oscurando le proprie facoltà di giudizio a causa

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del nostro tema, l’affermazione di una distinzione, quando non di un vero e proprio conflitto, tra certezza e giustizia ricorre più frequentemente dell’asserzione circa la felice sintesi delle due esigenze 284 . È vero che il tema della certezza è sovente trattato in connessione con la questione della giustizia sostanziale delle singole soluzioni di considerazioni personali di piacere o di dispiacere. Ecco perché al giudice dovrebbe essere consentito decidere il minor numero di cose possibile: «Solo intorno all’essere avvenuta o non avvenuta la cosa, all'esser possibile o non esser possibile, all'essere o non essere tale è necessario rimettersi ai giudici; infatti non è possibile che il legislatore preveda queste cose» (ibidem). Altrove, tuttavia, Aristotele manifesta un’acuta consapevolezza del dilemma posto dalla necessità di mediare tra il rigore della legge generale e la necessità di considerare, per esigenze di giustizia, gli aspetti idiosincratici dei casi particolari. A questo proposito, egli afferma: «Ogni volta che la legge parli in universale, ma in quell’ambito si verifichi una circostanza specifica al di fuori dell'universale, allora è cosa corretta, laddove il legislatore presenta un’omissione o ha sbagliato esprimendosi in modo universale, correggere ciò che è stato omesso e (interpretare) ciò che anche il legislatore stesso avrebbe detto se fosse stato presente in quella circostanza e che avrebbe prescritto nella sua legge se avesse saputo. Perciò l’equo è giusto ed è superiore ad un certo tipo di giusto, ma non al giusto in assoluto, bensì all'errore (determinato dall’esprimersi) in universale. E questa è la natura dell’equo, essere un correttivo della legge, dove essa compie un'omissione a causa del suo esprimersi in universale» (cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, V, 1137b). 284 Del dilemma certezza/giustizia son ben consapevoli ad esempio TOMMASO D’AQUINO (cfr. Summa Theologica, I-II, q. 96, a. 4), HOBBES (Leviathan, parte II, capp. 18 e 21, nonché De cive, XIV, 23), PUFENDORF (De iure naturae et gentium, lib. VII, cap. 5, §§ 9-10), Locke (Two Treatises of Government, II, 14, 168 e soprattutto l’intero capitolo 18), e FILMER (Patriarca, II, 18). Tra i contemporanei, l’ultimo Radbruch considera certezza e giustizia del diritto come valori distinti e potenzialmente antitetici; cfr. RADBRUCH, G., Fünf Minuten Rechtphilosophie, in ERIK WOLF (a cura di), Rechtphilosophie, Koeler, Stuttgart 1956, pp. 335-337, e specialmente RADBRUCH, G., Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht, in Rechtphilosophie, cit., pp. 347-357. Radbruch, in questa fase della sua produzione, afferma che la certezza del diritto non è l’unico e decisivo valore che il diritto deve realizzare, perché accanto ad essa vanno considerati il “fine del diritto” e la giustizia. Nella gerarchia di questi valori giustizia e certezza occupano rispettivamente il primo e secondo posto. Quando sorge un conflitto tra certezza e giustizia, esso deve essere risolto in modo che il diritto ingiusto, ma certo, abbia preminenza. Tuttavia, se il grado dell’ingiustizia di tale diritto raggiunge un livello insopportabile, esso deve cedere di fronte al valore della giustizia. Infatti non si può definire il diritto, anche il diritto positivo, altrimenti che come un ordinamento che è stabilito per realizzare la giustizia. Tra gli autori italiani, Carnelutti ravvisa addirittura una proporzionalità inversa tra certezza e giustizia: nella misura in cui un ordinamento giuridico realizza la certezza, di altrettanto sacrifica l’esigenza di giustizia; cfr. CARNELUTTI, F., La certezza del diritto, in Rivista di diritto civile, XX, 1943, 81 ss.

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giuridiche, tuttavia la relazione tra le due esigenze è dipinta assai più frequentemente come opposizione che come compatibilità, corrispondenza o strumentalità. Pare dunque da escludere che l’uso più ricorrente dell’espressione “certezza del diritto” comprenda sia il riferimento alla notevole prevedibilità delle conseguenze giuridiche dell’azione sia il riferimento all’elevata conformità di queste alle attese di giustizia dei previsori. Sebbene l’argomento basato sull’uso lessicale della locuzione risulti difficilmente difendibile, potrebbero individuarsi altre buone ragioni per parlare di certezza esclusivamente in termini di “prevedibilità della decisione conforme alle aspettative di giustizia dei consociati”. Si potrebbe ad esempio sostenere (e Corsale lo fa) che le decisioni giuridiche “giuste” siano prevedibili con maggior successo rispetto alle decisioni che con Waldron potremmo definire “moralmente controintuitive”, poiché esse, oltre ad essere «deducibili» da tutti i membri della comunità grazie alla loro partecipazione all’ideologia sociale, sono quelle che più probabilmente vengono adottate dai decisori giuridici 285 . Per questa ragione, sarebbe preferibile impiegare l’espressione “certezza giuridica” per qualificare soltanto la prevedibilità di soluzioni giuridiche agevolmente prevedibili dai consociati in quanto da essi sentite come giuste/conformi all’ideologia sociale condivisa. Questo argomento, su cui si basano tutte le considerazioni di Corsale circa il maggior valore della certezza “sostanziale” assicurata dal diritto consuetudinario-giurisprudenziale rispetto alla certezza “formale” propria del diritto legislativo, mi pare poco convincente, sia per l’inconsistenza delle premesse – almeno nei termini in cui sono formulate ne La certezza del diritto – sia perché la conclusione appare come un non sequitur. In primo luogo, non è affatto chiaro come i previsori e i decisori siano in grado di “dedurre” la soluzione giuridica “giusta” a partire dalla semplice partecipazione all’ideologia sociale del gruppo. L’esempio che l’autore porta è quello degli ordinamenti consuetudinari tipici delle comunità primitive, dei moderni ordinamenti totalitari basati sull’ideologia della Volksgemeinshaft, degli ordinamenti basati sul judge made law, in cui le decisioni giuridiche, lungi dall’es285

Vedi supra, §§ 2.3.c, 2.3.d. Sul concetto di “moralmente controintuitivo” cfr. WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., pp. 91-92.

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sere determinate dall’arbitrio del giudice sono «informalmente dedotte» da costui a partire da norme a loro volta inferibili: 1) dai principi generali ricavati dall’ideologia sociale; 2) «dal condizionamento che sulla loro applicabilità esercita la situazione materiale» in cui il gruppo si trova 286 . Corsale stesso, peraltro, ammette che, sebbene questa “deduzione” proceda dal più generale al meno generale, essa non funziona in direzione opposta, dunque non può essere impiegata per inferire i principi dalle norme né per ricavare da queste ultime l’ideologia sociale del gruppo 287 . La determinazione dell’esatto contenuto prescrittivo dell’ideologia sociale del gruppo è dunque affidata all’intuizione soggettiva dell’interprete, considerato nella sua veste di membro del gruppo stesso: muovendo dalla nitida visione dei principi che scaturiscono dall’ideologia sociale, nonché dalle «condizioni materiali» in cui il gruppo opera, egli sarebbe in grado di ricavare le norme che, appartenendo all’ordinamento «quanto meno sotto il profilo dell’efficacia e della giustizia», determinano le conseguenze giuridiche della propria condotta 288 . Parlando di “deduzione”, Corsale rischia qui a parer mio di riproporre in altra guisa, certo involontariamente, quello stesso sillogismo giudiziale contro cui altrove rivolge aspre critiche 289 . In effetti, sia attraverso il “sillogismo giudiziale” sia attraverso la procedura che Corsale (rasentando l’ossimoro) chiama «deduzione informale» si pretende di ricavare in modo logicamente stringente la soluzione “corretta” di un caso muovendo da premesse normative e indicative date. L’unica differenza

286 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 114. «Non vi è alcuna difficoltà logica in tutto ciò: se si respinge la concezione positivistica della astraibilità dei principi dalle norme (per cui il processo di astrazione non potrebbe portare a risultati di natura diversa da quella dei dati di partenza) e se invece si accetta una visione “discendente” del processo di formazione delle norme, è perfettamente corretto ritenere che tra le premesse logiche di queste ultime vi siano tanto affermazioni fattuali che prescrizioni. Le moderne indagini logiche sul linguaggio descrittivo hanno portato al risultato di negare che una prescrizione possa dedursi unicamente da premesse fattuali, ma non a quello di affermare che dette premesse debbano essere tutte prescrizioni»; ibidem, p. 115. 287 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 114. 288 Una conseguenza (paradossale) di ciò è che nessuna capacità predittiva può essere riconosciuta al soggetto estraneo al gruppo, o comunque a colui che non ne conosca/condivida l’ideologia sociale. 289 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 48-49.

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notevole tra le due procedure inferenziali è che nella “deduzione informale” la premessa maggiore non è costituita da enunciati normativi corrispondenti a fattispecie legali, precostituite e pubblicate in forma scritta, ma da enunciati normativi inespressi, non scritti, e tuttavia intuiti/condivisi in modo (secondo Corsale) univoco sia dagli utenti che dagli applicatori del diritto, in quanto appartenenti alla stessa tribù, civitas, comunità popolare e via dicendo. Ora, è noto che vari problemi, tra cui le difficoltà inerenti alla cosiddetta “giustificazione esterna” del sillogismo giudiziale, inducono a dubitare che un procedura siffatta sia in grado di condurre l’interprete all’individuazione della soluzione “corretta” (ammesso che ve ne sia soltanto una) 290 . A maggior ragione credo debbano considerarsi con scetticismo i risultati di una “deduzione informale” che muove da premesse ancor meno determinate o univocamente determinabili e che, per dirla con Fassò, finiscono con l’essere frutto di un appello di carattere quasi mistico a valori che ciascun interprete intuisce come tali, ma di cui non può rendere consapevoli gli altri individui attraverso un procedimento razionale 291 . Corsale sembra qui precorrere alcune tesi di Dworkin: l’interprete viene considerato alla stregua di un Hercules capace di ricavare da un corpus di principi (per Corsale, quelli impliciti nell’“ideologia sociale”) la sola possibile right answer, l’unica soluzione corretta per il caso considerato 292 . Tuttavia, anche ammettendo che dall’“ideologia sociale” del gruppo possano ricavarsi alcuni principi condivisi da molti o addirittura tutti i membri della 290 Come vedremo, è assai più frequente il caso di interpreti che individuino una gamma di soluzioni alternativamente attese alla luce del quadro normativo di riferimento e delle altre informazioni di cui si dispone (cfr. infra, § 4.3.a). È in questa sede impossibile dar conto di tutte le teorie dell’interpretazione critiche nei confronti del c.d. “sillogismo giudiziale”. Basterà evidenziare come tale critica sia condivisa da autori appartenenti non solo ad orientamenti giusliberisti (cfr. GÉNY, F., Méthode d’interprétation et sources en droit privé positif, Paris 1919) o alla “giurisprudenza degli interessi” (vedi ad esempio BETTI, E., Le categorie civilistiche dell’interpretazione, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 1948, pp. 34 ss.), ma anche da pensatori normativisti (ad esempio Kelsen, in entrambe le edizioni della Dottrina pura del diritto) o di indirizzo realistico-analitico (ROSS, A., Diritto e giustizia, cit., 103 ss., spec. p. 129). 291 Cfr. FASSÒ, G., Società, legge, ragione, cit., p. 83. 292 Cfr. DWORKIN, R., Law’s Empire, Harvard University Press, Cambridge 1986, trad. it.di L. Caracciolo di San Vito, L’impero del diritto, a cura di S. FREGA, Il Saggiatore, Milano 1989, p. 255.

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comunità, è presumibile che essi sarebbero così ambigui, vaghi ed in qualche caso antinomici da rappresentare una ben modesta guida per i soggetti – utenti o applicatori del diritto – che volessero ricavare da essi e dall’altrettanto opinabile e parziale descrizione delle «condizioni materiali in cui il gruppo opera» la norma che determina le conseguenze giuridiche ricollegabili all’atto o fatto considerato. Inoltre, si può sostenere che negli ordinamenti contemporanei, pluralisti e conflittuali, l’ideologia sociale più diffusa abbia carattere procedurale: poiché siamo in disaccordo sui valori sostanziali, e sappiamo di esserlo, ci affidiamo alle procedure, e dunque a soluzioni “corrette” in senso formale. È pertanto assai dubbio che previsori e decisori giuridici, muovendo esclusivamente da valutazioni aventi la pretesa di cogliere in profondità l’«ideologia sociale» e la «natura del fatto», pervengano necessariamente alla concorde individuazione della soluzione giuridica «più convincente» sotto il profilo sostanziale 293 . Le considerazioni di Corsale circa la presunta “deducibilità” delle soluzioni giuridiche corrette dall’ideologia sociale/comune sentimento di giustizia del gruppo rischiano di render poco convincente la altrimenti plausibile tesi per cui la conformità delle decisioni giuridiche al sentimento morale diffuso può costituire, almeno a certe condizioni, un carattere che facilita la loro previsione. Autori che pure Corsale definirebbe “legalisti”, muovendo da quest’ultima premessa, non hanno infatti alcuna difficoltà nel riconoscere l’utilità, a fini predittivi, dello studio sociologico degli ideali di giustizia diffusi entro la comunità 294 . È in effetti assai verosimile che gli ordinamenti in cui gli organi giuridici adottano delle decisioni in qualche modo conformi alle attese di giustizia sostanziale dei consociati siano caratterizzati da più elevati standards di prevedibilità rispetto alla situazione in cui tali decisioni sono “moralmente controintuitive” 295 . Tuttavia, da ciò non segue la conclusione, implicitamente tratta da Corsale, se-

293

Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 134-135. Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., pp. 177-178; cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto e la giurisprudenza analitica, cit., p. 185; WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., pp. 9192. Tra questi ideali, come vedremo, particolare importanza riveste la stessa ideologia della certezza; cfr. § 4.5.c. 295 Cfr. WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., pp. 91-92. 294

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condo cui dovremmo chiamare “certi” solo questi ordinamenti giuridici. La conformità delle decisioni alle aspettative di “giustizia” dei previsori può essere infatti considerata come una circostanza contingente che, assieme ad altre, facilita i successi predittivi e dunque incrementa il grado della certezza, ma non è una condizione necessaria di certezza-prevedibilità. S’immagini la seguente situazione: A seguito di una serie di vittorie militari, i Dunlandiani si sono insediati sul territorio dei Rohirrim – un popolo dotato di usi, costumi e “ideologia sociale” affatto differenti – imponendo a tutti i residenti una legislazione semplice, durevole, chiaramente formulata, pubblicata in modo razionale e tuttavia percepita dagli indigeni come ingiusta e odiosa. I funzionari incaricati di applicare la legge, tutti Dunlandiani, sono dotati di un apparato coercitivo così efficiente da far prevedere che le violazioni della legge imposta saranno con grandissima probabilità seguite dall’effettiva inflizione di sanzioni determinate nel genere e nel quantum. Le loro conoscenze tecnologiche superiori, che agli occhi dei dominati rasentano la magia, consentono infatti, in spregio a qualsiasi tutela della privacy, di monitorare continuativamente il comportamento di ciascun individuo e di pervenire in brevissimo tempo all’individuazione e alla cattura di eventuali trasgressori della legge.

In questo caso, ben potrebbe ipotizzarsi il raggiungimento di un elevato livello di certezza-prevedibilità nonostante la ricorrente mortificazione delle aspettative di giustizia dei previsori Rohirrim. È senz’altro plausibile che l’insofferenza di costoro per norme di condotta sentite come oppressive e ingiuste li conduca a frequenti violazioni del diritto imposto. Tuttavia, se effettivamente e puntualmente sanzionate, tali violazioni non inciderebbero sulla certezza-prevedibilità del diritto, bensì, al limite, sull’efficacia delle sue norme giuridiche, ossia sulla loro idoneità a raggiungere lo scopo per cui sono state poste (ad esempio, la tutela della vita e dell’incolumità individuale dei Dunlandiani, la loro maggior gloria, o l’imposizione della loro religione e dei loro costumi) 296 .

296 È d’uopo qui distinguere tra l’effettività dall’efficacia del diritto; indico col primo termine la generale osservanza delle norme giuridiche da parte dei loro destinatari, e con il secondo la capacità delle norme di raggiungere il fine per cui sono state poste. Così, un diritto penale può essere estremamente effettivo ma inefficace, perché i reati che esso prevede, sebbene regolarmente puniti, vengono commessi in

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Se non v’è ragione per ritenere che la conformità delle decisioni al «comune sentimento di giustizia» sia condizione necessaria di certezza del diritto, viene meno qualsiasi necessità di includere nella sua definizione un riferimento alle aspettative di giustizia sostanziale delle decisioni giuridiche previste. “Certo”, dunque, può dirsi anche un diritto percepito dai suoi destinatari come ingiusto, a patto che le conseguenze giuridiche in forza di esso ricollegabili alle situazioni considerate possano in qualche misura esser previste. La certezza di un diritto iniquo è allora certezza di iniquità: dire che il diritto è in qualche misura certo significa dire che è in qualche misura possibile prevedere la data soluzione giuridica, anche qualora questa sia (sentita come) immorale, inopportuna, scandalosa.

2.3.g. Leoni: certezza a lungo termine e certezza a breve termine Altro autore che si occupa di certezza del diritto come prevedibilità muovendo da posizioni critiche nei confronti della legislazione e dell’identificazione giuspositivistica tra diritto “positivo” e diritto tout court è l’italiano Bruno Leoni, autore di Freedom and the Law (1961), tradotto e pubblicato in Italia nel 1995, col titolo La libertà e la legge 297 . Anche Leoni si rifà ad una concezione standard di certezza del diritto, intendendola come possibilità degli individui di prevedere le conseguenze giuridiche delle loro azioni 298 . Tali conseguenze giuridiche sono costituite da comportamenti di altri individui, comportamenti che l’esistenza di una forma di convivenza organizzata rende probabili e comunque provocabili tramite l’intervento dell’agente-previsore presso la persona o le persone verso cui egli presume di avere un potere 299 . È dunque chiaro quale sia la risposta di Leoni alla prima delle nostre questioni sulla definizione di certezza gran numero (cfr. JORI, M., PINTORE, A., Manuale di teoria generale del diritto, cit., p. 150). 297 Cfr. LEONI, B., Freedom and the Law, 1961, trad. it. La libertà e la legge, cit. Purtroppo, la (postuma) traduzione tradisce l’autore: il titolo non “La libertà e la legge” avrebbe dovuto essere, bensì “La libertà e il diritto”. 298 Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., pp. 82; 84; 91; 94. 299 Cfr. LEONI, B., Diritto e politica, ora in STOPPINO, M. (a cura di), Scritti di scienza politica e teoria del diritto, Giuffrè, Milano 1980, p. 212.

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come prevedibilità, ossia quella attinente al che cosa debba potersi prevedere affinché possa dirsi realizzata in qualche misura la certezza del diritto: si tratta di comportamenti altrui (il diritto stesso è del resto definito da Leoni come ordine fondato sulla prevedibilità dei comportamenti individuali) 300 . Non viene invece esplicitamente precisato dal nostro autore chi siano gli individui la cui capacità predittiva deve essere considerata ai fini della formulazione di un giudizio sopra la certezza del diritto né vengono fornite procedure o indicazioni rivolte a determinare il quanto della certezza del diritto. Nonostante questa vaghezza – del resto comune alla gran parte delle definizioni di certezza riscontrabili in letteratura – è presumibile che Leoni riferisca l’espressione “certezza del diritto” ad una prevedibilità più o meno diffusa tra i “cittadini comuni”, a suo parere veri protagonisti della scena giuridica, e che sia interessato alla misura della certezza soprattutto sotto il profilo dell’estensione diacronica delle previsioni di successo. Egli propone infatti un’interessante e inedita distinzione tra due nozioni diverse e incompatibili di certezza: la “certezza a breve termine” e la “certezza a lungo termine”. Esaminiamola nel dettaglio. Secondo Leoni, si ha “certezza a lungo termine” quando la prevedibilità giuridica assume i connotati di una «possibilità per gli individui di fare piani a lungo termine in base ad una serie di regole adottate spontaneamente in comune dalla gente e infine accertate dei giudici per secoli e generazioni» 301 . Per converso, si ha certezza a breve termine quando la prevedibilità delle conseguenze giuridiche viene conseguita dagli agenti attraverso la conoscenza delle formule scritte mediante le quali vengono anticipatamente rese note ad essi le norme di comportamento, con la conseguenza che le previsioni valgono solo fino a quando resti formalmente immutato il quadro normativo di riferimento. Entrambe queste forme di certezza, afferma Leoni, sono in qualche modo strumentali all’affermazione della libertà individuale, definita come la condizione dell’individuo in grado di compiere scelte senza essere costretto da altri a fare qualcosa che egli non voglia 302 : essendo «la prevedibilità delle conseguenze […] una delle

300

Cfr. LEONI, B., Diritto e politica, cit., pp. 212-213. Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., p. 106. 302 Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., p. 147. 301

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premesse indispensabili delle decisioni umane», più le conseguenze giuridiche delle azioni individuali sono prevedibili, più queste azioni possono essere chiamate “libere” dall’interferenza di altre persone, comprese le autorità 303 . Non a caso, ricorda Leoni, la certezza fondata su leggi scritte, chiare e conoscibili da tutti è alla base dell’idea di governo delle leggi elaborata da Aristotele, che, anticipando di qualche millennio il liberalismo classico, già nel corso del IV secolo a.C. paventava i danni che ordini o decreti arbitrari legati al capriccio di un tiranno potevano causare alla popolazione del suo tempo. Questa nozione di certezza del diritto ha in seguito permeato la cultura giuridica dell’Europa continentale, affermandosi definitivamente con le grandi codificazioni ottocentesche. Leoni riconosce che le leggi generali garantiscono una prevedibilità delle conseguenze dell’azione maggiore rispetto ad ordini ingiustificati e improvvisi. Non a caso, osserva, dalla Politica in poi, esse sono sempre state considerate come indispensabili per cittadini che veramente volessero dirsi liberi 304 .Tuttavia, la certezza “classica”, fondata su leggi generali scritte e conoscibili da tutti, per quanto preferibile rispetto ad un sistema in cui le conseguenze giuridiche delle azioni siano decise in modo del tutto arbitrario e imprevedibile, non è secondo Leoni sufficiente a garantire compiutamente la libertà individuale. Infatti, benché le norme possano essere “certe” in quanto espresse con precisione in formule scritte, in modo che gli interpreti non siano in grado di cambiare arbitrariamente il loro significato, nulla impedisce che esse siano abrogate, modificate o sostituite da altre norme che pure, in quanto altrettanto precisamente e chiaramente formulate, non possono essere considerate meno “certe” delle precedenti 305 . In altre parole, afferma 303

Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., p. 84. Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., pp. 82-83. 305 Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., pp. 83-84. Mi sembra di poter rilevare che quando Leoni parla di maggior precisione della legge scritta rispetto alla norma non scritta, non si riferisce alla precisione come fenomeno linguistico. La precisione semantica di un enunciato linguistico non dipende dal mezzo attraverso il quale è comunicato. Se io scrivo “Marco è alto”, l’enunciato che ho formulato è molto più vago (meno preciso) rispetto a quello che formulo dicendo a Giovanni che Marco è alto un metro e 90 centimetri. Probabilmente, quando Leoni ricollega la precisione della norma alla sua posizione per iscritto, intende evidenziare il fatto che la forma scritta rende in qualche misura stabile il contenuto della norma stessa, lo “fissa” in un documento durevole e aperto alla conoscenza di tutti gli individui. La 304

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Leoni, Aristotele, come pure Platone e i teorici moderni del rule of law, non si rendono sufficientemente conto degli inconvenienti di un processo di legislazione in virtù del quale tutte le leggi sono sì “certe” in quanto espresse con precisione in una formula scritta, e tuttavia nessuno è «certo che qualsiasi legge, valida oggi, possa durare fino a domani senza essere abrogata o modificata da una legge successiva» 306 : la certezza del diritto come precisione di formule scritte statuite dai corpi legislativi, sostiene Leoni, è una certezza minore, limitata, perché, non assicurando la prevedibilità delle conseguenze delle azioni in vista di eventuali leggi future, priva gli individui della possibilità di programmare il proprio comportamento a lungo termine e dunque non garantisce, se non in modo assai effimero e passeggero, la libertà dall’interferenza dell’autorità. Questo problema, soggiunge Leoni, diventa ancor più grave se si considera il ritmo frenetico dell’odierna produzione normativa, e dunque la frequenza con la quale comportamenti privi di una rilevanza giuridica o regolati in un dato modo ricevono dall’oggi al domani una regolamentazione completamente nuova o diversa 307 .

2.3.h. Certezza a lungo termine come espressione di diritto spontaneo Nonostante i suoi inconvenienti, la certezza a breve termine caratterizza, secondo Leoni, la maggior parte degli ordinamenti contemporanei, non a caso indicati come “ordinamenti a breve termine”. Se però si sposta l’attenzione sulla storia del diritto, osserva l’autore, si scorgono interessanti esempi di “ordinamenti a lungo termine” capaci di garantire agli individui la possibilità di fare liberamente e con norma scritta, redatta in termini chiari e comprensibili ad ogni cittadino, viene in questo senso contrapposta all’ordine arbitrario e imprevedibile del tiranno. Più che di maggiore precisione, sarebbe dunque forse opportuno parlare di maggiore stabilità della norma scritta e, sempre che la stessa sia adeguatamente pubblicata, di più agevole conoscibilità da parte dei cittadini. Ciò è del resto confermato dalla restante trattazione dell’argomento. 306 Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., p. 89. 307 Leoni porta a questo proposito l’esempio delle circa 2000 leggi all’anno, ciascuna eventualmente composta da centinaia di articoli, prodotte dal Parlamento italiano dell’epoca in cui scrive (attorno al 1960); cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., p. 85.

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fiducia progetti per il futuro, senza alcun bisogno di leggi o codici. Gli esempi citati da Leoni sono due: il diritto romano classico e, fino ad epoca relativamente recente, la common law inglese. Secondo Leoni, ben difficilmente si potrebbe definire l’antica Roma come un paese fondato su leggi scritte 308 . Una gran parte delle norme giuridiche non era prodotta a seguito di un processo legislativo, ma doveva essere ricavata dallo jus civile, dunque da uno schema generale, da un insieme di principi sviluppato gradualmente e affinato per secoli dalla giurisprudenza con ben poche interferenze da parte del corpo legislativo. Sebbene i romani avessero a disposizione parecchi tipi di leges, osserva Leoni, essi di regola preferivano riservarle a materie connesse al funzionamento delle assemblee politiche, del Senato, delle varie magistrature, insomma al diritto pubblico 309 . Quando sorgevano divergenze tra i cittadini su questioni di diritto privato, le pretese giuridiche raramente potevano essere basate su una legge, ovvero su una regola scritta formulata con precisione, e perciò certa nel senso della certezza a breve termine. Tuttavia, secondo Leoni, ciò non pregiudicava affatto la possibilità di prevedere le conseguenze giuridiche dell’azione, come comprovato dall’altrimenti impossibile enorme sviluppo dell’economia romana 310 . Nei casi controversi, infatti, i cittadini romani sottoponevano le loro questioni giuridiche all’attenzione di giureconsulti che svolgevano, asserisce l’autore, un lavoro simile a quello degli odierni scienziati: essi dovevano descrivere, accertare, scoprire – non decretare – le soluzioni giuridiche dei casi e delle vertenze facendo riferimento ad un diritto considerato, nella sua continuità storica, come il prodotto della 308

Corsale ha idee analoghe; vedi supra, § 2.3.d. E anche in questo caso, osserva Leoni, si trattava di leggi destinate a rimanere lettera morta qualora i tribunali le ritenessero illegittime, ovvero contrarie ad un insieme di regole giuridiche non scritte ma adottate spontaneamente dalle generazioni precedenti e infine accertate dai giudici. Lo dimostrerebbe una clausola che, secondo Cicerone, fin da tempi antichissimi faceva parte dei progetti che dovevano essere convertiti in leges rogatae, in base alla quale il magistrato diceva all’assemblea legislativa del popolo romano: «Se c’è in questa legge, la cui approvazione vi sto richiedendo, qualcosa di illegittimo, la vostra approvazione va considerata come non richiesta»; cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., pp. 96-97. 310 L’idea della certezza del diritto come fattore di sviluppo economico è stata sostenuta soprattutto da Hayek, secondo il quale essa è il fattore che maggiormente ha contribuito alla prosperità dell’Occidente. Cfr. HAYEK, F. A., The Constitution of Liberty, cit., p. 208. 309

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creazione non di un singolo soggetto, ma di moltissimi individui nel corso di secoli e generazioni: «Un mondo di cose che esistevano, e facevano parte della comune eredità dei cittadini romani» 311 . Leoni evidenzia come questi esperti, come pure i magistrati, i politici, e finanche gli statisti fossero estremamente cauti nell’interferire su uno status quo normativo che, proprio perché percepito come eredità comune di tutti e di ciascun cittadino romano, non poteva essere cambiato arbitrariamente. Il diritto romano aveva dunque un carattere di stabilità che derivava dal non essere soggetto alla volontà o al potere arbitrario di una qualsiasi assemblea legislativa o di una qualsiasi persona; ciò, sostiene Leoni, non significava immutabilità, ma certezza che il diritto non sarebbe mai andato incontro a cambiamenti improvvisi e imprevedibili: una certezza “a lungo termine”, appunto, capace di garantire agli individui notevolissimi livelli di sviluppo economico e di libertà negli affari e nella vita privata 312 . Considerazioni in gran parte analoghe vengono svolte da Leoni per il sistema di rule of law inglese, almeno per come questo si presentava fino ad epoca recente 313 . Anche in questo caso le norme giuridiche non costituiscono il prodotto di una volontà arbitraria di uomini particolari, ma sono regole adottate spontaneamente e infine accertate dai giudici nell’arco di secoli e generazioni. Il giudice di common law non è un creatore di norme; il suo atteggiamento è piuttosto analogo a quello dello studioso che rileva o scopre delle rationes decidendi che, pur non espresse in codici scritti, trovano riscontro nel complesso di regole osservate dalla “gente comune”. Il giudice di common law, quindi, condivide con il giureconsulto romano la posizione di spettatore rispetto ad un palcoscenico giuridico in cui gli attori principali sono i cittadini comuni. Il diritto sulla base del quale quei giuristi operano garantisce la certezza a lungo termine proprio perché non va mai incontro a cambiamenti repentini, profondi e imprevedibili, “creativamente” apportati da legislatori in un tempo o in una generazione particolari; esso, lungi dal rappresentare il risultato di una creazione, di una pianificazione intenzionale, è il prodotto una lenta e graduale evoluzione che vede coinvolte, il più delle volte i311

Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., pp. 95; 105-106. Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., p. 95. 313 L’autore rileva una sorta di legificazione in atto nel diritto inglese dell’epoca in cui scrive (1961). Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., p. 103. 312

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nintenzionalmente, generazioni intere di persone nell’arco di tempi lunghissimi. Ciò, sostiene Leoni, è del resto analogo a quel che avviene in altri campi, come quello dell’economia. Esiste un evidente rapporto tra libero mercato e diritto giurisprudenziale, così come tra pianificazione economica centralistica e legislazione. Tutta l’opera di Leoni è anzi pervasa dall’idea di un’analogia tra diritto e mercato che verrà in seguito mutuata da altri pensatori afferenti alla tradizione culturale neoliberale, ad esempio Friedrich A. von Hayek. Invero, quest’ultimo autore, in Legge, legislazione e libertà riprenderà proprio da Leoni l’idea di una legislazione intesa come prodotto di una concezione redistribuzionista e interventista dello stato, a sua volta corollario di un modo fallace di ragionare circa le istituzioni definito “costruttivismo” 314 . Semplificando molto, i costruttivisti (nel lessico di Hayek) sono coloro che ritengono sia possibile riprogettare indefinitamente le istituzioni economiche e giuridiche in modo da adattarle al mutare delle circostanze esterne: «essendo stato l’uomo stesso a creare le istituzioni della società e della civiltà egli deve anche poterle modificare a volontà, in modo da soddisfare i propri desideri o i propri capricci» 315 . Al costruttivismo Hayek contrappone l’“evoluzionismo”, ovvero l’idea secondo cui le istituzioni devono essere concepite sì come un prodotto dell’azione umana, ma non necessariamente della progettazione umana 316 . Il mercato e il diritto, secondo questa con314

Cfr. HAYEK, F.A., Law, Legislation and Liberty (1973-1979), trad. it. Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1994. 315 HAYEK, F.A., The Errors of Constructivism (1970), ora in Id., New Studies in Philosophy, Politics and Economics and the History of Ideas, Routledge & Kegan Paul, London 1978, p. 3. 316 Non posso qui dilungarmi né sull’evoluzionismo di Leoni e Hayek né sulle teorie evoluzionistiche sociali che si rifanno in qualche modo alla tradizione darwiniana e post-darwiniana. Vorrei ora solo precisare che l’evoluzionismo di Hayek si configura come evoluzionismo culturale, non naturale: esso applica il principio della selezione non alla natura ma alla cultura, non a individui ma a gruppi di individui uniti da una comune tradizione culturale: «La tradizione culturale in cui l'uomo è nato consiste di un complesso di modi d’agire o regole di condotta che sono prevalsi perché aumentavano il successo del gruppo»; cfr. HAYEK, F.A., Law, Legislation and Liberty, cit., p. 35. Per una trattazione più approfondita della materia cfr. almeno DENNETT, D.C., L’idea pericolosa di Darwin, Bollati Boringhieri, Torino 1995, specialmente parte terza; BARBERIS, M., L’evoluzione nel diritto, Giappichelli, Torino 1997.

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cezione, sono maggiormente efficienti se rappresentano il prodotto inintenzionale di azioni individuali intenzionalmente rivolte ad altri scopi. Ciò consente anzi di rimediare ai limiti della conoscenza e della ragione individuale. Si spiega così il favore manifestato da Hayek e da Leoni verso la common law: come i prezzi di mercato permettono di indirizzare la produzione verso i beni più richiesti, così i precedenti di common law permettono di immagazzinare (per un futuro riutilizzo) soluzioni migliori di quelle che qualsiasi legislatore, individuale o collettivo, sarebbe mai capace di escogitare. La legislazione, all’opposto, viene da Leoni paragonata all’attività attraverso la quale le autorità centrali di un’economia totalitaria fissano i prezzi di mercato nel corso della attività di pianificazione di cui detengono il monopolio. In entrambi i casi le autorità «non hanno una conoscenza sufficiente dell’infinità di elementi e di fattori che contribuiscono alle relazioni sociali tra gli individui in ogni momento e ad ogni livello», i loro sforzi, per quanto eventualmente animati dalle migliori intenzioni, non possono pertanto produrre alcun risultato positivo 317 . Politica economica dirigista e massiccio ricorso alla legislazione possono peraltro assumere anche un’altra veste, quella dell’interventismo e dell’assistenzialismo propri dello stato sociale novecentesco. Anche in questo caso, e per le stesse ragioni, legislazione e pianificazione economica centralistiche non possono, secondo Leoni, che condurre a esiti fallimentari: le autorità non sono in grado di conoscere e di calcolare i veri bisogni e le vere potenzialità dei cittadini, pertanto «non possono mai essere certe che ciò che fanno è veramente ciò che la gente vorrebbe che facessero, proprio come la gente non può mai essere certa che ciò che vuole non sarà oggetto di interferen-

317

Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., p. 101. C’è da chiedersi se questa estrema sfiducia nei confronti di qualsiasi forma non “spontanea” di produzione giuridica non sia viziata da quella che Barberis definisce “fallacia evoluzionistica”, speculare alla ben nota “fallacia costruttivistica” che, muovendo dalla premessa corretta che le istituzioni sono un prodotto dell’azione umana, giunge alla conclusione – fallace appunto – che le si potrebbe sempre riprogettare a piacimento, in modo da renderle più funzionali al soddisfacimento dei propri bisogni o desideri. La fallacia evoluzionistica in cui incorre Leoni sembra assumere le forme di quella che Albert Hirschman ha definito “tesi della perversità”: si tratta dell’argomento indimostrabile secondo cui la riprogettazione delle istituzioni umane, per quanto condotta con le migliori intenzioni, produce sempre effetti inintenzionali cattivi o perversi. Cfr. BARBERIS, M., L’evoluzione nel diritto, pp. 238-248.

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za dell’autorità» 318 . Se ciò è vero, la certezza a breve termine conseguita attraverso il ricorso a leggi scritte poste da autorità centrali non può che produrre ben miseri risultati: non solo le previsioni giuridiche dei cittadini vengono frequentemente inficiate dagli interventi normativi del legislatore, ma questi interventi possono effettuarsi del tutto al di fuori di una traccia predefinita, in modo arbitrario e senza alcuna continuità con qualsiasi quadro normativo previgente. Ciò, prosegue Leoni, appare invece del tutto escluso da una concezione di certezza-prevedibilità del diritto come certezza a lungo termine: la mancanza di una pianificazione legislativa centrale non solo produce migliori risultati dal punto di vista della libertà intesa come assenza di costrizioni esercitate da altri, ma garantisce anche una continuità, un’uniformità delle norme attraverso le epoche; gli individui sono posti al riparo da cambiamenti improvvisi e arbitrari del diritto poiché tali cambiamenti avvengono “nell’ambiente” e il diritto vi si adegua lentamente, attraverso l’«opera modesta e limitata delle corti di giustizia invece che dei corpi legislativi» 319 . Tutto ciò, nell’opinione di Leoni, non può che garantire una prevedibilità più salda e una certezza più “certa”.

2.3.i. Differenze tra certezza a lungo termine e certezza a breve termine Applicando ora lo schema che ho proposto all'inizio del capitolo (§ 2.1), siamo in grado di tirare le fila del discorso di Leoni e di valutare analiticamente le differenze tra la certezza a breve termine e quella a lungo termine. Sotto il profilo del che cosa deve potersi prevedere affinché possa dirsi sussistente un qualche grado di certezza del diritto, si deve rilevare che la nozione di certezza a lungo termine, a differenza da quella di certezza a breve termine, contiene: 1) un riferimento all’azione che si estende ai comportamenti perfezionabili in un futuro indeterminato, e non solo attualmente o entro un breve periodo di tempo; 2) un riferimento alle conseguenze giuridiche che si estende indeterminatamente nel futuro, e non solo alle conseguenze immediatamente

318 319

Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., p. 101. Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., pp. 105-106.

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ricollegabili all’azione. Un previsore a lungo termine dell’anno 2000 può avere un’idea precisa di una situazione giuridica del 2050, prodotta da un suo eventuale comportamento del 2030, ed essere sicuro che in tutto questo tempo non interverranno cambiamenti nella disciplina che regola il caso. Il che cosa della certezza a lungo termine consiste dunque nelle conseguenze giuridiche presenti e future di un comportamento presente o futuro, dove per “futuro” si intende attuabile entro un periodo di tempo indeterminato ma lungo (almeno relativamente alla durata della vita di un individuo) 320 . Per converso, il che cosa della certezza a breve termine riguarda in generale le conseguenze giuridiche immediatamente ricollegabili ad un comportamento che verrà in essere entro tempi brevi (sempre relativamente alla durata della vita umana); la prevedibilità non si estende più di tanto nel futuro perché è sottoposta ad una sorta di condizione rebus sic stantibus: sussiste sempre la possibilità che vi siano delle modifiche della disciplina giuridica (legislativa) regolante il caso che investono o la fattispecie normativa (e dunque la qualificazione dei comportamenti del previsore) o le conseguenze ad essa ricollegate (e dunque ciò che viene previsto), perciò la previsione ha valore solo a condizione che tali modifiche non si producano. Da notare infine che Leoni, in modo piuttosto originale, non limita la nozione di “conseguenze giuridiche” alle decisioni giudiziali o, più in generale, ai provvedimenti degli organi giuridici investiti di potestà decisionale, ma la estende fino a comprendervi le reazioni o conseguenze che gli altri consociati, anche spontaneamente, ricollegano ad una condotta individuale in virtù delle regole che essi ritengono “giuridiche”. Come vedremo in seguito, questa idea è proficua, giacché consente di valutare la misura della certezza del diritto non limitando la propria attenzione allo jus controversum, ma estendendola al diritto che viene spontaneamente o pacificamente osservato in seno alla comunità 321 . Le due nozioni proposte da Leoni differiscono in modo macroscopico anche sotto il profilo del come si prevede. La prevedibilità che connota la certezza a lungo termine si realizza come abbiamo visto facendo riferimento ad un diritto che si muove nel solco di una sostanziale continuità; le conoscenze giuridiche necessarie alla previsione delle conseguenze delle proprie azioni si acquistano mediante 320 321

Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., pp. 91-92. Cfr. infra, § 4.3.i.

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una ricerca tendente a scoprire, a portare alla luce, il diritto che regola il caso. Ciò si tenta di fare, nel sistema di common law preso a modello da Leoni, tenendo in particolar conto i precedenti giurisprudenziali che costituiscono la sedimentazione dell’attività di giudici visti come “spettatori” di un palcoscenico giuridico in cui gli attori principali sono i cittadini comuni 322 . Questo non esclude affatto che la previsione venga elaborata facendo ricorso a criteri di condotta generali e astratti (come Kelsen insegna, indispensabili anche per la “libera ricerca del diritto”) 323 ; le rationes decidendi poste alla base dei precedenti possono essere infatti universalizzate fino a contemplare tutti i casi che presentano dei caratteri rilevanti assimilabili a quello già risolto. Piuttosto, il previsore a lungo termine, per definizione, non può rinvenire tali criteri nella legislazione, e ciò non perché questa implica un’interferenza arbitraria rispetto alla formazione spontanea di istituzioni sociali e di regole generali e astratte che meglio consentono la realizzazione dei fini e delle libertà individuali, bensì a causa della precarietà normativa che tale arbitrarietà comporta. La nozione di certezza a breve termine, all’opposto, contiene un riferimento ad una prevedibilità conseguita esclusivamente attraverso la conoscenza della legge intesa come formulazione scritta della norma generale astrattamente applicabile al caso considerato. È dunque la disposizione normativa, e solo questa, ad essere impiegata come strumento di previsione: le conseguenze giuridiche previste sono quelle ricollegabili alla fattispecie in forza della norma consacrata in un testo scritto 324 . Naturalmente, si tratta secondo di Leoni di una prevedibilità limitata, condizionata alla mancata riforma del quadro 322 «I cittadini comuni erano i veri attori in questo campo, come lo sono ancora nella formazione del linguaggio e, almeno in parte, nelle transazioni economiche dei paesi occidentali»; cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., p. 99. 323 Vedi supra, § 2.2.f., nota 172. 324 Questa concezione differisce da altre analoghe – ad esempio quella kelseniana di certezza come prevedibilità di ciò che è normativamente prescritto – solo per l’insistenza che Leoni pone sull’elemento della scrittura. Si tratta, questa è la mia interpretazione, di un accento che muove dall’esigenza di Leoni di sottolineare il carattere artificiale della norma legislativa, in opposizione al carattere spontaneo del diritto che, secondo l’autore, garantisce la certezza a lungo termine. Kelsen e il giuspositivismo contemporaneo, del resto, sono considerati da Leoni come i principali artefici della corrente di pensiero che identifica il diritto con la legislazione; cfr. anche LEONI, B., Oscurità ed incongruenze nella dottrina kelseniana del diritto, ora in STOPPINO, M. (a cura di), Scritti di scienza politica e teoria del diritto, cit.

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normativo-legale di riferimento e dunque, in una parola, precaria. Solo gli ordinamenti “a lungo termine”, non basati sul diritto legale o statutario, possono garantire una certezza durevole, e quindi la possibilità di effettuare delle previsioni davvero utili ai fini della pianificazione della condotta futura degli individui. I mezzi con cui tale prevedibilità si consegue, secondo Leoni, non debbono pertanto in nessun modo essere circoscritti alla conoscenza dei testi normativi, ma debbono estendersi alle regole che, indipendentemente dalla loro formulazione in testi scritti, costituiscono parte integrante di un sentire giuridico diffuso nella comunità (tra i giuristi come tra i cittadini comuni). Questo diritto “tradizionale” nel senso stretto del termine, generalmente efficace, relativamente durevole, costituisce la miglior base di previsione per chiunque sia interessato alla programmazione delle proprie scelte pratiche, imminenti o remote che siano.

2.3.l. Legislazione vs. certezza-prevedibilità? Vi sono degli evidenti punti di contatto tra le tesi di Leoni e quelle di Corsale. Sul piano etico-politico, entrambi gli autori valutano positivamente la certezza sulla base della sua funzione strumentale rispetto a valori ritenuti di ordine superiore a quello della semplice pianificabilità delle scelte pratiche individuali. Corsale e Leoni considerano infatti la certezza del diritto come uno strumento per conseguire più elevati standards di, rispettivamente, giustizia e libertà 325 . Vale tuttavia per essi, come abbiamo visto, anche la relazione reciproca: la certezza, intesa come prevedibilità delle conseguenze dell’azione, si realizza in proporzione a quanto il diritto risulti (conforme all’ideologia sociale tradizionalmente radicata o diffusa in seno alla comunità e dunque sentito come) giusto 326 , o a quanto il diritto sia «libero dalle interferenze arbitrarie – cioè improvvise e imprevedibili – delle autorità», perché prodotto in modo non «subordi-

325

Sul concetto di giustizia secondo Corsale vedi supra, nota 210. Leoni definisce la libertà individuale come «libertà dall’interferenza di chiunque, incluse le autorità» o «massima indipendenza dalla costrizione esercitata da altri, autorità comprese»; cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., pp. 86, 88, 106. 326 Corsale precisa che «questo “sentimento di giustizia” non è che (formulata in termini più vaghi e generici) l’ideologia sociale del gruppo»; CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 117. Vedi anche ibidem, pp. 121 ss.

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nato alla volontà o al potere arbitrario di qualsiasi assemblea legislativa e di qualsiasi persona» 327 . Se a tali premesse aggiungiamo l’idea, sostenuta con qualche diversità di accenti da entrambi gli autori, per cui il diritto che maggiormente assicura la libertà individuale o la conformità delle decisioni giuridiche ai criteri di giustizia diffusi e radicati nella tradizione è quello che si sviluppa spontaneamente, gradualmente, non deliberatamente, in seno alla comunità, appaiono chiare le ragioni per cui essi giungono a concludere, in sostanziale concordia, che la vera certezza, quella “sostanziale” e “a lungo termine”, è basata su un diritto “rinvenuto” o “scoperto” direttamente a partire da un corpus di principi non scritti e tuttavia profondamente radicati nella tradizione giuridica (o, se si vuole, nella “cultura” o “ideologia sociale”) della comunità stessa, mentre su leggi e codici può fondarsi soltanto una certezza precaria e in fin dei conti illusoria, quella cosiddetta “formale” o “a breve termine” 328 . Corsale e Leoni considerano dunque la legge e, più in generale, il diritto “positivo”, del tutto inadeguati alla realizzazione di elevati standards di certezza giuridica, e configurano anzi una vera e propria incompatibilità tra certezza giuridica e legislazione 329 . Tale conclu327

Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., pp. 95-96. In questo paragrafo, per esigenze di sintesi, chiamo consuetudinariogiurisprudenziali gli ordinamenti che Corsale e Leoni dipingono come costituiti da un insieme di principi che la giurisprudenza ricava dall’ideologia sociale/tradizione giuridica che si assume diffusa entro la comunità. Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 121; vedi anche pp. 33 ss., 122 ss.; LEONI, B., La libertà e la legge, cit., pp. 95 ss. 329 Questa inadeguatezza è tuttavia argomentata dai due autori con qualche diversità di toni. Corsale, come abbiamo visto, la ricollega in primo luogo alla questione della plurivocità dell’interpretazione di una formula generale e astratta, e solo in subordine alla provvisorietà, contraddittorietà e sovrabbondanza delle leggi; inoltre, insistendo sulla connessione certezza-giustizia, l’autore ravvisa una distanza eccessiva tra legislazione e ideologia sociale (da cui appunto scaturiscono gli ideali di giustizia diffusi nella comunità): «La certezza del diritto può solo sussistere come sicurezza della giustizia, come prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle proprie azioni, all’interno di un ordinamento la cui ideologia sia sufficientemente condivisa dai membri del gruppo che esso regola. Solo la saldezza dell’ideologia garantisce la certezza, poiché dà vigore alle norme in cui essa si estrinseca, che ad essa si ispirano. Non è puntando sulla norma, quindi, che si persegue la certezza, bensì puntando sull’ideologia che presiede all’ordinamento» (CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 121). Leoni, invece, si sofferma soprattutto sull’intrinseca precarietà della legislazione, sempre aperta alla possibilità di cambia328

CERTEZZA-PREVEDIBILITÀ TRA FORMALISMO E ANTIFORMALISMO

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sione, come abbiamo visto, si basa peraltro su un’inopportuna (con)fusione tra certezza del diritto e istanze di giustizia o di libertà, ed è a mio avviso sintomatica di un pregiudizio che ricorda quello che Waldron chiama dell’“indegnità della legislazione” 330 . In questa sede non intendo discutere sopra l’idoneità della legislazione a garantire risposte giuridiche conformi alle attese di giustizia o di libertà dei consociati, né raffrontare, sotto questo profilo specifico, gli ordinamenti basati sul diritto legislativo con gli ordinamenti basati sul diritto consuetudinario o giurisprudenziale. Sulla scorta di una definizione di certezza data esclusivamente in termini di prevedibilità delle conseguenze giuridiche dell’azione, vorrei invece esaminare la tesi, proposta sia da Leoni che da Corsale, circa la presunta incompatibilità tra certezza e legislazione/codificazione. Ora, può senz’altro condividersi l’affermazione per cui leggi e codici non sono una condizione essenziale per il conseguimento di un elevato grado di certezza-prevedibilità del diritto. Un ordinamento consuetudinario-giurisprudenziale che nel corso di secoli abbia visto accumularsi precedenti giudiziali riguardanti praticamente qualsiasi minuzia della vita degli individui ben potrebbe essere assai certo, sempre che tali precedenti fossero facilmente accessibili ai previsori e ai decisori (magari grazie alla libera fruizione delle medesime banche-dati informatiche), che fosse rigidamente applicato il principio dello stare decisis e che sussistessero altre condizioni fattuali favorevoli alla certezza, quali un apparato coercitivo efficiente e/o una diffusa tendenza all’obbedienza spontanea ai precetti giuridici 331 . Per contro, è ovvia, nella sua banalità, la considerazione per cui leggi pletoriche, mutevoli, poco durevoli nel tempo, antinomiche, mal conosciute, formulate con linguaggio vago, generico e tecnicamente inadeguato ecc., lungi dal favorire la certezza giuridica, pregiudicano l’attendibilità, l’accuratezza e la durevolezza delle previsioni che su di esse si basano 332 . Credo peraltro vi siano buone ragioni per ritenementi drastici e improvvisi e non in grado di garantire quella permanenza nel tempo che invece caratterizza le regole giuridiche spontaneamente prodottesi in seno alla comunità. Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., p. 105. 330 Cfr. WALDRON, J., Principio di maggioranza e dignità della legislazione, Giuffrè, Milano 2001. 331 Vedi infra, § 4.3.g; § 4.5.c. 332 Le nozioni di “accuratezza”, “attendibilità” e “durevolezza” delle previsioni saranno precisate infra, § 4.5.a.

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re che tali deficit di certezza non siano da imputare alla legge in sé, ossia alla fonte adoperata per la produzione normativa, bensì, piuttosto, a delle caratteristiche che spesso, ma pur sempre in modo contingente, ricorrono negli ordinamenti basati sul diritto legislativo. In primo luogo, invero, non è affatto detto che le leggi siano sempre sovrabbondanti, instabili, incoerenti, mal formulate, inefficaci ecc. Sebbene le utopie illuministe e neoilluministe di ordinamenti operanti alla stregua di meccanismi dal funzionamento rigoroso e assolutamente prevedibile appaiano oggi ingenue e superate, sembra ad esempio del tutto condivisibile l’idea, affermata tra gli altri da Kelsen, per cui una legislazione prodotta in modo «da ridurre al minimo l’inevitabile pluralità di significati» possa essere, almeno a certe condizioni, compatibile col raggiungimento di un elevato grado di certezza del diritto 333 . Leggi formulate con elevati standards di precisione, relativamente durevoli, pubblicate e ordinate in modo razionale (magari avvalendosi degli strumenti offerti dalla moderna tecnologia informatica), applicate in modo rigoroso, puntuale e tempestivo dagli organi giuridici e/o generalmente osservate dai consociati, ben potrebbero condurre ad alti livelli di attendibilità, accuratezza ed estensione diacronica delle previsioni circa le conseguenze giuridiche dei comportamenti da esse regolati, nonché ad un’ampia diffusione della capacità di previsione giuridica tra i consociati. Ciò, contrariamente a quanto sostenuto da Corsale e Leoni, anche qualora le prescrizioni in esse contenute fossero sentite dalla gran parte degli individui come odiose, immorali, illiberali o comunque avulse da quell’ideologia sociale che a parer dei due autori viene così ben salvaguardata dagli ordinamenti consuetudinario-giurisprudenziali. Si immagini l’esempio di una legge che punisca con pesanti pene detentive chi, sia pure per esclusivo uso personale e non a fini di lucro, effettui un download non autorizzato di musica o di opere cinematografiche protette da copyright, immettendo a propria volta «in un sistema di reti telematiche, mediante connessioni di qualsiasi genere, un’opera dell’ingegno protetta dal diritto d’autore, o parte di essa» 334 . Tale sanzione ben potrebbe essere percepita da (per usare categorie care soprattutto a Leoni) l’“individuo comune”, o dalla “gen-

333 334

Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 390. Cfr. art. 171-ter, comma 2, lettera a-bis, L. 466/1941.

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te”, come eccessivamente severa, specie se, in ipotesi, siano previste più lievi sanzioni per reati lesivi di beni correntemente ritenuti di valore incomparabilmente maggiore rispetto alla tutela della proprietà intellettuale delle major musicali e cinematografiche, come la vita o l’incolumità individuale 335 . Tuttavia, se la legge in esempio individuasse con relativa precisione e chiarezza le fattispecie penali, se, in concorso con altre norme procedurali, limitasse la discrezionalità degli organi giuridici in ordine all’accertamento del fatto e alla determinazione del quantum della pena, se fosse resa nota ai consociati in modo capillare ed efficace, se vi fossero buone ragioni per ritenere che essa rimarrà in vigore per lungo tempo, se l’apparato coercitivo dell’ordinamento funzionasse in modo efficiente sia a livello di individuazione dei trasgressori sia a livello di punizione dei medesimi, se i tempi della reazione dell’ordinamento alla violazione della legge fossero determinati in diritto o quantomeno prevedibili in fatto, allora credo non vi sarebbe motivo per dubitare circa il carattere strumentale di tale legge rispetto alla determinazione di un elevato livello di certezza giuridica, ovvero di una situazione in cui buona parte degli individui, sulla base della legge stessa e di altre considerazioni di ordine fattuale, sono in grado di avanzare previsioni attendibili, accurate e durevoli sulle conseguenze di un comportamento che essi, in probabile conformità con gli organi giuridici, qualificano come illecito 336 . 335 Nel momento in cui scrivo (ma non v’è alcuna certezza circa il futuro, anche quello prossimo, visto che sono in discussione delle modifiche alla legge attuale, peraltro a sua volta modificata soltanto alcuni mesi or sono), il diritto italiano punisce con gravi sanzioni penali, anche detentive, tali violazioni del diritto d’autore (vedi artt. 171-bis e 171-ter L. n. 633/1941). L’entità delle sanzioni previste dalla legge vigente per questi reati (reclusione da uno a quattro anni, e multa da 5 a 30 milioni di lire) è infatti assimilabile a quella delle pene stabilite per il delitto di lesione personale (art. 582 c.p., punito con la reclusione da tre mesi a tre anni) o di omicidio colposo (art. 589 c.p., da sei mesi a cinque anni), e sensibilmente maggiore rispetto a quelle previste, ad esempio, per il delitto di omissione di soccorso, anche aggravato dalla morte della persona in pericolo (art 593 c.p.). 336 Non è questo, purtroppo, il caso della normativa cui si ispira l’esempio citato nel testo, ossia la legislazione italiana sulla tutela del diritto d’autore, carente praticamente sotto tutti i profili appena evidenziati. Si noti come nell’esempio si annoverino tra i fattori “certificanti” sia qualità proprie delle norme di legge (precisione e chiarezza delle disposizioni, determinatezza della sanzione, univocità delle norme procedurali che regolano l’operato degli organi giuridici) sia qualità “extra-legali” (effettiva conoscenza o conoscibilità della

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Poco convincente appare altresì la tesi, avanzata sia da Corsale che da Leoni, per cui gli ordinamenti basati su un diritto consuetudinario-giurisprudenziale sono sempre caratterizzati da più elevati standards di certezza-prevedibilità rispetto agli ordinamenti basati sul diritto legislativo. I due antiformalisti ritengono di poter accreditare questa tesi adducendo l’esempio (della loro ricostruzione) di alcuni ordinamenti storici non basati sulla legislazione o sulla codificazione, in primis il diritto romano, che avrebbero garantito elevatissimi standards di certezza-prevedibilità. Si consideri, peraltro, che tali conclusioni non risultano precedute da alcuna indicazione della procedura adoperata per formulare i giudizi circa il grado di certezza del diritto. Nei loro lavori manca infatti qualsiasi accenno al problema della misurazione del grado di certezza o a quello del confronto tra la certezza relativa di più ordinamenti 337 . Ci si limita a presumere che gli ordinamenti storici considerati fossero assai certi sulla scorta di “indizi” quali la constatazione dell’«enorme sviluppo dell’economia romana», ritenuto impossibile in assenza di un elevato livello di certezza-prevedibilità a lungo termine (Leoni) 338 , o l’asserita efficienza di quei sistemi giuridici, intesa come capacità di ben assolvere alle loro specifiche funzioni di organizzazione sociale (Corsale) 339 . Poste legge da parte dei consociati, “longevità” delle norme, efficienza dell’apparato coercitivo, prevedibilità dei tempi della reazione dell’ordinamento). Vedremo in seguito che vi sono delle buone ragioni per includere nella nozione di “certezza del diritto” anche le previsioni rese più attendibili o accurate dalla conoscenza di questi elementi “fattuali” (cfr. infra, §§ 4.4.b-d). 337 Vero è che Leoni muove qualche passo in questa direzione, quando parametra la certezza giuridica all’estensione nel tempo delle previsioni di successo. Come vedremo in seguito, vi sono tuttavia buone ragioni per ritenere che l’estensione diacronica delle previsioni giuridiche di successo sia solo uno dei parametri su cui è opportuno basare il giudizio circa il grado di certezza presentato da un dato ordinamento. Rilevano infatti anche, a tal proposito, le questioni della diffusione della capacità predittiva entro la collettività considerata, dell’attendibilità e dell’accuratezza delle previsioni (cfr. infra, §§ 4.5.a-b). Corsale, addirittura, si disinteressa del tutto di questi problemi: pur adottando una concezione non classificatoria della certezza, trascura di fornire il benché minimo accenno alla questione del confronto tra gradi di certezza di ordinamenti diversi. 338 Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., p. 94. Leoni, come abbiamo visto, mutua da Hayek la convinzione che la certezza del diritto rappresenti un fondamentale e indispensabile fattore di sviluppo economico. Cfr. HAYEK, F.A., The Constitution of Liberty, cit., p.208. 339 Cfr. CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., p. 133.

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in questi termini, le tesi dei due autori circa la maggior certezza degli ordinamenti consuetudinari/giurisprudenziali paiono basate su congetture talmente vaghe e generiche da risultare indimostrabili/infalsificabili: non solo loro argomentazioni risultano sprovviste di una procedura convenzionale rivolta alla determinazione, magari approssimativa, del grado di certezza-prevedibilità di un dato ordinamento, nonché di prove conclusive circa la maggior certezza-prevedibilità degli ordinamenti consuetudinario-giurisprudenziali da essi considerati rispetto agli ordinamenti basati su diritto legislativo, ma resta indimostrato anche l’assunto per cui il maggior grado di certezza eventualmente rilevato nella prima categoria di ordinamenti sia imputabile direttamente al carattere spontaneo o consuetudinario della produzione delle norme giuridiche e non piuttosto ad altre caratteristiche normative o fattuali indipendenti dalla fonte impiegata per la produzione del diritto, ad esempio la tendenziale maggior durata del periodo di vigenza delle norme generali, il loro maggior puntiglio casistico (specialmente nel diritto giurisprudenziale), la loro eventuale maggiore effettività ecc. Nessuno di questi discorsi viene sviluppato dai due autori, e mi sembra che tali lacune compromettano l’accettabilità delle loro tesi sulla maggior certezza degli ordinamenti consuetudinario-giurisprudenziali. Si potrebbe infatti insinuare che la maggiore o minore certezza-prevedibilità, e dunque la diffusione della capacità predittiva, l’attendibilità delle previsioni, la loro accuratezza e la loro estensione diacronica, non dipendano tanto dalla fonte adoperata per la produzione del diritto (decisioni giuridiche comprese), quanto da altri fattori attinenti all’estensione della discrezionalità degli organi investiti delle decisioni giuridiche (precisione dell’eventuale formulazione linguistica della norma, mancanza di antinomie, ecc.), alla dimensione temporale delle norme (durata della loro vigenza, tempi della loro applicazione ai casi concreti), alla loro generale effettività, alla diffusione delle conoscenze giuridiche tra i consociati e, perché no, alla conformità delle prescrizioni giuridiche rispetto agli standards morali (più) diffusi 340 . Non è dunque contro la legge in sé che debbono essere rivolte le critiche di coloro che intendano promuovere un più elevato livello di certezza, ma contro la sua eventuale imprecisione, antinomicità, mutevolezza, instabilità, inco340

Bisogna poi considerare la questione, su cui tornerò in seguito, dell’ideologia della certezza come fattore di certezza; cfr. infra, § 4.5.c.

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noscibilità ecc. Ma allora, le stesse critiche possono essere rivolte contro un diritto giurisprudenziale instabile, antinomico, mutevole e poco conosciuto dai consociati o contro un diritto consuetudinario costituito da prescrizioni vaghe, generiche o scarsamente effettive. In sintesi: il pregiudizio alla certezza proviene da alcune particolari caratteristiche dei criteri direttivi della condotta e da altri elementi di ordine fattuale, non (o quantomeno, non direttamente) dalla fonte adoperata per la loro produzione 341 . L’affermazione circa l’intrinseca incertezza della legislazione è frutto dell’equivoco per cui essa presenta necessariamente le caratteristiche, in realtà meramente contingenti, che determinano un basso livello di certezza giuridica. Se pure vi fossero stati, nell’esperienza storica, degli ordinamenti consuetudinario-giurisprudenziali aventi più elevati standards di certezza-prevedibilità rispetto ad altri ordinamenti basati sul diritto legislativo, ciò non implicherebbe che gli ordinamenti del primo tipo siano intrinsecamente più certi di quelli del secondo, né, in fondo, che dall’origine consuetudinaria o giurisprudenziale delle norme che ne fanno parte (comprese le norme individuali e concrete sancite attraverso i provvedimenti giudiziali o amministrativi) scaturisca necessariamente una maggiore certezza. È proprio questo, invece, il punto che Corsale e Leoni tengono a ribadire: il diritto che si sedimenta gradualmente, in modo non deliberato, quello che i giudici o i giuristi “rinvengono” o “reperiscono” nel corpus delle norme sentite come giuridiche in seno alla comunità, è più certo del diritto “artificiale”, “costruito” tramite la legislazione, e ciò non solo perché è più stabile nel tempo ed immune a cambiamenti “imposti dall’alto”, ma anche, in ultima analisi, perché è più conforme a ciò che si suppone essere il sentimento di giustizia (o ideologia sociale, o morale positiva) condiviso dai membri della comunità, compresi gli applicatori del diritto. Insomma, il diritto a formazione spontanea e (secondo i due antiformalisti) non deliberata è più certo perché è, in ultima analisi, più giusto, almeno nel senso debole di “conforme alle aspettative di giustizia degli individui”. Costoro, direttamente attraverso la propria intima partecipazione alla Volksgemeinschaft, o indirettamente attraverso l’opera di giuristi che operano come interpreti della tradizione giuridica/ideologia sociale, sarebbero in grado di intuire l’esatto con-

341

Vedi infra, § 4.5.c, sui fattori di certezza.

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tenuto prescrittivo di principi giuridici anteriori e superiori alle norme eventualmente poste da un legislatore, nonché di prevedere grazie a questi principi, a lungo termine, le conseguenze giuridiche che gli applicatori del diritto, sulla base della stessa intuizione/condivisione dell’ideologia sociale, ricollegheranno alla propria condotta. Alcune considerazioni circa la tendenziale maggior prevedibilità di soluzioni giuridiche sentite come conformi all’ideologia sociale o agli ideali di giustizia diffusi sono, come abbiamo visto e come meglio vedremo in seguito, interessanti e condivisibili 342 . Assai meno convincenti sono invece gli altri presupposti su cui Corsale e Leoni basano le loro conclusioni circa la maggiore certezza del diritto a formazione “spontanea” e non deliberata: 1) la necessaria corrispondenza, nei sistemi di questo tipo, tra gli ideali di giustizia diffusi tra i previsori e quelli diffusi tra i decisori; 2) la tesi secondo cui le decisioni giuridiche basate sul diritto legislativo sono necessariamente sentite come più “ingiuste” rispetto a quelle riconducibili al diritto consuetudinario-giurisprudenziale; 3) l’idea per cui la conformità delle decisioni agli ideali di giustizia condivisi o all’ideologia sociale sia l’unico fattore che determina la loro maggiore o minore prevedibilità. Tali premesse, in realtà, paiono così poco convincenti da far dubitare circa la validità delle conclusioni di Corsale e Leoni perfino qualora si adottasse – diversamente da quanto abbiamo fatto finora – una concezione della certezza che include il riferimento alle istanze di giustizia o di libertà diffuse tra i consociati 343 .

342 343

Vedi infra, § 4.5.c. Vedi supra, § 2.3.f.

Capitolo 3

Per una metateoria della certezza

3.1. Una ricostruzione del concetto di “certezza del diritto” 3.1.a. Perché una ridefinizione Uberto Scarpelli raccomandava un uso parco dello strumento della ridefinizione: poiché il linguaggio serve per comunicare, esso può assolvere bene questa funzione solo se i suoi segni hanno per chi li produce e chi li riceve lo stesso significato, senza che ciascuno si senta autorizzato a riformare per proprio conto il comune patrimonio linguistico. Ogni riforma linguistica – ammoniva – è in sé stessa un male, e non diventa legittima e accettabile che a forza di utilità e di vantaggi 344 . Tra i benefici che consentono di infrangere questa regola conservatrice Scarpelli indica quello della precisazione di concetti vaghi o ambigui: la definizione stipulativa può essere «di utilità considerevole […] per la precisazione dei significati vaghi o equivoci, sia quanto ai termini del linguaggio comune, sia quanto ai termini tecnici, su cui gli scienziati non siano riusciti a mettersi d’accordo: una definizione bene apposta eviterà molte controversie, che l’imprecisione di un termine altrimenti cagionerebbe» 345 . Ebbene, abbiamo già visto che l’espressione “certezza del diritto” è così intol344 SCARPELLI, U., Contributo alla semantica del linguaggio normativo, nuova ediz. a cura di A. PINTORE, Giuffrè, Milano 1985., pp. 70-71. Scarpelli cita le quattro regole enunciate da Malthus nel suo saggio sulle definizioni in economia politica, raccomandando il loro impiego anche al di fuori della scienza economica (cfr. MALTHUS, T.R., Sulle definizioni in economia politica, in Biblioteca dell’economista, vol. V, Torino 1873, p. 414 ss). 345 SCARPELLI, U., La definizione nel diritto, ora in L’etica senza verità, Il Mulino, Bologna 1982, pp. 215 ss.

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lerabilmente vaga e ambigua da rendere auspicabile e anzi necessaria una precisazione del suo significato in vista di un suo impiego in un discorso che abbia qualche pretesa di controllabilità o, addirittura, di intelligibilità 346 . Anche limitando il nostro campo d’indagine alle concezioni della certezza come prevedibilità, fatalmente ci si imbatte in problemi che richiedono, prima di tutto, una soluzione analitica: di certezza si parla sia come situazione di fatto sia come desideratum o come principio più o meno positivizzato, se ne parla per descriverla in una sua occorrenza particolare ma anche per raccomandarne l’attuazione in un dato ordinamento, se ne parla come prevedibilità infallibile e integrale della decisione giuridica oppure come possibilità di anticipare la stessa solo in qualche misura o con qualche probabilità di successo ecc. Abbiamo altresì osservato che la mancata o insufficiente determinazione del concetto di certezza è alla base non solo del diffuso scetticismo circa la sua realizzabilità effettiva, ma anche di molte delle ricorrenti dispute sulla sua opportunità politica. Tale indeterminatezza concettuale, per soprammercato, fa sì che gli stessi autori che sostengono la realizzabilità e l’opportunità di un qualche grado di certezza, sovente discordino sui metodi volti a garantirne un incremento. Accade così, come si è visto nel secondo capitolo, che un Kelsen raccomandi una maggior chiarezza nella formulazione delle disposizioni generali e astratte proprio mentre un Leoni, per realizzare l’analogo obiettivo della certezza come prevedibilità, proponga il ritorno ad un diritto basato su principi non scritti ma noti e condivisi nelle grandi linee da tutti i membri della comunità. Non stupisce allora che di fronte a questa incertezza sulla certezza il ceto dei giuristi e molti dei teorici del diritto abbiano assunto un atteggiamento di generale disillusione nei confronti di quello che viene ormai avvertito come un dinosauro, se non una chimera, della filosofia giuridica. Un’indagine sulla concreta attuazione, sulla realizzabilità e sulla desiderabilità della certezza-prevedibilità dovrebbe dunque esser sempre preceduta da una ridefinizione tendente ad evitare o quantomeno limitare i già denunciati equivoci e fraintendimenti. Tale sollecitudine analitica potrebbe servire a fondare quelle valutazioni su giudizi maggiormente condivisi circa la presenza effettiva della cer-

346

Vedi supra, § 1.3.

PER UNA METATEORIA DELLA CERTEZZA

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tezza in un dato ordinamento e circa le strategie dirette a garantirne l’incremento, conformemente allo slogan che ho formulato nel primo capitolo e che tra poco tenterò di argomentare: più precisa è la definizione di certezza più intersoggettivamente certi sono i risultati del suo accertamento.

3.1.b. Né essenze né contestabilità essenziali: il ricostruzionismo La regola di prudenza raccomandata da Scarpelli induce ad impostare la nostra operazione ridefinitoria muovendo dagli usi già accettati dell’espressione “certezza del diritto” e limitando al minimo la pur inevitabile riforma. Tale metodo ridefinitorio ha più di un punto in comune con il ricostruzionismo, ossia con l’impostazione metodologica di matrice analitico-linguistica che raccomanda la definizione esplicativa come medium ideale per la ricostruzione del linguaggio della scienza, intesa qui in senso ampio, come discorso razionale 347 . Il ricostruzionista, in breve, ritiene che il linguaggio comune o naturale sia, in generale, uno strumento troppo poco affilato per essere utile all’indagine scientifica, politica o filosofica, ma nel contempo raccomanda di allontanarsi da esso soltanto quando ciò risulti indispensabile ai fini della chiarificazione di concetti altrimenti eccessivamente vaghi, generici o ambigui. La ricchezza e la versatilità del linguaggio comune, così utili e suggestive per il poeta, per il diplomatico, talvolta perfino per il giurista, pongono infatti più di un problema in contesti che per diverse ragioni richiedono un livello di precisione concettuale ben superiore a quello della comunicazione ordinaria. Né questi contesti vengono individuati solo nell’ambito delle “scienze naturali empiriche”: soprattutto gli studiosi più radicati nella tradizione analitica rivendicano analoghe esigenze di precisione all’indagine politica, meta-scientifica o meta-giuridica 348 . Anche qui, si sostiene, molte inutili dispute si possono evitare grazie all’impiego di un linguaggio che, pur costruito a partire dal lessico comune, si 347

Per un’efficace difesa dell’atteggiamento ricostruzionista, vedi OPPENHEIM, F.E., Concetti politici, Il Mulino, Bologna 1985, cap. IX. 348 In Concetti politici, per esempio, Oppenheim adotta il ricostruzionismo come metodo di ricerca in filosofia politica e sociale. Cfr. OPPENHEIM, F.E., Concetti politici, cit.

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LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

allontani da quest’ultimo laddove sorga la necessità di precisare delle espressioni linguistiche troppo vaghe o ambigue. La definizione esplicativa, collocandosi a metà strada tra l’innovazione stipulativa e la ricognizione lessicale, è così indicata come strumento ideale per la ri-costruzione di concetti il cui uso darebbe altrimenti origine a confusione e fraintendimenti 349 . Si noti che l’atteggiamento ricostruzionista, pur trovando le sue principali fonti d’ispirazione nel Wittgenstein del Tractatus Logico-Philosophicus, nonché nell’opera di Russell, Carnap e Frege, non esige affatto l’abbandono del linguaggio comune né prescrive la sua completa sostituzione con un linguaggio artificiale, magari assiomatizzato o assiomatizzabile. Piuttosto, il ricostruzionista raccomanda l’adozione di un linguaggio ricostruito o ristrutturato che, pur basandosi in larga misura sul linguaggio ordinario, favorisca la chiarificazione dei concetti controversi, nella convinzione che la loro esplicazione possa minimizzare il rischio di dispute meramente verbali e agevolare l’individuazione dei punti nodali delle restanti questioni. Le controversie attorno alla certezza del diritto, come abbiamo visto, offrono ottimi esempi di dispute meramente verbali: sovente si discute attorno ad un concetto lasciato quasi completamente indeterminato, con gli interlocutori impegnati ciascuno ad argomentare pro o contra una personale e talvolta confusa nozione di certezza. Il metodo ricostruzionista si propone di dissolvere tali dispute partendo dal presupposto per cui l’esplicazione, grazie anche alla sua componente convenzionale, conduce sempre ad una qualche chiarificazione dei concetti equivoci o controversi. Tale approccio, pertanto, rigetta l’estremo relativismo concettuale che ha 349

L’esplicazione determina un aumento di precisione perchè riduce la frangia di casi limite in cui, indipendentemente dalle informazioni di cui si dispone, si è incerti circa l’applicazione dell’explicandum; cfr. PEIRCE, C.S., voce Vague, in Baldwin, J.M., Dictionary of Philosophy and Psychology, London 1902, II, p. 748, e ID., Collected Papers, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1934, V e VI, passim, citato in LUZZATI, C., La vaghezza delle norme, cit., p. 3. Sebbene sia usuale parlare di definizioni esplicative come una categoria a metà strada tra le definizioni lessicali e quelle stipulative, è ovvio che non si dà una rigida e netta distinzione qualitativa tra i tre tipi. Il carattere lessicale, esplicativo o stipulativo di una definizione è determinato sulla base di un continuum di variazioni rispetto agli usi linguistici precedenti, in modo tale che solo una …stipulazione potrebbe fornirci un criterio per determinare esattamente quando una definizione lessicale cessa di essere tale per assumere il carattere di ridefinizione e quando quest’ultima è così innovativa da dover essere considerata una definizione stipulativa.

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portato alcuni autori ad adottare la nozione di essentially contested concept, secondo cui alcuni concetti, mancando di condizioni necessarie e sufficienti al loro uso, rimangono sostanzialmente non suscettibili di definizione e dunque sempre aperti alle contestazioni 350 . Come vedremo nel corso di questo capitolo, se anche si ammette che alcuni concetti teorici possano essere precisati soltanto attraverso la determinazione di condizioni d’uso necessarie ma non sufficienti, ciò non implica affatto la loro indefinibilità, e meno che mai la loro contestabilità “essenziale” 351 . Vedremo altresì che il riconoscimento della struttura aperta e dunque dell’ineliminabile margine di vaghezza di concetti come “certezza del diritto” non compromette la controllabilità empirica delle asserzioni o delle teorie in cui essi figurano 352 . Se è da abbandonare ogni riferimento ad una presunta disputabilità essenziale, ancora più criticabile, agli occhi del ricostruzionista, è la ricerca delle essenze come bersaglio delle definizioni e delle teorie 353 . Egli muove alla ricerca di concetti da chiarire, non di essenze da catturare: ciò che si ricostruisce non è una… rete per la pesca di essenze, ma un regolamento (che si può sottoscrivere o meno) che ci consente di accordarci per limitare al minimo i casi in cui, indipen350 L’espressione essentially contested concepts è di Gallie; cfr. GALLIE, F.R., Essentially Contested Concepts, in BLACK, M. (a cura di), The Importance of Language, Cornell University Press, Ithaca-London 1976, pp. 121-146. 351 Dopotutto, il semplice senso comune suggerisce che «il riferimento a “contestazioni” definitorie ha un senso solo se c’è qualcosa che non viene trattato come “contestabile”» (GRAY, J.N. On the Contestability of Political Concepts, in Political Theory, 5, 1977, p. 342) e che «la contestabilità ha luogo all’interno di una cornice meno contestabile o non contestabile; altrimenti, le contestazioni divengono inintelligibili» (SIMON, T.W. Democracy and Social Injustice, Rowman & Littlefield, Boston-London 1995, p. 150). Per una critica alla nozione di disputabilità essenziale vedi PINTORE, A., I diritti della democrazia, Laterza, Bari 2003, pp. 3 ss., nonché la bibliografia ivi citata. 352 Nel § 3.2. spenderemo qualche parola sulla nozione di controllo degli enunciati in cui compaiono termini come “certo”, nello specifico senso di certezza del diritto. 353 Ecco un caso in cui gli estremi si toccano: l’estremo relativismo concettuale e le varie forme di essenzialismo hanno in comune il riferimento alle essenze: nel primo caso la contestabilità di alcuni concetti esaurisce la categoria dell’essenziale, mentre nel secondo caso questa si articola fino a comprendere, in modi che variano a seconda della versione di essenzialismo considerata, la “realtà”, la “natura della cosa”, ecc.

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dentemente dalle informazioni di cui disponiamo, siamo incerti se usare o no un’espressione linguistica per designare certi oggetti o proprietà. Ciò nella convinzione che, almeno nella scienza e nella filosofia, «la vaghezza, la struttura aperta e l’ambiguità non sono vantaggi che si devono preservare, ma ostacoli che si devono superare» 354 . Questo “regolamento” si sottoscrive accogliendo una qualche definizione nominale, sul cui primato rispetto alla definizione reale basterà qui ricordare la felice sintesi di Scarpelli: «Alla definizione nominale una classica teoria contrapporrebbe la definizione reale, diffinitio quid rei, che riguarderebbe le cose, e ne manifesterebbe l’essenza. Ma […] una cosa è la concorrenza di un insieme di proprietà determinabili con l’osservazione, in relazione alle quali si usa un certo termine. Quali siano queste proprietà si stabilisce con la definizione nominale. Quanto alla definizione reale, mi sembra da accogliere la tesi […] secondo la quale il termine “definizione reale” copre parecchie cose diverse. Poiché tali cose non hanno in comune nulla che giustifichi un nome comune, conviene limitare l’uso di “definizione” in campo scientifico alla definizione nominale e alle cose diverse dalla definizione nominale dare altri nomi» 355 . Insomma, il ricostruzionismo, rifuggendo sia dal relativismo estremo che induce a parlare di concetti essenzialmente contestati, sia, all’opposto, da qualsiasi tentazione essenzialista, propone una terza via, per molti aspetti analoga a quella percorsa dall’epistemologo avveduto; la definizione, tendendo alla chiarificazione dei vari definienda mediante la loro riformulazione in un linguaggio di struttura logica limpida e semplice, viene valutata, come la teoria scientifica, secondo la sua «accuratezza, coerenza, estensione, semplicità e fruttuosità» 356 , ma sono sempre proponibili definizioni (e teorie) alternative che possono esser confrontate con le nostre e giudicate, di volta in volta, non già più o meno aderenti alla “realtà”, bensì più o meno vantaggiose, chiarificanti o filosoficamente fruttuose. È dunque questa terza via che, in questo capitolo e nei successivi, cercherò di per-

354

OPPENHEIM, F.E., Concetti politici, cit., p. 258. SCARPELLI, U., La definizione nel diritto, ora in L’etica senza verità, cit., pp. 213-214. 356 KUHN, T.S., The essential Tension: Selected Studies in Scientific Tradition and Change, University of Chicago Press, Chicago-London 1977, p. 322. 355

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correre nel ricostruire una definizione di certezza del diritto come prevedibilità.

3.2. La certezza come disposizione 3.2.a. Una definizione condizionale della certezza Nel capitolo primo ho sostenuto che tutte le concezioni di certezza come prevedibilità includono un nucleo solido di significato, una sorta di massimo comun denominatore semantico configurabile come concetto di certezza-prevedibilità. Ho così parlato di certezza come possibilità diffusa di prevedere correttamente le conseguenze giuridiche di atti o fatti. Come abbiamo visto, il nostro concetto può essere considerato: 1) fattuale disposizionale; 2) non classificatorio 357 . È concetto fattuale disposizionale perché non indica una proprietà direttamente osservabile, bensì una disposizione, una potenzialità la cui sussistenza può essere controllata solo se si verificano alcune condizioni. È concetto non classificatorio (o più correttamente: può essere costruito come concetto non classificatorio) in quanto rappresenta una caratteristica graduabile: possiamo parlare di diritto più o meno certo, e non solo di diritto certo o non certo. Abbiamo finora accolto questa caratterizzazione del concetto di certezza in modo pressoché aproblematico. Il carattere disposizionale e quello non classificatorio dei concetti in generale, e del concetto di certezza del diritto in particolare, pongono tuttavia alcune questioni che è opportuno affrontare preliminarmente. Della disposizionalità di tale concetto discuterò subito, mentre nel paragrafo 3.3. svolgerò alcune considerazioni sul suo carattere non classificatorio. La tradizione analitica italiana, aderendo alla cosiddetta tesi liberalizzata dell’empirismo, accolse fin dalla metà del secolo scorso la definizione condizionale come forma di definizione appropriata per i segni disposizionali 358 . Si tratta di una definizione nominale che, tramite un enunciato nel quale figurano i segni logici “se … allora …”,

357

Vedi supra, §§ 1.5.a, 1.5.b. Vedi ad esempio SCARPELLI, U., Contributo alla semantica del linguaggio normativo, cit., pp. 60 ss. 358

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determina le condizioni che devono sussistere affinché il definiendum possa essere impiegato 359 . Una ridefinizione di “certezza giuridica”, secondo questa impostazione, può dunque essere convenientemente basata sulla precisazione di quali siano tali condizioni 360 . Ci 359

Secondo la classica tesi di Hempel, la definizione nominale può venire caratterizzata come stipulazione determinante che una certa espressione, il definiendum, deve valere come sinonimo di un'altra particolare espressione, il definiens, il cui significato è già stabilito. Cfr. HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, cit., p. 5. 360 La definizione condizionale è diretta a stabilire un procedimento che ci consente di appurare se il termine definito può essere o no applicato in istanze concrete. Scarpelli, nel 1959, affermava che tale tipo di definizione può essere impiegato per ridurre i concetti giuridici a termini designanti proprietà osservabili. In questo senso, è la definizione condizionale, e non la definizione semplice, o diretta, a garantire la controllabilità delle asserzioni del linguaggio giuridico. Si badi però che, almeno ne La definizione nel diritto (cit., pp. 206 ss.), Scarpelli si dichiara propenso a parlare di “concetti giuridici” e di “linguaggio giuridico” soprattutto in termini di linguaggio in funzione normativa, tanto che tratta ex professo la questione della riducibilità al vocabolario osservativo dei termini: 1) designanti fatti qualificati secondo norme o qualificazioni di fatti secondo norme; 2) designanti norme o sistemi di norme assunti come schemi di qualificazione di fatti. Gli uni e gli altri – afferma l’autore – possono essere ridotti, tramite definizioni condizionali, a termini designanti proprietà determinabili con l’osservazione diretta. “Linguaggio giuridico” è però, secondo l’autore, anche quello «usato […] nella costruzione ed esposizione della teoria del diritto, nella metodologia della pratica e della teorica del diritto». È superfluo rilevare che il linguaggio della teoria del diritto non è necessariamente usato in funzione normativa: esso può essere usato in quella che Scarpelli, nelle stesse pagine, chiama “funzione cognitiva”, per cui la riducibilità ad osservabili è questione (sempre nel pensiero dell’autore) assai meno problematica. Il problema si sposta allora sul fatto che la teoria del diritto può assumere le forme di un metalinguaggio descrittivo di un linguaggio oggetto usato in funzione normativa. Le sue asserzioni vertono su discorsi prescrittivi la cui significanza e idoneità a svolgere una funzione di guida del comportamento umano sono legate pur sempre alla riducibilità a termini del vocabolario osservativo (sebbene tale riducibilità riguardi il campo di riferimento, e dunque solo il frastico e non anche il neustico degli enunciati, che invece esprime la loro funzione linguistica). Nelle parole di Scarpelli: «Se non sappiamo a quali fatti si riferiscano, e quindi quali fatti loro corrispondano e non corrispondano, le norme non servono alla guida diretta del comportamento umano. Anche dal discorso normativo, se vogliamo che sia un discorso idoneo alla sua funzione, occorre, dunque, eliminare le espressioni che non si riferiscano a fatti» (ibidem, p. 209). Si noti, tuttavia, che la significanza dei metadiscorsi che descrivono i discorsi usati in funzione normativa non è subordinata alla significanza di questi ultimi, e dunque, nell’ottica scarpelliana, alla loro idoneità a guidare il comportamento umano: un’asserzione sulla certezza del diritto risulta perfettamente intelligibile anche quando verte sul grado di prevedibilità di un diritto le cui norme prescrivano l’obbligo di raggiungere l’Assoluto

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si può cioè mettere d’accordo su una regola d’uso secondo cui l’espressione “certezza del diritto” può essere correttamente impiegata per designare una data situazione fattuale se, verificandosi certe circostanze, la stessa risulta presentare determinate proprietà. In tal senso, “certezza-prevedibilità” è congenere a termini come “solubilità”, “elettromagnetismo”, “fragilità”, “elasticità”, “introversione” ecc.: come si può fornire una definizione di “solubilità” dicendo che x è solubile in acqua se, una volta immerso in essa, si scioglie, così si può definire “certezza del diritto” dicendo che d è certo-prevedibile se, una volta sottoposto a tentativi di anticipazione, d viene previsto con successo. Come ho accennato nel primo capitolo, una regola d’uso di questo tipo consente di affermare o negare la certezza di un diritto d (o di un suo settore s, di una sua norma n) raccogliendo o formulando delle previsioni sulla sua applicazione a casi concreti e osservando se (o meglio, in che misura) esse hanno successo o no. Ciò può essere fatto ad esempio tramite indagini statistiche che confrontino ex post le previsioni effettuate da un certo campione di soggetti ritenuti rappresentativi con le conseguenze giuridiche che essi erano stati chiamati a prevedere. Questa operazione presuppone però una precisazione ulteriore relativa a ciò che si intende per “conseguenze giuridiche”, a quali siano i “soggetti rappresentativi” e a ciò che si può considerare “previsione di successo”: tanto più è precisa ed estesa la definizione delle regole d’uso del termine “certezza”, tanto più determinato è l’oggetto del controllo che ci consente di predicarne la sussistenza effettiva (meglio: il grado di sussistenza) e tanto più sono indisputabili e intersoggettivamente validi gli esiti di tale controllo. Vedremo nel prossimo capitolo che tale precisazione può essere fatta tramite la fissazione di ulteriori condizioni d’uso dell’espressione “certezza del diritto”, e precisamente quelle che riguardano il chi, il che cosa, il come e il quanto della certezza. Potremmo invece subito chiederci perché mai la precisazione delle condizioni d’uso del definiendum “certezza del diritto” dovrebbe dio il diritto di estroflettersi nel Piano Astrale n° 4. La significanza del concetto di certezza del diritto come prevedibilità, dunque, non è intaccata dalla non significanza di alcune o tutte le norme giuridiche considerate: le asserzioni sulla certezza sono significanti in quanto si riferiscano ad un “fatto” come la prevedibilità di qualcosa, e ciò sia quando si parli di certezza in senso descrittivo, ad esempio dichiarandola sussistente in un certo grado, sia quando se ne parli in senso valutativo, ad esempio per elogiarla o criticarla.

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minuire la contestabilità dell’esito dei controlli istituiti dalla definizione condizionale. Non potrebbe darsi, al contrario, che la determinazione delle condizioni in presenza delle quali conveniamo di parlare di certezza del diritto aumenti la probabilità di dispute circa la sua sussistenza effettiva in una data situazione? Dopotutto, si potrebbe sostenere, due teorici del diritto dapprima concordi nel predicare la certezza di un diritto x potrebbero, a seguito di tale precisazione, trovarsi in disaccordo, uno dei due rilevando che a suo parere non è soddisfatta qualcuna delle condizioni necessarie per asserire la certezza del diritto considerato. Orbene, la possibilità di un disaccordo sull’occorrenza di tali condizioni è in primo luogo esclusa da chi, convinto del ruolo svolto dall’esperienza come giudice di ultima istanza dei nostri discorsi circa il “reale”, configura le definizioni condizionali come strumenti linguistici in grado di determinare il significato empirico dei concetti disposizionali 361 . Per il neoempirista, ad esempio, il raffronto con l’esperienza ci consente di decidere incontestabilmente, ottenendo unanime consenso, circa l’applicabilità dei termini alle cose, situazioni, proprietà o relazioni date 362 . Quando si considerano i segni disposizionali – si sostiene – questo raffronto è ancora possibile, a patto che si istituisca un procedimento in grado di ridurre quei termini, non direttamente designanti oggetti o attributi passibili di osservazione, a termini osservativi, ossia a termini la cui applicabilità alle situazioni date possa essere decisa tramite osservazione diretta. Secondo questa impostazione, i ricercatori impegnati in questa sorta di “accertamento della certezza”, una volta convenuta una definizione condizionale che riduce la certezza del diritto a termini osservativi, non avrebbero che da condurre una serie di banali osservazioni sopra ciò che quei termini designano e, sulla base 361

Un verificazionista come Moritz Schlick scrive: «Stabilire il significato di una frase equivale a stabilire le regole secondo cui la frase deve essere usata, il che equivale a stabilire in modo in cui essa può venire verificata (o falsificata). Il significato di una proposizione è il metodo della sua verificazione»; cfr. SCHLICK, M., Meaning and verification, in The Philosophical Review, 45 (1936), pp. 330-369, trad. it. Significato e verificazione, in PASQUINELLI, A. (a cura di), Il neoempirismo, Utet, Torino 1969. 362 Diventa possibile, dunque, la costruzione di un linguaggio della scienza universale e intersoggettivo; cfr. il “manifesto” del Circolo di Vienna: HAHN, H., CARNAP, R., NEURATH, O. Wissenchaftliche Weltauffassung. Der Wiener Kreis, Wolf, Vienna 1929, trad. it. La concezione scientifica del mondo, Laterza, Bari 1971.

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dell’incontrovertibile esito di queste, decidere circa la certezza del diritto considerato. Se si accoglie la premessa filosofica che considera “banale” l’osservazione in quanto mera rilevazione passiva di dati d’esperienza oggettivi, questa decisione sarà ritenuta necessariamente concorde in quanto basata su osservazioni condotte sui medesimi oggetti. La questione della riduzione dei termini disposizionali a termini osservativi – qui deliberatamente ipersemplificata – è però assai più problematica. Non solo il concetto neoempirista di “osservazione” come rilevazione empirica di carattere oggettivo è filosoficamente discutibile, ma lo stesso status epistemologico dei concetti disposizionali e dei termini osservativi è talmente controverso che è stato persino proposto di abolire tali categorie, o quantomeno di evitare una loro netta distinzione 363 . Questo mi induce ad accogliere una definizione condizionale di certezza del diritto, trattandola come concetto disposizionale, solo una volta adottate alcune cautele. Esaminerò la questione nei prossimi due paragrafi.

3.2.b. La riduzione come definizione parziale di “certezza del diritto” Secondo un ben noto orientamento neoempirista, i termini disposizionali sono una particolare categoria di termini teorici, ovvero termini del linguaggio extra-logico della scienza che designano oggetti, eventi, relazioni o proprietà non suscettibili di osservazione diretta 364 . Ai termini teorici si contrappongono, come abbiamo visto, i termini osservativi, ossia quei termini del vocabolario extra-logico della scienza per i quali, sussistendo le opportune circostanze, è possibile decidere mediante osservazione diretta se siano o no applicabili nella situazione data. Secondo la concezione nota come psicologismo, le asserzioni osservative riguardano impressioni sensibili o dati sensoriali di un determinato osservatore. La concezione psicologista si accompagna sovente al fenomenismo, ossia all’idea secondo cui noi ricaviamo gli oggetti fisici dai dati sensoriali. Il fisicalismo, inve363

Nel paragrafo 3.2.c vedremo come Popper e, prima di lui, altri filosofi abbiano disvelato la problematicità dell’idea neoempirista del rapporto tra linguaggio teorico e “dati empirici”, sottolineando la natura attiva dell’osservazione. 364 Cfr. HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, cit., pp. 104 ss.

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ce, afferma che le asserzioni osservative riguardano direttamente gli oggetti fisici: l’osservazione, vertendo su questi anziché su percezioni soggettive, ha carattere intersoggettivamente valido ed universale. Secondo i fisicalisti, l’applicabilità dei termini osservativi alle situazioni date è dunque pubblicamente accertabile, ed anzi la riduzione del linguaggio teorico della scienza al vocabolario osservativo garantirebbe agli scienziati la possibilità di esprimersi in un linguaggio pubblico e nei termini di asserzioni intersoggettivamente controllabili. I termini osservativi designano i cosiddetti osservabili, ossia appunto oggetti, proprietà, relazioni la cui presenza o assenza può essere intersoggettivamente accertata in un caso dato e in determinate circostanze mediante osservazione diretta 365 . Il programma della tesi ristretta dell’empirismo prevedeva, com’è noto, la completa traducibilità dei termini teorici in termini osservativi e, per questa via, la costituzione di un linguaggio scientifico universale e intersoggettivo 366 . Gli assertori di questa tesi pensavano che ogni enunciato teorico della scienza potesse essere tradotto, mediante opportune definizioni dei suoi termini costitutivi, in un equivalente enunciato espresso in soli termini osservativi; la riduzione così operata avrebbe costi-

365 Cfr. HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, cit., p. 106. I neoempiristi adottarono dapprima l’approccio psicologista. Rudolf Carnap, come la maggior parte dei membri del Circolo di Vienna, nei primi anni trenta del secolo scorso venne però convinto da Otto Neurath ad abbandonare il fenomenismo-psicologismo a favore del fisicalismo. 366 A chiamare questo punto di vista “tesi ristretta dell’empirismo” è Hempel (cfr. HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, cit., p. 31). Secondo il neoempirista stretto, dunque, un’espressione come “certezza del diritto” è significante in quanto possa, eventualmente tramite una serie di passaggi successivi, essere ridotta a termini designanti osservabili. Il significato di un concetto, in quest’impostazione, è dato dalla sua riduzione, eventualmente attraverso una serie di passaggi successivi, a termini primitivi indefinibili ma designanti proprietà determinabili con l’osservazione diretta. In tal modo, i concetti e gli asserti della scienza sono da considerarsi coestensivi con i concetti e gli asserti della base (fenomenista o fisicalista) a cui sono riducibili. Il punto di vista della completa riducibilità dei costrutti teorici in termini di concetti osservativi mediante definizioni nominali o esplicite è negli anni ’20 sostenuto anche da Carnap (cfr. Der logische Aufbau der Welt, Berlino 1928), che in seguito opterà per l’idea di una riducibilità meramente parziale (cfr. Testability and meaning, in Philosophy of Science, III (1936), trad. it. nell’antologia carnapiana: Analiticità, significanza, induzione, a cura di A. MEOTTI e M. MONDADORI, Il Mulino, Bologna 1971, pp. 151-261).

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tuito il significato empirico (intersoggettivamente valido) di tale enunciato. Sennonché, questa impostazione non regge ad alcune critiche, una delle quali verte per l’appunto sulla non completa riducibilità ad osservabili dei termini teorici disposizionali 367 . Come abbiamo visto, questi termini non designano attributi direttamente osservabili, bensì una disposizione ad esibire particolari caratteri solo in determinate circostanze. Ma, allora, eccepiscono i critici, come è possibile definire quei termini per mezzo di una riduzione ad altri termini la cui applicabilità possa essere decisa attraverso l’osservazione diretta? Una prima risposta potrebbe essere: dando delle definizioni espresse in forma condizionale; la riduzione viene operata con riferimento a ciò che si osserva in presenza di certe condizioni, precisate nel definiens. Un predicato disposizionale come “certo-prevedibile” potrebbe dunque essere attribuito a un oggetto x secondo un criterio così formulabile:

(1) Qx ≡ ( Cx ⊃ Ex) ossia, ricorrendo ad una parafrasi relativamente approssimata e semplificata: (2) x è certo-prevedibile ≡ se x viene sottoposto a tentativi di anticipazione, allora x viene previsto con successo 368 .

367

Un’altra critica assai nota riguarda la non definibilità in termini osservativi dei termini metrici, ossia dei termini che rappresentano grandezze misurabili numericamente: cfr. HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, cit., pp. 37 ss. Vi sono poi, naturalmente, le critiche rivolte all’idea di “osservazione immacolata” mosse sia da Popper sia da autori che si rifanno alle tesi di Duhem, Poincaré e Wittgenstein secondo cui ogni osservazione parte necessariamente già “impregnata di teoria”. Di queste critiche, in primo luogo quella di Popper, si darà conto nel prossimo paragrafo. 368 Per semplicità d’esempio si assume che “viene sottoposto a tentativi di anticipazione” e “viene previsto con successo” indichino dati osservabili. In realtà quello della (2) è ovviamente solo il primo passaggio della riduzione di “certoprevedibile” a termini osservativi; sono necessari svariati passi successivi che specifichino, tra le altre cose, le modalità della previsione, la determinazione dei previsori, l’oggetto dell’anticipazione. Inoltre, come vedremo tra qualche pagina, la stessa nozione di “termine osservativo” comporta dei problemi.

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Anche questa forma di definizione non è però soddisfacente. Si consideri infatti che, secondo la comune interpretazione estensionale, enunciati condizionali come il definiens di (1) ed il definiens di (2) sono falsi solo se il loro antecedente è vero e il loro conseguente è falso; sono invece veri se il loro antecedente è falso, in tal caso indipendentemente dal valore di verità del conseguente. In questo modo, dovremmo asserire la certezza del diritto x sia quando abbiamo rilevato che esso, sottoposto a tentativi di previsione, è stato previsto con successo (cioè quando Cx e Ex sono veri) sia tutte le volte che si sia constatato che esso non è stato sottoposto ad alcun tentativo di anticipazione (cioè quando Cx è falso) 369 . La nostra definizione di certezza, insomma, ci obbligherebbe a considerare “certo” un diritto non solo quando esso, sottoposto a prova, sia risultato prevedibile, ma anche, paradossalmente, tutte le volte in cui tale prevedibilità non sia stata in alcun modo sperimentata. Per definizione dovremmo pertanto asserire che, dato che non abbiamo la più pallida idea della prevedibilità del diritto del Burkina Faso, questo è sicuramente certo! Per ovviare a queste difficoltà nella definizione dei termini disposizionali, Rudolf Carnap propose una procedura di definizione condizionale denominata riduzione. Secondo Carnap, il significato dei termini teorici può essere specificato, sebbene solo parzialmente, per mezzo delle cosiddette proposizioni di riduzione. Per esempio, il termine di proprietà o predicato monadico Q può essere definito tramite la seguente proposizione di riduzione bilaterale: (3) Cx ⊃ (Qx ≡ Εx) che ci dice che se un oggetto x è sottoposto a controlli sperimentali del tipo indicato in C, allora ha la proprietà Q se e solo se palesa una proprietà del tipo E. Si tratta di mera specificazione parziale di significato perché riguarda solo gli oggetti soddisfacenti la condizione C; per quelli che non rispondono a tale requisito il significato di Q è lasciato indeterminato 370 . Tuttavia, la già vista difficoltà collegata 369

Si avrebbe cioè: x è certo-prevedibile = se x non viene sottoposto a tentativi di anticipazione secondo le modalità C, allora x viene previsto con successo E. 370 Vi è una sola eccezione: quando l’espressione “Cx” della (3) è analitica, cioè soddisfatta con necessità logica da qualunque oggetto x, la proposizione di riduzione risulta equivalente alla definizione esplicita “Qx ≡ Εx” e pertanto specifica comple-

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alla (1) e alla (2) viene senz’altro superata. Infatti, se x non si trova nelle condizioni C, allora l’intera formula (3) risulta vera, ma ciò non implica nulla circa il fatto che x abbia la proprietà Q. La nostra possibilità di esprimerci sopra la certezza del diritto x, insomma, viene a dipendere dal fatto che esso sia posto nelle condizioni sperimentali C, ovvero dal fatto che esso sia sottoposto a previsione con le modalità specificate in C. Se tali condizioni non si predispongono, però, a differenza di quanto accade secondo la definizione (2), non saremo tenuti in alcun modo ad asserire la certezza di x. Seguendo quest’impostazione, potremmo definire la certezzaprevedibilità mediante una proposizione di riduzione secondo cui: (4) Cd ⊃ (Qd ≡ Ed) il che, nella nostra parafrasi approssimata equivale a dire che se il diritto d è sottoposto ai controlli sperimentali indicati in C, allora deve essere riconosciuto come certo (Q) se e solo se rivela le caratteristiche indicate in E. Secondo Carnap, la funzione delle proposizioni di riduzione è quella, appunto, di consentire la “riduzione” dei termini disposizionali a termini osservativi, garantendo così la possibilità di un controllo empirico intersoggettivo sulla correttezza della loro applicazione. Semplificando molto, se con Cd si rappresenta la condizione secondo cui un diritto d è sottoposto a previsione da parte di una certa classe di soggetti, e con Ed si rappresenta la circostanza secondo cui il diritto d è stato effettivamente previsto da un certo numero di essi, avremo specificato una delle condizioni di impiego del termine “certo”, e precisamente quella che riguarda il chi deve essere in grado di prevedere correttamente il diritto affinché possa questo possa dirsi certo. Avremo altresì specificato il “quanto del chi”, e cioè una soglia di certezza data dalla proporzione minima di individui in grado di prevedere effettivamente rispetto ad un totale di previsori potenziali (individuati in Cd) 371 . Sarà a questo punto possibile controllare la certamente il significato di “Qx”, consentendo di eliminare tale termine da ogni contesto; cfr. CARNAP, R., Testability and Meaning, cit.; vedi anche HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, cit., pp. 31 ss.; 117 ss. 371 Vedremo in seguito che questo modo di procedere dà luogo ad una definizione di certezza del diritto in termini di concetto classificatorio, mentre diverse ragioni

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tezza del diritto d – con riferimento all’elemento del “chi” – andando a constatare se Ed si è verificata o no, ossia se i previsori indicati da Cd hanno avuto successo nella previsione di d 372 . Quel che più importa, ove Cd e Ed siano riconducibili a termini osservativi, ossia, nel fisicalismo di Carnap, ove si riferiscano ad oggetti o eventi direttamente osservabili, la nostra asserzione sulla certezza di d avrà valore intersoggettivo. Anche questo modo di procedere comporta però alcune difficoltà. Un problema, ad esempio, è quello dato dall’incompletezza delle definizioni ottenute mediante proposizioni di riduzione: le definizioni così ottenute specificano condizioni necessarie ma non sufficienti per decidere circa l’applicazione dei definienda dati. Per tale ragione ci si può chiedere se questo modo di procedere sia idoneo a fornire un significato empirico ai termini teorici, dandoci la possibilità di provare la loro applicabilità ad una situazione di fatto. In una parola, ci si può domandare se la riduzione di un termine teorico ad osservabili sia un procedimento davvero atto a garantirne un’interpretazione. Con Hempel, si può rispondere positivamente rilevando che anzi la parziale indeterminatezza del significato dei termini teorici rispecchia un’importante e proficua caratteristica dei più fecondi termini della scienza: l’apertura di significato 373 . È vero che l’interpretazione completa di un termine teorico non equivale ad un insieme di proposizioni di riduzione, che al più ne determina un significato empirico parziale, specificando condizioni necessarie ma non anche sufficienti per la sua applicazione. Tuttavia, l’affermazione secondo cui una teoria interpretata non può essere ritenuta equivalente ad una classe di enunciati descriventi potenziali esperienze non deve condurre alla conclusione che i termini teorici siano totalmente privi di rendono preferibile una definizione nei termini di concetto non classificatorio e la determinazione di una misura della certezza. Vedremo altresì che tale misura, in riferimento all’elemento soggettivo del quantum degli individui in grado di prevedere effettivamente rispetto ad un totale di previsori potenziali, può considerarsi come una sorta di dimensione “orizzontale” della certezza (Vedi infra, § 4.5). 372 La definizione di Ed, ovviamente, deve includere anche la determinazione in termini primitivi di ciò che si intende con “previsione di successo”. Considererò la questione in seguito (vedi infra, § 4.3.a). 373 Sui vantaggi euristici dell’apertura di significato dei concetti teorici vedi HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, cit., pp. 36 ss.; 121.

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interpretazione e dunque assolutamente non suscettibili di prova 374 . Anche una definizione parziale come quella offerta dalle proposizioni di riduzione di Carnap attribuisce una portata empirica ai termini teorici, almeno nel senso di consentire la controllabilità degli asserti che li includono attraverso il raffronto con i dati d’esperienza 375 . L’interpretazione meramente parziale dei termini teorici, insomma, non preclude la loro significanza: sebbene l’interpretazione parziale non stabilisca per ogni termine o enunciato teorico una condizione di verità necessaria e sufficiente esprimibile in termini di significato noto, il termine o enunciato teorico può comunque essere ritenuto significante o intelligibile quando siano date delle regole d’uso idonee a indicare quali termini del vocabolario osservativo siano inferibili da proposizioni contenenti termini teorici e, inversamente, quali proposizioni teoriche possano essere inferite da proposizioni formate nei termini del vocabolario osservativi 376 . Se gli enunciati teorici, sia pure solo parzialmente forniti di interpretazione empirica, 374 HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, cit., pp. 47 ss. Hempel rileva anche che non possono darsi argomenti conclusivi pro o contra la possibilità di definire esplicitamente i termini teorici della scienza empirica mediante il vocabolario osservativo. Si deve tuttavia ammettere, secondo l’autore, che oggi non siamo in grado di formulare dei definientia osservativi per tutti i termini teorici di uso corrente; cfr. ibidem, p. 145. 375 Né la riduzione deve essere considerata l’unica forma di interpretazione in senso empirico dei termini o degli asserti teorici: Hempel afferma che vari tipi di interpretazione sono possibili oltre la riduzione; egli stesso propone uno schema generale di interpretazione così formulabile: «La teoria T sia caratterizzata da un insieme di postulati espressi in termini di un vocabolario teorico finito Vt, e Vb sia un secondo insieme di termini extra logici, denominato vocabolario basico, non avente alcun membro in comune con Vt. Per sistema interpretativo di T con base Vb intendiamo un insieme J di proposizioni tale che (i) sia un insieme finito, (ii) sia logicamente compatibile con T, (iii) non contenga alcun termine extra logico non compreso in Vt o in Vb, e (iv) includa ogni elemento di Vt e di Vb essenzialmente, cioè non risulti equivalente dal punto di vista logico a nessun insieme di proposizioni in cui qualche termine di Vt o di Vb manchi del tutto» (HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, cit., p. 148). 376 Hempel, pur radicato nella tradizione neopositivista, distingue il problema della significanza degli enunciati teorici da quello della loro scientificità: possono ritenersi forniti di significato anche sistemi interpretati che, senza dubbio, non verrebbero ritenuti potenziali teorie scientifiche. Affinché una teoria sia scientifica sono necessarie altre condizioni, oltre la sua significanza e interpretabilità in senso empirico; cfr. HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, cit., pp. 163-164.

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sono significanti, allora, conclude Hempel, possiamo predicarne la verità o la falsità. Possiamo cioè considerare un asserto teorico vero se ha riferimento fattuale, ossia se le entità che esso designa esistono realmente, falso in caso contrario 377 . Inoltre, proprio l’apertura di significato conseguente all’interpretazione empirica parziale dei termini teorici rivela un valore euristico, in quanto induce ad inventare potenti concetti esplicativi, circa i quali inizialmente è possibile rilevare solo alcuni legami con l’esperienza, e che tuttavia sono fecondi nel suggerire ulteriori linee di ricerca, atte a condurre alla scoperta di nuove connessioni con i dati osservativi 378 . 377 HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, cit., pp. 164-165. Data una definizione di certezza espressa in una forma analoga alla (4), un asserto come “il diritto x è certo” è dunque vero se, in presenza delle condizioni che si includono in C si osservano le proprietà E, ed è falso se in presenza delle condizioni C non si osservano le proprietà E. L’impostazione qui illustrata ammette una simmetria tra verificazione e falsificazione. Tale simmetria è esclusa da chi, come vedremo nel prossimo paragrafo, ritiene che gli asserti teorici non possono mai essere verificati ma soltanto falsificati. 378 HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, cit., pp. 144-145. Questa conclusione appare corroborata se si considera che svariati pensatori sono disposti a riconoscere valore euristico perfino alla metafisica, sia pure intesa non, in senso paleoneopositivista, come non-senso, bensì come discorso significante ma non-scientifico. Un orientamento filosofico che, partendo da Popper, passa per Agassi e Watkins e arriva fino a Lakatos e ad una moltitudine di filosofi odierni, non solo ammette la significanza delle pseudo-scienze, ma riconosce ad alcune di esse un ruolo importante nella genesi delle teorie scientifiche. La storia della scienza – si sostiene – presenta numerosi esempi che mostrano come una teoria metafisica, prima di diventare controllabile, può servire come programma di ricerca per la scienza; cfr. POPPER, K. , Quantum Theory and the Schism in Physics, in Postscript to the Logic of Scientific Discovery, a cura di W. BARTLEY III, HUTCHINSON, Londra 1956, ed. it. a cura di A. ARTOSI, Poscritto alla logica della scoperta scientifica. III. La teoria dei quanti e lo scisma della fisica, Il Saggiatore, Milano 1984; AGASSI, J., The nature of scientific problems and their roots in metaphysics, in BUNGE, M. (a cura di), The Critical Approach to Science and Philosophy. Essays in Honor of K.R. Popper, The Free Press, London 1964; WATKINS, J., Confirmable and Influential Metaphysics, in Mind, n.s., 67, pp. 344-365; LAKATOS, I., Falsificationism and the methodology of scientific research programmes, in LAKATOS, I., MUSGRAVE, A. (a cura di), Criticism and the Growth of Knowledge, Cambridge University Press, Cambridge 1970, tr. It. Critica e crescita della conoscenza, a cura di GIORELLO, G., Feltrinelli, Milano 1976. Oggidì sono molti gli epistemologi che ritengono le idee metafisiche necessarie alla scienza in quanto forniscono ai ricercatori una struttura entro la quale possono essere costruite e messe a confronto con l’esperienza diverse teorie concorrenti; cfr. GILLIES, D., GIORELLO, G., La filosofia della scienza nel XX secolo, Laterza, Bari 1995.

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3.2.c. La natura convenzionale dei punti terminali della riduzione Un’ultima, e ben più radicale, obiezione alla definibilità dei concetti disposizionali tramite riduzioni successive ad osservabili è mossa da Karl Popper, che nega la possibilità stessa della distinzione tra termini teorici (disposizionali) e termini non teorici (osservativi): tutti i termini universali sono in qualche misura teorici, anche se alcuni sono più teorici di altri. Se “fragile” è disposizionale, lo stesso deve dirsi di “rotto”, giacché «il criterio dell’esser rotto è un comportamento in certe condizioni» 379 . Si pensi, ragiona Popper, al modo in cui un medico procede a stabilire se un osso sia rotto o no. Oppure, si consideri il carattere disposizionale di un termine ritenuto osservativo come “rosso”: una cosa è rossa se, in certe circostanze, è capace di riflettere un certo tipo di luce. Il carattere disposizionale è dunque, secondo Popper, questione di grado, “solubile” e “disciolto” essendo entrambi termini disposizionali, sebbene il primo sia più disposizionale del secondo. Se un certo grado di disposizionalità è sempre presente, il tentativo di Carnap di “ridurre” i termini disposizionali a termini osservativi mediante proposizioni di riduzione descriventi un controllo operazionale è del tutto vano: definire “solubile in acqua” tramite l’asserto di riduzione “se x è posto in acqua, allora x è solubile in acqua se, e solo se, si scioglie”, non conclude alcunché; bisogna infatti ancora ridurre “acqua” e “si scioglie”, e tra i controlli operazionali che caratterizzano “acqua”, dovrebbe includersi anche quello per cui «se qualsiasi oggetto solubile in acqua è posto in x, allora, se x è acqua, quell’oggetto si scioglie» 380 . Ciò comporta che per definire “solubile” è necessario ricorrere al termine “acqua” che non solo è parimenti disposizionale, ma non può essere definito operazionalmente senza “solubile”: la circolarità è evidente 381 . La conclusione di Popper è che la pretesa di determinare il significato dei termini disposizionali o teorici (come “certezza del diritto”) tramite una loro riduzione al vocabolario osservativo non può che condurre ad un re-

379

POPPER, K.R., Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972, p. 204. POPPER, K.R., Congetture e confutazioni, cit., p. 473. 381 Cfr. POPPER, K.R., Congetture e confutazioni, cit., pp. 472-475. 380

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gresso all’infinito o ad un circolo vizioso

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. Essendo i nostri con-

382 Le critiche di Popper contro il dogma neopositivista dell’“immacolata osservazione” trovano riscontro nelle idee di moltissimi pensatori, appartenenti a tradizioni filosofiche e ad epoche differenti – da Kant al positivismo di Comte e al convenzionalismo di Poincaré – cui qui non si può accennare che in modo estremamente conciso. Nel Novecento, la tesi per cui ogni osservazione è intrisa di teoria, è stata per la prima volta avanzata, con riferimento alla fisica, da Pierre Duhem (cfr. DUHEM, P., La théorie physique: son object et sa structure, Marcel Rivière, Paris 1906; trad. it. La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura, Il Mulino, Bologna 1978), ed oggi è generalmente accettata dai filosofi della scienza. Duhem ha proposto la tesi dell’osservazione theory laden con riferimento alla fisica, ma in seguito essa è stata estesa fino a comprendere qualsiasi osservazione, anche quelle della vita quotidiana. Analogamente, sia il primato epistemologico della percezione (o del dato) rispetto all’elaborazione teorica sia la separazione tra momento empirico e momento concettuale sono negati da Wittgenstein nell’ultima fase della sua produzione filosofica: il triangolo ∆ «può essere visto: come un buco triangolare, come un corpo, come un disegno geometrico; appoggiato sulla sua base, appeso per un vertice; come un monte, come un cuneo, come una freccia o come un indice […]; come un mezzo parallelogramma, e come diverse e svariate cose» (WITTGENSTEIN, L., Philosophische Untersuchungen, Blackwell, Oxford 1953, trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1969, p. 256). Wittgenstein, dunque, propugna la tesi per cui noi, osservando un oggetto, non assistiamo alla visione di un “dato bruto” seguito da una successiva interpretazione; piuttosto, l’oggetto è già visto conformemente ad una interpretazione. Allo stesso modo, Norwood Russell Hanson scrive: «Consideriamo Keplero: immaginiamo che egli si trovi su una collina e che osservi il sorgere del Sole in compagnia di Tycho Brahe. […] Tycho vede [però] un Sole mobile, Keplero […] un Sole statico»; HANSON, N.R., Patterns of Discovery, Cambridge University Press, Cambridge 1958, trad. it. I modelli della scoperta scientifica, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 14-29. Hanson ne conclude che «nel vedere c’è un fattore “linguistico”, anche se non c’è niente di linguistico nel meccanismo di formazione dell’immagine nell’occhio, o nell’occhio della mente. Se non ci fosse l’elemento linguistico, niente di ciò che osserviamo potrebbe avere rilevanza per la nostra conoscenza»; ibidem, p. 30; e ancora: «Significato, rilevanza: queste nozioni dipendono da ciò che già sappiamo, oggetti, fatti, immagini che non sono intrinsecamente significanti o rilevanti. Se la visione fosse soltanto un processo ottico chimico, nulla di ciò che vediamo sarebbe mai rilevante per ciò che sappiamo e nulla di ciò che sappiamo potrebbe avere significato per ciò che vediamo»; ibidem, p. 39. Dunque, per Hanson non può darsi «osservazione immacolata» dei fatti, ad eccezione, forse, di quanto capita «con gli idioti o i bambini molto piccoli», cfr. HANSON, N.R., Logical positivism and the interpretation of scientific theories, in ACHINSTEIN, P., BARKER, S.F., Studies in the Philosophy of science, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1969, p. 74. Anche la psicologia sperimentale, perfino da epoca anteriore a Duhem, ha propugnato la tesi secondo cui tutta l’osservazione è carica di teoria. Già nel 1856, Hermann von Helmholtz aveva sostenuto che le percezioni vengono derivate tramite inferenze inconsce da segnali sensoriali (cfr. VON HELMHOLTZ, H., Handbuch der physiologischen Optik, citato in GREGORY, R.L., The Intelligent Eye, Gorge Windenfeld and

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trolli sempre provvisori e mai conclusivi, non dovremmo mai acconsentire ad una direttiva che ci imponga di interromperli in un determinato punto, ad esempio quando si ritenga di esser giunti a dei predicati primitivi: tutti i predicati sono disposizionali, cioè aperti al dubbio e ai controlli, e ogni asserzione ha il carattere di una teoria, di un’ipotesi che non può essere definitivamente verificata da nessuna esperienza basata sull’osservazione. Per tornare ad una definizione di certezza del diritto in termini di osservabili analoga alla già vista (4): una volta parzialmente definita la certezza dicendo, ad esempio, che il diritto d può asserirsi certo se, sottoposto a tentativi di previsione da parte dei consociati (circostanza C), viene in genere da costoro previsto con successo (circostanza E), rimangono da “ridurre” i termini “tentativi di previsione”, “consociati”, “successo”, “in genere”. Considerando, per brevità, solo l’ulteriore riduzione di quest’ultimo termine, potremmo proporre una stipulazione in virtù della quale può dirsi che il diritto è “in genere” previsto quando il rapporto numerico tra previsioni avverate e previsioni proposte raggiunge, ad esempio, i 2/3. Ma rimarrebbero allora da ridurre ad osservabili “previsione proposta” e “previsione avverata”, e così via, fino a quando ci si imbatte nella necessità di definire un termine tramite un altro che può essere definito soltanto per mezzo del primo (come nell’esempio di “solubile” e “acqua”). Dobbiamo allora ammettere che i nostri asserti teorici, compresi quelli sulla certezza del diritto, siano non conclusivamente giustificabili? Dobbiamo arrenderci addirittura alla loro non significanza? Popper risponde affermativamente alla prima domanda – anche se ritiene che ciò non debba destare preoccupazioni di sorta – e ritiene non rilevante la seconda 383 . Sebbene gli asserti teorici non possano Nicolson, London 1970). A conforto di questa tesi sono portate le considerazioni su come alcune “figure ambigue” – tra cui celeberrime sono l’“anatra-coniglio” citata da Wittgenstein in Philosophische Untersuchungen (Ricerche filosofiche, 1953, II, XI) e il “Cubo di Necker” descritto per la prima volta nel 1832 dal cristallografo svizzero L.A. Necker – possano essere interpretate in modi differenti perfino dallo stesso osservatore. Sulle figure ambigue e, in generale, sull’interpretazione delle esperienze sensoriali in base a teorie del senso comune, vedi GREGORY, R.L., The Intelligent Eye, cit.; GREGORY, R.L., Mind in Science, Penguin, Harmondsworth, Middlesex 1981, trad. it. La mente nella scienza, Mondadori, Milano 1985. 383 Come è noto, Popper ritiene quello del significato un problema marginale; ben più rilevante è la questione della falsificabilità (scientificità) delle teorie (cfr. POPPER, K.R., Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970): la falsifica-

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essere conclusivamente giustificati e i termini disposizionali non siano suscettibili di riduzione a termini osservativi, giacché questi sono in realtà a loro volta teorici, le nostre asserzioni sono purtuttavia controllabili nella misura in cui possono essere falsificate per mezzo del controllo empirico. Tale controllo, per Popper, è “empirico” in senso affatto speciale: una teoria viene falsificata non, genericamente, qualora si trovi in contrasto con qualcosa come “l’osservazione” o “il dato d’esperienza”, bensì quando si trovi in contraddizione con asserti singolari di esistenza riferentisi a particolari punti spaziotemporali 384 . Gli eventi che occorrono in tali punti sono sì costituiti da eventi osservabili, tuttavia gli asserti che ad essi si riferiscono, sebbene intersoggettivamente controllabili sulla base di queste esperienze immediate, non possono mai essere considerati giustificati da esse: «Le esperienze possono motivare una decisione, e quindi l’accettazione o il rifiuto di un’asserzione, ma un’asserzione-base non può essere giustificata da esse, più di quanto non possa essere giustificata battendo il pugno sul tavolo» 385 . Come si vede, mentre Carnap è disposto a riconoscere un ruolo importante all’esperienza nella giustificazione delle asserzioni osservative, il nostro autore nega la possibilità che queste possano essere anche solo parzialmente giustificate o verificate dall’esperienza 386 . Le asserzioni, per Popper, possono essere controllate solo attraverso il confronto con altre asserzioni, in modo tale che gli enunciati possono essere controllati solo tramite altri enunciati e non tramite stati di cose o mediante l’esperienza. Ci si potrebbe però domandare: se anche queste asserzioni falsificanti debbono essere controllate tramite una serie indeterminata di altre bilità di un sistema teorico non è parte di un criterio di significanza e non comporta alcun progetto di costituzione razionale del discorso della scienza o di riduzione. Il principio di falsificabilità, piuttosto, è da Popper proposto come criterio di demarcazione tra scienza e metafisica. 384 Popper dichiara che le sue tesi sono diverse da quelle convenzionalistiche proprio in quanto precisano che «le asserzioni che si decidono mediante un accordo non sono universali ma singolari»; cfr. POPPER, K.R., La logica della scoperta scientifica, cit., p. 105. 385 POPPER, K.R., Logica della scoperta scientifica, cit., p. 100. 386 «“Questo è un bicchier d’acqua” non può essere verificata da nessun’esperienza basata sull’osservazione. La ragione è che gli universali che compaiono in essa non possono essere messi in relazione con nessun’esperienza sensibile specifica. (Un’“esperienza immediata” è “immediatamente data” soltanto una volta: è unica)»; POPPER, K.R., Logica della scoperta scientifica, cit., p. 87.

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asserzioni, non v’è, anche qui, il pericolo di un regresso all’infinito? E inoltre: come possiamo impedire che le nostre asserzioni possano essere arbitrariamente accettate o rifiutate, e quindi considerate o no asserzioni-base, se non fissiamo delle regole che limitino questa possibilità? Popper ammette a questo proposito che: Se il controllo non ci porta in nessun luogo, non ci rimane che arrestarci a un punto o all’altro, e dire, almeno per il momento, che siamo soddisfatti. È abbastanza facile vedere che in questo modo arriviamo ad un procedimento secondo il quale ci fermiamo soltanto ad un genere di asserzione particolarmente facile da controllare. Ciò infatti significa che ci arrestiamo ad asserzioni sulla cui accettazione o sul cui rifiuto i vari ricercatori possono facilmente mettersi d’accordo 387 .

Popper, insomma, riconosce la possibilità di un regresso all’infinito nel controllo delle asserzioni-base: la relativa procedura non ha alcun termine naturale e può essere estesa indefinitamente. Questo regresso all’infinito è però innocuo laddove si ammetta un limitato dogmatismo 388 : il controllo si arresta quando arriva ad asserzioni che decidiamo di accettare in quanto facili da sottoporre al vaglio dell’esperienza. Tale controllo, ammette Popper, è in un certo senso fisicalista: non scegliamo dei resoconti circa le nostre proprie esperienze osservative (difficili da controllare intersoggettivamente), ma piuttosto dei resoconti, facilmente controllabili, intorno agli oggetti che abbiamo osservato 389 . Queste asserzioni possono essere considerate, sia pure provvisoriamente, asserti-base. Tuttavia sussiste sempre, quando sorgono contestazioni, la possibilità di sottoporre anche questi asserti ad ulteriori controlli, usando come pietra di paragone qualunque asserzione-base che possa essere dedotta da esse con l’aiuto di qualche teoria, e ciò fino a che si giunga ad un nuovo accordo sopra un’asserzione singolare. È necessario, insomma, prendere una decisione e accordarsi per accettare un’asserzione “osservativa” ogni volta che questa abbia superato un certo numero di controlli 390 ; essa, entro questi limiti, è una convenzione 391 . 387

POPPER, K.R., Logica della scoperta scientifica, cit., pp. 98-99. POPPER, K.R., Logica della scoperta scientifica, cit., p. 100. 389 Popper, K.R., Congetture e confutazioni, cit., pp. 454-455. 390 In questo senso, per Popper una teoria è da considerarsi “empirica” se è falsificabile, ovvero se divide la classe dei possibili asserti di base nelle sottoclassi non 388

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Anche Carnap, dichiarando di seguire l’esempio di Popper, riconosce la natura convenzionale dei punti terminali della sua procedura di riduzione 392 . Tuttavia, per Carnap la base del framework che viene scelto per la ricostruzione formale del linguaggio della scienza è fisicalista in senso più forte rispetto a Popper. La scelta, la convenzione, riguarda la questione pragmatica di quali predicati primitivi osservativi riguardanti esperienze elementari includere nella base a partire dalla quale viene operata la costruzione formale del linguaggio della scienza. Secondo Popper, invece, la convenzione non riguarda il momento della scelta dei termini primitivi da includere nella base del linguaggio della scienza in vista di una sua assiomatizzazione, bensì la decisione degli scienziati di arrestare il controllo di una teoria ad un asserto provvisoriamente “accettato” in quanto facile da sottoporre al vaglio dell’esperienza. Come si vede, le convenzioni operano a livelli diversi: a livello di metateoria della scienza per Carnap, a livello di scienza per Popper. Inoltre, i neoempiristi trattano di significato laddove Popper rifiuta di interessarsi di questo problema: Popper non partecipa ad alcun programma di ricostruzione razionale del discorso scientifico da attuarsi mediante la riforma del linguaggio o la sua emenda. Il ruolo degli asserti-base, per Popper, non ha rilevanza per la decisione sulla significanza o per la determinazione del significato di una definizione o di un concetto, ma si evuote costituite: 1) dalla classe di tutti gli asserti di base con cui la teoria non è coerente (falsificatori potenziali della teoria), 2) dalla classe gli asserti di base che essa non contraddice. Si noti che affinché una teoria sia falsificabile non è necessario che essa sia riducibile agli asserti di base: è implicitamente riconosciuto che la teoria è più potente di ogni classe finita di asserti di base da essa inferibili; cfr. SANDRI, G., Popper e le teorie scientifiche, introduzione all’edizione italiana di POPPER, K.R., Congetture e confutazioni, cit., pp. XIV-XV. 391 POPPER, K.R., Logica della scoperta scientifica, cit., p. 101. Poche pagine dopo, l’autore formula una celebre analogia: «Dunque la base empirica della scienza oggettiva non ha in sé nulla di “assoluto”. La scienza non posa su un solido strato di roccia. L'ardita struttura delle sue teorie si eleva, per così dire, sopra una palude. È come un edificio costruito su palafitte. Le palafitte vengono conficcate dall'alto, giù nella palude: ma non in una base naturale o “data”, e il fatto che desistiamo dai nostri tentativi di conficcare più a fondo le palafitte non significa che abbiamo trovato un terreno solido. Semplicemente, ci fermiamo quando siamo soddisfatti e riteniamo che almeno per il momento i sostegni siano abbastanza stabili per sorreggere la struttura» (ibidem, pp. 107-108). 392 Vedi CARNAP, R., Über Protokollsätze, in Erkenntnis, III (1932-33), pp. 215228.

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sprime nell’ambito della corroborazione delle ipotesi che falsificano le teorie 393 . Nonostante ciò – o forse sarebbe meglio dire proprio grazie a ciò – la posizione di Popper non è del tutto incompatibile con quella di Carnap e dei neoempiristi, e possiamo accoglierle entrambe in parte, limitatamente a quanto concerne il problema dell’opportunità di definire la certezza giuridica tramite una definizione condizionale. Con Carnap e Hempel, a livello metateorico, possiamo ammettere la parziale riducibilità del concetto di certezza giuridica a termini osservativi primitivi, e dunque la possibilità di istituire un controllo operazionale che ci consenta di pronunciarci argomentativamente sulla presenza della certezza del diritto in una data situazione di fatto. Con Popper e gli altri critici del dogma dell’“immacolata osservazione”, dobbiamo però riconoscere che i “termini osservativi primitivi” di cui sopra sono tali, in ultima analisi, solo per convenzione, e che dunque, a livello teorico, i ricercatori che intendano controllare la certezza di un dato diritto dovranno accordarsi sui “primitivi” cui la definizione di certezza può essere ridotta. Adottando questo approccio, potremmo ottenere qualcosa di molto simile a ciò che sia Popper sia gli empiristi “liberali” considererebbero dei criteri intersoggettivamente validi per determinare in che misura un dato diritto possa dirsi certo 394 . Dall’impostazione generale del discorso fin qui condotto risulta chiaro, tuttavia, che si tratta di un’intersoggettività condizionata ad una convenzione, e dunque estesa solo a coloro

393

Per Popper, infatti, le teorie asseriscono qualcosa solo riguardo ai loro falsificatori potenziali (ne asseriscono la falsità) mentre non asseriscono nulla (certamente non la loro verità) circa gli asserti di base che non contraddicono. 394 La procedura di riduzione, per quanto criticata da Popper quanto alla pretesa di consentire la verificabilità degli asserti teorici mediante un confronto con l’esperienza, con gli emendamenti proposti sarebbe accettabile in una prospettiva popperiana in quanto forma logica che semplifica e chiarifica le procedure di controllo di un asserto scientifico, ad esempio quello che afferma la presenza di un dato grado di certezza dell’ordinamento x. Del resto, Popper riconosce che: «C’è soltanto un modo per assicurarci della validità di una catena di ragionamenti logici; ed è quello che consiste nel mettere questi ragionamenti sotto la forma in cui è più facile controllarli: la spezziamo in molti piccoli passi, ciascuno facile da ispezionare da parte di chiunque abbia imparato la tecnica, matematica o logica, della trasformazione degli enunciati.[…] Una qualsiasi asserzione empirica della scienza può essere presentata (descrivendo disposizioni sperimentali, ecc.) in modo tale che chiunque abbia imparato la tecnica relativa possa controllarla»; POPPER, K.R., Logica della scoperta scientifica, cit., p. 93.

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che aderiscono alla definizione di certezza nei termini dei primitivi prescelti. Le considerazioni di Popper sull’irriducibilità dei concetti teorici e quelle di Hempel sul loro carattere aperto conducono dunque ad una comune conclusione: bisogna ammettere sempre un qualche grado di incertezza sulla certezza; la “base” su cui si costruisce il relativo concetto è “certa” solo nel senso che riconosciamo la necessità di arrestarne la riduzione a qualche punto in cui, per ragioni di opportunità pratica, decidiamo di dichiararci soddisfatti. Volendo insistere nel calembour, potremmo dire che tale residuale incertezza non impedisce un qualche accertamento della certezza, almeno se per “accertamento” si intenda un controllo empirico volto ad appurare se, o in quale misura, una situazione data manifesti le caratteristiche in presenza delle quali si è per definizione convenuto di parlare di “certezza del diritto” 395 .

3.3. La certezza come concetto quantitativo Nel paragrafo 1.5.b. abbiamo valutato l’opportunità di trattare la certezza come un concetto non classificatorio piuttosto che come concetto del tipo tutto-o-niente. Dovrebbe a questo punto risultare chiaro come le concezioni assolute della certezza non reggano alle critiche che l’epistemologia, la semiotica e la teoria del diritto hanno loro indirizzato adducendo rispettivamente l’impossibilità teorica di una previsione assolutamente certa, il carattere sempre vago, in misura maggiore o minore, di ogni espressione linguistica e la natura contingente dell’interpretazione giuridica (da questi ultimi due elementi potendosi inferire l’impossibilità pratica di una previsione giuridica del tutto affidabile). Non a caso, dopo i fasti dell’età dell’Illu395 Concludo il trito gioco di parole dicendo che ciò che l’impostazione falsificazionista esclude è piuttosto la certezza assoluta sopra tale accertamento della certezza. L’affermazione della certezza di un dato diritto, argomentata sulla base del controllo istituito dalla definizione condizionale proposta, sarà sempre “provvisoria” perché sempre aperta ad ulteriori controlli. Per quanto la riduzione operata con la definizione sia profonda, i punti terminali di essa saranno “osservativi”, e dunque incontestabili, solo per convenzione. Ma secondo Popper non dovremmo affatto dolerci di ciò: proprio la falsificabilità della nostra asserzione di partenza ne garantisce il carattere scientifico.

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minismo più ingenuo e ottimista, le concezioni assolute della certezza hanno condotto i loro assertori verso posizioni sempre più scettiche sulla sua realizzabilità o critiche nei confronti della sua desiderabilità o bontà. Come accade spesso ai disillusi, proprio gli alfieri della certezza giuridica sono talvolta diventati, a seguito della raggiunta consapevolezza della irrealizzabilità in toto della medesima, i suoi più veementi detrattori 396 . Abbiamo visto però come gli studiosi contemporanei della certezza siano propensi a ridefinirla in termini di concetto non classificatorio, parlando di gradi di certezza o di diritto più o meno certo 397 . Ciò non solo fa sì che tale concetto possa di 396 Il riferimento riguarda soprattutto i giuristi pratici, specie gli avvocati, tra cui più diffusi sono lo scetticismo e – spesso in conseguenza di questo – il disfavore nei confronti della certezza del diritto. Di particolare successo pare godano, tra costoro, quei luoghi comuni che tradizionalmente si accompagnano ad una concezione assoluta della certezza giuridica e che sono ben rappresentati in opere come Caso e incertezza del diritto, di Feliciano Benvenuti, forse il manifesto della concezione ingenua di (in)certezza diffusa tra i giuristi italiani. Vengono così riproposte tesi ben note: «L’interprete non avrebbe motivo di esistere se la legge fosse certa. In claris non fit interpretatio, ma sfortunatamente, la chiarezza o, meglio, la certezza della legge non esiste e perciò è necessaria la interpretatio come ricerca di quella verità che non solo non traspare, ma spesso le manca al suo interno» (BENVENUTI, F., Caso e incertezza del diritto, in Scritti in onore di M. S. Giannini, II, Giuffrè, Milano 1988, p. 32); o: «La previsione socio-legale appartiene all’utopia» (ibidem, p. 40); o ancora: «L’incertezza è, allora, la caratteristica naturale del diritto in quanto vivo ordinamento» (ibidem, p. 41). Si tratta, come si vede, di argomenti addirittura banali nella loro incontrovertibilità, qualora si accolga una nozione assoluta di certezza. È stato sostenuto che un atteggiamento del genere abbia condotto all’abbandono, da parte della maggior parte delle costituzioni contemporanee, di molte forme di tutela della certezza giuridica: l’ipertrofia della legislazione e l’eccesso di normazione non vengono quasi mai contrastate; la generalità e l’astrattezza rappresentano qualità della legge che raramente sono costituzionalmente richieste; la disciplina dei rapporti tra fonti di grado diverso è sovente difettosa o controversa; vi sono perfino eccezioni al divieto di disporre retroattivamente per legge (cfr. PEGORARO, L., La tutela della certezza giuridica in alcune costituzioni contemporanee, cit., pp. 735-736). Con Pegoraro, insomma, pare potersi concludere che mentre «le costituzioni più antiche sembrano ignorare l’esigenza di certezza del tessuto normativo perché il problema, allora, non si poneva (essendo la certezza presupposta in quanto comunque assicurata, per quanto essa può esserlo, dalla razionalità dei codici o dalla sedimentazione della common law), oggigiorno il problema viene (quasi sempre) eluso per la ragione opposta. Ossia, perché le moderne costituzioni – espressione di una diversa forma di Stato – rinunciano a conciliare la disciplina delle forme di produzione giuridica con l’esigenza di certezza, che si presuppone essere irraggiungibile» (ibidem, p. 736). 397 Per Kelsen, ad esempio, il «massimo grado di certezza del diritto» è assicurato dalla formulazione per quanto possibile chiara e univoca delle norme giuridiche;

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nuovo trovare posto nei discorsi dei teorici del diritto come guida alla rilevazione di una situazione che può occorrere effettivamente – quella per cui alcuni individui sono in grado di prevedere con qualche approssimazione alcune reazioni dell’ordinamento – ma comporta anche che essa possa ancora una volta costituire oggetto delle valutazioni dei cultori di politica del diritto, che potranno discutere la bontà o l’opportunità o i costi sociali di un dato grado di attuazione della certezza-prevedibilità. Sono inoltre da considerare tutti i vantaggi di precisione che l’adozione di un concetto non classificatorio, specialmente se quantitativo, implica. È noto come i termini quantitativi assicurino una flessibilità e sottigliezza descrittiva notevolmente maggiore rispetto ai termini classificatori 398 . Così, mentre un concetto classificatorio bivalente di certezza obbliga ad includere i vari ordinamenti considerati in una delle due classi complementari “ordinamenti certi”/“ordinamenti non certi”, l’impiego di un concetto quantitativo consente di comparare tra loro tali ordinamenti sistemandoli secondo una scala dal più certo al meno certo 399 . Come già osservato, diventa così possibile usare il termine “certezza” in asserti come: “Il diritto penale tedesco è più certo rispetto a quello rumeno, che a sua volta è più certo di quello di Haiti”, o: “Rispetto ai diritti europei quello italiano è tra i meno certi”, argomentandoli con dati osservativi (nel senso già visto) e perciò relativamente inequivoci. Vero è che in linea di principio sarebbe possibile ammettere una scala del genere anche adoperando degli schemi classificatori polivalenti, in cui per mezzo di stipulazioni si introducono dei termini che designano delle sottoclassi via via più ristrette ma sempre disposte secondo un ordine cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto, cit., pp. 389-390 (corsivi miei); per Hayek «il grado di certezza del diritto deve essere giudicato dalle dispute che non conducono alla lite a causa del fatto che i loro esito è praticamente certo nel momento in cui la situazione giuridica è esaminata. Sono i casi che non arrivano mai di fronte alle corti, e non quelli che ci arrivano, a fornire la misura della certezza del diritto»; cfr. HAYEK, F.A., The Constitution of Liberty, cit., p. 208, corsivo e traduzione miei. 398 HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, cit., pp. 69-74. Non a caso, Oppenheim rivendica l’opportunità di una loro adozione anche per la definizione dei concetti politici; cfr. OPPENHEIM, F.E., Concetti politici, cit., pp. 94 ss. 399 Cfr. HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, cit., pp. 71-72.

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(si pensi alla scala dei venti di Beaufort, che consente di discriminare dodici diverse forze del vento – calma, bava di vento, brezza leggera, brezza tesa ecc. – secondo criteri quali l’ascensione verticale del fumo, l’incresparsi delle onde del mare, il movimento delle foglie e dei rami degli alberi ecc.). Tuttavia, anche ammettendo che la sottigliezza descrittiva di un siffatto schema classificatorio possa essere aumentata introducendo nuove sottoclassi, bisogna pur sempre considerare: 1) che il numero delle distinzioni deve sempre essere limitato; 2) che questa ulteriore suddivisione richiederebbe l’introduzione di nuovi termini per i casi da discriminare (nel nostro caso qualcosa come “diritto assolutamente incerto”, “diritto quasi certo”, “diritto abbastanza certo” ecc.) inconveniente che l’impiego dei concetti quantitativi consente di evitare 400 . Infine, poiché la classificazione comporta sempre l’individuazione di una combinazione di caratteri che l’oggetto del dominio considerato deve possedere o no per poter essere incluso in una determinata classe, la distribuzione dei vari diritti tra classi come “diritti abbastanza certi”, “diritti molto certi” ecc. ci obbligherebbe a dei controlli specifici su ciascuno di tali caratteri, quando invece il grado di certezza può essere rilevato considerando un’unica proprietà dei diritti presi in esame. Certezza del diritto come questione di grado, dunque. Si pone però a questo punto un problema: il carattere disposizionale della certezza, espresso adottando una definizione condizionale basata sul modello della riduzione carnapiana, è compatibile con la sua caratterizzazione in termini di concetto non classificatorio? Abbiamo visto nei precedenti paragrafi in che senso tramite una serie di proposizioni di riduzione possiamo attribuire “portata empirica” al concetto disposizionale di “certezza del diritto”. Se però consideriamo la struttura delle proposizioni di riduzione adottate, ci rendiamo immediatamente conto di come esse siano atte a precisare il significato dei soli concetti classificatori, prestandosi assai meno alla determinazione dei concetti comparativi o quantitativi. Analizziamo di nuovo una definizione di certezza-prevedibilità data attraverso una proposizione di riduzione analoga a quelle già illustrate nella (4), ma precisiamone i termini in modo da riferirli a quelli che, come vedremo, sono l’elemen-

400

Cfr. HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, cit., p. 72.

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to soggettivo (chi prevede) e quello oggettivo (che cosa si prevede) della certezza:

(5) Cd ⊃ (Qd ≡ Ed) Una definizione del genere dice (all’incirca) che se il diritto d è sottoposto ai controlli sperimentali C, allora ad esso può attribuirsi la qualità “certo” (Q) se e solo si rilevano le proprietà stabilite in E. Stabiliamo ora che C indichi la circostanza per cui alcune applicazioni concrete di d (ad esempio, un campione di decisioni giudiziali) siano sottoposte a tentativi di previsione da parte di una data classe di individui (ad esempio, un campione rappresentativo della classe dei cittadini adulti). Stabiliamo inoltre che E indichi l’evidenza per cui una parte di queste previsioni, diciamo il 66%, si siano effettivamente realizzate. Ovviamente, in questo schema Qd può assumere solo due valori: o è vero o è falso. Utilizzare una proposizione come la (5) equivale cioè a dire che qualora il diritto d sia sottoposto a previsione nelle modalità stabilite in C, esso è certo (Q) se e solo se almeno tante previsioni quante quelle stabilite in E sono coronate da successo. In questi termini, il nostro accertamento sulla certezza di d potrà però condurre solo a due risultati: o d è certo oppure no, e d sarà certo se e solo se si rileva che viene raggiunta la soglia minima, stabilita nella definizione di E, di previsioni azzeccate. Rimangono però precluse le possibilità di considerare d come più o meno certo e di raffrontare la certezza di d con la certezza di un altro diritto x. Questo pare un sacrificio troppo grande da accettare, sia pure a fronte dei vantaggi di determinazione delle procedure di controllo empirico sulla certezza che la sua parziale ridefinizione in termini di riduzione comporta. Siamo infatti costretti a ripiegare su un concetto classificatorio bivalente che è sì più preciso rispetto al concetto ordinario di certezza come “possibilità diffusa di prevedere correttamente le conseguenze giuridiche di atti o fatti”, poiché determina in qualche misura la soglia di diffusione di tale capacità, ma ci costringe ad espungere dai nostri discorsi questioni pur interessanti del tipo: “Cosa possiamo fare per rendere questa disciplina giuridica più certa?”, oppure: “È più

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certo il diritto italiano, quello statunitense o quello sudanese?” 401 . Un rimedio a questo deficit di sottigliezza descrittiva può essere ricercato sostituendo al segno di equivalenza materiale della (4), che si legge “se e solo se” (≡), il segno “=” seguito da una variabile che esprima una qualche misura o grado della certezza. Potremmo ad esempio stabilire convenzionalmente che tale grado sia dato dal rapporto tra numero di previsioni avanzate durante la prova indicata in C (che si può indicare con “PC”) e numero di previsioni che effettivamente si realizzano (“PS”) 402 . Scriveremmo allora: (6) Cd ⊃ (Qd = PSd/PCd) ossia, nell’interpretazione poc’anzi accolta: qualora il diritto d sia sottoposto a previsione nelle modalità stabilite in C, la misura Q della sua certezza è uguale al rapporto tra totale delle previsioni avanzate e numero di previsioni di successo. Qd, in questo modo, non rappresenta un concetto come “il diritto d è certo” oppure “il diritto d è incerto” bensì un numero reale, compreso tra 0 e 1, che esprime una misura della certezza del diritto d. Adottando una definizione del genere otteniamo due risultati: 1) conserviamo il carattere disposizionale del concetto di certezza del diritto, cioè riconosciamo che le nostre asserzioni sulla certezza di un dato diritto possono essere empiricamente confermate solo qualora si predispongano dei controlli C, la qual cosa è coerente con l’affermazione di senso comune per cui non possiamo esprimerci sulla certezza effettiva di un dato diritto se non la controlliamo considerando delle previsioni sulle sue applicazioni a casi concreti (esattamente come non possiamo pronunciarci sulla solubilità di un oggetto in acqua se non osserviamo come si comporta una volta immerso in essa); 2) otteniamo la caratterizzazione della certezza in termini di concetto

401

Inoltre, tale relativa precisione è ottenuta al prezzo dell’arbitrarietà con cui si determina la “soglia” minima di previsioni di successo. Nell’esempio ho parlato di 66%; ma perché non potrebbe dirsi certo il diritto quando le previsioni corrette sono l’80%? O il 51%? 402 Ciò, naturalmente, richiede una precisazione di ciò che si intende per “previsioni avanzate”, o PC e “previsioni che effettivamente si realizzano”, o PS. Tali questioni saranno affrontate analiticamente nel cap. 4.

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quantitativo, con tutti i vantaggi di potenza informativa che ciò comporta 403 . Da quanto si è detto in questo paragrafo deriva un’importante conseguenza: quando, come abbiamo fatto nel § 1.5.a, diciamo che le condizioni d’uso dell’espressione “certezza del diritto” riguardano il chi prevede, il che cosa si prevede, il come si prevede, il quanto si prevede, dobbiamo specificare che non ci stiamo ponendo delle domande del tipo: “chi, che cosa, come e quanto deve potersi prevedere affinché il diritto possa dirsi certo?”, bensì stiamo stabilendo i limiti del nostro accertamento sulla misura della certezza, dichiarando dove siamo disposti a cercarla. Una definizione non classificatoria di “certezza del diritto” non stabilisce una soglia minima di prevedibilità superata la quale il diritto considerato può asserirsi certo e non superata la quale il diritto deve dirsi incerto; piuttosto ammette una 403 Il lettore potrebbe osservare che un concetto quantitativo di certezza avrebbe potuto essere formalizzato facendo direttamente ricorso ad una funzione del tipo Qd = PSd/PCd anziché adottando la forma condizionale espressa dalla (6) (su questo tipo di definizioni vedi HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, cit., pp. 5-9). La scelta di subordinare quella funzione alla conseguenza di un controllo sperimentale C dipende dal desiderio di far risaltare il carattere disposizionale della certezza del diritto, proprietà osservabile solo in una prospettiva dinamica. Non possiamo infatti esprimerci sopra la certezza di un diritto o di un suo settore se ci limitiamo a considerarli nella loro dimensione statica: un parere sulla certezza di una disciplina giuridica emesso a seguito della semplice lettura dei testi normativi che la esprimono, per quanto credibile ove contempli aspetti come la qualità del legal drafting, la coerenza interna ed esterna, ecc., è pur sempre un giudizio prognostico sulla prevedibilità delle sue applicazioni concrete. Esso, se raffrontato col riscontro del livello di successo effettivo delle previsioni circa l’applicazione della disciplina giuridica considerata, degrada al rango di pre-giudizio, una sorta di previsione sulle previsioni basata su elementi incompleti ed aleatori. Vero è che anche una definizione di certezza come quella data dalla funzione Qd = PSd/PCd presuppone dei controlli: PC e PS indicano il risultato di un esame relativo, rispettivamente, alle previsioni avanzate e alle previsioni di successo; nella loro definizione deve includersi l’indicazione precisa delle modalità e dell’oggetto di tale esame. La scelta di fa comparire la funzione Qd = PSd/PCd solo dopo il segno di implicazione è dunque solo dovuta all’intenzione di rendere chiaro che la misurazione della certezza è subordinata alla esplicitazione di un insieme C di condizioni sperimentali in cui si palesa l’oggetto dei nostri controlli sopra la certezza, e dunque si individuano i confini della nozione. Solo per questa ragione si è conservata la forma condizionale della definizione di certezza propria della riduzione carnapiana: si vuole evidenziare il carattere “dinamico” della certezza del diritto e dunque subordinare i giudizi sopra la stessa ad una disciplina che contempli dei controlli sperimentali (indicati in C) e la successiva considerazione del loro esito (espresso dal rapporto tra PSd e PCd).

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gamma continua di possibili valori di certezza, esprimibili eventualmente per mezzo di numeri reali secondo una scala crescente. Essa, in altre parole, fornisce una guida per rispondere alle domande: “Chi sono i soggetti le cui previsioni dobbiamo considerare per poterci pronunciare sopra la misura della certezza del diritto preso in esame?”, “su che cosa vertono le previsioni che dobbiamo a tal fine considerare?”, “come debbono essere ottenute tali previsioni affinché esse possano costituire oggetto del nostro accertamento?”, “quanto è certo, sulla base dei nostri rilievi, il diritto considerato?”. La definizione di un concetto quantitativo di certezza, insomma, includendo le risposte a tali interrogativi, non si limita a fornirci delle condizioni d’uso dell’espressione “certezza del diritto” in modo da stabilire quando questa possa essere impiegata e quando no, ma fissa anche le basi di un procedimento che, precisando i nostri compiti di accertamento circa i previsori, le previsioni, e i metodi di previsione ammessi, consente di pronunciarci circa il grado di certezza nel diritto considerato. Una volta deciso di trattare la certezza come concetto quantitativo, resta tuttavia da chiarire la questione fondamentale di come considerare e determinare la sua misura. Tale problema può ricevere molte risposte alternative, ed in definitiva la sua soluzione dipende da scelte ridefinitorie che, più che “giuste” o “sbagliate”, possono ritenersi opportune o inopportune in vista degli scopi che ci si prefigge, e come tali vanno argomentate. La ridefinizione di certezza che proporrò nel prossimo capitolo mostrerà, spero, come vi siano valide ragioni per considerare non una ma due distinte misure di certezza del diritto come prevedibilità. Sul punto, posso qui anticipare che un’analisi del concetto di certezza basata anche sulla rilevazione degli usi linguistici correnti non può che condurre all’individuazione di una dimensione orizzontale e una dimensione verticale della certezza. Per misura orizzontale della certezza intendo, in estrema sintesi, l’effettiva diffusione della capacità di previsione giuridica, con riguardo quindi alla questione del “chi prevede”; per misura verticale intendo invece l’effettiva intensità di tale capacità, con riguardo alla questione del “che cosa” si prevede. Il calcolo di questi valori non può ovviamente essere effettuato senza precisare in definizione chi siano questi potenziali previsori e che cosa essi prevedano: come ho già in precedenza osservato, più determinati sono i compiti di coloro che devono rilevare la diffusione e l’intensità di una disposizione alla previsione giuridica, minori sono le probabilità che costoro facciano

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dipendere l’esito dell’accertamento da proprie scelte discrezionali sul significato da attribuire al definiens. Lo slogan, insomma, è sempre lo stesso: più precisa è la definizione di certezza più intersoggettivamente certi sono i risultati del suo accertamento. È dunque giunto il momento di proporre tale definizione – nella forma dell’esplicazione – e di mostrare le ragioni che rendono opportuno il suo impiego; a ciò e dedicato il prossimo capitolo.

Capitolo 4

Una ridefinizione di “certezza del diritto”

4.1. Quattro domande sulla certezza-prevedibilità Nel corso della mia ricerca ho sostenuto a più riprese che la vaghezza e la potenziale ambiguità delle correnti definizioni di certezza come prevedibilità rendono auspicabile un’opera di revisione del relativo concetto. Nel precedente capitolo, in particolare, ho tentato di mostrare le ragioni che inducono a preferire alle concezioni bivalenti del tipo “certezza/incertezza” una nozione di certezza non classificatoria, definita in termini di concetto disposizionale. Quest’ultimo punto mi sembra assai rilevante: l’adozione, pur con tutte le cautele di cui abbiamo già parlato, di una procedura di definizione per alcuni aspetti analoga alla riduzione carnapiana costringe a risolvere una serie di problemi che quasi inspiegabilmente non sono stati affrontati con la dovuta attenzione da coloro che in passato si sono occupati ex professo del nostro tema 404 . Nessun autore disposto a parlare di certezza in termini di prevedibilità di conseguenze, o reazioni, o decisioni giuridiche, a quanto mi consta, ha dedicato più di qualche riga alla precisazione di questioni apparentemente scontate ma in realtà oscure e foriere di interminabili equivoci, oltre che di atteggiamenti etico-politici sfavorevoli alla certezza stessa 405 . Si tratta, in breve, delle questioni seguenti: 1) chi sono i soggetti le cui previsioni dobbiamo considerare per poterci pronunciare sopra la misura della certezza del diritto preso in esame? 404

Vedi supra, §§ 3.2.b-c. Un’importante eccezione è quella di Claudio Luzzati, che nel suo L’interprete e il legislatore si occupa diffusamente di questi problemi (cfr. LUZZATI, C. L’interprete e il legislatore, cit., spec. cap. IV). 405

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2) che cosa deve intendersi per “conseguenze”, o “reazioni”, o “decisioni” giuridiche? In una parola, che cosa si può davvero prevedere, quando il diritto è in qualche misura certo? (Se si chiarisce questo punto, stante il carattere disposizionale della definizione di certezza che adottiamo, si risponde anche alla domanda: su che cosa vertono le previsioni che devono essere considerate ai fini di una rilevazione sopra la certezza del diritto?) 3) come vengono elaborate le previsioni che si debbono considerare ai fini di una rilevazione della certezza del diritto? 4) è possibile, e, se sì, come, determinare quanto un diritto sia certo-prevedibile o almeno più o meno certo-prevedibile rispetto ad altri diritti? In precedenza mi sono riferito a tali punti parlando dei problemi – rispettivamente – del chi, del che cosa, del come e del quanto della certezza. Trovare una risposta a questi interrogativi significa precisare e render meno generica la definizione e, con essa, il concetto di certezza come prevedibilità. Ciò è quanto mai opportuno: una definizione vaga e generica concede troppa discrezionalità a chi intenda “accertare la certezza” di un dato ordinamento (di un suo settore o di una sua singola norma), lasciando che costui proceda nelle sue rilevazioni senza aver dichiarato, o peggio senza neanche aver presenti, i parametri da cui si evince la sussistenza, l’insussistenza o eventualmente il grado di sussistenza di tale prevedibilità. Tale atteggiamento è criticabile per diverse ragioni. In primo luogo, infatti, definizioni correnti come: “Per certezza del diritto s’intende la possibilità diffusa di prevedere le conseguenze giuridiche di atti o fatti”, pur utili per indicare una nozione su cui si registra una convergenza di autori di diverse scuole e indirizzi filosofici, sono prive di qualsiasi spessore “operativo”, essendo troppo generiche e vaghe per poter essere impiegate in discorsi che esulino da intenti prettamente ideologici 406 . Si pensi al ricercatore che, dopo aver appreso da un manuale di teoria generale del diritto che per “certezza giuridica” si intende la possibilità, da parte del cittadino, di «prevedere le reazioni degli organi giuridici alla propria condotta», si trovi a dover rispondere al quesito se il diritto italiano sia certo o no oppure, peggio ancora, a dover rilevare il suo grado di certezza, confrontandolo magari con quello del di406

Ciò è criticamente rilevato anche da DICIOTTI, E., Verità e certezza nell’interpretazione della legge, Giappichelli, Torino 1999, pp. 8-13.

UNA RIDEFINIZIONE DI “CERTEZZA DEL DIRITTO”

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ritto tedesco o cinese 407 . Costui, se non modifica (precisa) la definizione di partenza in modo da chiarire che cosa si intende per “reazioni dell’ordinamento”, se non affronta la questione della natura classificatoria-bivalente o non classificatoria del concetto di certezza, se non determina la procedura con cui si rileva la sussistenza o la misura della certezza, se non precisa il significato della parola “prevedere”, non potrà neanche iniziare a cimentarsi nel lavoro finalizzato a rispondere al quesito che gli è stato posto. Può perfino accadere che il ricercatore affronti tutte le questioni appena citate precisando in qualche modo la definizione di partenza, e che tuttavia di ciò non dia conto nei risultati della sua indagine, magari perché tali precisazioni sono state da lui operate inconsapevolmente o perché egli le ritiene, a torto, scontate o sottintese. La perniciosità di questo atteggiamento è evidente; ad esso sono imputabili molte delle più note dispute attorno alla certezza giuridica (quella, famosissima, tra Norberto Bobbio e Jerome Frank, ad esempio, era viziata proprio da questa fallacia) 408 . In secondo luogo, le definizioni “standard” non possono essere impiegate, stanti la loro estrema vaghezza e genericità, come base per intraprendere un discorso di valutazione etico-politica della certezza del diritto né, laddove questa valutazione sia positiva, per elaborare o proporre tecniche rivolte al suo incremento. Ciò che per un autore è dunque mezzo utile a incrementare la certezza, per l’altro può essere cagione di pregiudizio per essa. Abbiamo visto ad esempio come la formulazione chiara e rigorosa delle norme giuridiche, che per Kelsen ha funzione certificante, venga considerata da Corsale inutile, se non addirittura controproducente, ai fini dell’aumento della certezza 409 . In terzo luogo, il carattere classificatorio-bivalente di molte delle concezioni della certezza-prevedibilità ancora diffuse in letteratura le 407 La definizione tra virgolette è di JORI, M., PINTORE, A., Manuale di teoria generale del diritto, cit., p. 194. 408 Cfr. BOBBIO, N., La certezza del diritto è un mito?, cit.; FRANK, J., Law and the Modern Mind, cit. Cfr. anche supra, § 1.3. 409 Kelsen, come detto nel secondo capitolo, afferma che la certezza può essere aumentata grazie alla chiara formulazione delle norme giuridiche, in modo da ridurre al minimo la loro inevitabile pluralità di significati; secondo Corsale, invece, è illusorio tentare di ottenere questo incremento con delle norme chiaramente e rigorosamente formulate, giacché la certezza non da ciò dipende, bensì dal grado di condivisione, entro un gruppo, di una ideologia sociale con forti elementi comunitari. Cfr. supra, § 2.3.b.

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espone inesorabilmente agli strali – quando non addirittura al sarcasmo – di qualsiasi scettico o critico in cerca di facili tenzoni filosofico-giuridiche 410 . Una definizione condizionale di certezza del diritto come concetto non-classificatorio consente invece, come abbiamo visto, di superare molte di queste difficoltà. Innanzitutto, essa ci obbliga a gettare luce sulle zone oscure del concetto di certezza prima di procedere a qualsiasi accertamento sopra la sussistenza empirica del definiendum: per il suo tramite dichiariamo sia cosa intendiamo per “certezza del diritto”, sia dove e come siamo disposti a cercarla. In tal modo, sia pure nei limiti descritti nel precedente capitolo, i risultati delle nostre ricerche sul grado di certezza di un determinato ordinamento o di un suo specifico settore potranno esser ritenuti intersoggettivamente validi e controllabili. Nei prossimi paragrafi mi occuperò più diffusamente di ciascuna di queste precisazioni e della determinazione del quanto della certezza-prevedibilità. Prima, tuttavia, vorrei soffermarmi su un punto. Nel corso del presente lavoro, conformemente alla maggior parte delle trattazioni sull’argomento, ho parlato di “certezza del diritto” intendendo per “diritto” l’ordinamento giuridico nel suo complesso, più o meno latamente considerato. In verità, non v’è ragione per definire il termine “certezza del diritto” in modo da limitarlo alla designazione di una prevedibilità giuridica basata sulla considerazione dell’ordinamento complessivamente inteso. In primo luogo, infatti, deve rilevarsi che uno stesso ordinamento giuridico può essere notevolmente certo in alcuni suoi settori e notevolmente incerto in altri. Ad esempio, nell’ambito dello stesso diritto x le sentenze penali possono essere agevolmente prevedibili e quelle relative alla disciplina delle locazioni sommamente imprevedibili. In secondo luogo, i giuristi e i teorici del diritto sono soliti parlare di certezza del diritto anche in termini di prevedibilità delle conseguenze giuridiche riconducibili ad una particolare normativa, materia o disciplina giuridica 411 . Con410

Cfr. supra, § 1.5.b; § 3.3. Ad esempio, nel convegno tenutosi a Firenze nel 1992 sul tema: La certezza del diritto, un valore da ritrovare, numerosi furono gli interventi dedicati al tasso di certezza di una particolare branca dell’ordinamento o disciplina giuridica. Vi furono così allusioni alla «certezza giuridica esistente in quel particolare ramo del diritto penale che è il diritto penitenziario» (MAZZAMUTO, N., Certezza ed ordinamento penitenziario, in La certezza del diritto, un valore da ritrovare, cit., p. 119), riferi411

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formemente alla mia intenzione di allontanarmi il meno possibile dagli usi linguistici diffusi, proporrò pertanto una ridefinizione di “certezza” che denoti una prevedibilità imputabile, di volta in volta, sia ad un ordinamento considerato nel suo complesso, sia ad un suo settore più o meno ampio, sia perfino ad una singola norma giuridica 412 . Questo accorgimento rende il nostro schema definitorio adattabile a catturare il senso di “certezza” anche in quei contesti in cui rilevi la prevedibilità delle applicazioni di una particolare normativa o branca del diritto. Un’ultima avvertenza. La proposta di ridefinizione che proverò ad argomentare è un tentativo di combinare i vantaggi offerti da una limitata riduzione del concetto di certezza del diritto a elementi più semplici con le utilità che scaturiscono dalla sua definizione in termini di concetto non classificatorio. La riduzione viene proposta, si è detto, non come pretesa di esaustiva ricostruzione o ricognizione di una presunta portata empirica del concetto in esame, bensì come espediente per garantirne una chiarificazione e una controllabilità che abbia qualche pretesa di intersoggettività. Non viene qui affatto sostenuta né raccomandata la tesi della radicale eliminabilità dei termini teorici a favore dei termini osservativi: Con Hempel, si può sostenere che, a parte le difficoltà praticamente insormontabili che questa opzione comporta, la “traduzione” così ottenuta conduce ad un complessivo impoverimento del valore euristico dell’impresa scientifica 413 . La scomposizione della nozione di certezza giuridica in elementi più semplici, ovvero la fissazione di una serie discreta di condizioni d’uso del termine “certezza del diritto”, ha dunque solo lo scopo di favorire un previo accordo sulle modalità in cui condurre i controlli circa il grado della sua effettiva presenza in una situazione

menti alla certezza «in campo processual-penalistico» (MURA, A., La certezza del diritto. Riflessioni di un magistrato penale, in La certezza del diritto, un valore da ritrovare, cit., p. 156) o alla «certezza del diritto nel sistema penale» (cfr. PALAZZO, F., Le articolazioni concrete della certezza del diritto nel sistema penale, in La certezza del diritto, un valore da ritrovare, cit., p. 67). 412 “Singola norma giuridica” in senso kelseniano, ovvero “completa” nel suo rapporto con un atto coattivo (cfr. KELSEN, H, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., pp. 69-70). Nel seguito della trattazione, ove non diversamente specificato, parlerò di certezza della “singola norma” riferendomi a questa accezione del termine. 413 HEMPEL, C.G., La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, cit., pp. 143 ss.; 151 ss.

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data, nonché di risolvere alcuni diffusi equivoci sopra il nostro controverso concetto. La procedura che verrà qui adottata come forma di esplicazione, pertanto, non pretende affatto di ridurre il concetto di partenza a qualcosa come i “termini primitivi del linguaggio cosale”, o del “vocabolario fisicalista”. I termini finali della riduzione saranno, infatti, “primitivi” solo nel senso debole per cui essi vengono proposti come non bisognevoli di ulteriore definizione.

4.2. Chi prevede In questo paragrafo tenterò di proporre una precisazione della definizione di “certezza del diritto” con riferimento al suo elemento soggettivo, e dunque ai previsori. Un insegnamento tradizionale afferma che il diritto è certo quando “i cittadini” sono in grado di prevedere le conseguenze giuridiche del proprio comportamento 414 . Quando oggi l’idea di certezza giuri414 L’idea di un diritto prevedibile da parte dei cittadini è un’eredità delle ideologie illuministe individualistico-liberali, che, specialmente alle origini, vedevano nel “cittadino” il soggetto giuridico per eccellenza, idealmente in grado, grazie agli strumenti della legge e del codice, di padroneggiare senza intermediazioni di sorta tutte le conoscenze necessarie per una previsione giuridica adeguata. La certezza del diritto, nella mentalità illuminista, è strumentale al bene della libertà individuale, intesa come liberazione dal timore di essere turbati nel pacifico godimento della vita e dei possessi. Titolare di questo bene, almeno in una prima fase del pensiero illuminista, non è l’homme (cioè l’essere umano) ma, appunto, il citoyen, ossia l’individuo che, assieme con altri, fa parte di una comunità che tipicamente prende le forme dello Stato. Così, non “l’uomo” ma il cittadino, membro di un particolare popolo, di una specifica società, è al centro della concezione della certezza del diritto presentata nell’Ésprit des lois, o almeno di quella, tra le molteplici contenute nel libro, che nei secoli successivi godrà di maggior fortuna: la concezione della certezza della legge degli stati moderati che hanno per fine la libertà dei cittadini. Ciò, del resto, corrisponde a quello che alcuni critici hanno considerato un prodromo di nazionalismo giuridico presente in Montesquieu (cfr. TARELLO, G., Storia della cultura giuridica moderna, Il Mulino, Bologna 1976, p. 270). Si è infatti rilevato che Montesquieu non è interessato alla ricostruzione di uno «schema razionale del diritto dell’uomo in generale, o del diritto di tutta l’umanità, bensì crede di trovare lo schema del diritto di ciascun tipo di società o – ciò che per lui è lo stesso – di ciascun tipo di “popolo”»; ibidem, p. 269. V’è dunque, almeno alle origini dell’ideologia giuridico-politica che della certezza farà la propria bandiera, l’idea che ciascun diritto, inteso eminentemente come complesso di leggi, germini da un particolare popolo, circoscritto e individuato dalle sue peculiarità storiche, geografi-

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dica si collega alla nozione di cittadinanza, ciò accade più per accidente storico o per esigenze di sintesi che per fondate esigenze concettuali 415 . In molti casi, tale scelta – perché di questo si tratta – si spiega con la vecchia abitudine di considerare il “cittadino” come destinatario elettivo delle norme del diritto, inteso soprattutto come diritto dello stato. Peraltro, se anche – in virtù di qualche ragione che tuttavia si ha l’onere di giustificare – si volesse limitare la nozione di certezza giuridica alla certezza del diritto statale, vi sarebbero buoni argomenti per non circoscriverla alla capacità predittiva dei soli cittadini. Fin troppo banalmente si può rilevare come vi siano, in luoghi e tempi diversi, circostanze in cui i non cittadini: 1) assumono peso rilevante nel computo della popolazione residente nel territorio dello stato; 2) svolgono un ruolo importante nella produzione e nei rapporti economici di una nazione; 3) godono di una capacità giuridica pressoché identica a quella dei cittadini, se si eccettua il godimento dei diritti politici. Si pensi ai latini o agli italici nella Roma del II secolo a.C. o agli immigrati, comunitari ed extracomunitari, nell’Italia che, economiche e culturali. Da qui il rilievo che i primi scrittori illuministi danno al “cittadino”, inteso, appunto, come membro di tale comunità. Questa impostazione verrà tuttavia presto abbandonata. Già l’interpretazione che dell’Esprit faranno i liberali tardo-settecenteschi tenderà ad ignorare le idee corporativiste e relativiste del suo autore, ponendo l’enfasi piuttosto sui vantaggi che leggi fisse e stabili, precostituite al giudizio, portano alla certezza intesa come bene universale, godibile da parte di chiunque in quanto strumentale al diritto naturale di libertà, che a sua volta è proprio di ogni uomo. All’idea per cui ogni popolo, al di là di alcuni principi universali in quanto razionali, ha il suo proprio diritto, si sostituisce l’ideale universalista per cui tutti gli uomini naturalmente hanno (e positivamente devono avere) gli stessi diritti. Eloquente, fin dalla denominazione, è la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, rivolta ad assicurare all’individuo il godimento di diritti “naturali” in quanto posseduti dall’uomo per propria essenza, indipendentemente dall’appartenenza ad una determinata società o comunità. Anche il diritto naturale di libertà è dell’uomo; dell’uomo deve essere quindi la sicurezza di non subire turbamenti nell’esercizio di esso, e di poter prevedere in certa misura le reazioni dell’ordinamento alla propria condotta. Già nel tardo settecento, insomma, la nozione di certezza come prevedibilità giuridica di cui possono godere esclusivamente i cittadini comincia ad apparire in qualche modo datata. 415 Sebbene alcuni autori contemporanei parlino di certezza come capacità predittiva dei cittadini, ciò accade, il più delle volte, soltanto a cagione dell’adozione di un lessico adoperato per indicare in modo economico i destinatari delle norme giuridiche della cui certezza si tratta. Vedi ad es. JORI, M., PINTORE, A., Manuale di teoria generale del diritto, cit., pp. 194-195; WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., p. 91, ecc.

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contemporanea 416 . Seguitare a parlare di certezza come capacità predittiva dei soli cittadini comporta oltretutto inutili difficoltà in molti casi in cui il nostro esame esuli dall’ambito della certezza del diritto statale: si pensi, ad esempio, alla determinazione del grado di certezza del diritto internazionale, oppure alla rilevazione della certezza di una lex mercatoria sopranazionale quale quella oggi affermatasi come sostrato giuridico comune a individui di cittadinanza diversa o a corporations dallo spiccato carattere multinazionale. Non siamo dunque affatto obbligati a limitare la nozione di certezza alla capacità predittiva dei cittadini. Anzi, non v’è alcuna ragione per introdurre nel concetto di “certezza del diritto” un riferimento necessario ad una classe di individui stabilita una volta per tutte. In particolare, non v’è alcuna necessità di far coincidere tale classe con i concetti giuridici, sociologici o antropologici di “cittadinanza”, di “nazione, di “comunità”, di “gruppo” e via dicendo. Se è vero che, tradizionalmente, i giuristi parlano di certezza giuridica alludendo ad una specifica classe di previsori – quella dei “cittadini” – è vero anche che nulla vieta di considerare la certezza del diritto in riferimento a classi determinate tramite criteri non coincidenti con le tradizionali categorie dogmatiche, sociologiche ecc.: magari quello del livello di preparazione giuridica degli individui, quello del loro grado di scolarizzazione o quello della fascia di reddito entro cui possono inquadrarsi. Che la prevedibilità delle conseguenze giuridiche di atti o fatti sia una variabile dipendente dalle conoscenze, qua-

416

Dicendo che un diritto è certo nella misura in cui i cittadini sono in grado di prevedere le possibili conseguenze giuridiche di atti o fatti, dovremmo considerare irrilevante, ai fini della valutazione della certezza di un dato ordinamento, la capacità predittiva di molti non cittadini che, a vario titolo, sono esposti alle conseguenze giuridiche dello stesso. In un ipotetico stato sul cui territorio si trovino un milione di persone, di cui solo il 10% abbiano la cittadinanza, dovremmo pronunciarci sulla certezza del diritto valutando esclusivamente la capacità predittiva di un’esigua porzione di quelli che, con Hart, potremmo chiamare i destinatari delle norme giuridiche primarie. Ad esempio, dovremmo concludere che lo stato di Eurasia, abitato da 100.000 cittadini e da 900.000 immigrati estasiatici (senza diritti politici ma con piena capacità giuridica per ciò che attiene i rapporti economici e commerciali), sia un modello di certezza giuridica qualora i cittadini eurasiatici, grazie ad una conoscenza delle fonti del diritto che è ad essi strettamente riservata, siano perlopiù in grado di prevedere le conseguenze giuridiche di atti o fatti, e ciò sebbene il grosso degli immigrati estasiatici, a causa dell’ignoranza giuridica in cui sono forzatamente tenuti, siano incapaci di qualsiasi previsione giuridica.

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lità e condizioni soggettive di chi prevede è del resto considerazione banale, nella sua ovvietà. Così, è lecito supporre che tra gli specialisti del diritto si registri una capacità predittiva molto più elevata rispetto a quella rilevabile tra i profani; che tra gli individui relativamente benestanti la possibilità di avvalersi dei (costosi) pareri degli esperti conduca a più elevati livelli di prevedibilità delle conseguenze giuridiche di atti o fatti; che tra gli abitanti della Svizzera e quelli del Burkina Faso siano i primi a poter più agevolmente reperire le conoscenze necessarie ad assicurarsi una maggior probabilità di successi predittivi ecc. Di certezza del diritto è dunque opportuno parlare precisando la classe di individui cui, di volta in volta, si allude. Come è stato scritto recentemente: «Vi sono molte certezze-prevedibilità che vanno dall’estremo del modello iperdemocratico (la cuoca di Lenin) all’estremo di una casta chiusa cui sia riservata in maniera esclusiva la conoscenza giuridica» 417 . Asserzioni come: “Questa legge è una minaccia per la certezza del diritto” sono quindi incomplete nella misura in cui non diano conto della classe di individui alla cui capacità predittiva si riferiscono. La legge cui allude l’asserzione appena riportata, ad esempio, potrebbe effettivamente essere un fattore di disturbo per le capacità predittive dell’individuo “ordinario”, magari in quanto ciò che essa prescrive è – per usare un’espressione di Waldron – moralmente controintuitivo, ovvero radicalmente dissonante dai modi di pensare correntemente diffusi circa la condotta morale, il mio e il tuo, la soluzione delle dispute, la reciprocità, e via dicendo 418 ; tuttavia, questa “controintuitività morale” potrebbe non avere alcuna ripercussione sulle capacità predittive del giurista avveduto, abituato a considerare gli aspetti “tecnici” delle innovazioni legislative da un punto di vista non compromesso da alcuna presunzione di necessaria coessenzialità tra diritto e morale positiva. L’elemento soggettivo della certezza giuridica si determina dunque in funzione della scelta di una data classe di individui, scelta che è sempre opportuno esplicitare e giustificare: può così parlarsi di certezza del diritto tra i cittadini di un qualche stato, di certezza del di-

417 418

91-92.

LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., pp. 257-258. Cfr. WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., pp.

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ritto tra i residenti in Italia, di certezza del diritto tra i non specialisti, di certezza del diritto tra i giuristi ecc. Chi tenga alla precisione e all’inequivocità dei propri discorsi, e specialmente chi intenda procedere ad uno studio empirico sul grado di certezza-prevedibilità del diritto o di un suo settore particolare, ha pertanto l’onere di indicare la classe di individui alla cui capacità predittiva fa riferimento quando parla di “certezza giuridica”. Vero è che, ove questa precisazione non venga compiuta, può ritenersi operante, diciamo per default, un implicito riferimento alla capacità predittiva degli individui considerati, nel loro complesso, come destinatari delle norme la cui certezza è in questione. Per “destinatari”, in quest’ottica, si intendono innanzitutto gli individui che soggiacciono alle prescrizioni contenute nelle norme che Hart chiama “primarie”, quelle che, imponendo «agli uomini di compiere o di astenersi dal compiere certe azioni», determinano la condotta che evita la coazione 419 . La certezza del diritto, in una prospettiva liberale, è concepita infatti come condizione di autonomia individuale, e come tale godibile da chiunque a tale diritto sia soggetto 420 . Non a caso, la valutazione positiva della capacità predittiva su cui gli individui possono contare nella pianificazione delle proprie vite viene correntemente subordinata alla sua generale fruibilità da parte dei membri della collettività su cui il diritto insiste. Naturalmente, nulla vieta di includere tra i “destinatari” delle norme della cui certezza si parla, anche gli individui cui si rivolgono le norme “secondarie”: coloro i quali, mediante determinati atti o comportamenti, possono accertare, introdurre, modificare o abrogare norme di tipo primario, determinare la loro incidenza o il fatto della loro violazione 421 . Costoro, tuttavia, come “soggetti” della certezza del diritto, assumono nelle correnti trattazioni in materia una posizione assai più defilata rispetto ai destinatari delle norme primarie, considerati nella veste di individui tipicamente interessati alla programmazione delle proprie scelte di vita e dunque

419

Cfr. HART, H.L.A., Il concetto di diritto, cit., p. 97. Ciò è asserito, tra gli altri, da Jeremy Waldron, che sottolinea l’importanza essenziale, ai fini del godimento effettivo dell’autonomia individuale, di una qualche capacità predittiva estesa a tutti gli individui “ordinari”; cfr. WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., p. 84. Vedi anche infra, § 4.4.c. 421 Cfr. HART, H.L.A., Il concetto di diritto, cit., pp. 97, 112. 420

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alla conoscenza delle conseguenze giuridiche che esse comportano. Ciò appare del tutto ingiustificato: come meglio vedremo in seguito, la certezza delle norme che regolano il funzionamento degli organi giuridici ha importanza determinante ai fini di quella delle norme primarie 422 . In mancanza di diverse precisazioni, pertanto, è ragionevole ritenere che l’espressione “certezza del diritto” sia riferita ad una capacità predittiva diffusa presso i destinatari (delle norme primarie, ma anche secondarie) di quel diritto. Per questo motivo, chi intenda riferirsi ad una diversa classe di previsori (i destinatari esperti, gli specialisti in generale, i destinatari non esperti, gli avvocati ecc.), se intende evitare confusioni, dovrà palesare questo allontanamento dall’uso corrente. Per riassumere e concludere, la domanda: “Chi sono i soggetti le cui previsioni dobbiamo considerare per poterci pronunciare sopra la misura della certezza del diritto preso in esame?” può ottenere una risposta che si rifà ai modi correnti di intendere la certezza, valida in assenza di ulteriori precisazioni, e cioè: “Gli individui soggetti a tale diritto”. Occorre però ricordare che è possibile considerare la certezza diffusa presso altre classi di previsori, non necessariamente soggetti al diritto che si prevede. Ciò diventa chiaro soprattutto se si tiene conto che, come abbiamo visto, per “certezza del diritto” può intendersi non solo la certezza di un ordinamento complessivamente considerato ma anche quella di un suo settore o branca specifica. Si pensi infatti ad uno studio sulla certezza di una normativa regionale condotto presso un campione di giuristi provenienti da tutto il territorio nazionale: si parlerebbe di “certezza” della normativa presso i giuristi, ancorché magari solo pochi di essi, in quanto residenti nella regione considerata, siano ad essa soggetti. Il caso appena esaminato mostra inoltre che, ai fini della rilevazione sulla certezza, non è necessario considerare esclusivamente previsori spinti dall’interesse alla pianificazione giuridicamente informata della propria condotta. Sebbene la tradizione si riferisca ad essi considerandoli appunto nella loro veste di individui razionali tesi alla valutazione delle scelte pratiche più consone ad assicurare la realizzazione dei loro obiettivi di vita, nulla vieta di ritenere immanenti alla certezza del diritto anche i successi predittivi ottenuti per soddisfare un interesse di diverso tipo, 422

Cfr. infra, § 4.3.a.

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ad esempio professionale (si pensi all’avvocato) o scientifico (il caso del docente di diritto), o la semplice curiosità 423 . Il concetto di certezza, almeno come inteso in questo lavoro, si esaurisce dunque nel riferimento ad una prevedibilità giuridica qualificata nell’oggetto e nei metodi; esso non include i motivi o gli stimoli che spingono gli individui alla previsione. Bisogna peraltro essere consapevoli del fatto che questa scelta definitoria si discosta in qualche modo dalla definizione lessicale di “certezza del diritto”, la quale – seppure spesso in modo oscuro – pare contenere un implicito riferimento alla capacità predittiva degli individui immediatamente interessati alla valutazione delle reazioni degli altri consociati circa la propria condotta. Gli studi o le rilevazioni sulla certezza che si allontanino da questa definizione corrente, dunque, richiedono l’espressa indicazione della classe di previsori cui di volta in volta si fa riferimento. In mancanza di questa, infatti, torna ad applicarsi la presunzione juris tantum del riferimento alla classe dei destinatari del diritto la cui certezza è in questione.

4.3. Che cosa si prevede Che cosa si deve poter prevedere affinché possa dirsi realizzato un qualche grado di certezza del diritto? La risposta di cui ci siamo finora accontentati, quella che meglio raccoglie gli usi linguistici correnti, è: “Le conseguenze giuridiche di atti o fatti” 424 . Tuttavia, la vaghezza e l’ambiguità di questa formula, pure utili per indicare in modo economico i quid della previsione cui si riferiscono svariate 423

Il carattere strumentale della (elevata) certezza rispetto alla miglior programmazione delle scelte pratiche individuali, infatti, è ciò che sta alla base della stessa scelta definitoria che induce a parlare di certezza in termini di prevedibilità. In questo lavoro, come meglio vedremo in seguito, sostengo la tesi per cui una definizione di certezza come prevedibilità, pur sgradita al normativista più intransigente, consente di riportare questo screditato concetto della filosofia giuridica alla sua originaria correlazione rispetto alla possibilità, da parte degli individui, di programmare la propria condotta in modo da tener conto delle conseguenze giuridiche cui essa può condurre. Una volta adottata questa opzione definitoria, tuttavia, nulla vieta di considerare anche i successi predittivi ottenuti da individui mossi da un interesse diverso da quello della pianificazione della propria condotta come sintomatici di un elevato grado di certezza-prevedibilità. 424 Vedi supra, § 1.5.a.

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teorie della certezza, sono talmente elevate da rendere troppo indeterminato il compito del ricercatore interessato a rilevarne empiricamente la misura entro un dato ordinamento o normativa specifica. La situazione non migliora se si considerano altre diffuse definizioni di certezza-prevedibilità, secondo cui, ad esempio, il diritto è certo se è possibile prevedere in determinata misura e con qualche attendibilità la «decisione giurisdizionale [… e la] funzione degli organi amministrativi» 425 , la «qualificazione che l’ordinamento darà delle nostre azioni» 426 , le «reazioni degli organi giuridici alla propria condotta» 427 , «l’esito di un (di ciascun) eventuale intervento di un organo con competenza giuridica decisionale, cioè […] la decisione giuridica» 428 , le «decisioni che saranno adottate dagli organi dell’applicazione» 429 ecc. Vedremo subito che pure tali definizioni non solo non risolvono il nostro problema di partenza, ma anzi aprono una serie di questioni che sarà opportuno affrontare partitamente nei paragrafi che seguono.

4.3.a. Il carattere alternativo della previsione Dalla certezza del diritto si pretende troppo. Una delle ragioni dell’insufficienza (e della crisi) delle concezioni tradizionali di certezza è il riferimento ad una prevedibilità troppo accurata e “potente”. Dire, senza aggiungere altro, che il diritto è certo quando si è in grado di prevedere “le reazioni degli organi giuridici alla propria condotta”, o addirittura “le decisioni che saranno adottate dagli organi dell’applicazione”, equivale ad asserire che la certezza si realizza quando è possibile anticipare il contenuto esatto dei singoli provvedimenti mediante i quali gli organi giuridici intervengono sulle vi425

KELSEN, H., La dottrina pura del diritto, cit., pp. 282-283, ma vedi supra, cap. 2. Cfr. LUZZATI, C., La vaghezza delle norme, cit., p. 422. Peraltro, in L’interprete e il legislatore l’autore precisa che tale prevedibilità è da intendersi solo condizione forse necessaria e in ogni caso non sufficiente di certezza (cfr. ibidem, cit., pp. 271 ss.). 427 Cfr. JORI, M., PINTORE, A., Manuale di teoria generale del diritto, cit., p. 194. 428 Cfr. la definizione criticata da GIANFORMAGGIO, L., Certezza del diritto, cit., p. 158. 429 Cfr. GUASTINI, R., La certezza del diritto come principio di diritto positivo?, cit., p. 1094. 426

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cende della vita degli individui. La concezione illuminista della certezza del diritto, secondo cui un risultato del genere è pubblicamente conseguibile grazie alla codificazione, alla conoscenza diffusa e all’applicazione meccanica della legge, sta naturalmente all’origine di questa visione troppo ambiziosa della certezza. Adottando una nozione siffatta, diciamo che il diritto è incerto se ci accorgiamo che le decisioni giuridiche che effettivamente vengono adottate si discostano dalle previsioni che gli individui avanzano sopra le stesse. Così facendo, inevitabilmente, ci troviamo ben presto a dolerci di quanto poco certo sia il diritto che dobbiamo rispettare o studiare, di quanto poco prevedibili siano le conseguenze, le reazioni, le decisioni giuridiche che intendiamo prevedere. Ciò, si badi, accade quale che sia l’ordinamento o la disciplina giuridica che prendiamo in esame. Le aspettative legate alle concezioni “potenti” della certezza-prevedibilità sono infatti sempre destinate a infrangersi contro insormontabili steccati teorici. Come abbiamo visto nel secondo e nel terzo capitolo, Kelsen da una parte, l’epistemologia e la semiotica novecentesche dall’altra, hanno svelato il carattere mitico delle concezioni che dipingono la certezza come una prevedibilità esatta del contenuto degli atti prodotti dagli “organi dell’applicazione” 430 . Kelsen, in particolare, ha buon gioco nel dimostrare come queste concezioni si sgretolino di fronte alla presa di coscienza del carattere almeno parzialmente “creativo” di qualsiasi “applicazione” del diritto. Secondo il grande giuspositivista, la norma giuridica non determina mai compiutamente il contenuto dell’atto di produzione o di esecuzione di grado inferiore: l’atto giuridico con cui una norma viene eseguita è determinato da questa sono in una parte, nell’altra rimane sempre indeterminato 431 . Rimane sempre un margine più o meno ampio di potere discreziona430

Quanto a Kelsen, vedi supra, §§ 2.2.a-l. Quanto alle critiche di tipo epistemologico, oltre a quanto già scritto supra (cap. 3) si veda POPPER, K., Congetture e confutazioni, cit., p. 409; si vedano, inoltre, le osservazioni di Luzzati circa l’improponibilità di una nozione assoluta o incondizionata di prevedibilità, specie qualora l’oggetto delle previsioni sia costituito dalle azioni umane; cfr. LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., pp. 262-263. Vedasi anche la bibliografia ivi citata. 431 Tale indeterminatezza, come abbiamo visto (supra, § 2.2.a) può anche essere intenzionale, può cioè essere voluta dall’organo di grado superiore, il quale in tal modo attribuisce all’organo inferiore il potere di specificare il “come” o il “che cosa” dell’atto da realizzarsi; cfr. KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit, p. 118.

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le riservato agli organi inferiori, in modo tale che la norma superiore ha sempre e soltanto il carattere di uno schema che deve essere riempito per mezzo dell’atto di grado più basso. Il risultato dell’interpretazione della norma non può dunque essere altro che il riconoscimento delle varie possibilità di esecuzione che entro tale schema sono date: qualsiasi atto riconducibile ad uno dei possibili significati linguistici della norma dovrà essere considerato conforme ad essa 432 . Per adoperare una nota metafora: la norma può essere vista come uno strumento per operare scelte pratiche “all’ingrosso” invece che una per una; e tuttavia chi la “applica” non è un suo mero esecutore, ma deve sempre, in qualche misura, esercitare delle scelte discrezionali, “al minuto” 433 . Questa discrezionalità, osserva Kelsen, è ineliminabile, poiché l’indeterminatezza del contenuto delle norme di grado inferiore rispetto al grado superiore non può mai essere completamente evitata; la norma superiore, infatti, non può vincolare in tutte le direzioni l’atto mediante il quale viene eseguita 434 . A conclusioni analoghe perviene, com’è noto, Herbert L.A. Hart. I criteri di condotta, qualunque mezzo venga scelto per la loro comunicazione, si dimostrano sempre, in qualche punto in cui la loro applicazione sia in questione, indeterminati: essi hanno una struttura aperta. «Anche quando si usano norme generali formulate verbalmente possono saltare fuori in particolari casi concreti delle incertezze relative al tipo di comportamento da queste richiesto» 435 . Chiunque debba risolvere tali incertezze è dunque chiamato a compiere un atto che ha il carattere di una scelta discrezionale tra alternative. Soltanto l’idea tradizionale per cui decisori giuridici “trovano”, e non “creano”, il diritto nasconde questo fatto, e presenta le decisioni di costoro come se fossero deduzioni tratte rigorosamente da norme preesistenti e chiare, senza l’intromissione di alcuna scelta 436 .

432

Cfr. KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit, pp. 120-121. La metafora commerciale è di JORI, M., Il formalismo giuridico, Giuffrè, Milano 1980, pp. 5-9. 434 Perfino un semplice ordine, «per quanto specifico, deve affidare una gran quantità di particolari a chi lo esegue»; KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 382. 435 Cfr. HART, H.L.A., Il concetto di diritto, cit., p. 148. 436 Cfr. HART, H.L.A., Il concetto di diritto, cit., pp. 16, 148-150. 433

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La semplice considerazione che il giudice (o la Pubblica Amministrazione, o qualsiasi altro “decisore” giuridico) goda di una possibilità di scelta discrezionale circa l’applicazione del diritto, sia pure nell’ambito di una cornice determinata dalle norme di grado superiore, dovrebbe essere sufficiente a metter fuori causa qualunque concezione della certezza del diritto come generalizzata prevedibilità dell’esatto contenuto dei singoli provvedimenti decisori. Se tale possibilità di scelta vi è, e se non è sempre possibile anticiparne l’esito, bisogna riconoscere che la previsione delle decisioni giuridiche ben può assumere carattere alternativo o generico, indicando non un unico risultato, ma una gamma di risultati tutti giuridicamente “possibili” in base allo schema rappresentato dalla norma che il decisore è chiamato ad applicare. Più ampio è questo schema, ovvero maggiore è il numero e la varietà delle possibilità applicative, più si apre il ventaglio delle alternative prevedibili in ordine alla soluzione giuridica di un caso cui quella norma deve essere applicata 437 . Se si ammette – come deve ammettersi – una relativa indeterminatezza delle decisioni giuridiche rispetto alle norme di grado superiore che determinano la loro formazione e il loro contenuto, non è dunque ipotizzabile alcuna generalizzata possibilità di prevedere esattamente le singole decisioni giuridiche né le singole conseguenze giuridiche da esse ricollegate ad un fatto o ad un atto 438 : gli individui, in molti casi, sono in grado di prevedere soltanto che la decisione che stabilisce (dichiara, costituisce) tali conseguenze giuridiche sarà compresa in un novero di decisioni alternative compossibili 439 . 437

V’è chi, sempre seguendo Hart (cfr. HART, H.L.A., Il concetto di diritto, cit., pp. 148-150), ha a questo proposito richiamato in causa la nota distinzione tra “casi facili” (easy, clear, obvious cases) e “casi difficili” (hard, critical cases): si potrebbe sostenere che i primi sono quelli che consentono una previsione secca sul loro esito (o meglio, altamente probabile: sussiste sempre, come Kelsen ricorda, la possibilità di una decisione contra legem), e che i secondi sono quelli aperti a due o più soluzioni giuridiche alternativamente praticabili, e dunque prevedibili; cfr. MARINELLI, V., Dire il diritto, cit., pp. 155 ss. che, quanto ai “casi facili”, cita l’esempio dell’inammissibilità o decadenza per inosservanza dei termini espressamente indicati dalla legge come perentori: basta fare il computo dei termini per stabilire se l’atto è tempestivo oppure no. 438 Cfr. DICIOTTI, E., Verità e certezza nell’interpretazione della legge, cit., p. 9. 439 Alle stesse conclusioni perviene LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., p. 269. V’è chi parla, a questo proposito, di predittività in senso “debole” (cfr. MARINELLI, V., Dire il diritto, cit., pp. 157 ss.: «La prevedibilità delle sentenze va

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La concezione della certezza come generalizzata possibilità di prevedere esattamente le singole reazioni dell’ordinamento diventa ancora più insostenibile se, con Kelsen, si considera che i previsori non devono semplicemente prevedere le conseguenze giuridiche di un fatto, ma devono prevedere le conseguenze giuridiche di ciò che si prevede essere l’accertamento giuridico sopra quel fatto 440 . Bisogna infatti considerare che le conseguenze giuridiche stabilite, ad esempio, da una sentenza sono imputate non ad un “fatto” in sé e per sé considerato, ma ad una fattispecie accertata conformemente alle regole procedurali stabilite dall’ordinamento, a loro volta non necessariamente interpretabili in modo univoco. È dunque l’accertamento del fatto, operato nei modi e dagli organi stabiliti dall’ordinamento, e non direttamente il fatto oggetto di accertamento, a condizionare la decisione 441 . Le previsioni delle possibili conseguenze giuridiche di un comportamento, per essere attendibili, dovranno quindi appuntarsi non sull’effettivo svolgimento dei fatti, ma sull’accertamento giudiziale sopra gli stessi: il previsore, se intende prevedere con successo e relativa precisione le possibili conseguenze giuridiche di un fatto, non dovrà limitarsi a considerare (la propria rappresentazione de) gli accadimenti “naturali”, ma sarà tenuto ad avanzare un’ipotesi su quella che, alla luce delle norme procedurali che regolano l’accertamento sui fatti, sarà probabilmente la ricostruzione della vicenda operata dagli organi competenti a decidere sul caso. Essendo tali norme a loro volta interpretabili in modo non univoco, e lasciando anch’esse degli spazi di discrezionalità alle autorità di cui regolano l’operato, ben si capisce come si renda necessaria un’ulteriore previsione, stavolta rivolta all’anticipazione del risultato dell’accertamento condotto da tali autorità, una sorta di previsione nella previsione che concorre ad ampliare non poco il novero delle decisioni alternativamente prevedibili. Passando dall’impostazione kelseniana a quella di Hart, potremmo riassumere ciò dicendo che la previsione delle conseguenze giuridiche stabilite dalle norme primarie deve fare i conti, oltre che con la relativa indeterminatezza di queste, con la relativa indeterminatezza delle norme secondarie che regolano l’operadunque intesa come attendibile pronostico di uno o più esiti, nel novero dei tanti astrattamente possibili, del caso sub iudice»). 440 Cfr. supra, § 2.2.g. 441 Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 270-271.

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to degli organi competenti alla loro applicazione 442 . Più indeterminate sono queste ultime più ampia e generica sarà la previsione delle conseguenze giuridiche stabilite dalle prime. Né le difficoltà si limitano a questo: anche ammettendo che il previsore anticipi correttamente l’accertamento dei fatti operato dall’organo competente a decidere sul caso, è ben possibile che la propria qualificazione giuridica degli stessi sia differente rispetto a quella adottata dal decisore. Pur partendo da uno stesso accertamento giudiziale, cioè, previsore e decisore possono attribuire ai fatti un significato giuridico affatto diverso. Ciò può accadere sia quando sul medesimo fatto possono applicarsi etichette giuridiche differenti ma complementari tra loro (si pensi ad un contratto al tempo stesso nullo per simulazione e annullabile per errore), sia quando la vaghezza del linguaggio impiegato per formulare le norme rende controversi i confini delle varie fattispecie, in modo tale che ai medesimi fatti possono applicarsi più qualificazioni giuridiche che si escludono a vicenda 443 . Se poi si considera che ad ognuna di queste diverse qualificazioni giuridiche dello stesso fatto possono talvolta corrispondere, in alternativa tra loro, più possibili reazioni da parte dell’ordinamento, appare del tutto condivisibile la conclusione per cui «gli individui, a meno che non abbiano capacità profetiche, non possono generalmente prevedere con esattezza il contenuto di un atto che si colloca al termine di un complesso procedimento e che dipende da una pluralità difficilmente determinabile di variabili» 444 . 442

Sulle norme “secondarie” cfr. HART, H.L.A., Il concetto di diritto, cit., pp. 97, 112. Cfr. LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., p. 269. Un esempio per l’ultimo caso: è stato accertato che alcuni agenti di pubblica sicurezza, dopo aver catturato e posto in arresto alcuni terroristi responsabili del sequestro di alcuni bambini, sottopongono a gravi violenze morali e fisiche uno degli arrestati per ottenere informazioni ritenute necessarie a salvare gli ostaggi. Considerato che l’art. 54 del c.p. esclude la punibilità di chi ha “commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”, previsore e decisore possono trovarsi in disaccordo sulla qualificazione del comportamento degli agenti, uno dei due ravvisando la commissione dei reati di lesioni, minacce, sequestro di persona, ecc., l’altro ritenendo che la scriminante ex art. 54 c.p. possa applicarsi, escludendo l’antigiuridicità dei fatti e dunque i reati (un caso per molti aspetti analogo a quello dell’esempio è discusso presso il Trib. Padova, 15 luglio 1984, in Foro Italiano, 1984, II, 230 con nota di PULITANÒ). 444 Cfr. DICIOTTI, E., Verità e certezza nell’interpretazione della legge, cit., p. 9. 443

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Se si vuole salvare il concetto di certezza del diritto dalle facili ironie dei critici e degli scettici bisogna dunque ripiegare su una prevedibilità aperta a più decisioni alternative compossibili. Bisogna inoltre sempre ricordare che queste previsioni a carattere alternativo, sebbene capaci di prospettare tutte le conseguenze giuridiche che si ritengono probabili alla luce delle informazioni di cui si dispone, sono sempre fallibili. La completa e corretta delimitazione della gamma delle conseguenze ricollegabili ad un fatto o atto presuppone infatti quantomeno: 1) che il previsore sia in grado di determinare i vari modi in cui gli organi giudiziari potranno ricostruire le vicende del caso; 2) che il previsore sia in grado di determinare le varie qualificazioni giuridiche che a ciascuna ricostruzione della vicenda potranno essere attribuite; 3) che il previsore sia in grado di determinare la serie delle varie conseguenze giuridiche astrattamente ricollegabili a ciascuna delle qualificazioni previste. Per renderci meglio conto del modo in cui le scelte discrezionali compiute in sede di accertamento e qualificazione dei fatti possono ampliare il novero delle decisioni finali che ci si può attendere, consideriamo un semplice esempio: Mr. Wendell H. Badman, di fronte all’ennesima insolenza della moglie, credendo di non essere udito, sibila al suo indirizzo la frase “non rompere le scatole”. Purtroppo per lui, la moglie lo sente benissimo e sporge querela per il delitto di ingiuria ex art. 594 c.p. L’unica testimone del fatto è la cameriera della coppia, che tuttavia, trovandosi in quel momento nella stanza attigua, è indecisa se aver udito le parole “non rompere le scatole” oppure “passami il sale”. Se Badman si domanda quali saranno le conseguenze dell’episodio, dovrà iniziare con il considerare il modo in cui gli inquirenti e il giudice potranno ricostruire i fatti; tutto ciò che in questa fase egli può prevedere è che l’accertamento giudiziale sopra la vicenda potrà in sostanza condurre a due risultati: o si assoda che ha pronunciato la frase incriminata, oppure si appura che ha soltanto chiesto del sale. Chiaramente, in quest’ultimo caso, Badman è sicuro di ottenere una sentenza di proscioglimento. È invece incerto sulle conseguenze dell’altra – ben peggiore – eventualità. Come verrà qualificata, in quel caso, la sua azione? Sarà considerata alla stregua del delitto di ingiuria, in quanto ritenuta lesiva “dell’onore o del decoro” della moglie, come recita l’art. 594 c.p., oppure, stante la relativa futilità dell’offesa, sarà considerata inidonea a infliggere tale lesione? La domanda che più toglie il sonno a Badman è tuttavia la seguente: quale sarà la pena che dovrà patire nel caso in cui tutto vada male ed il giudice, dopo aver creduto alla versione fornita dalla moglie e dopo aver qualificato il fatto come ingiuria ex art. 594, emetta una sentenza di condanna? Consultato un codice penale, il nostro previsore apprende che la legge ricollega al delitto in esame una multa fino a 516 euro o la reclusione fino a sei me-

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si, con aumento di pena “qualora l’offesa sia commessa in presenza di più persone”. Egli si potrà allora ulteriormente domandare: mi aspetta una multa relativamente blanda o una ben più gravosa reclusione? Come se tutto ciò non bastasse, la sua già grave incertezza è peggiorata da altri dubbi relativi al quantum dell’eventuale pena: si considera “presente” la persona che si trova in un’altra stanza e che neppure ode bene la frase ingiuriosa? E nel computo del numero delle persone che assistono all’ingiuria deve considerarsi anche la persona offesa?

L’esempio mostra, sia pure con qualche semplificazione necessaria alla sua efficacia, come anche un fatto apparentemente banale possa dar luogo ad insuperabili incertezze, qualora si pretenda di determinarne le esatte conseguenze giuridiche. Nella realtà, le cose sarebbero ancora più complesse. La vicenda considerata, infatti, si basa su una versione semplificata del diritto processuale e penale vigente in Italia. Esso, pertanto, non include vari passaggi in grado di introdurre ulteriori elementi di discrezionalità nel procedimento che conduce alla determinazione delle conseguenze giuridiche ricollegabili alla condotta dell’agente: non si tiene conto della disciplina delle cause di giustificazione, di quella delle circostanze comuni del reato, delle vicende della punibilità (come la sospensione condizionale della pena) e delle varie forme di sanzioni sostitutive o alternative alla reclusione. Già la semplificazione adottata ai fini dell’esempio, tuttavia, rende l’idea di quanto possa essere ampia la gamma delle conseguenze giuridiche validamente ricollegabili ad un singolo fatto: un previsore che basi le sue anticipazioni sulla conoscenza delle norme dei codici penale e di procedura penale, potrà soltanto affermare che tali conseguenze spaziano, a seconda delle scelte compiute dagli organi giuridici nelle varie fasi del giudizio, dal proscioglimento per non luogo a procedere fino alla reclusione dell’autore del fatto per mesi otto (senza contare le aggravanti diverse da quella, speciale, menzionata dall’art. 594), passando per sanzioni più miti, quali multe o reclusioni per tempi più brevi. Per illustrare la struttura del procedimento che conduce all’elaborazione di questa previsione a carattere alternativo potremmo impiegare uno schema riepilogativo come quello riportato nelle pagine seguenti 445 : 445 Anche questo schema serve solo a mostrare la struttura dinamica di una previsione a carattere alternativo ed è basato su una semplificazione del diritto penale e processuale italiano. Una rappresentazione realistica di tutti gli aspetti processuali e sostanziali implicati dalla vicenda esaminata avrebbe richiesto uno schema molto

UNA RIDEFINIZIONE DI “CERTEZZA DEL DIRITTO”

Fatto di cui si intendono prevedere le conseguenze

Fatto: Badman proferisce all’indirizzo della moglie le parole “non rompere le scatole”. Una terza persona, stazionante in una stanza attigua, sente parlare Badman, ma non è sicura sulle parole da lui pronunciate. La moglie di Badman sporge querela.

Ricostruzioni del fatto attese alla luce delle prove e delle norme che regolano l’istruttoria

Accertamento 1: Alla luce della deposizione dell’imputato, della persona offesa e della testimone, si ritiene che Badman abbia proferito all’indirizzo della moglie le parole “non rompere le scatole”. Si accerta altresì che una terza persona, stazionante in una stanza attigua, ha udito Badman proferire quelle parole.

Prevedibili qualificazioni del fatto, così come ricostruito dagli organi giuridici:

Qualificazione 1: Il fatto viene ritenuto lesivo dell’onore o del decoro della persona offesa; si tratta dunque di ingiuria ex art. 594. Il fatto è stato commesso “in presenza di più persone” (la cameriera viene considerata presente, ancorché stazionasse in altra stanza, e nel computo del numero delle “più persone” viene compresa la moglie) Qualificazione 2: Il fatto viene ritenuto lesivo dell’onore o del decoro della persona offesa; si tratta dunque di ingiuria ex art. 594. Il fatto non è stato commesso “in presenza di più persone” (la cameriera non viene considerata presente, ancorché stazionasse in altra stanza, o nel computo del numero delle “più persone” non viene compresa la moglie)

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Prevedibili decisioni giudiziali sopra il fatto, così come qualificato dagli organi giuridici Decisione 1: Reclusione fino a sei mesi. La pena è aumentata fino ad un terzo

Decisione 2: Multa fino a 516 euro. La pena è aumentata fino ad un terzo

Decisione 3: Reclusione fino a sei mesi.

Decisione 4: Multa fino a 516 euro.

più complesso e articolato, e avrebbe fornito un catalogo ben più ampio e numeroso di possibili soluzioni del caso (ovvero di alternative prevedibili).

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LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

Accertamento 2: Alla luce della deposizione dell’imputato, della persona offesa e della testimone, si ritiene che Badman abbia proferito all’indirizzo della moglie le parole “non rompere le scatole”. Si accerta altresì che una terza persona stazionava in una stanza attigua, tuttavia essa non risulta aver udito Badman proferire quelle parole. Accertamento 3: Alla luce della deposizione dell’imputato, della persona offesa e della testimone, si ritiene che Badman abbia proferito all’indirizzo della moglie le parole “passami il sale”.

Qualificazione 3: Il fatto viene ritenuto inidoneo a produrre una lesione dell’onore o del decoro della persona offesa

Decisione 5: Sentenza di assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato

Qualificazione 4: Il fatto viene ritenuto lesivo dell’onore o del decoro della persona offesa; si tratta dunque di ingiuria ex art. 594

Decisione 6: Reclusione fino a sei mesi.

Qualificazione 5: Il fatto viene ritenuto inidoneo a produrre una lesione dell’onore o del decoro della persona offesa

Qualificazione 6: Il fatto non sussiste

Decisione 7: Multa fino a 516 euro.

Decisione 8: Sentenza di assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato

Decisione 9: Sentenza di non luogo a procedere; condanna della querelante al pagamento delle spese del procedimento (ed eventualmente al risarcimento dei danni)

Tabella 1: schema raffigurante un esempio di previsione alternativa

Lo schema mostra come l’analisi delle scelte discrezionali che riguardano l’accertamento del fatto, la sua qualificazione, l’interpretazione della norma che stabilisce l’aggravante speciale, conduca alla previsione per cui il giudice emetterà o una sentenza di non luogo a

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procedere perché il fatto non sussiste, condannando ai sensi dell’art. 427 c.p. la querelante al pagamento delle spese processuali ed eventualmente al risarcimento dei danni sofferti dall’imputato (decisione 9), o una sentenza di assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato (decisioni 5 e 8), o una sentenza di condanna alla reclusione per un periodo variabile ma non superiore a 8 mesi (decisioni 1, 3 e 6), o una sentenza di condanna al pagamento di una multa fino ad un massimo di 668 (516+172) euro, (decisioni 2, 4 o 7) 446 . Si tratta, com’è agevole constatare, di previsioni che ammettono già un notevole grado di approssimazione: non è dato predeterminare l’esatto ammontare (in mesi di reclusione o in euro di multa) di un eventuale sanzione, ma solo i suoi limiti massimi e minimi. Inoltre, si tratta di una previsione che prospetta varie alternative, tutte validamente ricollegabili ai fatti di partenza: non è dato prevedere – con le sole informazioni di cui si dispone – quale tra esse sarà quella effettivamente trasposta dal piano del Sollen a quello del Sein. La previsione, in assenza di altre conoscenze fruibili, si arresterà qui; essa avrà successo se la decisione effettivamente adottata rientrerà tra le alternative previste, fallirà in caso contrario. Tutto ciò che in un caso del genere Badman, o qualunque altro previsore, sarà in grado di prevedere è che l’autore del fatto considerato è esposto al rischio di subire una condanna penale piuttosto seria, ma che, a seconda delle scelte adottate in sede di accertamento e di qualificazione del fatto, potrà cavarsela senza subire alcuna sanzione, ottenendo dalla querelante perfino un risarcimento dei danni subiti a causa del giudizio 447 . Esempi del genere rendono chiaro che l’oggetto della previsione delle decisioni giuridiche non è, necessariamente, una singola decisione/conseguenza giuridica, ma una serie o gamma di decisioni/conseguenze, ciascuna delle quali è funzione di scelte del decisore che non è sempre possibile prevedere con attendibilità alla luce di informazioni disponibili. Nella maggior parte dei casi, la previsione

446

Si noti che alcune delle decisioni previste, pur essendo diverse quanto a ragioni giuridiche che le determinano, hanno lo stesso dispositivo. La loro differenza diventa evidente dunque solo a seguito della lettura della motivazione. 447 L’esempio sopra riportato si riferisce ad un caso determinato, ma è possibile tracciare uno schema in grado, sia pure con una certa semplificazione, di rappresentare la dinamica della previsione delle conseguenze giuridiche di un qualsiasi fatto f. Nell’appendice 1 è raffigurato un modello del genere.

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non può che arrestarsi all’indicazione di una serie di opzioni alternative, tutte potenzialmente applicabili dal decisore alla vicenda considerata. Si prevede non la singola conseguenza giuridica che effettivamente verrà ricollegata dal decisore al caso di specie, ma le varie conseguenze giuridiche che egli potrebbe, alla luce del diritto vigente, ricollegare ad esso. Di seguito, chiamerò “previsione complessiva” la previsione che, tenendo conto delle opzioni praticabili dai decisori nelle varie fasi dell’iter che conduce alla decisione finale, si estende a tutte le conseguenze giuridiche alternativamente applicabili al caso considerato. Possiamo dire che una previsione così concepita ha successo quando la decisione effettivamente adottata rientra nell’ambito delle decisioni previste, ossia quando le conseguenze giuridiche effettivamente ricollegate agli atti o fatti considerati rientrano nella gamma delle conseguenze giuridiche attese, alla luce delle informazioni disponibili. Tale successo è ovviamente legato alla corretta e completa individuazione delle opzioni alternative praticabili dai decisori nelle fasi dell’accertamento e della qualificazione dei fatti di cui si intendono prevedere le conseguenze giuridiche: un errore commesso in uno qualsiasi di questi passaggi non solo può pregiudicare il successo della previsione finale (viene adottata una decisione che non rientra tra quelle previste) ma può anche indurre il previsore ad attendersi delle decisioni che non hanno alcuna probabilità di essere effettivamente adottate 448 . Vedremo che pure quest’ultimo deficit, in quanto nocivo all’accuratezza della previsione, contribuisce a diminuire la misura della certezza del diritto 449 . 448 Nel citato esempio dell’ingiuria, un previsore potrebbe ad esempio non includere nelle alternative previste le qualificazioni 1, 2 e 4, ritenendo impossibile che una frase relativamente inoffensiva come “non rompere le scatole” sia ritenuta idonea a ledere l’onore o il decoro di una persona. Tutte le sentenze di condanna resterebbero in questo caso escluse dalla sua previsione complessiva. Se però il decisore emette condanna, magari sulla scorta della considerazione per cui «la frase, per il suo significato manifestamente dispregiativo, ha un indubbio contenuto lesivo del decoro, anche perché è notorio il suo riferimento allusivo agli organi genitali, cui la condotta dell’interlocutore arrecherebbe disturbo», allora la previsione non ha successo (cfr. Cass. Pen., sez. V, 17-06-1986, n. 5708. Il provvedimento citato ha annullato la sentenza di assoluzione, confermativa di quella di primo grado, secondo la quale si sarebbe trattato non di ingiuria ma di una mera «manifestazione verbale sintomatologicamente espressiva di una mentalità e di un linguaggio non improntati a correttezza di rapporti col “prossimo”»). 449 Vedi infra, § 4.3.g.; § 4.5.

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4.3.b. Essere o dover essere: questo è il problema Abbiamo finora identificato il “che cosa” della certezza del diritto con le “conseguenze giuridiche” validamente ricollegabili ad un fatto o ad un atto, o meglio, al suo accertamento e alla sua qualificazione. Vero è, tuttavia, che altro è parlare di conseguenze “validamente ricollegabili”, nel senso di imputabili ad atti o fatti, altro è parlare di conseguenze giuridiche prevedibili. Il purista della tradizione kelseniana, come ho già osservato in un’altra parte del mio lavoro, direbbe che può parlarsi di conseguenze giuridiche “prevedibili” solo in senso pickwickiano, giacché una terminologia del genere implicherebbe una indebita confusione tra norma (individuale e concreta) e atto con cui questa è stabilita: l’atto occorre entro certe coordinate spaziali e temporali, e dunque è prevedibile, la norma, invece, «non sta nello spazio e nel tempo perché non è un fatto naturale», e come tale, sebbene possa essere conosciuta dalla scienza giuridica, non può essere, in senso proprio, prevista 450 . Tuttavia, come ho pure rilevato, un teorico interessato per qualsiasi ragione a prevedere l’effettiva soluzione giuridica di un caso di specie potrebbe pensare – uscendo dall’ortodossia kelseniana – di sfruttare a suo vantaggio quella che ho chiamato la sovrapponibilità tra ciò che è normativamente previsto e ciò che è teoreticamente prevedibile, impiegando le norme come strumento indiretto di previsione giuridica 451 . Del resto, Kelsen stesso afferma che la conoscenza delle norme valide può essere sfruttata a fini predittivi, approfittando del fatto che, negli ordinamenti generalmente efficaci, esse sono per definizione proprio quelle che hanno la maggior probabilità di essere effettivamente applicate 452 . Questo discorso, si badi, può riferirsi sia alle norme considerate nel loro complesso, sia, entro certi 450

Kelsen, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 52. Vedi supra, § 2.2.e. Così prosegue il brano citato nella nota precedente: «Ma poiché il contenuto possibile della norma è lo stesso del contenuto possibile dell’accadere effettivo, e poiché la norma si riferisce col suo contenuto a questo accadere effettivo, soprattutto al comportamento umano, è necessario che tanto lo spazio quanto il tempo in cui il comportamento umano determinato da una norma si realizza (o deve essere realizzato nel senso di una norma) siano determinati nel contenuto della norma stessa» (corsivo mio). Si rimanda a quanto scritto nel secondo capitolo (vedi supra, § 2.2.g.). 452 Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., pp. 176-177. 451

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limiti, alle norme considerate singolarmente 453 . Bisogna infatti ricordare che, nella teoria kelseniana, le singole norme che perdono definitivamente la loro efficacia perdono pure la validità per desuetudine 454 . Adottando la descritta prospettiva “spuria”, l’individuazione della gamma delle conseguenze giuridiche astrattamente ricollegabili ad una fattispecie può dunque essere impiegata a fini predittivi: ci si aspetta che la decisione effettivamente adottata in risposta al caso considerato sarà compresa in un novero di decisioni previste, e dunque sancisca delle conseguenze giuridiche comprese entro una gamma di conseguenze giuridiche attese. La “previsione complessiva” diventa in tal modo davvero una pre-visione, poiché viene riferita ad eventi che trovano una loro collocazione spazio-temporale sul piano del Sein. Si potrebbe parlare allora, come taluno ha proposto, di una certezza giuridica de facto, una prevedibilità dell’azione del pubblico potere non limitata alla sua dimensione normativa, ma estesa alla considerazione di quanto di fatto accade 455 . La previsione – e Kelsen lo afferma esplicitamente – è dunque rivolta alla conoscenza di ciò che gli organi giuridici faranno effetti-

453

Beninteso, si parla di norme in senso kelseniano (ossia semioticamente autosufficienti) e non di singole disposizioni giuridiche. 454 Kelsen al proposito afferma: «Nell’ambito di un ordinamento giuridico efficace nel suo complesso, possono esservi delle norme isolate le quali, pur essendo valide, non sono efficaci, cioè non sono obbedite né applicate anche quando si adempiono le condizioni che esse stesse hanno posto per la loro applicazione. Ma anche in questo caso l’efficacia ha qualche rilievo nei confronti della validità. Se la norma rimane permanentemente inefficace, essa è privata della sua validità per desuetudine. […] Il problema assai dibattuto se una legge formale possa venir resa invalida per desuetudine si riduce, in definitiva, al problema se la consuetudine, come fonte del diritto, possa venire esclusa per legge nell’ambito dell’ordinamento giuridico. Per ragioni che daremo in seguito, il problema deve essere risolto negativamente. Si deve cioè ritenere che qualsiasi norma giuridica, persino una legge formale, possa perdere validità per desuetudine»; cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 121. 455 Ciò in contrapposizione ad una certezza de jure; cfr. LONGO, M. voce Certezza del diritto, cit., p. 126. Longo nella stessa pagina afferma tra l’altro: «L'interesse di quest'ultimo aspetto del problema dalla certezza giuridica [quello della certezza de facto] è ovvio. Ci sia peraltro consentito incidentalmente ricordare come uno degli aspetti più vivi del citato volume del Lopez de Oñate e della, pur citata, polemica fiorita intorno a quel libro sia per l’appunto stato quello di aver, seppure un po’ in sordina, spinta la considerazione del tema anche alla realizzazione de facto del complesso normativo».

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vamente 456 . Parlare di certezza come prevedibilità implica necessariamente una definizione del che cosa della previsione data in termini di essere, e non di dover essere. Abbiamo anche visto che il normativista “puro” Kelsen non esita minimamente a parlare di certezza del diritto in termini di (limitata) prevedibilità 457 ; è del resto questo Sein, ben più che il corrispondente Sollen, che entra in considerazione durante quella pianificazione delle scelte pratiche individuali di cui la certezza del diritto è tradizionalmente considerata condizione o strumento. Kelsen ammette ciò esplicitamente, quando riconosce che il vantaggio della certezza consiste per l’appunto nel permettere agli individui di tener conto dei prevedibili contenuti della decisione giuridica, comportandosi di conseguenza 458 . È stato anzi perfino affermato, sempre da parte normativista e del tutto condivisibilmente, che il che cosa della certezza intesa come prevedibilità riguarda, ancor prima delle conseguenze “giuridiche”, le «conseguenze personali e patrimoniali, anche transitorie, subite dai consociati per i propri comportamenti o per le condizioni e per gli status in cui si trovano» 459 . Naturalmente, tra queste conseguenze debbono ritenersi comprese sia quelle produttive di effetti ritenuti dal previsore desiderabili (il riconoscimento del suo diritto di proprietà sul bene conteso, l’erogazione dell’agognato finanziamento pubblico, l’affidamento degli amati figli minori in caso di separazione ecc.), sia quelle produttive di effetti indesiderabili (la sanzione penale, la condanna al risarcimento del danno, la demolizione dell’immobile abusivo, l’affidamento dei detestati figli minori in caso di separazione ecc.). Le ragioni che spingono a definire la certezza del diritto in termini di prevedibilità, e che dunque ci inducono a ritenerla orientata al Sein piuttosto che al Sollen, si innestano a pieno titolo nel solco della tradizione dell’umanesimo giuridico, che, sia pure con frequenti eccessi d’entusiasmo e di fiducia, dipinge la certezza come strumentale alla possibilità di programmare la propria condotta in modo da tener conto delle conseguenze, favorevoli o sfavorevoli, cui essa può condurre 460 . Il previsore, secondo quest’impostazione tuttora comune, è 456

KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., pp. 165-182. Vedi supra, § 2.2.f. 458 Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 282-283. 459 Cfr. LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., p. 261. 460 Cfr. BIROCCHI, I., Alla ricerca dell’ordine, Giappichelli, Torino 2002, cap. VII. 457

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soprattutto intenzionato a conoscere il modo in cui l’intervento dei pubblici poteri potrebbe concretamente influenzare (e non “astrattamente dovrebbe influenzare”) «la sua vita e le condizioni sotto cui, che gli piaccia o no, egli la vive» 461 , qualora decidesse di intraprendere un dato corso d’azione. La desiderabilità di un’elevata certezza giuridica è allora da attribuire al fatto che, grazie ad essa, possiamo usare le nostre previsioni come elemento da considerare ai fini di quella «serie di decisioni, più o meno importanti, che nel corso del tempo contribuiscono a dare una forma complessiva alla nostra vita (ai nostri occhi e a quelli degli altri)», e ciò stando «in una posizione adeguata a compiere una scelta sulla base della forma che in quel momento vogliamo la nostra vita abbia e sulla base degli obbiettivi che intendiamo perseguire» 462 . In questo senso, la certezza-prevedibilità – nonché la pianificabilità della propria condotta che ne rappresenta il principale corollario – possono essere intese addirittura come condizioni necessarie di autonomia individuale 463 . La scelta che induce a parlare di certezza del diritto in termini di prevedibilità di un Sein, dunque, muove dall’intenzione di riportare questo screditato concetto della filosofia giuridica alla sua originaria correlazione rispetto alla possibilità degli individui di programmare la propria condotta in modo da tener conto delle conseguenze giuridiche cui essa può condurre. Una volta adottata questa opzione definitoria, tuttavia, nulla vieta di considerare sintomatici di un elevato grado di certezza-prevedibilità anche i successi predittivi ottenuti da individui mossi da un interesse diverso da quello della programmazione della propria condotta 464 . Piuttosto, le considerazioni svolte in 461 WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., p. 84, traduzione mia. 462 WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., p. 85, traduzione mia (con qualche minima variazione). 463 Cfr. WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., p. 85. Vedi infra, 4.4.c. 464 Si pensi al docente di diritto interessato alla previsione delle conseguenze giuridiche di un caso inventato a fini didattici; oppure allo studioso di diritto romano che si interroghi sulle decisioni che il tal magistrato, nella tale epoca storica, avrebbe ricollegato ad una determinata situazione pratica. O ancora, si pensi ai “pareri” elaborati dai candidati all’esame di abilitazione forense, magari basati su vicende già accadute e giuridicamente risolte. In tutti questi casi, ciò che soprattutto interessa prevedere è la soluzione giuridica “concreta” del caso che si esamina, sebbene la

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precedenza inducono a ritenere che qualsiasi previsore, indipendentemente dagli obiettivi che persegue, sia per definizione interessato all’anticipazione di un Sein. Egli, indipendentemente dagli stimoli e dagli obiettivi che lo determinano alla previsione, adotta cioè per definizione un’ottica vicina a ciò che Hart ha chiamato punto di vista esterno (moderato) 465 : le “conseguenze giuridiche” che tenta di prevedere sono quelle che verranno concretamente disposte dalla decisione, non quelle che, per il suo tramite, sono astrattamente imputabili agli atti o fatti che considera (o meglio, alle fattispecie entro le quali questi vengono sussunti) 466 .

4.3.c. Conoscenze fattuali e previsione delle decisioni giuridiche L’esempio che ho riportato nel paragrafo 4.3.a descrive una previsione complessiva elaborata tenendo conto di informazioni circa norme giuridiche valide, e assumendo che tali norme siano tutte regolarmente applicate. Ma sono solo queste le informazioni che è dato impiegare ai fini della previsione? Un teorico “kelsenista”, come sappiamo, dovrà limitare la propria previsione (conoscitiva) a ciò che le norme prevedono (normativamente), indicando una serie di conseguenze validamente ricollegabili ad una fattispecie. La sua “previsione” si ridurrà dunque alla conoscenza del contenuto normativo delle decisioni validamente ricollegabili ad un fatto o ad un atto. Nell’esempio dell’ingiuria, tali decisioni valide sono tutte e solo quelle che ho indicato nella colonna più a destra del grafico riportato nella tabella 1. Può peraltro facilmente rilevarsi che l’impiego di conoscenze di carattere fattuale arreca ovvî benefici alle capacità predittive degli individui. Si consideri quanto segue: la Corte di Cassazione, nel 1986, ha stabilito che «la frase [“non rompere le scatole”], considerazione del Sollen possa senz’altro costituire un valido supporto per tale attività prognostica. 465 Cfr. HART, H.L.A., Il concetto di diritto, cit., pp. 106-108. 466 Se Mr. Wendell H. Badman sta valutando l’opportunità di affittare una camera a degli studenti, ciò che assume importanza dirimente è la conoscenza del quando e del come, qualora sorgano problemi di convivenza, sarà in grado di metterli effettivamente fuori dalla porta di casa; di minor conto è invece l’informazione circa il dovere degli inquilini di abbandonare la camera in caso di provvedimento di sfratto: quest’ultimo potrebbe esser destinato a rimanere lettera morta, magari a causa di lentezze o inefficienze burocratiche.

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per il suo significato manifestamente dispregiativo, ha un indubbio contenuto lesivo del decoro, anche perché è notorio il suo riferimento allusivo agli organi genitali, cui la condotta dell’interlocutore arrecherebbe disturbo» 467 . Se il nostro previsore avesse potuto considerare questa informazione, nonché quella che dà conto dell’adesione de facto dei giudici italiani alle sentenze della Cassazione, la sua previsione finale sarebbe stata meno generica: una delle possibilità di decisione finale, quella relativa alla sentenza di assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, sarebbe stata esclusa dal novero di quelle che il previsore avrebbe potuto ragionevolmente attendersi 468 . Ammettendo la sua conoscenza di tale indirizzo giurisprudenziale, è lecito supporre che di questa informazione egli avrebbe potuto tener conto prima di apostrofare la moglie in quel modo («La Cassazione ha stabilito che dire a qualcuno “non rompere le scatole” è un delitto: meglio tacere»). Insomma, le sue facoltà di pianificazione delle proprie scelte pratiche avrebbero ricevuto un indubbio miglioramento. Allo stesso modo, l’informazione per cui di fatto i giudici, nella determinazione del quantum della pena, si attengono solitamente al minimo edittale, privilegiando inoltre le specie di sanzione meno gravose per il reo, avrebbe senz’altro tranquillizzato il previsore del nostro esempio, facendogli prevedere che, in caso di condanna, la pena subita sarebbe stata mite: una multa di modesto importo 469 . Avremmo ovviamente potuto immaginare molti altri casi in cui la conoscenza di regolarità decisorie de facto comporta un incremento della capacità predittiva degli individui e dunque della pianificabilità giuridicamente informata delle loro scelte pratiche. Si pensi ad uno stato islamico moderato in cui una norma che punisce l’adulterio con la pena capitale, pur essendo formalmente in vigore, notoriamente non venga più applicata da oltre mezzo secolo 470 : i suoi cittadini po467

Cfr. Cass. Pen., sez. V, 17-06-1986, n. 5708. «Vi sono non poche questioni che sarebbero destinate a rimanere res dubia in sempiterno se l’autorità della giurisprudenza non tagliasse il nodo gordiano, dando effettività applicativa ad una soluzione piuttosto che a un’altra»; MARINELLI, V., Dire il diritto, cit., p. 159 (in riferimento alla genericità della previsione, corsivo mio). 469 A quel punto, egli avrebbe potuto valutare se il gusto di insultare la moglie valga o no i 516 € che può essere condannato a pagare come pena per tale delitto. 470 L’associazione per i diritti civili Amnesty international pubblica annualmente dei rapporti in cui si dà notizia dei paesi abolizionisti de facto della pena di morte. Si 468

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tranno tener conto (anche) di questa informazione fattuale ai fini delle proprie scelte di comportamento. Oppure si pensi all’opposto caso di uno stato islamico integralista ove le autorità politico-religiose al potere, pur in assenza di una legge che punisca l’adulterio, abbiano istituito delle squadre di pasdaran incaricati di giustiziare i cittadini e le cittadine colpevoli dei “reati conto la volontà divina” compresi in un elenco tassativo e notorio, che comprende anche l’adulterio 471 : qui gli individui ben potrebbero sfruttare tale informazione fattuale per temere gravi conseguenze personali in caso di (scoperta del proprio) adulterio. La conoscenza delle regolarità decisionali de facto potenzia dunque quella possibilità diffusa di pianificazione giuridicamente consapevole delle scelte pratiche, di cui la certezza del diritto è tradizionalmente ritenuta strumento. Come meglio vedremo in seguito, tale miglioramento si produce: 1) quando l’informazione su tali regolarità fattuali viene sfruttata per ridurre l’ampiezza della previsione complessiva, a seguito dell’esclusione di qualcuna delle alternative inizialmente incluse nella serie di decisioni validamente applicabili al caso di cui si intendono prevedere le conseguenze; oppure quando quell’informazione viene impiegata per ridurre l’ambito temporale entro cui ci si aspetta che le conseguenze giuridiche previste abbiano luogo; la previsione diventa così più accurata (più precisa); 2) quando l’informazione su tali regolarità fattuali viene sfruttata per includere nella previsione complessiva delle soluzioni decisorie tratta di stati che mantengono in vigore la pena di morte, ma nei quali le esecuzioni non hanno luogo da almeno dieci anni, oppure di paesi che hanno introdotto delle moratorie sulle esecuzioni. 471 A rigore, anche il previsore “kelsenista” dovrebbe tener conto di tali regolari disapplicazioni o applicazioni. Nell’esempio dello stato islamico moderato, la norma che punisce l’adulterio dovrebbe infatti essere considerata destituita della sua validità per desuetudine. Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., p. 121. Nell’esempio dello stato integralista, la regolare applicazione di una sentenza capitale per i casi di adulterio farebbe presumere, col trascorrere del tempo, il sorgere di una norma penale di origine consuetudinaria (e, qualora vigente, l’abrogazione per desuetudine del principio di legalità penale). «La creazione consuetudinaria di norme giuridiche generali è una legis latio alla stessa stregua di ciò che viene ordinariamente designato come legislazione» cfr. ibidem, pp. 128, 262-263, 277. La differenza tra l’atteggiamento kelsenista e quello predittivista, quanto alla materia della certezza, consiste allora solo nella maggior prontezza del secondo nell’accogliere le regolarità decisorie de facto nella base di conoscenze impiegabili per la previsione.

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che, sebbene effettivamente praticate, non sono immediatamente ricollegabili ai fatti di partenza in virtù delle regole giuridiche formali; la previsione diventa in tal modo più attendibile (meno esposta a rischi di insuccesso) 472 .

4.3.d. Prevedere in negativo Siamo fin qui venuti elaborando una nozione di certezza come possibilità di conoscere ex ante, almeno approssimativamente, le modalità e i limiti dell’esercizio del potere coercitivo da parte degli organi giuridici. Si è sostenuto che il diritto è certo non solo quando gli individui sono in grado di prevedere esattamente le singole decisioni, le concrete conseguenze giuridiche di un atto o fatto – ché anzi questo non può darsi se non come caso limite – ma quando sono in grado di conoscere i limiti dell’intervento del potere pubblico sulle vicende che considerano o, come pure potremmo dire, quando conoscono ex ante l’ambito della discrezionalità di cui gli organi giuridici godono circa la determinazione del contenuto di una decisione sopra una data vicenda. Naturalmente, se gli individui sono in grado di prevedere la gamma dei possibili interventi degli organi giuridici, essi godono pure di una capacità predittiva “negativa”: essi possono prevedere che una data azione o accadimento non produrranno un certa conseguenza giuridica. Per rifarci all’esempio dell’ingiuria, quando il diritto è molto certo, Badman non solo sa che la sua azione lo espone al rischio di subire una penale per un massimo di 8 mesi di reclusione, ma prevede anche che, in ogni caso, per quell’azione non verrà condannato alla pena di morte o alla fustigazione, né ridotto in schiavitù, né premiato dal giudice con un viaggio alle Seychelles, né nominato dal Presidente della repubblica ministro dell’interno, e via dicendo fino a escludere tutte le conseguenze giuridiche che esulano da quella che, nei precedenti paragrafi, ho chiamato “previsione complessiva”. Se si prevedono i limiti dell’intervento del potere pubblico si è in grado di conoscerne ex ante anche il complementare ambito di non-intervento. Per questa ragione, possiamo affermare che 472

Vedremo che nel primo caso la certezza aumenta se, a fronte di un incremento dell’accuratezza delle previsioni, rimane uguale l’attendibilità delle stesse; nel secondo caso la certezza aumenta se, a fronte di un incremento dell’attendibilità delle previsioni, rimane uguale la loro accuratezza. Vedi infra, § 4.5.a.

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pure la prevedibilità dell’irrilevanza giuridica di un fatto o comportamento rientra nel “che cosa” della certezza. Il diritto è certo non solo quando siamo in grado di prevedere con successo le (varie possibili) conseguenze giuridiche delle nostre azioni, ma anche quando siamo in grado di prevedere con successo che le nostre azioni non sortiranno alcuna conseguenza giuridica. Nella nozione di certezza del diritto rientra dunque anche la certezza dell’irrilevanza giuridica di un atto o fatto, data dalla prevedibilità della non-reazione dell’ordinamento. Finora ho parlato di “previsione negativa” riferendomi alla previsione secondo cui non si verificheranno determinate conseguenze giuridiche. Vi è però un altro senso in cui può parlarsi di “previsione negativa”. È quello che riguarda la non-previsione, ovvero il caso in cui non si è in grado di prevedere in alcun modo le conseguenze giuridiche degli atti o fatti che si considerano. Si tratta di una situazione in cui la vita degli individui è esposta ad interferenze da parte dei poteri pubblici assolutamente imprevedibili (ma non necessariamente arbitrarie: si può immaginare un diritto segreto che viene applicato in maniera rigorosa da una casta chiusa di detentori del sapere giuridico, che tuttavia agiscono in modo da evitare che il loro operato appaia corrispondere a qualsiasi regolarità rilevabile) 473 . Potrebbe peraltro sostenersi che, qualora sussista, anche la certezza sull’incertezza comporta un qualche vantaggio rispetto alla situazione in cui non solo vi è incertezza, ma manca anche qualsiasi “meta-certezza”, ossia qualsiasi consapevolezza diffusa circa il grado di certezzaprevedibilità sussistente in un dato ordinamento o settore normativo. Possiamo infatti sfruttare in vari modi la conoscenza circa l’incertezza del diritto. Si pensi ai provvedimenti di condono fiscale o edilizio, considerati come tipici vulnera della certezza del diritto. Il pregiudizio da essi arrecato alla certezza consiste in ciò: viene compromessa l’attendibilità delle previsioni del contribuente e del proprietario circa le conseguenze giuridiche sfavorevoli delle trasgressioni alla normativa fiscale o edilizia. Condoni, provvedimenti di amnistia o indulto et similia, dunque, generano incertezza perché provocano il fallimento delle previsioni giuridiche avanzate prima del loro venire in

473

Secondo alcuni, naturalmente, questo diritto segreto non potrebbe nemmeno esser considerato “diritto”: cfr. FULLER, L.L., La moralità del diritto, cit., p. 56.

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essere 474 . Eppure, chi, in qualsiasi modo, sia in grado di prevedere il varo di provvedimenti di questo tipo, può sfruttare a proprio vantaggio tali conoscenze: il contribuente ne potrà approfittare per evadere il fisco senza temere ripercussioni di sorta, confidando in un prossimo condono fiscale; il proprietario d’immobile potrà decidere di realizzare l’opera voluta in spregio dei regolamenti edilizi vigenti, contando su un condono che imporrà esborsi di importo risibile. In tutti questi casi, la conoscenza circa l’incertezza del diritto si trasforma in una meta-certezza (certezza sul grado di certezza; in questo caso, una certezza sull’incertezza) in qualche modo sfruttabile ai fini della pianificazione della propria condotta. Il vero “grado zero” della certezza giuridica, dunque, non si dà semplicemente quando le conseguenze giuridiche dell’azione sono del tutto imprevedibili, bensì in quelle situazioni in cui: 1) le conseguenze giuridiche dell’azione sono del tutto imprevedibili; 2) non è diffusa tra i previsori della classe presa in esame alcuna conoscenza circa il grado di (in)certezza presentato dal sistema giuridico o dal settore normativo considerato.

4.3.e. Conseguenze di che cosa? Molti autori ricollegano la certezza del diritto alla prevedibilità delle conseguenze, reazioni, decisioni giuridiche ricollegabili alla propria condotta 475 . Sosterrò che vi sono buone ragioni per estendere l’oggetto della previsione alle conseguenze giuridiche dei comportamenti altrui e addirittura alle conseguenze giuridiche di accadimenti non riconducibili alla condotta umana.

474

In verità, questa considerazione, particolarmente evidente per i condoni, può essere estesa a molti casi di modifica dello status quo normativo. Come vedremo in seguito, vi sono delle buone ragioni per ritenere che gli ordinamenti iperproduttivi dal punto di vista normativo siano caratterizzati da un basso livello di certezza; cfr. infra, §§ 4.3.h; 4.5.c. 475 Cfr. JORI, M., PINTORE, A., Manuale di teoria generale del diritto, cit., p. 194, per cui «la certezza del diritto consiste nella possibilità, da parte del cittadino, di conoscere la valutazione che il diritto dà delle proprie azioni e di prevedere le reazioni degli organi giuridici alla propria condotta» (corsivo mio). Un altro esempio è presente in LUZZATI, C., La vaghezza delle norme, Giuffrè, Milano 1990, p. 421, dove la certezza del diritto è definita come la «possibilità dei soggetti di conoscere, prima di agire, quale valutazione delle proprie azioni verrà data dall’ordinamento giuridico» (corsivo mio).

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Le considerazioni che abbiamo svolto nei paragrafi precedenti inducono a ritenere che ciò che si prevede quando si tenta di anticipare una decisione giuridica è sempre, almeno in parte, la conseguenza di un comportamento altrui: quello degli organi giuridici chiamati ad accertare e a qualificare i fatti di cui si intendono prevedere le conseguenze. Le reazioni giuridiche oggetto di previsione sono invero, come ho mostrato in precedenza, solo indirettamente riconducibili a degli atti o fatti “bruti”: per dirla col solito Kelsen, condizione per la sanzione non è il fatto che qualcuno abbia commesso – ad esempio – un omicidio, bensì il fatto che un certo organo, competente secondo l’ordinamento giuridico, in un certo procedimento giuridicamente regolato, abbia accertato che un uomo ha commesso un omicidio 476 . Se dunque non si prevedono le conseguenze giuridiche di un fatto, ma le conseguenze giuridiche dell’accertamento e della qualificazione di esso, allora dobbiamo riconoscere che le nostre previsioni circa le reazioni degli organi giuridici sono sempre, almeno in parte, previsioni di conseguenze di comportamenti altrui. In secondo luogo, se un agente è in grado di prevedere le conseguenze giuridiche di qualsiasi proprio comportamento, non si vede perché non debba essere in grado di prevedere, a parità di conoscenza delle circostanze del caso, anche le conseguenze giuridiche della condotta altrui. Ciò che rileva ai fini della prevedibilità delle conseguenze giuridiche di un comportamento non è l’attribuibilità di quest’ultimo al previsore o ad altri individui, bensì la predeterminabilità dei modi in cui esso può essere accertato e qualificato dagli organi giuridici. Non è importante essere l’autore del fatto di cui si intendono prevedere le conseguenze; è importante disporre delle informazioni che consentono di aver presenti le possibili ricostruzioni che della vicenda potranno essere date dai decisori alla luce delle evidenze probatorie e delle norme che regolano l’istruttoria. Se ciò è vero, cade anzi qualsiasi ragione per limitare l’oggetto (il che cosa) della certezza-prevedibilità alle conseguenze giuridiche di comportamenti umani: non si vede perché esso non possa estendersi anche alle conseguenze giuridiche di atti o fatti, intesi questi ultimi come accadimenti indipendenti dalla condotta dell’uomo. Del resto, se la nostra ridefinizione di “certezza giuridica” muove dalla considera-

476

Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 270.

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zione della necessità di riavvicinare il relativo concetto alla sua ratio originaria, data dal suo carattere strumentale alla possibilità di pianificare in modo giuridicamente consapevole le proprie scelte pratiche, fin troppo banalmente possiamo rilevare che tale obiettivo può essere conseguito solo se siamo in grado di prevedere anche le conseguenze giuridiche di accadimenti non riconducibili all’azione umana 477 . Conseguenze giuridiche di atti – propri o altrui – o fatti, dunque. Ci si potrebbe ora domandare: è necessario ricollegare la certezza del diritto alla prevedibilità delle conseguenze giuridiche di atti o fatti realmente accaduti? Oppure può parlarsi di certezza anche a proposito della prevedibilità delle conseguenze giuridiche di atti o fatti mendacemente rappresentati nell’ambito di una strategia difensiva, o di un’accusa inventata, oppure immaginati a fini di pianificazione delle scelte pratiche? A mio parere, è di gran lunga preferibile quest’ultima soluzione. La possibilità di prevedere le conseguenze giuridiche di atti o fatti anche soltanto immaginati come condizioni di conseguenze giuridiche fornisce infatti valido supporto per la scelta della condotta più adeguata al perseguimento dei propri obbiettivi, giacché permette di confrontare idealmente una serie di linee d’azione suscettibili di comportare differenti conseguenze, ciascuna eventualmente gravida di diverse implicazioni pratiche per gli interessati. Ciò non accade, invece, nel caso di una nozione di certezza del diritto limitata esclusivamente alla prevedibilità di atti o fatti realmente accaduti, e magari già sottoposti all’attenzione degli organi giuridici. Quest’ultima scelta definitoria appare inopportuna in quanto non considera il rapporto che lega la certezza alla possibilità di valutare le conseguenze dell’azione o dell’accadimento anche prima del suo venire in essere; in tal modo, la certezza del diritto viene ineluttabilmente al-

477 Si consideri questo esempio di conoscenza delle conseguenze giuridiche ricollegabili ad un accadimento naturale, rilevante per la scelta pratica dell’agente: Caio sta valutando la possibilità di acquistare una villa in un’amena località alle pendici dell’Etna, ma teme di subire un cospicuo danno patrimoniale in caso di eruzione. Qualche tempo dopo, Caio viene a sapere che il comune nel quale si trova la villa assicura ai proprietari di immobili ingenti risarcimenti in caso di danni subiti a causa delle eruzioni vulcaniche. Questa informazione circa le conseguenze giuridiche di tale accadimento naturale è ovviamente assai rilevante per la sua decisione circa l’acquisto della villa. Si pensi anche alle conseguenze giuridiche ricollegabili al semplice decosrso del tempo (prescrizione, decadenza, ecc.).

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lontanata dalla ratio che gli antichi e i moderni le attribuiscono: il suo carattere strumentale alla pianificazione giuridicamente consapevole delle scelte pratiche individuali 478 .

4.3.f. La certezza come prevedibilità dei tempi delle reazioni giuridiche Nell’oggetto delle previsioni il cui successo sostanzia la certezza del diritto rientra anche il tempo nel quale vengono a prodursi le decisioni/reazioni/conseguenze giuridiche previste. La disponibilità d’informazioni attendibili circa la durata dei processi giudiziari e dei procedimenti amministrativi migliora di molto la possibilità dei previsori di pianificare la propria condotta in modo giuridicamente consapevole. In questo senso, si può dire che il diritto è tanto più certo quanto più gli individui sono in grado di predeterminare con esattezza l’intervallo tra un dato accadimento (reale o solo ipotizzato, come detto prima) e le reazioni degli organi giuridici ad esso. Se essi non solo hanno la facoltà di prevedere le conseguenze giuridiche di atti o fatti, ma sono anche in grado sapere quando tali conseguenze diverranno effettive, possono sfruttare queste informazioni aggiuntive a loro vantaggio in molti modi differenti 479 .

478

Cfr. WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., pp.

84-85 479 Due coniugi, conoscendo la minor durata del procedimento di separazione consensuale rispetto alla separazione giudiziale, potranno considerare l’idea di addivenire ad un accordo che consenta loro di risparmiar tempo e denaro (oppure, considerando che spesso anche la separazione consensuale richiede molto tempo, potrebbero perfino essere indotti ad abbandonare il proposito di separarsi). Un conduttore, tenendo conto dei tempi necessari affinché una causa di sfratto sia intentata, conclusa, e resa esecutiva, potrebbe decidere di sospendere il pagamento dei canoni di locazione, pianificando di occupare l’appartamento locato per almeno un altro anno in modo abusivo ma gratuito. Tutti questi soggetti ottengono un miglioramento della loro facoltà di pianificare le proprie scelte pratiche grazie alle informazioni supplementari circa il tempo degli interventi degli organi giuridici: i separandi, in assenza di alcuna informazione sulla durata dei procedimenti di separazione, avrebbero rischiato di intraprendere una scelta, quella della separazione giudiziale, che in presenza dell’informazione circa la sua maggior durata (e dunque onerosità) non avrebbero adottato; il conduttore, non avendo idea delle lungaggini richieste per arrivare ad uno sfratto esecutivo, avrebbe magari continuato a pagare il canone, realizzando in tal modo un minor vantaggio personale.

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La tradizione, tuttavia, non subordina la certezza del diritto tanto alla prevedibilità dei tempi delle reazioni degli organi giuridici, quanto alla loro ragionevole tempestività 480 . È d’uso corrente l’asserzione secondo cui la certezza del diritto coincide con la breve durata dei processi giudiziali e dei procedimenti amministrativi 481 . La decisione è anzi talvolta intesa come rimedio che mette fine al protrarsi di una situazione d’incertezza, data appunto dalla pendenza del giudizio o del procedimento 482 . Se però definiamo la certezza come prevedibilità (anche) delle reazioni dell’ordinamento, non possiamo coerentemente affermare che durante il processo/procedimento si assiste ad una sorta di interruzione della certezza, ripristinata dal provvedimento decisorio. Ciò implicherebbe infatti un’indebita confusione tra la certezza come prevedibilità (anche dei tempi) delle reazioni dell’ordinamento, la cui negazione è data dall’impossibilità di prevedere che in un dato arco temporale, determinato nell’inizio e nel termine, avrà luogo una decisione giuridica compresa tra una serie determinata di decisioni attese, con la certezza come tempestività delle risposte dell’ordinamento, la cui negazione è data dalla lunga durata dei procedimenti giudiziari e amministrativi. Quest’ultima concezione si fonda sull’assunto che la pendenza di un procedimento sia, di per sé, una situazione d’incertezza cui la decisione pone fine; il massimo della certezza si realizzerebbe dunque quando le cause e i procedimenti vengono conclusi istantaneamente, il minimo quando tali cause e procedimenti si protraggono all’infinito. Se invece si adotta una nozione di certezza come prevedibilità di conseguenze giuridiche e del tempo del loro venire in essere, bisogna riconoscere che la pen480 Cfr. LOPEZ DE ONATE, La certezza del diritto, cit., p. 98, secondo cui «la lunga protrazione dei processi porta alla ignoranza di quella che è la concreta volontà della legge: ed anche qui il singolo manca di una valida norma, alla quale sappia di dover conformare la propria azione ed il proprio comportamento futuro». 481 Cfr. SANTORUSSO, F., L’incertezza del diritto nell’attività giurisprudenziale, in La certezza del diritto, un valore da ritrovare, cit., pp. 96 segg. 482 La formulazione classica di questo assunto è in MONTESQUIEU, CH.L., Lo spirito delle leggi, libro XXIX, c. I: «[…] Le formalità della giustizia sono necessarie alla libertà. Ma il loro numero potrebbe essere così grande da pregiudicare lo scopo stesso delle leggi che le hanno fissate: in questo modo le liti non avrebbero mai fine, la proprietà dei beni rimarrebbe incerta, si darebbero a una delle parti i beni dell’altra senza previo esame, o rimanderebbero entrambe in rovina a furia di esaminare. I cittadini perderebbero così la loro libertà e la loro sicurezza, gli accusatori non avrebbero più alcun mezzo per convincere, né gli accusati per difendersi».

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denza del procedimento non è necessariamente una situazione di incertezza, a patto che gli individui siano in grado di prevederne con buona approssimazione i possibili esiti nonché i tempi – lunghi o brevi che siano – necessari alla sua conclusione. Il caso-limite del procedimento di durata infinita, in quest’ottica, non è necessariamente espressione di massima incertezza, a patto che vi sia una relativa sicurezza sopra tale mancata conclusione: gli individui potranno pianificare la propria condotta considerando che le conseguenze giuridiche di un dato comportamento o accadimento non verranno probabilmente mai alla luce, e che dunque esso è de facto destituito di qualsiasi rilevanza giuridica 483 . Anche in questo caso, la certezza resta in piedi: come abbiamo visto in precedenza, anche la prevedibilità della mancanza di conseguenze giuridiche di un fatto rientra nella certezza del diritto 484 . Gli assertori della certezza come tempestività delle reazioni giuridiche potrebbero peraltro sostenere che la pronta risposta degli organi giuridici sia indice, causa, o addirittura condizione di certezza, nel senso che, se i tempi di reazione dell’ordinamento sono molto ristretti, allora si restringono anche i margini d’errore sulla prevedibilità del tempo del loro effettivo venire in essere. Anche in questo caso, tuttavia, bisogna ammettere che sono l’attendibilità e l’accuratezza della conoscenza circa i tempi brevi della giustizia, non la brevità in sé, a costituire strumento di certezza, ossia di prevedibilità giuridica. Ma allora, ai fini della pianificazione della propria condotta, l’informazione per cui la data reazione dell’ordinamento si produrrà esattamente dopo 8 anni dallo svolgimento dei fatti di cui si intendono prevedere le conseguenze giuridiche, ha la stessa rilevanza dell’informazione per cui tale reazione si produrrà esattamente dopo 2 anni, sempre che entrambe le informazioni siano attendibili. Bisogna dunque correggere l’assunto per cui la certezza del diritto dipende dalla breve durata dei processi, almeno se intendiamo parlare di certezza in termini di prevedibilità servente alla pianificazione delle scelte pratiche individuali. Certezza-prevedibilità del diritto e brevità dei processi sono strumentali al conseguimento di beni diver483 Alla stessa conclusione potranno naturalmente giungere individui spinti alla previsione da interessi diversi da quello della pianificazione delle proprie scelte pratiche (il docente di materie giuridiche, l’avvocato, ecc.). 484 Cfr. supra, § 4.3.d.

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si. La prima serve a programmare la propria condotta tenendo conto delle conseguenze giuridiche che essa può comportare, nonché del tempo occorrente a far sì che tali conseguenze si producano effettivamente, la seconda serve a ottenere delle risposte giuridiche in tempi brevi, il che è generalmente considerato un bene (ma un bad man non necessariamente vedrebbe le cose da questo punto di vista) 485 . “Tempestività dei giudizi” e “certezza del diritto” non sono dunque affatto termini sinonimi. La certezza si realizza nella misura in cui gli individui, in qualunque modo, siano in grado di prevedere le conseguenze giuridiche di atti o fatti nonché i tempi, brevi o lunghi che siano, della concreta attuazione di tali conseguenze; la tempestività si realizza invece nella misura in cui siano ridotti i tempi di attesa delle reazioni dell’ordinamento. Chi parla di “certezza del diritto” come durata ragionevole dei processi, dunque, meglio farebbe a parlare di “certezza sulla breve durata dei processi”, che però è altra cosa rispetto alla certezza giuridica, almeno se la si intende come prevedibilità: quest’ultima non dipende dalla rapidità dei processi, ma dall’esattezza con cui è dato predeterminare la loro durata, lunga o breve che sia.

4.3.g. L’accuratezza della previsione Il successo di una previsione “complessiva” come quella che abbiamo introdotto nei precedenti paragrafi costituisce talvolta un risultato ben modesto. Quando la gamma delle conseguenze giuridiche prevedibili è cosi ampia e varia da non consentire alcun valido supporto per la pianificazione della propria condotta in funzione delle alternative prospettate, quando non consente al giurista di attendersi una serie circoscritta di soluzioni alternativamente applicabili ad un 485

La tempestività della risposta giuridica è generalmente considerata un bene, giacché si traduce in benefici economici o gratificazioni morali: chi intenda far valere la propria pretesa giuridica riceve maggior soddisfazione (economica e morale) se l’ordinamento funziona in modo da garantire una pronta risposta alle proprie istanze. D’altra parte, tutte le volte in cui l’intervento pubblico sia considerato ingiusto o comunque sgradito, la tempestività della risposta giuridica diventa un disvalore. Così, chi intenda eludere la sanzione penale approfittando delle farragini della macchina giudiziaria, magari in attesa di una prescrizione del reato, di un indulto o di un’amnistia, non vedrà certo di buon occhio la celerità dei giudizi (e presumibilmente cercherà di rallentarne il corso con ogni mezzo).

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medesimo caso concreto, è legittimo affermare che la certezza subisce un detrimento: una previsione molto generica, ovvero comprensiva di un numero notevole di alternative tutte riconducibili allo stesso atto o fatto di partenza, ha un valore informativo ridotto rispetto ad una previsione complessiva relativamente specifica, perché risulta verificata in un’ampia gamma di situazioni, magari assai differenti tra loro e cariche di diverse conseguenze pratiche per gli interessati 486 . Si comprende così come una previsione complessiva possa avere buone probabilità di successo e tuttavia essere assai poco utile, a cagione della sua genericità, come base per la pianificazione della condotta individuale. Una cosa è prevedere che, secondo l’esito delle scelte discrezionali nella fase dell’accertamento, della qualificazione o della determinazione della pena per un tale mio comportamento, il giudice potrà disporre, alternativamente, la mia condanna al pagamento di una multa lieve oppure al pagamento di una multa un po’ più esosa, altra cosa è prevedere che, per lo stesso fatto, il giudice potrà disporre, sempre alternativamente, il mio proscioglimento, o la mia condanna ad una modesta multa, o la confisca di tutto il mio patrimonio, o la mia condanna all’esilio, o la mia condanna alla reclusione per anni 15, o la mia condanna a morte. Come si vede, la possibilità di programmare la propria condotta tenendo conto delle conseguenze giuridiche ad essa ricollegabili non implica solo che le previsioni sopra queste ultime abbiano una certa tendenza al successo, ma anche che esse siano relativamente accurate, e cioè che prospettino alternative il più possibile circoscritte nel numero e nella varietà. Ciò, naturalmente, dipende in primo luogo dalle contingenti caratteristiche dell’ordinamento o della specifica normativa la cui certezza è in questione. Così, minore è la discrezionalità che tali norme lasciano agli organi nelle varie fasi del procedimento che sfocia nella decisione giuridica che si intende prevedere, più ristretto sarà il ventaglio delle possibili decisioni finali 487 . Kelsen, come abbiamo visto, è con486 «La genericità o mancanza di specificazione di un’espressione si ha quando l’espressione si riferisce indifferentemente, cioè senza distinguere, a una pluralità di situazioni diverse. Un enunciato è tanto più generico quanti più sono i fatti che, se si verificassero, realizzerebbero l’ipotesi da esso prevista»; LUZZATI, C., La vaghezza delle norme, cit., p. 48. Il contenuto informativo di un enunciato, com’è noto, aumenta in ragione inversa alla sua genericità. 487 Sempre che gli organi giuridici siano di fatto fedeli alle norme, naturalmente. Essi potrebbero infatti decidere in difformità da quanto stabilito dalle norme che so-

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sapevole di questo fatto; non a caso, proprio in chiusura della Dottrina pura del 1960, sottolinea l’importanza di una tecnica di formulazione delle norme giuridiche capace di ridurre al minimo l’inevitabile pluralità dei significati delle disposizioni, e di garantire in tal modo la realizzazione del massimo grado possibile di certezza del diritto 488 . L’indeterminatezza (intenzionale o meno) delle disposizioni giuridiche, dunque, riduce la certezza perché aumenta la genericità della previsione complessiva. Si immagini una normativa in cui le fattispecie condizionanti e le conseguenze condizionate delle norme siano così indeterminate che gli organi giuridici godono di una discrezionalità pressoché assoluta nell’accertamento, nella qualificazione e nella determinazione delle conseguenze giuridiche dei comportamenti da essa regolati. A tal proposito, si consideri l’esempio di una teocrazia il cui ordinamento penale sia costituito soltanto dal Decalogo del Vecchio testamento, integrato dalla norma che stabilisce che i vescovi sono investiti del potere (non anche del dovere) di punire le trasgressioni ai Comandamenti con delle sanzioni scelte “secondo la coscienza cristiana del vescovo” tra un ampio catalogo di pene pecuniarie, detentive, corporali, capitali. S’immagini anche che l’applicazione di tali pene sia di fatto temporalmente e territorialmente assai disomogenea (cioè: fatti simili, commessi nello stesso luogo ma in tempi differenti vengono puniti diversamente, come pure fatti simili, commessi nello stesso tempo ma in luoghi differenti). L’incertezza, quivi, regnerebbe sovrana, e non necessariamente a causa della frequenza degli insuccessi predittivi, bensì a cagione dell’eccessiva genericità delle previsioni circa l’operato dei vescovi nella loro veste di giudici penali. L’estrema discrezionalità di cui i decisori godrebbero nella fase di accertamento, di qualificazione, di decisione circa i fatti

no chiamati ad applicare. Sebbene quest’eventualità, negli ordinamenti contemporanei, sia resa meno probabile dalla predisposizione di una serie di strumenti volti ad assicurare che gli organi giuridici decidano conformemente al diritto (impugnazioni, vari tipi di sanzione o di responsabilità ecc.), non è mai escluso che vi possano essere, di quando in quando, delle decisioni contra ius. Mentre è praticamente impossibile prevedere la decisione contra ius occasionalmente adottata per errore o per dolo del decisore, può sostenersi che laddove si sia stabilita una qualche regolarità decisionale, sia pure contraria al diritto formalmente valido, diventi possibile sfruttare l’eventuale conoscenza circa questa regolarità a fini predittivi, e dunque di certezza. La questione sarà più diffusamente trattata in seguito (cfr. infra, §§ 4.4.a-d). 488 Cfr. KELSEN, H., Dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 389-390.

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renderebbe infatti le previsioni “complessive” così ampie da far loro prospettare, per ogni singolo caso considerato, una serie sterminata di alternative di pena o di proscioglimento. Esse avrebbero sì successo, almeno nella misura in cui le conseguenze effettivamente decise rientrassero nella serie di quelle previste per i fatti considerati, ma tale serie sarebbe così ampia da prospettare l’applicazione, in alternativa tra loro, di tutte le possibili conseguenze giuridiche stabilite dall’ordinamento, dal proscioglimento con formula piena alla morte sul rogo, senza alcuna possibilità di conoscere in anticipo quali, tra esse, potranno essere effettivamente applicate al caso considerato. Un esempio inverso può essere portato richiamando alla mente l’immagine di un sistema estremamente rigido ed articolato, fondato su un diritto giurisprudenziale sedimentatosi nel corso del tempo: si pensi ad un ordinamento del 4000 d.C., ove in decine di secoli si siano accumulati milioni di precedenti giudiziali riguardanti praticamente ogni possibile minuzia della vita degli individui. S’immagini anche che tali precedenti siano raccolti in un sistema informatico, lo stesso che viene agevolmente consultato sia dai previsori che dai decisori. Si aggiunga l’ingrediente del particolare rigore con cui è applicato il principio dello stare decisis, e si otterrà un ordinamento (sì sclerotico ed elefantiaco ma) estremamente certo grazie all’accuratezza predittiva che esso consente: basta consultare il database dei precedenti vincolanti per avere molte probabilità di farsi un’idea assai precisa sulla reazione che l’ordinamento ricollegherà ad una particolare condotta. Qui il diritto consente delle previsioni aperte soltanto a poche alternative, giacché le scelte discrezionali degli organi giuridici sono compiute (in ipotesi) una volta per tutte, e vincolano per il futuro quelle dei decisori chiamati a considerare le stesse quaestiones. In questo modo, tali scelte “vincolano” – cioè rendono più accurate – anche le future previsioni su quello stesso thema decidendum 489 . Possiamo raffigurare ciò prendendo in esame il grafico, ri489

L’esempio appena riportato palesa una difficoltà della tesi kelseniana secondo cui la certezza giuridica si realizza in misura inversamente proporzionale al grado di decentramento della funzione di produzione di norme generali (cfr. KELSEN, H. Dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 281). Kelsen insiste esplicitamente sull'incertezza dei sistemi in cui il precedente giurisprudenziale assume valore di norma generale, in quanto vincolante per le decisioni future. L’esempio dimostra come tuttavia la certezza non sia affatto funzione dell’accentramento o del decentramento della produzione normativa: un diritto giurisprudenziale formatosi nel corso di molto

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LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

portato in appendice, che rappresenta lo schema di una previsione complessiva delle conseguenze giuridiche di un fatto f. Esso mostra, già ad una prima occhiata, come il numero delle alternative previste possa essere estremamente elevato 490 . Quando tuttavia la previsione è molto accurata, il numero e la varietà delle alternative previste è ridotto, grazie al fatto che le scelte dei decisori sono per la maggior parte predeterminate e non discrezionali, e dunque prevedibili. Esempi di previsione complessiva molto accurata potranno ad esempio essere rappresentati come segue: Fatto di cui si intendono prevedere le conseguenze

Ricostruzioni del fatto attese alla luce delle prove e delle norme che regolano l’istruttoria

Prevedibili qualificazioni del fatto, così come ricostruito dagli organi giuridici

Prevedibili decisioni giudiziali sopra il fatto, così come qualificato dagli organi giuridici

f

a1(f)

q1[a1(f)]

d1{q1[a1(f)]}

Fatto di cui si intendono prevedere le conseguenze

Ricostruzioni del fatto attese alla luce delle prove e delle norme che regolano l’istruttoria

Prevedibili qualificazioni del fatto, così come ricostruito dagli organi giuridici

Prevedibili decisioni giudiziali sopra il fatto, così come qualificato dagli organi giuridici

f

a1(f)

q1[a1(f)]

d1{q1[a1(f)]}

q2[a1(f)]

d1{q2[a1(f)]}

oppure:

Naturalmente, può darsi che le conseguenze giuridiche che vengono dai decisori effettivamente ricollegate ad f non siano comprese tra le alternative previste. Ciò può ad esempio avvenire perché ci si avvale ai fini della previsione di conoscenze non aggiornate o comunque inattendibili, o perfino perché il previsore decide in modo tempo e raccolto in una “macchina casistica” come quella poc’anzi ipotizzata può garantire elevati standards di prevedibilità, nonostante la sua produzione sia estremamente decentrata. 490 Vedi infra, appendice 1.

UNA RIDEFINIZIONE DI “CERTEZZA DEL DIRITTO”

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difforme da quanto stabilito dalle norme che è tenuto ad applicare. In un caso e nell’altro si registra un insuccesso predittivo, di cui il ricercatore interessato a rilevare il grado di certezza del diritto deve tener conto. Questi risultati, però, segnalano un deficit di attendibilità, e non riguardano il profilo della loro accuratezza. Attendibilità e accuratezza della previsione sono due attributi distinti: un previsore può essere in grado di fornire delle previsioni con buone probabilità di successo, eppure assolutamente generiche; un altro può fornire delle previsioni estremamente precise, ma con ben maggiori probabilità di fallimento 491 . Tutto il discorso appena svolto sull’accuratezza della previsione circa le conseguenze giuridiche di atti o fatti può essere naturalmente applicato anche alla possibilità di predeterminare l’ambito temporale in cui queste vengono in essere: più quest’ambito è circoscritto, maggiore è la certezza, giacché aumenta la precisione con cui è possibile pronunciarsi circa il momento in cui una data conseguenza/reazione giuridica avrà luogo. Questa accuratezza predittiva, naturalmente, è assai benefica ai fini della programmazione della propria condotta; una cosa è sapere che la tale mia domanda di finanziamento, in caso di accoglimento, mi farà incassare dei soldi in un periodo non meglio precisato ma anteriore al decorso di 5 anni dalla sua presentazione, altra cosa è sapere che l’amministrazione delibera entro 60 giorni dalla proposizione della domanda e, in caso di suo accoglimento, eroga i fondi stabiliti entro i successivi 3 mesi.

4.3.h. Una certezza diacronica Problema diverso dalla prevedibilità dei tempi delle reazioni giuridiche è quello della certezza del diritto attraverso il tempo (taluni, a questo proposito, parlano anche di “certezza diacronica”) 492 . La sta491

Uscendo dall’ambito prettamente giuridico, è agevole rilevare come alla prima categoria di previsori appartengano gli astrologi, i cartomanti e i maghi in genere, i cui non infrequenti successi predittivi si spiegano per l’appunto con l’estrema genericità delle “divinazioni” proposte (oltre che con la loro difficile falsificabilità). 492 Lombardi Vallauri parla di una “certezza diacronica”, che richiama l’idea di “stabilità” della regolamentazione giuridica nel tempo (cfr. LOMBARDI, L., Saggio sul diritto giurisprudenziale, cit., pp. 586, 587). Nel pensiero dell’autore questa idea di certezza riguarderebbe in particolare la produzione di nuove norme giuridiche, il cui contenuto dovrebbe presentare una continuità, una gradualità di mutamento, ri-

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LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

bilità nel tempo delle norme, dei criteri di decisione, è un requisito tradizionalmente ricollegato alla pianificazione giuridicamente consapevole della condotta: «Senza certezza del diritto, […] non è possibile guardare serenamente al futuro, non è possibile pianificare, diventa eccessivamente rischiosa ogni iniziativa (specialmente economica) di un qualche respiro» 493 . Nel secondo capitolo abbiamo visto che Bruno Leoni ricollega la certezza del diritto alla possibilità per gli individui di fare piani a lungo termine avendo la possibilità di considerare hic et nunc le valutazioni che il diritto darà delle loro azioni future. L’autore afferma che la nozione di certezza: 1) si riferisce alla prevedibilità delle conseguenze di comportamenti perfezionabili in un futuro indeterminato, e non solo a quelli che verranno posti in essere entro un breve periodo di tempo; 2) si estende alla prevedibilità delle conseguenze giuridiche che occorreranno indeterminatamente nel futuro, e non solo a quelle che si producono entro tempi brevi rispetto all’azione che le determina 494 . L’intento di ripristinare l’originario collegamento tra il concetto di certezza del diritto e la pianificabilità giuridicamente consapevole della condotta rende in effetti assai allettante la prospettiva di ritenere “certo” il diritto nella misura in cui consente agli individui di avere una qualche idea circa le conseguenze giuridiche che i loro comportamenti futuri potranno sortire. In accordo ad una risalente e diffusa tradizione, che trova in Leoni il più appassionato esponente, ritengo dunque opportuno includere nella mia ridefinizione di “certezza del diritto” un riferimento alla sua dimensione diacronica. Tale scelta ridefinitoria accoglie l’assunto per cui la certezza è tanto maggiore quanto più lontano nel futuro si spinge la capacità predittiva degli individui. In questa prospetspetto al diritto preesistente; ciò accadrebbe specialmente «là dove mutino le norme nel permanere dei principii: mi è più facile accettare la nuova norma che sconcerta i miei piani di vita se vedo che essa è posta per applicare, in una mutata situazione storico-sociale, lo stesso principio su cui si fondava la norma precedente» (ibidem, p. 587). 493 LOMBARDI, L., Saggio sul diritto giurisprudenziale, cit., p. 586. Allorio parla al proposito di “certezza di durata” (cfr. ALLORIO, E., La certezza del diritto dell’economia, in Il diritto dell’economia, 1956, pp. 1198-1205), Rümelin di “Rechtsdauerinteresse” (RÜMELIN, M., Die Rechtssicherheit, 1924). Vedi anche GIANFORMAGGIO, L., Certezza del diritto, cit., pp. 158, 161. 494 Vedi supra, § 2.3.g.

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tiva, quando il diritto è molto certo, un previsore dell’anno 2000 può avere un’idea precisa delle conseguenze giuridiche che un suo comportamento del 2030 produrrà 495 . Se si adotta quest’impostazione, deve dunque concordarsi con gli autori – da San Tommaso a Leoni e Lopez de Oñate – che affermano che l’abrogazione e la modificazione delle norme non devono mai essere prese alla leggera, in quanto sono suscettibili di recare gravi pregiudizi alla certezza giuridica 496 . Ciò può accadere perfino qualora le modifiche normative operino ex nunc, in modo non retroattivo, in quanto tali mutamenti possono comunque travolgere le pianificazioni già elaborate tenendo conto di una disciplina previgente 497 . Naturalmente, anche la regolamentazione di attività prima considerate giuridicamente irrilevanti può comportare una diminuzione della certezza. Abbiamo infatti visto che questa comprende anche la certezza dell’irrilevanza giuridica, e dunque la prevedibilità della non-reazione dell’ordinamento 498 . È dunque corretto affermare che il massimo della certezza del diritto si realizza in un ordinamento chiuso a qualsiasi innovazione? Non proprio. Vi sono alcuni frangenti in cui le riforme normative conducono ad un complessivo incremento della certezza. Si pensi ad una legge che punisca con una sanzione amministrativa il consumo di sostanze stupefacenti; supponiamo che la legge fornisca una definizione di “sostanza stupefacente” come “veleno ad azione selettiva sulla corteccia celebrale, con effetti analgesici e con la perdita del 495 Sergio Cotta afferma che una legge certa non è necessariamente stabile né statica: ad una norma del tutto certa, infatti, può venir conferita legislativamente (o essa può ricevere dalle vicende) una durata brevissima (cfr. COTTA, S., Certezza di essere nel diritto, cit., p. 78). Ovviamente ciò vale a condizione che nella nozione di “certezza” non si includa, come noi abbiamo fatto, un riferimento alla sua necessaria estensione diacronica. In questo caso, una norma la cui validità abbia una durata brevissima è per definizione cagione di incertezza, giacché non può essere impiegata come base per la previsione delle conseguenze giuridiche che si produrranno nel medio o nel lungo periodo. 496 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologica, I-II, q. XCVII; LOPEZ DE OÑATE, F., La certezza del diritto, cit., pp. 96-97. Numerose e interessanti citazioni sulla tradizione aristotelica, classica e illuminista in materia di rapporti tra certezza e stabilità delle norme si trovano in LOPEZ DE OÑATE, F., La certezza del diritto, cit., pp. 100-101. 497 Si pensi a quanto una modifica della disciplina delle pensioni di anzianità possa sconvolgere i piani a lungo termine degli individui. 498 Vedi supra, § 4.3.d.

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senso morale e sociale” 499 . In questo caso è presumibile che i previsori siano posti di fronte a qualche dilemma: qualsiasi superalcolico, a voler essere pignoli, potrebbe esser ritenuto “stupefacente”. Da qui l’incertezza circa le conseguenze giuridiche di un gran numero di comportamenti che non si sa se ricondurre o no alla fattispecie sanzionata. Se a questo punto intervenisse una legge che, facendo riferimento alla normativa precedente, precisasse la definizione di “sostanza stupefacente”, magari indicandone il catalogo completo, otterremmo un complessivo incremento della certezza del diritto. Un gran numero di hard cases, di casi di difficile qualificazione, diventerebbero infatti clear, ovvero chiaramente sussumibili (o chiaramente non sussumibili) entro la fattispecie normativa considerata, con effetti positivi sull’accuratezza e sull’attendibilità delle previsioni 500 . Vi sono dunque delle innovazioni normative che determinano un complessivo incremento della certezza del diritto: rientrano in questa categoria tutte quelle che restringono il margine di discrezionalità dei decisori giuridici, magari incrementando la precisione del linguaggio normativo. Bisogna peraltro considerare che ciascuna di queste innovazioni è potenzialmente in grado di porre nel nulla le previsioni avanzate sulla base della (eventualmente più vaga) disciplina previgente. Ciò, come meglio vedremo in seguito, alla lunga incide sull’estensione diacronica delle previsioni, ossia su quella particolare componente della certezza che riguarda la possibilità di basare sul diritto odierno i propri piani di vita a lungo termine. La riduzione di questa “lungimiranza” predittiva, sebbene possa in alcuni casi essere più che bilanciata da un corrispondente incremento dell’accuratezza delle previsioni successive all’entrata in vigore della riforma stessa, è insomma, di per sé, un vulnus alla certezza giuridica di cui è opportuno tener conto in una prospettiva de jure condendo 501 . Per questa 499 Si tratta di una delle più risalenti definizioni di “sostanza stupefacente”; cfr. GIUSTI, G., SICA, D., Gli stupefacenti e le tossicomanie, Cedam, Padova 1979. 500 Cfr. HART, H.L.A., Il concetto di diritto, cit., pp. 146 ss. “Accuratezza” e “attendibilità” delle previsioni sono definite in seguito; cfr. infra, §§ 4.3.g, 4.5.c. 501 La valutazione di questo trade-off, inoltre, non può prescindere dalla considerazione del potenziale conflitto tra il valore della pianificabilità giuridicamente informata della propria condotta e le esigenze di adeguamento dell’esistente normativo alle mutate condizioni socio-economiche o alle innovazioni tecnologiche. Il dilemma posto dalla necessità di mediare tra le esigenze di innovazione e quelle di certezza del diritto è affrontato da Lon Fuller, che riconosce come il massimo della certez-

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ragione, non può disconoscersi il valore della tradizione che afferma che «il problema della certezza del diritto […] corrisponde al bisogno umano di fondare la coesistenza sopra un complesso di regole stabili e non caduche, durature e non provvisorie» 502 .

4.3.i. Ancora sulla previsione di successo: Hayek Abbiamo finora caratterizzato il “che cosa” della certezza del diritto rivolgendo la nostra attenzione prevalentemente alle decisioni giuridiche e ai loro tempi, dunque alle conseguenze giuridiche di atti o fatti che vengono dichiarate o costituite mediante provvedimenti di organi giuridici dotati di poteri coercitivi. In verità vi sono ottime ragioni per includere nell’oggetto delle previsioni il cui successo sostanzia la certezza del diritto anche quegli effetti giuridici che si dispiegano nella pratica sociale in assenza di qualsiasi provvedimento decisorio o autoritativo, e che pure vengono pacificamente riconosciuti dalla generalità dei consociati. Chi adotti una concezione secondo cui il diritto è certo soltanto quando è possibile anticipare il contenuto delle singole decisioni giuridiche, calcola il grado della certezza rilevando in che misura le previsioni avanzate da un campione di individui sopra l’operato degli organi giuridici sono conformi alle decisioni effettivamente adottate dagli stessi. Bisogna tuttavia fare i conti col fatto che in molti casi, ad esempio nel contenzioso civile, le decisioni giuridiche dirimono controversie tra parti che vanno in causa perché prevedono di ottenere una pronuncia a sé favorevole (se avessero concordano sulla probabile soluzione che il giudice avrebbe dato alla loro vertenza, avrebbero probabilmente evitato un’inutile e dispendiosa causa civile accordandosi per via stragiudiziale). In questi casi, al successo della previsione di chi ha vinto la causa corrisponde fatalmente il fallimento della previsione di chi la causa l’ha persa. Chi afferma che più è diffusa la possibilità di prevedere le decisioni giuridiche, più il diritto deve considerarsi certo deve allora affrontare un problema: ogni decisione che dirime una causa può essere considerata, al tempo, indice di certezza (il vincitore della causa aveva previsto una decisione a sé za si realizzi al prezzo (insostenibile) della fossilizzazione perpetua dell’intero corpo giuridico; cfr. FULLER, L. L., La moralità del diritto, cit., p. 82. 502 BOBBIO, N., La certezza del diritto è un mito?, cit., p. 151.

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favorevole) e di incertezza (il perdente aveva previsto una decisione a sé favorevole, ma non l’ha ottenuta). Le previsioni di successo dei vincitori vengono insomma annullate, ai fini del calcolo del grado di una certezza così concepita, dalle previsioni fallite degli sconfitti. Questo problema può essere risolto traendo le mosse da una singolare tesi di F.A. Von Hayek, cui già ho accennato nel primo capitolo 503 . L’autore afferma che la misura della certezza-prevedibilità di un dato ordinamento deve essere determinata non in base alla prevedibilità dell’esito delle controversie legali, bensì secondo la quantità delle dispute che non sfociano in lite giudiziale perché il loro esito è praticamente certo nel momento in cui i termini legali della questione vengono esaminati: «Sono i casi che non arrivano mai di fronte alle corti, e non quelli che vi arrivano, a dare la misura della certezza del diritto» 504 . Secondo Hayek, dunque, la certezza giuridica non si misura direttamente sulla prevedibilità delle reazioni effettive dell’ordinamento, bensì sulla capacità degli individui di anticipare l’esito di quaestiones che, appunto perché scontate, non vengono neanche sottoposte alle corti di giustizia. Si potrebbe anche dire che, per l’autore, la certezza non dipende direttamente dalla prevedibilità delle reazioni attuali, concrete dell’ordinamento, bensì dalla frequenza dei casi in cui accade di osservare che potenziali litiganti concordano nel prevedere le potenziali reazioni dell’ordinamento alla loro eventuale lite. L’originale posizione di Hayek presenta senza dubbio alcuni difetti. Essa, per esempio, sembra elaborata avendo riguardo soltanto al contenzioso civile e non considerando la giurisdizione penale laddove sia prevista l’obbligatorietà delle relative azioni. Quivi, infatti, una volta che un comportamento sia ritenuto penalmente rilevante dal magistrato o dal PM, esso deve essere sempre fatto oggetto di accertamento e di pronuncia giurisdizionale, indipendentemente da quanto scontato sia l’esito di quest’ultima. Stando all’impostazione di Hayek, il diritto penale dovrebbe essere in questi casi considerato sommamente incerto per il semplice fatto che tutti i comportamenti da esso contemplati debbono essere fatti oggetto di pronuncia giurisdizionale 505 . 503

Vedi supra, § 1.5.b. Cfr. HAYEK, F.A., The Constitution of Liberty, cit., p. 208, traduzione mia. 505 Un cultore di tale impostazione potrebbe peraltro sostenere, forzando un po’ le tesi dell’autore, che dato che la certezza del diritto civile viene misurata dalla fre504

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Nonostante questo problema, la proposta di Hayek ha il merito di farci meditare circa l’opportunità di riferire la certezza del diritto non soltanto alla prevedibilità delle reazioni effettive dell’ordinamento, ma anche alla misura in cui in una comunità è dato riscontrare una diffusa concordia sopra le previsioni delle reazioni giuridiche potenziali o eventuali, quelle che si ritiene gli organi giuridici presumibilmente adotterebbero ove fossero investiti del compito di decidere su una questione che, proprio in quanto scontata, non viene invece fatta oggetto di alcun procedimento o provvedimento giurisdizionale. Questa considerazione è assolutamente estranea alle concezioni tradizionali della certezza, che si appuntano soltanto sulla prevedibilità/imprevedibilità delle decisioni che effettivamente concludono le cause, non tenendo così conto del fatto che queste ultime tendono ovviamente a essere proposte per risolvere questioni la cui soluzione è già di per sé, in qualche senso, incerta, magari a causa della formulazione approssimativa, ambigua, difettosa, antinomica delle norme che le riguardano 506 . La concezione di Hayek, insomma, ha l’indubbio vantaggio di includere nella considerazione complessiva del che cosa e del quanto della certezza del diritto non solo lo jus controversum, quello su cui giocoforza si concentrano la maggior parte delle vertenze e delle decisioni giudiziali, ma anche il diritto che quasi inavvertitamente viene quotidianamente osservato e messo in pratica in modo pacifico. Si noti che questa circostanza viene tralasciata non solo dai critici della certezza del diritto, ma anche, misteriosamente, dai suoi assertori, che invece potrebbero in ciò trovare buoni argomenti per resistere agli affondi polemici dei primi. Del resto, è opinione comune che l’ideale della certezza si realizzi appunto quando gli esiti delle dispute siano talmente scontati o prevedibili da render superflua o poco conquenza dei casi in cui si evita il giudizio in ragione del fatto che si prevede pacificamente il suo esito, allo stesso modo la certezza del diritto penale potrebbe essere valutata considerando la frequenza dei casi in cui gli individui, prevedendo la sanzione, evitano di esser sottoposti a giudizio penale decidendo di astenersi dal commettere reati. In questo senso, la certezza del diritto penale presenterebbe più di un’affinità con la nozione di efficacia, intesa come capacità di una disciplina giuridica di raggiungere il fine per cui è stata posta (nel caso del diritto penale, appunto, l’astensione da comportamenti ritenuti socialmente dannosi). 506 Da ciò, probabilmente, deriva parte del diffuso scetticismo sopra la certezza: ci si lamenta del fatto che l’esito delle cause è imprevedibile, e non si considera il fatto che talvolta le cause stesse sono segno di incertezza del diritto.

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veniente una loro sottoposizione alla decisione degli organi giuridici. Al contrario, la situazione in cui le corti sono oberate dal contenzioso relativo ad una determinata disciplina giuridica viene correntemente considerata sintomatica di un basso livello di certezza di quest’ultima. Anche se il problema della certezza del diritto è stato affrontato soprattutto ponendo l’accento sulla necessità per gli individui di prevedere «se e quando funzionari dotati di potestà pubblica interverranno nelle loro vite, o se e quando l’azione dello Stato distruggerà o ostacolerà i programmi che potrebbero altrimenti fare», non bisogna dunque dimenticare che in esso rientra anche la questione della maggiore o minore conoscibilità della «cornice entro cui la gente può organizzare le proprie relazioni, coordinare le proprie aspettative, e intraprendere nuove iniziative nella società» 507 . Le conseguenze giuridiche la cui prevedibilità sostanzia la certezza del diritto, insomma, non sono necessariamente quelle stabilite dalle corti o dalle amministrazioni a seguito di contenziosi o di volontaria giurisdizione, ma sono anche quelle spontaneamente accettate o riconosciute dagli altri consociati, pur in assenza di un provvedimento di un’autorità pubblica che le sancisca formalmente. Pure a quest’ultima categoria di conseguenze giuridiche deve ritenersi aperta la previsione “complessiva”. È pertanto opportuno includere nella nozione di “successo predittivo” non solo il caso della previsione di una serie di conseguenze giuridiche coattivamente imposte cui effettivamente segue un provvedimento compreso tra quelli attesi, ma anche il caso della previsione che, tra le varie alternative prospettate, comprende anche conseguenze giuridiche che si producono pacificamente, senza necessità di alcun intervento da parte di organi dotati di potestà coercitiva, quando tale previsione sia effettivamente seguita da una conseguenza giuridica, spontaneamente riconosciuta o coattivamente stabilita, compresa tra le alternative previste.

4.3.l. Il “che cosa” della certezza Ho aperto questo paragrafo ponendo la domanda “che cosa si può prevedere, quando il diritto [o la particolare disciplina giuridica, o la

507

WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., pp. 9091, traduzione mia.

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singola norma] è in qualche misura certo?” Le considerazioni svolte nelle pagine precedenti inducono a proporre una risposta che può essere così riassunta: la gamma delle conseguenze giuridiche effettive che, in virtù di esso, potranno essere ricollegate, spontaneamente dagli altri consociati o coattivamente dagli organi giuridici, agli atti o fatti che i previsori considerano o ipotizzano, nonché l’ambito temporale in cui tali conseguenze, eventualmente, si produrranno. Tale prevedibilità, come detto, reca con sé anche la possibilità di conoscere quali conseguenze giuridiche i consociati e gli organi della coazione non ricondurranno agli atti e ai fatti considerati 508 .

508 Un semplice esempio di previsione complessiva comprendente sia conseguenze giuridiche coatte sia conseguenze giuridiche spontaneamente riconosciute: Wendell H. Badman intende acquistare per corrispondenza dei libri; in base al diritto italiano, egli prevede che versando il prezzo con le modalità indicate dal venditore (atto) otterrà la consegna di quei libri e ne diventerà proprietario in tempi molto ristretti (prima alternativa prevista). Egli prevede anche, nel caso in cui il venditore decida di trattenere il prezzo senza spedire la merce, di poter ottenere un intervento della competente autorità pubblica rivolto a ottenere l’adempimento dell’obbligazione del venditore, un risarcimento del danno e/o una sanzione inflitta all’inadempiente (seconda alternativa prevista). In questo secondo caso, Badman prevede tuttavia di ricevere soddisfazione in tempi più lunghi. (Per la normativa italiana circa la materia della vendita online, cfr. D.Lgs. 22-05-1999, n. 185 (Attuazione della direttiva 97/7/CE relativa alla protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza). Naturalmente, il nostro previsore è anche in grado di prevedere che, a seguito del suo pagamento, non verrà condannato ad bestias, o riconosciuto proprietario dell’Isola di Pasqua o amministratore delegato di una compagnia aerea, così come, qualora si renda necessario l’intervento degli organi coercitivi per ottenere la consegna coatta dei beni, prevede che questi non disporranno la decapitazione del venditore inadempiente o la sua nomina a senatore a vita: la prevedibilità delle varie probabili conseguenze giuridiche delle proprie azioni implica anche la prevedibilità delle complementari conseguenze improbabili. Quando il diritto è molto certo, previsioni di questo genere hanno buona probabilità di realizzarsi. Quando invece il diritto è poco certo, lo scarto tra conseguenze/decisioni ritenute probabili e conseguenze/decisioni ritenute improbabili tende ad assottigliarsi: Badman, contro ogni sua aspettativa, potrebbe così ottenere, in cambio del prezzo pagato per il libro, una condanna per attività sediziosa (si pensi al caso di una polizia politica che sorvegli segretamente i traffici dei cittadini, procedendo all’arresto di quelli che acquistano delle pubblicazioni comprese in un elenco, anch’esso celato al pubblico, di opere sgradite al regime).

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4.4. La certezza del diritto come prevedibilità qualificata nei mezzi e nei metodi (come si prevede) I paragrafi che seguono sono dedicati all’indagine sopra questo problema: come devono potersi prevedere le conseguenze giuridiche ricollegabili ad un atto o a un fatto affinché si possa parlare di certezza del diritto? Una difficoltà che le correnti definizioni della certezzaprevedibilità comportano è legata alla vaghezza e alla genericità del termine “prevedibilità”: esse delegano ai ricercatori che si occupano della rilevazione del grado di certezza dei vari ordinamenti il compito di precisare il significato di questa espressione, col rischio che le loro scelte definitorie non siano esplicitate o, peggio, non siano neanche operate. Se adottiamo senza precisazioni una definizione come «per “certezza del diritto” si intende la possibilità di prevedere le conseguenze [o decisioni, o reazioni] giuridiche ricollegabili ad atti o fatti», ci troviamo infatti di fronte a situazioni a prima vista piuttosto imbarazzanti. Dobbiamo, ad esempio, riconoscere un alto grado di certezza all’ordinamento nel quale la gran parte dei cittadini sia in grado di prevedere con successo le decisioni degli organi giuridici grazie al generalizzato impiego della corruzione o dell’intimidazione dei funzionari che ne fanno parte. La presunta abnormità di questo risultato è all’origine della proposta di considerare la prevedibilità non come sinonimo, ma come semplice sintomo di certezza: la prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle proprie azioni – si afferma – deve essere considerata condizione forse necessaria, ma in ogni caso non sufficiente, di certezza: affinché possa propriamente parlarsi di “certezza del diritto” è necessario affiancare alla prevedibilità delle conseguenze giuridiche dell’azione l’ulteriore condizione della controllabilità delle decisioni giuridiche 509 , definita come la «possibilità di valutare preventivamente, o anche in un momento successivo, la conformità delle scelte particolari ad un criterio generale precostituito» 510 . Gli autori che avallano questa scelta definito509 LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., pp. 271-277; GIANFORMAGGIO, L., Certezza del diritto, Cit., 165-168. 510 «Mentre la certezza-prevedibilità si sostanzia nella possibilità di conoscere determinati fatti empirici prima che questi abbiano luogo, la certezza-controllabilità

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ria affermano che «si ha tanta più certezza quanto più le vie della previsione tendono a coincidere con le vie della giustificazione» 511 . Quando il diritto è molto certo, insomma, possiamo ottenere il quadro delle scelte degli organi giuridici che, talvolta in alternativa tra loro, sono giustificabili in un momento dato 512 . Ma soprattutto – sempre secondo quest’impostazione – le previsioni giuridiche da valutare ai fini della rilevazione del grado della certezza di un dato ordinamento sono esclusivamente quelle ottenute tramite l’impiego di conoscenze sulle norme formalmente valide (qualcosa di simile alle Soll-Sätze della scienza normativa kelseniana, che danno conto soltanto dei criteri generali che devono essere adoperati nelle decisioni giuridiche). Nei prossimi paragrafi sottoporrò ad esame la tesi appena esposta, cercando di mostrare come vi siano buone ragioni per attribuire la qualifica “giuridica” anche alla certezza-prevedibilità conseguita a seguito dell’impiego di informazioni di carattere “fattuale”.

4.4.a. La certezza come prevedibilità conseguibile soltanto mediante la conoscenza delle disposizioni normative Il caso della previsione ottenuta mediante la corruzione o l’intimidazione dei decisori è un esempio di previsione di successo che non solo non viene correntemente ritenuta sintomatica della certezza dell’ordinamento nell’ambito del quale è ottenuta, ma è anzi considerata segno manifesto di incertezza. Sono casi di questo genere a rendere evidente ai più come “certezza del diritto” sia espressione che non può indicare tout court la prevedibilità delle conseguenze/reazioni/decisioni giuridiche, ma soltanto una particolare specie di prevedibilità giuridica. A mio parere, le ragioni di tale lampante evidenza attengono in primo luogo al valore della certezza, o più precisamente alla giustificazione etico-politica che storicamente è stata ad essa attribuita. Fin dal Settecento, la valutazione positiva della situazione di fatto caratterizzata da una diffusa prevedibilità delle decisioni giuridiche muove sia dalla considerazione dei vantaggi che tale prevedibilità si traduce nella possibilità di conoscere le regole giuridiche e di utilizzarle come ragioni giustificanti»; LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., pp. 274-275. 511 LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., p. 282. 512 LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., p. 283.

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comporta, primo tra tutti quello di poter programmare la propria condotta futura tenendo conto delle conseguenze giuridiche che ne potranno derivare, sia dal fatto che tali vantaggi possono, in linea di massima, essere goduti da tutti gli individui. Questa situazione ideale, secondo gli illuministi, può realizzarsi grazie alla diffusione della conoscenza della legge in generale, e dei codici in particolare. Nel pensiero illuminista, infatti, è la semplice pubblicità della legge a garantire l’universale possibilità di anticipare esattamente il contenuto delle singole decisioni giuridiche. Interpretazione, decisione e previsione sono attività “meccaniche” svolte sulla base dello stesso materiale di partenza: una legislazione semplice, esigua e a tutti nota, o comunque accessibile. La decisione, come la previsione, non è “atto di volontà” ma “atto di conoscenza”, e come quella trae le mosse dalla rigorosa interpretazione della legge. Decisore e previsore, pertanto, in quanto agenti razionali che considerano gli stessi fatti e lo stesso materiale normativo, addivengono necessariamente ad un comune risultato; l’individuo, per prevedere le decisioni degli organi giuridici, non deve far altro che consultare i codici, sussumere i fatti considerati entro le opportune fattispecie legali e rilevare quali conseguenze vengono a queste ricollegate dalle norme giuridiche 513 . La certezza del diritto, dunque, nasce come prevedibilità (esatta) conseguita mediante la conoscenza di una legislazione chiara, esigua, completa, coerente e soprattutto pubblica: tutti gli individui possono conoscere la legge, ergo tutti gli individui possono godere del vantaggio della possibilità di programmare strategicamente la propria condotta in modo da tener conto delle conseguenze giuridiche che essa comporta. La conoscenza diffusa della legge, in quanto condizione necessaria e sufficiente di certezza-prevedibilità, è pertanto essa stessa, direttamente, strumento di pianificazione giuridicamente informata della propria condotta 514 .

513

Cfr. TARELLO, G., Storia della cultura giuridica moderna, Il Mulino, Bologna 1976, capitoli VI, VII; BIROCCHI, I., Alla ricerca dell’ordine, cit., capitolo VII. 514 Tale concezione supera pressoché inalterata il diciannovesimo secolo. Savigny, ad esempio, parla di «certezza del diritto, per la quale le leggi sono così benefiche»; cfr. SAVIGNY, K., System des heutigen Romischen Rechts, vol. I, cit., p. 332. Ancora negli anni ’40 del secolo scorso, sebbene siano evidenti i sintomi di una “crisi del diritto”, la certezza del diritto continua ad essere considerata come certezza della legge; cfr. LOPEZ DE OÑATE, F., La certezza del diritto, cit., pp. 77 segg.

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Abbiamo visto come Kelsen abbia fatto piazza pulita di questa concezione ingenua della certezza 515 . L’idea di un ordinamento dinamico, in cui gli atti di grado inferiore non sono mai completamente determinati da quelli di grado superiore, è incompatibile con l’affermazione di un’infallibile prevedibilità giuridica. È merito di Kelsen se, nel Novecento, il mito della conoscenza della legge come condizione necessaria e sufficiente di prevedibilità delle reazioni giuridiche è diffuso solo tra i giuristi meno avveduti. Eppure, nonostante la rovina teorica dell’ideale della certezza assoluta, deve ancora oggi registrarsi la sopravvivenza delle istanze etico-politiche che ad esso, per secoli, si sono accompagnate. La possibilità diffusa di programmare i propri comportamenti futuri tenendo conto della valutazione che di essi darà l’ordinamento giuridico continua ad essere considerata un obiettivo degno di essere perseguito, e il nesso teleologico che lega la certezza del diritto a tale bene, sul piano etico-politico, sussiste ancora. Non a caso, le critiche che vengono rivolte alla certezza non riguardano tanto la sua opportunità etico-politica, quanto la sua (piena) attuabilità 516 . Insomma, malgrado l’abbandono delle sue versioni “potenti”, il concetto di certezza è tuttora rimasto informato all’idea di una prevedibilità pubblica, un bene che può essere goduto da tutti o non è. Nell’ideale illuminista, un risultato del genere è assicurato dal carattere pubblico della legge e dalla sua universale conoscibilità, ed in effetti ancora oggi persiste, specialmente tra gli autori di indirizzo giuspositivista-normativista, l’idea di una prevedibilità che, per poter essere definita “certezza giuridica”, deve potersi conseguire soltanto per mezzo della conoscenza delle norme positive. Claudio Luzzati, che recentemente ha affrontato ex professo la questione, sostiene ad esempio che, affinché possa parlarsi di “certezza del diritto”, è necessario che le previsioni abbiano luogo «sulla base delle norme ricavabili dalle disposizioni giuridiche, che sono leggi poste dall’uomo, e non sulla base delle nostre eventuali conoscenze dei meccanismi psico-sociali» 517 o «su considerazioni storico-politi515

Vedi supra, § 2.2.a. A questa categoria di critiche appartengono quelle dello stesso Kelsen, che rivolge i suoi strali polemici non contro la certezza del diritto relativisticamente intesa, che anzi è da lui considerata socialmente utile, bensì contro l’ideale fuorviante di una prevedibilità assoluta. Cfr. supra, § 2.2.l. 517 LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., p. 264. 516

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che» 518 . Concezioni del genere tendono ad includere nella nozione di certezza giuridica soltanto la prevedibilità conseguita mediante informazioni “giuridiche” in senso stretto, escludendo qualsiasi impiego di conoscenze “fattuali”, anche laddove quest’esclusione pregiudichi o diminuisca le capacità predittive degli individui 519 . Per dirla col solito slogan: il diritto è certo solo se può prevedersi mediante il diritto; il che è come dire che di certezza giuridica può parlarsi solo quando il diritto, nelle sue individualizzazioni concrete, si prevede utilizzando conoscenze circa le norme giuridiche valide (in un senso vicino a quello kelseniano). Le altre forme di prevedibilità giuridica, in particolare quelle caratterizzate dall’impiego di conoscenze meramente fattuali, eccedono invece dall’alveo concettuale della certezza del diritto propriamente detta.

4.4.b. Critica: una certezza servente rispetto alla pianificabilità giuridicamente informata della condotta individuale A mio parere, concezioni “strette” della certezza come quella appena indicata, piuttosto che su giustificazioni di carattere eticopolitico, tendono a fondarsi su pregiudizi teorici. La limitazione della certezza alla prevedibilità conseguita tramite la conoscenza delle disposizioni normative non è giustificata facendo riferimento al presunto carattere strumentale di queste informazioni rispetto al conseguimento di qualche bene, ad esempio quello della diffusa possibilità di programmare la propria condotta in modo giuridicamente informato, bensì traendo le mosse dall’idea che, se si parla di certezza come attributo del diritto, allora solo la conoscenza di ciò che scaturisce dalle sue fonti, e nient’altro, deve essere considerata come base per la previsione. Diversamente, qualora pure la prevedibilità delle possibili decisioni giuridiche fosse molto elevata, non potremmo parlare

518

LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., p. 273. Claudio Luzzati, in una comunicazione privata, ha peraltro precisato che anche le previsioni ottenute grazie alla conoscenza degli indirizzi giurisprudenziali consolidati, sia pure in un ordinamento come quello italiano che non riconosce lo stare decisis, concorrono alla certezza del diritto. Ciò sempre che tali indirizzi non fuoriescano dallo schema legislativo: in questi casi dovrà darsi preferenza alla legge. Le decisioni dei giudici, nell’opinione dell’autore, non debbono pertanto essere considerate come un puro fatto. 519

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di certezza giuridica. Concezioni del genere, più che alla prevedibilità delle concrete decisioni giuridiche (sentenze giudiziali, decisioni amministrative ecc.), paiono riferire l’espressione “certezza del diritto” ad una qualche caratteristica intrinseca delle norme generali e astratte che faciliti la prevedibilità delle loro individualizzazioni nei casi concreti. In questo senso, quando si dice che “il diritto è certo”, si vuol significare soprattutto che le norme di quel diritto presentano delle qualità tali da facilitare la predeterminazione ed il controllo delle valutazioni che gli organi giuridici di grado relativamente inferiore devono ricollegare ai comportamenti umani e/o ad accadimenti naturali. “Certezza del diritto” diventa allora sinonimo di “chiarezza” o “rigore” delle disposizioni nelle quali le norme sono consacrate, di “mancanza di antinomie”, di “irretroattività”, di “stabilità della normazione” ecc. 520 . Due ragioni, a mio modo di vedere, rendono tuttavia sconsigliabile una scelta definitoria come quella appena indicata. In primo luogo, l’esame degli usi linguistici correnti rivela che l’espressione “certezza del diritto” contiene frequentemente un riferimento diretto alla situazione in cui è dato prevedere un Sein giuridico. Perfino il normativista Kelsen, come abbiamo visto, parla di certezza del diritto non riferendosi a qualità particolari delle norme giuridiche, bensì in termini di prevedibilità della soluzione dei casi concreti, idonea ad agevolare gli individui nella programmazione delle proprie scelte pratiche 521 . “Certezza del diritto”, dunque, nell’uso (più) consueto indica una situazione di fatto caratterizzata da una possibilità, più o meno diffusa ed estesa, di prevedere dei fatti che accadono in forza del diritto, e che producono delle conseguenze nella vita degli individui. Tutte le volte in cui si adoperi tale espressione come sinonimo di “prevedibilità giuridica” è pertanto a mio parere opportuno aver chiaro che ci si riferisce non, direttamente, ad una caratteristica delle norme del diritto, bensì ad una disposizione, propria di determinati individui, alla previsione di determinati eventi tramite l’impiego di determinati metodi e informazioni. In questo senso “chiarezza”, “sta520

Cfr. supra, § 1.4. Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., pp. 282-283. Caratteristiche delle norme quali la chiarezza e la determinatezza, in questo senso, sono mezzi per realizzare «il massimo grado di certezza del diritto», e dunque rimangono esterne al concetto di certezza (cfr. ibidem, 390). 521

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bilità”, “irretroattività” ecc. sono tutti concetti esterni e distinti da quello di “certezza”. Essi semmai fanno riferimento a circostanze, condizioni di fatto o mezzi necessari per realizzare un dato (o un più elevato) grado di certezza, intesa appunto come disposizione alla previsione 522 . Naturalmente, la scelta di parlare di certezza giuridica in termini di situazione di fatto in cui si prevedono fatti non può essere giustificata solo adducendo l’auctoritas di una tradizione che oltretutto, come abbiamo visto, contempla numerose eccezioni. La seconda e più importante ragione che mi spinge ad abbracciare una prospettiva fattuale nella (ri)definizione della certezza del diritto risiede dunque nel convincimento secondo cui questa nasce, e presenta interesse, solo come concetto correlato alla possibilità degli individui di pianificare le proprie scelte pratiche in modo da tener conto delle conseguenze giuridiche concrete cui esse possono condurre. È del resto a questa funzione servente rispetto alla pianificazione strategica della condotta individuale che si ricollega la valutazione ordinariamente positiva della (elevata) certezza giuridica. Se si adotta questo assunto di partenza, si misurerà la “certezza del diritto” semplicemente in base alla diffusione e alla portata della capacità predittiva degli individui, giacché maggiore è questa capacità, maggiori sono le possibilità di programmare la propria condotta tenendo conto delle conseguenze giuridiche (riconosciute come tali dagli altri consociati o imposte dagli organi considerati giuridici) che presumibilmente ne deriveranno 523 . Il ricercatore, ai fini della rilevazione del tasso di certezza di un dato ordinamento, potrà dunque limitarsi a considerare la frequenza dei successi e l’accuratezza delle previsioni raccolte, disinte-

522

Cfr. supra, § 1.4. A mio parere, l’adozione di una prospettiva fattuale in tema di certezza giuridica non implica necessariamente una visione giusrealista del problema del concetto del diritto. È cioè possibile parlare di certezza in termini di prevedibilità di un sein giuridico, riconoscendo che tale definizione è l’unica compatibile con il carattere servente della certezza rispetto al bene della pianificabilità giuridicamente informata della propria condotta, eppure mantenere le proprie preferenze per una concezione – ad esempio – normativista del diritto. L’esempio migliore di questo atteggiamento è dato, come abbiamo visto, da Kelsen, principale fautore della distinzione tra conoscenza del Sollen e previsione del Sein, e tuttavia assertore di una concezione di certezza del diritto come prevedibilità della soluzione dei casi concreti funzionale alla programmazione delle proprie scelte pratiche. 523

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ressandosi degli strumenti conoscitivi di cui i previsori si sono avvalsi nell’elaborazione di tali previsioni: tutto ciò che migliora le nostre facoltà di programmazione delle scelte pratiche individuali aiutandoci a prevedere un Sein giuridico futuro dovrà infatti ritenersi, nella prospettiva adottata, strumentale alla certezza del diritto. Una volta adottata questa scelta definitoria – e quindi tutte le volte in cui si intenda parlare di certezza come disposizione diffusa alla previsione giuridica – l’adozione di una concezione limitata alla prevedibilità conseguibile mediante la sola conoscenza delle disposizioni del diritto valido appare invece carente sul piano dell’opportunità 524 . Ho anzi l’impressione che tale limitazione abbia lo stesso carattere vestigiale della disposizione “QWERTY” delle tastiere dei computer: viene tuttora mantenuta per convenzione, per comodità, o comunque per ragioni diverse rispetto a quelle che avevano determinato la sua introduzione 525 . Intendo dire che la limitazione aveva un senso quando si riteneva che la certezza, con la connessa possibilità di pianificazione giuridicamente informata della propria condotta, fosse davvero garantita in toto dalla conoscenza delle disposizioni normative (della legge, dei codici). Una volta disvelato il carattere mitico di questa prospettiva, non resta che scegliere tra queste due possibilità: o espungere definitivamente dai nostri discorsi l’espressione “certezza del diritto”, degradando il relativo concetto al rango di reperto da museo delle antichità filosofiche, o elaborare delle proposte che consentano di sottrarlo alle facili ironie dei giuristi pratici (e dei teorici d’assalto). Siamo oggi dolorosamente consapevoli della divaricazione esistente tra certezza (data dalla conoscenza) del diritto formalmente valido ed effettiva possibilità degli individui di prevede-

524

Così anche MARINELLI, V., Dire il diritto, cit., p. 143. «La disposizione QWERTY non ha una spiegazione razionale, ma soltanto una spiegazione storica. Fu introdotta in risposta a un problema che si aveva agli inizi della dattilografia: i tasti vicini si inceppavano. L’idea fu di minimizzare il problema di collisione separando i tasti che corrispondono alle lettere che sono spesso vicine […] una volta adottato, il sistema generò molti milioni di macchine da scrivere e […] il costo sociale di un cambiamento aumentò insieme all'interesse acquisito creato dal fatto che a quel punto le dita sapevano come attenersi alla tastiera QWERTY. QWERTY si è mantenuto a dispetto dell'esistenza di altri sistemi, più “razionali”»; PAPERT, S., Mindstorms: Childrens, Computers and Powerful Ideas, Basic Books, New York 1980, trad. it. Mindstorm: bambini, computers e creatività, Emme, Milano 1984. 525

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re le concrete conseguenze giuridiche della propria condotta. La rinuncia ad avvalersi di informazioni di carattere fattuale comporta ad esempio degli indubbi deficit di prevedibilità sui tempi delle reazioni dell’ordinamento (che abbiamo visto rientrare nel “che cosa” delle previsioni il cui successo sostanzia la certezza giuridica), con ovvi svantaggi per la pianificabilità giuridicamente informata della propria condotta e per l’accuratezza delle previsioni giuridiche in genere. In Italia, ad esempio, i termini processuali hanno spesso carattere meramente ordinatorio, e ciò esclude la possibilità di prevedere la durata di un procedimento basandosi soltanto su informazioni riguardanti le norme che li stabiliscono. Eppure, per le ragioni già viste, delle precise, pubbliche e attendibili informazioni circa la durata dei processi possono essere ritenute funzionali alla certezza del diritto nonostante il loro carattere “fattuale”, in quanto mettono gli individui nelle condizioni di calcolare, almeno approssimativamente, i tempi delle reazioni dell’ordinamento a determinati atti o accadimenti 526 . Di questa informazione essi possono dunque tener conto nel perseguimento dei loro obiettivi (personali, professionali ecc.); non possono invece tener conto di alcuna informazione se basano le loro stime soltanto sulla considerazione dei termini ordinatori previsti dai nostri codici di procedura (termini che anzi, in assenza dell’informazione circa la loro regolare inosservanza, potrebbero indurre i previsori ad attendersi, del tutto vanamente, una rapida conclusione dei procedimenti di cui intendono prevedere l’esito) 527 . Ancora più rilevante per il nostro discorso è che continuare a parlare di certezza come prevedibilità che esclude l’impiego di qualsiasi conoscenza “di fatto”, ci rende tanto prigionieri dei nostri stessi dogmatismi da costringerci perfino a negare l’evidenza della funzione certificante dell’adesione delle decisioni giuridiche agli indirizzi giurisprudenziali consolidati. Abbiamo visto, e vedremo ancora meglio, come la considerazione dei precedenti giudiziali possa essere funzionale alla certezza, dato che consente di restringere l’ambito 526

Vedi supra, § 4.3.g. Il problema è che, in Italia, spesso non si possono basare le proprie stime sulla durata dei processi neanche su delle regolarità di fatto. Due procedimenti dello stesso tipo, della stessa complessità, iniziati nello stesso periodo perfino presso il medesimo ufficio giudiziario, per ragioni del tutto misteriose possono concludersi a distanza di diversi anni l’uno dall’altro. 527

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delle alternative decisorie prevedibili. Non a caso, numerosi sono gli autori che si esprimono a favore della funzione certificante del precedente, e non solo nei contesti dottrinali afferenti al common law e al diritto giurisprudenziale 528 . Eppure, nel diritto italiano e in tutti gli ordinamenti che non riconoscono lo stare decisis, le informazioni circa le regolarità delle decisioni derivanti dall’adesione agli indirizzi stabiliti dalle corti superiori vanno catalogate come fattuali: i giudici, di fatto, e cioè in assenza di una norma giuridica che lo prescriva, tendono per lo più ad attenersi alle interpretazioni formulate da (organi giurisdizionali equivalenti a) la Corte di Cassazione o alle soluzioni che si sono consolidate nella prassi 529 . Ma allora, se la giurisprudenza è questione di fatto e non di diritto, perché non impiegare a fini predittivi le conoscenze circa altri fatti, o meglio circa altre regolarità decisionali di fatto? Si potrebbe rispondere che la certezza è del diritto, e che anche la giurisprudenza, specie se consolidata e non contra legem, è fonte del diritto, sia pure in ordinamenti che non riconoscono lo stare decisis 530 . Anche in questo modo, però, non si giustifica fino in fondo la scelta di limitare la nozione di certezza alla prevedibilità del diritto valido mediante il diritto valido. O, infatti, su un piano di coerenza con la dottrina pura kelseniana che va persino al di là delle intenzioni 528 Vedi ad esempio COTTA, S., Certezza di essere nel diritto, cit., p. 79; GORLA, G., Raccolta di saggi sulla interpretazione e sul valore del precedente giudiziale in italia, in Quaderni del foro italiano, Roma 1986; MARINELLI, V., Dire il diritto, cit., pp. 140-142, 144-149.; MAZZAMUTO, S., Di enforcement del precedente, in Politica del diritto, a. XXXIV, n.2, giugno 2003, pp. 157-176. 529 Vero è che nello specifico caso italiano l’utilità predittiva di tali conoscenze è limitata dalle frequenti oscillazioni giurisprudenziali, dalle divergenze tra le varie sezioni della Corte di Cassazione oppure all’interno della stessa Corte a sezioni unite. Naturalmente, il frequente overruling del precedente comporta dei deficit per la certezza, giacché pregiudica il successo e l’accuratezza delle previsioni elaborate tenendo conto anche degli indirizzi giurisprudenziali (che si ritenevano ormai) consolidati. In questo senso, si può condividere l’affermazione per cui il grado della certezza-prevedibilità può essere incrementato attraverso la razionalizzazione e il rafforzamento della funzione nomofilattica della S.C (così MAZZAMUTO, S., Di enforcement del precedente, cit., pp. 157-176). 530 Non a caso, lo stesso Luzzati, dopo aver ribadito che la certezza del diritto comporta la rinuncia ad impiegare le informazioni puramente fattuali anche laddove queste potrebbero essere utili ad anticipare meglio ciò che accadrà, precisa che tra queste informazioni non rientrano i precedenti giurisprudenziali consolidati; cfr. LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., p. 283.

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del suo stesso autore, si rinuncia a parlare di certezza come prevedibilità, ripiegando sulla mera conoscibilità, nel mondo del Sollen, delle conseguenze imputabili ad una determinata fattispecie, oppure si prende sul serio l’idea che i previsori possano, sia pure solo a certe condizioni e in modo generico, anticipare le conseguenze giuridiche di fatto riconosciute dagli altri consociati (tra cui i giudici) ad atti o fatti considerati nella loro dimensione concreta. Ma allora, ancora una volta, se ciò che si prevede è un fatto giuridico, non si vede perché, per la sua previsione, non possano essere adoperate anche conoscenze di carattere “fattuale” 531 . Chi vuol parlare di certezza come prevedibilità, insomma, deve intenderla come disposizione diffusa alla previsione (sia pure in qualche misura generica) del diritto effettivo conseguita anche mediante l’impiego di conoscenze fattuali. Quest’ultima concezione, per quanto insopportabilmente “realista” agli occhi del giuspositivista più intransigente, consente di ripristinare l’ormai screditato valore della certezza, rendendola davvero funzionale alla pianificazione strategica delle scelte pratiche individuali, e dunque al perseguimento degli obiettivi personali o professionali dei previsori. Si riconduce in tal modo il concetto di certezza giuridica alla sua matrice originaria, resuscitandolo da una morte teorica più volte annunciata, con preoccupazione da alcuni, con soddisfazione da altri.

4.4.c. Una pianificabilità strumentale all’autonomia dei previsori Le concezioni “strette” sul piano del come della prevedibilità, a mio parere, finiscono per tradire la tradizione da cui pure scaturiscono. Esse non tengono adeguatamente conto della dimensione storico-politica della certezza giuridica, facendo dimenticare che questa nasce ab ovo proprio come valore strumentale al bene della possibilità di programmare la propria condotta tenendo conto delle conseguenze giuridiche che ne potranno derivare. Mi domando allora se non sia opportuno riformare il concetto di certezza del diritto in modo da riportarlo alla sua ratio originaria: la funzionalità della previ531 È del resto lo stesso positivismo kelseniano ad ammettere espressamente questa possibilità (sfruttata peraltro piuttosto dalla giurisprudenza sociologica che da quella normativa; cfr. supra, 2.2.d.; § 2.2.e.).

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sione rispetto agli obbiettivi dell’azione individuale, con particolare riferimento, appunto, alla possibilità di pianificare la propria esistenza in modo giuridicamente informato e consapevole. In questo modo la certezza viene ricondotta al suo ruolo strumentale, servente, rispetto all’autonomia dell’individuo, inteso come soggetto «capace di elaborare piani a lungo termine per la sua vita, capace di valutare e decidere sulla base di principi astratti o considerazioni formulate da sé e non semplicemente nella veste di fantoccio preda dei propri stimoli immediati; un essere che limita il proprio comportamento in accordo con alcuni principi o con ciò che si figura essere una vita appropriata per sé e per gli altri, e così via» 532 . Il contributo della certezza all’autonomia consiste appunto nel rendere più consapevoli e informate le decisioni «che nel corso del tempo contribuiscono a dare una forma complessiva alla nostra vita (ai nostri occhi e a quelli altrui)», e dunque nel garantirci una posizione più adeguata a «compiere delle scelte sulla base della forma che vogliamo dare alla nostra vita e degli obbiettivi che intendiamo perseguire» 533 . Ecco perché, a mio parere, è preferibile indicare con la locuzione “certezza del diritto” una sia pure limitata, relativa, generica prevedibilità delle conseguenze giuridiche ricollegabili ad atti o fatti determinati, qualunque sia il mezzo impiegato per la previsione. Si tratta, è vero, più che di una certezza del diritto, di una certezza degli individui sul diritto, ove col termine “diritto” non ci si riferisce tanto alle norme valide, generali ed astratte, ma agli atti che individualizzano queste nei casi concreti (sentenze, decisioni amministrative ecc.), oppure alle conseguenze che, pur in assenza di provvedimenti dell’autorità, vengono riconosciute come “giuridiche” dagli altri consociati, e come tali spontaneamente ricollegate a determinati atti o fatti 534 . Più membri della collettività considerata riescono a prevedere questo diritto (sia pure attraverso delle previsioni a carattere alternativo, come si è visto), e maggiore è l’accuratezza e l’attendibilità di queste previsioni, più è alto il grado di certezza giuridica, e ciò indipendentemente dal 532 NOZICK, R., Anarchy, State and Utopia, Basil Blackwell, Oxford, p. 49, traduzione mia. 533 WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., p. 85, traduzione mia (con qualche minima variazione). 534 Una certezza degli individui, dunque, su quello che costoro ritengono essere diritto.

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fatto che per l’elaborazione delle previsioni si impieghino conoscenze su disposizioni normative, opere dottrinali, raccolte giurisprudenziali o altro. In questo senso, come abbiamo visto, chiarezza, coerenza, irretroattività delle norme non sono sinonimi di certezza, ma soltanto elementi che, di fatto, possono contribuire al suo incremento.

4.4.d. La certezza come prevedibilità conseguita mediante qualsiasi informazione disponibile L’idea di una prevedibilità conseguita mediante mezzi antigiuridici, quali minacce, intimidazioni, tangenti, rapporti di amicizia coi decisori ecc., desta di norma una repulsione tale da non far dubitare neanche per un attimo che non a questa prevedibilità faccia riferimento chi parla di “certezza giuridica”. Tuttavia, si può sostenere che la scelta di limitare la nostra definizione alla prevedibilità conseguita mediante la conoscenza delle disposizioni giuridiche non può essere giustificata sic et simpliciter facendo riferimento alla necessità di escludere dal suo ambito questi casi manifestamente patologici. In tal modo, come abbiamo visto, dovremmo infatti escludere dalla nozione di certezza anche la prevedibilità ottenuta mediante conoscenze che, nonostante il loro carattere “fattuale” sono utili per una previsione complessiva più attendibile e/o accurata; si pensi all’analisi degli indirizzi giurisprudenziali consolidati in ordinamenti, come quello italiano, che non riconoscono formalmente il principio dello stare decisis, o alle informazioni sui tempi delle decisioni giuridiche. Il carattere manifesto dell’incompatibilità tra certezza del diritto e prevedibilità giuridica ottenuta con minacce o lusinghe non dipende dunque dal carattere “fattuale” o “antigiuridico” di queste, bensì, ancora una volta, dalla tradizionale giustificazione della certezzaprevedibilità come situazione strumentale al bene della possibilità, godibile da tutti i membri della comunità, di programmare la propria condotta futura tenendo conto delle sue possibili conseguenze giuridiche. Si consideri, infatti, che minacce, episodi di corruzione, rapporti di amicizia o clientela coi decisori ecc. rivestono, almeno di solito, carattere occasionale, riservato e personale. Solo chi sfrutta questi mezzi o rapporti, i suoi complici e pochi altri soggetti che accidentalmente ne vengono a conoscenza, sono in grado di tenerne conto a fini predittivi. Le informazioni circa l’occorrenza, il tenore, l’efficacia, il successo delle intimidazioni o della corruzione sono solitamente sottratte a qualsiasi possibilità di conoscenza da parte del

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pubblico, diversamente da quanto ordinariamente accade per le disposizioni normative o per le decisioni giudiziali. Tali informazioni, inoltre, riguardano eventi che occorrono di norma solo in un tempo relativamente vicino all’atto che si intende prevedere (nell’ambito della decisione giudiziaria, ad esempio, i corruttori e gli autori delle minacce devono almeno conoscere il nome di coloro che, nella veste di giudici, giurati ecc., svolgeranno un ruolo nella deliberazione che si vuole influenzare). Ma allora, ciò che per gli autori delle minacce e per i corruttori è strumento di pressione-previsione, per gli altri membri della collettività considerata costituisce elemento di disturbo, in quanto si introducono nella procedura che conduce alla decisione da prevedere degli elementi di cui non è possibile tenere conto nel momento in cui si elabora la previsione stessa, specialmente quando questo è anteriore all’occorrenza dell’atto o del fatto di cui si intendono valutare le conseguenze. L’informazione per cui il giudice Tizio ha accettato di buon grado una tangente per risolvere un caso di omicidio con l’assoluzione dell’imputato, può essere sfruttata dai corruttori per prevedere con una certa sicurezza che non vi sarà, in effetti, alcuna condanna, ma tutti gli altri previsori saranno esposti a maggiori rischi di insuccesso predittivo (in quanto, ignorando la corruzione, e basandosi soltanto sull’evidenza della responsabilità dell’accusato, abbiano magari incluso nella previsione complessiva soltanto sentenze di condanna). Le illecite ed occulte interferenze sulla decisione giuridica, a fronte dell’incremento delle capacità predittive di pochi (i corruttori e chi è a conoscenza dell’avvenuta corruzione) fanno dunque registrare un decremento delle capacità predittiva di tutti gli altri membri della collettività. Dato che, come vedremo, la misura della certezza è data anche dal grado di diffusione della capacità predittiva entro la classe di previsori considerata, bisogna concludere che in questi frangenti, salvo casi del tutto particolari (di cui fornirò un esempio in questo stesso paragrafo), la certezza giuridica, complessivamente, decresce. È pertanto questa inaccessibilità da parte del pubblico alle informazioni circa l’occorrenza e le chances di successo di tali mezzi di pressione, la vera ragione per cui, correntemente, esse si ritengono escluse dal novero degli strumenti ammissibili per conseguire quella prevedibilità giuridica che si fa ricadere entro la nozione di “certezza del diritto”. Corruzione, intimidazioni, rapporti di amicizia o inimicizia ecc., finiscono per recar danno alla corretta previsione delle reazioni degli organi giuridici solo perché introducono nel processo de-

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cisionale delle turbative non pubblicamente conoscibili ex ante, e non a cagione del carattere “fattuale” o illegale delle informazioni che le riguardano. Anzi: ove tali informazioni siano accessibili a tutti gli individui della collettività considerata, esse non solo non comportano alcuna diminuzione della certezza del diritto intesa come prevedibilità, ma possono essere sfruttate per ottenere previsioni più sicure e/o accurate. Si consideri, infatti, questo caso immaginario: La Repubblica di Santa Rosalia ha un ordinamento giuridico estremamente razionale e garantista. Tuttavia, di fatto, le autorità pubbliche sono totalmente controllate da persone appartenenti ad un’organizzazione criminale denominata “Onorata società”, i cui affiliati rappresentano ben il 30% della popolazione. I giudici, in particolare, pur operando sotto l’apparenza della legalità, violano sistematicamente le norme sostanziali e processuali, decidendo sempre le cause civili e penali in modo da avvantaggiare le parti che aderiscono alla suddetta organizzazione criminale. I membri di quest’ultima, peraltro, sono talmente sicuri del proprio potere da esibire sfrontatamente la loro qualità di affiliati, che dunque è di dominio pubblico.

In uno scenario come quello appena dipinto, la soggezione dei decisori a forme di corruzione o di intimidazione è notoria. Ma se è così, questa informazione si può essere usata per prevedere che, laddove si entri in causa con un affiliato all’organizzazione criminale, il risultato sarà la sconfitta; che, ove si quereli l’affiliato a seguito della sua commissione di un reato, il relativo procedimento si concluderà col proscioglimento dell’imputato (e sarà eventualmente seguito da altre ritorsioni contro il querelante), e gli esempi potrebbero continuare. Si tratta, senz’altro, di uno scenario aberrante. Tuttavia tale aberrazione appare pregiudizievole per la certezza del diritto solo a chi abbia impropriamente caricato quest’ultima di valutazioni positive ulteriori rispetto alla sua strumentalità alla miglior pianificazione delle scelte pratiche, quasi come si trattasse di un altro modo per de-

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finire la giustizia 535 . Si dimentica così che se un sistema giuridico è iniquo, la certezza del diritto diventa certezza di iniquità 536 . Un discorso analogo può esser fatto per ciò che riguarda l’esclusione dall’ambito della certezza delle previsioni ottenute considerando quelle regolarità che “di fatto” influenzano le decisioni giuridiche e che tuttavia sono conoscibili solo da una cerchia ristretta di individui: le preferenze politiche dei decisori, la loro indole personale, i loro “stili” di decisione ecc. Gli avvocati adoperano quotidianamente alcune di queste informazioni nell’elaborazione delle strategie d’azione funzionali a perseguire l’interesse dei loro clienti: Chi frequenta il Palazzo di Giustizia della città di Arkham (e i bar ad esso prospicienti) sa che il giudice X è particolarmente propenso a disporre generosi risarcimenti per i danni del tipo Y: ecco che le richieste risarcitorie avanzate per i danni di tale categoria saranno più cospicue quando ad essere investito della decisione sul caso è proprio quel giudice. Il tale avvocato matrimonialista ha rilevato che i giudici del foro di Milano, in caso di separazione, tendono ad assegnare i figli minori al marito più spesso che non i giudici del foro di Roma: ecco che il cliente interessato a ottenere l’affidamento riceverà il suggerimento di adottare le misure necessarie a far sì che siano i primi, e non i secondi, ad essere investiti della competenza sul caso.

535 Lo stretto rapporto tra certezza e giustizia sostanziale, come abbiamo visto, caratterizza le teorie della certezza di Massimo Corsale e di Aulis Aarnio (vedi supra, §§ 2.3.a; 2.3.f). Più interessato alla relazione tra certezza e giustizia formale è invece LOPEZ DE OÑATE, La certezza del diritto, cit., pp. 173-177. 536 È stato peraltro sostenuto che la certezza dell’iniquità, ovvero la sua prevedibilità, è sempre preferibile all’iniquità imprevedibile: la rigorosa e prevedibile applicazione di regole ingiuste reca infatti con sé il vantaggio che «coloro che sono ad esse soggetti almeno sanno ciò che è loro richiesto e possono tentare di proteggersi di conseguenza» (RAWLS, J., A Theory of Justice, Oxford University Press, Oxford 1971, trad. it. Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982, p. 65). Dello stesso avviso anche LOPEZ DE OÑATE, La certezza del diritto, cit., p. 147: «E tanto la coscienza comune aspira alla certezza come pace che il diritto garantisca e mantenga, che il suo grido è pervenuto perfino ai filosofi e ai giuristi, i quali esplicitamente confermano che è migliore un ordinamento in sé peggiore ma certo, nei confronti di un ordinamento che sia formalmente o sostanzialmente migliore, ma non realizzi il beneficio della certezza».

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Potremmo chiamare queste conoscenze relative al modo in cui il diritto è di fatto applicato nei contesti particolari “conoscenze giuridiche private” 537 . Anche qui, l’unico argomento che giustifica la loro tradizionale esclusione dal novero degli elementi valutabili ai fini della previsione che concorre a determinare la certezza del diritto è la loro normale inaccessibilità da parte del pubblico nel tempo in cui le previsioni vengono elaborate. Se tali informazioni fossero invece pubblicamente disponibili nel momento in cui gli individui, nel pianificare una certa linea di condotta, si interrogano circa le conseguenze giuridiche delle loro azioni, non vi sarebbe, a mio parere, alcuna ragione per stabilire tale esclusione. Qualcuno potrebbe peraltro sostenere che le conoscenze giuridiche vertenti su regolarità de facto osservabili in contesti (spaziali, temporali, personali) particolari, non sono sfruttabili per le previsioni giuridiche il cui successo sostanzia la certezza non già a causa della loro (normale) inaccessibilità ai previsori, bensì a causa del loro dar conto di criteri decisionali applicati in modo disomogeneo, dal punto di vista territoriale o gerarchico: «potrebbe allora accadere che il tribunale della città A decida notoriamente e prevedibilmente i casi che ricadono sotto una data fattispecie astratta in un modo, mentre il tribunale della città B decida, altrettanto notoriamente e prevedibilmente, i casi dello stesso tipo in un modo diverso. Oppure potrebbe verificarsi un aperto conflitto fra la giurisprudenza di merito e quella di legittimità o fra gli orientamenti consolidati dei tribunali di un particolare distretto e quelli della relativa corte d’appello» 538 . Vi sarebbe così una prevedibilità meramente locale, «non generale, confinata alle reazioni di taluni organi soltanto», indice del fatto che non si è

537 Giovanni Sartor distingue tra “conoscenza giuridica pubblica”, accessibile in testi pubblicamente disponibili quali gazzette ufficiali, repertori giurisprudenziali, scritti dottrinali, ecc., e “conoscenza giuridica privata”, legata all’esperienza dell’operatore giuridico sul concreto funzionamento delle istituzioni giudiziarie e amministrative, in particolare nella sua circoscrizione (SARTOR, G., Le applicazioni giuridiche dell’intelligenza artificiale, Giuffrè, Milano 1990, pp. 170-171). L’autore afferma tra l’altro che non v’è ragione per escludere le conoscenze relative alla pratica dalla base di conoscenze di un sistema esperto giuridico rivolto alla previsione, specialmente ove tali conoscenze siano pubblicamente accessibili: «Nello sviluppo di un sistema informatico-giuridico intelligente si debbono utilizzare tutte le conoscenze pubbliche disponibili» (ibidem, corsivo mio). 538 LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., p. 273.

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ancora affermato un criterio generale di giudizio che permetta di giudicare in modo simile tutti i casi simili. Tale prevedibilità “locale” sarebbe del tutto estranea alla certezza del diritto 539 . Anche questa obiezione andrebbe a mio parere rigettata. La prevedibilità di decisioni circoscritte ad un ambito territoriale o gerarchico particolare è davvero “meramente locale” solo se le informazioni rilevanti ai fini della previsione sono accessibili soltanto ad un gruppo limitato di previsori della classe considerata (magari, tra i giuristi pratici, solo a quelli che operano presso un determinato distretto, o, tra gli avvocati, solo ai “cassazionisti”), e non quando essa si riferisce alle decisioni adottate da organi determinati o in contesti particolari: pure queste decisioni possono essere previste dalla generalità dei previsori considerati, a patto che essi possano accedere alle conoscenze circa i fattori che le determinano. Ciò che conta per la certezza, dunque, è la diffusione di tali conoscenze tra i previsori considerati, non il carattere (più o meno) territorialmente o gerarchicamente omogeneo dei criteri di decisione adoperati. Le conoscenze diffuse tra i previsori circa le regolarità de facto riguardanti il modo in cui in contesti (spaziali, temporali, personali) particolari è applicato il diritto, possono dunque essere considerate alla stessa stregua di norme che presentano un basso livello di generalità e/o astrattezza; quest’ultimo non ostacola, di per sé, la prevedibilità delle loro applicazioni ai casi di specie. La prevedibilità e la possibilità di pianificazione delle proprie scelte pratiche, infatti, non richiedono necessariamente la conoscenza di norme disciplinanti classi ampie di comportamenti, rivolte a classi ampie di destinatari: una regolarità relativa ad un contesto particolare (il determinato Tribunale, la data Amministrazione), se è salda e ben conosciuta, può costituire base per la pianificazione delle nostre vite, esattamente come una regolarità universalmente valida 540 . In linea di principio, dunque, nulla vieta di considerare ai fini della valutazione della mi539

Cfr. LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., p. 273. «Una legge che prevede che solo una particolare persona può essere sottoposta a detenzione può ben essere promulgata e presa in considerazione da quella persona e da altri ai fini dell’organizzazione delle loro vite». Cfr. WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., pp. 81 (traduzione mia), 82. D’altra parte, norme molto generali e astratte possono rendere qualsiasi pianificazione vana, se esse non sono stabili e ben note; cfr. ibidem, p. 82; LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., p. 273. 540

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sura della certezza le previsioni ottenute, ad esempio, attraverso la consultazione di una pubblicazione, magari aggiornata periodicamente, che censisca gli “stili” decisori dei singoli magistrati operanti nelle varie circoscrizioni in cui è ripartito il territorio nazionale. Concludendo: la nozione di certezza giuridica de facto che siamo venuti fin qui elaborando implica che le informazioni che possono essere incluse nel novero di quelle utilizzabili ai fini della prevedibilità possono essere di qualsiasi tipo e natura 541 . La risposta al quesito “come devono potersi prevedere le conseguenze giuridiche di atti o fatti affinché possa parlarsi di certezza del diritto?”, nella prospettiva proposta, è dunque assai concisa: “In qualunque modo”. Ciò implica che il ricercatore interessato a rilevare il grado di certezza di un dato ordinamento, branca, disciplina giuridica, potrà considerare qualsiasi previsione sulle conseguenze giuridiche di atti o fatti, comunque e con qualsiasi mezzo questa sia stata elaborata. Ai fini della rilevazione di tale misura il ricercatore potrà così tener conto anche delle previsioni avanzate da individui che si avvalgono della collaborazione di specialisti. La previsione può essere ottenuta grazie a qualsiasi informazione: pertanto anche i successi delle previsioni ricavate grazie al parere di un esperto possono essere ritenuti costitutivi della certezza del diritto. Naturalmente, la concreta utilità di tutte queste informazioni ai fini del successo e dell’accuratezza della previsione sarà poi legata al dar conto di criteri di decisione effettivamente praticati, o quantomeno di regolarità decisionali effettivamente sussistenti e rilevabili nel momento in cui la previsione si elabora. Nessuna informazione utile a fini predittivi può infatti riguardare fattori che, pur influenzando lato sensu la decisione, non sono espressione di alcuna regolarità rilevabile: antipatie o simpatie personali 541

Come abbiamo visto (cfr. supra, § 2.3.a), una tesi analoga è sostenuta da Massimo Corsale: «Diventa relativamente poco importante per l’agente medesimo poter conoscere la norma generale, la formula astratta, se per ipotesi l’ordinamento funziona in modo tale che egli possa ugualmente prevedere le reazioni dei consociati nei confronti della sua azione» (CORSALE, M., Certezza del diritto e crisi di legittimità, cit., pp. 34-35). A questo proposito v’è anzi chi afferma: «Il punto essenziale è che le decisioni delle corti possano essere previste, non che tutte le regole che le determinano possano essere espresse a parole […]. Ci sono “regole” che non possono essere poste in forma esplicita. Molte di esse saranno riconoscibili solo perché conducono a decisioni prevedibili e coerenti e saranno conosciute da coloro che da tali regole sono guidati, al più, come manifestazioni di un “senso di giustizia”»; HAYEK, F.A., The Constitution of Liberty, cit., p. 208.

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dei decisori, loro umore e condizione fisica nel giorno della decisione ecc. Tali informazioni, pure ammesso che siano conoscibili da tutti i previsori della classe considerata (e di norma, ovviamente, non lo sono) giungono troppo tardi; di esse non si può tener conto nel momento anteriore all’occorrenza degli atti o fatti di cui si intendono valutare le conseguenze, ma solo, eventualmente, in un tempo relativamente prossimo alla decisione. Per questo, la loro utilità ai fini della pianificazione della condotta dei previsori è pressoché nulla. Addirittura controproducente, ai fini del successo o dell’accuratezza della previsione, è poi l’uso di informazioni false sopra l’effettiva sussistenza di una certa regolarità decisionale, oppure l’impiego di informazioni riguardanti regolarità non consolidate. I previsori che sfruttano tali informazioni sono infatti portati o ad includere nelle loro previsioni complessive delle alternative decisionali che non hanno alcuna possibilità di realizzarsi, o ad escludervi delle alternative che invece potrebbero essere effettivamente praticate dai decisori 542 . Anche in questo caso, ci troveremmo di fronte a previsioni più generiche e/o esposte a rischi di insuccesso, e dunque ad un minor grado di certezza del diritto 543 .

4.4.e. Certezza ed effettività delle norme Bruno Leoni diceva che un giurista, se sufficientemente esperto, sa benissimo come funziona, e in qualche caso come non funziona, l’ordinamento giuridico del suo paese 544 . L’osservazione è interes542

Per sfruttare il solito esempio dell’ingiuria (supra, § 4.3.a), si pensi alla circostanza per cui Mr. Badman sia venuto a conoscenza di una pubblicazione che dà conto degli stili decisori dei magistrati italiani. Si immagini che Badman, a seguito di una rapida consultazione del booklet in questione, abbia saputo che i giudici che operano nella sua città sono piuttosto indulgenti nel punire il delitto di ingiuria; tanto indulgenti, in effetti, da non tener conto della sentenza della Cassazione (n. 5708 del 1986) che stabilisce che dire: “non rompere le scatole” equivale ad ingiuriare il proprio interlocutore. Se Badman sfrutta questa informazione per prevedere le conseguenze della sua azione, potrà ottenere una previsione più accurata, in quanto vengono escluse le possibilità di condanna. Tuttavia, tale miglioramento si ottiene presumendo che quanto riportato nella pubblicazione corrisponda a degli indirizzi decisori effettivamente praticati. Se così non è, la previsione di Badman, per quanto più accurata, rischia infatti di subire un insuccesso. 543 Anche qui, rimando al paragrafo 4.5. relativo alla misura della certezza. 544 Cfr. LEONI, B., La libertà e la legge, cit., p. 4.

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sante perché ha il pregio di farci meditare circa l’opportunità di ammettere la conoscenza del non-funzionamento del diritto, specialmente ove essa sia diffusa tra i previsori della classe considerata, tra le informazioni impiegabili per elaborare quelle previsioni il cui successo e accuratezza danno il segno della certezza di un dato ordinamento o disciplina giuridica. Tale inclusione, peraltro, implicherebbe la messa in discussione dell’assunto corrente per cui la certezza del diritto è tanto maggiore quanto più elevata è l’effettività delle singole norme giuridiche dell’ordinamento o normativa che si considera. Si potrebbe infatti sostenere che anche la norma carente sul piano dell’effettività non necessariamente pregiudica la certezza del diritto, almeno ove questa mancanza di effettività sia nota ai previsori 545 . In molti casi, invero, gli individui possono meglio prevedere le conseguenze giuridiche di un atto o fatto tenendo conto della circostanza che una data norma, pur valida e rilevante nel caso considerato, viene regolarmente disapplicata o non osservata. La conoscenza diffusa del regolare malfunzionamento o non funzionamento del diritto, inteso come insieme di norme valide e nel complesso dotate di effettività, può quindi rendere più attendibili e precise le previsioni delle conseguenze/reazioni/decisioni giuridiche, sempre che tali deficit siano 1) pubblicamente noti; 2) regolari e non occasionali. La regolare disapplicazione di una o più norme, a differenza di quanto si afferma correntemente, può dunque, sotto questo punto di vista, diventare strumento di certezza (anche se, più correttamente, dovrebbe dirsi che tale strumento è dato dall’informazione su tale disapplicazione, non dalla disapplicazione in sé): la pianificabilità della nostra condotta risulta agevolata non solo quando siamo in grado di tener conto di come l’ordinamento funziona allorché la macchina del diritto sia regolarmente oliata, ma anche quando l’esperienza ci porta a fare affidamento sulle regolari disapplicazioni della legge, sugli illeciti divenuti pratica normale, sulla standardizzazione de facto degli intoppi burocratici ecc. Insomma, il malfunzionamento del diritto è causa d’incertezza quando ha carattere occasionale o meramente frequente; quando invece diventa tanto regolare, o normale, che su di esso può 545

Per “norma” o “singola norma” intendo anche in questo paragrafo la norma kelsenianamente primaria, ossia la norma che ricollega un atto coattivo alla condizione della condotta contraria a quanto prescritto dalla norma secondaria (cfr. KELSEN, H, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., pp. 69-70).

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farsi affidamento ben più che non sulla effettiva applicazione delle norme vigenti, diventa, paradossalmente, strumento di certezzaprevedibilità. Si consideri questo esempio: Nell’anno 2100, Tizio decide di intraprendere un’attività commerciale avvalendosi dei finanziamenti previsti da una certa legge regionale. Dopo essersi informato, scopre che coloro che hanno fatto richiesta di finanziamento, nonostante l’approvazione dei progetti presentati, non hanno ricevuto il denaro dovuto perché i fondi dedicati dalla Regione a quel genere di finanziamenti sono stati bloccati a seguito di non meglio precisate beghe politiche. Si potrebbe affermare che siamo di fronte ad un manifesto caso di incertezza del diritto: la legge prevede una conseguenza giuridica (un finanziamento pubblico) che non ha alcuna probabilità di essere attuata. Gli individui che avevano basato i propri piani d’azione su quella legge sono destinati a subire dei danni ingenti. Chi dice che, in questo caso, è stato inferto un vulnus alla certezza del diritto ha ragione, sebbene solo a certe condizioni. Immaginiamoci infatti che gli interessati al finanziamento, anziché limitarsi a reperire bandi e normative, siano soliti consultare pubblicazioni e siti internet concordi nel rilevare che da tempo quei finanziamenti risultano di fatto bloccati. Supponiamo anche che, nel 2100, tali pubblicazioni abbiano ormai soppiantato, quale strumento di conoscenza giuridica, le gazzette e i bollettini ufficiali (snobbati dai giuristi dell’epoca in quanto aventi riguardo soltanto alla genesi delle norme del diritto, e non anche alla loro “vita” operativa). Ecco che, di fronte alla possibilità per gli individui di pronunciarsi con sicurezza circa la disapplicazione delle norme regionali che dispongono i finanziamenti, dovremmo concludere che non c’è alcuna diminuzione della certezza, ma anzi un suo incremento. Deve essere dunque precisata, a mio parere, l’affermazione corrente per cui la certezza fa difetto quando manca l’effettività (almeno quella delle norme “formalisticamente” valide). L’effettività è condizione della certezza del diritto solo se intesa come effettività complessiva dell’ordinamento, poiché la mancanza di una regolarità consolidata nell’applicazione effettiva della maggior parte delle norme, diventa impossibile perfino parlare di “diritto” 546 . L’effettività di 546 Come ben sanno sia il teorico giuspositivista sia il giusrealista: «Se l’ordinamento giuridico non fosse nel suo complesso efficace, non sarebbe nemmeno valido per la giurisprudenza normativa; e quindi non sarebbe possibile nessuna

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una singola norma, o meglio la conoscenza di tale effettività, può invece essere al più strumento di certezza, nel senso che essa può essere sfruttata per prevedere una certa regolarità nell’applicazione e nell’osservanza della norma stessa. Bisogna però tenere a mente che anche la conoscenza della regolarità della disapplicazione e dell’inosservanza della norma, che di quella effettività rappresenta la negazione, può in qualche modo essere strumentale alla certezza-prevedibilità. Insomma, costituiscono presupposto fattuale alla certezza, almeno così come l’abbiamo intesa in questo lavoro, non l’effettività o l’ineffettività della singola norma, ma la regolarità che caratterizzi l’una o l’altra. Se elaborassimo una scala numerica, assegnando ai possibili gradi di effettività della norma i valori da 0 (la norma non viene mai osservata) a 10 (la norma viene sempre osservata), dovremmo concludere che le informazioni più utili ai fini delle nostre previsioni sono quelle che riportano valori estremi della scala, mentre quelle meno utili sono quelle che riguardano valori attorno al 5: ciò che davvero alla certezza arreca danno è il carattere occasionale, aleatorio, incostante, dell’applicazione o della disapplicazione della norma (qualunque sia la sua origine).

4.5. Il quanto della certezza Una volta precisato che per “certezza del diritto” intendiamo la disposizione diffusa alla previsione, comunque ottenuta, della gamma delle conseguenze giuridiche che vengono dai consociati e dagli organi giuridici riconosciute ad atti o a fatti, resta da chiarire la questione della misurazione del grado di certezza di un dato ordinamento o di un suo settore presso una determinata classe di previsori. Si possono proporre, a mio parere, due distinte misure della certezza intesa come possibilità diffusa di prevedere le conseguenze giuridiche di atti o fatti: 1) una dimensione “verticale”, che dà il segno della capacità predittiva degli individui, evinta a sua volta da: a) l’attendibilità delle previsioni; previsione, circa il funzionamento degli organi che applicano il diritto. Il fatto che l'ordinamento giuridico è efficace forma l'unica base di possibili previsioni […]» (KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., pp. 176-177).

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b) l’accuratezza delle previsioni; c) l’estensione nel tempo delle previsioni di successo. 2) una dimensione “orizzontale”, che dà conto della diffusione della certezza entro la classe di previsori considerata. Nei prossimi paragrafi esaminerò ciascuna di queste misure della certezza del diritto, e proporrò alcune idee circa gli indici che potrebbero essere usati per il loro calcolo. Il mio intento, in questa sede, non è tuttavia quello di considerare approfonditamente gli aspetti matematici o statistici del computo della certezza, bensì quello di mostrare delle direzioni in cui ci si potrebbe muovere, delle ipotesi di lavoro utili per l’ideazione di indici che consentano una qualche sua misurazione. Dirò invece subito che il metodo per la rilevazione del grado di certezza è lo stesso per tutte le misure che ho citato: si tratta di raccogliere, presso un campione rappresentativo della classe di previsori considerata, delle previsioni “complessive” del tipo di quelle di cui ho parlato nei paragrafi 4.3.a e seguenti, e di confrontarle con le conseguenze giuridiche effettivamente prodottesi – perché spontaneamente riconosciute dai consociati o perché stabilite da organi dotati di potestà decisionale – in forza del diritto il cui tasso di certezza è in questione. Gli aspetti che rilevano in questo confronto, tuttavia, sono differenti a seconda che si consideri la diffusione delle previsioni, oppure l’attendibilità, l’accuratezza o l’estensione nel tempo dei successi predittivi. Nei prossimi paragrafi esaminerò partitamente ciascuno di questi elementi.

4.5.a. La dimensione verticale della certezza: una misura complessa Propongo di chiamare “dimensione verticale della certezza” la quantificazione delle potenzialità predittive dei singoli individui. Le considerazioni che ho svolto in questo capitolo mi inducono a ritenere che si tratti di una misura complessa, alla cui determinazione concorrono tre distinti fattori: l’attendibilità, l’accuratezza e l’estensione nel tempo delle previsioni. Esaminiamoli uno per uno. Nei paragrafi precedenti abbiamo detto che la previsione giuridica ha successo quando le conseguenze giuridiche spontaneamente o coattivamente ricollegate agli atti o fatti considerati rientrano nella gamma delle conseguenze giuridiche attese, alla luce delle informazioni disponibili. Abbiamo altresì visto che nel che cosa della certezza rientrano anche i tempi delle conseguenze giuridiche che si preve-

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dono, in modo tale che la nostra previsione ha successo solo se queste effettivamente vengono in essere nell’arco temporale in cui esse sono attese. Quella che chiamo “attendibilità” della previsione, dunque, non dipende dalla frequenza con cui si riesce a prevedere esattamente il contenuto delle singole decisioni giuridiche e il momento del loro venire in essere, bensì, in primo luogo, dalla frequenza con cui capita di osservare che la gamma delle conseguenze giuridiche previste comprende quelle che effettivamente si sono realizzate, pacificamente o a seguito dell’intervento di un’autorità investita di poteri coercitivi, nei tempi previsti. Il ricercatore interessato alla rilevazione di tale misura dovrà raccogliere delle previsioni vertenti su conseguenze giuridiche riconducibili al diritto o alla normativa la cui certezza è in esame, e valutare quante di queste previsioni hanno successo, ovvero sono effettivamente seguite da conseguenze giuridiche: 1) comprese nella gamma di quelle attese; 2) venute in essere in un istante compreso nell’arco temporale previsto. Dalla frequenza dei successi rilevati si evincerà l’attendibilità delle previsioni provenienti dagli individui considerati. Vero è che, a rigore, questa misura dà conto soltanto della tendenza al successo rilevabile tra i previsori nel tempo in cui hanno elaborato le loro previsioni, dunque dell’attendibilità delle previsioni passate. Tuttavia, potrebbe sostenersi che da questa rilevazione è dato anche ricavare, sia pure solo induttivamente e sotto la condizione rebus sic stantibus, delle aspettative circa il successo, e dunque l’attendibilità, delle loro previsioni future. L’attendibilità, insomma, può desumersi dalla frequenza del successo delle previsioni “complessive”. Per quantificare tale attendibilità potremmo elaborare un apposito indice, magari parametrato direttamente alla percentuale delle previsioni che siano state effettivamente coronate da successo. L’attendibilità delle previsioni, in questo modo, varierebbe da 0 (nessuna previsione di successo, ergo nessuna attendibilità delle future previsioni) a 100 (tutte le previsioni considerate hanno avuto successo, ergo massima attendibilità delle previsioni future). Nel paragrafo 4.3.g, peraltro, abbiamo visto che il profilo dell’attendibilità della previsione deve essere distinto da quello del contenuto informativo della stessa, che varia in funzione inversa alla genericità di ciò che si prevede. Così, il successo di una previsione complessiva costituisce un risultato non necessariamente rivelatore dell’utilità della previsione ai fini della pianificazione della propria condotta. A questo riguardo, oltre che la tendenza al successo, e dun-

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que l’attendibilità della previsione, rileva la sua accuratezza, ossia il suo prospettare delle conseguenze giuridiche limitate nel numero e nella varietà. Il ricercatore che intenda misurare la certezza di un ordinamento o di una sua branca, dopo aver raccolto le previsioni degli individui considerati, dovrà dunque anche valutare la maggiore o minore accuratezza di quelle che, tra esse, hanno avuto successo. A tal fine potrà elaborare un apposito indice il cui valore massimo si registri nel caso in cui la previsione di successo prospetti soltanto una conseguenza/decisione/reazione attesa (caso che, come abbiamo visto, è tutt’altro che frequente), decrescendo poi all’aumentare del numero delle alternative previste 547 . In questo modo potrà aversi un’idea non solo di quanto le previsioni tendono ad avere successo, ma anche di quanto esse sono effettivamente in grado di fornire a chi le elabora delle informazioni specifiche (e dunque, tra l’altro, utili ai fini della programmazione delle scelte pratiche: una cosa è prevedere attendibilmente che la tale condotta potrà condurre ad una sanzione pecuniaria di maggiore o minore entità, a seconda della qualificazione del fatto operata dai decisori, altra cosa è prevedere con la stessa attendibilità che la tale condotta, sempre a seconda della qualificazione operata da chi decide, potrà comportare una sanzione detentiva, pecuniaria o un proscioglimento). Abbiamo inoltre detto che nel “che cosa” della certezza deve ritenersi compresa anche la determinazione di tempi in cui le conseguenze giuridiche previste vengono in essere. Per questa ragione, la misura dell’accuratezza dovrà anche essere elaborata tenendo conto di quanto ridotto sia l’ambito temporale in cui si prevedono occorrere tali conseguenze: una cosa è prevedere che esse si produrranno entro 10 anni (margine di errore: 10 anni), altra cosa è prevedere la loro occorrenza in un tempo non inferiore a 1 anno e non superiore a 2 (margine di errore: 1 anno). Il nostro indice di accuratezza dovrà dunque variare anche secondo la maggiore o minore ampiezza

547 Ad esempio, si potrebbe stabilire che il valore massimo dell’accuratezza è 1, e si registra quando la conseguenza prevista è unica. Se le alternative previste sono due, allora tale valore sarà 1/2, se sono tre, sarà 1/3, e così via. Affinché tale indice tenga conto in qualche modo anche dell’omogeneità di queste, anch’essa rilevante per stabilire l’accuratezza della previsione, sarà necessario per il ricercatore raggrupparle secondo un criterio che tenga conto delle diverse conseguenze pratiche di cui esse sono portatrici per i previsori..

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dell’arco temporale in cui si prevede vedranno la luce le conseguenze giuridiche attese 548 . Vi è, infine, ancora un elemento che può concorrere a determinare la nostra misura verticale della certezza: l’estensione nel tempo delle previsioni di successo, e dunque la possibilità di elaborare previsioni attendibili a lungo termine (ovvero capaci di prospettare con successo le conseguenze giuridiche dei comportamenti che verranno posti in essere in un futuro relativamente remoto). Come abbiamo visto in precedenza, una risalente e diffusa tradizione spinge ad includere nella ridefinizione di “certezza del diritto” un riferimento alla sua dimensione diacronica. Tale scelta ridefinitoria implica l’assunto per cui la certezza è tanto maggiore quanto più lontano nel futuro si spinge la capacità predittiva degli individui 549 . Tuttavia qui sorge un problema: come può rilevarsi l’attendibilità delle previsioni attraverso il tempo 550 ? A mio parere, tale misurazione richiede, per forza di cose, uno studio assai oneroso e condotto nell’arco di diversi anni. Si tratterà di richiedere ai previsori della classe considerata delle previsioni circa le conseguenze giuridiche – sempre riconducibili all’ordinamento o disciplina di cui si valuta la certezza – di atti o fatti che si ritiene sopravverranno in un futuro relativamente remoto rispetto al momento in cui si compie la rilevazione, e di andare poi a controllare, trascorso il tempo stabilito, il successo di tali previsioni. Una rilevazione sulla misura “diacronica” della certezza della disciplina delle pensioni presso i lavoratori cui essa si applica potrebbe, ad esempio, essere condotta raccogliendo nel tempo t, tra individui di circa 40 anni, delle previsioni circa il proprio futuro trattamento pensionistico. Trascorso, poniamo, un trentennio, bisognerebbe premurarsi di controllare (sempre che intanto i ricercatori stessi non siano andati… in pensione) quante di queste previsioni hanno avuto successo. Si avrebbe così una qualche idea dell’estensione nel tempo della capacità predittiva dei lavoratori di trent’anni prima. Il problema, naturalmente, è che rilevazioni di questo tipo danno una misura 548 Si potrebbe ad esempio stabilire che l’indice descritto nella nota precedente debba essere diviso per 1 quando il margine d’errore sui tempi delle conseguenze giuridiche è di un anno, per 2 quando il margine d’errore è di due anni, ecc. 549 Vedi supra, § 4.3.h. 550 Che, sebbene ad essa correlata, è cosa diversa dalla prevedibilità dei tempi delle reazioni giuridiche.

UNA RIDEFINIZIONE DI “CERTEZZA DEL DIRITTO”

273

della certezza del diritto così com’era qualche tempo fa (l’epoca in cui le previsioni sono state elaborate), e non possono essere usate per pronunciarsi con sicurezza circa la certezza odierna sulle conseguenze giuridiche che avranno luogo nel lungo periodo. Quest’ultima stima può dunque essere unicamente (e presuntivamente) inferita dall’osservazione circa il grado di stabilità della regolamentazione giuridica che si osserva in un determinato periodo storico. Più è marcata la tendenza del legislatore all’“interventismo”, minore deve presumersi essere la componente diacronica della dimensione “verticale” della certezza 551 . Ciò, naturalmente, a meno che non vi siano buone ragioni per ritenere che gli individui siano in grado prevedere, in qualche modo, la direzione in cui si produrranno tali innovazioni normative, o addirittura il loro contenuto. Potrebbero in effetti immaginarsi dei sistemi giuridici – si pensi al diritto romano come visto da Bruno Leoni – in cui l’evoluzione dell’ordinamento non solo proceda ad un ritmo piuttosto lento (specialmente al confronto di quello, frenetico, degli ordinamenti statali contemporanei), ma si attagli anche alle aspettative diffuse tra i consociati, che dunque trovano nelle modifiche legislative la sanzione formale di cambiamenti già avvenuti in seno alla comunità 552 . Molti individui, in contesti del genere, sarebbero in grado di prevedere le conseguenze di propri comportamenti futuri tenendo conto dei presumibili cambiamenti che il diritto che li regola subirà. Sebbene, come Corsale e lo stesso Leoni osservano, sia assai dubbio che una siffatta situazione possa realizzarsi nelle odierne società complesse, pluralistiche, e ideologicamente disomogenee, non può escludersi che vi siano anche oggi, nell’ambito degli ordinamenti contemporanei, individui particolarmente capaci o informati in grado di avanzare, meglio di altri, delle previsioni giuridiche basate su quelli che essi prevedono essere i cambiamenti del diritto nel medio o nel lungo periodo. Sempre per rifarci alla materia delle pensioni, un odierno trentenne ben potrebbe, conoscendo la tendenza all’invecchiamento della popolazione italiana e la cronica insufficienza delle risorse pubbliche destinate alle pensioni (nonché 551

Abbiamo già sottolineato come il valore della certezza sia suscettibile di entrare in conflitto con altri interessi meritevoli di tutela, ad esempio quello all’adeguamento del diritto alle mutate condizioni socio-economiche o alle innovazioni tecnologiche; cfr. supra, 4.3.h. 552 Vedi supra, § 2.3.h.

274

LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

l’inclinazione della maggioranza di turno all’inerzia legislativa in materia previdenziale), prevedere un peggioramento del proprio trattamento pensionistico rispetto agli standard attuali. Di quest’informazione egli potrebbe tener conto per la pianificazione delle proprie scelte, ad esempio decidendo di ricorrere a forme di previdenza privata. Tutto ciò considerato, si può proporre una misura “verticale” della certezza data dal prodotto di tre fattori distinti: l’attendibilità, l’accuratezza e l’estensione nel tempo delle previsioni di successo. Potremmo raffigurare questa dimensione della certezza come un parallelepipedo rettangolo, in cui base, altezza e profondità siano proporzionate a ciascuna di tali grandezze (si veda la fig. 1): attendibilità 100

estensione nel tempo (in anni)

100

50

accuratezza 0

0, 5

1

Fig. 1: Rappresentazione grafica della misura della capacità predittiva di un individuo

Tale rappresentazione può essere riferita alla capacità predittiva di un determinato individuo (magari un previsore tipo). Abbiamo però visto che “certezza del diritto” è espressione che designa una situazione caratterizzata dalla disposizione diffusa alla prevedibilità giuridica. Bisogna dunque integrare la misura verticale della certezza con un’altra misura che dia conto della sua diffusione entro la classe di previsori considerata. Di ciò parlerò nel prossimo paragrafo.

UNA RIDEFINIZIONE DI “CERTEZZA DEL DIRITTO”

275

4.5.b. La dimensione orizzontale della certezza: la diffusione della prevedibilità La certezza del diritto, tradizionalmente, è concepita come prevedibilità diffusa delle reazioni dell’ordinamento. Abbandonando, per le ragioni analizzate nel paragrafo 4.2, ogni riferimento necessario ai concetti di “cittadinanza”, di “comunità”, di “collettività”, a favore di quello di “classe” di individui, possiamo dunque dire che il diritto è massimamente certo quando, tutti gli individui della classe presa in esame mostrano una disposizione all’attendibile, accurata, durevole previsione delle conseguenze giuridiche degli atti o fatti che essi considerano, e che è assolutamente incerto quando nessuno, tra costoro, palesa tale disposizione. Una seconda misura, “orizzontale”, della certezza è dunque data dall’effettiva diffusione della capacità predittiva tra gli individui inclusi nella classe di riferimento. Chi sia interessato alla rilevazione di questa misura della certezza dovrà dunque appurare quanto la disposizione ad ottenere previsioni di successo, accurate e temporalmente estese sia diffusa tra i previsori della classe considerata. A questo proposito, potrà elaborarsi una sorta di indice di diffusione, che dia conto non solo del potere predittivo di ciascun individuo del campione considerato (dimensione verticale della certezza), ma anche del potere predittivo complessivamente rilevabile all’interno della classe di riferimento 553 . Un’idea per la rappresentazione grafica di una misura del genere può essere data dalla figura 2, in cui, ciascun parallelepipedo rappresenta l’attendibilità, l’accuratezza e l’estensione nel tempo della capacità predittiva di un singolo individuo. L’asse delle ordinate, a differenza di quanto accade nella figura 1, è costituito da tanti segmenti quanti sono i previsori del campione preso in esame (ognuno dei quali è contrassegnato da una lettera minuscola): ogni segmento rappresenta la gamma dei possibili valori dell’accuratezza delle previsioni, da quello minimo (0), a quello massimo (1). La figura 2 rappresenta una situazione tipo, in cui diversi previsori rivelano delle capacità differenti quanto ad attendibilità, accuratezza, ed estensione diacronica delle previsioni. 553

Si potrebbe ad esempio considerare la somma dei valori delle capacità predittive dei singoli, oppure una loro media, variamente ponderata.

276

LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

100

attendibilità

estensione nel tempo (in anni) 100

50

0

0

a

1 0

1 0

b

c

1 0

d

1 0

e

1 0

f

1

0

g

1

accuratezza

Fig. 2: Rappresentazione grafica di una situazione tipo, in cui diversi previsori hanno capacità differenti quanto ad attendibilità, accuratezza, ed estensione diacronica delle previsioni

attendibilità 100

100

estensione nel tempo (in anni)

50

0

0

a

1 0

b

1 0

c

1 0

d

1 0

e

1 0

f

1 0

g

1

accuratezza

Fig. 3: Rappresentazione grafica del caso-limite di massima certezza

277

UNA RIDEFINIZIONE DI “CERTEZZA DEL DIRITTO”

Il caso-limite di massima certezza, in cui tutti i previsori godono di una capacità predittiva infallibile, accuratissima e a lungo termine (abbiamo visto: praticamente irrealizzabile), può invece essere rappresentato da un grafico come quello della figura 3. Una rappresentazione come quella che stiamo qui adottando potrebbe rivelare situazioni particolari, ad esempio quella riportata nella figura 4, in cui, a fronte dell’elevatissima capacità predittiva del previsore a, si registrano modeste capacità degli altri previsori. Tale situazione sarebbe indicativa di una certezza “distribuita” in modo ineguale all’interno della collettività considerata. Non solo: i bassi valori della capacità predittiva di cui godono gli individui b-g, si ripercuoterebbero sulla capacità predittiva totale della classe di riferimento. Nonostante i brillanti risultati di a, dunque, si dovrebbe dire che la certezza del diritto, nella situazione rappresentata dalla figura 4, è realizzata in basso grado, giacché la gran parte degli individui considerati forniscono previsioni inattendibili, generiche ed in ogni caso valide solo nel breve periodo.

attendibilità 100

100

estensione nel tempo (in anni)

50

0

0

a

1 0

b

1 0

c

1 0

d 1 0 e accuratezza

1 0

f

1 0

g

1

Fig. 4: Rappresentazione grafica di una situazione di scarsa distribuzione della capacità predittiva

278

LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

4.5.c. I fattori di certezza Alla luce di quanto detto nei paragrafi precedenti, è possibile includere tra i fattori che producono un incremento della certezza giuridica tutti quelli che contribuiscono alla diffusione della capacità predittiva entro la classe di individui considerata e, nel contempo, tutti quelli che consentono ad essi di ottenere delle previsioni più attendibili, accurate ed estese nel tempo. Se, conformemente alla tradizione, intendiamo considerare la capacità predittiva diffusa tra gli individui “comuni”, giungiamo alla conclusione che la misura della certezza di un ordinamento giuridico varia in funzione di una serie di fattori di cui ho già parlato nel corso della precedente trattazione, e che provo qui a riassumere senza pretese di esaustività: 1) La chiarezza, precisione e intelligibilità della regolamentazione giuridica. Ciò non solo perché questi fattori agevolano la conoscenza del diritto da parte dei previsori, ma anche perché concorrono alla riduzione di ciò che Kelsen chiama l’indeterminatezza relativa del grado inferiore, del cui legame con la discrezionalità dei decisori e con la certezza giuridica si è già parlato ampiamente in precedenza 554 . Ho infatti osservato che la discrezionalità di cui godono i decisori giuridici si accompagna alla genericità delle previsioni giuridiche complessive, ovvero alla loro tendenziale inutilità pratica. Kelsen stesso, giova ripeterlo un’ultima volta, conclude la Dottrina pura del 1960 raccomandando l’adozione di una tecnica volta a formulare le «norme giuridiche con la massima chiarezza possibile o, almeno, in modo tale da ridurre al minimo l’inevitabile pluralità di significati, assicurando così il massimo grado di certezza del diritto» 555 . Lo schema di misurazione della certezza che ho proposto nei paragrafi precedenti ci permette di osservare il modo in cui tale chiarezza e univocità, aumentando la determinatezza degli atti di grado inferiore, operi come elemento promotore di certezza ed in particolare di accuratezza delle previsioni giuridiche. L’accuratezza migliora perché le previsioni “complessive” di successo risultano comprendere un numero e una varietà minori di alternative attese. La maggior determinatezza delle norme restringe infatti l’ambito delle scelte discrezionali praticabili dal decisore/applicatore del diritto nella fase di accer554 555

Vedi supra, §§ 2.2.f, 2.2.i, 2.2.l. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto (1960), cit., p. 390, corsivo mio.

UNA RIDEFINIZIONE DI “CERTEZZA DEL DIRITTO”

279

tamento e in quella di qualificazione del caso, nonché nella fase decisoria in senso stretto, e dunque limita quantitativamente e qualitativamente la gamma delle soluzioni applicative “possibili” alla luce del quadro normativo di riferimento 556 . Al contrario, enunciati normativi (intenzionalmente o meno) di oscura formulazione, molto vaghi, potenzialmente ambigui, contribuiscono all’indeterminatezza degli atti di grado inferiore, e divaricano la discrezionalità degli interpreti. Le previsioni giuridiche, per rimanere attendibili, dovranno tener conto di questa indeterminatezza e della conseguente discrezionalità, ampliando il novero delle soluzioni giuridiche attese. In tal modo si otterranno previsioni assai generiche, dal valore informativo ridotto in quanto verificate in un’ampia gamma di situazioni, magari assai differenti tra loro e cariche di diverse conseguenze pratiche per gli interessati. 2) La tendenziale coerenza dell’ordinamento considerato come sistema di qualificazioni giuridiche, dunque la penuria di antinomie. Accolgo qui una nozione ampia di “antinomia” come incompatibilità tra norme che siano tra di loro contrarie (come “obbligatorio fare x” e “vietato fare x”) o contraddittorie (come “vietato fare x” e “permesso fare x”). Mi riferisco solo alle antinomie irrisolvibili col ricorso ai criteri predisposti per la loro composizione, come quello cronologico, gerarchico e di specialità. Le antinomie producono sempre incertezza, poiché fanno sì che agli stessi fatti-base siano ricollegabili diverse qualificazioni e dunque, almeno di regola, diverse conseguenze giuridiche 557 . Anche in questo caso, la dimensione della certezza compromessa è quella dell’accuratezza delle previsioni. Norme che collegano allo stesso comportamento diverse conseguenze giuridiche rendono infatti la previsione complessiva degli individui aperta alla possibilità di un’ampia varietà di soluzioni differenti, ciascuna eventualmente carica di implicazioni pratiche differenti, e dunque sottrae alla previsione stessa gran parte della sua utilità per la pianificazione

556

Per gli esempi, rimando al § 4.3.g. Non necessariamente a diverse qualificazioni giuridiche seguono diverse conseguenze. Si pensi al caso-limite di due norme antinomiche che qualifichino il comportamento x come, rispettivamente, obbligatorio e vietato, imponendo ai trasgressori una sanzione pecuniaria di eguale importo. La previsione, in questo caso speciale, sarà accurata, giacché indicherà un unico esito quale che sia la condotta effettivamente tenuta. 557

280

LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

della condotta individuale 558 . Il risultato finale è quello di un disorientamento dei previsori, non più in grado di valutare i vantaggi o gli svantaggi di un determinato corso d’azione. 3) L’effettività/osservanza del diritto. È qui opportuno distinguere tra effettività dell’ordinamento complessivamente considerato ed effettività della singola norma giuridica 559 . Per quanto riguarda il primo problema, può concordarsi con Kelsen quando afferma che la sussistenza di un certo grado di effettività dell’ordinamento è presupposto necessario non solo per la sua validità, ma anche per il suo impiego a fini predittivi 560 . La dimensione della certezza su cui l’effettività dell’ordinamento incide maggiormente è quella dell’attendibilità predittiva: più l’ordinamento giuridico è spontaneamente o coattivamente osservato, più attendibili sono le previsioni elaborate tenendo conto delle sue norme. Bisogna infatti ricordare che le previsioni hanno successo quando la conseguenza giuridica effettivamente ricollegata agli atti o fatti considerati dai previsori rientra nella gamma di quelle che erano attese alla luce del quadro normativo di riferimento e delle altre conoscenze “fattuali”. Abbiamo inoltre visto che la nozione di “successo predittivo” non designa soltanto i casi di previsioni di una serie di conseguenze giuridiche coattivamente imposte cui segue effettivamente un provvedimento giurisdizionale o amministrativo compreso tra quelli attesi, ma anche i casi di previsioni che, tra le varie alternative prospettate, comprendono anche conseguenze giuridiche che si producono spontaneamente, senza necessità di intervento da parte di organi dotati di potestà coercitiva, quando tali previsioni siano effettivamente seguite da una conseguenza giuridica compresa tra quelle attese 561 . È dunque assai plausibile che la presenza di un apparato coercitivo efficiente o la tendenza all’obbedienza spontanea al diritto, magari dovuta alla diffusione tra il pub-

558 Ciò è vero specialmente nei casi di norme che impongono e vietano lo stesso comportamento. Agli individui è infatti in questi frangenti negata perfino la possibilità di eludere il dilemma posto dall’antinomia con l’inazione (che invece li metterebbe al riparo da qualsiasi possibilità di subire sanzioni nel caso di norme che si limitano a qualificare uno stesso comportamento come vietato e permesso). 559 Anche in questo paragrafo, per “singola norma giuridica” intendo la norma primaria di Kelsen. 560 Cfr. KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello stato, cit., pp. 176-177. 561 Vedi supra, § 4.3.i.

UNA RIDEFINIZIONE DI “CERTEZZA DEL DIRITTO”

281

blico di una condivisa ideologia favorevole alla certezza, agiscano come fattori di certezza 562 . Per ciò che riguarda l’effettività della singola norma, il discorso è leggermente diverso. Abbiamo infatti visto che il pregiudizio alla certezza si realizza in presenza di un’effettività “precaria”, cioè incostante, saltuaria, occasionale; strumentali all’attendibilità e talvolta all’accuratezza delle previsioni sono invece, a date condizioni, sia l’elevata effettività della norma, sia la sua assoluta ineffettività 563 . Tuttavia, tale effettività è una condizione necessaria ma non sufficiente di certezza: essa opera come fattore di attendibilità predittiva solo se accompagnata dalla conoscenza diffusa circa l’effettività o ineffettività della norma. Per questa ragione, rimando la trattazione dell’argomento al punto 5, dedicato alla conoscenza delle conoscenze rilevanti per la previsione. 4) La sussistenza di regolarità decisionali de facto. Tra queste regolarità, negli ordinamenti che non riconoscono formalmente lo stare decisis, debbono includersi quelle derivanti dalla conformità delle decisioni giuridiche agli indirizzi giurisprudenziali consolidati. Ho già ampiamente rilevato come queste ed altre regolarità fattuali giochino un ruolo assai importante nella determinazione delle conseguenze giuridiche riconducibili agli atti o fatti considerati dai previsori, nonché dell’ambito temporale in cui tali conseguenze verranno in essere 564 . Tuttavia, ho sostenuto che anche in questo caso tali regolarità operano come fattore di certezza solo nella misura in cui esse siano accompagnate dalla conoscenza diffusa circa la loro sussistenza. Per questa ragione, è opportuno trattare di questo argomento nel punto seguente. 5) La diffusione delle conoscenze giuridiche rilevanti per la previsione, ovvero le conoscenze circa le norme e le regolarità fattuali che giocano un ruolo nella determinazione delle conseguenze giuridiche riconducibili agli atti o fatti considerati dai previsori, nonché dell’ambito temporale in cui tali conseguenze verranno in essere. Per quanto riguarda le fonti formali, questa misura varia in funzione dall’accessibilità alla conoscenza della legge, dei precedenti giudiziali (negli ordinamenti che riconoscono formalmente il loro valore vin-

562

Dell’ideologia della certezza si parlerà nel punto 12. Vedi supra, 4.4.e. 564 Vedi supra, §§ 4.3.c, 4.4.b, 4.4.c, 4.4.d. 563

282

LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

colante) o, più in generale, alla diffusione della conoscenza circa le prescrizioni giuridiche valide in senso kelseniano: più, e meglio, gli individui sono in grado di conoscere la regolamentazione giuridica formale dei casi che considerano, e dunque le leggi rilevanti, i regolamenti attuativi ecc., più si può presumere che le loro previsioni saranno attendibili e accurate 565 . Ciò, tuttavia, vale solo a certe condizioni. La conoscenza delle disposizioni normative, infatti, non è da sola sufficiente a garantire elevati livelli di certezza giuridica. A tal fine è altrettanto importante la diffusione della conoscenza sulle prassi decisionali e degli altri aspetti fattuali che riguardano il momento “applicativo” del diritto. Le conoscenze sulle fonti “formali”, come abbiamo visto, possono essere impiegate a fini predittivi solo se integrate dalla conoscenza circa il grado di effettività delle relative prescrizioni, nonché dalla valutazione degli altri elementi che di fatto influenzano la concreta determinazione delle conseguenze giuridiche della condotta considerata dal previsore (e dei tempi in cui tali conseguenze verranno in essere) 566 . Negli ordinamenti che non riconoscono formalmente il principio dello stare decisis, tra questi elementi fattuali debbono in primo luogo comprendersi gli indirizzi giurisprudenziali consolidati, della cui rilevanza a fini predittivi mi sono già occupato 567 . Né deve sottovalutarsi l’importanza della disponibilità di informazioni pubbliche circa gli altri elementi fattuali di cui ho parlato nel corso della trattazione: le conoscenze circa la desuetudine de facto della tale normativa, circa gli stili di decisione effettivamente praticati dai giudici del tal tribunale, circa i tempi effettivi della giustizia ecc., incrementano infatti sia l’accuratezza che l’attendibilità delle previsioni degli individui, ed alla loro diffusione è proporzionata la misura “orizzontale” della certezza 568 . 565 A questo proposito, può a mio parere confutarsi l’affermazione tradizionale per cui l’elevato numero delle leggi compromette di per sé la certezza giuridica. Gli strumenti dell’informatica possono oggi garantire un agevole e rapido reperimento delle informazioni giuridiche rilevanti. Non è dunque tanto l’elevato numero delle disposizioni normative ad ostacolare la certezza, quanto piuttosto la mancanza di sistemi di archiviazione razionale e di information retrieval, oppure la loro scarsa fruibilità da parte del pubblico dei non esperti. 566 Vedi supra, §§ 4.3.c, 4.4.b, 4.4.e. 567 Vedi supra, §§ 4.3.c, 4.4.b. 568 Riprendo qui alcuni esempi svolti nel corso della precedente trattazione e ne propongo di nuovi. Per quanto riguarda il profilo della conoscenza sull’effettività

UNA RIDEFINIZIONE DI “CERTEZZA DEL DIRITTO”

283

6) La stabilità della regolamentazione giuridica. Questo fattore, come abbiamo visto, influisce sull’estensione diacronica delle previsioni di successo. La “longevità” della regolamentazione giuridica (ma anche degli orientamenti giurisprudenziali) garantisce agli individui una pianificabilità a lungo termine della propria condotta sulla base di un diritto relativamente durevole e poco soggetto a cambiamenti di rilievo 569 . Una regolamentazione giuridica mutevole e di della regolamentazione giuridica, si consideri come la conoscenza diffusa della costante disapplicazione di una norma giuridica non formalmente abrogata possa essere impiegata per ottenere previsioni più attendibili. S’immagini il caso di un paese in cui la norma del codice della strada che impone di indossare le cinture di sicurezza alla guida degli autoveicoli, pur formalmente vigente, sia di fatto costantemente violata dai cittadini ed intenzionalmente e notoriamente non sanzionata dai competenti organi di polizia. In una situazione del genere, le previsioni giuridiche che tengono conto della desuetudine de facto della norma in questione sarebbero molto più attendibili (ergo: avrebbero più chances di successo) di quelle che non tengono conto di questo elemento “materiale”. Per quanto riguarda la conoscenza pubblica degli stili di decisione localmente praticati, è d’uopo richiamare il caso del booklet grazie al quale Mr. Badman acquista contezza del fatto che i particolari giudici cui deve rispondere per il reato di ingiuria sono propensi a non attenersi all’indirizzo giurisprudenziale che considera ingiuriosa la frase “non rompere le scatole” (vedi supra, §§ 4.3.a, 4.3.c e nota 542). Grazie a questa informazione, Badman elabora una previsione più accurata, perché esclude dal novero delle conseguenze giuridiche attese tutte quelle che implicano una sua condanna penale. Questo aumento di accuratezza si produce a parità di attendibilità della previsione avanzata, a patto che la pubblicazione consultata dia conto degli stili decisori effettivamente praticati dai giudici che Badman considera. Se questa condizione è soddisfatta (magari perché la diffusione di un’ideologia favorevole alla certezza fa sì che i decisori stessi operino conformemente agli indirizzi indicati dagli stessi manuali che dovrebbero descrivere il loro operato!), e se le pubblicazioni del tipo di quella impiegata da Badman sono ben note e di facile reperimento, potrà rilevarsi un complessivo aumento della certezza giuridica, giacché è presumibile che altri previsori siano in grado di ottenere previsioni più attendibili a parità di accuratezza. Infine, per ciò che concerne le previsioni dei tempi in cui le conseguenze giuridiche attese avranno luogo, si consideri l’esempio di un autorevole studio che abbia rilevato i tempi medi di risposta degli organi giuridici operanti nel territorio nazionale avendo riguardo alle cause penali. La conoscenza diffusa dei risultati di quello studio potrà produrre un incremento della certezza del diritto (penale) sotto forma di previsioni in grado di individuare con maggiore attendibilità e accuratezza l’ambito temporale entro cui si suppone che le conseguenze giuridiche attese verranno in essere. 569 Non a caso, come abbiamo visto, la stabilità della regolamentazione è tradizionalmente associata alla certezza giuridica. Cfr. ad esempio ARISTOTELE, Politica, I, 16, 1287b; LIVIO, Ab Urbe condita, XXXIV, 6; TOMMASO D’AQUINO, Summa the-

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LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

breve durata, al contrario, rende miopi le previsioni delle conseguenze giuridiche dei comportamenti futuri, ed impedisce qualsiasi pianificazione che si estenda più di tanto oltre il tempo presente. Si può anzi sostenere che la “lungimiranza” delle previsioni raggiunge i massimi livelli in un ordinamento chiuso a qualsiasi innovazione riguardante le norme generali. Se lo status quo normativo è stabilito una volta per tutte, e se gli individui possono contare sulla sua fossilizzazione, essi possono infatti elaborare delle attendibili previsioni a lungo termine, e basare su di esse una pianificazione della propria condotta che si estende indeterminatamente nel futuro. Abbiamo visto, tuttavia, che sebbene sia vero che la stabilità normativa incrementa l’estensione diacronica delle previsioni, non è corretto asserire che qualsiasi innovazione normativa produce necessariamente un decremento della certezza 570 . L’esempio della norma che precisi la precedente vaga definizione legislativa di “sostanze stupefacenti” indicando il catalogo completo ed esaustivo delle sostanze in questione e fugando così ogni dubbio relativo alla liceità del consumo di alcolici ci fa capire come vi siano delle innovazioni in grado di determinare un complessivo incremento, piuttosto che una diminuzione, della misura complessiva della certezza 571 : se è vero che la nuova definizione legislativa determina il fallimento di alcuni piani d’azione elaborati sulla base della previgente e più vaga normativa, è anche vero che l’innovazione rende assai più accurate le previsioni che verranno avanzate a partire dalla sua entrata in vigore. Nei casi analoghi a quello esemplificato si assiste insomma ad un sacrificio dell’estensione diacronica delle previsioni operato per esigenze di maggiore accuratezza predittiva: bisogna valutare caso per caso se si abbia una complessiva riduzione o piuttosto un incremento della certezza. Qualora vi siano buone ragioni per ritenere che l’innovazione non verrà a sua volta modificata o magari abrogata entro breve tempo (ad esempio perché nell’ordinamento in questione si registra una scarsa tendenza all’interventismo del legislatore), potrà rilevarsi un incremento ologiae, I-II, q. XCVII. Tra i contemporanei, oltre ai più volte citati Lopez de Oñate e Leoni, vedi CARNELUTTI, F., Discorsi intorno al diritto, cit., p. 180; HAURIOU, E., Le Pouvoir, l’Ordre, la Libertè et les erreurs des systèmes objectivistes, in Revue de mètaphysique et de morale, 1928, p. 198. 570 Vedi supra, § 4.3.h. 571 L’esempio in questione è riportato nel § 4.3.h.

UNA RIDEFINIZIONE DI “CERTEZZA DEL DIRITTO”

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della misura complessiva della certezza (l’accuratezza aumenta di molto e l’estensione diacronica, nonostante l’avvenuta riforma, subisce una modesta riduzione). 7) La congruenza tra normative susseguentisi nel tempo. Per “congruenza” di norme intendo qui, con MacCormick (ed in mancanza di una definizione più soddisfacente), il «loro “fare senso”, in virtù dell’essere razionalmente collegate, strumentalmente o intrinsecamente, o per la realizzazione di uno o più valori comuni, oppure per l’applicazione di uno o più principi comuni» 572 . Anche questo è un fattore che incide sulla dimensione diacronica della certezza: se le norme vengono modificate o sostituite secondo una ratio comune, esplicita o altrimenti individuabile, è plausibile che gli individui siano in qualche modo agevolati nella previsione del contenuto delle future innovazioni normative, e dunque nella pianificazione a lungo termine della propria condotta. Al contrario, se le riforme si susseguono senza alcun criterio ragionevolmente individuabile, gli individui saranno esposti a cambiamenti imprevedibili dello status quo normativo, con tutti gli svantaggi per la certezza che abbiamo esaminato nel punto precedente. 8) L’irretroattività della regolamentazione giuridica. Per “regolamentazione giuridica retroattiva” intendo qui, semplificando un poco, la regolamentazione che stabilisce o rinnova le conseguenze giuridiche di comportamenti, situazioni o accadimenti venuti in essere prima della sua entrata in vigore. L’esempio più eclatante riguarda naturalmente le norme che, in ordinamenti che contengono deroghe al principio nulla poena sine lege, puniscono comportamenti leciti al momento della loro commissione. Si tratta, in verità, di un caso particolare, e più grave, di ciò che abbiamo esaminato nel punto 6 573 . Anche la normazione retroattiva determina l’insuccesso delle previsioni giuridiche basate sulla regolamentazione vigente al momento 572

Si tratta della definizione di coherence proposta in MACCORMICK, N., La congruenza nella giustificazione giuridica, in COMANDUCCI, P., GUASTINI, R., L’analisi del ragionamento giuridico, vol. I., cit., p. 247, e ripresa in MACCORMICK, N., Ragionamento giuridico e teoria del diritto, Giappichelli, Torino 2001, pp. 178 ss. 573 «C’è una stretta affinità fra i danni arrecati da una legislazione retroattiva e quelli risultanti da troppo frequenti cambiamenti nella legge. Entrambi sono conseguenza di quella che può chiamarsi una incostanza legislativa»; FULLER, L.L., La moralità del diritto, cit., p. 107.

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LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

della loro elaborazione. La differenza è che, in questo caso, ad essere inficiate non sono soltanto le pianificazioni basate sulle previsioni delle conseguenze di futuri comportamenti o accadimenti, ma le previsioni delle conseguenze di comportamenti o accadimenti già venuti in essere. Mentre le innovazioni normative determinano cioè la necessità di modificare i piani d’azione basati sulla previgente disciplina, e quindi si ripercuotono sulla sola estensione diacronica delle previsioni (prevedere oggi le conseguenze giuridiche di un mio comportamento di domani), la regolamentazione retroattiva provoca un fallimento delle previsioni addirittura dopo il compimento dell’atto di cui si intendevano prevedere le conseguenze (prevedere oggi le conseguenze giuridiche di un mio comportamento di ieri). La lesione alla certezza, gravissima, non riguarda dunque solo il profilo diacronico, ma anche quello dell’attendibilità delle previsioni: falliscono tutte quelle basate sulla regolamentazione precedente e, quel che è peggio, tale insuccesso si produce “a cose fatte”, ovvero in un momento in cui agli individui non è data neanche la possibilità di cambiare i propri piani d’azione per evitare le conseguenze giuridiche eventualmente sgradite (o per avvantaggiarsi di quelle gradite). 9) Stabilità del giudicato ed incontestabilità dei rapporti giuridici esauriti. Si tratta di un fattore certificante di grande importanza, giacché incide su tutt’e tre gli elementi della misura verticale della certezza. Il discorso che lo riguarda si innesta su quello già svolto sulla stabilità e l’irretroattività della regolamentazione giuridica. Si pensi a ciò che accadrebbe qualora qualsiasi res iudicata potesse essere ribaltata da nuove pronunce giurisdizionali: i giudicati non potrebbero servire né da base per la previsione (è stato accertato con sentenza passata in giudicato che l’immobile è di mia proprietà; quindi prevedo di poterne ottenere il rilascio), né potrebbero essi stessi costituire stabile oggetto di previsione. Qualsiasi previsione, insomma, benché provvisoriamente coronata da successo, sarebbe sempre esposta al rischio di un successivo fallimento: l’attendibilità predittiva subirebbe un cospicuo pregiudizio. Per quanto riguarda i rapporti giuridici esauriti (e i diritti quesiti) il discorso è analogo. La loro incontestabilità fa sì che essi possano essere impiegati come base per previsioni giuridiche più attendibili, durevoli ed eventualmente accurate e che possano costituire stabile oggetto di previsione. 10) La conformità del diritto o delle decisioni giudiziali a determinati standards di giustizia o di correttezza. Come ho rilevato più volte, a sostenere l’importanza, a fini predittivi, dello studio sociolo-

UNA RIDEFINIZIONE DI “CERTEZZA DEL DIRITTO”

287

gico degli ideali di giustizia diffusi entro la comunità giuridica è perfino lo scienziato “puro” Kelsen 574 . L’idea di fondo è che vi sono delle ideologie, tra cui l’idea di giustizia ha peso determinante, che influiscono sugli individui nella loro attività di creazione e applicazione del diritto 575 : i giudici di solito decidono anche in base a ciò che essi ritengono essere “giusto”, dunque, qualora questi standards di giustizia trovino consacrazione nelle leggi-norme generali e nelle sentenze-norme individuali, e all’ulteriore condizione che vi sia una qualche omogeneità ideologica tra creatori, fruitori e applicatori del diritto, è presumibile che le previsioni giuridiche elaborate tenendo conto degli ideali di giustizia socialmente diffusi siano più “alla portata di tutti”, attendibili e accurate. La tesi della conformità del diritto all’ordinary moral reasoning come fattore di certezza è stata sostenuta recentemente da Waldron, e viene qui accolta con le stesse cautele con cui la prospetta l’autore: per prima cosa, tale tesi non include alcun assunto circa la validità oggettiva di un siffatto ragionamento morale, né la sua applicabilità al di fuori della comunità di riferimento; in secondo luogo, è possibile ritenere che questo ragionamento morale ordinario influenzi il diritto almeno quanto ne è influenzato a sua volta; in terzo luogo, la tesi in esame non viene proposta come una descrizione di ciò che il diritto è, ma si limita a suggerire un modo in cui il desideratum della certezza giuridica potrebbe perseguirsi 576 . Un problema ulteriore, naturalmente, è che, al di là di alcuni criteri “procedurali”, è assai difficile individuare nelle odierne società complesse e pluralistiche degli ideali di giustizia universalmente condivisi su cui costruire un modello di “ragionamento morale ordinario” che sia utile, in una prospettiva de jure condendo, come strumento per la produzione di un diritto (maggiormente) certo. Non è un caso che l’attenzione degli odierni filosofi si concentri, più che sui contenuti della giustizia, sulle procedure che consentono di determinare tali contenuti 577 .

574

Vedi supra, 2.2.l. Cfr. KELSEN, H., La dottrina pura del diritto e la giurisprudenza analitica, cit., p. 185. 576 Cfr. WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., pp. 91-92. 577 È d’obbligo citare almeno RAWLS, J., Una teoria della giustizia, cit. 575

288

LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

11) La certezza sulla certezza. Abbiamo visto come la consapevolezza diffusa circa il grado di certezza-prevedibilità sussistente in un dato ordinamento o settore normativo possa in alcuni casi essere utile alla pianificazione giuridicamente consapevole della condotta individuale 578 . Ciò non solo quando la certezza giuridica è presente in misura consistente, ma anche quando essa fa difetto: la conoscenza del basso grado di certezza del diritto spingerà i previsori a modificare di conseguenza le loro previsioni giuridiche, rendendole nel complesso più attendibili. Richiamo qui il già proposto esempio della conoscenza circa la tendenza di una nota fazione partitica all’adozione di politiche di risanamento economico fondate su provvedimenti una tantum (di nome, ma non di fatto) come condoni fiscali, sanatorie in materia edilizia, ecc. Provvedimenti di questo tipo fanno parte di quella legislazione retroattiva di cui ho parlato sopra, e come tali determinano un grave decremento della certezza sotto forma di fallimento delle previsioni avanzate prima della loro entrata in vigore. Tuttavia, nel momento in cui tali provvedimenti perdono il loro carattere di eccezionalità e vengono disposti con una regolarità in qualche misura prevedibile (magari sulla base della constatazione che tutte le volte che la tale forza politica è andata al governo essa ha disposto misure “eccezionali” di quel tipo), essi perdono almeno in parte la loro carica de-certificante. La certezza sull’incertezza giuridica opera in questi frangenti come una sorta di parziale antidoto alla situazione di grave imprevedibilità, nel senso che consente agli individui di avanzare previsioni un po’ più attendibili e accurate di quelle che avrebbero avanzato in una situazione in cui, oltre al difetto di certezza, vi fosse pure quello di qualsiasi meta-certezza. Quando tuttavia tale certezza sull’incertezza si trasforma in vera e propria sfiducia sulla certezza del diritto, gli effetti complessivi sulla misura della prevedibilità giuridica sono, come subito vedremo, disastrosi. I marginali effetti benefici della consapevolezza circa il basso grado di certezza giuridica vengono cioè travolti dall’enorme pregiudizio che la prevedibilità del diritto subisce in una situazione in cui è pubblicamente noto che il diritto è sostanzialmente incerto.

578

Vedi supra, 4.3.d.

UNA RIDEFINIZIONE DI “CERTEZZA DEL DIRITTO”

289

12) La diffusione di un ideologia favorevole alla certezza 579 . Si tratta della diffusione, tra i decisori e tra i previsori, di un’ideologia della certezza che induca gli uni a decidere in modo da salvaguardare le aspettative di certezza degli altri. Per “decisori” giuridici intendo qui non soltanto gli organi deputati all’applicazione delle norme generali e astratte ai casi concreti (organi giurisdizionali e amministrativi), ma anche gli organi competenti alle decisioni politiche che stanno alla base della produzione delle norme generali stesse. Indico col termine “legislatore” tale seconda categoria di decisori. Se tale lessico non fosse un po’ troppo vago, potremmo dire che l’ideologia favorevole alla certezza prescrive di produrre e di applicare le norme in modo da rendere possibile ai loro destinatari conoscere anticipatamente in via generale o particolare la valutazione giuridica dei comportamenti futuri. Tale ideologia occupa un posto di particolare riguardo nella presente rassegna, perché influisce in misura rilevante su entrambe le dimensioni della certezza che abbiamo individuato nei precedenti paragrafi. Così, l’ideologia della certezza diffusa tra i decisori giuridici produce effetti sia sulla diffusione della capacità predittiva tra il pubblico (i decisori cercano di decidere in modo conforme alle aspettative dei cittadini “comuni”), sia sull’attendibilità, accuratezza e lungimiranza su cui tale capacità si misura. Il legislatore animato dall’intenzione di incrementare il grado di certezza del diritto, opererà tenendo conto di fattori certificanti quali quelli che ho indicato sopra, producendo norme chiare, coerenti, non retroattive, durevoli, limitative della discrezionalità dei decisori di grado inferiore ecc. e promuovendo la loro conoscenza da parte del pubblico e la loro elevata effettività. I giudici, nel perseguire lo stesso fine, potranno attenersi con particolare rigore allo stare decisis, ulteriore elemento che limita quella discrezionalità decisionale che abbiamo visto così lesiva dell’accuratezza delle previsioni giuridiche, oppure, se vogliamo dar ragione a Waldron, potranno decidere in modo da salvaguardare la prevedibilità sociale delle decisioni stesse, piuttosto che la loro adesione a tecnicismi giuridici per lo più sconosciuti agli ordinary citizens 580 . Come si vede, la diffusione di un’ideologia fa579 Il discorso che segue costituisce lo sviluppo di un’osservazione di Mario Jori circa gli effetti che sulla certezza giuridica può avere il semplice parlare di certezza. 580 Cfr. WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., pp. 92-93.

290

LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

vorevole alla certezza è in realtà un meta-fattore di certezza, ossia un fattore che opera dando impulso all’intervento dei decisori giuridici sopra gli altri elementi che determinano una variazione diretta della misura della certezza. L’ideologia della certezza opera come (meta)fattore certificante anche a livello di coloro che, per esigenze di semplicità, abbiamo chiamato individui “ordinari”. È infatti presumibile che la diffusione tra il pubblico di un’ideologia favorevole alla certezza operi come elemento che induce all’osservanza spontanea del diritto, e dunque all’incremento di quell’altro fattore certificante che abbiamo visto essere l’effettività complessiva dell’ordinamento: la certezza della sanzione può costituire uno stimolo all’osservanza “spontanea” della prescrizione che la evita, o più semplicemente si può supporre che la diffusa valutazione positiva di una situazione di certezza del diritto induca gli individui ad osservare autonomamente le prescrizioni giuridiche. In un caso o nell’altro, le previsioni giuridiche tendono ad avere successo con più frequenza, ossia diventano più attendibili (ricordo che nel che cosa della certezza è opportuno includere sia le conseguenze giuridiche stabilite a seguito di provvedimenti decisori delle autorità investite di potestà coercitiva, sia quelle che vengono riconosciute spontaneamente dai consociati) 581 . Tutto il discorso che precede si riferisce alla diffusione di un’ideologia favorevole alla certezza giuridica. Possiamo però riferirlo, invertendo il segno delle nostre conclusioni, anche ad un’ideologia sfavorevole alla certezza, magari risultante dallo scetticismo e dalla disillusione che ho più volte denunciato nel corso di questa trattazione. La diffusione di un atteggiamento critico, scettico o anche semplicemente distratto in materia di certezza produce effetti deleteri sulla certezza stessa: il legislatore prende a disinteressarsi di qualsiasi esigenza di prevedibilità delle conseguenze giuridiche che le norme da esso prodotte ricollegano ai comportamenti individuali, la normazione diventa caotica, incoerente, oscura, contiene ampie deleghe alla discrezionalità degli organi applicativi di grado inferiore ed è nota solo ad una ristretta elite di esperti (ed anzi, in alcuni casi, neanche ad essi); i giudici e gli “applicatori” del diritto in genere decidono in modo indipendente rispetto a qualsiasi indirizzo giurisprudenziale o prassi amministrativa precedentemente stabiliti e danno così vita a nuovi orientamenti decisori, impedendo ogni loro consolidamento; tra i fruitori del diritto si diffon581

Vedi supra, § 4.3.i.

UNA RIDEFINIZIONE DI “CERTEZZA DEL DIRITTO”

291

de una situazione di disorientamento che va ben oltre la metaincertezza di cui ho discusso al punto 11: la sfiducia o il disfavore verso la certezza minano alla base sia l’osservanza del diritto indotta dal timore (previsione) della sanzione, sia l’osservanza motivata dalla convinzione diffusa circa la fondamentale moralità del comportamento conforme al diritto. Il decremento di quest’osservanza-effettività, per le ragioni viste sopra, è a sua volta causa di incertezza in un circolo vizioso che, come dice Bobbio, può realmente condurre alla disgregazione «del sussidio e del rimedio del diritto», fino a minacciare la stessa «coesistenza ordinata dell’uomo» 582 . Ecco perché (ri-)parlare di certezza con atteggiamento propositivo e politicamente favorevole è così importante, ed ecco i motivi dell’urgenza di un’operazione ridefinitoria che consenta di superare le difficoltà che hanno spinto molti giuristi teorici e pratici a confinare il concetto di certezza nel limbo dei desiderata irrealizzabili: lo scetticismo sulla certezza è davvero suscettibile di determinare incertezza; è un’idea che, se non contrastata, rischia sul serio di tradursi in realtà.

582

BOBBIO, N., La certezza del diritto è un mito?, cit., pp. 150-151.

Capitolo 5

Conclusione

5.1. Una proposta di ridefinizione Ho iniziato questo mio lavoro rilevando l’estrema vaghezza, genericità e potenziale ambiguità del concetto di certezza del diritto. Intendo concluderlo con la proposta di ridefinizione che ho argomentato in corso d’opera. Nelle usuali definizioni “concise” il concetto di certezza ha per lo più – e non può che avere – valenza polemica o ideologica, dunque non deve stupire la necessità di complicare alquanto la tradizionale definizione per trasformarla in utile strumento conoscitivo (nonché di valutazione avveduta). La ridefinizione finora proposta può essere così analiticamente illustrata: Elementi della definizione

Definizione

elemento disposizionale

Possibilità,

quanto si prevede (misura orizzontale)

diffusa

chi prevede

presso gli individui inclusi in una data classe,

quanto si prevede (misura verticale)

di prevedere accuratamente, attendibilmente e a lungo termine,

come si prevede

con qualsiasi mezzo a disposizione,

che cosa si prevede

la gamma delle conseguenze giuridiche effettivamente suscettibili di essere, in virtù del diritto o del settore del diritto considerato, spontaneamente o coattivamente ricondotte ad atti o fatti, reali o immaginari, passati o futuri,

294

LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

che cosa si prevede (tempi)

nonché l’ambito temporale in cui tali conseguenze giuridiche verranno in essere.

Come si vede, i punti in cui tale definizione di discosta da (molte di quelle) quelle correnti sono soprattutto i seguenti: 1) il riferimento ad una situazione fattuale caratterizzata dalla disposizione di alcuni individui alla previsione delle conseguenze giuridiche ricollegabili ad atti o fatti in forza di un dato ordinamento o suo settore, e non ad un qualche attributo o qualità di norme giuridiche; 2) il possibile riferimento alla capacità predittiva di individui diversi dai destinatari delle norme giuridiche (hartianamente) primarie; 3) il possibile riferimento ad un particolare settore del diritto, anziché all’ordinamento considerato nel suo insieme; 4) un riferimento alla misura della certezza (data dalla diffusione della capacità predittiva e dall’attendibilità, accuratezza e estensione nel tempo delle previsioni che essa consente), e non alla sua semplice sussistenza/insussistenza; 5) il riferimento ad una prevedibilità conseguibile tramite qualsiasi informazione, e non solo tramite la conoscenza delle disposizioni giuridiche; 6) un oggetto della previsione costituito da una gamma, più o meno ampia, di conseguenze giuridiche, e non (necessariamente) da una singola reazione/decisione/conseguenza giuridica; 7) un riferimento alla prevedibilità delle conseguenze giuridiche che saranno e non a quelle che devono essere; 8) un riferimento alla prevedibilità delle conseguenze giuridiche spontaneamente ricollegate dai consociati agli atti o fatti considerati dai previsori, e non solo a quelle coattivamente stabilite a seguito dell’intervento degli organi giuridici; 9) un riferimento alla prevedibilità delle conseguenze di atti o fatti non esclusivamente riconducibili alla condotta dei previsori bensì anche a quella di altri soggetti, oppure ad accadimenti naturali o al semplice decorso del tempo; 10) un riferimento alla prevedibilità delle conseguenze di atti o fatti non necessariamente accaduti, ma anche immaginari o mendacemente rappresentati (magari nell’ambito di una strategia difensiva); 11) un riferimento alla prevedibilità dei tempi in cui le conseguenze giuridiche attese avranno luogo.

CONCLUSIONE

295

Una ridefinizione siffatta consente a parer mio di chiarire che se decidiamo di parlare di “certezza giuridica” in termini di prevedibilità, dobbiamo essere consapevoli che tale espressione non designa direttamente delle qualità delle norme del diritto, ma piuttosto una situazione di fatto caratterizzata dalla disposizione di determinati individui alla più o meno accurata, attendibile, lungimirante, previsione circa le conseguenze giuridiche effettivamente ricollegabili agli atti o fatti che essi considerano. In quest’ottica, quando si dice che “il diritto è certo”, non si vuol significare che le sue norme presentano delle qualità tali da facilitare la predeterminazione ed il controllo delle valutazioni che gli organi giuridici di grado relativamente inferiore devono ricollegare ai comportamenti umani e/o ad accadimenti naturali, bensì che determinati previsori (ad esempio, i residenti in un certo stato) sono relativamente certi circa le conseguenze giuridiche che, in forza di quel diritto, verranno ricollegate dagli altri consociati o dagli organi giuridici agli atti o fatti considerati. “Certezza del diritto” non è allora sinonimo di “chiarezza” o “rigore” delle disposizioni nelle quali le norme sono consacrate, né di “mancanza di antinomie”, di “irretroattività”, di “stabilità della normazione” ecc., ma di (sia pure qualificata) prevedibilità (dei fatti) del diritto 583 . Le richiamate qualità delle norme assumono dunque soltanto il ruolo di circostanze, presupposti o mezzi che di fatto agevolano questa certezza, senza tuttavia essere immanenti o interne alla sua nozione. Per questo motivo, possono assimilarsi ad esse, sempre col ruolo di contingenze che consentono un incremento della misura della certezza, altri elementi che attengono alla dimensione fattuale del diritto: l’elevata effettività delle singole norme o normative (o la loro regolare e notoria ineffettività 584 ), la loro stabilità nel tempo, la sussistenza di regolarità decisionali de facto pubblicamente conoscibili, l’accessibilità, la disponibilità e la diffusione delle conoscenze rilevanti per la previsione delle conseguenze giuridiche e dei tempi in cui esse hanno luogo ecc. Tutti questi elementi possono essere considerati mezzi o al limite anche presupposti fattuali della certezza, in quanto la loro presenza consente, di regola, delle previsioni più accurate, attendibili e di lungo periodo, mentre la loro assenza può talvolta compromettere qualsiasi possibilità di previsione di successo. Essi, tutta583 Anna Pintore, in una comunicazione privata, ha suggerito che “certezza del diritto” è una metonimia: in realtà si tratta di “certezza (dei fatti) del diritto”. 584 Vedi supra, § 4.4.e.

296

LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

via, sono esterni alla concezione della certezza intesa come prevedibilità, che in sé comprende soltanto un riferimento ad una più o meno diffusa, attendibile, accurata, lungimirante, disposizione alla previsione. In tale accezione, insomma, l’espressione “certezza del diritto” allude in realtà ad una “certezza degli individui sul diritto”, con particolare riferimento alla prevedibilità delle conseguenze giuridiche concretamente ricollegate ad atti o fatti. Sempre esterno alla concezione della certezza che ho tratteggiato in questo lavoro è poi il riferimento agli scopi per cui si prevede o agli interessi che muovono gli individui alla previsione. Se è vero che la tradizione ricollega questi scopi prevalentemente alla miglior pianificazione delle proprie scelte di vita, bisogna anche ammettere che possiamo esser mossi alla previsione da stimoli o interessi diversi, ad esempio quello della speculazione scientifica, da intenti didattici o perfino dalla semplice curiosità. La definizione qui proposta ha l’ambizione di fornire dunque una risposta ai quesiti sul chi prevede, che cosa si prevede, come si prevede e quanto si prevede, ma lascia impregiudicata la questione del perché si preveda, o meglio, ammette a questo proposito qualsiasi possibile movente. Sebbene la mia proposta di ridefinizione non includa alcun riferimento necessario agli obiettivi della previsione, è tuttavia innegabile che la stessa scelta definitoria che induce a parlare di certezza in termini di prevedibilità, ancor più che da ragioni di ricognizione degli usi linguistici correnti, sia determinata dal proposito di ricollocare la certezza in una posizione servente rispetto al perseguimento di beni ulteriori, tra i quali il più noto e apprezzato è senz’altro quello della pianificabilità giuridicamente consapevole delle scelte pratiche individuali. Il semplice parlare di certezza come prevedibilità, come abbiamo visto, implica infatti la necessità di riferire l’oggetto della previsione, il che cosa della certezza, al piano del Sein, e dunque, indirettamente, alle conseguenze personali e patrimoniali, favorevoli o sfavorevoli, «subite dai consociati per i propri comportamenti o per le condizioni e per gli status in cui si trovano» 585 . La (elevata) certezza, in quest’ottica, è considerata come un valore positivo soprattutto perché gli individui, per il suo tramite, sono posti nelle condizioni di adottare in modo più accorto, informato e consapevole quella «serie di decisioni, più o meno importanti, che nel corso del tempo contribuiscono a dare 585 Cfr. LUZZATI, C., L’interprete e il legislatore, cit., p. 261. Vedi anche supra, § 4.3.b.

CONCLUSIONE

297

una forma complessiva alla loro vita» 586 . Cade dunque a mio parere, di fronte a questa esigenza di pianificazione strategica, qualsiasi preclusione dogmatica relativa all’impiego a fini predittivi di conoscenze fattuali: queste, come detto, ove sovrapposte alle conoscenze sul diritto “valido” in senso giuspositivista, non possono che consentire previsioni più attendibili e accurate 587 . Credo che le conclusioni più rilevanti di questa mia ricerca, tuttavia, siano quelle relative alla scoperta delle implicazioni che una definizione di certezza data in termini di pura e semplice prevedibilità comporta. L’adozione di una concezione di certezza correlata esclusivamente alla pianificazione strategica delle scelte pratiche individuali, e dunque al perseguimento degli obiettivi personali dei previsori, implica il sacrificio di molti luoghi comuni sulla certezza del diritto: le affermazioni secondo cui questa richiede necessariamente dei tempi della giustizia brevi, la celerità dei procedimenti amministrativi, l’effettività delle singole norme giuridiche, come abbiamo visto, diventano difficilmente sostenibili se per “certezza” si intende, semplicemente, la relativa prevedibilità delle conseguenze giuridiche ricollegabili ad atti o fatti. Questa prevedibilità, in linea di principio, non è esclusa dalla lunga durata dei processi/procedimenti e dalla disapplicazione di singole norme, a patto che l’una e l’altra siano conoscibili in anticipo (magari grazie all’osservazione delle regolarità relative al funzionamento effettivo degli organi giuridici). Ma soprattutto, una definizione come quella poc’anzi proposta smonta l’assunto consolidato, sostenuto con particolare vigore da Aarnio, Lopez de Oñate e Massimo Corsale, di un qualche apparentamento tra certezza del diritto ed esigenze di giustizia sostanziale. Se si definisce la certezza in termini di prevedibilità, come pure i tre autori fanno, bisogna riconoscere che può essere certo anche il diritto ingiusto, a patto che gli individui siano in grado di prevedere con qualche successo e accuratezza le (eventualmente inique, dal loro punto di vista) conseguenze giuridiche di atti o fatti. Può essere vero che le decisioni giuridiche risultino più facilmente prevedibili quando sono conformi alla morale positiva, a ciò che ordinariamente è sentito giusto ecc., e può dunque condividersi l’affermazione per cui la “giustezza” del diritto o delle sue applicazioni ai casi concreti è strumentale alla cer586 WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., p. 85, traduzione mia (con qualche minima variazione). 587 Vedi supra, §§ 4.4.b-d.

298

LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

tezza (che a sua volta è strumentale alla miglior pianificabilità delle scelte pratiche individuali) 588 . Tuttavia, a mio parere, ciò non deve spingerci a confondere, assimilare o sovrapporre le due nozioni, e meno che mai ad affermare che la giustizia sostanziale sia condizione necessaria e sufficiente di certezza. Un diritto (considerato) ingiusto ben può essere prevedibile nelle sue applicazioni concrete, in particolare (ma non solo, come abbiamo visto) quando gli organi giuridici operino con rigore ed efficienza. Quando il diritto è iniquo, la certezza del diritto è pertanto certezza di iniquità. Se proprio si vuole attribuire un contenuto assiologico alla nozione di certezza, esso deve essere ricercato appunto nella sua correlazione rispetto alla miglior pianificabilità delle scelte pratiche individuali, o comunque rispetto ad altri obiettivi personali (scientifici, professionali ecc.). Solo in questo senso, la certezza può essere considerata un valore 589 . E se v’e qualcosa di cui si può esser certi, è che non si tratta di un valore da poco.

588

92. 589

Cfr. WALDRON, J., The Rule of Law in Contemporary Liberal Theory, cit., p.

Né peraltro è scontato, come abbiamo visto, che tale valore sia sempre positivo: l’autocrate potrebbe valutare questa situazione negativamente, magari perché egli ha interesse a diffondere un clima di terrore e incertezza tra i sudditi in modo da meglio conservare il potere (Stalin docet); lo studioso di etica potrebbe domandarsi se sia preferibile un diritto iniquo ma certo, in cui i cittadini prevedono con anticipo le nefandezze di chi detiene il potere, oppure quello iniquo e incerto, in cui i cittadini, se non altro, vivono in una situazione di “beata ignoranza”, in cui non è dato prevedere dove, come, nei confronti di chi e perché opererà lo spietato apparato coercitivo del sovrano (ogni nove anni, Minosse re di Creta sceglie tra gli ateniesi quattordici fanciulli da condurre a morte certa per mano del Minotauro: è meglio che i cittadini siano a conoscenza del macabro tributo o è preferibile che essi credano alla versione ufficiale, che avalla l’ipotesi di sparizioni accidentali, fortuite degli sventurati giovani?) Per la prima soluzione propendono, come già visto, Rawls e Lopez de Oñate (cfr. RAWLS, J., Una teoria della giustizia, cit., p. 65; LOPEZ DE OÑATE, La certezza del diritto, cit., p. 147).

Appendice 1

Schema generale di previsione alternativa

Indichiamo con a1, a2, a3, …, i risultati dell’accertamento su un fatto f attesi alla luce delle prove disponibili e della presumibile interpretazione delle norme che regolano la fase istruttoria; con q1, q2, q3, …, le prevedibili – alla luce delle informazioni disponibili dal previsore – qualificazioni giuridiche del fatto così come ricostruito dagli organi giuridici; con d1, d2, d3, …, le decisioni che l’organo giuridico, prevedibilmente – sempre alla luce delle informazioni disponibili dal previsore – adotterà sul caso dopo aver accertato e qualificato i fatti della vicenda. Stabiliamo altresì che a(f) indichi il risultato dell’accertamento su f, che q[a(f)] indichi la qualificazione di f, così come accertato nel corso del procedimento, e che d{q[a(f)]} indichi la decisione su f, così come accertato e qualificato nel corso del procedimento. Stabiliamo infine che una lettera dell’alfabeto greco collocata in pedice ad a, q, d, indichi il numero totale delle alternative di accertamento, qualificazione e decisione prevedibili in quella fase del procedimento. I puntini, in questo schema, rappresentano una serie aperta di altre alternative di ricostruzione, qualificazione o decisione. La struttura della previsione delle conseguenze giuridiche di f può allora essere rappresentata con la tabella raffigurata nelle pagine seguenti:

300

LA CERTEZZA GIURIDICA COME PREVEDIBILITÀ

Fatto di cui si intendono prevedere le conseguenze

Ricostruzioni del fatto attese alla luce delle prove e delle norme che regolano l’istruttoria

Prevedibili qualificazioni del fatto, così come ricostruito dagli organi giuridici

Prevedibili decisioni giudiziali sopra il fatto, così come qualificato dagli organi giuridici d1{q1[a1(f)]}

q1[a1(f)]

d2{q1[a1(f)]} … dε{q1[a1(f)]} d1{q2[a1(f)]}

a1(f)

q2[a1(f)]

d2{q2[a1(f)]} … dφ{q2[a1(f)]}



… d1{qβ[a1(f)]}

qβ[a1(f)]

f

d2{qβ[a1(f)]} … dγ{qβ[a1(f)]} d1{q1[a2(f)]}

q1[a2(f)]

d2{q1[a2(f)]} … dη{q1[a2(f)]} d1{q2[a2(f)]}

a2(f)

q2[a2(f)]

d2{q2[a2(f)]} … dι{q2[a2(f)]}



… d1{qχ[a2(f)]}

qχ[a2(f)]

d2{qχ[a2(f)]} … dλ{qχ[a2(f)]}

APPENDICE 1: SCHEMA GENERALE DI PREVISIONE ALTERNATIVA





301

… d1{q1[aα (f)]}

q1[aα (f)]

d2{q1[aα (f)]} … dμ{q1[aα (f)]} d1{q2[aα (f)]}

aα(f)

q2[aα (f)]

d2{q2[aα (f)]} … dν{q2[aα (f)]}



… d1{qδ[aα (f)]}

qδ[aα (f)]

d2{qδ[aα (f)]} … dο{qδ[aα (f)]}

Tabella 3: schema raffigurante la formazione di una previsione circa le conseguenze giuridiche di un fatto f

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